Sistemi di logica deduttiva e induttiva
 8802041512, 9788802041513

Table of contents :
Frontespizio
Colophon
Indice del volume
Introduzione
Nota biografica
Nota bibliografica
Prefazione alla prima edizione
Prefazione alla terza e alla quarta edizione
Prefazione all’ottava edizione
Introduzione
Libro primo - Nomi e proposizioni
I. Della necessità di cominciare con un’analisi del linguaggio
II. I nomi
III. Le cose denotate dai nomi
IV. Proposizioni
V. Il significato delle proposizioni
VI. Proposizioni puramente verbali
VII. La natura della classificazione e i cinque predicabili
VIII. La definizione
Libro secondo - Il Ragionamento
I. L’inferenza, o ragionamento, in generale
II. Il ragionamento deduttivo, o sillogismo
III. La funzione e il valore logico del sillogismo
IV. Concatenazione di ragionamenti e scienze deduttive
V. Dimostrazioni e verità necessarie
VI. Ancora sul medesimo argomento
VII. Esame di alcune opinioni opposte alle dottrine precedenti
Libro terzo - L’induzione
I. Osservazioni preliminari sull’induzione in generale
II. Delle induzioni impropriamente dette
III. Il fondamento dell’induzione
IV. Le leggi di natura
V. La legge di causazione universale
VI. La composizione delle cause
VII. Osservazione ed esperimento
VIII. I quattro metodi della ricerca sperimentale
IX. Miscellanea di esempi dei quattro metodi
X. La pluralità delle cause e la mescolanza degli effetti
XI. Il metodo deduttivo
XII. La spiegazione delle leggi di natura
XIII. Esempi misti di spiegazioni delle leggi di natura
XIV. I limiti della spiegazione delle leggi di natura. Le ipotesi
XV. Gli effetti progressivi. L’azione continuata delle cause
XVI. Le leggi empiriche
XVII. Il caso e la sua eliminazione
XVIII. Il calcolo delle probabilità
XIX. L’estensione delle leggi derivate ai casi contigui
XX. L’analogia
XXI. Prove in favore della legge di causazione universale
XXII. Uniformità di coesistenza che non dipendono dalla causazione
XXIII. Generalizzazioni approssimate e prove probabili
XXIV. Le rimanenti leggi di natura
XXV. Le ragioni della non-credenza
Libro quarto - Le operazioni sussidiarie All’Induzione
I. Osservazione e descrizione
II. L’astrazione, o formazione dei concetti
III. Il denominare come sussidiario dell’induzione
IV. I requisiti di un linguaggio filosofico e i princìpi della definizione
V. Storia naturale delle variazioni nel significato dei termini
VI. Riconsiderazione dei principi di una lingua filosofica
VII. La classificazione, come sussidiario dell’induzione
VIII. La classificazione in serie
Libro quinto - Le fallacie
I. Le fallacie in generale
II. Classificazione delle fallacie
III. Fallacie a prima vista, o a priori
IV. Fallacie d’osservazione
V. Fallacie di generalizzazione
VI. Le fallacie del ragionamento deduttivo
VII. Fallacie di confusione
Libro Sesto - La logica delle scienze morali
I. Osservazioni introduttive
II. Libertà e necessità
III. C’è, o può esserci, una scienza della natura umana
IV. Le leggi della mente
V. L’etologia, o scienza della formazione del carattere
VI. Considerazioni generali sulla scienza sociale
VII. Il metodo chimico o sperimentale nelle scienze sociali
VIII. Il metodo geometrico, o astratto
IX. Il metodo fisico, o deduttivo concreto
X. Il metodo deduttivo inverso, o metodo storico
XI. Altre delucidazioni sulla scienza della storia
XII. La logica della pratica o arte, comprese l’etica e la politica
Indice dei nomi
Indice delle tavole

Citation preview

CLASSICI DELLA FILOSOFIA COLLEZIONE FONDATA DA NICOLA ABBAGNANO DIRETTA DA TULLIO GREGORY

John Stuart Mill

SISTEMA DI LOGICA DEDUTTIVA E INDUTTIVA A cura di

MARIO TRINCHERO Introduzione di

FRANCO RESTAINO

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013 UTET www.utetlibri.it www.deagostini.it ISBN: 978-88-418-9412-5 Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 1988 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello, 28 - 10125 Torino Tui i dirii sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodoa, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, eleronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scria dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di caraere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effeuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i dirii d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodoo.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione

Nota biografica Nota bibliografica Prefazione alla prima edizione Prefazione alla terza e alla quarta edizione Prefazione all’ottava edizione Introduzione

LIBRO PRIMO NOMI E PROPOSIZIONI I.

Della necessità di cominciare con un’analisi del linguaggio

II.

I nomi

III. Le cose denotate dai nomi IV. Proposizioni V.

Il significato delle proposizioni

VI. Proposizioni puramente verbali VII. La natura della classificazione e i cinque predicabili VIII. La definizione LIBRO SECONDO IL RAGIONAMENTO I.

L’inferenza, o ragionamento, in generale

II. Il ragionamento deduivo, o sillogismo

III. La funzione e il valore logico del sillogismo IV. Concatenazione di ragionamenti e scienze deduive V. Dimostrazioni e verità necessarie VI. Ancora sul medesimo argomento VII. Esame di alcune opinioni opposte alle dorine precedenti LIBRO TERZO L’INDUZIONE I.

Osservazioni preliminari sull’induzione in generale

II.

Delle induzioni impropriamente dee

III.

Il fondamento dell’induzione

IV.

Le leggi di natura

V.

La legge di causazione universale

VI.

La composizione delle cause

VII.

Osservazione ed esperimento

VIII. I quaro metodi della ricerca sperimentale IX.

Miscellanea di esempi dei quaro metodi

X.

La pluralità delle cause e la mescolanza degli effei

XI.

Il metodo deduivo

XII.

La spiegazione delle leggi di natura

XIII. Esempi misti di spiegazioni delle leggi di natura XIV. I limiti della spiegazione delle leggi di natura. Le ipotesi XV.

Gli effei progressivi. L’azione continuata delle cause

XVI. Le leggi empirie XVII. Il caso e la sua eliminazione

XVIII. Il calcolo delle probabilità XIX. L’estensione delle leggi derivate ai casi contigui XX.

L’analogia

XXI. Prove in favore della legge di causazione universale XXII. Uniformità di coesistenza e non dipendono dalla causazione XXIII. Generalizzazioni approssimate e prove probabili XXIV. Le rimanenti leggi di natura XXV. Le ragioni della non-credenza LIBRO QUARTO LE OPERAZIONI SUSSIDIARIE ALL’INDUZIONE I.

Osservazione e descrizione

II.

L’astrazione, o formazione dei concei

III. Il denominare come sussidiario dell’induzione IV. I requisiti di un linguaggio filosofico e i principi della definizione V.

Storia naturale delle variazioni nel significato dei termini

VI. Riconsiderazione dei principi di una lingua filosofica VII. La classificazione, come sussidiario dell’induzione VIII. La classificazione in serie LIBRO QUINTO LE FALLACIE I.

Le fallacie in generale

II. Classificazione delle fallacie III. Fallacie a prima vista, o a priori

IV. Fallacie d’osservazione V. Fallacie di generalizzazione VI. Le fallacie del ragionamento deduivo VII. Fallacie di confusione LIBRO SESTO LA LOGICA DELLE SCIENZE MORALI I.

Osservazioni introduive

II.

Libertà e necessità

III. C’è, o può esserci, una scienza della natura umana IV. Le leggi della mente V.

L’etologia, o scienza della formazione del caraere

VI. Considerazioni generali sulla scienza sociale VII. Il metodo imico o sperimentale nelle scienze sociali VIII. Il metodo geometrico, o astrao IX. Il metodo fisico, o deduivo concreto X.

Il metodo deduivo inverso, o metodo storico

XI. Altre delucidazioni sulla scienza della storia XII. La logica della pratica o arte, comprese l’etica e la politica Indice dei nomi Indice delle tavole

INTRODUZIONE

L’opera di J. S. Mill e presentiamo è senz’altro la più complessa e importante della sua lunghissima aività pubblicistica. È ane l’opera per la quale l’impegno di elaborazione e composizione — quindici anni circa — superò abbondantemente quello per qualsiasi altro suo scrio. Ancora: è l’opera e presentò all’aento pubblico di leori inglesi un nuovo volto del suo autore: non più politico ma filosofico. Infine, è l’opera e nel secolo scorso ha rilanciato con grande efficacia nella cultura filosofica non solo di lingua inglese (Gran Bretagna e Stati Uniti d’America) la tradizione empiristica, in una forma rinnovata e tenendo conto degli sviluppi più recenti di altre tradizioni filosofie. Di tue queste caraeristie — e ane di altre — del Sistema di Logica era lucidamente consapevole l’autore, e ci ha lasciato numerose testimonianze in merito sia nel ricco epistolario sia in altri scrii, soprauo l’Autobiografia. Egli ha considerato sempre quest’opera, sia mentre la componeva sia nei tre decenni successivi alla pubblicazione, come il suo scrio più importante e decisivo nel quadro del dibaito filosofico del paese. Più importante peré contiene, presentato in maniera organica, il suo complessivo pensiero filosofico. Più decisivo peré destinato a frenare, arginare, l’avanzata delle correnti filosofie d’impronta ‘retrograda’. Il Sistema di Logica, infai, nonostante il titolo e può far pensare ad un manuale di caraere tecnico, è un’opera filosofica complessa e, negli intenti dell’autore, direa a contrastare le filosofie retrograde offrendo una alternativa a queste fondata su un rinnovamento generale della tradizione empiristica. L’opera risponde a un disegno preciso, maturato specialmente negli ultimi anni della sua composizione. È un disegno, diremmo oggi, di strategia politico-culturale, fruo a sua volta del fallimento di un altro disegno, quest’ultimo di strategia politica tout court. Progeato in termini molto modesti nel 1828 per rinnovare la manualistica di logica, interroo nel 1831 dopo aver traato i nomi, le proposizioni e il ragionamento (materia degli auali primo e secondo libro); ripreso nel 1837 per la elaborazione della tematica dell’induzione, centralissima nel pensiero logico-metodologico e filosofico dell’autore, e di tematie meno importanti quali la classificazione e le fallacie (auali libri terzo, quarto e quinto) e nuovamente interroo alla fine del 1838; ripreso alla metà del 1840 per la decisiva traazione della materia del sesto libro (problemi relativi a delicate questioni etico-sociali e alla metodologia delle

‘scienze morali’), pressoé completato alla fine del 1840; il Sistema di Logica, dopo un ultimo rimaneggiamento del sesto libro alla fine del 1842, appariva ai primi di marzo del 1843, andando subito incontro ad un successo molto superiore alle aspeative dell’autore. Nell’arco di questi quindici anni, e segnano il periodo più ricco e impegnativo dell’aività politica di Mill, la composizione del Sistema di Logica non occupa il primo piano dell’interesse dell’autore se non negli ultimi tre anni, a cominciare dal 1840. È da quest’anno, infai, e l’opera acquista per l’autore una importanza e una ‘destinazione’ politie. Con il Sistema di Logica, infai, Mill sostituisce, nei suoi intenti rinnovatori, una strategia a tempi lunghi (di politica culturale) ad una strategia a tempi brevi (di politica tout court). Con il Sistema di Logica Mill sposta il suo asse di interessi preminenti, e in maniera definitiva, dalla sfera della politica a quella della cultura; dall’azione politica in senso streo al dibaito delle idee e mira a obieivi più profondi e di realizzazione più lontana. Tale spostamento, lo si accennava prima, avviene dopo una presa d’ao amaramente realistica: quella della sconfia di un programma di azione politica dai contorni ben definiti e dai tempi di auazione molto brevi. Era un programma e Mill, appena trentenne, aveva cominciato a elaborare subito dopo la morte del padre, nella seconda metà del 1836. Non entreremo qui in deagli, giacé ciò comporterebbe una presentazione della complessa situazione politica della Gran Bretagna negli anni Trenta così rici di avvenimenti politici. Il padre del nostro autore, James Mill, aveva educato il figlio, precocissimamente, e l’aveva avviato all’aività politica riservandogli il seore dell’impegno pubblicistico, nell’ambito, ovviamente, del radicalismo di orientamento benthamiano. Di tale radicalismo James Mill era in quale modo l’ideologo pubblicamente riconosciuto. Allevato e cresciuto come una macina raziocinante, il giovane Mill aveva corrisposto alle aese del padre e fin dall’età di sedici anni aveva cominciato a scrivere e pubblicare per le riviste radical-benthamiane, cioè per il seore politico più avanzato negli anni Venti e Trenta. In seguito ad una forte crisi araversata all’età di vent’anni, però, il giovane si rende conto della estrema ristreezza della filosofia benthamiana, e pone alla base della natura umana la ragione, l’utilità, il calcolo dei piaceri e dei dolori. Si avvicina alle correnti di pensiero anti-illuministie e antibenthamiane (Coleridge, Wordsworth, i

giovani Sterling e Maurice) e gli fanno percepire l’importanza della sfera dei sentimenti, della poesia. Per alcuni anni smee di pubblicare. Riprende nei primi anni Trenta, ma non si sente pienamente libero di esprimere le sue nuove idee pubblicamente. La rivoluzione di Luglio in Francia, le loe per la riforma in Gran Bretagna, e portano al primo Reform Bill del 1832 e ai primi governi riformisti (Whigs sostenuti dai radicali), ridanno al giovane Mill l’entusiasmo politico perduto durante gli anni della crisi personale. Egli comprende lucidamente e non è più possibile riproporre il vecio programma radical-benthamiano nella nuova situazione politica creatasi con il venir meno della spinta riformista soprauo nell’ambito del partito Whig. La presenza del padre, però, impedisce a Mill di esporre pubblicamente le sue nuove proposte politie, e vanno di pari passo con una revisione critica delle dorine fondamentali del benthamismo, delle quali il padre era il più efficace e assiduo difensore e promotore. La morte del padre consente al nostro di offrire pubblicamente i risultati delle sue meditazioni critie su Bentham e soprauo di presentare con grande vigore persuasivo le proposte politie diree a ridar vita al radicalismo: un radicalismo però non più seario ma aperto. È appunto questo il programma politico per il quale Mill si bae tra la fine del 1836 e il 1840: un nuovo radicalismo e non stia al rimorio del vecio partito Whig ormai allontanatosi dalla via autenticamente riformista ma e costituisca la base, il fulcro, di nuove e più vaste alleanze e prepari in tempi brevi e con un leader riconosciuto (Mill lo indicava in Lord Durham) una vera alternativa riformista. Mill porta avanti la sua baaglia politica con la rivista da lui direa, «e London and Westminster Review», e in questi anni estende sia il nucleo dei suoi collaboratori sia il suo pubblico di leori, ane se in quale caso porta lo sconcerto tra alcuni irriducibili benthamiani. Mill pubblica numerosi articoli, fra i quali spicca, per la iarezza e organicità con cui viene presentato il suo disegno politico, il lungo scrio Reorganization of the Reform Party del 1839. Accanto agli articoli più direamente politici spiccano quelli di riflessione critica, filosofica, e affrontano temi e nomi nuovi per il pubblico di leori abituati alle ristree vedute radical-benthamiane: Carlyle, Tocqueville, Coleridge, o e affrontano direamente l’esame critico delle dorine di Bentham. Tra questi articoli emergono quelli su Bentham del 1838 e su Coleridge del 1840. In questi tre-quaro anni Mill si muove come un uomo di partito, in alcuni momenti come ispiratore ideale di un partito da costruire, e sempre

come l’elaboratore ed espositore di un preciso e articolato programma politico. Abbiamo già deo e il disegno complessivo del nostro va incontro ad una iara sconfia. Non nasce il nuovo sieramento riformista, non si afferma il nuovo leader del fronte neoradicale, non si arresta il declino delle forze riformiste. Il 1840 è l’anno in cui Mill prende ao di tuo questo. Vende la rivista, cessa di partecipare alla politica aiva, pensa ormai ai tempi lunghi. Scontata la vioria politica dei conservatori (va al governo Sir R. Peel), egli ritiene e l’impegno riformista, progressista, possa essere continuato su un campo diverso: quello e mira ad una modifica profonda dei modi di pensare dei diversi ceti sociali. Ma per questo fine, e non tocca la sfera dell’azione politica direa, sono necessari altri mezzi rispeo a quelli degli anni precedenti. Ed è qui, appunto, e si colloca una diversa valutazione, presso lo stesso Mill, dei fini e della destinazione del suo Sistema di Logica. L’opera, e nelle parti logico-metodologie di caraere più tradizionale era allora pressoé conclusa (ma con forti innovazioni teorie, come vedremo), viene ripresa in mano per la traazione relativa alle tematie etico-sociali e andranno a costituire, tra il 1840 e il 1842, il sesto libro. In quest’ultima fase di elaborazione e composizione Mill ha ane occasione di entrare in corrispondenza epistolare con A. Comte, e proprio allora concludeva il suo monumentale Cours de Philosophie Positive, il cui ultimo volume (sesto) veniva pubblicato nel 1842. La leura degli ultimi volumi dell’opera di Comte, la corrispondenza epistolare con lo stesso Comte, risultano decisive non solo per la stesura del sesto libro del Sistema di Logica, ma ane per la ‘cornice’ politico-culturale entro la quale Mill inserisce la sua opera. Fino ad allora (1840) i suoi approfondimenti filosofici più generali erano stati quelli consegnati, nel periodo del più intenso impegno politico e in riferimento a questo, nei due saggi su Bentham (1838) e su Coleridge (1840). Mill considerava i due pensatori come i più grandi teorici dell’età moderna in Inghilterra, «i maestri dei maestri», «le due grandi menti seminali» del loro tempo. Entrambi erano fortemente critici della società in cui vivevano: Bentham peré la raffrontava a valori nuovi, razionali, e intendeva realizzare riformando radicalmente la società; Coleridge peré vi vedeva trascurati o dimenticati i valori più autentici della tradizione, e intendeva restaurare araverso una riforma ugualmente profonda della società in cui viveva. Entrambi accentuavano unilateralmente un solo aspeo (Bentham i valori nuovi da

imporre, Coleridge i valori veci da restaurare); ma volevano entrambi la stessa cosa, una società più giusta. Per Mill non sono, in realtà, due avversari, ma anzi, se si guarda alla sostanza più profonda delle loro posizioni, due alleati: «poli opposti di un’unica grande forza di progresso». Con una fraseologia sansimoniana, faa propria da Comte già nel suo traato giovanile, e Mill aveva conosciuto una decina d’anni prima, i due pensatori venivano considerati in quegli articoli come esponenti rispeivamente di un aeggiamento critico-sovversivo e di un aeggiamento organico-costruivo. Mill riteneva necessario conciliare i due aeggiamenti e, nel quadro della strategia politico-programmatica di quegli anni, liberare il radicalismo dal searismo benthamiano e arricirlo con gli apporti del pensiero organico-costruivo di Coleridge. Come avrebbe deo in più occasioni, si traava di eliminare le punte estreme delle due posizioni e ricercare la conciliazione sul piano degli axiomata media, vale a dire degli obieivi concreti e potevano risultare comuni in quanto deati da esigenze di riforma della società. Più in là, il discorso, non era andato, in quanto era in quale modo strumentale rispeo al disegno politico del neoradicalismo. Fallito quel disegno, ripreso in mano il Sistema di Logica, Mill trova negli ultimi tre volumi del Cours di Comte (pubblicati dal 1839 al 1842 e comprendenti la fisica sociale o la ‘sociologia’, termine coniato, come si sa, nel quarto volume) e nella corrispondenza direa con l’autore quello e cercava: una iara collocazione della sua opera in una cornice di storia del pensiero filosofico dalla quale risultasse il caraere non neutrale, ma apertamente progressista dell’opera stessa. Mill prova grande entusiasmo nel riscontrare le streissime affinità tra il suo Sistema e il Cours di Comte. La documentazione di tale entusiasmo, e delle sue motivazioni, è abbondante e riguarda il periodo e va fino a tre mesi dopo la pubblicazione del Sistema di Logica. ali sono le ragioni di tanto entusiasmo? Mill considera il suo Sistema come l’equivalente inglese del Cours. Ciò significa e le due opere hanno lo scopo comune, nella terminologia comtiana faa propria in questo periodo da Mill, di preparare l’avvento dello spirito positivo o scientifico e di contrastare o sconfiggere le persistenti forme di spirito teologico e metafisico nelle filosofie dei rispeivi paesi. Mill, nella corrispondenza con Comte (il quale, non dimentiiamolo, allora era pressoé completamente sconosciuto

in Francia, dove la sua opera era caduta nel più assoluto silenzio, mentre in Inghilterra si erano lei e discussi ane i primi volumi del Cours a metà degli anni Trenta), si rammarica di non aver conosciuto prima, nella sua interezza, il Cours; se ciò fosse successo, infai, scrive nella leera del 13 luglio 1842, «avrei forse tradoo quest’opera invece di farne una nuova; o se l’avessi faa, verosimilmente avrei dato all’esposizione delle mie idee, ane senza una precisa intenzione al riguardo, una cadenza un po’ diversa, e, in alcune parti, meno metafisica nelle forme». Mill insiste in diverse leere, quasi scusandosi, sulla presenza di ‘espressioni di origine metafisica’ nel suo Sistema, motivandola con la tesi e la situazione culturale inglese è molto più arretrata di quella francese e suggerisce, anzi impone, se si vuol essere lei, una maggiore prudenza, soprauo nelle forme. anto alle correnti di filosofia teologica e metafisica in Inghilterra, Mill le indica rispeivamente nella tradizione ontologico-intuizionistica (proprio allora rilanciata in forme rinnovate da W. Whewell, autore e Mill peraltro utilizzò, e da W. Hamilton in Scozia) e nella tradizione illuministico-benthamiana, dalla quale ritiene di essersi completamente liberato. Egli si augura e il suo Sistema dia un forte colpo, forse mortale, alla tradizione ontologica, giacé «questa scuola è la sola essenzialmente teologica, e poié le sue dorine si presentano oggigiorno presso di noi come il sostegno nazionale del vecio ordine sociale e delle idee non solo cristiane, ma ane anglicane». ale giorno dopo la pubblicazione del Sistema, in una leera a Comte del 13 marzo del 1843, Mill ritiene e il suo libro possa costituire «una diga per arrestare il processo pericoloso della filosofia tedesca», la quale ha sì svolto una utile funzione (ha favorito una tendenza alle generalizzazioni scientifie e alla sistematizzazione delle conoscenze umane), ma «parlando socialmente è oggi presso di noi pienamente retrograda». Essa ha goduto e gode di una rendita di posizione, «dopo l’irrevocabile caduta della metafisica negativa», cioè delle correnti illuministie e del benthamismo; essa pretende di essere superiore alle filosofie precedenti, e «fino ad ora nessuno è venuto a piantarsi di fronte a questo nemico, soddisfacendo convenientemente le stesse condizioni. D’ora in avanti si potrà scegliere; non si sarà più geati verso il campo tedesco per l’impossibilità di trovare altrove un sistema filosofico neamente formulato. Ane presso di noi il positivismo ha spiegato la sua bandiera».

Un sistema filosofico ben formulato, quindi, e rappresenta per l’Inghilterra la bandiera del positivismo. esto è, per Mill, al momento della sua pubblicazione, il Sistema di Logica. L’entusiasmo per la filosofia di Comte, però, dura poco. Già dal giugno del 1843 Mill si rende conto di essere andato troppo in là nell’assimilazione della sua filosofia a quella di Comte. I contrasti emergono con forza e asprezza crescenti nei mesi e negli anni successivi. I riconoscimenti nei confronti di Comte si diradano nelle diverse edizioni dell’opera, fino a e, nel 1865, Mill pubblierà i due importanti saggi su A. Comte and Positivism, nei quali la presa di distanza non solo dall’ultimo Comte ma dal pensiero complessivo del fondatore del positivismo è motivata in maniera approfondita e con argomentazioni e ancora oggi mantengono spesso la loro validità. In realtà, il grosso del Sistema di Logica, quella parte nella quale vengono esposte le principali innovazioni apportate da Mill alla tradizione della filosofia dell’esperienza, era stato già composto prima e insorgesse in Mill, nel periodo di amarezza successivo al fallimento del suo progeo politico, l’entusiasmo per la filosofia sociologica di Comte. E d’altra parte, se si va a vedere il contenuto del sesto libro dell’opera, si potrà riscontrare come i debiti nei confronti di Comte siano tuo sommato riferibili alla terminologia e ad alcuni suggerimenti metodologici relativi alle diverse forme di ricerca socio-logica. Sul piano più streamente teorico, ane la materia del sesto libro è streamente legata ai risultati delle elaborazioni teorie dei libri precedenti, in particolare del terzo libro, sull’induzione. Lo stesso Mill si renderà conto, rapidamente, della limitatissima presenza del positivismo comtiano nel complesso del suo sistema. Non parlerà anzi più di ‘positivismo’, riferendosi alla sua filosofia, e preferirà definire come ‘filosofia dell’esperienza’, accentuando quindi i legami con la tradizione empiristica del suo paese, da lui rinnovata e soprauo estesa, con metodi scientifici, alla traazione delle discipline etico-storico-sociali. Della valutazione e collocazione del Sistema di Logica nel quadro del dibaito filosofico del suo paese rimarrà soltanto, e sarà ripetutamente ribadita da Mill, la tesi e l’opera era direa — e come tale funzionò efficacemente — a contrastare le tendenze ontologico-intuizionistie affermantisi in Gran Bretagna, in forme rinnovate dagli apporti teorici ‘tedesi’, soprauo a cominciare dagli anni Trenta (Whewell e l’utilizzazione del kantismo). Su questo punto Mill non cambiò mai opinione:

il suo Sistema propone una dorina alternativa a quella ontologicointuizionistica, combauta da Mill non per mere ragioni teorie ma peré costituisce la base ideologica delle forze della conservazione. Un passo dell’Autobiografia, rimasto immutato nelle diverse stesure dell’opera (1854, 1861, 1869-70), è molto indicativo in tal senso: Mill ribadisce la tesi secondo la quale la teoria «e verità esterne alla mente possono essere conosciute in virtù dell’intuizione è coscienza, indipendentemente dall’osservazione e dall’esperienza, è, ne sono persuaso, in questi tempi, il grande sostegno intelleuale delle false dorine e delle caive istituzioni»; rispeo a questa teoria, scrive Mill nello stesso passo, «il Sistema di Logica fornisce ciò e era molto necessario, un traato della dorina opposta: quella e deriva tua la conoscenza dall’esperienza, e tue le qualità morali e intelleuali principalmente dalla direzione data alle associazioni». È un passo, come si può ben vedere, e avrebbero potuto sooscrivere senza riserve un Loe o un Hume. Rinnovamento della tradizione empiristica, quindi, e arginamento delle tendenze ontologico-intuizionistie. esti, tuo sommato, appaiono i compiti fondamentali assegnati da Mill al Sistema di Logica. L’assimilazione dell’opera al Cours de Philosophie Positive di Comte è stata invece il fruo di un passeggero entusiasmo, venuto a cadere non appena del pensiero di Comte Mill avrà una conoscenza meno entusiastica e più fredda e serena; di quel pensiero gli appariranno evidentissimi i caraeri dogmatici e apertamente reazionari, soprauo in questioni per Mill delicatissime (tra queste, per ragioni sia teorie sia personali, la questione del rapporto uomodonna). Come vengono assolti, nell’opera, i due compiti appena accennati? Chi si aspeasse, da quanto abbiamo deo finora, un aeggiamento fortemente polemico nei confronti delle tendenze ontologico-intuizionistie, nel Sistema di Logica, rimarrebbe molto deluso alla leura dell’opera. Lo spirito e pervade il Sistema di Logica è infai soprauo costruivo, non polemico. L’esigenza e abbiamo indicato come tesi centrale nei due fondamentali saggi su Bentham e Coleridge del 1838-1840, quella di evitare gli aeggiamenti estremi e di puntare invece sugli axiomata media, cioè sui problemi concreti, è quella e a nostro avviso prevale nell’opera. Mill non si ćontrappone apertamente alla tradizione intuizionistica; in alcuni casi, anzi, sembra far proprie alcune tesi di fondo di questa tradizione; e lo fa non per

dar prova di abilità dialeica o di furbizia taica, ma peré è profondamente convinto e c’è qualcosa di buono ane in quella tradizione. L’importante, per lui, è e le posizioni estreme, opposte, quelle e dividono la filosofia in campi contrapposti, non impediscano di affrontare i problemi concreti; in questo caso, i problemi e riguardano in generale l’esperienza e, nell’ambito di questa, quel seore così decisivo rappresentato da quelle e Mill iama le conoscenze inferenziali, cioè quelle e danno origine alle diverse scienze, oltre e alle comuni regole di comportamento nella nostra vita quotidiana. Se questo è l’aeggiamento di fondo di Mill (tradurre nei fai l’esigenza auspicata nei due saggi su Bentham e Coleridge), il suo primo e preliminare obieivo, nel Sistema di Logica, sarà di sgombrare il campo da problemi e impediscano — per le contrapposizioni estreme ad essi connesse — una traazione serena e costruiva di temi e fai rilevantissimi, invece, per la nostra vita quotidiana e per le scienze. Su questi ultimi, infai, sarà possibile, secondo Mill, traandosi di materia ainente ad axiomata media e non a principia prima, lavorare in maniera costruiva. Da questa esigenza Mill muove nelle prime pagine del Sistema di Logica per definire i campi rispeivi della logica e della conoscenza inferenziale, da una parte, e della metafisica dall’altra. In queste pagine Mill dà ao alla tradizione intuizionistica di aver individuato alcuni tipi di verità e non dipendono da procedimenti inferenziali ma e li precedono; sono tipi di verità e si possono cogliere intuitivamente, non dimostrativamente o inferenzialmente, tramite la coscienza immediata e se ne può avere: per esempio, precisa Mill, le nostre sensazioni corporee e i nostri sentimenti mentali. esti tipi di verità non vengono però negati dalla filosofia dell’esperienza, e li considera appunto dati originari, sui quali si costruisce poi l’esperienza stessa, interna ed esterna. Con questi dati originari, con questi tipi di verità, d’altra parte, né la logica né la conoscenza inferenziale hanno a e fare. Essi riguardano un’altra ‘provincia’ del sapere, quella e comunemente viene iamata la metafisica. A questa appartengono parimenti altre tematie sulle quali spesso si dividono radicalmente le scuole filosofie: esistenza e distinzione di materia e spirito, essenza del tempo e dello spazio, natura di specifici ai mentali (concezione, percezione, memoria, credenza), caraere innato o meno di determinate facoltà intelleuali o tipi di emozioni, caraere a priori o meno di realtà quali Dio o il senso morale, e altre questioni dello stesso genere.

La provincia della metafisica, quindi, è quella e affronta i princìpi primi, le questioni di fondo, su cui le varie scuole filosofie si dividono profondamente. Con essa la logica ha poco o nulla a e fare. La metafisica divide, la logica unisce: «La logica è il terreno comune su cui possono incontrarsi e darsi la mano i partigiani di Hartley e di Reid, di Loe e di Kant […] Il terreno su cui si sono combaute le loro baaglie più grosse, giace oltre i confini della nostra scienza»1. La logica — è iaro dove va a parare il discorso di Mill — ha a e fare invece con la conoscenza inferenziale, cioè con quel tipo di conoscenza e comunemente pratiiamo sia nella vita quotidiana sia nelle più elevate elaborazioni della ricerca scientifica: «La provincia della logica deve essere ristrea a quella porzione della nostra conoscenza e consiste di inferenze da verità precedentemente conosciute; sia e quei dati antecedenti siano proposizioni generali, sia e siano osservazioni o percezioni particolari»; sia cioè e si trai di inferenze di tipo deduivo, sia e si trai di inferenze di tipo induivo. Che sono, come vedremo subito, i due grandi filoni dell’esperienza inferenziale e quindi ane i due principali seori della ricerca logica di Mill. Il quale avverte subito e la logica ha a e fare con la conoscenza inferenziale (deduiva e induiva), ma non si identifica con questa. Il campo della logica è sì coestensivo rispeo a quello della conoscenza inferenziale, deduiva e induiva; però, mentre la conoscenza ha il compito di scoprire e provare verità sempre nuove, la logica ha un compito ben diverso: essa è «il giudice e l’arbitro comune di tue le ricere particolari. Non si preoccupa di trovare prove, ma di stabilire se siano state trovate. La logica non osserva, né inventa, e neane scopre: la logica giudica». Il campo della logica, così iaramente delimitato, risulta quindi amplissimo. Tui i procedimenti intelleuali e presiedono alla costruzione e allo sviluppo delle nostre conoscenze — induive o deduive — costituiscono l’oggeo dell’esame (‘giudizio’) della logica. Alla quale appartiene ane l’esame sia delle operazioni sussidiarie a quei procedimenti sia dei mezzi di cui si servono, e cioè, principalmente, del linguaggio. Il Sistema di Logica, pertanto, dopo le pagine preliminari sulle quali ci siamo soffermati con quale deaglio dato il loro caraere di delimitazione delle province rispeive della metafisica, della conoscenza inferenziale e della logica, si articola in maniera organica secondo un disegno ben preciso: il libro primo esamina i mezzi di cui si servono i procedimenti inferenziali,

cioè il linguaggio (nomi e proposizioni), la materia più tradizionale della logica; il secondo esamina il procedimento inferenziale di tipo deduivo (il sillogismo), riconducendolo in linea di massima al procedimento induivo; il terzo, e più impegnativo oltre e più lungo, esamina il procedimento della induzione, e risulta quello decisivo in tua la nostra conoscenza inferenziale; il quarto esamina diverse operazioni sussidiarie all’induzione (osservare, conceualizzare, nominare, classificare e altre); il quinto esamina alcune forme classie di inferenze scorree (le fallacie); il sesto e ultimo affronta la tematica etico-storico-sociale, cioè il problema della applicazione dei procedimenti inferenziali, precedentemente esaminati, nelle discipline ‘morali’ (etica, storia, sociologia e altre). Rispeo ai manuali di logica tradizionale alcune tematie sono ovviamente comuni (linguaggio, sillogismo, fallacie, per citare le più note); altre sono invece fortemente innovative (in particolare l’induzione con la sua centralità nella logica e filosofia di Mili) o del tuo nuove (le tematie etico-storico-sociali dell’ultimo libro). Ma si fraintenderebbe l’opera e il disegno filosofico di Mill se la si raffrontasse ai manuali di logica. Il Sistema presenta, sì, una logica fondata principalmente sulla induzione, ma presenta insieme, lo si diceva all’inizio e Mill lo ha più volte ribadito, una piaaforma filosofica complessiva, una filosofia dell’esperienza. È, quella di Mill, una logica filosofica e esamina e ‘giudica’ l’esperienza inferenziale, cioè la quasi totalità della nostra esperienza, sia ai livelli più elementari (le inferenze più o meno consapevoli e caraerizzano e rendono possibile la nostra vita quotidiana) sia ai livelli più elevati e raffinati (le inferenze, induive e deduive, delle scienze, di quelle naturali, di quelle matematie, di quelle etico-storico-sociali). È esclusa soltanto, e Mill lo ha iarito all’inizio, l’esperienza e si coglie araverso la coscienza immediata, l’intuizione. È in quest’oica, filosofica e non meramente logica, e va pertanto leo il Sistema di Logica. Esso è, in sostanza, un organico e articolato esame dei nostri procedimenti conoscitivi nei loro più diversi livelli. esta caraeristica dell’opera si riscontra pressoé in ogni pagina, ane in quelle e traano materie tradizionalissime della manualistica logica. Nella presente Introduzione, ovviamente, non entreremo nei deagli dell’opera, per indicare e soolineare l’impegno filosofico continuo nelle sue varie parti. Ci limiteremo a fornire quale esempio trao dai libri più significativi (i primi tre e il sesto), augurandoci e ciò costituisca per il

leore non tanto una mappa di leura dell’opera quanto una serie di spunti dai quali muovere per scoprire la grande ricezza filosofica del testo. Il primo libro traa dei nomi e delle proposizioni, cioè del linguaggio e noi usiamo in tui i nostri procedimenti inferenziali. Mill, qui e nelle altre parti dell’opera, fa frequenti riferimenti a suoi predecessori e contemporanei per iarire in maniera molto documentata la specificità delle sue posizioni. este ultime, a loro volta, hanno costituito materia di riflessione critica ane nel nostro secolo, specialmente tra i filosofi del linguaggio ordinario, e hanno trovato stimoli e suggerimenti nella teoria del linguaggio esposta da Mill in questo primo libro. Per quel e riguarda i nomi Mill fa ricorso, come gli accade frequentemente, alla esperienza comune per respingere teorie logie molto diffuse (per esempio e i nomi si riferiscono alle nostre idee delle cose). La sua tesi è invece e i nomi si riferiscono direamente alle cose, e danno informazioni sul mondo e non sulle nostre idee intorno ad esso: «I nomi — egli scrive — non hanno soltanto lo scopo di far concepire all’ascoltatore quello e concepiamo noi, ma ane di informarlo su ciò e noi crediamo. […] Dicendo ‘Il Sole è la causa del giorno’, non intendo dire e la mia idea del Sole causa o suscita in me l’idea del giorno, o, in altre parole, e il pensare al Sole mi fa pensare al giorno. Intendo e un certo fao fisico e si iama la presenza del Sole (e e, in ultima analisi, si risolve in sensazioni e non in idee) causa un altro fao fisico e si iama il giorno»2. A questa concezione realistica sulla referenzialità dei nomi si accompagna una distinzione tra diverse categorie di nomi e ha avuto una notevole eco nelle discussioni successive di filosofia del linguaggio, in particolare sul delicatissimo problema del significato. Mill propone una distinzione preliminare tra nomi privi di significato (i nomi propri) e nomi forniti di significato. esti ultimi li suddivide ulteriormente in denotativi e connotativi. I primi sono quelli e nominano o indicano o significano direamente i soggei, i secondi sono quelli e nominano, indicano o significano indireamente gli aributi. Bianezza è denotativo, bianco è connotativo. Mill esemplifica in proposito in maniera molto ricca. Ane sulle proposizioni Mill assume un aeggiamento realistico e respinge motivatamente le concezioni conceualistie e nominalistie della logica tradizionale. Egli sostiene e essendo le proposizioni formate da nomi (e indicano cose), esse esprimono relazioni fra cose, non fra concei (conceualismo) o fra nomi (nominalismo). La sua concezione realistica lo porta a proporre come distinzione fondamentale tra le proposizioni (a parte

altre distinzioni tradizionali ma non fondamentali) quella tra proposizioni reali e proposizioni verbali. Le prime forniscono informazioni sul mondo e presiedono alla costruzione e alla crescita della nostra conoscenza; le seconde non hanno lo scopo di darci informazioni sul mondo e, a differenza delle prime, non sono soggee a verificazione e falsificazione, ma soltanto a criteri di conformità o non conformità alle convenzioni entro le quali vengono usate. Va da sé e soltanto le proposizioni reali costituiscono la materia prima della logica in quanto costituiscono i primi e più elementari strumenti dei nostri procedimenti conoscitivi, inferenziali; le proposizioni verbali, o definizioni, entreranno nella traazione come strumenti non fondamentali ma sussidiari rispeo ai procedimenti conoscitivi. Una volta iarite, in senso empiristico e realistico, le caraeristie degli strumenti elementari dei nostri procedimenti conoscitivi (nomi e proposizioni), Mill entra nel vivo dell’esame di questi ultimi. Essi sono rispeivamente il ragionamento di tipo sillogistico, deduivo, e quello induivo, e costituiscono la materia del secondo e del terzo Libro. Entrambi, come vedremo, vanno a dare realtà e concretezza a tue le nostre inferenze, cioè a quei procedimenti, consci o meno, tramite i quali costruiamo e sviluppiamo le nostre conoscenze, ricavando nuove verità (questa è l’inferenza vera e propria) da verità già conosciute. Mill si domanda, nel secondo libro, se il ragionamento sillogistico, deduivo, costituisca o meno un procedimento inferenziale; se cioè tramite esso noi ricaviamo, facciamo seguire, da una verità già conosciuta, una verità nuova. L’esame della natura e della funzione del sillogismo è condoo con grande semplicità, fruo di lunga meditazione sul problema. Se si analizza il più noto dei sillogismi (Tui gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è mortale) si scopre subito e in realtà la conclusione del ragionamento (Socrate è mortale) è in quale modo già compresa nella proposizione generale iniziale (Tui gli uomini sono mortali). C’è allora inferenza o meno dalla prima all’ultima proposizione? La risposta di Mill è e non c’è alcuna inferenza, cioè alcuna scoperta di nuova verità. Secondo Mill, infai, «da un principio generale non possiamo inferire nessun particolare»3 La cosa appare più iara se al posto di Socrate si mea una persona ancora vivente. Mill sostituisce a Socrate il duca di Wellington e si pone la domanda: poié il duca di Wellington è ancora vivo, da quale verità precedente inferisco con certezza la sua mortalità? La sua risposta è e la mortalità del duca di Wellington non viene inferita affao dalla proposizione

‘Tui gli uomini sono mortali’, ma dall’accertata mortalità di altri uomini e l’esperienza e la conoscenza precedente hanno documentato ampiamente. Tanto ampiamente da condurre a formulare la proposizione generale ‘Tui gli uomini sono mortali’; proposizione e costituisce, essa sì, la vera inferenza, in quanto la esperienza possibile e reale, della mortalità degli uomini, è sempre parziale (dovremmo essere tui morti peré fosse possibile l’esperienza della mortalità di tui); nella proposizione generale è compresa non solo l’esperienza — parziale — della mortalità di alcuni uomini, ma ane un’aggiunta (dalla parte alla totalità) e mi autorizza a dire e ane il duca di Wellington è mortale. La mortalità di quest’ultimo, pertanto, è compresa nella mortalità di tui gli uomini, in quanto questa è stata inferita dalla mortalità di alcuni uomini. Nelle parole di Mill: «Perciò, quando dalla morte di Giovanni e di Tommaso e di tue le altre persone di cui abbiamo sentito parlare e nel caso delle quali l’esperimento è stato controllato a sufficienza, concludiamo e il Duca di Wellington è mortale come tui gli altri, possiamo benissimo passare per lo stadio intermedio della generalizzazione ‘Tui gli uomini sono mortali’, ma l’inferenza non risiede certo nell’ultima metà del processo, cioè nel passaggio da tui gli uomini al Duca di Wellington. L’inferenza si è conclusa quando abbiamo asserito e tui gli uomini sono mortali. In seguito non ci resta altro da fare e decifrare le nostre stesse annotazioni»4 al è quindi il valore della proposizione generale ‘Tui gli uomini sono mortali’? La tesi di Mill è e le proposizioni di questo genere (presenti in ogni tipo di procedimento inferenziale) rappresentano la ‘registrazione’ di una inferenza già avvenuta; la quale inferenza in ultima istanza procede da casi particolari (mortalità di alcuni uomini) a casi particolari (mortalità del duca di Wellington); la proposizione generale, secondo Mill, ci rende più facile, più sbrigativo, più comodo, il passaggio dai casi passati, precedenti, ai casi presenti, futuri e possibili («Dai casi e abbiamo osservato ci sentiamo autorizzati a concludere e quello e abbiamo trovato vero in quei casi, vale per tui i casi simili, passati presenti e futuri, per numerosi e siano»5). A rigore, potrebbe essere ‘saltato’ il passaggio araverso la proposizione generale; in questo caso, però, le nostre inferenze sarebbero molto più lente e faticose; e comunque, è un passaggio e non saltiamo affao, nella nostra esperienza quotidiana e soprauo nella nostra esperienza scientifica. Le proposizioni generali, e i ragionamenti sillogistici di cui costituiscono le premesse, vengono quindi ‘ridimensionati’ da Mill in quanto

procedimento inferenziale autonomo, ma vengono d’altra parte conservati assegnando o meglio riconoscendo loro una funzione indispensabile nella costruzione e soprauo nella crescita della conoscenza. Noi non ricaviamo nuove verità dalle proposizioni generali, ma in conformità con le proposizioni generali: «Ogni inferenza — precisa infai Mill — è da particolari a particolari: le proposizioni generali sono pure e semplici registrazioni di quelle inferenze già fae, e formule abbreviate per farne di più; la premessa maggiore di un sillogismo, di conseguenza, è una formula di questo genere e la conclusione è un’inferenza traa non già dalla formula, ma secondo la formula: il vero e proprio antecedente logico, o premessa è pertanto costituito dai fai particolari a partire dai quali la formula è stata messa insieme per induzione»6. Il procedimento conoscitivo reale, centrale, è soltanto induivo; il sillogismo, il ragionamento deduivo, svolgono funzioni utili, anzi necessarie, soltanto nell’ambito dei processi inferenziali di tipo induivo (Mill specifierà alcune eccezioni, la teologia e la giurisprudenza, nelle quali si parte da verità non oenute induivamente). Sia le nostre esperienze quotidiane, sia l’organizzazione delle nostre conoscenze — tue di origine empirico-sperimentale — procedono in ultima istanza tramite l’induzione, cioè tramite inferenze da casi particolari a casi particolari. Se non utilizzassimo i ragionamenti deduivi, però, il livello di organizzazione delle nostre conoscenze, cioè il livello delle scienze, rimarrebbe molto basso, nel senso e ogni loro progresso diverrebbe faticosissimo e dovrebbe rifarsi continuamente a tue le precedenti esperienze e conoscenze. Il procedimento deduivo, pertanto, è indispensabile per consentirci di far passare le nostre conoscenze, le nostre scienze, da un livello elementare, e deve far ricorso continuamente all’esperienza presente e passata, ad un livello superiore, nel quale l’esperienza passata è registrata e riassunta nelle proposizioni generali (o leggi scientifie). Le scienze mature, secondo Mill, sono proprio quelle nelle quali è maggiore il ricorso ai procedimenti deduivi: «Una scienza è sperimentale nella misura in cui ogni nuovo caso, e presenti certi trai peculiari, ha bisogno di un nuovo insieme di osservazioni e di esperimenti, di un’induzione nuova. È deduiva nella misura in cui può trarre conclusioni, relative a casi di nuovo genere, mediante processi e fanno rientrare quei casi soo vecie induzioni, accertando e i casi in cui

non si può osservare il possesso dei segni riiesti posseggono tuavia i segni di quei segni»7. Ogni scienza, secondo Mill, è cominciata con la semplice osservazione e con l’esperimento; l’applicazione di procedimenti deduivi ha fao fare un salto di qualità (tradoosi ane in salto di quantità), documentato ampiamente dalla maggiore rapidità di crescita in quelle scienze e hanno ‘matematizzato’ i loro procedimenti. «Così, l’una dopo l’altra, sono state matematizzate la meccanica, l’idrostatica, l’oica, l’acustica, la termologia; e così l’astronomia fu faa rientrare da Newton soo le leggi della meccanica generale»8. Il libro sul ragionamento non si limita a traare del sillogismo e della sua funzione nei procedimenti inferenziali; traa ane delle matematie (aritmetica e geometria), ricondoe an’esse, con argomentazioni non sempre convincenti, allo status di discipline e in ultima istanza risultano fondate su iniziali processi induivi. Non possiamo, in questa sede, entrare nei deagli di tale esame. Ci basta dire e tua la nostra esperienza conoscitiva, a livello elementare o a livello scientifico, ad eccezione delle discipline teologie e giuridie le quali hanno come fonte l’autorità e non l’esperienza, secondo Mill, già in questo secondo libro, viene considerata come poggiante sulla induzione; vale a dire, su procedimenti conoscitivi e partono sempre, in ultima istanza, dall’osservazione di casi particolari, e pervengono a inferire, ricavare, verità nuove su altri casi particolari (passando o non passando araverso proposizioni generali; non passando, per esempio, nella vita quotidiana, quando è sufficiente bruciarsi una sola volta meendo il dito sul fuoco per non voler più ripetere l’esperienza). Ed è al problema dell’induzione, appunto, e Mill dedica il terzo libro del Sistema di Logica. È, questo, il problema principale della logica filosofica di Mill, in quanto, lo abbiamo visto, è sull’induzione e poggia tua la nostra conoscenza di tipo inferenziale. Avendo ricondoo ane il procedimento deduivo ad una funzione tuo sommato subordinata, ane se preziosissima e indispensabile, rispeo al procedimento induivo, è l’esame di quest’ultimo e deve fornirci le risposte essenziali alle domande sulla sua natura e sulla sua legiimità. E sono risposte filosofie, non logie nel senso tecnico del termine. Che cosa ci spinge a generalizzare, a formulare proposizioni o leggi generali; peré siamo certi della validità delle nostre generalizzazioni; come viene riscontrata la validità di queste nell’ambito

della esperienza della realtà. este sono le domande principali alle quali Mill cerca di dare risposte convincenti nel terzo libro dell’opera. Nel corso delle sue rice argomentazioni ed esemplificazioni Mill ribadisce continuamente il suo aeggiamento empiristico e respinge con forza le teorie di tipo intuizionistico e innatistico (in particolare la polemica teorica investe in questo libro W. Whewell, il principale esponente nel mondo accademico, in quegli anni, delle correnti antiempiristie rinnovate araverso un’abile utilizzazione di dorine kantiane). La sua tesi generale iniziale è e noi siamo spinti a inferire, cioè a ricavare verità nuove da verità conosciute precedentemente, peré assumiamo, in ogni momento della nostra esperienza, un assioma fondamentale definito da Mill ‘principio di uniformità del corso della natura’. Non è affao un’idea innata o una verità e cogliamo intuitivamente, giacé tale principio ha an’esso un’origine nella nostra esperienza quotidiana. Esso è l’assioma fondamentale dell’induzione, cioè una grande, anzi la più grande generalizzazione, fondata a sua volta su precedenti generalizzazioni. L’acceazione implicita, spesso inconsapevole, di tale principio relativo al corso della natura e all’ordine dell’universo ci rende sicuri «e in natura esistono cose come casi paralleli; e quello e accade una volta accadrà una seconda volta in circostanze sufficientemente simili, e accadrà non solo una seconda volta, ma tue le volte e ricorreranno le medesime circostanze. esta, dico, è un’assunzione implicita in ogni caso d’induzione. E se consultiamo il corso effeivo della natura troviamo e l’assunzione è legiima. Per quanto ne sappiamo, l’universo è costituito in modo tale e tuo quello e è vero in un qualsiasi caso singolo sarà vero in tui i casi di un certo tipo: la sola difficoltà è quella di trovare quale sia questo tipo»9. Tenendo conto di quanto aveva scrio nel libro sul sillogismo, Mill assimila il principio di uniformità del corso della natura alla premessa maggiore (proposizione generale) di un sillogismo. Esso funziona come una registrazione o riassunto di precedenti generalizzazioni, in conformità al quale, e non dal quale, ricaviamo ulteriori verità. Prima di pervenire a quell’assioma, ovviamente, la nostra esperienza deve aver compiuto moltissime generalizzazioni; quell’assioma però non è soltanto la somma di quelle generalizzazioni, così come la proposizione ‘Tui gli uomini sono mortali’ non è soltanto la somma dei casi di mortalità effeivamente osservati; esso comprende qualcosa di più, cioè esso stesso è un esempio di induzione avvenuta, nel senso e contiene più verità rispeo alle

generalizzazioni parziali dalle quali è stato ricavato o inferito. este generalizzazioni parziali non sono altro e le leggi di natura da noi formulate con riferimento a specifici campi dell’operare della natura stessa; leggi e riconoscono nella natura serie di regolarità parziali («La regolarità generale risulta dalla coesistenza di regolarità parziali. Il corso della natura in generale è costante, peré è costante il corso di ciascuno dei fenomeni e lo compongono»)10. Che cosa caraerizza, allora, le singole e parziali leggi di natura, e stanno alla base di quella generalizzazione sfociante nel principio di uniformità del corso della natura? Ad un primo approccio, tali leggi sembrano fondate su alcune relazioni essenziali tra i fenomeni naturali: simultaneità e successione; relazioni e vengono individuate e sistematizzate dalla geometria (spazio) e dall’aritmetica (numero). Ma le leggi dello spazio o del numero risultano, ad un approccio più approfondito, incapaci di cogliere quello e è più peculiarmente essenziale e universale nelle relazioni tra i fenomeni della natura. Secondo Mill, e giunge così al cuore del problema, «Non ci basta, perciò, e le leggi dello spazio (e sono soltanto leggi di fenomeni simultanei) e le leggi del numero (e, pur essendo vere di fenomeni successivi non si riferiscono alla loro successione) posseggano la certezza e l’universalità rigorose e andiamo cercando. Dobbiamo sforzarci di trovare quale legge di successione e abbia quegli stessi aributi e perciò sia adaa a essere posta alla base dei processi per scoprire, e di uno strumento di controllo per verificare, tue le altre uniformità di successione. esta legge fondamentale deve somigliare alle verità della geometria quanto alla loro particolarità più notevole: quella di non essere mai, in nessun caso, smentite o sospese da nessun mutamento di circostanze»11. Mill individua nella legge di causazione universale questo terzo tipo di legge e costituisce a sua volta il fondamento del principio di uniformità del corso della natura e quindi della induzione. Egli, ane in questo caso, precisa l’ambito ‘empiristico’ delle caraeristie e della validità e area di funzionamento di tale legge. La quale, osserva Mill, non è altro e «questa familiare verità: grazie all’osservazione si trova e tra ogni fao della natura e un certo altro fao e l’ha preceduto, vige l’invariabilità della successione indipendentemente da tue le considerazioni sul modo ultimo in cui si producono i fenomeni e da ogni altra questione riguardante la natura delle ‘cose in sé’»12.

E la sua validità, dirà Mill molto più avanti, non può essere indebitamente estesa al di fuori dell’ambito di operazione della nostra esperienza; e infai «L’uniformità nella successione degli eventi, altrimenti iamata legge di causazione, dev’essere considerata, non già come una legge dell’intiero universo, ma soltanto come una legge di quella parte dell’universo e rientra nell’àmbito dei nostri mezzi di osservazione sicura, con un ragionevole grado di possibilità di estenderla ai casi contigui»13. Il grosso del libro terzo è dedicato ai metodi con i quali nella nostra esperienza, quotidiana e scientifica, viene scoperta e provata la legge di causazione universale nei diversi campi della natura (metodi di accordo, di differenza, dei residui, delle variazioni concomitanti e, nei casi più complessi, metodo deduivo). Non seguiremo, ovviamente, il nostro autore nelle complesse, rice e talvolta farraginose argomentazioni relative a tali metodi. Alla fine della traazione, comunque, Mill risale ai metodi più elementari, più liberi e incerti, più quotidiani, di induzione, quelli e definisce per enumerationem simplicem, allo scopo di indicare il fondamento veramente ultimo di tui i nostri procedimenti induivi. Ultimo in due sensi: e sta all’inizio di qualsiasi genere di induzione e e sta ane alla fine; nel senso e il controllo delle ‘verità’ inferite tramite i processi inferenziali induivi può essere operato, così come all’origine, tramite į semplici mezzi della osservazione empirica. Lungi dal ricorrere, come fanno le scuole intuizionistie e innatistie, a misteriosi procedimenti per dare validità ai fondamenti metodici del nostro conoscere, la logica filosofica di Mill poggia quindi, nella individuazione dei fondamenti ultimi dei procedimenti conoscitivi, sulla semplice osservazione empirica nel senso elementare, quotidiano di tale espressione. A questo punto, e con le considerazioni supplementari relative alle operazioni sussidiarie dell’induzione e alle fallacie (i brevi libri quarto e quinto), la logica nel senso indicato all’inizio dell’opera da Mill si può dire completata. Messe da parte infai le questioni connesse alla metafisica, Mill ha esaminato e ‘giudicato’ i diversi procedimenti della conoscenza inferenziale, ordinandoli e gerarizzandoli, oltre e individuandone i fondamenti nel principio di uniformità del corso della natura, nella legge di causazione universale e nelle induzioni per enumerationem simplicem. La logica dell’induzione elaborata contestualmente all’esame dei diversi procedimenti inferenziali ha dato conto, e ha valutato la legiimità, delle scienze della natura oltre e di quelle più astrae dell’aritmetica e della

geometria. È una logica filosofica e trova il proprio riscontro in una filosofia dell’esperienza. Il sistema di logica è ane un sistema di filosofia e, radicato sulla esperienza, può costituire un’alternativa alle filosofie ontologie, intuizionistie, innatistie. Oltre alle scienze più astrae (ane esse ricondoe alla esperienza) e alle scienze della natura (inorganica e organica), c’è però un altro vasto campo della nostra esperienza: quello delle scienze umane (etica, storia, sociologia e altre). elle e Mill iama ‘moral sciences’ e e quale decennio dopo, soprauo nel dibaito — in quale modo dipendente da questa opera di Mill — apertosi tra fine Oocento e primo Novecento nell’ambito dello storicismo tedesco (Dilthey, Windelband e poi Weber), saranno iamate ‘scienze dello spirito’ in quanto distinte dalle ‘scienze della natura’. Ora, si domanda Mill nel sesto libro dell’opera, queste discipline e da secoli si occupano dei fai umani ma e non hanno mai raggiunto il livello di scienze come invece è capitato per le scienze della natura, sono an’esse susceibili di diventare scienze? Possono valere ane per esse i procedimenti inferenziali esaminati e ordinati dalla logica dell’induzione? Vale a dire: i fai e i fenomeni e esse studiano, sono an’essi, o no, connessi fra di loro alla maniera dei fai e fenomeni della natura, cioè alla maniera causale? Il principio di uniformità del corso della natura, la legge di causazione universale, valgono o no ane per i fai umani? Se la risposta a queste domande potesse essere positiva, allora si potrebbe davvero sperare di portare le discipline umane in tempi ragionevolmente brevi al livello di scienze. Mill si rende conto della gravità dei problemi e sta affrontando. Sa e si traa di questioni cruciali, e investono non solo il campo disinteressato della ricerca scientifica ma ane quello controverso delle opinioni e delle teorie, spesso contrastanti, sulla natura umana, sulla libertà o meno degli esseri umani. È tanto consapevole del peso di tale problematica e affermerà più volte di considerare come il più importante dell’opera il capitolo secondo del sesto libro, quello e ha per titolo Della Libertà e della Necessità, nel quale affronta il problema dando risposte positive alle domande e abbiamo poc’anzi riassunto. Nel riferirsi a questo capitolo, inoltre, Mill dirà di essere pervenuto alla sostanza delle posizioni in esso formulate, senza però mai averle precedentemente rese pubblie, una quindicina di anni prima, cioè nel 1828 circa, l’anno del suo primo distacco dal benthamismo e dell’avvicinamento a posizioni antilluministie e

idealistie (Coleridge, Worsworth, Sterling e Maurice). Lo confesserà per esempio in una leera del 3 novembre 1843 ad A. de Tocqueville, nella quale scriverà ane e in quelle idee e soluzioni del problema libertà-necessità, intorno al 1828, «avevo trovato la pace, dal momento e esse sole avevano soddisfao pienamente in me il bisogno di meere in armonia l’intelligenza e la coscienza, ponendo su delle basi intelleuali solide il sentimento della responsabilità umana». Erano appunto gli anni in cui aveva interiormente rifiutato le teorie, di ascendenza benthamiana e oweniana, secondo le quali l’essere umano è una macina pensante con bisogni determinati dall’ambiente, rispeo ai quali l’individuo non è libero. In questo capitolo veramente cruciale dell’opera Mill intende appunto esaminare le concezioni radicalmente opposte del necessitarismo assoluto e del libero arbitrio ugualmente assoluto, con l’intento di mostrare e esiste una posizione intermedia (si ricordino le esigenze espresse nei due saggi su Bentham e Coleridge) e può conciliare entrambe le posizioni e costituire il fondamento di una traazione scientifica dei fai umani. Mill perviene alla soluzione intermedia araverso una sua formulazione della dorina della necessità e consente di non negare la libertà dell’individuo pur assoggeando quest’ultimo, però, alla legge di causazione. In un passo denso e conciso Mill sostiene e la dorina della necessità, se la si intende in maniera correa, afferma questo: «e, dati i motivi e sono presenti alla mente di un individuo e dati, analogamente, il caraere o la disposizione dell’individuo, se ne potrà inferire senza tema di sbagliare, in quale maniera agirà quest’individuo: e se avessimo una conoscenza completa della persona, e conoscessimo tue le influenze e agiscono su di essa, potremmo predire la sua condoa con una certezza eguale a quella con cui possiamo predire un qualsiasi evento fisico»14. Lungi dall’essere contraria al nostro senso comune della libertà individuale, una tale visione della dorina della necessità concorda pienamente con esso: «Non ci sentiamo affao meno liberi, peré coloro e ci conoscono intimamente sono ben sicuri di come agiremo in un caso particolare. Al contrario, spesso consideriamo il dubbio a proposito della nostra condoa futura come un segno del fao e i dubita non conosce il nostro caraere, e talvolta arriviamo persino al punto di offendercene, come se si traasse di un’accusa […]. Può ben darsi e siamo liberi, e può ben darsi e tuavia un altro abbia ragione di essere perfeamente certo di quale uso faremo della nostra libertà»15.

Mill respinge invece la versione necessitaristica assoluta, quella e porta a conseguenze fatalistie e e ritiene impossibile la libertà umana. Per Mill l’operare delle circostanze sull’individuo deve essere inteso nel senso e ane la ‘libertà’ dell’individuo, cioè il potere e questi possiede, «in una certa misura, di alterare il proprio caraere»16, è una circostanza da tenere presente. L’azione dell’individuo, abbiamo visto, è per Mill il risultato dell’incontro tra motivi e caraere in momenti determinati; è vero e il caraere dell’individuo è formato, come sosteneva Owen, dalle circostanze, ma è ane vero e «il suo desiderio di forgiarlo in modo particolare è una di quelle circostanze, e non si traa affao di una delle circostanze meno importanti»17. D’altra parte, osserva ancora Mill, non si può negare la presenza di una tale circostanza, peré è sufficiente guardare dentro di noi — e questo è un esempio di esperienza tra i più comuni — per renderci conto del fao «e questo sentimento — il sentimento, cioè, della nostra capacità di modificare il nostro caraere se lo vogliamo — è proprio il sentimento di libertà morale del quale siamo consapevoli»18. In linea di principio, quindi, secondo Mill i fai umani sono an’essi sooposti alla legge di causazione universale. Certo, sono, a differenza della maggior parte dei fenomeni naturali, molto complessi, per cui passare dalla linea di principio alla linea di fao, cioè all’applicazione dei metodi inferenziali esaminati dalla logica dell’induzione, non è affao facile. Mill ricorda però e ane nei fenomeni naturali ci sono seori nei quali nessuno meerebbe in discussione l’operare della legge di causazione (pioggia, maree, lucciìo della luce solare ecc.); eppure la complessità del loro occorrere, e la molteplicità di cause e vi concorrono, sono tali e ane in tali casi non è facile passare dalla linea di principio (sicuro operare della legge di causazione) alla linea di fao (formulazione di leggi precise e consentano una prevedibilità certa). Il più è fao, per Mill, una volta risolto il problema di principio sulla presenza o meno della legge di causazione nel campo dei fenomeni umani. Se si tiene conto ane della estrema complessità del loro accadere, e della estrema molteplicità di cause (passate, presenti e future) e li determinano, si potrà affrontare il compito di una loro traazione scientifica con grande cautela ma ane con grande speranza di portare le discipline relative a questi fenomeni al livello di scienze. ali scienze, e con quali metodi? Mill

affronta questo problema nella parte restante del sesto libro, molto complessa e analitica. i indiiamo soltanto le direzioni delle sue analisi. Le principali scienze (con i limiti precisati poc’anzi) relative ai fenomeni umani devono essere, secondo Mill, la Psicologia (e Comte negava in quanto disciplina autonoma), l’Etologia e la Sociologia. La psicologia deve adoare metodi prevalentemente induivi, giacé parte dalla osservazione dei fenomeni mentali (pensieri, emozioni, volizioni) e deve puntare alla formulazione di leggi sull’operare di tali fenomeni. L’etologia deve adoare invece metodi prevalentemente deduivi peré parte dalle leggi individuate dalla psicologia e ne riscontra l’operare in presenza di circostanze esterne all’individuo, il quale forma il suo caraere nell’incontro tra operare dei fenomeni interni e operare di circostanze esterne. La sociologia è senz’altro la scienza più complessa, giacé deve tener conto dell’operare umano in società sia dal punto di vista statico (nel presente) sia dal punto di vista dinamico (nella storia). I metodi e deve usare saranno quindi molto vari, tra quelli indicati dalla logica dell’induzione. Mill ne illustra diversi per i diversi aspei della ricerca sociologica. In quest’ultima parte, naturalmente, emergono con iarezza, e vengono esplicitamente indicati dallo stesso Mill, i debiti nei confronti di Comte. Il sesto libro dell’opera integrava in tal modo il sistema filosofico di Mill, estendendo la logica dell’induzione e i procedimenti inferenziali al delicato campo dei fenomeni umani (individuali, sociali, etici, storici). L’opera presentava, quindi, quel ‘sistema filosofico ben delineato’ e Mill aveva progeato con finalità molto iare: offrire alla cultura filosofica del suo paese un’alternativa teorica alle scuole ontologico-intuizionistie con lo scopo più lontano di contribuire in tal modo ad un cambiamento in senso progressista dei modi di pensare delle persone colte del paese. Era il suo primo libro, ane se aveva alle spalle vent’anni di aività pubblicistica intensa, per lo più nel quadro delle aività politie del gruppo radicale. Con il Sistema di Logica compariva sulla scena un nuovo filosofo. La dignità filosofica dell’opera venne infai riconosciuta subito, da amici e da avversari, e il successo arrise in misura superiore alle speranze dell’autore, e in vent’anni curò, apportando in ognuna modifie e aggiunte e aggiornamenti, oo edizioni dell’opera. La quale entrò nella circolazione delle idee per non uscirne più. È infai una delle opere di Mill più frequentemente ristampate. La ragione di questo fao può essere faa risalire alla rapida fortuna accademica dell’opera. Bené Mill non avesse

mai avuto a e fare con gli ambienti accademici, il Sistema di Logica entrò a far parte subito del bagaglio intelleuale degli studenti universitari delle due più prestigiose università inglesi, Oxford, nella quale i giovani rinnovatori dell’anglicanesimo, i ‘tractarians’, accolsero molto favorevolmente l’opera, e Cambridge, nella quale insegnava il prestigioso Whewell, frequentemente citato e criticato nel Sistema di Logica. Fuori dell’università, l’opera ebbe ugualmente accoglienza molto calda, soprauo, naturalmente, presso gli ambienti colti progressisti. Mill, negli anni della stesura definitiva del Sistema di Logica, aveva abbandonato l’aività politica di partito. Non cessò però mai, negli anni successivi, di prendere posizione pubblicamente e sempre con spirito progressista e riformatore sulle principali questioni politie della vita del paese. Dai problemi dell’Irlanda drammaticamente aggravatisi intorno al 1845 a quelli del Cartismo e della sua crisi nel 1848, dai problemi sollevati dalla guerra di secessione americana nei primi anni Sessanta a quelli del primo movimento di emancipazione della donna in quello stesso decennio (vi svolse un ruolo molto baagliero insieme alla figliastra Helen Taylor). Fu ane deputato indipendente dal 1865 al 1867. Non fu però più uomo di partito. Il peso delle sue opinioni, l’influenza delle sue prese di posizione derivavano ormai prevalentemente dalla sua fama di intelleuale e filosofo, datagli in primo luogo dal Sistema di Logica, tradoo tempestivamente in Francia e in Germania. È ane da dire e nei vent’anni successivi alla pubblicazione del Sistema di Logica Mill, a parte l’impegno per le diverse edizioni dell’opera, ritornò solo raramente su problemi specificamente filosofici. I temi preferiti per le sue speculazioni teorie sarebbero stati quelli dell’economia (del 1848 è la prima edizione dei Principles of Political Economy) e, dopo quasi dieci anni nei quali non pubblicò quasi nulla, quelli della teoria politica (On Liberty è del 1859, le Considerations on Representative Government del 1861). Soltanto negli anni Sessanta sarebbe ritornato su temi e problemi in quale modo legati agli interessi teorici dai quali era nato il Sistema di Logica. Tre opere, in particolare, segnano il grande ritorno alla filosofia; tre opere e aprirono, su fronti diversi, dibaiti vivacissimi: Utilitarianism, 1861-63, An Examination of Sir W. Hamilton’s Philosophy del 1865 e A. Comte and Positivism dello stesso anno; e poi, pubblicati postumi nel 1874, i Three

Essays on Religion.

In queste opere della tarda maturità Mill riprende la sua filosofia dell’esperienza approfondendone gli aspei etici e religiosi e nelle opere e più fecero discutere confrontandola e differenziandola rispeo alle filosofie di due pensatori morti una decina di anni prima: W. Hamilton le cui teorie antiempiristie avevano messo piede ad Oxford tramite la versione proposta dal rev. Mansel nel 1858; A. Comte, nei confronti del quale, in anni di rilancio del positivismo (in Francia tramite Liré, in Gran Bretagna tramite i positivisti ‘ortodossi’ contrari a Liré), Mill ribadirà in due magistrali saggi le profonde differenze della sua filosofia. In tue queste opere lo spirito con cui scrive Mill è sempre quello di i è consapevole di combaere una baaglia culturale dai tempi lunghi. È ancora lo spirito e presiedeva alla composizione del Sistema di Logica. FRANCO RESTAINO 1. Introduzione, pp. 65-66. 2. Libro I, cap. II, p. 78. 3. Libro II, cap. III, p. 278. 4. Libro II, cap. III, p. 282. 5. Ibid., cap. III, pp. 281-282. 6. Libro II, cap. III, p. 290. 7. Libro II, cap. IV, p. 323. 8. Libro II, cap. IV, p. 323. 9. Libro III, cap. III, p. 434. 10. Libro III, cap. IV, p. 445. 11. Ibid., cap. V, p. 456. 12. Libro III, cap. V, p. 458. 13. Ibid., cap. XXI, p. 775. 14. Libro VI, cap. II, p. 1114. 15. Ibid., p. 1115. 16. Ibid., p. 1118. 17. Ibid., p. 1119. 18. Ibid., p. 1120.

NOTA BIOGRAFICA

1806

John Stuart Mill nasce a Londra, e a Londra vive quasi tua la sua vita. Il padre James, scozzese trapiantatosi a Londra dove sarebbe rimasto fino alla morte quale principale propagatore delle idee politie di Bentham e ispiratore dei ‘radical philosophers’, raggruppamento politico della sinistra avanzata negli anni 1820 e 1830, educa il figlio in maniera rigidissima, con lo scopo di farne un radical philosopher esemplare.

1822

Dopo aver aiutato a ricopiare e ordinare manoscrii di Bentham, inizia la sua aività politica come collaboratore del quotidiano «e Morning Chronicle» e della trimestrale «e Westminster Review», entrambi di tendenza radicale. Viene assunto nella East India Company, nella quale resterà, pervenendo a gradi molto alti dell’amministrazione, fino al 1857, quando se ne andrà in segno di protesta per il passaggio della compagnia al governo.

1823

1826

Araversa una profonda crisi depressiva e affeiva, i cui effei ideali si manifestano soprauo intorno al 1828 e negli anni immediatamente successivi; allora, in una Debating Society da lui promossa, conosce alcuni coetanei (J. Sterling, F. D. Maurice) seguaci di Coleridge, alle cui idee si avvicina; si avvicina pure, prendendone poi talvolta le distanze, alle idee dei sansimoniani (tramite il giovane d’Eithal, e gli fa conoscere ane il giovanile traato di A. Comte), di Carlyle, dei romantici tedesi (Goethe) e

inglesi (Wordsworth). Per due anni, lui abituato a pubblicare a ritmo intenso, non pubblica nulla. 1830

Conosce Harriet Taylor, con la quale si lega di un affeo e durerà per tua la vita (si sposeranno solo nel 1851, dopo la morte del marito), e dalla quale in quale modo riceverà la sua vera educazione sentimentale. Va in Francia, in quell’anno, entusiasta per la rivoluzione di luglio, e riprende a pubblicare sull’onda della loa, in Gran Bretagna, per la Riforma eleorale, e sarà conquistata nel 1832. È di nuovo allineato con i radicali, alleati con i Whigs nelle loe contro i Tories.

1831

Pubblica su «e Examiner» una serie di articoli dal titolo The Spirit of the Age, nei quali è presente una ricezza di spunti — assenti nei suoi scrii precedenti — derivantigli dalle nuove leure ed esperienze degli anni 1828-1830. Comincia una prima stesura del Sistema di Logica, progeato nel 1828. Fino al 1836 riprende il suo posto di baaglia a fianco dei radicali, contribuendo a vari organi di stampa.

1835

Dirige dal 1835 la nuova rivista radicale, «e London Review», e nel 1836 diventerà, incorporando una precedente rivista, «e London and Westminster Review». Non può dire fino in fondo quello e pensa sulla situazione politica e sulla posizione dei radicali benthamiani, peré il padre condiziona fortemente il suo lavoro di direore. Scrive le Remarks on Bentham’s Philosophy, e vengono pubblicate, non soo il suo nome, in appendice ad un volume di un suo amico; il saggio è critico nei confronti di Bentham.

1836

Muore il padre ed egli si sente più libero nei suoi movimenti e sulla rivista da lui direa pubblica numerosi saggi con i quali intende proporre una modifica sostanziale della linea politica del gruppo radicale, e considera pericolosamente accodato alle iniziative dei whigs, ormai lontani, secondo Mill, da un programma politico avanzato e riformatore. Tra i suoi saggi più importanti pubblicati

sulla rivista, Bentham (1838), Reorganization of the Reform Party (1839), Coleridge (1840). 1840

Prende ao del fallimento del suo disegno politico. Vende la rivista, si dedica alla stesura definitiva del Sistema di Logica, passa a collaborare a «e Edinburgh Review».

1843

Esce il Sistema di Logica, il suo primo libro, e va incontro ad un rapido ed esteso e duraturo successo. Negli anni successivi Mill non cessa di occuparsi delle questioni politie, ma ormai lo fa da posizioni di indipendenza, senza legami con partiti. Pubblica tra il 1845 e il 1846 articoli sulla carestia in Irlanda e sul problema della riforma agraria.

1848

Esce la prima edizione dei Principles of Political Economy, rivista, dopo gli avvenimenti del 1848, nelle edizioni del 1849 e del 1852. Per circa dieci anni, coincidenti quasi con gli anni del matrimonio (1851-1858, anno della morte di Harriet), non pubblica pressoé nulla. Riprende a pubblicare con l’importante saggio On Liberty.

1861

Escono le Considerations on Representative Government, e Utilitarianism (in volume nel 1863).

1865

Appaiono An Examination of Sir W. Hamilton’s Philosophy e A. Comte and Positivism. In questi anni partecipa inoltre alle vicende del giorno (guerra di secessione americana, problema della siavitù dei negri, loe per una nuova riforma eleorale, partecipazione, insieme alla figliastra Helen Taylor, al movimento per la emancipazione della donna).

186567

È deputato, come indipendente.

1869

Pubblica The Subjection of Women, e avrà risonanza e diffusione internazionali.

1873

Muore J. S. Mill. Nello stesso anno appare, a cura della figliastra, e taglia alcuni brani, l’Autobiography (l’edizione completa uscirà nel 1924).

1874

Appaiono postumi i Three Essays on Religion: Nature, Theism, Utility of Religion. Su «e Fortnightly Review», vengono pubblicati i Chapters on Socialism (stesura incompiuta di una parte di un’opera sul socialismo).

NOTA BIBLIOGRAFICA

Una parte notevole degli scrii di Mill apparve senza l’indicazione del nome dell’autore in numerose riviste e sulla stampa quotidiana. Prezioso, per gli studiosi, è quindi l’elenco di tue le sue pubblicazioni, steso dallo stesso Mill e aggiornato fino a poi giorni prima della morte, pubblicato a cura di N. MACMINN, J. R. HAINDS, J. M. MCCRIMMON, col titolo Bibliography of the Published Writings of J. S. Mill, Evanston, Illinois, 1945. anto alle opere di Mill, è ormai in via di completamento l’edizione critica, curata da una folta équipe di studiosi, direa da J. M. ROBSON e facente capo all’università di Toronto. Si traa di un’edizione veramente ineccepibile, condoa con criteri filologici accuratissimi (forse nessun autore dell’epoca moderna ha avuto un’edizione dei suoi scrii di tale impegno critico-filologico); delle opere, oltre al testo dell’ultima edizione curata dall’autore, vengono riportate le varianti tra le diverse edizioni e, quando ci sono, gli abbozzi e le prime stesure (nel caso del Sistema di Logica l’apparato delle varianti, primi abbozzi e prime stesure è di grandissima utilità per gli studiosi). Programmata all’inizio degli anni Sessanta in tredici volumi, tui di grande formato, l’edizione ha largamente superato le dimensioni previste. Diamo qui di seguito l’elenco dei volumi finora usciti, e comprendono tue le opere comparse con il nome dell’autore e un numero già molto alto dei suoi scrii sparsi su vari periodici; sono pubblicati dalla Toronto University Press: I,

Autobiography and Literary Essays

Stillinger, 1981.

(1981), ed. by J. M. Robson and J.

II, III, Principles of Political Economy, ed. by J. M. Robson and V. W. Bladen, 1965. IV, V, Essays on Robbins, 1967.

Economics and Society,

ed. by J. M. Robson and Lord

VI, Essays on England, Hamburger, 1982.

Ireland, and the Empire,

ed. by J. M. Robson and J.

VII, VIII, A System of Logic: Ratiocinative and Inductive, ed. by J. M. Robson and R. F. MacRae, 1973. IX, An Examination of Sir William Robson and A. Ryan, 1979.

Hamilton’s Philosophy,

ed. by J. M.

X, Essays on Ethics, Religion and Society, ed. by J. M. Robson, F.E.L. Priestley and D. P. Dryer, 1969. XI, Essays on Philosophy Sparsho, 1978.

and the Classics,

ed. by J. M. Robson and F. E.

XII, XIII, The Earlier Letters, 1812-1848, ed. by F. E. Mineka, 1963. XIV, XV, XVI, XVII, The Later Letters, 1848-1873, ed. by F. E. Mineka, and D. N. Lindley, 1972. XVIII, XIX, Essays on Politics and Society (1977), ed. by J. M. Robson and A. Brady, 1977. XX, Essays on French History and Historians (1985), ed. by J. M. Robson and J. C. Cairns, 1985. XXI, Essays on Collini, 1984.

Equality, Law, and Education,

ed. by J. M. Robson and S.

XXII, XXIII, XXIV, XXV, Newspaper Writings, 1986. I volumi in corso di stampa, o in preparazione, saranno dedicati ai Journals and Speeches, ai Writings on India and Miscellaneous Essays, infine agli Indexes. Fra le traduzioni italiane segnaliamo le seguenti: La libertà e altri saggi,

a cura di P. Crespi, Milano, 1946.

Tre saggi sulla religione,

a cura di L. Geymonat, Feltrinelli, Milano, 1950.

I princìpi di economia politica, Sistema di logica, Scritti scelti,

a cura di G. Faci, Ubaldini, Roma, 1968.

a cura di F. Restaino, Principato, Milano, 1969.

Autobiografia, Utilitarismo,

a cura di A. Campolongo, Utet, Torino, 1953.

a cura di F. Restaino, Roma-Bari, Laterza, 1976.

a cura di E. Musacio, Bologna, 1981.

A. Comte e il positivismo,

a cura di A. Paci, Unicopli, Milano, 1986.

La leeratura critica su Mill è vastissima; è l’autore inglese dell’Oocento di gran lunga più studiato, e negli ultimi trent’anni circa l’aenzione per la sua vita e il suo pensiero si è estesa in tuo il mondo. Ane per l’informazione, l’orientamento e l’aggiornamento sulla leeratura critica, l’iniziativa più preziosa e utile è stata presa dalla stessa équipe di studiosi e curano l’edizione critica delle opere. Dal 1965 esce infai, direa da J. M. Robson e pubblicata dalla Toronto University Press, una rivistina bibliografica, «e Mill News Leer», la cui consultazione è indispensabile per tenersi al corrente di quanto si pubblica su Mill in tuo il mondo; la rivista offre ane informazioni bibliografie sulla leeratura critica del passato, a mano a mano e si scoprono testi prima non noti e in quale modo si occupano di Mill. Presentiamo qui una selezione di titoli, che va dall’ultimo Ottocento a oggi:

W. L. COURTNEY, The Metaphysics of J. S. Mill, Londra, 1879. A. BAIN, J. S. utilissima).

Mill. A Memoir, with Recollections,

Londra, 1882 (ancora

E. JENKS, T. Carlyle and J. S. Mill, Londra, 1888. A. WATSON, Comte, Mill, and Spencer, Londra, 1895. C. DOUGLAS, J. S. Mill, Londra, 1895. E. HALEVY, La naissance du radicalisme philosophique, Parigi, 1900.

L. STEPHEN, The English Utilitarians, Londra, 1900-1902. J. LUBAC, J. S. Mill et le socialisme, Parigi, 1902. E. M. KANTZER, La religion de J. S. Mill, Caen, 1906. T. WHITTAKER, Comte and Mill, Londra, 1908. H. K. GARNIER, J. S. Mill and the Philosophy of Mediation, New York, 1919. A. GRAZIANI, D. Ricardo e J. S. Mill, Bari, 1921. G. ZUCCANTE, J. S. Mill e l’utilitarismo, Firenze, 1922. E. NEFF, Carlyle and Mill. Mystic and Utilitarian, New York, 1924. C. L. STREETS, Individualism and Individuality in the Philosophy of J. S. Mill, Milwaukee, 1926. G. KENNEDY, The Psychological Empiricism of J. S. Mill, Amherst, 1928. M. APCHIÉ,

Les

sources

économique de J. S. Mill,

O. A. KUBITZ, 1932.

françaises

de

certains

aspects

de

la

pensée

Parigi, 1931.

The Development of J. S. Mill’s

«System

of Logic»,

Urbana,

M. A. HAMILTON, J. S. Mill, Londra, 1933. G. L. NESBITT,

Benthamite

Reviewing.

«Westminster Review». 1824-1836,

R. VAYSSET-BOUTBIEN, Parigi, 1941.

The

first

Twelve

Years

of

the

New York, 1934.

J. S. Mill et la sociologie française contemporaine,

F. A. KAYEK, J. S. Mill and Harriet Taylor, Londra, 1951. R. P. ANSCHUTZ, The Philosophy of J. S. Mill, Londra, 1952. K. BRITTON, J. S. Mill, Londra, 1953. M. ST. J. PACKE, documentata).

The Life of J. S. Mill,

Londra, 1954 (è la biografia più

J. C. REES, J. S. Mill and His Critics, Leicester, 1956.

J. W. MUELLER, J. S. Mill and French Thought, Urbana, 1956. R. P. PANKHURST, The Saint-Simonians, Mill and Carlyle, Londra, 1957. R. BORCHARDT, J. S. Mill, the Man, Londra, 1957. M. CRANSTON, J. S. Mill, Londra, 1958. I. BERLIN, J. S. Mill and the Ends of Life, Londra, 1959. H. O. PAPPE, J. S. Mill and the Harriet Taylor Myth, Londra, 1960. T. WOODS, Poetry Londra, 1961.

and Philosophy. A Study in the Thought of J. S. Mill,

M. COWLING, Mill and Liberalism, Cambridge, 1963. J. B. ELLERY, J. S. Mill, New YORK, 1964. S. R. LETWIN, The Londra, 1965.

Pursuit of Certainty: Hume, Bentham, Mill and B. Webb,

J. S. Mill Number,

fascicolo monografico della rivista «Philosophy», gennaio

1968.

J. M. ROBSON,

The Improvement of Mankind. The Social and Political

Thought of J. S. Mill,

F. RESTAINO, J. S. Firenze, 1968.

Toronto, 1968.

Mill e la cultura filosofica britannica,

La Nuova Italia,

J. B. SCHNEEWIND, (ed. by), Mill. A Collection of Critical Essays, Londra, 1968 (testo fondamentale, e contiene, oltre a una ricca e aggiornata bibliografia, contributi critici di B. Russell, N. Annan, R. P. Ansutz, R. Jason, G. N. A. Vesey, J. P. Day, E. W. Hall, J. O. Urmson, J. D. Mabbo, M. Wenno, M. Mandelbaum, J. Austin, J. M. Robson, J. H. Burns, M. Cowling, R. J. Halliday, R. B. Friedman, K. Popper). F. RESTAINO, La fortuna di Comte in Inghilterra, «Rivista critica di storia della filosofia», 1968-1969 (1968, pp. 171-201 e 391-409; 1969, pp. 148-178 e 374-381). A. RYAN, The Philosophy of J. S. Mill, Londra, 1970.

W. A. PARENT, Mill’s Conception of the Summum Bonum, Providence, 1970. T. FULLER, J. S. Mill and the Transformation of Politics, Baltimora, 1971. H. J. MCCLOSKEY, J. S. Mill. A Critical Study, Londra, 1971. G. HIMMERFALB, On Liberty and Liberalism: The Case of J. S. Mill, New York, 1974. M. MAZLISH, James Londra, 1975.

and J. S. Mill: Father and Son in the 19th Century,

E. R. AUGUST, J. S. Mill, a Mind at Large, Londra, 1976. J. M. ROBSON and M. LAINE (ed.), James and John Stuart Mill, Toronto, 1976. D. F. THOMPSON, J. S. Mill and Representative Government, Princeton, 1976. R. J. HALLIDAY, J. S. Mill, Londra, 1976. J. KAMM, J. S. Mill in Love, Londra, 1977. W. E. COOPER, K. NIELSEN, S. C. POTTEN (ed.), Ontario, 1979.

New Essays on J. S. Mill,

C L. TEN, Mill on Liberty, Oxford, 1980. F. W. GARFORTH, Oxford, 1980.

Educative Democracy: J. S. Mill on Education and Society,

M. LAINE, Bibliography of Works on J. S. Mill, Toronto, 1982. D. N. ROBINSON,

Toward a Science of Human Nature; Essays on the

psychologies of Mill, Hegel, Wundt and James,

New York, 1982.

A. SANTUCCI, Il «filosofo positivo»: Comte e Mill, in Scienza e filosofia nella cultura positivistica, a cura di A. Santucci, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 72103. D. BUZZETTI, Storia nella cultura

pp. 134-157.

e metodo scientifico: Mill e Comte,

in Scienza e filosofia positivistica, a cura di A. Santucci, Feltrinelli, Milano, 1982,

M. THIEL, Methode VII: J. S. Mill, Lotze, Spencer, Heidelberg, 1983.

J. GRAY, Mill on Liberty: A Defence, Londra, 1983. F. RESTAINO, J. S. Mill e W. Hamilton: confronto e crisi Pubblic. Ist. Filos. Fac. Leere e Filos., Cagliari, 1983. F. R. BERGER,

di due filosofie,

Happiness, Justice and Freedom, The Moral and Political

Philosophy of J. S. Mill,

Berkeley, 1984.

B. SEMMEL, J. S. Mill and the Pursuit of Virtue, New Haven-Londra, 1984. G. FRONGIA, 1984.

J. S. Mill e il metodo scientifico,

Ediz. Scient. Italiane, Napoli,

W. THOMAS, Mill, Oxford, 1985. S. HOLLANDER, The Economics of J. S. Mill, Toronto, 1985. J. P. GLOSSMAN, J. S. Mill: The Evolution of a Genius, Gainesville, 1985. J. LOESBERG,

Fictions of Consciousness: Mill, Newman, and the Reading of

Victorian Press,

New Brunswi, 1986.

J. GUVINLOCK, Excellence in Public Intelligence, New York, 1986. G. SCARRE, Logic Dordret, 1989.

Discourse: J. S. Mill, J. Dewey and Social

and Reality in the Philosophy of John Stuart Mill,

J. SKORUPSKI, John Stuart Mill, London, 1989. W. DONNER, Philosophy,

The

Liberal

Self:

John

Stuart

Mill’s

Moral

ad

Political

Ithaca (NY), 1991.

J. SKORUPSKI (a cura di), John Stuart Mill (saggi di autori vari con ricca e aggiornata bibliografia), Cambridge University Press, Cambridge, in corso di stampa [1996]. Ulteriori indicazioni bibliografie, e spunti di analisi sull’accoglienza del pensiero di Mill, documentata soprauo in moltissimi articoli di rivista, possono trovarsi specialmente nel volume citato di G. Frongia, dedicato tra l’altro all’esame del pensiero logico di Mill; utili indicazioni ane nel volume di S. POGGI, Introduzione al Positivismo, Laterza, Roma-Bari, 1987 e

in quello di M. DI FRANCESCO, Parlare riferimento, Unicopli, Milano, 1986.

di oggetti. Teorie del senso e del

SISTEMA DI LOGICA DEDUTTIVA E INDUTTIVA

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE esto libro non ha alcuna pretesa di dare al mondo una nuova teoria delle operazioni dell’intelleo. I suoi dirii a e gli si presti aenzione — ammesso e ne possegga — sono fondati sul fao e è un tentativo, non già di sostituire, ma di incorporare e di sistematizzare, le migliori idee e siano state pubblicate su quest’argomento dagli scriori di cose teorie, o a cui si siano conformati i pensatori più rigorosi nelle loro ricere scientifie. Per cementare insieme gli sparsi frammenti di un argomento e fino ad oggi non è mai stato traato come un tuo unico; per armonizzare le parti vere di teorie discordanti fornendo le connessioni conceuali necessarie a collegarle e sbrogliandole dagli errori di cui sono sempre più o meno intessute, è necessaria una considerevole quantità di speculazione originale. Ad altra originalità quest’opera non pretende. Allo stato auale della cultura scientifica ci sarebbero fortissime presunzioni contro iunque s’immaginasse di aver rivoluzionato la teoria della ricerca della verità, o di aver aggiunto quale processo fondamentalmente nuovo alla pratica di essa. L’unico miglioramento, e rimane da apportare nei metodi del filosofare (e l’autore crede e tali metodi abbiano molto bisogno di essere migliorati), può consistere soltanto nel compiere in modo più sistematico e rigoroso operazioni con le quali, almeno nella loro forma elementare, l’intelleo dell’uomo è già familiarizzato nell’uno o nell’altro dei suoi impieghi. Nella parte dell’opera e traa del ragionamento deduivo l’autore non ha ritenuto necessario entrare in quei particolari tecnici e si possono trovare esposti in forma tanto perfea nei traati esistenti della cosiddea Logica delle Scuole. Si vedrà e l’autore non condivide affao il disprezzo e molti filosofi moderni nutrono per l’arte sillogistica, ane se la teoria scientifica, su cui solitamente si basa la difesa di quest’arte, gli appare erronea: e il punto di vista, da lui suggerito, sulla natura e sulle funzioni del sillogismo, potrà forse offrire i mezzi per conciliare i princìpi di quell’arte con tuo ciò e vi è di ben fondato nelle dorine e nelle obiezioni dei suoi oppositori. La stessa sobrietà di particolari non si poteva invece rispeare nel primo Libro, sui nomi e sulle proposizioni, peré molti utili princìpi e molte utili distinzioni e erano contenuti nella vecia logica, sono stati gradualmente

abbandonati negli scrii di coloro e l’hanno insegnata più tardi: a noi è sembrato opportuno il riiamarli in vita riformando e razionalizzando i fondamenti filosofici sui quali riposavano. Di conseguenza, i primi capitoli di questo Libro preliminare appariranno, ad alcuni leori, inutilmente elementari e scolastici. Ma coloro e sanno in quale oscurità la natura della nostra conoscenza e dei processi mediante i quali la si consegue è spesso tenuta immersa da una concezione confusa del significato delle differenti classi di parole e di asserzioni, non considereranno queste discussioni né inutili né irrilevanti per gli argomenti presi in esame nei Libri successivi. Per quanto riguarda l’induzione, occorreva assolvere il compito della generalizzazione dei metodi per la ricerca della verità e per la valutazione delle prove, metodi grazie ai quali, nelle varie scienze, il patrimonio della conoscenza umana si è accresciuto di tante leggi di natura importanti e recondite. Che questo non sia un compito esente da difficoltà si può desumere dal fao e, ane in epoca recentissima, scriori eminenti (tra i quali sarà sufficiente ricordare l’arcivescovo Whately1 e l’autore di un celebre articolo su Bacone comparso sulla «Edinburgh Review»2) non hanno esitato a diiararlo impossibilea. L’autore si è sforzato di combaere la loro teoria nella stessa maniera in cui Diogene confutava i ragionamenti sceici contro la possibilità del moto, e cioè ricordando e la sua argomentazione sarebbe stata egualmente conclusiva ane se, personalmente, non fosse riuscito a camminare al di là del perimetro della sua boe3. ale e sia il valore dei risultati e è riuscito a conseguire in questa parte della sua materia, è doveroso riconoscere e per molta parte di essi l’autore è in debito verso pareci traati importanti, in parte storici e in parte filosofici, sui caraeri generali e sui processi della scienza fisica, traati e hanno visto la luce in questi ultimi anni. Nel corso dell’opera egli ha cercato di rendere giustizia a questi traati e ai loro autori: ma poié ha avuto spesso occasione di esprimere divergenze d’opinioni con uno di essi, il door Whewell4, si sente particolarmente obbligato a diiarare, in questo luogo, e senza l’aiuto derivato dai fai e dalle idee contenuti nella History of Inductive Sciences di questo signore, la parte corrispondente di quest’opera probabilmente non sarebbe mai stata scria. L’ultimo Libro è un tentativo di dare un contributo alla soluzione di una questione e il declino delle antie opinioni, e i tumulti e travagliano la società europea nelle sue radici più profonde oggi rendono tanto importante

per gli interessi pratici della vita umana quanto dev’esserlo in ogni epoca per la completezza della nostra conoscenza speculativa: della questione, cioè, se i fenomeni morali e sociali facciano realmente eccezione alla generale certezza e alla generale uniformità del corso della natura, e fino a qual punto i metodi per mezzo dei quali tante leggi del mondo fisico sono state assunte tra le verità irrevocabilmente acquisite e universalmente ammesse, possano essere usati come strumenti per la formazione di un corpo analogo di dorine nella scienza morale e politica. a. Nelle ultime edizioni della sua Logic, l’arcivescovo Whately diiara d’intendere, non già e non si possono enunciare «regole» per l’accertamento delle verità mediante la ricerca induiva, o e tali regole non possano rendere «segnalati servigi»; ma e esse «non possono non essere sempre relativamente vaghe e generali, e tali da non poter essere sistemate in una regolare teoria dimostrativa, simile a quella del sillogismo» (libro IV, cap. IV, par. 3). Egli osserva ane e l’inventare, per questo scopo, un sistema e possa essere «ridoo a forma scientifica», sarebbe un’impresa e rivelerebbe, «in colui, e se l’aspea, più un caraere entusiastico e non un temperamento scientifico» (libro IV, cap. II, par. 4). Comunque, siccome proprio questo è lo scopo esplicito di quella parte della presente opera e traa dell’induzione, le parole riportate nel testo non esagerano affao la differenza di opinione, su quest’argomento, tra me e l’arcivescovo Whately. 1. Riard Whately (1787-1863), logico, teologo ed economista inglese. Fu professore di economia politica ad Oxford e, dal 1831, arcivescovo di Dublino, dove si airò l’opposizione dei protestanti sia per il suo aeggiamento ostile a quello della Chiesa alta, sia per le sue opinioni politie progressiste, sia ancora per il suo interesse e la sua partecipazione ai problemi della parte caolica della popolazione. Scrisse di religione, di politica, di economia, di morale, ma la sua opera più importante sono certamente gli Elements of Logic [Elementi di logica] (1826, 1a ed.; 1850, 9a ed.) e rimasero per molti anni uno dei traati più lei in Inghilterra e contribuirono notevolmente a far rinascere l’interesse per gli studi di logica a quel tempo piuosto spento. 2. Lord omas Babington Macaulay (1800-1859), il famoso storico, saggista e uomo politico inglese, autore, tra l’altro, della celeberrima Storia d’Inghilterra. L’articolo su Bacone Lord Bacon pubblicato nell’«Edinburgh Review» nel luglio del 1837, fu poi ristampato nella raccolta Critical and Historical Essays [Saggi storici e critici] (1843). 3. «Ad un tale e sosteneva e non esiste il movimento, Diogene rispose alzandosi e meendosi a camminare» (DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, VI, 38). Il Diogene citato da Mill è Diogene di Sinope, appartenente alla scuola Cinica (m. nel 323 a. C.), di cui si narra e vivesse in una boe. 4. William Whewell (1794-1866). Scienziato e filosofo inglese; membro della Royal Society dal 1820, fu professore a Cambridge, prima di mineralogia e poi di filosofia morale, dal 1828 al 1855; nel 1842 fu reore della stessa università. Come studioso di filosofia, contribuì all’introduzione, in Inghilterra, della filosofia di Kant. Tra i suoi numerosi scrii scientifici, notevole l’opera Sulle maree; la sua fama di filosofo è affidata alle monumentali opere: History of the Inductive Sciences [Storia delle sciezne induttive] (3 voll., 1837) e Philosophy of the Inductive Sciences [Filosofia delle scienze induttive] (1840), e fu in seguito sviluppata dando luogo a tre volumi separati: The History of Scientific Ideas [La storia delle idee scientifiche], 2 voll. (1858), Novum Organum Renovatum (1858) e Philosophy of Discovery [Filosofia della scoperta] (1860).

PREFAZIONE ALLA TERZA E ALLA QUARTA EDIZIONE Dopo la pubblicazione della seconda edizione sono apparse parecie critie, di caraere più o meno polemico, a quest’opera; e recentemente il door Whewell ha pubblicato una replica a quelle parti del mio libro in cui venivano contestate alcune delle sue opinionia. Ho ripreso in aenta considerazione tui i punti sui quali le mie conclusioni sono state criticate, ma non devo annunciare nessun cambiamento di opinione su cose importanti. Alcune sviste di minore importanza, scoperte da me o dai miei critici, sono state corree, generalmente senza darne notizia; ma dal fao e io abbia cambiato o cancellato un passo non si può concludere e io sia in ogni caso d’accordo con le obiezioni e mi sono state mosse a quel proposito. Spesso l’ho fao solo peré il passo non rimanesse lì, come un ostacolo in cui inciampare, quando la quantità di discussioni necessarie a porre le cose nella loro vera luce sarebbe stata di gran lunga superiore a quanto non si confacesse all’occasione. A parecie delle obiezioni e mi sono state rivolte ho pensato e fosse utile rispondere abbastanza minuziosamente; non per amore della polemica, ma peré quella era l’occasione favorevole per proporre al leore, in maniera più iara e più completa, le mie ragioni. Su questi argomenti, la verità è militante, e può solo essere stabilita per mezzo d’un conflio. Fino a quando ciascuna può perorare la propria causa, le opinioni più opposte possono far sfoggio di prove plausibili; ma solo dopo e si sia ascoltato e confrontato quello e ciascuna di esse ha da dire contro l’altra, e quello e l’altra può invocare a propria difesa, sarà possibile stabilire quale di esse sia nel giusto. Ane le critie da cui maggiormente dissento mi sono state di grande utilità, peré mi hanno mostrato in quali luoghi l’esposizione avesse maggiormente bisogno di essere migliorata, o le argomentazioni di essere rafforzate. E sarei stato felicissimo se il libro fosse stato sooposto a una quantità di aaci molto maggiore, peré probabilmente in tal caso mi sarebbe stato possibile migliorarlo ancor più di quanto credo di aver fao ora.

a. E e ora forma un capitolo del suo volume sulla Filosofia della scoperta. (Si traa dell’articolo «Of Induction, with Special Reference to Mr. J. S. Mill’s System of Logic» [Sull’induzione, con speciale riferimento al Sistema di logica di J. S. Mill] (1849), ristampato come capitolo XXII di On the Philosophy of Discovery [1860]).

PREFAZIONE ALL’OTTAVA EDIZIONE Nelle edizioni successive, è continuato lo sforzo di migliorare quest’opera con aggiunte e correzioni suggerite dalle critie altrui, o dalla mia riflessione. Le aggiunte e le correzioni della presente edizione (l’oava) — aggiunte e correzioni e non sono molto notevoli — sono state suggerite più e altro dalla Logic del professor Bain1 libro di molto merito e di molto valore. La concezione e il signor Bain ha della scienza è sostanzialmente quella stessa e è stata faa valere in questo traato, e paragonate ai punti d’accordo le differenze di opinione sono poe e inessenziali. Il professor Bain non solo ha arricito l’esposizione con molte applicazioni e con molti particolari illustrativi, ma vi ha aggiunto una discussione minuziosa e pregevolissima dei princìpi logici e possono essere applicati, in modo speciale, a ciascuna delle scienze; compito, questo, per il quale il caraere enciclopedico della sua cultura lo rendeva particolarmente qualificato. In parecie occasioni ho fao uso della sua esposizione per migliorare la mia, adoando, e occasionalmente contestando, i materiali contenuti nel suo traato. La più lunga delle aggiunte si trova nel capitolo sulla causazione, ed è una discussione sulla questione seguente: fino a e punto, ammesso e lo esiga, il modo e si adoa ordinariamente per formulare la legge di causa e di effeo esiga modificazioni, per adaare questa formulazione alla nuova dorina della conservazione della forza: punto, questo, e è stato traato in modo più completo ed elaborato nell’opera del signor Bain. 1. Alexander Bain (1818-1903), filosofo, scozzese, amico e seguace di Mill, collaboratore, dal 1840, della Westminster Review. Professore di logica all’Università di Aberdeen dal 1860 al 1880, fu due volte eleo reore della stessa università (1881 e 1884). Nel 1870 fondò la rivista «Mind». Oltre alla Logic [Logica] in 2 volumi (1870), ricordiamo, tra le sue opere principali, The senses and the Intellect [I sensi a a e l’intelletto] (1855, 4 ed., 1894), The Emotions and the Will [Le emozioni e la volontà] (1859, 4 ed., 1899), Mind and Body: The Theory of Their Relations [Mente e corpo: Teoria delle loro relazioni] (1873, 5a ed., 1876), James Mill: A Biography [James Mill: Biografia] (1882), John Stuart Mill: A Criticism, with Personal Recollections [J. S. Mill: critiche e ricordi personali] (1882).

INTRODUZIONE 1. Tra i modi e i diversi autori hanno adoato per definire la logica regna una diversità tanto grande quanto quella e si riscontra tra i modi in cui ne traano i deagli. Una cosa del genere, del resto, possiamo naturalmente aspearcela di qualsiasi disciplina in cui gli autori si siano serviti del medesimo linguaggio come mezzo per meere in circolazione idee differenti. Insieme con la logica, ane l’etica e la giurisprudenza vanno soggee alla medesima osservazione. asi tui gli autori hanno assunto un punto di vista differente a proposito di alcuni dei particolari e comunemente si ritengono compresi in questi rami della conoscenza, cosicé ciascuno ha formulato la propria definizione in modo da indicare in anticipo quali siano i suoi particolari punti di vista e, quale volta, in modo da volgere a proprio favore le questioni controverse. esta diversità non è tanto un male di cui lamentarsi, quanto piuosto un risultato inevitabile e, in certa misura, proprio dello stato imperfeo in cui versano queste scienze. Fin quando non c’è accordo sulla cosa stessa non ci si deve aspeare e ci sia accordo sulla sua definizione. Definire significa scegliere, da tue le proprietà di una cosa, quelle e si dovranno intendere come designate e diiarate dal suo nome; e prima e siamo in grado di determinare quali di queste proprietà siano le più adae ad essere scelte per questo scopo, le proprietà stesse ci devono essere ben note. Di conseguenza, nel caso di un aggregato così complesso di particolari come quelli compresi in tuo ciò e si può iamare scienza, raramente la definizione da cui prendiamo le mosse sarà quella e si rivelerà come la più appropriata quando avremo oenuto una conoscenza più estesa dell’argomento. Fin quando non conosceremo i particolari in se stessi, non potremo decidere quale sia il modo più correo e più conciso per abbracciarli tui in una descrizione generale. Solo dopo e si ebbe raggiunta una conoscenza direa estesa ed accurata dei particolari dei fenomeni imici fu possibile formulare una definizione razionale della imica; e la definizione della scienza della vita e dell’organizzazione è ancora oggeo di controversia. Fintanto e le scienze sono imperfee, le definizioni devono necessariamente partecipare di questa loro imperfezione; e se le scienze progrediscono dovranno progredire ane le loro definizioni. Pertanto, tuo ciò e possiamo aspearci da una definizione posta all’inizio della traazione di un argomento, è e delimiti lo scopo delle nostre ricere: e la definizione della

scienza della logica, e sto per offrire, non pretende di essere nient’altro se non una formulazione del problema e mi sono proposto e del quale questo libro costituisce un tentativo di risoluzione. In quanto definizione della logica, il leore è perfeamente libero di respingerla; in ogni caso, però, si traa pur sempre di una definizione correa dell’argomento di questi volumi. 2. La logica è stata spesso iamata l’arte del ragionamento. Un autorea, e ha fao più di ogni altra persona per riportare questo studio al livello dal quale era decaduto nella stima della classe colta del nostro Paese, ha adoato la definizione suddea, con una correzione: ha definito la logica sia come la scienza sia come l’arte del ragionamento, intendendo, col primo termine, l’analisi del processo mentale e ha luogo ogni volta e ragioniamo, e con il secondo le regole, fondate su quell’analisi, per portare correamente a termine il processo. Non può esserci alcun dubbio sulla proprietà di questa correzione. Una giusta comprensione del processo mentale, delle condizioni da cui dipende e dei passi in cui consiste, è l’unica base su cui possa mai fondarsi un sistema di regole adao a dirigere il processo. L’arte presuppone necessariamente la conoscenza; sempre, tranne e nella sua infanzia, l’arte presuppone la conoscenza scientifica: e se ogni arte non porta il nome di scienza, ciò dipende esclusivamente dal fao e per formare la base di una singola arte sono spesso necessarie parecie scienze. Tanto complicate sono le condizioni e governano la nostra azione pratica, e per meerci in grado di fare una sola cosa è spesso indispensabile conoscere la natura e le proprietà di molte cose. La logica, dunque, comprende sia la scienza del ragionamento, sia un’arte, fondata su quella scienza. Ma come la maggior parte degli altri termini scientifici di uso popolare, la parola «ragionamento» è a sua volta ricca di ambiguità. In una delle sue accezioni, «ragionamento» significa sillogismo, ossia quel modo d’inferenza e si può iamare (con accuratezza sufficiente per il nostro scopo auale) conclusione dal generale al particolare. In un altro dei suoi sensi «ragionare» significa semplicemente inferire una qualunque asserzione da asserzioni già ammesse: e in questo senso l’induzione ha tanto dirio ad essere iamata «ragionamento» quanto ne hanno le dimostrazioni della geometria. Gli autori di traati di logica hanno generalmente preferito la prima accezione del termine: la seconda e più estesa significazione è quella in cui

intendo usarlo io. Lo faccio in virtù del dirio, e rivendico per ogni autore, di dare alla sua materia qualunque definizione provvisoria gli piaccia dare. Credo però e, man mano e procederemo, si scopriranno ragioni sufficienti peré questa non sia solo la definizione provvisoria, ma quella definitiva. In ogni caso, essa non implica nessun cambiamento arbitrario nel significato della parola; infai, credo e la significazione più ampia si accordi con l’uso generale della nostra lingua meglio di quanto non vi si accordi quella più ristrea. 3. Ma «ragionamento», ane nel senso più ampio e la parola può assumere, non sembra abbracciare tuo quello e è compreso nella concezione migliore, o, per lo meno, più corrente, dello scopo e del territorio della nostra scienza. L’impiego della parola «logica» per denotare la teoria dell’argomentazione è derivato dai logici aristotelici, o, come vengono comunemente iamati, scolastici. Tuavia, ane per loro l’argomentazione era oggeo soltanto della terza parte dei loro traati sistematici: le due prime parti traavano, rispeivamente, dei termini e delle proposizioni. Soo l’uno o l’altro di questi due titoli erano comprese ane la definizione e la divisione. Anzi alcuni introducevano diiaratamente questi argomenti preliminari solo in considerazione della loro connessione con il ragionamento, e come preparazione alla dorina e alle regole del sillogismo. Tuavia li traavano con minuzia maggiore, e si soffermavano su di essi più a lungo, di quanto non fosse riiesto da quel solo scopo. Autori di logica più recenti hanno generalmente inteso il termine come fu spiegato dal valente autore della Logica di Port Royal1 e cioè come equivalente dell’Arte del pensare. Né quest’accezione è confinata ai libri e alle ricere scientifie: ane nella conversazione comune le idee connesse con la parola «logica» comprendono almeno le nozioni di precisione di linguaggio e di accuratezza di classificazione; e forse si sente più spesso parlare di ordine logico o di espressioni logicamente ben definite, e non di conclusioni dedoe logicamente dalle premesse. Inoltre, spesso si dice e un tizio è un forte logico, o è un uomo dotato di logica ferrea, non per il rigore delle sue deduzioni, ma per la sua grande capacità di ben disporre di molte premesse: peré le proposizioni generali riieste per spiegare una difficoltà o per confutare un sofisma lo soccorrono prontamente e in gran copia: peré, in breve, oltre a possedere un’estesa conoscenza, è in grado di ben dominarla e di bene usarla nel corso di un’argomentazione. indi, sia e ci

conformiamo alla pratica di coloro e ne hanno fao oggeo di studio particolare, sia e ci conformiamo all’uso degli autori popolari e del discorso comune, il territorio della logica abbraccerà parecie operazioni dell’intelleo e di solito non si fanno rientrare nel significato dei termini «ragionamento» e «argomentazione». este varie operazioni si potrebbero far rientrare nell’àmbito della scienza, e, per di più, si oerebbe il vantaggio di una definizione molto semplice, se con un ampliamento del significato del termine (ampliamento e del resto è sanzionato da alte autorità) dovessimo definire la logica come la scienza e traa delle operazioni dell’intelleo umano nel perseguimento della verità. Infai, la denominazione, la classificazione, la definizione e tue le altre operazioni sulle quali la logica ha sempre reclamato la propria giurisdizione, sono sostanzialmente sussidiarie a questo fine ultimo. Possono essere tue considerate come espedienti per meere in grado una persona di conoscere le verità e gli sono necessarie, e di conoscerle nel preciso momento in cui gli sono necessarie. È bensì vero e queste operazioni servono ane ad altri scopi, per esempio allo scopo di comunicare ad altri la nostra conoscenza; ma, viste in relazione con questo scopo, non sono mai state considerate come appartenenti alla giurisdizione del logico. L’unico obieivo della logica è la guida dei nostri pensieri: la comunicazione di questi pensieri ad altre persone rientra nell’ambito di considerazione proprio della retorica, nel senso lato in cui quest’arte è stata concepita dagli antii, o nell’arte, ancor più ampia, dell’educazione. La logica prende in considerazione le nostre operazioni intelleuali solo in quanto hanno per scopo la nostra propria conoscenza e il dominio di questa conoscenza per i nostri usi propri. Se nell’universo non ci fosse e un solo essere razionale, quell’essere razionale potrebbe essere un logico perfeo; e la scienza e l’arte della logica sarebbero, per quella sola persona, le stesse e per l’intiera specie umana. 4. Ma se la definizione e abbiamo esaminato in precedenza comprendeva troppo poco, quella e è stata proposta ora presenta lo svantaggio opposto: quello di comprendere troppo. Le verità ci sono note in due modi: alcune ci sono note direamente e di per se stesse; alcune altre ci sono note araverso la mediazione di altre verità. Le prime sono oggeo d’intuizione o di coscienzab; le seconde sono oggeo d’inferenza. Le verità note per intuizione sono le premesse

originarie, da cui vengono inferite tue le altre. Poié l’assenso e prestiamo alla conclusione è fondato sulla verità delle premesse, per mezzo del ragionamento non potremmo mai arrivare a nessuna conoscenza se non ci fosse qualcosa e può essere nota prima di ogni ragionamento. Esempi di verità e ci sono note peré ne siamo consapevoli immediatamente sono le nostre sensazioni corporee e i nostri sentimenti mentali. Conosco direamente, e per mia conoscenza personale, e ieri ero irritato e e oggi ho fame. Esempi di verità e conosciamo soltanto per inferenza sono gli accadimenti e hanno avuto luogo mentre eravamo assenti, gli eventi registrati dalla storia, o i teoremi della matematica. I primi due li inferiamo dalle testimonianze addoe o dalle tracce di quegli eventi passati e esistono ancor oggi; gli altri dalle premesse enunciate nei libri di geometria soo il nome di definizioni e di assiomi. Tuo ciò e siamo capaci di conoscere deve necessariamente appartenere all’una o all’altra di queste due classi: deve necessariamente rientrare nel novero dei dati primitivi o delle conclusioni e se ne possono trarre. Con i dati originali, o premesse fondamentali della nostra conoscenza, con il loro numero e la loro natura; con il modo in cui li oeniamo o con i criteri per mezzo dei quali possiamo distinguerli, la logica, nel senso in cui io concepisco questa scienza, non ha nulla da fare, almeno direamente. Tali questioni, in parte non sono affao oggeo di scienza, in parte sono oggeo di una scienza molto differente. Tuo quello e ci è noto peré ne abbiamo consapevolezza, ci è noto oltre ogni possibilità di dubbio. Non si può non essere sicuri di vedere o di sentire ciò e si vede o si sente, nel corpo o nella mente. Per stabilire tali verità non c’è bisogno di nessuna scienza; né le regole dell’arte possono rendere la conoscenza e ne abbiamo più certa di quanto non lo sia per se stessa. Per questa parte della nostra conoscenza non c’è logica. Ma può darsi e c’immaginiamo di vedere o di sentire cose e, in realtà, inferiamo. Può darsi e ci sembri di aver appreso intuitivamente una verità, o una presunta verità, e in realtà è il risultato di un’inferenza rapidissima. Da molto tempo pensatori delle scuole più opposte si sono trovati d’accordo sul fao e quest’errore viene effeivamente commesso in un caso così familiare come quello della visione. Non c’è niente di cui ci sembri di essere più direamente consapevoli e della distanza tra noi e un certo oggeo; eppure da molto tempo si è accertato e nel migliore dei casi ciò e l’ocio percepisce non è niente di più e una superficie variamente

colorata; e quando immaginiamo di vedere la distanza, quello e vediamo in realtà sono certe variazioni delle dimensioni apparenti, e certe gradazioni dell’impallidimento dei colori; e la nostra stima della distanza di quell’oggeo da noi è il risultato, in parte, di una rapida inferenza dalle sensazioni muscolari e accompagnano l’aggiustamento della distanza focale dell’ocio a oggei variamente distanti da noi, e in parte da un confronto (fao con tanta rapidità e non siamo consapevoli di farlo) tra le dimensioni e il colore dell’oggeo come appaiono in quell’istante, e le dimensioni e il colore del medesimo oggeo, o di oggei simili, quali ci apparivano quando erano a portata di mano o quando il loro grado di distanza era noto in base ad altre prove. La percezione della distanza ad opera dell’ocio, percezione e sembra così simile all’intuizione, è dunque, in realtà, un’inferenza fondata sull’esperienza; e anzi, è un’inferenza e impariamo a trarre, e e traiamo con sempre maggiore correezza, nella misura in cui la nostra esperienza s’accresce, sebbene nei casi a noi familiari avvenga con tanta rapidità da sembrare esaamente sul medesimo piano di quelle percezioni visive e sono realmente intuitive: le nostre percezioni di colorec. Pertanto, parte essenziale della scienza e espone le operazioni e l’intelleo umano compie nel perseguire la verità, è costituita dalla ricerca: quali sono i fai e sono oggeo d’intuizione, o di coscienza, e quali sono i fai e invece ci limitiamo a inferire? Ma questa ricerca non è mai stata considerata come facente parte della logica. Essa trova posto in un seore del sapere diverso e completamente distinto, a cui compete, in modo più particolare, il nome di metafisica: il seore, cioè, della filosofia della mente e tenta di stabilire quale parte dell’arredamento della mente le appartenga originariamente, e quale parte sia invece costruita a partire dai materiali e le vengono forniti dall’esterno. A questa scienza pertiene la grossa e dibautissima questione sull’esistenza della materia, sull’esistenza dello spirito e sulla distinzione tra spirito e materia, sulla realtà del tempo e dello spazio come cose esterne alla mente e distinte dagli oggei e si dicono esistere in essi. Infai, allo stato auale della discussione di questi argomenti, si ammee quasi universalmente e l’esistenza della materia e dello spirito, dello spazio e del tempo non è, per sua natura, susceibile di essere provata, e e se qualcosa se ne conosce lo si deve necessariamente conoscere per intuizione immediata. Alla medesima scienza appartengono le ricere sulla natura della Concezione, della Percezione, della Memoria e

della Credenza; e sono tue operazioni e l’intelleo compie nel perseguire la verità, ma con le quali, in quanto fenomeni della mente, il logico come tale non ha nulla da fare, così come non ha nulla da fare con la possibilità o l’impossibilità di analizzarle in fenomeni più semplici. In questa scienza si devono ane far rientrare le questioni seguenti e tue le questioni analoghe: In quale misura le nostre facoltà intelleuali e le nostre emozioni sono innate, e in quale misura sono il risultato dell’associazione? Dio e il dovere sono realtà la cui esistenza ci è manifesta a priori per la costituzione della nostra facoltà razionale? Oppure le idee e ne abbiamo sono nozioni acquisite, la cui origine siamo in grado di rintracciare e di spiegare? E la realtà degli oggei in sé è una questione, non di coscienza o di intuizione, ma di prove e di ragionamento? La giurisdizione della logica dev’essere ristrea a quella parte della nostra conoscenza e consiste di inferenze da verità già note in precedenza, siano questi dati antecedenti proposizioni generali, siano osservazioni e percezioni particolari. La logica non è la scienza della credenza, ma della dimostrazione [proof] o prova [evidence]. Nella misura in cui la credenza professa di fondarsi sulla prova, l’ufficio della logica è quello di fornire un criterio per stabilire se la credenza sia, o no, ben fondata. Con le pretese e ogni proposizione accampa ad essere creduta in base alle prove fornite dalla coscienza, cioè senza prove nel senso autentico della parola, la logica non ha nulla da fare. 5. Poié la parte di gran lunga maggiore della nostra conoscenza, sia delle verità generali sia dei fai particolari, è incontestabilmente una questione d’inferenza, la quasi totalità, non soltanto della scienza, ma ane della condoa umana, può essere ricondoa soo il dominio della logica. È stato deo e il trarre inferenze è il grosso affare della vita. In ogni giorno, ad ogni ora, in ogni momento, ognuno di noi ha bisogno di accertare fai e non ha osservato direamente; e non per lo scopo generale di aggiungere altre conoscenze alla sua riserva di conoscenza, ma peré i fai stessi sono importanti per i suoi interessi o per le sue occupazioni. Il mestiere del magistrato, del comandante militare, del navigatore, del medico, dell’agricoltore, consiste, semplicemente, nel giudicare le prove e nell’agire di conseguenza. Tui costoro devono accertare certi fai per poter poi applicare certe regole, o escogitate da loro stessi o prescrie da altri, per la loro guida; e secondo e lo facciano bene o lo facciano male, adempiranno

bene o adempiranno male ai doveri delle loro varie professioni. È la sola occupazione in cui la mente non cessi mai di essere impegnata, ed è l’oggeo, non già della logica, ma della conoscenza in generale. Comunque, ane se il campo della logica ha la stessa estensione del campo della conoscenza, la logica non è la stessa cosa e la conoscenza. La logica è il giudice e l’arbitro comune di tue le ricere particolari. Non si preoccupa di trovare prove, ma di stabilire se siano state trovate. La logica non osserva né inventa, e neane scopre: la logica giudica. Non rientra negli affari della logica l’informare il irurgo su quali siano i sintomi d’una morte violenta. Il irurgo deve impararlo dalla propria esperienza e dalla propria osservazione, o da quelle di altri, e l’hanno preceduto nelle sue ricere particolari. Ma la logica giudica se quelle osservazioni e quell’esperienza siano sufficienti a giustificare le regole, e se le prove siano sufficienti a giustificare la sua condoa. Non gli fornisce prove, ma gli insegna e cosa le renda tali, e come le debba giudicare. Non gl’insegna e un certo fao particolare prova un certo altro fao particolare, ma gli fa vedere a quali condizioni debbano conformarsi certi fai, per poter provare altri fai. Il decidere se un fao soddisfi queste condizioni, o se si possano trovare fai e le soddisfano in un caso dato, è di pertinenza esclusiva di quell’arte o scienza particolare, o della nostra conoscenza di quel particolare oggeo. Proprio in questo senso la logica è, come l’hanno iamata tanto efficacemente gli Scolastici e Bacone, ars artium: la scienza della stessa scienza. Tua la scienza consiste di dati e di conclusioni trae da quei dati, di prove e di ciò e esse provano; ora, la logica fa vedere quali relazioni debbano sussistere tra i dati e tuo ciò e se ne può concludere; tra la prova e tuo ciò e può provare. Pertanto, se di tali relazioni indispensabili ne esistono, e se possono essere determinate con precisione, ogni ramo particolare della scienza, e così pure ogni individuo nella guida della propria condoa, è tenuto a conformarsi a quelle relazioni soo pena di compiere inferenze false: di trarre conclusioni e non sono fondate nella realtà delle cose. alsiasi cosa e sia mai stata conclusa correamente, qualsiasi conoscenza e sia stata acquisita altrimenti e per intuizione immediata, dipende dal rispeo di quelle leggi e spea alla logica indagare. Se le conclusioni sono giuste e la conoscenza è autentica, quelle leggi, fossero o no conosciute, sono state osservate.

6. Per questa ragione non occorre cercare più oltre una soluzione del problema, e è stato sollevato tanto spesso, circa l’utilità della logica. Se esiste (o può esistere) una scienza della logica, allora non può non essere utile. Se ci sono regole cui ogni mente, se ne accorga o no, si conforma in tui i casi in cui inferisce correamente, sembra e ci sia poco da discutere se sia più probabile e una persona osservi quelle regole quando le conosce, e non quando non è familiarizzata con esse. Indubbiamente, una scienza può essere portata a un certo stadio non trascurabile di progresso senza applicare nessun’altra logica se non quella e tui gli uomini e si dicono dotati di un sano intelleo acquisiscono empiricamente nel corso dei loro studi. Gli uomini hanno giudicato, e spesso correamente, delle prove, prima ancora e la logica fosse diventata una scienza, altrimenti non sarebbero mai stati capaci di renderla tale. E gli uomini hanno eseguito grandi opere meccanie prima di capire le leggi della meccanica. Ma ci sono limiti, sia a ciò e i meccanici possono fare senza conoscere le leggi della meccanica, sia a ciò e i pensatori possono fare senza conoscere i princìpi della logica. Alcuni individui, o peré dotati di un genio straordinario, o peré hanno acquisito accidentalmente un buon numero di abitudini intelleuali, possono, ane senza princìpi, lavorare nel medesimo modo o quasi nel medesimo modo in cui avrebbero lavorato se fossero stati in possesso di princìpi. Ma il grosso dell’umanità ha bisogno di comprendere la teoria di quello e sta facendo, oppure e qualcuno, e ha compreso la teoria, glie ne formuli le regole. Nel cammino dai problemi più facili ai più difficili, ogni passo in avanti compiuto dalla scienza è stato solitamente preceduto o accompagnato, come da una condizione necessaria, da un miglioramento corrispondente nelle nozioni e nei princìpi logici ammessi dai pensatori più avanzati. E se parecie tra le scienze più difficili sono ancora in uno stato di tale incompletezza; se non soltanto si è provato così poco, ma neane intorno a quel poco e sembra provato le dispute non sono ancora terminate, la ragione di ciò va forse ricercata nel fao e le nozioni di logica in possesso degli uomini non hanno ancora raggiunto quel grado di estensione e di accuratezza necessario per la valutazione delle prove proprie di quei particolari seori della conoscenza. 7. Dunque, la logica è la scienza delle operazioni dell’intelleo e servono da strumenti per la valutazione delle prove: sia dello stesso processo del progredire da verità note a verità ignote, sia di tue le altre operazioni

intelleuali, in quanto sono ausiliarie di questo processo. La logica pertanto comprende l’operazione del denominare, peré il linguaggio è tanto uno strumento del pensiero quanto un mezzo per comunicare i nostri pensieri. La logica comprende ane la definizione e la classificazione. Infai, l’utilità di queste operazioni (non considerando altre menti e la nostra), consiste in questo: e servono non soltanto a rendere stabili e facilmente accessibili alla memoria le nostre prove e le conclusioni e ne traiamo, ma ane ad ordinare i fai e in qualsiasi momento possiamo trovarci impegnati a indagare, in modo tale da meerci in grado di renderci conto con maggiore iarezza di quali prove disponiamo, e di giudicare con minor risio d’errore se tali prove siano sufficienti. este, pertanto, sono operazioni e rappresentano strumenti particolarmente efficaci per la valutazione delle prove, e come tali rientrano soo il dominio della logica. Ci sono ane altri processi, più elementari, implicati in tuo il pensare, quali la concezione, la memoria, e simili; ma di questi non è necessario e la logica prenda una cognizione particolare, dal momento e non hanno nessuna connessione speciale con il problema della prova, se non nel senso e questo, come tui gli altri problemi posti all’intelleo, li presuppone. Il nostro scopo sarà dunque quello di tentare un’analisi correa del processo intelleuale iamato ragionamento o inferenza e di quelle altre operazioni mentali e hanno lo scopo di facilitarlo: e ane, in base a quest’analisi e pari passu con essa, di raccogliere o di formulare un insieme di regole o di canoni per controllare se una certa prova data sia sufficiente a provare una certa proposizione data. Per quanto riguarda la prima parte di quest’impresa, io non tenterò di scomporre queste operazioni mentali nei loro elementi ultimi. È sufficiente e l’analisi, fin dove arriva, sia correa, ed è sufficiente e arrivi fin dov’è utile e arrivi per gli scopi pratici della logica considerata come un’arte. La scomposizione di un fenomeno complicato nelle parti e lo compongono non è simile a una catena connessa e interdipendente dei passi d’una prova. Se si spezza un anello di un’argomentazione, il tuo va a catafascio; invece un passo in avanti di un’analisi starà in piedi, e avrà un valore indipendente, ane se non riusciremo mai a compierne un secondo. I risultati e sono stati oenuti dalla imica analitica non sarebbero meno validi se si dovesse scoprire e tue quelle e ora iamiamo sostanze semplici sono, in realtà, composti. In ogni modo, tue le cose sono composte di questi elementi; se poi gli elementi stessi ammeano una scomposizione è una ricerca

importante, e però non tocca la certezza raggiunta dalla scienza fino a quel punto. Di conseguenza tenterò di analizzare il processo dell’inferenza e i processi subordinati all’inferenza, soltanto fin dove può essere indispensabile farlo per accertare la differenza tra un’esecuzione correa e un’esecuzione scorrea di quei processi. La ragione per limitare così il nostro piano è evidente. Gli oppositori della logica hanno deo e non s’impara ad usare i muscoli studiandone l’anatomia. La questione non è stata formulata in modo troppo leale. Infai, se uno qualsiasi dei nostri muscoli fosse viziato da quale debolezza locale o da quale difeo fisico, la conoscenza della loro anatomia potrebbe essere la cosa più necessaria per la riuscita di una cura. Ma saremmo giustamente esposti alla critica implicita nell’obiezione in parola se, in un traato di logica, dovessimo spingere l’analisi del processo del ragionamento oltre il punto in cui essa rende visibili le inesaezze e vi si possono essere insinuate tacitamente. Per sviluppare l’illustrazione di prima: imparando gli esercizi fisici noi analizziamo, e dobbiamo analizzare, i movimenti del corpo fino al punto in cui ciò è necessario per distinguere i movimenti e dobbiamo compiere da quelli e non dobbiamo compiere. Nella stessa misura, e non oltre, è necessario e il logico analizzi i processi mentali di cui si occupa la logica. La logica non ha nessun interesse a spingere l’analisi oltre il punto in cui diventa evidente se, in un dato caso, le operazioni siano state compiute nel modo giusto o nel modo sbagliato. Nella stessa maniera la scienza della musica ci insegna a discriminare tra le note musicali e a conoscere le combinazioni di cui esse sono susceibili, ma non c’insegna quale numero di vibrazioni al secondo corrisponda a ciascuna nota: la qual cosa, pur essendo utile a sapersi, è utile per scopi completamente differenti. L’estensione della logica in quanto scienza è determinata dalle sue necessità in quanto arte. Tuo ciò di cui non ha bisogno per i suoi scopi pratici, la logica lo lascia alla scienza più ampia, e si può dire corrisponda, non già a una quale arte in particolare, ma all’arte in generale: alla scienza e traa della costituzione delle facoltà umane e cui spea di decidere quali siano i fai fondamentali e quali i fai risolubili in altri fai, sia per quanto riguarda quella parte della nostra natura mentale e ha da fare con la logica, sia per quanto riguarda tue le altre parti della nostra natura. E, secondo la mia convinzione, si troverà e la maggior parte delle conclusioni a cui si arriva in quest’opera non hanno nessuna connessione necessaria con l’una o l’altra teoria particolare a proposito di

quest’analisi ulteriore. La logica è il terreno comune su cui possono incontrarsi e darsi la mano i partigiani di Hartley2 e di Reid3, di Loe e di Kant. Senza dubbio potranno sorgere occasionalmente controversie su questa o quell’opinione particolare e isolata di questo o di quel pensatore, dal momento e tui costoro, oltre a essere logici, erano ane metafisici; ma il terreno su cui si sono combaute le loro baaglie più grosse giace oltre i confini della nostra scienza. Non si può, è vero, pretendere e i princìpi logici siano completamente irrilevanti per quelle discussioni più astruse; né è impossibile e i punti di vista e siamo indoi ad assumere circa il problema e la logica si propone abbiano la tendenza a promuovere l’adozione, su tali argomenti tanto controversi, di un’opinione piuosto e di un’altra. Infai, quando tenta di risolvere i suoi propri problemi particolari, la metafisica deve impiegare mezzi la cui validità cade soo la competenza della logica. Senza dubbio, per quanto le è possibile, essa procede semplicemente sulla base di un’interrogazione più rigorosa e più aenta della nostra coscienza, o, per parlare più propriamente, della nostra memoria; e nella misura in cui lo fa non può essere ricondoa alla logica. Ma dovunque questo metodo sia insufficiente a raggiungere il fine delle sue ricere, essa deve procedere, come le altre scienze, per mezzo di prove. Ora, nel momento in cui questa scienza comincia a trarre inferenze dalle prove di cui dispone, la logica diventa il giudice sovrano se le sue inferenze siano ben fondate o quali altre inferenze lo sarebbero. Ciò tuavia non stabilisce, tra logica e metafisica, una relazione più strea di, o diversa da, quella e esiste tra la logica e qualsiasi altra scienza. E io posso affermare in tua coscienza e nessuna proposizione enunciata in quest’opera è stata adoata allo scopo di rafforzare, o facendo un qualsiasi riferimento alla sua capacità di essere usata per rafforzare, opinioni o preconcei appartenenti a questo o a quel seore del sapere o della ricerca sui quali il mondo filosofico è ancora indecisod. a.

L’arcivescovo Whately. b. Uso questi termini indiscriminatamente, peré, per gli scopi e mi propongo, non c’è nessun bisogno di fare distinzione tra di essi. Di solito, però, i metafisici restringono il nome «intuizione» a denotare la conoscenza direa e dovremmo avere delle cose esterne alla nostra mente, e il termine «coscienza» ad indicare la conoscenza e abbiamo dei nostri propri fenomeni mentali. c. Ultimamente quest’importante teoria è stata messa in questione da un autore e gode una meritata reputazione, il signor Samuel Bailey. Io non ritengo, però, e le basi su cui, in quest’ultimo

secolo, essa è stata ammessa come una dorina ormai consolidata, siano state ane solo minimamente scosse dalle obiezioni di questo signore. Ho deo altrove quello e mi sembrava necessario per rispondere alle sue argomentazioni. (Cfr. «Westminster Review», oobre 1842; ristampato in Dissertations and Discussions [Dissertazioni e discussioni], vol. II). d. Il punto di vista assunto nel testo a proposito della definizione e dello scopo della logica si oppone neamente a quello della scuola filosofica e, in Inghilterra, è rappresentata dagli scrii di Sir William Hamilton e dei suoi numerosi allievi. La logica, come la concepisce questa scuola, è «la scienza delle leggi formali del pensiero», definizione, questa, costruita con lo scopo diiarato di escludere, come irrilevante per la logica, tuo ciò e ha da fare con la credenza o con la non-credenza o con la ricerca della verità come tale, e di restringere la scienza a quella limitatissima porzione del suo territorio totale e fa riferimento, non già alle condizioni della verità, ma a quelle della noncontraddiorietà. Ciò e ho creduto utile dire contro questa restrizione del campo della logica è stato deo, piuosto diffusamente, in un’opera a parte, la cui prima edizione risale al 1865, ed intitolata An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy and of the Principal Philosophical Questions discussed in his Writings

[Esame

della filosofia di Sir William Hamilton e delle principali questioni

filosofiche discusse nei suoi scritti].

Per gli scopi del presente traato mi accontento e la giustificazione della maggiore estensione da me accordata al dominio della scienza riposi sul séguito del traato medesimo. Alcune osservazioni sulle relazioni e la logica della non-contraddiorietà ha con la logica della verità, e sul posto e questa parte speciale occupa nel tuo cui appartiene, si troveranno in questo volume (libro II, cap. III, par. 9). 1. La logique ou l’art de penser (1662), uscita dal circolo giansenista di Port Royal. Ne furono autori A. Arnauld e P. Nicole. 2. David Hartley (1705-1757), medico e filosofo inglese, autore di un’opera intitolata Observations on Man, His Frame, His Duty and His Expectations [Osservazioni sull’uomo, la sua costituzione, i suoi doveri, e le sue aspettazioni] (2 voll., 1749) si oppose alla teoria dell’anima come sostanza immateriale e esercita un’influenza sul corpo, e da esso la riceve, contrapponendole la teoria parzialmente derivata dall’Ottica (1704) di Newton, secondo cui gli stimoli sensibili si propagano araverso i nervi per mezzo di vibrazioni, e i processi mentali più complessi — l’immaginazione, la memoria, il ragionamento — non sono altro e fasci o sequenze di impressioni sensibili elementari, ordinate da una legge di associazione. Le sue teorie furono riprese e ampliate da James Mill e formarono la base della scuola associazionistica. 3. omas Reid (1710-1796), filosofo scozzese, fondatore della scuola dea del senso comune. Reid si contrappone allo sceicismo di Hume, tendendo a restaurare e a garantire i princìpi da lui negati: l’esistenza della realtà esterna e la legge di causalità, ricorrendo alla testimonianza del senso comune. Secondo Reid l’oggeo della percezione è la cosa stessa, e la percezione reca con sé la convinzione dell’esistenza effeiva della cosa. La realtà del mondo esterno viene riconosciuta mediante l’ao immediato della percezione. Tra i pensatori influenzati da Reid ci fu William Hamilton, uno dei costanti obieivi polemici di J. S. Mill.

LIBRO PRIMO NOMI E PROPOSIZIONI

«La scolastique, qui produisit dans la logique, comme dans la morale, et dans une partie de la métaphysique, une subtilité, une précision d’idées, dont l’habitude inconnue aux anciens, a contribué plus qu’on croit au progrès de la bonne philosophie». CONDORCET, Vie de Turgota. «Agli scolastici le lingue volgari sono debitrici soprauo di quel tanto di precisione e di soigliezza analitica e posseggono». SIR W. HAMILTON, Discussions in Philosophy. a. «La scolastica, e in logica, in morale e in una parte della metafisica ha prodoo una soigliezza, una precisione d’idee la cui pratica costante era sconosciuta agli antii, ha contribuito più di quanto non si creda al progresso della buona filosofia».

CAPITOLO I. DELLA NECESSITÀ DI COMINCIARE CON UN’ANALISI DEL LINGUAGGIO 1. L’usanza di cominciare i propri traati con alcune osservazioni generali (nella maggioranza dei casi, è vero, piuosto scarne) sui termini e sulle loro varietà, è tanto diffusa tra gli autori di traati di logica, e forse nessuno pretenderà e io, e non faccio altro e seguire l’uso comune, esponga le mie ragioni in modo così scrupoloso come di solito ci si aspea e faccia i da quest’usanza s’allontana. In realtà, quest’usanza è raccomandata da considerazioni e sono fin troppo ovvie peré sia necessario darne una giustificazione formale. La logica è una parte dell’arte del pensare: evidentemente, e per ammissione di tui i filosofi, il linguaggio è uno degli strumenti o ausilii principali del pensiero; ed è incontestabile e qualsiasi imperfezione nello strumento o nel modo d’impiegarlo può, più ancora e in quasi ogni altra arte, confondere e ostacolare il processo e distruggere tue le ragioni di fiducia nei suoi risultati. Per una mente e non sia già da prima versata nel significato e nell’uso correo delle varie specie di parole, il tentar di studiare i metodi del filosofare sarebbe come il tentar di diventare un osservatore astronomico senza aver mai imparato ad accomodare la distanza focale degli strumenti oici, in modo da vedere distintamente. Dal momento e il ragionamento, o inferenza, e costituisce l’oggeo principale della logica, è un’operazione e di solito avviene per mezzo di parole, e nei casi più complicati non può aver luogo in nessun altro modo, quelli e non hanno una visione completa del significato e dello scopo delle parole correranno il risio — un risio e equivale praticamente alla certezza — di ragionare o di inferire scorreamente. E in generale i logici si sono resi conto e, a meno e non eliminino questa fonte d’errore nel suo primissimo stadio, a meno e non gli insegnino a meer via le lenti e deformano l’oggeo e ad usare quelle e sono adae al suo scopo, in modo da aiutarne la visione e non da renderla incerta, il loro scolaro non sarà mai in condizione di coltivare il resto della sua disciplina con prospeive vantaggiose. Proprio per questa ragione una ricerca sul linguaggio, nella misura in cui è indispensabile per salvaguardarci dagli errori cui il

linguaggio dà origine, è stata sempre ritenuta un preliminare necessario allo studio della logica. Ma c’è un’altra ragione, di natura ancor più fondamentale, per cui il primissimo oggeo della considerazione del logico dev’essere costituito dal significato delle parole: senza questo, infai, il logico non può esaminare il significato delle proposizioni. Ora questo è un oggeo e sta proprio sulla soglia della scienza della logica. L’oggeo della logica, come è stato definito nel capitolo introduivo, è quello di accertare in e modo acquisiamo quella parte della nostra conoscenza (di gran lunga la maggiore) e non è intuitiva; e con quale criterio, in faccende non evidenti di per sé, possiamo distinguere tra cose provate e cose non provate, tra ciò e merita e ciò e non merita credenza. Tra le varie questioni e si presentano alle nostre facoltà d’indagine, alcune ricevono una risposta dalla coscienza direa, altre, ammesso e vengano risolte, possono essere risolte soltanto per mezzo di prove. La logica si occupa di queste ultime. Ma prima di indagare sul modo di risolvere le questioni è necessario indagare su quali siano le questioni e si presentano; quali siano concepibili, a quali indagini gli uomini hanno oenuto una risposta o sono stati capaci d’immaginare la possibilità di oenerne una. I mezzi migliori per accertare questo punto sono un esame generale e un’analisi delle proposizioni. 2. La risposta a ogni domanda e è possibile formulare dev’essere contenuta in una proposizione, o asserzione. Tuo ciò e può essere un oggeo di credenza, o ane di non-credenza, messo in parole deve assumere la forma di una proposizione. Tua la verità e tuo l’errore giacciono nelle proposizioni. ella cosa e, con un’applicazione inesaa ma conveniente di un termine astrao, iamiamo verità, significa semplicemente «proposizione vera», e gli errori sono proposizione false. Conoscere il significato di tue le proposizioni possibili, signifierebbe conoscere tue le questioni e si possono sollevare, tue le cose e sono susceibili di essere o credute o di non essere credute. ante specie di ricere si possano proporre; quante specie di giudizi si possano pronunciare, e quante specie di proposizioni significanti sia possibile costruire: queste non sono e forme differenti di una sola e medesima questione. Pertanto, siccome gli oggei di tue le credenze e di tue le ricere si esprimono in proposizioni, un esame sufficiente delle proposizioni e delle loro varietà

c’insegnerà quali questioni gli uomini si siano effeivamente posti da sé e quali cose, in quanto risposte a queste questioni, abbiano effeivamente pensato di aver ragione di credere. Ora basta la prima ociata per vedere e una proposizione si forma meendo insieme due nomi. Secondo la semplice definizione comune — e è sufficiente per il nostro scopo — una proposizione è un discorso in cui si afferma o si nega qualcosa di qualcos’altro. Così, nella proposizione «l’oro è giallo», la qualità «giallo» si afferma della sostanza «oro». Nella proposizione «Franklin non è nato in Inghilterra», il fao espresso dalle parole «nato in Inghilterra» viene negato dell’uomo Franklin. Ogni proposizione consiste di tre parti: il soggeo, il predicato e la copula. Il predicato è il nome e denota ciò e viene affermato o negato. Il soggeo è il nome e denota la persona o la cosa di cui qualcosa viene affermato o negato. La copula è il segno e denota e c’è un’affermazione o una negazione; e così facendo mee in grado l’ascoltatore o il leore di distinguere una proposizione da qualsiasi altra specie di discorso. Così, nella proposizione «La Terra è rotonda», il predicato è la parola «rotonda», e denota la qualità affermata, o (come si dice) predicata. «La Terra», parola e denota l’oggeo di cui quella qualità viene affermata, costituisce il soggeo. La parola «è», e serve come segno di connessione tra il soggeo e il predicato per mostrare e l’uno è affermato dall’altro, si iama la copula. Per il momento lasciamo da parte la copula, di cui parleremo più diffusamente in seguito. Ogni proposizione, dunque, consiste di almeno due nomi, mee assieme due nomi in una maniera particolare. esto è già un primo passo verso ciò e stiamo cercando. Da esso risulta iaramente e per un ao di credenza un solo oggeo non è sufficiente; il più semplice ao di credenza presuppone, o ha qualcosa da fare con, due oggei: al minimo, due nomi; e poié i nomi devono essere nomi di quale cosa, due cose nominabili. Una grossa categoria di pensatori darebbe un taglio alla faccenda dicendo: due idee. Costoro direbbero e il soggeo e il predicato sono entrambi nomi di idee, per esempio, l’idea di oro e l’idea di giallo; e e ciò e ha luogo (o parte di ciò e ha luogo) nell’ao della credenza consiste nel fao e una di queste idee viene portata (così, spesso, ci si esprime) soo l’altra. Ma questo non siamo ancora in condizione di dirlo; se il modo correo di esprimere il fenomeno sia proprio questo, sarà l’oggeo di una considerazione successiva. Il risultato di cui dobbiamo accontentarci per il

momento è e in ogni ao di credenza si prendono in quale modo in considerazione due oggei; e non si può pretendere nessuna credenza, o non si può proporre nessuna questione, e non abbracci due oggei di pensiero distinti (materiali o intelleuali e siano); ciascuno di essi può essere, o può non essere, concepito di per se stesso; ma nessuno di essi può essere creduto di per se stesso. Io posso dire, per esempio, «Il Sole». La parola ha un significato e suggerisce questo significato a iunque mi stia ascoltando. Ma supponiamo e io ieda al mio interlocutore se è vero, se ci crede. ello non può darmi nessuna risposta. Finora non c’è ancor niente da credere o da non credere. Ora, però, supponiamo e di tue le possibili asserzioni riguardanti il Sole io faccia quella e implica il riferimento minimo a un qualsiasi oggeo e non sia il Sole stesso; supponiamo cioè e io dica «Il Sole esiste». i abbiamo subito qualcosa e una persona può dire di credere. Ma qui, invece di un oggeo solo, troviamo due oggei distinti di concezione: il Sole è un oggeo, l’esistenza è l’altro. Non si dica e questa seconda con cezione, l’esistenza, è contenuta nella prima peré si può concepire il Sole come non più esistente. «Il Sole» non reca con sé tuo il significato e reca con sé «Il Sole esiste». «Mio padre» non comprende tuo il significato di «Mio padre esiste», peré può darsi e mio padre sia morto. «Un quadrato rotondo» non contiene tuo il significato di «Esiste un quadrato rotondo», peré il quadrato rotondo non esiste, e non può esistere. ando dico «Il Sole», «Mio padre», o «Un quadrato rotondo», non iedo al leore di credere o di non credere a queste cose; non mi si può prestare né credenza né non-credenza. Ma se dico «Il Sole esiste», «Mio padre esiste», o «Un quadrato rotondo esiste», io iedo e mi si creda; e nel primo dei tre casi potrei oenere credenza, nel secondo potrei oenere credenza o noncredenza, secondo i casi; nel terzo oerrei non-credenza. 3. esto primo passo verso l’analisi dell’oggeo della credenza, passo e, bené così ovvio, si troverà non del tuo superfluo, è il solo e troveremo possibile compiere, ane senza aver fao un esame generale preliminare del linguaggio. Se ceriamo di procedere più avanti sullo stesso sentiero, se cioè tentiamo di analizzare ulteriormente il significato delle proposizioni, ci troviamo costrei a prendere in considerazione, in via preliminare, il significato dei nomi. Infai ogni proposizione consiste di due nomi, e ogni proposizione afferma o nega uno di questi due nomi dell’altro.

Ora, quello e facciamo — quello e passa nella nostra mente quando affermiamo o neghiamo due nomi l’uno dell’altro — non può non dipendere da ciò di cui i nomi sono nomi, dal momento e l’affermazione o la negazione le facciamo, non già riferendoci ai puri e semplici nomi in se stessi, ma riferendoci proprio a ciò di cui sono nomi. i troviamo pertanto una nuova ragione per cui il significato dei nomi, e la relazione e regge in generale tra i nomi e le cose significate dai nomi, debba occupare lo stadio preliminare della ricerca in cui siamo impegnati. Si può obieare e il significato dei nomi ci può guidare, al massimo, soltanto alle opinioni; e magari ci può guidare alle opinioni scioce e infondate e gli uomini si sono fai delle cose; e e, siccome l’oggeo della filosofia è la verità e non l’opinione, il filosofo dovrebbe lasciar perdere le parole e guardar dentro le cose stesse, per accertare quali questioni si possono porre relativamente alle cose e quali possano oenere una risposta. esto consiglio (e nessuno ha il potere di seguire) è in realtà un’esortazione a meer da parte tui i frui delle fatie dei nostri predecessori, e di condurci come se fossimo le prime persone e abbiano mai geato un ocio indagatore sulla natura. Che cosa ci rimane della nostra personale conoscenza delle cose quando ne togliamo tuo ciò e l’uomo ha acquistato per mezzo delle parole degli altri uomini? Ane quando uno avrà imparato da sé tuo quello e di solito gli uomini imparano dagli altri, le nozioni delle cose contenute nella sua mente singola gli forniranno una base sufficiente per un catalogue raisonné, così come glie la fornirebbero le nozioni e sono nella mente dell’umanità tua? In ogni enumerazione e in ogni classificazione delle cose e non prenda le mosse dai nomi delle cose stesse, non sarà naturalmente compresa nessun’altra varietà di cose, se non di quelle conosciute dal ricercatore singolo, e rimarrà ancora da stabilire, con un esame successivo dei nomi, e l’enumerazione non abbia tralasciato nulla di quello e vi si sarebbe dovuto includere. Ma se cominciamo con i nomi, e li usiamo come una iave e ci conduca alle cose, ci meiamo immediatamente davanti agli oci tue le distinzioni e sono state riconosciute, non già da un ricercatore singolo, ma da tui i ricercatori, nella loro totalità. Può darsi senza dubbio e si trovi — e io credo e si troverà — e gli uomini hanno moltiplicato le varietà senza e ce ne fosse bisogno, e hanno immaginato e ci siano distinzioni tra le cose là dove ci sono soltanto distinzioni nel modo di nominarle. Ma noi non abbiamo il dirio di assumerlo fin dall’inizio. Noi dobbiamo cominciare

riconoscendo le distinzioni fae dal linguaggio ordinario. Se, esaminandole più da vicino, alcune di queste distinzioni si rivelano non fondamentali, l’enumerazione delle differenti specie di realtà può essere abbreviata in conseguenza. Ma l’imporre ai fai fin dall’inizio il giogo di una teoria, mentre i fondamenti della teoria vengono messi in disparte per discuterli in uno stadio successivo, non è taica e un logico possa ragionevolmente adoare.

CAPITOLO II. I NOMI 1. «Un nome, dice Hobbesa, è una parola presa a piacere per servire come segno e possa suscitare nella nostra mente un pensiero simile a quale altro pensiero e abbiamo avuto prima, e e, pronunciata di fronte ad altri, può essere per loro un segno di quello e i parla avevab prima in mente». esta semplice definizione di un nome, come di una parola (o come di un insieme di parole) e serve al duplice scopo di segno per riiamare a noi stessi la somiglianza con un pensiero precedente e come un segno per renderla nota ad altri, appare incontestabile. In realtà, i nomi fanno molto di più; ma qualunque cosa facciano, viene fuori da questa, e ne è il risultato: come si vedrà a suo luogo. È più correo dire e i nomi sono nomi di cose, o è più correo dire e sono nomi delle nostre idee delle cose? Il primo modo d’esprimersi è quello proprio dell’uso comune; il secondo è quello proprio di alcuni metafisici e, adoandolo, credevano di avere introdoo una distinzione estremamente importante. L’eminente pensatore appena citato sembra parteggiare per questa seconda opinione. «Ma, continua, vedendo e i nomi ordinati nel discorso (come lo si definisce) sono segni delle nostre concezioni, è manifesto e non sono segni delle cose stesse; peré, e il suono di questa parola, “pietra”, debba essere il segno di una pietra, non si può intendere in nessun altro senso se non in questo: e i lo ode ne inferisce e la persona e l’ha pronunciato pensa a una pietra». Se con ciò s’intendesse puramente e semplicemente e quello e il nome riiama, o comunica al leore, è soltanto la concezione, e non la cosa stessa, questo naturalmente non si potrebbe negare. Nondimeno sembra e ci siano buone ragioni per aderire all’uso comune, e per dire (come in realtà lo stesso Hobbes dice in altri luoghi) e la parola «Sole» è il nome del Sole e non il nome della nostra idea del Sole. Infai i nomi non hanno soltanto lo scopo di far concepire all’ascoltatore quello e concepiamo noi, ma ane di informarlo su ciò e noi crediamo. Ora, quando uso un nome allo scopo di esprimere una credenza, si traa di una credenza e riguarda la cosa stessa, non la mia idea della cosa. Dicendo «Il Sole è la causa del giorno», non intendo dire e la mia idea del Sole causa o suscita in me l’idea del giorno,

o, in altre parole, e il pensare al Sole mi fa pensare al giorno. Intendo e un certo fao fisico, e si iama la presenza del Sole (e e, in ultima analisi, si risolve in sensazioni e non in idee) causa un altro fao fisico e si iama il giorno. Sembra appropriato il considerare una parola come il nome di ciò e vogliamo si intenda con essa, quando l’usiamo; come il nome di ciò di cui si deve intendere ogni fao e asseriamo di essa; in breve, come il nome di ciò su cui intendiamo dare un’informazione quando impieghiamo la parola. In quest’opera, pertanto, dei nomi si parlerà sempre come dei nomi delle cose stesse, e non semplicemente come dei nomi delle nostre idee delle cose. Ma ora sorge la questione: di quali cose? E per rispondere a questa domanda è necessario prendere in considerazione le differenti specie di nomi. 2. Prima di esaminare le varie classi in cui comunemente si dividono i nomi, si è soliti incominciare col distinguere, dai nomi di ogni specie, quelle parole e non sono nomi, ma soltanto parti di nomi. Fra tali parole si annoverano le particelle come «di», «a», «veramente», «spesso», ecc.; le flessioni dei sostantivi, come: «me», «lui», «di Giovanni»; e ane gli aggeivi, come «grande», «pesante». este parole non esprimono cose di cui possa essere affermato o negato alcuné. Non possiamo dire: «Pesante cadde» o «Un pesante cadde»1; «Veramente» o «Un veramente è stato asserito»; «Di» o «Un di era nella stanza» a meno e non stiamo parlando delle pure e semplici parole in se stesse, come quando diciamo «Veramente è una parola italiana» o «Pesante è un aggeivo». In questo caso sono nomi completi, cioè nomi di quei suoni particolari oppure di quelle particolari collezioni di caraeri grafici. est’impiego di una parola per denotare le pure e semplici leere o le pure e semplici sillabe di cui è composta, fu iamato, dagli Scolastici, la suppositio materialis della parola. Non possiamo introdurre una di queste parole nel soggeo di una proposizione in nessun altro senso se non in combinazione con altre parole, come in: «Un corpo pesante cadde», «Un fao veramente importante fu asserito», «Un membro del parlamento era nella stanza». Invece, un aggeivo può stare da solo come predicato di una proposizione, come quando diciamo «La neve è bianca», e occasionalmente può ane stare come soggeo, peré possiamo dire «Il bianco è un colore piacevole». Si dice spesso e l’aggeivo si usa così in forza di una ellissi grammaticale:

«La neve è bianca» invece di «La neve è un oggeo bianco»; «Il bianco è un colore piacevole», invece di «Un colore bianco (o il colore bianco) è piacevole». Le regole delle loro lingue permeevano ai Greci e ai Romani di impiegare universalmente quest’ellissi, sia nel soggeo sia nel predicato di una proposizione. In generale questo non si può fare in inglese. Noi Inglesi possiamo bensì dire «La Terra è rotonda», ma non possiamo dire «Il rotondo è facile da muovere». Noi Inglesi dobbiamo dire «Un oggeo rotondo…». Comunque, questa distinzione è più una distinzione grammaticale e non una distinzione logica. Dal momento e non c’è nessuna differenza di significato tra «rotondo» e «un oggeo rotondo», è solo l’usanza a prescrivere e in una certa occasione data si debba impiegare l’una espressione e non l’altra. Pertanto parleremo, senza farcene uno scrupolo, degli aggeivi come di nomi, sia di per se stessi, sia come rappresentanti delle forme più contorte di espressione e abbiamo esemplificato più sopra. Le altre classi di parole sussidiarie non hanno nessun titolo per essere considerate nomi. Un avverbio, o un caso accusativo, non possono mai figurare come uno dei termini di una proposizione, tranne e quando si parli puramente e semplicemente delle loro leere e delle loro sillabe. Le parole e non possono essere usate come nomi ma possono essere usate soltanto come parti di nomi, furono iamate, da alcuni degli Scolastici, termini sincategorematici, da σὺν (con) e da ϰατηγορέω) (predicare), peré potevano essere predicate soltanto con certe altre parole. Una parola, e possa essere usata sia come soggeo sia come predicato di una proposizione senza essere accompagnata da nessun’altra parola, veniva iamata, dai medesimi autori, termine categorematico. Una combinazione di una o più parole categorematie, e di una o più parole sincategorematie, come «Un corpo pesante», o «Una corte di giustizia», veniva iamata, talvolta, termine misto; ma questa mi sembra una moltiplicazione superflua di espressioni tecnie. Un termine misto, nel solo senso utile della parola, è categorematico. Appartiene alla classe di quelli e sono stati iamati nomi composti. Infai, siccome il più delle volte una parola, da sola, non è un nome ma soltanto parte di un nome, così, spesso un certo numero di parole compone un solo nome singolo, e non di più. este parole «Il luogo e la saggezza o le usanze degli antii avevano destinato alla residenza dei prìncipi abissini» formano, secondo i logici, un nome solo, un solo termine categorematico. Un modo per determinare se un insieme qualsiasi di parole costituisca soltanto

un nome, o costituisca più di un nome, consiste nel predicare qualcosa di esso, e nell’osservare se, con questa predicazione, si faccia una sola asserzione o se ne facciano parecie. Così, quando diciamo: «John Nokes, e era il sindaco della cià, è morto ieri», con questa predicazione facciamo una sola asserzione. Di qui risulta iaro e «John Nokes, e era il sindaco della cià», non è niente più e un solo nome. È vero e in questa proposizione, accanto all’asserzione e John Nokes è morto ieri, è ane compresa un’altra asserzione, e cioè e John Nokes era il sindaco della cià; ma quest’altra asserzione è già stata faa: non l’abbiamo faa aggiungendo il predicato «è morto ieri». Supponiamo invece e le parole siano state «John Nokes e il sindaco della cià». In questo caso avrebbero formato due nomi o non un nome solo. Infai, dicendo «John Nokes e il sindaco della cià sono morti ieri», facciamo due asserzioni: l’una, e John Nokes è morto ieri; l’altra, e il sindaco della cià è morto ieri. Poié è superfluo illustrare più diffusamente l’argomento dei nomi composti, procederemo a traare delle distinzioni e sono state fae tra i nomi, non secondo le parole di cui sono composti, ma secondo la loro significazione. 3. Tui i nomi sono nomi di qualcosa, reale o immaginaria; ma non tue le cose hanno nomi e sono appropriati ad esse una per una. Per certi oggei individuali abbiamo bisogno, e di conseguenza abbiamo, nomi distintivi separati. C’è un nome per ogni persona e un nome per ogni luogo degno di nota. Altri oggei, dei quali non abbiamo bisogno di parlare così frequentemente, non li designamo con un nome tuo per loro, ma quando sorge la necessità di denominarli lo facciamo meendo insieme parecie parole, ciascuna delle quali di per se stessa potrebbe essere usata — e viene usata — per un numero indefinito di altri oggei; così, quando dico «questa pietra», «questa» e «pietra» sono, ciascuno per conto proprio, nomi e possono essere usati per molti altri oggei, oltre e per quell’oggeo particolare e abbiamo inteso, ane se può darsi e il solo oggeo di cui possono essere usati entrambi in quel preciso istante compatibilmente con la loro significazione sia quello di cui desidero parlare. Se questo fosse il solo scopo per cui possono essere impiegati i nomi e sono comuni a più cose; se, limitandosi reciprocamente, tali nomi servissero soltanto a fornirci una designazione per quegli oggei individuali e non hanno nomi per conto proprio, essi potrebbero soltanto essere annoverati tra

quegli artifici e servono a economizzare l’uso del linguaggio. Ma è evidente e questa non è la loro sola funzione. Proprio grazie ad essi siamo in grado di asserire proposizioni generali; siamo in grado di affermare o negare simultaneamente un qualsiasi predicato di un numero indefinito di cose. Pertanto, la distinzione tra nomi generali e nomi individuali o singolari è fondamentale, e può essere considerata come la prima grande divisione dei nomi. Di solito, un nome generale si definisce come un nome e può essere affermato con verità, nel medesimo senso, di ciascuna di un numero indefinito di cose. Un nome individuale o singolare è un nome e può essere affermato con verità, e nel medesimo senso, di una cosa sola. Così, «uomo» può essere affermato con verità di Giovanni, Giorgio, Maria e di altre persone, senza alcun limite determinato; e di tui costoro viene affermato nel medesimo senso; infai, la parola «uomo» esprime certe qualità, e predicandola di quelle persone asseriamo e tue posseggono quelle qualità. Ma «Giovanni» può essere affermato con verità soltanto di una persona singola, almeno nel medesimo senso. Infai, ane se ci sono molte persone e portano quel nome, esso non gli viene dato per indicare una quale qualità, o una quale cosa e appartenga ad esse in comune, e non si può dire e lo si affermi di queste persone in un senso qualsiasi; di conseguenza non si può dire e ne venga affermato nel medesimo senso. L’espressione «il re e succedee a Guglielmo il Conquistatore» è an’essa un nome individuale. Infai, e non possa esserci più d’una persona di cui può essere affermata con verità, è implicito nel significato delle parole. Ane «il re», quando l’occasione o il contesto definiscano l’individuo di cui lo si deve intendere, può essere giustamente considerato come un nome individuale. Allo scopo di spiegare quello e s’intende per «nome generale», non è infrequente il dire e un nome generale è il nome di una classe. Ma questo modo d’esprimersi, pur essendo conveniente per certi scopi, come definizione è contestabile peré spiega la più iara di due cose facendo ricorso alla più oscura. Sarebbe più logico invertire la proposizione e trasformarla in una definizione della parola «classe»: «Una classe è la moltitudine indefinita di individui denotata da un nome generale». È necessario distinguere i nomi generali dai nomi colleivi. Un nome generale è un nome e può essere predicato di ciascun individuo di una moltitudine; un nome colleivo non può essere predicato di ciascun

individuo preso separatamente, ma soltanto di tui gli individui presi insieme. «Il 76° reggimento di fanteria dell’esercito inglese», e è un nome colleivo, non è un nome generale, ma un nome individuale; infai, pur potendo essere predicato di una moltitudine di soldati singoli presi congiuntamente, non può essere predicato di essi partitamente. Possiamo dire e Jones è un soldato, e e ompson è un soldato, e e Smith è un soldato; ma non possiamo dire e Jones è il 76° reggimento, e e ompson è il 76° reggimento, e e Smith è il 76° reggimento. Possiamo soltanto dire e Jones e ompson e Smith, e Brown, e così via enumerando tui i soldati, sono il 76° reggimento. «Il 76° reggimento» è un nome colleivo ma non è un nome generale: «Un reggimento» è un nome, nel medesimo tempo, colleivo e generale. Generale, rispeo a tui i reggimenti individuali di ciascuno dei quali può essere affermato separatamente; colleivo, rispeo ai soldati individuali di cui ogni reggimento è composto. 4. La seconda divisione generale dei nomi è quella in nomi concreti e nomi astrai. Un nome concreto è un nome e sta per una cosa; un nome astrao è un nome e sta per per un aributo di una cosa. Così «Giovanni», «il mare», «questo tavolo», sono nomi di cose. Ane «bianco» è il nome di una cosa, o piuosto il nome di più cose. A sua volta, «bianezza» è un nome di qualità, o aributo, di queste cose. «Uomo» è un nome di molte cose; «umanità» è il nome di un aributo di queste cose. «Vecio» è un nome di cose, «veciezza» è il nome di uno dei loro aributi. Ho usato le parole «concreto» e «astrao», nel senso e è stato loro aribuito dagli Scolastici, e, nonostante le imperfezioni della loro filosofia, non ebbero rivali nel costruire un linguaggio tecnico e le cui definizioni, almeno in logica, pur non essendo mai penetrate molto a fondo in quest’argomento, raramente (secondo me) sono state cambiate senza venir rovinate. Però, in tempi più recenti, è andata prendendo piede una pratica diffusasi soprauo in séguito all’esempio di Loe, ane se non fu Loe a introdurla. Si traa della pratica dell’applicare l’espressione «nome astrao» a tui i nomi e sono il risultato di astrazione o di generalizzazione, e di conseguenza ai nomi generali, invece di limitarne l’applicazione ai nomi degli aributi. I metafisici della scuola di Condillac, la cui ammirazione per Loe di solito si aggrappa in modo particolarmente tenace ai suoi punti più deboli, trascurando le speculazioni più profonde di questo genio veramente

originale, hanno continuato a imitarlo in quest’abuso del linguaggio, al punto e se oggi si tenta di restaurare il significato originario della parola s’incontrano non poe difficoltà. Raramente è dato d’incontrare un’alterazione più arbitraria di questa nel significato d’una parola. Infai, mentre per lo scopo per cui si è usata, a sproposito, la parola «astrao», era già disponibile l’espressione «nome generale», il cui equivalente esao esiste in tue le lingue di cui io sia a conoscenza, quest’indebita appropriazione lascia priva d’un appellativo distintivo e coerente quell’importante classe di parole e sono i nomi degli aributi. Tuavia la vecia accezione non è andata così completamente fuori uso da togliere a coloro e la mantengono tue le chances di essere compresi. Dunque, nella logica vera e propria, per «astrao» io intenderò sempre l’opposto di «concreto»; con «nome astrao» il nome di un aributo; con «nome concreto» il nome di un oggeo. I nomi astrai appartengono alla classe dei nomi generali o alla classe dei nomi singolari? Alcuni di essi sono certamente nomi generali. Intendo quelli e sono nomi, non già di un aributo singolo e ben definito, ma di una classe di aributi. Tale è la parola «colore», e è nome comune alla bianezza, alla rossezza, ecc. Tale è pure la parola «bianezza» rispeo alle differenti sfumature di bianezza a cui viene applicata in comune; tale è la parola «grandezza» rispeo ai vari gradi di grandezza e alle varie dimensioni dello spazio; la parola «peso» rispeo ai vari gradi di peso. Tale ane è la stessa parola «aributo», e è il nome comune di tui gli aributi particolari. ando il nome designa soltanto un aributo e non sia variabile né in grado né in ispecie, come «visibilità», «tangibilità», «eguaglianza»; «essere quadrato», «bianezza laea», allora il nome non può certo essere considerato generale, peré, pur denotando un aributo di molti oggei differenti, l’aributo stesso è sempre concepito come uno solo, non come moltic. Per evitare superflue logomaie, la strategia migliore sarebbe probabilmente quella di considerare questi nomi come né generali né individuali, e di meerli in una classe a parte. Alla nostra definizione di nome astrao si può obieare e non soltanto i nomi e abbiamo iamato astrai, ma ane gli aggeivi, e abbiamo posto nella classe dei nomi concreti, sono nomi di aributi; e «bianco» (per esempio) è il nome del colore tanto quanto lo è «bianezza»; ma (come abbiamo osservato prima) una parola dovrebbe essere considerata come il nome di quello e vogliamo e s’intenda con essa quando la impieghiamo nel suo uso principale, cioè quando la impieghiamo nella predicazione.

ando diciamo e la neve è bianca, e il lae è bianco, e il lino è bianco, non vogliamo e s’intenda e la neve, o il lino, o il lae, sono colori: intendiamo e lae, lino e neve sono cose e hanno quel colore. Con la parola «bianezza» accade il contrario: quella e noi affermiamo essere bianezza, non è la neve, ma il colore della neve. Pertanto, «bianezza» è esclusivamente il nome del colore; «bianco» è un nome di tue le cose e hanno quel colore; un nome, non della qualità della bianezza, ma di ogni oggeo bianco. È bensì vero e questo nome è stato dato a tui quei vari oggei tenendo conto di quella qualità e e perciò possiamo dire senza incorrere in improprietà e la qualità forma una parte della sua significazione; ma di un nome si può solo dire e sta per le, o è un nome delle, cose di cui può essere predicato. Vedremo subito e di tui i nomi di cui si può dire e hanno una significazione qualsiasi, di tui i nomi applicando i quali a un individuo si ha un’informazione qualsiasi a proposito di quell’individuo; di tui questi nomi si può dire e implicano un aributo di una specie o dell’altra; ma non e sono nomi dell’aributo, e ha il suo nome astrao tuo per sé. 5. esto ci conduce a prendere in considerazione una terza grande divisione dei nomi: la divisione in nomi connotativi e nomi non-connotativi; questi ultimi ane iamati quale volta, ma impropriamente, assoluti. Si traa di una delle distinzioni più importanti e avremo occasione di meere in evidenza; una di quelle distinzioni e scavano più profondamente di tue nella natura del linguaggio. Un termine non-connotativo è un termine e significa soltanto un soggeo o soltanto un aributo. Un termine connotativo è un termine e denota un soggeo e implica un aributo. Per «soggeo» s’intende qui qualsiasi cosa possegga aributi. Così «Giovanni» o «Londra» o «Inghilterra» sono nomi e significano soltanto un soggeo. «Bianezza», «lunghezza», «virtù», significano soltanto un aributo. Nessuno di questi nomi, pertanto, è connotativo. Ma «bianco», «lungo», «virtuoso» sono connotativi. La parola «bianco» denota tue le cose biane, come la neve, la carta, la spuma del mare, ecc., e implica, o, per usare il linguaggio degli scolastici, connotad, l’aributo della bianezza. La parola «bianco» non viene predicata dell’aributo, ma dei soggei: «neve», ecc. Ma quando la prediiamo di questi soggei trasmeiamo il pensiero e a questi soggei appartiene l’aributo della bianezza. Lo stesso può dirsi delle altre parole

citate più sopra. Per esempio, «virtuoso» è il nome di una classe e comprende Socrate, Howard, l’uomo di Ross2 e un numero indefinibile di altri individui, passati, presenti e futuri. Solo di questi individui, presi colleivamente e partitamente, si può dire, per parlar propriamente, e sono denotati della parola; di essi soli, per parlar propriamente, si può dire e la parola è un nome. Ma è un nome applicato a tui questi individui in conseguenza di un aributo e dovrebbero possedere in comune; di quell’aributo, cioè, cui è stato dato il nome di virtù. Si applica a tui gli esseri e si ritenga posseggano quest’aributo, e a nessuno di quelli e non si ritiene e lo posseggano. Tui i nomi generali concreti sono connotativi. Per esempio, la parola «uomo» denota Pietro, Giovanna, Giovanni, e un numero indefinito di altri individui dei quali, presi come classe, è il nome. Ma viene applicata a questi individui, peré posseggono, e per significare e posseggono, certi aributi. esti sembra e siano la corporeità, la vita animale, la razionalità, e una certa forma esterna e, per distinguerla, iamiamo la forma umana. Ogni cosa esistente, e possedesse tui questi aributi, sarebbe iamata «uomo». E qualsiasi cosa e non ne possedesse nessuno, o ne possedesse soltanto uno, o due, o tre senza possedere il quarto, non verrebbe iamata così. Per esempio, se nell’interno dell’Africa si dovesse scoprire una razza di animali e possedessero una ragione eguale a quella degli esseri umani, ma con la forma di un elefante, costoro non verrebbero iamati uomini. Non si potrebbero iamare così gli Houyhnhnms di Swi. O se certi esseri da poco scoperti possedessero la forma dell’uomo senza presentare la minima traccia di ragione, è probabile e per essi si troverebbe quale altro nome e non quello di uomo. Come accada e possano sorgere dubbi su questa faccenda, si vedrà più tardi. La parola «uomo» significa perciò tui questi aributi e tui i soggei e posseggono questi aributi; ma può essere predicata soltanto dei soggei. Sono i soggei quelli e iamiamo uomini, i singoli Stiles e i singoli Nokes, non le qualità di cui è costituita la loro umanità. Si dice perciò e il nome significa i soggei direamente, l’aributo li significa indireamente; il nome denota i soggei e implica, o reca con sé, o indica, o, come diremo di qui innanzi, connota, gli aributi. È un nome connotativo. I nomi connotativie quindi sono stati iamati ane denominativi, peré il soggeo e denotano è denominato, o riceve un nome, dall’aributo e connotano. La neve, ed altri oggei, ricevono il nome «bianco», peré

posseggono l’aributo e si iama bianezza; Pietro, Giacomo e altri ricevono il nome «uomo», peré posseggono gli aributi e si considerano costitutivi dell’umanità. Si può pertanto dire e l’aributo, o gli aributi, denotano quegli oggei, ossia dànno loro un nome comune. Si è visto e tui i nomi concreti generali sono connotativi. In alcuni casi ane i nomi astrai, pur essendo i nomi soltanto di aributi, possono essere giustamente considerati connotativi; infai si possono assegnare aributi agli stessi aributi, e una parola e denoti aributi può connotare un aributo di questi aributi. Di questo genere, per esempio, è una parola come «difeo», equivalente a «qualità caiva, o dannosa». esta parola è un nome comune a molti aributi, e connota l’essere dannoso, cioè un aributo di quei vari aributi. ando, per esempio, diciamo e in un cavallo la lentezza è un difeo, non intendiamo e il muoversi lentamente, l’effeivo cambiamento di luogo proprio del cavallo lento, sia una cosa caiva, ma e la proprietà, o peculiarità del cavallo da cui deriva quel nome, cioè la qualità di essere un animale e si muove lentamente, è una peculiarità indesiderabile. Per quanto riguarda quei nomi concreti e sono non generali, ma individuali, è necessario fare una distinzione. I nomi propri non sono connotativi: denotano gli individui e sono iamati con quei nomi, ma non indicano, o implicano, nessun aributo come appartenente a quegli individui. ando diamo a un bambino il nome «Paolo», o a un cane il nome «Cesare», questi nomi sono semplicemente segni usati per far sì e quegli individui possano diventare soggei del discorso. Si può dire, bensì, e dobbiamo pur aver avuto quale ragione per dargli quei nomi piuosto e altri, e questo è vero: ma il nome, una volta dato, è indipendente da quella ragione. Può darsi e un uomo sia stato iamato Giovanni, peré questo era il nome di suo padre; può darsi e una cià sia stata iamata Dartmouth, peré situata alla foce del fiume Dart. Ma non fa parte della significazione della parola «Giovanni» il fao e il padre della persona così iamata portasse il medesimo nome, e neppure fa parte della significazione della parola Dartmouth l’essere situato alla foce del Dart. Se la sabbia dovesse colmare la foce del fiume, o un terremoto ne cambiasse il corso e lo allontanasse a una certa distanza dalla cià, non necessariamente verrebbe cambiato ane il nome della cià. Pertanto, quel fao non può costituire parte della significazione della parola, peré, altrimenti, quando il fao cessasse innegabilmente di essere vero

nessuno penserebbe più di applicare quel nome. I nomi propri sono aaccati agli oggei stessi, e non dipendono dall’esistenza continuata di nessun aributo dell’oggeo. Ma c’è un’altra specie di nomi e, pur essendo nomi individuali, cioè predicabili soltanto di un oggeo, sono realmente connotativi. Infai, pur potendo dare a un individuo un nome assolutamente insignificante, e iamiamo nome proprio — una parola e risponde allo scopo di mostrare quale sia la cosa di cui stiamo parlando, ma non di dire alcuné su di essa — tuavia non necessariamente un nome e è peculiare a un individuo è un nome di questa specie; può significare quale aributo o quale collezione di aributi i quali, non essendo posseduti da nessun oggeo se non da quello solo, determinano l’appartenenza esclusiva di quel nome a quell’individuo. «Il Sole» è un nome di questo genere; «Dio», quando sia usato da un monoteista, è un altro. esti, comunque, ben difficilmente potrebbero rappresentare esempi di quello e stiamo tentando di illustrare qui, peré, rigorosamente parlando, sono nomi generali, non individuali. Infai, pur essendo di fao predicabili soltanto di un oggeo, nel significato delle parole medesime non c’è nulla e implii una cosa del genere; e di conseguenza, quando stiamo immaginando (e non quando stiamo facendo affermazioni) possiamo parlare di molti Soli, e la maggioranza degli uomini hanno creduto, e ancora credono, e ci siano molti dèi. Ma è facile introdurre parole e sono esempi autentici di nomi connotativi individuali. Può far parte del significato dello stesso nome connotativo e non possa esistere se non un individuo e possiede l’aributo e connota, per esempio, «L’unico figlio di John Stiles», «Il primo imperatore di Roma». Oppure, può darsi e l’aributo connotato sia una connessione con quale evento ben determinato; e può darsi e la connessione sia di una specie tale e possa averla soltanto un individuo; o almeno e soltanto un individuo l’abbia effeivamente; e tuo questo può essere implicito nella forma dell’espressione. «Il padre di Socrate» è un esempio della prima specie» (dal momento e Socrate non avrebbe potuto avere due padri); «L’autore dell’Iliade», «L’assassino di Enrico arto» della seconda. Infai, pur essendo concepibile e più persone possano aver preso parte alla composizione dell’Iliade o all’assassinio di Enrico arto, l’articolo «il» implica e di fao questo non è accaduto. ello e qui fa l’articolo «il», in altri casi lo fa il contesto. Così, «L’esercito di Cesare» è un nome individuale se dal contesto risulta e l’esercito e s’intende qui è quello e

Cesare comandava in una particolare baaglia3. Le espressioni ancor più generali: «L’esercito romano» o «l’esercito cristiano» possono essere individualizzate in una maniera analoga. Abbiamo già preso in considerazione un altro caso e ricorre di frequente. Si traa del caso e segue. Il nome, essendo un nome composto, può consistere in primo luogo di un nome generale, e perciò di un nome e di per se stesso può essere affermato di più cose, ma e, in secondo luogo, è limitato dalle altre parole e gli sono connesse, in modo tale e l’intiera espressione può essere predicata soltanto di un oggeo senza e ciò sia incompatibile con il significato del nome generale. esto è esemplificato da un caso come il seguente: «L’auale primo ministro d’Inghilterra». «Primo ministro d’Inghilterra» è un nome generale; gli aributi e esso connota possono essere posseduti da un numero indefinito di persone, ma in successione, non simultaneamente; infai è lo stesso significato del nome a comportare (tra le altre cose) e di persone così può essercene soltanto una alla volta. Se le cose stanno così, e se l’applicazione del nome viene in séguito limitata, dall’articolo e dalla parola «auale», a individui tali e posseggano gli aributi in un solo istante indivisibile, la parola diventa applicabile a un individuo soltanto. E poié questo risulta iaro dal significato del nome senza e se ne debba dare una prova estrinseca, il nome sarà un nome rigorosamente individuale. Dalle osservazioni precedenti si concluderà facilmente e, dovunque i nomi dati agli oggei reino con sé una quale informazione; cioè, dovunque essi abbiano, propriamente, un quale significato, il loro significato risiede, non già in quello e denotano, ma in quello e connotano. I soli nomi di oggei e non connotino nulla, sono i nomi propri; e questi, rigorosamente parlando, non hanno alcuna significazionef. Se, come il ladro delle Mille e una notte, facciamo su di una casa un segno col gesso, e ci mea in grado di riconoscerla, il segno ha uno scopo ma, per parlar propriamente, non ha nessun significato. Il trao di gesso non enuncia nulla sulla casa, non significa «esta è la casa di una persona così e così», oppure «esta è una casa e contiene boino». Lo scopo per cui si traccia il segno è semplicemente quello di distinguere la casa. Io dico a me stesso: «Tue queste case sono così simili l’una all’altra, e se le perdo di vista non sarò più in grado di distinguere quella e sto guardando ora da tue le altre. Devo perciò escogitare un mezzo per far sì e l’aspeo di questa sola casa diventi dissimile da quello delle altre, cosicé quando vedo

il segno io possa riconoscere, non già un aributo qualsiasi della casa, ma semplicemente e si traa della medesima casa e sto guardando ora». Col gesso, Morgana ha fao un segno simile su tue le altre case, e così ha mandato all’aria la macinazione; come? semplicemente cancellando la differenza d’aspeo tra quella casa e le altre. Il segno di gesso c’era ancora, ma non serviva più allo scopo di contrassegno distintivo. ando imponiamo un nome proprio, compiamo un’operazione in certa misura analoga a quella e il ladro intendeva compiere contrassegnando la casa col gesso. Meiamo un segno, non però sull’oggeo stesso, ma, per così dire, sull’idea dell’oggeo. Un nome proprio non è altro e un segno insignificante e noi, nella nostra mente, conneiamo con l’idea dell’oggeo, cosicé ogni qualvolta il segno incontra il nostro sguardo, o ci viene in mente, possiamo pensare a quell’oggeo individuale. Non essendo aaccato alla cosa stessa, non ci rende capaci di distinguere l’oggeo quando lo vediamo, come invece fa il segno del gesso; ma ci mee in grado di distinguerlo quando ne parliamo, o nelle registrazioni della nostra esperienza personale, o nei discorsi altrui; ci mee in grado di sapere e quello e troviamo asserito in una qualsiasi proposizione di cui sia il soggeo, è asserito della cosa individuale di cui prima avevamo avuto conoscenza direa. ando di una qualsiasi cosa prediiamo il suo nome proprio; quando, indicando un certo uomo, diciamo «esto è Brown», o «esto è Smith», o quando, indicando una cià, diciamo e è York, facendo solo questo non trasmeiamo al leore nessun’informazione sull’uomo o sulla cià, se non l’informazione e questi sono i loro nomi. Meendolo in grado di identificare gli individui, possiamo però stabilire connessioni tra di essi e certe informazioni e il nostro interlocutore possedeva già. Dicendo «esta è York», possiamo dirgli e in York si trova la Caedrale. Ma questo accade in virtù di quello e il nostro interlocutore ha udito prima su York; non accade in virtù di nulla e sia implicito nel nome. Le cose vanno altrimenti quando degli oggei si parla usando nomi connotativi. Dicendo «La cià è costruita in marmo» diamo al nostro ascoltatore quella e potrebbe essere un’informazione completamente nuova, e questo semplicemente grazie al significato del nome connotativo composto: «costruita in marmo». esti nomi non sono segni dei semplici oggei, inventati peré abbiamo occasione di pensare o di parlare di quegli oggei uno per uno, ma sono segni e accompagnano un aributo: una specie di

livrea di cui l’aributo riveste tui gli oggei cui se ne riconosce il possesso. Non sono puri e semplici contrassegni, ma qualcosa di più: cioè a dire, contrassegni significanti; e ciò e costituisce la loro significanza è la connotazione. Come si dice e un nome proprio è il nome di quel solo individuo di cui è predicato, così (sia peré è importante rimanere fedeli all’analogia, sia per le altre ragioni e abbiamo enumerato precedentemente) un nome connotativo dev’essere considerato come un nome di tui i vari individui di cui è predicabile, o, in altre parole, e denota, e non di quelli e connota. Ma imparando di quali cose sia un nome, non impariamo il significato del nome, peré alla medesima cosa possiamo applicare in modo egualmente correo molti nomi, il cui significato non è equivalente. Così iamo un certo uomo con il nome di Sofronisco; lo iamo, con un altro nome: «il padre di Socrate». Entrambi questi nomi sono nomi del medesimo individuo, ma il loro significato è completamente diverso. Essi vengono applicati a quell’individuo per due scopi differenti: il primo, soltanto per distinguerlo da altre persone di cui si parli; l’altro, per indicare un fao e ha da fare con lui: il fao cioè e Socrate era suo figlio. Inoltre applico a quest’uomo queste altre espressioni: «Un uomo», «un greco», «un ateniese», «uno scultore», «un vecio» «un onest’uomo», «un uomo coraggioso». Tue queste espressioni sono, o possono essere, nomi di Sofronisco; però non di lui soltanto, ma di lui e di ciascuno di un numero indefinito di altri esseri umani. Ciascuno di questi nomi si applica a Sofronisco per una ragione differente, e da ciascuno di questi nomi iunque ne conosca il significato viene informato di un fao distinto, o di un certo numero di fai e riguardano Sofronisco. Ma quelli e non sapessero nulla sui nomi, se non e potevano essere applicati a Sofronisco, ne ignorerebbero completamente il significato. È addiriura possibile e io conosca ogni singolo individuo di cui si può affermare con verità un certo nome, e tuavia, e non si possa dire e io conosco il significato del nome. Un bambino sa i sono i suoi fratelli e le sue sorelle prima ancora di avere una concezione ben definita della natura dei fai e sono impliciti nella significazione delle parole «fratello» e «sorella». In alcuni casi non è facile decidere con precisione quanto una certa parola particolare connoti o non connoti; cioè, non sappiamo esaamente (non essendosene mai presentato il caso) quale grado di differenza nell’oggeo sarebbe necessario per dare origine a una differenza nei nomi. Così, è iaro

e oltre la vita animale e la razionalità la parola «uomo» connota ane una certa forma esterna; ma sarebbe impossibile dire con precisione di quale forma si trai; cioè, sarebbe impossibile dire quanto grande debba essere la deviazione dalla forma e si trova abitualmente negli esseri e siamo abituati a iamare uomini, peré rifiutiamo il nome di uomo a una razza da poco scoperta e presenti questa deviazione. Ane, siccome la razionalità è una qualità e ammee gradi, non si è mai stabilito quale sia il più basso grado di questa qualità e darebbe a una qualsiasi creatura il dirio a essere considerata un essere umano. In tui questi casi il significato del nome generale è, fino a questo punto, indeciso e vago. Su questa faccenda gli uomini non hanno raggiunto nessun accordo positivo. ando arriveremo a traare della classificazione, avremo occasione di mostrare in quali condizioni questa vaghezza possa essere presente, senza tuavia dare luogo a inconvenienti pratici; e verranno alla luce casi in cui essa serve ai fini del linguaggio meglio di quanto non vi serva una precisione completa; per esempio, nella storia naturale essa fa sì e individui o specie e non hanno caraeri molto marcati possano essere classificati insieme con quegli individui o con quelle specie dotate di caraeri più forti, a cui i primi sono più simili in tue le loro proprietà prese insieme. Ma questa parziale incertezza nella connotazione dei nomi può non arrecare danni soltanto se viene circondata da rigorose precauzioni. In verità, una delle fonti principali di certi abiti mentali di scarso rigore è l’usanza d’impiegare i termini connotativi senza una connotazione iaramente accertata, e con una nozione del loro significato non più precisa di quella e può essere desunta, in modo piuosto vago, osservando per denotare quali oggei i termini vengano impiegati. È questa la maniera in cui noi tui acquisiamo, inevitabilmente, la prima conoscenza della nostra lingua vernacola. Un bambino impara il significato delle parole «uomo» o «bianco», sentendo e vengono applicate a una grande quantità di oggei individuali, e scoprendo, mediante un processo di generalizzazione e di analisi e egli stesso non sarebbe in grado di descrivere, e cosa abbiano in comune questi differenti oggei. Nel caso di queste due parole il processo è così facile da non riiedere nessun aiuto da parte dell’educazione; infai gli oggei iamati esseri umani e gli oggei iamati biani differiscono da tui gli altri in virtù di qualità e posseggono un caraere peculiarmente definito e ovvio. Ma in molti altri casi gli oggei hanno l’uno con l’altro somiglianze generie, somiglianze e fanno sì e gli oggei vengano

familiarmente classificati insieme soo un nome comune, mentre, se non si posseggono abiti più analitici di quelli e possiede la maggior parte degli uomini, non è immediatamente evidente quali siano gli aributi particolari, dal cui possesso comune da parte di tui dipende la loro somiglianza generale. ando questo accade si usa il nome senza nessuna connotazione riconosciuta, cioè senza nessun significato preciso; si parla, e di conseguenza si pensa, vagamente, e ci si accontenta di dare alle proprie parole quello stesso grado di significanza e un bambino di tre anni dà alle parole «fratello» e «sorella». Almeno il bambino è messo raramente nei pasticci dal sorgere di nuovi individui, a cui non sa se dare o no quel nome, peré di solito ha a portata di mano un’autorità e ha la competenza necessaria per risolvere tui i dubbi. Ma nella generalità dei casi una risorsa simile non esiste, e a uomini, donne e bambini si presentano continuamente nuovi oggei e gli si riiede di classificare proprio motu. Pertanto classificano questi oggei in base al solo principio della somiglianza superficiale, dando a ciascun nuovo oggeo il nome di quell’oggeo familiare la cui idea esso riiama più prontamente alla loro mente, o e, a un esame affreato, gli sembra somigliargli di più: così, una sostanza sconosciuta, trovata al suolo, si iamerà, secondo la sua consistenza, terra, sabbia o pietra. In questa maniera i nomi si trascinano faticosamente da oggeo a oggeo, finé, quale volta, scompaiono tue le tracce di un significato comune e la parola non soltanto arriva a denotare un certo numero di cose indipendentemente da ogni aributo comune, ma arriva addiriura a denotare cose e di fao non hanno in comune nessun aributo; oppure, e non hanno in comune nessun aributo se non quello e condividono con altre cose alle quali, però, il nome viene arbitrariamente rifiutatog. Ane gli autori di traati scientifici hanno contribuito a questo sviamento del linguaggio generale dal suo scopo; quale volta peré, come il volgo, non ne sanno molto di più; e quale volta per essersi soomessi a quell’avversione ad ammeere nuove parole e in tui quegli argomenti e non vengono considerati tecnici induce gli uomini a tentare di far sì e la riserva originale di nomi serva, con un aumento minimo, a esprimere un numero costantemente crescente di oggei e di distinzioni; e, di conseguenza, a esprimerli in una maniera progressivamente sempre più imperfea. In quale misura questo modo per nulla rigoroso di classificare e di denominare gli oggei abbia reso inadao agli scopi del pensiero rigoroso il

vocabolario della filosofia della mente e della filosofia morale, lo sa meglio di tui iunque abbia meditato più a lungo degli altri sulla condizione auale di questi seori della conoscenza. Comunque, siccome l’introduzione di un nuovo linguaggio tecnico e serva da veicolo delle speculazioni su argomenti e appartengono al dominio della discussione quotidiana è estremamente difficile da mandare ad effeo e non sarebbe priva di inconvenienti ane se fosse realizzata, il problema per il filosofo — e si traa di uno dei problemi più difficili e egli deve risolvere — è quello di conservare la fraseologia corrente, pur correggendone le imperfezioni meglio e può. esto scopo si può raggiungere soltanto se si dà a ogni nome concreto generale, per predicare il quale si presentano occasioni frequenti, una connotazione fissa e ben definita, cosicé si possa sapere quali aributi intendiamo realmente predicare di un oggeo, quando iamiamo un oggeo con quel nome. E il problema più delicato è come dare a un nome questa connotazione fissa cambiando il meno possibile gli oggei per denotare i quali il nome viene impiegato comunemente; alterando il meno possibile, con aggiunte o sorazioni, l’ordine del gruppo di oggei e esso serve a circoscrivere e a tenere insieme, per quanto in maniera imperfea; e invalidando il meno possibile la verità di tue quelle proposizioni e comunemente vengono acceate per vere. esto scopo auspicabile, di dare una connotazione fissa dove questa mani, è il fine a cui si tende ogni qualvolta si tenti di dare una definizione di un nome generale già in uso; ogni definizione di un nome connotativo essendo un tentativo, o semplicemente di diiarare, o di diiarare e di analizzare, la connotazione del nome. E il fao e nessuna questione sorta nelle scienze morali sia stata oggeo di controversie più accanite di quanto lo sono state le definizioni di quasi tue le espressioni principali, è una prova di come sia diffuso l’inconveniente sul quale abbiamo airato l’aenzione. I nomi e hanno una connotazione indeterminata non devono essere confusi con i nomi e hanno più d’una connotazione, cioè con le parole ambigue. Una parola può avere significati differenti, ma tui ben determinati e riconosciuti. Così, per esempio, la parola inglese post o la parola inglese box4, i vari sensi delle quali non si finirebbe mai di enumerare. E la scarsità dei nomi esistenti in paragone con la domanda di nomi può spesso rendere consigliabile e addiriura necessario il mantenere un nome in questa molteplicità di accezioni, distinguendole così iaramente da impedire e vengano confuse tra di loro. Una parola di questo genere può

essere considerata come due o più nomi, e, accidentalmente, sono scrii e pronunciati nello stesso modoh. 6. La quarta divisione principale dei nomi è quella in nomi positivi e in nomi negativi. Positivi sono, per esempio, «uomo», «albero», «bene»; negativi sono, per esempio, «non-uomo», «non-albero», «non-bene». Per ogni nome concreto positivo si può formare un nome negativo corrispondente. Dopo aver dato un nome a una cosa qualsiasi, o a una qualsiasi pluralità di cose, possiamo creare un secondo nome e sarà il nome di tue le cose qualsiasi, ecceo e di quella cosa o di quelle cose particolari. esti nomi negativi si impiegano ogni qualvolta abbiamo occasione di parlare colleivamente di tue le cose e non siano una certa cosa o una certa classe di cose. ando il nome positivo è connotativo, il nome negativo corrispondente è egualmente connotativo; ma è connotativo in una maniera particolare, in quanto connota, non già la presenza, ma l’assenza di un aributo. Così, «non-bianco» denota tue le cose qualsiasi, ecceuate le cose biane, e connota l’aributo del non possedere bianezza. Infai, il non-possesso di un certo aributo è ancora un aributo, e come tale può ricevere un nome. E così, i nomi negativi concreti possono avere nomi negativi astrai e gli corrispondonoi. Certi nomi, e sono positivi quanto alla loro forma, spesso sono, in realtà, negativi; e certi altri sono realmente positivi ane se la loro forma è negativa. Per esempio, la parola «sconveniente», non esprime la pura e semplice assenza di convenienza; esprime un aributo positivo, cioè quello di essere causa di scomodità o di contrarietà. Così, la parola «spiacevole», nonostante la sua forma negativa, non connota la pura e semplice assenza di piacevolezza, ma un grado minore della qualità significata dalla parola «doloroso», e, è quasi superfluo dire, è positiva. D’altra parte, «ozioso» è una parola e, pur essendo positiva quanto alla forma, non esprime nient’altro se non quella qualità e si può significare o con la frase «e non lavora», o con la frase «non disposto a lavorare»; e «sobrio» esprime qualcosa e si può significare con «e non ha bevuto» o con «nonubriacone». C’è una classe di nomi iamati privativi. Un nome privativo è equivalente, quanto alla sua significazione, a un nome positivo e a un nome negativo presi insieme; esso è infai il nome di qualcosa e una volta aveva un aributo particolare o e, per una ragione o per l’altra ci si poteva

aspeare e ce l’avesse, ma e ora non ce l’ha più. Tale è la parola «cieco», e non è equivalente a «e non vede» o a «e non è in grado di vedere», peré in questo caso non verrebbe applicata a troni e a pietre se non facendo uso di una figura poetica o retorica. Abitualmente una certa cosa non si dice cieca, se la classe in cui la si fa più comunemente rientrare, o in cui la si fa rientrare in quella particolare occasione, non è composta, principalmente, da cose e possono vedere, come nel caso di un uomo cieco o di un cavallo cieco; o se non si suppone, per una ragione qualsiasi, e potrebbe vedere, come quando di un uomo si dice e si è buato ciecamente in un abisso; o dei filosofi e dei preti e la maggior parte di essi sono guide ciee. Pertanto, i nomi iamati privativi connotano due cose: l’assenza di certi aributi e la presenza di altri, da cui ci si sarebbe potuti naturalmente aspeare ane la presenza dei primi. 7. La quinta divisione principale dei nomi è quella in nomi relativi e in nomi assoluti, o, per meglio dire, relativi e non-relativi. Infai, in metafisica la parola «assoluto» è stata sooposta a un lavoro troppo duro, peré non la si risparmi volentieri quando si può fare a meno dei suoi servigi. Somiglia alla parola «civile», nel linguaggio della giurisprudenza, dove «civile» sta per l’opposto di «penale», per l’opposto di «ecclesiastico», per l’opposto di «militare», per l’opposto di «politico» - in breve, per l’opposto di qualsiasi parola positiva di cui mani la parola negativa corrispondente. I nomi relativi sono quelli come «padre», «figlio»; «governante», «suddito»; «simile», «eguale»; «dissimile», «diseguale»; «più lungo», «più breve»; «causa», «effeo». La loro proprietà caraeristica è l’essere sempre dati in coppie. Ogni nome relativo e sia predicato di un oggeo presuppone un altro oggeo (o altri oggei) di cui possiamo predicare o il medesimo nome o un altro nome relativo e si dice il correlativo del primo. ando iamiamo una certa persona «figlio», supponiamo e esistano altre persone e devono essere iamati «genitori». ando diciamo e un quale evento è una causa, supponiamo un altro evento, e è un effeo. ando di una certa distanza diciamo e è più larga, supponiamo e esista un’altra distanza e è più breve. ando diciamo di un qualsiasi oggeo e è simile, intendiamo e è simile a quale altro oggeo di cui, ane, si dice e è simile al primo. In questo caso entrambi gli oggei ricevono il medesimo nome; il termine relativo è il correlativo di se stesso.

È evidente e queste parole, quando siano concrete, sono connotative come altri nomi generali concreti; denotano un soggeo e connotano un aributo; e ciascuna di queste parole ha, o potrebbe avere, un nome astrao corrispondente e denota l’aributo connotato dal concreto. Così il concreto «simile» ha il suo astrao in «somiglianza», i concreti «padre» e «figlio» hanno, o potrebbero avere, gli astrai «paternità», e «essere prole», o «essere figlio masio». Il nome concreto connota un aributo, e il nome astrao e gli corrisponde denota quell’aributo. Ma di quale natura è l’aributo? In e cosa consiste la particolarità nella connotazione di un nome relativo? L’aributo significato da un nome relativo, dicono alcuni, è una relazione; e questa spiegazione la dànno, se non come una spiegazione sufficiente, almeno come l’unica possibile. Se gli iedono: «Ma allora, e cos’è una relazione?», confessano di non essere capaci di dirlo. Una relazione viene generalmente considerata come quale cosa di particolarmente occulto e misterioso. Invece, per parte mia, io non riesco a capire per quale aspeo sia più occulta di un qualsiasi altro aributo; addiriura, mi sembra e lo sia alquanto meno. Io penso, piuosto, e proprio esaminando la significazione dei nomi relativi, o, in altre parole, la natura dell’aributo e connotano, si può oenere una visione più iara della natura di tui gli aributi; di tuo ciò e si intende parlando di aributo. Di fao, è ovvio e se prendiamo due nomi correlativi qualsiasi, per esempio «padre» e «figlio», gli oggei de-notati dai nomi sono sì differenti, però in un certo senso entrambi i nomi connotano la medesima cosa. Non si può dire, è vero, e connotino il medesimo aributo: essere padre non è la stessa cosa e essere figlio. Ma quando diciamo e un certo uomo è un padre e un altro è un figlio, quello e intendiamo asserire è un insieme di fai e sono esaamente gli stessi in entrambi i casi. Il predicare, di A, e è il padre di B, e di B e è il figlio di A, equivale ad asserire un solo e medesimo fao in parole differenti: le due proposizioni sono esaamente equivalenti, e nessuna di esse asserisce di più o asserisce di meno dell’altra. L’essere padre di A e l’essere figlio di B, non sono due fai, ma due modi di esprimere il medesimo fao. esto fao, quando lo si analizzi, consiste di una serie di eventi o di fenomeni fisici, in cui sia A sia B sono parti in causa, e da cui sia A sia B derivano i loro nomi. Ciò e questi nomi realmente connotano è questa serie di eventi: cioè, il significato, e il significato tuo

intiero e si vuole trasmea l’uno o l’altro di essi. Si può dire e la serie di eventi costituisce la relazione. Gli scolastici la iamavano il fondamento della relazione: il fundamentum relationis. In questa maniera qualsiasi fao o qualsiasi serie di fai in cui siano implicati due oggei differenti, e e perciò sia predicabile di entrambi, può essere considerato costitutivo di un aributo dell’uno o di un aributo dell’altro oggeo. Secondo e lo consideriamo soo il primo aspeo o soo il secondo, sarà connotato dall’uno o dall’altro dei due nomi correlativi. «Padre» connota il fao considerato costitutivo di un aributo di A. «Figlio» connota il medesimo fao in quanto costitutivo di un aributo di B. È evidente e può essere considerato con egual dirio sia soo l’uno sia soo l’altro aspeo. E l’unica cosa e sembri necessaria per render conto dell’esistenza dei nomi relativi è e, dovunque ci sia un fao in cui sono coinvolti due individui, a ciascuno di questi individui si può assegnare un aributo fondato su quel fao. Pertanto, si dice e un nome è relativo quando, oltre e al di là dell’oggeo e denota, implica nella sua significazione l’esistenza di un altro oggeo il quale pure deriva una denominazione dal medesimo fao e è il fondamento del primo nome. O (per esprimere il medesimo pensiero con altre parole) un nome è relativo quando, essendo il nome di una cosa, la sua significazione non può essere spiegata altrimenti e menzionandone un’altra. Oppure potremmo formulare questa definizione così: quando il nome non può essere impiegato nel discorso in modo e abbia un significato, a meno e non si sia espresso, o sointeso, il nome di quale cosa diversa da quella di cui esso stesso è nome. In fin dei conti queste definizioni sono tue equivalenti peré sono modi di esprimere diversamente quest’unica circostanza distintiva: e ogni aributo diverso di un oggeo si potrebbe ancora concepire senza contraddizione come esistente, ane se non fosse mai esistito nessun altro oggeo all’infuori di quell’uno soloj; mentre quelli tra i suoi aributi e sono espressi da nomi relativi, sarebbero, in quest’ipotesi, spazzati via. 8. Inoltre i nomi sono stati distinti in univoci ed equivoci: non si traa però di due specie differenti di nomi, ma di due modi differenti di impiegare i nomi. Un nome è univoco, ossia è impiegato univocamente, rispeo a tue le cose di cui può essere predicato nel medesimo senso: è equivoco, ossia applicato equivocamente, rispeo a quelle cose di cui è predicato in sensi

differenti. È praticamente inutile dare esempi di un fao così familiare come il doppio significato di una parola. In realtà, come abbiamo già fao osservare, una parola equivoca o ambigua non è un nome solo, ma due nomi il cui suono, per caso, coincide. «File», e significa uno strumento d’acciaio5, e «file», e significa una fila di soldati, non hanno più titoli ad essere considerate una sola parola, per il fao d’essere scrie in modo eguale, di quanti non ne abbiano «grease» e «Greece»6, per il fao di essere pronunciate nel medesimo modo. Sono un unico suono, adaato a formare due parole differenti. Un caso intermedio è quello di un nome usato analogicamente o metaforicamente, cioè di un nome e è predicato, di due cose, non univocamente, ossia esaamente nella medesima significazione, ma in significazioni in certo qual modo simili e tali e, essendo derivate l’una dall’altra, possono essere considerate, l’una, come la sua significazione primaria e l’altra come la sua significazione secondaria, come quando parliamo di una luce brillante e di un brillante successo. La parola non viene applicata alla luce e al successo nel medesimo senso; ma essendo stata applicata alla luce nel suo senso originario, nel senso cioè di qualcosa e appare splendente all’ocio, viene trasferita al successo in una significazione derivata, e si suppone sia in quale modo simile alla significazione primitiva. Comunque, tanto in questo caso quanto in quello della più perfea ambiguità, la parola è, propriamente, due nomi e non uno. E una delle forme più comuni di quella fallacia del ragionamento e sorge dall’ambiguità, è quella e consiste nel ragionare partendo da un’espressione metaforica come se fosse leerale, cioè, come se una parola, applicata nel suo senso metaforico, fosse il medesimo nome di quando è presa nel suo senso originario. E questo lo vedremo, più particolareggiatamente, a tempo e luogo. a. Computatio, sive Logica,

cap. II. Nell’originale «aveva o non aveva». Non ho citato queste ultime parole (in corsivo) in quanto contengono una soigliezza e è estranea al nostro scopo auale. c. Si veda infra, la nota alla fine del par. 3, libro II, cap. II. d. Latino «notare» = segnare; latino «connotare» = segnare insieme con: segnare una cosa con o in aggiunta a. un’altra. e. L’arcivescovo Whately, e nelle ultime edizioni dei suoi Elements of Logic contribuì a far rivivere l’importante distinzione di cui si traa nel testo, propone di sostituire al termine «connotativo» il termine «aributivo» (9a ed., p. 22). Di per se stessa l’espressione è appropriata, ma b.

siccome non ha il vantaggio di essere connessa con un verbo dotato di un caraere così fortemente distintivo come «connotare», ritengo e non sia adaa a prendere il posto, nell’uso scientifico, della parola «connotativo». f. Un autore, e intitola il suo libro Philosophy: or, The Science of Truth [La filosofia, ossia la scienza della verità], mi accusa, proprio nella prima pagina (e a fondo pagina cita proprio questo passo) di asserire e, per parlar propriamente, i nomi generali non hanno significazione. E nel corso del suo volume ripete molte volte quest’asserzione, commentandola in modo per me tu’altro e lusinghiero. È bene e di tanto in tanto qualcuno si ricordi fino a qual punto possa arrivare talvolta una citazione grossolanamente errata (peré, per quanto possa sembrare strano, io non credo e l’autore mani d’onestà). Ecco un avvertimento per il leore: quando vede e un autore viene accusato con tanto di riferimento a volume e pagina, e con l’apparente garanzia delle virgolee, di sostenere qualcosa di più assurdo del solito, non presti implìcitamente fiducia all’asserzione, senza verificare la citazione. g. «Si prenda il termine familiare “pietra”. esto termine viene applicato a minerali e a materiali rocciosi, ai noccioli dei frui, alle accumulazioni nella cistifellea e nel rene, mentre viene negato ai minerali lisci (iamati invece “gemme”), alle rocce e hanno la sfaldatura adaa per fare tei (ardesie) e alla terra coa (maoni). Viene usato per designare l’ossido magnetico di ferro (magnetite), ma non per parlare di altri minerali metallici. Un termine così è assolutamente inadao al ragionamento rigoroso, a meno e non venga delimitato, ad ogni occasione, da altre frasi, come “pietra da costruzione”, “pietra preziosa”, “pietra biliare”, ecc. Inoltre, la mancanza di una base comune su cui fondarsi, rende vani i metodi di definizione. Non c’è qualità e sia uniformemente presente nei casi in cui si applica il termine, e sia uniformemente assente in quelli in cui non si applica. Perciò, i definisse questo termine dovrebbe usare largamente della libertà di cancellare applicazioni esistenti e di assumerne nuove». BAIN, Logic, II, p. 172. h. Prima di abbandonare l’argomento dei nomi connotativi sarà bene osservare e il primo scriore contemporaneo e abbia adoato, prendendola in prestito dagli Scolastici, la parola «connotare», il signor James Mill nella sua Analysis of the Phenomena of the Human Mind, la usa in una significazione differente da quella in cui è usata qui. James Mill usa la parola in un senso e ha la stessa ampiezza della sua etimologia, applicandola in tui quei casi in cui un nome, mentre indica direamente una sola cosa (e, di conseguenza, si iama la sua significazione) contiene ane un tacito riferimento a quale altra cosa. Nel caso e abbiamo preso in considerazione nel testo — nel caso, cioè, dei nomi generali concreti — il linguaggio del signor James Mill e il mio sono l’uno l’inverso dell’altro. Ritenendo (molto giustamente) e la significazione del nome risieda nell’aributo, James Mill dice e la parola nota l’aributo e connota le cose e posseggono l’aributo. E descrive i nomi astrai come nomi propriamente concreti, di cui si è lasciata cadere la connotazione; secondo me, invece, si deve dire e è stata lasciata cadere la denotazione mentre ciò e prima era connotato diventa la significazione tua intiera. Ad adoare una terminologia diversa da quella ponderatamente sanzionata da un’autorità così alta (e si traa di un’autorità e io meno di ogni altro sono propenso a soovalutare) sono stato indoo dal bisogno urgente di un termine e fosse adao esclusivamente a esprimere il modo in cui un nome generale concreto serve a contrassegnare gli aributi implicati nella sua significazione. esto bisogno non può essere avvertito in tua la sua forza da i non abbia trovato per esperienza quanto inutile sia il tentativo di comunicare, senza una parola di questo genere, idee iare sulla filosofia del linguaggio. Non è affao esagerazione il dire e alcuni degli errori più diffusi e hanno infestato la logica, e gran parte della nebulosità e della confusione d’idee e l’hanno circondata, molto probabilmente sarebbero stati evitati se l’uso comune avesse avuto a sua disposizione un termine per esprimere con esaezza quello e io ho significato con il termine «connotare». E gli Scolastici, ai quali siamo debitori della maggior parte del nostro linguaggio logico, ci hanno dato ane questo termine, e proprio in questo senso. Infai, ane se alcune delle loro espressioni generali incoraggiano

l’uso della parola nell’accezione più estesa e più vaga nella quale è assunta dal signor Mill, tuavia, quando doveero definirla specificamente come termine tecnico fissandone il significato in quanto tale, spiegarono iaramente, con quell’ammirevole precisione e caraerizza sempre le loro definizioni, e di nulla si dice e è connotato, se non delle forme, parola, questa, e nei loro scrii può essere generalmente intesa come sinonimo di «aributi». Ora, se la parola «connotare», così adaa allo scopo cui gli Scolastici l’applicavano, cessa di essere usata per quello scopo e viene presa per adempiere a un altro per cui non mi pare affao indispensabile, non riesco a trovare, per sostituirla, altre espressioni se non alcune e sono comunemente usate in un senso tanto più generale, e sarebbe inutile il tentare di associarle in modo particolare a questa precisa idea. Tali sono le parole «involgere», «implicare», ecc., usando le quali non riuscirei a raggiungere quello scopo per il quale, soltanto, c’è bisogno del nome: lo scopo, cioè, di distinguere da tue le altre specie quella specie particolare di involgere e implicare, assicurandogli quel grado di aenzione costante e la sua importanza riiede. i. Il professor Bain (Logic, I, 56) ritiene e i nomi negativi non siano nomi di tue le cose qualsiasi, ecceo quelle denotate dal nome positivo corrispondente, ma soltanto di tue le cose di quale classe particolare. Per esempio, Bain ritiene e «non-bianco» non sia il nome di tue le cose in natura ecceuate le cose biane, ma soltanto di tue le cose colorate e non siano biane. Però, in questo come in tui gli altri casi, il criterio di e cosa un nome denoti è ciò di cui può essere predicato; e ane di un suono o di un odore possiamo certamente predicare e non è bianco. L’aermazione e la negazione del medesimo aributo non possono non dividersi fra loro l’intiero campo della predicazione. j. O piuosto, tui gli oggei ecceuato quell’oggeo stesso e la mente e lo percepisce. Infai, come vedremo in séguito, l’assegnazione di un qualsiasi aributo a un oggeo implica necessariamente e una mente lo percepisca. La semplice e iara spiegazione, data nel testo, della relazione e dei termini relativi — argomento e per tanto tempo ha costituito lo scandalo della metafisica — fu fornita per la prima volta, a quanto mi consta, dal signor James Mill, nella sua Analysis of the Phenomena of the Human Mind. 1. Si ricordi e, contrariamente alla lingua italiana, Ja lingua inglese non ammee la sostantivazione degli aggeivi. 2. John Kyrle (m. 1724), filantropo della cià di Ross, cantato da Pope in Moral Essays, vv. 250 segg. 3. Nel testo inglese «Caesar’s army» (le. esercito di Cesare). L’autore si riferisce qui a una particolarità della lingua inglese, e l’italiano non condivide, secondo cui, quando sia iaro dal contesto e il nome è un nome proprio, l’articolo determinativo può essere tralasciato. 4. Post può significare, in inglese: palo, pilastro, luogo di residenza stabile, stazione militare, ferroviaria, luogo di sosta delle diligenze; osservatorio, luogo di sentinelle, e le persone cui sono affidati gli incarii connessi a tui questi vari luoghi; officio, posizione, servizio, emolumento connesso a un officio ecc.; posta, sistema postale, cassea postale, carta da leera. Box ha tra i suoi significati: recipiente, la quantità del materiale contenuto dal recipiente; uno spazio recintato, contenente sedili in un luogo pubblico; borsellino; piccola casa; la boccola del perno; la parte cava di una pompa, ecc. 5. Tra l’altro file significa «lima». 6. Grease significa «grasso», Greece significa «Grecia»: entrambe le parole si pronunciano [gri:s].

CAPITOLO III. LE COSE DENOTATE DAI NOMI 1. Geiamo ora uno sguardo retrospeivo agl’inizi della nostra ricerca, e tentiamo di misurare fino a qual punto essa sia progredita. Abbiamo visto e la logica è la teoria della prova. Ma la prova presuppone qualcosa di provabile, e questo qualcosa dev’essere una proposizione o un’asserzione; infai, nulla e non sia una proposizione può essere oggeo di credenza, e perciò di prova. Una proposizione è un discorso e afferma o nega quale cosa di quale altra cosa. esto è un passo: sembra e in ogni ao di credenza debbano essere implicate due cose. Ma e cosa sono queste cose? Non possono essere altro e le cose significate dai due nomi, e, essendo connesse tra loro da una copula, costituiscono la proposizione. Perciò, se conoscessimo il significato di tui i nomi, conosceremmo tuo quello e, allo stato auale della conoscenza umana, può essere reso soggeo di affermazione o di negazione, o essere a sua volta affermato o negato di un soggeo. Di conseguenza, nel capitolo precedente abbiamo passato in rassegna le varie specie di nomi allo scopo di accertare e cosa signifii ciascuna di esse. E ora abbiamo portato questa rassegna abbastanza avanti da essere in grado di tener conto dei suoi risultati e di fornire un’enumerazione di tue le specie di cose e possono essere usate come predicati, o di cui si può predicare qualcosa: fao questo, non può essere compito difficile il determinare il significato della predicazione, cioè delle proposizioni. La necessità di porre a base della logica un’enumerazione delle cose esistenti, non era sfuggita all’aenzione degli Scolastici e del loro maestro Aristotele, l’intelleo più universale, e forse ane il più sagace, tra i filosofi antii. Si credeva e le categorie, o predicamenti («categorie» è una parola greca, «predicamenti» è la traduzione leerale, in latino, di questa parola), costituissero un’enumerazione di tue le cose susceibili di essere denominate; un’enumerazione per summa genera, cioè secondo le classi più grandi in cui si possono distribuire le cose, e, perciò, erano altreanti predicati sommi, l’uno o l’altro dei quali si credeva susceibile di essere affermato con verità di ogni cosa denominabile. Ecco le classi in cui, secondo questa scuola di filosofia, si possono ricondurre le cose in generale:

Oὐσία Пοσòν Пοιòν Пρός τι Пοιεῖν Пάσχειν Пοῦ Пότε Kεῖσϑαι ῎Eχειν

Substantia antitas alitas Relatio Actio Passio Ubi ando Situs Habitus

Le imperfezioni di questa classificazione sono troppo ovvie, e i suoi meriti non sono sufficiente compenso peré li si esamini minutamente. Si traa di un puro e semplice catalogo delle distinzioni, rozzamente messe in evidenza dal linguaggio della vita di ogni giorno, mentre il tentativo di penetrare per mezzo dell’analisi filosofica il rationale ane di queste distinzioni comuni è scarso o manca del tuo. Un’analisi di questo genere, per quanto superficialmente fosse stata condoa, avrebbe mostrato e l’enumerazione è, nel medesimo tempo, ridondante e carente. Alcuni oggei sono stati omessi; gli altri sono stati ripetuti parecie volte soo titoli differenti. È come una divisione degli animali in uomini, quadrupedi, cavalli, asini e ponies. Per esempio, non potrebbe essere una teoria molto comprensiva della natura della relazione quella e da tale categoria escludesse l’azione, la passività e la posizione locale. La medesima osservazione vale per le categorie quando, o posizione nel tempo, o ubi, o posizione nello spazio, mentre la distinzione tra quest’ultima e il situs è puramente verbale. anto sia improprio l’erigere a summum genus la classe e forma la decima categoria, è manifesto. D’altra parte, l’enumerazione non fa menzione di nulla e non sia sostanza o aributo. In quale categoria dobbiamo meere le sensazioni o tui gli altri sentimenti e stati della mente, quali la speranza, la gioia, il timore; il suono, l’odore, il sapore; il dolore, il piacere; il pensiero, il giudizio, lo concezione, e simili? Probabilmente la scuola aristotelica avrebbe annoverato tue queste cose tra le categorie di actio e passio; e sarebbe stato correo il meere tra queste categorie le relazioni e quelli tra tali stati e sono aivi hanno con i loro oggei, e quelli tra essi e sono

passivi hanno con le loro cause; ma è sbagliato meerci le cose stesse, i sentimenti o gli stati della mente. I sentimenti, o stati di coscienza, sono incontestabilmente annoverati tra le realtà, ma non possono essere annoverati né tra le sostanze né tra gli aributiaa. 2. Prima di riprendere, soo migliori auspici, il tentativo compiuto con tanto poco successo dai logici più antii, dobbiamo concentrare la nostra aenzione su di una sfortunata ambiguità e si trova in tui i nomi concreti e corrispondono al più generale fra tui i termini astrai, cioè alla parola «esistenza». ando abbiamo bisogno di un nome e sia in grado di denotare tuo ciò e esiste, in quanto contraddistinto dal nonessere, o nulla, difficilmente si può trovare una parola applicabile per questo scopo, e non sia presa ane, e persino più comunemente, in un senso nel quale denota soltanto sostanze. Ma le sostanze non sono tuo ciò e esiste; se si deve parlare di queste cose, si deve dire e esistono ane gli aributi; certamente i sentimenti esistono. Tuavia, quando parliamo di un oggetto, o di una cosa, quasi sempre si suppone e intendiamo una sostanza. Sembra e ci sia una specie di contraddizione nell’uso di un’espressione come: «una cosa è semplicemente un aributo di un’altra cosa». E io credo e di fronte all’annuncio di una classificazione delle cose, la maggior parte dei leori si aspeerebbe un’enumerazione come quelle della storia naturale, e cominciano con le grandi divisioni di animali, vegetali e minerali, e poi le suddividono in classi e in ordini. Se, rifiutando la parola «cosa», ci sforziamo di trovarne un’altra e abbia un significato più generale o e almeno sia limitata più esclusivamente a quel significato generale — una parola e denoti tuo ciò e esiste e connoti soltanto la semplice esistenza — nessuna parola sarebbe ritenuta più adaa a tale scopo di «ente». Originariamente «ente» era il participio presente di un verbo e in uno dei suoi significati è esaamente equivalente alla forma verbale «esiste», ed era perciò adao, ane per la sua formazione grammaticale, ad essere il concreto dell’astrao «esistenza». Ma per quanto ciò possa apparire strano questa parola è inutilizzabile per lo scopo per il quale sembrava espressamente creata: e lo è ancor più completamente della parola «cosa». Per consuetudine «ente» è esao sinonimo di «sostanza», se si ecceua il fao e è esente dalla leggera macia di una seconda ambiguità, dal momento e viene applicata imparzialmente sia alla materia sia alla mente, mentre «sostanza», bené originariamente e a rigore sia applicabile a

entrambe, è aa a suggerire, di preferenza, l’idea di materia. Gli aributi non vengono mai iamati «enti», né vengono iamati così i sentimenti. Un ente è ciò e suscita sentimenti, e possiede at tributi. L’anima viene iamata un ente; si iamano enti Dio e gli angeli; ma se dovessimo dire e l’estensione, il colore, la saggezza, la virtù sono enti, ci sospeerebbero forse di pensare, insieme con alcuni degli antii, e le virtù cardinali sono animali, o almeno di sostenere, insieme con la scuola platonica, la dorina di idee esistenti di per sé o, con i seguaci di Epicuro, quella delle forme sensibili e si staccano dai corpi, andando in tue le direzioni, e e, venendo in contao con i nostri organi, causano le percezioni. In breve, si riterrebbe e crediamo e gli aributi siano sostanze. In conseguenza di questo pervertimento della parola «ente», i filosofi, alla ricerca di qualcosa e ne prendesse il posto, hanno messo le mani sulla parola «entità», un campione di barbaro latino inventato dagli Scolastici per essere usato come nome astrao, classe, questa, in cui sembrerebbe collocarlo la sua forma grammaticale; ma, da quando i logici in imbarazzo se ne sono impadroniti per tappare una falla nella loro terminologia, questo termine è sempre stato usato come nome concreto. La parola affine «essenza», nata nello stesso periodo e dagli stessi genitori, non avrebbe potuto subire una trasformazione più completa, quando, dall’astrao del verbo «essere» e era, arrivò a denotare qualcosa di sufficientemente concreto da essere riniuso in una boiglia di vetro. Dopo aver assunto definitivamente il significato di nome concreto, la parola «entità» ha conservato la sua universalità di significazione un po’ più intaa di quella di uno qualsiasi dei nomi menzionati prima. Tuavia, lo stesso graduale decadimento a cui dopo un certo tempo sembra andar soggeo tuo il linguaggio della psicologia ha prodoo i suoi effei ane qui. Forse, dicendo e la virtù è un’entità ci sospeeranno un po’ di meno di crederla una sostanza, e se l’avessimo iamata un ente; però completamente liberi dal sospeo non saremmo. Sembra e dopo un po’ di tempo ogni parola, e originariamente si voleva connotasse la pura e semplice esistenza, allarghi la sua connotazione estendendola all’esistenza separata, ossia all’esistenza non soggea alla condizione di appartenere a una sostanza; poié questa condizione è esaamente ciò e costituisce un aributo, gli aributi vengono poco a poco esclusi, e insieme con gli aributi, i sentimenti, e nel novantanove per cento dei casi non hanno altro nome se non quello dell’aributo e è fondato su di essi. È strano e mentre il

maggior imbarazzo avvertito da tui coloro e hanno un certo numero di pensieri da esprimere riguarda la possibilità di trovare una varietà sufficiente di parole precise adae a esprimere questi pensieri, non debba esserci pratica a cui ane i pensatori scientifici siano più dediti di quella e consiste nel prender parole ricercate per esprimere idee e sono sufficientemente espresse da altre parole già appropriate ad esse. ando non si possano oenere buoni strumenti, la cosa migliore è quella di comprendere perfeamente i difei degli strumenti di cui disponiamo. Ho perciò messo in guardia il leore contro l’ambiguità dei nomi e, in mancanza di meglio, sono costreo a impiegare. Spea all’autore sforzarsi di impiegarli in modo da non lasciar mai il significato nel dubbio o nell’oscurità. Nessuno dei termini di cui abbiamo parlato più sopra è completamente privo d’ambiguità, e pertanto io non mi aerrò a nessuno di essi in modo esclusivo, ma in ciascun’occasione impiegherò la parola e, in quel caso particolare, sembra avere minori probabilità di essere fraintesa; né pretendo di usare queste, o qualsivoglia altre parole, aenendomi rigorosamente a un unico senso: se lo facessimo ci troveremmo spesso privi di una parola e esprima ciò e è significato da una parola nota, in questo o in quello dei suoi sensi; a meno e l’autore non goda di una licenza illimatata di coniare parole insieme con un illimitato potere di far sì e i leori le capiscano (cosa questa e sarebbe più difficile da supporre). Né sarebbe saggio e un autore, a proposito di un oggeo e implica tanta astrazione, si neghi il vantaggio e gli deriva da un uso sia pure improprio di un termine, quando per mezzo di questo termine si riiamano certe associazioni familiari e, per così dire in un lampo, ne fanno apparire il significato alla mente. La difficoltà e incontrano sia l’autore sia il leore quando si sforzano di usare parole vaghe in modo da trasmeere un significato preciso, non è affao da lamentare. Non è disdicevole e i traati di logica forniscano un esempio di una cosa, il facilitare la quale è uno dei titoli d’utilità più importanti della logica. Il linguaggio filosofico per un lungo tempo, e il linguaggio popolare per un tempo ancor più lungo, conserveranno tanta vaghezza e tanta ambiguità, e la logica varrebbe ben poco se tra gli altri suoi vantaggi, non allenasse l’intelleo a compiere il suo lavoro in maniera iara e correa con questi strumenti imperfei. Fao questo preambolo, è tempo di procedere alla nostra enumerazione. Cominceremo con i sentimenti [feeling], la classe più semplice di cose

nominabili; naturalmente, il termine «sentimento» sarà inteso nel suo senso più largo. I. SENTIMENTI, OSSIA STATI DI COSCIENZA 3. Nel linguaggio della filosofia «sentimento» e «stato di coscienza» sono espressioni equivalenti: tuo ciò di cui la mente è consapevole è un sentimento; è un sentimento tuo ciò e la mente sente, o, in altre parole, tuo ciò e forma una parte della sua esistenza senziente. Nel linguaggio popolare, non sempre «sentimento» è sinonimo di «stato di coscienza», peré spesso tale termine si usa, più specificamente, per quegli stati e si ritengono appartenenti alla fase sensitiva, o alla fase emotiva, della nostra natura, e quale volta (con una restrizione ancora più angusta) soltanto alla fase emotiva, in quanto distinti da quegli stati e si pensa appartengano alla fase perceiva o intelleuale. Si traa, però di una deviazione diiarata dall’uso linguistico correo; allo stesso modo e, con una deviazione corrente, e è l’inverso esao di questa, si toglie alla parola «mente» la sua legiima generalità di significazione, limitandola all’intelleo. Non è necessario e si airi in modo ancora più particolare l’aenzione su quella deviazione ancora più grande, con la quale, talvolta, [in inglese] «sentire» viene limitato non soltanto alle sensazioni corporee, ma alle sensazioni di un solo senso: il tao. Nel senso proprio del termine, «sentimento» è un genere di cui «sensazione» «emozione» e «pensiero» sono specie subordinate. Soo il termine «pensiero» si deve sussumere, qui, tuo ciò di cui siamo consapevoli dentro di noi, quando si dice e pensiamo: dalla coscienza e abbiamo quando pensiamo il colore rosso senza averlo davanti agli oci, ai più reconditi pensieri di un filosofo o di un poeta. Non si dimentii, però, e con «pensiero» si deve intendere ciò e passa nella mente stessa, e non un qualsiasi oggeo esterno alla mente, di cui si dice, di solito, e una persona lo pensa. ella persona può pensare al Sole, o a Dio, ma il Sole e Dio non sono pensieri; sono pensieri, invece, l’immagine mentale e quella persona ha del Sole e l’idea e ha di Dio; stati della sua mente, non degli oggei medesimi, e così ane sono stati della mente la sua credenza, o, secondo i casi, la sua non-credenza, nell’esistenza del Sole o di Dio. Ane gli oggei immaginari (e si dice esistano soltanto nelle nostre idee) devono essere distinti dalle idee e ne abbiamo. Posso pensare a un folleo così come

posso pensare alla pagnoa e ho mangiato ieri, o al fiore e fiorirà domani. Ma il folleo, e non è mai esistito, non è la stessa cosa della mia idea del folleo: non più di quanto la pagnoa e è esistita ieri non sia la stessa cosa della mia idea di pagnoa; o il fiore, e non esiste ancora ma esisterà, non sia la stessa cosa della mia idea di fiore. Tue queste cose sono non già pensieri, ma oggei del pensiero; ane se, aualmente, tui questi oggei sono egualmente non-esistenti. In maniera analoga, una sensazione dev’essere accuratamente distinta dall’oggeo e causa la sensazione; la nostra sensazione di bianco da un oggeo bianco; né meno è da distinguersi dall’aributo «bianezza», e assegnamo all’oggeo in conseguenza del fao e suscita questa sensazione. Disgraziatamente per la iarezza e per il debito discernimento e si devono usare quando si prendono in considerazione questi argomenti, raramente le nostre sensazioni ricevono nomi distinti. Abbiamo un nome per gli oggei e producono in noi una certa sensazione: la parola «bianco». Abbiamo un nome per la qualità di quegli oggei cui aribuiamo la sensazione: il nome «bianezza». Ma quando parliamo della sensazione in se stessa (dal momento e non ci capita spesso di farlo, tranne e nelle nostre speculazioni scientifie) il linguaggio, e in massima parte si adaa soltanto agli usi comuni della vita, non ci fornisce una designazione faa d’una sola parola, o immediata; siamo costrei a usare una circonlocuzione e dire «la sensazione di bianco» o «la sensazione di bianezza»; dobbiamo per forza dare un nome alla sensazione o in base all’oggeo o in base all’aributo da cui essa è suscitata. Tuavia, la sensazione potrebbe benissimo essere concepita come esistente senza e esista nulla affao e la su sciti, ane se, di fao, questo non accade mai. Possiamo concepire e sorga spontaneamente nella nostra mente. Ma se sorgesse così, non avremmo, per denotarla, nessun nome e non fosse un nome improprio. Nel caso delle nostre sensazioni di udito siamo meglio forniti: per denotare le varie specie di suoni abbiamo la parola «suono» e un intiero vocabolario di altre parole. Infai, siccome spesso siamo consapevoli di queste sensazioni ane in assenza di un qualsiasi oggeo percepibile, è più facile concepire e le abbiamo in assenza di un qualsiasi oggeo. Ci basta iudere gli oci e ascoltare musica, per avere la concezione di un universo in cui non c’è nulla, ecceuati i suoni e noi stessi e li udiamo. E ciò e è facile concepire separatamente, oiene facilmente un nome distinto. Ma in generale i nostri nomi di sensazione denotano indiscriminatamente le sensazioni e l’aributo.

Così, «colore» sta per le sensazioni di bianco, rosso, ecc., ma ane per la qualità dell’oggeo colorato. Parliamo dei colori delle cose come di loro proprietà. 4. Nel caso delle sensazioni si deve ane tener presente un’altra distinzione, e spesso viene confusa, e mai senza conseguenze dannose. Si traa della distinzione tra la sensazione in se stessa e lo stato degli organi corporei e precede la sensazione e e costituisce l’agente fisico da cui essa è prodoa. Una delle fonti di confusione su questo punto è la divisione, e si fa comunemente, dei sentimenti in sentimenti corporei e sentimenti mentali. Filosoficamente parlando non c’è nessun fondamento per questa distinzione. Ane le sensazioni sono stati della mente senziente, non già stati del corpo in quanto distinto da quella. Ciò di cui sono consapevole quando vedo il colore blu è un senso [feeling] di colore blu, e è una cosa; la mia immagine retinica, o il fenomeno, la cui natura è fino ad oggi misteriosa e e ha luogo nel mio nervo oico o nel mio cervello, è un’altra cosa di cui non sono affao consapevole, e e avrei potuto apprendere soltanto dalla ricerca scientifica. esti sono stati del mio corpo, ma la sensazione di blu, e è la conseguenza di questi stati del corpo, non è uno stato del corpo: ciò e percepisce, e e è consapevole, si iama «mente». Le sensazioni si iamano sentimenti corporei, ma solo in quanto formano la classe di sentimenti e sono immediatamente occasionati da stati corporei, laddove le altre specie di sentimenti, per esempio i pensieri o le emozioni, sono suscitati immediatamente, non da una cosa e agisca sugli organi corporei, ma da sensazioni o da pensieri precedenti. esta, comunque, è una distinzione non già dei nostri sentimenti, ma degli agenti e producono i nostri sentimenti, i quali tui, quando siano stati effeivamente prodoi, sono stati della mente. Accanto all’affezione e i nostri organi corporei subiscono dall’esterno, e alla sensazione e in questo modo si produce nella nostra mente, molti scriori pongono un terzo anello nella catena dei fenomeni, anello e iamano «percezione» e e consiste nel riconoscimento di un oggeo esterno come la causa e ha suscitato la sensazione. La percezione, dicono, è un atto della mente, e procede dalla sua aività spontanea, mentre nella sensazione la mente è passiva, limitandosi a subire l’azione da parte dell’oggeo esterno. E secondo alcuni metafisici proprio grazie a un ao della mente, simile alla percezione tranne e nel non essere preceduto da

nessuna sensazione, si riconosce l’esistenza di Dio, dell’anima, e di altri oggei sopra-fisici. esti ai, di cosiddea percezione devono, secondo me, essere annoverati tra le varietà di sentimenti o stati della mente, quale e sia la conclusione definitiva sulla loro natura. Nel classificarli così non ho la minima intenzione di esporre o di suggerire una qualsiasi teoria sulla legge della mente in cui si può supporre e questi processi mentali si originino, o sulle condizioni e possono rendere legiimi o illegiimi tali processi. Meno ancora (contrariamente a quanto il door Whewell sembra supporre e si debba intendere in un caso analogo)b intendo suggerire e, siccome sono «soltanto stati della mente», è superfluo indagare le peculiarità e li contraddistinguono. Mi astengo da tale ricerca, in quanto essa è irrilevante per la scienza della logica. In queste cosiddee percezioni o riconoscimenti direi, da parte della mente, di oggei fisici o spirituali ad essa esterni, non riesco a vedere altro e casi di credenza; di una credenza e pretende d’essere intuitiva, ossia indipendente da prove esterne. ando davanti a me c’è una pietra, sono consapevole di certe sensazioni e ne ricevo; ma se dico e queste sensazioni mi provengono da un oggeo esterno, e io percepisco, queste parole significano e, ricevendo le sensazioni, io credo intuitivamente e esiste una causa esterna di queste sensazioni. Come abbiamo già fao notare più e più volte, le leggi della credenza intuitiva e le condizioni e la rendono legiima sono un argomento e non è di pertinenza della logica, ma della scienza delle leggi fondamentali della mente umana. Alla medesima regione della speculazione appartiene tuo quello e si può dire sulla distinzione, e i metafisici tedesi e i loro seguaci francesi e inglesi hanno così laboriosamente tracciato, tra gli atti e gli stati puramente passivi della mente; tra ciò e la mente riceve dai, e ciò e dà ai, materiali grezzi della sua esperienza. Sono ben consapevole e, dal punto di vista assunto da questi autori a proposito degli elementi primari del pensiero e della conoscenza, questa distinzione è fondamentale. Ma per lo scopo e ci proponiamo noi, cioè quello di esaminare non già le struure originarie della nostra conoscenza ma il modo in cui perveniamo a quella parte di essa e non è originaria, la differenza tra stati aivi e stati passivi della mente è d’importanza secondaria. Sono tui stati della mente; tui sentimenti. Con il e, torno a ripetere, non intendo implicare nessuna passività, ma semplicemente dire e sono fai psicologici, fai e hanno luogo nella

mente e e devono essere accuratamente distinti dai fai esterni, o fisici, con i quali possono essere connessi, sia come effei, sia come cause. 5. C’è però una specie di stati aivi della mente e merita un’aenzione particolare, peré costituisce una parte principale della connotazione di alcune importanti classi di nomi. Voglio dire: le volizioni, o ai della volontà. ando parliamo di esseri senzienti usando nomi relativi, una gran parte della connotazione del nome è di solito costituita dalle azioni di questi esseri: azioni passate e presenti, e possibili o probabili azioni future. Si prendano, per esempio, le parole «sovrano» e «suddito». ale significato comunicano queste parole, se non quello di innumerevoli azioni, compiute, o da compiere, da parte del sovrano o dei sudditi, l’uno agli altri, o l’uno nei confronti degli altri, reciprocamente? Così, con le parole «medico» e «paziente», «capo» e «seguace», «tutore» e «pupillo». In molti casi, le parole connotano ane azioni e in certe circostanze verrebbero compiute da persone diverse da quelle denotate: per esempio, le parole «debitore ipotecario» e «creditore ipotecario», «debitore» e «creditore», e molte altre parole e esprimono un’azione legale, e connotano ciò e un tribunale dovrebbe fare per far rispeare l’obbligazione, nel caso e non fosse adempiuta. Ci sono ane parole e connotano azioni precedentemente compiute da persone diverse da quelle denotate dal nome stesso o dal suo correlativo, come la parola «fratello». Da questi esempi si può vedere come sia grande quella parte della connotazione dei nomi e è costituita da azioni. Ora, e cos’è un’azione? Non una cosa, ma una serie di due cose: lo stato della mente iamato «volizione», seguito da un effeo. La volizione, o intenzione di produrre l’effeo è una cosa; l’effeo prodoo in conseguenza dell’intenzione è un’altra: le due cose, insieme, costituiscono l’azione. Io formo il proposito di muovere immediatamente il mio braccio; questo è uno stato della mia mente: il mio braccio (e non è né legato né paralizzato) si muove obbedendo al mio proposito. esto è un fao fisico, e consegue a uno stato della mente. L’intenzione, seguita dal fao, o (se preferiamo quest’espressione) il fao, quando sia preceduto o causato dall’intenzione, è iamato l’azione del muovere il mio braccio. 6. Abbiamo cominciato con il riconoscere tre suddivisioni — sensazioni, pensieri ed emozioni — della prima divisione fondamentale delle cose denominabili (sentimenti o stati di coscienza). este prime due le abbiamo

illustrate abbastanza a lungo; la terza, emozioni, non è complicata da ambiguità analoghe, e quindi non riiede esemplificazioni analoghe. E infine abbiamo trovato e a queste tre specie è necessario aggiungerne una quarta, comunemente nota con il nome di «volizioni». Ora procederemo alle due classi rimanenti di cose denominabili; tue le cose e sono ritenute esterne alla mente vengono infae considerate appartenenti o alla classe delle sostanze o a quella degli aributi. II. SOSTANZE I logici si sono dati un gran da fare per definire sostanza e aributo; ma le loro definizioni non sono tanto tentativi di tracciare una distinzione tra le cose in se stesse, quanto piuosto istruzioni sulla differenza e si è soliti fare nella struura grammaticale degli enunciati, secondo e si parli di sostanze o di aributi. Più e di filosofia della mente tali definizioni sono lezioni d’inglese, o di Greco, o di latino, o di tedesco. Un aributo, dicono i logici della Scuole, dev’essere l’aributo di qualcosa: per esempio, il colore dev’essere il colore di qualcosa, la bontà dev’essere la bontà di qualcosa; e se questo qualcosa dovesse cessare di esistere, o dovesse cessare di essere connesso con un aributo, cesserebbe di esistere ane l’aributo. Al contrario, una sostanza esiste di per sé; quando parliamo di una sostanza non abbiamo bisogno di meere un «di» dopo il suo nome. Una pietra non è una pietra di nulla; la Luna non è la Luna di nulla: è semplicemente la Luna. Certo è e questo non sarebbe più vero se il nome e scegliamo di dare alla sostanza fosse un nome relativo; in quest’ultimo caso, infai, il nome dev’essere seguito o da un «di» o da quale altra particella e implii, come implica quella preposizione, un riferimento a qualcos’altro. In tal caso, però, verrebbe a mancare l’altra peculiarità caraeristica di un aributo. Il qualcosa potrebbe essere distruo e la sostanza potrebbe ancora sussistere. Così, un padre dev’essere padre di qualcosa, e nella misura in cui è riferito a qualcosa oltre a se stesso «padre» somiglia a un aributo: se non ci fossero figli non ci sarebbe un padre. Ma se consideriamo la cosa più a fondo, questo vorrebbe soltanto dire e in questo caso non lo iameremmo «padre». L’uomo iamato «padre» potrebbe ancora esistere ane se non ci fossero figli, così come esisteva prima di avere un figlio; e non ci sarebbe contraddizione nel supporre e esista, ane se l’intiero universo, ecceo lui, venisse distruo. Ma distruggete tue le sostanze biane, dove

andrebbe a finire, allora, l’aributo «bianezza»? Se non ci fossero cose biane, «bianezza» sarebbe una contraddizione in termini. I traati di logica e vanno per la maggiore non s’avvicinano più di tanto alla risoluzione di questa difficoltà. Non si può certo pensare e si trai di una soluzione soddisfacente. Se l’aributo si distingue da una sostanza per il fao di essere l’aributo di qualcosa, sembra estremamente necessario il capire e cosa s’intenda con «di», cioè con una particella e riiede già troppe spiegazioni di per se stessa, peré la si possa premeere alla spiegazione di qualsiasi altra cosa. E per quanto riguarda l’esistenza per sé della sostanza, è verissimo e una sostanza si può concepire come esistente senza nessun’altra sostanza, ma è pur vero e ane un aributo si può concepire come esistente senza e esistano altri aributi; e non possiamo immaginare una sostanza senza aributi più di quanto non possiamo immaginare aributi senza una sostanza. Tuavia i metafisici hanno approfondito sempre di più la questione e hanno dato, della sostanza, una spiegazione e è considerevolmente più soddisfacente di questa. Di solito le sostanze vengono distinte in corpi e in menti; di ciascuna di queste i filosofi, ci hanno, alla fine, fornito una definizione e sembra ineccepibile. 7. Secondo la dorina acceata dai metafisici moderni, un corpo può essere definito come la causa esterna cui facciamo risalire le nostre sensazioni. ando vedo e tocco un pezzo d’oro sono consapevole di una sensazione di colore giallo, e di certe sensazioni di durezza e di peso; e variando il modo di maneggiare il pezzo d’oro, a queste sensazioni posso aggiungerne molte altre, completamente distinte dalle prime. Le sensazioni sono tuo ciò di cui io sono consapevole direamente; però le considero come prodoe da qualcosa, e non soltanto esiste indipendentemente dalla mia volontà, ma e è esterno ai miei organi corporei e alla mia mente. esto qualcosa d’esterno lo iamo un «corpo». Si può iedere: in e modo arriviamo ad aribuire le nostre sensazioni a una causa esterna? E c’è una ragione sufficiente per aribuirgliele? È noto e ci sono metafisici e hanno suscitato una controversia su quest’ultimo punto, sostenendo e non abbiamo nessuna garanzia per far risalire le nostre sensazioni a una causa come quella e intendiamo con la parola «corpo», o a una qualsiasi altra causa esterna. esta controversia qui non ci riguarda, né ci riguardano le soigliezze meta fisie su cui fa perno:

tuavia, uno dei modi migliori per mostrare e cosa s’intenda con «sostanza» consiste nel considerare quale posizione si debba assumere per sostenerne l’esistenza contro gli oppositori. È dunque certo e una parte della nostra nozione di corpo consiste nella nozione di un certo numero di sensazioni, nostre proprie o di altri esseri senzienti, sensazioni e di solito si presentano simultaneamente. La concezione e io ho del tavolo a cui sto scrivendo è composta dalla forma e dalle dimensioni visibili del tavolo, e sono sensazioni complesse della vista; dalla sua forma e delle sue dimensioni tangibili, e sono sensazioni complesse dei nostri organi taili e dei nostri muscoli; dal peso del tavolo, e è ancora una sensazione del tao e dei muscoli; dal colore del tavolo, e è una sensazione della vista; dalla sua durezza, e è una sensazione muscolare; dalla composizione del tavolo, e è un’altra parola per tue le diverse e svariate sensazioni e si ricevono, in diverse circostanze, dal legno di cui è fao, e così via. Tue queste sensazioni, o la maggior parte di esse, vengono spesso e, a quanto l’esperienza c’insegna potrebbero venir sempre, esperite simultaneamente o in molti ordini differenti di successione, a piacer nostro: e quindi il pensare a una qualsiasi di esse ci fa pensare alle altre, e il tuo viene amalgamato mentalmente in un solo stato di coscienza misto, e, nel linguaggio della scuola di Loe e di Hartley, si iama «idea complessa». Ora, ci sono filosofi e hanno argomentato nel modo seguente: se immaginiamo e un’arancia venga privata del suo colore naturale senza acquistare nessun colore nuovo; e perda la sua mollezza senza diventare dura, la sua rotondità senza diventare quadrata o pentagonale, o senza assumere nessun’altra figura regolare o irregolare quale e sia; se immaginiamo e venga privata delle dimensioni, del peso, del sapore, dell’odore; e perda tue le sue proprietà meccanie e tue le sue proprietà imie senza acquistarne di nuove; se immaginiamo, in breve, e diventi invisibile, intangibile, imperceibile, non soltanto a tui i nostri sensi, ma a quelli di tui gli esseri senzienti, reali o possibili, allora, dicono questi pensatori, non ne rimarrebbe più niente. Di quale natura infai, iedono costoro, potrebbe mai essere il residuo? E per mezzo di quale contrassegno potrebbe mai manifestare la propria presenza? A i non ci riflea, sembra e l’esistenza dell’arancia riposi sulla prova dei sensi. Ma ai sensi nulla appare, ecceo le sensazioni. Noi sappiamo bensì e queste sensazioni sono tra loro collegate da quale legge; e non si uniscono a

casaccio ma secondo un ordine sistematico e fa parte dell’ordine e vige nell’universo; e quando esperiamo una di queste sensazioni di solito esperiamo ane le altre, oppure sappiamo e è in nostro potere l’esperirle. Ma, dicono questi filosofi, una legge fissa di connessione, e faccia sì e le sensazioni si presentino insieme, non riiede necessariamente un cosiddeo substrato, e le sostenga. La concezione di un substrato non è se non una delle molte forme possibili in cui quella connessione si presenta alla nostra immaginazione: per così dire, un modo di realizzare l’idea. Se un substrato siffao ci fosse, supponiamo e in questo istante venga anniilato per miracolo, e e le sensazioni continuino a comparire nel medesimo ordine: come si potrebbe mai sentire la mancanza del substrato? Da quali segni dovremmo essere capaci di scoprire e ha cessato di esistere? Non avremmo tante ragioni quante ne abbiamo ora per credere e continui ad esistere? E se allora non avevamo nessuna garanzia per crederlo, come possiamo averla ora? Pertanto, secondo questi metafisici un corpo non è nulla di intrinsecamente differente dalle sensazioni e si dice e il corpo produca in noi; in breve, è un insieme di sensazioni, o, piuosto, di possibilità di sensazioni, tra loro congiunte secondo una legge fissa. Le controversie a cui hanno dato origine queste speculazioni, e le dorine e sono state elaborate nel tentativo di trovare loro una risposta definitiva, sono state feconde di importanti conseguenze per la scienza della mente. Le sensazioni (si è risposto) di cui siamo consapevoli e e riceviamo, non a casaccio, ma congiunte insieme in una certa maniera uniforme, implicano non soltanto una legge, o più leggi, di connessione, ma una causa esterna alla nostra mente; e questa causa, in virtù delle sue proprie leggi, determina le leggi secondo cui le sensazioni sono connesse e vengono esperite. Gli Scolastici iamavano questa causa esterna col nome, e abbiamo già impiegato, di «substrato», e dicevano e i suoi aributi le ineriscono (leeralmente, sono conficcati in essa). Di solito, nelle discussioni filosofie si dà a questo substrato il nome di materia. Tuavia, tui coloro e rifleerono su quest’argomento riconobbero ben presto e l’esistenza della materia non può essere provata facendo ricorso a prove estrinsee. Pertanto, la risposta e ora si dà solitamente a Berkeley e ai suoi seguaci è e la credenza è intuitiva; e in tue le epoe gli uomini si sono sentiti costrei da una necessità propria della loro natura a far risalire le loro sensazioni a una causa esterna: e ane coloro e la negano in teoria, in pratica cedono alla necessità, e sia nel linguaggio e nel pensiero, sia nel

sentimento, riconoscono insieme con la gente comune e le loro sensazioni sono gli effei di qualcosa di esterno ad esse. Pertanto, si afferma, questa conoscenza è tanto evidentemente intuitiva quanto è intuitiva la conoscenza e abbiamo delle nostre stesse sensazioni. E qui la questione confluisce nel problema fondamentale della metafisica propriamente dea: e a questa scienza la lasciamo. Ma sebbene i pensatori successivi non abbiano, nella loro generalità, adoato la dorina estremistica dei metafisici idealisti — cioè la dorina secondo cui gli oggei non sono nient’altro e le nostre sensazioni e le leggi e le conneono — il punto più veramente importante è il punto sul quale ora si ritiene quasi universalmente e questi metafisici siano riusciti a provare la loro tesi: cioè, e tutto quello che noi conosciamo degli oggei sono le sensazioni e questi ci dànno, e l’ordine in cui si presentano queste sensazioni. Su questo punto, lo stesso Kant è tanto esplicito quanto Berkeley o Loe. Per quanto fosse fermamente convinto e esiste un universo di «cose in sé», totalmente distinto dall’universo dei fenomeni o delle cose come appaiono ai nostri sensi, e ane addiriura dopo aver messo in uso un’espressione tecnica (noumeno), per denotare e cosa sia la cosa in se stessa, contrapposta alla rappresentazione e ne abbiamo nella nostra mente, Kant ammee e questa rappresentazione (la cui materia, egli dice, consiste nelle nostre sensazioni, pur essendo la sua forma data dalle leggi della stessa mente) è tuo ciò e noi conosciamo dell’oggeo: e la natura reale della cosa è, e data la costituzione delle nostre facoltà dovrà per sempre rimanere almeno nello stato auale della nostra esistenza, un mistero per noi impenetrabile. «Delle cose in assoluto, o in se stesse» dice Sir William Hamiltonc, «siano esse esterne, siano interne, noi non conosciamo nulla, o le conosciamo soltanto come inconoscibili; e diventiamo consapevoli della loro esistenza incomprensibile solo in quanto essa ci è rivelata, indireamente e accidentalmente, da certe qualità e sono in relazione con le nostre facoltà conoscitive, e e non possiamo pensare come a loro volta incondizionate, irrelate, esistenti in sé e per sé. Tuo ciò e conosciamo è pertanto fenomenico — è fenomeno dell’inconoscibile»d. La medesima dorina è espressa nei termini più iari e più energici dal signor Cousin, le cui osservazioni sull’argomento sono tanto più degne di aenzione in quanto, dato il caraere per altri aspei ultra-tedesco e ontologistico della sua filosofia, possono essere considerate come le ammissioni di un oppositoree.

Non c’è la minima ragione per credere e quelle e noi iamiamo le qualità sensibili dell’oggeo siano un tipo di quale cosa e gli inerisce in sé, o ha una quale affinità con la sua natura. Una causa, in quanto tale, non somiglia ai suoi effei; un vento dell’Est non è simile alla sensazione di freddo, né il calore è simile al vapore dell’acqua bollente. Peré, allora, la materia dovrebbe somigliare alle nostre sensazioni? Peré la natura intima del fuoco e dell’acqua dovrebbe somigliare alle impressioni e questi oggei esercitano sui nostri sensif? Ossia, in base a quale principio siamo autorizzati a dedurre, dagli effei, qualsiasi cosa e riguardi la causa, se non e si traa di una causa adeguata a produrre quegli effei? Pertanto si può tranquillamente stabilire come una verità di per sé ovvia ed ammessa da tui coloro e aualmente è necessario prendere in considerazione, e del mondo esterno non conosciamo e non possiamo conoscere assolutamente nulla, se si ecceuano le sensazioni e, provenienti da esso, esperiamog. 8. Il corpo è stato appena definito come la causa esterna e (stando all’opinione più ragionevole) come la causa esterna ignota a cui facciamo risalire le nostre sensazioni. Rimane ora da formulare una definizione della mente. Né questo sarà difficile dopo le osservazioni precedenti. Infai, come la concezione e abbiamo di un corpo è la concezione di una causa ignota e suscita le sensazioni, così la concezione e abbiamo di una mente è quella di un recipiente, o d’un percipiente, sconosciuto delle sensazioni; e non soltanto delle sensazioni, ma di tui i nostri altri sentimenti. Come il corpo è inteso come quel quid misterioso e eccita la mente a sentire, così la mente è il quid misterioso e sente e pensa. Nel caso della mente è superfluo dare, come abbiamo fao nel caso della materia, una formulazione particolareggiata del sistema sceico e ne mee in questione l’esistenza in quanto cosa in sé, distinta dalla serie di quelli e si iamano i suoi stati. Ma è necessario osservare e, per quanto riguarda la natura intima (qualunque cosa si intenda con «natura intima») del principio pensante, noi ne siamo, e con le nostre facoltà dobbiamo necessariamente rimanerne, all’oscuro, proprio come accade per la natura intima della materia. Tuo ciò di cui siamo consapevoli, ane nella nostra mente, è (per usare le parole di James Mill) un certo «filone di coscienza», una serie di sentimenti, cioè di sensazioni, di pensieri, di emozioni e di volizioni più o meno numerosi e complicati. C’è un qualcosa e io iamo il me stesso o, con un’altra forma di espressione, la mia mente, e considero distinto da queste sensazioni, da

questi pensieri, ecc.: un qualcosa e concepisco, non già come i pensieri, ma come l’essere e ha i pensieri e e posso concepire come esistente in perpetuo in istato di quiescenza, senza e abbia affao pensieri. Ma pur traandosi di me stesso, io non ho nessuna conoscenza di e cosa sia questo essere, se si ecceua il fao e conosco la serie dei suoi stati di coscienza. Come i corpi mi si manifestano soltanto araverso le sensazioni di cui li considero cause, così il principio pensante, o mente, nella mia propria natura, mi si rende noto soltanto per mezzo dei sentimenti di cui è consapevole. Di me stesso non conosco nulla, tranne le mie capacità di sentire o di essere consapevole (compresi, naturalmente, il pensare e il volere): e se dovessi mai apprendere qualcosa di nuovo sulla mia natura, con le facoltà di cui dispongo aualmente non posso concepire e queste nuove informazioni consistano in altro, se non e ho quale capacità in più, e fino ad ora mi era sconosciuta, di sentire, di pensare o di volere. Dunque, come il corpo è la causa non senziente cui siamo naturalmente disposti a far risalire una certa parte dei nostri sentimenti, così la mente può essere descria come il soggetto (nel senso scolastico del termine) senziente di tui i sentimenti; come ciò e li ha, o li sente. Ma, stando alla migliore dorina oggi in vigore, della natura del corpo e della mente non conosciamo nulla, all’infuori dei sentimenti e il primo suscita e e la seconda esperisce; e, ammesso e ne conosciamo qualcosa, la logica non ha nulla da fare, né con questo qualcosa né con la maniera in cui ne acquistiamo la conoscenza. Con questo risultato possiamo concludere questa parte del nostro argomento e passare alla terza e ultima classe, o partizione, delle cose denominabili. III. ATTRIBUTI. PRIMO: QUALITÀ 9. Da quello e è già stato deo della sostanza si può facilmente dedurre e cosa si debba dire degli aributi. Infai, se dei corpi non conosciamo e non possiamo conoscere nulla se non le sensazioni e suscitano in noi o negli altri, le sensazioni saranno necessariamente tuo ciò e, in ultima analisi, possiamo intendere parlando degli aributi dei corpi. E la distinzione, e si fa verbalmente, tra le proprietà delle cose e le sensazioni e ne riceviamo, deve avere la sua origine nella convenienza linguistica piuosto e nella natura di ciò e è significato dai termini.

Di solito, gli aributi sono distribuiti soo i tre titoli di qualità, quantità e relazione. Dei due ultimi parleremo tra poco: per ora ci limiteremo al primo. Prendiamo dunque come nostro esempio una di quelle e vengono iamate le qualità sensibili degli oggei, e sia quest’esempio la bianezza. Che cosa asseriamo, in realtà, quando aribuiamo la bianezza a una qualsiasi sostanza, come, per esempio, la neve; quando diciamo e la neve ha la qualità della bianezza? Semplicemente, e quando la neve è presente ai nostri organi abbiamo una particolare sensazione e siamo abituati a iamare la sensazione di bianco. Ma come faccio a sapere e la neve è presente? Ovviamente, mediante le sensazioni e ne derivo, e in nessun altro modo. Inferisco e l’oggeo è presente, peré mi dà un certo aggregato, o una certa serie di sensazioni. E quando assegno alla neve l’aributo della bianezza, intendo solo e quella e io iamo sensazione del colore bianco è una di quelle sensazioni e compongono questo gruppo, o serie, di sensazioni. esto è uno dei punti di vista e si possono assumere a proposito di quest’argomento. Ma c’è ane un punto di vista diverso. Si può dire e è vero e degli oggei sensibili non conosciamo nulla, se si ecceuano le sensazioni e suscitano in noi; e il fao, e riceviamo dalla neve la particolare sensazione e si iama sensazione di bianco, è la ragione per cui aribuiamo a questa sostanza la qualità della bianezza; la sola prova e essa possiede quella qualità. Ma dal fao e una cosa possa essere la sola prova dell’esistenza di un’altra, non segue e le due cose siano una sola e medesima. L’aributo della bianezza (si può dire) non è il fao e si riceva la sensazione, ma quale cosa nell’oggeo in sé; una potenza inerente ad esso; qualcosa in virtù della quale l’oggeo produce la sensazione. E quando affermiamo e la neve produce l’aributo della bianezza, non ci limitiamo semplicemente ad asserire e la presenza della neve produce in noi quella sensazione, ma e la produce in noi, per mezzo di, e a ragione di, quella potenza o qualità. Per gli scopi della logica non è di importanza vitale quale di queste opinioni adoiamo. La discussione completa di quest’argomento appartiene a quell’altro seore della ricerca scientifica cui tanto spesso si allude con il nome di metafisica. i però c’è da dire e l’unica giustificazione e io riesca a scorgere per la dorina dell’esistenza di una specie particolare di entità iamate qualità, risiede in una tendenza della mente umana, tendenza e è la causa di molte illusioni. Voglio dire la disposizione, tue le

volte e incontriamo due nomi e non sono esaamente sinonimi, a supporre e si trai dei nomi di due cose differenti, mentre in realtà può darsi e siano i nomi della medesima cosa vista da due angolazioni differenti, o considerata a partire da differenti assunzioni sulle circostanze e li accompagnano. Siccome i termini «qualità» e «sensazione» non sono intersostituibili indiscriminatamente, si suppone e non possano denotare entrambi la medesima cosa, e cioè l’impressione o sentimento da cui, tramite i nostri sensi, siamo affei dalla presenza di un oggeo, sebbene non sia per nulla assurdo supporre e quest’identica impressione, o sentimento, possa essere iamato una sensazione quando lo si considera puramente o semplicemente in se stesso, e possa essere iamato qualità quando lo si guarda in relazione a uno dei numerosi oggei la cui presenza ai nostri organi di senso suscita nella nostra mente quella sensazione, o sentimento, tra i vari altri. E se questa è ammissibile come ipotesi, spea a coloro e sostengono l’esistenza di un’entità per sé, iamata qualità, l’onere di mostrare e la loro opinione è preferibile, e non è di fao nient’altro e un residuo persistente della vecia dorina delle cause occulte; di quella stessa assurdità e Molière mise così felicemente in ridicolo quando, da uno dei suoi medici pedanti, fece spiegare il fao e l’oppio produce il sonno, per mezzo della massima «peré ha una virtù soporífica». È evidente e, asserendo e l’oppio ha una virtù soporifica, il medico non spiegava il fao e l’oppio produce il sonno, ma si limitava, semplicemente, ad asserirlo una seconda volta. In maniera analoga, quando diciamo e la neve è bianca peré ha la qualità della bianezza, non facciamo altro e riasserire in un linguaggio più tecnico il fao e essa suscita in noi la sensazione di bianco. Se si dice e la sensazione di bianco deve avere una quale causa, io rispondo e la sua causa è la presenza di quell’aggregato di fenomeni e si iama «l’oggeo». Una volta asserito e la sensazione ha luogo tue le volte e l’oggeo è presente e i nostri organi si trovano nel loro stato normale, abbiamo asserito tuo quello e sappiamo su questa faccenda. Dopo aver individuato una causa certa e intelligibile, non c’è bisogno di supporre ancora una causa occulta e serva allo scopo di meere la causa vera e propria in grado di produrre l’oggeo. Se mi iedono peré la presenza dell’oggeo causa in me questa sensazione, io non posso dirlo: posso solo dire e questa è la mia natura e questa è la natura dell’oggeo: e il fao è parte della costituzione delle cose. Alla fine dovremo necessariamente arrivare a questa conclusione, ane dopo aver

interpolato l’entità immaginaria. ale e sia il numero degli anelli di cui consiste la catena delle cause e degli effei, il modo in cui uno qualsiasi degli anelli produce l’anello immediatamente successivo rimane, per noi, egualmente inesplicabile. È tanto facile comprendere e l’oggeo produca direamente e immediata mente la sensazione, quanto e produca la medesima sensazione con l’aiuto di qualcos’altro iamato il potere di produrla. Ma siccome le difficoltà e possiamo avvertire quando adoiamo questo punto di vista sull’argomento non possono essere eliminate senza discussioni e oltrepassino i limiti della nostra scienza, mi accontenterò di un’indicazione di passaggio e, per gli scopi della logica, adoerò un linguaggio compatibile sia con l’una sia con l’altra concezione della natura delle qualità. Dirò — cosa questa, almeno, e non ammee discussioni — e la qualità della bianezza aribuita all’oggeo «neve» è fondata sul fao e quest’oggeo suscita in noi la sensazione di bianco; e adoando il linguaggio già usato dai logici delle Scuole nel caso di quelle specie di aributi iamati relazioni, dirò e la sensazione di bianco è il fondamento della qualità della bianezza. Per gli scopi della logica la sensazione è la sola parte essenziale di ciò e s’intende con questa parola; l’unica parte e noi ci preoccuperemo mai di provare. Provato questo, è provata la qualità; naturalmente, se un oggeo suscita una sensazione, avrà il potere di suscitarla. IV. RELAZIONI 10. Abbiamo deo e le qualità di un corpo sono gli aributi fondati sulle sensazioni e la presenza ai nostri organi di quel corpo particolare suscita nella nostra mente. Ma quando assegnamo a un oggeo qualsiasi quella specie di aributo iamato relazione, il fondamento dell’aributo non può non essere un qualcosa in cui, oltre all’oggeo stesso e al percipiente, sono coinvolti altri oggei. Siccome si può dire, propriamente, e c’è una relazione tra due cose qualsiasi a cui si siano dati, o si possano dare, due nomi correlativi, possiamo aspearci di scoprire e cosa costituisca una relazione in generale, se enumeriamo i casi principali in cui gli uomini hanno imposto nomi correlativi, e se osserviamo e cosa abbiano in comune questi casi.

al è dunque il caraere posseduto in comune da stati di circostanze così eterogenei e discordanti come questi: una cosa simile a un’altra; una cosa dissimile da un’altra; una cosa vicinaa un’altra; una cosa lontana da un’altra; una cosa prima, dopo, insieme con, un’altra; una cosa maggiore, eguale, minore, di un’altra; una cosa causa di un’altra; effetto di un’altra; una persona, padrone, servo, figlio, genitore, debitore, creditore, sovrano, suddito, legale, cliente, di un’altra; e così via? Tralasciando per il momento il caso della somiglianza (relazione, questa, e dev’essere considerata a parte) sembra e a tui questi casi sia comune una cosa e una soltanto: e in ciascuno di essi esiste, o compare, o è esistito, o è comparso, o possiamo aspearci e esista, o e compaia, quale fao o fenomeno, nel quale entrano come parti in causa tue e due le cose e si dicono messe in relazione tra di loro. esto fao, o fenomeno, è ciò e i logici aristotelici iamavano il fundamentum relationis. Così, nella relazione di maggiore e minore tra due grandezze, il fundamentum relationis è il fao e in certe condizioni una delle due grandezze potrebbe essere contenuta nello spazio occupato dall’altra grandezza senza riempirlo per intiero. Nella relazione di padrone e servitore il fundamentum relationis è il fao e l’uno si è impegnato, o è stato costreo a impegnarsi, a compiere certi servizi a beneficio e a comando dell’altro. Gli esempi si potrebbero moltiplicare indefinitamente; ma è già ovvio e ogni volta e si dice e due cose sono in relazione c’è quale fao, o quale serie di fai, nel quale queste cose entrano tue e due; e e ogni volta e due cose qualsiasi sono implicate in quale fao singolo o in quale serie di fai, possiamo assegnare a queste due cose una relazione reciproca, fondata su quel fao. Ane se le due cose non hanno in comune nulla se non quello e è comune a tue le cose — e cioè il fao di essere tue membri dell’universo — noi diciamo e questa è una relazione, e diciamo e le cose sono co-creature, co-esseri, o conciadini dell’universo. Ma secondo e il fao in cui i due oggei entrano come parti sia di natura più speciale e particolare, o più complicata, lo sarà ane la relazione fondata su di esso. E le relazioni concepibili sono tante quante sono le specie concepibili di fai in cui due cose possono essere implicate congiuntamente. Pertanto, allo stesso modo in cui una qualità è un aributo fondato sul fao e una certa sensazione o certe sensazioni sono prodoe in noi dall’oggeo, un aributo, fondato su quale fao in cui l’oggeo entra

congiuntamente con un altro oggeo, è una relazione tra quest’oggeo e un altro. Ma in quest’ultimo caso il fao consiste esaamente nella stessa specie di elementi in cui consiste il fao nel primo caso: cioè in istati di coscienza. Per esempio, nel caso di una qualsiasi relazione legale, come in quella tra creditore e debitore, principale e impiegato, tutore e pupillo, il fundamentum relationis consiste interamente in pensieri, sentimenti e volizioni (auali o contingenti), o delle persone stesse o di altre persone iamate in causa nella medesima serie di transazioni, quali, per esempio, le intenzioni e un giudice si formerebbe nel caso in cui alla sua corte fosse presentato un reclamo sull’infrazione di uno qualsiasi degli obblighi legali imposti dalla relazione; e gli ai e il giudice compirebbe in conseguenza («ai», come abbiamo già visto essendo un’altra parola per «intenzione seguita da un effeo», ed «effeo» non essendo e un’altra parola per «sensazioni» o per quale altro sentimento occasionato nell’agente stesso o in qualcun altro). Non c’è parte di ciò e implicano i nomi e esprimono la relazione, e non possa essere risolta in istati di coscienza; infai, senza dubbio, gli oggei esterni sono costantemente presupposti come le cause da cui vengono suscitati alcuni di questi stati di coscienza e le menti come i soggei e esperiscono tui questi oggei, mentre né gli oggei esterni, né la mente, rendono nota la loro esistenza altrimenti e per mezzo di stati di coscienza. I casi di relazione non sono sempre così complicati come quelli ai quali abbiamo alluso per ultimi. I più semplici fra tui i casi di relazione sono quelli espressi dalle parole «antecedente» e «conseguente» e dalla parola «simultaneo». Se diciamo, per esempio, e l’alba precede il sorgere del Sole, il fao in cui le due cose, l’alba e il sorgere del Sole, sono implicate congiuntamente, consiste soltanto delle due cose stesse; nel fao, o fenomeno, non entra per nulla una terza cosa, a meno e noi non scegliamo di dire e la terza cosa è la successione dei due oggei; ma la successione degli oggei non è qualcosa e si aggiunga alle cose stesse: è qualcosa e è implicito in esse. L’alba e il sorgere del Sole si annunciano alla nostra coscienza con due sensazioni successive: la nostra coscienza della successione di queste due sensazioni non è una terza sensazione, o sentimento, e si aggiunga ad esse; noi non abbiamo, prima, i due sentimenti e poi un sentimento della loro successione. Il fao e si abbiano comunque due sentimenti implica e li si abbiano o successivamente o simultaneamente. Date le sensazioni, o altri sentimenti, la successione e la

simultaneità sono le condizioni alla cui alternativa sono soggee le sensazioni in forza della natura delle nostre facoltà; e nessuno è mai stato in grado di analizzare più a fondo la faccenda, né c’è da aspearsi e lo sia. 11. In una posizione più o meno simile sono le altre due specie di relazioni: la somiglianza e la dissimiglianza. Ho due sensazioni; supporremo e siano sensazioni semplici: due sensazioni di bianco, oppure una sensazione di bianco e una sensazione di nero. Dico e le prime due sensazioni sono simili; le ultime due sono dissimili. al è il fao o fenomeno e costituisce il fundamentum di questa relazione? Prima di tuo, le due sensazioni, e poi quello e iamiamo un sentimento di somiglianza, o di assenza di somiglianza. Limitiamoci al primo caso. La somiglianza è evidentemente un sentimento, uno stato di coscienza dell’osservatore. Si può discutere se il sentimento di somiglianza dei due colori sia un terzo stato di coscienza, e io ho dopo aver avuto le due sensazioni di colore, o se (come il sentimento della loro successione) sia implicito nelle sensazioni stesse. Ma in entrambi i casi questi sentimenti di somiglianza, e del suo opposto, cioè di dissimiglianza, sono parti della nostra natura e parti e possono tanto poco essere analizzate, da essere anzi presupposte nel tentativo di analizzare ogni nostro altro sentimento. Pertanto la somiglianza e la dissimiglianza, così come la precedenza, la successione e la simultaneità, devono occupare un posto a parte tra le relazioni, come cose sui generis. Sono aributi fondati su fai, cioè su stati di coscienza: ma su stati e sono particolari, irresolubili e inesplicabili. Però, ane se la somiglianza e la dissimiglianza non possono essere risolte in nient’altro, i casi complessi di somiglianza e di dissimiglianza possono risolversi in casi più semplici. ando, di due cose e consistono di parti, diciamo e sono simili l’una all’altra, la somiglianza dei due intieri può essere analizzata: è composta delle somiglianze tra le varie parti, rispeivamente, e della somiglianza nella loro disposizione. Di quale ampia somiglianza tra le parti dev’essere composta quella somiglianza e c’induce a dire e un ritrao, o un paesaggio, sono simili ai loro originali! Se una persona ne imita un’altra con un certo successo, di quante somiglianze semplici dev’essere composta la somiglianza generale, o complessa! Somiglianza in una certa successione di aeggiamenti del corpo; somiglianza nella voce, o negli accenti e nell’intonazione delle parole, somiglianza nella

scelta delle parole, o nei pensieri e nei sentimenti espressi, sia con le parole, sia col portamento, sia coi gesti. Tue le somiglianze e le dissimiglianze di cui abbiamo una quale conoscenza, si risolvono in somiglianze e dissimiglianze tra stati della mente, nostri o di altri. ando diciamo e un corpo è simile a un altro (peré dei corpi non conosciamo null’altro se non le sensazioni e suscitano) intendiamo in realtà e c’è una somiglianza tra le sensazioni suscitate dai due corpi, o almeno, tra alcune parti di tali sensazioni. Se diciamo e due aributi sono simili l’uno all’altro (poié degli aributi non conosciamo nulla se non le sensazioni o gli stati dei sentimenti su cui sono fondati) intendiamo, in realtà, e quelle sensazioni o stati del sentimento si somigliano tra loro. Possiamo ane dire e sono simili due relazioni. Il fao della somiglianza tra due relazioni viene quale volta iamato «analogia», e costituisce uno dei numerosi significati di questa parola. La relazione in cui Priamo stava a Eore, cioè la relazione di padre a figlio, somiglia alla relazione in cui Filippo stava ad Alessandro; le somiglia così da vicino e si dice e sono la medesima relazione. La relazione in cui Cromwell stava con l’Inghilterra somiglia alla relazione in cui Napoleone stava con la Francia, ane se non le somiglia così da vicino da essere iamata la medesima relazione. In entrambi questi casi il significato non può essere e questo: la somiglianza esiste tra i due fai e costituiscono il fundamentum relationis. esta somiglianza può esistere in tue le gradazioni concepibili, dalla perfea indistinguibilità a qualcosa di estremamente soile. ando diciamo e un pensiero suggerito alla mente di una persona di genio è come un seme geato nel terreno, peré il primo produce una moltitudine di altri pensieri, mentre l’altro produce una moltitudine di altri semi, questo equivale a dire e tra la relazione e una mente inventiva ha con un pensiero in essa contenuto e la relazione e un suolo fertile ha con un seme contenuto in esso esiste una somiglianza: la somiglianza vera e propria sta nei due fundamenta relationis, in ciascuno dei quali compare un germe, e con il suo sviluppo produce una moltitudine di altre cose simili ad esso. E siccome ogni qualvolta due oggei sono implicati congiuntamente in un fenomeno, questo costituisce una relazione tra i due oggei, così, se supponiamo una seconda coppia di oggei implicati in un secondo fenomeno, è sufficiente la più leggera somiglianza tra i due fenomeni, pei ammeere e si dica e le due relazioni si somigliano, puré i punti di

somiglianza si trovino in quelle parti dei due fenomeni, rispeivamente, e sono connotate dai nomi relativi. Parlando di somiglianza è necessario far notare un’ambiguità di linguaggio dalla quale nessuno si guarderà mai abbastanza. La somiglianza, quando esiste al suo grado massimo e equivale all’indistinguibilità, è spesso iamata identità, e si dice e le due cose simili sono la stessa cosa. Dico «spesso», non «sempre». Infai non diciamo e due oggei visibili, per esempio, due persone, sono la medesima persona, peré sono tanto simili e l’uno potrebbe essere scambiato per l’altro: però usiamo spesso questo modo di esprimerci quando parliamo di sentimenti; come quando, per esempio, dico e la vista di un oggeo mi dà, oggi, la medesima sensazione o la medesima emozione e mi dava ieri; oppure, e mi dà la medesima sensazione e dà a un’altra persona. Evidentemente, questa è un’applicazione scorrea della parola «medesimo», infai il sentimento e avevo ieri se n’è andato, e non tornerà mai più: quello e provo oggi è un altro sentimento, forse esaamente simile a quello di ieri, ma distinto da esso; è evidente e due persone differenti non possono provar il medesimo sentimento, nel senso in cui diciamo e entrambe siedono alla medesima tavola. Con un’ambiguità simile diciamo e due persone sono ammalate della medesima malaia; e due persone occupano il medesimo ufficio; non già nel senso in cui diciamo e sono impegnate nella medesima avventura o stanno navigando sulla medesima nave, ma nel senso e adempiono a uffici esaamente simili, ane se, forse, in luoghi distanti. Spesso, il fao di usare il medesimo nome per esprimere idee così differenti come quelle di identità e di somiglianza indistinguibile crea grandi confusioni d’idee, e genera molte fallacie in intellei altrimenti illuminati, ma non sufficientemente aenti a questo fao (e peraltro non è, in se stesso, sempre da evitarsi). Tra gli autori contemporanei l’arcivescovo Whately è stato praticamente l’unico a riiamare l’aenzione su questa distinzione e sull’ambiguità e le è connessa. Parecie relazioni, generalmente iamate con altri nomi, sono, in realtà, casi di somiglianza. Così, per esempio, l’eguaglianza, e non è se non un’altra parola per la somiglianza esaa iamata comunemente identità, e si ritiene sussista tra due cose rispeo alla loro quantità. E quest’esempio rappresenta un opportuno anello di transizione al terzo e ultimo dei tre titoli

soo i quali, come abbiamo già osservato, vengono comunemente collocati gli aributi. V. QUANTITÀ 12. Si immaginino due cose tra le quali non ci sia differenza (cioè, non ci sia dissimiglianza) tranne e nella sola quantità: cioè, un gallone d’acqua e più d’un gallone d’acqua. Un gallone d’acqua, come qualsiasi altro oggeo esterno, rende nota la sua presenza con una serie di sensazioni e esso suscita. Dieci galloni d’acqua sono un altro oggeo esterno, e ci rende nota la sua presenza in maniera simile; e siccome non facciamo l’errore di scambiare dieci galloni d’acqua per un gallone d’acqua, è iaro e l’insieme di sensazioni è, nei due casi, più o meno differente: in maniera analoga un gallone d’acqua e un gallone di vino sono due oggei differenti, e rendono nota la loro presenza per mezzo di sensazioni, le quali differiscono l’una dall’altra. Nel primo caso, comunque, diciamo e la differenza sta nella quantità; nel secondo e c’è una differenza di qualità, mentre la quantità dell’acqua e del vino è la medesima. al è la vera e propria differenza tra questi due casi? Non rientra nel dominio della logica l’analizzarlo, né il decidere se sia o no susceibile di analisi. Per noi saranno sufficienti le considerazioni e seguono. È evidente e le sensazioni e ricevo dal gallone d’acqua, e quelle e ho ricevuto dal gallone di vino non sono le medesime; cioè, non sono esaamente simili; e neane sono completamente dissimili: sono in parte simili in parte dissimili. E ciò in cui si somigliano è precisamente ciò in cui, soltanto, non si somigliano il gallone d’acqua e i dieci galloni d’acqua. Ciò in cui il gallone d’acqua e il gallone di vino sono simili tra di loro, e in cui il gallone d’acqua e i dieci galloni d’acqua sono dissimili l’uno dall’altro, si iama la loro quantità. Io non pretendo di spiegare questa somiglianza e questa dissimiglianza; non più di quanto pretenda di spiegare una qualsiasi altra specie di somiglianza o di dissimiglianza. Il mio scopo è invece quello di mostrare e quando diciamo e due cose differiscono per la quantità, esaamente come quando diciamo e differiscono per la qualità, la nostra asserzione è sempre fondata sulle sensazioni e le due cose suscitano. Nessuno, suppongo, dirà e il vedere, o il sollevare, o il bere, dieci galloni d’acqua, non comprende in sé sensazioni differenti da quelle del vedere, del sollevare, del bere, un gallone d’acqua; o e il vedere, o il maneggiare un regolo lungo un piede e il vedere e il

maneggiare un regolo lungo una iarda fao esaamente come il primo, siano le medesime sensazioni. Io non mi azzardo a dire quale sia la differenza tra le sensazioni. Tui lo sanno e nessuno può dirlo. Non più, di quanto non si possa dire e cosa sia il bianco a una persona e non abbia mai avuto questa sensazione. Ma la differenza, nella misura in cui le nostre facoltà possono riconoscerla, sta nelle sensazioni. ale e sia la differenza e diciamo esserci nelle cose in se stesse, in questo come in tui gli altri casi essa è fondata, ed è fondata esclusivamente, su una differenza nelle sensazioni suscitate dalle cose. VI. ATTRIBUTI: CONCLUSIONE 13. Dunque, tui gli aributi dei corpi, e sono classificati soo «qualità» o «quantità», sono fondati sulle sensazioni e abbiamo ricevuto da quei corpi e possono essere definiti come i poteri, e quei corpi hanno, di suscitare quelle sensazioni. E si è visto e la medesima spiegazione generale vale per la maggior parte degli aributi e di solito vengono classificati soo il titolo di «relazione». Ane questi sono fondati su quale fao o su quale fenomeno in cui gli oggei messi in relazione entrano come parti; dal canto suo questo fao o fenomeno non ha nessun significato e non esiste per noi se non come la serie di sensazioni e di altri stati di coscienza per mezzo dei quali ci si rende noto; la relazione è semplicemente il potere o capacità, e l’oggeo possiede, di prendere parte insieme con l’oggeo correlato alla produzione di quella serie di sensazioni o di stati di coscienza. È bensì vero e siamo stati costrei a riconoscere e certe relazioni tue particolari, quali le relazioni di successione e di simultaneità, di somiglianza e di dissimiglianza, hanno un caraere in quale modo differente, peré, non essendo fondate su nessun fao o fenomeno distinto dagli stessi oggei messi in relazione non ammeono la medesima specie di analisi. Però pur non essendo, come altre relazioni, fondate sopra stati di coscienza, queste relazioni sono esse stesse stati di coscienza. La somiglianza non è altro e il nostro sentimento di somiglianza; la successione non è altro e il nostro sentimento di successione; o, se si contesta questo punto (e qui non possiamo discuterlo senza uscire dai limiti della nostra scienza) almeno la conoscenza e abbiamo di queste relazioni, e addiriura la nostra possibilità di conoscenza, è limitata a quelle relazioni e sussistono tra le nostre sensazioni o tra gli altri stati di coscienza; infai, ane se assegnamo

somiglianza, o successione, o simultaneità a oggei o ad aributi, lo facciamo sempre in virtù di somiglianza, o successione o simultaneità nelle sensazioni o negli stati di coscienza e questi oggei suscitano, e su cui quegli aributi sono fondati. 14. Nelle indagini precedenti, per amore di semplicità, abbiamo considerato soltanto i corpi, e abbiamo tralasciato la mente. Ma quello e abbiamo deo si può applicare, mutatis mutandis, ane alla mente. Proprio come quelli dei corpi, gli aributi della mente sono fondati sopra stati del sentimento o della coscienza. Ma nel caso della mente dobbiamo considerare tanto i suoi stati quanto quelli e essa produce in altre menti. Ogni aributo della mente consiste o nell’essere essa stessa affea in un certo modo, o nell’agire in un certo modo su altre menti. Considerata in se stessa, non possiamo predicare di essa nient’altro e la serie dei suci sentimenti. ando di una mente qualsiasi diciamo e è devota, o superstiziosa, o meditativa, o allegra, intendiamo e le idee, le emozioni, o le volizioni implicite in queste parole formano una parte frequentemente ricorrente della serie di sentimenti o di stati di coscienza e riempiono l’esistenza senziente di quella mente. Comunque, oltre a quegli aributi di una mente e sono fondati sui suoi propri stati di sentimento, possiamo aribuirgliene ane altri, nella stessa maniera in cui possiamo aribuirli a un corpo, fondati sui sentimenti e essa suscita in altre menti. È bensì vero e una mente non suscita sensazioni, come un corpo; però può suscitare pensieri o emozioni. L’esempio più importante di aributi assegnati a una mente per questa ragione è l’impiego di termini e esprimono approvazione o biasimo. ando, per esempio, diciamo e un certo caraere o (in altre parole) una mente, è ammirevole, intendiamo e la contemplazione di esso suscita un sentimento di ammirazione; e in realtà intendiamo qualcosa di più, peré la parola implica e non soltanto sentiamo ammirazione, ma e approviamo quel sentimento in noi stessi. In alcuni casi, soo le sembianze di un aributo singolo se ne predicano, effeivamente, due: uno è lo stato della mente in se stessa; l’altro uno stato da cui le altre menti sono affee quando pensano a quella mente, come quando diciamo e un tizio è generoso. La parola «generosità» esprime un certo stato della mente, ma, essendo un termine elogiativo, esprime ane e questo stato della mente suscita in noi un altro stato mentale e si iama «approvazione». L’asserzione faa è

perciò duplice, e ha il significato seguente: certi sentimenti formano abitualmente una parte dell’esistenza senziente di questa persona; e l’idea dei sentimenti di questa persona suscita in noi stessi o negli altri il sentimento dell’approvazione. Come alle menti assegnamo aributi in base alle idee e alle emozioni, così possiamo assegnare aributi ai corpi per ragioni simili, e non soltanto in base a sensazioni, come quando parliamo della bellezza di una statua. Infai quest’aributo è fondato sul sentimento tuo particolare di piacere e la statua produce nella nostra mente, sentimento e non è una sensazione, ma un’emozione. VII. RISULTATI GENERALI 15. È così terminata la nostra rassegna delle varie specie di cose e sono state, o e possono essere, nominate — e sono, o e possono essere, predicate di altre cose o, a loro volta, essere rese soggeo di predicazione. La nostra enumerazione era incominciata con i sentimenti. esti li abbiamo distinti scrupolosamente dagli oggei e li suscitano e dagli organi da cui sono, o da cui si può supporre e siano, trasmessi. I sentimenti sono di quaro specie: Sensazioni, pensieri, emozioni e volizioni. elle e si iamano percezioni sono, puramente e semplicemente, un caso particolare di credenza, e la credenza è una specie di pensiero. Le azioni non sono altro e volizioni seguite da un effeo. Dopo i sentimenti, siamo passati alle sostanze. Le sostanze sono o corpo o mente. Senza entrare nel terreno dei dubbi metafisici e sono stati sollevati sull’esistenza della materia o della mente come realtà oggeive, abbiamo enunciato, come sufficiente per noi, la conclusione su cui oggi i migliori pensatori si trovano quasi tui d’accordo: e tuo ciò e possiamo conoscere della materia sono le sensazioni e essa ci dà e l’ordine in cui queste sensazioni compaiono; e e mentre la sostanza corpo è la causa ignota delle nostre sensazioni, la sostanza mente ne è il recipiente ignoto. La sola classe di cose denominabili e rimanga è la classe degli aributi; e gli aributi sono di tre specie: alità, Relazioni e antità. Le qualità, come le sostanze, ci sono note non altrimenti e per mezzo delle sensazioni o per mezzo degli altri stati di coscienza e suscitano; e mentre in ossequio all’uso comune abbiamo continuato a parlarne come di una classe distinta di cose, abbiamo mostrato e nel predicarli nessuno intende predicare

nient’altro e quelle sensazioni o quegli stati di coscienza su cui si può dire e sono fondati, e per mezzo dei quali, soltanto, si può dire e sono definiti o e sono descrii. Se si ecceuano i semplici casi di somiglianza e dissimiglianza, di successione e di simultaneità, le relazioni sono fondate analogamente su quale fao o su quale fenomeno, e cioè su quale serie di stati di coscienza più o meno complicati. La terza specie di aributi, la quantità, è ane manifestamente fondata su qualcosa nelle nostre sensazioni o nei nostri stati di sentimento, dal momento e c’è un’indubbia differenza tra le sensazioni suscitate da una massa più grande e quelle suscitate da una massa più piccola o tra quelle suscitate da un grado maggiore e quelle suscitate da un grado minore d’intensità in ogni oggeo del senso e della coscienza. Pertanto tui gli aributi non sono per noi nient’altro e o le nostre sensazioni o altri stati del sentimento o qualcos’altro e è inestricabilmente contenuto in essi; e non fanno eccezione neane le relazioni tue particolari e semplici, e abbiamo appena menzionato. elle relazioni del tuo particolari sono comunque così importanti e, pur potendo a rigore essere classificate tra gli stati di coscienza, sono così fondamentalmente diverse da tui quegli altri stati, e sarebbe un’inutile soigliezza il voler ridurle a quella classe comune, ed è perciò necessario e siano classificate separatamenteh. Pertanto, come risultato della nostra analisi, oeniamo la seguente enumerazione e classificazione di tue le cose denominabili: 1). Sentimenti, o stati di coscienza. 2). Le menti, e esperiscono questi sentimenti. 3). I corpi, o oggei esterni, e suscitano alcuni di questi sentimenti, insieme con i poteri, o proprietà, per mezzo dei quali li suscitano; questi ultimi (almeno) essendovi stati inclusi, più in ossequio all’opinione corrente, e peré la loro esistenza è data come scontata nel linguaggio comune (da cui non posso allontanarmi senza commeere un’imprudenza) e non per il fao e il riconoscimento di questi poteri o proprietà come di cose realmente esistenti mi appaia garantito da una sana filosofia. 4 e ultimo). Le successioni e le coesistenze, le somiglianze e le dissimiglianze tra sentimenti e stati di coscienza. este relazioni, quando vengono considerate come sussistenti tra altre cose, esistono, in realtà, soltanto tra gli stati di coscienza e quelle cose, se sono corpi, suscitano, e e, se sono menti, suscitano o esperiscono.

esta classificazione può servire come sostituto delle categorie di Aristotele, considerate come una classificazione delle cose esistenti, almeno fin quando non se ne possa suggerire una migliore. La sua applicazione pratica risulterà evidente quando inizieremo l’indagine sul significato delle proposizioni; in altre parole, quando cereremo e cosa la mente creda effeivamente quando dà a una proposizione quello e si iama il suo assenso. Poié, se la classificazione è correa, queste quaro classi comprendono tue le cose e possono essere nominate, queste classi, o alcune di esse, devono naturalmente comporre la significazione di tui i nomi; e di queste, o di alcune di esse, è costituito tuo ciò e si iama «fao». Per amore di distinzione, spesso ogni fao e sia composto solamente di sentimenti o di stati di coscienza considerati come tali viene iamato fao psicologico, o soggeivo; mentre ogni fao e sia composto, in tuo o in parte, di qualcosa e sia diverso da questi, ossia di sostanze e aributi, si iama fao oggeivo. Possiamo dire e ogni fao oggeivo è fondato su un fao soggeivo corrispondente; e non ha nessun significato per noi (a parte dal fao soggeivo e gli corrisponde) se non come nome per il processo ignoto e inscrutabile, per mezzo del quale quel fao soggeivo o psicologico è messo in essere. a. A proposito del passo precedente il professor Bain osserva (Logic, I, 265): «Non sembra e le categorie siano state intese come classificazione delle cose denominabili, nel senso di “un’enumerazione di tue le specie di cose e si possono predicare, o di cui si predica qualcosa”. Sembra piuosto e siano state intese come generalizzazioni di predicati; come un’analisi del significato ultimo della predicazione. Considerate in questa luce, non offrono il fianco alle obiezioni avanzate dal signor Mill. La questione appropriata non è: In quale categoria dobbiamo meere le sensazioni, e gli altri sentimenti o stati della mente? ma: In quale categoria possiamo predicare parlando degli stati della mente? Si prenda, per esempio, la speranza ando diciamo e è uno stato della mente, ne prediiamo la sostanza; possiamo ane dire quanto grande essa sia (quantità), quale ne sia la qualità, se piacevole o dolorosa (qualità); a e cosa si riferisca (relazione). Sembra e Aristotele abbia costruito la tavola delle categorie secondo il seguente sema: i c’è un individuo, qual è l’analisi definitiva di tuo quello e possiamo predicarne?». Indubbiamente, questa è una formulazione esaa dell’idea direiva della classificazione. È certo e Aristotele intendeva la categoria ούσία come un nome generale per tue le possibili risposte alle domande: Quantum sit?, Quale sit?, ecc. Pertanto, può ben dirsi e nella concezione di Aristotele le categorie non fossero una classificazione delle cose; esse però furono presto trasformate in una classificazione dai seguaci scolastici di Aristotele, e certamente le considerarono e le traarono come una classificazione delle cose, e le elaborarono come tale, suddividendo la categoria della sostanza, come potrebbe fare un naturalista, nelle differenti classi di oggei fisici o metafisici, in quanto distinti dagli aributi, e le altre categorie nelle principali varietà di quantità, qualità, relazione, ecc. È perciò giusto criticarli dicendo e non avevano nessuna categoria del sentire. Sicuramente il

sentire può essere predicato come summum genus di ogni specie particolare di sentimento; per esempio, come nell’esempio del signor Bain, della speranza. Ma non può essere fao rientrare in nessuna delle categorie, come sono state interpretate da Aristotele o dai suoi seguaci. b. Philosophy of the Inductive Sciences, vol. I, p. 40. c. Discussions on Philosophy, ecc., Appendice I, pp. 643-644. d. È un peccato e, pur insistendo accanitamente su questa dorina, e pur formulandola, nel passo citato, con una larghezza e una forza e non lasciano affao a desiderare, Sir William Hamilton non si sia mantenuto coerente con la sua dorina, ma abbia sostenuto contemporaneamente opinioni con cui essa è sostanzialmente inconciliabile. Si veda il capitolo III, e altri capitoli, di An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy. e. «Nous savons qu’il existe quelque ose hors de nous, parce que nous ne pouvons expliquer nos perceptions sans les raaer à des causes distinctes de nous-mêmes; nous savons de plus que ces causes, dont nous ne conaissons pas d’ailleurs l’essence, produisent les effects les plus divers, et mêmes les plus contraires, selon qu’elles rencontrent telle nature ou telle disposition du sujet. Mais savonsnous quelque ose de plus? et même, vu le caractère indéterminé des causes que nous concevons dans les corps, y a-t-il quelque ose de plus a sàvoir? Y a-t-il lieu de nous enquerir si nous percevons les oses telle qu’elles sont? Non evidemment… Je ne dis pas que le problème est insoluble, je dis qu’il est absurde et enferme une contradiction. Nous ne savons pas ce que ces causes sont en elles-mêmes, et la raison nous défend de erer a le connaître: mais il est bien évident a priori qu’elles ne sont pas en elles mêmes ce quelles sont par rapport à nous, puisque la présence du sujet modifie nécessairement leur action. Supprimez tout sujet sentant, il est certain que ces causes agiraient encore puisqu’elles continueraient d’exister: mais elles agiraient autrement; elles seraient encore des qualités et des propriétés, mais qui ne ressembleraient à rien de ce que nous connaissons. Le feu ne manifesterait plus aucune des propriétés que nous lui connaissons; que serait-il? C’est ce que nous ne saurons jamais. C’est d’ailleurs peut-ètre un problème qui ne rèpugne pas seulement à la nature de notre esprit, mais a l’essence même des choses. and même on effet on supprimerait par le pensée tous les sujets sentants, il faudrait encore admere que nul corps ne manifesterait ses propriétés autrement qu’en relation avec un sujet quelconque, et dans ce cas ses propriétés ne seraient encore que relatives: en sorte qu’il me parait fort raisonnable d’admere que les propriétés determinées des corps n’existent pas indépendamment d’un sujet quelconque, et que quand on demande si les propriétés de la matière sont telles que nous les percevons, il faudrait voir auparavant si elles sont en tant que détérminées, et dans quel sens il est vrai de dire qu’elles sont». — Cours d’histoire de la philosophie Morale au 18ème siècle. [Noi sappiamo e esiste qualcosa fuori di noi, peré non possiamo spiegare le nostre percezioni senza farle risalire a cause distinte da noi stessi; inoltre, sappiamo e queste cause, di cui d’altronde non conosciamo l’essenza, producono gli effei più variabili, più diversi e addiriura più contrastanti, secondo e incontrino questa o quella natura, o questa o quella disposizione del soggeo. Ma sappiamo qualcosa di più? E anzi, visto il caraere indeterminato delle cause e concepiamo nei corpi, c’è qualcosa di più da sapere? Vale la pena di iederci se percepiamo le cose quali esse sono? Evidentemente, no… Non dico e il problema è insolubile: dico che è assurdo, e racchiude una contraddizione. Noi non sappiamo che cosa siano queste cause in se stesse, e la ragione ci proibisce di cercar di conoscerle; ma è ben evidente a priori, e non sono, in se stesse, quello e sono relativamente a noi, dal momento e la presenza del soggeo modifica necessariamente la loro azione. Si sopprima il soggeo senziente: è certo e le cause agiranno ancora, peré continueranno ad esistere; ma agiranno altrimenti; saranno ancora proprietà e qualità, ma saranno qualità e proprietà e non somiglieranno a niente di quello e conosciamo. Il fuoco non manifesterà più nessuna delle proprietà e noi gli riconosciamo: e cosa sarà? Ecco una cosa e non sapremo mai. D’altra parte,

può darsi che si tratti di un problema che non ripugna soltanto alla natura del nostro spirito, ma alla natura stessa delle cose.

Ane quando col pensiero si sopprimano di fao tui i soggei senzienti, si dovrà ancora ammeere e nessun corpo manifesta le sue proprietà in altro modo e araverso la sua relazione a un soggeo qualunque, e in questo caso le sue proprietà non saranno, ancora, che relative: di modo e sembrerebbe piuosto ragionevole ammeere e le proprietà determinate dei corpi non esistono indipendentemente da un soggeo qualunque, e e quando si iede se le proprietà della materia sono tali e le percepiamo, si dovrebbe vedere, prima di tuo, se sono in tanto in quanto sono determinate, e in e senso sia vero il dire e sono»]. f. A dire il vero, Reid e altri hanno tentato di dimostrare e sebbene alcune delle proprietà e assegnamo agli oggei esistano soltanto nelle nostre sensazioni, nelle cose in sé ne esistono altre, tali e non possono in nessun modo essere copie di una qualsivoglia impressione faa sui nostri sensi. E costoro si iedono: da quali sensazioni sono state derivate le nostre nozioni di estensione e di figura? La sfida lanciata da Reid fu raccolta da Brown1 e, applicando poteri d’analisi maggiori di quelli e furono mai applicati prima alle nozioni d’estensione e di figura, fece vedere e le sensazioni da cui sono derivate queste nozioni sono sensazioni di tao, combinate con sensazioni appartenenti a una classe cui in precedenza si era prestata poca aenzione: le sensazioni e hanno la loro sede nella nostra struura muscolare. La sua analisi, e fu poi faa propria e proseguita da James Mill, è stata in seguito grandemente migliorata dal profondo lavoro del professor Bain: The Senses and the Intellect, e nei capitoli sulla «percezione» di un lavoro in cui si fa sfoggio di grande potere analitico: i Principles of Psychology del signor Herbert Spencer. Su questo punto, si può di nuovo citare il signor Cousin in favore della dorina migliore. Contro Reid, il signor Cousin riconosce la sostaninziale soggeività delle nostre concezioni di quelle e vengono iamate le qualità primarie della materia, quali l’estensione, la solidità, ecc., insieme con quelle di colore, calore e del resto delle cosiddee qualità secondarie. Cours, ut supra, Lezione nona. g. Da quando, in questo Paese, è rinato l’interesse aivo per le speculazioni metafisie, questa dorina (e è la forma più completa della teoria filosofica nota soo il nome di teoria della relatività della conoscenza umana, è stata oggeo di un accresciuto numero di discussione e di controversie; e i dissenzienti si sono rivelati in numero considerevolmente più grande di quello e era a mia conoscenza quando scrissi il passo nel testo. Alcuni pensatori, tra cui il defunto professor Ferrier2, nei suoi Institutes of Metaphysics, e il professor John Grote3, nella sua Exploratio philosophica, sembrano negare completamente la realtà dei noumeni, o cose in sé, di un substrato, o sostegno inconoscibile per le sensazioni e esperiamo, e e, secondo la teoria, costituiscono tua quanta la nostra conoscenza di un mondo esterno. A me sembra, però, e almeno nel caso del professor Grote la negazione dei noumeni sia soltanto apparente, e e il professor Grote non differisca essenzialmente dagli appartenenti all’altra classe di obieori, compreso il signor Bailey con le sue pregevoli Letters on the Philosophy of the Human Mind e (nonostante il soprendente passo citato nel testo) dallo stesso Sir William Hamilton, e sostiene e la mente umana ha una conoscenza direa di qualcosa di più delle sensazioni: di certi aributi e di certe proprietà, quali esistono non in noi ma nelle cose in se stesse. h. Il professor Bain (Logic, I, 49) definisce gli aributi come «punti di comunanza tra classi». esta definizione esprime bene un punto di vista, ma è esposta all’obiezione e vale soltanto per gli aributi di classi, ane se si può dire e un oggeo unico nel suo genere abbia questi aributi. Inoltre, la definizione non è definitiva, dal momento e gli stessi punti di comunanza ammeono, ed esigono, un’analisi ulteriore; e il signor Bain non li analizza in somiglianze nelle sensazioni, o in istanti di coscienza suscitati dagli oggei. 1. omas Brown (1778-1820), filosofo scozzese, appartenente alla scuola del «senso comune». Allievo di Dugald Stewart, criticò il tentativo di quest’ultimo di spezzare la sostanza «mente» in facoltà, e, a differenza dei suoi predecessori, acceò il punto di vista humeano sul conceo di causa.

Rifacendosi al sensismo francese e in particolare a Condillac analizzò, privilegiandole, le sensazioni muscolari e il senso del tao, considerate come fonte della nostra conoscenza. A partire da Brown la scuola scozzese si spaccò in due rami distinti: l’uno, e fa capo a Hamilton, si avvicinò sempre più alla filosofia tedesca dell’800; l’altro, utilizzando molte analisi della scuola sensistica e più tardi del positivismo francese, confluì nelle teorie di James Mill e di Alexander Bain. Fu tra i collaboratori della «Edinburgh Review» sulla quale pubblicò nel 1803 un articolo di critica alla filosofia kantiana, e peraltro conosceva soltanto di seconda mano. Tra le sue opere principali ricordiamo: Observations on the Nature and the Tendency of the Doctrine of Mr Hume concerning the Relation of Cause and Effect [Osservazioni sulla natura e la tendenza della dottrina humeana della relazione di causa ed effetto]

(1805; 3a ed., 1818 con il titolo An Inquiry into the Relation of Cause and Effect [Ricerca sulla relazione di causa ed effetto]); Lectures on the Philosophy of the Human Mind [Lezioni sulla filosofia della mente umana] 4 voll, (pubblicata postuma nel 1820). 2. James Fredri Ferrier (1808-1864), filosofo scozzese, avversario della scuola del senso comune, noto per la sua agnoiologia, o teoria dell’ignoranza secondo la quale non è possibile parlare dell’ignoranza di ciò e è inconoscibile (come la cosa in sé kantiana) dal momento e «ignoranza» si riferisce a ciò e è in linea di principio conoscibile e, per il momento, ignoto. Coerentemente con questa sua teoria, Ferrier sostenne un’epistemologia di tipo hegeliano, basata sul riconoscimento della sostanziale unità dell’ao conoscitivo e della cosa conosciuta. Opere principali: Institutes of Metaphysics, the Theory of Knowing and Being [Istituzioni di metafisica, teoria della conoscenza e dell’essere] (1854); Scottish Philosophy, the Old and the New [La filosofia scozzese: il vecchio e il nuovo] (1856), un’opera polemica diretta contro la scuola scozzese e contro Hamilton; Lectures on Greek Philosophy, [Lezioni sulla filosofia greca]

2 voll. (comparsa postuma nel 1866). 3. John Grote (1813-1866), filosofo inglese, fratello minore dello storico George Grote, si occupò principalmente di etica e di teoria della conoscenza. Criticando il punto di vista secondo cui soltanto la scienza positiva può fornirci la verità oggeiva, Grote gli contrappone la teoria secondo cui la filosofia, in quando studio delle sensazioni e dei pensieri di cui siamo direamente consapevoli, può fornirci verità fuori dello sema di spiegazione causale. Da questo punto di vista la filosofia è più fondamentale della scienza, peré qualsiasi tentativo di intendere razionalmente il mondo presuppone la credenza della razionalità del mondo, e questa credenza può essere raggiunta soltanto araverso la visione filosofica. In etica, Grote criticò il tentativo utilitaristico di istituire una scienza «positiva» della morale, rimproverando ai filosofi utilitaristi di accentrare la loro aenzione soltanto sulla parte senziente della natura umana, dimenticando la sfera del dover essere, essenziale alla moralità. Lo stile delle sue analisi hanno indoo alcuni critici a presentare Grote come il capostipite dei filosofi analitici inglesi. La maggior parte delle opere di Grote furono pubblicate postume dai suoi esecutori testamentari, ad eccezione della Exploratio Philosophica vol. I (1865). Tra esse ricordiamo: Examination of the Utilitarian Philosophy [Esame della filosofia utilitaristica] (1870); Treatise on the Moral Ideals [Trattato sugli ideali morali] (1876); Exploratio Philosophica, vol. II (1900).

CAPITOLO IV. PROPOSIZIONI 1. Prima di addentrarci in quell’analisi del significato e le proposizioni recano con sé, e è il vero e proprio oggeo e il vero e proprio scopo di questo Libro preliminare, dovremo premeere, alla traazione delle proposizioni, alcune considerazioni di natura relativamente elementare sulla loro forma e le loro varietà, come abbiamo già fao traando dei nomi. Come abbiamo deo prima, una proposizione è una parte del discorso in cui si afferma o si nega un predicato di un soggeo. Un predicato e un soggeo sono tuo quello di cui c’è bisogno per formare una proposizione: ma siccome dal fao e vediamo semplicemente due nomi messi insieme non possiamo concludere e si traa di un predicato e di un soggeo (non possiamo concludere, cioè, e si intende affermare o negare l’uno dell’altro) è necessario e ci sia quale modo o quale forma per indicare e s’intende far questo; quale segno e distingua una predicazione da tue le altre specie di discorso. esto si fa, talvolta, alterando leggermente una delle parole, e quest’alterazione si iama flessione, come quando diciamo: «Il fuoco brucia»; il cambiamento della seconda parola da «bruciare» a «brucia» mostra infai e intendiamo affermare il predicato «bruciare» del soggeo «fuoco». Ma questa funzione viene compiuta, più comunemente, dalla parola «è», quando s’intende un’affermazione, e dalle parole «non è» quando s’intende una negazione, o da quale altra forma del verbo «essere». Come abbiamo già osservato prima, la parola e serve così allo scopo di segno della predicazione si iama la «copula». È importante e nella nostra concezione della natura e dell’ufficio della copula non ci siano confusioni. Infai, le nozioni confuse a proposito della copula sono tra le cause e hanno diffuso il misticismo nel campo della logica e hanno fao degenerare le sue speculazioni, trasformandole in logomaie. Si è propensi a supporre e la copula sia qualcosa di più e non un puro e semplice segno di predicazione; e signifii ane esistenza. Nella proposizione «Socrate è giusto» può sembrare e sia implicito non soltanto e la qualità «giusto» può essere affermata di Socrate, ma e, oltre a ciò, sia ane implicito e Socrate è, cioè e esiste. esto però non fa altro e mostrare e c’è un’ambiguità nella parola «è», e non solo esercita la

funzione della copula nelle affermazioni, ma ha ane un significato suo proprio, in virtù del quale può a sua volta diventare il predicato di una proposizione. Che l’impiego di questa parola come copula non includa necessariamente l’affermazione dell’esistenza, appare iaro da una proposizione come questa: «Un centauro è un’invenzione dei poeti», dove non può affao essere implicato e un centauro esiste, dal momento e la proposizione stessa asserisce esplicitamente e la cosa non ha nessun’esistenza reale. Volumi e volumi si potrebbero riempire delle vane speculazioni sulla natura dell’essere (το ὄν, οὐσία, Ens, Entitas, Essentia, e simili) e sono sorte dall’aver trascurato questo doppio significato della parola «essere», dall’aver supposto e quando significa «esistere» e quando significa «essere quale cosa specifica», come essere un uomo, essere Socrate, essere visto, essere deo, essere un fantasma, e addiriura essere una non-entità, debba tuavia, alla fin fine, corrispondere alla medesima idea, e e si debba per forza trovare un significato e si adaa a tui questi casi. La nebbia e si alzò da questa piccola macia si diffuse, nell’antiità, sull’intiera superficie della metafisica. A noi non s’addice, però, trionfare sui grandi intellei di Platone e di Aristotele solo peré ora siamo in grado di preservarci da molti errori nei quali essi erano caduti forse senza poterlo evitare. Con i suoi sforzi il foista di una moderna macina a vapore produce effei di gran lunga superiori a quelli e poteva produrre Milone di Crotone1 ma non per questo è più forte di Milone. E raramente i Greci conoscevano altre lingue oltre alla loro. esto rendeva loro di gran lunga più difficile di quanto non lo sia per noi l’acquisizione di una certa prontezza a coglierne le ambiguità. Uno dei vantaggi derivanti dall’aver studiato accuratamente una certa quantità di lingue, specialmente quelle lingue e eminenti pensatori hanno usato come veicolo dei loro pensieri, è la lezione pratica e abbiamo imparato circa le ambiguità delle parole, quando ci siamo resi conto e in una lingua la medesima parola corrisponde, in occasioni diverse, a parole diverse in un’altra lingua. ando non siano così esercitate, ane le intelligenze più robuste trovano difficile il credere e cose e hanno un nome in comune non abbiano, per un aspeo o per l’altro, una natura comune; e spesso, come accadde frequentemente ai due filosofi appena menzionati, spendono senza profio una gran fatica nei vani tentativi di scoprire in e cosa consista questa natura comune. Ma, una volta e l’abito si sia formato, intellei di gran lunga inferiori sono in grado di cogliere ane le ambiguità e sono

comuni a molte lingue; ed è sorprendente e l’ambiguità e stiamo prendendo in considerazione in questo momento, pur esistendo sia nelle lingue moderne sia in quelle antie, sia sfuggita a quasi tui gli autori. La gran quantità di vane speculazioni causate dal malinteso sulla natura della copula fu faa intravedere da Hobbes, ma il signor James Milla, fu, credo, il primo a caraerizzare distintamente questa ambiguità e a meere in evidenza di quanti errori essa fosse responsabile nei sistemi di filosofia e vanno per la maggiore. Di fao quest’ambiguità ha trao in errore i moderni non meno degli antii, ane se, per il fao e le nostre intelligenze non sono ancora completamente emancipate dalla loro influenza, i loro errori non ci appaiono egualmente irrazionali. Ora passeremo brevemente in rassegna le principali distinzioni tra le proposizioni, e i termini tecnici più comunemente usati per esprimere tali distinzioni. 2. Poié una proposizione è quella parte del discorso in cui si afferma o si nega qualcosa di qualcos’altro, la prima divisione delle proposizioni è quella in proposizioni affermative e proposizioni negative. Una proposizione affermativa è quella proposizione in cui il predicato è affermato del soggeo, come in «Cesare è morto». Una proposizione negativa è una proposizione in cui il predicato viene negato del soggeo, come in «Cesare non è morto». In quest’ultima specie di proposizioni la copula consiste delle parole «non è», e sono il segno della negazione, «è» essendo il segno dell’affermazione. Alcuni logici, tra i quali si può menzionare Hobbes, formulano questa distinzione in modo differente; riconoscono soltanto una forma di copula, «è», e fanno rientrare il segno di negazione nel predicato. Secondo questi autori, «Cesare è morto» e «Cesare non è morto» sono proposizioni e concordano, non già nel soggeo e nel predicato, ma soltanto nel soggeo. Considerano come predicato della seconda proposizione, non già «morto», ma «non morto», e di conseguenza definiscono una proposizione negativa come una proposizione il cui predicato è un nome negativo. esto punto, pur non avendo una grande importanza pratica, merita aenzione come esempio (non infrequente in logica) in cui, per mezzo di una semplificazione apparente ma in realtà puramente verbale, le cose vengono rese più complicate di quanto non lo fossero prima. L’idea di questi autori era e traando ogni caso di negazione come l’affermazione di un nome negativo, ci si potesse sbarazzare della distinzione tra affermazione e negazione. Ma

e cosa s’intende con «nome negativo»? Un nome e esprime l’assenza di un aributo, cosicé, affermando un nome negativo, in realtà prediiamo l’assenza e non la presenza di una cosa; asseriamo, non già e una certa cosa è, ma e una certa cosa non è, e per esprimere quest’operazione nessuna parola sembra più appropriata della parola «negare». La distinzione fondamentale è la distinzione tra un fao e la non-esistenza di quel fao; tra il vedere qualcosa e il non vederlo, tra l’essere morto e il non essere morto di Cesare; e se questa fosse una distinzione puramente verbale, la generalizzazione e portasse entrambe le cose soo la medesima forma d’asserzione, costituirebbe una semplificazione vera e propria: però, dal momento e la distinzione è una distinzione reale e ha un fondamento nei fai, la distinzione puramente verbale è proprio la generalizzazione e non lascia vedere la distinzione: essa tende a rendere oscuro l’argomento traando la differenza tra due specie di verità come se fosse soltanto una differenza tra due specie di parole. ali e siano i truci e possiamo operare con il linguaggio, il meere le cose insieme, e il meerle, o il mantenerle, separate, rimarranno due operazioni differenti. Un’osservazione di natura simile si può applicare alla maggior parte di quelle distinzioni e, a quanto si dice, si riferiscono alla modalità delle proposizioni; come la differenza nel tempo del verbo («Il Sole sorse»; «Il Sole sta sorgendo»; «Il Sole sorgerà»). Come la differenza tra affermazione e negazione, queste differenze si possono maserare considerando l’occorrenza del tempo come una pura e semplice modificazione del predicato. Così: «Il Sole è un oggetto che è sorto»; «Il Sole è un oggetto che sta sorgendo ora»; «Il Sole è un oggetto che deve sorgere tra poco». Ma la semplificazione sarebbe puramente e semplicemente verbale. Passato, presente e futuro non costituiscono altreante specie differenti di sorgere; sono designazioni e appartengono all’evento asserito, al fao e il Sole sorge oggi. Esse non incidono sul predicato, ma sull’applicabilità del predicato a quel soggeo particolare. ello di cui affermiamo e è passato, presente o futuro, non è ciò e il soggeo significa o e significa il predicato, ma, specificamente ed espressamente, quello e significa la predicazione; ciò e è espresso soltanto dalla predicazione come tale, e non dall’uno o dall’altro dei suoi termini. Pertanto, è correo considerare la circostanza del tempo come connessa con la copula, e è il segno della predicazione, e non con il predicato. Se la stessa cosa non si può dire di

modificazioni come queste: «Cesare può essere morto», «Forse Cesare è morto», «È possibile e Cesare sia morto», è soltanto peré queste modificazioni rientrano in una classe completamente diversa, dal momento e, per parlar propriamente, sono asserzioni non di qualcosa e si riferisce al fao in se stesso, ma di qualcosa e si riferisce alla nostra mente, relativamente al fao; relativamente, cioè, alla nostra assenza di noncredenza nel fao. Così, «Cesare può essere morto» significa «Io non sono sicuro e Cesare sia vivo». 3. La divisione successiva delle proposizioni è quella in proposizioni semplici e in proposizioni complesse, queste ultime iamate più opportunamente (dal professor Bainb) proposizioni composte. Una proposizione semplice è una proposizione in cui un solo predicato viene affermato o negato di un solo soggeo. Una proposizione composta è una proposizione in cui c’è più di un predicato, o più d’un soggeo, o più d’un soggeo e più d’un predicato. A prima vista questa divisione ha l’aria di essere un’assurdità; una solenne distinzione delle cose tra quelle cose e sono una e quelle cose e sono più d’una; come se dovessimo dividere i cavalli in cavalli singoli e in brani di cavalli. Ed è vero e spesso quella e viene iamata una proposizione complessa (o composta non è affao una proposizione, ma parecie proposizioni tenute insieme da una congiunzione. Tale è, per esempio, la proposizione seguente: «Cesare è morto e Bruto è vivo», e tale ane è la seguente: «Cesare è morto, ma Bruto è vivo». i ci sono due asserzioni ben distinte, e potremmo dire e queste due proposizioni sono una proposizione complessa con lo stesso dirio con cui possiamo dire e una strada è una casa complessa. È bensì vero e le parole sincategorematie «e» e «ma» hanno un significato, ma questo significato è così lungi dal fare di due proposizioni una proposizione sola, e anzi ad esse aggiunge una terza proposizione. Tue le particelle sono abbreviazioni, e, in generale, abbreviazioni di proposizioni; una specie di stenografia e suggerisce immediatamente alla mente qualcosa e, per essere espresso completamente, avrebbe riiesto una proposizione o una serie di proposizioni. Così, le parole «Cesare è morto e Bruto è vivo» equivalgono a queste: «Cesare è morto», «Bruto è vivo»: «Si desidera e le due proposizioni vengano pensate insieme». Se le parole fossero «Cesare è morto, ma Bruto è vivo», il senso sarebbe stato equivalente alle medesime tre

proposizioni insieme con una quarta: «Tra le due proposizioni precedenti esiste un contrasto»: cioè, o un contrasto tra i due fai di per se stessi, o tra i sentimenti con cui si desidera e il fao venga considerato. Nei casi citati, le due proposizioni sono tenute visibilmente distinte, ciascun soggeo avendo il suo predicato separato, e ciascun predicato avendo il suo soggeo separato. Comunque, per ragioni di brevità, e per evitare ripetizioni, le proposizioni vengono spesso fuse insieme, come in questa: «Pietro e Giacomo predicarono a Gerusalemme e in Galilea», e contiene quaro proposizioni: «Pietro predicò a Gerusalemme», «Pietro predicò in Galilea», «Giacomo predicò a Gerusalemme», «Giacomo predicò in Galilea». Abbiamo visto e quando le due o più proposizioni comprese in quella e si iama una proposizione complessa sono asserite in assoluto, e non soo una quale condizione o limitazione, non si traa affao di una sola proposizione, ma di una pluralità di proposizioni: infai ciò e la proposizione complessa esprime non è un’asserzione singola, ma parecie asserzioni e, se sono vere quando sono congiunte, sono vere ane quando sono separate. Ma c’è una specie di proposizioni e, pur contenendo una pluralità di soggei e di predicati e pur potendo dirsi, in un certo senso della parola, costituite di parecie proposizioni, contengono una sola asserzione; e la loro verità non implica affao quella delle proposizioni semplici e le compongono. Un esempio di questo genere si ha quando le proposizioni semplici sono connesse dalla particella «o», come: «A è B o C è D», o dalla particella «se», come: «A è B se C è D». Nel primo caso la proposizione si iama disgiuntiva, nel secondo caso si iama condizionale: originariamente a queste due proposizioni si dava, in comune, il nome di ipotetiche. Come hanno giustamente fao osservare l’arcivescovo Whately e altri autori, la forma disgiuntiva è risolubile nella forma condizionale: ogni proposizione disgiuntiva è infai equivalente a due o più proposizioni condizionali: «O A è B o C è D» significa: «Se A non è B, C è D»; e «Se C non è D, A è B». Pertanto tue le proposizioni ipotetie, pur essendo disgiuntive quanto alla loro forma, sono condizionali quanto al loro significato; e le parole «ipotetica» e «condizionale» possono essere, e di fao generalmente sono, usate come sinonimi. Le proposizioni in cui l’asserzione non dipende da una condizione si iamano, nel linguaggio dei logici, categoriche.

A differenza delle pretese proposizioni complesse e abbiamo preso in considerazione precedentemente, una proposizione ipotetica non è un puro e semplice aggregato di proposizioni semplici. Le proposizioni semplici e formano una parte delle parole in cui è redaa la proposizione ipotetica, non fanno parte dell’asserzione e essa trasmee. ando diciamo «Se il Corano viene da Dio Maomeo è il profeta di Dio», non intendia mo affermare né e il Corano viene da Dio né e Maomeo è realmente il suo Profeta. Può darsi e nessuna di queste due proposizioni semplici sia vera, e tuavia può darsi e la verità della proposizione ipotetica sia indiscutibile. ello e si asserisce, non è la verità dell’una o dell’altra delle due proposizioni, ma la possibilità di inferirne l’una dall’altra. E allora quale sarà il soggeo, e quale il predicato della proposizione ipotetica? Il soggeo non è né «il Corano» né «Maomeo», peré nulla si nega o si afferma del Corano o di Maomeo. Il soggeo vero e proprio della predicazione è l’intiera proposizione «Maomeo è il Profeta di Dio», e l’affermazione è e questa proposizione è un’inferenza legiima dalla proposizione «Il Corano viene da Dio». Pertanto il soggeo e il predicato di una proposizione ipotetica sono nomi di proposizioni. Il soggeo è una quale proposizione. Il predicato è un nome generale relativo e può essere applicato a proposizioni di questa forma: «Un’inferenza dalla proposizione così e così». esto ci fornisce un nuovo esempio dell’osservazione e le particelle sono abbreviazioni: si vede infai e «Se A è B, C è D» è un’abbreviazione della seguente proposizione: «La proposizione “C è D” è un’inferenza legiima dalla proposizione “A è B”». Pertanto, la distinzione tra proposizioni ipotetie e proposizioni categorie non è così grande come appare a prima vista. Tanto nella forma condizionale quanto nella forma categorica, si afferma un solo predicato di un solo soggeo, e nulla più; ma una proposizione condizionale è una proposizione e si riferisce a una proposizione: il soggeo dell’asserzione è, a sua volta, un’asserzione. Né si traa di una proprietà peculiare alle proposizioni ipotetie. Ci sono altre classi di asserzioni e riguardano proposizioni. Come altre cose, una proposizione ha aributi e possono essere predicati di essa. In una proposizione ipotetica l’aributo e si predica della proposizione è l’aributo di essere un’inferenza da un’altra proposizione. Ma questo è soltanto uno dei molti aributi e se ne potrebbero predicare. Possiamo dire: «Che il tuo sia maggiore della sua parte è un assioma della matematica»; «Che lo Spirito Santo proceda dal solo

Padre è un dogma della Chiesa greca»; «La dorina del dirio divino dei re fu ripudiata dal Parlamento durante la Rivoluzione», «L’infallibilità del Papa non trova appoggio nelle Scriure». In tui questi casi il soggeo della predicazione è una proposizione intiera. Ciò di cui questi differenti predicati vengono affermati è la proposizione: «Il tuo è maggiore della sua parte», la proposizione «Lo Spirito Santo procede dal solo Padre», la proposizione «I re sono tali per dirio divino», la proposizione «Il Papa è infallibile». Vedendo dunque e tra le proposizioni ipotetie e una qualsiasi altra proposizione c’è meno differenza di quanto si sarebbe indoi a immaginare giudicando dalla loro forma, ci troveremmo in imbarazzo se dovessimo spiegare la posizione preminente e è stata loro assegnata nei traati di logica, se non ci ricordassimo e quello e esse predicano di una proposizione — cioè il suo essere un’inferenza da qualcos’altro — è, precisamente quello, tra i suoi aributi, e maggiormente interessa un logico. 4. La divisione successiva delle proposizioni è quella in proposizioni universali, particolari, indefinite e singolari: distinzione fondata sul grado di generalità in cui si deve intendere il nome e rappresenta il soggeo della proposizione. Le proposizioni e seguono sono esempi: sono mortali Alcuni uomini sono mortali Tutti gli uomini

L’uomo

è mortale

Giulio Cesare

è mortale

Universale Particolare Indefinita Singolare.

La proposizione è singolare quando il soggeo è il nome di un individuo. «Il fondatore del Cristianesimo fu crocifisso» è una proposizione singolare tanto quanto lo è «Cristo fu crocifisso». ando il nome e è il soggeo della proposizione è un nome generale, possiamo voler affermare o negare il predicato o di tue le cose e il soggeo denota, o soltanto di alcune di esse. ando il predicato viene affermato o negato di tue e di ciascuna cosa denotata dal soggeo, la proposizione è universale; quando è affermato o negato soltanto di quale porzione indefinita di queste cose, è particolare. Così: «Tui gli uomini sono mortali», «Ogni uomo è mortale», sono proposizioni universali. Ane

«Nessun uomo è immortale» è una proposizione universale, peré il predicato, «immortale», si nega di ciascun individuo e di tui gli individui denotati dal termine «uomo», dal momento e la proposizione negativa è esaamente equivalente alla proposizione seguente: «Ogni uomo è nonimmortale». Ma «Alcuni uomini sono saggi», «Alcuni uomini non sono saggi», sono proposizioni particolari; il predicato «saggio», infai, nell’un caso è affermato e nell’altro è negato, non di ciascuno e di ogni individuo denotato dal termine «uomo», ma soltanto di ciascuno e di ognuno di una quale porzione di questi individui, senza e si specifii di quale porzione si trai; infai, se fosse specificato, la proposizione risulterebbe trasformata o in una proposizione singolare o in una proposizione universale con un soggeo differente, come, per esempio, «Tui gli uomini convenientemente istruiti sono sapienti». Ci sono altre forme di proposizioni singolari, come: «La maggior parte degli uomini sono imperfeamente istruiti», non avendo qui importanza quanto grande sia la parte del soggeo di cui si asserisce il predicato, puré si lasci indeterminato in qual modo questa porzione si debba distinguere dal restoc. ando la forma dell’espressione non mostra iaramente se s’intende e il nome generale, e è il soggeo della proposizione, stia per tui gli individui da esso denotati o soltanto per alcuni di essi, la proposizione è iamata, da alcuni logici, «indefinita»; ma, come osserva l’arcivescovo Whately, questo è un solecismo della medesima natura di quelli commessi da alcuni grammatici quando, nella loro lista dei generi, enumerano il genere dubbio. Ane se ha omesso di diiarare esplicitamente se intenda la proposizione in senso particolare o se l’intenda in senso generale, i parla non può non intendere di asserirla o nell’uno o nell’altro di questi due sensi; e spesso accade e il contesto o l’abito al discorso suppliscano alla mancanza, sebbene le parole non mostrino quale delle due specie di proposizioni egli intenda. Così, quando si afferma e «l’uomo è mortale», nessuno dubita e l’asserzione si intenda di tui gli esseri umani, e di solito la parola e indica l’universalità si tralascia soltanto peré il significato è evidente ane senza di essa. Nella proposizione «Il vino è buono», s’intende, con eguale prontezza ane se per ragioni piuosto differenti, e non si vuole e l’asserzione sia universale, ma particolared. Come ha osservato il professor Baine i principali esempi di proposizioni indefinite si hanno «con nomi di materia, e talvolta sono i soggei di una predicazione universale e

talaltra di una predicazione particolare. “Il cibo è costituito, imicamente, da carbonio, ossigeno, ecc.”, è una proposizione di quantità universale; il suo significato è costituito da tuo il cibo — da tui i generi di cibo. “Il cibo è necessario alla vita animale” è un caso di quantità particolare: il suo significato è una quale specie di cibo, non necessariamente tue le specie. “Il metallo è necessario per rinforzare” non significa tue le specie di metallo. “L’oro ti spalanerà le porte” significa una parte dell’oro». ando un nome generale sta per ciascuno e per ogni individuo di cui è un nome, o, in altre parole, per ciascuno e per ogni individuo e denota, i logici dicono e è distribuito, o preso distributivamente. Così, nella proposizione «Tui gli uomini sono mortali», il soggeo, «uomo» è distribuito, peré la mortalità viene asserita di ciascun uomo e di tui gli uomini; il predicato, «mortale» non è distribuito, peré i soli mortali di cui si parla nella proposizione sono quelli e sono ane uomini, mentre a quanto sembra, oltre agli uomini la parola può comprendere, e di fao comprende in sé, un numero indefinito di oggei. Nella proposizione «Alcuni uomini sono mortali», non sono distribuiti né il predicato né il soggeo. In quest’altra: «Nessun uomo ha ali», sono distribuiti sia il predicato sia il soggeo. Non soltanto si nega all’intiera classe degli uomini l’aributo dell’avere ali, ma la classe in parola viene separata ed esclusa dall’intiera classe degli alati, e non soltanto da una quale parte di questa classe. esta terminologia, e ci è di grande aiuto per formulare e per dimostrare le regole del sillogismo, ci mee in grado di esprimere molto concisamente la definizione di proposizione universale e quella di proposizione particolare. Una proposizione universale è quella proposizione il cui soggeo è distribuito; una proposizione particolare, invece, è quella il cui soggeo non è distribuito. Tra le proposizioni ci sono molte più differenze di quelle e abbiamo formulato qui, e alcune di esse sono considerevolmente importanti. Ma per spiegare e per illustrare queste differenze si presenteranno, in séguito, occasioni migliori. a. Analysis of the Human Mind, I, 126 segg. b. Logic, I, 85. c. Invece dei termini «Universale» e «Particolare», il professor Bain propone (Logic, I, 81) di applicare alle proposizioni i termini «Totale» e «Parziale», riservando la prima coppia di termini al loro significato induivo: «al contrasto tra una proposizione generale e i particolari, o individui, da cui

la deriviamo». A questo cambiamento nella nomenclatura si accompagnerebbe un vantaggio ulteriore: le proposizioni singolari, e nel sillogismo seguono le medesime regole delle proposizioni universali, sarebbero comprese, insieme con queste ultime, nella medesima classe, quella delle predicazioni totali. Ciò e è importante nel ragionamento non è il fao e il soggeo denoti molte cose, o una soltanto, ma e l’asserzione venga faa del tuo, o soltanto di una parte, di quello e il soggeo denota. Però le parole «universale» e «particolare» sono così familiari e così ben comprese in entrambi i sensi menzionati dal signor Bain, e il loro doppio significato non produce nessun’inconveniente di una quale importanza. d. Si può comunque considerare come equivalente a una proposizione universale con un predicato diverso: «Tuo il vino è buono, in quanto vino»; o: «è buono rispeo alle qualità e ne fanno del vino». e. Logic, l, 82. 1. Milone di Crotone (circa 540 a. C. -?), l’uomo più forte dell’antiità; riportò, come loatore, sei viorie nei Giuoi Olimpici, altreante nei Pitici, dieci negli Istmici e nove nei Nemei. Nella baaglia di Trionti guidò i Crotoniati alla vioria contro i Sibariti; fu fervido seguace di Pitagora.

CAPITOLO V. IL SIGNIFICATO DELLE PROPOSIZIONI 1. Un’indagine sulla natura delle proposizioni deve avere uno di questi due obbieivi: o l’analisi di quello stato della mente e si iama credenza, o l’analisi di ciò e è creduto. Tue le lingue riconoscono una differenza tra una dorina, o un’opinione, e il fao di avere quest’opinione; tra l’assenso e ciò a cui si assente. Secondo la concezione e ce ne siamo fai qui, la logica non ha nessun interesse per l’ao del giudicare o del credere; la considerazione di quest’ao, in quanto fenomeno della mente, appartiene a un’altra scienza. Tuavia, da Descartes in giù, e specialmente a partire dall’epoca di Leibniz e di Loe, i filosofi non hanno affao rispeato questa distinzione; e avrebbero traato con gran dispregio qualsiasi tentativo di analizzare il significato della proposizione e non fosse fondato su un’analisi dell’ao del giudizio. Una proposizione, avrebbero deo, non è altro e l’espressione in parole di un giudizio. Ciò e veramente conta non è l’espressione verbale pura e semplice, ma la cosa espressa. ando la mente assente a una proposizione, giudica. Ceriamo di trovare cosa faccia la mente quando giudica: allora, e non altrimenti, sapremo e cosa voglia dire la proposizione. In conformità con questi punti di vista, quasi tui gli autori di logica degli ultimi due secoli, inglesi, tedesi o francesi e fossero, hanno trasformato da un capo all’altro la loro teoria delle proposizioni in una teoria dei giudizi. Ritenevano e una proposizione, o giudizio (infai usavano queste due parole indiscriminatamente) consista nell’affermare un’idea di un’altra. Il giudicare consisterebbe nel meere insieme due idee, o nel portare un’idea soo l’altra, o nel meere a confronto due idee, o nel percepire l’accordo o il disaccordo tra due idee; e l’intiera dorina delle proposizioni, insieme con la teoria del ragionamento (e è sempre, necessariamente, fondata sulla teoria delle proposizioni) veniva formulata come se le idee, o le concezioni, o qualsiasi altro termine l’autore preferisse usare come nome per le rappresentazioni mentali in generale, costituissero essenzialmente l’oggeo e la sostanza di quelle operazioni.

Naturalmente, è vero e in ogni caso di giudizio (come, per esempio, quando giudiiamo e l’oro è giallo) ha luogo nella nostra mente un processo e viene spiegato in maniera parzialmente correa dall’una o dall’altra di queste teorie. Noi dobbiamo pur avere l’idea dell’oro e l’idea di giallo, e queste idee devono pur essere messe insieme nella nostra mente. Ma, in primo luogo, è evidente e questo è soltanto una parte di ciò e accade; peré possiamo benissimo meere insieme due idee senza compiere nessun ao di credenza, come quando ci limitiamo a immaginare qualcosa, come una montagna d’oro; o come quando di fao rifiutiamo la nostra credenza. Infai, ane per non credere e Maomeo fosse un apostolo di Dio, dobbiamo meere insieme l’idea di Maomeo e l’idea di apostolo di Dio. Il determinare e cosa accada nel caso di assenso o nel caso di dissenso, oltre al fao e si meono insieme due idee, è uno dei più intricati problemi della metafisica. Ma quale e possa essere la soluzione, possiamo azzardarci ad asserire e essa non può aver nulla affao da spartire con il significato delle proposizioni, e questo per la seguente ragione: e le proposizioni (tranne quale volta, quando l’oggeo di cui si traa è la stessa mente) non sono asserzioni e riguardino le nostre idee delle cose, ma asserzioni e riguardano le cose in se stesse. È bensì vero e per credere e l’oro è giallo io devo avere l’idea di oro e l’idea di giallo e e nella mia mente deve aver luogo qualcosa e ha da fare con queste idee; ma la mia credenza non si riferisce alle idee: si riferisce alle cose. ello e io credo è un fao e è in relazione alla cosa esterna, l’oro, e all’impressione e quella cosa esterna esercita sopra gli organi dell’uomo, non un fao e sta in relazione con la mia concezione dell’oro, e sarebbe un fao della mia storia mentale e non un fao della natura esterna. È vero e, per credere a questo fao della natura esterna, nella mia mente deve aver luogo un altro fao, e sulle mie idee deve essere compiuto un certo processo, ma la stessa cosa deve accadere per ogni altra cosa e faccio. Io non posso vangare il terreno se non ho l’idea del terreno e di una vanga, e di tue le cose su cui sto operando, e se non meo insieme queste ideea; ma il dire e il vangare consiste nel meere un’idea dentro l’altra sarebbe una descrizione molto ridicola del vangare. Il vangare è un’operazione e si compie sulle cose stesse, ane se è vero e se non avessi in mente le idee delle cose non potrei compierla. E, analogamente, ane se condizione preliminare indispensabile del credere è l’avere in mente una concezione preliminare dei fai, il credere è un ao e ha per oggeo i fai in se stessi. ando dico

e il fuoco causa il calore, intendo forse e la mia idea di fuoco causa la mia idea di calore? No: intendo e il fenomeno naturale fuoco causa il fenomeno naturale calore. ando intendo asserire qualcosa e riguarda le idee, dò alle idee i loro nomi propri, le iamo «idee», come quando dico e l’idea e un bambino ha di una baaglia è diversa dalla realtà, o e le idee e si hanno della divinità hanno un grande effeo sul caraere del genere umano. La convinzione e, in una proposizione, di importanza primaria per il logico sono le due idee e corrispondono al soggeo e al predicato (e non la relazione tra i due fenomeni e soggeo e predicato, rispeivamente, esprimono) mi sembra uno degli errori più fatali e siano mai stati introdoi nella filosofia della logica, e la causa principale per cui negli ultimi due secoli la teoria della scienza ha fao progressi così scarsi. asi sempre i traati di logica e di quelle parti della filosofia della mente connesse con la logica, e sono stati scrii da quando ha fao irruzione quest’errore fondamentale, pur essendo talvolta stati composti da uomini dotati di straordinaria abilità e fecondi di grandi realizzazioni, implicano tacitamente una teoria secondo cui la ricerca della verità consiste nel contemplare e nel maneggiare le nostre idee o concezioni delle cose, e non le cose in se stesse; dorina, questa, e equivale all’esserzione e l’unico modo per acquistare una conoscenza della natura consiste nello studiarla di seconda mano, così come è rappresentata nelle nostre menti. Nel fraempo le ricere condoe su ogni specie di fenomeni naturali portavano incessantemente alla luce grandi e fruuose verità sugli oggei più importanti, mediante processi su cui queste dorine sulla natura del giudizio e del ragionamento non geavano nessuna luce, e ai quali non fornivano il minimo aiuto. Non c’è da meravigliarsi, se coloro e sapevano per esperienza pratica in e modo si pervenga alla verità, ritenessero futile una scienza e consisteva principalmente di tali speculazioni. ello e è stato fao per il progresso della logica da quando quelle dorine vennero di moda, è stato fao, non da logici di professione, ma da ricercatori di altre scienze, nei cui metodi di ricerca sono venuti poco per volta alla luce molti princìpi di logica a cui prima non si era pensato. Costoro, però, hanno in generale commesso l’errore di supporre e i veci logici non conoscessero nulla affao dell’arte del filosofare, dal momento e i loro interpreti moderni avevano scrio, su di essa, cose tanto irrilevanti.

John Stuart Mill. Dipinto di George Frederic Was (Londra, National Portrait Gallery)

In quest’occasione dovremo dunque indagare non il Giudizio, ma i giudizi; non l’ao del credere, ma la cosa creduta. al è l’oggeo immediato della credenza in una proposizione? Che cos’è il dato di fao e essa significa? A e cosa, quando asserisco la proposizione, dò il mio assenso, e iedo agli altri di darlo? Che cosa è espresso da quella forma del discorso e si iama proposizione e la cui conformità al fao costituisce la verità della proposizione? 2. A questa questione, uno dei pensatori più perspicui e più coerenti e questo Paese, o addiriura il mondo, abbia mai prodoo — Hobbes — ha dato la seguente risposta. In ogni proposizione (dice Hobbes) ciò e è significato è la credenza di i parla e il predicato è un nome della stessa cosa di cui è nome il soggeo; e se le cose stanno realmente così la proposizione è vera. Dunque, la proposizione «Tui gli uomini sono esseri viventi» (direbbe Hobbes) è vera peré «essere vivente» è nome di tuo ciò di cui è nome «uomo». «Tui gli uomini sono alti sei piedi» non è vera, peré «alto sei piedi» non è nome di tuo ciò di cui è nome «uomo» (ane se è un nome di alcune di queste cose). Si deve ammeere e quella e in questa teoria viene enunciata come la definizione di una proposizione vera, è una proprietà e tue le proposizioni vere posseggono. Dal momento e il soggeo e il predicato sono entrambi nomi di cose, se fossero nomi di cose molto differenti l’un nome non si potrebbe predicare dell’altro compatibilmente con la sua significazione. Se è vero e alcuni uomini hanno la pelle color del rame, dev’essere vero — ed effeivamente la proposizione lo asserisce — e tra gli individui denotati dal nome «uomo» ce ne sono alcuni e stanno ane tra quelli denotati dal nome «color rame». Se è vero e tui i buoi ruminano, dev’essere vero e tui gli individui denotati dal nome «bue» si trovano ane tra quelli denotati del nome «ruminante»; e iunque asserisca e tui i buoi ruminano, asserisce indubbiamente e tra i due nomi sussiste questa relazione. Pertanto, l’asserzione e, secondo Hobbes, è l’unica e si faccia in una proposizione qualsiasi, in realtà viene faa in tue le proposizioni, e di conseguenza l’analisi di Hobbes possiede uno dei requisiti per essere quella vera. Possiamo fare ancora un passo: è la sola analisi e sia rigorosamente vera di tue le proposizioni, senza eccezione. ello e Hobbes ci indica come il significato delle proposizioni fa parte del significato di tue le

proposizioni, e costituisce l’intiero significato di alcune. esto, però, mostra soltanto come estremamente minuto sia il frammento di significato e possiamo far rientrare nella formula logica di una proposizione, ma non mostra e nessuna proposizione signifii di più. Peré noi abbiamo il dirio di meere insieme due parole ponendo tra esse una copula, è realmente sufficiente e la cosa o le cose denotate da uno dei nomi possano essere iamate ane con l’altro nome senza e ciò violi le regole dell’uso. Ma allora, se questo è tuo il significato e è necessariamente implicito in quella forma del discorso iamata proposizione, peré faccio obiezioni a questa definizione, in quanto definizione scientifica del significato di una proposizione? Peré ane se la pura e semplice collocazione e fa sì e la proposizione sia una proposizione non trasmee nulla più di questa ristrea quantità di significato, quella medesima collocazione, combinata con altre circostanze, quella forma, combinata con altra materia, ne trasmee di più, e in queste altre circostanze la proposizione asserisce realmente di più e non la pura e semplice relazione tra i due nomi. Le sole proposizioni di cui il principio di Hobbes costituisce una spiegazione sufficiente sono quella classe limitata e poco importante di proposizioni in cui sia il predicato sia il soggeo sono nomi propri. Infai, come abbiamo già osservato, rigorosamente parlando i nomi propri non hanno nessun significato: sono puri e semplici contrassegni per oggei individuali, e quando si predica un nome proprio di un altro nome proprio, la significazione trasmessa è tua qui: e entrambi i nomi sono contrassegni del medesimo oggeo. Ma proprio questa teoria, Hobbes ci presenta come una teoria della predicazione in generale. La sua dorina costituisce una spiegazione completa di predicazioni come queste «Hyde era Clarendon», o «Tullio era Cicerone»; esaurisce il significato di queste proposizioni, ma è una teoria tristemente inadeguata per tue le altre. Il fao e sia mai stata ritenuta adeguata si può spiegare facendo ricorso al fao e Hobbes, insieme con gli altri nominalisti, prestava poca o punta aenzione alla connotazione delle parole; e cercava il loro significato esclusivamente in quello e esse denotano, come se tui i nomi fossero contrassegni imposti agli individui (cosa e sono soltanto i nomi propri), e come se non ci fosse nessuna differenza tra un nome proprio e un nome generale, se non e il primo denota soltanto un individuo, mentre il secondo ne denota un numero maggiore.

Si è visto, comunque, e, se si ecceuano i nomi propri e quella parte della classe dei nomi astrai e non sono connotativi, il significato di tui i nomi risiede nella connotazione. Perciò, quando analizziamo il significato di una proposizione in cui il predicato e il soggeo, o uno dei due, sono nomi connotativi, dobbiamo guardare esclusivamente alla connotazione di questi termini e non a ciò e essi denotano, ossia, per usare il linguaggio di Hobbes (linguaggio e fino a questo punto è correo) a ciò di cui sono nomi. Nell’asserire e la verità di una proposizione dipende dalla conformità di significato tra i suoi termini (per esempio, e la proposizione «Socrate è saggio» è una proposizione vera, peré «Socrate» e «saggio» sono nomi applicabili alla o, come si esprime Hobbes, nomi della, medesima persona) è molto notevole e un pensatore così poderoso non si sia iesto: «Ma come mai sono diventati nomi della medesima persona?» Sicuramente, non peré tale fosse stata l’intenzione di quelli e inventarono le parole. ando gli uomini fissarono il significato della parola «saggio» non stavano pensando a Socrate, e quando i genitori di Socrate gli diedero il nome «Socrate», non pensavano certo alla saggezza. Si dà il caso e i nomi si adaino alla medesima persona a causa di un certo fatto, il quale fao non era noto, né in essere, quando i nomi furono inventati. Se vogliamo venire a sapere e cosa sia questo fao, il filo e conduce ad esso lo troveremo nella connotazione dei nomi. «Un uccello», «Una pietra», «Un uomo», o «Un uomo saggio», significano semplicemente un oggeo e ha questi o questi altri aributi. Il significato vero e proprio della parola «uomo» è costituito da quegli aributi, e non da Smith, da Brown, e dal resto degli individui. In maniera analoga, la parola «mortale» connota un certo aributo, o certi aributi, e quando diciamo «Tui gli uomini sono mortali», il significato della proposizione è e tui gli esseri e posseggono l’uno di questi insiemi di aributi posseggono ane l’altro. Se nella nostra esperienza gli aributi connotati da «uomo» sono sempre accompagnati dagli aributi connotati da «mortale», ne seguirà di conseguenza e la classe «uomo» sarà completamente inclusa nella classe «mortale», e e «mortale» sarà un nome di tue le cose di cui è nome «uomo». Ma peré? esti oggei vengono portati soo il nome, per il fao e posseggono gli aributi e il nome connota: ma la vera e propria condizione da cui dipende la verità della proposizione è il fao e posseggono quegli aributi, e non il fao e vengono iamati con quel

nome. I nomi connotativi non precedono, ma seguono gli aributi e connotano. Se si dà il caso e un aributo si trovi sempre congiunto con un altro aributo, i nomi concreti e corrispondono a questi aributi saranno naturalmente predicabili dei medesimi soggei, e si può dire, usando il linguaggio di Hobbes (sulla cui proprietà io, in quest’occasione, concordo pienamente) e sono due nomi della medesima cosa. Ma la possibilità di un’applicazione concomitante dei due nomi, è una pura e semplice conseguenza della congiunzione tra i due aributi e, nella maggior parte dei casi, quando furono introdoi i nomi e ne fu fissata la significazione, non si era affao pensato a questa possibilità. Che il diamante sia combustibile, è una proposizione e certamente mai nessuno si era sognato, quando la parola «diamante» e la parola «combustibile» riceveero per la prima volta il loro significato; e non lo si sarebbe mai potuto scoprire, neane con l’analisi più ingegnosa e raffinata della significazione di queste parole. Lo si trovò con un processo molto diverso, cioè facendo uso dei sensi e imparando da essi e nei diamanti sui quali si era tentato l’esperimento esisteva l’aributo della combustibilità. E il numero o il caraere degli esperimenti erano tali e da essi si poteva concludere e ciò e era vero di quegli individui era vero di tue le sostanze «iamate con quel nome», cioè di tue le sostanze e posseggono gli aributi connotati dal nome. Pertanto, quando la si analizzi, l’asserzione è e dovunque troviamo certi aributi si troverà ane un certo altro aributo; e questa non è una questione di significazione dei nomi, ma di leggi di natura; dell’ordine esistente tra i fenomeni. 3. Ane se, nei termini in cui egli l’enunciò, la teoria della predicazione di Hobbes non ha incontrato un’accoglienza molto favorevole da parte dei pensatori successivi, si può dire e sia assurta al rango di opinione indiscussa una teoria virtualmente identica ad essa, e per giunta non espressa affao in maniera così perspicua. La nozione di predicazione più generalmente ammessa è senza dubbio quella secondo cui la predicazione consiste nel far rientrare una certa cosa in una classe, cioè, o nel sussumere un individuo soo una classe, o nel sussumere una classe soo un’altra classe. Così, secondo questa concezione della predicazione, la proposizione «L’uomo è mortale» asserisce e la classe «uomo» è inclusa nella classe «mortale»; «Platone è un filosofo» asserisce e l’individuo Platone è uno di quegli individui e compongono la classe dei filosofi. Se la proposizione è

negativa, allora si dice e invece di sussumere qualcosa soo una classe essa esclude qualcosa da una classe. Così, secondo questa teoria, nel caso della proposizione «L’elefante non è carnivoro» si asserirebbe e l’elefante è escluso dalla classe dei carnivori, ossia e non viene annoverato tra le cose comprese in questa classe. Se si ecceuano le differenze terminologie, tra questa teoria della predicazione e la teoria di Hobbes non c’è nessuna differenza sostanziale. Infai una classe non è assolutamente nient’altro se non un numero indefinito di individui denotati da un nome generale. Ciò e ne fa una classe è il nome e viene dato in comune a questi individui. indi, il far rientrare qualcosa in una classe significa considerarla come una di quelle cose e devono essere iamate con quel nome comune. Escluderla da una classe significa dire e il nome comune non può esserle applicato. anto diffuso sia stato il successo di queste dorine della predicazione, si vede iaramente da questo: e esse sono la base del celebre dictum de omni et de nullo. ando tui quelli e ne traano risolvono il sillogismo nell’inferenza e ciò e è vero di una classe è vero di tue le cose, quali e siano, e appartengono a quella classe, e quando quasi tui coloro e fanno professione di logica diiarano e questo è il principio fondamentale a cui tui i ragionamenti devono la loro validità, è iaro e nella considerazione generale dei logici le proposizioni di cui sono composti i ragionamenti non possono non essere l’espressione del processo e consiste nel dividere le cose in classi e nel far rientrare ogni cosa nella classe e le è appropriata. A me questa teoria sembra un esempio iarissimo di quell’errore logico e si commee molto frequentemente in logica, quello dell’ὕστερον πρότερον; ossia, di quell’errore e consiste nello spiegare una cosa ricorrendo a quale altra cosa e la presuppone. ando dico e la neve è bianca, posso e devo pensare alla neve come a una classe, peré asserisco e una certa proposizione è vera di tua la neve. Ma certo non penso agli oggei biani come a una classe. Non penso a nessun oggeo bianco, tranne e alla neve, ma penso soltanto alla neve e alla sensazione di bianco e essa mi dà. Infai, quando ho giudicato le proposizioni e la neve è bianca, e e parecie altre cose sono biane, od ho assentito ad esse, comincio gradualmente a pensare agli oggei biani come a una classe, e comprende la neve e quelle altre cose. Ma questa è una concezione e ha seguito, non già preceduto, quei giudizi, e perciò non può essere prodoa

come una loro spiegazione. Invece di spiegare l’effeo facendo ricorso alla causa, questa dorina spiega la causa facendo ricorso all’effeo, e secondo me è fondata su un fraintendimento latente della natura della classificazione. In queste discussioni predomina in larghissima misura una specie di linguaggio e sembra presupporre e la classificazione sia un ordinamento e un raggruppamento di individui ben definiti e ben noti; e quando furono imposti i nomi, gli uomini abbiano preso in considerazione tui gli oggei individuali dell’universo, li abbiano distribuiti in eleni o in liste, e abbiano dato agli oggei di ciascuna lista un nome comune, ripetendo quest’operazione toties quoties, finé non ebbero inventato tui i nomi generali di cui consiste il linguaggio; e e, una volta fao questo, se in séguito sorge il problema se un certo nome generale si possa predicare con verità di un certo oggeo particolare, non dobbiamo far altro (per così dire) e leggere l’elenco degli oggei ai quali è stato imposto il nome e vedere se tra di essi si possa trovare l’oggeo a proposito del quale sorge la questione. I creatori del linguaggio (sembra e si supponga) hanno stabilito in anticipo tui gli oggei e devono comporre ciascuna classe, e noi non dobbiamo far altro e riferirci alla registrazione di una decisione antecedente. Una dorina così assurda non sarebbe adoata da nessuno, se fosse esposta così, nuda e cruda; ma se è vero e le spiegazioni comunemente acceate della classificazione e della denominazione non implicano questa teoria, è necessario mostrare in qual modo possano essere riconciliate con un’altra qualsiasi. I nomi generali non sono segni posti sopra oggei ben definiti; le classi non si costruiscono tracciando una linea intorno a un certo numero di individui dati. Gli oggei e formano una qualsiasi classe data fluuano perpetuamente. Possiamo costruire una classe senza conoscere gli individui, o addiriura senza conoscere nessuno degli individui di cui può essere composta; possiamo costruirla persino credendo e non esista nessun individuo così fao. Se per «significato di un nome generale» si dovessero intendere le cose di cui il nome è nome, nessun nome generale avrebbe un significato fisso, se non per caso, o perlomeno non conserverebbe a lungo il medesimo significato. Un nome generale può avere un significato definito solo quando è nome di una varietà indefinita di cose, cioè è il nome di tue le cose, note o ignote, passate, presenti o future, e posseggono certi aributi ben definiti. ando nello studiare non già il significato delle parole, ma i fenomeni della natura, scopriamo e questi aributi sono

posseduti da quale oggeo e prima non sapevamo e li possedesse (come quando i imici trovarono e il diamante è combustibile), includiamo questo nuovo oggeo nella classe: ma quest’oggeo non apparteneva alla classe già da prima. Noi colloiamo quest’oggeo nella classe peré la proposizione è vera, ma non è e la proposizione sia vera peré l’oggeo viene situato in quella classeb. In séguito, quando traeremo del ragionamento, si vedrà quanto la teoria di quel processo intelleuale sia stata viziata dall’influenza di queste nozioni erronee, e dall’abitudine, di cui esse sono esempio, di assimilare tue le operazioni dell’intelleo umano e hanno per oggeo la verità ai processi della pura e semplice classificazione e della denominazione pura e semplice. Sfortunatamente, gli intellei e si sono trovati impigliati in questa rete sono proprio quelli e hanno evitato l’altro errore cardinale e abbiamo commentato all’inizio di questo capitolo. Dopo la rivoluzione e ha sloggiato Aristotele dalle Scuole si può quasi dire e i logici possono essere divisi in due classi: quelli e hanno considerato il ragionamento come una faccenda e riguarda essenzialmente le idee, e quelli e l’hanno considerata, sostanzialmente, come una faccenda di nomi. Comunque, sebbene la teoria della predicazione elaborata da Hobbes renda completamente arbitrarie la verità e la falsità, privandole di ogni altro criterio e non sia la volontà degli uomini (secondo la ben nota osservazione di Leibniz e l’ammissione dello stesso Hobbesc) non si deve concludere e Hobbes o qualcuno degli altri pensatori e nel complesso sono stati d’accordo con lui, considerassero di fao la distinzione tra verità ed errore come meno reale, o le anneessero minore importanza di quella e altri le avevano aribuito. Una supposizione del genere rivelerebbe una totale ignoranza del resto della loro speculazione. Ma questo mostra quanta poca presa la loro dorina facesse sopra le loro stesse menti. In fin dei conti, nessuno ha mai immaginato e nella verità non ci fosse nulla più e la proprietà dell’espressione; nulla più e la conformità dell’uso del linguaggio a una convenzione antecedente. ando, dai casi generali, si è faa discendere la ricerca a un caso particolare, si è sempre riconosciuto e esiste una differenza tra questioni verbali e questioni reali; e certe proposizioni false sono state enunciate peré si ignorava il significato delle parole, ma e in altre la fonte dell’errore è una falsa concezione delle cose; e una persona, e non possegga affao l’uso del linguaggio, può formare mentalmente le proposizioni, e e queste proposizioni possono essere false:

cioè, e questa persona può credere e siano dati di fao cose e dati di fao non sono. est’ultima ammissione non può essere espressa in termini più forti di quelli usati da Hobbes medesimod, ane se egli non avrebbe ammesso e una tale credenza erronea venisse iamata «falsità», ma si sarebbe limitato a iamarla «errore». Ed egli stesso, in altri luoghi, ha enunciato dorine in cui è implicitamente contenuta la teoria vera della predicazione; Hobbes dice esplicitamente e i nomi generali si dànno alle cose in ragione dei loro aributi, e e i nomi astrai sono nomi di quegli aributi. «Astrao è ciò e in un qualsiasi soggeo denota la causa del nome concreto… e queste cause dei nomi sono le stesse cause delle nostre concezioni; cioè, un quale potere di azione, o di affezione, delle cose concepite, e alcuni iamano la maniera con cui una certa cosa agisce sui nostri sensi, ma e la maggior parte degli uomini iama accidenti»e. È strano e, pur essendo andato così in là, Hobbes non abbia ancora compiuto un altro passo e non abbia visto e quella e egli iama la causa del nome concreto è in realtà il significato del nome, e e quando prediiamo di un soggeo qualsiasi un nome e viene dato a causa di un aributo (o, come lo iama Hobbes, di un accidente) il nostro scopo non è quello di affermare il nome ma, per mezzo del nome, di affermare l’aributo. 4. Supponiamo e il predicato sia, come abbiamo deo, un termine connotativo; e, per far prima il caso più semplice, supponiamo e il suo soggeo sia un nome proprio: «La cima del Chimborazo è bianca». La parola «bianca» connota un aributo posseduto dall’oggeo individuale designato dalle parole «cima del Chimborazo», e quest’aributo consiste nel fao fisico e la cima del Chimborazo suscita negli esseri umani la sensazione e iamiamo sensazione di bianco. Si ammeerà e, asserendo la proposizione, vogliamo comunicare informazioni su quel fao fisico, e non pensiamo ai nomi se non come a mezzi necessari per effeuare quella comunicazione. Pertanto il significato della proposizione è e la cosa individuale denotata dal soggeo ha gli aributi connotati dal predicato. Se ora supponiamo e ane il soggeo sia un nome connotativo il significato espresso dalla proposizione si sarà ulteriormente complicato. Supponiamo anzituo e la proposizione sia universale e affermativa: «Tui gli uomini sono mortali». In questo caso, come nel caso precedente, ciò e la proposizione asserisce, o di cui esprime la credenza, è, naturalmente, e gli oggei denotati dal soggeo («uomo») posseggono gli

aributi connotati dal predicato («mortale»). Ma la caraeristica di questo caso è e gli oggei non sono più designati individualmente. Essi vengono indicati soltanto da alcuni loro aributi; sono gli oggei iamati «uomini», cioè gli oggei e posseggono gli aributi connotati dal nome «uomo», e l’unica cosa e possiamo conoscerne sono questi aributi; in realtà, siccome la proposizione è generale, e perciò gli oggei denotati dal soggeo sono in numero indefinito, la maggior parte di essi non sono affao noti individualmente. Pertanto, a differenza dell’asserzione precedente, quest’asserzione non è e gli aributi connotati dal predicato sono posseduti da un qualsiasi individuo dato, o da un numero qualsiasi di individui precedentemente noti, come Giovanni, Tommaso, ecc., ma e quegli aributi sono posseduti da ciascuno e da ogni individuo e possegga certi altri aributi; e tuo ciò e possiede gli aributi connotati dal soggeo possiede ane gli aributi connotati dal predicato; e quest’ultimo insieme di aributi accompagna costantemente il primo insieme. Tuo ciò e ha gli aributi dell’uomo ha l’aributo della mortalità; la mortalità accompagna costantemente gli aributi dell’uomof. Se ricordiamo e ogni aributo è fondato su quale fao o su quale fenomeno, o del senso esterno o della coscienza interna, e e «possedere un aributo» è un altro modo di dire per «essere la causa di» o «formare parte di» quel fao o fenomeno su cui l’aributo è fondato, si può compiere un altro passo verso il completamento dell’analisi. La proposizione, e asserisce e un aributo accompagna sempre un altro aributo, in realtà non asserisce nient’altro e questo: e l’un fenomeno accompagna sempre un altro fenomeno, cosicé dove troviamo quest’ultimo abbiamo la sicurezza e esiste ane il primo. Così, nella proposizione «Tui gli uomini sono mortali», la parola «uomo» connota gli aributi e assegnamo a una certa specie di creature viventi, in base a certi fenomeni e esse esibiscono, e e sono in parte fenomeni fisici — vale a dire le impressioni esercitate sui nostri sensi dalla loro forma e dalla loro struura corporea — e in parte fenomeni mentali — cioè la vita sensibile e intelleuale e posseggono in proprio. ando pronunciamo la parola «uomo», iunque ne conosca il significato comprende tue queste cose. Ora, quando diciamo «L’uomo è mortale», intendiamo e dovunque si trovino tui questi vari fenomeni fisici e mentali, lì siamo sicuri e non manerà di aver luogo quell’altro fenomeno fisico e mentale e si iama «morte». La proposizione non

afferma quando, peré la connotazione della parola «mortale» non va al di là dell’accadere del fenomeno in un tempo o nell’altro, lasciando indeterminato l’istante preciso. 5. Siamo già andati abbastanza avanti, non soltanto per dimostrare l’errore di Hobbes, ma ane per stabilire il significato reale di quella e è, di gran lunga, la classe più numerosa di proposizioni. In una proposizione e asserisca qualcosa di più del significato delle parole, l’oggeo della credenza è generalmente, come nei casi e abbiamo esaminato, la coesistenza o la successione di due fenomeni. Già all’inizio della nostra ricerca abbiamo trovato e ogni ao di credenza implica due cose; ora è stato accertato e cosa siano queste due cose nel caso più frequente: sono due fenomeni o, in altre parole, due stati di coscienza; e abbiamo accertato e cosa sia ciò il cui sussistere tra questi due fai la proposizione afferma o nega: la successione o la coesistenza. E questo caso comprende innumerevoli esempi e nessuno, prima di rifleerci su, avrebbe mai pensato di fare rientrare in esso. Prendiamo il seguente esempio: Una persona generosa è degna d’onore. Chi si aspeerebbe di riconoscere, qui, un caso di coesistenza di due fenomeni? Ma è così. L’aributo e fa sì e la persona sia dea generosa, le viene aribuito in base agli stati della sua mente e agli aspei particolari della sua condoa; sia gli uni sia gli altri sono fenomeni: i primi sono fai della coscienza interna, gli altri, in quanto distinti dai primi, sono fai fisici o percezioni dei sensi. «Degno d’onore» può essere analizzato in maniera simile. «Onore», come viene usato qui, significa uno stato emotivo d’approvazione e d’ammirazione seguìto, in certe occasioni, da ai esteriori corrispondenti. «Degno d’onore» connota tue queste cose, insieme con la nostra approvazione dell’ao del rendere onore. Tui questi sono fenomeni, stati di coscienza interni, accompagnati o Seguìti da fai fisici. ando diciamo «Una persona generosa è degna d’onore», affermiamo la coesistenza dei due complicati fenomeni connotati rispeivamente dai due termini; affermiamo e, dovunque e ogni qualvolta hanno luogo i sentimenti interni e gli ai esteriori implicati dalla parola «generosità», allora, e in quel luogo, l’esistenza e la manifestazione di un sentimento interno, l’onore, sarà seguita, nella nostra mente, da un altro sentimento interno, l’approvazione. Dopo l’analisi, e è stata faa in un capitolo precedente, del significato dei nomi, non ci sarà bisogno di molti esempi per illustrare il significato delle proposizioni. ando s’incontra quale oscurità o quale difficoltà,

queste non consistono nel significato delle proposizioni, ma nel significato dei nomi e le compongono; nella connotazione estremamente complicata di molte parole, nell’immensa moltitudine, nella serie estremamente lunga di fai, e spesso costituiscono il fenomeno connotato da un certo nome. Ma dove si vede quale sia il fenomeno, raramente s’incontra una quale difficoltà nel vedere e l’asserzione trasmessa dalla proposizione è la coesistenza di un tale fenomeno con un altro, o la successione di un tale fenomeno a un altro, cosicé dove si trova l’uno si potrà contar di trovare l’altro, ane se, forse, non si dà l’inverso. esto, comunque, pur essendo il significato più comune non è il solo significato e le proposizioni possano mai avere lo scopo di trasmeere. In primo luogo, le successioni e le coesistenze non sono asserite soltanto a proposito dei fenomeni: noi facciamo proposizioni ane sopra quelle cause occulte dei fenomeni e vengono iamate sostanze o aributi. Ma dal momento e per noi una sostanza non è nient’altro e ciò e causa i fenomeni o ciò e ne è consapevole, e dal momento e la stessa cosa è vera mutatis mutandis degli aributi, non si possono fare asserzioni, o almeno, non si possono fare asserzioni significanti, a proposito di queste entità sconosciute e inconoscibili, se non in virtù dei fenomeni per mezzo dei quali, soltanto, queste sostanze si manifestano alle nostre facoltà. ando diciamo «Socrate era contemporaneo della guerra del Peloponneso», il fondamento di quest’asserzione, così come di tue le asserzioni e riguardano le sostanze, è un’asserzione e riguarda i fenomeni e tali sostanze esibiscono: vale a dire e quella serie di fai per mezzo dei quali Socrate si è manifestato all’umanità e quella serie di stati mentali e ha costituito la sua esistenza senziente, sono accadute simultaneamente con quella serie di fai nota come guerra del Peloponneso. Inoltre, la proposizione, come la si intende comunemente, non asserisce soltanto quello: asserisce e la cosa in sé, il noumeno Socrate, esisteva e compiva o esperiva quei vari fai nel medesimo tempo. Perciò la coesistenza e la successione si possono affermare o negare, non soltanto tra fenomeni, ma tra un noumeno e un fenomeno. E sia dei noumeni, sia dei fenomeni, possiamo affermare la semplice esistenza. Ma e cos’è un noumeno? Una causa ignota. Pertanto, quando affermiamo l’esistenza di un noumeno, affermiamo la causazione. i perciò ci sono altre due specie di fai e possono essere asseriti in una proposizione. Oltre alle proposizioni e asseriscono successione o coesistenza, ce ne sono alcune e asseriscono la semplice esistenzag, mentre altre asseriscono la

causazione; e questa, in aesa delle spiegazioni e seguiranno nel terzo Libro, dev’essere considerata provvisoriamente come una specie distinta e tua particolare di asserzione. 6. A queste quaro specie di stati di fao, o di asserzione, se ne deve aggiungere una quinta, la somiglianza. esta è una specie d’aributo e avevamo trovato impossibile analizzare; una specie d’aributo al quale non si poteva assegnare nessun fundamentum distinto dagli oggei stessi. Oltre alle proposizioni e asseriscono una successione o una coesistenza tra due fenomeni, ci sono perciò ane proposizioni e asseriscono una somiglianza tra di essi; tali sono, per esempio: «esto colore e simile a quell’altro colore», «Il caldo di oggi è eguale al caldo di ieri». È vero e un’asserzione di questo genere potrebbe essere faa rientrare, abbastanza plausibilmente, nella descrizione di un’affermazione di successione, considerandola come l’asserzione e la visione simultanea dei due colori è seguìta da un sentimento specifico iamato sentimento di somiglianza. Ma sovraccaricandoci di una generalizzazione e si può considerare piuosto stiraciata, non guadagneremmo nulla, specialmente in questo caso. La logica non si accolla il compito di analizzare i fai mentali nei loro elementi ultimi. La somiglianza tra due fenomeni è più intelligibile di per se stessa di quanto non potrebbe renderla qualsiasi spiegazione, e quale e sia la classificazione in cui la si fa rientrare, deve rimanere specificamente distinta dai casi ordinari di successione e di coesistenza. Si dice talvolta e tue le proposizioni, quali e siano, il cui predicato sia un nome generale, di fao affermano o negano una somiglianza. Tue le proposizioni di questo genere affermano e una certa cosa appartiene a una certa classe; ma siccome le cose sono classificate insieme secondo la loro somiglianza, è naturale e ogni cosa sia classificata con le cose a cui si suppone somigli di più; e quindi, si può dire, quando affermiamo e l’oro è un metallo o e Socrate è un uomo, l’affermazione e s’intende è e l’oro somiglia ad altri metalli e e Socrate somiglia ad altri uomini più da vicino di quanto questi non somigliano agli oggei contenuti in un’altra qualsiasi delle classi a questi coordinate. est’affermazione è un tantino fondata, ma non più di un tantino. La disposizione delle cose in classi, quali la classe «metallo «o la classe «uomo», è bensì fondata su una somiglianza tra le cose e sono collocate nella medesima classe; ma non è fondata su di una pura e semplice somiglianza

generica: la somiglianza su cui tale disposizione è fondata consiste nel possesso, da parte di tue quelle cose, di certe peculiarità comuni; e sono queste peculiarità, e non la somiglianza, e il termine connota e e, di conseguenza, la proposizione asserisce. Infai, è bensì vero e dicendo «L’oro è un metallo» dico implicitamente e se esistono altre metalli l’oro gli deve somigliare, tuavia, se non esistessero altri metalli, potrei ancora asserire la proposizione con lo stesso significato e ha aualmente, e cioè e l’oro ha le varie proprietà implicite nella parola «metallo», proprio come si potrebbe dire «I Cristiani sono uomini», ane se non esistessero uomini e non fossero cristiani. Pertanto, le proposizioni in cui gli oggei vengono fai rientrare in una classe, peré posseggono gli aributi e costituiscono la classe, sono così lontane dal non asserire nient’altro se non la somiglianza, e anzi, per parlar propriamente, non asseriscono affao una somiglianza. Ma quale tempo fa abbiamo osservato (e le ragioni della nostra osservazione saranno esposte più compiutamente in un Libro successivoh) e quale volta è conveniente allargare i confini di una classe in modo da includervi cose e posseggono in misura molto inferiore — ammesso e le posseggano — alcune delle proprietà caraeristie della classe, puré somiglino a quella classe più e ad ogni altra, in quanto le proposizioni generali e sono vere della classe saranno più vicine ad essere vere di queste cose di quanto non lo sia ogni altra proposizione egualmente generale. Per esempio, ci sono sostanze iamate «metalli» e però hanno poissime delle proprietà in base alle quali si riconoscono comunemente i metalli; e quasi ogni grande famiglia di piante o di animali ha, ai suoi margini, alcuni generi o alcune specie anomali, e sono ammessi nella classe per una specie di gentile concessione, e riguardo ai quali si è molto discusso a quale famiglia, propriamente, appartengano. Ora, quando il nome della classe viene predicato di un qualsiasi oggeo di questo tipo, predicandolo affermiamo davvero somiglianza, e nulla più. E per essere scrupolosamente correi si dovrebbe dire e in tui i casi in cui si predica un nome generale si afferma, non assolutamente e l’oggeo possiede le proprietà designate dal nome, ma e, o possiede quelle proprietà, o, se non le possiede, in quale modo somiglia alle cose e le posseggono più di quanto non somigli a qualsiasi altra cosa. Nella maggior parte dei casi è però superfluo supporre un’alternativa di questo genere, l’ultima delle due ragioni essendo molto raramente quella in base alla quale si fa l’asserzione; e, quando lo è, generalmente c’è quale leggera differenza nella forma

dell’espressione, come «esta specie (o questo genere) è considerata, o: può essere classificata, come appartenente a questa famiglia così e così»: sarebbe praticamente impossibile affermare con sicurezza e appartiene a quella famiglia, a meno e non possegga inequivocabilmente le proprietà e il nome di classe significa dal punto di vista scientifico. C’è ancora un altro caso eccezionale in cui, sebbene il predicato sia il nome di una classe, tuavia, nel predicarlo, non affermiamo nient’altro e la somiglianza, dal momento e la classe è fondata non già sulla somiglianza in un qualsiasi particolare dato, ma su una somiglianza generale, non analizzabile. Le classi in questione sono quelle in cui si dividono le nostre sensazioni semplici, o, piuosto, i nostri sentimenti semplici. Le sensazioni di bianco, per esempio, vengono classificate insieme, non peré possiamo smontarle e dire e sono simili in questo e non sono simili in quello, ma peré sentiamo e sono completamente simili, ane se in gradi differenti. Perciò, quando dico: «Il colore e ho visto ieri era un colore bianco», o: «La sensazione e provo è una sensazione di streezza», in entrambi i casi l’aributo e affermo del colore, o dell’altra sensazione, è una pura e semplice somiglianza — una semplice similarità [likeness] — con le sensazioni e ho provato prima, e alle quali erano stati imposti quei nomi. Come gli altri nomi concreti generali, i nomi dei sentimenti sono connotativi, ma connotano una pura e semplice somiglianza. ando vengano predicati di un qualsiasi sentimento individuale, l’informazione e trasmeono è quella della similarità di quel sentimento con altri sentimenti e siamo stati abituati a iamare con il medesimo nome. Tanto può bastare per illustrare quella specie di proposizione in cui il dato di fao asserito (o negato) è la semplice somiglianza. Esistenza, coesistenza, successione, causazione somiglianza: l’una o l’altra di queste cose è asserita (o negata) in ogni proposizione e non sia puramente verbale. esta quintuplice divisione è una classificazione esauriente degli stati di fao; di tue le cose e possono essere credute o possono essere offerte alla credenza; di tue le questioni e possono esser proposte, e di tue le risposte e se ne possono dare. Il professor Baini, distingue due specie di proposizioni di coesistenza. «Nell’una specie si tiene conto del luogo; queste proposizioni possono essere descrie come proposizioni riguardanti l’ordine nello spazio». Nell’altra specie, la coesistenza e viene predicata è iamata dal signor Bain «coinerenza di aributi». «esta è una varietà distinta di proposizioni di

coesistenza. Invece di un ordinamento spaziale, con intervalli numerici, abbiamo il concorso di due o più aributi nella medesima parte, o località. Una massa d’oro contiene, in ogni suo atomo, gli aributi concomitanti e contrassegnano quella sostanza: peso, durezza, colore, lucentezza, incorrodibilità, ecc. Un animale, oltre ad avere le sue parti collocate in luoghi diversi, ha funzioni coinerenti nelle medesime parti, funzioni esercitate dalle medesime masse e dalle medesime molecole della sua sostanza… La mente, e non fornisce proposizioni di ordine nello spazio, ha funzioni coinerenti. Noi affermiamo e la mente contiene sentimento, volontà e pensiero, non localmente separati, ma esercitati insieme. Le proprietà concomitanti dei minerali, delle piante, e della struura mentale e corporea degli animali, sono unite in affermazioni di coinerenza». La distinzione è reale e importante. Ma, come s’è visto, quando non sia soltanto una somiglianza semplice e inanalizzabile tra il soggeo e alcune altre cose, un aributo consiste nel causare, nella coscienza, impressioni di quale genere. Di conseguenza, la coinerenza di due aributi non è altro e la coesistenza dei due stati di coscienza implicati nel loro significato; con la differenza, però, e quale volta questa coesistenza è soltanto potenziale, peré l’aributo è considerato esistente ane se può darsi e il fao su cui è fondato sia presente non in ao, ma soltanto in potenza. Per esempio, è molto conveniente dire e la neve è bianca ane in uno stato di totale oscurità, peré, ane se in quel momento non siamo consapevoli del suo colore, ne saremo consapevoli non appena farà giorno. Pertanto la coinerenza degli aributi è ancora un caso, sia pure complesso, di coesistenza di stati di coscienza, e comunque è una cosa totalmente diversa dall’ordine nello spazio. Facendo parte della simultaneità, appartiene non allo spazio, ma al tempo. Invece di «coesistenza» e di «successione» possiamo perciò (e quale volta troveremo e è conveniente) parlare, in modo più particolareggiato, di ordine nello spazio e di ordine nel tempo, l’ordine nello spazio essendo un modo specifico di coesistenza, e non è necessario analizzare più particolareggiatamente in questa sede, mentre il puro e semplice fao della coesistenza, sia tra sensazioni in ao sia tra quelle facoltà di causarle note col nome di aributi, può essere classificato, insieme con la successione, soo il titolo di ordine nel tempo.

7. Nella ricerca precedente sul significato delle proposizioni abbiamo ritenuto necessario analizzare direamente solo quelle proposizioni in cui i termini della proposizione (o almeno il predicato) sono termini concreti. Ma, così facendo, abbiamo analizzato indireamente ane quelle in cui i termini sono astrai. La distinzione tra un termine astrao e il suo concreto corrispondente non fa perno sulla differenza in ciò e essi sono stati incaricati di significare; infai la significazione vera e propria di un nome concreto generale è, come s’è deo, la sua connotazione, e ciò e il termine concreto connota forma l’intiero significato del nome astrao. Poié nel significato di un nome astrao non c’è nulla e non sia nel significato del nome concreto corrispondente, è naturale supporre e nel significato di una proposizione i cui termini siano astrai, non possa neane esserci se non quello e c’è in quale proposizione e può essere costruita a partire da nomi concreti. E un esame più rigoroso confermerà quest’ipotesi. Un nome astrao è un nome di un aributo o di una combinazione di aributi. Il nome concreto corrispondente è un nome dato alle cose per il fao e posseggono quell’aributo o quella combinazione di aributi, e allo scopo di esprimere questo fao. Pertanto, quando prediiamo un nome concreto di alcuné, ciò e in realtà prediiamo di questo alcuné è l’aributo. Ma abbiamo appena mostrato e in tue le proposizioni il cui predicato è un nome concreto, quello e viene realmente predicato è una di queste cinque cose: esistenza, coesistenza, causazione, successione o somiglianza. Perciò un aributo sarà necessariamente o un’esistenza o una coesistenza o una causazione o una somiglianza. ando consiste di un soggeo o di un predicato e sono termini astrai, una proposizione consiste di termini e devono necessariamente significare l’una o l’altra di queste cinque cose. ando prediiamo un nome astrao di una cosa qualsiasi, affermiamo di questa cosa e è l’una o l’altra di queste cinque cose: e è un caso di esistenza, o di coesistenza o di causazione o di successione o di somiglianza. È impossibile immaginare una qualsiasi proposizione, espressa in termini astrai, e non possa essere trasformata in una proposizione esaamente equivalente, i cui termini siano concreti; cioè o i nomi concreti e connotano gli stessi aributi, o i nomi dei fundamenta di questi aributi; i fai o fenomeni su cui sono fondati. Per illustrare quest’ultimo caso prendiamo questa proposizione, di cui il solo soggeo è un nome astrao: «La sventatezza è pericolosa». «Sventatezza» è un aributo fondato sui fai

e iamiamo azioni avventate, e la proposizione è equivalente a quest’altra: «Le azioni avventate sono pericolose». Nell’esempio e segue sono nomi astrai tanto il predicato quanto il soggeo: «La bianezza è un colore» o «Il colore della neve è una bianezza». esti aributi essendo fondati su sensazioni, le proposizioni equivalenti nel concreto sarebbero: «La sensazione di bianco è una delle sensazioni iamate sensazioni di colore»;» La sensazione visiva, causata dal fao di guardare la neve, è una delle sensazioni iamate sensazioni di bianco». Come abbiamo visto prima, in queste proposizioni lo stato di fao asserito è una somiglianza. Negli esempi e seguono, i termini concreti sono quelli e corrispondono direamente ai nomi astrai, connotando l’aributo e questi denotano. «La prudenza è una virtù» può essere resa: «Tue le persone prudenti, in quanto prudenti, sono virtuose»; «Il coraggio è degno di essere onorato» può essere resa così: «Tue le persone coraggiose meritano onore in quanto sono coraggiose», e è equivalente a quest’altra proposizione: «Tue le persone coraggiose, meritano e gli si aribuisca più onore e meno disonore rispeo a quello e gli si aribuirebbe per altre ragioni». Allo scopo di geare ancora altra luce sul significato di quelle proposizioni i cui termini sono astrai, sooporremo uno degli esempi dati qui sopra a un’analisi più minuta. La proposizione e scegliamo è la seguente: «La prudenza è una virtù». Sostituiamo alla parola «virtù» un’espressione equivalente ma più definita, come «una qualità mentale vantaggiosa per la società», o «una qualità mentale gradita a Dio», o qualsiasi altra espressione adoiamo come definizione di virtù. La proposizione asserisce una successione accompagnata da causazione: cioè e un vantaggio per la società, o l’approvazione di Dio, consegue alla, ed è causata dalla, prudenza. i c’è una successione: ma tra e cosa? Noi comprendiamo il conseguente della successione, ma dobbiamo ancora analizzare l’antecedente. «Prudenza» è un aributo, e in connessione con esso si devono ancora esaminare due cose: le persone prudenti e sono i soggetti dell’aributo e la condoa prudente, e si può iamare il fondamento dell’aributo. Ora, una di queste due cose è l’antecedente? E, innanzi tuo, s’intende e l’approvazione di Dio, o il vantaggio per la società accompagna tue le persone prudenti? No, se non in quanto sono prudenti; peré, tuo sommato, le persone prudenti e sono ane furfanti, raramente possono essere vantaggiose per la società; e non possono certo

riuscire ben accee a un Essere buono. È dunque alla condotta prudente e si suppone conseguano invariabilmente l’approvazione divina e i vantaggi per l’umanità? Dicendo e la prudenza è una virtù non s’intende neppure asserire questo, se non con le stesse riserve di prima e per la medesima ragione: vale a dire, e la condoa prudente, sebbene in quanto prudente rei vantaggio alla società, a ragione di qualcun’altra delle sue qualità potrebbe tuavia provocare un danno maggiore del vantaggio e meritare una disapprovazione superiore all’approvazione e sarebbe dovuta alla prudenza. Pertanto, né la sostanza (cioè la persona) né il fenomeno (cioè la condoa) è un antecedente a cui l’altro termine della successione consegua universalmente. Ma la proposizione «La prudenza è una virtù» è una proposizione universale. Da e cosa, dunque, la proposizione afferma e gli effei in questione seguono universalmente? Da ciò e, nella persona e nella condoa, fa sì e vengano iamate prudenti, e e si trova egualmente in esse quando l’azione, pur essendo prudente, è un’azione malvagia: cioè a dire, una previsione correa delle conseguenze, una giusta stima della loro importanza relativamente allo scopo e ci si propone, e la repressione di ogni impulso avventato e contrasti con lo scopo e ci si è proposti. esti, e sono stati mentali della persona, sono i veri e propri antecedenti della successione, la vera e propria causa nella causazione asserita dalla proposizione. Ma queste sono ane le ragioni reali, ossia il fondamento, dell’aributo «prudenza»; infai, dovunque esistano questi stati della mente, possiamo predicare la prudenza ane prima di sapere se da essi sia seguita una condoa qualsiasi. In questa maniera, ogni asserzione e riguardi un aributo può essere trasformata in un’asserzione esaamente equivalente, e riguarda il fao o fenomeno e è il fondamento dell’aributo. E non si può individuare nessun caso in cui quello e viene predicato del fao o del fenomeno non appartenga all’una o all’altra delle cinque specie enumerate in precedenza: o è un’esistenza semplice, o è in quale successione, o in quale coesistenza, o in quale causazione o in quale somiglianza. E dal momento e queste cinque cose sono le sole e possano essere affermate, saranno ane le sole e possano essere negate. «Nessun cavallo è un palmipede» nega e gli aributi di un cavallo coesistano con i piedi palmati. È praticamente superfluo applicare la medesima analisi ad affermazioni e a negazioni particolari. «Alcuni uccelli sono palmipedi» afferma e quale volta il fenomeno dei piedi palmati coesiste con gli

aributi connotati da «uccello». «Alcuni uccelli non sono palmipedi» asserisce e ci sono altri casi in cui questa coesistenza non ha luogo. E qui possiamo risparmiarci ogni ulteriore spiegazione di una cosa e, se l’esposizione precedente ha ricevuto l’assenso del leore, è così ovvia. a. Il door Whewhell (Philosophy of Discovery, p. 242) mee in dubbio quest’asserzione e iede: «Dovremo dire e una talpa non può scavare il terreno se non ha un’idea del terreno, e del grugno e degli unghioni con i quali lo scava?». Non so e cosa passi per la testa di una talpa, né quanto apprendimento mentale possa, o non possa, accompagnare le sue azioni istintive. Ma un essere umano non usa una vanga istintivamente, e certamente non potrebbe usarla se non avesse conoscenza di una vanga, e del terreno, sul quale l’usa. b. Per precisare l’asserzione contenuta nel testo, il professor Bain osserva (Logic, I, 50) e la parole «classe» ha due significati: «La classe definita e la classe indefinita: la classe definita è un’enumerazione degli individui effeivi, quali i Pari del Regno, gli oceani del globo, i pianeti noti… La classe indefinita non è enumerata. Tali classi sono: stelle, pianeti, rocce aurifere, uomini, poeti, virtuosi… In quest’ultima accezione della parola, nome di classe e nome generale sono identici. Il nome di classe denota un numero indefinito di individui, e connota i punti di comunanza, o di somiglianza». La teoria avversata nel testo presuppone tacitamente e tue le classi siano definite. Ho assunto e siano indefinite, peré, per gli scopi della logica, le classi definite, in quanto tali, sono praticamente inutili, ane se spesso servono come mezzo di espressione abbreviata. (Vedi infra, Libro III, cap. II). c.«Di qui, ane questo può essere dedoo: e le verità prime furono create arbitrariamente da coloro e primi fra tui posero nomi alle cose, o li riceveero da altri, e li avevano imposti. Peré è vero, per esempio, e l’uomo è una creatura vivente, ma lo è per questa ragione: e piacque agli uomini imporre entrambi questi nomi alla medesima cosa». Computatio sive logica, cap. III, par. 8. d.«Gli uomini sono soggei ad errare non soltanto quando affermano o quando negano, ma ane quando percepiscono o quando pensano tra sé e sé… Gli errori taciti, ossia gli errori del senso e del pensar tra sé, si commeono in quanto si passa da un’immaginazione all’immaginazione di un’altra cosa differente; oppure quando fingiamo e sia stato, o e sarà, ciò e non è mai stato o e non sarà mai; come quando, vedendo l’immagine del Sole nell’acqua, immaginiamo e il Sole sia nell’acqua; o come quando, vedendo delle spade, immaginiamo e ci sia stata, o e ci sarà, una baaglia, peré il più delle volte è così; oppure quando da certe promesse ci fingiamo e l’intenzione di i le fa sia così e così; o, infine, quando da un certo segno immaginiamo falsamente e sia significata quale cosa e non è significata. E gli errori di questo genere sono comuni a tui gli esseri dotati di senso». Computano sive logica, cap. V, par. 1. e. Cap.. III, par. 3. f. All’affermazione precedente è stato obieato e «noi estrapoliamo naturalmente il soggeo di una proposizione interpretandolo come sua estensione e il predicato (e perciò può essere un aggeivo) interpretandolo come la sua intensione (connotazione), e e, di conseguenza, la coesistenza degli aributi non corrisponde ai processi viventi del pensiero e del linguaggio più di quanto non vi corrisponda la teoria dell’eguaglianza dei gruppi». Sono d’accordo con la distinzione tracciata qui, distinzione e, in verità, io stesso ho enunciato ed esemplificato quale pagina addietro (p. 162). Ma ane se è vero e noi naturalmente «estrapoliamo il soggeo d’una proposizione interpretandolo come la sua estensione», quest’estensione, o, in altre parole, l’estensione della classe denotata dal nome, non viene appresa o indicata direamente. Viene appresa e indicata soltanto per mezzo degli aributi. Nei «processi viventi del pensiero e del linguaggio» l’estensione, e pure in questo caso è

realmente pensata (mentre non lo è nel caso del predicato), viene pensata solo per mezzo di quella e il mio acuto e cortese critico iama l’«intensione». Per ulteriori illustrazioni di quest’argomento, si veda la Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy, cap. XX. g. Nella sua Logic (I, 256) il professor Bain esclude dall’elenco l’esistenza, considerandola come un puro e semplice nome. Tue le proposizioni e predicano l’esistenza pura e semplice, dice, «sono più o meno abbreviate, o elliie: quando siano espresse compiutamente cadono o soo la coesistenza o soo la successione. ando diciamo e esiste una cospirazione e si propone uno scopo ben preciso, intendiamo e aualmente un certo corpo di uomini si è costituito in un’associazione e ha uno scopo particolare, e questa è un’affermazione complessa risolubile in proposizioni di coesistenza e di successione (quale la causazione). L’asserzione e il dodo1 non esiste indica il fao e quest’animale, un tempo noto in un certo posto, è sparito, o si è estinto; non lo si può formulare meglio senza far uso del verbo “esistere”. C’è una questione controversa: “Esiste un etere?”, ma la sua forma concreta sarebbe questa: “Il calore e la luce e altre forme di flussi radianti si propagano araverso un mezzo etereo diffuso nello spazio?”, e questa è una proposizione di causazione. Analogamente, la questione circa l’esistenza di una divinità non può essere discussa in quella forma. Per parlar propriamente, si traa di una questione riguardante la causa prima dell’universo, e l’esercizio continuo di quella causa nel governo provvidenziale del mondo» (I, 407). Il signor Bain pensa e sia «linguaggio fiizio e privo di significato» lo spingere la classificazione della natura fino a un solo summum genus, a un Essere, ossia a ciò e Esiste, dal momento e nulla può essere percepito o appreso se non per contrasto con qualcos’altro (di quest’importante verità e va soo il nome di legge della relatività, egli è stato, ai giorni nostri, il principale espositore e il campione), e noi non abbiamo nessun’altra classe da contrapporre all’Essere, e nessun altro fao da contrapporre all’esistenza. Io acceo pienamente la legge della relatività formulata dal signor Bain, ma con essa non intendo e, per essere in grado di apprendere un qualsiasi fao, o di esserne consapevoli, sia necessario contrapporlo a quale altro fao positivo. Secondo me l’antitesi necessaria alla consapevolezza non deve per forza essere un’antitesi tra due fai positivi: può essere un’antitesi tra un fao positivo e il fao negativo corrispondente. Hobbes aveva indubbiamente ragione quando diceva e una singola sensazione, prolungata indefinitamente, cesserebbe del tuo di essere percepita; ma per renderla di nuovo cosciente sarebbe sufficiente una semplice cessazione, senza cambiamenti. Per essere consapevoli del calore, non è necessario e passiamo dal caldo al freddo: è sufficiente e passiamo alla sensazione di calore da uno stato di assenza di sensazioni, o da una sensazione di quale altra specie. L’opposto relativo di «essere», considerato come un summus genus, è il non-essere, o nulla; e di tanto in tanto abbiamo occasione di considerare e di discutere certe cose contrapponendole, puramente e semplicemente, al non-essere. Sono d’accordo e la decisione delle questioni di esistenza dipende solitamente, ane se non sempre, da una questione precedente circa la causazione o la coesistenza. Nondimeno, però, l’esistenza è una cosa diversa dalla causazione o dalla coesistenza e può essere predicata separatamente da esse. Come il significato di tui gli altri nomi, il significato del nome astrao «esistenza» e la connotazione del nome concreto «essere» consistono in sensazioni o in istati di coscienza: la loro peculiarità è questa: e esistere significa suscitare, o essere capaci di suscitare, sensazioni o stati di coscienza quali che si voglia: non importa quali siano, ma è indispensabile e qualcuno ci sia. Proprio per aver trascurato questo fao, Hegel, trovando e l’Essere è un’astrazione e si raggiunge spogliando con il pensiero le cose di tui i loro aributi particolari, pervenne alla proposizione autocontraddioria sulla quale fondò tua la sua filosofia, e l’essere è la stessa cosa del nulla. In realtà «essere» è il nome per «qualcosa», preso nel senso più comprensivo della parola. h. Libro IV, cap. VII. i. Logic, I, 103-105.

1. Raphus Cucullatus, uccello simile al piccione, originario delle isole Mauritius, estinto nella seconda metà del ’600.

CAPITOLO VI. PROPOSIZIONI PURAMENTE VERBALI 1. Come preparazione alla ricerca e costituisce l’oggeo proprio della logica — cioè, in qual modo si possano provare le proposizioni — abbiamo visto e è necessario ricercare e cosa, nel loro contenuto, riieda una prova o ne sia susceibile, o (il e è lo stesso) e cosa asseriscano. Nel corso di quest’indagine preliminare sul significato delle proposizioni abbiamo preso in esame l’opinione dei conceualisti, secondo cui una proposizione è l’espressione di una relazione tra due idee, e la dorina dei nominalisti estremi, secondo cui è l’espressione di una concordanza o di una discordanza tra il significato di due nomi. Abbiamo deciso e come teorie generali queste teorie sono entrambe erronee e e, pur potendosi formulare sia proposizioni e riguardano nomi, sia proposizioni e riguardano idee, né gli uni né le altre costituiscono l’oggeo delle proposizioni, considerate in generale. Abbiamo poi esaminato le differenti specie di proposizioni e abbiamo trovato e, ad eccezione di quelle puramente verbali, le proposizioni asseriscono cinque differenti specie di dati di fao: esistenza, ordine nello spazio, ordine nel tempo, causazione e somiglianza; e in ogni proposizione si afferma o si nega uno di questi cinque dati di fao di quale fao o fenomeno, o di quale oggeo, e è la fonte sconosciuta di un fao o di un fenomeno. Comunque, nel distinguere le differenti specie di dati di fao asseriti nelle proposizioni, abbiamo tralasciato una classe di proposizioni e non si riferiscono a nessun dato di fao, nel senso proprio del termine, ma al significato dei nomi. Poié i nomi e la loro significazione sono completamente arbitrari, queste proposizioni non sono, a rigore, susceibili di verità o di falsità ma soltanto di conformità o di non-conformità all’uso o alla convenzione, e la sola prova di cui sono capaci è la prova dell’uso: la prova, cioè, e le parole sono state impiegate ane da altri nell’accezione in cui i scrive o parla desidera usarle. In ogni modo, mentre in filosofia queste proposizioni occupano un posto molto importante, in logica la loro natura e le loro caraeristie non sono più importanti di quelle delle altre classi di proposizioni a cui abbiamo rivolto la nostra aenzione in precedenza.

Se tue le proposizioni e riguardano la significazione delle parole fossero così semplici e così poco importanti come quelle e ci sono servite da esempio quando abbiamo preso in esame la teoria della predicazione di Hobbes (cioè, come quelle proposizioni il cui soggeo e il cui predicato sono nomi propri e asseriscono soltanto e tali nomi sono, o non sono, stati assegnati convenzionalmente al medesimo individuo) ci sarebbe ben poco e potrebbe ararre su di esse l’aenzione dei filosofi. Però la classe delle proposizioni puramente verbali, non solo contiene molte più proposizioni di quelle e abbiamo citato, ma ne contiene molte di più di quelle e si presentano come puramente verbali già a prima vista. Tale classe, infai, comprende una specie di asserzioni e sono state considerate, non solo come riferentisi a cose, ma come effeivamente aventi, con le cose, una relazione ben più intima di quella e ha qualsiasi altra proposizione. Lo studioso di filosofia si sarà già accorto e alludo alla distinzione sulla quale hanno tanto insistito gli Scolastici e e è stata conservata fino ad oggi, con lo stesso nome o con nomi diversi, dalla maggior parte dei metafisici: la distinzione tra quelle proposizioni e erano iamate essenziali e quelle e erano iamate accidentali, e tra proprietà, o aributi, essenziali, e proprietà, o aributi, accidentali. 2. asi tui i metafisici e precedeero Loe, e così pure molti dopo di lui, hanno fao un gran mistero della predicazione essenziale e dei predicati e si dicono predicati dell’essenza del soggeo. L’essenza di una cosa, dicevano, è quella senza la quale la cosa non potrebbe essere, né si potrebbe concepire e sia. Così, la razionalità è dell’essenza dell’uomo, peré non si potrebbe concepire e l’uomo esista senza razionalità. I differenti aributi dell’essenza della cosa erano iamati le proprietà essenziali di quella cosa: una proposizione in cui fosse predicato della cosa uno qualsiasi di questi aributi era iamata una proposizione essenziale e si pensava e penetrasse più profondamente nella natura della cosa e fornisse, al suo riguardo, informazioni più importanti di quanto non potesse fare ogni altra proposizione. Tue le proprietà non appartenenti all’essenza della cosa si iamavano i suoi accidenti e si riteneva e non avessero nulla affao, o relativamente nulla, da fare con la natura intima della cosa; le proposizioni in cui si predica una qualsiasi di queste proprietà erano iamate proposizioni accidentali. È possibile rintracciare una connessione tra questa distinzione, e nacque con la Scolastica, e i ben noti dogmi delle

(o sostanze generali) e delle forme sostanziali; dorine, queste, e al di soo di alcune differenze terminologie pervasero in in egual misura sia la scuola aristotelica sia la scuola platonica, e del cui spirito è giunto fino ai tempi auali più di quanto non si possa credere giudicando dal disuso in cui è caduta la loro terminologia. Il prevalere, tra gli Scolastici, di false opinioni sulla natura della classificazione e della generalizzazione — opinioni di cui questi dogmi costituivano l’espressione tecnica — fornisce la sola spiegazione possibile del fao e costoro abbiano frainteso la natura reale di quelle essenze e occupavano un posto così importante nella loro filosofia. Dicevano e non si può concepire l’uomo privo della razionalità; e questo è vero. Ma bené non si possa concepire l’uomo, si può tuavia concepire un altro essere, esaamente simile all’uomo in tuo tranne e in questa sola qualità e in quelle altre e sono condizioni o conseguenze di essa. Pertanto, l’unica cosa realmente vera nell’asserzione e non è possibile concepire l’uomo privo della razionalità è e, se non avesse razionalità, non sarebbe ritenuto un uomo. Non è impossibile concepire la cosa, né, per quanto sappiamo, è impossibile e la cosa esista: l’impossibilità risiede nelle convenzioni linguistie le quali non permeono e la cosa, ane se esiste, sia iamata con il nome riservato agli esseri razionali. In breve, la razionalità è implicita nel significato della parola «uomo»: è uno degli aributi connotati dal nome. «L’essenza dell’uomo» significa semplicemente la totalità degli aributi connotati dalla parola, e ciascuno di questi aributi, preso singolarmente, è una proprietà essenziale dell’uomo. Ma queste riflessioni, per noi così facili, sarebbero state difficili per persone e, come la maggior parte degli ultimi aristotelici, pensavano e gli oggei sono resi quali li si iama non già dal possesso di certe proprietà alle quali il genere umano ha deciso di associare quel nome, ma dal fao e partecipano alla natura di una certa sostanza generale; e l’oro, per esempio, è reso oro peré partecipa di una sostanza iamata oro in generale, la quale, insieme con tue le proprietà e le appartengono, a inerisce a ogni singolo pezzo d’oro . Siccome ritenevano e queste sostanze generali siano associate, non già con tui i nomi generali, ma soltanto con alcuni, pensavano ane e un oggeo prenda a prestito da una sostanza universale soltanto una parte delle sue proprietà, e e il resto di queste proprietà gli appartenga in quanto individuo; e iamavano le prime l’essenza dell’oggeo, le seconde i suoi accidenti. La dorina scolastica delle substantiae secundae

essenze sopravvisse a lungo alla teoria, sulla quale riposava, dell’esistenza di entità reali e corrisponderebbero ai termini generali. Speò a Loe, alla fine del secolo XVII, convincere i filosofi e le supposte essenze delle classi non sono altro e la significazione dei loro nomi: tra i segnalati servigi e gli scrii di Loe resero alla filosofia, nessuno fu più utile, o più apprezzabile, di questo. Ora, siccome il più familiare dei nomi generali con il quale si designa un oggeo di solito connota non uno solo, ma pareci aributi dell’oggeo — ciascuno dei quali preso separatamente costituisce ane l’elemento unificatore di una classe e il significato di quale nome generale — di un nome e connoti diversi e svariati aributi possiamo predicare un altro nome, e connota uno solo, o un numero più ristreo, di tui questi aributi. In questi casi la proposizione universale affermativa sarà vera, peré qualsiasi cosa e possegga la totalità di un insieme di aributi deve possedere una quale parte degli aributi di quest’insieme. Una proposizione di questo genere, tuavia, non trasmee nessun’informazione a i abbia già compreso l’intiero significato dei termini. Le proposizioni: «Ogni uomo è un essere corporeo», «Ogni uomo è una creatura vivente», «Ogni uomo è razionale», non trasmeono nessuna conoscenza a i conosca già l’intiero significato della parola «uomo», peré il significato di questa parola include tue queste proprietà: e e ogni uomo abbia gli aributi connotati da tui questi predicati si asserisce già quando lo si iama «uomo». Ora, tue le proposizioni e sono state iamate essenziali sono di questa natura. Sono, in realtà, proposizioni identie. È vero e nella maggior parte dei casi s’intende e una proposizione e predica un aributo qualsiasi (ane se si traa di un aributo implicito nel nome) contiene la tacita asserzione e esiste una cosa e corrisponde al nome e possiede gli aributi da esso connotati, ed è vero e quest’asserzione implicita può fornire informazioni ane a quelli e hanno già compreso il significato del nome. Ma tue le informazioni di questo genere, fornite da tue le proposizioni essenziali di cui «uomo» può essere reso soggeo, sono comprese nell’asserzione «Esistono uomini». E quest’assunzione di esistenza reale è, in ultima analisi, il risultato di un’imperfezione del linguaggio. Nasce dall’ambiguità della copula, e, oltre ad assolvere alla propria, autentica funzione di segno per mostrare e si è faa un’asserzione, è ane, come abbiamo osservato prima, una parola concreta e connota l’esistenza. Se la predicazione è essenziale, l’esistenza

effeiva del soggeo è, per questa ragione, implicita nella predicazione soltanto apparentemente, non realmente. Possiamo dire: «Un fantasma è uno spirito privo di corpo», senza credere ai fantasmi. Invece, un’affermazione accidentale, o nonessenziale, implica effeivamente l’esistenza reale del soggeo, peré, quando l’oggeo non esiste, non c’è nulla e la proposizione possa asserire. Così, una proposizione come «Il fantasma di una persona assassinata infesta l’alcova del suo assassino» può avere significato soltanto se si intende e implii una credenza nei fantasmi. Infai, siccome la significazione della parola «fantasma» non implica nulla di questo genere, i parla o non intende nulla, o intende asserire una cosa e desidera si creda realmente accaduta. Vedremo in séguito e quando sembra e da una proposizione essenziale (o, in altre parole, da una proposizione contenuta nel significato di un nome) discendano conseguenze importanti (come accade in matematica), ciò da cui le conseguenze discendono in realtà è la tacita assunzione e l’oggeo iamato con quel nome esiste. A parte quest’assunzione di esistenza reale, la classe delle proposizioni in cui il predicato si predica dell’essenza del soggeo (cioè a dire, la classe delle proposizioni in cui il predicato connota tuo ciò, o parte di ciò, e connota il soggeo, ma nient’altro e questo) risponde al solo scopo di rivelare tuo quanto il significato di un nome, o parte di esso, a quelli e prima non lo conoscevano. Di conseguenza, la specie di proposizioni essenziali più utili, e, a rigor di termini, le sole proposizioni essenziali utili, sono le definizioni: e queste, per essere complete, devono rivelare tuo quello e è contenuto nel significato della parola definita; cioè (quando la parola è una parola connotativa) tuo quello e la parola connota. Di solito, però, nel definire un nome non se ne specifica la connotazione tua intiera, ma solo quel tanto e basta per contraddistinguere, da tui gli altri oggei conosciuti, gli oggei solitamente denotati da quel termine; e quale volta ane una proprietà meramente accidentale, non contenuta nel significato del nome, risponde altreanto bene a questo scopo. Le varie specie di definizioni a cui queste distinzioni dànno origine, e gli scopi a cui serve ciascuna di queste definizioni, saranno oggeo di considerazione deagliata a tempo debito. 3. Stando alla concezione delle proposizioni essenziali discussa nei paragrafi precedenti, non può considerarsi essenziale nessuna proposizione e si riferisca per nome a un individuo, cioè nessuna proposizione il cui

soggeo sia un nome proprio. Gli individui non hanno essenza. Parlando dell’essenza di un individuo, gli Scolastici non intendevano le proprietà implicite nel suo nome, peré i nomi degli individui non implicano proprietà. Consideravano come appartenente all’essenza di un individuo tuo ciò e appartiene all’essenza della specie in cui erano abituati a collocare l’individuo, cioè alla classe in cui lo si faceva rientrare per lo più, e a cui, perciò, ritenevano e appartenesse per natura. Pertanto, siccome la proposizione «L’uomo è un essere razionale» è una proposizione essenziale, affermavano la stessa cosa della proposizione «Giulio Cesare è un essere razionale». esta era la conseguenza naturale del fao e consideravano i generi e le specie come entità distinte dagli individui e le compongono, ma inerenti ad essi. Se «uomo» è una sostanza e inerisce a ciascun uomo individuale, è naturale pensare e l’essenza dell’uomo (qualunque cosa ciò possa significare) accompagni l’uomo individuale, inerisca a John ompson e formi l’essenza comune di ompson e di Giulio Cesare. Allora si potrebbe ben dire e la razionalità, facendo parte dell’essenza dell’uomo, fa ane parte dell’essenza di ompson. Ma e ne è dell’essenza di John ompson, se «uomo» non è nient’altro e tui gli uomini individuali e un nome imposto ad essi in conseguenza di certe proprietà comuni? Raramente, in filosofia, un errore fondamentale si può eliminare con una sola vioria. Si ritira lentamente, difende ogni pollice di terreno e spesso, dopo essere stato cacciato dal campo aperto, mantiene ancora un caposaldo su quale altura remota. Le essenze degli individui sono una finzione priva di significato, originata da un’incomprensione delle essenze delle classi, e tuavia persino Loe, dopo aver estirpato l’errore e le aveva generate, non fu capace di scrollarsene di dosso il fruo. Egli distinse due specie di essenze: le essenze reali e le essenze nominali. Le sue essenze nominali sono le essenze delle classi, spiegate più o meno nel modo in cui le abbiamo spiegate noi, ora, e nulla manerebbe per fare del terzo Libro del Saggio di Loe un traato pressoé ineccepibile sulla connotazione dei nomi, se solo se ne liberasse il linguaggio dall’assunzione di quelle e sono iamate «idee astrae», assunzione e sfortunatamente è implicita nella terminologia, ane se non è necessariamente connessa con i pensieri, di quell’immortale terzo Librob. Ma accanto alle essenze nominali Loe ammise le essenze reali, o essenze degli oggei individuali, e secondo lui sono le cause delle proprietà sensibili di tali oggei. Non sappiamo (dice) e

cosa siano queste essenze (e questo riconoscimento rende l’invenzione relativamente innocua); ma se lo sapessimo, partendo da esse sole potremmo dimostrare le proprietà sensibili dell’oggeo allo stesso modo e dimostriamo le proprietà del triangolo partendo dalla definizione di triangolo. Avrò occasione di ritornare su questa teoria quando traerò della dimostrazione e delle condizioni grazie alle quali una proprietà di una cosa si può dimostrare a partire da un’altra proprietà. i mi basta osservare e in séguito ai progressi della fisica l’essenza reale di un oggeo è ora considerata, secondo questa definizione, come quasi equivalente alla sua struura corpuscolare, nel caso e l’oggeo sia un corpo. Non mi accollerò la fatica di definire e cosa debba significare nel caso di tue le altre entità. 4. Una proposizione essenziale è dunque una proposizione puramente verbale e, di una cosa e sta soo un particolare nome, asserisce soltanto quello e è asserito nel fao e la cosa si iama con quel nome, e e perciò non dà alcuna informazione, o dà informazioni e riguardano il nome e non la cosa. Al contrario, le proposizioni non-essenziali, o accidentali, possono essere iamate proposizioni reali, contrapponendole alle proposizioni verbali. Predicano, di una cosa, quale fao e non è contenuto nella significazione del nome per mezzo del quale la proposizione parla della cosa, quale aributo non connotato da quel nome. Tali sono tue le proposizioni concernenti cose designate individualmente, e tue le proposizioni generali o particolari in cui il predicato connota un aributo non connotato dal soggeo. Tue queste proposizioni, se sono vere, aggiungono qualcosa alla nostra conoscenza: trasmeono informazioni e non erano già contenute nei nomi impiegati. ando mi dicono e tui gli oggei (o ane soltanto alcuni oggei) e hanno certe qualità o stanno in certe relazioni, hanno ane certe altre qualità o stanno in certe altre relazioni, da questa proposizione imparo un fao nuovo: un fao e non era compreso nella mia conoscenza del significato delle parole, e neppure in quella dell’esistenza delle cose e corrispondono alla significazione di quelle parole. Solo le proposizioni appartenenti a quella classe sono informative di per se stesse, o sono tali e da esse è possibile inferire proposizioni informativec. Probabilmente nulla ha contribuito all’opinione così a lungo prevalsa, della futilità della logica delle Scuole, più della circostanza e quasi tui gli esempi usati nei comuni manuali scolastici per illustrare la dorina della

predicazione e quella del sillogismo consistono di proposizioni essenziali. Di solito gli esempi sono trai dai rami o dal tronco dell’Albero dei predicamenti, e comprendeva soltanto ciò e appartiene all’essenza delle specie: Omne corpus est substantia, Omne animal est corpus, Omnis homo est corpus, Omnis homo est animal, Omnis homo est rationalis, e così via. Non c’è affao da meravigliarsi e l’arte del sillogismo sia stata considerata incapace di aiutare a ragionar correamente, quando, nelle mani di quelli e se ne professavano insegnanti, veniva impiegata quasi esclusivamente per provare quelle proposizioni a cui iunque, non appena abbia compreso il significato delle parole, assente senza bisogno di prove e e, in fao di evidenza, stanno esaamente sul medesimo livello sul quale stanno le premesse da cui sono state trae. Perciò, in tua quest’opera, ho evitato di impiegare come esempi le proposizioni essenziali, ecceuati quei punti in cui la natura del principio da illustrare lo riiedesse specificamente. 5. Per quanto riguarda le proposizioni e trasmeono effeivamente informazioni — e asseriscono qualcosa di una cosa posta soo un nome e non presuppone già quello e si vuole asserire — ci sono due differenti aspei, dai quali possiamo prendere in considerazione queste proposizioni, o, piuosto, quelle di esse e sono proposizioni generali: possiamo guardare a queste proposizioni come a parti della verità speculativa o come a memoranda per l’uso pratico. Secondo e consideriamo le proposizioni soo l’una o soo l’altra luce, il loro significato può essere convenientemente espresso nell’una o nell’altra di due formule. Secondo la formula e abbiamo impiegato finora, e e è la più adaa a esprimere il significato della proposizione in quanto parte della nostra conoscenza teorica, «Tui gli uomini sono mortali» significa e gli aributi dell’uomo sono sempre accompagnati dall’aributo della mortalità; «Nessun uomo è dio» significa e gli aributi dell’uomo non sono mai accompagnati dagli aributi — o almeno non sono mai accompagnati da tui gli aributi — significati dalla parola «dio». Ma quando si considera la proposizione come un memorandum per l’uso pratico, si troverà, per esprimere il medesimo significato, un modo diverso e più adao a indicare l’ufficio cui la proposizione assolve. L’uso pratico di una proposizione consiste nell’informarci, o nel ricordarci, e cosa dobbiamo aspearci in ogni caso individuale e rientri nell’asserzione contenuta nella proposizione. Relativamente a questo scopo, la proposizione «Tui gli uomini sono

mortali» significa e gli aributi dell’uomo sono una prova di, un segno di, mortalità, un’indicazione e rende manifesta la presenza dell’aributo. «Nessun uomo è dio» significa e gli aributi dell’uomo sono un segno, o una prova, del fao e non è presente nessuno degli aributi e s’intende appartengano a un dio, o e ne è presente soltanto qualcuno; e là dove ci sono i primi non dobbiamo aspearci di trovare gli ultimi. In fondo queste due forme d’espressione sono equivalenti; ma mentre l’una aira più direamente l’aenzione su quello e una certa proposizione significa, l’altra l’aira sulla maniera in cui la proposizione dev’essere usata. Ora, si deve osservare e il ragionamento (l’argomento al quale stiamo per passare) è un processo in cui le proposizioni entrano, non già come risultati ultimi, ma come mezzi per consolidare altre proposizioni. Possiamo perciò aspearci e il modo di esporre il significato di una proposizione generale, e la mostra nella sua applicazione all’uso pratico, esprimerà meglio d’ogni altro la funzione e la proposizione esercita nel ragionamento. E di conseguenza si troverà e nella teoria del ragionamento è quasi indispensabile studiare l’argomento considerando una proposizione come qualcosa e asserisce e un certo fao o fenomeno è un segno, o una prova, di un altro. Per gli scopi di tale teoria, il modo migliore per definire il significato di una proposizione, non è quello e mostra nella maniera più iara e cosa la proposizione sia in se stessa, ma quello e suggerisce nel modo più distinto la maniera in cui la proposizione può essere resa disponibile per avanzare, da essa, ad altre proposizioni. a. Al tempo di Aristotele e dei suoi successori immediati le dorine e impedirono la comprensione del significato reale delle essenze non avevano ancora assunto una forma così definita come quella e fu data loro in seguito, dai realisti del Medio Evo. Lo stesso Aristotele (nel suo Trattato sulle Categorie) nega espressamente e le δεύτεραι οὐσίαι, o substantiae secundae, ineriscano a un soggeo, ma dice e del soggeo tali sostanze sono soltanto predicate. b. Il sempre acuto e spesso profondo autore di An Outline of Sematology [Schizzo di sematologia], il signor B. H. Smart1, dice giustamente: «Loe riuscirà molto più comprensibile se, nella maggior parte dei luoghi in cui la parola ricorre, sostituiremo “la conoscenza di” a ciò e egli iama “l’idea di”» (p. 10). Delle molte critie rivolte all’uso e Loe fa della parola «idea» mi sembra e questa colpisca il bersaglio più da vicino, e la cito peré, oltre a ciò, esprime con esaezza la differenza, a proposito del significato delle proposizioni, tra il mio punto di vista e il punto di vista e ho iamato conceualistico. Dove un conceualista dice e un nome o una proposizione esprimono la nostra idea di una cosa, io direi generalmente, invece di «la nostra idea», «la nostra conoscenza, o credenza, concernente la cosa»

c.

esta distinzione corrisponde alla distinzione stabilita da Kant e da altri metafisici, tra quelli e iamano giudizi analitici e quelli e iamano giudizi sintetici, i primi essendo quelli e possono essere derivati dal significato dei termini usati. 1. Benjamin Humphrey Smart (1786?-1872), logico, leerato e linguista inglese. Opere principali: Practical Logic [Logica pratica], (1823); A Way out of Metaphysics [Una via d’uscita dalla metafisica], (1839); A Manual of Rhetoric [Manuale di retorica], (1849); A. Manual of Logic [Manuale di logica], (1849); Thought and Language [Pensiero e linguaggio], (1855).

CAPITOLO VII. LA NATURA DELLA CLASSIFICAZIONE E I CINQUE PREDICABILI 1. Nell’esaminare la natura delle proposizioni generali abbiamo dedicato un’aenzione molto minore di quanto non siano soliti fare i logici alle idee di classe e di classificazione, le quali idee, da quando la dorina realistica delle sostanze generali è passata di moda, hanno formato la base di quasi tui i tentativi di costruire una teoria filosofica dei termini e delle proposizioni generali. Abbiamo considerato i nomi generali come aventi un significato del tuo indipendentemente dal fao di essere i nomi di classi. In verità, quest’ultima circostanza è accidentale, essendo assolutamente privo d’importanza per la significazione del nome e ci siano oggei ai quali si dà il caso e il nome possa applicarsi, e ce ne sia uno solo o e non ce ne siano affao. «Dio» è un termine generale tanto per un cristiano e per un ebreo quanto per un politeista; e così pure «drago», «ippogrifo», «imera», «sirena», «fantasma», sono termini generali proprio come se esistessero oggei reali e corrispondono a questi nomi. Ogni nome, la cui significazione sia costituita da aributi, è potenzialmente il nome di un numero indefinito di oggei, ma non è necessario e di fao sia il nome di un quale oggeo; e, se mai lo è, basta e lo sia di uno solo. Non appena impieghiamo un nome per connotare certi aributi, le cose e per avventura posseggono questi aributi, molte o poe e siano, si costituiscono ipso facto in una classe. Ma quando prediiamo il nome, prediiamo soltanto gli aributi, e in molti casi il fao di appartenere a una classe non compare per nulla. Comunque, sebbene la predicazione non presupponga la classificazione, e sebbene la teoria dei nomi non risulti iarificata, ma solo resa più confusa, facendovi entrare a forza l’idea di classificazione, c’è nondimeno una strea connessione tra la classificazione e l’impiego di nomi generali. Per ogni nome generale e introduciamo, creiamo una classe, puré ci siano cose, reali o immaginarie, e la compongono; vale a dire, puré ci siano cose e corrispondono alla significazione del nome. Dunque, nella maggior parte dei casi le classi devono la loro esistenza al linguaggio generale. Ma quale volta ane il linguaggio generale è debitore della propria esistenza alle

classi, sebbene questo non sia il caso più comune. In realtà, il più delle volte introduciamo un nome generale (e ciò equivale a dire: un nome significante) peré abbiamo una significazione da esprimere per mezzo suo; peré abbiamo bisogno di una parola per mezzo della quale predicare gli aributi e il nome connota. Ma è ane vero e quale volta introduciamo un nome peré abbiamo trovato e è conveniente creare una classe; peré abbiamo ritenuto e, per regolare le nostre operazioni mentali, sia utile pensare tui insieme un certo numero di oggei. Per scopi connessi alla sua scienza particolare, un naturalista trova buone ragioni per distribuire la creazione vegetale o animale in certi gruppi piuosto e in certi altri, ed esige un nome per legare insieme (per così dire) ciascuno dei suoi gruppi. Tuavia non si deve credere e, per quanto riguarda il loro modo di significazione, tali nomi, una volta introdoi, differiscano per un qualsiasi aspeo dagli altri nomi connotativi. Come tue le altre classi, le classi e essi denotano sono costituite da certi aributi comuni e i loro nomi significano questi aributi e nient’altro. I nomi delle classi e degli ordini di Cuvier1, «Plantigradi», «Digitigradi», ecc., sarebbero egualmente l’espressione di aributi se avessero preceduto la sua classificazione degli animali, anzié trarre origine da essa. La sola peculiarità di questo caso risiede nel fao e qui la convenienza della classificazione costituì il motivo primario per introdurre i nomi, mentre in altri casi il nome s’introduce come mezzo di predicazione, e la forimazione di una classe denotata dal nome è soltanto una conseguenza indirea dell’introduzione del nome. I princìpi e devono regolare la classificazione, in quanto processo logico sussidiario alla ricerca della verità, non potranno essere utilmente discussi se non a uno stadio molto più avanzato della nostra indagine. Ma della classificazione, in quanto risultante dal fao di impiegare il linguaggio generale e implicita in esso, non possiamo astenerci dal traare qui, senza lasciare mutilata e informe la teoria dei nomi generali e del loro impiego nella predicazione. 2. esta parte della teoria del linguaggio generale costituisce l’oggeo di quella e viene iamata la dorina dei predicabili. Si traa di una serie di distinzioni, tramandateci da Aristotele e dal suo seguace Porfirio, molte delle quali hanno preso stabilmente piede nella terminologia scientifica, e alcune addiriura nel modo di parlare popolare. I predicabili sono una quintuplice divisione dei nomi generali, non basata, come di solito accade, su una

differenza nel loro significato (cioè sull’aributo e i nomi connotano) ma su una differenza nella specie di classe e denotano. Di una cosa possiamo predicare cinque differenti varietà di nomi di classe: Il genere della cosa La specie La differentia Il proprium L’accidens

(γένος) (εἶδος) (διαφορὰ) (ἴδιον) (συμβεβηϰὼς)

Si deve osservare e queste definizioni esprimono, non già quello e il predicato è nel suo proprio significato, ma la relazione in cui il predicato sta col soggeo del quale accade sia predicato in quell’occasione particolare. Non esistono alcuni nomi e siano esclusivamente generi, e altri e siano esclusivamente specie o differenze, ma lo stesso nome può venire riferito all’uno o all’altro predicabile, secondo il soggeo del quale viene predicato in quella particolare occasione. Per esempio, Animale è un genere rispeo all’uomo, o Giovanni; una specie rispeo alla sostanza o all’essere; Rettangolare è una delle differenze di una certa figura geometrica, il quadrato, ma è solo uno degli accidenti del tavolo sul quale sto scrivendo. Le parole «genere», «specie», ecc. sono pertanto termini relativi, nomi applicati a certi predicati per esprimere la relazione tra essi e un certo soggeo dato; e questa relazione, come vedremo, non è fondata su ciò e il predicato connota, ma sulla classe e denota e sul posto e, in quale particolare classificazione, questa classe occupa relativamente a quel particolare soggeo. 3. Di questi cinque nomi, due: «genere» e «specie», non solo vengono usati dai naturalisti in un’accezione tecnica e non concorda esaamente con il loro significato filosofico, ma hanno ane acquisito un’accezione popolare, molto più generale sia di quella filosofica sia di quella scientifica. In questo senso popolare due classi qualsiasi, una delle quali includa la totalità dell’altra, e qualcosa in più, possono essere iamate, rispeivamente, genere e specie. Tali sono, per esempio, animale e uomo, uomo e matematico. Animale è un genere, uomo e bruto sono le sue due specie; oppure possiamo

dividere la classe in un numero maggiore di specie: uomo, cavallo, cane, ecc. Bipede, o animale fornito di due piedi, può ane essere considerato un genere, di cui uomo e uccello sono due specie. Sapore è un genere del quale sono specie: dolce, acido, salato, ecc. Virtù è un genere: giustizia, prudenza; coraggio, fortezza, generosità, ecc., sono sue specie. La stessa classe, e è un genere rispeo alle sooclassi o specie incluse in essa, può essere a sua volta una specie rispeo a un genere più comprensivo, o, come spesso si dice, superiore. Uomo è una specie rispeo ad animale, ma è un genere rispeo alla specie matematico. Animale è un genere, diviso in due specie: uomo e bruto, ma è ane una specie, e, insieme con un’altra specie, vegetale, forma il genere: essere dotato di organizzazione. Bipede è un genere rispeo a uomo e a uccello, ma è una specie rispeo al genere superiore, animale. Gusto è un genere diviso in ispecie, ma è ane una specie del genere sensazione. Virtù è un genere rispeo a giustizia, temperanza, ecc., ma è una delle specie del genere qualità dello spirito. In questo senso popolare, le parole «genere» e «specie» sono passate nel discorso comune. E si dovrebbe osservare e, nel parlare ordinario, si iama «genere» o «specie» non il nome della classe, ma la classe stessa: naturalmente, non la classe nel senso di ciascun individuo della classe, ma nel senso degli individui presi colleivamente, considerati come un tuo aggregato; il nome con cui si designa la classe si iama allora, non «genere» o «specie», ma «nome generico» o «nome specifico». esta forma d’espressione è ammissibile, e non ha nessuna importanza quale dei due modi di parlare si adoi, puré il resto del nostro linguaggio non sia incompatibile con esso: però, se iamiamo «genere» la classe stessa, non potremo più dire e si predica il genere. Prediiamo dell’uomo il nome «mortale»: e si può dire, in un senso intelligibile, e predicando il nome prediiamo ciò e il nome esprime, cioè l’attributo della mortalità; ma in nessun senso lecito della parola «predicazione» prediiamo dell’uomo la classe «mortale». Prediiamo, dell’uomo, il fao di appartenere a quella classe. I logici aristotelici usavano i termini «genere» e «specie» in un senso più ristreo. Non ammeevano e ogni classe, e si possa dividere in altre classi, sia un genere, o e ogni classe, e possa essere inclusa in una classe più larga, sia una specie. Consideravano animale un genere e uomo e bruto

specie coordinate soo quel genere: tuavia non avrebbero ammesso e bipede sia un genere rispeo a uomo, ma l’avrebbero considerato soltanto un proprium o un accidens. La loro teoria esigeva e il genere e la specie siano dell’essenza del soggeo. Animale è dell’essenza dell’uomo, bipede non lo è; e in ogni classificazione consideravano una quale classe come la specie più bassa, o infima. Ad esempio, uomo sarebbe una specie infima. Non ammeevano, tra le specie, nessun’ulteriore suddivisione in cui possa essere spaccata la classe: ad esempio, uomo in uomo bianco, nero e rosso, o in prete e laico. Comunque, abbiamo visto nel capitolo precedente e la distinzione tra l’essenza di una classe e gli aributi o proprietà e della sua essenza non sono — distinzione e ha dato occasione a tante astruse speculazioni, e a cui si aribuiva un tempo, e ancor oggi si aribuisce da parte di molti autori, un caraere misterioso — non equivale a nulla più e alla differenza tra quegli aributi della classe e sono contenuti nella significazione del nome di tale classe e quelli e non vi sono contenuti. Abbiamo visto e, applicata agli individui, la parola «essenza» è priva di significato, ecceo e in connessione con le dorine, ormai andate all’aria, dei realisti; e e ciò e gli Scolastici scelsero di iamare essenza di un individuo è semplicemente l’essenza della classe in cui quest’individuo si fa rientrare con maggiore frequenza. Non c’è dunque nessuna differenza, tranne questa puramente e semplicemente verbale, tra le classi e secondo gli Scolastici erano generi o specie, e quelle a cui rifiutavano questa denominazione? È un errore il considerare alcune delle differenze tra gli oggei come differenze di genere o di specie (genere o specie), e altre soltanto come differenze di accidenti? Avevano ragione o torto gli Scolastici nel dare il nome di generi o specie ad alcune delle classi in cui si possono dividere le cose, e nel considerare le altre divisioni come divisioni secondarie, fondate su differenze di natura relativamente superficiale? Un esame più accurato dimostrerà e con questa distinzione gli aristotelici intendevano effeivamente qualcosa, e qualcosa d’importante; ma e questo qualcosa, essendo concepito confusamente, era espresso in modo inadeguato dalla terminologia delle essenze e dai vari altri modi di dire ai quali facevano ricorso.

4. È un principio fondamentale della logica e il potere di fabbricare classi è illimitato, puré esista una differenza qualsiasi (ane minima) su cui fondare una distinzione. Si prenda un aributo qualsiasi, e, se alcune cose ce l’hanno e altre non ce l’hanno, si può fondare su di esso una divisione di tue le cose in due classi; e in effei si fa una cosa del genere ogni volta e si crea un nome e connota l’aributo. Il numero di classi possibili è pertanto illimitato, e le classi effeivamente esistenti (sia di cose reali, sia di cose immaginarie) sono tante quanti sono i nomi generali, positivi e negativi, presi insieme. Ma se prendiamo in esame una qualsiasi delle classi formate in questo modo, come la classe animale o la classe pianta, la classe vegetale o la classe zolfo o fosforo, o la classe bianco o la classe rosso, e consideriamo in quali particolari gli individui e appartengono a questa classe differiscano da quelli e non rientrano in essa, troviamo, soo quest’aspeo, una notevole differenza tra certe classi e certe altre. Ci sono alcune classi, i cui membri differiscono da altre cose solo in certi particolari e possono essere enumerati, mentre altre differiscono in più particolari di quanti se ne possano mai enumerare, e addiriura in più particolari di quanti dobbiamo mai aspearci di conoscere. Alcune classi hanno ben poco o nulla in comune e le caraerizzi, se si ecceua, precisamente, ciò e è connotato dal nome: per esempio, le cose biane non si distinguono per nessuna proprietà comune, tranne e per la bianezza, o, se si distinguono, si distinguono soltanto in virtù di proprietà in quale modo dipendenti dalla bianezza o connesse con questa. Ma cento generazioni non sono riuscite a esaurire le proprietà comuni degli animali o delle piante o dello zolfo o del fosforo, e nessuno suppone e tali proprietà possano mai essere esaurite: al contrario, procediamo a nuove osservazioni e a nuovi esperimenti confidando di scoprire nuove proprietà e non erano per nulla implicite in quelle e già conoscevamo. Se poi qualcuno dovesse invitarci a indagare le proprietà comuni di tue le cose e hanno il medesimo colore, o la medesima forma, o la medesima gravità specifica, ci salterebbe immediatamente agli oci l’assurdità di una proposta di questo genere. Non abbiamo infai nessuna ragione per credere e esistano tali proprietà comuni, se si ecceuano quelle di cui si può mostrare e sono contenute nel medesimo presupposto, o sono derivabili da esso mediante quale legge di causazione. È iaro, pertanto, e quale volta le proprietà sulle quali basiamo le nostre classi esauriscono tuo ciò e la classe ha in comune, o lo contengono tuo per

quale modo d’implicazione, mentre in altri casi facciamo una scelta di poe proprietà tra un numero, non soltanto maggiore, ma per noi addiriura inesauribile, di proprietà; e poié non riconosciamo limiti a tale numero, per quanto ci riguarda le classi possono benissimo essere considerate infinite. Non è affao improprio il dire e, di queste due classificazioni, l’una risponde a una distinzione delle cose in se stesse molto più radicale di quanto non lo sia l’altra. E i scelga di dire e la prima è faa dalla natura, l’altra da noi, per la nostra convenienza, avrà ragione puré non intenda nulla più di questo: e quando una certa, ovvia differenza tra due cose (ane se, in se stessa, non ha molta importanza) corrisponde a non sappiamo quale numero di altre differenze, e pervade non soltanto le loro proprietà note, ma ane proprietà non ancora scoperte, il riconoscere in questa differenza il fondamento di una distinzione specifica non è facoltativo, ma obbligatorio; al contrario, se lo scopo in vista del quale si è faa la classificazione non riiede e si presti aenzione a quelle particolari proprietà, le differenze puramente finite e determinate, come quelle designate dalle parole «bianco» e «rosso», possono essere trascurate. Comunque, in entrambi i casi, le differenze sono opera della natura, mentre il riconoscimento e queste differenze sono le ragioni e stanno a fondamento della classificazione e della denominazione è, in entrambi i casi, egualmente opera dell’uomo. Se non si fa aenzione a questa differenza, i fini del linguaggio e della classificazione risultano sovvertiti solo nel primo caso; nel secondo, la necessità di prestarle aenzione dipende dall’importanza o dall’insignificanza delle qualità particolari in cui si dà il caso e questa differenza consista. Ora queste classi — e si distinguono per moltitudini ignote di proprietà e non solo per poe proprietà ben determinate, e sono divise da un abisso insondabile, e non da un fosso qualsiasi, di cui sia possibile scorgere il fondo — sono le sole e i logici aristotelici considerassero generi o specie. Ritenevano e le differenze e si estendono solo a una certa proprietà, o ad alcune proprietà, e finiscono lì, siano differenze solo negli accidenti delle cose; ma nel caso in cui una classe differisca da altre cose per una serie infinita di differenze, note e ignote, consideravano la distinzione come una distinzione di genere o di specie e ne parlavano come di una differenza essenziale. E questo è ane uno dei significati correnti e questa vaga espressione ha conservato al giorno d’oggi.

Siccome ritengo e gli Scolastici avessero ragione di tracciare una nea linea di separazione tra queste due specie di classi e di distinzioni tra classi, non mi limiterò a conservare la medesima divisione, ma continuerò ane ad esprimermi nel loro linguaggio. Secondo questo linguaggio, il genere prossimo (o infimo) in cui si può far rientrare un individuo si iama la specie di quell’individuo. Di conseguenza, si dovrebbe dire e Sir Isaac Newton appartiene alla specie uomo. In realtà, nella classe uomo sono incluse numerose soo-classi, alle quali, pure, Newton appartiene: ad esempio, cristiano, inglese, matematico. Ma pur essendo classi distinte, queste classi non sono specie distinte di uomini, nel senso in cui noi usiamo questo termine. Per esempio, un cristiano differisce da altri esseri umani, ma soltanto per l’aributo e la parola esprime — cioè, per la credenza nella cristianità, e in tuo ciò e questa implica — sia in quanto contenuto nel fao in se stesso, sia in quanto connesso con questo fao mediante quale legge di causa e di effeo. Non penseremmo mai di andare a cercare quali proprietà, e non siano connesse con la cristianità, come cause o come effei, siano comuni a tui i cristiani e peculiari ad essi. Invece i fisiologi continuano, e continueranno sempre, a condurre una ricerca di questo genere a proposito di tui gli uomini, ed è probabile e una risposta definitiva non si troverà mai. Possiamo dunque dire e uomo è una specie, ma non e sono specie cristiano o matematico. Si noti, qui, e non si intende affao lasciar intendere e possano esistere differenti sorta [Kind], o specie logie, di uomo. Le varie razze e temperamenti, i due sessi, e ane le diverse età, possono essere differenze specifie, compatibilmente col significato in cui usiamo questo termine. Non dico e lo siano, peré, anzi, si può dire con una certa sicurezza e il progresso della fisiologia ha mostrato e le differenze realmente esistenti tra le diverse razze, sessi, ecc., conseguono, in forza di leggi naturali, da un piccolo numero di differenze primarie e possono essere determinate con precisione e e, così si dice, rendono ragione di tuo il resto. Se le cose stanno così, queste non sono distinzioni specifie più di quanto non lo siano cristiano, ebreo, musulmano e pagano (e ane questa differenza reca con sé molte conseguenze). In questo modo spesso si scambiano per specie reali classi e poi si prova e non lo sono. Però, se venisse fuori e non è possibile rendere conto delle differenze nel modo e si è deo, allora caucasico, mongolo, negro, ecc., sarebbero davvero specie differenti di esseri umani, e avrebbero tue le carte in regola per essere classificati come specie:

dal logico, però, non dal naturalista. Infai, come abbiamo già fao osservare, la parola «specie» è usata, in logica e in storia naturale, in due significazioni differenti. Di solito il naturalista non dice e sono di specie differenti esseri organizzati e si suppone possano essere discesi dal medesimo ceppo. Ma questo è un senso dato artificialmente alla parola, per gli scopi tecnici di una scienza particolare. Per il logico, se un negro e un bianco differiscono nella medesima maniera (se pure in grado minore) in cui differiscono un cavallo e un cammello — cioè, se le loro differenze sono inesauribili e non possono essere fae risalire a una causa comune, allora sono specie differenti, discendano o no da antenati comuni. Ma se le loro differenze possono farsi risalire tue al clima, o alle consuetudini, oppure a una, o a poe differenze speciali di struura, allora, dal punto di vista del logico, negri e biani non sono distinti in modo specifico. ando si siano accertati l’infima specie o il genere prossimo a cui appartiene un individuo, le proprietà comuni a quella specie o a quel genere comprendono necessariamente la totalità delle proprietà comuni di ogni altra specie o genere reale in cui possa farsi rientrare l’individuo. Supponiamo, per esempio, e l’individuo sia Socrate e il genere prossimo sia uomo. Animale, o creatura vivente, è an’esso un genere reale, e comprende Socrate; ma poié comprende ane uomo — o, in altre parole, poié tui gli uomini sono animali — le proprietà comuni agli animali costituiscono una parte delle proprietà comuni della sooclasse uomo. E se esiste una qualsiasi classe e contiene Socrate senza contenere uomo, allora questa classe non è un genere reale. Sia questa classe, per esempio, la classe dal naso camuso, cioè, una classe e contiene Socrate ma non contiene tui gli uomini. Per determinare se questa classe sia un genere reale, dobbiamo iederci: oltre tuo ciò e è implicito nell’avere il naso camuso, tui gli animali dal naso camuso hanno in comune proprietà diverse da quelle e sono comuni a tui gli animali? Se le avessero, se il naso camuso fosse il segno, o l’indice, di un numero indefinito di altre peculiarità non deducibili dalla prima mediante una legge accertabile, allora dalla classe uomo si potrebbe enucleare un’altra classe, uomo dal naso camuso, e, secondo la nostra definizione, sarebbe una specie. Ma se potessimo fare una cosa del genere, uomo non sarebbe il genere prossimo, e questo andrebbe contro l’ipotesi. Pertanto le proprietà del genere prossimo comprendono quelle (note o ignote) di tui gli altri generi ai quali appartiene l’individuo. E

questo è il punto e ci eravamo proposti di provare. E di qui: ogni altro genere predicabile dell’individuo starà, con il genere prossimo, nella relazione di genus, secondo l’accezione popolare dei termini «genere» e «specie»: sarà cioè una classe più ampia, e comprende il genere prossimo e qualcos’altro ancora. Siamo ora in grado di fissare il significato logico di questi termini. Ogni classe e è un genere o una specie reale, ogni classe, cioè, e è distinta da tue le altre classi in virtù di una quantità indeterminata di proprietà non derivabili l’una dall’altra, è o un genere o una specie. Un genere e non è divisibile in altre specie non può essere un genere, peré non ha nessuna specie soo di sé; ma è a sua volta una specie, sia rispeo agli individui di ordine inferiore, sia rispeo ai generi di ordine superiore (species praedicabilis e species subjicibilis). Ma ogni genere e ammee una divisione in specie reali, (così come animale ammee la divisione in mammifero, uccello, pesce, ecc., o come uccello ammee la divisione nelle varie specie di uccelli) è un genere rispeo a tuo quello e sta soo di essa, e una specie rispeo a tui i generi in cui, a sua volta, può essere inclusa. E a questo punto possiamo iudere questa parte della discussione e passare ai tre predicabili rimanenti: differentia, proprium e accidens. 5. Cominciamo dalla differentia. La parola «differentia» è correlativa alle parole «genere» e «specie», e, come si ammee generalmente, significa l’aributo e distingue una data specie da ogni altra specie del medesimo genere. Fin qui la cosa è iara: ma possiamo ancora iedere quale degli aributi e distinguono la specie la parola signifii; abbiamo visto, infai, e ogni genere o specie (e una specie [species] deve per forza essere una specie reale [Kind]) si distingue da altri, non per un solo aributo, ma per un numero indefinito di aributi. Ad esempio, uomo è una specie del genere animale: razionale (o razionalità, peré qui non ha nessuna importanza e si usi la forma astraa o quella concreta) è generalmente indicato dai logici come la differentia, e indubbiamente quest’aributo serve allo scopo di distinguere; ma è ane stato osservato e l’uomo è un animale cuciniere: l’unico animale e condisca il suo cibo. esto, perciò, è un altro degli aributi per i quali la specie uomo si distingue dalle altre specie del medesimo genere: si deve dunque dire e quest’aributo serve egualmente bene per indicare una differentia? Gli aristotelici lo negano, avendo stabilito

e, come il genere e la specie, la differentia dev’essere dell’essenza del soggeo. E qui perdiamo ane quella piccolissima traccia di un significato basato sulla natura delle cose in se stesse, significato e si può supporre connesso con la parola «essenza» quando si dice e genere e specie devono essere dell’essenza della cosa. Non può esserci dubbio e, parlando delle essenze delle cose e opponendole agli accidenti, gli Scolastici avevano confusamente davanti agli oci la distinzione tra differenze specifie e differenze e specifie non sono; intendevano suggerire e generi e specie devono essere generi o specie reali. La loro nozione dell’essenza di una cosa era la vaga nozione di un qualcosa e rende la cosa quella e è, cioè ne fa la specie di cosa e è — e è la causa per cui la cosa ha tua quella varietà e proprietà e distinguono la sua specie. Ma quando si esaminò la faccenda più da vicino, nessuno poté scoprire quale fosse la causa per cui le cose hanno tue quelle proprietà, e non si poté neppure scoprire se una tale causa esistesse. Tuavia, siccome non gli piaceva ammeere una cosa del genere, e non gli riusciva di scoprire e cosa faccia sì e la cosa sia quella e è, i logici si accontentarono di ciò e fa sì e la cosa sia quale viene iamata. Delle innumerevoli proprietà, note e ignote, comuni alla classe uomo, soltanto una parte, e naturalmente una parte molto piccola, è connotata dal nome della classe; queste poe proprietà, tuavia, saranno state naturalmente distinte così dalle rimanenti, o peré erano più ovvie o peré si supponeva e avessero un’importanza maggiore. Allora i logici si buarono sulle proprietà e sono connotate dal nome e le iamarono l’essenza della specie. E non si arrestarono qui: affermarono e, nel caso dell’infima species, queste proprietà costituiscono ane l’essenza dell’individuo; la massima dei logici era infai e la specie contiene «tua quanta l’essenza» della cosa. La metafisica, questo fertile campo delle illusioni propagate dal linguaggio, non fornisce esempio più evidente di tale illusione. E proprio per questa ragione si ammise e la razionalità, essendo connotata dal nome «uomo» è una differentia della classe uomo; ma la proprietà di cucinare il proprio cibo, e non è connotata dal nome, fu relegata nella classe delle proprietà accidentali. Pertanto, la distinzione tra differentia, proprium e accidens non è fondata sulla natura delle cose, ma sulla connotazione dei nomi: e, se vogliamo scoprire e cosa sia, dobbiamo cercarlo proprio qui.

Dal fao e il genere include la specie — o, in altre parole, denota di più della specie, ossia è predicabile di un numero maggiore di individui — segue e la specie deve connotare di più del genere. Deve connotare tui gli aributi e il genere connota, altrimenti nulla le impedirebbe di denotare individui non inclusi nel genere; e deve connotare qualcosa in più, altrimenti includerebbe l’intiero genere. Animale denota tui gli individui denotati da uomo, e molti altri ancora. Pertanto, uomo deve connotare tuo ciò e connota animale (altrimenti potrebbero esserci uomini e non sono animali) e deve connotare qualcosa di più di quello e connota animale, altrimenti tui gli animali sarebbero uomini. esto sovrappiù di connotazione — questo qualcosa e la specie connota oltre e al disopra della connotazione del genere — è la differentia, o differenza specifica; o, per formulare la stessa proposizione in altre parole, la differentia è tuo ciò e si deve aggiungere alla connotazione del genere per completare la connotazione della specie. Ad esempio, lasciando da parte ciò e connota in comune con «animale», la parola «uomo «connota ane la razionalità; e almeno una certa approssimazione a quella forma esterna e tui conosciamo ma e, non avendo nessun nome per designarla di per se stessa, ci accontentiamo di iamare umana. Perciò, la differentia, o differenza specifica, di uomo rispeo al genere animale, è quella forma esterna, più il possesso della ragione. Gli Aristotelici dicevano: il possesso della ragione, senza la forma esterna; ma per rimanere fedeli alla loro definizione sarebbero stati costrei a iamare uomini ane gli Houyhnhnms2. esta questione non sorse mai, ed essi non furono mai iamati a decidere in qual modo un caso del genere avrebbe modificato la loro nozione di essenzialità. Comunque sia, si accontentavano di prendere quella parte della differentia e era sufficiente a distinguere la specie da tue le altre cose esistenti, ane se poteva darsi e così facendo non esaurissero la connotazione del nome. 6. E qui, per impedire e la nozione di differentia venga confinata entro limiti troppo angusti, è necessario osservare e una specie, ane quando venga faa rientrare nel medesimo genere, non avrà sempre la stessa differenza, ma avrà una differenza diversa secondo il principio e lo scopo e presiedono a quella determinata classificazione. Per esempio, un naturalista passa in rassegna i diversi tipi di animali e cerca per lo più di classificarli

secondo l’ordine in cui, per scopi zoologici, ritiene desiderabile e li pensiamo. Da questo punto di vista trova opportuno e una delle sue partizioni fondamentali sia quella in animali a sangue caldo e animali a sangue freddo; o in animali e respirano con i polmoni e animali e respirano con le branie; o in carnivori e frugivori, o graminivori; o in animali plantigradi e in animali digitigradi; distinzione, quest’ultima, sulla quale si fondano due delle famiglie di Cuvier. Così facendo, il naturalista crea altreante nuove classi, e non sono affao quelle in cui di solito l’animale singolo si farebbe rientrare spontaneamente e per lo più; infai, se non fosse per uno scopo preconceo di convenienza scientifica, nessuno di noi penserebbe mai di assegnare a tali proprietà una posizione così preminente nel nostro ordinamento del regno animale. E alla libertà di agire in questo modo non ci sono limiti. Negli esempi e abbiamo riportato, la maggior parte delle classi sono specie o generi reali, peré ciascuna delle loro peculiarità è l’indice di una gran quantità di proprietà appartenenti alla classe e ciascuna di esse caraerizza; ma ane se le cose stessero altrimenti — se cioè le altre proprietà di quelle classi potessero essere derivate, con un qualsiasi processo a noi noto, da quella sola peculiarità su cui la classe è fondata — ane allora, se queste proprietà derivate fossero d’importanza primaria per i suoi scopi, il naturalista sarebbe autorizzato a fondare su di esse le sue partizioni primarie. Tuavia, se è sufficiente la convenienza pratica per autorizzarci a far procedere le principali demarcazioni del nostro ordinamento degli oggei lungo linee e non coincidono con nessuna distinzione in specie o generi reali, e a creare così generi e specie e sono tali soltanto nel senso popolare del termine ma non lo sono affao nel suo senso rigoroso, quando i nostri generi e le nostre specie sono generi e specie reali dovremmo essere autorizzati, a fortiori, ad accentuare le distinzioni tra di essi facendo leva su quelle proprietà e le considerazioni di convenienza pratica più fortemente ci raccomandano. Se enucleiamo una specie da un genere dato — ad esempio, la specie uomo dal genere animale — con l’intenzione, da parte nostra, di meere in rilievo e la peculiarità dalla quale dobbiamo lasciarci guidare nell’applicazione del nome dev’essere la razionalità, allora razionalità è la differentia della specie uomo. Ma supponiamo di essere naturalisti e di enucleare, dal genere animale, la stessa specie, uomo, intendendo e la caraeristica distintiva dell’uomo rispeo a tue le altre specie animali debba essere, non la razionalità, ma il possesso di «quaro

incisivi per ogni mascella, canini solitari e posizione erea». È evidente e la parola «uomo», quando la usiamo in quanto naturalisti, non connota più la razionalità, ma quelle tre altre proprietà e abbiamo specificato, peré quello e ci proponiamo espressamente quando diamo un nome a una cosa fa sicuramente parte del significato del nome. Possiamo perciò enunciare come una massima la proposizione seguente: dovunque ci sia un genere, e ci sia una specie messa in evidenza rispeo a quel genere da una differenza ben determinata, il nome della specie dev’essere connotativo, e deve connotare la differenza; ma la connotazione può essere speciale, cioè non contenuta nella significazione del termine così come lo si usa ordinariamente, ma data ad esso quando lo si impiega come termine di un’arte o di una scienza. Nell’uso comune, la parola «uomo» connota la razionalità e una certa forma, ma non connota il numero o le caraeristie dei denti; nel sistema di Linneo3 connota il numero di incisivi e di canini, ma non connota né la razionalità né una forma particolare. Ane se di solito non la si considera ambigua, la parola «uomo» ha, perciò, due significati differenti, peré càpita e in entrambi i casi denoti i medesimi oggei individuali. Tuavia possiamo concepire un caso in cui l’ambiguità diventi evidente: basta immaginare e si scopra quale nuova specie animale e abbia le tre caraeristie dell’umanità enumerate da Linneo, ma non sia razionale e non possegga forma umana. Nel modo di parlare ordinario questi animali non verrebbero iamati uomini, ma in storia naturale dovrebbero ancora essere iamati così da coloro, se mai ne esistano ancora, e acceano la classificazione di Linneo; e allora sorgerebbe la questione se si debba continuare a usare la parola nei due sensi, o se si debba abbandonare la classificazione, abbandonando contemporaneamente ane il senso tecnico del termine. Parole e altrimenti non sono connotative possono acquistare, nel modo e abbiamo or ora menzionato, una connotazione speciale, o tecnica. Così (come abbiamo tanto spesso osservato) la parola «bianezza» non connota nulla: denota semplicemente l’aributo e corrisponde a una certa sensazione; ma se stiamo facendo una classificazione dei colori e desideriamo giustificare, o ane semplicemente meere in evidenza, il posto particolare e si assegna alla bianezza nel nostro ordinamento, possiamo definire la bianezza come «il colore prodoo dalla mescolanza di tui i raggi semplici». esto fao, — sebbene non sia per nulla implicito nel significato della parola «bianezza» così come la si usa di solito, ma sia noto solo grazie a un’indagine scientifica successiva — fa parte del

significato in cui la parola viene usata in quel particolare saggio o in quel particolare traato, e diventa parte della differentia della speciea. Pertanto la differenza di una specie può essere definita come quella parte della connotazione del nome specifico, sia ordinaria, sia speciale e tecnica, e distingue la specie in questione da tue le altre specie del genere a cui stiamo facendo riferimento in quella particolare occasione. 7. Liquidati così il genere, la specie e la differenza, non ci sarà molto difficile oenere un conceo iaro della differenza tra gli altri due predicabili, e così pure di quella tra essi e i primi tre. Nella terminologia aristotelica, genere e differenza sono dell’essenza del soggeo: con il e, come abbiamo visto, si intende in realtà e le proprietà significate dal genere e quelle significate dalla differentia formano parte della connotazione del nome e denota la specie. D’altra parte, il proprium e l’accidens non formano parte dell’essenza, ma sono predicati della specie solo accidentalmente. Entrambi sono accidenti nel senso più ampio del termine, secondo cui gli accidenti di una cosa si contrappongono alla sua essenza; tuavia, nella dorina dei predicabili, «accidens» viene usato soltanto per un tipo di accidente, «proprium» per un altro. Il proprium, continuano gli Scolastici, è predicato bensì accidentalmente, ma necessariamente, ossia, come spiegano ancora, significa un aributo e non è parte dell’essenza, ma discende dall’essenza, ossia ne è una conseguenza ed è perciò connesso inseparabilmente con la sua specie: per esempio, le varie proprietà del triangolo e pur non facendo parte della definizione devono essere possedute da qualsiasi cosa e cada soo la definizione di triangolo. Al contrario, l’accidens non ha nessuna connessione, di nessun genere, con l’essenza ma può andare e venire mentre la specie continua a rimanere quella e era prima. Se potesse esistere senza i suoi propria, una specie dovrebbe essere in grado di esistere senza ciò da cui i suoi propria conseguono necessariamente, e quindi senza la propria essenza: senza ciò e la costituisce come specie. Ma un accidens, separabile o inseparabile e sia dalla specie nell’esperienza effeiva, può essere pensato separatamente senza e sia necessario supporre altre alterazioni; o, almeno, senza e sia necessario supporre e risulti alterata qualcuna delle proprietà essenziali

della specie, dal momento e con tali proprietà un accidens non ha nessuna connessione. Un proprium della specie si può pertanto definire come qualsiasi aributo e appartiene a tui gli individui compresi nella specie e e, pur non essendo connotato dal nome specifico (sia ordinariamente, se la classificazione e stiamo considerando serve a scopi ordinari, sia specialmente, se serve a scopi speciali) segue tuavia da quale aributo e il nome connota, ordinariamente o specialmente. Un aributo può seguire da un altro in due modi, e di conseguenza ci sono due tipi di proprium. Può seguire come una conclusione segue dalle premesse, o può seguire come un effeo segue da una causa. Così, l’aributo di avere i lati opposti eguali, e non è tra quelli connotati dalla parola «parallelogrammo», segue nondimeno dagli aributi connotati dalla stessa parola, cioè dall’avere i lati opposti reilinei e paralleli, e dall’essere i lati in numero di quaro. Perciò l’aributo dell’avere lati opposti eguali è un proprium della classe parallelogrammo, e un proprium della prima specie, e segue per dimostrazione dagli aributi connotati. L’aributo dell’esser capace di capire il linguaggio è un proprium della specie uomo, peré, senza essere connotato dalla parola, segue da un aributo e la parola connota, cioè dall’aributo della razionalità. Ma questo è un proprium della seconda specie, e segue per causazione. Come accada e una proprietà di una cosa segua, o possa essere inferita, da un’altra; in quali condizioni questo sia possibile e quale sia il significato esao di questa frase, sono questioni di cui ci occuperemo nei due libri successivi. Per il momento è sufficiente dire e, segua per dimostrazione o segua per causazione, un proprium segue necessariamente; cioè a dire: il fao e non segua sarebbe contraddiorio con quale legge, e consideriamo parte della costituzione della facoltà del nostro pensiero, o della costituzione dell’universo. 8. Nell’altro predicabile, accidens, sono compresi tui gli aributi di una cosa e non sono contenuti nella significazione del nome (ordinariamente, o come termine artificiale) né, per quanto ne sappiamo, hanno una connessione necessaria con gli aributi e vi sono contenuti in un modo o nell’altro. Gli accidenti si dividono comunemente in separabili e in inseparabili. Gli accidenti inseparabili sono quelli dei quali — bené non conosciamo nessuna connessione tra essi e gli aributi costitutivi della

specie, e perciò, per quanto ne sappiamo, possano essere assenti senza rendere il nome inapplicabile e la specie un’altra specie — di fao non sappiamo mai e sono assenti. Un modo conciso per esprimere la stessa cosa è quello e consiste nel dire e gli accidenti inseparabili sono proprietà universali per la specie, ma non necessarie ad essa. Così, l’essere nero è un aributo del corvo, e, per quel e ne sappiamo, si traa di un aributo universale. Ma se dovessimo scoprire una razza di uccelli biani, e però somigliano ai corvi per altri aspei, non diremmo: «esti non sono corvi»; diremmo: «esti sono corvi biani». Pertanto «corvo» non connota nerezza, né l’essere nero può essere inferito da alcuno degli aributi e la parola «corvo» connota, sia in quanto parola dell’uso popolare, sia in quanto termine tecnico. Perciò, non soltanto possiamo concepire un corvo bianco, ma non conosciamo nessuna ragione per cui non dovrebbe esistere nessun animale del genere. Comunque, siccome per quanto ne sappiamo non esistono altri corvi e corvi neri, allo stato auale della nostra conoscenza la nerezza viene classificata come un accidente, ma come un accidente inseparabile, della specie corvo. Gli accidenti separabili sono quelli e quale volta si trovano di fao assenti dalla specie; e non soltanto non sono necessari, ma non sono neppure universali. Sono tali da non appartenere a tui gli individui della specie, ma soltanto ad alcuni di essi, o, se appartengono a tui, sono tali da non appartenervi sempre. Così, il colore di un europeo è uno degli accidenti separabili della specie uomo, peré non è un aributo di tue le creature umane. Ane l’essere nato è (parlando in senso logico) un accidente separabile dalla specie uomo, peré, pur essendo un aributo di tui gli esseri umani, lo è soltanto in un tempo ben determinato. A fortiori dovranno essere annoverati tra gli accidenti separabili quegli aributi e non sono costanti neppure nel medesimo individuo, come l’essere in un posto o nell’altro, l’aver caldo o freddo, lo star seduti o il camminare. a. Se concediamo una differentia a ciò e, in realtà, non è una specie. Infai, poié la distinzione in genere o specie reali, nel senso e abbiamo spiegato, non può essere in nessun modo applicata agli aributi, segue naturalmente e, pur potendo gli aributi essere messi in classi, queste classi possono essere ammesse fra i generi e le specie soltanto per una cortese concessione. 1. Georges Cuvier (1769-1832), uno dei massimi naturalisti francesi, fondatore dell’anatomia comparata. Istituì la prima classificazione scientifica del regno animale, basata, non soltanto sui caraeri esteriori degli animali (come accade nella classificazione di Linneo) ma sulla loro struura anatomica. Cuvier è ane il fondatore della paleontologia scientifica, grazie all’uso del metodo della

correlazione, e gli permise la ricostruzione di seletri completi di animali fossili a partire da poe ossa. Le sue opere maggiori sono: Recherches sur les ossements fossiles (1814), Le règne animal distribué d’après son organisation (1817), Histoire des Sciences Naturelles, raccolta delle sue lezioni pubblicata postuma a cura dei suoi allievi (1841-43). 2. I cavalli sapienti dei Viaggi di Gulliver. 3. Carlo Linneo (1707-1778), naturalista svedese, autore di una grande classificazione e risistemazione dei tre regni della natura, inventore della nomenclatura binomia ancor oggi in uso per indicare le specie animali e vegetali. Linneo pubblicò circa 200 opere, tra cui Philosophia Botanica (1751), Species Plantarum (1753), ma il suo lavoro più importante è il Systema naturae (1735). Se la classificazione linneana del regno animale doveva essere soppiantata dal sistema di Cuvier, più importante e duratura fu l’istituzione del sistema delle piante, e le classifica secondo la struura e la disposizione degli organi sessuali.

CAPITOLO VIII. LA DEFINIZIONE 1. A questo punto rimane da traare una parte necessaria della teoria dei nomi e delle proposizioni: la teoria delle definizioni. Essendo le più importanti della classe delle proposizioni e abbiamo caraerizzato come puramente verbali, le definizioni sono già state prese brevemente in considerazione nel capitolo VI; là, però, il loro traamento più completo fu rimandato, peré la definizione è connessa così streamente con la classificazione da non poter essere discussa utilmente fin quando non si sia compresa a sufficienza la natura di quest’ultimo processo. La nozione più semplice e più correa di definizione è la seguente: una proposizione e diiara il significato di una parola, e precisamente il significato e la parola reca con sé nell’accezione comune, o il significato e i scrive, o parla, intende anneerle per gli scopi particolari del suo discorso. Poié la definizione di una parola è la proposizione e ne enuncia il significato, le parole e non hanno significato non sono susceibili di definizione. Perciò i nomi propri non possono essere definiti. Infai, dal momento e un nome proprio è un semplice segno imposto a un individuo e la sua proprietà caraeristica consiste nell’essere privo di significato, è ovvio e il significato non può essere diiarato, ane se lo si può indicare mediante il linguaggio allo stesso modo e, ancor più convenientemente, puntando un dito si può indicare quale sia l’individuo al quale si è imposto o si intende imporre quel segno particolare. Non costituisce una definizione di «John omson» il dire e John omson «è il figlio del generale omson»; infai il nome «John omson» non esprime questa circostanza. E neppure costituisce una definizione di «John omson» il dire «John omson è l’uomo e in questo momento sta araversando la strada». este proposizioni possono servire a render noto i sia l’uomo particolare a cui il nome appartiene, ma questo si può render noto, in modo ancor meno ambiguo, indicando quell’uomo con un dito: questo, però, non è mai stato considerato come uno dei modi della definizione. Come abbiamo fao osservare tante volte, nel caso dei nomi connotativi il significato è la connotazione, e la definizione di un nome connotativo è la

proposizione e diiara la connotazione del nome. esto si può fare direamente o indireamente. Direamente, si fa con una proposizione di questa forma: «“Uomo” (o una qualsiasi altra parola) è un nome e connota questi e questi altri aributi», o: «è un nome e, predicato di una cosa, significa il possesso, da parte di questa cosa, di questi aributi così e così». Oppure in quest’altro modo: «Uomo è ogni cosa e possegga questi e questi altri aributi»; «Uomo è ogni cosa e possegga corporeità, organizzazione, vita, razionalità, e certe peculiarità proprie della forma esterna». esta forma di definizione è la più precisa e la meno equivoca di qualsiasi altra, ma non è abbastanza concisa, e inoltre è troppo tecnica per il discorso comune. Il modo più comune per diiarare la connotazione di un nome consiste nel predicare, di esso, un altro nome o altri nomi la cui significazione sia nota e e connotino il medesimo aggregato di aributi. esto si può fare o predicando del nome e si vuole definire un altro nome connotativo e sia esaamente suo sinonimo, come: «L’uomo è un essere umano» — e questa di solito non è considerata una definizione affao — oppure predicando due o più nomi connotativi e, presi insieme, formino l’intiera connotazione del nome e si deve definire. In quest’ultimo caso, poi, o possiamo comporre la nostra definizione di tanti nomi connotativi quanti sono gli aributi, ogni aributo essendo connotato da uno di tali nomi — ad esempio: «L’uomo è un essere corporeo, organizzato, animato, razionale, dotato di questa forma così e così» — oppure possiamo impiegare nomi e connotino contemporaneamente pareci di questi aributi: per esempio: «L’uomo è un animale razionale, e ha questa forma così e così». Secondo questo punto di vista, la definizione di un nome è la somma totale di tue le proposizioni essenziali e si possono formare con quel nome come soggeo. Tue le proposizioni la cui verità è implicita nel nome; tue le proposizioni per diventare consapevoli delle quali ci basta udire il nome, sono comprese nella definizione, se questa è completa, e possono essere oenute sviluppando quest’ultima, senza l’aiuto di nessun’altra premessa, sia e la definizione le esprima in due o tre parole, sia e le esprima con un numero di parole più grande. Non senza ragione, dunque, Condillac e altri autori hanno affermato e una definizione è un’analisi. «Analisi» significa risoluzione di una qualsiasi totalità complessa negli elementi di cui è composta; facciamo un’analisi quando, a una parola e connota colleivamente una serie di aributi, sostituiamo due o più parole e connotano i medesimi aributi, singolarmente o in gruppi minori.

2. Ma di qui sorge naturalmente la questione: in quale maniera dobbiamo definire un nome e connota soltanto un singolo aributo: per esempio, «bianco», e non connota nient’altro e la bianezza, «razionale», e non connota nient’altro e il possesso della ragione? Potrebbe sembrare e il significato di questi nomi possa essere diiarato in due modi soltanto: mediante un termine sinonimo, se mai possiamo trovarne uno, o nel modo direo a cui abbiamo già accennato: «“Bianco” è un nome e connota l’aributo della bianezza». Ceriamo comunque di vedere se l’analisi del significato del nome, cioè la scomposizione di tale significato in più parti, possa essere spinta più in là. Lasciando per ora indecisa la questione a proposito del nome «bianco», è ovvio e del significato di «razionale» si può dare quale spiegazione in più di quella contenuta nella proposizione: «Razionale è ciò e possiede l’aributo della ragione», peré lo stesso aributo della ragione è susceibile di definizione. E qui dobbiamo rivolgere la nostra aenzione alle definizioni degli aributi, o, piuosto, dei nomi degli aributi, cioè dei nomi astrai. Per quanto riguarda quei nomi di aributi e sono connotativi, ed esprimono aributi di quegli aributi, non ci sono difficoltà: come altri nomi connotativi, ane questi nomi si definiscono diiarandone la connotazione. Così, la parola «colpa» può essere definita come «una qualità e produce danno o inconvenienti». ale volta, poi, l’aributo da definire non è un aributo solo, ma un’unione di pareci aributi: perciò non dovremo far altro e meere assieme i nomi di tui gli aributi presi separatamente e oerremo la definizione del nome e appartiene a tui questi aributi presi insieme: questa definizione corrisponderà esaamente a quella del nome concreto corrispondente. Infai, siccome un nome concreto si definisce enumerando gli aributi e connota, e siccome gli aributi connotati da un nome concreto formano l’intiera significazione del nome astrao corrispondente, la medesima enumerazione servirà per la definizione di entrambi. Così, se la definizione di «essere umano» è: «Essere corporeo, animato, razionale, e ha questa forma così e così», la definizione di «umanità» sarà costituita da: «corporeità» e «vita animale», combinate con «razionalità» e «possesso di questa forma così e così». D’altra parte, quando il nome astrao non esprime una combinazione di aributi ma un aributo singolo, dobbiamo ricordare e ogni aributo è fondato su quale fao o fenomeno, dal quale, e dal quale soltanto, deriva il proprio significato. Perciò, per definirlo, dobbiamo fare ricorso a quel fao o

fenomeno e in uno dei capitoli precedenti abbiamo iamato il fondamento dell’aributo. Ora, il fondamento dell’aributo può essere un fenomeno dotato di un qualsiasi grado di complessità, consistente di molte parti differenti, coesistenti o disposte in successione. Per oenere una definizione dell’aributo dobbiamo analizzare il fenomeno in queste parti. Per esempio, «eloquenza» è il nome di un solo aributo, ma quest’aributo è fondato su effei esterni di natura complicata, e discendono dalle azioni della persona alla quale assegnamo l’aributo; risolvendo il fenomeno della causazione nelle sue due parti, la causa e l’effeo, oeniamo la seguente definizione di «eloquenza»: «Il potere di influenzare i sentimenti altrui con la parola e con lo scrio». Pertanto un nome, concreto o astrao e sia, ammee una definizione puré siamo in grado di analizzare, cioè di distinguere in parti, l’aributo o l’insieme di aributi e costituiscono il significato sia del nome concreto sia del nome astrao corrispondente: se è un insieme di aributi, enumerandoli; se è un aributo singolo, sezionando il fao o fenomeno (sia esso un fao di percezione, sia un fao della coscienza interna) e è il fondamento dell’aributo. Ma, inoltre, ane se il fao è uno dei nostri sentimenti o stati di coscienza, e sono semplici e pertanto non sono susceibili di analisi, sia il nome dell’oggeo sia il nome dell’aributo ammeono ancora una definizione: o, piuosto, l’ammeerebbero se tui i nostri sentimenti semplici avessero un nome. La bianezza può essere definita come la proprietà, o il potere, di suscitare la sensazione di bianco. Un oggeo bianco può essere definito come un oggeo e suscita la sensazione di bianco. I soli nomi e non siano susceibili di definizione, peré il loro significato non è susceibile di analisi, sono i nomi degli stessi sentimenti semplici, sentimenti e si trovano nelle medesime condizioni in cui si trovano i nomi propri. In realtà, non sono insignificanti come i nomi propri, peré le parole «sensazione di bianco» significano e la sensazione, e iamo con questo nome, somiglia a certe altre sensazioni, e ricordo di avere avuto prima e di avere iamato con lo stesso nome. Ma siccome per riiamare alla mente quelle sensazioni non abbiamo altre parole se non la stessa parola e ceriamo di definire, o quale altra parola e, essendo esaamente sinonima della prima, esige una definizione tanto quanto la esige la prima, le parole non possono svelare la significazione di questa classe di nomi. Siamo perciò costrei ad appellarci direamente all’esperienza personale dell’individuo al quale ci stiamo indirizzando.

3. Enunciata quella e sembra la vera idea di definizione, procediamo a esaminare alcune opinioni dei filosofi e alcune concezioni popolari sull’argomento, opinioni e concezioni e sono più o meno in conflio con quest’idea. Come abbiamo già osservato, la sola definizione adeguata di un nome è quella e diiara i fai, e anzi, la totalità dei fai, e il nome contiene nella sua significazione. Ma per la maggior parte delle persone, l’oggeo di una definizione non arriva ad abbracciare tanto: in una definizione non cercano altro e una guida all’uso correo del termine, una protezione contro il pericolo di applicarlo in modo incompatibile con la consuetudine e la convenzione. Perciò, per costoro, una definizione sufficiente di un termine è qualunque cosa serva a dare un’indicazione correa di ciò e il termine denota, pur non abbracciando la totalità, e talvolta neppure parte, di quello e il termine connota. esto dà origine a due tipi di definizioni imperfee o non-scientifie: le definizioni essenziali ma incomplete, e le definizioni accidentali, o descrizioni. Nelle prime si definisce un nome connotativo per mezzo di una parte soltanto della sua connotazione; nelle seconde lo si definisce per mezzo di qualcosa e non fa per nulla parte della connotazione. Un esempio della prima specie di definizioni imperfee è la seguente proposizione: «L’uomo è un animale razionale». È impossibile considerare questa proposizione come una definizione completa della parola «uomo», peré, come abbiamo già osservato in precedenza, se l’acceassimo dovremmo considerare uomini ane gli Houyhnhnms. Ma, siccome si dà il caso e non esistano Houyhnhnms, questa definizione, per quanto imperfea, è sufficiente a contrassegnare e a distinguere da tue le altre cose gli oggei aualmente denotati dalla parola «uomo»; cioè tui gli esseri e sappiamo esistere effeivamente, dei quali il nome è predicabile. Sebbene la parola sia definita soltanto da alcuni degli aributi e connota, e non da tui questi aributi, accade tuavia e tui gli oggei noti, e posseggono gli aributi enumerati, posseggano ane quelli e sono stati omessi; di conseguenza, il campo di predicazione e la parola copre, e l’impiego di essa conformemente all’uso, sono indicati altreanto bene sia da una definizione inadeguata sia da una definizione adeguata. Ci si deve però sempre aspeare e definizioni del genere vengano spodestate dalla scoperta, in natura, di nuovi oggei.

ando enunciarono la regola secondo cui una definizione di una specie dev’essere per genus et differentiam, i logici avevano in mente definizioni così fae. Poié raramente la parola differentia viene presa per significare tue quante le peculiarità costitutive della specie, ma di solito si usa per significarne solo alcune, una definizione completa dovrebbe essere per genus et differentias, piuosto e per differentiam. Insieme con il nome del genere superiore, essa dovrebbe includere, non solo alcuni degli aributi e distinguono da tue le altre specie del medesimo genere la specie e si vuole definire, ma tutti gli aributi implicati dal nome della specie, e non siano già implicati dal nome del genere superiore. Comunque, l’asserzione e una definizione deve necessariamente consistere di un genere e di differenze, non è sostenibile. I logici antii avevano osservato e in nessuna classificazione il summum genus può essere definito in questo modo, dal momento e non ha nessun altro genere sopra di sé. Noi però abbiamo visto e tui i nomi, ecceuati quelli dei nostri sentimenti elementari, sono susceibili di essere definiti, nel senso più rigoroso del termine, esibendo in parole le parti costitutive del fao o del fenomeno di cui, in ultima analisi, è composta la connotazione di tue le parole. 4. Sebbene la prima specie di definizione imperfea (e definisce un termine connotativo per mezzo di una parte soltanto di ciò e esso connota, ma lo definisce per mezzo di una parte e è sufficiente a contrassegnare correamente i limiti della sua denotazione) sia stata considerata dagli antii e dai logici in generale come una definizione completa, si è sempre ritenuto necessario e gli aributi impiegati formino realmente parte della connotazione; la regola, infai, era e la definizione dev’essere traa dall’essenza della classe, cosa questa e non potrebbe accadere se la definizione fosse in quale misura costituita da aributi non connotati dal nome. Perciò i logici sono stati unanimi nel degradare la seconda specie di definizione imperfea (in cui il nome di una classe è definito da uno qualsiasi degli accidenti di quella classe, cioè, da aributi e non sono compresi nella connotazione del nome) dal rango di definizione genuina, e l’hanno iamata «descrizione». esta specie di definizione imperfea, comunque, trae origine dalla stessa causa da cui trae origine l’altro tipo; vale a dire, dalla disposizione ad

acceare come definizione qualsiasi cosa e, esponga o no il significato del nome, ci mee in grado di discriminare le cose denotate dal nome da tue le altre cose e, di conseguenza, di impiegare il termine nella predicazione senza allontanarci dall’uso istituzionale. esto fine viene debitamente raggiunto asserendo uno qualsiasi (non importa quale) degli aributi comuni alla totalità della classe e peculiari ad essa, o una qualsiasi combinazione di aributi e per avventura sia peculiare a quella classe, ane se, preso separatamente, ciascuno di questi aributi può essere comune alla classe e ad altre cose. È sufficiente e la definizione (o la descrizione) così formata sia convertibile rispeo al nome e diiara di definire; cioè, e sia esaamente coestensiva con esso: e sia predicabile di tuo ciò di cui il nome è predicabile, e non lo sia di nulla di cui il nome non è predicabile, non importa se gli aributi specificati non hanno nessuna connessione con quelli e gli uomini avevano presenti quando formarono, o quando riconobbero, la classe e le diedero un nome. Stando a questo criterio, le definizioni seguenti sono definizioni corree di «uomo»: «L’uomo è un animale mammifero e ha (per natura) due mani» (solo la specie umana, e nessun altro animale, risponde infai a questa descrizione); «L’uomo è un animale e cucina il proprio cibo»; «L’uomo è un bipede implume». Lo scopo particolare e si propone i parla o scrive, può elevare al rango di definizione autentica quella e altrimenti sarebbe una pura e semplice descrizione. Come si è visto nel capitolo precedente, per i fini di una scienza o di un’arte particolari, o per enunciare in maniera più conveniente le dorine di un particolare autore, può essere consigliabile assegnare a quale nome generale una connotazione speciale, diversa dall’ordinaria, senza però alterarne la connotazione. In questa particolare occasione e per quello scopo particolare, una definizione del nome data per mezzo degli aributi e formano la connotazione speciale, pur essendo, in generale, una semplice definizione accidentale, o descrizione, diventa una definizione completa e autentica. Ciò accade effeivamente in uno degli esempi dati in precedenza, «L’uomo è un animale mammifero dotato di due mani», e è la definizione scientifica dell’uomo, considerato come una delle specie della classificazione di Cuvier. In simili casi la definizione è bensì ancora una diiarazione del significato e il nome è destinato a comunicare in quel caso particolare, ma non si può dire e il suo scopo sia quello di stabilire il significato della parola. Lo scopo è quello di esporre non un nome, ma una classificazione. Il

significato speciale e Cuvier ha assegnato alla parola «uomo» (e e è piuosto estraneo al suo significato ordinario, ane se non implica nessun mutamento nella denotazione della parola) era subordinato a un progeo e aveva per scopo la classificazione degli animali secondo un certo principio, cioè secondo un certo insieme di distinzioni. E siccome le definizione di «uomo» secondo la connotazione ordinaria della parola, pur rispondendo a ogni altro scopo di una definizione, non avrebbe messo in evidenza il posto e la specie deve occupare in quella classificazione particolare, Cuvier diede alla parola una connotazione speciale, in modo da essere in grado di definirla mediante quella specie di aributi sui quali, per ragioni di convenienza scientifica, aveva deciso di fondare la sua divisione della natura animata. Le definizioni scientifie, siano esse definizioni di termini della scienza, siano definizioni di termini comuni usati in un senso scientifico, sono quasi sempre di quest’ultima specie: il loro scopo principale è di servire come pietre di confine della classificazione scientifica. E poié in tue le scienze le classificazioni si modificano continuamente con il progredire della conoscenza scientifica, sono in continua variazione ane le definizioni. Un esempio lampante di ciò è fornito dalle parole «acido» e «alcale», e specialmente dalla prima. Con il progredire delle scoperte sperimentali le sostanze classificate tra gli acidi sono andate costantemente moltiplicandosi e, come naturale conseguenza di questo loro moltiplicarsi, il numero degli aributi connotati dalla parola è diventato sempre più piccolo. All’inizio la parola connotava gli aributi: possibilità di combinarsi con un alcale per formare una sostanza neutra (iamata «sale»); essere composto da una base e da ossigeno; causticità al tao e al gusto; fluidità, ecc. La scomposizione correa dell’acido muriatico in cloro e idrogeno fece sì e la seconda proprietà — l’essere composto da una base e dall’ossigeno — venisse esclusa dalla connotazione. La medesima scoperta airò l’aenzione dei imici sull’idrogeno come elemento importante degli acidi, e da quando scoperte più recenti hanno indoo a riconoscere la presenza di idrogeno nell’acido solforico, nell’acido nitrico e in molti altri acidi nei quali prima la sua presenza non era neppure sospeata, s’è faa strada la tendenza a includere la presenza di quest’elemento nella connotazione della parola. Ma l’acido carbonico, l’acido silicico, l’acido solforoso non hanno idrogeno tra i loro componenti: pertanto, questa proprietà non può più essere connotata del termine, a meno e le sostanze in parola non debbano più essere

considerate acidi. Da lungo tempo, dopo e sono stati annoverati tra gli acidi l’acido silicico e molte altre sostanze, la causticità e la fluidità sono state escluse dalle caraeristie di questa classe; e oggi le sole differentiae e formano la connotazione fissa della parola «acido» come termine della imica, sono la proprietà di dar luogo a sostanze neutre combinandosi con gli alcali e le proprietà eleroimie e si suppone e tale proprietà implii. Naturalmente, quello e è vero di un qualsiasi termine della scienza sarà vero della definizione della scienza stessa: di conseguenza (come è stato osservato nel capitolo introduivo di quest’opera) la definizione di una scienza deve di necessità essere progressiva e provvisoria. Ogni estensione della conoscenza, o ogni alterazione nelle opinioni correnti su determinati oggei, può condurre a un cambiamento più o meno esteso nei particolari compresi nella scienza: risultando così alterata la sua composizione, può facilmente accaderci di trovare e come differentiae per definirne il nome si adaano meglio le caraeristie di un insieme diverso. Allo stesso modo e una definizione speciale o tecnica ha per oggeo l’esposizione della classificazione artificiale dalla quale si origina, così i logici aristotelici sembrano aver immaginato e ane l’ufficio della definizione ordinaria sia quello di esporre la classificazione ordinaria delle cose, quella classificazione, cioè, e essi ritenevano naturale — la distribuzione delle cose in generi e specie — e di mostrare il posto e ciascun genere o specie occupa tra gli altri: se superiore o collaterale o subordinato. esta concezione renderebbe ragione della regola secondo cui ogni definizione deve necessariamente essere per genus et differentiam, e spiegherebbe ane peré si riteneva e per la definizione fosse sufficiente una sola differentia. Ma, come abbiamo già mostrato, è impossibile esporre o esprimere in parole una distinzione di genere o di specie: lo stesso significato di «genere» o di «specie» è e le proprietà e li distinguono non derivano l’una dall’altra e non possono essere perciò esibite in parole, neppure per implicazione, altrimenti e enumerandole tue: e non tue sono note, ed è probabile e non lo siano mai. È pertanto ozioso il considerare questo come uno degli scopi della definizione; d’altra parte, se si esigesse soltanto e la definizione di un genere o d’una specie indii quali specie il primo includa, o quali generi includano la seconda, qualsiasi definizione e esponesse la connotazione dei nomi andrebbe bene; infai il nome di ciascuna classe deve necessariamente connotare un numero di proprietà sufficiente a fissare i

confini della classe. Pertanto, tuo quello e si può esigere dalla definizione, è una diiarazione completa della connotazionea. 5. Dei due modi incompleti e popolari di definizione, e di ciò in cui differiscono dal modo di definizione completo o filosofico, ormai si è già deo abbastanza. Esamineremo ora un’antica dorina, un tempo generalmente acceata e fino ad oggi ancora viva e vegeta, e io considero come la fonte di gran parte dell’oscurità e sovrasta alcuni dei processi più importanti dell’intelleo nella ricerca della verità. Secondo questa dorina, le definizioni di cui abbiamo traato ora appartengono a una sola delle due classi in cui le definizioni possono essere divise: definizioni dei nomi e definizioni delle cose. Le prime dovrebbero spiegare il significato dei termini, le seconde la natura di una cosa: e queste ultime sarebbero incomparabilmente le più importanti. est’opinione fu sostenuta dai filosofi antii e dai loro seguaci, ad eccezione dei nominalisti; ma poié fino a poco tempo fa lo spirito della metafisica moderna è stato, tuo sommato, uno spirito nominalistico, la nozione di definizione delle cose è stata in certa misura lasciata da parte, pur continuando a provocare confusioni in logica; in verità più per via delle sue conseguenze e non di per se stessa. Ogni tanto, però, questa dorina rispunta nella sua forma autentica, e tra l’altro ha fao la sua comparsa dove non c’era affao da aspearsela, in un’opera giustamente ammirata: la Logic dell’Arcivescovo Whatelyb. In una mia recensione di quest’opera, e pubblicai nella «Westminster Review» del gennaio 1828, e e conteneva alcuni punti di vista e ora non condivido più, trovo, a proposito della questione di cui stiamo traando qui, le seguenti osservazioni, e concordano ancora sufficientemente con il mio punto di vista auale. «La distinzione tra definizioni reali e definizioni nominali, tra le definizioni di parole e quelle e si iamano definizioni di cose, pur conformandosi alle idee della maggior parte dei logici aristotelici, non può più essere sostenuta nella forma in cui ci viene presentata. Veniamo a sapere e nessuna definizione è mai stata destinata a “spiegare e a svelare la natura di una cosa”; e la nostra opinione è in certo modo confermata dal fao e nessuno di quegli autori secondo i quali esistono definizioni di cose, è mai riuscito a scoprire un criterio in base al quale poter distinguere la definizione di una cosa da una qualsiasi altra proposizione e si riferisca

alla cosa. La definizione, dicono, svela la natura della cosa: ma nessuna proposizione può svelarne la natura tua quanta, mentre ogni proposizione, in cui si predii della cosa una qualità qualsiasi, ne svela quale parte. Il vero stato della questione è, a nostro parere, il seguente: tue le definizioni sono definizioni di nomi e di nomi soltanto, ma in alcune definizioni è immediatamente iaro e non si intende far altro e spiegare il significato di una parola, mentre in altre definizioni, oltre a spiegare il significato della parola, s’intende implicare e esiste una cosa e corrisponde alla parola. Dalla pura e semplice forma dell’espressione non si può desumere se questo sia implicito in una certa definizione data. “Un centauro è un animale con le parti superiori di uomo e le parti inferiori di cavallo” e “Un triangolo è una figura composta di segmenti di rea e avente tre lati” sono espressioni esaamente simili dal punto di vista della forma; tuavia, la prima non implica e esista realmente quale cosa conforme al termine, mentre la seconda lo implica, come si può vedere sostituendo, in entrambe le proposizioni, alla parola “è”, la parola “significa”. Nella prima espressione “‘Centauro’ significa un animale, ecc.”, il senso rimane inalterato; nella seconda:” ‘Triangolo’ significa, ecc.”, il significato risulta alterato, peré sarebbe ovviamente impossibile dedurre una qualsiasi verità della geometria da una proposizione e esprima soltanto il modo in cui intendiamo impiegare un particolare segno. Ci sono dunque espressioni, e passano comunemente per definizioni, le quali contengono qualcosa di più e non la pura e semplice spiegazione del significato di un termine; ma non è correo il dire e un’espressione siffaa è una specie particolare di definizione. La sua differenza dall’altra specie di definizione consiste in questo: e non è una definizione, ma una definizione più qualcos’altro. La definizione di triangolo data poco sopra comprende, ovviamente, non una, ma due proposizioni perfeamente distinguibili. La prima è: “Può esistere una figura limitata da tre segmenti di rea”; l’altra: “esta figura si può iamare triangolo”. La prima di queste proposizioni non è affao una definizione, la seconda è una definizione puramente nominale, cioè una spiegazione dell’uso e dell’applicazione di un termine. La prima è susceibile di verità o di falsità, e pertanto può essere messa a fondamento di una concatenazione di ragionamenti; la seconda non può essere né vera né falsa; l’unica caraeristica di cui è susceibile è la conformità o la non-conformità all’uso ordinario del linguaggio».

C’è dunque una differenza effeiva tra le definizioni dei nomi e quelle e vengono erroneamente iamate le definizioni delle cose, ma la differenza consiste in questo: e le seconde, oltre ad asserire il significato di un nome, asseriscono implicitamente un dato di fao. est’asserzione implicita non è una definizione, ma un postulato. La definizione è una pura e semplice proposizione identica, e dà informazioni soltanto sull’uso del linguaggio, e da cui non è assolutamente possibile trarre conclusioni e riguardino dati di fao. D’altra parte, il postulato e l’accompagna afferma un fao e può condurre a conseguenze di qualsiasi grado d’importanza: afferma l’esistenza effeiva o possibile di cose e posseggono la combinazione di aributi dispiegati dalla definizione; quest’ultima, se è vera, può costituire il fondamento sufficiente su cui costruire un intiero edificio di verità scientifie. Abbiamo già osservato, e dovremo spesso ripetere l’osservazione, e i filosofi e hanno spodestato il realismo non si sono affao sbarazzati delle conseguenze del realismo, ma ancora per lungo tempo hanno ritenuto nella loro filosofia numerose proposizioni e potrebbero avere un significato intelligibile soltanto se facessero parte di un sistema realistico. Dai tempi di Aristotele — e probabilmente da tempi ancora più remoti — si è tramandata, come una verità ovvia, la dorina secondo cui la scienza della geometria si deduce dalle definizioni. Fintanto e le definizioni furono considerate come proposizioni e «svelano la natura delle cose» questa dorina funzionò abbastanza bene. Ma poi venne Hobbes e respinse in blocco la nozione e una definizione diiari la natura della cosa, o faccia qualcos’altro e non sia asserire il significato di un nome; tuavia continuò ad affermare apertamente, come i suoi predecessori, e gli ἀρχαì, principia, o premesse originarie della matematica e addiriura di tua la scienza, sono definizioni, dando vita in tal modo al singolare paradosso secondo cui i sistemi delle verità scientifie, e anzi tue le verità quali e siano, a cui perveniamo in forza del ragionamento si deducono dalle convenzioni arbitrarie dell’umanità sulla significazione delle parole. Per salvare il credito della dorina secondo cui le definizioni sono le premesse della conoscenza scientifica, si aggiunge talvolta la riserva e lo sono soltanto a una certa condizione: a condizione, cioè, e siano struurate in modo conforme ai fenomeni della natura, o, in altre parole, e assegnino ai termini soltanto quei significati e si adaano agli oggei effeivamente esistenti. esto, però, è soltanto un esempio del tentativo,

tanto spesso compiuto, di sfuggire alla necessità di abbandonare il vecio linguaggio dopo e le idee e esso esprimeva sono state sostituite da idee contrarie. Dal significato di un nome (ci dicono) è possibile inferire fai fisici, puré esista una cosa e corrisponde al nome. Ma se questa riserva è necessaria, da quale delle due cose, in realtà si trae l’inferenza? Dall’esistenza di una cosa e ha quelle proprietà o da un nome e le significa? Prendiamo, per esempio, una qualsiasi delle definizioni elencate tra le premesse degli Elementi di Euclide: la definizione, poniamo, di cerio. Analizzandola, vediamo e consiste di due proposizioni: l’una è un’assunzione e riguarda un dato di fao, l’altra una definizione autentica. «Può esistere una figura tale e tui i punti situati sulla linea e la delimita sono equidistanti da un solo punto, e giace al suo interno»: «Ogni figura e possegga queste proprietà si iama cerio». Consideriamo ora una delle dimostrazioni e si dice dipendano da questa definizione e osserviamo a quale delle due proposizioni in essa contenute faccia realmente appello la dimostrazione. «Intorno al centro A si descriva il cerio BCD». i si assume e una figura, qual è quella e la definizione esprime, possa essere descria: e quest’assunzione non è altro e il postulato (o assunzione implicita) contenuto nella cosiddea definizione. Non ha però la minima importanza e la figura si iami o non si iami «cerio». Se dicessimo: «Per il punto B si tracci una linea iusa, ogni punto della quale è equidistante dal centro A», raggiungeremmo egualmente il nostro scopo da tui i punti di vista tranne e da quello della brevità. Con questo ci saremmo sbarazzati della definizione di cerio e l’avremmo resa inutile, ma non avremmo fao altreanto del postulato implicito nella definizione, senza il quale la dimostrazione non starebbe in piedi. Descrio il cerio, procediamo ora alla conseguenza. «Poié BCD è un cerio, il raggio BA è eguale al raggio CA». BA è eguale a CA, non peré BCD è un cerio, ma peré BCD è una figura con raggi eguali. ello e ci autorizza ad assumere e sia possibile far esistere intorno al centro A una figura siffaa di raggio BA, è il postulato. Si può discutere se l’ammissibilità di questi postulati riposi sull’intuizione o sulle prove: ma in ogni caso i postulati sono le premesse dalle quali dipendono i teoremi, e fintantoé si mantengono i postulati, ai fini della certezza delle verità geometrie non fa

nessuna differenza e si lascino in disparte tue le definizioni di Euclide e tui i termini tecnici in esse definiti. È forse superfluo soffermarsi tanto a lungo sopra una cosa e è quasi evidente di per sé; ma quando una distinzione, per ovvia e possa apparire, è stata confusa da intellei peraltro poderosi, allo scopo di rendere tali errori impossibili in futuro è meglio dire troppo e troppo poco. Pertanto, intraerrò ancora il leore meendo in evidenza una delle conseguenze assurde e discendono dall’ipotesi e le premesse di tui i nostri ragionamenti siano le definizioni come tali, ecceuate quelle e si riferiscono soltanto alle parole. Se quest’ipotesi fosse vera potremmo argomentare correamente, partendo da premesse vere, e pervenire a conclusioni false. Ci basterebbe assumere come premessa la definizione di una non-entità; o, piuosto, di un nome a cui non corrisponde nessun’entità. Sia, per esempio, la nostra definizione: Un drago è un serpente e alita fiamme. esta proposizione, considerata soltanto come una definizione, è indiscutibilmente correa. Un drago è un serpente e alita fiamme: la parola significa proprio questo. Ma in realtà, se si sointendesse l’asserzione e esiste un oggeo dotato delle proprietà corrispondenti alla definizione, nel caso preso in esame questa tacita assunzione d’esistenza sarebbe falsa. Da questa definizione possiamo ritagliare le premesse del seguente sillogismo: Un drago è una cosa e alita fiamme Un drago è un serpente la cui conclusione è: Dunque, quale serpente alita fiamme. esto è un sillogismo ineccepibile, nel primo modo della terza figura, in cui tuavia entrambe le premesse sono vere, mentre la conclusione è falsa; e ogni logico sa bene e questa è un’assurdità. Se la conclusione è falsa e il sillogismo è correo, le premesse non possono essere vere. Ma le premesse, considerate come parti di una definizione, sono vere. Perciò le premesse

considerate come parti di una definizione non possono essere le premesse vere e proprie: le premesse vere e proprie dovrebbero essere: Un drago è una cosa realmente esistente, e alita fiamme Un drago è un serpente realmente esistente: le quali premesse implicite essendo false, la falsità della conclusione non presenta nessun’assurdità. Volendo determinare quale conclusione segua dalle stesse premesse rese esplicite, quando si sia lasciata fuori la tacita assunzione di esistenza reale, sostituiamo, secondo la raccomandazione faa in una delle pagine precedenti, «significa» ad «è». Avremo allora: «Drago» è una parola che significa una cosa e alita fiamme. «Drago» è una parola che significa un serpente da cui segue la conclusione: Una parola, o alcune parole, che significano un serpente, significano ane una cosa e alita fiamme. i la conclusione è vera (e sono vere ane le premesse) ed è l’unica specie di conclusione e mai possa seguire da una definizione, cioè da una proposizione e si riferisce al significato delle parole. C’è ancora un’altra forma, in cui possiamo trasformare questo sillogismo. Possiamo supporre e il termine medio non designi né una cosa né un nome, ma un’idea. Avremo allora: L’idea di un drago è l’idea di una cosa e alita fiamme L’idea di un drago è l’idea di un serpente Dunque c’è un’idea di serpente e è ane l’idea di una cosa e alita fiamme. i la conclusione è vera, e sono vere ane le premesse; ma le premesse non sono definizioni. Sono proposizioni e affermano e un’idea, e esiste nella mente, comprende certi elementi ideali. La verità della conclusione segue dall’esistenza di quel fenomeno psicologico iamato l’idea di drago, e perciò, ancora una volta, dalla tacita assunzione di un dato di faoc.

ando la conclusione è una proposizione e riguarda un’idea, come in quest’ultimo sillogismo, l’assunzione da cui dipende può essere semplicemente quella dell’esistenza di una idea. Ma quando la conclusione è una proposizione e riguarda una cosa, il postulato implicito nella definizione e funge apparentemente da premessa è l’esistenza di una cosa, e non semplicemente di un’idea, e si conforma alla definizione. est’assunzione di esistenza reale trasmeerà sempre l’impressione e intendiamo comunicare quando diiariamo di definire un qualsiasi nome di cui si sappia già e è il nome di oggei realmente esistenti. In considerazione di ciò si può dire e l’assunzione non è necessariamente contenuta nella definizione di drago, mentre non c’è dubbio e è compresa nella definizione di cerio. 6. Una delle circostanze e hanno contribuito a mantenere in vita la nozione e le verità dimostrative seguano da definizioni e non dai postulati impliciti in quelle definizioni, è e ane in quelle scienze e si pensa superino tue le altre quanto a certezza dimostrativa, i postulati non sono sempre esaamente veri. Non è vero e esista, o si possa descrivere, un cerio i cui raggi sono tui esattamente eguali. Un’accuratezza del genere è soltanto ideale: non si trova in natura e tanto meno si può realizzare artificialmente. Si prova perciò una certa difficoltà a pensare e le piú certe di tue le conclusioni possano riposare su premesse e, invece di essere certamente vere, sono certamente non vere, nel senso pieno e si è asserito. Esamineremo quest’apparente paradosso quando sarà il momento di traare della dimostrazione: allora saremo in grado di mostrare e il postulato è vero per quel tanto e è necessario a sorreggere quel tanto di vero e c’è nella conclusione. Ma i filosofi, ai quali un punto di vista del genere o non era mai passato per la mente, o non ne erano soddisfai, ritennero indispensabile e nelle definizioni si trovasse qualcosa di più certo, o almeno di più accuratamente vero, del postulato implicito dell’esistenza reale di un oggeo corrispondente alla definizione. E si lusingarono di aver trovato questo qualcosa quando diiararono e una definizione è un’asserzione e un’analisi, non già del puro e semplice significato di una parola, e neppure della natura di una cosa, ma di un’idea. Così, la proposizione «Un cerio è una figura piana limitata da una linea tui i punti della quale sono egualmente distanti da un punto dato e giace

all’interno di essa» non era considerata come l’asserzione e ogni cerio reale ha questa proprietà (cosa e non sarebbe rigorosamente vera), ma come l’asserzione e concepiamo un cerio come dotato di questa proprietà; e la nostra idea astraa di cerio è l’idea di una figura dotata di raggi esaamente eguali. In conformità con questo punto di vista, si dice e gli oggei della matematica e di ogni altra scienza dimostrativa non sono le cose come esistono nella realtà, ma sono astrazioni della mente. Una linea della geometria è una linea senza larghezza, ma in natura linee così non esistono: si traa soltanto di una nozione suggerita alla mente dall’esperienza di qualcosa e esiste in natura. La definizione (si dice) è una definizione di questa linea ideale, non già di una linea effeivamente esistente; e soltanto della linea ideale, e non di una linea esistente in natura, i teoremi della geometria sono rigorosamente veri. Ane ammeendo e questa dorina sulla natura delle verità dimostrative sia correa (e in un’altra parte di questo lavoro tenterò di provare e non lo è) è pur vero e, in base a questo presupposto, le conclusioni e sembrano seguire da una definizione non seguono dalla definizione in quanto tale, ma da un postulato in essa implicito. Ane se fosse vero e in natura non esiste nessun oggeo e risponde alla definizione di linea, e e le proprietà geometrie delle linee non sono vere di nessuna linea esistente in natura ma solo dell’idea di una linea, la definizione postulerebbe, in ogni caso, l’esistenza reale di una tale idea. Essa infai assume e la mente possa formare, o anzi abbia già formato, la nozione di una lunghezza priva di larghezza e di qualsiasi altra proprietà sensibile. In verità, a me sembra e la mente non possa formarsi una nozione del genere, e non possa concepire la lunghezza senza la larghezza; l’unica cosa e può fare, quando contempla gli oggei, è fissarsi sulla loro lunghezza, escludendo le altre qualità sensibili, e determinare, in tal modo, quali proprietà possano predicarsi degli oggei in virtù della sola lunghezza. Se questo è vero, il postulato implicito nella definizione geometrica di linea è l’esistenza reale, non già della lunghezza senza larghezza, ma della lunghezza, puramente e semplicemente, cioè dell’esistenza reale di oggei e hanno lunghezza. esto è perfeamente sufficiente a tenere in piedi tue le verità della geometria, peré ogni proprietà di una linea geometrica è, in realtà, una proprietà di tui gli oggei fisici, in quanto posseggono lunghezza. Ma ane la dorina di cui sostengo la falsità lascia

completamente inalterata la conclusione e i nostri ragionamenti sono fondati sui dati di fao postulati nelle definizioni, e non sulle definizioni in se stesse. Di conseguenza, condivido questa conclusione con quella sostenuta dal Door Whewell nella sua Philosophy of Inductive Sciences ane se, per quanto riguarda la natura delle verità dimostrative, le opinioni del Door Whewell differiscono grandemente dalle mie. E qui, come in molti altri casi, sono lieto di riconoscere e gli scrii di Whewell sono estremamente utili per ripulire da ogni confusione i passi iniziali dell’analisi dei processi mentali, ane se non posso fare a meno di considerare fondamentalmente errati i suoi punti di vista sull’analisi conclusiva di tali processi (cosa, questa, e tuavia non intacca il rispeo e nutro per quest’autore). 7. Ane se, stando all’opinione e ho presentato qui, le definizioni sono per parlar propriamente soltanto dei nomi e non delle cose, da questo non segue e le definizioni siano arbitrarie. Come definire un nome, non soltanto può essere una ricerca considerevolmente difficoltosa e complicata, ma può riiedere considerazioni e penetrano profondamente nella natura delle cose denotate dal nome. Tali sono, per esempio, le ricere e formano l’oggeo dei più importanti fra i Dialoghi di Platone, come, «Che cos’è la retorica?», e è l’argomento del Gorgia, o «Che cos’è la giustizia?», e è l’argomento della Repubblica. Tale è ane la domanda sdegnosamente posta da Pilato: «Che cos’è la verità?» e tale è la questione fondamentale e si pongono i moralisti di ogni tempo: «Che cos’è la virtù?». Sarebbe un errore il presentare queste ricere, difficili e nobili, come indagini e non si propongono nient’altro e l’accertamento del significato convenzionale di un nome. Tali ricere non sono tanto volte a determinare quello e è, ma piuosto quello e dev’essere il significato di un nome, e, come accade con altre questioni pratie di terminologia, la risoluzione di questo problema riiede e si penetri — e quale volta molto profondamente — nelle proprietà, non soltanto dei nomi, ma ane delle cose denominate. Sebbene il significato di ogni nome concreto generale risieda negli aributi e il nome connota, gli oggei riceveero un nome prima degli aributi, come si vede dal fao e in tue le lingue i nomi astrai sono per lo più composti, o altrimenti derivati, dai nomi concreti corrispondenti. Dopo i nomi propri, pertanto, i primi ad essere usati furono i nomi

connotativi, e nei casi più semplici non c’è dubbio e coloro e usarono il nome per primi avessero in mente una connotazione ben precisa, e iaramente volevano fosse comunicata dal nome. La prima persona e usò la parola «bianco» applicandola alla neve o a quale altro oggeo, sapeva indubbiamente molto bene quale qualità intendesse predicare, e aveva in mente una concezione perfeamente distinta dell’aributo significato dal nome. Ma quando le somiglianze e le differenze sulle quali si fondano le nostre classificazioni non sono così palpabili e così facili da determinare — specialmente quando non consistono di una sola qualità, ma di un certo numero di qualità, i cui effei, essendo mescolati insieme, non possono essere discriminati tanto facilmente e messi in relazione ciascuno con la sua vera origine — spesso accade e i nomi vengano applicati agli oggei da nominare senza e i li applica abbia in mente una connotazione ben definita. Allora i li applica è soltanto influenzato da una somiglianza generica tra il nuovo oggeo e tui i veci oggei familiari, e è stato abituato a iamare con quel nome, o alcuni di essi. esta, come abbiamo visto, è la legge e ane la mente del filosofo deve seguire quando dà nomi ai sentimenti elementari semplici propri della nostra natura; ma quando le cose da nominare sono totalità complesse, un filosofo non si accontenta di osservare una somiglianza generale: esamina in e cosa consista la somiglianza e dà lo stesso nome soltanto a cose e si somigliano negli stessi, precisi particolari. Pertanto il filosofo impiega abitualmente i suoi nomi generali con una connotazione ben definita. Ma il linguaggio non è stato fao dai filosofi, e i filosofi possono emendarlo soltanto in piccola misura. Nella mente dei veri arbitri del linguaggio, i nomi generali, specialmente quando le classi e denotano non possono essere portate davanti al tribunale dei sensi esterni per essere identificate e discriminate, connotano poco più di una somiglianza vaga e grossolana con le cose e prima, o per lo più, queste persone erano abituate a iamare con quei nomi. ando, per esempio, la gente comune predica le parole «giusto» o «ingiusto» di una qualsiasi azione, «nobile» o «ignobile» di un qualsiasi sentimento, espressione o comportamento, «uomo di stato» o «ciarlatano» di un qualsiasi personaggio politico, intende forse affermare, di questi vari soggei, aributi ben determinati di qualsiasi specie? No: si limita a riconoscere (o almeno, così pensa) quale somiglianza più o meno vaga ed

elastica tra queste cose e altre cose e è stata abituata a denominare, o a sentir denominare, con questi appellativi. Il linguaggio, come Sir James Maintosh2 diceva dei governi, «non viene fao, ma si fa». Un nome non viene imposto a una classe di oggei improvvisamente, e per uno scopo stabilito in precedenza, ma prima viene applicato a una cosa sola e poi, con una serie di passaggi graduali, viene esteso a un’altra cosa e a un’altra ancora. Come è stato osservato da pareci autori, e secondo quanto Dugald Stewart3 ha osservato con grande forza e iarezza nei suoi Philosophical Essay, non è infrequente e in virtù di questo processo un nome passi da un oggeo all’altro araverso somiglianze successive tra loro concatenate, finé viene applicato a cose e non hanno nulla in comune con le prime cose alle quali venne dato il nome — le quali cose, comunque, per questa ragione non perdono il loro nome — così e da ultimo denota un mucio confuso di oggei e non hanno assolutamente nulla in comune e non connota nulla, neppure una somiglianza vaga e generica. ando sia caduto in questo stato, in cui, predicandolo di un oggeo, non asseriamo leeralmente nulla di quell’oggeo, il nome è diventato inadao agli scopi del pensiero e della comunicazione del pensiero e può essere reso nuovamente utilizzabile soltanto se lo si spoglia di quale parte della sua multiforme denotazione e lo si confina ad oggei e posseggono alcuni aributi in comune, aributi e si può fargli connotare. esti sono gli inconvenienti di un linguaggio e «non viene fao, ma si fa». Come i governi e si trovano in uno stato simile, può essere paragonato a una strada e non è stata costruita ma si è faa da sola: per essere transitabile riiede continue riparazioni. Già da questo risulta evidente peré la questione e riguarda la definizione di un nome astrao presenti spesso tante difficoltà. La questione «Che cos’è la giustizia?» è, in altre parole: «al è l’aributo e gli uomini intendono predicare quando iamano “giusta” un’azione?» La prima risposta a questa domanda è e, non avendo raggiunto un accordo preciso su questo punto, gli uomini non intendono predicare distintamente quale aributo ben determinato. Nondimeno, tui credono e esista quale aributo comune, e appartiene a tue le azioni e sono abituati a iamare giuste. La questione dovrà essere, allora, se un tale aributo comune esista, e, in primo luogo, se l’accordo esistente tra gli uomini sulle particolari azioni da iamare o da non iamare giuste sia sufficiente a rendere possibile la ricerca delle qualità e queste azioni hanno in comune.

Se la risposta a questa domanda sarà affermativa il problema sarà quello di determinare se le azioni abbiano davvero quale qualità in comune e, se ce l’hanno, quale essa sia. Di queste tre indagini solo la prima ha per oggeo l’uso e la convenzione: le altre due riguardano dati di fao. E se alla seconda domanda (se le azioni formino una classe) è stata data una risposta negativa, ne rimane ancora una, spesso più ardua di tue le rimanenti, e cioè: quale sia il modo migliore per formare artificialmente una classe e possa essere denotata dal nome. E qui torna opportuno osservare e lo studio della crescita spontanea del linguaggio è della massima importanza per i voglia rimodellarlo logicamente. Spesso le classificazioni grossolane del linguaggio istituzionalizzato, per poco e vengano ritoccate dalla mano del logico (e dovrebbero esserlo quasi tue) sono, di per se stesse, adae in modo eccellente agli scopi e questi si propone. Paragonate con quelle del filosofo, le classificazioni del linguaggio ordinario sono come le leggi non scrie di un Paese, e a paragone delle leggi istituzionalizzate e codificate sono cresciute, per dir così, spontaneamente: costituiscono uno strumento di gran lunga meno perfeo di queste ultime ma, essendo il risultato di un processo di esperienza lungo, per quanto non-scientifico, contengono una massa di materiale e può essere reso molto utilmente disponibile nella formazione del corpo sistematico delle leggi scrie. In maniera analoga, il fao e certi oggei vengano raggruppati, per generale consenso, soo un nome comune (ane quando tale raggruppamento sia fondato soltanto su una somiglianza grossolana e generica) prova, in primo luogo, e la somiglianza è ovvia e perciò degna di essere presa in considerazione, e, in secondo luogo, e questa somiglianza ha colpito un gran numero di persone per una lunga serie di anni e di età. Ane quando un nome viene ormai applicato, per estensioni successive, a cose tra le quali non esiste questa grossolana somiglianza comune, troveremo ancora tale somiglianza in ogni passo del cammino compiuto dal nome. E questi trapassi di significato delle parole sono spesso l’indice del fao e tra le cose denotate dai nomi esistono connessioni reali, e altrimenti potrebbero sfuggire all’aenzione dei pensatori: di quelli, almeno, e, per il fao e usano un linguaggio differente, o peré le loro associazioni abituali sono in un modo o nell’altro diverse dalle solite, hanno fissato di preferenza la loro aenzione su altri aspei delle cose. La storia della filosofia abbonda di esempi di sviste di questo genere, commesse peré nessuno era riuscito a percepire la

connessione nascosta e univa i significati, apparentemente disparati, di quale parola ambiguad. Ogni volta e l’indagine sulla definizione del nome di un oggeo reale consiste in quale cosa di più e non nel puro e semplice confronto tra i significati stabiliti da quale autorità, assumiamo tacitamente e si deve trovare un significato del nome compatibile con il fao e questo continui a denotare, se è possibile tue, ma in ogni modo il maggior numero o la parte più importante delle cose di cui lo si predica di solito. Pertanto, l’indagine sulla definizione è un’indagine sulle somiglianze e sulle differenze tra queste cose: se ci sia quale somiglianza e corre fra tue queste cose, o, se non c’è, in quale parte di esse si possa rintracciare questa somiglianza generale; e, infine, quali siano gli aributi comuni il cui possesso dà a tue queste cose, o a quella certa loro parte, quel caraere di somiglianza e ha fao sì e le cose venissero classificate insieme. ando questi aributi comuni siano stati accertati e specificati, il nome e appartiene in comune agli oggei simili perde la sua connotazione vaga per acquistarne una distinta; e per il fao e possiede questa connotazione distinta diventa susceibile di definizione. Nel dare una connotazione distinta a un nome generale, il filosofo tenterà di soffermarsi su quegli aributi e, mentre sono comuni a tue le cose di solito denotate dal nome, hanno ane la massima importanza di per se stessi, sia direamente, sia per il loro numero, sia per la loro cospicuità, sia per l’interesse e presentano le conseguenze alle quali conducono. Sceglierà, per quanto può, quelle differentiae e conducono al maggior numero di propria interessanti: questi, infai, e non le qualità più oscure e nascoste dalle quali spesso dipendono, conferiscono a un insieme di oggei quel caraere e quell’aspeo generali e definiscono i gruppi in cui gli oggei cadono naturalmente. Ma il penetrare la concordanza più recondita, dalla quale dipendono queste concordanze ovvie e superficiali, è spesso uno dei problemi più difficili della scienza. Essendo tra i più difficili è raro e non sia tra i più importanti. E poié dal risultato dell’indagine sulle cause delle proprietà di una classe di cose dipende, tra l’altro, la questione di quale debba essere il significato di una parola, alcune delle ricere più profonde e più preziose e la filosofia ci offra sono state occasionate dalle ricere sulla definizione di un nome e come tali si sono presentate.

a. Nella sua Logic, il professor Bain assume un punto di vista tuo particolare a proposito della definizione. D’accordo col presente lavoro, egli sostiene (I, 71) e «la definizione, nel suo significato completo, è la somma di tue le proprietà connotate dal nome; esaurisce il significato di una parola». Ma il professor Bain ritiene e il significato di un nome generale comprenda non soltanto tue le proprietà comuni alla classe nominata, ma tue quelle proprietà della classe e sono proprietà fondamentali, non risolubili l’una nell’altra. «L’enumerazione degli aributi dell’ossigeno, dell’oro, dell’uomo, dovrebbe essere un’enumerazione (fin dov’è possibile) dei poteri o funzioni ultimi, non derivabili, di ciascuna di queste cose, e solo questa è una definizione completa» (I, 75). Secondo Bain, una proprietà indipendente, non derivabile da altre proprietà ane se prima sconosciute, non appena sia stata scoperta diventa parte del significato del termine, e dovrebbe perciò essere compresa nella definizione. «ando ci dicono e il diamante, e sappiamo essere una sostanza trasparente, brillante, dura e molto costosa, è composto di carbonio ed è combustibile, dobbiamo meere queste altre proprietà sul medesimo livello su cui stanno le altre; d’ora in poi esse saranno connotate dal nome» (I, 73). Di conseguenza, le proposizioni e il diamante è composto di carbonio, e e è combustibile, sono considerate dal signor Bain come proposizioni puramente verbali. Egli spinge questa sua dorina al punto di dire e, a meno e non si possa mostrare e la mortalità è una conseguenza delle leggi fondamentali dell’organizzazione animale, «mortalità» è connotata da «uomo», e «L’uomo è mortale» è una proposizione puramente verbale. E una delle peculiarità (e penso e si trai di una peculiarità svantaggiosa) del suo libro peraltro abile e prezioso, è il gran numero di proposizioni bisognose di prova e apprese in base all’esperienza, e, in conformità con questa sua dorina, il signor Bain considera come proposizioni non reali ma verbali. L’obiezione e devo fare a questo linguaggio è e esso oblitera, o almeno confonde, una distinzione molto più importante di quella e traccia. La sola ragione per dividere le proposizioni in proposizioni reali e proposizioni verbali, è quella di discriminare le proposizioni e trasmeono informazioni sui fai dalle proposizioni e non le trasmeono. Una proposizione, e afferma e un oggeo ha un dato aributo, mentre designa l’oggeo con un nome e significa già l’aributo non aggiunge alcuna informazione a quelle e sono già in possesso di tui coloro e hanno capito il nome. Ma dicendo questo, si implica e per «significazione di un nome» si intenda la significazione connessa al nome nell’uso comune della vita. Non riesco a pensare e si debba dire e il significato di una parola comprende dati di fao e sono sconosciuti a tue le persone e usano il nome, a meno e costoro non li abbiano appresi in virtù di uno studio speciale di un dipartimento particolare della natura; o e, dal momento e solo poe persone sono consapevoli dell’esistenza di questi dati di fao, l’affermazione di tali dati di fao costituisce una proposizione e non reca con sé alcuna informaziobne. Lasciando da parte la connotazione scientifica speciale, io sostengo e un nome significa, o connota, soltanto le proprietà di cui è un segno nella mente della generalità degli uomini, e e nel caso delle proprietà aggiunte è ancora possibile pensare e una cosa e non possegga le proprietà abbia ancora il dirio di portare quel nome, per quanto uniformemente si sia trovato e le proprietà aggiunte accompagnano le altre proprietà. Secondo l’uso del linguaggio e fa il signor Bain, «Ruminante» connota «fessipede», dal momento e le due proprietà si trovano sempre insieme e non si è mai scoperta nessuna connessione tra di esse. Ma «ruminante» non significa «fessipede», e se si dovesse scoprire un animale e rumina ma non ha lo zoccolo fesso, oso affermare e quest’animale sarebbe ancora iamato «ruminante». b. Nella discussione più completa e ha dedicato a quest’argomento nelle ultime edizioni del suo libro, l’Arcivescovo Whately non considera quasi più le definizioni dei nomi e le definizioni delle cose come tra loro distinte, in quale senso importante del termine. Nella nona edizione (a p. 145), Whately sembra limitare la nozione di definizione reale a una definizione e «spiega, della natura della cosa, qualcosa in più di quello e è implicito nel nome» comprendendo, nella parola «implicito», non soltanto quello e il nome connota, ma tuo quello e si può dedurre col ragionamento dagli aributi connotati dal nome. Ane questa, aggiunge, di solito viene iamata descrizione, e non definizione (e, sembra a me, giustamente). Secondo me una descrizione può essere

classificata tra le definizioni quando (come nel caso della definizione zoologica di «uomo») la si usa peré adempia allo scopo vero e proprio di una definizione, e diiarando la connotazione e si è data a una parola in quale uso speciale (come termine, cioè, di quale scienza o di quale arte). Naturalmente, questa connotazione speciale non sarebbe espressa dalla definizione correa della parola nel suo impiego ordinario. Il signor De Morgan1, capovolgendo diametralmente la dorina dell’Arcivescovo Whately, intende per «definizione reale» una definizione e contiene di meno di quanto contenga la definizione nominale, puré quello e contiene sia sufficiente per fare distinzioni. «Per “definizione reale” intendo una spiegazione della parola — di tuo il suo significato o soltanto di una parte di esso — sufficiente a separare, da tue le altre, le cose contenute soo la parola. Così, credo e la seguente definizione sia una definizione completa dell’elefante: “Un animale e, per natura, beve aspirando l’acqua col naso e soffiandosela in bocca”» (Formai Logic, p. 36). La proposizione generale e l’esempio particolare del signor De Morgan sono in disaccordo, peré, certamente, il modo di bere proprio dell’elefante non forma parte del significato della parola «elefante». Per il fao e una persona non conosce questa proprietà, non si può dire e non conosca e cosa significa «elefante». c. Nel solo tentativo e, per quanto ne so, è stato fao per confutare l’argomentazione e precede, si sostiene e nella prima forma del sillogismo: d. «Poe persone — ho deo altrove — hanno rifleuto su quanto grande sia la conoscenza delle cose e si riiede a un uomo peré questo sia in grado di dire e una determinata argomentazione verte completamente sulle parole. Forse non c’è uno solo dei termini principali della filosofia, e non venga usato in sfumature di significato quasi innumerevoli, per esprimere idee e differiscono in misura più o meno grande. Tra due di tali idee, un intelleo sagace e penetrante scorgerà, per così dire intuitivamente, una connessione per nulla evidente, sulla quale, pur essendo forse incapace di darne una giustificazione logica, costruirà un ragionamento perfeamente valido. Il suo critico, e non riesce a penetrare così a fondo nelle cose, scambierà erroneamente quest’argomentazione per una fallacia fondata sul duplice significato di un termine. E quanto più grande è il genio di colui e così disinvoltamente supera d’un balzo la voragine, tanto più grande sarà, probabilmente, la gazzarra e la vanagloria del logico puro e, arrancando dietro di lui, manifesta la propria superiore saggezza arrestandosi sull’orlo dell’abisso e abbandonando come impresa disperata quello e sarebbe invece il compito e gli è proprio: geare un ponte su di esso». Un drago è una cosa e alita fiamme Un drago è un serpente Perciò quale serpente, o alcuni serpenti, alitano fiamme «c’è tanta verità nella conclusione quanta ce n’è nelle premesse, o, per meglio dire, nelle premesse non c’è più verità di quanta non ce ne sia nella conclusione. Se il nome generale “serpente” comprende sia i serpenti reali sia quelli immaginari, allora nella conclusione non c’è falsità; se no, la falsità sta nella premessa minore». Tentiamo ora di impiantare il sillogismo sulla base dell’ipotesi e il nome «serpente» comprenda serpenti immaginari. Troveremo e in questo caso è necessario alterare i predicati; non si può infai asserire e una creatura immaginaria alita fiamme; quando si predica questo fao di una creatura si implica, nel modo più positivo, l’asserzione e una creatura di questo genere è reale, e non immaginaria. La conclusione deve perciò sonare: «Alcuni serpenti alitano davvero fiamme, o si immagina e lo facciano». E per provare questa conclusione nel caso dei draghi, le premesse dovrebbero essere: «Un drago è una cosa e s’immagina e aliti fiamme», «Un drago è un serpente (reale o immaginario)», da cui segue, indubbiamente, e ci sono serpenti e s’immagina e alitino fiamme. Ma la premessa maggiore non è né una definizione né una parte di una definizione, e questo è tuo quello e a me interessa provare. Esaminiamo ora l’altra asserzione: e, se la parola «serpente» sta unicamente per i serpenti reali, la premessa minore («Un drago è un serpente») è falsa. esto è proprio quello e ho deo io stesso della premessa, considerata come diiarazione di un fao: non è falsa in quanto parte della

definizione di «drago», e poié le premesse (o una delle premesse) devono essere false (falsa essendo la conclusione), la vera premessa non può essere la definizione, e è vera, ma la diiarazione del fao, e è falsa. 1. Augustus De Morgan (1806-1871), logico e matematico inglese, dal 1828 professore di matematica all’Università di Londra. Fece parte del circolo di matematici inglesi guidati da George Peaco, e nella prima metà del secolo XIX si baerono per l’introduzione in Inghilterra della versione leibniziana del calcolo infinitesimale, dando così impulso agli studi di algebra simbolica. La sua notorietà è però affidata agli studi di logica formale, con i quali fu tra i promotori di quella riforma «algebrica» della logica aristotelica e doveva condurre alle moderne «algebre della logica». Una delle scoperte logie, per cui andò famoso ai suoi tempi, e a proposito della cui priorità sostenne una lunga diatriba con Sir William Hamilton, è quella dejla «quantificazione del predicato» (di cui parla, appunto, J. S. Mill): tale scoperta, però, si rivelò di scarsa importanza per gli sviluppi ulteriori della logica. 2. Sir James Maintosh (1765-1832), pubblicista, uomo politico, avvocato, storico scozzese, autore, tra l’altro, di una Storia della rivoluzione inglese e di una Dissertazione sul progresso della filosofia etica e comparve nel 1831 come prefazione alla seima edizione dell’Encyclopedia Britannica e gli valse un duro aacco da parte di James Mill. 3. Dugald Stewart, filosofo scozzese (1753-1828), autore di un’opera intitolata Elements of the Philosophy of the Human Mind (Elementi della filosofia dello spirito umano) in tre volumi (I vol. 1792, II vol. 1814, III vol. 1827). Analizzò la conoscenza umana, individuando tre leggi fondamentali, o condizioni, della credenza, nella credenza nell’esistenza dell’io, originaria e irriducibile e fondamento della percezione sensibile; nella credenza nell’esistenza nel mondo esterno e in quella nell’uniformità nelle leggi di natura.

LIBRO SECONDO IL RAGIONAMENTO

Διωρισμένων δε τούτων λέγωμεν ἤδη, διὰ τίνων, ϰαὶ πότε, ϰαὶ πῶς γίνεται πᾶς συλλογισμός• ὕστερον δὲ λεϰτέον περὶ ἀποδείξεως. Πρότερον γὰρ περὶ συλλογισμοῦ λεϰτέον ἤ περὶ αποδείξεως, διὰ τò ϰαϑόλου μᾶλλον εἰναὶ τòν συλλογισμόν. Ἠ μὲν γὰρ απόδειξις, συλλογισμός τις• ὁ συλλογισμός δὲ οὐ πᾶς, ἀπόδειξις. ARISTOTELE, Analyt. Prior., 1, 4a. a. Fae queste distinzioni, diremo, ora, con quali mezzi, e quando, e in qual modo, si produca un sillogismo; in séguito dovremo parlare della dimostrazione. Del sillogismo, infai, si deve parlare prima di parlare della dimostrazione, dal momento e il sillogismo è più generale della dimostrazione. La dimostrazione, infai, è una specie di sillogismo, mentre non ogni sillogismo è una dimostrazione.

CAPITOLO I. L’INFERENZA, O RAGIONAMENTO, IN GENERALE 1. Nel libro precedente ci siamo occupati, non della natura della prova, ma della natura dell’asserzione; del significato trasmesso da una proposizione, vera o falsa e sia, non dei mezzi in base ai quali possiamo discriminare le proposizioni vere da quelle false. Tuavia, l’oggeo proprio della logica è la prova; ma prima di comprendere e cosa sia la prova era necessario comprendere a e cosa la prova sia applicabile, e cosa possa essere oggeo di credenza o di non-credenza, di affermazione o di negazione. In breve, e cosa asseriscano le diverse specie di proposizioni. Siamo andati avanti in quest’indagine preliminare fino a raggiungere un risultato ben definito. In primo luogo, l’asserzione si riferisce o al significato delle parole o a quale proprietà delle cose significate dalle parole. Le asserzioni e riguardano il significato delle parole — le più importanti tra le quali sono le definizioni — svolgono un ufficio indispensabile in filosofia; ma poié il significato delle parole è essenzialmente arbitrario, le asserzioni appertenenti a questa classe non sono susceibili di verità o di falsità, e pertanto non è possibile né provare e sono vere, né provare e sono false. Le asserzioni e riguardano cose — e e si possono iamare proposizioni reali per distinguerle da quelle verbali — sono di varie specie. Abbiamo analizzato il significato di ciascuna specie e abbiamo accertato la natura delle cose a cui si riferiscono e la natura di ciò e ciascuna di esse, presa separatamente, asserisce riguardo a queste cose. Abbiamo trovato e, qualunque sia la forma della proposizione e quali e siano, nominalmente, il suo soggeo e il suo predicato, il soggeo vero e proprio di ogni proposizione è costituito da uno o più fai o fenomeni della coscienza o da una o più delle cause o dei poteri nascosti a cui aribuiamo quei fai; e e quello e si predica o si asserisce, affermativamente o negativamente, di questi fenomeni o di questi poteri, è sempre o l’esistenza, o l’ordine nello spazio, o l’ordine nel tempo, o la causazione o la somiglianza. esta, dunque, è la teoria del significato delle proposizioni ridoa ai suoi elementi ultimi; ma di questa teoria c’è una formulazione diversa e meno astrusa, la quale, pur arrestandosi a uno stadio meno avanzato dell’analisi, è sufficientemente scientifica per molti degli scopi per i quali si riiede una

simile formulazione generale. esta formulazione riconosce la distinzione comunemente acceata tra soggeo e aributo, e fornisce la seguente analisi del significato delle proposizioni: Ogni proposizione asserisce e un certo soggeo dato possiede o non possiede un certo aributo; o e un certo aributo è o non è (in tui o in parte dei soggei nei quali s’incontra) congiunto con un certo altro aributo. Per il momento abbandoneremo questa parte della nostra ricerca e procederemo al problema peculiare della scienza della logica: in qual modo si provi la verità o la falsità delle asserzioni di cui abbiamo analizzato il significato; o, almeno, di quelle asserzioni e, non potendo essere ricondoe alla coscienza direa, o intuizione, costituiscono l’oggeo vero e proprio della prova. Di un fao o di un’asserzione diciamo e è provata quando crediamo nella sua verità in ragione di quale altro fao o di quale altra asserzione, da cui si dice e la prima segue. La maggior parte delle proposizioni affermative o negative, universali, particolari o singolari in cui crediamo, non vengono credute in base alla loro propria evidenza, ma in ragione di qualcosa a cui si è dato il nostro assenso precedentemente, e da cui si dice e le proposizioni sono inferite. Inferire una proposizione da una o più proposizioni date, prestarle credenza, o pretendere e glie la si presti, come a una conclusione da qualcos’altro, è ragionare, nel senso più ampio del termine. C’è un senso più ristreo, secondo il quale il nome «ragionamento» è confinato a quella forma d’inferenza e si iama deduzione, e di cui il sillogismo è il tipo generale. Le ragioni per non conformarsi a questo senso ristreo del termine sono state enunciate in uno stadio precedente della nostra indagine: ulteriori motivi saranno suggeriti dalle considerazioni nelle quali stiamo ora per addentrarci. 2. Nell’accingerci a prendere in considerazione i casi in cui si possono legiimamente trarre inferenze, ne menzioneremo dapprima alcuni in cui l’inferenza è apparente, non reale; questi casi devono essere riiamati all’aenzione soprauo per non confonderli con i casi di inferenza propriamente dea. Ciò accade quando la proposizione, apparentemente inferita da un’altra proposizione, si rivela, in ultima analisi, come una pura e semplice ripetizione della medesima asserzione, o di una parte della medesima asserzione, contenuta nella prima proposizione. Sono di questa natura tui i casi menzionati nei libri di logica come esempi di equipollenza

o di equivalenza di proposizioni. Così, se dovessimo argomentare: «Nessun uomo è incapace di ragione, peré ogni uomo è razionale» o: «Tui gli uomini sono mortali peré nessuno sfugge alla morte», sarebbe iaro e non stiamo provando la proposizione, ma stiamo soltanto facendo appello a un altro modo di meerla in parole; quest’altro modo di esprimere la proposizione può essere, o non essere, più facilmente comprensibile per i ci ascolta, o più adao a suggerirci la prova vera e propria, ma non contiene, in sé, ombra di prova. Un altro caso si ha quando da una proposizione universale pretendiamo di inferirne un’altra e differisce dalla prima solo per il fao di essere particolare, come: «Tui gli A sono B, perciò quale A è B»; «Nessun A è B, dunque quale A non è B». Ane questo non è un concludere da una proposizione ad un’altra proposizione, ma un ripetere per la seconda volta qualcosa e è già stato asserito in precedenza, con la differenza e qui non si ripete tua quanta l’asserzione precedente, ma soltanto una parte indefinita di quest’asserzione. Un terzo caso si ha quando, avendo l’antecedente affermato un predicato di un dato soggeo, il conseguente afferma, del medesimo soggeo, qualcosa già connotato dal primo predicato, come «Socrate è un uomo, perciò Socrate è una creatura vivente»: qui tuo quello e è connotato da «creatura vivente» è già stato affermato di Socrate quando si è asserito e è un uomo. Se le proposizioni sono negative, dobbiamo invertire il loro ordine così: «Socrate è una creatura vivente, perciò non è un uomo»: infai, se neghiamo la proposizione più ristrea, quella più ampia, e l’include, è già negata per implicazione. esti, dunque, non sono veri e propri casi di inferenza; e tuavia gli esempi elementari con cui nei manuali di logica s’illustrano le regole del sillogismo, spesso appartengono a questa specie, mal scelta, di ragionamenti: sono dimostrazioni formali di conclusioni a cui iunque comprenda i termini usati nell’enunciazione dei dati ha già consapevolmente prestato il proprio assensoa. Il caso più complesso di questa specie d’inferenza apparente è quella e si iama conversione delle proposizioni; la conversione delle proposizioni consiste nel trasformare il predicato in un soggeo e il soggeo in un predicato e nel costruire, partendo dagli stessi termini così invertiti, un’altra proposizione, e dev’essere vera se è vera la proposizione da cui si è partiti. Così, dalla proposizione particolare affermativa: «ale A è B» possiamo

inferire e «ale B è A». Dall’universale negativa: «Nessun A è B» possiamo concludere «Nessun B è un A». Dalla proposizione universale affermativa «Tui gli A sono B» non si può inferire e tui i B sono A: ane se tua l’acqua è liquida, questo non implica e ogni liquido è acqua; e quindi la proposizione «Tui gli A sono B» può essere legiimamente convertita in «ale B è A». esto processo, e consiste nel convertire una proposizione universale in una proposizione particolare, si iama conversione per accidens. Dalla proposizione «Alcuni A non sono B» non possiamo neppure inferire e quale B non è A: dal fao e alcuni uomini non sono Inglesi, non segue e alcuni Inglesi non sono uomini. Il solo modo generalmente acceato per convertire una proposizione negativa particolare è quello e ha la forma: «ale A non è B, perciò quale cosa e non è B è A», e questa si iama conversione per contrapposizione. In questo caso, tuavia, il predicato e il soggeo non vengono semplicemente invertiti, ma uno di essi viene cambiato. Invece di [A] e [B], i termini della nuova proposizione sono [una cosa e non è B] e [A]. La proposizione da cui si prendono le mosse: «ale A non è B» viene dapprima trasformata in una proposizione equipollente: «ale A è “una cosa e non è B”»; non essendo più una particolare negativa, ma una particolare affermativa, la proposizione ammee ora la conversione nel primo modo, vale a dire quella e viene iamata conversione sempliceb. In tui questi casi non c’è, in realtà, nessun’inferenza; nella conclusione non c’è nessuna verità nuova, nulla e non sia già asserito nelle premesse e non sia ovvio a iunque le apprende. Il fao asserito nella conclusione è lo stesso fao, o parte dello stesso fao, asserito nella proposizione da cui si è partiti. esto segue dalla nostra analisi precedente del significato delle proposizioni. al è il significato dell’asserzione e facciamo quando diciamo, per esempio, e alcuni sovrani legiimi sono tiranni? Che quale volta gli aributi connotati dal termine «sovrano legiimo» e gli aributi connotati dal termine «tiranno» coesistono nel medesimo individuo. Ora questo è ane, precisamente, quello e intendiamo quando diciamo e alcuni tiranni sono sovrani legiimi. esta, perciò, non è una seconda proposizione inferita dalla prima: non più di quanto la traduzione inglese degli Elementi di Euclide sia una raccolta di teoremi diversi, e conseguenti da quelli contenuti nell’originale greco. Ancora, quando asseriamo e

nessun grande generale è un temerario, intendiamo e gli aributi connotati da «grande generale» e quelli connotati da «temerario» non coesistono mai nel medesimo soggeo; e questo è ane il significato preciso e esprimeremmo se dicessimo e nessun temerario è gran generale. ando diciamo e tui i quadrupedi hanno il sangue caldo, non ci limitiamo ad asserire e quale volta gli aributi connotati da «quadrupede» e quelli connotati da «a sangue caldo» coesistono, ma asseriamo altresì e i primi non esistono mai senza i secondi. Ora, la proposizione «Alcune creature a sangue caldo sono quadrupedi» esprime la prima metà di questo significato, lasciando cadere l’altra metà; perciò è già stata affermata nella proposizione precedente: «Tui i quadrupedi hanno sangue caldo». Ma in questa proposizione non è stato asserito — e da essa non si può inferire — e tutte le creature a sangue caldo sono quadrupedi o, in altre parole, e gli aributi connotati da «a sangue caldo» non possono mai esistere senza quelli connotati da «quadrupede». Allo scopo di riasserire, in forma invertita, tuo quello e è stato affermato nella proposizione «Tui i quadrupedi hanno sangue caldo», dobbiamo convertirla per contrapposizione, così: «Nulla e non abbia sangue caldo è un quadrupede». esta proposizione e quella da cui è derivata sono esaamente equivalenti, e ciascuna di esse può essere sostituita dall’altra. Infai, il dire e quando sono presenti gli aributi di un quadrupede sono presenti ane gli aributi di una creatura a sangue caldo, equivale a dire e quando questi ultimi siano assenti, sono assenti ane i primi. In un manuale destinato a giovani studenti sarebbe opportuno soffermarsi più a lungo sulla conversione e sull’equipollenza delle proposizioni. Infai, ane se la pura e semplice riasserzione in parole differenti di ciò e è già stato asserito prima non si può iamare ragionamento, non esiste abito intelleuale più importante — e il coltivare quest’abito è la cosa e più d’ogni altra rientra nell’àmbito dell’arte della logica — del discernere rapidamente e con sicurezza l’identità di due asserzioni, quando quest’identità sia camuffata dalla differenza del linguaggio. ell’importante capitolo dei traati di logica e si occupa dell’opposizione delle proposizioni, e l’eccellente linguaggio tecnico e la logica ci fornisce per distinguere le differenti specie o modi di opposizione, sono utili soprauo per questo scopo. Considerazioni come quelle e proposizioni contrarie possono essere entrambe false ma non possono essere entrambe vere; e proposizioni subcontrarie possono essere entrambe vere, ma non possono

essere entrambe false; e di due proposizioni contraddiorie l’una dev’essere vera e l’altra dev’essere falsa; e, date due proposizioni subalterne, la verità dell’universale prova la verità della particolare, e la falsità della particolare prova la falsità dell’universale, ma non viceversac, possono a prima vista apparire molto tecnie e misteriose, ma, quando siano state spiegate, sembrano quasi fin troppo ovvie per riiedere una enunciazione così formale. Infai, la stessa quantità di spiegazione e è necessaria a rendere intelligibili i princìpi, farebbe sì e le verità e essi comunicano potrebbero essere afferrate in qualsiasi caso particolare ci si presenti. Da questo punto di vista, comunque, questi assiomi della logica sono sul medesimo piano di quelli della matematica. Che cose eguali alla stessa cosa siano eguali tra loro, è ovvio in tui i casi particolari così come lo è nell’enunciazione generale; e ane se non fosse mai stata enunciata nessuna massima generale siffaa, le dimostrazioni di Euclide avrebbero egualmente potuto superare, senza inciampare in nessuna difficoltà, quella lacuna e ora quest’assioma serve a colmare. Tuavia, mai nessuno ha censurato gli autori di traati di geometria per aver posto all’inizio dei loro traati un elenco di tali generalizzazioni elementari come esercizio preliminare e serva al principiante ad esercitare quella facoltà, e gli sarà riiesta ad ogni passo, di afferrare una verità generale. E ane nel discutere verità come quelle e abbiamo citato più sopra, lo studioso di logica acquista l’abito di interpretare con cautela le parole e di misurare esaamente la lunghezza e l’ampiezza delle sue asserzioni; abito e è tra le condizioni più indispensabili di ogni conquista della mente e si rispei, e il coltivare il quale costituisce uno degli scopi principali della disciplina della logica.

3. Dopo aver fermato la nostra aenzione, allo scopo di escluderli dal dominio del ragionamento o inferenza propriamente dea, sui casi in cui il passaggio da una verità all’altra è soltanto apparente peré il conseguente logico è una pura e semplice ripetizione dell’antecedente logico, passeremo ora ai casi di inferenza nell’accezione autentica del termine: a quei casi, cioè, in cui partiamo da verità note per arrivare ad altre verità realmente distinte dalle verità dalle quali siamo partiti. Si dice comunemente e il ragionamento — nel senso allargato in cui io uso questo termine, e secondo il quale «ragionamento» è sinonimo d’«inferenza» — è di due specie, ossia: ragionamento dal particolare al generale e ragionamento dal generale al particolare: il primo si iama induzione, il secondo ragionamento deduivo o sillogismo. Mostreremo adesso e c’è una terza specie di ragionamento e non cade soo nessuna di queste due classi e e, nondimeno, non soltanto è valido, ma è a fondamento degli altri due. È necessario osservare e le espressioni «ragionamento dal particolare al generale» e «ragionamento dal generale al particolare», si raccomandano per la loro brevità più e per la loro precisione, e e, senza l’aiuto di un commento, non segnano adeguatamente la differenza tra induzione (nel senso or ora indicato) e ragionamento deduivo. Il significato sointeso da queste espressioni è e l’induzione consiste nell’inferire una proposizione da proposizioni meno generali della proposizione inferita, mentre il

ragionamento deduivo consiste nell’inferire una proposizione da proposizioni egualmente, o più generali. ando, dall’osservazione di un certo numero di casi singoli, ascendiamo a una proposizione generale, quando, combinando un certo numero di proposizioni generali, concludiamo da esse a un’altra proposizione ancor più generale, il processo — e è sostanzialmente il medesimo in entrambi i casi — si iama induzione. ando, partendo da una proposizione generale non presa da sola (peré da una sola proposizione non si può concludere nulla e non sia già contenuto nei suoi termini) ma combinata con altre proposizioni, inferiamo una proposizione del medesimo grado di generalità o una proposizione meno generale, o una proposizione semplicemente individuale, questo processo è un ragionamento deduivo. In breve, quando la conclusione è più generale della più larga delle premesse, l’argomentazione viene comunemente iamata induzione; quando è meno generale, o egualmente generale, si traa di un ragionamento deduivo. Siccome tua l’esperienza comincia con casi individuali e procede, da questi ultimi, a casi generali, sembrerebbe più conforme all’ordine naturale del pensiero il traare l’induzione prima di arrivare a toccare il ragionamento deduivo. Tuavia, in una scienza e ha per scopo il ricondurre la nostra conoscenza acquisita alle sue fonti, sarà opportuno e il ricercatore cominci con gli ultimi piuosto e con i primi stadi del processo di costruzione della nostra conoscenza e, prima di tentar di indicare la sorgente originaria da cui in ultima analisi sia le une sia le altre scaturiscono, riconduca le verità derivate alle verità dalle quali le prime sono state dedoe e dalle quali dipendono quanto alla loro prova. Nel nostro caso, i vantaggi di questo modo di procedere si manifesteranno man mano e andremo avanti, in modo tale da rendere inutile qualsiasi ulteriore giustificazione o spiegazione. Per il momento, dunque, dell’induzione non diremo nulla di più, se non e senza dubbio è almeno un processo di inferenza autentica. La conclusione di un’induzione abbraccia di più di quanto non sia contenuto nelle sue premesse. Il principio, o legge, e si oengono dalla raccolta di casi particolari, la proposizione generale in cui incorporiamo il risultato della nostra esperienza, coprono un’estensione di terreno molto più ampia e non gli esperimenti individuali e ne formano la base. Un principio accertato per esperienza è qualcosa di più e non una semplice somma di ciò e è stato osservato specificamente nei casi individuali e si sono presi in esame:

è una generalizzazione fondata sopra questi casi, ed esprime la nostra credenza e quello e in essi abbiamo trovato di vero è vero di un numero indefinito di casi e non abbiamo esaminato e e probabilmente non esamineremo mai. La natura e i fondamenti di quest’inferenza, e le condizioni necessarie a renderla legiima saranno oggeo di discussione nel terzo Libro; ma e quest’inferenza abbia realmente luogo, è fuori discussione. In ogni induzione procediamo da verità e conoscevamo già a verità e non conoscevamo ancora; da fai accertati dall’osservazione a fai e non abbiamo mai osservato e e addiriura non possono, per il momento, essere osservati: per esempio, a fai futuri e però non esitiamo a credere in base alle sole prove forniteci dall’induzione stessa. Dunque l’induzione è un processo di ragionamento o d’inferenza vera e propria. Se, e in qual senso, si possa dire altreanto del sillogismo, resta da stabilire mediante l’esame nel quale ci accingiamo ad addentrarci. a.

I differenti casi di equipollenza o di «forme proposizionali equivalenti» sono stati esposti in modo abbastanza esauriente dal professor Bain, nella sua Logic. Molto felicemente il signor Bain designa con il nome di «obversione» [obversion] uno dei più comuni tra questi cambiamenti d’espressione; quello, cioè, e consiste nel passare, dall’affermazione di una proposizione, alla negazione della sua negazione, o viceversa. b. Come ha messo in evidenza Sir William Hamilton, «ale A non è B» può ane essere convertita nella forma seguente: «Nessun B è quale A». Alcuni uomini non sono negri; perciò nessun negro è alcuni uomini (per esempio Europei).

CAPITOLO II IL RAGIONAMENTO DEDUTTIVO, O SILLOGISMO 1. L’analisi del sillogismo è stata compiuta in modo così accurato e completo nei comuni manuali di logica, e in questo lavoro (e non vuol essere un manuale) sarà sufficiente ricapitolare memoriae causa i principali risultati di quell’analisi, allo scopo di meerli alla base delle osservazioni, e faremo in séguito, sulle funzioni del sillogismo e sul posto e esso occupa nella scienza. Peré un sillogismo sia legiimo è essenziale e ci siano tre, e non più di tre, proposizioni, e cioè: la conclusione, o proposizione e si deve provare, e due altre proposizioni e prese insieme la provano, e e si iamano le premesse. È essenziale e ci siano tre, e non più di tre, termini, e cioè: il soggeo e il predicato della conclusione, e un altro termine, iamato termine medio, e si deve trovare in entrambe le premesse, peré proprio per suo mezzo gli altri due termini devono venire connessi tra loro. Il predicato della conclusione si iama il termine maggiore del sillogismo; il soggeo della conclusione si iama il termine minore. Siccome possono esserci solo tre termini, il termine maggiore e il termine minore devono trovarsi ciascuno in una, e in una sola, premessa, insieme con il termine medio, e si trova in entrambe le premesse. La premessa e contiene il termine medio e il termine maggiore si iama premessa maggiore; quella e contiene il termine medio e il termine minore si iama premessa minore. Alcuni logici dividono il sillogismo in tre figure, altri in quaro, secondo la posizione del termine medio, e può essere o il soggeo in entrambe le premesse, o il predicato in entrambe le premesse, o il soggeo nell’una e il predicato nell’altra. Il caso più comune è quello in cui il termine medio è il soggeo della premessa maggiore e il predicato della minore. esta figura viene classificata come la prima figura. ando il termine medio funge da predicato in entrambe le premesse, il sillogismo appartiene alla seconda figura; quando è il soggeo di entrambe, il sillogismo appartiene alla terza. Nella quarta figura il termine medio è il soggeo della premessa minore e il predicato della maggiore. Gli autori e non annoverano più di tre figure fanno rientrare questo caso nella prima figura.

Ciascuna figura si divide in modi, secondo quelle e vengono iamate la quantità e la qualità delle proposizioni; cioè, secondo e le proposizioni siano universali o particolari, affermative o negative. Diamo qui di séguito gli esempi di tui i modi legiimi; cioè, di tui i modi in cui la conclusione segue correamente dalle premesse. A è il termine minore, C il termine maggiore, B il termine medio.

In questi esempi, o forme vuote per la costruzione di sillogismi, non trovano posto le proposizioni singolari: non, naturalmente, peré tali

proposizioni non vengano usate nei sillogismi deduivi, ma peré, dal momento e il loro predicato è affermato o negato dell’intiero soggeo, per gli scopi del sillogismo queste proposizioni vengono annoverate tra le proposizioni universali. Così, questi due sillogismi: Tui gli uomini sono mortali Tui i re sono uomini perciò Tui i re sono mortali

Tui gli uomini sono mortali Socrate è un uomo perciò Socrate è mortale

sono argomentazioni esaamente simili, e vengono entrambe fae rientrare nel primo modo della prima figuraa. Si può presumere e iunque abbia interesse per questo genere di ricere abbia appreso dai comuni manuali di logica sillogistica, o sia in grado di scoprire da solo, le ragioni per cui i sillogismi delle forme esposte sopra sono legiimi; cioè, le ragioni per cui, se le premesse sono vere, la conclusione deve necessariamente essere vera, e per cui questo non accade in nessun altro modo possibile (cioè, per nessun’altra combinazione di proposizioni universali e particolari, affermative e negative). Comunque, per qualsiasi spiegazione di cui si abbia bisogno, il leore può essere rinviato agli Elements of logic dell’Arcivescovo Whately; qui troverà enunciata con precisione filosofica, e spiegata con notevole iarezza, tua quanta la dorina istituzionale del sillogismo. Tui i ragionamenti deduivi validi, cioè a dire tui i ragionamenti per mezzo dei quali, da proposizioni generali già ammesse, si inferiscono altre proposizioni egualmente generali omeno generali, possono essere esposti in una delle forme elencate qui sopra. Ad esempio, tui quanti gli Elementi di Euclide possono essere travasati senza alcuna difficoltà in una serie di sillogismi di modo e di figura regolari. Bené un sillogismo costruito d’accordo con l’una o con l’altra di queste forme sia un’argomentazione valida, tui i ragionamenti deduivi correi possono essere formulati in sillogismi della sola prima figura. Le regole per travasare nella prima figura un ragionamento compiuto in una qualsiasi delle rimanenti figure si iamano regole di riduzione del sillogismo. La riduzione avviene per conversione dell’una o dell’altra, o di entrambe le

premesse. Così, un ragionamento nel primo modo della seconda figura, come: Nessun C è un B Tui gli A sono B perciò Nessun A è un C può essere ridoo nel modo seguente: la proposizione «Nessun C è un B» essendo universale negativa, ammee la conversione semplice e può essere trasformata in «Nessun B è un C», e, come abbiamo mostrato, è esaamente la medesima asserzione, formulata in altre parole — il medesimo fao espresso in modo diverso. Compiuta questa trasformazione, il ragionamento assume la forma seguente: Nessun B è C Tui gli A sono B perciò Nessun A è C e è un buon sillogismo nel secondo modo della prima figura. Ancora: un ragionamento nel primo modo della terza figura deve avere la forma seguente: Tui i B sono C Tui i B sono A perciò ale A è C i, secondo quello e abbiamo stabilito nel capitolo precedente a proposito delle proposizioni universali affermative, la premessa minore, «Tui i B sono A» non ammee la conversione semplice, ma può essere convertita, per accidens, in questo modo: «ale A è B». Come abbiamo fao vedere in precedenza, quest’ultima proposizione, pur non esprimendo tuo quello e è asserito nella proposizione «Tui i B sono A» ne esprime una parte, e deve perciò essere vera se è vero l’intiero. Come risultato della riduzione avremo allora il seguente sillogismo, nel terzo modo della prima figura:

da cui segue, ovviamente,

Tui i B sono C ale A è B, ale A è C.

Nella stessa maniera — o in una maniera su cui, dopo questi due esempi, non sarà necessario soffermarci ulteriormente — tui i modi della seconda, terza e quarta figura possono essere ridoi all’uno o all’altro dei quaro modi della prima. In altreparole, ogni conclusione e possa essere provata in una qualsiasi delle ultime tre figure può essere provata nella prima figura, partendo dalle medesime premesse e alterando leggermente la pura e semplice maniera d’esprimerle. Ogni ragionamento deduivo valido può essere pertanto enunciato nella prima figura, cioè a dire in una delle forme seguenti:

O, se si preferiscono simboli più significativi: Per provare una proposizione affermativa, l’argomentazione deve poter essere enunciata nella forma:

Per provare una proposizione negativa, l’argomentazione deve poter essere espressa nella forma seguente:

Sebbene tui i ragionamenti deduivi possano essere travasati nell’una o nell’altra di queste forme (e quale volta, grazie a questa trasformazione, la loro consequenzialità guadagni notevolmente in iarezza e in evidenza) si dànno indubbiamente casi in cui l’argomentazione cade più naturalmente in una delle altre tre figure e la concludenza è più immediatamente evidente in una di queste tre figure di quanto non lo sia dopo e il ragionamento è stato ricondoo alla prima figura. Così, se la proposizione fosse: «I pagani possono essere virtuosi», e la testimonianza e la prova fosse l’esempio di Aristide, il sillogismo di terza figura: Aristide era virtuoso Aristide era un pagano perciò ale pagano era virtuoso sarebbe un modo molto più naturale di esprimere il ragionamento, e convincerebbe più rapidamente, e non lo stesso ragionamento deduivo forzato nella prima figura, così: Aristide era virtuoso ale pagano era Aristide perciò ale pagano era virtuoso. Un filosofo tedesco, Lamberti1 cui Neues Organon (pubblicato nel 1764) contiene, tra l’altro, una delle esposizioni della dorina sillogistica più elaborate e complete e siano mai state scrie, ha esaminato espressamente quale sorta di ragionamenti cada più naturalmente e facilmente in ciascuna

delle quaro figure, e la sua ricerca è caraerizzata da una grande ingegnosità e da grande iarezza di pensierob. Comunque, l’argomentazione è sempre la medesima in qualunque figura venga espressa, peré, come abbiamo già visto, le premesse di un sillogismo di seconda, terza o quarta figura, e quelle del sillogismo di prima figura, a cui si possono ridurre gli altri sillogismi, sono le stesse in tuo tranne e nella forma linguistica, o, almeno, sono le stesse in tuo quello e contribuisce alla prova della conclusione. Secondo l’opinione generale dei logici, siamo perciò liberi di considerare le due forme elementari della prima figura come i tipi universali di ogni ragionamento deduivo correo — la prima forma, quando la conclusione da provare è affermativa, la seconda quando è negativa — ane se può darsi e certe argomentazioni abbiano la tendenza a rivestirsi delle forme della seconda, terza e quarta figura. esto, però, non può accadere con l’unica classe di argomentazioni e abbiano importanza scientifica di prim’ordine: vale a dire con quelle argomentazioni la cui conclusione è universale affermativa ed è pertanto susceibile di prova soltanto nella prima figurac. 2. Dunque, se esaminiamo queste due formule generali troviamo e in entrambe una premessa, la maggiore, è una proposizione universale e e, secondo e questa sia affermativa o negativa, sarà affermativa o negativa ane la conclusione. Pertanto, tui i ragionamenti deduivi partono da una proposizione, da un principio o da un’assunzione generali: da una proposizione in cui un predicato viene affermato o negato di un’intiera classe; cioè, da una proposizione in cui si asserisce quale aributo, o la negazione di quale aributo, di un numero indefinito di oggei contraddistinti da una caraeristica comune e designati, di conseguenza, da un nome comune. L’altra premessa è sempre affermativa e asserisce e qualcosa (e può essere o un individuo o una classe, o parte di una classe) appartiene alla, o è incluso nella, classe di cui si afferma o si nega qualcosa nella premessa maggiore. Ne segue e (se quell’affermazione o quella negazione sono corree) l’aributo affermato o negato dell’intiera classe può essere affermato o negato dell’oggeo o degli oggei e si suppone siano inclusi nella classe. E questa è precisamente l’asserzione e si fa nella conclusione. Esamineremo subito se quest’esposizione delle parti costitutive di un sillogismo sia adeguata o no; ma, fin dove arriva, è un’esposizione vera. Di

conseguenza essa è stata generalizzata ed elevata a massima logica, e su questa massima, si dice, è fondato ogni ragionamento deduivo, nella misura in cui si suppone e ragionare e applicare questa massima siano la stessa e medesima cosa. La massima suona: «Tuo ciò e può essere affermato (o negato) di una classe può assere affermato (o negato) di tuo ciò e è incluso nella classe». I logici ritengono e quest’assioma sia la base della teoria sillogistica, e lo iamano il dictum de omni et de nullo. Tuavia, considerata come principio del ragionamento, questa massima appare ben integrata in un sistema di metafisica e magari era universalmente acceato molto tempo fa, ma e negli ultimi due secoli tui hanno ritenuto superato in maniera definitiva (ane se, ai nostri giorni, non sono mancati tentativi di farlo risuscitare). Fin tanto e i cosiddei universali erano considerati come una specie particolare di sostanze, dotate di un’esistenza oggeiva e distinte dagli oggei individuali classificati soo di esse, il dictum de omni recava con sé un significato importante: esso infai esprimeva l’intercomunanza di natura e, in base a questa teoria, era necessario supporre esistesse tra quelle sostanze generali e le sostanze particolari e sarebbero loro subordinate. Di conseguenza, la proposizione e tuo quello e è predicabile dell’universale è predicabile dei vari individui e sono contenuti in esso, non sarebbe una proposizione identica, ma l’enunciato di quella e veniva concepita come una legge fondamentale dell’universo. L’asserzione secondo cui l’intriera natura e tue quante le proprietà della substantia secunda costituirebbero parte della natura e delle proprietà di ciascuna delle sostanze individuali e vengono iamate con il medesimo nome (l’asserzione, cioè, e le proprietà dell’Uomo — per esempio — sarebbero proprietà di tui gli uomini) è una proposizione e avrebbe un significato reale soltanto se «uomo» non significasse tui gli uomini, ma qualcosa e inerisce agli uomini ed è di gran lunga superiore ad essi in dignità. Ora, però, sappiamo e una classe (un universale, un genere o una specie) non è un’entità per se, ma nulla di più e nulla di meno e le stesse sostanze individuali e trovano posto nella classe, e sappiamo ane e in tua questa faccenda non c’è nulla di reale se non quegli oggei, un nome comune ad essi e certi aributi comuni indicati dal nome. E allora, mi piacerebbe sapere, e cosa impariamo quando ci dicono e tuo quello e può essere affermato di una classe può essere affermato di ogni oggeo contenuto nella classe? La classe non è altro e gli oggei contenuti in essa

e il dictum de omni equivale, puramente e semplicemente, alla proposizione identica e tuo quello e è vero di certi oggei è vero di ciascuno di quegli oggei. Se tui i ragionamenti deduivi non fossero nulla più e l’applicazione di questa massima a casi particolari, il sillogismo sarebbe davvero quello e più volte è stato accusato di essere: una solenne quisquilia. Il dictum de omni fa il paio con un’altra verità e, ai suoi tempi, si reputava di grande importanza: «Tuo ciò e è, è». Per dare un quale significato effeivo al dictum de omni dobbiamo considerarlo, non già come un’assioma, ma come una definizione; dobbiamo riguardarlo come una proposizione e è destinata a spiegare, con un giro contorto di parole, il significato della parola «classe». Spesso un errore e sembrava confutato definitivamente, e sloggiato una volta per tue dal nostro pensiero, non deve far altro e rivestirsi di frasi nuove: allora sarà accolto con tanto di benvenuto nei suoi veci alloggiamenti, e qui gli si permeerà di rimanere indisturbato per un altro bel po’ di anni. I filosofi moderni non hanno risparmiato il loro disprezzo per il dogma scolastico e genere e specie sono una sorta particolare di sostanze e e, le sole cose permanenti essendo queste sostanze generali (mentre le sostanze individuali comprese soo di esse fluiscono eternamente), la conoscenza, e comporta necessariamente stabilità, può soltanto riferirsi a queste sostanze generali, o universali, e non ai fai, o alle cose particolari compresi soo di esse. Tuavia, pur essendo stata rifiutata a parole, questa stessa dorina — camuffata soo le idee astrae di Loe (la cui speculazione, tuavia, ne è stata forse contaminata meno di quelle di altri autori e ne furono infeati), soo l’ultranominalismo di Hobbes e di Condillac o soo l’ontologismo delle più recenti scuole tedese — non ha mai cessato di avvelenare la filosofia. Una volta abituati a ritenere e la ricerca scientifica consista essenzialmente dello studio degli universali, gli uomini non si sbarazzarono di questo abito intelleuale neppure dopo e ebbero cessato di credere e gli universali posseggano un’esistenza indipendente; e persino coloro e sono arrivati al punto di considerare gli universali come puri e semplici nomi, non si sono potuti liberare dall’idea e la ricerca della verità consista, del tuo o in parte, in quale specie di evocazione magica o di giuoco di bussoloi fai con questi nomi. ando un filosofo adoa completamente il punto di vista nominalistico sul significato del linguaggio generale, ritenendo, contemporaneamente, il dictu

come fondamento di tuo il ragionamento, è probabile e due premesse così, messe insieme come si deve, lo facciano approdare, se è un pensatore coerente, a conclusioni piuosto stupefacenti. Di conseguenza, alcuni autori meritatamente celebri hanno sostenuto in tua serietà e il processo mediante il quale si arriva a nuove verità per mezzo del ragionamento consiste nella pura e semplice sostituzione di un insieme di segni arbitrari a un altro insieme di segni arbitrari; dorina, questa, e secondo questi autori, riceverebbe una conferma irresistibile dall’esempio dell’algebra. Mi sorprenderebbe molto se in magìa o in necromanzia capitasse di trovare quale processo più innaturale di questo. Il punto culminante di questa filosofia è il noto aforisma di Condillac, secondo cui una scienza non è nient’altro, o quasi nient’altro, e une langue bien faite; in altre parole, e la sola regola sufficiente a scoprire la natura e le proprietà degli oggei è quella e prescrive di denominarli appropriatamente: come se l’inverso di questa regola non fosse la verità e è impossibile denominare appropriatamente gli oggei se non nella misura in cui abbiamo già avuto una conoscenza direa della loro natura e delle loro proprietà. È proprio necessario dire e, originariamente, nessuna conoscenza riguardante le cose, neppure la più insignificante, non è mai stata oenuta, e non si sarebbe mai potuta oenere, con una qualsiasi manipolazione concepibile di nomi puri e semplici, e e dai nomi si può imparare soltanto quello e qualcuno, e usava i nomi, sapeva già? L’analisi filosofica conferma le indicazioni del senso comune, secondo cui la funzione dei nomi è soltanto quella di meerci in grado di ricordare e di comunicare i nostri pensieri. Che i nomi rafforzino ane in misura addiriura incalcolabile i poteri del pensiero, è verissimo: ma li rafforzano in virtù del potere inerente a una memoria artificiale; strumento, questo, la cui enorme potenza ben poi hanno preso in adeguata considerazione. In quanto memoria artificiale il linguaggio è veramente, come si è ripetuto tante volte, uno strumento del pensiero; ma una cosa è l’essere uno strumento, un’altra l’essere l’unico oggeo sul quale lo strumento viene esercitato. É bensì vero e pensiamo in misura considerevole per mezzo di nomi, ma quello e pensiamo sono le cose iamate con questi nomi e non può commeersi errore più grande dell’immaginare e sia possibile pensare senza avere in mente altro e nomi, o e si possa fare in modo e siano i nomi a pensare in vece nostra. de omni et de nullo

3. elli e consideravano il dictum de omni come il fondamento del sillogismo, guardavano ai ragionamenti in un modo corrispondente al punto di vista errato e Hobbes assunse relativamente alle proposizioni. Siccome esistono alcune proposizioni e sono puramente verbali, Hobbes, evidentemente allo scopo di rendere la propria definizione rigorosamente universale, definì la proposizione come se tue le proposizioni non diiarassero nient’altro all’infuori del significato delle parole. Se Hobbes avesse ragione, se questa fosse l’unica spiegazione possibile del significato delle proposizioni, non si potrebbe dare nessuna teoria della combinazione delle proposizioni in un sillogismo, all’infuori di quella comunemente acceata. Se la premessa minore non asserisse nient’altro se non l’appartenenza di qualcosa a una classe, e se la premessa maggiore non asserisse nulla di quella classe, ecceo e è inclusa in un’altra classe, la conclusione sarebbe soltanto e ciò e è incluso nella classe inferiore è incluso nella classe superiore, e il risultato non sarebbe perciò nient’altro e questo: e la classificazione non contraddice se stessa. Ma abbiamo visto e il dire e una proposizione fa rientrare qualcosa in una classe (o esclude qualcosa da una classe) non costituisce una spiegazione sufficiente del significato di una proposizione. Ogni proposizione e trasmea un’informazione reale asserisce un dato di fao e dipende dalle leggi di natura e non dalla classificazione. Asserisce e un dato oggeo possiede, o non possiede, un dato aributo, oppure asserisce e due aributi, o due insiemi di aributi, coesistono o non coesistono (costantemente o solo di tanto in tanto). Poié tale è il significato di tue le proposizioni e comunicano quale conoscenza della realtà, e poié il ragionamento deduivo è un modo per acquistare conoscenze della realtà, possiamo essere sicuri e nessuna teoria del ragionamento deduivo, e non riconosca questo significato delle proposizioni, può essere la teoria vera. Applicando alle due premesse di un sillogismo questo punto di vista sulle proposizioni, si oengono i seguenti risultati. La premessa maggiore, e, come abbiamo già fao osservare, è sempre universale, asserisce e tue le cose e hanno un certo aributo (o certi aributi), insieme con questo aributo hanno, o non hanno, un certo altro aributo (o certi altri aributi). La premessa minore asserisce e la cosa, o l’insieme di cose, e costituiscono il soggeo di questa premessa, hanno il primo degli aributi menzionati; e la conclusione è e hanno (o non hanno) il secondo aributo. Così, nel nostro esempio:

Tui gli uomini sono mortali Socrate è un uomo perciò Socrate è mortale, il soggeo e il predicato della premessa maggiore sono termini connotativi, peré denotano oggei e connotano aributi. L’asserzione contenuta nella premessa maggiore è e con uno dei due insiemi di aributi troviamo sempre l’altro; e gli aributi connotati da «uomo» non esistono mai se non sono congiunti con l’aributo iamato «mortalità». L’asserzione contenuta nella premessa minore è e l’individuo iamato «Socrate» possiede i primi aributi; di qui si conclude e possiede ane l’aributo della mortalità. O, se entrambe le premesse sono proposizioni generali come Tui gli uomini sono mortali Tui i re sono uomini perciò Tui i re sono mortali, la premessa minore asserisce e gli aributi denotati da «regalità» esistono soltanto in congiunzione con quelli significati dalla parola «uomo». Come nel caso precedente, la premessa maggiore asserisce e gli aributi menzionati per ultimi non si trovano mai senza l’aributo della mortalità. La conclusione è e, dovunque si trovino gli aributi della regalità, si trova ane quello della mortalità. Se fosse negativa, come «Nessun uomo è onnipotente», la premessa maggiore asserirebbe, non già e gli aributi connotati da «uomo» non esistono mai senza quelli connotati da «onnipotente», ma e non esistono mai insieme con essi. Di qui, e dalla premessa minore, si conclude e tra l’aributo dell’onnipotenza e gli aributi e costituiscono un re, esiste la medesima incompatibilità. Potremmo analizzare in maniera analoga qualsiasi altro esempio di sillogismo. Se generalizziamo questo processo e ceriamo il principio o legge contenuto in tue le inferenze di questo genere e presupposto in ogni sillogismo le cui proposizioni siano qualcosa di più e non proposizioni puramente verbali, troveremo, non già l’insignificante dictum de omni et de nullo, ma un principio fondamentale, o, piuosto, due princìpi fondamentali

e somigliano straordinariamente agli assiomi della matematica. Il primo, e è il principio del sillogismo affermativo, afferma e cose e coesistono con la stessa cosa coesistono l’una con l’altra, o, per usare una precisione ancor maggiore: una cosa, e coesiste con un’altra cosa e a sua volta coesiste con una terza cosa, coesiste ane con questa terza cosa; il secondo è il principio del sillogismo negativo e suona così: una cosa e coesiste con un’altra cosa, con cui una terza cosa non coesiste, non coesiste con questa terza cosa. esti assiomi si riferiscono manifestamente a fai e non a convenzioni; e a fondamento della legiimità di ogni argomentazione, nella quale l’oggeo di cui si traa sia costituito da fai e non da convenzioni, si trova l’uno o l’altro di essid. 4. Non ci resta e tradurre quest’esposizione del sillogismo dall’uno all’altro dei due linguaggi in cui, come abbiamo osservato in precedenzae, possiamo esprimere tue le proposizioni, e perciò, naturalmente, tue le combinazioni di proposizioni. Abbiamo osservato e una proposizione può essere considerata da due punti di vista diversi: come una parte della nostra conoscenza della natura o come un memorandum e ci serve da guida. Per il primo aspeo, ossia per l’aspeo speculativo, una proposizione affermativa generale è l’asserzione di una verità speculativa; della verità, cioè, e tuo quello e ha un certo aributo ha ane un certo altro aributo. Per l’altro aspeo una proposizione dev’essere considerata non già come una parte della nostra conoscenza, ma come uno strumento ausiliario per le nostre esigenze pratie; quando vediamo, o veniamo a sapere, e un oggeo possiede uno dei due aributi, questo strumento ci mee in grado di inferire e l’oggeo possiede ane l’altro, impiegando così il primo aributo come segno, o prova, dell’esistenza del secondo. Considerato in questo modo, ogni sillogismo cade soo la seguente formula generale: L’aributo A è segno dell’aributo B L’oggeo dato ha il segno A perciò L’oggeo dato ha l’aributo B. Riferite a questo tipo, le argomentazioni e abbiamo citato ultimamente come esempi di sillogismo, si esprimeranno nella seguente maniera: Gli aributi di uomo sono segno dell’aributo della mortalità

Socrate ha gli aributi di uomo; perciò Socrate ha l’aributo della mortalità. E ancora: Gli aributi di un re sono segno dell’aributo della mortalità Gli aributi di un re sono segno degli aributi di uomo perciò Gli aributi di un re sono segno dell’aributo della mortalità. E infine: Gli aributi di uomo sono segno dell’assenza dell’aributo dell’onnipotenza Gli aributi di un re sono segno degli aributi di uomo perciò Gli aributi di un re sono segno dell’assenza dell’aributo significato dalla parola «onnipotente» (Oppure: sono prova dell’assenza di quell’aributo). Per conformarsi a quest’alterazione della forma del sillogismo, gli assiomi su cui è fondato il processo sillogistico devono soostare a una trasformazione corrispondente. In questa terminologia, così alterata, entrambi gli assiomi possono essere portati soo una sola espressione generale, e cioè: Tuo ciò e ha un segno, ha ciò di cui è segno. Oppure, quando la premessa maggiore e la premessa minore sono universali: Tuo ciò e è segno di un segno è ane segno di ciò di cui quest’ultimo è un segno. Si può lasciare all’intelligente leore il compito di rintracciare l’identità di questi assiomi con gli assiomi enunciati in precedenza. Man mano e procederemo, scopriremo quanto sia conveniente la terminologia in cui li abbiamo tradoi or ora, terminologia e meglio di ogni altra con cui io abbia familiarità è adaa ad esprimere con precisione e con forza ciò a cui si tende, e ciò e effeivamente si oiene, in tui i casi in cui si accerta una verità per mezzo del ragionamento deduivof. a. Il professor Bain nega alle proposizioni singolari il dirio a essere classificate, per gli scopi del ragionamento deduivo, insieme con le proposizioni universali, ane se le proposizioni singolari

cadono soo la designazione, e egli stesso propone come equivalente di «universali», di «totali». Per usare il suo stesso modo d’esprimersi, il professor Bain vorrebbe addiriura bandirle del tuo dal sillogismo. Prende ad esempio: Socrate è saggio Socrate è povero perciò Alcuni poveri sono saggi o, più propriamente (come egli stesso osserva) «un povero è saggio». «Ora, se “saggio”, “povero” e “uomo” sono aributi e appartengono al significato della parola “Socrate”, il ragionamento non fa un solo passo in avanti. In “Socrate” abbiamo dato, inter alia, i fai “saggio”, “povero” e “uomo”, e non facciamo altro e ripetere il concorso di questo aributo, concorso e è stato scelto dall’intiero aggregato delle proprietà e costituiscono il tuo: Socrate. Il caso ricade perciò soo il titolo “Connotazione più ampia e connotazione più ristrea” delle forme proposizionali equivalenti, o inferenza immediata. Ma, messo in questa forma, l’esempio non rende giustizia al sillogismo composto di singolari. Dobbiamo supporre e entrambe le proposizioni siano reali, e e il predicato non sia in alcun modo contenuto nel soggeo. Così Socrate fu il maestro di Platone Socrate combaé a Delo Il maestro di Platone combaé a Delo. Si può legiimamente dubitare se in questo caso particolare i passaggi siano qualcosa di più di forme equivalenti. Infai, la proposizione “Socrate era il maestro di Platone e combaé a Delo”, e è composta dalle due premesse, non è, ovviamente, nulla più e un’abbreviazione grammaticale. Nessuno può dire e qui ci sia un cambiamento di significato, o qualcosa di più di una modificazione verbale della forma originale. Il passo successivo è: “Il maestro di Platone combaé a Delo”; e questo è l’enunciato precedente e è stato ridoo omeendo “Socrate”. Esso si contenta di riprodurre una parte del significato, ossia, di dire di meno di quanto non fosse stato deo prima. L’equivalente completo dell’affermazione è “Il maestro di Platone combaé a Delo e il maestro di Platone era Socrate”: la nuova forma tralascia questa parte dell’informazione e dà solo la prima. Ora, quando ripetiamo meno di quanto abbiamo il dirio di dire, o da un’asserzione complessa lasciamo cadere una parte e per il momento non desideriamo comunicare, non riteniamo mai di avere fao un passo in avanti, di aver trao un’inferenza vera e propria. Un’ operazione del genere si mantiene rigorosamente nell’ambito dell’equivalenza, o inferenza immediata. Di conseguenza, un sillogismo con due premesse singolari non può mai essere considerato come un’inferenza sillogistica, o deduiva, vera e propria».(Logic, I, 159). La prima argomentazione, come si sarà visto, riposa sul presupposto e il nome «Socrate» abbia un significato; e «uomo», «saggio» e «povero» siano parti di questo significato e e, predicandoli di «Socrate», non trasmeiamo nessun’informazione; e questa è una concezione della significazione dei nomi, e, per ragioni e ho già esposto (nella nota al par. 4 del capitolo sulla definizione, a p. 118) io non posso ammeere, e e, se applicata alla classe dei nomi cui appartiene il nome «Socrate», è in conflio con la definizione di nome proprio data dallo stesso signor Bain (Logic, I, 148): «un singolo segno, o designazione, appropriato alla cosa, e privo di significato». Tali nomi, continua il signor Bain, non ìndicano necessariamente neppure gli esseri umani. Tanto meno, dunque, il nome «Socrate» comprende il significato di saggio o povero. Altrimenti seguirebbe e se Socrate fosse diventato ricco, o avesse perso le proprie facoltà mentali in seguito a una malaia, non si sarebbe più iamato Socrate. La seconda parte dell’argomentazione — in cui il signor Bain sostiene e ane quando le premesse trasmeono un’informazione reale la conclusione non consiste d’altro e delle premesse, di cui è

stata lasciata fuori una parte — è applicabile, ammesso e lo sia, alle proposizioni universali quanto lo è alle proposizioni singolari. In ogni sillogismo, la conclusione contiene meno di quanto non sia asserito nelle due premesse prese insieme. Supponendo e il sillogismo sia Tue le api sono intelligenti Tue le api sono insei perciò Alcuni insei sono intelligenti potremmo prenderci la stessa libertà e si è preso il signor Bain, e congiungere insieme le due premesse come se si traasse di una sola: «Tue le api sono insei e sono intelligenti»; e potremmo dire e tralasciando il termine medio, «ape», non tiriamo nessun’inferenza vera e propria, ma non facciamo altro e riprodurre parte di quello e avevamo deo prima. ella del signor Bain è, in realtà, un’obiezione al sillogismo in se stesso, o, in ogni caso, alla terza figura; non può essere applicata, in modo speciale, alle proposizioni singolari. b. Le sue conclusioni sono: «La prima figura è adaa alla scoperta o alla prova delle proprietà di una cosa; la seconda, alla scoperta o alla prova delle differenze tra cose; la terza alla scoperta o alla prova di esempi e di eccezioni; la quarta alla scoperta, o all’esclusione, delle differenti specie di un genere». Il far risalire i sillogismi delle ultime tre figure al dictum de omni et de nullo è, secondo Lambert, tirato per i capelli e innaturale; a ciascuna delle tre figure corrisponde, secondo Lambert, un assioma separato, coordinato con il dictum ed egualmente autorevole, a cui dà il nome di dictum de diverso per la seconda figura, dictum de exemplo per la terza, e dictum de reciproco per la quarta. Si veda la parte I, Dianoiologie [Dianoiologia], cap. IV, par. 229 e segg. Il signor Bailey (Theory of a Reasoning, 2 ed., pp. 70-74) assume un punto di vista simile. c. Dopo e questo capitolo era già stato scrio, sono apparsi due traati (o, per meglio dire, un traato e un frammento di traato) e si propongono di migliorare ulteriormente la teoria delle forme del ragionamento deduivo: Formal Logic, or the Calculus of Inference, Necessary and Probable [Logica formale, ossia calcolo dell’inferenza necessaria e probabile] di De Morgan e New Analytic of Logical Forms [Nuova analitica delle forme logiche], quest’ultimo aggiunto come appendice a Discussions on Philosophy di William Hamilton e, in una versione ampliata, alle sue Lectures on Logic, pubblicate postume. Nel volume del signor De Morgan — volume e nelle sue parti più divulgative abbonda di pregevoli osservazioni felicemente espresse — il principale motivo di originalità consiste nel tentativo di portare soo regole rigorosamente tecnie i casi in cui si può trarre una conclusione da premesse e hanno quella forma solitamente classificata come particolare. Il signor De Morgan osserva, molto giustamente, e dalle premesse «La maggior parte dei B sono C», «La maggior parte dei B sono A» si può concludere con certezza e alcuni A sono C, dal momento e due porzioni della classe B, ciascuna delle quali comprende più della metà di quella classe, devono necessariamente consistere, in parte, dei medesimi individui. Seguendo questa linea di pensiero è egualmente evidente e, se sapessimo esaamente qual è in ciascuna delle premesse la proporzione in cui «la maggior parte» sta con l’intiera classe B, potremmo aumentare l’esaezza della conclusione in proporzione corrispondente. Così, se il 60 per cento dei B sono inclusi in C, e il 70 per cento sono inclusi in A, almeno il 30 per cento dev’essere comune a entrambe le classi; in altre parole, il numero degli A e sono C e quello dei C e sono A dev’essere almeno eguale al 30 per cento dei membri della classe B. Procedendo in questa concezione delle «proposizioni numericamente definite», ed estendendola a forme come queste: «Ciascuno dei 45 o più) X è uno dei 70 Y», o «Nessuno dei 45 (o più) X può trovarsi tra i 70 Y», ed esaminando quali inferenze si possono trarre dalle varie combinazioni possibili delle premesse di questo genere, De Morgan enuncia formule universali per tali inferenze, creando, a

questo scopo, non soltanto un nuovo linguaggio tecnico, ma un formidabile sieramento di simboli analoghi a quelli dell’algebra. Poié è innegabile e le inferenze e si possono trarre nei casi esaminati da De Morgan sono inferenze legiime, e e la teoria corrente non tiene conto di tali forme, io non dirò e non valesse la pena di mostrare deagliatamente in qual modo queste inferenze si possano ridurre a formule tanto rigorose quanto quelle di Aristotele. ello e ha fao il signor De Morgan valeva la pena di essere fao almeno una volta (e forse più d’una volta, come esercizio scolastico); ma io mi iedo se per qualsiasi scopo pratico valga la pena di studiare e di padroneggiare i risultati ai quali il signor de Morgan è pervenuto. L’utilità pratica delle formule tecnie del ragionamento consiste nel prevenire le fallacie; ma le fallacie contro cui è necessario stare in guardia nel ragionamento deduivo propriamente deo sorgono dall’uso incauto delle forme comuni del linguaggio, e il logico deve andare a caccia della fallacia in questo territorio, invece di aenderla sul proprio. Finé rimane tra le proposizioni e hanno acquistato la precisione numerica del calcolo delle probabilità, lascia al nemico il possesso dell’unico terreno sul quale può essere veramente pericoloso. E poié le proposizioni (ad eccezione di quelle universali) dalle quali un pensatore deve dipendere sia per scopi speculativi sia per scopi pratici non ammeono una determinazione numerica precisa tranne e in poi casi particolari, il ragionamento comune non può essere tradoo nelle forme di De Morgan, e pertanto non possono affao servire per meerlo alla prova. La teoria della «quantificazione del predicato» formulata da Sir William Hamilton, può essere descria nel modo seguente: «Da un punto di vista logico (cito le parole dello stesso Hamilton) dovremmo prendere in considerazione la quantità, sempre idealmente sointesa ma, per ovvie ragioni, di solito lasciata inespressa, non soltanto del soggeo, ma ane del predicato di un giudizio». «Tui gli A sono B» è equivalente a «Tui gli A sono qualche B», «Nessun A è B» a «Nessun A è qualche B», «ale A è B» equivale a «ale A è qualche B», «ale A non è B» a «ale A non è ogni B». Poié in queste forme di asserzione il predicato ha esaamente la medesima estensione del soggeo, tue queste proposizioni ammeono la conversione semplice; per mezzo di quest’ultima oeniamo ancora due forme: «Alcuni B sono tutti gli A» e «Nessun B è qualche A». Possiamo ane fare l’asserzione: «Tui gli A sono tui i B», e questa sarà vera se le classi A e B hanno esaamente la medesima estensione. Le ultime tre forme, pur comunicando asserzioni autentie, non trovano posto nella classificazione ordinaria delle proposizioni. Supponendo allora di tradurre tue le proposizioni in questo linguaggio e di scriverle, ciascuna, in quella tra le forme precedenti e corrisponde alla loro significazione, si meerà in evidenza un nuovo insieme di regole sillogistie, e differiscono in modo considerevole dalle regole comuni. Si può dare una visione generale dei punti in cui esse differiscono usando le stesse parole di William Hamilton (Discussions, 2a ed., p. 651): «La riduzione dei due termini di una proposizione alla loro relazione autentica, dal momento e una proposizione è sempre un’equazione tra il suo soggeo e il suo predicato. La conseguente riduzione della conversione delle proposizioni da tre specie a una sola: quella della conversione semplice. La riduzione di tue le leggi generali del sillogismo categorico a un unico canone. Lo sviluppo, a partire da quel solo canone, di tue le specie e varietà del sillogismo. L’abrogazione di tue le leggi speciali del sillogismo. La dimostrazione e le tre figure del sillogismo sono le sole possibili, e l’abolizione scientifica e definitiva, su nuove basi, della quarta figura. La dimostrazione e la figura è una variazione inessenziale della forma del sillogismo e di conseguenza e la riduzione del sillogismo a figure e non siano la prima è assurda. L’enunciazione di un solo principio organico per ciascuna figura. La determinazione del vero numero dei modi legiimi, insieme con:

l’allargamento del loro numero (a trentasei) la loro eguaglianza numerica in tue le figure e la loro equivalenza relativa, o identità virtuale, al di là di ogni differenza di semi. La dimostrazione e, siccome nella seconda e nella terza figura i due estremi hanno la medesima relazione con il termine medio, in esse non c’è (come c’è nella prima figura) opposizione e subordinazione tra un termine maggiore e un termine minore, reciprocamente contenenti le, e contenuti nelle, due totalità opposte di estensione e di comprensione. Di conseguenza, nella seconda e nella terza figura non ci sono una premessa maggiore e una premessa minore determinate, e ci sono due conclusioni indifferenti, laddove nella prima figura le premesse sono ben determinate ed esiste una singola conclusione immediata». esta dorina, come quella del signor De Morgan, di cui abbiamo dato notizia in precedenza, costituisce un’autentica aggiunta alla dorina del sillogismo; per di più ha, sulla dorina di De Morgan del «sillogismo numericamente definito», il vantaggio e le forme e ci presenta sono effeivamente disponibili come un mezzo per controllare la correezza del ragionamento deduivo: infai i predicati delle proposizioni espresse nella forma comune, possono sempre essere quantificati, e così si può fare in modo e le proposizioni stesse siano riducibili alle regole di Sir William Hamilton. Ma considerata come un contributo alla scienza della logica, confesso e la nuova dorina mi appare, non semplicemente superflua, ma addiriura erronea; infai, la forma di cui essa riveste le proposizioni non esprime (cosa e invece fa la forma ordinaria) quello e i parla ha in mente quando enuncia la proposizione. Non riesco a pensare e Sir William Hamilton abbia ragione, quando sostiene e la quantità del predicato è sempre «sointesa nel pensiero». È implicita, ma non è presente alla mente della persona e asserisce la proposizione. In realtà, lungi dall’essere un mezzo per esprimere più iaramente il significato della proposizione, la quantificazione del predicato conduce la mente fuori dalla proposizione, in un altro ordine di idee. Infai, quando diciamo: «Tui gli uomini sono mortali», intendiamo semplicemente affermare l’aributo «mortalità» di tui gli uomini senza affao pensare in concreto la classe «mortale», o senza darci la pena di dibaere la questione se questa classe contenga, o non contenga, altri esseri. Solo per certi scopi artificiali consideriamo la proposizione soo l’aspeo nel quale si pensa ane al predicato come a un nome di classe, e include soltanto il soggeo, oppure il soggeo più qualcos’altro (cfr. supra, p. 263). Per una discussione più completa di quest’argomento si veda il capitolo XXII di un lavoro al quale abbiamo già fao riferimento: An Examination of Sir William Hamilton Philosophy. d. Bené la sua teoria del sillogismo coincida con tuo qullo e c’è di essenziale nella mia, il signor Herbert Spencer (Principles of Psychology, [Princìpi di psicologia], pp. 125-27) ritiene e sia una fallacia logica il presentare i due assiomi enunciati nel testo come i princìpi e regolano il sillogismo. Il signor Spencer mi accusa di cadere nell’errore messo in evidenza dall’Arcivescovo Whately e da me stesso, errore e consisterebbe nel confondere l’esaa somiglianza con l’identità in senso leerale, e sostiene e dovremmo dire, non già e Socrate possiede gli stessi aributi connotati dalla parola «uomo», ma soltanto e possiede aributi esattamente simili a questi ultimi. Secondo questa terminologia, Socrate e l’aributo della mortalità non sono due cose e coesistono con la stessa cosa, come asserisce l’assioma, ma due cose e coesistono con due cose differenti. Il disaccordo tra il signor Spencer e me è semplicemente terminologico: infai (se ho afferrato bene l’opinione del signor Spencer) nessuno di noi due crede e un aributo sia una cosa reale, e possiede un’esistenza oggeiva: tui e due crediamo e sia un modo particolare di denominare le nostre sensazioni, o le nostre aspeative di sensazioni, considerate nella loro relazione con un oggeo esterno e le suscita. Pertanto, la questione sollevata dal signor Spencer non concerne la proprietà di cose realmente esistenti, ma la proprietà relativa, per scopi filosofici, di due modi differenti di usare un nome. Considerata da questo punto di vista, la terminologia e ho impiegato — e e è quella usata comunemente dai filosofi — mi sembra la migliore. Il signor Spencer è dell’opinione e siccome Socrate e Alcibiade non sono il medesimo uomo non si dovrebbe dire e l’aributo, e li costituisce

in quanto uomini, è il medesimo aributo; e, siccome l’umanità di un uomo e quella di un altro uomo si manifestano ai nostri sensi, non già per mezzo delle stesse sensazioni individuali, ma per mezzo di sensazioni esaamente simili, l’umanità dovrebbe essere considerata come un aributo differente in ognuno dei differenti uomini. Però, se le cose stanno così, l’umanità ane di un solo uomo dovrebbe essere considerata come due aributi differenti, ora e di qui a mezz’ora; infai, le sensazioni per mezzo delle quali si manifesterà tra mezz’ora ai miei organi di senso non saranno una continuazione delle mie sensazioni auali, ma una loro ripetizione; sensazioni frese, non identie, ma soltanto esaamente simili a quelle auali. Se ogni conceo generale, invece di essere «l’Uno nei Molti», fosse considerato come tanti concei differenti quante sono le cose alle quali è applicabile, non esisterebbe nulla di simile al linguaggio generale. Se «uomo» connotasse una cosa quando viene predicato di Giovanni e un’altra cosa, bené streamente simile alla prima, quando viene predicato di Guglielmo, allora un nome non avrebbe nessun significato generale. Coerentemente con questo punto di vista, un articolo uscito di recente asserisce, proprio su questa base, l’impossibilità di una conoscenza generale. Il significato di un qualsiasi nome generale è quale fenomeno esterno o interno e consiste, in ultima analisi, di sentimenti; e questi sentimenti, quando se ne interrompa per un istante la continuità, non sono più i medesimi sentimenti nel senso dell’identità individuale. Che cos’è, allora, il qualcosa di comune, e dà un significato al nome generale? Il signor Spencer non sa dire altro e è la similarità dei sentimenti; io aggiungo e l’aributo è precisamente questa similarità. I nomi di aributi sono, in ultima analisi, nomi per le somiglianze delle nostre sensazioni (o di altri sentimenti). Ogni nome generale, astrao o concreto, denota o connota una o più di queste somiglianze. Probabilmente, nessuno negherà e se cento sensazioni sono tanto simili da non poter essere distinte tra loro, si deve parlare della loro somiglianza come di una somiglianza sola, e non come di cento somiglianze e semplicemente somigliano l’una all’altra. Le cose confrontate sono molte, ma il qualcosa di comune a tue dev’essere concepito come uno solo, proprio come il nome e pur corrispondendo, ogni volta e viene pronunciato, a sensazioni sonore quantitativamente differenti, si concepisce come uno. Il termine generale «uomo» non connota le sensazioni provocate in noi, una volta sola, da un solo uomo (sensazioni, e una volta passate non possono ripresentarsi una seconda volta più di quanto non possa ripresentarsi un’altra volta il medesimo lampo) ma connota il tipo generale delle sensazioni provocate, sempre, da tui gli uomini, e il potere (sempre pensato come uno) di suscitare sensazioni di quel tipo. E l’assioma potrebbe essere messo in parole così: Due tipi di sensazione, ciascuno dei quali coesiste con un terzo tipo, coesistono tra loro; oppure: due poteri, ciascuno dei quali coesiste con un terzo, coesistono tra loro. Il signor Spencer mi ha frainteso su un altro particolare. Egli suppone e la coesistenza di due cose con una terza, di cui si parla nell’assioma, signifii simultaneità nel tempo. Invece la coesistenza e s’intende è quella e consiste nell’essere congiuntamente aributi del medesimo soggeo. L’aributo dell’essere nato senza denti e l’aributo dell’aver trentadue denti nell’età matura sono, in questo senso, coesistenti, peré sono entrambi aributi dell’uomo, ane se, ex vi termini, non lo sono mai del medesimo uomo nel medesimo tempo. e. Cfr. sopra, p. 271. f. Il professor Bain (Logic, I, 157) ritiene e l’assioma (o, per meglio dire, gli assiomi) e abbiamo proposto qui come sostituto per il dictum de omni presenti bensì certi vantaggi, ma «sia inutilizzabile come base per il sillogismo. Il difeo fatale consiste in questo: e esso mal si adaa a meer in evidenza la differenza tra la coincidenza parziale e la coincidenza totale dei termini, differenza la cui osservanza è la condizione essenziale per sillogizzare correamente. Se tui i termini avessero la medesima estensione, l’assioma funzionerebbe a maraviglia: A comporta [carry] B, tui i B e nient’altro e B; B comporta C nella medesima maniera; A comporta immediatamente C, senza limitazioni o riserve. Ma di fao, sappiamo e, mentre A comporta B, ane altre cose comportano B;

di conseguenza nel passaggio da A a C, araverso B, è indispensabile applicare un procedimento limitativo. A (in comune con altre cose) comporta B; B (in comune con altre cose) comporta C; di qui A (in comune con altre cose) comporta C. L’assioma non fornisce alcun mezzo per imporre questa limitazione; se dovessimo seguire A alla leera saremmo indoi a supporre e A e C sono coestesi; tale è infai l’unico significato ovvio dell’espressione “l’aributo A coincide con l’aributo C”». È certamente possibile e quale scolaro poco aento possa supporre, di tanto in tanto, e, dal fao e A comporta B, segue e B comporta A. Ma se ci fosse qualcuno così incauto da commeere quest’errore, basterebbe a correggerlo la prima lezione sulla logica dell’inferenza, quella sulla conversione delle proposizioni. La prima delle due forme nelle quali ho enunciato l’assioma presta il fianco, in certa misura, alle critie del signor Bain: quando si dice e B coesiste con A (dev’essere per un lapsus calami e il signor Bain usa la parola «coincide») è possibile, se non si fa aenzione, supporre e il significato sia e le due cose si trovano soltanto insieme. Ma quest’interpretazione errata è esclusa dall’altra forma della massima, quella pratica: nota notae est nota rei ipsius. Nessuno correrebbe mai il pericolo di inferire e, per il fao e a è un segno di b, b non può mai esistere senza a; e, per il fao e l’essere in istato di accertata consunzione è un segno dell’essere prossimi a morire, nessuno e non si trovi in istato di consunzione muore; e per il fao e l’essere carbone è un segno dell’essere venuti fuori dalle viscere della Terra, nulla e non sia carbone è mai emerso dalle viscere della Terra. La conoscenza ordinaria della propria lingua madre sembra costituire una protezione sufficiente contro questi errori, dal momento e quando si parla di un segno di qualcosa non si è mai inteso implicare reciprocità. Un’obiezione più fondamentale è stata formulata dal signor Bain in un passo successivo (p. 158). «L’assioma non si conforma al tipo di ragionamento deduivo, in quanto contrapposto all’induzione: all’applicazione di un principio generale a un caso speciale. Tuo ciò e non è capace di meere in evidenza la circostanza, non è adao a fungere da fondamento per il sillogismo». Ma bené possa essere correo limitare il termine «deduzione» all’applicazione di un principio generale a un caso speciale, non si è mai sostenuto e il ragionamento deduivo, o sillogismo, sia sooposto alla medesima limitazione; e la sua adozione escluderebbe una grande quantità di ragionamento sillogistico valido e concludente. Inoltre, se il dictum de omni mee in evidenza il fao dell’applicazione di unprincipio generale a un caso particolare, l’assioma e io propongo mee in evidenza la condizione e, sola, fa dell’applicazione un’inferenza autentica. Concludo, pertanto, e entrambe le forme hanno il loro valore e il loro posto in logica. Il dictum de omni dev’essere mantenuto come l’assioma fondamentale della logica della pura e semplice coesistenza, spesso iamata logica formale; e del resto io non l’ho mai contestato soo questo punto di vista, né mai ho proposto di bandirlo dai traati di logica formale. Ma l’altro assioma è l’assioma proprio della logica della ricerca della verità per mezzo della deduzione, e il suo riconoscimento è il solo e possa mostrare come sia possibile e il ragionamento deduivo sia una strada e conduce alla verità. 1. Johannes Heinri Lambert (1728-1777), matematico, fisico, astronomo e filosofo tedesco, membro delle Accademie di Monaco e di Berlino. Fu il fondatore della fotometria, e compì estese ricere sul calore, sulla luce e i colori. In matematica dimostrò e π è un numero irrazionale, e introdusse in trigonometria il conceo di funzione iperbolica. Nel 1761 pubblicò le Lettere cosmologiche sulla struttura dell’universo, in cui proponeva un’ipotesi cosmologica fondata sulla teoria newtoniana della gravitazione. La sua prima opera filosofica è il Nuovo Organo (1764) diviso in 4 parti. La prima, «Dianoiologia», studia le leggi formali del pensiero; la seconda, «Aletiologia», studia gli elementi primi della conoscenza; la terza, «Semiotica», le relazioni tra segni e pensiero; la quarta, «Fenomenologia», le fonti degli errori. L’altra opera di Lambert, Architettonica o teoria degli elementi semplici e primitivi della conoscenza filosofica e matematica (1771) traa del passaggio dalla

possibilità all’esistenza e contiene un iaro appello all’esperienza come fondamento della conoscenza. Le sue opere erano molto apprezzate da Kant, con cui Lambert intraenne un’importante corrispondenza.

CAPITOLO III. LA FUNZIONE E IL VALORE LOGICO DEL SILLOGISMO 1. Abbiamo mostrato quale sia la natura reale delle verità con le quali ha da fare il sillogismo, in contrapposizione con la maniera più superficiale in cui la teoria e va par la maggiore ne concepisce il significato, e abbiamo fao vedere quali sono gli assiomi fondamentali da cui dipende la sua forza probante, o concludenza. Dobbiamo ora indagare se il processo sillogistico, cioè il ragionamento dal generale al particolare, sia o non sia un processo d’inferenza, un progresso dal noto all’ignoto, un mezzo per pervenire alla conoscenza di quale cosa e prima non conoscevamo. Tra i vari modi in cui i logici hanno risposto a questa questione regna una notevole unanimità. Si ammee universalmente e un sillogismo è difeoso se nella conclusione c’è qualcosa di più di quanto non sia stato assunto nelle premesse. Ma in realtà ciò equivale a dire e un sillogismo non è mai stato e non sarà mai in grado di provare nulla e non fosse già noto, o non si fosse già assunto come noto, in precedenza. Dobbiamo allora concludere e il ragionamento deduivo non è un processo d’inferenza e e il sillogismo, e è stato tanto spesso presentato come l’unica forma di argomentazione a cui si possa dare con proprietà il nome di «ragionamento» in realtà non ha nessun dirio ad essere iamato «ragionamento»? esta, infai, sembra una conseguenza inevitabile della dorina, ammessa da tui gli autori e se ne sono occupati, secondo cui un sillogismo non può provare nulla di più di quanto è contenuto nelle premesse. Tuavia questo riconoscimento, così esplicito, non ha impedito a un certo numero di autori di continuare a presentare il sillogismo come l’analisi correa di ciò e la mente fa effeivamente quando scopre e prova la maggior parte delle verità, così della scienza come della vita di ogni giorno, e sono oggeo della nostra credenza; viceversa, quelli e hanno evitato quest’incoerenza e hanno seguito fino al suo legiimo corollario il teorema generale sul valore del sillogismo, sono stati indoi ad accusare la stessa teoria sillogistica di inutilità e di frivolezza, e questo in base alla petitio principii e, secondo loro, inerisce a tui i sillogismi. Poié credo e entrambe queste opinioni siano fondamentalmente erronee, devo pregare il leore di prestare la

propria aenzione a certe considerazioni senza le quali non mi sembra possibile nessuna valutazione correa del caraere del sillogismo e della funzione e esso svolge in filosofia; considerazioni e mi pare siano state trascurate, o siano state oggeo di insufficiente aenzione, sia da parte dei difensori della teoria sillogistica, sia da parte dei suoi detraori. generalizzazione per mezzop 2. Si deve concedere e in ogni sillogismo, considerato come un’argomentazione per provare la conclusione, c’è una petitio principii. I detraori della teoria sillogistica argomentano, in modo irrefutabile, e dicendo: Tui gli uomini sono mortali Socrate è un uomo perciò Socrate è mortale, la proposizione «Socrate è mortale» è presupposta nell’assunzione più generale, «Tui gli uomini sono mortali»; e non possiamo essere sicuri della mortalità di tui gli uomini se non siamo già certi della mortalità di ogni uomo singolo; e se fosse ancora in dubbio se Socrate, o qualunque altro individuo vogliamo nominare, sia mortale o no, il medesimo grado d’incertezza dovrebbe necessariamente sovrastare l’asserzione: «Tui gli uomini sono mortali»; e il principio generale, lungi dall’essere dato come prova del caso particolare, non può a sua volta essere preso per vero fin quando non si sia dispersa, con prove provenienti aliunde, la sia pur minima ombra di dubbio e possa oscurare l’uno o l’altro dei casi particolari compresi soo di esso. Allora, e cosa rimane da provare al sillogismo? In breve, e nessun ragionamento dal particolare al generale può in quanto tale provare alcuné, peré da un principio generale non possiamo inferire nessun particolare, se non quelli e il principio stesso assume come noti. esta dorina mi sembra irrefragabile; e se i logici, pur non essendo in grado di impugnarla, hanno di solito mostrato una forte tendenza a sbarazzarsene con quale spiegazione, ciò è accaduto, non peré fossero capaci di scoprire una qualsiasi pecca nell’argomentazione medesima, ma peré gli sembrava e l’opinione contraria riposasse su argomentazioni egualmente irrefutabili. Per esempio, non è evidente e nell’ultimo

sillogismo e abbiamo preso in considerazione o in uno qualunque dei sillogismi e abbiamo costruito nelle pagine precedenti la conclusione può costituire, effeivamente e bona fide, una nuova verità per la persona a cui il sillogismo viene presentato? Non è forse cosa della nostra esperienza quotidiana e, a verità a cui prima non si era pensato, a fai e non sono stati, e e non possono essere osservati direamente, si sia arrivati per via del ragionamento generale? Crediamo e il Duca di Wellington è mortale; ma fin e non sia morto non lo sappiamo dall’osservazione direa. Se, mentre è ancora vivo, ci iedessero come facciamo a sapere e il Duca è mortale, probabilmente risponderemmo: «Peré tui gli uomini lo sono». i dunque alla conoscenza di una verità non (ancora) susceibile di osservazione, arriviamo per mezzo di un ragionamento e può essere reso esplicito nel modo e segue: Tui gli uomini sono mortali Il Duca di Wellington è un uomo perciò Il Duca di Wellington è mortale. E poié gran parte della nostra conoscenza l’acquistiamo proprio in questo modo, i logici hanno persistito nel rappresentare il sillogismo come un processo di inferenza o di prova, ane se nessuno di loro ha eliminato la difficoltà e nasce dall’incompatibilità tra quest’asserzione e il principio secondo cui, se nella conclusione c’è qualcosa e non sia già stato asserito nelle premesse, il ragionamento è difeoso. È infai impossibile aribuire un serio valore scientifico a un semplice soerfugio qual è la distinzione tra l’essere contenuto nelle premesse per implicazione e l’essere invece asserito direamente in esse. ando l’arcivescovo Whately dicea e lo scopo del ragionamento è «semplicemente quello di sviluppare e svelare le asserzioni avviluppate (per così dire) e implicite nelle proposizioni da cui prendiamo le mosse, e di indurre una persona a rendersi conto di, e a riconoscere in tua la sua forza, quello e ha già ammesso», non affronta, credo, la vera e propria difficoltà e occorre spiegare: cioè a dire, come accada e una scienza come la geometria possa essere tua «avviluppata» in poe definizioni e in poi assiomi. Né questa difesa del sillogismo differisce di molto da quello e i detraori di questa specie di argomentazione le rinfacciano come un capo d’accusa, quando le imputano di non essere di

alcuna utilità se non per coloro e cercano di costringere l’interlocutore ad acceare le conseguenze estreme di un’ammissione in cui è stato intrappolato senza averne preso in considerazione e senza averne compreso tua la forza. Una volta e hai ammesso la premessa maggiore, hai asserito la conclusione. Ma, dice l’Arcivescovo Whately, l’hai asserita semplicemente per implicazione. i però questo non può voler dire altro se non e l’hai asserita inconsapevolmente; cioè, e non sapevi di asserirla. Ma se le cose stanno così, allora la difficoltà rispunta in quest’altra forma: Non avresti dovuto saperlo? Eri autorizzato ad asserire la proposizione generale, se prima non eri soddisfao della verità di tuo ciò e essa giustamente include? E se le cose non stanno così, non è forse vero e l’arte sillogistica è, prima facie, quello e i suoi avversari affermano: un espediente per meerti in trappola e mantenertici riniuso?b 3. È iaro e la via d’uscita da questa difficoltà è una sola. La proposizione e il Duca di Wellington è mortale è evidentemente un’inferenza; è oenuta, come conclusione, da qualcos’altro; ma ad essa concludiamo davvero dalla proposizione «Tui gli uomini sono mortali»? La mia risposta è: no. Secondo me, l’errore e si è commesso consiste nel trascurare la distinzione tra due parti del processo del filosofare; la parte e inferisce e la parte e registra, e nell’assegnare a quest’ultima parte le funzioni della prima. L’errore consiste nel iedere a una persona, e voglia conoscere l’origine della propria conoscenza, di far riferimento alle proprie annotazioni. Se fanno una domanda a una persona, e in quel momento non è in grado di rispondere, questa persona può rinfrescare la propria memoria ricorrendo a un memorandum e porta in giro con sé. Ma se a questa stessa persona iedessero in qual modo sia venuta a conoscenza del fao, difficilmente risponderebbe: «Peré sta scrio sul mio taccuino». A meno e, come il Corano, il libro non sia stato scrio con una penna dell’angelo Gabriele. Meiamo pure e la proposizione: «Il Duca di Wellington è mortale» sia un’inferenza traa immediatamente dalla proposizione «Tui gli uomini sono mortali»; ma da dove deriviamo la conoscenza di questa verità generale? Naturalmente, dall’osservazione. Ora, tuo quello e l’uomo può osservare sono i casi individuali. Da essi devono essere ricavate, e in essi possono essere di nuovo risolte, tue le verità generali. Infai, una verità

generale non è altro e un aggregato di verità particolari, un’espressione comprensiva mediante la quale si afferma o si nega simultaneamente un numero indefinito di fai individuali. Ma una proposizione generale non è semplicemente una forma compendiosa per registrare e conservare nella memoria un gran numero di fai particolari, e sono stati tui osservati. La generalizzazione non è un processo di denominazione pura e semplice: è ane un processo d’inferenza. Dai casi e abbiamo osservato ci sentiamo autorizzati a concludere e quello e abbiamo trovato vero in quei casi vale per tui i casi simili, passati presenti e futuri, per numerosi e siano. Allora, grazie a quel prezioso artificio del linguaggio, e ci mee in grado di parlare di molte cose come se fossero una sola, registriamo tuo quello e abbiamo osservato e tuo quello e inferiamo dalle nostre osservazioni, condensandolo in una sola espressione concisa; e così, invece di dover ricordare o comunicare un numero infinito di proposizioni, dobbiamo ricordare o comunicare una proposizione sola. In un solo, breve enunciato, si trovano condensati i risultati di molte osservazioni e di molte inferenze, e le istruzioni per compiere innumerevoli inferenze in casi imprevisti. Perciò, quando dalla morte di Giovanni e di Tommaso e di tue le altre persone di cui abbiamo sentito parlare e nel caso delle quali l’esperimento è stato controllato a sufficienza, concludiamo e il Duca di Wellington è mortale come tui gli altri, possiamo benissimo passare per lo stadio intermedio della generalizzazione «Tui gli uomini sono mortali», ma l’inferenza non risiede certo nell’ultima metà del processo, cioè nel passaggio da tui gli uomini al Duca di Wellington. L’inferenza si è conclusa quando abbiamo asserito e tui gli uomini sono mortali. In seguito non ci resta altro da fare e decifrare le nostre stesse annotazioni. L’arcivescovo Whately ha sostenuto contro quanto vorrebbe la nozione volgare, e il sillogizzare, o ragionare dal generale al particolare, non è soltanto un modo particolare di ragionare, ma è l’analisi filosofica del modo in cui tui gli uomini ragionano, e in cui devono ragionare, se ragionano. Con tuo il rispeo dovuto a un’autorità così alta, non posso fare a meno di pensare e la nozione volgare è, in questo caso, la più correa. Se è vero e dalla nostra esperienza di Giovanni, Tommaso, ecc., e una volta erano vivi ma ora sono morti, siamo autorizzati a concludere e tui gli esseri umani sono mortali, è sicuramente possibile e da questi stessi casi si sia concluso, immediatamente e senza alcuna inconseguenza logica, e il Duca di Wellington è mortale. In fin dei conti, tue e sole le prove della mortalità del

Duca di Wellington di cui siamo in possesso, sono costituite dalla mortalità di Giovanni, Tommaso, e compagnia bella. Interpolando una proposizione generale, alla prova non si aggiunge un solo iota. Poié i casi individuali sono tue e sole le prove di cui possiamo disporre, prove e nessuna forma logica in cui scegliamo di meerle può rendere maggiori di quanto non siano già; e poié tali prove o sono sufficienti di per se stesse, oppure, se sono sufficienti per uno scopo, non possono essere sufficienti per l’altro, io non riesco a capire peré dovrebbe esserci proibito di tagliare per la scorciatoia più breve per andare da queste premesse sufficienti alla conclusione, e si debba invece essere costrei, dal fiat arbitrario dei logici, a viaggiare per la strada maestra dell’a priori1. Non riesco a capire peré dovrebbe essere impossibile viaggiare da un posto all’altro senza «salire una collina, per poi ridiscenderla»2. Può darsi e la strada della collina sia la più sicura, e può darsi e alla sommità della collina ci sia un luogo in cui possiamo riposare e dal quale possiamo godere un panorama migliore del paesaggio circostante: ma se il nostro scopo è soltanto quello di arrivare alla fine del viaggio, il fao e si prenda quella strada piuosto e un’altra dipende in tuo e per tuo dalla nostra scelta: è una questione di tempo, di fatica e di pericolo. Non solo possiamo ragionare da particolari a particolari senza passare araverso generali, ma di fao ragioniamo continuamente così. Tue le nostre inferenze più antie sono di questa natura. Tiriamo inferenze fin dal primo baluginare della nostra intelligenza, ma passano anni prima e impariamo l’uso del linguaggio generale. Il bambino, e dopo essersi scoato le dita evita di ficcarle di nuovo nel fuoco, ha ragionato o inferito, pur senza aver mai pensato alla massima generale: «Il fuoco scoa». Sa di essere stato scoato, peré lo ricorda e basandosi su questa testimonianza, quando vede una candela, crede e se meerà il dito nella fiamma si scoerà di nuovo. Lo crede in tui i casi in cui gli càpita d’imbaersi, ma senza bisogno di guardare, in ciascuno dei casi singoli, al di là di quello e ha soo gli oci. Non generalizza: inferisce un particolare da particolari. Nello stesso modo ragionano ane i bruti. Non c’è nessuna ragione per aribuire agli animali inferiori l’uso di segni di natura tale e rendano possibili le proposizioni generali. Ma questi animali traggono profio dall’esperienza ed evitano quello e hanno scoperto e gli causa dolore, allo stesso modo, ane se non sempre con la medesima abilità, con cui lo

evita una creatura umana. Non è solo il bambino ad aver paura del fuoco dopo esserne stato scoato: ane il cane ce l’ha. Io credo e di fao, quando tiriamo inferenze dalla nostra esperienza personale e non da massime tramandateci dai libri o pervenuteci araverso la tradizione, concludiamo direamente da particolari a particolari molto più spesso e non araverso l’intermediario di una proposizione generale. Ragioniamo costantemente da noi stessi ad altre persone, o da una persona all’altra, senza prenderci la briga di erigere le nostre osservazioni al rango di massime generali della natura umana o di quella esterna. Talvolta, quando concludiamo e in quale determinata occasione una certa persona proverà questi o questi altri sentimenti, o agirà in questo o in quest’altro modo così e così, giudiiamo partendo da una considerazione allargata della maniera in cui sono abituati a sentire o ad agire gli esseri umani in generale o le persone e hanno un certo caraere particolare: ma molto più spesso giudiiamo limitandoci a riiamare ciò e la stessa persona ha sentito o fao, in casi precedenti, o considerando il modo in cui noi stessi sentiremmo o agiremmo. ando il vicino iede il parere sulla malaia del proprio figlio, la medicona del villaggio non è la sola a pronunciarsi sul male e sui suoi rimedi basandosi semplicemente su ciò e ricorda, e sugli insegnamenti e ha trao dal caso, secondo lei simile, di sua figlia Lucia. Tui noi, quando non abbiamo nessuna massima ben definita secondo la quale orientarci, ci regoliamo nello stesso modo; e se la nostra esperienza è ampia e ne riteniamo fortemente le impressioni, possiamo acquistare in questa maniera una considerevole capacità di giudicare accuratamente, capacità e forse non siamo assolutamente in grado di giustificare o di comunicare ad altri. Tra i più alti intellei pratici, ce ne sono stati molti di cui si è osservato come adaassero mirabilmente i loro mezzi ai fini e si proponevano, senza tuavia essere capaci di dare ragioni sufficienti di quello e facevano, e e applicavano, o sembravano applicare, princìpi reconditi e erano completamente incapaci di enunciare. esta è una conseguenza naturale dell’avere la mente fornita dei particolari appropriati e dell’essere stati abituati per lungo tempo a ragionare immediatamente da questi particolari a particolari nuovi, senza praticare l’abito di enunciare, a se stessi o agli altri, le proposizioni generali corrispondenti. Al vecio soldato basta dare una rapida ociata alla conformazione del terreno per essere immediatamente in grado di dare gli ordini necessari per un accorto sieramento delle sue truppe. Può darsi e l’istruzione teorica e ha

ricevuto sia scarsa, e e raramente sia stato iamato a rispondere della propria condoa davanti ad altra gente, e può darsi e non abbia mai avuto in mente un solo teorema generale sulla relazione tra terreno e sieramento delle truppe. Ma la sua esperienza di accampamenti, in circostanze più o meno simili, ha lasciato nella sua mente un gran numero di analogie vivide, inespresse, non generalizzate, la più appropriata delle quali, suggerendoglisi istantaneamente, lo determina ad adoare uno sieramento giudizioso. L’abilità nel maneggiare armi o strumenti propria di una persona incolta è di natura esaamente simile. Il selvaggio e esegue senza sbagliare proprio quel lancio e abbae la sua preda o il suo nemico, nel modo più adao al suo scopo, soo l’azione di tue le condizioni necessariamente implicite nella circostanza — peso e forma dell’arma, direzione e distanza del soggeo, azione del vento, e via discorrendo — deve la sua capacità a una lunga serie di esperimenti precedenti, il cui risultato non ha certo mai enunciato verbalmente in teoremi o in regole. La stessa cosa si può dire, in generale, di ogni altra abilità manuale fuori dell’ordinario. Non molto tempo fa, un industriale scozzese fece venire dall’Inghilterra pagandogli un salario caro e salato un tintore famoso per produrre colori molto belli, peré insegnasse la medesima abilità agli altri operai. L’operaio venne, ma il suo sistema per proporzionare gl’ingredienti — sistema in cui risiedeva il segreto degli effei da lui prodoi — consisteva nel prendere i colori a manciate, mentre il metodo comune consiste nel pesarli. L’industriale cercò di fargli convertire il suo sistema manuale in un sistema ponderale equivalente, in modo e fosse possibile accertare il principio generale del suo modo tuo particolare di procedere. L’uomo se ne scoperse incapace, e così non poté comunicare a nessuno la propria abilità. Basandosi sui casi individuali e cadevano soo il dominio della sua esperienza personale, quel tintore aveva stabilito mentalmente una connessione tra i begli effei dei colori e le percezioni taili e provava maneggiando i materiali coloranti, e da queste sensazioni riusciva a inferire i mezzi e si dovevano impiegare in ogni caso particolare e gli effei e ne sarebbero derivati, ma non era in grado di meere gli altri in possesso delle basi sulle quali procedeva, peré non le aveva mai generalizzate nella propria mente, né le aveva mai espresse col linguaggio. asi tui conoscono il consiglio e Lord Mansfield3 diede a un uomo dotato di buon senso e di spirito pratico e, essendo stato eleo governatore di una colonia, doveva presiederne la corte di giustizia pur senza aver mai avuto pratica giudiziaria o educazione legale. Il consiglio di Lord Mansfield

fu di prendere le proprie decisioni sui due piedi, peré allora sarebbero state probabilmente giuste, ma di non avventurarsi mai a darne le ragioni, peré quasi infallibilmente queste sarebbero state sbagliate. In casi come questo, e sono tu’altro e rari, sarebbe assurdo supporre e una caiva ragione possa essere la fonte di una decisione buona. Lord Mansfield ben sapeva e qualsiasi ragione il suo amico avesse dato, si sarebbe traato inevitabilmente di un ripensamento, peré, di fatto il giudice si lascia guidare dalle impressioni e appartengono alla sua esperienza passata, senza passare araverso il processo tortuoso e consiste nel trarre da esse princìpi generali, e ben sapeva e qualsiasi tentativo di enunciare tali princìpi sarebbe stato sicuramente destinato al fallimento. Tuavia Lord Mansfield non dubitava e un uomo dotato di egual esperienza, la cui mente sia per di più ben fornita di proposizioni generali derivate da un’induzione legiima basata su quell’esperienza, sarebbe di gran lunga preferibile, come giudice, a una persona sagace ma la cui spiegazione e la cui giustificazione dei propri giudizi non desse alcun affidamento. I casi di uomini di talento e compiono cose meravigliose senza sapere come, sono altreanti esempi delle forme più rozze e spontanee in cui operano le menti superiori. È un loro difeo, e spesso è fonte d’errori, il non aver generalizzato man mano e procedevano; ma pur essendo un aiuto — e pur essendo, in verità, il più importante di tui — la generalizzazione non è certo essenziale. Neane l’uomo dotato di istruzione scientifica, e possiede in forma di proposizioni generali un registro sistematico delle esperienze dell’umanità, ha sempre bisogno di rivolgersi a quelle proposizioni generali per applicare tali esperienze a un caso nuovo. Come ha giustamente osservato Dugald Stewart, bené i ragionamenti matematici dipendano interamente dagli assiomi, per vedere la concludenza della prova non è per nulla necessario fare espressamente ricorso agli assiomi. ando s’inferisce e AB è eguale a CD, peré sia AB sia CD sono eguali a EF, ane l’intelleo più rozzo, non appena abbia compreso la proposizione, può dare il suo assenso all’inferenza pur senza aver mai sentito parlare della verità generale: «Cose eguali a una terza sono eguali fra loro». Io penso e quest’osservazione di Stewart, se coerentemente perseguìta fino in fondo, vada dria alla radice della filosofia della deduzione, ed è un peccato e, per parte sua, Stewart si sia arrestato a un’applicazione molto più limitata di essa. Stewart si rese conto e in certi casi le proposizioni generali dalle quali si dice e un ragionamento dipende possono essere tralasciate completamente senza con ciò indebolire la forza

probante del ragionamento stesso. Ma immaginò e questa fosse una peculiarità propria degli assiomi e concluse da ciò e gli assiomi non sono i fondamenti o princìpi primi della geometria, da cui si deducono sinteticamente tue le altre verità di questa scienza (allo stesso modo e le leggi del moto e della composizione delle forme in dinamica, l’eguale mobilità dei fluidi in idrostatica, le leggi della riflessione e della rifrazione in oica, sono i princìpi primi di queste scienze), ma sono semplicemente assunzioni necessarie, e ane evidenti di per sé, la cui negazione distruggerebbe ogni dimostrazione, ma dalle quali, in quanto premesse, non si può dimostrare nulla. In questo, come in molti altri casi, questo scriore profondo ed elegante si è bensì reso conto di un’importante verità, ma se ne è reso conto soltanto a mezzo. Avendo trovato, nel caso degli assiomi della geometria, e i nomi generali non sono talismani e abbiano la virtù di evocare magicamente nuove verità fuori dal pozzo in cui giacciono nascoste, e non essendo riuscito a vedere e questo è egualmente vero di tui gli altri casi di generalizzazione, Stewart sostenne e gli assiomi sono, per natura, sterili di conseguenze, e e le verità realmente fruifere, i veri e propri princìpi primi della geometria, sono le definizioni; e, per esempio, la definizione del cerio è per le proprietà del cerio quello e le leggi dell’equilibrio e della pressione atmosferica sono per la salita del mercurio nel tubo di Torricelli. Ma tuo quello e Stewart aveva asserito a proposito della funzione a cui gli assiomi sono confinati nelle dimostrazioni della geometria, vale egualmente per le definizioni. Ogni dimostrazione e si trova in Euclide potrebbe essere portata a termine senza far uso di definizioni: questo si vede iaramente considerando il processo, peraltro molto comune, e consiste nel provare una proposizione della geometria per mezzo di una figura. Infai, da quale assunzione prendiamo le mosse quando dimostriamo una qualsiasi proprietà del cerio facendo ricorso a una figura? Non già dalla proposizione e in tui i ceri i raggi sono eguali, ma soltanto della proposizione e sono eguali nel cerio ABC. È vero e per garantire la nostra assunzione facciamo appello alla definizione di cerio in generale, ma è sufficiente e questa nostra assunzione venga ammessa nel caso particolare e abbiamo ipotizzato. Partendo da questa proposizione (e è, non già una proposizione generale, ma una proposizione singolare) e da altre proposizioni simili (alcune delle quali, quando siano state generalizzate, si iamano definizioni) noné da altri assiomi, proviamo e una certa conclusione è vera, non già di tui i ceri, ma del

particolare cerio ABC; o, almeno, e lo sarebbe se i fai concordassero esaamente con le nostre assunzioni. La proposizione e si è effeivamente dimostrata non è il cosiddeo enunciato (cioè il teorema generale e sta a capo della nostra dimostrazione): quello e è stato dimostrato è un caso solo; — ma il processo mediante il quale lo si è dimostrato è un processo e — cosa, questa, di cui ci rendiamo conto quando ne consideriamo la natura — può essere ripetuto per un numero indefinito di altri casi: per tui i casi e si conformino a certe condizioni. Siccome il meccanismo del linguaggio generale mee a nostra disposizione termini e connotano queste condizioni, noi siamo in grado di asserire questa moltitudine indefinita di verità con una sola espressione, e quest’espressione è il teorema generale. Rinunciando a usare i diagrammi e sostituendo nelle dimostrazioni frasi generali alle leere dell’alfabeto, possiamo provare direamente il teorema generale e dimostrare tui i casi contemporaneamente; e naturalmente per fare una cosa del genere dobbiamo impiegare come premesse gli assiomi e le definizioni nella loro forma generale. Ma questo vuol solo dire e se possiamo provare una conclusione individuale assumendo un fao individuale allora possiamo trarre una conclusione esaamente simile in tui quei casi in cui siamo autorizzati a fare un’assunzione esaamente simile. La definizione è una specie di avviso con il quale diciamo a noi stessi e agli altri quali siano le assunzioni e pensiamo di essere autorizzati a fare. E così, in tui i casi, le proposizioni generali e enunciamo all’inizio dei nostri ragionamenti (le si iami definizioni, assiomi, o leggi di natura) non sono altro e asserzioni abbreviate trascrie in una specie di notazione stenografica dei fai particolari e, presentandosene l’occasione, pensiamo di poter considerare provati o intendiamo assumere. In una qualsiasi dimostrazione è sufficiente assumere, per un caso particolare opportunamente scelto, quel tanto e diiariamo di voler assumere con l’asserzione o con la definizione o con il principio e enunciamo, in tui i casi e potranno presentarsi. Perciò, per una dimostrazione di Euclide la definizione di cerio è esaamente quello e sono gli assiomi per Dugald Stewart; cioè: la dimostrazione non dipende dalla definizione, ma se neghiamo la definizione la dimostrazione fallisce. La prova non riposa sull’assunzione generale, bensì su di un’assunzione simile, limitata al caso particolare; però, siccome quel caso è stato scelto come l’esemplare, o il paradigma, di tua quanta la classe dei casi e cadono soo il teorema, per fare l’assunzione in quel caso non possono esserci ragioni e non ci siano

ane per farla in tui gli altri; e negare l’assunzione in quanto verità generale significa negare il dirio di farla nel caso particolare. Indubbiamente, ci sono le più ampie ragioni per enunciare i princìpi e i teoremi nella loro forma generale, e queste ragioni verranno spiegate al più presto, nella misura in cui sarà indispensabile darne una spiegazione. Ma e i principianti inesperti, ane quando fanno uso di un teorema per dimostrarne un altro, ragionino dal particolare al particolare piuosto e dalla proposizione generale, è reso manifesto dalle difficoltà e incontrano quando si traa di applicare un teorema a un caso in cui la configurazione della figura è molto diversa da quella della figura per mezzo della quale è stato dimostrato il teorema originale. E questa è una difficoltà e, se si ecceuano i casi di insolita potenza mentale, può essere superata soltanto dopo aver fao una lunga pratica, e e la lunga pratica fa superare soprauo peré ci familiarizza con tue quelle configurazioni e sono compatibili con le condizioni generali del teorema. 4. Le considerazioni e abbiamo appena addoo sembrano avvalorare le seguenti conclusioni. Ogni inferenza è da particolari a particolari: le proposizioni generali sono pure e semplici registrazioni di inferenze già fae, e formule abbreviate per farne di più; di conseguenza, la premessa maggiore di un sillogismo è una formula di questo genere e la conclusione è un’inferenza traa, non già dalla formula, ma secondo la formula: il vero e proprio antecedente logico, o premessa, è pertanto costituito dai fai particolari a partire dai quali la formula è stata messa insieme per induzione. Può darsi e questi fai, e i casi individuali e ce li hanno forniti, siano stati dimenticati; però rimane sempre una registrazione, e non si limita a descrivere i fai in se stessi, ma mostra in qual modo si possano riconoscere quei casi rispeo ai quali si riteneva e i fai, quando erano noti, costituissero la garanzia di una determinata inferenza. Proprio secondo le indicazioni di questa registrazione tiriamo la nostra conclusione: e quest’ultima è, a tui gli effei e per tui gli scopi, una conclusione traa dai fai e abbiamo dimenticato. Per questa ragione è essenziale e leggiamo correamente la registrazione: e le regole del sillogismo sono un insieme di precauzioni prese per assicurare la correezza della nostra leura. esto punto di vista sulle funzioni del sillogismo è confermato proprio dalla considerazione di quei casi dai quali ci potremmo aspeare e gli fossero meno favorevoli; di quei casi, cioè, in cui il ragionamento deduivo è

indipendente da qualsiasi induzione precedente. Abbiamo già osservato e nel corso ordinario del nostro ragionamento il sillogismo costituisce soltanto la seconda metà del processo e consiste nel partire da certe premesse per arrivare a una certa conclusione. Ci sono però alcuni casi del tuo particolari in cui il sillogismo è il processo tuo quanto. Solo i particolari sono susceibili di essere sooposti a osservazione, e perciò tua la conoscenza, derivata dall’osservazione, comincia necessariamente dai particolari; ma in certi casi la nostra conoscenza può essere concepita come proveniente a noi da fonti e non sono l’osservazione. Si può presentare come proveniente a noi da una testimonianza e, in quella particolare occasione e in vista di quel determinato scopo, può essere acceata come un’autorità, e si può ritenere e l’informazione così comunicata comprenda non soltanto fai particolari, ma ane proposizioni generali, come quando si accea una dorina scientifica senza esaminarla, in base all’autorità di coloro e l’hanno enunciata, o una dorina teologica in base all’autorità della Scriura. Oppure può darsi e la generalizzazione non sia affao un’asserzione nel senso ordinario del termine, bensì un comando: una legge, non nel senso filosofico del termine, ma nel suo senso morale e politico: l’espressione del desiderio di un superiore e noi, o un certo numero di altre persone, conformiamo la nostra condoa a certe istruzioni di caraere generale. Nella misura in cui questo comando asserisce un fao, e in questo caso è un ao di volontà del legislatore, il fao è un fao individuale, e pertanto la proposizione non è una proposizione generale. Ma la descrizione, in essa contenuta, della condoa e i soggei devono osservare secondo il volere del legislatore, è una descrizione generale. La proposizione asserisce, non già e tui gli uomini sono una certa cosa, ma e tui gli uomini devono fare una certa cosa. In entrambi questi casi, i dati originari sono le generalità, mentre i particolari si oengono dalle generalità per mezzo di un processo e si risolve correamente in una serie di sillogismi. Tuavia la natura reale del supposto processo deduivo è abbastanza evidente. L’unico punto da stabilire è se l’autorità e ha diiarato la proposizione generale intendesse includere in essa questo caso così e così, e se il legislatore intendesse e il suo comando dovesse valere, fra tui gli altri casi, proprio per questo caso qui. La volontà del legislatore si accerta esaminando se il caso possegga i contrassegni per mezzo dei quali — come hanno significato quelle autorità — possiamo riconoscere i casi e intendevano rendere noti, o influenzare.

L’oggeo della ricerca consiste allora nell’interpretare l’intenzione del testimonio o quella del legislatore, avvalendoci delle indicazioni fornite dalle loro parole. esta, come dicono i Tedesi, è una questione di ermeneutica: l’operazione non è un processo d’inferenza ma un processo d’interpretazione. In quest’ultima frase troviamo un’espressione e meglio di ogni altra mi sembra caraerizzare le funzioni del sillogismo in tui i casi. ando le premesse sono date dall’autorità, la funzione del ragionamento consiste nell’accertare la testimonianza del teste o la volontà del legislatore, interpretando i segni per mezzo dei quali l’uno ha dato ad intendere la propria asserzione, l’altro il proprio comando. In maniera analoga, quando le premesse sono derivate dall’osservazione, la funzione del ragionamento è quella di accertare, interpretando un memorandum nostro o loro, quello e noi o i nostri predecessori avevamo pensato e si potesse inferire dai fai osservati. esto memorandum ci ricorda e da una prova pesata più o meno accuratamente è risultato, in precedenza, e dovunque percepiamo un certo segno è possibile inferire un certo aributo. La proposizione «tui gli uomini sono mortali» (per esempio) mostra e abbiamo avuto certe esperienze, in base alle quali abbiamo ritenuto e gli aributi connotati dal termine «uomo» sono un segno di mortalità. Ma quando concludiamo e il Duca di Wellington è mortale, la mortalità del Duca di Wellington l’inferiamo, non già dal memorandum, ma dalla nostra esperienza precedente. Dal memorandum inferiamo soltanto la nostra credenza precedente (o la credenza di coloro e ci hanno tramandato la proposizione) a proposito delle inferenze e quell’esperienza precedente dovrebbe garantire. esto punto di vista sulla natura del sillogismo rende coerente e intelligibile quello e altrimenti rimarrebbe oscuro e confuso nella teoria — sostenuta dall’Arcivescovo Whately e dagli altri illuminati difensori della dorina sillogistica — dei limiti entro i quali sono confinate le funzioni di questa forma di ragionamento. Essi affermano, in termini e non potrebbero essere più espliciti, e l’unico officio del ragionamento generale è quello di evitare contraddizioni nelle nostre opinioni; di impedirci di assentire a tuo ciò la cui verità sia in contraddizione con quelle cose a cui abbiamo già, e con buone ragioni, prestato il nostro assenso. E ci dicono e la sola ragione e un sillogismo ci fornisca per assentire alla conclusione, è e la supposizione e il sillogismo sia falso, combinata con la supposizione

e le premesse siano vere, ci condurrebbe a una contraddizione in termini. Ora, quest’esposizione delle vere ragioni di cui disponiamo per credere ai fai e apprendiamo dal ragionamento (in quanto contrapposti ai fai e apprendiamo dall’osservazione) è piuosto zoppicante. La vera ragione per cui crediamo e il Duca di Wellington morirà, è il fao e suo padre, i nostri padri, e tue le persone a loro contemporanee, sono morte. esti fai sono le vere e proprie premesse del ragionamento, ma a farci inferire la conclusione da quelle premesse non è la necessità di evitare ogni contraddizione verbale: non c’è alcuna contraddizione nel supporre e tue quelle persone siano morte e e, ciononostante, il Duca di Wellington possa vivere in eterno. Ci sarebbe però contraddizione se, basandoci su quelle stesse premesse, prima facessimo un’asserzione generale e includesse e coprisse il caso del Duca di Wellington, e poi rifiutassimo di aenerci ad essa nel caso singolo. La contraddizione da evitare è quella tra il memorandum, e redigiamo delle inferenze e si possono trarre correamente nei casi futuri, e le inferenze e tiriamo effeivamente quando quei casi si presentano. Da questo punto di vista interpretiamo la nostra formula esaamente allo stesso modo in cui un giudice interpreta una legge: al fine di evitare di trarre inferenze e non siano conformi alle nostre intenzioni precedenti, così come il giudice evita di prendere qualsiasi decisione e non sia conforme alla intenzioni del legislatore. Le regole di quest’interpretazione sono le regole del sillogismo, l’unico scopo del quale è quello di conservare la non-contraddiorietà tra le conclusioni e traiamo in ogni caso particolare e le direive generali, precedentemente ricevute, per trarle — sia e tali direive generali siano state enunciate da noi stessi, come risultato di un’induzione, sia e ci siano state trasmesse da un’autorità competente a darle. 5. Nel corso delle osservazioni e precedono credo di aver mostrato e, bené dove si usa un sillogismo ci sia sempre un processo di ragionamento, ossia un’inferenza, il sillogismo non è un’analisi correa di quel processo di ragionamento, o inferenza; quest’ultima, al contrario (quando non sia una pura e semplice inferenza traa da una testimonianza) è un’inferenza da particolari a particolari, autorizzata da una precedente inferenza da particolari a generali, e sostanzialmente identica con essa; e perciò ha natura induiva. Ma mentre queste conclusioni mi sembrano innegabili, devo tuavia elevare una protesta, tanto forte quanto quella dello stesso

Arcivescovo Whately, contro la dorina secondo cui l’arte sillogistica è inutile per gli scopi del ragionamento. Il ragionamento consiste nell’ao della generalizzazione, non nell’interpretazione della registrazione di quest’ao, ma la forma sillogistica rappresenta una garanzia collaterale indispensabile della correezza della generalizzazione medesima. Si è già visto e se abbiamo una collezione di particolari sufficiente per fondarvi un’induzione non abbiamo bisogno di formulare una proposizione generale: possiamo immediatamente ragionare da questi particolari ad altri particolari. Ma intanto si deve osservare e, tue le volte e da un insieme di casi particolari possiamo trarre legiimamente un’inferenza, allora possiamo ane generalizzare legiimamente la nostra inferenza. Se, partendo dall’osservazione e dall’esperimento, possiamo concludere a un solo caso nuovo, allora possiamo concludere ane a un numero indefinito di casi nuovi. Pertanto, se quello e è stato ritenuto vero nella nostra esperienza passata varrà ane per il tempo a venire, ciò avverrà non soltanto in quale caso individuale, ma in tui i casi di un certo tipo dato. Dunque, ogni induzione, e sia sufficiente a provare un solo fao, prova una moltitudine indefinita di fai: l’esperienza e giustifica una singola predizione dev’essere sufficiente a giustificare un teorema generale. È estremamente importante accertare ed asserire questo teorema nella forma della sua massima generalità, ponendo così dinanzi alla nostra mente, in tua la sua portata, la totalità di ciò e le nostre prove devono provare, ammesso e provino qualcosa. esta fusione in una sola espressione generale dell’intiero corpo delle inferenze e si possono trarre da un insieme dato di particolari, opera in più d’un modo come una garanzia della correezza di tali inferenze. In primo luogo, il principio generale presenta all’immaginazione un oggeo più grande di quanto non lo presenti ciascuna delle proposizioni singolari e il principio generale contiene. Ci rendiamo conto e un processo di pensiero, e conduca a una generalità comprensiva, ha importanza maggiore di un processo di pensiero e termini in un fao isolato; e la mente è indoa, sia pure in modo inconsapevole, a prestare maggiore aenzione al processo e a pesare con maggior cura se l’esperienza a cui si fa appello per sostenere l’inferenza basata su di essa sia sufficiente. Ma c’è un vantaggio diverso, e più importante. ando ragioniamo da un insieme di osservazioni individuali a quale caso nuovo e non ancora osservato — a un caso di cui abbiamo una conoscenza solo imperfea (altrimenti non staremmo ad

indagarlo) e per il quale, dal momento e lo indaghiamo, proviamo probabilmente un interesse particolare — non c’è quasi nulla e c’impedisca di lasciar libero corso alla negligenza, o a una qualsiasi inclinazione e possa influenzare i nostri desideri o la nostra immaginazione, e e, soo la loro influenza, c’impedisca di acceare come sufficiente una prova insufficiente. Ma se invece di concludere direamente al caso particolare ci meiamo di fronte un’intiera classe di fai — l’intiero contenuto di una proposizione generale, ogni minima parte del quale può essere legiimamente inferita dalle nostre premesse se può esserne inferita quella sola conclusione particolare — allora è abbastanza probabile e, se le premesse sono insufficienti, e quindi l’inferenza generale infondata, quest’ultima comprenda soo di sé quale fao, o più di un fao, il cui opposto sappiamo già vero: in questo modo scopriremo l’errore della nostra generalizzazione per mezzo di una reductio ad impossibilem. Così, ammeiamo e durante il regno di Marco Aurelio un suddito dell’Impero romano la cui immaginazione e le cui aspeazioni fossero state naturalmente influenzate dalla vita e dal caraere degli Antonini, fosse disposto ad aspearsi e Commodo sarebbe stato un reggitore giusto. Supponendo e si fosse fermato qui, l’unica cosa e poteva capitargli era di essere disingannato da una triste esperienza. Ma se avesse rifleuto e quest’aesa non poteva dirsi giustificabile a meno e le stesse prove non l’avessero autorizzato a concludere a quale proposizione generale — quale, ad esempio, la proposizione e tui gli imperatori romani sono reggitori giusti — allora avrebbe immediatamente pensato a Nerone, a Domiziano e ad altri esempi e, mostrando la falsità della conclusione generale e perciò l’insufficienza delle premesse, l’avrebbero immediatamente avvertito e quelle premesse non potevano provare, nel caso di Commodo, quello e non erano riuscite a provare in una qualsiasi raccolta di casi in cui fosse incluso il caso di Commodo. Tui riconoscono quanto sia vantaggioso il fare riferimento a un caso parallelo quando si giudica se una qualsiasi inferenza controversa sia legiima. Ma quando ci eleviamo a una proposizione generale, meiamo soo i nostri oci, non già un solo caso parallelo, ma, contemporaneamente, tui i possibili casi paralleli: tui i casi, cioè, a cui possiamo applicare lo stesso insieme di considerazioni probanti. Perciò, quando partendo da un certo numero di casi noti ragioniamo a un altro caso e supponiamo analogo, è sempre possibile, ed in genere è

vantaggioso, deviare il nostro ragionamento facendolo passare per i tortuosi canali di un’induzione e proceda da quei casi noti a una proposizione generale e applicando successivamente quella proposizione generale al caso ignoto. esta seconda parte dell’operazione e, come abbiamo già osservato prima, è essenzialmente un processo d’interpretazione, sarà risolubile in un sillogismo o in una serie di sillogismi le cui premesse maggiori saranno proposizioni generali e abbracciano intiere classi di casi; e, se l’argomentazione è sostenibile, ognuna di queste proposizioni dovrà essere vera in tua la sua estensione. Se perciò si sa o si sospea e un qualsiasi fao, e rientri a buon dirio nell’àmbito di una di queste proposizioni generali e sia di conseguenza asserito da essa, è diverso da quello e la proposizione asserisce e è, questo modo di formulare l’argomentazione ci fa sapere, o ci induce a sospeare, e le osservazioni originali e costituiscono le basi reali della nostra conclusione non siano sufficienti a sostenerla. E se non compare alcun indizio di tale difeo, la fiducia e siamo autorizzati a riporre nelle nostre prove crescerà col crescere delle nostre chances di renderci conto della loro inconcludenza. Pertanto, il valore della forma sillogistica e delle regole del suo uso correo non consiste nel fao e sono la forma e le regole secondo le quali facciamo necessariamente, o ane solo per lo più, i nostri ragionamenti, ma nel fao e ci forniscono un modo in cui quei ragionamenti possono sempre essere rappresentati, e e è mirabilmente calcolato per portare alla luce la loro inconcludenza, nel caso in cui siano inconcludenti. Un’induzione da particolari a generali, seguìta da un processo sillogistico e procede da quei generali ad altri particolari, è una forma in cui possiamo sempre enunciare i nostri ragionamenti, se ci va di farlo. Non è una forma in cui non possiamo non ragionare, ma una forma in cui possiamo ragionare e nella quale è indispensabile riversare il nostro ragionamento nel caso in cui ci sia quale dubbio circa la sua validità. Tuavia, quando il caso è familiare e poco complicato e non c’è alcun sospeo di errore, possiamo ragionare (e in effei ragioniamo) immediatamente dal caso particolare noto a casi ignotic. esti sono gli usi del sillogismo, in quanto modo per verificare una qualsiasi argomentazione data. I suoi usi ulteriori, per quanto riguarda il corso generale delle nostre operazioni intelleuali, non hanno praticamente bisogno di essere illustrati, peré in realtà sono gli usi riconosciuti del linguaggio generale. Essi equivalgono sostanzialmente a questo: e ci permeono di compiere le nostre induzioni una volta per tue; una sola,

accurata interrogazione dell’esperienza può essere sufficiente, e il risultato può essere registrato soo forma di una proposizione generale, e viene affidata alla memoria o allo scrio, e da cui, in séguito, non dobbiamo far altro e sillogizzare. I particolari dei nostri esperimenti possono dunque essere dimenticati, dal momento e sarebbe impossibile ritenere nella memoria una moltitudine tanto grande di deagli; invece la conoscenza e questi deagli ci forniscono per l’uso futuro — e e altrimenti andrebbe perduta non appena le osservazioni siano state dimenticate o la loro registrazione sia diventata troppo ingombrante peré possiamo riferirci ad essa — viene conservata dal linguaggio generale in forma comoda e immediatamente disponibile. Di contro a questo vantaggio si deve meere l’inconveniente opposto: e le inferenze trae originariamente in base a prove insufficienti vengono consacrate, e, per dir così, solidificate, in massime generali; e la mente vi si abbarbica per abitudine, ane dopo aver superato il pericolo di essere indoa in errore da apparenze fallaci simili, quando le si presentano per la prima volta; in questo caso, però, avendo dimenticato i particolari, non pensa di ritornare sulla sua decisione precedente. Si traa di un inconveniente inevitabile e, pur essendo di per se stesso considerevole, costituisce evidentemente solo un difeo minimo, in confronto con gli immensi benefici del linguaggio generale. In verità l’uso del sillogismo non è altro e l’uso di proposizioni generali nel ragionamento. Siamo in grado di ragionare senza far uso di proposizioni generali, e nei casi semplici ed ovvi lo facciamo abitualmente: intellei dotati di grande sagacia possono farlo in casi tu’altro e semplici e ovvi, puré la loro esperienza gli fornisca esempi essenzialmente simili a tue le combinazioni di circostanze e possono presentarsi. Ma senza l’aiuto delle proposizioni generali, gli altri intellei e, nei casi in cui non abbiano i medesimi vantaggi superiori dell’esperienza personale, gli stessi intellei sagaci, sono del tuo inermi quando il caso presenti complicazioni sia pur minime; e se non formulassimo proposizioni generali ben poe persone andrebbero molto più in là di quelle semplici inferenze e traggono ane i più intelligenti fra i bruti. Pur non essendo necessarie al ragionamento, le proposizioni generali sono necessarie a qualsiasi progresso considerevole nel ragionamento. È perciò naturale e indispensabile separare il processo di indagine in due parti e, prima ancora e sorga l’occasione di trarre le inferenze, oenere formule generali per determinare quali inferenze si

possano trarre. Il lavoro del trarre inferenze consiste allora nell’applicare le formule; e le regole del sillogismo sono un sistema di strumenti e ci assicura della correezza dell’applicazione. 6. Siccome il sillogismo non è il tipo universale del processo del ragionamento, per completare la serie di considerazioni relative al caraere filosofico del sillogismo è indispensabile prendere in esame quale sia il vero e proprio tipo di tale processo. esto problema si risolve nella questione: quale è la natura della premessa minore e in quale maniera contribuisce a fondare la conclusione? Infai, per quanto riguarda la maggiore, ora comprendiamo benissimo e il posto e nominalmente essa occupa nei nostri ragionamenti spea propriamente ai fai o alle osservazioni individuali di cui esprime il risultato generale; in se stessa infai la maggiore non è una vera e propria parte dell’argomentazione ma una tappa intermedia della mente, tappa interposta, mediante un artificio del linguaggio, tra le premesse vere e proprie e la conclusione, per assicurarci — peré si traa proprio di un’assicurazione nel senso più autentico del termine — della correezza del processo. Invece, siccome è una parte indispensabile dell’espressione sillogistica di un’argomentazione, la minore senza dubbio è, o corrisponde a, una parte egualmente indispensabile dell’argomentazione stessa: non ci rimane quindi e cercar di stabilire di quale parte si trai. Vale forse la pena di dare notizia, qui, della speculazione di un filosofo verso il quale la scienza della mente ha grossi debiti ma e, pur essendo un pensatore molto acuto, fu ane un pensatore molto precipitoso, cosicé la mancanza della debita circospezione lo rese tanto notevole per ciò e non riuscì a vedere quanto per ciò e vide. Alludo al door omas Brown, la cui teoria del ragionamento è piuosto singolare. Egli si rese conto e, se consideriamo la maggiore come la stessa prova mediante la quale si dimostra la conclusione e non come un’asserzione dell’esistenza di prove sufficienti a dimostrare una qualsiasi conclusione di un certo tipo — quale di fao è — a ogni sillogismo inerisce una petitio principii. Ma pur essendosene reso conto, il door Brown non solo non riuscì a scorgere l’immenso vantaggio e si oiene, dal punto di vista delle garanzie di correezza, quando si interponga questo passo fra la prova vera e propria e la conclusione, ma pensò e fosse suo dovere eliminare del tuo la maggiore dal processo del ragionamento senza sostituirle null’altro, e sostenne e il

nostro ragionamento consiste soltanto della premessa minore e della conclusione: «Socrate è un uomo, perciò Socrate è mortale». In questo modo soppresse di fao l’appello all’esperienza antecedente, come se si traasse di un passo superfluo per l’argomentazione. L’assurdità di questo suo punto di vista gli era tenuta nascosta dall’opinione, e egli adoò, secondo cui il ragionamento non è nient’altro e l’analisi delle nostre nozioni generali, o idee astrae, e e la proposizione «Socrate è mortale» si ricava dalla proposizione «Socrate è un uomo», semplicemente riconoscendo e la nozione di mortalità è già contenuta nella nozione di uomo e ci formiamo. Dopo le spiegazioni così approfondite, e abbiamo dato a proposito dell’argomento «proposizioni», non sono necessarie molte discussioni per rendere evidente l’errore radicale di questa dorina del ragionamento deduivo. Se la parola «uomo» connotasse la mortalità; se il significato di «mortale» fosse contenuto nel significato di «uomo», potremmo indubbiamente ricavare la conclusione dalla sola premessa minore, peré la minore l’avrebbe già asserita. Ma se, come accade in realtà, la parola «uomo» non connota la mortalità, come mai nella mente di ogni persona e ammee e Socrate è un uomo appare iaro e l’idea di uomo deve comprendere l’idea di mortalità? Il door Brown non poteva fare a meno di scorgere questa difficoltà e, allo scopo di evitarla, fu indoo, contro le sue stesse intenzioni, a ristabilire soo altro nome quel passo del ragionamento e corrisponde alla premessa maggiore, affermando la necessità di percepire precedentemente la relazione tra l’idea di uomo e l’idea di mortale. Se non ha già percepito antecedentemente questa relazione (dice il door Brown) i ragiona non inferirà e Socrate è mortale dal fao e Socrate è un uomo. Ma nemmeno quest’ammissione, e pure equivale alla rinuncia alla dorina secondo cui un ragionamento consiste soltanto della minore e della conclusione, è in grado di salvare il rimanente della dorina del door Brown. Il mancato assenso al ragionamento ha luogo non semplicemente peré, mancando la debita analisi, i ragiona non si rende conto e la sua idea di uomo include l’idea di mortalità; ha luogo, molto più semplicemente, peré nella sua mente quella relazione tra le due idee non è mai esistita. E in verità tale relazione non esiste mai altrimenti e come risultato dell’esperienza. Ane acconsentendo per amore di argomentazione a dibaere la questione in base a una supposizione di cui abbiamo già riconosciuto la radicale scorreezza — in base, cioè, alla supposizione e il significato di una proposizione si riferisca alle idee delle cose di cui si parla e

non alle cose stesse — devo tuavia osservare e l’idea di uomo, in quanto idea universale proprietà comune di tue le creature razionali, non può contenere nulla e non sia streamente implicato nel nome «uomo». Se qualcuno include nella sua idea privata di uomo — e ciò senza dubbio accade sempre — quale altro aributo, quale, ad esempio, la mortalità, lo include soltanto come conseguenza dell’esperienza, dopo essersi reso ben conto e tui gli uomini posseggono quell’aributo. Pertanto, qualunque cosa l’idea contenga, nella mente di qualsiasi persona, oltre a ciò e è compreso nella significazione convenzionale della parola, è in realtà stata aggiunta all’idea in quanto risultato dell’assenso a una proposizione, mentre la teoria del door Brown ci iede di supporre, al contrario, e l’assenso alla proposizione si produca ricavando questo stesso elemento dall’idea mediante un processo analitico. esta teoria si può dunque ritenere sufficientemente confutata, e la premessa minore dev’essere considerata come totalmente insufficiente a provare la conclusione senza l’aiuto della maggiore o di ciò e la maggiore rappresenta; senza l’aiuto, cioè, delle varie proposizioni singolari e esprimono la serie di osservazioni di cui la generalizzazione iamata «premessa maggiore» è il risultato. Dunque, nell’argomentazione e prova e Socrate è mortale, una parte indispensabile delle premesse sarà la seguente: «Mio padre e il padre di mio padre; A, B, C e un numero indefinito di altre persone erano mortali», e questo non è altro e un modo di esprimere in parole differenti il fao, osservato, e tue queste persone sono morte. esta è la premessa maggiore, spogliata dalla petitio principii, e ridoa a quanto realmente si conosce per testimonianza direa. L’anello in più, necessario a conneere questa proposizione con la conclusione «Socrate è mortale», è il seguente: «Socrate somiglia a mio padre, e al padre di mio padre, e agli altri individui specificati». ando diciamo e Socrate è un uomo asseriamo proprio questa proposizione. Dicendo così, asseriamo analogamente per quale aspeo Socrate somigli a tui costoro: cioè, per gli aributi connotati dalla parola «uomo». E concludiamo e, inoltre, Socrate somiglia a tui questi uomini per l’aributo della mortalità. 7. Abbiamo così oenuto quello e stavamo cercando: un tipo universale del processo di ragionamento. Ci accorgiamo e esso può venire risolto, in tui i casi, nei seguenti elementi: Certi individui hanno un dato aributo; un

individuo, o certi individui, somigliano ai primi in certi altri aributi; perciò gli somigliano ane nell’aributo dato. Al contrario del sillogismo, questo tipo di ragionamento deduivo non pretende di essere concludente in virtù della pura e semplice forma dell’espressione, né si vede come potrebbe esserlo. Che una proposizione asserisca o non asserisca lo stesso fao e è già stato asserito in un’altra proposizione può risaltare dalla forma dell’espressione, cioè, da un confronto del linguaggio; ma quando le due proposizioni asseriscono fai e sono bona fide differenti, se l’uno provi l’altro oppure non lo provi non può mai vedersi dal linguaggio, ma deve dipendere da altre considerazioni. Se, dagli aributi per i quali Socrate somiglia a quegli uomini e sono morti fino ad oggi, sia legiimo inferire e gli somiglia ane per il fao di essere mortale, è una questione di induzione e dev’essere decisa dai princìpi o canoni e d’ora in poi riconosceremo come criteri dell’esecuzione correa di questa grande operazione mentale. Intanto, è comunque certo (come abbiamo osservato prima), e se quest’inferenza si può trarre relativamente a Socrate, la si può trarre ane relativamente a tui quegli altri uomini e somigliano agli individui osservati per gli stessi aributi per cui gli somiglia Socrate; cioè (per dirla in maniera concisa) per gli aributi di tua l’umanità. Se perciò l’argomentazione è ammissibile nel caso di Socrate, siamo liberi una volta per tue di traare il possesso degli aributi dell’uomo come un segno, o come una prova soddisfacente, dell’aributo della mortalità. Lo facciamo enunciando la proposizione generale «Tui gli uomini sono mortali» ed interpretandola, come se ne presenta l’occasione, nella sua applicazione a Socrate e ad altri uomini. Con questo mezzo stabiliamo una convenientissima divisione in due passi dell’intiera operazione logica: primo, in quello e consiste nell’accertare quali aributi sono segno di mortalità; secondo, se certi individui dati posseggano questi segni. E in generale, nelle nostre speculazioni sul processo del ragionamento sarà consigliabile considerare questa doppia operazione come un’operazione e ha effeivamente luogo, e tuo il ragionamento come compiuto nella forma in cui deve necessariamente essere messo per renderci capaci di applicargli un qualsiasi criterio per controllare se sia stato eseguito correamente. Pertanto, ane se tui i processi di pensiero le cui premesse fondamentali sono particolari, sono egualmente induzioni sia e concludiamo da particolari a una formula generale, sia e concludiamo da particolari ad

altri particolari secondo quella formula, dovremo tuavia, conformemente all’usanza, considerare il nome «induzione» come appartenente in modo più peculiare al processo e consiste nello stabilire la proposizione generale, mentre iameremo col nome consueto di deduzione l’altra operazione, e consiste sostanzialmente nell’interpretare la proposizione generale. E diremo e ogni processo mediante il quale si inferisca una cosa qualsiasi riguardante un caso non osservato, consiste di un’induzione seguita da una deduzione; infai, ane se non deve necessariamente essere condoo in questa forma, il processo è sempre susceibile di assumerla, e dev’essere travasato in essa quando sentiamo il bisogno e il desiderio di essere rassicurati a proposito della sua accuratezza scientifica. 8. Tra le altre importanti adesioni, la teoria del sillogismo esposta nelle pagine precedenti ne ha oenute tre di valore particolare: quelle di Sir John Herseld, quella del door Whewelle e quella del signor Baileyf. Sir John Hersel ritiene e la dorina sia stata anticipata da Berkeley e non la considera perciò «una scoperta» nel senso streo del termineg; secondo lui, però, si traa di «uno dei passi più importanti finora compiuti nella filosofia della logica». «ando consideriamo» (per citare le altre parole dello stesso autore) «quanto inveterati siano le abitudini e i pregiudizi e questa teoria ha buato all’aria» non può indurci in errore il fao e altri pensatori, non meno degni di considerazione, ne abbiano dato una valutazione molto differente. La loro principale obiezione non potrebbe essere formulata in modo migliore, o più succinto, e prendendo a prestito una frase dell’Arcivescovo Whatelyh: «In tui i casi in cui si trae un’inferenza sulla base di un’induzione (a meno e non diamo questo nome a un puro e semplice tentativo d’indovinare a casaccio, privo di qualsiasi fondamento) dobbiamo formare un giudizio e il caso o i casi addoi sono sufficienti ad autorizzare la conclusione; e è permesso prendere questi casi come un campione e garantisce un’inferenza relativa all’intiera classe»; e l’espressione in parole di questo giudizio (è stato deo da pareci dei miei critici) è la premessa maggiore. Sono prontissimo ad ammeere e la maggiore è l’affermazione e le prove su cui riposa la conclusione sono sufficienti. Che le cose stiano così, è l’essenza stessa della mia teoria, e iunque ammea e la premessa maggiore non è altro che questo, adoa la teoria nelle sue linee essenziali.

Ma non posso concedere e questo riconoscimento e le prove sono sufficienti — il riconoscimento, cioè, della correezza dell’induzione — faccia parte dell’induzione stessa, altrimenti dovremmo dire e fa parte di tuo quello e facciamo l’essere soddisfai di averlo fao correamente. Concludiamo dai casi noti ai casi ignoti spinti dalla nostra propensione a generalizzare, e solo retrospeivamente (e dopo una considerevole quantità di pratica e di disciplina mentale) solleviamo la questione se le prove siano sufficienti, ritornando sui nostri passi ed esaminando se eravamo autorizzati a fare quello e abbiamo già fao. Il parlare di quest’operazione riflessa come di una parte dell’operazione originale, esigendo e venga espressa in parole peré la formula verbale possa rappresentare correamente il processo psicologico, mi sembra falsa psicologiai. Rivediamo i nostri processi sillogistici proprio come rivediamo i nostri processi induivi e riconosciamo e sono stati compiuti correamente; ma per esprimere quest’ao di riconoscimento i logici non aggiungono una terza premessa al sillogismo. Un copista scrupoloso verifica le sue trascrizioni collazionandole con l’originale, e se non compare nessun errore riconosce e la trascrizione è stata eseguita correamente. Ma non diciamo e l’esame della copia è una parte dell’ao del copiare. In un’induzione la conclusione si inferisce dalle prove in se stesse, e non dal riconoscimento e le prove sono sufficienti: allo stesso modo inferisco e un amico sta camminando verso di me, peré lo vedo e non peré riconosco e i miei oci sono aperti e e la vista è un mezzo di conoscenza. In tue le operazioni e riiedono accuratezza è bene assicurarci e il processo sia stato compiuto in modo accurato: ma il controllo del processo non è il processo stesso; senza contare e può darsi si sia omesso del tuo di controllare il processo e e tuavia questo sia correo. Proprio peré nei ragionamenti ordinari e non scientifici quest’operazione viene tralasciata, c’è da guadagnare in certezza meendo il ragionamento in forma di sillogismo. Trasformiamo l’operazione di controllo in una parte dello stesso processo di ragionamento proprio peré intendiamo assicurarci, per quanto ci è possibile, e l’operazione non verrà omessa. Insistiamo sulla necessità e l’inferenza da particolari a particolari passi araverso una proposizione generale. Ma questo serve a darci la sicurezza di aver fao un buon ragionamento, non è una condizione di ogni ragionamento. In certi casi, anzi, ciò non rappresenta neppure una garanzia di sicurezza. Tue le nostre inferenze più familiari le abbiamo già fae

prima di aver imparato l’uso delle proposizioni generali; e una persona sagace, ma priva di addestramento specifico, applierà abilmente ai casi contigui l’esperienza e ha acquisito, ma se si proverà a fissare i limiti del teorema generale appropriato non farà altro e ingarbugliarli in modo indecoroso. Potrà trarre conclusioni corree, ma, per parlar propriamente, non riuscirà mai a sapere se ha concluso correamente o no, peré non ha controllato il suo ragionamento. Ora, le forme del ragionamento fanno per noi esaamente questo. Ne abbiamo bisogno, non peré ci rendano capaci di ragionare, ma peré ci meano in grado di sapere se ragioniamo correamente. Per dare un’ulteriore risposta a quest’obiezione, si può aggiungere e — ane quando il controllo sia stato eseguito e si sia riconosciuto e le prove sono sufficienti — se le prove sono sufficienti a convalidare la proposizione generale, allora saranno ane sufficienti a convalidare un’inferenza da particolari a particolari, senza passare araverso le proposizioni generali. Il ricercatore, e sia stato logicamente soddisfao dal fao e le condizioni dell’induzione legiima erano realizzate nei casi A, B, C, sarebbe autorizzato a concludere direamente tanto al Duca di Wellington quanto a tui gli uomini. La conclusione generale non è mai legiima se non è legiima ane la conclusione particolare, e in nessun senso per me intellegibile si può dire e la conclusione particolare sia traa da quella generale. Dovunque ci siano le basi per trarre una qualsiasi conclusione da casi particolari, ci sono le basi per trarre una conclusione generale; però il fao e questa conclusione generale venga traa effeivamente, può forse essere utile, ma non può essere una condizione indispensabile della validità dell’inferenza in quel caso particolare. Un uomo dà via dieci centesimi in base a quello stesso potere in forza del quale dispensa la sua intiera fortuna; ma per rendere legiimo l’ao minore non è necessario e asserisca formalmente il proprio dirio a compiere il maggiore. Riporto qui in nota alcune osservazioni supplementari, in risposta a obiezioni di minor contoj. 9. Le considerazioni e precedono ci meono in grado di comprendere la vera natura di quella e autori recenti hanno iamato «logica formale», e della relazione fra quest’ultima e la logica, nel senso più ampio del termine. La logica, come la concepisco io, è l’intiera teoria dell’accertamento della verità ragionata, o inferita. Perciò la logica formale, e, partendo ciascuno

dal suo proprio punto di vista, Sir William Hamilton e l’Arcivescovo Whately hanno rappresentato come tua quanta la logica propriamente dea, è in realtà una parte molto subordinata della logica, peré non è direamente impegnata col processo del ragionamento o dell’inferenza, nel senso in cui questo processo è una parte della ricerca della verità. Ma allora e cos’è la logica formale? Il nome sembra potersi applicare con proprietà a tua quella parte della dorina e si riferisce all’equivalenza di differenti modi d’espressione, alle regole per determinare quando le asserzioni di una data forma implicano o presuppongono la verità o la falsità di altre asserzioni. esta parte della dorina logica comprende la teoria del significato delle proposizioni e della loro conversione, equipollenza ed opposizione; la teoria di quei ragionamenti falsamente iamati induzioni (di cui parleremo fra breve)l in cui l’apparente generalizzazione è una semplice asserzione abbreviata di casi noti individualmente. Infine, comprende la teoria del sillogismo, mentre la teoria dei nomi e quella (inseparabilmente connessa con quest’ultima) della definizione, pur appartenendo a maggior ragione a un genere di logica diverso e più ampio, ne costituiscono un preliminare necessario. Lo scopo a cui tende la logica formale, e e si raggiunge mediante l’osservanza dei suoi precei, non è la verità, ma la noncontraddiorietà. Si è visto e questo è l’unico scopo direo delle regole del sillogismo, la cui intenzione e il cui effeo sono semplicemente quelli di far sì e le nostre inferenze o conclusioni siano completamente compatibili con le formule generali, o direive per trarre tali inferenze. La logica della noncontraddiorietà è un’ausiliaria indispensabile della logica della verità, non solo peré ciò e è incompatibile con se stesso o con altre verità non può essere vero, ma ane peré la verità può essere perseguita con successo solo traendo dall’esperienza inferenze le quali, se sono legiime, possono essere generalizzate e devono essere esposte in forma generalizzata peré se ne possa controllare la legiimità; dopo e sono state esposte in forma generalizzata, la correezza della loro applicazione a casi particolari è una questione e riguarda in modo speciale la logica della noncontraddiorietà. esta logica, e non riiede nessuna conoscenza preliminare dei processi o delle conclusioni delle varie scienze, può essere studiata con profio in uno stadio dell’educazione molto meno avanzato di quello nel quale può essere studiata la logica della verità: e la pratica invalsa empiricamente, e consiste nello studiarla a parte in traati e non tentano di includere null’altro, può essere giustificata filosoficamente, ane

se le ragioni addoe per giustificarla sono, in generale, ben lungi dall’essere filosofie. Logic, 9a ed., p. 239. b. Superfluo dire e non sostengo assurdità come quella e, prima di affermare e tui gli uomini sono mortali, «dovremmo aver conosciuto» di fatto, e di fao aver preso in considerazione, il caso di ogni uomo singolo, passato, presente e futuro; tuavia, abbastanza stranamente, le osservazioni e precedono sono state interpretate come se l’avessi sostenuto. Dal punto di vista pratico non c’è nessuna differenza tra me e l’arcivescovo Whately, o uno qualsiasi degli altri difensori del sillogismo: io mi limito a meere in evidenza una contraddizione nella teoria logica del sillogismo, così come è concepita da quasi tui gli autori. Non dico e una persona, la quale prima e il Duca di Wellington fosse nato avesse affermato e tui gli uomini sono mortali, sapesse e il Duca di Wellington sarebbe stato mortale; dico, però, e l’asseriva e iedo una spiegazione dell’evidente fallacia logica e consiste nell’addurre, come prova della mortalità del Duca di Wellington, un’asserzione generale e la presuppone. Poié non ho trovato, presso nessuno degli autori di logica, una risoluzione sufficiente di questa difficoltà, ho tentato di fornirne una. c. Credo e il linguaggio del ragionamento deduivo si potrebbe far concordare più streamente con la natura reale del processo, se le proposizioni generali impiegate nel ragionamento, invece di essere della forma «Tui gli uomini sono mortali», o «Ogni uomo è mortale», fossero espresse soo la forma «alsiasi uomo è mortale». esto modo d’espressione, e esibisce come tipo di ogni ragionamento e parta dall’esperienza: «Gli uomini A, B, C, ecc., sono così e così, perciò qualsiasi uomo è così e così», manifesterebbe molto meglio l’idea vera: e in fondo il ragionamento induivo è sempre un’inferenza da particolari a particolari, e e tua quanta la funzione delle proposizioni generali nel ragionamento si esplica nell’aestazione della legiimità di tali inferenze. 4 d. Recensione del libro di etelet sulla probabilità, Essays, p. 367. e. Philosophy of Discovery, p. 289. f. Per un’abile enunciazione e un’abile asseverazione delle basi della dorina, mi sia concesso di riferirmi a Theory of Reasoning, cap. IV. g. Recentemente ho rileo con molta aenzione l’opera completa di Berkeley, ma non sono riuscito a rintracciarvi questa dorina. Probabilmente, Sir John Hersel5 intendeva dire e essa è implicita nell’argomentazione di Berkeley contro le idee astrae. Ma non riesco a trovare traccia del fao e Berkeley si sia reso conto di quest’implicazione, o si sia mai iesto quale fosse la portata della sua argomentazione per la dorina del sillogismo. Meno ancora posso ammeere (come ha affermato uno dei miei critici più acuti e imparziali) e la dorina sia uno «tra i maggiori segni di quella e è stata iamata “filosofia empirica”». h. Logic, libro IV, cap. I, parte I. i. Si veda l’importante capitolo sulla credenza, nel grande traato del professor Bain, The Emotions and the Will, pp. 581-84. j. In una recensione a questo traato, un collaboratore della «British arterly Review» (agosto 1846), tenta di mostrare e nel sillogismo non c’è petitio principii, negando e la proposizione «Tui gli uomini sono mortali» asserisca o presupponga e Socrate è mortale. A sostegno di questa negazione, egli argomenta e possiamo ammeere, e di fao ammeiamo, la proposizione generale e tui gli uomini sono mortali, senza aver esaminato in particolare il caso di Socrate, e addiriura senza sapere se l’individuo iamato «Socrate» sia un uomo o sia qualcos’altro. Ma, naturalmente, nessuno ha mai negato una cosa del genere. Che siamo in grado di trarre, e e di fao traiamo, a.

conclusioni e riguardano casi e ci sono specificamente ignoti, è il dato da cui devono prendere le mosse tui coloro e discutono di quest’argomento. La questione è quali termini possano designare nel modo migliore le prove, o le ragioni, in base alle quali tiriamo queste conclusioni: se sia più correo dire e il caso ignoto è provato da casi noti, o se sia meglio dire e è provato da una proposizione generale e comprende entrambi gli insiemi di casi, gli ignoti e i noti. Io sono per il primo modo di esprimersi. Sostengo e è un abuso del linguaggio il dire e la prova e Socrate è mortale è il fao e tui gli uomini sono mortali. Lo si rigiri come si vuole, questo mi sembra asserisca e una cosa è la prova di se stessa. Chiunque pronunci le parole «Tui gli uomini sono mortali» ha affermato e Socrate è mortale, ane se può darsi e non abbia mai sentito parlare di Socrate; infai, lo si sappia o no, Socrate è davvero un uomo, e pertanto è compreso nelle parole «Tui gli uomini» e in ogni asserzione di cui queste parole sono il soggeo. Se il mio recensore non si rende conto e qui soo c’è una difficoltà, non posso far altro e consigliarlo di riprendere in considerazione la faccenda finé non se ne sarà accorto: dopo di e sarà miglior giudice del successo o del fallimento di un tentativo di rimuovere la difficoltà. Che quando scriveva le sue osservazioni avesse rifleuto molto poco su questo punto, si vede dalla svista e commee a proposito del dictum de omni et nullo. Egli riconosce e questa massima, come è espressa comunemente — «Tuo ciò e è vero di una classe è vero di tuo ciò e è compreso nella classe» — è una pura e semplice proposizione identica, poié la classe non è nient’altro se non le cose comprese in essa. Ma il mio recensore crede e questo difeo possa essere correo esprimendo la massima con queste parole: «Tuo ciò e è vero della classe è vero di tuo ciò di cui si può mostrare e è membro della classe», come se si «potesse mostrare» e quale cosa è membro della classe senza e lo sia. Se «una classe» significa la somma di tue le cose comprese nella classe, le cose di cui «si può mostrare» e sono membri della classe sono parte della somma; e rispeo a queste cose il dictum è una proposizione identica tanto quanto lo è rispeo al resto. asi si immaginerebbe e, secondo l’opinione del recensore, le cose non siano membri di una classe finé non siano state iamate pubblicamente a prender posto nella classe: e, in realtà, finé non si sia saputo e Socrate è un uomo, Socrate non è un uomo e e qualsiasi asserzione e si può fare relativamente agli uomini non lo riguarda affao, né è toccata, per quanto concerne la sua verità o la sua falsità, da nulla e riguardi Socrate. La differenza fra la teoria del recensore e la mia può essere espressa nel modo seguente. Tui e due ammeiamo e dicendo «Tui gli uomini sono mortali» facciamo un’asserzione e va al di là della sfera della nostra conoscenza dei casi individuali, e e quando la premessa minore fa entrare un nuovo individuo (cioè Socrate) nel campo della nostra conoscenza impariamo di aver già fao, senza saperlo, un’asserzione e riguarda Socrate. Da questo punto di vista, infai, la nostra asserzione è stata interpretata per noi per la prima volta. Ma secondo la teoria del mio recensore l’asserzione più piccola è provata dalla più grande; al contrario, io sostengo e entrambe le asserzioni sono provate insieme, dalle stesse prove: cioè dalle ragioni empirie in base alle quali l’asserzione generale è stata faa, e dalle quali dev’essere giustificata. Il recensore dice e se la premessa maggiore comprendesse la conclusione «dovremmo essere in grado di affermare la conclusione senza l’intervento della premessa minore, ma iunque può vedere e ciò è impossibile». Un’argomentazione simile è stata avanzata dal signor De Morgan (Formal Logic, p. 259): «L’intiera obiezione assume tacitamente e la minore sia superflua; cioè, assume tacitamente e sappiamo e Socratek è un uomo non appena sappiamo e è Socrate». L’obiezione di De Morgan sarebbe ben fondata se l’asserzione e la premessa maggiore include la conclusione significasse e essa specifica individualmente tuo ciò e include. Comunque, siccome l’unica indicazione e essa dà è una descrizione per mezzo di segni, dobbiamo ancora confrontare con i segni ogni nuovo individuo: e mostrare e questo confronto è stato fao è l’ufficio della minore. Ma siccome, per l’ipotesi, il nuovo individuo ha quei segni, sia e li abbiamo accertati sia e non li abbiamo accertati, asserendo la premessa maggiore abbiamo ane asserito e l’individuo in questione è mortale. Ora, la mia posizione è e quest’asserzione non può costituire una parte

necessaria dell’argomentazione. Non può essere una condizione necessaria del ragionamento, il cominciare col fare un’asserzione e in seguito dovrà essere impiegata nel provare una parte di se stessa. Posso concepire solo una via d’uscita a questa difficoltà: cioè, e quello e realmente forma la prova è l’altra parte dell’asserzione, la parte di essa la cui verità è stata accertata in precedenza; e e la parte non provata è legata in una sola formula con la parte provata, come una pura e semplice anticipazione, e come una specie di memorandum, e serve a rammentarci la natura della conclusione e siamo pronti a provare. k. Il signor De Morgan dice «Platone», ma per evitare confusioni ho preferito mantenere il mio exemplum. Per quanto riguarda la premessa minore nella sua configurazione formale — la minore, cioè, come compare in un sillogismo e e predica di Socrate un nome di classe ben definito — sono pronto ad ammeere e è una parte del ragionamento non più necessaria di quanto non lo sìa la maggiore. ando c’è una maggiore, e fa il suo lavoro per mezzo di un nome di classe, per interpretarla c’è bisogno delle minori: ma il ragionamento può essere portato a termine ane senza l’una o le altre. Non sono condizioni del ragionamento, ma una precauzione contro il ragionamento erroneo. L’unica premessa minore necessaria al ragionamento, nell’esempio e stiamo considerando, è «Socrate è simile ad A, B, C, e agli altri individui di cui sappiamo e sono morti». E questo è il solo tipo universale di quel passo del processo di ragionamento rappresentato dalla minore. Comunque, l’esperienza dell’incertezza e inerisce a questo modo poco rigoroso d’inferenza, insegna l’espediente e consiste nel determinare in precedenza quale specie di somiglianza coi casi osservati sia necessaria per portare soo il medesimo predicato un caso non osservato; e la risposta a questa domanda è costituita dalla maggiore. Così la premessa maggiore e la premessa minore del sillogismo cominciano ad esistere insieme, e sono iamate in causa dalla medesima esigenza. ando concludiamo dall’esperienza personale, senza fare riferimento a registrazioni — a teoremi generali, scrii o tramandati dalla tradizione, o registrati mentalmente da noi stessi come conclusioni e noi stessi abbiamo trao — non usiamo, nel nostro pensiero, né una maggiore né una minore, quali il sillogismo esprime in parole. ando però rivediamo questa rozza inferenza da particolari a particolari e gliene sostituiamo una accurata, la revisione consiste nello scegliere due premesse di un sillogismo. Ma questo non altera le prove di cui disponevamo prima e non vi aggiunge nulla; ci mee soltanto in una posizione migliore per giudicare se la nostra inferenza da particolari a particolari sia ben fondata. l. Cfr. libro III, cap. II. 1. In inglese: High priori road (high road = strada maestra). Il testo contiene un giuoco di parole intraducibile in italiano, e fondato sulla fusione delle espressioni «a priori» e «high priori» (e in inglese si pronunciano in modo più o meno eguale). 2. È la citazione quasi leerale di un verso di una nursery rhyme inglese: e Grand Old Duke of York he had ten thousand men; he mared them up to the top of the hill and then mared them down again. [Il gran vecio Duca di York - aveva diecimila uomini; - li fece marciare fino alla cima di una collina — e poi li fece ridiscendere]. 3. Lord William Murray Mansfield (1705-1793), famoso giudice inglese a cui si devono parecie leggi sullo siavismo, sul commercio estero, e sui rapporti tra la Gran Bretagna e le colonie americane. 4. Lambert Adolphe Jacques etelet (1796-1874), astronomo e matematico belga, studiò astronomia all’osservatorio di Parigi e calcolo delle probabilità con P. S. Laplace. Nel 1828 fondò l’Osservatorio Reale Belga. Si occupò di statistica ed è considerato uno dei fondatori della statistica medica e criminológica. I risultati di questi suoi lavori furono pubblicati nell’opera Sur l’homme, nel 1835.

5. Sir John Frederi William Hersel (1792-1871), astronomo inglese, figlio di Sir William Hersel (1738-1822), il fondatore dell’astronomia siderea, ne continuò l’opera distinguendosi soprauo nello studio delle nebule e della cartografia celeste. Amico e collega di George Peaco e Charles Babbage, esordì come matematico e diede mano alla riforma della matematica inglese. Si distinse negli studi di imica, e si occupò di filosofia della scienza. A parte i lavori specializzati, ricordiamo l’opera On the Study of Natural Philosophy [Lo studio della filosofia naturale] (1830).

CAPITOLO IV. CONCATENAZIONI DI RAGIONAMENTI E SCIENZE DEDUTTIVE 1. Dalla nostra analisi del sillogismo è risultato e la premessa minore afferma sempre una somiglianza fra un nuovo caso e un certo numero di casi già noti in precedenza; dal canto suo, la premessa maggiore asserisce qualcosa e, avendo trovato vera di quei casi noti, ci consideriamo autorizzati a ritenere vera di ogni altro caso e somigli ai primi per certi particolari dati. Se tui i ragionamenti deduivi somigliassero, per quanto riguarda la premessa minore, agli esempi e sono stati impiegati esclusivamente nel capitolo precedente; se la somiglianza e la premessa asserisce fosse ovvia ai sensi come lo è nella proposizione «Socrate è un uomo» o potesse essere accertata immediatamente per mezzo dell’osservazione direa, le concatenazioni di ragionamenti non sarebbero affao necessarie e non esisterebbero scienze deduive o razionali. Le concatenazioni di ragionamenti esistono soltanto per estendere un’induzione fondata su casi osservati (come dovrebbero essere tue le induzioni) ad altri casi in cui non soltanto non possiamo osservare direamente quello e si deve provare, ma non possiamo osservare direamente neppure il segno e deve provarlo. 2. Supponiamo e il sillogismo sia «Tue le vace ruminano, l’animale e mi sta davanti è una vacca, perciò rumina». La minore, ammesso e sia vera, è ovviamente vera: la sola premessa, la cui verifica riieda un processo preliminare di indagine è la maggiore, e se l’induzione di cui questa premessa è l’espressione è stata eseguita in modo correo, la conclusione relativa all’animale e in questo momento si trova dinanzi a noi sarà traa istantaneamente; infai, non appena la si sarà messa a confronto con la formula, si riconoscerà e la vacca è compresa in essa. Ma supponiamo e il sillogismo sia il seguente: «Tuo l’arsenico è velenoso; la sostanza e ho qui davanti a me è arsenico, perciò è velenosa». i può darsi e la verità della minore non sia ovvia a prima vista; cioè può darsi e non sia intuitivamente evidente ma a sua volta possa essere conosciuta soltanto per inferenza. Potrebbe essere la conclusione di un’altra argomentazione e,

messa in forma di sillogismo, sonerebbe così: «Tuo ciò e, acceso, produce, su un pezzo di porcellana bianca esposta alla fiamma, una macia scura solubile in ipoclorito di calcio, è arsenico; la sostanza e mi sta di fronte si conforma a questa condizione, perciò è arsenico». Pertanto, allo scopo di stabilire la conclusione ultima: «La sostanza e mi sta di fronte è velenosa», è indispensabile un processo e, per essere espresso in forma di sillogismo, riiede due sillogismi: e qui abbiamo una concatenazione di ragionamenti. ando però, come in questo caso, aggiungiamo sillogismo a sillogismo, in realtà non facciamo altro e aggiungere induzione a induzione. Per rendere possibile questa catena d’inferenze è necessario e abbiano avuto luogo due induzioni tra loro separate: induzioni fondate, probabilmente, su insiemi differenti di casi individuali, ma i cui risultati convergono, cosicé il caso e costituisce l’oggeo della ricerca rientra nell’àmbito di entrambe. La registrazione di queste induzioni è contenuta nelle premesse maggiori dei due sillogismi. Dapprima, noi, o altri per noi, abbiamo esaminato vari oggei e nelle circostanze date davano luogo a una macia scura fornita di quella proprietà, e abbiamo trovato e possedevano le proprietà connotate dalla parola «arsenico»: erano metallie, volatili, il loro vapore aveva un odore agliaceo, e così via. In seguito, noi, o altri per noi, abbiamo esaminato vari campioni e possedevano questo caraere metallico e volatile, il cui vapore aveva quell’odore, ecc., e abbiamo invariabilmente trovato e erano velenosi. La prima osservazione giudiiamo di poterla estendere a tue le sostanze qualsiasi, e dànno luogo a quella specie particolare di macia scura; la seconda, a tue le sostanze metallie e volatili e somigliano a quelle e abbiamo esaminato; e, di conseguenza, non soltanto a quelle e abbiamo visto essere tali, ma a quelle e concludiamo essere tali sulla base dell’induzione precedente. Della sostanza e abbiamo di fronte vediamo solo e rientra soo una di queste induzioni; ma per mezzo di questa la riportiamo nell’àmbito dell’altra. Ane qui, come nel caso precedente, concludiamo da particolari a particolari: ma ora concludiamo da particolari osservati ad altri particolari e, contrariamente a quanto accadeva nel caso più semplice, non vediamo somigliare, per certi aspei importanti, ai particolari osservati, ma e inferiamo e gli somigliano, peré gli somigliano in qualcos’altro, e, indoi da un insieme del tuo diverso di esempi, abbiamo considerato come un segno della prima somiglianza.

L’esempio di concatenazione di ragionamenti dato più sopra è ancora estremamente semplice, peré la serie consiste soltanto di due sillogismi. Invece l’esempio e segue è un po’ più complicato: «Nessun governo e ceri con impegno il bene dei propri sudditi ha probabilità di essere rovesciato; un certo governo ben determinato cerca con impegno il bene dei suoi sudditi; perciò non è probabile e venga rovesciato». Supporremo e la premessa maggiore di quest’argomentazione non sia stata derivata da considerazioni a priori, ma sia una generalizzazione traa da dati storici, generalizzazione e, correa o erronea e sia, dev’essere per forza stata fondata sull’osservazione di governi sul cui desiderio di fare il bene dei sudditi non sussisteva alcun dubbio. Si è trovato, o si è pensato di aver trovato, e questi governi non furono rovesciati facilmente, e si è ritenuto e questi esempi garantissero l’estensione dello stesso predicato a ogni e qualsiasi governo e somigli ai primi nell’aributo del desiderare seriamente il bene dei suoi sudditi. Ma il governo in questione, gli somiglia davvero in quest’aributo? Il pro e il contro di questo punto possono essere dibauti con molte argomentazioni e, dal momento e non possiamo osservare direamente i sentimenti e i desideri delle persone e sono al governo, devono in ogni caso essere provati per mezzo di un’altra induzione. Pertanto, al fine di provare la minore abbiamo bisogno di un’argomentazione messa in questa forma: «Ogni governo e agisca in una certa maniera desidera il bene dei suoi sudditi; il governo in questione agisce in quella particolare maniera, perciò desidera il bene dei suoi sudditi». Ma è vero e il governo in questione agisce in quella certa maniera? Può darsi e ane questa minore debba essere provata. Ancora un’altra induzione: «Ciò e è asserito da testimoni intelligenti e disinteressati può essere creduto vero; e il deo governo agisca in questa maniera è asserito da testimoni intelligenti e disinteressati, perciò può essere creduto vero». L’argomentazione consiste dunque di tre passi. Disponiamo della prova, fornitaci dai nostri sensi, e il caso del governo preso in considerazione somiglia a un certo numero di casi precedenti relativamente alla circostanza e su di esso è stata asserita una certa cosa da testimoni intelligenti e disinteressati. Di qui inferiamo: primo, e l’asserzione è vera in questo come in quegli altri casi. In secondo luogo, poié quello e è stato asserito di questo governo è e agisce in una maniera particolare, e poié si è osservato e altri governi o altre persone agiscono nella stessa maniera, si stabilisce una somiglianza nota con quegli altri governi o quelle altre

persone; e poié si sa e questi ultimi desideravano il bene del popolo, su questa base si inferisce, con una seconda induzione, e il particolare governo di cui si parla desidera il bene del popolo. Ciò stabilisce una somiglianza nota fra questo governo e gli altri governi e si pensa avessero la probabilità di evitare una rivoluzione e di qui, con una terza induzione, si conclude e ane il governo di cui si parla ha la probabilità di evitarla. esto è ancora un ragionamento da particolari a particolari, ma ora ragioniamo al nuovo caso partendo da tre insiemi distinti di casi precedenti; percepiamo direamente solo la somiglianza tra uno di quegli insiemi di casi e il caso nuovo; ma da questa somiglianza inferiamo induivamente e il nuovo caso ha l’aributo e lo rende simile all’insieme successivo e lo fa rientrare nell’induzione corrispondente; dopo di e, ripetendo la medesima operazione, inferiamo e è simile al terzo insieme, e di qui una terza induzione ci conduce alla conclusione definitiva. 3. Bené questi esempi siano molto più complicati di quelli mediante i quali, nel capitolo precedente, abbiamo illustrato la teoria generale del ragionamento, tue le dorine e abbiamo enunciato allora sono egualmente vere per questi casi più intricati. Le proposizioni generali successive non sono passi del ragionamento, non sono anelli intermedi della catena delle inferenze e conneono i particolari osservati con quelli cui appliiamo l’osservazione. Se la nostra memoria fosse sufficientemente capace, e se il nostro potere di mantener l’ordine tra un’enorme massa di deagli fosse sufficientemente grande, il ragionamento potrebbe procedere senza bisogno di proposizioni generali: queste sono pure e semplici formule per inferire particolari da particolari. Come abbiamo già spiegato, il principio del ragionamento generale è il seguente: se, dall’osservazione di certi particolari noti, si può inferire e ciò e si è visto essere vero di questi particolari è vero di qualsiasi altro particolare, allora la stessa cosa si può inferire di tui gli altri particolari di un certo tipo. E, affiné non possiamo mai mancare di trarre questa conclusione in un nuovo caso quando la si possa trarre correamente, e possiamo evitare di trarla quando non è possibile farlo, determiniamo una volta per tue quali siano i segni distintivi per mezzo dei quali possiamo riconoscere i casi in questione. Il processo successivo consiste semplicemente nell’identificare un oggeo e nell’accertare e abbia quei segni; e possiamo identificarlo sia per mezzo degli stessi segni, sia per mezzo di altri segni di cui abbiamo accertato

(mediante un altro processo simile al primo) e sono segni di quei segni. L’inferenza vera e propria procede sempre da particolari a particolari, dai casi osservati a un caso non osservato: ma nel trarre quest’inferenza ci conformiamo a una formula e abbiamo adoato come nostra guida in tali operazioni e e è una registrazione dei criteri per mezzo dei quali pensavamo di aver accertato la possibilità di distinguere i casi in cui l’inferenza si può trarre dai casi in cui non la si può trarre. Le premesse vere e proprie sono le osservazioni individuali. Può darsi e queste osservazioni siano state dimenticate, e può darsi addiriura e non ne abbiamo mai saputo niente, peré sono state fae da altri e non da noi: però, grazie a quella formula, abbiamo davanti agli oci la prova e un tempo noi o altri abbiamo pensato e quelle osservazioni fossero sufficienti per un’induzione, e abbiamo segni e, dato un qualsiasi caso nuovo, mostrano se sia uno di quelli a cui, se l’avessimo conosciuto allora, avremmo ritenuto di poter estendere l’induzione. esti segni, li riconosciamo o immediatamente o con l’aiuto di altri segni e, per mezzo di un’induzione precedente, abbiamo concluso essere segni dei primi. Ane questi segni di segni possono essere riconosciuti soltanto per mezzo di un terzo insieme di segni. La concatenazione di ragionamenti necessaria per far rientrare un nuovo caso nell’àmbito di un’induzione fondata su particolari può essere più o meno lunga: la somiglianza di questo caso con i particolari in questione viene accertata soltanto in questo modo indireo. Così, nell’esempio precedente, l’inferenza induiva conclusiva era e un certo governo non aveva molte probabilità di essere rovesciato; quest’inferenza era stata traa secondo una for mula in cui il desiderio del bene pubblico era stato posto come un segno dell’avere poe probabilità di essere rovesciato; un segno di questo segno era l’agire in una maniera particolare, e un segno dell’agire in quella maniera era il fao e testimoni intelligenti e disinteressati asserivano e le cose stavano proprio così. Per mezzo dei sensi si è riconosciuto e il governo in discussione possedeva questo segno. Di qui si è riconosciuto e questo governo ricadeva nell’àmbito dell’ultima induzione, e per mezzo di quest’induzione lo si è fao rientrare nell’àmbito di tue le altre. La somiglianza, e abbiamo percepito, tra il nostro caso e uno degli insiemi di casi particolari osservati, ha stabilito una somiglianza nota tra questo caso e un altro insieme di casi, e di quest’insieme con un terzo.

Raramente nelle brane più complesse della conoscenza le deduzioni consistono, come negli esempi riportati fin qui, di una catena singola: a è segno di b, b di c, c di d, perciò a è segno di d. Per continuare nella stessa metafora, le deduzioni consistono di parecie catene unite all’estremità, come nella deduzione seguente: a è segno di d, b è segno di e, c di f, d e f di n, perciò a b c è contrassegno di n. Supponiamo, ad esempio la seguente combinazione di circostanze: 1°) raggi di luce colpiscono una superficie rifleente; 2°) questa superficie è parabolica; 3°) questi raggi sono paralleli tra loro e all’asse della superficie. Si deve provare e il concorso di queste tre circostanze è un segno del fao e i raggi riflessi passeranno araverso il fuoco della superficie parabolica. Ora, ciascuna di queste tre circostanze, presa singolarmente, è segno di qualcosa e ha importanza per il nostro caso. Il fao e raggi di luce colpiscano una superficie rifleente è un segno del fao e tali raggi saranno riflessi secondo un angolo eguale all’angolo di incidenza. La forma parabolica della superficie è un segno del fao e una linea condoa al fuoco da un punto qualsiasi della superficie e una linea parallela all’asse formeranno, con la superficie, angoli eguali. E, infine, il fao e i raggi siano paralleli all’asse è un segno del fao e l’angolo d’incidenza dei raggi coincide con uno di questi angoli eguali. I tre segni, presi insieme, sono perciò un segno di tue queste tre cose unite. Ma le tre cose unite sono evidentemente un segno del fao e l’angolo di riflessione deve coincidere con l’altro dei due angoli eguali, cioè con l’angolo formato da una linea condoa al fuoco; e, per l’assioma fondamentale delle linee ree, questo è a sua volta un segno del fao e i raggi riflessi passano araverso il fuoco. La maggior parte delle catene deduive della fisica sono di questo tipo più complicato, e tali deduzioni abbondano ane in matematica: ad esempio, in tue le proposizioni in cui l’ipotesi comprende numerose condizioni: «Se prendiamo un cerio, e se, all’interno di questo cerio, prendiamo un punto e non sia il centro, e se da questo punto conduciamo più d’una linea rea alla circonferenza, allora», ecc. 4. este considerazioni rimuovono una seria difficoltà dalla nostra dorina del ragionamento, dorina e altrimenti sarebbe apparsa difficilmente conciliabile col fao e esistono scienze deduive, o razionali. Dal fao e tuo il ragionamento è induzione, potrebbe sembrare e segua e le difficoltà della ricerca filosofica non possono non risiedere

esclusivamente nelle induzioni e e, quando queste induzioni sono facili e non sono susceibili di dubbi o di esitazioni, non possa esserci alcuna scienza, o, almeno, non possa esistere, nella scienza, alcuna difficoltà. Ad esempio, in base alla teoria precedente può sembrare difficile render conto dell’esistenza di una scienza matematica così estesa; di una scienza, cioè, e in coloro e contribuirono alla sua creazione riiese il più alto genio scientifico e e, una volta creata, esige da i voglia impadronirsene l’esercizio più assiduo e vigoroso dell’intelleo. Ma le considerazioni addoe più recentemente dissipano il mistero, mostrando e ane quando le induzioni sono in se stesse ovvie può essere estremamente difficile trovare se il caso particolare e costituisce l’oggeo della ricerca rientri nel loro àmbito, e e quando si devono combinare le varie induzioni in modo da riportare il nostro caso nell’àmbito di altre induzioni in cui non si può vedere immediatamente e è incluso per mezzo di quella sola induzione nel cui àmbito rientra in modo evidente, allora si può lasciare il più ampio giuoco all’ingegno scientifico.

Jeremy Bentham. Silhouee di J. Field (Londra, National Portrait Gallery)

ando si siano compiute le più ovvie tra le induzioni e si possono compiere in una scienza partendo da osservazioni diree, e si siano enunciate formule generali e determinino i limiti nei quali queste induzioni sono applicabili, tue le volte e si può vedere immediatamente e un nuovo caso rientra in una di queste formule gli si applica l’induzione e la cosa finisce lì. Ma di casi nuovi, e non rientrano in modo evidente in nessuna delle formule per mezzo delle quali potremmo rispondere alla domanda su di essi, a cui vogliamo rispondere, se ne presentano continuamente. Prendiamo un esempio dalla geometria; e poié lo prendiamo solo per scopi illustrativi il leore ci conceda, per il momento, quello e tenteremo di provare nel capitolo seguente: e cioè e i princìpi primi della geometria sono il risultato dell’induzione. Il nostro esempio sarà costituito dalla quinta proposizione del primo Libro di Euclide. ello e ceriamo di stabilire è: gli angoli alla base di un triangolo isoscele sono eguali o diseguali? La prima cosa da prendere in considerazione è di quali induzioni siamo in possesso, da cui ci sia possibile inferire l’eguaglianza o la diseguaglianza. Per inferire l’eguaglianza possediamo le formule seguenti: «Cose e, sovrapposte le une alle altre, concidono, sono eguali». «Cose e sono eguali alla stessa cosa sono eguali». «Un tuo, e la somma delle sue parti, sono eguali». «Le somme di cose eguali sono eguali». «Le differenze di cose eguali sono eguali». Per provare l’eguaglianza non ci sono altre formule primitive. Per inferire la diseguaglianza abbiamo le formule seguenti. «Un tuo e le sue parti sono diseguali». «Le somme di cose eguali e di cose diseguali sono diseguali». «Le differenze di cose eguali e di cose diseguali sono diseguali». In tuo, oo formule. È ovvio e gli angoli alla base di un triangolo isoscele non rientrano soo nessuna di queste formule. Le formule specificano certi segni di eguaglianza e di diseguaglianza, ma e gli angoli posseggano l’uno o l’altro di questi segni, non lo si può percepire intuitivamente. Il possesso risulta invece da un esame deagliato, cosicé da ultimo riusciamo a far rientrare gli angoli soo la formula: «Le differenze di cose eguali sono eguali». Da dove proviene la difficoltà di riconoscere questi angoli come differenze di cose eguali? Dal fao e ciascuno di essi è la differenza, non solo di una coppia di angoli, ma di innumerevoli coppie di angoli, dalle quali dobbiamo immaginarne e sceglierne due, e o possono essere percepiti, intuitivamente, come eguali, o posseggono alcuni dei segni di eguaglianza stabiliti nelle varie formule. Grazie a uno sforzo intelleuale e, in i fece la scoperta per primo, merita di essere considerato notevole,

si riuscì a trovare due angoli e riunivano in sé questi requisiti. In primo luogo, si poté percepire intuitivamente e le loro differenze erano costituite dagli angoli alla base; in secondo luogo, se li si sovrapponeva l’uno all’altro, possedevano uno dei segni dell’eguaglianza, vale a dire la concidenza. Tuavia questa coincidenza non era percepita intuitivamente, ma era inferita in conformità con un’altra formula. Per maggior iarezza aggiungo, qui soo, un’analisi della dimostrazione. Si ricorderà e Euclide dimostra la sua quinta proposizione per mezzo della quarta. Noi non possiamo permeerci di farlo, peré ci proponiamo di riportare le verità deduive, non già a deduzioni precedenti, ma al loro fondamento induivo originario. Dobbiamo perciò usare le premesse della quarta proposizione, in luogo della sua conclusione, e provare la quinta partendo direamente dai primi princìpi. Per farlo abbiamo bisogno di sei formule. (Dobbiamo cominciare, come in Euclide, col prolungare i lati eguali AB AC di segmenti eguali, e col congiungere le estremità BE, DC).

PRIMA FORMULA. Le somme di cose eguali sono eguali.

Per ipotesi, AD e AE sono somme di segmenti eguali. Siccome posseggono il segno dell’eguaglianza, si conclude, in virtù di questa formula, e sono eguali. SECONDA FORMULA. Segmenti di retta o angoli eguali, sovrapposti l’uno all’altro, coincidono. e AB rientrano in questa formula per ipotesi; AD e AE vi sono stati fai rientrare in virtù del passo precedente. L’angolo in A, considerato come un angolo del triangolo ABE, e il medesimo angolo, considerato come un angolo del triangolo ACD, rientrano, in modo ovvio, soo questa formula. Tue queste coppie posseggono pertanto la proprietà e, per la seconda formula, è un segno del fao e gli angoli, sovrapposti l’uno all’altro, coincideranno. Li si concepisca, quindi, come sovrapposti l’uno all’altro capovolgendo il triangolo ABE e sovrapponendolo al triangolo ACD in modo tale e il lato AB, dell’uno, giaccia sopra il lato AC, dell’altro. Allora, in virtù dell’eguaglianza degli angoli, AE giacerà su AD. Ma AB e AC, AE e AD sono eguali; perciò coincideranno completamente e, naturalmente, ane alle loro estremità D, E e B, C. AC

TERZA FORMULA. Segmenti di retta, le cui estremità coincidono, coincidono. e CD sono stati fai rientrare soo questa formula in forza dell’induzione e precede. Pertanto coincideranno. BE

QUARTA FORMULA. Angoli, i cui lati coincidono, coincidono. La terza induzione ha mostrato e BE e CD coincidono, e la seconda e coincidono AB e AC: gli angoli ABE e ACD risultano così riportati soo la quarta formula, e di conseguenza coincidono. QUINTA FORMULA. Cose che coincidono sono eguali. Gli angoli ABE e ACD sono stati fai rientrare soo questa formula dall’induzione immediatamente precedente. Poié questa concatenazione di ragionamenti è applicabile, mutatis mutandis, ane agli angoli EBC DCB, ane questi angoli vengono fai rientrare soo la quinta formula. E infine

SESTA FORMULA. Le differenze di cose eguali sono eguali. Poié l’angolo ABC è la differenza di ABE e CBE, e l’angolo ACB è la differenza di ACD e DCB, e, come è stato provato, sono eguali, ABC e ACB vengono riportati soo l’ultima formula da tuo il processo e precede. La difficoltà e abbiamo incontrato qui consiste principalmente nel raffigurarci i due angoli alla base del triangolo ABC come resti oenuti ritagliando una coppia di angoli da un’altra, mentre ciascuna coppia sarà costituita da angoli corrispondenti di triangoli e hanno due lati e l’angolo compreso eguali. Proprio grazie a questo felice espediente si fa in modo e tante induzioni differenti si riferiscano al medesimo caso particolare. E poié non si traa affao di un conceo ovvio, da un esempio così vicino alla soglia della matematica si può vedere quanto spazio possa esserci per la destrezza scientifica nelle brane superiori di questa e di altre scienze, quando si debbano combinare poe, semplici induzioni in modo da riportare soo ciascuna di esse innumerevoli casi e non vi sono inclusi in modo ovvio; e si può ane vedere quanto lunghi, quanto numerosi e quanto complicati possano essere i processi necessari a meere insieme le induzioni, ane se ciascun’induzione, presa a sé, può essere molto facile e semplice. Tue le induzioni contenute in tua la geometria sono comprese in quelle semplici induzioni le cui formule sono costituite dagli assiomi e da alcune delle cosiddee definizioni. Il resto della scienza è costituito dai processi e si impiegano per riportare nell’àmbito di queste induzioni i casi imprevisti o (usando la terminologia sillogistica) per provare le minori necessarie a completare il sillogismo, mentre le maggiori sono costituite dalle definizioni e dagli assiomi. In quelle definizioni e in quegli assiomi è depositata la totalità dei segni, combinando abilmente i quali è stato possibile scoprire e provare tuo ciò e è stato provato in geometria. Poié i segni sono così poi e le induzioni e li forniscono sono così ovvie e familiari, la connessione di pareci di tali segni fra loro — connessione e costituisce le deduzioni o concatenazioni di ragionamenti — rappresenta tua quanta la difficoltà di questa scienza, e, salvo un’eccezione trascurabile, il suo intiero corpo; per questo la geometria è una scienza deduiva. 5. Vedremo in seguitoa e ci sono ponderose ragioni scientifie per dare a ogni scienza tuo il caraere di scienza deduiva e è possibile darle; ragioni per tentare di costruire la scienza a partire dal più basso numero di

induzioni più semplici e per fare in modo, mediante combinazioni comunque complicate, e queste induzioni siano sufficienti a provare ane quelle verità e si riferiscono a casi complessi e volendo potremmo provare in base a induzioni trae da esperienze specifie. Originariamente tue le brane della filosofia naturale erano sperimentali: ciascuna generalizzazione riposava su un’induzione speciale ed era derivata dal suo proprio insieme specifico di osservazioni e di esperimenti. Da scienze puramente sperimentali e erano (come si dice comunemente) o, per parlare più correamente, da scienze i cui ragionamenti consistono di solito in non più di un passo e sono espressi da un solo sillogismo, tue queste scienze sono diventate in quale misura (e alcune di esse nella quasi totalità) scienze di puro ragionamento; in questo modo un grandissimo numero di verità, già note per induzione da altreanti insiemi differenti di esperimenti, sono poi giunte al punto di essere esibite come deduzioni o come corollari ricavati da proposizioni induive di caraere più semplice e più universale. Così, l’una dopo l’altra, sono state matematizzate la meccanica, l’idrostatica, l’oica, l’acustica, la termologia; e così l’astronomia fu faa rientrare da Newton soo le leggi della meccanica generale. A questo punto della nostra indagine non siamo ancora pronti a esaminare le ragioni per cui la sostituzione di questo tortuoso modo di procedere a un processo apparentemente molto più facile e molto più naturale viene considerata, e giustamente, come il più grande trionfo dell’indagine della natura. È però necessario osservare e sebbene grazie a questa trasformazione progressiva tue le scienze tendano a diventare sempre più deduive, esse non sono, per questo, meno induive: ogni passo della deduzione è ancora un’induzione. L’opposizione non è fra i termini «deduivo» e «induivo», ma fra i termini «deduivo» e «sperimentale». Una scienza è sperimentale nella misura in cui ogni nuovo caso, e presenti certi trai peculiari, ha bisogno di un nuovo insieme di osservazioni e di esperimenti, di un’induzione nuova. È deduiva nella misura in cui può trarre conclusioni, relative a casi di nuovo genere, mediante processi e fanno rientrare quei casi soo vecie induzioni, accertando e i casi in cui non si può osservare il possesso dei segni riiesti posseggono tuavia i segni di quei segni. Ora, dunque, possiamo renderci conto di quale sia la differenza generica fra quelle scienze e possono essere rese deduive e quelle e per ora devono rimanere sperimentali. La differenza consiste nel fao e siamo

stati capaci, o non siamo ancora capaci, di scoprire segni di segni. Se con le nostre diverse e svariate induzioni non siamo stati in grado di procedere oltre proposizioni come: «a è un segno di b», o «a e b sono segni l’uno dell’altro», «c è un segno di d» o «c e d sono segni l’uno dell’altro», senza nulla e connea a o b con c o d, abbiamo una scienza di generalizzazioni distaccate e tra loro indipendenti, quali la generalizzazione e gli acidi rendono rossi i blu vegetali o quella e gli alcali li colorano di verde; da nessuna di queste proposizioni è possibile inferire l’altra, né direamente né indireamente: e fin tanto e è composta di proposizioni di questo genere una scienza è puramente sperimentale. Allo stato auale della nostra conoscenza, la imica non si è ancora sbarazzata di questo caraere. Ma ci sono altre scienze le cui proposizioni sono della specie: «a è un segno di b, b un segno di c, c di d, d di e, ecc.». In queste scienze possiamo salire, mediante un processo deduivo, la scala e porta da a ad e; possiamo concludere e a è un segno di e, e e ogni oggeo e ha il segno a ha la proprietà e, ane se forse non siamo mai stati in grado di osservare a ed e insieme e se può darsi e ane d, e è il nostro segno direo di e, non sia percepibile in quegli oggei, ma possa soltanto esserne inferito. Oppure, variando la prima metafora, si può dire e andiamo da a ad e percorrendo una strada soerranea: i segni b, c, d, e indicano la strada, devono pur essere posseduti tui, in quale luogo, dagli oggei sui quali stiamo indagando; ma questi segni stanno soo la superficie: a è il solo segno visibile, e per mezzo suo siamo in grado di rintracciare, in successione, tuo il resto. 6. Possiamo ora comprendere in qual modo una scienza sperimentale possa trasformarsi in una scienza deduiva, grazie al puro e semplice progredire degli esperimenti. Come abbiamo deo, in una scienza sperimentale le induzioni sono distaccate, come: «a è un segno di b», «c è un segno di d», «e è un segno di f», e così via; ora, da un momento all’altro può darsi e un nuovo insieme di casi, e una conseguente nuova induzione, colmi l’intervallo tra due di queste arcate sconnesse; ad esempio, può darsi e si accerti e b è un segno di c, e questo ci mee in grado, da quel momento in poi, di provare deduivamente e a è un segno di c. Oppure, come accade talvolta, può darsi e un’induzione comprensiva faccia sorgere, alta nell’aria, un’arcata e ne collega molte in un colpo solo: allora

viene fuori e b, d, f e compagnia bella, sono segni di una certa cosa, o di certe cose, tra le quali è già stata rintracciata una connessione. Così fu quando Newton scoprì e i moti, regolari o apparentemente anomali, di tui i corpi del sistema solare (ciascuno dei quali moti era stato inferito, con un’operazione logica separata, da segni separati) erano tui segni del moto intorno a un centro comune, moto caraerizzato da una forza centripeta e varia in proporzione direa alla massa e in proporzione inversa al quadrato della distanza da quel centro. esto è il più grande esempio finora presentatosi del modo in cui una scienza, e in grande misura era ancora puramente sperimentale, si trasformi d’un colpo in scienza deduiva. Trasformazioni della medesima natura, ma su scala minore, hanno continuamente luogo nelle brane meno progredite della conoscenza fisica; tali trasformazioni, però, non rendono queste brane capaci di sbarazzarsi del caraere di scienze sperimentali. Così, a proposito delle due proposizioni citate prima, cioè «Gli acidi rendono rossi i blu vegetali» e «Gli alcali li rendono verdi», Liebig1 ha osservato e tue le sostanze coloranti blu, e sono rese rosse dagli acidi (e così pure, reciprocamente, tue le sostanze coloranti rosse, e sono rese blu dagli alcali) contengono azoto, ed è perfeamente possibile e questa circostanza possa un giorno o l’altro fornire un legame e connea fra loro le due proposizioni in questione, mostrando e l’azione antagonistica degli acidi e degli alcali nella produzione o nella distruzione del colore blu è il risultato di quale legge più generale. Bené questa connessione di generalizzazioni tra loro staccate costituisca un vantaggio non indifferente, la sua tendenza a conferire caraere deduivo a una scienza presa nella sua totalità è piuosto limitata: di solito, infai, il nuovo corso delle osservazioni e degli esperimenti, e ci mee in grado di conneere fra loro poe verità generali, ci fa conoscere un numero ancor maggiore di verità prive di connessione. Perciò la imica — ane se le sue generalizzazioni sono continuamente sooposte a estensioni e a semplificazioni di questo genere — è ancora in grandissima parte una scienza sperimentale, ed è probabile e continui ad esserlo a meno e un bel giorno non si arrivi a quale induzione comprensiva e, come quella di Newton, connea fra loro un gran numero di induzioni minori già note e cambi d’un colpo tuo quanto il metodo di questa scienza. La imica è già in possesso di una grande generalizzazione e, pur riferendosi a uno degli aspei subordinati dei fenomeni imici, possiede, nella sua sfera limitata, questo caraere comprensivo: il principio di Dalton2,

iamato teoria atomica, o dorina degli equivalenti imici. Tale principio, meendoci in grado di prevedere, ancor prima di aver tentato l’esperimento, le proporzioni secondo le quali due sostanze si combineranno, costituisce indubbiamente tanto una fonte di nuove verità imie, e si possono oenere per deduzione, quanto un principio e connee tue le verità dello stesso genere precedentemente oenute per esperimento. 7. Le scoperte e trasformano il metodo di una scienza da sperimentale in deduivo, consistono per lo più nello stabilire, per deduzione o per esperimento direo, e le varietà di un fenomeno particolare accompagnano uniformemente le varietà di quale altro fenomeno meglio conosciuto. Così la scienza dei suoni, e in precedenza era situata al grado più basso delle scienze meramente sperimentali, diventò una scienza deduiva quando si provò sperimentalmente e ogni varietà di suono è una conseguenza, e perciò un segno, di una varietà distinta e definibile di moti oscillatori e hanno luogo tra le particelle del mezzo di trasmissione. Accertato questo, ne seguì e ogni relazione di successione o di coesistenza sussistente tra i fenomeni della classe più nota, sussiste ane tra i fenomeni dell’altra classe e corrispondono a questi. Ogni suono, essendo un segno di un particolare moto oscillatorio, diventò un segno di tuo ciò e, per le leggi della dinamica, si sapeva potersi inferire da quel movimento, e tuo ciò e, in virtù di quelle stesse leggi, è il segno di un qualsiasi movimento oscillatorio e abbia luogo tra le particelle di un mezzo elastico, diventò il segno del suono corrispondente. E così molte verità riguardanti il suono, di cui prima neppure si sospeava l’esistenza, si poterono dedurre dalle leggi note della propagazione del suono in un mezzo elastico, mentre fai riguardanti il suono, già noti empiricamente, diventarono un’indicazione del possesso, da parte dei corpi vibranti, di corrispondenti proprietà e prima non erano state scoperte. Ma il grande catalizzatore della trasformazione delle scienze sperimentali in scienze deduive è la scienza del numero. Fra tui i fenomeni noti, le proprietà dei numeri sono le sole ad essere proprietà di tue le cose in generale, nel senso più rigoroso del termine. Tue le cose non sono colorate, o ponderabili, o addiriura estese, ma tue le cose sono numerabili. E se consideriamo questa scienza in tua la sua estensione, dall’aritmetica elementare fino al calcolo delle variazioni, le verità già accertate sembrano tu’altro e infinite, e ammeono un’estensione indefinita.

Naturalmente queste verità, pur potendo essere affermate di tue le cose in generale, valgono per esse solo relativamente alla loro quantità. Ma se mai si arrivasse a scoprire e le variazioni qualitative di una qualsiasi classe di fenomeni corrispondono regolarmente a variazioni quantitative degli stessi o di altri fenomeni, allora ogni formula della matematica e si possa applicare a quantità e variano in quella particolare maniera diventerebbe il segno di una verità generale corrispondente, e riguarda le variazioni qualitative e accompagnano tali quantità: e poié la scienza della quantità è completamente deduiva — per quanto una scienza può esserlo — la teoria di quella particolare specie di qualità diventa, entro questi limiti, egualmente deduiva. A questo proposito l’esempio più clamoroso e la storia ci fornisce (pur non traandosi di un esempio di trasformazione di una scienza sperimentale in scienza deduiva, ma di un esempio di ampliamento senza eguali del processo deduivo, in una scienza e era già deduiva) è la rivoluzione della geometria e fu iniziata da Descartes e venne condoa a termine da Clairaut3. esti grandi matematici misero in luce l’importanza del fao e ad ogni varietà di posizione dei punti, di direzione delle linee, o di forma delle curve o delle superfici (tue cose, queste, e sono qualità), corrisponde una peculiare relazione quantitativa fra due o tre coordinate reilinee. esta corrispondenza è così importante e, se si conoscesse la legge secondo la quale tali coordinate variano relativamente l’una all’altra, si potrebbero inferire tue le altre proprietà geometrie della linea o della superficie in questione, sia relativamente alla quantità, sia relativamente alla qualità. Ne segue e ogni questione geometrica può essere risolta se può essere risolta la questione algebrica corrispondente: in questo modo la geometria si arricì (di fao o potenzialmente) di nuove verità, corrispondenti a tue quelle proprietà del numero e il progresso del calcolo avesse portato o potesse, in futuro, portare alla luce. Nella stessa maniera generale sono state rese algebrie la meccanica, l’astronomia e, in misura minore, tue le brane di quella e si iama comunemente filosofia naturale. Si è trovato e le varietà di fenomeni fisici di cui queste scienze si occupano corrispondono a varietà determinabili della quantità di questa o di quest’altra circostanza: o, almeno, a varietà di forma o di posizione di cui i geometri avevano già scoperto, o potevano scoprire, le equazioni quantitative corrispondenti.

In queste varie trasformazioni, le proposizioni della scienza del numero non fanno altro e adempiere alla funzione propria di tue le proposizioni e formano una concatenazione di ragionamenti, cioè a quella funzione e consiste nel meerci in grado di pervenire, usando un metodo indireo e procede per segni di segni, a quelle proprietà degli oggei e non possiamo accertare direamente (oppure non così convenientemente) mediante l’esperimento. Passando araverso le verità dei numeri viaggiamo da un fao dato visibile o tangibile, per arrivare ai fai cercati. Il fao dato è un segno del fao e tra le quantità di alcuni degli elementi interessati sussiste una certa relazione, mentre il fao cercato presuppone una certa relazione fra le quantità di alcuni altri elementi. Ora, se queste ultime quantità dipendono in quale maniera nota dalle prime, o viceversa, possiamo arguire partendo dalla relazione numerica e sussiste tra le quantità di un insieme, per giungere alla determinazione della relazione e sussiste tra gli elementi dell’altro insieme: i teoremi del calcolo forniscono gli anelli di congiunzione intermedi. E così uno dei due fai fisici diventa un segno dell’altro, per il fao e è un segno di un segno di un segno di esso. a.

Cfr. Libro III, cap. IV, par. 3, e altrove.

1. Justus von Liebig (1803-1873), grande imico e bioimico tedesco. Laureatosi nel 1822 a Erlangen, per sfuggire alla crisi generale in cui versava la imica sperimentale in Germania, si recò a Parigi dove studiò dapprima nel laboratorio privato di Gaultier de Claubry, e poté assistere alle lezioni di Gay Lussac, di Alexis Petit, di Pierre Laplace e di Cuvier. Nel 1824 tornò in Germania dove fu nominato professore straordinario all’Università di Giessen. i impiantò un laboratorio, e presto divenne famoso in tuo il mondo, e da cui uscirono alcuni tra i più famosi imici dell’epoca. Nel 1852 divenne professore di imica all’Università di Monaco, caedra e tenne fino alla morte. I suoi interessi vanno dalla imica inorganica, alla imica pura e applicata e alla bioimica: sintetizzò il cloroformio e stabilì l’esistenza dei radicali organici; studiò i processi imico-fisiologici della vita, e contro le opinioni dei medici del tempo sostenne e la temperatura del corpo è il risultato dei processi di ossidazione e di combustione e avvengono nell’organismo. Si occupò pure di fisiologia vegetale, pubblicando un traato sulle applicazioni della imica in agricoltura e in fisiologia. La sua aività leeraria fu vastissima, comprendendo, oltre a numerosi traati, più di 300 memorie ed articoli. Tra questi ultimi va ricordato un articolo di critica a Bacone: Über Bacon von Verulam, uscito nel 1863. 2. John Dalton (1766-1844), imico e fisico inglese, uno dei padri della moderna teoria atomica e abbozzò per la prima volta in un lavoro su l’assorbimento dei gas (1803), come ipotesi puramente fisica formulata in relazione al suo studio delle proprietà fisie dell’atmosfera. In seguito estese la teoria e formulò la legge delle proporzioni multiple, e va soo il suo nome. Tra le sue opere ricordiamo il New System of Chemical Philosophy [Nuovo sistema di filosofia chimica] (1808), in cui la sua scoperta venne sviluppata. 3. Alexis Claude Clairaut, matematico francese (1713-1765), autore di pareci lavori di geometria analitica, e di un traato su La curvatura della Terra (1743) in cui pubblicò il teorema, e porta il suo nome, e mee in relazione la gravità con i punti sulla superficie di un ellisse di rotazione.

CAPITOLO V. DIMOSTRAZIONI E VERITÀ NECESSARIE 1. Se, come abbiamo stabilito nei due capitoli precedenti, il fondamento di tue le scienze, perfino di quelle deduive o dimostrative, è l’induzione; se ogni passo dei ragionamenti deduivi — perfino di quelli della geometria — è un ao d’induzione; e se una concatenazione di ragionamenti non consiste in nient’altro e nel riportare molte induzioni a vertere sul medesimo oggeo di ricerca e nel costringere dentro un’induzione un certo caso, per mezzo di un’altra induzione, dove risiede allora la certezza tua particolare e si è sempre aribuita alle scienze e sono interamente o quasi interamente deduive? Peré si iamano «scienze esae»? Peré «certezza matematica» e «forza probante della dimostrazione» sono le frasi comunemente usate per esprimere il più alto grado di sicurezza e la ragione possa raggiungere? Peré quasi tui i filosofi hanno considerato la matematica, e (alcuni) perfino quelle brane della filosofia naturale e per mezzo della matematica sono state convertite in scienze deduive, come indipendenti dalle prove dell’esperienza e dell’osservazione, e le hanno caraerizzate come sistemi di verità necessarie? Secondo me si deve rispondere e questo caraere di necessità e (sia pure con quale riserva, e dovremo fare d’ora in avanti) addiriura la certezza tua particolare e si aribuiscono alle verità della matematica, sono un’illusione: per sostenere la quale è necessario supporre e queste verità si riferiscano a oggei puramente immaginari, e ne esprimano le proprietà. È generalmente riconosciuto e le conclusioni della geometria vengono dedoe, almeno in parte, dalle cosiddee definizioni, e si assume e, fin dove arrivano, tali definizioni siano rappresentazioni corree degli oggei dei quali si occupa la geometria. Ora, abbiamo fao vedere e una proposizione non può mai seguire da una definizione come tale, a meno e non si trai di una definizione e riguarda il significato di una parola; e e quello e sembra seguire da una definizione segue, in realtà, dall’assunzione implicita d’esistenza: dell’esistenza, cioè, di una cosa reale e si conforma alla definizione. Nel caso delle definizioni della geometria quest’assunzione non è rigorosamente vera: non esiste nessuna cosa reale e si conformi esaamente alle definizioni. Non esistono punti privi di grandezza; linee

prive di larghezza o perfeamente ree; non esistono ceri i cui raggi siano tui esaamente eguali, non esistono quadrati e abbiano tui gli angoli perfeamente rei. Si dirà, forse, e l’assunzione non si estende all’esistenza effeiva di tue queste cose, ma soltanto alla loro esistenza possibile. Rispondo e, stando a tui i criteri della possibilità di cui disponiamo, queste cose non sono neppure possibili. Per quanto possiamo giudicarne, la loro esistenza sembrerebbe contraddioria con la costituzione, se non dell’universo, per lo meno del nostro pianeta. Per sbarazzarci da questa difficoltà, e nel medesimo tempo per salvare il credito del cosiddeo sistema delle verità necessarie, si è soliti dire e i punti, le linee, i ceri e i quadrati e costituiscono l’oggeo della geometria esistono soltanto nelle nostre concezioni, e sono parte della nostra mente; e la mente, lavorando sui materiali da essa stessa forniti, costruisce una scienza a priori, le cui prove sono puramente mentali e non hanno nulla affao da spartire con la nostra esperienza esterna. Per quanto alte possano essere le autorità e l’hanno sancita, questa dorina mi sembra psicologicamente scorrea. Secondo me i punti, le linee, i ceri e i quadrati e abbiamo in mente non sono altro e copie dei punti, delle linee, dei ceri e dei quadrati e abbiamo conosciuto nella nostra esperienza. A mio parere l’idea e abbiamo di un punto è semplicemente l’idea e abbiamo del minimum visibile, della più piccola porzione di superficie e possiamo vedere. Una linea come la definiscono i geometri è assolutamente inconcepibile. Possiamo ragionare intorno a una linea come se non avesse larghezza, peré abbiamo un potere, e sta a fondamento di tuo il controllo e possiamo esercitare sulle operazioni della nostra mente; il potere, cioè, quando ai nostri sensi è presente una percezione o alla nostra mente una concezione, di considerare soltanto una parte della percezione o della concezione, e non il tuo. Ma non possiamo concepire una linea senza larghezza; non possiamo formarci nessun’immagine mentale di una tale linea: tue le linee e abbiamo in mente sono linee e posseggono larghezza. Se qualcuno ne dubita, non possiamo far altro e rinviarlo alla sua esperienza personale. Dubito molto e iunque si sogni di poter concepire ciò e si iama linea matematica pensi di poterlo fare peré ne ha trao la prova dalla propria coscienza. Piuosto sospeo e ciò accada peré costui suppone e, se una simile concezione non fosse possibile, la

matematica come scienza non potrebbe esistere: supposizione, questa, la cui completa infondatezza potrà essere dimostrata senza alcuna difficoltà. Allora, dal momento e né in natura né nella mente umana esistono oggei e corrispondano esaamente alle definizioni della geometria, mentre, d’altra parte, non si può supporre e questa scienza si occupi di non-entità, non rimane altro da fare e considerare la geometria come la scienza e si occupa di quelle linee, di quegli angoli e di quelle figure e esistono nella realtà: allora, le cosiddee definizioni dovranno essere considerate come alcune tra le nostre prime e più ovvie generalizzazioni riguardanti tali oggei naturali. La correezza di quelle generalizzazioni, in quanto generalizzazioni, è senza macia: l’eguaglianza di tui i raggi di un cerio è vera di tui i ceri, nella misura in cui è vera di un qualsiasi cerio. Ma non è esaamente vera di qualsiasi cerio: è vera soltanto approssimativamente, e l’approssimazione è così strea e se si fingerà e sia esaamente vera, in pratica non si incorrerà in nessun errore significante. ando abbiamo occasione di estendere queste induzioni, o le loro conseguenze, a casi in cui l’errore sarebbe apprezzabile — a linee di larghezza o spessore percepibili, a parallele e deviano sensibilmente dall’equidistanza, e via discorrendo — correggiamo le nostre conclusioni combinandole con un nuovo insieme di proposizioni relative all’aberrazione; così come introduciamo ane proposizioni relative alle proprietà fisie o imie della materia, se si dà il caso e queste proprietà introducano quale modificazione nel risultato — cosa e del resto può facilmente accadere, come nel caso, per esempio, della dilatazione dovuta al calore. Tuavia, fin quando non esiste la necessità pratica di prendere in considerazione altre proprietà dell’oggeo all’infuori di quelle geometrie, o una qualsiasi irregolarità naturale di queste ultime, conviene trascurare la considerazione delle altre proprietà e delle irregolarità, e ra gionare come se non esistessero: di conseguenza nelle definizioni annunciamo formalmente e intendiamo procedere su questo piano. Ma è un errore supporre, peré ci risolviamo a confinare la nostra aenzione a un certo numero di proprietà di un oggeo, e per questa ragione concepiamo, o abbiamo un’idea dell’oggeo come spogliato delle altre sue proprietà. Pensiamo sempre proprio quegli oggei e abbiamo visto e toccato, e li pensiamo forniti di tue le proprietà e gli appartengono naturalmente; ma per ragioni di convenienza scientifica facciamo finta e siano spogliati di tue le proprietà, ecceuate quelle e hanno importanza per il nostro scopo e

relativamente alle quali abbiamo stabilito di prendere in considerazione gli oggei. L’accuratezza tua particolare, e dovrebbe essere caraeristica dei primi princìpi della geometria, si rivela così fiizia. Le asserzioni sulle quali sono fondati i ragionamenti di questa scienza non corrispondono ai dati di fao più esaamente di quanto non vi corrispondano quelle delle altre scienze; però supponiamo e vi corrispondano, peré ci preme rintracciare le conseguenze e seguono dai presupposti. Io penso e l’opinione di Dugald Stewart circa i fondamenti della geometria sia sostanzialmente correa: la geometria è costruita su ipotesi; solo a questo essa deve la certezza tua particolare e si suppone la distingua; in qualsiasi scienza, ragionando da un insieme di ipotesi, possiamo oenere un corpo di conclusioni tanto certe quanto quelle della geometria: vale a dire, in streo accordo con le ipotesi e tali da costringerci irresistibilmente all’assenso, a a condizione e quelle ipotesi siano vere . Perciò, quando si afferma e le conclusioni della geometria sono verità necessarie, la loro necessità consiste, in realtà, soltanto in questo: e tali conclusioni seguono correamente dai presupposti da cui sono state dedoe. esti presupposti sono così lontani dall’essere necessari, e non sono neppure veri: anzi, più o meno, si allontanano di proposito dalla verità. L’unico senso in cui possiamo ascrivere la necessità alle conclusioni di una qualsiasi ricerca scientifica è quello secondo cui tali conclusioni conseguono legiimamente da quale assunzione e, in forza delle condizioni della ricerca, non dev’essere messa in questione. In questa relazione, naturalmente, devono stare le verità derivate di ogni scienza deduiva con le induzioni, o assunzioni, su cui è fondata la scienza e e, siano vere o no, siano certe o dubbie in se stesse, si suppone sempre e siano certe per gli scopi di quella scienza particolare. E proprio per questo gli antii dicevano e le conclusioni di tue le scienze deduive sono proposizioni necessarie. Abbiamo già osservato e l’essere predicato necessariamente è una caraeristica del predicabile proprium, e e un proprium è una qualsiasi proprietà di una cosa e possa essere dedoa dalla sua essenza, cioè dalle proprietà incluse nella sua definizione. 2. L’importante dorina di Dugald Stewart, e mi sono studiato di rafforzare, è stata contestata dal do. Whewell nella dissertazione riportata in appendice al suo eccellente Mechanical Euclid, e nella sua elaborata opera

Philosophy of the Inductive Sciences:

in quest’ultimo libro Whewell replica ane a un articolo comparso sulla «Edinburgh Review», e aribuito a un autore di grande eminenza scientifica, in cui l’opinione di Stewart veniva difesa contro le precedenti critie negative dello stesso do. Whewell. La supposta confutazione di Stewart consiste nel provare contro di lui (cosa e è ane stata faa nel presente lavoro) e le premesse della geometria non sono definizioni, ma assunzioni dell’esistenza reale di cose e corrispondono a queste definizioni. La cosa, però, è poco efficace dal punto di vista dello scopo e il do. Whewell si propone; infai, proprio di questi presupposti si asserisce e sono ipotesi: e proprio di questi presupposti, se nega e la geometria sia fondata su ipotesi, il do. Whewell deve mostrare il caraere di verità assolute. Invece, il do. Whewell si limita semplicemente a mostrare e in nessun caso si traa di ipotesi arbitrarie; e non dovremmo essere liberi di sostituir loro altre ipotesi; e non solo «una definizione, per essere ammissibile, deve necessariamente riferirsi a, e concordare con, quale concezione e possiamo distintamente formare nei nostri pensieri», ma e, ad esempio, le linee ree e definiamo devono essere «quelle ree e contengono gli angoli, quelle e limitano i triangoli, quelle di cui si può predicare il parallelismo, e le altre simili»b. E questo è vero: senoné nessuno ha mai deo il contrario. Dicendo e le premesse della geometria sono ipotesi non ci si impegna a sostenere e sono ipotesi e non hanno nessuna relazione, di nessun genere, coi fai. Siccome un’ipotesi formulata per gli scopi della ricerca scientifica deve far riferimento a qualcosa e abbia esistenza reale (peré non può esistere una scienza e trai non-entità), segue e qualsiasi ipotesi e facciamo a proposito di un oggeo allo scopo di facilitarcene lo studio, non deve contenere nulla e sia evidentemente falso e ripugni alla natura reale dell’oggeo: non dobbiamo assegnare alla cosa nessuna proprietà e essa non possegga; la nostra libertà arriva soltanto fino alla leggera esagerazione di alcune delle proprietà e la cosa possiede (esagerazione e consiste nell’assumere e la cosa sia in tuo e per tuo ciò e, invece, è solo molto approssimativamente) e nella soppressione di altre, soo l’obbligo indispensabile di restaurarle ogni volta e, e nella misura in cui, la loro presenza o la loro assenza facciano quale differenza significativa per la verità delle nostre conclusioni. Di questa natura, dunque, sono i princìpi primi contenuti nelle definizioni della geometria. Che le ipotesi debbano avere questo caraere particolare non è comunque necessario se non nella

misura in cui nessun’altra ipotesi potrebbe meerci in grado di dedurre conclusioni e, con le dovute correzioni, siano vere di oggei reali: e difai, quando il nostro scopo è soltanto quello di illustrare verità e non quello di ricercarle, non siamo sooposti a nessuna restrizione di questo genere. Possiamo benissimo supporre un animale immaginario ed elaborare la sua storia naturale deducendola dalle leggi note della fisiologia; oppure possiamo immaginare una confederazione immaginaria e, dagli elementi e la compongono, possiamo dedurre quale sarà il suo destino. E può ane darsi e le conclusioni, e in questo modo potremmo trarre da ipotesi puramente arbitrarie, formino un esercizio intelleuale estremamente utile. Però, siccome potrebbero soltanto insegnarci quali sarebbero le proprietà di oggei e in realtà non esistono, queste conclusioni non aggiungerebbero nulla alla nostra conoscenza della natura. Al contrario, se l’ipotesi non fa altro e spogliare un oggeo reale di quale porzione delle sue proprietà senza peraltro rivestirlo di proprietà false, le conclusioni esprimeranno sempre la verità di fao, pur potendo, come sappiamo, essere soggee a correzione. 3. Ma pur non avendo scosso la dorina di Stewart sul caraere ipotetico di quella parte dei primi princìpi della geometria e sono contenuti nelle cosiddee definizioni, il door Whewell ha, secondo me, un grande vantaggio su Stewart a proposito di un altro punto importante della teoria del ragionamento geometrico: la necessità di ammeere, tra i primi princìpi, tanto gli assiomi quanto le definizioni. Non c’è dubbio e alcuni degli assiomi di Euclide potrebbero essere presentati soo forma di definizioni o potrebbero essere dedoi, mediante il ragionamento, da proposizioni simili a quelle e si iamano definizioni. così, se, invece dell’assioma «Grandezze e si possono far coincidere sono eguali», introducessimo la definizione «Grandezze eguali sono quelle e si possono applicare l’una all’altra in modo da farle coincidere», potremmo provare i tre assiomi successivi («Grandezze eguali alla medesima grandezza sono eguali fra di loro», «Aggiungendo cose eguali a cose eguali, le somme e si oengono sono eguali», «Se si soraggono cose eguali da cose eguali, i resti e si oengono sono eguali») per mezzo di una sovrapposizione immaginaria, simile a quella con cui si dimostra la quarta proposizione del primo Libro di Euclide. Ma ane se questi, e pareci altri assiomi, possono essere cassati dalla lista dei primi princìpi — peré pur non avendo bisogno di una dimostrazione

possono essere dimostrati — nell’elenco degli assiomi si troveranno due o tre verità fondamentali e non possono essere dimostrate. Tra queste verità si deve annoverare la proposizione e due linee ree non possono raciudere uno spazio (o la sua equivalente «Linee ree e hanno due punti coincidenti coincidono completamente») e alcune proprietà delle parallele, diverse da quelle e costituiscono la definizione di ree parallele. Tra queste proprietà, una delle più adae allo scopo è quella scelta dal professor Playfair: «Due ree e si intersecano non possono essere entrambe parallele a una terza rea»c. Gli assiomi — tanto quelli e sono indimostrabili quanto quelli e ammeono una dimostrazione — differiscono da quell’altra classe di princìpi fondamentali implicati nelle definizioni per il fao e sono veri senza e ad essi siano commiste ipotesi. Che cose eguali alla stessa cosa siano eguali tra di loro è vero tanto delle linee e delle figure e si trovano in natura, quanto delle linee e delle figure immaginarie, assunte nelle definizioni. Da questo punto di vista, però, la matematica fa il paio con la maggior parte delle altre scienze. In quasi tue le scienze ci sono alcune proposizioni generali e sono esaamente vere, mentre la maggior parte delle altre proposizioni sono approssimazioni più o meno vicine alla verità. Così, in meccanica, la prima legge del movimento (una volta e gli sia stato impresso un movimento, un corpo persevera in esso, finé non venga fermato o rallentato da quale forza contraria) è vera senza riserve e senza errori. Il periodo di rotazione della Terra in ventiquar’ore e hanno la stessa lunghezza di quelle con cui misuriamo il nostro tempo, è continuato fin da quando si sono fae le prime misurazioni accurate, e in tuo questo periodo non è aumentato né diminuito di un solo secondo. Si traa di induzioni e possiamo acceare come accuratamente vere senza bisogno di introdurre nessuna finzione; ma accanto a queste ce ne sono altre, quali ad esempio le proposizioni riguardanti la configurazione della Terra, e non sono altro e approssimazioni alla verità. Se vogliamo usarle per far progredire ulteriormente la nostra conoscenza, dobbiamo far finta e siano esaamente vere, ane se, in realtà, gli manca qualcosa per esserlo. 4. Rimane da indagare quale sia il fondamento della nostra credenza negli assiomi, quali siano le prove sulle quali riposano. Rispondo e sono verità sperimentali: generalizzazioni dall’osservazione. La proposizione: «Due linee ree non possono raciudere uno spazio», o, in altre parole: «Due linee

ree, e si siano incontrate una volta, non si incontrano più, ma continuano a divergere» è un’induzione compiuta sulla base delle prove forniteci dai nostri sensi. est’opinione si contrappone a un pregiudizio scientifico da lungo tempo in vigore e dotato di grande forza, ed è probabile e in tuo quanto questo libro non si trovi enunciata una sola proposizione contro la quale ci si debba aspeare un’accoglienza meno favorevole. Però non si traa di un’opinione nuova; ed ane se lo fosse avrebbe il dirio di essere giudicata, non sulla base della sua novità, ma sulla base della forza delle argomentazioni e si possono addurre a suo sostegno. Considero molto fortunato il fao e un campione così eminente dell’opinione contraria — qual è il do. Whewell — abbia trovato l’occasione per fornire una traazione estremamente elaborata di tua quanta la teoria degli assiomi, nel tentativo di costruire la filosofia delle scienze matematie e fisie sulla base della dorina contro la quale ora io polemizzo. Chiunque desideri veramente e una discussione vada a fondo di un argomento, dovrebbe essere lieto di vedere così degnamente rappresentato il partito opposto della disputa. Se si può mostrare e quello e il do. Whewell ha deo in difesa di un’opinione (e egli stesso ha posto a fon damento di un’opera sistematica) non è sufficientemente concludente, si sarà fao abbastanza e non ci sarà bisogno di andare ancora alla ricerca di argomentazioni più forti e di avversari più potenti. Non è necessario mostrare e le verità, e abbiamo iamato assiomi, sono state suggerite originariamente dall’osservazione, e non è necessario mostrare e se non avessimo mai visto una linea rea non avremmo mai saputo e due ree non possono raciudere uno spazio: questo è quanto ammeono il do. Whewell e tui coloro e, in tempi più recenti, hanno adoato il suo punto di vista sull’argomento. Essi però sostengono e non è l’esperienza a provare l’assioma, ma e la verità dell’assioma è percepita a priori, dalla mente stessa, in virtù della sua costituzione, fin dal primo istante in cui apprende la proposizione e senza e le sia necessario verificarla con tentativi ripetuti, come è indispensabile fare nel caso di verità e siano state davvero accertate mediante l’osservazione. Tuavia non possono fare a meno di ammeere e la verità dell’assioma «Due linee ree non possono raciudere uno spazio», pur essendo evidente indipendentemente dall’esperienza è ane evidente in base all’esperienza. Riieda o no una conferma, quest’assioma riceve conferma quasi in ogni

istante della nostra vita, dal momento e non possiamo guardare due linee ree qualsiasi e si intersecano senza vedere e, a partire dal punto in cui si intersecano, continuano a divergere sempre di più. Le prove sperimentali si accumulano in tale infinita profusione, e senza e si dia un solo caso in cui possiamo ane soltanto sospeare l’esistenza di un’eccezione alla regola, e per credere a quest’assioma, sia pure come a una verità sperimentale, dovremmo presto avere una ragione più forte di quelle e abbiamo per credere a quasi ogni verità generale e impariamo innegabilmente in base alle prove forniteci dai sensi. Indipendentemente dalle prove a priori, è certo e vi crederemmo con un’intensità di convinzione di gran lunga maggiore di quella con cui crediamo a una qualsiasi verità ordinaria della fisica: ciò accade in un’età della nostra vita e precede di molto quella cui facciamo risalire quasi ogni parte della nostra conoscenza acquisita, e addiriura troppo presto peré possiamo ammeere di conservare un qualsiasi ricordo della storia delle nostre operazioni intelleuali di quel periodo. Dov’e allora la necessità di assumere e il nostro riconoscimento di queste verità abbia un’origine differente da quella del resto della nostra conoscenza, dal momento e supponendo e la sua origine sia la medesima possiamo rendere perfeamente conto della sua esistenza? E dov’è questa necessità, quando le cause e producono la credenza in tui gli altri casi sono presenti ane in questo, con una forza e è tanto superiore in grado a quella e è presente in altri casi, quanto lo è l’intensita della credenza stessa? Il fardello della prova sta sulle spalle degli avvocati dell’opinione contraria: ad essi spea indicare quale fao, e sia incompatibile con il presupposto e questa parte della nostra conoscenza della natura è derivata dalle stesse fonti da cui è derivata ogni altra sua parted. Per esempio, potrebbero indicarci qualcuno di questi fai se riuscissero a provare, cronologia alla mano, e (almeno da un punto di vista pratico) la nostra convinzione risale a un periodo della nostra infanzia così remoto da precedere quelle impressioni dei sensi sulle quali, stando alla teoria rivale, la convinzione stessa sarebbe fondata. esto però non si può provare: questo punto è infai situato troppo indietro nel tempo peré la memoria possa raggiungerlo, ed è troppo oscuro peré possa essere osservato dall’esterno. I sostenitori della teoria aprioristica sono obbligati a far ricorso ad altre argomentazioni. este argomentazioni possono essere ridoe a due, e io cererò di enunciarle nel modo più iaro e stringente e mi sarà possibile.

5. Si dice, in primo luogo, e se il nostro assenso alla proposizione e due ree non possono raciudere una porzione di spazio fosse derivato dai sensi, potremmo convincerci della verità di questa proposizione solo meendola effeivamente alla prova, cioè guardando o toccando le ree, mentre in realtà per scorgerne la verità è sufficiente pensarle. Che una pietra geata nell’acqua affondi, può essere percepito dai nostri sensi, ma il semplice pensare a una pietra geata nell’acqua non avrebbe mai potuto condurci a tale conclusione; invece le cose non stanno così con gli assiomi e riguardano le linee ree: se fosse possibile farmi concepire e cos’è una rea senza e io ne avessi mai vista una, riconoscerei subito e due ree non possono raciudere una porzione di spazio. L’intuizione è una «visione immaginaria»e, ma l’esperienza dev’essere una visione reale: se vediamo e una proprietà delle ree è vera limitandoci a immaginare di star guardandole, il fondamento della nostra credenza non può essere costituito dai sensi o dall’esperienza, ma dev’essere un e di mentale. A quest’argomentazione si può aggiungere nel caso di questo particolare assioma (l’asserzione infai non sarebbe vera di tui gli assiomi) e la prova oenuta sulla base dell’esame oculare effeivo non è solo superflua, ma è ane impossibile ad oenersi. Che cosa dice l’assioma? Che due ree non possono raciudere una porzione di spazio: e se le prolunghiamo all’infinito dopo e si sono intersecate una volta non si incontreranno, ma continueranno a divergere. Come può questa proposizione essere provata dall’osservazione effeiva, in un qualsiasi caso singolo? Possiamo seguire le linee a qualsiasi distanza, a nostro piacere, ma non possiamo seguirle all’infinito. Per quello e i nostri sensi possono testimoniare, può darsi e, immediatamente dopo aver raggiunto il punto più lontano fino al quale le abbiamo tracciate, le ree comincino ad avvicinarsi, e infine s’incontrino. Perciò, a meno e dell’impossibilità e s’incontrino non possediamo quale prova diversa da quella e ci fornisce l’osservazione, non abbiamo nessuna ragione per credere all’assioma. A queste argomentazioni e, confido, nessuno potrà accusarmi di minimizzare, penso e troveremo una risposta soddisfacente rivolgendo la nostra aenzione a una delle proprietà caraeristie delle forme geometrie: la loro capacità di essere dipinte nell’immaginazione con una distinzione eguale a quella della realtà: in altre parole, Pesaa somiglianza delle nostre idee di forma con le sensazioni e le suggeriscono. esto ci rende in primo luogo capaci (almeno con un po’ di pratica) di formarci

immagini mentali di tue le possibili combinazioni di linee e di angoli e somiglino alla realtà tanto quanto le somiglia qualsiasi immagine e possiamo tracciare sulla carta e, in secondo luogo, di fare di queste immagini soggei adai alla sperimentazione geometrica quanto le stesse figure reali, nella misura in cui le immagini, se sono sufficientemente accurate, esibiscono naturalmente tue le proprietà e le figure reali manifesterebbero, in un istante dato, a un semplice esame. In geometria ci interessiamo solo di queste proprietà, e non di quelle proprietà e le immagini non potrebbero esibire, quali l’azione reciproca dei corpi. I fondamenti della geometria risiederebbero Perciò nell’esperienza direa ane se gli esperimenti (e in questo caso consistono soltanto in un’aenta osservazione) venissero eseguiti solo su ciò e iamiamo le nostre idee (cioè sui diagrammi esistenti nella nostra mente) e non su oggei esterni. Infai in tui i sistemi di sperimentazione prendiamo certi oggei come rappresentanti di tui gli oggei e gli somigliano; e nel caso auale le condizioni e qualificano un oggeo reale come rappresentante della classe cui appartiene sono completamente soddisfae da un oggeo e esiste soltanto nella nostra fantasia. Perciò io non nego e sia possibile essere soddisfai della proposizione e due linee ree non possono raciudere una porzione di spazio, limitandoci a pensare le ree senza osservarle effeivamente; sostengo e a questa verità crediamo, non semplicemente peré l’intuiamo nell’immaginazione, ma peré sappiamo e le linee immaginarie somigliano esaamente alle linee reali, e e possiamo concludere dalle linee immaginarie a quelle reali con la stessa certezza con cui possiamo concludere da una linea reale a un’altra linea reale. La conclusione è pertanto ancora un’induzione traa dall’osservazione. E non saremmo autorizzati a sostituire l’osservazione dell’immagine della nostra mente all’osservazione della realtà, se non avessimo imparato, per un’esperienza lunga e continuata, e le proprietà della realtà sono fedelmente rappresentate nell’immagine, proprio come non saremmo scientificamente autorizzati a descrivere, servendoci di un’immagine dagherrotipica, un animale e non abbiamo mai visto, finé non avessimo imparato in base ad un’ampia esperienza e l’osservazione di una tale immagine equivale esaamente all’osservazione dell’originale. este considerazioni dispongono ane dell’obiezione e sorge dall’impossibilità di seguire coll’ocio le linee nel loro prolungarsi all’infinito. Infai, ane se per vedere effeivamente e due linee date non

s’incontrano mai sarebbe necessario seguirle all’infinito, tuavia ane senza bisogno di far ciò possiamo sapere e, se mai s’incontrano o se, dopo essersi allontanate l’una dall’altra, cominciano di nuovo ad avvicinarsi, ciò deve accadere non a una distanza infinita ma a una distanza finita. Supponendo perciò e si dia questo caso, possiamo trasportarci fin là coll’immaginazione e tracciare un’immagine mentale dell’aspeo e una delle linee, o tue e due le linee, devono presentare a quel punto: e possiamo essere sicuri e quest’immagine sarà esaamente simile alla realtà. Ora, sia e fissiamo la nostra contemplazione su questo ritrao immaginario sia e riiamiamo alla nostra mente le generalizzazioni e abbiamo avuto occasione di fare basandoci su osservazioni oculari precedenti, in forza delle prove forniteci dall’esperienza impariamo e una linea la quale dopo essersi allontanata da un’altra linea rea comincia ad avvicinarvisi, produce sui nostri sensi l’impressione e descriviamo con l’espressione «linea curva», non produce quella e descriviamo con l’espressione «linea rea»f. L’argomentazione precedente, e a mio parere è inaaccabile, confluisce, comunque, in un’argomentazione più comprensiva, e è stata formulata in modo estremamente iaro e concludente dal professor Bain. La ragione psicologica per cui gli assiomi, e ane molte proposizioni e ordinariamente non vengono classificate tra gli assiomi, possono essere appresi dalla sola idea senza fare riferimento ai fai, è e durante il processo di acquisizione dell’idea abbiamo imparato il fao. Alla proposizione si assente non appena se ne capiscano i termini, peré, mentre imparavamo a capire i termini, abbiamo acquisito l’esperienza e prova la verità della proposizione. Dice il signor Baing: «per raggiungere la nozione di tuo e di parte avevamo in primo luogo bisogno dell’esperienza concreta; ma la nozione, una volta e ne siamo in possesso, implica e il tuo è maggiore della parte. In realtà, non avremmo potuto avere la nozione di tuo e di parte se non avessimo avuto un’esperienza e equivale a questa conclusione… Una volta e ci siamo impadroniti della nozione di rea, ci siamo impadroniti ane di quell’aspeo di tale nozione e è espresso dall’affermazione e due linee ree non possono raciudere una porzione di spazio. In questi casi non sono necessari nessun potere e nessuna percezione intuitivi innati… Non possiamo oenere il significato completo di “reo” senza passare araverso un confronto di oggei rei, tra loro e con i loro opposti: gli oggei curvi o distorti. Inter alia, il risultato di questo confronto è e la proprietà dell’essere reo, in due linee, appare

incompatibile con quella di raciudere una porzione di spazio; il raciudere una porzione di spazio implica curvatura in almeno una delle due linee». E analogamente, nel caso di ogni altro principio primoh, «la medesima conoscenza e ce lo fa capire è sufficiente a verificarlo». Sono convinto e quanto più si considererà quest’osservazione, tanto più ci si renderà conto e essa raggiunge la radice stessa della controversia. 6. Penso di aver risposto a sufficienza alla prima delle due argomentazioni in favore della teoria secondo cui gli assiomi sono verità a priori: procederò ora a rispondere alla seconda, su cui di solito si fa maggiore affidamento. Si asserisce e concepiamo gli assiomi non soltanto come veri, ma come veri universalmente e necessariamente. Ora in nessun caso l’esperienza può conferire questo caraere a una proposizione. Posso aver visto la neve per cento volte, e per cento volte posso aver visto e era bianca, ma questo non può darmi la sicurezza e tua la neve è bianca, e tanto meno e la neve non può non essere bianca. «Per quanto numerosi siano i casi della verità di una proposizione e possiamo avere osservato, non c’è nulla e ci assicuri e il caso successivo non costituirà un’eccezione alla regola. Ane se fosse rigorosamente vero e ogni animale ruminante finora conosciuto ha lo zoccolo fesso, tuavia non potremmo essere sicuri e un giorno non si scoprirà quale creatura e ha il primo di questi aributi senza avere il secondo… L’esperienza non può non consistere, in ogni caso, di un numero limitato di osservazioni: per numerose e possano essere, queste osservazioni non possono mostrare nulla riguardo al numero infinito di casi in cui l’esperimento non è stato fao». Inoltre, gli assiomi non sono solo universali: sono ane necessari. Ora «l’esperienza non può offrire il minimo fondamento per la necessità di una proposizione. può osservare è registrare ciò e è accaduto; ma in nessun caso, è per quanti casi si accumulino, può trovare una qualsiasi ragione per ciò e deve accadere. può vedere gli oggei l’uno accanto all’altro, ma non può scorgere nessuna ragione peré debbano stare l’uno accanto all’altro. Trova e certi eventi si presentano in successione; ma la successione non fornisce, col suo presentarsi, nessuna ragione per la propria ricorrenza. Contempla oggei esterni, ma non può percepire nessun legame interno e connea indissolubilmente il futuro al passato, il possibile al reale. L’imparare una proposizione per esperienza e il vedere e è necessariamente vera sono due processi di pensiero completamente differenti»i. E il do. Whewell aggiunge: «i non

comprenda iaramente questa distinzione tra verità necessarie e verità contingenti non sarà in grado di accompagnarci nelle nostre ricere sui fondamenti della conoscenza umana, nè di perseguire con successo una qualsiasi speculazione su questo argomento»k. Nel passo e segue ci si dice e cosa sia questa distinzione, il mancato riconoscimento della quale ci rende passibili di quest’accusa. «Le verità necessarie sono quelle in cui non solo impariamo e la proposizione è vera, ma vediamo e non può non essere vera; in cui la negazione della verità non solo è falsa, ma impossibile; in cui, neppure con uno sforzo dell’immaginazione, o per ipotesi, possiamo concepire il contrario di quello e è asserito. Che tali verità esistano non si può dubitare. Possiamo prendere come esempio tue le relazioni numerie. Tre e due, addizionati tra loro, fanno cinque. Non possiamo concepire e sia altrimenti. Non possiamo, per un capriccio del pensiero, immaginare e tre e due facciano see»l Bené abbia impiegato con naturalezza e proprietà una gran varietà di frasi per farci comprendere con maggior forza ciò e intende, presumo e il do. Whewell mi concederà e tue queste frasi sono equivalenti, e e ciò e egli intende con «verità necessaria» può essere definito a sufficienza come «una proposizione la cui negazione è, non solo falsa, ma inconcepibile». Giratele come volete, non riesco a trovare in nessuna delle sue espressioni un significato e vada oltre questo, e non credo e il do. Whewell sosterrebbe e significano qualcosa di più. esto, dunque, è il principio asserito: e le proposizioni la cui negazione è inconcepibile, o, in altre parole, le proposizioni e non possiamo immaginare false, devono riposare su prove di ordine superiore, e dotate di una maggior forza di costrizione, di ogni altra prova e l’esperienza possa permeersi. Ora, io non posso far a meno di meravigliarmi e si debba porre un accento così forte sulla circostanza dell’inconcepibilità, quando una parte così grande dell’esperienza ci mostra e la nostra capacità o la nostra incapacità di concepire una cosa hanno molto poco da fare con la possibilità della cosa in se stessa; a dire il vero, tale capacità o incapacità sono in massima parte accidentali e dipendono dalla storia passata e dalle abitudini della nostra mente. Nessun fao della natura umana è così generalmente riconosciuto come l’estrema difficoltà e si prova, sulle prime, quando si traa di concepire come possibile qualcosa e è in contraddizione con

un’esperienza da lungo tempo consolidata e ormai familiare. E questa difficoltà è un risultato necessario delle leggi fondamentali della mente umana. ando abbiamo spesso visto e pensato due cose insieme, e in nessun caso le abbiamo viste o pensate separatamente, incontriamo (per la legge primaria dell’associazione) una difficoltà sempre crescente e e alla fine può diventare insuperabile, a concepire le due cose come separate. Ciò si può vedere più iaramente e altrove nel caso delle persone incolte, e in genere sono assolutamente incapaci di separare due idee e siano ormai stabilmente associate nella loro mente: e se le persone e hanno coltivato il loro intelleo sono avvantaggiate su questo punto, è solo peré, avendo visto e udito e leo di più ed essendo più abituate ad esercitare la loro immaginazione, hanno sperimentato combinazioni più variate delle loro sensazioni e dei loro pensieri e questo ha impedito loro di formare molte di queste associazioni inseparabili. Ma questo vantaggio ha, necessariamente, i suoi limiti. L’intelleo più esercitato non si sorae alla legge fondamentale della nostra facoltà di concepire. Se per lungo tempo la consuetudine quotidiana presenta a qualcuno due fai in combinazione, e se durante questo periodo costui non è indoo o per caso o in forza delle sue operazioni mentali volontarie a pensare separatamente questi due fai, coll’andar del tempo diventera probabilmente incapace di farlo ane a prezzo dello sforzo più duro. Alla fine, la supposizione e i due fai possono essere separati in natura si presenterà alla sua mente con tue le caraeristie del fenomeno inconcepibilem. Di ciò esistono. nella storia della scienza, esempi notevoli: casi in cui gli uomini più colti rigearono come impossibili, peré inconcepibili, cose e i loro posteri, grazie a una pratica più antica e a una più lunga perseveranza nel tentativo, trovarono estremamente facili da concepire e e ora tui sanno essere vere. Ci fu un tempo in cui uomini dotati degli intellei più coltivati, e più di ogni altro emancipati dall’imperio di pregiudizi da tempo radicati, non potevano prestar fede all’esistenza degli antipodi; non erano capaci di concepire in contrasto con la vecia associazione e la forza di gravità agisse verso l’alto invece e verso il basso. I cartesiani rifiutarono per lungo tempo la dorina newtoniana, secondo cui tui i corpi gravitano l’uno verso l’altro, basandosi sulla fede in una proposizione generale, la cui contraria gli sembrava inconcepibile: la proposizione e un corpo non può agire dove non c’è. Tuo l’ingombrante macinario dei vortici immaginari, assunto senza il sia pur minimo bruscolo d’una prova, appariva a questi filosofi un modo più razionale di

spiegare i moti celesti del modo e implicava quella e gli sembrava un’assurditan. E senza dubbio trovavano impossibile il concepire e un corpo potesse agire sulla Terra, dalla distanza della Luna e del Sole, così come noi troviamo impossibile concepire e lo spazio o il tempo abbiano un termine, o e due linee ree raciudano una porzione di spazio. Neppure Newton era stato capace di realizzare questa concezione, altrimenti non avremmo avuto la sua ipotesi di un etere soile, causa occulta della gravitazione; e i suoi scrii provano e, pur pensando e la natura dell’agente intermedio fosse materia di congeura, riteneva indubitabile la necessità di un qualche agente. Se dunque è così naturale e la mente umana, ane quando abbia raggiunto un alto livello di cultura, non sia in grado di concepire — e per questa ragione trovi impossibile — ciò e in seguito non solo si trova concepibile ma si prova vero, peré allora dovremmo maravigliarci e nei casi in cui l’associazione è ancora più antica, ha ricevuto un numero maggiore di conferme ed è più familiare, e in cui non accade mai nulla e scuota le nostre convinzioni o ane solo ci suggerisca una qualsiasi concezione alternativa all’associazione, l’incapacità acquisita continui, e venga erroneamente scambiata per un’incapacità naturale? È vero e la nostra esperienza delle varietà esistenti in natura ci rende capaci entro certi limiti di concepire altre varietà analoghe: possiamo concepire e il Sole o la Luna cadano, peré, ane se non li abbiamo mai visti cadere o forse non abbiamo mai neppure immaginato e cadranno, abbiamo visto cadere tante di quelle altre cose, e abbiamo a nostra disposizione innumerevoli analogie e ci aiutano a formarcene la concezione — una concezione, dopo tuo, e probabilmente troveremmo difficile da formare se non fossimo ben abituati a vedere il Sole e la Luna muoversi (o aver l’apparenza di muoversi). A questo proposito non dobbiamo far altro e concepire un leggero cambiamento nella direzione del loro moto: circostanza, questa, familiare alla nostra esperienza. Ma quando l’esperienza non fornisce nessun modello in base al quale dar forma alla nostra concezione, come ci è possibile formarla? Per esempio, come possiamo immaginare e lo spazio o il tempo abbiano un termine? Non abbiamo mai visto un oggeo al di là del quale non ci fosse qualcosa, e non abbiamo mai provato un sentimento senza e qualcosa lo seguisse. Perciò, quando tentiamo di concepire l’ultimo punto dello spazio, sorge in noi irresistibilmente l’idea di altri punti al di là di esso.

ando tentiamo di immaginare l’ultimo istante del tempo non possiamo fare a meno di concepire un altro istante dopo di esso. E non c’è alcuna necessità di assumere, come ha fao una moderna scuola di metafisici, una particolare legge fondamentale della mente e renda conto del sentimento di infinità inerente alle nostre concezioni dello spazio e del tempo; di quest’apparente infinità rendono sufficientemente conto leggi più semplici e universalmente riconosciute. Ora, nel caso di un assioma geometrico quale ad esempio l’assioma e due linee ree non possono raciudere una porzione di spazio — verità, questa, e ci è testimoniata dalle nostre primissime impressioni del mondo esterno — com’e possibile (siano o non siano queste impressioni esterne il fondamento della nostra credenza) e la contraria di questa proposizione possa essere per noi altro e inconcepibile? ale analogia possediamo, quale ordine simile di fai in un qualsiasi altro campo della nostra esperienza, e ci facilitino la concezione di due linee ree e raciudono una porzione di spazio? E questo non è neppure tuo. Ho già riiamato l’aenzione sulla proprietà tua particolare delle nostre impressioni di forma, proprietà secondo la quale le idee o immagini mentali somigliano esaamente ai loro prototipi, e li rappresentano adeguatamente per gli scopi dell’osservazione scientifica. Da questo, e dal caraere intuitivo dell’osservazione (e in questo caso si riduce a una semplice ispezione), non possiamo neppure evocare nella nostra immaginazione due linee ree per tentar di concepirle come raciudenti una porzione di spazio, senza ripetere con questo stesso ao l’esperimento scientifico e stabilisce il contrario. Si sosterrà davvero e in queste circostanze l’inconcepibilità della cosa costituisce una prova contro l’origine sperimentale della convinzione? Non è forse iaro e, quale e sia il modo in cui può essersi originata la nostra credenza nella proposizione, l’impossibilità da parte nostra di concepire la sua negazione dev’essere la stessa soo entrambe le ipotesi? Dunque siccome il do. Whewell esorta a studiarsi la geometria tui coloro e incontrano quale difficoltà nel riconoscere la distinzione, da lui sostenuta, tra verità necessarie e verità contingenti — condizione alla quale, posso assicurarlo, ho adempiuto coscienziosamente — io, per tua risposta e con eguale sicurezza, esorto coloro e sono d’accordo con lui a studiarsi le leggi generali dell’associazione: sono infai convinto e per dissipare l’illusione e assegna una particolare necessità alle nostre induzioni più antie trae dall’esperienza e misura la possibilità delle cose in sé sul metro della

capacità e ha l’uomo di concepirle, non sia necessario nient’altro oltre a una modesta familiarità con quelle leggi. Spero e mi si perdonerà se aggiungo e lo stesso door Whewell ha confermato, con la sua testimonianza, l’effeo e l’associazione abituale ha sul fao e si dia l’apparenza di verità necessaria a una verità sperimentale, e contemporaneamente ha offerto, nella sua stessa persona, un esempio lampante di quell’importante legge. Nella sua Philosophy of the Inductive Sciences asserisce continuamente e proposizioni e non solo non sono evidenti di per sé, ma e sappiamo essere state scoperte gradualmente e a prezzo di grandi sforzi di ingegno e di pazienza, una volta consolidate sono apparse tanto autoevidenti e, se non fosse stato per la prova storica, sarebbe stato impossibile concepire come mai persone in pieno possesso delle loro facoltà non avessero potuto riconoscerle a prima vista. «Ora noi disprezziamo coloro e durante la controversia sul sistema copernicano non riuscivano a concepire il moto apparente del Sole sulla base dell’ipotesi eliocentrica; o quelli e, opponendosi a Galileo, pensavano e solo una forza uniforme potesse generare una velocità proporzionale allo spazio; oppure quelli e ritenevano e ci fosse qualcosa di assurdo nella dorina newtoniana della diversa rifrangibilità di raggi di colori differenti; o quelli e immaginavano e, quando gli elementi si combinano, le loro qualità sensibili devono manifestarsi ane nel composto; oppure ancora quelli e erano riluanti ad abbandonare la distinzione dei vegetali in erbe, cespugli e alberi. Non possiamo far a meno di pensare e gli uomini fossero piuosto tardi di comprendonio per trovare difficoltà ad ammeere ciò e per noi è così evidente e semplice. Soo soo siamo convinti e al loro posto saremmo stati più saggi e più iaroveggenti, e avremmo abbracciato il partito giusto e avremmo dato immediatamente il nostro assenso alla verità. Ma in realtà questo convincimento è pura e semplice illusione. Nella maggior parte dei casi le persone e stavano dalla parte perdente, come negli esempi menzionati qui sopra, non erano per nulla più piene di pregiudizi, o più stupide, o di vedute più ristree di quanto non lo sia oggi la maggior parte dell’umanità, e la causa per cui combaevano era ben lontana dall’essere manifestamente caiva, finé il risultato della guerra non ebbe deciso così… Nella maggior parte di questi casi, la vioria della verità è stata così completa, e aualmente ci è difficile immaginare e sia stata necessaria loa. L’essenza stessa di tali trionfi è questa: che ci hanno indotti

a considerare non solo falsi, ma inconcepibili, i punti di vista che oggi

o.

rifiutiamo»

est’ultima proposizione è esaamente quello e io sostengo; e per poter mandare all’aria l’intiera teoria del suo autore sull’evidenza degli assiomi non iedo di più. al è, infai, questa teoria? Che la verità degli assiomi non può essere stata appresa dall’esperienza, peré la loro falsità è inconcepibile. Ma lo stesso door Whewell dice e il progresso naturale del nostro pensiero ci induce continuamente a considerare inconcepibile quello e i nostri antenati non solo concepivano, ma credevano, e anzi (avrebbe potuto aggiungere) ciò di cui non erano capaci di concepire il contrario. È impossibile e Whewell intenda giustificare questo modo di pensare: è impossibile e voglia dire e possiamo aver ragione quando consideriamo inconcepibile quello e altri hanno concepito, ed evidente di per sé quello e ad altri non appariva evidente affao. Dopo un’ammissione tanto completa e l’inconcepibilità è cosa accidentale, e non inerisce al fenomeno in se stesso ma dipende dalla storia mentale della persona e tenta di concepirlo, come può iederci di rifiutare come impossibile una proposizione sulla sola base della sua inconcepibilità? Ma Whewell non si è limitato a iederci questo: ci ha addiriura fornito, contro la sua intenzione, alcuni dei più notevoli esempi e si possano citare di quella medesima illusione e egli stesso ha denunciato con tanta iarezza. Scelgo come campione le sue osservazioni sull’evidenza delle tre leggi del moto e della teoria atomica. Per quanto riguarda le leggi del moto, il do. Whewell dice: «Nessuno può meere in dubbio il dato di fao storico, e queste leggi sono state trae dall’esperienza. Che le cose stiano così, non è materia di congeura. Conosciamo il tempo, le persone, le circostanze connessi a ciascun passo di ciascuna scoperta»p. Dopo questa testimonianza sarebbe superfluo portare prove del fao. E non soltanto queste leggi non erano affao evidenti intuitivamente: originariamente alcune di esse erano addiriura paradossi. esto vale specialmente per la prima legge. Che un corpo in movimento continui a muoversi per sempre nella stessa direzione a velocità costante, fin quando su di esso non agisca una nuova forza, è una proposizione a cui per lungo tempo l’umanità trovò difficilissimo prestar fede. Si opponeva all’esperienza più evidente e più familiare, la quale insegnava e è nella natura del movimento il diminuire gradualmente e alla fine il terminare da sé. Tuavia, come osserva il do. Whewell, una volta e la dorina

contraria fu saldamente consolidata i matematici cominciarono speditamente a credere e leggi, e stanno in tale contraddizione con l’apparenza immediata e e, ane dopo e se ne era oenuta una prova completa, c’erano voluto generazioni per rendere familiari al mondo degli scienziati, fossero poste soo il dominio di «una necessità dimostrabile, e le costringeva ad essere com’erano, e non altrimenti». E lo stesso do. Whewell, pur non osando «diiarare in modo assoluto» e tutte queste leggi «possono essere rigorosamente fae risalire a una necessità assoluta insita nella natura delle cose»q in realtà pensa proprio e nel caso della legge appena menzionata le cose stiano così. Di quest’ultima dice: «Ane se, storicamente parlando, la prima legge del movimento fu scoperta mediante l’esperimento, ora abbiamo raggiunto un punto di vista dal quale vediamo e la sua verità si sarebbe potuta conoscere con certezza indipendentemente dall’esperienza»r. Può esserci un’esemplificazione più lampante di questa, fornita qui, dell’effeo dell’associazione e abbiamo descrio? Per generazioni i filosofi hanno incontrato le più straordinarie difficoltà nel meere assieme certe idee; finalmente ci riescono e allora, dopo aver ripetuto il processo un numero sufficiente di volte, cominciano col fantasticare di un legame naturale fra le idee; poi quando si traa di separarle l’una dall’altra sperimentano una difficoltà crescente — e, col continuare del medesimo processo, diventa un’impossibilità. Se tale è il progresso di una convinzione sperimentale, e è cosa di ieri e e si oppone all’apparenza immediata, come staranno allora le cose con quelle convinzioni e si conformano ad apparenze familiari fin dal primo baluginare dell’intelligenza e la cui definitività — per quanto ne sappiamo dalle più antie testimonianze del pensiero umano — nessun sceico ha mai suggerito di meere in dubbio, neppure per un momento? L’altro esempio e sto per citare è davvero stupefacente e può essere iamato la reductio ad absurdum della teoria dell’inconcepibilità. Parlando delle leggi della composizione imica, il do. Whewell dices: «e non si sarebbero mai potute comprendere iaramente, e e perciò non si sarebbero mai potute consolidare saldamente senza esperimenti esai e laboriosi, è certo; tuavia, possiamo avventurarci a dire e, una volta e si siano conosciute, sono in possesso di prove e vanno oltre quelle forniteci dall’esperimento puro e semplice. Infatti, come possiamo concepire combinazioni,

altrimenti

che

come

definite

quanto

alla

specie

e

alla

quantità?

Se dovessimo supporre e ciascun elemento sia pronto a combinarsi con qualsiasi altro indifferentemente, e, indifferentemente, in quantità qualsiasi, avremmo un mondo in cui tuo sarebbe confusione e indefinitezza. Non ci sarebbero generi ben definiti di corpi. Sali, e pietre, e minerali si avvicinerebbero, e si confonderebbero gradatamente e insensibilmente gli uni negli altri. Invece sappiamo e il mondo consiste di corpi e si possono distinguere gli uni dagli altri in base a differenze definite, e possono essere classificati e nominati, e sui quali si possono asserire proposizioni generali. E siccome non possiamo concepire un mondo in cui le cose non stiano così, è iaro e non potremmo concepire uno stato di cose in cui le leggi di combinazione degli elementi non fossero di quel genere definito e misurabile, e abbiamo asserito prima». Che un filosofo eminente come il do. Whewell debba asserire in tua serietà e non possiamo concepire un mondo in cui gli elementi semplici non possano combinarsi altrimenti e in proporzioni definite; e a forza di meditare una verità scientifica, il cui primo scopritore viveva ancora, abbia reso nella sua mente l’associazione fra l’idea di combinazione e l’idea di proporzioni costanti così familiare e intima da non essere capace di concepire l’un fao senza concepire l’altro, è un esempio così evidente della legge mentale in favore della quale vado argomentando, e una sola parola in più per illustrarla sarebbe superflua. Nell’ultima e più completa elaborazione del suo sistema di metafisica (The Philosophy of Discovery), così come nel suo primo discorso su l’Antitesi fondamentale della filosofia ristampato in appendice a quell’opera, il do. Whewell, mentre da un lato ammee con molta franezza e il suo linguaggio presentava il pericolo di fraintendimenti, dall’altro nega di aver inteso dire e l’umanità in generale può rendersi conto, ora, e la legge delle proporzioni definite nelle combinazioni imie è una verità necessaria. Tuo ciò e intendeva dire era e forse potranno rendersene conto i filosofi imici di quale generazione futura. «Certe verità possono forse essere viste per intuizione, ma tuavia può darsi e la loro intuzione sia una conquista rara e difficile»t. E spiega e l’inconcepibilità e, secondo la sua teoria, è il criterio e serve per riconoscere gli assiomi, «dipende interamente dalla iarezza delle idee e l’assioma implica. Finé queste idee sono vaghe e indistinte, possiamo dare il nostro assenso al contrario di un assioma, ane se non possiamo concepire distintamente questo

contrario. Possiamo dargli il nostro assenso, non peré è possibile, ma peré non riusciamo a scorgere iaramente e cosa è possibile. A una persona e stia appena cominciando a pensare in termini geometrici può forse sembrare e non ci sia nulla d’assurdo nell’asserzicne e due linee ree possono raciudere una porzione di spazio. E allo stesso modo, a una persona e stia appena cominciando a pensare alle verità della meccanica può non sembrare assurdo e nei processi meccanici la reazione sia maggiore o minore dell’azione; e così, ancora, a uno e non abbia meditato assiduamente sulle sostanze può non sembrare inconcepibile e mediante operazioni imie si possa generare nuova materia o distruggere quella e esiste già»u. Pertanto, le verità necessarie non sono quelle di cui non è possibile concepire il contrario, ma «quelle il cui contrario non si può concepire distintamente»v. Finé le nostre idee sono completamente indistinte, non sappiamo e cosa possa o e cosa non possa essere concepito distintamente; ma, grazie alla distinzione sempre crescente con cui apprendono i concei scientifici generali, gli uomini di scienza arrivano col tempo a rendersi conto e ci sono certe leggi di natura e, pur essendo state apprese storicamente e di fao dall’esperienza, ora e le abbiamo conosciute non si possono distintamente concepire come diverse da quelle e sono. La descrizione e io darei di questo progresso dello spirito scientifico è un po’ diversa. Accertata una legge generale della natura, la mente umana non acquista di colpo una completa facilità di rappresentarsi familiarmente i fenomeni naturali secondo il caraere e la legge gli assegna. ando si ha da fare con nuove relazioni, l’abito costitutivo della mentalità scientifica, di concepire fai di ogni genere secondo le leggi e li regolano — fenomeni di ogni genere secondo le relazioni e si è accertato esistono realmente tra di essi — viene soltanto per gradi. Fin quando quest’abito non si sia formato completamente, alla nuova verità non si aribuisce alcun caraere di necessità. Ma col tempo il filosofo raggiunge uno stato in cui la sua immagine mentale della natura gli rappresenta spontaneamente tui i fenomeni di cui traa la nuova teoria, nell’esaa luce in cui la teoria stessa li considera; a questo punto tue le immagini o le concezioni derivate da qualsiasi altra teoria, o dalla visione confusa dei fai anteriore a ogni teoria sono completamente scomparse dalla sua mente. Il modo di rappresentarsi i fai e risulta dalla teoria è ora diventato, per le sue facoltà, il solo modo naturale di concepirli. È una verità nota e l’abito prolungato di disporre i

fenomeni in certi gruppi e di spiegarli per mezzo di certi princìpi fa sentire innaturale qualsiasi altra disposizione o qualsiasi altra spiegazione di questi fai, e da ultimo il rappresentarsi i fai in un qualsiasi altro modo può diventare tanto difficile quanto lo era, originariamente, il rappresentarseli in quel modo. Ma in séguito, se la teoria è vera (e noi stiamo supponendo e lo sia), qualunque altro modo in cui il filosofo tenti di rappresentarsi i fenomeni, o in cui fosse prima abituato a rappresentarseli, gli apparirà incompatibile coi fai suggeriti dalla nuova teoria, fai e ora costituiscono una parte della sua immagine mentale della natura. E poié una contraddizione è sempre inconcepibile, la sua immaginazione rigea queste false teorie e si diiara incapace di concepirle. Ma la loro inconcepibilità non risulta, per lui, da qualcosa e sia ìnsito nelle teorie in se stesse e e repugni, intrinsecamente e a priori, alle facoltà umane: risulta piuosto dal conflio fra le teorie e una parte dei fai; però, fintanto e non conosceva questi fai, o non li realizzava distintamente nelle sue rappresentazioni mentali, la teoria falsa non gli appariva altrimenti e concepibile: diventa inconcepibile semplicemente per il fao e è impossibile combinare, nella stessa concezione, elementi contraddiori. Pertanto, bené la vera ragione per cui rigea le teorie alternative alla teoria vera non consista in nient’altro se non nel fao e le prime entrano in collisione con l’esperienza, lo scienziato cade facilmente nell’errore di credere e le rigea peré sono inconcepibili, e e adoa la teoria vera peré è evidente di per sé e non ha affao bisogno delle prove dell’esperienza. esta, secondo me, è la spiegazione reale e sufficiente della verità paradossale — su cui il do. Whewell mee un accento così forte — e in virtù di quest’educazione una mente addestrata scientificamente è di fao incapace di concepire supposizioni e un uomo comune concepisce senza la minima difficoltà. Non c’è nulla di inconcepibile, infai, nelle supposizioni in se stesse: l’impossibilità consiste nel combinarle con fai e le contraddicono, come parte della medesima immagine mentale, e naturalmente quest’ostacolo è avvertito soltanto da coloro e conoscono i fai e sono in grado di rendersi conto della contraddizione. Per quanto riguarda le supposizioni in se stesse, nel caso di molte delle verità necessarie di cui parla il do. Whewell, la negazione dell’assioma è, e probabilmente rimarrà finé dura la razza umana, tanto facilmente concepibile quanto la sua aflfermazione. Per esempio, non c’è assioma al quale il do. Whewell

aribuisca un caraere di necessità e di autoevidenza più completo di quello e aribuisce all’assioma dell’indistruibilità della materia. Sono pienamente d’accordo e si traa di una legge naturale vera, ma immagino e non esista essere umano per il quale la supposizione opposta risulti inconcepibile e e trovi una qualsiasi difficoltà nell’immaginare e un pezzo di materia si annulli, dal momento e tue le volte e un po’ d’acqua si asciuga, o si consuma una certa quantità di combustibile, ha luogo un’apparente anniilazione di materia e, senza altri aiuti, i nostri sensi non sono in alcun modo capaci di distinguere dall’anniilazione vera e propria. Ancora: la legge e i corpi si combinano imicamente in proporzioni definite è innegabilmente vera, ma poe persone, tranne lui, sono arrivate al punto a cui sembra essere pervenuto il do. Whewell (e pure si azzarda a profetizzare e le moltitudini oerranno un successo di questo genere solo dopo il trascorrere di generazioni): al punto cioè, di non essere in grado di concepire un mondo in cui gli elementi siano pronti a combinarsi tra loro «indififerentemente e in qualsivoglia quantità»; e fintanto e tue le mescolanze meccanie e avvengono sul nostro pianeta — solide, liquide o aeriformi e siano — presenteranno alla nostra osservazione quotidiana lo stesso fenomeno e si diiara inconcepibile, è improbabile e si arrivi mai a vee così sublimi d’incapacità. Secondo il do. Whewell queste e simili leggi di natura non possono essere ricavate dall’esperienza, peré anzi sono presupposte nell’interpretazione dell’esperienza. La nostra incapacità ad «aumentare o diminuire la quantità di materia esistente nel mondo» è una verità e «non è, e non può essere, derivata dall’esperienza, peré gli esperimenti e facciamo per verificarla presuppongono la sua verità… ando gli uomini cominciarono a usare la bilancia nelle analisi imie, non provarono per tentativi, ma accearono come indubbio e anzi come evidente di per sé, e il peso del tuo dovesse ritrovarsi nella somma dei pesi degli elementi»w. È vero, lo si assume: ma, a mio parere, non diversamente dal modo in cui qualsiasi ricerca sperimentale assume provvisoriamente quale teoria o quale ipotesi e alla fine dev’essere ritenuta vera o falsa, secondo quanto decideranno gli esperimenti. L’ipotesi scelta per questo scopo sarà naturalmente un’ipotesi e raggruppa un numero considerevole di fai già noti. Tanto per cominciare, la proposizione e la materia esistente nel mondo, valutata a peso, non risulta né accresciuta né diminuita da nessuno dei processi della natura e dell’arte, aveva molte apparenze in suo favore.

Esprimeva con verità un gran numero di fai familiari. C’erano altri fai, coi quali appariva in conflio, e e a prima vista rendevano dubbia la sua verità, in quanto legge universale della natura. Proprio peré era dubbia si escogitarono esperimenti per verificarla. Gli uomini ne assunsero la verità in via d’ipotesi, e procedeero a tentare se non si trovasse e, esaminandoli più accuratamente, i fenomeni e in apparenza indicavano una conclusion differente in realtà non erano in contraddizione con essa. Accadde proprio così, e da quel momento la dorina trovò un posto fra le verità universali: ma vi trovò posto come una verità la cui universalità era stata provata dall’esperienza. Che poi la teoria stessa abbia preceduto la prova della propria verità — cioè, e abbia dovuto essere concepita prima di poter essere provata, e per poter essere provata — non implica e fosse evidente di per sé e non avesse bisogno di prove. Altrimenti tue le teorie scientifie vere sarebbero necessarie ed evidenti di per sé; nessuno meglio del do. Whewell, infai, sa e tue le teorie scientifie cominciarono coll’essere assunte allo scopo di conneerle, per mezzo di deduzioni, con quei fai dell’esperienza sui quali — come sulle loro prove — oggi si ammee e riposinox. a. Il professor Bain osserva giustamente (Logic, II, 134) e la parola «ipotesi» è usata qui in un senso piùosto particolare. Di solito, in scienza si intende con «ipotesi» una supposizione di cui non è stata provata la verità, ma e si ritiene e sia vera peré, se fosse vera, renderebbe conto di certi fai noti; il risultato finale della speculazione può forse essere quello di provare la sua verità. Le ipotesi di cui si parla nel testo hanno un caraere differente; si sa e non son vere leeralmente, mentre quel tanto di esse e è vero non è ipotetico, ma certo. I due casi, comunque, si somigliano in questa circostanza: e in entrambi ragioniamo a partire, non già da una verità, ma da un’assunzione, e pertanto la verità delle conclusioni è condizionata, non categorica. Dal punto di vista della proprietà logica ciò è sufficiente a giustificare l’uso e Stewart fa di questo termine. Naturalmente, è indispensabile tenere presente e l’elemento ipotetico nelle definizioni della geometria è l’assunzione e ciò e si approssima di molto alla verità è esaamente vero. est’esaezza irreale potrebbe essere iamata finzione con la stessa proprietà con cui la si iama ipotesi; ma quest’appellativo, ancor più dell’altro, si rivelerebbe incapace di meere l’accento sulla strea relazione e esiste tra il punto o la linea fiizi è i punti è le linee di cui abbiamo esperienza. b. Mechanical Euclid, pp. 149 segg. c. Potremmo, è vero, far rientrare questa proprietà nella definizione di ree parallele, costruendo la definizione in modo da riiedere, sia e le ree non si incontrino mai quando vengano prolungate indefinitamente, sia ane e una qualsiasi linea rea e interseca una di queste ree, se prolungata, incontri ane l’altra. Ma in questo modo non ci si sbarazza affao dell’assunzione: si è ancora obbligati a dare come scontata la verità geometrica e tue le ree complanari e hanno la prima di queste proprietà hanno ane la seconda. Infai, se fosse possibile e non l’avessero — cioè, se tue le linee ree diverse da quelle e sono parallele per la definizione avessero la proprietà di non incontrarsi mai a meno di non essere prolungate indefinitamente — le dimostrazioni delle parti successive della teoria delle parallele non potrebbero essere mantenute.

d.

Alcuni trovano impossibile credere e l’assioma «Due ree non possono raciudere una porzione di spazio» possa mai diventarci noto per esperienza, per via di una difficoltà e si può formulare nel modo seguente. Se le linee ree di cui si parla sono quelle contemplate nella definizione (linee assolutamente prive di larghezza e assolutamente ree), e tali linee non possano raciudere una porzione di spazio non è provato dall’esperienza, peré nell’esperienza linee siffae non ci si presentano. Se, d’altra parte, le linee di cui si parla sono linee ree e incontriamo davvero nell’esperienza, cioè linee abbastanza ree per gli scopi pratici, ma in realtà leggermente a zig-zag e dotate di una quale larghezza per trascurabile e sia, allora l’assioma, applicato a queste linee non è vero, peré due linee siffae possono raciudere una piccola porzione di spazio — e quale volta la raciudono. Pertanto, in nessuno dei due casi l’esperienza prova l’assioma. Coloro e impiegano quest’argomentazione per mostrare e gli assiomi della geometria non possono essere provati per induzione dimostrano la loro mancanza di familiarità con un modo della prova induiva comune e perfeamente valido: la prova per approssimazione. Sebbene non ci fornisca linee così impeccabilmente ree e due di esse non siano in grado di raciudere la bené minima porzione di spazio, l’esperienza ci presenta però gradazioni di linee e posseggono larghezza o curvatura sempre minori, successione, questa, di cui la linea rea della definizione costituisce il limite ideale. E l’osservazione mostra e nella misura in cui, e quanto più, le linee ree della nostra esperienza si approssimano alla mancanza di larghezza e di curvatura, nella stessa misura, e tanto più, la capacità di due qualsiasi di esse di raciudere una porzione di spazio si approssima a zero. L’inferenza, e se non avessero larghezza o curvatura affao non raciuderebbero affao una porzione di spazio, è un’inferenza induiva traa correamente da questi fai, ed è conforme a uno dei quaro metodi induivi e caraerizzeremo più avanti: il metodo delle variazioni concomitanti, di cui la dorina matematica dei limiti rappresenta il caso estremo. e. WHEWELL, History of Scientific Ideas, I, 140. f. Il do. Whewell (Philosophy of Discovery, p. 289) ritiene irragionevole il sostenere e conosciamo per esperienza e la nostra idea di una linea somiglia esaamente a una linea reale. «Non si riesce a vedere», scrive, «come possiamo confrontare le nostre idee con la realtà, dal momento e conosciamo la realtà solo araverso le nostre idee». Secondo me, invece, noi conosciamo la realtà coi nostri sensi. Certo il do. Whewell non è un sostenitore della «dorina della percezione mediante le idee», e Reid si diede tanta pena per confutare. Se il do. Whewell dubita e confrontiamo le nostre idee con le sensazioni corrispondenti, e assumiamo e si somiglino, mi sia permesso di iedergli: in base a quale prova giudiiamo e il ritrao di una persona assente somiglia all’originale? Sicuramente, peré somiglia alla nostra idea, o immagine mentale, della persona, e peré la nostra idea somiglia all’uomo stesso. Il do. Whewell dice ane e non si riesce a vedere peré di questa somiglianza, tra le idee è le sensazioni di cui le idee sono copia si dovrebbe parlare come se fosse una peculiarità di una sola classe di idee: le idee di spazio. Rispoudo e io non ne parlo in questi termini. La peculiarita e sostengo è solo questione di grado. Naturaimente, tue le nostre idee di sensazione somigliano alle sensazioni corrispondenti, ma gli somigliano a gradi molto differenti di esaezza e di aendibilità. Nessuno, suppongo, può riiamare all’immaginazione un colore o un odore con la stessa distinzione e con la stessa accuratezza con cui può riprodurre mentalmente l’immagine di una linea rea o di un triangolo. Tuavia, fin dove arrivano le loro capacità di accuratezza, i nostri ricordi dei colori e degli odori possono servire come oggei di sperimentazione proprio come i ricordi delle linee e degli spazi, e possono dar luogo a conclusioni e saranno vere dei loro prototipi esterni. Supponiamo di iedere, a una persona le cui impressioni di colore sono particolarmente vivide e distinte (per dono naturale o per educazione), quale di due fiori (e peraltro può darsi non abbia mai confrontato direamente, e neppure visto insieme) è più scuro dell’altro. Costui potrebbe forse essere in grado di dare una risposta sicura fidandosi della distinzione del suo ricordo dei colori; cioè, potrebbe esaminare le sue immagini mentali e trovare in esse una proprietà degli oggei esterni. Ma in quasi nessun caso, ecceuato quello delle forme geometrie semplici, l’umanità in generale potrebbe fare una cosa del genere, con un

grado di sicurezza eguale a quello e ci è dato dalla contemplazione degli oggei veri e propri. I ricordi delle persone differiscono in larghissima misura quanto a precisione: una persona, dopo aver guardato un tizio in faccia per mezzo minuto, può disegnare a memoria un’immagine e gli somiglia nei minimi particolari; un’altra può benissimo averlo visto tui i giorni, per sei mesi, è a mala pena sapere se il suo naso sia lungo o corto. Ma tui hanno un’immagine mentale perfeamente distinta di una linea rea, di un cerio o di un reangolo. E tui concludono fiduciosamente, da queste immagini mentali, alle cose esterne corrispondenti. La verità è e quando gli oggei sono assenti possiamo studiare la natura araverso ciò e ne ricordiamo, e lo facciamo continuamente; e nel caso delle forme geometrie possiamo perfeamente fidarci dei nostri ricordi, mentre nella maggior parte degli altri casi possiamo fidarcene solo imperfeamente. g. Logic, I, 22. h. Ibidem, 226. i. History of Scientific Ideas, I, 65-67. k. Ibidem, 60. l. History of Scientific Ideas, I, 58, 59. m. «Se tua l’umanita avesse parlato una sola lingua, non c’è dubbio e ci sarebbe stata una scuola di filosofi potente, e forse addiriura universale, e avrebbe creduto nell’intrinseca connessione fra nomi e cose, e secondo la quale il suono “uomo” sarebbe stato quel modo di agitare l’aria e, per sua essenza, comunica le idee di ragione, di essere e condisce il proprio cibo, e è bipede, ecc.». DE MORGAN, Formal Logic, p. 246. n. Sarebbe difficile nominare un uomo più notevole di Leibniz per la grandezza, e, contemporaneamente, per la vastita dei suoi successi intelleuali. Tuavia, la ragione e quest’uomo eminente addusse per rifiutare lo sema newtoniano del sistema solare, era e Dio non poteva fare in modo e un corpo rotasse intorno a un centro distante, se non usando quale meccanismo e trasmeesse l’impulso, o per miracolo: «Tout ce qui n’est pas explicable», dice in una leera all’Abbé Conti, «par la nature des créatures, est miraculeux. Il ne suffit pas de dire: Dieu a fait una telle loi de nature; donc la ose est naturelle. Il faut que la loi soit exécutable par les natures des créatures. Si Dieu donnait cee loi, par exemple, à un corps libre, de tourner à l’entour d’un certain centre, il faudrait ou qu’il joignit d’autres corps qui par leur impulsion l’obligeassent de rester toujours dans son orbite circulaire, ou qu’il mit un ange à ses trousses, ou enfin il faudrait qu’il y concourut extraordinairement; car naturellement il s’ecartera par la tangente». [Tuo ciò e non può essere spiegato facendo ricorso alla natura delle creature è miracoloso. Non basta dire: Dio ha fao una legge di natura così e così, dunque la cosa è naturale. Bisogna e la legge possa essere realizzata dalla natura delle creature. Se Dio desse questa legge, per esempio, a un corpo lasciato libero, di girare intorno a un centro, bisognerebbe, o aggiungere altri corpi e con il loro impulso l’obbligassero a rimanere sempre nella sua orbita circolare, o meere alle sue calcagna un angelo, o infine e vi girasse in maniera straordinaria; peré, per natura, scapperebbe per la tangente). Opere di Leibniz, ed. Dutens, III, 446. o. Novum Organum Renovatum, pp. 32, 33. p. History of Scientific Ideas, I, 264. q. Hist. Sc. Id., I, 263. r. Ibidem, 240. s. Hist. Sc. Id., II, 25, 26. t. Phil. of Disc., p. 339. u. Phil. of Disc., p. 338. v. Ibidem, p. 463. w. Phil. of Disc., pp. 472, 473.

x.

Nella «arterly Review» del giugno 1841 è comparso un articolo, estremamente abile, sulle due grandi opere del do. Whewell (la paternità di quest’articolo è poi stata riconosciuta da Sir John Hersel, e l’articolo ristampato nei suoi Essays). In questo scrio si sostiene la stessa dorina proposta in questo libro, secondo cui gli assiomi sono generalizzazioni trae dall’esperienza, e si appoggia quest’opinione con una linea di argomentazioni sorprendentemente coincidenti con le mie. ando asserisco e tuo il presente capitolo (ecceuate le ultime quaro pagine, e sono un’aggiunta alla quinta edizione) fu scrio prima e io avessi visto l’articolo (e la maggior parte del capitolo, anzi, prima e l’articolo fosse stato pubblicato), non intendo riiamare l’aenzione del leore su una faccenda di così poca importanza come il grado di originalità e può o non può essere aribuito a una parte qualsiasi delle mie speculazioni; intendo piuosto oenere, per un’opinione e si oppone alle dorine imperanti, la raccomandazione e deriva da una sorprendente concorrenza di punti di vista tra due ricercatori interamente indipendenti l’uno dall’altro. Colgo volentieri l’occasione per citare, dallo scrio di un autore, e ha oenuto risultati tanto rilevanti nel campo della conoscenza fisica e metafisica, ed è dotato di quelle capacità di pensiero sistematico e si evincono dalla leura di quest’articolo, passi così notevolmente all’unissono con i miei, come il seguente: «Le verità della geometria sono riassunte e incorporate nelle sue definizioni e nei suoi assiomi… Rivolgiamoci agli assiomi: e cosa troviamo? Una fila di proposizioni riguardanti la grandezza in astrao, e sono egualmente vere dello spazio, del tempo, delle forze, del numero e di ogni altra grandezza susceibile di aggregazione e di suddivisione. Tali proposizioni, quando non siano pure e semplici definizioni (e molte di esse lo sono), portano scria in faccia, nel loro enunciato, la loro origine induiva. Le proposizioni e diiarano e due linee ree non possono raciudere una porzione di spazio e e due linee ree e s’intersecano non possono essere entrambe parallele a una terza, sono, in realtà, le sole e esprimano proprietà caraeristie dello spazio, e varrà la pena di considerarle più da vicino. Ora, la sola nozione iara e possiamo formarci di reo è l’uniformità di direzione, peré, in ultima analisi, lo spazio non è altro e un insieme di distanze e di direzioni. E (per non soffermarci sulla nozione di contemplazione continua, cioè, di esperienza mentale, in quanto compresa nella stessa idea di uniformità, o su quella di trapasso da punto a punto da parte dell’essere e contempla e dell’esperienza, durante tale trapasso, dell’omogeneità dell’intervallo e si è superato) non possiamo neppure proporre in forma intelligibile la proposizione a i, fin dalla nascita, non sia stato reso sicuro di questo fao dalla propria esperienza. L’unicità di direzione, ossia il fao e partendo da un punto dato non possiamo procedere per più di un sentiero direo al medesimo oggeo, è una faccenda di esperienza pratica molto tempo prima di poter diventare oggeo del pensiero astrao. Non possiamo tentare di esemplificare mentalmente le condizioni nelle quali si potrebbe asserire un caso immaginario, e opposto a quest’ultimo, senza violare i nostri ricordi abituali di

quest’esperienza,

e

senza

cancellare

la

nostra

immagine

mentale

dello

spazio,

basata

su

quest’esperienza appunto.

Che cosa se non l’esperienza, possiamo iedere, potrà mai renderci sicuri dell’omogeneità delle parti della distanza, del tempo, della forza e degli aggregati misurabili in generale, omogeneità dalla quale dipende la verità degli altri assiomi? Per quanto riguarda l’ultimo di tali assiomi, dopo quello e si è deo dev’essere iaro e nel suo caso vale egualmente l’identico insieme di considerazioni, e e la sua verità si impone alla nostra mente con la stessa forza con cui si impone il primo, ad opera dell’esperienza di ogni giorno e di ogni ora… comprendendo sempre, si badi bene, nella nostra nozione di esperienza, quella che si ottiene contemplando l’immagine interna che la mente forma a se stessa in qualsiasi caso dato o che sceglie arbitrariamente come esempio. In virtù dell’estrema semplicità di queste relazioni primarie tale immagine viene rievocata dall’immaginazione con la stessa vivezza e la stessa chiarezza che potrebbero essere provocate da un’impressione esterna; e questo è l’unico significato che possiamo attribuire alla parola “intuizione”, in quanto applicata a tali relazioni».

E ancora, parlando degli assiomi della meccanica: «Poié neppure nella stessa geometria ammeiamo tali proposizioni se non come verità trae induivamente dall’osservazione, difficilmente ci si può aspeare e in una scienza di relazioni e sono ovviamente contingenti possiamo accontentarci del punto di vista contrario. Prendiamo uno di questi assiomi ed esaminiamo le prove in suo favore. Consideriamo, ad esempio, l’assioma e forze eguali applicate perpendicolarmente alle estremità opposte dei bracci eguali di una leva reilinea si equilibrano. Che cosa se non l’esperienza, possiamo iedere prima di tuo, potrà mai informarci e una forza applicata in questo modo avrà la tendenza a far rotare la leva sul suo centro? O e la forza può essere trasmessa lungo una linea rigida perpendicolare alla sua direzione in modo da agire in un luogo dello spazio diverso dalla sua linea d’azione? Sicuramente, ciò è tanto lontano dall’essere evidente di per sé, da avere addiriura un’apparenza paradossale, apparenza e si può eliminare soltanto dando alla nostra leva spessore, composizione materiale e forze molecolari. Ancora: concludiamo e le due forze, essendo eguali ed essendo state applicate in circostanze esaamente simili, ammesso e esercitino uno sforzo qualsiasi e serva a far rotare la leva, devono esercitare sforzi eguali ed opposti: ma quale ragionamento a priori potrà mai assicurarci e agiscono davvero in circostanze esaamente simili? Che punti situati in luoghi diversi dello spazio sono sooposti a circostanze simili, rispeo all’esercizio di una forza? Che lo spazio universale può non avere relazioni con la forza universale o, in ogni caso, e l’organizzazione dell’universo materiale può non essere tale da meere quella porzione di spazio da esso occupata e le forze in essa esercitate, in relazioni tali da invalidare l’assoluta somiglianza delle circostanze ipotizzate? Oppure, possiamo argomentare, peré mai dovremmo far entrare qui la nozione di movimento angolare nella leva? Nel nostro caso il sistema è in istato di quiete, e di annullamento di forza da parte di forza, annullamento e ha come risultato lo stato di quiete. Ora, come si produce quest’annullamento? Sicuramente grazie alla contropressione e sostiene il fulcro. Ma quest’annullamento non avrebbe egualmente luogo, e da parte della stessa quantità di forze agenti in senso opposto, nel caso e ciascuna forza non facesse altro e spingere la propria metà della leva contro il fulcro? E e cosa, se non la rimozione dell’una e dell’altra forza e il conseguente ribaltamento della leva, potrebbe assicurarci e le cose non stanno così? L’altro assioma fondamentale della statica, e cioè e la pressione sul punto d’appoggio è la somma dei pesi… non è altro e una trasformazione scientifica del, e un modo più raffinato di asserire il, risultato, grossolano e ovvio, di un’esperienza universale, cioè e il peso di un corpo rigido è lo stesso, sia e lo si tenga in mano, sia e lo si sospenda in qualsiasi posizione e per qualsiasi punto si voglia, e e qualsiasi cosa lo sostenga, quella cosa sostiene il suo peso totale. Certo, come osserva giustamente il signor Whewell, “probabilmente mai nessuno ha fao un tentativo di mostrare e la pressione e si esercita sul supporto è eguale alla somma dei pesi”, … ma proprio peré in ogni azione della nostra vita, e fin dalla prima infanzia, ciascuno di noi ha fao continuamente la prova, e l’ha vista fare da ogni altro essere vivente intorno a lui, nessuno mai sogna di meerne in giuoco il risultato, con un tentativo in più, compiuto con accuratezza scientifica. Sarebbe come se un uomo risolvesse di decidere mediante un esperimento se gli oci gli sono utili per vedere, e si iudesse ermeticamente, per mezz’ora, in una cassa di metallo». A proposito del «paradosso delle proposizioni universali oenute in base all’esperienza», lo stesso autore dice: «Se ci sono verità necessarie e universali, e possono essere espresse in proposizioni di semplicità e di evidenza assiomatie, e e hanno per oggeo gli elementi di tua la nostra esperienza e di tua la nostra conoscenza, queste sono sicuramente le verità e l’esperienza — ammesso e ci suggerisca qualcosa — dovrebbe suggerire nel modo più pronto, più iaro e più incessante. Se fosse una verità universale e necessaria e sull’intiera superficie del globo di ogni pianeta è stesa una rete, non potremmo andare molto lontano coi nostri soli mezzi senza trovarci impigliati nelle sue maglie, e ciò trasformerebbe la necessità di usare quale mezzo per districarcene in un assioma della locomozione… Non c’è dunque nulla di paradossale — anzi, tuo il contrario — nel fao e sia l’osservazione a farci riconoscere le verità in parola come proposizioni generali, e si estendono almeno fin dove si estende tua l’esperienza umana. Il fao e pervadono tui gli oggei

d’esperienza non può non rendere sicuro il fao e le proposizioni in parola ci sono suggerite dall’esperienza; il fao e sono vere non può non rafforzare quella non-contraddiorietà del suggerimento, quella ripetizione di asserzioni non contraddee da nessun’altra, e impone l’assenso implicito e allontana ogni occasione di eccezioni; il fao e sono semplici, e non ammeono fraintendimenti, non può assicurarne l’ammissione da parte di ogni intelleo». «Una verità necessaria e universale, relativa a un qualsiasi oggeo della nostra conoscenza, deve verificare se stessa in tui i casi in cui l’oggeo sta davanti a noi, pronto per essere contemplato; e se, nel medesimo tempo, questa verità è semplice e intelligibile, la sua verifica dev’essere ovvia. Pertanto il sentimento di una tale verità non può non essere presente alla nostra mente ogni qualvolta contempliamo quell’oggetto, e deve pertanto far parte dell’immagine mentale o idea di quell’oggetto, che in qualsiasi occasione possiamo evocare dinanzi alla nostra immaginazione… Perciò tutte le proposizioni diventerebbero, non soltanto false, ma inconcepibili,

se… il loro enunciato violasse gli

assiomi». Un altro eminente matematico aveva in precedenza sanzionato con la sua autorità la dorina dell’origine sperimentale degli assiomi geometrici. «Così, dunque, ane la geometria è fondata sull’osservazione; ma sopra un’osservazione di una specie così familiare e ovvia e le nozioni primitive e essa fornisce potrebbero sembrare intuitive». Sir John Leslie1, citato da Sir WILLIAM HAMILTON, Discourses ecc, p. 272. 1. Sir John Leslie (1766-1832), matematico e filosofo naturale scozzese. Professorc di matematica a Edinburgo dal 1805 e di filosofia naturale dal 1819, si occupò ane di fisica e, in particolare, di teoria del calore (realizzando per primo, nel 1810, il congelamento artificiale dell’acqua) e di idrostatica. Tra le sue opere ricordiamo: Elements of Geometry, Geometrical Analysis and Plane Trigonometry [Elementi di geometria, analisi geometrica e trigonometria piana] (1809) e ebbe parecia fortuna ane sul Continente; Geometry of Curve Lines [Geometria delle curve] (1813); Philosophy of Arithmetic [Filosofia dell’aritmetica] (1817). Su argomenti più generali pubblicò, tra l’altro, Tracts, Historical and Philosophical [Trattatelli storici e filosofici] 2 voll. (1806); Elements of Natural Philosophy [Elementi di filosofia naturale] (1823).

CAPITOLO VI. ANCORA SUL MEDESIMO ARGOMENTO 1. Nel prendere in esame la natura delle prove di cui fanno uso quelle scienze deduive e vengono comunemente rappresentate come sistemi di verità necessarie (esame e costituiva l’argomento del capitolo precedente) siamo pervenuti alle seguenti conclusioni. I risultati di queste scienze sono bensì necessari, nel senso e seguono necessariamente da certi princìpi primi comunemente iamati assiomi e definizioni, cioè nel senso e sono certamente veri se lo sono gli assiomi e le definizioni (peré ane in quest’accezione la parola «necessità» non significa niente più e certezza); ma la loro pretesa al caraere di necessità in qualsiasi altro senso e vada oltre questo — la pretesa, cioè, alla necessità in quanto implica prove indipendenti dall’osservazione e dall’esperienza e ad esse superiori — deve per forza dipendere dal fao e in precedenza la medesima pretesa è stata riconosciuta legiima per le stesse definizioni e gli stessi assiomi. anto agli assiomi, abbiamo trovato e, considerati come verità sperimentali, riposano su prove sovrabbondanti e ovvie. Stando così le cose, abbiamo indagato se sia obbligatorio supporre e queste verità riposino su altre prove e non siano le prove sperimentali; se la nostra credenza in esse abbia mai un’altra origine, e non sia un’origine sperimentale. Abbiamo deciso e il fardello della prova sta sulle spalle di coloro e sostengono di sì, e ci siamo soffermati piuosto a lungo sull’esame delle argomentazioni e costoro hanno portato in favore della loro tesi. Il nostro esame ci ha condoi a rigeare queste argomentazioni, e ci siamo perciò ritenuti autorizzati a concludere e gli assiomi non sono e una classe — la classe più universale — di induzioni trae dall’esperienza; i casi più semplici e più facili di generalizzazione dai fai fornitici dai nostri sensi o dalla nostra coscienza interna. Mentre è così risultato evidente e gli assiomi delle scienze dimostrative sono verità sperimentali, abbiamo trovato e quelle e vengono scorreamente iamate le definizioni delle scienze in parola, sono generalizzazioni dall’esperienza e, rigorosamente parlando, non sono neppure verità. Sono proposizioni in cui, proprio mentre asseriamo e a una certa specie di oggeo appartiene una certa proprietà, o più d’una proprietà

(e l’osservazione ci mostra appartenere all’oggeo) neghiamo e l’oggeo possegga altre proprietà, ane se, in verità, in ogni singolo caso altre proprietà accompagnano, e in quasi tui i casi modificano, la proprietà e in questo modo viene predicata in modo esclusivo di quell’oggeo. Perciò la negazione di queste proprietà è una semplice finzione o ipotesi, faa allo scopo di escludere la considerazione di quelle circostanze modificanti quando la loro influenza sia di così scarsa entità e non valga la pena di prenderla in considerazione, oppure, nel caso e invece sia importante, allo scopo di rimandarne la considerazione a un momento più opportuno. Da queste considerazioni dovrebbe risultare iaramente e le scienze deduive o dimostrative sono tue, senza eccezione, scienze induive; e le prove sulle quali si fondano sono quelle fornite dall’esperienza; ma e sono ane, in virtù del caraere peculiare di una parte indispensabile delle formule generali in base alle quali si compiono induzioni, scienze ipotetie. Le loro conclusioni sono vere solo in base a certe supposizioni e sono, o dovrebbero essere, approssimazioni alla verità, ma e di rado, e forse addiriura mai, sono rigorosamente vere. E proprio a questo caraere ipotetico si deve aribuire la certezza tua particolare e dovrebbe inerire alla dimostrazione. Però quello e abbiamo asserito ora non può essere acceato come universalmente vero delle scienze deduive o dimostrative fin quando non lo si sia verificato applicandolo alla più notevole di tue queste scienze, quella del numero; cioè alla teoria del calcolo differenziale e integrale, all’aritmetica e all’algebra. Più e per ogni altra scienza, è difficile credere e le dorine di questa non sono verità a priori, ma verità sperimentali, o e la loro peculiare certezza è dovuta al fao e non sono verità assolute, ma solo condizionali. esto, perciò, è un caso e merita di essere esaminato a parte, tanto più e su quest’argomento dovremo polemizzare contro due gruppi di dorine: la teoria dei filosofi dell’a priori da un lato, e, dall’altro, una teoria diametralmente opposta, e un tempo era generalmente acceata, e e ancor oggi è ben lontana dall’aver perso completamente il proprio credito tra i metafisici. 2. esta teoria tenta di risolvere la difficoltà apparentemente contenuta nella questione rappresentando le proposizioni della scienza del numero come proposizioni meramente verbali, e i suoi processi come semplici trasformazioni linguistie, come sostituzioni di un’espressione all’altra.

Secondo questi autori la proposizione «Due più uno eguale a tre» non è una verità, non è l’asserzione di un fao realmente esistente, ma una definizione della parola «tre»; una diiarazione e l’umanità ha convenuto di usare la parola «tre» come un segno esaamente equivalente a «due più uno»: di iamare col primo nome quello e si iama con quell’altra frase più goffa — qualunque cosa esso sia. Secondo questa dorina, il più lungo dei processi dell’algebra non è altro e una successione di cambiamenti terminologici, mediante i quali si sostituiscono l’una all’altra espressioni equivalenti; una serie di traduzioni del medesimo fao da un linguaggio in un altro linguaggio. Come mai, però, dopo una tale serie di traduzioni, il fao in questione risulti mutato (come accade quando dimostriamo un nuovo teorema geometrico per mezzo dell’algebra) costoro non hanno spiegato: e questa difficoltà si rivela fatale alla loro teoria. Bisogna riconoscere e nei processi dell’aritmetica e dell’algebra ci sono peculiarità e rendono molto plausibile la teoria in questione, e e di queste scienze hanno fao, non innaturalmente, il caposaldo del nominalismo. La dorina e possiamo scoprire i fai, svelare i processi nascosti della natura mediante una manipolazione artificiosa del linguaggio è così contraria al senso comune e può crederci soltanto una persona e sia abbastanza avanti nello studio della filosofia: gli uomini si rifugiano in una credenza così paradossale allo scopo di evitare — così pensano — altre difficoltà ancora più grandi, e il volgo non vede. ello e ha indoo molti a credere e il ragionamento sia un puro e semplice processo verbale è il fao e nessun’altra teoria sembrava riconciliabile con la natura della scienza dei numeri. ando usiamo i simboli dell’aritmetica o dell’algebra, infai, la nostra mente è sgombra di idee. In una dimostrazione geometrica, invece, ane se non ci riferiamo a una figura disegnata sulla carta, la figura ce l’abbiamo nella mente: AB, AC, sono presenti alla nostra immaginazione come linee e ne intersecano altre, e raciudono un angolo, e così via, ma non così a e b. a e b possono rappresentar linee, o altre grandezze qualsiasi, ma a queste grandezze non si pensa mai: nulla ci si rappresenta nell’immaginazione, se non a e b. Durante ogni parte intermedia del processo si bandiscono dalla mente le idee, e in quell’occasione particolare si dà il caso siano rappresentate da a e b: durante ogni parte, cioè, e stia fra l’inizio del processo, quando le premesse vengono tradoe dalle cose ai segni, e la fine, quando la conclusione viene di nuovo tradoa dai segni alle cose. Poié, dunque, nella mente di i compie il ragionamento, non c’è

nulla all’infuori dei simboli, e cosa può sembrare più inammissibile del sostenere e il processo del ragionamento ha da fare con qualcosa di più? Sembra e qui siamo arrivati a una delle «istanze prerogative» di Bacone: a un experimentum crucis sulla natura del ragionamento stesso. Nondimeno, se consideriamo bene le cose, si vedrà e quest’istanza apparentemente così decisiva non è un’istanza affao: e in ogni passo di un calcolo aritmetico o algebrico c’è un’induzione reale, una reale inferenza di fai da fai, e e quello e c’impedisce di scorgere iaramente l’induzione è semplicemente la sua natura comprensiva, e la conseguente, estrema generalità del linguaggio. Tui i numeri devono essere numeri di qualcosa; non ci sono cose come i numeri in astrao. «Dieci» deve significare dieci corpi, dieci suoni, o dieci baiti del polso. Ma pur dovendo essere numeri di qualcosa, i numeri possono essere numeri di qualsiasi cosa. Pertanto, le proposizioni concernenti numeri hanno la notevole proprietà di essere proposizioni e concernono tue le cose qualsiasi; tui gli oggei, tue le esistenze di ogni specie, noti alla nostra esperienza. Tue le cose posseggono quantità, consistono di parti e possono essere numerate, e per questo loro caraere posseggono tue le proprietà e si iamano proprietà dei numeri. Che la metà di quaro sia due, dev’essere vero qualunque cosa la parola «quaro» rappresenti: quaro ore, quaro miglia o quaro libbre. Basta concepire una cosa divisa in quaro parti eguali (e tue le cose si possono concepire come divise in questo modo) per essere in grado di predicare di queste cose tue le proprietà del numero quaro, cioè, tue le proposizioni aritmetie in cui il numero quaro compare ad un membro dell’eguaglianza. L’algebra estende questa generalizzazione ancora più in là; ogni numero rappresenta quel particolare numero di tue le cose senza distinzione, ma ogni simbolo algebrico fa qualcosa di più: rappresenta tui i numeri, senza distinzione. Non appena concepiamo una cosa divisa in parti eguali, senza neppure sapere in qual numero di parti, possiamo iamarla a o x e applicarle, senza pericolo d’errore, ogni formula algebrica e si trovi nei libri. La proposizione: 2 (a + b) = 2a + 2b, è una verità e si estende fin dove si estende la natura. Dunque, poié le verità dell’algebra sono vere di tue le cose senza distinzione, e non, come quelle della geometria, solo di linee o solo di angoli, non c’è da meravigliarsi e i simboli non risveglino nella nostra mente nessun’idea, di nessuna cosa in particolare. ando dimostriamo la quarantaseesima proposizione di Euclide, non è necessario e le parole suscitino in noi un’immagine di tui i triangoli reangoli: basta

e ci suggeriscano l’idea di un solo triangolo reangolo; così in algebra non c’è bisogno e soo il simbolo a ci raffiguriamo tue le cose qualsiasi: è sufficiente e ce ne raffiguriamo una sola. E allora, peré non la leera stessa? I puri e semplici caraeri scrii, a, b, x, y, z, servono per rappresentare le cose in generale tanto quanto serve una qualsiasi concezione più complessa e apparentemente più concreta. Che però ne siamo consapevoli nel loro caraere di cose e non di segni puri e semplici è dimostrato dal fao e l’intiero processo del nostro ragionamento si compie senza e prediiamo, dei segni, le proprietà delle cose. Secondo quali regole procediamo quando risolviamo un’equazione algebrica? A ciascun passo appliiamo, ad a, b, x, la proposizione e aguali, aggiunti ad eguali, dànno luogo a eguali; e eguali, sorai da eguali, dànno luogo a eguali, e altre proposizioni fondate su queste due. este non sono proprietà del linguaggio o dei segni come tali, ma proprietà delle grandezze, il e equivale a dire: di tue le cose. Pertanto, le inferenze e si traggono successivamente sono inferenze e riguardano cose, non simboli, ane se, dal momenta e qualsiasi cosa serve alla bisogna, non è affao necessario tenere distinta l’idea della cosa. Di conseguenza si può lasciare senza pericolo e in questo caso il processo del pensiero diventi quello e se glielo si lascia fare diventa ogni processo di pensiero e venga ripetuto sovente: cioè interamente meccanico. indi il linguaggio generale dell’algebra finisce coll’essere usato familiarmente, senza suscitare idee, come in forza della pura e semplice abitudine hanno la tendenza a fare tui gli altri linguaggi: solo e in nessun altro caso questo si può fare con completa sicurezza. Ma quando ci rivolgiamo indietro, e ceriamo di vedere donde sia derivata la forza probante del processo, ci accorgiamo e il caraere di prova verrebbe meno in ogni singolo passo del processo, a meno e noi stessi non supponiamo di pensare o di parlare di cose e non di simboli puri e semplici. C’è un’altra circostanza e, ancor più di quella e abbiamo appena menzionato, conferisce plausibilità all’idea e le proposizioni dell’aritmetica e dell’algebra siano puramente verbali. E la circostanza è questa: e quando le consideriamo come proposizioni riguardanti cose, hanno tue l’apparenza di proposizioni identie. L’asserzione: «Due più uno è eguale a tre», considerata come un’asserzione riguardante oggei (come, ad esempio, «Due sassolini più un sassolino sono eguali a tre sassolini») non afferma l’eguaglianza tra due collezioni di sassolini, ma la loro identità assoluta.

Afferma e se aggiungiamo un sassolino a due sassolini, questi stessi sassolini sono tre. Perciò, siccome gli oggei sono esaamente gli stessi e la pura e semplice asserzione e «gli oggei sono se stessi» è insignificante, sembra più e naturale ritenere e la proposizione «Due più uno è uguale a tre» asserisca la pura e semplice identità di significazione tra i due nomi. Tuo ciò sembra molto plausibile, eppure non regge a un esame accurato. L’espressione «Due sassolini più un sassolino» e l’espressione «tre sassolini» stanno, è vero, per il medesimo aggregato di oggei, ma non stanno assolutamente per il medesimo fao fisico. Sono i nomi dei medesimi oggei, ma dei medesimi oggei in due stati differenti: denotano le stesse cose, ma la loro connotazione è differente. Tre sassolini in due gruppi separati, e tre sassolini in un solo gruppo non fanno la medesima impressione sui nostri sensi, e l’asserzione e alterandone la posizione e l’ordine si può far sì e gli stessi sassolini producano sui nostri sensi l’uno o l’altro insieme di impressioni, pur essendo una proposizione molto familiare, non è una proposizione identica. È una verità e ci è nota per antica e costante esperienza, una verità induiva; e proprio queste verità sono il fondamento della scienza del numero. Tue le verità fondamentali di questa scienza riposano sulle prove forniteci dai sensi: si provano mostrando ai nostri oci e alle nostre dita e separando e dando una nuova disposizione a un qualsiasi numero dato di oggei, per esempio a dieci palle, si possono esibire ai nostri sensi tui i differenti insiemi di numeri la cui somma è eguale a dieci. Tui i metodi più perfezionati per insegnare l’aritmetica ai bambini si basano sulla conoscenza di questo fao. Oggi tui coloro e desiderano e la mente del bambino li segua nell’apprendimento dell’aritmetica, tui coloro e vogliono insegnare i numeri e non le pure e semplici cifre, li insegnano nel modo e abbiamo descrio, facendo leva sulle prove fornite dai sensi. Se proprio vogliamo, possiamo dire e la proposizione «Tre è due più uno» è una definizione del numero tre e asserire, come si è asserito della geometria, e l’aritmetica è una scienza fondata su definizioni. Ma sono definizioni nel senso geometrico, non in quello logico: non si limitano ad asserire il significato di un termine, ma, insieme con questo, asseriscono un dato di fao e si è osservato. La proposizione: «Un cerio è una figura limitata da una linea tui i punti della quale sono equidistanti da un punto situato al suo interno» si iama definizione di cerio; ma la proposizione, da cui seguono tante conseguenze e e è davvero un primo principio della

geometria, è la proposizione e esistono figure rispondenti a questa descrizione. E così possiamo dire e «Tre è due e uno» è una definizione di tre: ma i calcoli e dipendono da questa proposizione non seguono dalla definizione stessa, ma da un teorema aritmetico presupposto in essa: dal teorema, cioè, e esistono collezioni d’oggei e mentre suscitano nei nostri sensi l’impressione ⁰ₒ⁰, possono essere separate in due parti, così: ₒₒ ₒ. Ammessa questa proposizione, iamiamo «tre» tui questi gruppi, dopo di e l’enunciazione del fao fisico sopra menzionato servirà ane come definizione della parola «tre». La scienza del numero, dunque, non fa per nulla eccezione alla conclusione a cui siamo arrivati nei capitoli precedenti: e ane i processi delle scienze deduive sono completamente induivi e e i loro primi princìpi sono generalizzazioni dall’esperienza. Resta da prendere in esame se questa scienza somigli alla geometria soo l’altro aspeo: e alcune delle sue induzioni non sono vere esaamente e e la peculiare certezza e si aribuisce alla geometria, e tenendo conto della quale le sue proposizioni si iamano verità necessarie, è fiizia e ipotetica ed è vera soltanto nel senso e queste proposizioni seguono legiimamente dall’ipotesi e siano vere certe premesse e invece sono, diiaratamente, pure e semplici approssimazioni alla verità. 3. Le induzioni dell’aritmetica sono di due tipi: primo, quelle e abbiamo appena esposto, come «Uno e uno sono due», «Due e uno sono tre», ecc., e si possono iamare definizioni dei vari numeri nel senso improprio, o geometrico, della parola «definizione»; secondo: i due assiomi seguenti: «Le somme di cose eguali sono eguali», «Le differenze di cose eguali sono eguali». esti due assiomi sono sufficienti; infai le proposizioni corrispondenti, riguardanti cose ineguali, si possono provare a partire da queste mediante una reductio ad absurdum. Come già s’è deo, questi assiomi, e così pure le cosiddee definizioni, sono risultati di induzione; veri di tui gli oggei in generale, e — così può sembrare — rigorosamente veri senza assunzioni ipotetie di verità sic et simpliciter, in quei casi in cui tuo ciò di cui possiamo disporre è l’approssimazione alla verità. Sarà perciò naturale inferire e le conclusioni sono rigorosamente vere e e la scienza del numero fa eccezione alle altre scienze dimostrative in questo: e la certezza categorica e si può predicare delle sue dimostrazioni è indipendente da tue le ipotesi.

Ma se si esaminano le cose più accuratamente, si troverà e ane in questo caso nel ragionamento deduivo c’è un elemento ipotetico. In tue le proposizioni concernenti numeri è implicita una condizione senza la quale nessuna di tali proposizioni sarebbe vera, e questa condizione è un’assunzione e può ane essere falsa. La condizione è e 1 = 1; e tui i numeri sono numeri della medesima unità o di unità eguali. Supponiamo e ciò sia dubbio, e nessuna delle proposizioni dell’aritmetica rimarrà vera. Come facciamo a sapere e una libbra e una libbra fanno due libbre, se una libbra può essere di 5760 grani, come il troy, mentre l’altra può esere di 7000 grani, come l’avoirdupois1? Potrebbe darsi e non facessero due libbre, né di troy né di avoirdupois né di qualsiasi altro sistema ponderale. Come possiamo sapere e una potenza di quaranta cavalli-vapore è sempre eguale a se stessa, a meno e non assumiamo e tui i cavalli-vapore sono di eguale forza? È certo e, numericamente, 1 è sempre eguale a 1; e nel caso in cui tuo quello e importa è il puro e semplice numero degli oggei, o delle parti degli oggei — e non c’è bisogno di supporre e gli oggei siano equivalenti per qualsiasi altro aspeo — allora nella misura in cui riguardano solo gli aspei numerici, le conclusioni dell’aritmetica sono vere, senza commistione di ipotesi. Si incontrano alcuni casi del genere in statistica: per esempio in un’indagine sul numero della popolazione di un paese. Ai fini di quest’indagine è indifferente e gli abitanti siano adulti o bambini, forti o deboli, alti o piccoli: l’unica cosa e vogliamo accertare è il loro numero. Ma ogni volta e dall’eguaglianza o dall’ineguaglianza numerica si deve inferire eguaglianza o ineguaglianza soo qualsiasi altro aspeo, l’aritmetica, trapiantata in queste indagini, diventa una scienza ipotetica come la geometria. Si deve assumere e, da quell’altro punto di vista, tue le unità siano eguali, e questo non è mai esaamente vero, peré una libbra reale non è esaamente eguale a un’altra, e un miglio di lunghezza, effeivamente misurato, non è esaamente eguale a un altro. Una bilancia più precisa, o strumenti di misura più accurati, scoprirebbero sempre quale differenza. Perciò, quella e viene comunemente iamata certezza matematica, e e comprende la duplice concezione di verità incondizionata e di accuratezza perfea, non è un aributo di tue le verità matematie, ma solo di quelle e si riferiscono al numero puro, in quanto distinto dalla quantità nel senso più largo, e solo nella misura in cui ci si astenga dal supporre e i numeri sono un indice preciso delle quantità effeivamente

esistenti. La certezza e di solito si aribuisce alle conclusioni della geometria, e perfino a quelle della meccanica, non è altro e la certezza dell’inferenza. Possiamo essere pienamente sicuri di certi risultati particolari, oenuti soo assunzioni particolari, ma non possiamo essere altreanto sicuri e queste assunzioni siano vere esaamente, e neppure e comprendano tui i dati e possono esercitare una quale influenza sul risultato, in un qualsiasi caso dato. 4. È perciò iaro e il metodo di tue le scienze deduive è ipotetico. Tali scienze procedono rintracciando le conseguenze di certe assunzioni, tralasciando, per esaminarla eventualmente a parte, la considerazione se le assunzioni siano vere o no, e, in caso e non siano esaamente vere, se costituiscano un’approssimazione sufficientemente strea alla verità. La ragione è ovvia. Poié le assunzioni sono esaamente vere solo nelle questioni riguardanti i numeri puri (e ane in questo caso solo nella misura in cui su di esse non si devono fondare altre conclusioni e non siano quelle puramente numerie) in tui gli altri casi di ricerca deduiva una parte dell’indagine dev’essere volta a determinare quanto mani alle assunzioni per essere esaamente vere nel caso e si ha per le mani. In genere questa è una faccenda d’osservazione, e l’osservazione dev’essere ripetuta a ogni nuovo caso: o, se la questione dev’essere risolta ricorrendo al ragionamento invece e all’osservazione, può darsi e per ogni caso differente si riiedano prove differenti, e e ogni caso differente presenti difficoltà, di ogni grado, dal più basso al più alto. Ma l’altra parte del processo — quella parte cioè e consiste nel determinare e cos’altro si può concludere se si trova, e nella misura in cui si trova, e l’assunzione è vera — può essere portata a termine una volta per tue e i suoi risultati si possono tenere pronti, per impiegarli quando se ne presenti l’occasione. così facciamo in anticipo tuo quello e possiamo fare nel modo e s’è deo, e lasciamo incompiuta la minor quantità possibile di lavoro, per compierla quando sorgono questioni e esigono una decisione urgente. est’indagine sulle inferenze e si possono trarre dalle assunzioni è quello e costituisce propriamente la scienza dimostrativa. Naturalmente, è perfeamente possibile arrivare a nuove conclusioni tanto partendo da fai e si sono assunti quanto partendo da fai e si sono osservati: tanto partendo da induzione fiizie quanto partendo da induzioni reali. Come abbiamo visto, la deduzione consiste di una serie di

inferenze di questa forma: a è segno di b, b di c, c di d, perciò a è segno di d: verità, quest’ultima, e può darsi sia inaccessible all’osservazione direa. In maniera analoga è permesso dire: supponiamo e a sia segno di b, b di, e c di d; allora a dovrebbe essere un segno di d: conclusione, questa, a cui quelli e formularono le premesse non avevano pensato. Può darsi e un sistema di proposizioni complicato come la geometria si possa dedurre da assunzioni false: così fecero Tolomeo, Descartes e altri, quando tentarono di spiegare sinteticamente i fenomeni del sistema solare basandosi sul presupposto e i moti apparenti dei corpi celesti sono i moti veri e propri, o si originano in quale modo più o meno differente da quello vero. Talvolta si fa deliberatamente lo stesso allo scopo di mostrare la falsità dell’assunzione, e questa si iama reductio ad absurdum. In questi casi il ragionamento procede nel modo seguente: a è segno di b e b di c; ora, se c fosse ane un segno di d, a sarebbe un segno di d; ma sappiamo e d è un segno dell’assenza di a; di conseguenza a dovrebbe essere un segno della propria assenza, e questa è una contraddizione; perciò c non è un contrassegno di d. 5. Alcuni autori hanno perfino sostenuto e tui i ragionamenti deduivi riposano, in ultima analisi, su una reductio ad absurdum: infai, in caso di oscurità, l’unico modo per rafforzare l’assenso e gli diamo sarebbe quello di mostrare e se negassimo la conclusione dovremmo negare almeno qualcuna delle premesse e questa, dal momento e si è presupposto e tue le premesse siano vere, è una contraddizione. D’accordo con questo punto di vista molti hanno pensato e la natura tua particolare delle prove in favore del ragionamento deduivo consista nel fao e è impossibile ammeere le premesse rifiutando le conclusioni, senza cadere in una contraddizione in termini. Però, come spiegazione delle basi su cui riposa lo stesso ragionamento deduivo, questa teoria è inammissibile. Chiunque neghi la conclusione pur avendo ammesso le premesse, non è coinvolto in nessuna contraddizione direa ed esplicita fin quando non sia costreo a negare quale premessa; e può essere costreo a farlo solo da una reduction ad absurdum, cioè da un altro ragionamento deduivo; ora, se costui nega la validità dello stesso processo di ragionamento, non può essere costreo ad assentire al secondo sillogismo più di quanto non possa essere costreo ad assentire al primo. In verità, perciò, nessuno può essere costreo in una contraddizione in termini: può solo essere costreo in una contraddizione

con la (o meglio, a una trasgressione della) massima fondamentale della deduzione: cioè e tuo ciò e ha un segno, ha ciò di cui è segno; o (nel caso delle proposizioni universali) e tuo ciò e è segno di qualcosa è segno di tuo ciò di cui quella cosa è segno. Infai, nel caso di ogni ragionamento correo e sia stato riversato nella forma del sillogismo, è evidente senza l’aiuto di altri sillogismi e i non riesce a trarre la conclusione pur ammeendo le premesse, non si conforma all’assioma citato qui sopra. Siamo ora arrivati, nella teoria della deduzione, fin dove potevamo arrivare allo stato auale della nostra indagine. Ogni ulteriore tentativo di penetrare nell’argomento esige e si siano geate le fondamenta della teoria filosofica dell’induzione: in questa teoria, la teoria della deduzione in quanto modo dell’induzione (e abbiamo fao vedere e proprio questo è la deduzione) assumerà spontaneamente il posto e le spea, e riceverà la sua parte di tua la luce e si può geare sulla grande operazione intelleuale di cui forma una parte così importante. 1. Avoirdupois (dal francese «avoir du poids») e Troy (dal nome della cià francese di Troyes) sono due sistemi di misure di peso usati nei paesi anglosassoni. Nel sistema avoirdupois, e è il più largamente usato, la libbra, di Kg. 0,4539, è divisa in 16 once di 28,349 grammi ciascuna. Nel sistema Troy, e è usato soprauo in oreficeria e in farmacia, la libbra è di 0,373 ilogrammi ed è divisa in 12 once di 31,103 grammi ciascuna.

CAPITOLO VII. ESAME DI ALCUNE OPINIONI OPPOSTE ALLE DOTTRINE PRECEDENTI I.

La polemica è estranea agli intenti di questo lavoro. Spesso, però, una dorina e riiede molte illustrazioni può riceverle, nel modo più efficace e meno tedioso, soo forma di difesa contro le obiezioni e le sono state mosse. ando poi si traa di argomenti sui quali le opinioni degli intellei dediti alla speculazione sono ancora divise, un autore e si limiti a enunciare la propria dorina senza esaminare ane quelle degli altri pensatori tentando di giudicarle meglio e può, fa il proprio dovere solo per metà. Nella dissertazione e ha premesso al suo traato sulla mente — traato dotato, per molti aspei, di alto valore filosoficoa — il signor Herbert Spencer critica alcune dorine esposte nei due capitoli precedenti e propone una dorina originale a proposito dei primi princìpi. Il signor Spencer è d’accordo con me nel ritenere e gli assiomi «non siano altro e le nostre più antie induzioni trae dall’esperienza», ma si discosta «largamente» da me «per quanto riguarda il valore del criterio dell’inconcepibilità». Spencer ritiene e tale criterio sia la pietra di paragone definitiva di tue le credenze. Arriva a questa conclusione araverso due passi. In primo luogo, per credere in una qualsiasi cosa, non potremo mai avere nessuna ragione più forte del fao e la credenza nella cosa «esiste ed è invariable». Ogni volta e si crede invariabilmente in un qualsiasi fao o in una qualsiasi proposizione — ciè, se capisco bene il signor Spencer ogni qual volta sono creduti da tui e da noi stessi, sempre — il fao o la proposizione hanno tui i titoli per essere acceati fra le verità primitive, o premesse originarie, della nostra conoscenza. In secondo luogo, il criterio in base al quale decidiamo se una qualsiasi cosa è invariabilmente creduta vera, è la nostra incapacità di pensare e sia falsa. «Il criterio mediante il quale accertiamo se una data credenza esista invariabilmente o no è l’inconcepibilità della sua negazione». «Infai l’unica ragione e si può dare per le nostre credenze primarie è il fao dell’esistenza invariable, aestato dal fallimento degli sforzi per causare la loro non-esistenza». Spencer pensa e questo sia il solo fondamento della nostra credenza nelle nostre stesse sensazioni. Se credo di

sentir freddo, acceo questa sensazione come vera solo peré non posso concepire di non star sentendo freddo. «Mentre la proposizione rimane vera, la sua negazione rimane inconcepibile». Ci sono numerose altre credenze e, secondo il signor Spencer, riposano sulla medesima base: tali credenze sono per lo più quelle — o una di quelle — e i metafisici della scuola di Reid e di Stewart considerano come verità e sono oggeo di intuizione immediata. Che esista un mondo materiale; e questo mondo sia lo stesso e percepiamo direamente e immediatamente, e non sia semplicemente la causa occulta delle nostre percezioni; e spazio, tempo, forza, estensione, figura, non siano modi della nostra coscienza, ma realtà oggeive, tue queste sono verità e secondo il signor Spencer conosciamo per il fao e le loro negazioni sono inconcepibili. Non c’è sforzo, egli dice, e possa farci concepire questi oggei del pensiero come puri e semplici stati della nostra mente, come privi di un’esistenza esterna a noi. Perciò la loro esistenza reale è tanto certa quanto le nostre stesse sensazioni. Infai, secondo questa dorina, le verità e costituiscono l’oggeo di conoscenza direa sono note come verità solo peré la loro negazione è inconcepibile, mentre quelle verità e non sono oggeo di conoscenza direa sono note in quanto inferenze da quelle e lo sono; e si crede e queste inferenze seguano dalle premesse solo peré non possiamo concepire e non seguano: l’inconcepibilità è dunque il fondamento ultimo di tue le credenze certe. Fin qui non c’è una differenza molto grande fra la dorina del signor Spencer e la dorina ordinaria dei filosofi della scuola intuizionistica, da Descartes al do. Whewell; ma a questo punto il signor Spencer se ne distacca. Al contrario dei suoi predecessori, infai, il signor Spencer non vanta l’infallibilità del criterio dell’inconcepibilità. Anzi, sostiene e può essere fallace, non per quale difeo del criterio in se stesso, ma peré «gliuomini hanno erroneamente scambiato per inconcepibili cose e inconcepibili non erano». E proprio in questo libro egli stesso nega non poe proposizioni e vengono di solito considerate tra gli esempi più notevoli di verità le cui negazioni sono inconcepibili. Ma, dice, la possibilità di incorrere, di tanto in tanto, in un fallimento è un pericolo e incombe su tui i criteri. Se è vero e tale fallimento vizia «il criterio dell’inconcepibilità», è altreanto vero e «deve viziare, in maniera analoga, tui i criteri, di qualsiasi genere. Consideriamo vera un’inferenza traa logicamente da premesse la cui verità è ritenuta indubbia. Tuavia, in milioni di casi, gli uomini si sbagliavano a proposito delle inferenze e

pensavano di aver trao in questo modo. Concluderemo dunque e è assurdo considerare vera un’inferenza per la sola ragione e essa è stata traa logicamente da premesse la cui verità e ritenuta indubbia? No: ane se può darsi e gli uomini abbiano scambiato per inferenze logie inferenze e logie non erano, diciamo e esistono nondimeno inferenze logie, e e siamo giustificati ad assumere la verità di quello e ci sembra tale, fino a e non ne sappiamo qualcosa di più. Analogamente, può darsi e gli uomini abbiano ritenuto inconcepibili cose e non lo erano, ma ciò nonostante possono ancora esistere cose inconcepibili; e forse può darsi e l’incapacità di concepire la negazione di una cosa sia ancora la migliore garanzia a nostra disposizione per credere in quella cosa… Ane se, di tanto in tanto, questo criterio può rivelarsi imperfeo, tuavia, dal momento e le nostre credenze più certe non possono essere sooposte a una prova migliore, il dubitare di ogni credenza peré non abbiamo nessuna garanzia superiore significa, in realtà, dubitare di tue le credenze». La dorina del signor Spencer, perciò, non erige a leggi dell’universo esterno le limitazioni curabili della facoltà di concepire dell’uomo; vi erige solo quelle incurabili. 2. Il signor Spencer porta due argomentazioni a sostegno della dorina secondo cui «una credenza, la cui esistenza invariabile è provata dall’inconcepibilità della sua negazione, è vera». La prima di queste argomentazioni può essere caraerizzata come positiva, la seconda come negativa. L’argomentazione positiva è e ogni credenza di questo genere rappresenta l’aggregato di tua l’esperienza passata. «Ammeendo la completa verità» della «posizione secondo cui durante una qualsiasi fase del progresso umano la capacità o l’incapacità di formare una concezione specifica dipendono interamente dalle esperienze e gli uomini hanno avuto; e secondo cui, grazie a un allargamento delle loro esperienze, gli uomini possono diventare gradatamente capaci di concepire cose e prima erano per loro inconcepibili, è ancora possibile arguire e siccome la migliore garanzia e gli uomini possano avere per una credenza è sempre la perfea concordanza di tua l’esperienza preesistente a sostegno della credenza, ne segue e l’inconcepibilità della negazione della credenza è in ogni momento il criterio più profondo e una qualsiasi credenza ammea… I fai oggeivi si imprimono continuamente in noi; la nostra esperienza è un registro di questi fai oggeivi, e l’inconcepibilità di una cosa implica e

essa è in completo disaccordo col registro. Ane se questo fosse tuo, non si riesce a veder bene come, se ogni verità è prima di tuo induiva, possa esistere quale migliore criterio di verità. Ma non si deve dimenticare e mentre molti di questi fai e si imprimono in noi sono occasionali, altri ancora sono molto generali, e alcuni sono invece universali e immutabili. È certo, per ipotesi, e questi fai universali e immutabili fondano credenze le cui negazioni sono inconcepibili, mentre non è certo e ciò accada con gli altri fai; e se accade, fai successivi capovolgeranno il loro effeo. Per cui, se dopo un’immensa accumulazione di esperienze rimangono credenze la cui negazione è ancora inconcepibile, la maggior parte di queste credenze (se non tue) devono corrispondere a fai universali e oggeivi. Se esistono… in natura certe uniformità assolute, se queste uniformità producono — e devono produrle — uniformità assolute nella nostra esperienza e se… queste uniformità assolute nella nostra esperienza ci rendono incapaci di concepire la loro negazione, allora, in corrispondenza a ciascuna uniformità della natura, e possiamo riconoscere, deve esistere in noi una credenza la cui negazione è inconcepibile, e e è assolutamente vera. In questo largo orizzonte di casi, l’inconcepibilità soggeiva deve corrispondere all’impossibilità oggeiva. Le esperienze ulteriori produrranno corrispondenza dove può darsi e non ce ne sia ancora, e possiamo aspearci e la corrispondenza diventi, alla fin fine, completa. In quasi tui i casi, questo criterio dell’inconcepbilità dev’essere valido ora» (vorrei tanto poter pensare e siamo arrivati Così vicini all’onniscienza!), «e, ane dove non lo è, esprime tuavia il risultato neo della nostra esperienza fino ad oggi, e questo è il massimo e un criterio possa fare». A tuo questo rispondo: primo, e non è affao vero e l’inconcepibilità da parte nostra della negazione di una proposizione provi e tua, o ane solo una parte della nostra «esperienza preesistente» milita in favore della proposizione affermativa. Può darsi e tali esperienze preesistenti non siano mai esistite, ma sia esistita soltanto quella e si riteneva erroneamente un’esperienza. Come poteva l’inconcepibilità degli antipedi provare e l’esperienza avrebbe fornito una quale prova contraria della loro possibilità? Come poteva l’incapacità, sentita dagli uomini, di concepire il tramonto altrimenti e come un moto del Sole, rappresentare un quale «risultato neo» dell’esperienza in favore del fao e è il Sole, e non la Terra, a muoversi? ello e è rappresentato non è l’esperienza, ma soltanto una parvenza superficial di esperienza. La sola cosa provata

riguardo all’esperienza reale è il fao negativo e gli uomini non hanno avuto un’esperienza di specie tale da rendere concepibile la proposizione inconcepibile. In secondo luogo, se ane fosse vero e l’inconcepibilità rappresenta il risultato neo di tua l’esperienza passata, peré dovremmo arrestarci al rappresentante, quando possiamo aingere alla cosa rappresentata? Se la nostra incapacità di concepire la negazione di una data supposizione è la prova della sua verità, peré prova e fino ad oggi l’esperienza le è stata uniformemente favorevole, la prova reale su cui si fonda la supposizione non è l’inconeepibilità, ma l’uniformità dell’esperienza. Ora, questa prova, e è l’unica prova ed è ane la prova veramente importante, è direamente accessibile. Non siamo obbligati a presumerla partendo da una conseguenza accidentale. Se tua l’esperienza passata parla a favore di una credenza, diciamolo iaro e tondo, e facciamo apertamente riposare la nostra credenza sopra questo fondamento; solo dopo sorge la questione: quanto può valere quel fao come prova della sua verità? Infai l’uniformità dell’esperienza è una prova e ha gradi molti differenti: in alcuni casi è forte, in altri debole, in altri non è quasi una prova affao. Che tui i metalli affondino nell’acqua era un’esperienza uniforme dall’origine della razza umana fino al giorno in cui, nel nostro secolo, Sir Humphry Davy1 scoprì il potassio. Che tui i cigni sono biani era un’esperienza uniforme fino al giorno in cui si scoprì l’Australia. In quei poi casi in cui l’uniformità dell’esperienza equivale alla prova più forte e si possa trovare — come nel caso di proposizioni quali «Due linee ree non possono delimitare una porzione iusa di spazio», «Ogni evento ha una causa» — ciò accade, non peré la negazione di queste proposizioni sia inconcepibile — il e non è sempre vero — ma peré l’esperienza, e è stata Così uniforme, pervade tua la natura. Nel Libro seguente si mostrerà e nessuna delle conclusioni dell’induzione o della deduzione può essere considerata certa, se non nella misura in cui si mostra e la verità di tali conclusioni è legata inseparabilmente con le verità e appartengono a questa classe. Io sostengo, dunque, in primo luogo, e l’uniformità dell’esperienza passata è ben lontana dall’essere un criterio universale di verità. Ma in secondo luogo sostengo e l’inconcepibilità è ancor più lontana dall’essere un criterio perfino di quel criterio. L’uniformità dell’esperienza contraria è solo una delle molte cause dell’inconcepibilità. Una delle cause più comuni è la tradizione trasmessaci da un periodo in cui la conoscenza era più limitata

e nell’auale. Spesso la pura e semplice familiarità con uno solo dei modi in cui un certo fenomeno si è prodoo è sufficiente a farci apparire inconcepibili tui gli altri modi in cui il fenomeno potrebbe prodursi. Tuo ciò e connee due idee mediante una forte associazione può rendere — e continuamente rende — impossible la loro separazione nel pensiero, come del resto lo stesso signor Spencer riconosce più volte in altre parti delle sue speculazioni. Non per mancanza di esperienza i Cartesiani non erano in grado di concepire e un corpo potesse produrre il movimento in un altro senza venire in contao con esso. Avevano tanta esperienza di altri modi di produrre il movimento quanta ne avevano di quel modo. Durante la loro vita avevano visto a tue le ore i pianeti compiere le loro orbite e corpi pesanti cadere, eppure fantasticavano e questi fenomeni erano prodoi da un macinario occulto, e non vedevano, peré, senza quel macinario, non erano capaci di concepire quello e invece vedevano. L’inconcepibilità, invece di rappresentare la loro esperienza, la dominava e la sopraffaceva. È inutile insistere più a lungo su quella e ho iamato l’argomentazione positiva e il signor Spencer porta a sostegno del suo criterio di verità. Passo alla sua argomentazione negativa, alla quale egli aribuisce tanta importanza. 3. L’argomentazione negativa consiste in questo: sia e l’inconcepibilità costituisca una buona prova, sia e costituisca una prova caiva, non è possibile oenere prove più forti. Che quello e è inconcepibile non può essere vero, è postulato in ogni ao del pensiero. È il fondamento di tue le nostre premesse originarie. Di più: è assunto in tue le conclusioni e si traggono da queste premesse. L’invariabilità della credenza, messa alla prova dall’inconcepibilità della sua negazione, «è la nostra sola garanzia di ogni dimostrazione. La logica non è nient’altro e una sistematizzazione del processo mediante il quale oeniamo indireamente questa garanzia per credenze e non la posseggano direamente. Per oenere la più forte convinzione possibile a proposito di un qualsiasi fao complesso o discendiamo analiticamente per passi successivi (ciascuno dei quali meiamo inconsciamente alla prova in base all’inconcepibilità della sua negazione) finé non perveniamo a quale assioma o a quale verità e abbiamo messo alla prova in modo simile, oppure risaliamo sinteticamente da quest’assioma, o da questa verità, al fao, compiendo passi simili. In entrambi i casi conneiamo quale credenza isolata con una credenza e

esiste invariabilmente, mediante una serie di credenze intermedie e esistono invariabilmente». Il passo seguente riassume l’intiera teoria: «ando ci rendiamo conto e la negazione della credenza è inconcepibile, abbiamo tue le garanzie possibili per asserire l’invariabilità della sua esistenza; e nell’asserire ciò esprimiamo egualmente la nostra giustificazione logica della credenza, e la necessità inesorabile, soo cui ci troviamo, di ritenerla vera… Abbiamo visto e questa è l’assunzione su cui riposano, in ultima analisi, tue le nostre conclusioni. Nessun’altra garanzia abbiamo per la realtà della coscienza, delle sensazioni, dell’esistenza personale; non abbiamo nessun’altra garanzia per qualsiasi assioma; non abbiamo nessun’altra garanzia in favore di un qualsiasi passo di una dimostrazione. esto postulato, in quanto è dato come scontato in ogni ao dell’intelleo, dev’essere considerato come il Postulato Universale». Ma siccome questo postulato, e «ci troviamo soo l’inesorabile necessità» di ritenere vero, quale volta è falso; siccome «credenze di cui una volta, in base all’inconcepibilità della loro negazione, si era dimostrata l’esistenza invariabile, sono poi state trovate false», e siccome «le credenze e oggi posseggono questo caraere potranno forse un giorno condividere lo stesso destino», il canone della credenza enunciato dal signor Spencer suona Così: «La conclusione più certa» è quella e «implica il postulato il minor numero di volte». Perciò il ragionamento non dovrebbe mai spuntarla contro una delle credenze immediate (la credenza nella materia, nella realtà esterna dell’estensione, dello spazio, e simili), peré ciascuna di queste credenze implica il postulato soltanto una volta, mentre un ragionamento, oltre ad implicarlo nelle premesse, lo implica di nuovo in ogni passo della deduzione, dal momenta e nessuno degli ai successivi di inferenza può essere riconosciuto valido se non peré non possiamo concepire e la conclusione non segua dalle premesse. Converrà prendere in considerazione per prima l’ultima parte di quest’argomentazione. Secondo il signor Spencer l’assunzione del postulato viene rinnovata ad ogni passo di ogni argo mentazione. A ciascuna inferenza giudiiamo e la conclusione segue dalle premesse, e la sola garanzia in nostro possesso della validità di questo giudizio, è e non possiamo concepire e la ccnseguenza non segua dalle premesse. indi, se il postulato è fallibile, le conclusioni del ragionamento sono viziate da quest’incertezza più di quanto non lo siano le intuizioni diree, e la

sproporzione è tanto più grande quanto più numerosi sono i passi dell’argomentazione. Per meere alla prova questa dorina supponiamo, in primo luogo, un’argomentazione e consista soltanto di un singolo passo, e sarà rappresentato da un solo sillogismo. est’argomentazione riposa davvero su un’assunzione, ma abbiamo visto nei capitoli precedenti quale essa sia: tuo ciò e ha un segno, ha ciò di cui è segno. Per il momento non prenderò in considerazione le prove in favore di quest’assiomab; supponiamo (con il signor Spencer) e tali prove siano costituite dall’inconcepibilità del suo contrario. Aggiungiamo ora un secondo passo all’argomentazione: abbiamo bisogno — di e cosa? Di un’altra assunzione? No, della stessa assunzione una seconda volta, e Così via, una terza e una quarta volta. Confesso e non riesco a vedere — proprio sulla base del principio del signor Spencer — come la ripetizione dell’assunzione possa in quale modo indebolire la forza dell’argomentazione. Se la seconda volta fosse necessario assumere quale altro assioma, il ragionamento risulterebbe senza dubbio indebolito: infai, mentre alla sua validità sarebbe necessario e entrambi gli assiomi siano veri, potrebbe darsi e uno sia vero e l’altro non lo sia — e questo lascerebbe aperte due possibilità di errore invece di una sola. Ma siccome è il medesimo assioma, se è vero una volta è vero per sempre; e se l’argomentazione consistesse di cento passi e dovesse perciò assumere l’assioma cento volte, queste cento assunzioni, fra tue, non lascerebbero aperta e una sola possibilità d’errore. Grazie al cielo non siamo obbligati a supporre e tra i processi argomentativi più incerti ci siano ane le deduzioni della matematica — e stando alla teoria del signor Spencer non dovrebbero mancare di esserci, dal momento e sono le più lunghe. Ma il numero dei passi di un ragionamento nulla toglie alla sua aendibilità, purè strada facendo non si assumano premesse nuove, di caraere incertoc. Parleremo ora delle premesse. Secondo l’opinione del signor Spencer, il nostro convincimento della loro verità — siano esse generalità, siano fai individuali — è fondato sull’impossibilità di concepirne la falsità. È necessario fare riferimento a un duplice significato della parola «inconcepibile», di cui il signor Spencer è consapevole e sul quale in tua sincerità non ammeerebbe mai di fondare un ragionamento, ma dal quale tuavia la sua causa trae un vantaggio non indifferente. Per

«inconcepibilità» si intende talvolta l’incapacità di formarci un’idea o di sbarazzarcene; quale altra volta l’incapacità di formare una credenza, o di sbarazzarcene. Il primo significato è quello e maggiormente si conforma all’analogià del linguaggio: infai «una concezione» significa sempre un’idea, mai una credenza. Comunque, nelle discussioni filosofie il significato errato di «inconcepibile» è tanto frequente quanto il significato correo, e difficilmente i metafisici della scuola intuizionistica potrebbero fare a meno dell’uno o dell’altro. Per illustrare la dififerenza, prenderemo due esempi contrapposti. Coloro e per primi si dedicarono alla speculazione sulla natura consideravano gli antipodi incredibili, peré inconcepibili. Ma gli antipodi non erano inconcepibili, nel senso primitivo della parola. Un’idea degli antipodi si poteva formare senza difficoltà: gli antipodi si potevano perfeamente raffigurare all’ocio della mente. Ciò e era difficile, e (così allora sembrava) impossibile, era il ritenerli credibili. Si poteva bensì meere insieme l’idea di uomini aaccati per i piedi alla faccia inferiore della Terra; ma all’idea seguiva la credenza e questi uomini sarebbero necessariamente caduti. Gli antipcdi non erano inimmaginabili: erano incredibili. D’altra parte, quando mi sforzo di concepire la fine di un’estensione, le due idee rifiutano di meersi insieme. ando tento di formare una concezione dell’ultimo punto dello spazio non posso fare a meno di raffigurarmi un vasto spazio e si estende oltre quest’ultimo punto. Nelle condizioni in cui si trova la nostra esperienza, la combinazione delle due idee è inimmaginabile. È molto importante tenere a mente questo duplice significato di «inconcepibile», peré un ragionamento e parta dall’inconcepibilità finisce quasi sempre col sostituire alternativamente ciascuno di questi significati all’altro. In quale di questi due sensi il signor Spencer impiega il termine quando individua il criterio della verità di una proposizione nell’inconcepibilità del suo contrario? Dal modo in cui procede la sua argomentazione, avevo concluso e fin quando egli stesso non avesse asserito esplicitamente il contrario si dovesse intendere «inconcepibile» nel senso di «incredibile». Ma in un articolo comparso sul quinto numero della «Fortnightly Review» il signor Spencer ha ripudiato questo significato, e ha diiarato e con «proposizione inconcepibile» intende ora e intenderà sempre «una proposizione i cui termini non possono, a prezzo di nessuno sforzo, essere portati davanti alla coscienza in quella relazione e, secondo quanto la

proposizione asserisce, sussiste tra essi: una proposizione, cioè, il cui soggeo e il cui predicato offrono una resistenza invincibile ad essere riuniti nel pensiero». Ora, perciò, sappiamo positivamente e il signor Spencer si sforza costantemente di usare la parola «inconcepibile» in questo senso — cioè nel suo senso proprio: tuavia si può meere in dubbio se il suo tentativo sia sempre coronato da successo: se l’altro uso — quello popolare — della parola quale volta non si insinui tacitamente, insieme con le sue associazioni, e non gli impedisca di mantenere una separazione nea fra i due usi. ando, per esempio, dice e quando sento freddo non posso concepire di non sentire freddo, quest’espressione non può essere tradoa in: «Non posso concepire me stesso e non sente freddo», peré è evidente e posso farlo: perciò, qui la parola «concepire» è usata per esprimere il riconoscimento di un dato di fao: la percezione della verità o della falsità: e questo, secondo me, non è né più né meno e il significato di un ao di credenza, in quanto distinta dalla semplice concezione. Ancora: il signor Spencer dice e il tentativo di concepire qualcosa d’inconcepibile è «uno sforzo abortito di causare la nonesistenza», non di una concezione o di una rappresentazione mentale, ma di una credenza. Se si vuole e il linguaggio del signor Spencer si mantenga sempre coerente con la sua definizione di inconcepibilità, è perciò indispensabile rivederne una parte considerevole. Ma in verità questo punto ha ben poca importanza, peré, stando alla teoria del signor Spencer, nella misura in cui è un criterio di credibilità, l’inconcepibilità non è altro e un criterio di verità. L’inconcepibilità di una supposizione è il caso estremo della sua incredibilità. esto è il fondamento stesso della dorina del signor Spencer. Per lui la vera e propria garanzia della credenza è costituita dalla sua invariabilità Il tentativo di concepire la negazione della credenza viene compiuto allo scopo di meerne alla prova l’inevitabilità. Lo si dovrebbe iamare un tentativo di credere la negazione. ando il signor Spencer dice e un uomo e stia guardando il Sole non può concepire di guardare nel buio, dovrebbe dire, invece, e l’uomo non può credere di star guardando nel buio. Infai è certamente possibile immaginare se stesso e sta guardando nell’oscurità, ane quando si è in piena luced. Come dice lo stesso signor Spencer parlando della credenza nella nostra propria esistenza: «Che possa non esistere, può immaginarlo abbastanza bene; ma trova impossibile concepire e in realtà non esiste»; cioè trova impossibile il crederlo. Così l’asserzione si risolve in questa: e io

esista, e e abbia sensazioni, lo credo, peré non posso credere altrimenti. E in questo caso ognuno ammeerà e la necessità è reale. Uno crede inevitabilmente alle proprie sensazioni presenti o ad altri stati soggeivi di coscienza. Sono fai noti per se: è impossibile andar oltre essi. La loro negazione è veramente incredibile, e perciò non sorge mai alcuna questione circa il credervi. Per queste verità non c’e bisogno della teoria del signor Spencer. Ma, secondo il signor Spencer, ci sono altre credenze, e si riferiscono a cose e non sono i nostri sentimenti soggeivi e per le quali abbiamo la medesima garanzia: credenze e, come i nostri sentimenti soggeivi, sono invariabili e necessarie. Per quanto riguarda queste altre credenze, dirò e non possono essere necessarie, peré non sempre esistono. Ci sono state, e ci sono, molte persone e non credono alla realtà di un mondo esterno, e tanto meno credono alla realtà dell’estensione e della figura come forme del mondo esterno; e non credono e spazio e tempo abbiano un’esistenza indipendente dalla mente, e ce l’abbia qualcun’altra delle intuizioni oggeive di cui parla il signor Spencer. Le negazioni di queste presunte credenze invariabili non sono incredibili, peré sono credute. Si può sostenere senza commeere un errore troppo evidente e non possiamo immaginare e gli oggei tangibili siano puri e semplici stati di coscienza, nostri o di altre persone; e la percezione di questi oggei ci suggerisce irresistibilmente l’idea di qualcosa esterno a noi: e io non sono nella condizione di dire e le cose non stanno così (ane se credo e non esista un solo uomo e abbia il dirio di affermarlo di qualsiasi altra persona oltre e di se stesso). Ma, potessero concepirlo o no, molti pensatori hanno creduto e quelli e rappresentiamo a noi stessi come oggei materiali non sono e pure e semplici modificazioni della coscienza; sensazioni complesse di tao e di azione muscolare. Il signor Spencer può pensare e l’inferenza dall’inimmaginabile all’incredibile sia correa, peré sostiene e la credenza stessa non è altro e la persistenza di un’idea, e e quel e siamo in grado di immaginare, non possiamo fare a meno, in quel momento, di ritenere credibile. Ma e importanza ha il fao e lo riteniamo credibile in quel momento, se quel momento è in contraddizione con lo stato permanente della nostra mente? Uno, e da bambino sia stato terrorizzato da storie di fantasmi, col passar degli anni non ci crederà più (forse non ci aveva mai creduto), ma può darsi e per tua la vita non sia capace di stare al buio, in circostanze e eccitino la sua immaginazione, senza provare un

turbamento mentale. Le circostanze esterne risvegliano irresistibilmente nella sua mente l’idea dei fantasmi, con tui i terrori e le sono connessi. Il signor Spencer potrebbe dire e non è vero e mentre quella persona si trova soo l’influenza di questi terrori non creda ai fantasmi, ma e ha una credenza, temporanea e incontrollabile, in essi. E sia: ma ane ammeendo e questo sia vero, e cosa sarà più vero di quest’uomo, nel complesso: il dire e crede ai fantasmi o il dire e non ci crede? Sicuramente, il dire e non ci crede. Il caso di coloro e non credono in un mondo materiale è simile a questo. Pur non potendo liberarsi dell’idea, pur non potendo fare a meno, nel momento in cui guardano un oggeo solido, di averne la concezione (e perciò, secondo la metafisica del signor Spencer, la credenza momentanea nella sua esteriorità), ane in quel momento costoro negherebbero sinceramente di avere quella credenza, e sarebbe scorreo iamarli con altro nome e non sia quello di non-credenti in quella dorina. Pertanto la credenza non è invariabile, e il criterio dell’inconcepibilità fallisce nei soli casi in cui potrebbe mai presentarsi quale occasione per applicarlo. Che una cosa possa essere perfeamente credibile, e tuavia possa non essere diventata concepibile, e e noi possiamo abitualmente credere un solo corno dell’alternativa, mentre per quanto riguarda l’altro ci limitiamo a concepire, è esemplificato dall’aeggiamento mentale, a tui familiare, delle persone colte nei confronti del sorgere e del tramontare del Sole. Tue le persone colte, sanno grazie alle loro ricere, o credono in base all’autorità della scienza, e a muoversi è la Terra e non il Sole: ma probabilmente solo poi concepiscono abitualmente il fenomeno altrimenti e come il salire o il scendere del Sole. Indubbiamente nessuno può concepirlo altrimenti senza sforzi prolungati, e questo probabilmente non è più facile al giorno d’oggi di quanto non lo fosse al tempo della generazione immediatamente successiva a quella di Copernico. Il signor Spencer non dice: «guardando il sorgere del Sole è impossibile non concepire e è il Sole a muoversi, dunque questo è ciò a cui tui credono, e di questo abbiamo tue le prove e si possono avere per qualsiasi verità». E dire e quest’asserzione costituirebbe il parallelo esao della sua dorina sulla credenza nella materia. L’esistenza della materia e di altri noumeni, in quanto distinti dal mondo dei fenomeni, rimane una questione aperta alla discussione, come lo era prima; e la credenza in queste cose — credenza molto generale ma non necessaria né universale — rimane un fenomeno psicologico da spiegare, sia

e s’ammea l’ipotesi e sia vera, sia e s’ammea quale altra ipotesi. La credenza sarebbe una prova conclusiva della sua propria verità soltanto se non esistessero cose come gli idola tribus. Tuavia la credenza è un fao, e pertanto spea agli antagonisti mostrare da e cosa, se non dall’esistenza reale della cosa creduta, si sia potuta originare una credenza così generale e apparentemente così spontanea. E i suoi oppositori non hanno mai esitato ad acceare questa sfidae. La quantità di successi e hanno oenuto nell’affrontarla determinerà, probabilmente, il verdeo definitivo dei filosofi su questa questione. 4. In una revisione, o, per meglio dire, in una ricostruzione dei suoi princìpi di psicologia, come uno degli stadi, o piaaforme dell’imponente struura del suo Sistema di filosofia, il signor Spencer ha ripreso quella e egli giustamente iamaf «l’amievole controversia e per lungo tempo è rimasta in sospeso tra noi», esprimendo nel medesimo tempo il suo rammarico — e io condivido di tuo cuore — per il fao e «questa lunga esposizione di un singolo punto di divergenza, non accompagnata da un’esposizione dei numerosi punti di accordo, produca inevitabilmente l’apparenza di un dissenso di gran lunga maggiore di quello e esiste in realtà». Io credo, con il signor Spencer, e quando venga misurata in base alle nostre conclusioni la differenza tra noi sia «superficiale piuosto e sostanziale», e il valore e aribuisco a un accordo così grande nel campo della psicologia analitica con un pensatore della sua forza e della sua profondità, è tale e mi sarebbe impossibile sopravvalutarla. Ma sono ane d’accordo con lui sul fao e la differenza esistente tra le premesse da cui partiamo, è una differenza e ha una «profonda importanza, considerata dal punto di vista filosofico»; una differenza e non dev’essere messa a tacere fin tanto e ogni parte delle nostre rispeive posizioni non sia stata esaminata e discussa esaurientemente. Nella sua enunciazione auale del Postulato Universale, il signor Spencer ha cambiato la sua espressione precedente — «credenze e esistono invariabilmente» — con la seguente: «cognizioni i cui predicati esistono invariabilmente insieme con i loro soggei». E dice e «il fallimento dello sforzo di concepire la negazione di una proposizione mostra e la cognizione espressa è una cognizione il cui predicato esiste invariabilmente insieme con il suo soggeo; e la scoperta e il predicato esiste invariabilmente insieme con il suo soggeo è la scoperta e la cognizione in

parola è tale e noi siamo costrei ad accearla». Io sono in grado di assentire a entrambe le premesse di questo sillogismo, ma solo se si prende il termine medio in sensi differenti. Se l’esistenza invariabile del predicato insieme con il suo soggeo dev’essere intesa nel suo significato più ovvio, come un’esistenzaeffeiva in natura, o, in altre parole, nella nostra esperienza oggeiva e sensibile, io ammeo naturalmente e quest’esistenza, una volta accertata, ci costringe ad acceare la proposizione: ma allora non ammeo e il fallimento del tentativo di concepire la proposizione negativa provi e il predicato coesiste sempre col soggeo nella realtàeffeiva della natura. Se, d’altra parte (e questo, credo, è ciò e il signor Spencer intende) l’esistenza invariabile del predicato insieme con il soggeo dev’essere intesa soltanto della nostra facoltà di concepire — dev’essere ciòè intesa nel senso e nel nostro pensiero il soggeo e inseparabile dal predicato — allora l’incapacità di separare le due idee prova la loro congiunzione inseparabile, qui e ora, nella mente e ha fallito il tentativo di separarle, ma l’inseparabilità nel pensiero non prova un’inseparabilità corrispondente nel fao, e nemmeno nei pensieri di altra gente, o della medesima persona in un futuro possibile. «Che alcune proposizioni siano state erroneamente acceate come vere, peré si supponeva e le loro negazioni fossero inconcepibili, mentre in realtà non lo erano» non prova, secondo il signor Spencer, «la non-validità del criterio», non soltanto peré ogni criterio «può dare risultati falsi o per l’incapacità o per la mancanza di accuratezza di coloro e lo usano», ma peré le proposizioni in questione «erano proposizioni complesse, e non potevano essere avvalorate da un criterio e può essere applicato a proposizioni non ulteriormente scomponibili». «Un criterio applicabile legiimamente a una proposizione semplice il cui soggeo e il cui predicato stanno in una relazione direa, non può essere legiimamente applicato a una proposizione complessa, il cui soggeo e il cui predicato sono in relazione indireamente, araverso le molte proposizioni semplici implicate». «Che cose eguali alla medesima cosa siano eguali tra loro è un fao e può essere riconosciuto confrontando direamente relazioni eflfeive o ideali… Ma e il quadrato dell’ipotenusa di un triangolo reangolo sia eguale alla somma dei quadrati degli altri due lati, non lo si può conoscere immediatamente, confrontando i due stati di coscienza: qui la verità può essere raggiunta soltanto mediatamente, araverso una serie di giudizi semplici, riguardanti le eguaglianze e le diseguaglianze di certe

relazioni». Inoltre, ane quando le relazioni possono essere sooposte a controllo dalla coscienza immediata, la gente trascura spesso di farlo. Sommando una colonna di cifre, uno scolaro dirà «35 e 9 sono 46», ane se la cosa è contraria al verdeo e la coscienza pronuncia quando di fronte ad essa vengano effeivamente riiamati 35 e 9, cosa e lo scolaro non fa. E non soltanto gli scolari, ma uomini e pensatori, non sempre «traducono distintamente le parole e usano negli stati di coscienza ad esse equivalenti». È appena giusto accordare alla dorina del signor Spencer il beneficio della limitazione e egli stesso diiara di imporle: cioè, e la dorina può essere applicata soltanto a proposizioni cui si dà l’assenso a prima vista, senza far intervenire il mezzo di una prova. Ma questa limitazione non esclude alcuni degli esempi più notevoli di proposizioni e ora sappiamo false o prive di fondamento, ma la cui negazione era una volta ritenuta inconcepibile. Tali sono, per esempio, le proposizioni e nel sorgere e nel tramontare del Sole è il Sole a muoversi; e la gravitazione può esserci senza e sia interposto un mezzo, e ane il caso degli antipodi. La distinzione tracciata dal signor Spencer è reale, ma, nel caso delle proposizioni e egli classifica come complesse, la coscienza non è in grado di dare nessun verdeo, fin quando non le si forniscano i mezzi di prova. La coscienza non diiara e l’eguaglianza tra il quadrato costruito sull’ipotenusa e la somma dei quadrati costruiti sui cateti è inconcepibile, né diiara e è inconcepibile la loro eguaglianza. Anzi, in tui e tre i casi e ho appena citato, sembra e l’inconcepibilità venga appresa direamente; per oenere il verdeo della coscienza su questo punto non c’è stato bisogno di nessuna concatenazione di ragionamenti, com’è accaduto invece nel caso del quadrato costruito sull’ipotenusa. E d’altra parte nessuno dei tre casi somiglia a quello dell’errore commesso dallo scolaro, la cui mente non era mai stata messa a contao con la proposizione. Si traa di casi in cui uno dei due predicati opposti sembrava, mero aspectu, incompatibile con il soggeo, Cosicé sembrava provato e l’altro esiste sempre con essog. Dopo le limitazioni introdoe dal signor Spencer, le cognizioni fondamentali e possono essere sooposte al controllo del suo criterio sono soltanto quelle dotate di un caraere così universale ed elementare da essere rappresentate nelle prime e più costanti esperienze, reali o apparenti, di tua l’umanità. In casi del genere l’inconcepibilità della negazione, se è reale, è spiegata dall’esperienza; e peré mai (ho iesto) la verità dovrebbe essere

messa alla prova in base al criterio dell’inconcepibilità, quando possiamo cercare la prova molto più a monte, e cioè risalendo all’esperienza stessa? A questo il signor Spencer risponde e non tua l’esperienza può essere riiamata alla mente, e se lo potesse, sarebbe di una molteplicità tale da rendere impossibile il maneggiarla. Sembra e per lui meere alla prova una proposizione per mezzo dell’esperienza signifii e «prima di acceare come certa la proposizione e qualsiasi figura reilinea deve avere tanti lati quanti sono i suoi angoli», io debba «pensare a ogni triangolo, a ogni quadrato, a ogni pentagono, esagono, ecc., e ho visto, e verificare caso per caso la relazione asserita». Posso soltanto dire, con mia grande sorpresa, di non aver mai inteso e il significato dell’appello all’esperienza debba essere questo. È sufficiente sapere e abbiamo visto il fao per tua la nostra vita e non abbiamo mai osservato un solo caso contrario, e e altre persone, e hanno avuto tue le opportunità per osservarlo, diiarano unanimemente la stessa cosa. È vero e ane quest’esperienza potrebbe essere insufficiente, e tale potrebbe rimanere ane se riiamassi alla mente ogni singolo caso particolare: ma se invece di vagliare l’esperienza medesima faccio appello a un criterio e non ha nessuna relazione con la sufficienza dell’esperienza, ma al massimo soltanto con la sua familiarità, non porto alla luce la sua insufficienza, ma la nascondo. este osservazioni non perdono la loro forza neppure se crediamo, con il signor Spencer, e le tendenze mentali derivate originariamente dall’esperienza s’imprimano in modo permanente sulla struura cerebrale e vengano trasmesse ereditariamente, Cosicé i modi di pensare e sono acquisiti per la razza, diventano innati e a priori nell’individuo, rappresentando così (secondo l’opinione del signor Spencer) l’esperienza dei suoi progenitori e viene ad aggiungersi alla sua esperienza personale. Da ciò dovrebbe seguire e una convinzione può essere realmente innata, ciòè a dire anteriore all’esperienza individuale, e tuavia potrebbe non essere vera, peré potrebbe darsi e originariamente la tendenza ereditaria ad accearla sia stata il risultato di cause e non sono la sua verità. La causa del signor Spencer risulterebbe di molto rafforzata se egli potesse davvero mostrare e le prove del ragionamento riposano sul Postulato, o, in altre parole, se potesse mostrare e crediamo e una conclusione segua dalle premesse soltanto peré non possiamo concepire e non ne segua. Ma quest’asserzione mi sembra della medesima specie di un’altra asserzione e ho già commentato: l’asserzione, cioè, e io credo di vedere la luce,

peré, fintanto e la sensazione perdura, non posso concepire di star guardando nell’oscurità. Entrambe queste asserzioni mi sembrano incompatibili col significato (e molto giustamente il signor Spencer limita) del verbo «concepire». Secondo me, il dire e quando apprendo e A è B e e B è C, non posso concepire e A non sia C, non significa altro se non e sono costreo a credere e A è C. Se «concepire» viene preso nel suo giusto significato, cioè, nel significato di «formarsi una rappresentazione mentale», posso essere in grado di concepire A come non-C Ane dopo aver assentito, con pieno intendimento, alla prova copernicana e a muoversi è la Terra e non il Sole, non soltanto posso concepire, o rappresentare a me stesso, il tramonto come un moto del Sole, ma quasi tui trovano questa concezione del tramonto più facile a formarsi di quanto non lo sia quella e, nonostante ciò, sanno essere la concezione vera. 5. D’accordo con me, Sir William Hamilton sostiene e l’inconcepibilità non costituisce un criterio di impossibilità: «Non c’è nessuna ragione per inferire e un certo fao è impossibile, semplicemente dalla nostra incapacità a concepire la sua possibilità». «Ci sono cose e possono, anzi, non possono non essere vere, e la cui possibilita l’intelleo è assolutamente incapace di rappresentare a se stesso»h. Comunque, Sir William Hamilton crede fermamente nel caraere a priori di molti assiomi e delle scienze dedoe da essi ed è così lontano dal ritenere e questi assiomi riposino sulle prove dell’esperienza, da diiarare e alcuni di essi sono veri ane dei noumeni — dell’incondizionato — a proposito dei quali uno dei compiti principali della sua filosofia è il provare e la natura delle nostre facoltà c’impedisce di averne conoscenza. Gli assiomi, ai quali aribuisce quest’eccezionale emancipazione dalle limitazioni e restringono tue le nostre altre possibilità di conoscenza; gli spiragli araverso i quali, secondo lui, un solo raggio di luce trova la strada per giungere fino a noi dalla cortina e vela alla nostra vista il mondo misterioso delle cose in sé, sono due princìpi e, seguendo gli Scolastici, Hamilton iama il principio di contraddizione e il principio del terzo escluso: il primo asserisce e due proposizioni contraddiorie non possono essere entrambe vere, il secondo, e non possono essere entrambe false. Muniti di queste armi logie, possiamo affrontare coraggiosamente le cose in sè e porgli la duplice alternativa sicuri e esse dovranno assolutamente scegliere l’uno o l’altro corno, ane se poi può darsi e a noi sia per sempre precluso lo scoprire

quale. Per prendere l’esempio favorito da Hamilton, non possiamo concepire l’infinita divisibilità della materia, e non possiamo concepire un minimo, cioè un termine alla divisibilità: tuavia l’una o l’altra di queste alternative dev’essere vera. Siccome finora non ho deo nulla dei due assiomi in questione — l’assioma di contraddizione e l’assioma del terzo escluso — non sarà fuori luogo il prenderli in considerazione qui. Il primo asserisce e una proposizione affermativa e la proposizione negativa corrispondente non possono essere entrambe vere — cosa e in generale è stata ritenuta intuitivamente evidente. Sir William Hamilton e i Tedesi ritengono e sia l’enunciazione in parole di una forma, o legge, della facoltà del nostro pensiero. Altri filosofi, non meno meritevoli di considerazione, ritengono e sia una proposizione identica: un’asserzione implicita nel significato dei termini, un modo di definire la negazione e la parola «non». Riesco a seguire questi ultimi solo fino a un certo punto. Un’asserzione affermativa e la sua negazione non sono due asserzioni indipendenti, connesse l’una con l’altra solo in quanto sono incompatibili l’una con l’altra. Che l’affermativa debba essere falsa se la negativa è vera è in realtà una pura e semplice proposizione identica, peré la proposizione negativa non asserisce nient’altro se non la falsità dell’affermativa, e non ha nessun altro senso o significato. Pertanto il principium contradictionis dovrebbe meere in disparte quella fraseologia ambiziosa e gli dà l’aria di essere un’antitesi fondamentale e pervade tua quanta la natura, e dovrebbe essere enunciato nella forma più semplice: la stessa proposizione non può essere contemporaneamente falsa e vera. Ma non posso seguire più oltre i nominalisti, peré non riesco a considerare quest’ultima proposizione come una proposizione meramente verbale. La considero, come altri assiomi, una delle prime e più familiari generalizzazioni trae dall’esperienza. Secondo me il suo fondamento originario è e la credenza e la non-credenza sono due stati mentali differenti, e si escludono vicendevolmente. esto lo sappiamo dalla più semplice osservazione della nostra mente. E se rivolgiamo le nostre osservazioni al mondo esterno, troviamo ane qui e luce e oscurità, suono e silenzio, moto e quiete, eguaglianza e ineguaglianza, precedere e seguire, successione e simultaneità — in breve, e ogni fenomeno positivo e il corrispondente fenomeno negativo — sono fenomeni distinti, neamente in contrasto tra loro, e e l’uno è sempre assente

quanto è presente l’altro. Considero la massima in questione come una generalizzazione da tui questi fai. Analogamente, come il principio di contraddizione (e di due contraddiorie una dev’essere falsa) significa e un’asserzione non può essere insieme vera e falsa, Così il principio del Terzo escluso — ossia il principio e di due contraddiorie una dev’essere vera— significa e un’asserzione dev’essere o vera o falsa: o è vera l’affermativa oppure è vera la negativa, e questo significa e l’affermativa è falsa. Non posso fare a meno di pensare e questo principio è un esempio ben strano di una Cosiddea necessità del pensiero, peré, a meno e non gli si impongano grosse restrizioni, esso non è neppure vero. Una proposizione dev’essere o vera o falsa, purché il predicato possa essere aribuito al soggeo in quale senso intelligibile (e poié nei traati di logica si assume sempre e sia Così, l’assioma vi è sempre enunciato come una verità assoluta). «Abracadabra è una seconda intenzione» non è né vera né falsa. Tra il vero e il falso c’e una terza possibility, il non-senso, e quest’alternativa è fatale all’estensione di questa massima ai noumeni, tentata da Sir William Hamilton. Che esista un minimo oltre il quale la materia non è ulteriormente divisibile, oppure e la materia sia divisi bile all’infinito, e piùdi quanto potremo mai sapere. peré, in primo luogo, può darsi e la materia non esista se non nel senso fenomenico del termine, e ben difficilmente si dira e una non-entità dev’essere o divisibile all’infinito o divisibile fino a un limite finito. In secondo luogo, ane se la materia considerata come la causa occulta delle nostre sensazioni esiste realmente, può darsi tuavia e quello e noi iamiamo divisibilità sia soltanto un aributo delle nostre sensazioni visive e taili, e non della loro causa inconoscibile. può darsi e la divisibilità non sia predicabile affao, in nessun senso intelligibile, delle cose in sé, e perciò neane della materia in sé; e può darsi e la necessità ipotizzata — e la materia sia divisibile all’infinito, o sia divisibile in senso finito— sia un’alternativa e non può esserle applicata. Su questo punto sono lieto di concordare in pieno col signor Herbert Spencer. Dal suo articolo comparso sulla «Fortnightly Review» traggo il passo e segue. Il germe di un’idea identica a quella del signor Spencer si può trovare in questo capitolo, all’incirca una pagina addietro; ma nell’articolo del signor Spencer non si traa di un pensiero in embrione, bensì di una teoria filosofica.

«ando ricordiamo una certa cosa come situata in un certo posto, il posto e la cosa vengono rappresentati mentalmente insieme, mentre il pensare alla non-esistenza della cosa in quel posto implica una coscienza in cui viene rappresentato il posto ma non la cosa. Similmente, se invece di pensare un oggeo come privo di colore, lo pensiamo colorato, il cambiamento consiste nel fao e al conceo è stato aggiunto un elemento e prima era assente: non si può pensare l’oggeo prima come rosso e poi come non rosso, senza e uno dei componenti del pensiero dell’oggeo scacci completamente l’altro dalla mente. Dunque la legge del Terzo escluso è semplicemente una generalizzazione dell’esperienza universale e alcuni stati mentali distruggono direamente altri stati. Enuncia una certa legge assolutamente costante: e un qualsiasi modo positivo della coscienza non può comparire senza escludere un modo negativo correlativo; e e il modo negativo non può comparire senza escludere il modo positivo correlativo: l’antitesi di positivo e di negativo è in realtà solo un’espressione di quest’esperienza. Segue di qui e se la coscienza non è in uno dei due modi, dev’essere nell’altro dei due»i Devo iudere qui questo capitolo supplementare, e, con il capitolo, il Libro secondo. La teoria dell’induzione, nel senso più ampio del termine formerà l’argomento del Libro terzo. a. Principles of Psychology. b. Il signor Spencer sbaglia quando suppone e io pretenda e quest’assioma goda di una «necessità» particolare a paragone di altri. Ho correo le espressioni e l’hanno indoo a fraintendere il mio pensiero. c. Ritornando recentemente sull’argomento (Principles of Psychology, nuova ed., cap. XII, «Il criterio della validità relativa») il signor Spencer dà due risposte alle osservazioni precedenti. Una risposta è la seguente. «Se un’argomentazione fosse formata ripetendo più e più volte la medesima proposizione, sarebbe vero e una quale fallibilità intrinseca del postulato non renderebbe la conclusione meno degna di fede del primo passo. Ma un’argomentazione consiste di proposizioni tra loro differenti. Ora, dal fao e, secondo la critica e il signor Mill muove al Postulato Universale, in alcuni casi — e il signor Mill enumera — quest’ultimo ha dato prova di essere un criterio indegno di fede, segue e in un’argomentazione e consista di proposizioni eterogenee c’è il risio (e aumenta con l’aumentare del numero delle proposizioni) e qualcuna di tali proposizioni appartenga a questa classe di casi, e venga erroneamente acceata per via dell’inconcepibilità della sua negazione». Su ciò, nessun dubbio: ma questo presuppone e si assumano nuove premesse. Il punto e stiamo discutendo è la fallibilità, non delle premesse, ma del ragionamento, in quanto distinto dalle premesse. Ora, la validità del ragionamento dipende sempre dal medesimo assioma, ripetuto (idealmente «più e più volte»: dall’assioma, cioè, e tuo ciò e ha un segno ha ciò di cui è segno. Pertanto, ane assumendo e quest’assioma riposi in ultima analisi sul Postulato Universale, e e, non essendo il Postulato completamente degno di fede, l’assioma possa costituire uno dei casi in cui esso fallisce, in

tuo il risio e ciò accada si incorre al primissimo passo del ragionamento e per lunga e possa essere la serie dei passi successivi il risio stesso non si accresce. Naturalmente, qui sto ragionando dal punto di vista del signor Spencer. Dal mio punto di vista, il caso è ancora più iaro; infai, secondo me, la verità e tuo ciò e ha un segno ha ciò di cui è un segno, è completamente degna di fede, e non deriva le prove in proprio favore da un criterio così poco degno di fede come l’inconcepibilità della negazione. La seconda risposta del signor Spencer è valida fino a un certo punto. Secondo questa risposta, ogni prolungamento del processo implica quale posssibilità in più d’errore casuale, dovuta alla mancanza di accuratezza con cui si eseguono le operazioni del ragionamento. esta è una considerazione importante dal punto di vista delle speculazioni private del ragionante singolo; e ane relativamente all’umanità in grande si deve ammeere e, sebbene le pure e semplici sviste nel processo sillogistico (proprio come gli errori di addizione nel fare i conti) siano proprie in modo speciale degli individui e spesso sfuggano all’aenzione, le confusioni del pensiero prodoe (per esempio) dall’ambiguità di certi termini, hanno condoo intiere nazioni e intiere epoe ad acceare come validi ragionamenti fallaci. Ma questo stesso fao è l’indice dell’esistenza di cause di errore più pericolose e non la pura e semplice lunghezza del processo: più pericolose al punto da viziare in modo decisivo la dorina e il «criterio della validità relativa di conclusioni tra loro in conflio» sia costituito dal numero di volte in cui viene impiegato il postulato fondamentale. Al contrario, quegli argomenti, le concatenazioni di ragionamenti riguardanti i quali sono più lunghe, cosicè l’assunzione viene ripetuta più spesso, sono, in generale, i meglio corazzati contro le cause veramente poderose di fallacia, come nell’esempio, già addoo, della matematica. d. Il signor Spencer fa una distinzione tra il concepire me e guardo nell’oscurità e il concepire e io sto guardando, qui e ora, nell’oscurità. A me sembra e questa trasformazione dell’espressione nella forma io sto segni, appunto, la transizione dalla concezione alla credenza, e e le frasi «concepire e io sto», o e «qualcosa sta», non siano compatibili con l’uso della parola «concepire», nel suo senso rigoroso. e. Per parte mia, io ho acceato la sfida, e l’ho combauta fino all’ultimo su questo terreno, nel capitolo XI di An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy. f. Cap. XI. g. In uno dei tre casi il signor Spencer, con mia non piccola sorpresa, pensa e «non sia correo dire e le credenze dell’umanità sono state soggee» al cambiamento e io suppongo sia avvenuto. Lo stesso signor Spencer pensa ancora e non siamo in grado di concepire e la gravitazione agisca araverso uno spazio vuoto. «Se un astrcnomo diiarasse di poter concepire e la forza di gravita agisce araverso uno spazio assolutamente vuoto, la mia opinione personale sarebbe e quell’astronomo ha frainteso la natura della concezione. La concezione implica rappresentazione. i gli elementi della rappresentazione sono i due corpi e un’azione per mezzo della quale l’uno dei due influenza l’altro. Il concepire quest’azione significa rappresentarla in termini derivati dalle nostre esperienze, cioè dalle nostre sensazioni. Siccome quest’azione non ci da alcuna sensazione, siamo costrei (se tentiamo di concepirla) a usare simboli idealizzati dalle nostre sensazioni. Unità imponderabili e costituiscono il mezzo». Se il signor Spencer vuol dire e l’azione della gravitazione non ci dà sensazioni, l’asserzione è una delle più sorprendenti e io abbia mai trovato tra gli scrii dei filosofi. Di quale altra sensazione abbiamo bisogno, oltre alla sensazione di due corpi e si muovono l’uno verso l’altro? «Gli elementi della rappresentazione» non sono i due corpi e un’«azione», ma due corpi e un effeo, cioè a dire il fao e i due corpi si avvicinano l’uno all’altro. Se siamo capaci di concepire il vuoto, è poi tanto difficile concepire un corpo e cade nel vuoto? a h. Discussions, ecc., 2 ed., p. 264.

i.

Il professor Bain (Logic, I, 16) identifica il principio di contraddizione con la sua legge di relatività: «Per tuo ciò e si può pensare, per tue le affermazioni e si possono fare, esiste una nozione o un’affermazione opposta o contraria»; proposizione, questa, e è uno dei risultati generali dell’intiero corpo dell’esperienza umana. Per ulteriori considerazioni circa gli assiomi di contraddizione e del terzo escluso, si veda il ventunesimo capitolo di An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy. 1. Sir Humphrey Davy (1778-1829), imico inglese; cominciò con l’occuparsi delle proprietà medicinali di vari gas per conto della Medical Pneumatic Institution scoprendo le proprietà del «gas esilarante»; più tardi rivolse la sua aenzione all’utilizzazione dei prodoi imici per l’agricoltura e pubblico un volume, Elements of Agricultural Chemistry [Elementi di chimica agricola] (1813) e rimase per più di mezzo secolo il testo fondamentale sull’argomento. Il centro dei suoi interessi era però costituito dall’eleroimica: basandosi sull’ipotesi e l’arazione imica e l’arazione elerica hanno natura identica, formulò una teoria elerica dei composti imici e riusciva a ordinare e a sistematizzare molti fai complessi. Dimostro e l’acqua non si scinde, per elerolisi, in un acido e in un alcale, come si riteneva ai suoi tempi, e e l’idrossido di sodio e l’idrossido di potassio non sono elementi, isolando sodio e potassio con metodi elerolitici (1807). Costruì la «lampada Davy» per minatori, ed escogito un metodo per preservare le iglie di rame delle navi dalla corrosione. Le sue teorie sono raccolte nell’opera Elements of Chemical Philosophy [Elementi di filosofia chimica] (1813) e però non andò oltre il primo volume.

LIBRO TERZO L’INDUZIONE (Capp. IXIII)

«Secondo la dorina e abbiamo ora formulato, l’oggeo più alto, o, meglio, l’unico oggeo proprio della fisica è l’accertare quelle connessioni stabili di eventi successivi e costituiscono l’ordine dell’universo; il registrare i fenomeni e l’universo esibisce alle nostre osservazioni o disiude ai nostri esperimenti, e il far risalire questi fenomeni alle loro leggi generali». D. STEWART, Elements of the Philosophy of the Human Mind, vol. II, cap. IV, par. 1.

CAPITOLO I. OSSERVAZIONI PRELIMINARI SULL’INDUZIONE IN GENERALE 1. La parte in cui stiamo ora per addentrarci può essere considerata come la parte principale di quest’indagine, sia peré supera in complicazione tue le altre, sia peré si riferisce a un processo nel quale, come si è mostrato nel Libro precedente, essenzialmente consiste l’indagine della natura. Abbiamo trovato e tue le inferenze, e di conseguenza tue le prove e tue le scoperte di verità non evidenti di per sé, consistono di induzioni e di interpretazioni di induzioni; e tua la nostra conoscenza non intuitiva ci proviene esclusivamente da questa fonte. Pertanto, la questione e cosa sia l’induzione e quali condizioni la rendano legiima non può non essere considerata come la questione principale della scienza della logica: la questione e comprende in sé tue le altre. Si traa, però, di un problema e gli autori e si professano logici hanno trascurato quasi del tuo. I metafisici, invece, non hanno lasciato completamente da parte le linee generali di quest’argomento; però, a causa della mancanza di una conoscenza direa dei processi grazie ai quali la scienza è di fao pervenuta a formulare verità generali, le loro analisi dell’operazione induiva, ane quando siano ineccepibili in quanto a correezza, non sono abbastanza specifie da essere messe a fondamento di regole pratie e possano rappresentare per l’induzione stessa quello e le regole del sillogismo rappresentano per l’interpretazione dell’induzione. Al contrario, coloro e hanno condoo la scienza fisica allo stato di progresso auale e ai quali, per arrivare a una teoria completa del processo, mancava solo di generalizzare e di adaare a tue le varie specie di problemi i metodi e essi stessi impiegavano nel loro lavoro quotidiano, fino a poissimo tempo fa non hanno mai fao un serio tentativo di traare l’argomento da un punto di vista filosofico né hanno mai ritenuto e il modo con cui erano arrivati alle loro conclusioni fosse degno di essere studiato indipendentemente dalle conclusioni stesse. 2. Per gli scopi di questa ricerca l’induzione può essere definita come l’operazione dello scoprire e del provare proposizioni generali. È vero (come

si è già mostrato) e il processo e consiste nell’accertare indireamente fai individuali è tanto genuinamente induivo quanto il processo mediante il quale si stabiliscono verità generali. Non si traa però di una specie differente d’induzione, bensì di una forma del medesimo processo, peré, da un lato, i generali non sono altro e raccolte di particolari, definiti quanto al loro genere ma indefiniti quanto al loro numero. D’altra parte, ogni volta e le prove e deriviamo dall’osservazione di casi noti ci giustificano a trarre un’inferenza relativa ane a un solo caso ignoto, le stesse prove dovrebbero giustificarci a trarre un’inferenza relativa a un’intiera classe di casi. L’inferenza, o non regge affao o regge in tui i casi di una certa specie: in tui i casi e, per certi aspei definibili, somigliano ai casi e sono stati osservati. Se queste osservazioni sono giuste; se i princìpi e le regole dell’inferenza sono le stesse sia e inferiamo proposizioni generali sia e inferiamo fai individuali, segue e una logica completa della scienza dovrà ane essere una logica completa delle faccende pratie e della vita di ogni giorno. Poié non c’è un solo caso di inferenza legiima traa dall’esperienza, in cui la conclusione non possa essere di pieno dirio una proposizione generale, un’analisi del processo mediante il quale si perviene a verità generali è virtualmente un’analisi di tua l’induzione in generale. Sia e stiamo indagando un principio scientifico sia e stiamo indagando un fao individuale, e sia e procediamo in base ad esperimenti sia e procediamo in base a ragionamenti deduivi, ogni passo nella concatenazione delle inferenze è essenzialmente induivo, e la legiimità dell’induzione dipende, in entrambi i casi, dalle medesime condizioni. Vero è e nel caso del ricercatore pratico e si sforza di accertare fai non per scopi scientifici ma per scopi ainenti alle faccende pratie (come fanno, per esempio, l’avvocato e il giudice) la diflicoltà principale è così faa e i princìpi dell’induzione non gli offriranno nessun aiuto. Tale diflicoltà consiste non già nel compiere le proprie induzioni, ma nello sceglierle; nello scegliere, fra tue le proposizioni generali la cui verità sia stata accertata, quelle e gli forniscono i segni per mezzo dei quali può arrivare a sapere se quel dato soggeo possiede o non possiede il predicato in questione. ando un avvocato discute una dubbia questione di fao davanti a una giuria, per lo più le proposizioni o i princìpi generali a cui fa appello sono, di per se stessi, sufficientemente triti, e ricevono l’assenso non appena siano stati enunciati: l’abilità dell’avvocato consiste nel riportare la sua causa soo

quelle proposizioni o quei princìpi; nel riiamare alla mente quelle massime di probabilità note o acceate, e sono passibili di applicazione al caso e ha tra le mani, e nello scegliere, da esse, quelle e meglio si adaano al suo scopo. i il successo dipende dalla sagacia naturale o acquisita, coadiuvata dalla conoscenza di quell’argomento particolare e degli argomenti ad esso affini. Si può coltivare l’inventività, ma non la si può ridurre a un regola; non esiste scienza e mea un uomo in grado di escogitare da sé quello e si adaerà al suo scopo. Ma quando ha pensato qualcosa, la scienza può dirgli se quello e ha pensato si adaerà al suo scopo oppure no. Chi indaga, o i discute, dev’essere guidato, nella scelta di induzioni in base alle quali costruire le proprie argomentazioni, dalla sua propria conoscenza e dalla sua propria sagacia. Ma una volta e l’argomentazione sia stata costruita, la sua validità dipende da princìpi e dev’essere messa alla prova mediante mezzi di controllo e sono gli stessi per tui i tipi d’indagini sia e queste abbiano come risultato l’assegnazione di un patrimonio a una certa persona, sia e finiscano con l’arricire la scienza di una nuova verità generale. Nell’uno o nell’altro caso, i sensi, o le testimonianze, devono decidere i fai individuali: le regole del sillogismo determineranno se, posto e questi fai siano correi, il caso rientra davvero nelle formule delle differenti induzioni soo le quali è stato fao successivamente rientrare; e, infine, la legiimità delle induzioni stesse dovrà essere decisa da altre regole, e ora è nostro compito indagare. È vero e in molte questioni della vita pratica questa terza parte dell’operazione non è la parte più ardua, ma anzi la meno ardua; ma abbiamo visto e questo accade ane in alcune grandi partizioni del campo della scienza: in tue quelle partizioni e sono principalmente deduive e soprauo in matematica, dove le induzioni stesse sono poe, e così ovvie ed elementari e non sembrano aver bisogno della prova dell’esperienza, mentre il combinarle fra loro in modo da provare un dato teorema o risolvere un certo problema può iamare in causa le più alte facoltà di inventività e di ingegno di cui la nostra specie è dotata. Se l’identità tra i processi logici e provano fai particolari e quelli e stabiliscono verità scientifie generali dovesse riiedere ulteriori conferme, basterebbe considerare come in molte brane della scienza i fai singoli debbano essere provati né più ne meno di quanto devono esserlo i princìpi. Si traa di fai completamente individuali, proprio come quelli e vengono dibauti in una corte di giustizia, ma e vengono provati nella stessa

maniera in cui vengono provate le altre verità della scienza, e senza turbare per nulla l’omogeneità del suo metodo. Un esempio considerevole di quest’identita è fornito dall’astronomia. asi nessuno dei fai individuali sui quali questa scienza fonda le sue deduzioni più importanti — fai quali: le dimensioni dei corpi del sistema solare, le loro distanze reciproe, la forma della Terra e la sua rotazione — è accessibile ai nostri mezzi di osservazione direa; questi fai vengono provati indireamente con l’aiuto di induzioni fondate su altri fai cui possiamo aingere con maggiore facilità. Per esempio, la distanza della Luna dalla Terra fu determinata con un processo molto tortuoso. La parte e l’osservazione direa ebbe in questo lavoro consistee nell’accertare, in un solo e medesimo istante, le distanze zenitali dalla Luna, vista da due punti situati sulla superficie della Terra a grande distanza l’uno dall’altro. L’accertamento di queste distanze angolari portò alla determinazione dei loro supplementi, e poié l’angolo al centro della Terra — angolo soeso dalla distanza tra i due luoghi d’osservazione — poteva essere dedoo, per mezzo della trigonometria sferica, dalla latitudine e dalla longitudine di quei luoghi, l’angolo avente come vertice la Luna, soeso dalla medesima linea, diventava il quarto angolo di un quadrilatero di cui si conoscevano gli altri tre angoli. Essendo stati così determinati i quaro angoli, ed essendo due lati del quadrilatero raggi della Terra, i due lati rimanenti e la diagonale si poterono determinare in base ai teoremi elementari della geometria; in altre parole, in base a questi teoremi si poté determinare la distanza della Luna dai due posti d’osservazione e dal centro della Terra, almeno in termini del raggio terrestre. A ciascun passo di questa dimostrazione si assume una nuova induzione rappresentata, nell’insieme dei suoi risultati, da una proposizione generale. Non soltanto il processo mediante il quale si accertò un fao astronomico individuale è esaamente simile a quello con cui la stessa scienza stabilisce le sue verità generali ma (come abbiamo mostrato nel caso di ogni ragionamento legiimo) lo stesso processo, invece e a un fao singolo, avrebbe potuto ane farci concludere a una proposizione generale. A rigore, anzi, il risultato del ragionamento è una proposizione generale: è un teorema e riguarda la distanza dalla Terra, non della Luna in particolare, ma di qualsiasi oggeo inaccessibile alla misurazione direa; un teorema, cioè, e mostra in quale relazione quella distanza sta con certe altre quantità. Va bene e la Luna è praticamente l’unico corpo celeste la cui distanza dalla

Terra può essere davvero accertata in questo modo, ma ciò è dovuto semplicemente alle circostanze accidentali in cui si trovano gli altri corpi celesti, circostanze in forza delle quali essi non riescono a fornirci quei dati e l’applicazione del teorema riiede. In se stesso, però, il teorema è vero tanto della Luna quanto degli altri corpi celestia. Non cadremo dunque in errore se, traando dell’induzione, limiteremo la nostra aenzione all’enunciazione di proposizioni generali. I princìpi e le regole dell’induzione direi a questo fine sono i princìpi e le regole di tua l’induzione, è la logica della scienza e la logica universale, applicabile a tue le ricere in cui l’uomo può impegnarsi. a.

Il door Whewell pensa e sia improprio applicare il termine «induzione» a una qualsiasi operazione e non mea capo alla formulazione di una verità generale. L’induzione, egli dice (Philosophy of Discovery, p. 245) «non è la stessa cosa e l’esperienza o l’osservazione. L’induzione è esperienza o osservazione, riguardate consapevolmente nella loro forma generale. esta consapevolezza e questa generalita sono parti necessarie di quella conoscenza e è scienza». E (a p. 241) obbiea contro il modo in cui la parola «induzione» viene impiegata in questo libro, modo e secondo lui costituisce un’indebita estensione del termine «non solo ai casi in cui si applica consapevolmente l’induzione generale a un caso particolare, ma ane ai casi in cui si traa il caso particolare per mezzo dell’esperienza, in quel senso rudimentale secondo cui si può asserire e i bruti hanno esperienze, e secondo cui, naturalmente, non possiamo in alcun modo immaginare e la legge sia posseduta o compresa come una proposizione generale». Ritiene e quest’uso del termine sia «una confusione tra conoscenza e tendenze pratie». Rinnego, tanto energicamente quanto potrebbe fare il door Whewell, l’applicazione di termini come «induzione», «inferenze», «ragionamento» a operazioni compiute per mero istinto, ciòe, per un impulso animale, senza alcun esercizio d’intelligenza. Ma non riesco a scorgere alcuna ragione per confinare l’uso di questi termini ai casi in cui l’inferenza si trae nelle forme e con le precauzioni riieste dalla precisione propria della scienza. All’idea di scienza sono essenziali il riconoscimento esplicito e l’apprensione distinta delle leggi generali in quanto tali: ma i nove decimi delle conclusioni trae dall’esperienza nel corso della vita pratica si traggono senza e un tale riconoscimento abbia luogo: sono inferenze diree da casi noti a casi e si suppone siano simili. Mi sono sforzato di mostrare e non solo questa è un’operazione tanto legiima quanto quella e consiste nel risalire da casi noti a una proposizione generale, ma e si traa sostanzialmente della medesima operazione, tranne e il secondo processo offre una grande garanzia di correezza e il primo non possiede. Nella scienza, l’inferenza deve necessariamente passare araverso lo stadio intermedio di una proposizione generale, peré la scienza vuole registrare le proprie conclusioni, e non usarle lì per lì Ma le inferenze e si traggono peré servano da guida nelle faccende pratie, da parte di persone e spesso sarebbero assolutamente incapaci di esprimere in termini ineccepibili le generalizzazioni corrispondenti, possono rivelare — e spesso rivelano — capacità intelleuali esaamente eguali a qualsiasi capacità e sia mai stata dispiegata nella scienza: e e cosa sono mai, se non sono inferenze induive? La limitazione e il door Whewell impone al termine sembra perfeamente arbitraria: non è giustificata da nessuna delle distinzioni fondamentali tra quello e il door Whewell include e quello e desidera escludere, e non è sanzionata dall’uso, almeno dai tempi di Reid e Stewart, e, per quanto riguarda la lingua inglese, sono i principali legislatori della terminologia metafisica moderna.

CAPITOLO II. DELLE INDUZIONI IMPROPRIAMENTE DETTE 1. Dunque l’induzione è quell’operazione della mente per mezzo della quale inferiamo e quello e sappiamo essere vero in un caso particolare, o in più casi particolari, sarà vero in tui i casi e somigliano al primo per certi aspei ben definiti. In altre parole, l’induzione è il processo per mezzo del quale concludiamo e quello e è vero di certi individui di una classe è vero dell’intiera classe; oppure, e quello e è vero in certi istanti sarà vero sempre in circostanze simili. esta definizione esclude dal significato del termine «induzione» varie operazioni logie, alle quali non infrequentemente si dà questo nome. L’induzione, come l’abbiamo definita sopra, è un processo di inferenza: procede dal noto all’ignoto; e nessuna operazione e non implii inferenze, nessun processo in cui quella e passa per conclusione non sia più ampia delle premesse da cui è traa, rientra nel significato del termine. Tuavia nei libri di logica e vanno per la maggiore troviamo e proprio questa viene presentata come la forma più perfea e addiriura come l’unica forma veramente perfea di induzione. In questi libri si iama induzione ogni processo e parta da un’espressione meno generale e mea capo a un’espressione più generale — ogni processo, cioè, passibile di essere enunciato nella forma: «esto e quell’A sono B, perciὸ ogni A è B» — sia e concluda davvero qualcosa sia e non concluda nulla, e si asserisce e l’induzione non è perfea se nell’antecedente, o premessa, non è incluso ogni singolo individuo della classe A: cioè, se la verità di quello e asseriamo della classe non è già stata accertata di ogni singolo individuo della classe, cosicé quella e si iama conclusione non è, in realtà, una conclusione, ma una pura e semplice riasserzione delle premesse. Secondo la fraseologia in questione, si dovrebbero iamare induzioni perfee — anzi, le sole perfee — solo quelle in cui si dice, ad esempio, «Tui i pianeti brillano peré illuminati dalla luce del Sole», dopo aver osservato ciascun pianeta separatamente, o «Tui gli apostoli erano Ebrei», peré questo è vero di Pietro, Paolo, Giovanni, e di ogni altro apostolo — e tue le induzioni simili a queste. esta però è una specie di induzione totalmente diversa dalla nostra: non è un’inferenza da fai noti a fai ignoti, ma una pura e semplice

registrazione stenografica di fai noti. I due ragionamenti apparenti e abbiamo citato non sono generalizzazioni; le proposizioni e vorrebbero esserne le conclusioni non sono, in realtà, proposizioni generali. Una proposizione generale è una proposizione in cui il predicato è affermato o negato di un numero illimitato di individui; cioè, di tui gli individui, poi o molti, e esistono o potrebbero esistere, e posseggono le proprietà connotate dal soggeo della proposizione. «Tui gli uomini sono mortali» non significa tui gli uomini e vivono in questo momento, ma tui gli uomini, passati presenti e di là da venire. ando si limita la significazione di un termine in modo da farne il nome, non già di ogni e qualsiasi individuo e cade soo una certa classe generale, ma soltanto di ciascuno di un certo numero di individui designati come tali e contati, per dir così, individualmente, la proposizione potrà magari essere espressa in linguaggio generale, ma non sarà affao una proposizione generale: sarà semplicemente quel certo numero di proposizioni singolari, scrie in caraere abbreviato. L’operazione sarà forse utilissima, come utili sono la maggior parte delle forme di notazione abbreviate, ma non farà parte della ricerca della verità, ane se spesso avrà una parte importante nella preparazione dei materiali di quella ricerca. Come possiamo riassumere un numero definito di proposizioni singolari in una sola proposizione e sarà generale solo in apparenza ma non in realtà, così possiamo riassumere un numero definito di proposizioni generali in una sola proposizione, e sarà più generale solo apparentemente, non in realtà. Se con un’induzione applicata separatamente a ogni specie distinta di animali abbiamo stabilito e ciascun animale possiede un sistema nervoso, e su questa base affermiamo e tui gli animali posseggono un sistema nervoso, la nostra affermazione somiglia a una generalizzazione; però, dal momento e si limita semplicemente ad affermare di tui ciò e è stato affermato di ciascuno, la conclusione sembra non dirci nulla e non sapessimo già prima. Tuavia si deve fare una distinzione. Se, nel concludere e tui gli animali hanno un sistema nervoso, intendiamo la stessa cosa, e nulla più, e se avessimo deo: «tui gli animali noti», la proposizione non è generale, e il processo mediante il quale l’abbiamo oenuta non è induzione. Ma se intendiamo e le osservazioni compiute sulle varie specie di animali ci hanno fao scoprire una legge della natura animale, e e siamo nella condizione di dire e un sistema nervoso si troverà ane in animali e finora non sono stati scoperti, questa è davvero un’induzione. In

questo caso, però, la proposizione generale contiene qualcosa di più della somma delle proposizioni speciali da cui è stata inferita. La distinzione viene messa in luce con forza ancora maggiore quando consideriamo e se questa generalizzazione autentica è legiima, probabilmente la sua legiimità non riiede e si siano esaminate tue le specie note, senza eccezione. Sono il numero e la natura dei casi, e non il fao e questi siano la totalità dei casi e ci accade di conoscere, a farne una testimonianza sufficiente a provare una legge generale; invece non si può fare l’asserzione più limitata, e si arresta a tui gli animali noti, a meno di non averla verificata rigorosamente in ogni specie. In maniera analoga (per tornare a un esempio precedente) avremmo potuto inferire, non e tui i pianeti e abbiamo esaminato, ma e tui i pianeti in generale brillano di luce riflessa: la prima non è un’induzione; l’ultima è un’induzione ma è una caiva induzione, la cui falsità è provata dal caso delle stelle doppie: corpi dotati di luce propria e a parlar propriamente sono pianeti, peré rotano intorno a un centro. 2. In matematica si usano pareci processi e devono essere distinti dall’induzione, ane se non è infrequente e li si iami con questo nome, e ane se sono così simili all’induzione propriamente dea e le proposizioni a cui meono capo sono vere e proprie proposizioni generali. Per esempio, dopo aver provato relativamente al cerio e una linea rea non può tagliarne la circonferenza in più di due punti, e dopo aver successivamente provato la medesima cosa dell’ellisse, della parabola e dell’iperbole, si può asserire questa proprietà come una proprietà generale delle sezioni conie. La distinzione tracciata nei due esempi precedenti non può trovar posto qui, peré fra tue le sezioni conie note e tutte le sezioni del cono non può esserci alcuna differenza, dal momento e si può dimostrare e un cono non può essere intersecato da un piano se non secondo una di queste quaro linee. Sarebbe perciò difficile rifiutare il nome di generalizzazione alla proposizione cui si è pervenuti, dal momento e al di là di essa non c’è posto per nessun’altra generalizzazione. Ma non c’è induzione peré non c’è inferenza: la conclusione è un puro e semplice riassunto di quello e è stato asserito nelle varie proposizioni da cui la si è traa. Un caso per certi aspei (ma non completamente) simile è dato dalla prova di un teorema di geometria per mezzo di un diagramma. Sia e il diagramma sia stato tracciato sulla carta, sia e esista soltanto nell’immaginazione, la dimostrazione (come abbiamo già osservatoa) non

prova direamente il teorema generale; prova soltanto e la conclusione, e il teorema asserisce in generale, è vera del particolare triangolo o del particolare cerio raffigurato dal diagramma; ma siccome ci rendiamo conto e potrebbe essere provata di qualsiasi cerio allo stesso modo e l’abbiamo provata di quel cerio particolare, raccogliamo in un’unica espressione generale tue le proposizioni singolari susceibili di essere provate in quel modo, e le incorporiamo in una proposizione universale. Avendo mostrato e la somma dei tre angoli dei triangolo ABC è eguale a due angoli rei, concludiamo e la cosa è vera di tui gli altri triangoli, non peré è vera di ABC, ma per la stessa ragione in base alla quale è stata provata vera di ABC. Se proprio dovessimo iamar ciò induzione, il nome più appropriato sarebbe «induzione per parità di ragionamento». Ma il termine non può esserle applicato con proprietà manca la qualità caraeristica dell’induzione, dal momento e la verità oenuta, pur essendo autenticamente generale, non viene creduta sulla base di prove offerte da esempi particolari. Non concludiamo e tui i triangoli hanno quella proprietà, peré ce l’hanno alcuni triangoli: lo concludiamo dall’ulteriore prova dimostrativa e è stata il fondamento della nostra convinzione in quei casi particolari. Nondimeno in matematica ci sono alcuni esempi di cosiddea induzione, in cui la conclusione offre veramente l’apparenza di una generalizzazione fondata su alcuni dei casi particolari inclusi in essa. Un matematico, dopo aver calcolato i termini di una successione aritmetica o algebrica in numero sufficiente ad accertare quella e si iama la legge della successione, non esita a riempire qualsiasi numero di posti successivi, senza ripetere i calcoli. Ma io ritengo e lo faccia solo quando risulta iaro, da considerazioni a priori (e potrebbero essere esposte soo forma di dimostrazione) e il modo di formazione dei termini successivi — ciascuno dal termine e lo precede — dev’essere simile alla formazione dei termini e sono già stati calcolati. E si sono registrati casi in cui il tentativo, azzardato senza la sanzione di tali considerazioni generali, ha condoo a risultati falsi. Si dice e Newton abbia scoperto induivamente il teorema del binomio elevando successivamente un binomio a un certo numero di potenze e confrontando fra loro queste potenze fino a scoprire la relazione in cui la formula algebrica di ciascuna potenza sta con l’esponente di quella potenza e coi due termini del binomio. La cosa non è improbabile: ma un matematico

come Newton, e sembra arrivasse per saltum a princìpi e a conclusioni e i matematici ordinari raggiungevano solo un passo dopo l’altro, non avrebbe certo potuto compiere il confronto in questione senza essere condoo, da esso, al fondamento a priori della legge; infai iunque comprenda la natura della moltiplicazione abbastanza da avventurarsi a moltiplicare parecie righe di simboli con una sola operazione, non può non rendersi conto e quando si eleva un binomio a una certa potenza, i coefficienti devono dipendere dalle leggi di permutazione e di combinazione: riconosciuto questo, il teorema è bell’e dimostrato. In realtà, quando si vide e la legge valeva per alcune tra le potenze più basse, la sua identità con la legge di permutazione dovee suggerire immediatamente le considerazioni e provano la sua validità universale. Pertanto, ane i casi come questi non sono altro e esempi di quella e ho iamato induzione per parità di ragionamento: cioè, non sono esempi di induzione vera e propria, peré non contengono l’inferenza di una proposizione generale da casi particolari. 3. Resta un terzo uso improprio del termine «induzione», e è veramente importante eliminare, peré ha reso straordinariamente confusa la teoria dell’induzione e peré di questa confusione si trova l’esempio nel traato più recente e più elaborato di filosofia induiva e esista in lingua inglese. L’errore in questione consiste nel confondere una pura e semplice descrizione di un insieme di fenomeni osservati — descrizione data con l’aiuto di termini generali — con un’induzione traa da tali fenomeni. Supponiamo e un fenomeno consista di parti e e queste parti possano essere osservate solo separatamente e, per così dire, pezzo per pezzo. Fae queste osservazioni è conveniente (e per molti punti di vista questa convenienza equivale alla necessità) oenere una rappresentazione del fenomeno come un tuo, combinando o, possiamo dire, appiccicando tra loro questi frammenti distaccati. Un navigatore, navigando nel mezzo dell’oceano, scopre una terra. A prima vista, e con una sola osservazione, non può determinare se si trai di un continente o di un’isola; la costeggia, e dopo poi giorni si trova ad averla circumnavivata completamente: allora diiara e è un’isola. In nessun istante particolare e da nessun posto d’osservazione particolare poteva rendersi conto e questa terra era completamente circondata dall’acqua: ha accertato questo fao con una successione di osservazioni parziali e poi ha scelto un’espressione generale e in due o tre parole riassuma la totalità di quello e ha così osservato. Ma in questo processo c’è forse qualcosa e abbia la natura dell’induzione?

Ha inferito qualcosa, e non aveva osservato, da qualcos’altro, e aveva osservato? Certamente no. Ha osservato la totalità di quello e la proposizione asserisce. Che la terra in questione sia un’isola, non è un’inferenza dai fai parziali e il navigatore ha visto nel corso della sua circumnavigazione: è questi fai stessi, è un sommario di questi fai; la descrizione di un fao complesso nei confronti del quale quegli altri fai più semplici stanno nella relazione di parte a tuo. Ora, secondo me non c’è differenza di specie tra questa semplice operazione e l’operazione per mezzo della quale Keplero accertò la natura delle orbite dei pianeti: e l’operazione di Keplero, o almeno, tuo quello e in essa vi era di caraeristico, non era un ao induivo più di quanto non lo sia quello del nostro navigatore immaginario. Lo scopo di Keplero era quello di determinare la traieoria reale descria da ciascun pianeta, o, meglio, dal pianeta Marte (peré proprio a proposito di questo corpo celeste egli stabilì, all’inizio, quelle due, delle sue tre leggi, e non riiedono un confronto tra pianeti). L’unico modo per farlo era quello dell’osservazione direa; e l’osservazione non poteva far altro e accertare un gran numero di posizioni successive — o, meglio, di posizioni successive apparenti — del pianeta. Tuo quello e i sensi potevano accertare senza l’aiuto degli strumenti appropriati era il fao e il pianeta occupa successivamente tue queste posizioni (o, in ogni caso, il fao e occupa posizioni e producono le stesse impressioni sull’ocio) e e passa insensibilmente e senza apparente soluzione di continuità da una posizione all’altra. Il di più e Keplero fece consistee in questo: trovò a quale sorta di curva questi punti differenti avrebbero dato luogo se fossero stati congiunti tui insieme. Espresse l’intiera successione delle posizioni osservate di Marte per mezzo di quella e il door Whewell iama la concezione generale di un’ellisse. est’operazione è ben lungi dall’essere facile come quella del navigatore e per mezzo della concezione generale d’isola ha espresso la serie delle operazioni compiute successivamente sui punti della costa. Ma è esaamente la stessa specie d’operazione, e se è vero e l’una non è un’induzione ma una descrizione, la stessa cosa dev’essere ane vera dell’altra. In questo caso l’unica induzione vera e propria consisté nell’inferire, dal fao e le posizioni osservate di Marte erano rappresentate correamente dai punti di un’ellisse immaginaria, e Marte avrebbe continuato a rotare secondo la stessa ellisse, e nel concludere (prima e la lacuna fosse stata

riempita da ulteriori osservazioni) e nell’intervallo di tempo e intercorre tra un’osservazione e l’altra le posizioni del pianeta dovevano coincidere con i punti intermedi della curva. Peré questi erano fai e non erano stati osservati direamente. Erano inferenze trae dalle osservazioni; fai inferiti, ben diversi, perciò, da fai visti. Ma queste inferenze erano così lontane dal far parte dell’operazione filosofica di Keplero e, anzi, erano state trae molto tempo prima e Keplero fosse nato. Da lungo tempo gli astronomi sapevano e i pianeti ritornano periodicamente nelle medesime posizioni. Accertato questo, per Keplero non c’erano altre induzioni da fare, ed egli non ne fece. Si limitò semplicemente ad applicare la sua nuova concezione ai fai inferiti, così come aveva fao coi fai osservati. Sapendo già e i pianeti continuavano a muoversi secondo le medesime traieorie, quando scoprì e l’ellisse rappresenta correamente la traieoria passata, seppe e quest’ellisse avrebbe rappresentato ane la traieoria futura. Nel trovare un’espressione e compendiava l’un insieme di fai, ne trovo una e compendiava ane l’altro; ma si limitò a trovare l’espressione, non trasse l’inferenza; né (e questo è il criterio autentico di una verità generale) aggiunse alcuné al potere di predizione e già possedeva. 4. Con espressione felice, il door Whewell ha iamato «collegamento dei fai» l’operazione descriiva e permee di riassumere in una sola proposizione un certo numero di deagli. Concordo pienamente con la maggior parte delle sue osservazioni sui processi mentali, e sarei ben lieto di trascrivere in queste mie pagine tua quella parte del suo libro. Solo, penso e sbagli nel presentare questa specie di operazione, e secondo il significato antico e ormai istituzionalizzato del termine non è induzione affao, come il tipo dell’induzione in generale, e nell’enunciare, per tua la sua opera, come princìpi dell’induzione i princìpi del puro e semplice collegamento. Il door Whewell sostiene e la proposizione generale e collega tra loro i fai particolari e ne fa, per dir così, un fao solo, non è la pura e semplice somma di quei fai, ma qualcosa di più, peré nella proposizione si introduce una concezione della mente e non esisteva nei fai presi a sé. «I fai particolari», diceb, «non sono messi assieme, puramente e semplicemente, ma lo stesso ao del pensiero per mezzo del quale vengono combinati aggiunge alla combinazione un elemento nuovo… ando i Greci, dopo aver osservato a lungo i moti dei pianeti, si accorsero e questi moti

potevano essere giustamente considerati come prodoi dal moto di una ruota e rotasse all’interno di un’altra ruota, queste ruote erano creazioni della loro mente aggiunte ai fai e percepivano coi sensi. E ane se non pensavano più e fossero materiali, ma le riducevano a pure e semplici sfere o ceri geometrici, le ruote erano, nondimeno, prodoi della sola mente: qualcosa e veniva ad aggiungersi ai fai osservati. Lo stesso accade in tue le altre scoperte. I fai sono già noti, ma sono isolati e sconnessi finé lo scopritore fornisce, di suo, un principio di connessione. Le perle ci sono, ma non formeranno una collana fin quando qualcuno non provvederà il filo». Mi sia concesso osservare, anzituo, e in questo passo il door Whewell confonde indiscriminatamente esempi dei due processi e io mi sto sforzando di distinguere l’uno dall’altro. ando i Greci abbandonarono la supposizione e i moti planetari fossero prodoi dalla rivoluzione di ruote materiali, e fecero ricorso all’idea di «pure e semplici sfere o ceri geometrici», nel loro cambiamento d’opinione c’era qualcosa di più e non la semplice sostituzione di una curva ideale a una curva fisica. C’era l’abbandono di una teoria e la sostituzione, ad essa, di una pura e semplice descrizione. Nessuno penserebbe di dire e la dorina delle ruote materiali è una pura e semplice descrizione. La dorina era un tentativo di meere in evidenza la forza e agisce sui pianeti e li costringe a muoversi nelle loro orbite. Ma quando, compiendo un grande progresso filosofico, si lasciò da parte il caraere materiale delle ruote mantenendo le sole forme geometrie, si rinunciò al tentativo di render conto dei moti, e tuo quello e rimase della teoria fu una pura e semplice descrizione delle orbite. L’asserzione e i pianeti erano fai girare in tondo da ruote e rotavano all’interno di altre ruote diede luogo alla proposizione e i pianeti si muovono lungo le stesse linee e sarebbero tracciate da corpi e fossero fai girare da ruote. E questo non era altro e un modo di rappresentare la somma dei fai osservati, così come quello di Keplero era un modo diverso, e migliore, di rappresentare le stesse osservazioni. È vero e per queste operazioni semplicemente descriive, e così pure per l’operazione induiva erronea, era indispensabile una concezione della mente. Prima e Keplero potesse identificare le orbite dei pianeti con un’ellisse, alla sua mente deve pur essersi presentata la concezione di un’ellisse. Secondo il door Whewell questa concezione era qualcosa e si aggiungeva ai fai. Egli si esprime come se, col suo modo di concepirli,

Keplero avesse messo qualcosa dentro i fai. Ma Keplero non fece una cosa del genere. L’ellisse era nei fai prima e Keplero lo riconoscesse: proprio come l’isola era un’isola già prima di essere circumnavigata. ello e aveva concepito, Keplero non lo mise dentro i fai: lo vide in essi. Una concezione implica e qualcosa sia concepito, e corrisponde a questo qualcosa; e ane se di per sé stessa non è nei fai ma nella nostra mente, tuavia, se deve comunicare qualcosa a proposito dei fai, dev’essere la concezione di un qualcosa e è realmente nei fai, di quale proprietà e i fai posseggono effeivamente e e potrebbero manifestare ai nostri sensi se i nostri sensi fossero in grado di prenderne conoscenza. Se per esempio il pianeta lasciasse dietro di sé nello spazio una scia visibile e se l’osservatore si trovasse in una posizione fissa, situata a una distanza tale dal piano dell’orbita e gli consentisse di scorgerla tua insieme nel medesimo istante, allora vedrebbe e questa scia è un’ellisse: e se l’osservatore fosse dotato di strumenti e di mezzi di locomozione appropriati potrebbe provare e è un’ellisse misurandone le differenti dimensioni. Anzi, di più: se la scia fosse visibile e se l’osservatore fosse situato in modo da vedere tue le sue parti in successione, ma non tue contemporaneamente, meendo insieme le sue successive osservazioni potrebbe essere in grado di scoprire e la scia è un’ellisse e e il pianeta si muove su di essa. esto caso sarebbe esaamente simile a quello del nostro navigatore e scopre, circumnavigandola, e quella terra è un’isola. Se la traieoria del pianeta fosse visibile, nessuno, penso, meerebbe in dubbio e l’identificarla con un’ellisse significa descriverla: e non vedo peré il fao e la traieoria non cade direamente soo i nostri sensi debba fare quale differenza, dal momento e ogni suo punto può essere determinato con esaezza, proprio come se si traasse di un oggeo dei sensi. Pur tenendo presente la condizione indispensabile e è appena stata enunciata, non riesco a pensare e la funzione delle concezioni nell’operazione consistente nello studiare i fai sia mai stata trascurata o soovalutata. Mai nessuno ha messo in dubbio e per ragionare intorno a qualcosa dobbiamo averne una concezione o e, quando includiamo una moltitudine di cose soo un’espressione generale, nell’espressione sia implicita una concezione di qualcosa comune a quelle cose. Ma da questo non segue affao e la concezione necessariamente preesista, o sia stata costruita dalla mente, utilizzando esclusivamente i suoi propri materiali. Se i fai sono classificati correamente soo la concezione, è peré nei fai

stessi c’è qualcosa di cui la concezione è a sua volta una copia; e se non possiamo percepire direamente questo qualcosa, questo accade a causa del potere limitato dei nostri organi, e non peré la cosa non ci sia. Spesso la concezione stessa si oiene per astrazione da quei medesimi fai e, secondo il linguaggio del door Whewell, la concezione è in séguito iamata a conneere. Whewell stesso l’ammee, quando osserva (e l’osserva in parecie occasioni) quanto grande sarebbe il servizio e renderebbero alla scienza della fisiologia quei filosofi «e stabilissero una concezione precisa, acceabile e coerente della vita»c. Tale concezione può soltanto essere astraa dai fenomeni della vita stessa; da quegli stessi fai e le si riiede di conneere. Indubbiamente, in altri casi invece di raccogliere la concezione dagli stessi fenomeni e tentiamo di collegare, la scegliamo tra quegli altri fenomeni e sono stati raccolti precedentemente per astrazione da altri fai. esto è accaduto nel caso di Keplero. I fai erano fuori della portata di qualsiasi osservazione e in quale modo meesse i sensi in grado di identificare direamente la traieoria del pianeta; di conseguenza la concezione necessaria per formulare una descrizione generale di quella traieoria non poteva essere messa insieme per astrazione dalle osservazioni stesse: la mente dovee perciò fornire in via ipotetica, traendola dalle concezioni oenute da altre porzioni della sua esperienza, quale concezione e rappresentasse correamente la successione dei fai osservati. Dovee perciò costruire un’ipotesi sull’andamento generale del fenomeno e iedersi: Se questa è la descrizione generale, quali saranno i deagli?, e quindi confrontare questi ultimi con i deagli eflfeivamente osservati. Se avessero concordato, l’ipotesi sarebbe servita come descrizione del fenomeno; se no, si sarebbe dovuto necessariamente abbandonarla, e provarne un’altra. Proprio i casi come questo dànno origine alla dorina secondo cui, nel formulare le descrizioni, la mente aggiunge qualcosa di suo, e non trova nei fai. Tuavia, e i pianeti descrivano davvero un’ellisse è un fao sicuro: e anzi un fao e, se possedessimo gli organi visivi adeguati e fossimo situati in una posizione adaa, potremmo vedere. Non avendo questi vantaggi, ma possedendo la concezione di ellisse — o (per esprimere questo stesso significato usando un linguaggio meno tecnico) sapendo e cos’è un’ellisse — Keplero provò se le osservazioni relative alle posizioni del pianeta fossero compatibili con quella traieoria. Trovò e lo erano e di conseguenza asserì come un dato di fao e il pianeta si muove secondo un’orbita elliica. Ma

questo fao, e Keplero non aggiunse al moto del pianeta ma trovò in esso (il fao, cioè, e il pianeta occupa successivamente i vari punti della circonferenza di un’ellisse data), era lo stesso fao le cui parti erano state osservate separatamente: era la somma delle differenti osservazioni. Stabilita questa fondamentale differenza tra la mia opinione e quella del door Whewell, devo aggiungere e la sua esposizione del modo in cui si sceglie una concezione adaa per esprimere fai mi sembra perfeamente giusta. Credo e l’esperienza di tui i pensatori testimonierà e il processo va avanti per tentativi: consiste di una successione di tentativi d’indovinare, molti dei quali vengono scartati, finé, da ultimo, ne càpita uno adao ad essere scelto. Sappiamo dallo stesso Keplero e, prima di imbaersi nella «concezione» di un’ellisse, tentò diciannove altre traieorie immaginarie e e, trovandole in contraddizione con le osservazioni, fu obbligato a scartarle. Ma come bene dice il door Whewell, pur essendo un tentativo d’indovinare, l’ipotesi e ha successo dovrebbe essere iamata, in genere, non un tentativo fortunato, ma un tentativo abile. I tentativi d’indovinare e servono a dare unità mentale e completezza a un caos di particolari dispersi, sono incidenti e raramente càpitano a intellei e non siano forniti di una vasta conoscenza e non siano ben addestrati alle combinazioni intelleuali. Fino a e punto questo metodo e procede per tentativi, così indispensabile come mezzo per collegare fai a scopi descriivi, possa essere applicato all’induzione stessa, e quale funzione gli spei in questo campo, lo prenderemo in considerazione nel capitolo di questo Libro e si riferisce alle ipotesi. In quest’occasione dobbiamo soprauo distinguere il processo di collegamento dall’induzione propriamente dea; e peré la distinzione possa essere resa più iara sarà bene riiamare l’aenzione su un’osservazione curiosa e interessante, e è tanto sorprendentemente vera della prima operazione quanto, mi sembra, inequivocabilmente falsa della seconda. In stadi differenti del progresso della conoscenza, i filosofi hanno impiegato concezioni differenti per collegare il medesimo ordine di fai. Le prime, rozze osservazioni dei corpi celesti, nelle quali non si raggiungeva, e non si cercava, una precisione minuta, non presentavano nulla di incompatibile con la rappresentazione della traieoria di un pianeta come di un cerio perfeo, e aveva la Terra come centro. Man mano e l’accuratezza delle osservazioni crebbe e si scopersero fai e non erano

conciliabili con questa semplice supposizione, si fece variare la supposizione per poter collegare tra loro questi nuovi fai. Tale supposizione fu poi faa variare altre volte ancora, a misura e i fai diventavano più numerosi e precisi. La Terra fu allontanata dal centro e situata in quale altro punto, all’interno del cerio: si suppose e il pianeta rotasse descrivendo un cerio più piccolo, iamato epiciclo, intorno a un punto immaginario e rotava in cerio intorno alla Terra. A misura e l’osservazione disiudeva nuovi fai e contraddicevano queste rappresentazioni, si aggiungevano altri epicicli e altre eccentrie e la complicazione crebbe in proporzione, finé, da ultimo, Keplero spazzò via tui questi ceri e li sostituì con la concezione di un’ellisse perfea. Ma si è trovato e neane questa concezione rappresenta in modo completamente correo le osservazioni accurate e si compiono al giorno d’oggi, osservazioni e rivelano molte piccole deviazioni dall’orbita esaamente elliica. Ora, il door Whewell ha osservato e queste espressioni generali successive, in apparenza tanto in conflio tra loro, erano tue corree: tue rispondevano allo scopo del collegamento; tue meevano la mente in grado di rappresentarsi con facilità, e con un solo colpo d’ocio, l’intiero corpo dei fai accertati in quell’epoca; ciascuna, per parte sua, serviva come una descrizione correa dei fenomeni e fino ad allora i sensi avevano riconosciuto. Se in séguito sorse la necessità di scartare una di queste descrizioni generali dell’orbita del pianeta, e di tracciare una differente linea immaginaria per mezzo della quale esprimere la serie delle posizioni osservate, ciò accadde peré si era aggiunto un certo numero di fai nuovi e era necessario combinare con i fai veci in modo da dar luogo a una sola descrizione generale. Ma ciò non intaccava la correezza dell’espressione precedente, considerata come un’asserzione generale dei soli fai e era destinata a rappresentare. Tant’è vero e (come ha giustamente osservato il signor Comte) queste antie generalizzazioni — persino le più rozze e le più imperfee qual è quella del movimento circolare uniforme — sono così lontane dall’essere del tuo false e ane oggi vengono abitualmente impiegate dagli astronomi, quando non si riieda altro e una rozza approssimazione alla correezza. «L’astronomie moderne, en détruisant sans retour les hypothéses primitives, envisagées comme lois réelles du monde, a soigneusement maintenu leur valeur positive et permanente, la propriété de représenter commodément les phénomènes quand’il s’agit d’une première ébaue. Nos ressources à cet égard sont même bien plus étendues, précisément à cause que nous ne nous

faisons aucune illusion sur la réalité des hypothèses; ce qui nous permet d’employer sans scrupule, en aque cas, celle que nous jugeons la plus avantageuse»d. L’osservazione del door Whewell è perciò filosoficamente correa. Espressioni successive per il collegamento di fai osservati, o, in altre parole, descrizioni successive, come di un tuo, di un fenomeno osservato solo in parte, bené in conflio tra loro, possono essere tue corree, fin dove arrivano. Ma sarebbe certamente assurdo asserire la stessa cosa di induzioni in conflio tra loro. Lo studio scientifico dei fai può essere intrapreso per tre scopi differenti: la semplice descrizione dei fai; la loro spiegazione; la loro predizione, intendendo con «predizione» la determinazione delle condizioni soo le quali si può aspeare e accadano di nuovo fai simili. Il nome «induzione» non spea, per parlar propriamente, alla prima di queste tre operazioni: spea invece alle altre due. Ora, l’osservazione del door Whewell è vera solo della prima. Considerata come una pura e semplice descrizione, la teoria del moto circolare dei cieli rappresenta perfeamente bene i trai generali dei movimenti celesti. Aggiungendo senza limitazioni nuovi epicicli, questi moti (ane come li conosciamo noi oggi) possono essere espressi accuratamente quale e sia il grado di accuratezza riiesto. Considerata come una pura e semplice descrizione, la teoria del moto elliico presenterebbe su quella del moto circolare un grande vantaggio dal punto di vista della semplicità e della conseguente facilità di concepirla e di ragionarci su, ma in realtà non sarebbe più vera dell’altra. Descrizioni differenti, dunque, possono essere tue vere; ma sicuramente non possono esserlo spiegazioni differenti. La dorina e i corpi celesti si muovono per una virtù inerente alla loro natura celeste; la dorina e sono messi in moto da un urto (dorina e condusse all’ipotesi dei vortici, come la sola forza di propulsione in grado di costringere i corpi a vorticare in cerio), e la dorina newtoniana, secondo cui sono mossi dalla composizione di una forza centripeta e di una forza propulsiva originaria, sono tue spiegazioni raccolte mediante un’induzione vera e propria da casi e si supponevano paralleli: e tue queste dorine furono, l’una dopo l’altra, acceate dai filosofi come verità scientifie intorno ai corpi celesti. Si può dire, di queste teorie, quello e è stato deo delle differenti descrizioni, e cioè e, fin dove arrivano, sono vere? Non è forse iaro e solo una può essere in ogni grado vera, mentre le altre due non possono non essere completamente

false? Tanto basti per quanto riguarda le spiegazioni. Confrontiamo ora due differenti predizioni: la prima, e quando un pianeta o un satellite si trovano in posizione tale e uno proiea la sua ombra sull’altro, ci sarà un eclisse; la seconda, e quando c’è un eclisse l’umanità è minacciata da quale grossa calamità. Dovremo dire e queste due dorine differiscono soltanto per il grado della loro verità? Cioè, differiscono solo in quanto esprimono fai reali ma con gradi differenti di accuratezza? Sicuramente l’una è vera, l’altra assolutamente falsae. In ogni modo, dunque, è evidente e lo spiegare l’induzione come il collegamento di fai per mezzo di concezioni appropriate — cioè, per mezzo di concezioni e esprimono realmente questi fai — significa confondere la pura e semplice descrizione dei fai osservati con l’inferenza traa da questi fai, e aribuire alla seconda quella e è una proprietà caraeristica della prima. Tra collegamento e induzione c’è comunque una correlazione reale, e è importante comprendere correamente. Il collegamento non è sempre induzione, ma l’induzione è sempre collegamento. L’asserzione e i pianeti si muovono descrivendo un’orbita elliica non era altro e un modo di rappresentare fai osservati, non era altro e un collegamento; invece l’asserzione e i pianeti sono arai dal Sole, tendono verso di esso, era l’asserzione di un nuovo fao, inferito per induzione. Ma l’induzione, una volta faa, adempie egualmente agli scopi del collegamento. Porta gli stessi fai, e Keplero aveva connesso con la sua concezione dell’ellisse, soo il conceo aggiunto di corpi su cui agisce una forza centrale, e perciò serve come un nuovo legame e connee quei fai; come un nuovo principio per la loro classificazione. Inoltre, le descrizioni e impropriamente vengono confuse con l’induzione, sono, nondimeno, una preparazione necessaria all’induzione, preparazione non meno necessaria di quanto lo sia l’osservazione correa dei fai medesimi. Se innanzi tuo non avessimo collegato tra loro le osservazioni mediante una concezione generale, non saremmo mai riusciti a oenere una base per un’induzione, ecceo e nei casi di fenomeni di ampiezza molto limitata. Non saremmo affao capaci di affermare predicati di un soggeo e non possa essere osservato altrimenti e pezzo per pezzo: ancor meno potremmo estendere per induzione quei predicati ad altri soggei simili. Pertanto l’induzione presuppone sempre, non solo e le osservazioni necessarie siano state compiute con l’acutezza necessaria, ma

ane e i risultati di queste osservazioni siano, fin dove è possibile, connessi tra loro mediante descrizioni generali e meano la mente in grado di rappresentare a se stessa, come un tuo, qualsiasi fenomeno e possa essere rappresentato nel modo e si è deo. 5. Il door Whewell ha risposto abbastanza diffusamente alle osservazioni precedenti riformulando le sue opinioni, ma (per quanto riesco a capire) senza aggiungere nulla di veramente importante alle sue prime argomentazioni. Comunque, poié le mie argomentazioni non hanno avuto la buona fortuna di far impressione su di lui, aggiungerò alcune osservazioni, e tendono a mostrare più iaramente in e cosa consista la nostra differenza d’opinioni, e, in certa misura, ane a renderne ragione. asi tue le definizioni di induzione date dagli scriori più autorevoli fanno consistere questo procedimento nel trarre inferenze da casi noti a casi ignoti; nell’affermare, di una classe, un predicato e si è trovato vero di alcuni casi appartenenti alla classe; nel concludere, dal fao e alcune cose hanno una certa proprietà, e le altre cose e gli somigliano hanno la medesima proprietà; o, dal fao e una certa cosa ha manifestato una proprietà in un certo istante, e la cosa avrà quella proprietà in altri istanti. Difficilmente si potrà sostenere e l’operazione di Keplero fosse un’induzione in questo senso del termine. L’asserzione e Marte si muove descrivendo un’orbita elliica non era una generalizzazione da casi individuali a una classe di casi. Né si traava di un’estensione a tui gli istanti di quello e era stato trovato vero per quale istante particolare. La quantità totale di generalizzazione di cui il caso era passibile, era già completa, o sarebbe già potuta esserlo. Molto tempo prima e si pensasse alla teoria del moto elliico si era già accertato e i pianeti ritornano periodicamente agli stessi luoghi apparenti; la serie di questi luoghi era già stata — o sarebbe potuta essere stata — determinata completamente, e il corso apparente di ciascun pianeta contrassegnato, sul globo celeste, da una linea ininterroa. Keplero non estese una verità osservata a casi diversi da quelli in cui era stata osservata: non allargò il soggetto della proposizione e esprimeva i fai osservati. L’alterazione ebbe luogo nel predicato. Invece di dire: «I luoghi successivamente occupati dal pianeta Marte sono questi e questi altri», Keplero riassunse i fai nell’asserzione e le posizioni successive di Marte sono punti situati su un’ellisse. È vero e, come dice il door Whewell, quest’asserzione non era, puramente e semplicemente, la

somma delle osservazioni, bensì la somma delle osservazioni viste sotto un f nuovo punto di vista . Però non era la somma di qualcosa di più delle osservazioni — com’è invece un’induzione vera e propria. Non prendeva soo di sé altri casi e non fossero quelli e erano stati osservati effeivamente, o e si sarebbero potuti inferire dalle osservazioni prima e si presentasse il nuovo punto di vista. Non ci fu quella transizione da casi noti a casi ignoti, e costituisce l’induzione nel significato originale e generalmente acceato del termine. È vero e le vecie definizioni non possono spuntarla sulle nuove conoscenze: e se, in quanto processo logico, l’operazione compiuta da Keplero fosse realmente identica con quella e ha luogo nell’induzione riconosciuta come tale, la definizione dell’induzione dovrebbe essere allargata al punto da farle comprendere tale operazione, peré il linguaggio scientifico dovrebbe adaarsi alle relazioni vere e sussistono tra le cose per designare le quali viene impiegato. Proprio su questo punto non sono d’accordo col door Whewell. Egli pensa e le operazioni siano identie. Non ammee e in nessun caso d’induzione si trovi un processo logico, ecceuato quello e ebbe luogo nel caso di Keplero, cioè: tirare ad indovinare fin quando non si trova e quello e si è indovinato combacia coi fai. Di conseguenza, come vedremo fra poco, rifiuta tui i canoni dell’induzione, peré non è per mezzo loro e tiriamo ad indovinare. La teoria della logica della scienza del door Whewell sarebbe perfeissima se non lasciasse completamente da parte le questione della prova. Ma a mio modo di vedere esiste qualcosa come una prova, e le induzioni differiscono in maniera radicale dalle descrizioni proprio relativamente a quest’elemento. L’induzione è prova: è inferire qualcosa e non si è osservato da qualcosa e si è osservato; esige, perciò, un adeguato criterio della prova. Fornire questo criterio è lo scopo speciale della logica induiva. ando, al contrario, ci limitiamo semplicemente a collazionare osservazioni note e, per dirla con le parole del door Whewell, le conneiamo per mezzo di una nuova concezione, se la concezione serve veramente a conneere le osservazioni allora non abbiamo bisogno d’altro. Poié la proposizione in cui la concezione è incorporata non pretende ad altra verità se non a quella e può condividere con molti altri modi di rappresentare i medesimi fai, non avrà bisogno d’altro se non di essere compatible con questi fai. Non riiede e non ammee prove; può tuavia servire a provare altre cose nella misura in cui, instaurando una connessione mentale tra questi fai e altri

fai la cui somiglianza con gli altri non si era potuta scorgere prima, rende il caso simile a un’altra classe di fenomeni, riguardo ai quali sono già state fae le induzioni vere e proprie. così, la cosiddea legge di Keplero fece rientrare l’orbita di Marte nella classe «ellisse», e in tal modo provò e tue le proprietà dell’ellisse sono vere dell’orbita: ma di questa prova la legge di Keplero fornì la premessa minore e non (come accade con le induzioni vere e proprie) la maggiore. Secondo il door Whewell nulla è induzione in cui non venga introdoo una nuova concezione mentale, e tuo è induzione in cui ci sia tale concezione. Ma questo equivale a confondere due cose molto diverse: invenzione e prova. L’introduzione di una nuova concezione fa parte dell’invenzione, e l’invenzione può essere indispensabile per qualsiasi operazione, ma non costituisce l’essenza di nessun’operazione. Si può introdurre una nuova concezione per scopi descriivi, così come la si può introdurre per scopi induivi, ma questa nuova concezione è così lontana dall’essere costitutiva dell’induzione e non necessariamente quest’ultima ne ha bisogno. La maggior parte delle induzioni non riiedono nessuna concezione se non quella e era già presente in ognuno dei casi particolari sui quali l’induzione è fondata. Che tui gli uomini siano mortali è indubbiamente una conclusione induiva: tuavia per suo mezzo non si introduce nessuna concezione nuova. Chiunque sappia e un uomo qualsiasi è morto, è in possesso di tue le concezioni contenute nella generalizzazione induiva. Però secondo il door Whewell il processo d’invenzione, e consiste nel formare una nuova concezione compatibile coi fai, non è semplicemente una parte necessaria di tue le induzioni, ma ne costituisce la totalità. L’operazione mentale e da un certo numero di osservazioni distaccate estrae certi caraeri generali per i quali i fenomeni osservati si somigliano l’un l’altro o somigliano ad altri fai noti, è ciò e Bacone, Loe, e la maggior parte dei metafisici successivi hanno inteso colla parola «astrazione». A mio parere, invece, è rigorosamente correo dal punto di vista logico iamare «descrizione» un’espressione generale oenuta per astrazione, e connea fai noti per mezzo dei loro caraeri comuni e non concluda, da questi fai, a fai ignoti. Del resto, non vedo in quale altro modo si possano descrivere le cose. Comunque la mia posizione non dipende dall’impiego di quella particolare parola: non m’importa nulla di usare il termine del door Whewell, «collegamento», oppure le frasi più generali

«modo di rappresentare, o di esprimere, i fenomeni», puré sia ben iaro e il processo non è induzione, ma qualcosa di radicalmente diflferente. Le cose e si possono utilmente dire in più a proposito del collegamento, o dell’espressione correlativa inventata dal door Whewell, «esplicazione delle concezioni», e, in generale, a proposito delle idee e delle rappresentazioni mentali in quanto connesse con lo studio dei fai, troverà un luogo più appropriato nel Libro quarto, e traa delle operazioni sussidiarie dell’induzione: a questo Libro devo rimandare il leore per rimuovere qualsiasi difficoltà e la presente discussione possa aver lasciato sussistere. a. V. più sopra. b. Novum Organum Renovatum, pp. 72, 73. c. Novum Organum Renovatum, p. 32. d. [Cours de philosophic positive, vol. II, p. 202. «L’astronomia moderna, pur distruggendo senza possibilità d’appello le ipotesi primitive, considerate come leggi reali del mondo, ha tuavia accuratamente mantenuto il loro valore positivo e permanente, la proprietà di rappresentare comodamente i fenomeni, quando si trai di un primo abbozzo. Le nostre risorse a questo riguardo sono però ben più estese, proprio peré non ci facciamo illusioni sulla realtà delle ipotesi; e questo ci permee di impiegare senza scrupoli quelle e giudiiamo più vantaggiose in ciascun caso»]. e. Nella sua risposta, il door Whewell mee in dubbio la distinzione e abbiamo tracciato qui e sostiene e non solo descrizioni differenti, ma ane spiegazioni differenti di un fenomeno possono essere tue vere. A proposito delle tre teorie sui moti dei corpi celesti dice (Philosophy of Discovery, p. 231): «Indubbiamente tue queste spiegazioni possono essere vere e tra loro compatibili: lo sarebbero se ciascuna di esse fosse stata portata alle sue estreme conseguenze, in modo da mostrare in qual maniera la si possa rendere compatibile coi fai. E in realtà, questo compito venne in gran parte eseguito. La dorina secondo cui i corpi celesti sarebbero mossi da vortici fu modificata con successo, così da farla coincidere, nei risultati, con la dorina di una forza centripeta inversamente proporzionale ai quadrati delle distanze… Raggiunto questo punto, il vortice si ridusse a un macinario, bene o mai escogitato, per produrre tale forza centripeta e perciò cessò di essere in contraddizione con la dorina della forza centripeta. Lo stesso Newton non sembra essere stato troppo contrario allo spiegare la gravità ricorrendo all’impulso. Tanto poco è vero e una teoria è necessariamente falsa se l’altra è vera! Il tentativo di spiegare la gravità per mezzo dell’impulso di correnti di particelle e vorticano per l’universo, tentativo e ho menzionato nella mia Philosophy, è così lontano dall’essere incompatibile con la teoria newtoniana, e anzi è fondato interamente su di essa. La cosa vale ane per la dorina secondo cui i corpi celesti si muovono per una virtù intrinseca. Se questa dorina fosse stata sostenuta in quale modo e la portasse a concordare coi fai, si sarebbero determinate le leggi della virtù intrinseca, e si sarebbe trovato e la virtù si riferisce al corpo centrale. In questo modo la “virtù intrinseca” sarebbe dovuta coincidere, nei suoi effei, con la forza newtoniana, tranne e per quanto riguarda la parola “intrinseco”. Naturalmente, se si trova e una parte di una teoria precedente — la parte cioè a cui fa riferimento la parola “intrinseco” — è insostenibile, nel passaggio a teorie successive e più esae questa parte viene rigeata tanto con induzioni di questa specie, quanto con quelle e il signor Mill iama descrizioni. Pertanto non è possibile scoprire ancora quale vestigio di validità nella distinzione, e il signor Mill tenta di

tracciare, tra descrizioni come quella delle orbite elliie data da Keplero, e altri esempi d’induzione». Se la dorina dei vortici significasse, non già e esistono vortici, ma solo e i pianeti si muovono nella stessa maniera in cui si moverebbero se fossero trascinati in tondo dai vortici; se l’ipotesi fosse un puro e semplice modo di rappresentare i fai e non un tentativo di renderne ragione; se, in breve, fosse soltanto una descrizione, sarebbe indubbiamente riconciliabile con la teoria newtoniana. Ma i vortici non erano puramente e semplicemente un aiuto per concepire i moti dei pianeti: erano un agente fisico immaginario, e spingeva aivamente i pianeti, un fao materiale e può essere vero o falso, ma e non può essere vero e falso contemporaneamente. Stando alla teoria di Descartes è vero; stando a quella di Newton non lo è. Probabilmente il door Whewell vuol dire e siccome le frasi «forza centripeta» e «forza propulsiva» diiarano non la natura, ma soltanto la direzione della forza, la teoria newtoniana non contraddice assolutamente nessun’ipotesi e si possa formulare riguardo il modo in cui tali forze vengono prodoe. La teoria newtoniana, considerata come una pura e semplice descrizione dei moti planetari, non contraddice nessuna di tali ipotesi; ma le contraddice se la si considera come una spiegazione dei moti in parola. In e cosa consiste, infai, la spiegazione? Nel far rientrare quei moti soo una legge generale e vale tra tue le particelle di materia e nell’identificarla con la legge in forza della quale i corpi cadono al suolo. Se i pianeti sono mantenuti nella loro orbita da una forza e spinge le particelle e li compongono verso ogni altra particella di materia nel sistema solare, allora ciò e li mantiene nelle loro orbite non è la forza propulsiva di certe correnti di materia e li fanno vorticare in tondo. Una spiegazione esclude l’altra nel modo più assoluto. O i pianeti non sono mossi da vortici, o non si muovono in forza di una legge comune a tua la materia. È impossibile e queste due opinioni possano essere entrambe vere. Altrimenti si potrebbe dire e non c’è contraddizione tra l’asserire e un uomo è morto peré qualcuno l’ha ucciso e l’asserire e lo stesso uomo è morto di morte naturale. Ancora: la teoria secondo cui i pianeti si muovono per una virtù intrinseca alla loro natura celeste è incompatibile sia con l’una sia con l’altra delle due dorine: sia con la dorina secondo cui i corpi sono mossi da vortici, sia con quella secondo cui si muovono grazie a una proprietà e hanno in comune con la Terra e con tui i corpi terrestri. Il door Whewell dice e se si lascia fuori la parola «intrinseca» la teoria della virtù intrinseca concorda con quella di Newton — e (dice) la si lascerebbe fuori se «si trovasse e la teoria è insostenibile». Ma lasciate fuori la parola, e dove va a finire la teoria? La parola «intrinseca» è la teoria. Se la si tralascia non rimane nulla, tranne e i corpi celesti si muovono grazie a «una virtù», cioè, a un potere di quale genere; oppure in virtù della loro natura celeste; e questo contraddice la dorina e i corpi terrestri cadono in forza della medesima legge. Se il door Whewell non è ancora soddisfao, qualsiasi altro argomento servirà egualmente bene a meere alla prova la sua dorina. Ben difficilmente il door Whewell dirà e non c’è contraddizione tra la teoria dell’emissione corpuscolare e la teoria ondulatoria della luce, o e possono esserci, contemporaneamente, una e due elericità, o e l’ipotesi secondo cui le forme organie superiori si generano sviluppandosi dalle forme inferiori e l’ipotesi di ai di creazione separati e successivi sono perfeamente riconciliabili; o e la teoria secondo cui i vulcani sono alimentati da un fuoco centrale e la teoria e li aribuisce all’azione imica di sostanze poste a una distanza relativamente piccola soo la superficie terrestre sono tra loro compatibili, e, fin dove arrivano, tue vere. Se spiegazioni differenti del medesimo fao non possono essere entrambe vere, certo ancor meno possono esserlo predizioni differenti. Il door Whewell se la prende (non è necessario, qui, considerare per quali ragioni) con l’esempio e io ho scelto a questo proposito, e pensa e un’obiezione mossa a un’illustrazione costituisca una risposta sufficiente a una teoria. È facile trovare esempi e non possano prestare il fianco alla sua obiezione, se è possibile rendere più iara, con alcuni esempi, la proposizione e predizioni in conflio tra loro non possono essere entrambe vere. Supponiamo e il fenomeno sia una cometa scoperta da poco, e e un astronomo predicà il suo ritorno una volta ogni trecento anni e un altro una volta ogni quarocento: è possibile e abbiano ragione tui e due? Colombo predisse e navigando costantemente verso ponente sarebbe tornato, dopo un certo tempo,

allo stesso punto dal quale era salpato, mentre i suoi oppositori asserivano e non avrebbe mai potuto ritornarci se non tornando indietro: dovremo dire e sia lui sia i suoi oppositori profetizzavano il vero? Erano «vere e tra loro compatibili» (per usare le parole del door Whewell) le predizioni e preconizzavano le meraviglie delle ferrovie e della navigazione a vapore e quelle e davano per sicuro e l’Atlantico non si sarebbe mai potuto araversare grazie alla navigazione a vapore, e un treno non sarebbe mai stato spinto a dieci miglia all’ora? Il door Whewell non vede alcuna differenza tra il sostenere opinioni contraddiorie su una questione di fao e il limitarsi ad impiegare analogie differenti allo scopo di facilitare la concezione del medesimo fao. Il caso delle induzioni differenti appartiene alla prima classe, quello di descrizioni differenti alla seconda. f. Phil, of Discov., p. 256.

CAPITOLO III. IL FONDAMENTO DELL’INDUZIONE 1. L’induzione propriamente dea, in quanto distinta da quelle operazioni mentali e quale volta, bené impropriamente, vengono designate con lo stesso nome (operazioni e ho tentato di caraerizzare nel capitolo precedente) può dunque essere definita sommariamente come una generalizzazione dall’esperienza. Consiste nell’inferire, da alcuni casi individuali in cui si osserva l’accadere di un fenomeno, e il fenomeno accade in tui i casi di una certa classe, cioè, in tui i casi e somigliano ai primi per quelle circostanze e sono considerate rilevanti. Non siamo ancora pronti a far vedere in qual modo le circostanze rilevanti debbano essere distinte da quelle e rilevanti non sono, o peré alcune delle circostanze siano rilevanti e alcune altre non lo siano. Dobbiamo osservare, in primo luogo, e nella stessa diiarazione di quello e l’induzione è, è implicito un principio, un’assunzione e riguarda il corso della natura e l’ordine dell’universo; vale a dire il principio e in natura esistono cose come casi paralleli; e quello e accade una volta accadrà una seconda volta in circostanze sufficientemente simili, e accadrà non solo una seconda volta, ma tue le volte e ricorreranno le medesime circostanze. esta, dico, è un’assunzione implicita in ogni caso d’induzione. E se consultiamo il corso effeivo della natura troviamo e l’assunzione è legiima. Per quanto ne sappiamo, l’universo è costituito in modo tale e tuo quello e è vero in un qualsiasi caso singolo sarà vero in tui i casi di un certo tipo: la sola difficoltà è quella di trovare quale sia questo tipo. esto fao universale, e è la garanzia di cui siamo in possesso per tue le inferenze trae dall’esperienza, è stato descrio da filosofi differenti in differenti forme linguistie: e il corso della natura è uniforme, e l’universo è governato da leggi generali, e via dicendo. Uno dei più consueti tra questi modi d’espressione — ma ane uno dei meno adeguati — è quello e è stato introdoo nell’uso familiare dai metafisici della scuola di Reid e Stewart. Costoro descrivono di solito la disposizione della mente umana a generalizzare partendo dall’esperienza — propensione, questa, e i filosofi in parola considerano come un istinto della nostra natura — con quale nome del tipo: «la nostra convinzione intuitiva e il futuro somiglierà al passato».

Ora, il signor Bailey1 ha fao giustamente notarea e (sia o non sia questa tendenza un elemento originario e fondamentale della nostra natura) il tempo, nelle sue modificazioni di passato, presente e futuro, non ha nulla da fare né con la credenza in se stessa, né con i suoi fondamenti. Crediamo e il fuoco scoerà domani, peré scoa oggi e scoava ieri; ma crediamo, esaamente per le medesime ragioni: e scoava prima e fossimo nati, e e scoa proprio oggi in Cocincina. Non inferiamo dal passato al futuro in quanto passato e futuro: inferiamo dal noto all’ignoto; da fai osservati a fai non osservati; da ciò e abbiamo percepito, o di cui siamo stati direamente consapevoli, a ciò e non è ancora entrato nell’àmbito della nostra esperienza. Soo quest’ultima categoria rientra l’intiera regione del futuro, ma ane la porzione di gran lunga più vasta del presente e del passato. alunque sia il modo più appropriato di esprimerla, la proposizione e il corso della natura è uniforme è il principio fondamentale, o assioma generale, dell’induzione. Sarebbe tuavia un grosso errore offrire questa larga generalizzazione come una spiegazione del processo induivo. Al contrario: sostengo e questa proposizione è essa stessa un caso di induzione, e di un’induzione e non è affao tra le più ovvie. Lungi dall’essere la prima induzione e compiamo, è una delle ultime, o, in ogni caso, una di quelle e raggiungono per ultime un’accuratezza filosofica rigorosa. Anzi, in quanto massima generale non è entrata in testa quasi a nessuno, se non ai filosofi, e (come avremo più volte opportunità di osservare) neppure i filosofi hanno sempre avuto una concezione molto esaa della sua portata e dei suoi limiti. La verità è e questa grande generalizzazione è a sua volta fondata su generalizzazioni precedenti. Le più oscure leggi di natura furono scoperte per suo mezzo, ane se le più ovvie devono essere state comprese, e devono aver ricevuto l’assenso in quanto verità generali, addiriura prima e se ne sentisse parlare. Non ci sarebbe mai passato per la mente di affermare e tui i fenomeni hanno luogo secondo leggi generali, se non fossimo prima pervenuti, nel caso di una gran quantità di fenomeni, a quale conoscenza delle leggi stesse, e questo non si poteva fare altrimenti e con l’induzione. In qual senso, dunque, un principio e è così lontano dall’essere la nostra primissima induzione, può essere considerato come la garanzia per tue le altre induzioni? Nel solo senso in cui (come abbiamo già visto) le proposizioni generali e colloiamo all’inizio dei nostri ragionamenti quando li meiamo in

sillogismo, contribuiscono realmente in quale modo alla validità dei ragionamenti stessi. Come osserva l’arcivescovo Whately, ogni induzione è un sillogismo in cui è stata soppressa la premessa maggiore; oppure (come preferisco dire io) ogni induzione può essere messa nella forma di un sillogismo fornendole una premessa maggiore. Se davvero lo facessimo, il principio e ora stiamo prendendo in considerazione — il principio cioè dell’uniformità del corso della natura — apparirebbe come la premessa maggiore fondamentale di tue le induzioni e starebbe perciò, con tue le induzioni, nella relazione in cui (come abbiamo tanto diffusamente mostrato) la proposizione maggiore di un sillogismo sta sempre con la conclusione: non contribuisce affao a provarla, ma è una condizione necessaria del fao e la conclusione sia provata, dal momento e nessuna proposizione risulta provata per cui non si possa trovare una premessa maggiore verab. alcuno forse penserà e l’asserzione, e l’uniformità del corso della natura è la premessa maggiore fondamentale di tui i casi di induzione, riieda alcune spiegazioni. Certo, non è la premessa maggiore immediata di ogni ragionamento induivo. La spiegazione correa di questo fao dev’essere ritenuta quella e ne dà l’arcivescovo Whately. Dice giustamente Whately: l’induzione «Giovanni, Pietro, ecc., sono mortali, perciò tui gli uomini sono mortali» può essere messa in sillogismo premeendole come sua premessa maggiore (cosa questa e, in ogni caso, è la condizione necessaria della validità del ragionamento) la proposizione e ciò e è vero di Giovanni, Pietro, ecc., è vero di tua l’umanità. Ma come siamo pervenuti a questa premessa maggiore? La cosa non è evidente di per sé, anzi, in tui i casi di generalizzazioni prive di garanzie, non è neppure vera. Allora, come ci siamo arrivati? Necessariamente, o per mezzo dell’induzione o per mezzo del ragionamento deduivo; e, se ci siamo arrivati per induzione, allora, come tui i ragionamenti induivi, il processo può essere messo nella forma di un sillogismo. È perciò necessario costruire questo sillogismo preliminare. Alla lunga, c’è una sola costruzione possibile. La prova vera e propria e quello e è vero di Giovanni, Pietro, ecc., è vero di tui gli uomini, può solo essere e un’ipotesi differente contraddirebbe all’uniformità e sappiamo esistere nel corso della natura. Se qui ci sia o no una contraddizione, può essere materia di una ricerca lunga e delicata: ma se non ci fosse non avremmo il fondamento sufiiciente per la maggiore del sillogismo induivo. È iaro, di qui, e se meiamo l’intiero corso di una qualsiasi

argomentazione induiva in una serie di sillogismi, arriveremo, araverso un numero più o meno grande di passi, a un sillogismo ultimo, e avrà per premessa maggiore il principio, o assioma, dell’uniformità del corso della naturac. Nel caso di quest’assioma non c’era da aspearsi e sulle ragioni in base alle quali lo si deve acceare come vero, regnasse tra i pensatori un’unanimità maggiore di quanta non ne regni negli altri casi. Ho già affermato e lo considero a sua volta come una generalizzazione dall’esperienza. Altri sostengono e si traa di un principio e la costituzione stessa della facoltà del nostro pensiero ci costringe ad assumere come vero, anteriormente ad ogni verificazione empirica. Poié tanto recentemente e tanto a lungo ho combauto una dorina simile, applicata agli assiomi della matematica, con argomenti e possono essere applicati in larga misura ane al caso presente, rinvierò la discussione più particolareggiata di questo punto così controverso, relativa all’assioma fondamentale dell’induzione, a una fase più avanzata della ricercad. Per il momento è più importante comprendere a fondo il significato dell’assioma stesso. Infai, la proposizione e il corso della natura è uniforme possiede più la brevità adaa al linguaggio popolare e non la precisione riiesta dal linguaggio filosofico: prima di poter ammeere la verità dell’asserzione i suoi termini esigono di essere spiegati e di ricevere una significazione più rigorosa di quella e hanno ordinariamente. 2. La coscienza di ciascuno di noi lo rende certo e non sempre ci si aspea uniformità nel corso degli eventi; non sempre si crede e l’ignoto sarà simile al noto, e il futuro somiglierà al passato. Nessuno crede e in tui gli anni a venire la sucessione di pioggia e di bel tempo sarà la stessa e nel presente. Nessuno si aspea e i suoi sogni si ripeteranno ogni noe. Al contrario, ognuno menziona come qualcosa di straordinario il fao e il corso della natura sia costante e somigli a se stesso in questi particolari. Il cercare la costanza dove non c’è da aspearsela — come, ad esempio, l’aspearsi e un giorno e una volta ci ha portato fortuna sarà sempre un giorno fortunato — viene giustamente ritenuto cosa superstiziosa. In verità, il corso della natura non è soltanto uniforme, è ane infinitamente vario. Certi fenomeni si vedono sempre ricorrere esaamente nelle medesime combinazioni in cui li abbiamo incontrati per la prima volta; certi fenomeni sembrano accadere completamente a capriccio; certi altri,

invece, e eravamo stati abituati a considerare come legati esclusivamente a un particolare insieme di combinazioni, li troviamo inaspeatamente distaccati da alcuni degli elementi con cui, fino a quel momento, li avevamo trovati uniti, e uniti ad altri completamente contrari. Cinquant’anni fa, a un abitante dell’Africa centrale nessun fao sarebbe probabilmente apparso fondato su un’esperienza più uniforme, del fao e tui gli esseri umani sono neri. Non molti anni fa, agli Europei, la proposizione «Tui i cigni sono biani» sembrava un esempio egualmente inequivocabile di uniformità nel corso della natura. Esperienze successive hanno provato e sia gli abitanti dell’Africa centrale sia gli Europei erano in errore, ma per quest’esperienza si doveero aspeare cinquanta secoli. Per tuo questo lungo tempo l’umanità credee nell’uniformità del corso della natura in un caso in cui in realtà non esisteva nessun’uniformità di questo genere. Secondo la nozione di induzione propria degli antii, i casi ora menzionati erano casi di inferenza tanto legiima quanto qualsiasi altra induzione. In questi due casi in cui, essendo falsa la conclusione, il fondamento dell’inferenza doveva per forza essere insufficiente, c’era però quel tanto di fondatezza di cui è passibile questa concezione d’induzione. L’induzione degli antii è stata giustamente descria da Bacone col nome di inductio per enumerationem simplicem, ubi non reperitur istantia 2 contradictoria . Consiste nell’assegnare il caraere di verità generali a tue le proposizioni e siano vere in ogni caso di cui ci accade di essere a conoscenza. esta è la specie di induzione e viene naturale a una mente non abituata ai metodi scientifici. La tendenza (e alcuni iamano istinto e di cui altri rendono conto per mezzo dell’associazione) ad inferire il futuro dal passato, il noto dall’ignoto, è semplicemente un abito di aspearci e quello e si è trovato vero una volta, o parecie volte, e finora non si è mai trovato falso, si troverà ancora vero. Che i casi siano poi o molti, conclusivi o no, non ha molta importanza: queste sono considerazioni e vengono in mente solo quando ci rifleiamo su; la tendenza spontanea della mente è quella di generalizzare la propria esperienza, puré questa punti tua in una sola direzione; puré non sopravvenga, senza e la ceriamo, un’esperienza di caraere contrastante. L’idea di cercare quest’esperienza contrastante, di sperimentare per trovarla, di interrogare la natura (per usare l’espressione di Bacone) è nata molto più tardi. L’osservazione della natura, da parte di intellei non coltivati, è puramente passiva: questi intellei acceano i fai e gli si presentano senza prendersi il disturbo di cercarne

di più: solo la mente superiore si iede di quali fai ci sia bisogno per poter pervenire a una conclusione sicura, e poi va alla ricerca di questi fai. Ma pur essendo sempre propensi a generalizzare da un’esperienza invariabile, non sempre abbiamo le garanzie sufficienti per farlo. Prima di essere autorizzati a concludere e una certa cosa è universalmente vera peré non abbiamo mai conosciuto un esempio del contrario, dobbiamo avere buone ragioni per credere e, se in natura ci fossero esempi del contrario, ne saremmo venuti a conoscenza. Nella grande maggioranza dei casi non possiamo avere questa sicurezza, o possiamo averla solo in grado molto limitato. La possibilità di averla è il fondamento sulla base del quale in alcuni casi degni di nota l’induzione per enumerazione semplice può, come vedremo fra breve, equivalere praticamente alla provae. Tuavia, per quanto riguarda gli oggei ordinari della ricerca scientifica non si può avere nessuna sicurezza di questo genere. Di solito le nozioni popolari sono fondate sull’induzione per enumerazione semplice: nella scienza essa non ci porta molto lontano. Siamo costrei a cominciare con l’induzione per enumerazione semplice: spesso dobbiamo fidarcene provvisoriamente in mancanza di mezzi d’indagine più penetranti. Ma per lo studio accurato della natura abbiamo bisogno di uno strumento più sicuro e più potente. Soprauo per aver messo in evidenza l’insufficienza di questa concezione rozza e imprecisa di induzione, Bacone si meritò il titolo, e così generalmente gli si riconosce, di fondatore della filosofia induiva. Il valore dei contributi da lui recati a una teoria dell’induzione filosoficamente più fondata è stato certamente esagerato. Ane se nei suoi scrii (insieme con alcuni errori fondamentali) si trovano più o meno sviluppati pareci dei princìpi più importanti del metodo induivo, la ricerca fisica eèora andata molto al di là della concezione baconiana dell’induzione. L’indagine politica e morale, invece, è ancora molto arretrata rispeo a questa concezione. In questo campo i modi correnti e generalmente acceati del ragionamento hanno ancora gli stessi difei e furono criticati da Bacone; il metodo quasi esclusivamente impiegato da coloro e professano di traare induivamente questi argomenti è proprio quella inductio per enumerationem simplicem e Bacone condanna; e l’esperienza, a cui sentiamo fare appello con tanta confidenza da tue le see, da tui i partiti e dai rappresentanti di tui gli interessi, è ancora, per dirla con le sue enfatie parole, mera palpatio3.

3. Allo scopo di comprendere meglio il problema e il logico deve risolvere se vuole istituire una teoria scientifica dell’induzione, confrontiamo alcuni casi di induzioni scorree con altre, la cui legiimità è generalmente riconosciuta. Ora sappiamo e alcune di queste induzioni, e per secoli furono ritenute corree, erano invece scorree. Che tui i cigni siano biani, non può essere stata una buona induzione, peré la conclusione si è rivelata erronea. Però l’esperienza su cui riposava la conclusione era autentica. A memoria d’uomo, la testimonianza degli abitanti del mondo conosciuto era stata unanime su questo punto. Perciò, il fao e l’esperienza uniforme degli abitanti del mondo conosciuto concordi su un risultato comune, senza e esista un solo caso noto di deviazione da quel risultato, non è sempre sufficiente a legiimare una conclusione generale. Ma passiamo ora a un caso e apparentemente non è molto dissimile da questo. Gli uomini avevano torto, così sembra, quando concludevano e tui i cigni sono biani: abbiamo torto ane noi quando concludiamo, a dispeo della testimonianza contraria del naturalista Plinio, e le teste degli uomini crescono al disopra delle spalle, e mai al di soo? Come c’erano cigni neri, ane se i popoli civili esistiti sulla Terra per tremila anni non ne avevano mai incontrato uno, non può darsi e ci siano «uomini le cui teste crescono davvero al disoo delle loro spalle», ane se l’unanimità delle testimonianze negative degli osservatori è un po’ meno perfea? asi tui risponderanno: «no»; è molto più facile credere e vari il colore di un uccello e non credere e vari la posizione relativa dei principali organi degli uomini. E non c’è dubbio e avrebbero ragione di dirlo: ma se non si penetrasse nella vera teoria dell’induzione più profondamente di quanto non si faccia di solito, sarebbe impossible dire peré abbiano ragione. Ancora, ci sono casi in cui riponiamo la fiducia più incrollabile nell’uniformità, e altri casi in cui non ci contiamo affao. In alcuni casi ci sentiamo completamente sicuri e il futuro somiglierà al passato, l’ignoto sarà esaamente simile al noto; in altri, invece, per invariabile e possa essere il risultato oenuto dai casi e abbiamo osservato, non traiamo da essi e una debolissima presunzione e il risultato sarà simile in tui gli altri casi. Neppure della regione delle stelle fisse possiamo dubitare e sia vero e una linea rea è la distanza più breve tra due puntif. ando un imico annuncia l’esistenza e le proprietà di una sostanza appena scoperta, se ci fidiamo della sua accuratezza ci sentiamo sicuri e le conclusioni alle quali è pervenuto varranno universalmente, ane se l’induzione non è

fondata e su un caso singolo. Non ci riserviamo l’assenso in aesa di una ripetizione dell’esperimento; se lo facciamo, ciò accade peré abbiamo il dubbio e l’esperimento non sia stato compiuto nel modo dovuto, e non peré dubitiamo e l’esperimento, compiuto nel modo appropriato, sia conclusivo. Ecco, dunque, una legge generale della natura, inferita senza esitazione da un caso singolo: una proposizione universale inferita da una proposizione singolare. Ora, notiamo un altro caso, e contrapponiamolo a quest’ultimo. Tui i casi a favore della proposizione e tui i corvi sono neri, osservati dal principio del mondo ad oggi, non sarebbero ritenuti una presunzione in favore della verità della proposizione sufficiente a prevalere sulla testimonianza di un solo, ineccepibile testimone e affermasse di aver caurato ed esaminato, in quale regione della Terra non ancora sufficientemente esplorata, un corvo, e di aver trovato e era grigio. Peré in alcuni casi un solo esempio è sufficiente per un’induzione completa, mentre, in altri, miriadi di esempi concordanti senza una sola eccezione nota o presunta aiutano così poco a fondare una proposizione universale? Chiunque sappia rispondere a questa domanda conosce più filosofia della logica di quanta ne conoscessero i più saggi fra gli antii, e ha risolto il problema dell’induzione. a. Essays on the Pursuit of Truth. b.

A questo punto, nella prima edizione si trovava una nota contenente alcune critie al modo in cui l’arcivescovo Whately concepisce la relazione tra sillogismo e induzione. In una ristampa successiva della sua Logic, l’arcivescovo diede a questa mia critica una risposta e mi indusse a cancellare parte della nota, incorporando il rimanente nel testo. In un’edizione ancora successiva, l’arcivescovo osserva, in un tono e rasenta la disapprovazione, e le obiezioni, «indubbiamente per il fao e avevano ricevuto una risposta esauriente e si era trovato e erano insostenibili, erano state tacitamente soppresse», e e perciò a qualcuno dei suoi leori poteva sembrare e stesse combaendo contro un’ombra. Su quest’ultimo punto non è necessario e l’arcivescovo si crei scrupoli. Oso dire e i suoi leori daranno pieno credito alla sua pura e semplice affermazione e le obiezioni sono state davvero fae. Ora però, siccome l’arcivescovo sembra pensare e quella e egli iama la soppressione delle obiezioni non avrebbe dovuto essere faa «tacitamente», rompo questo silenzio e diiaro esaamente e cosa è stato soppresso e peré. Ho soppresso solo ciò e poteva essere considerato come critica personale all’arcivescovo. L’avevo accusato di aver trascurato di porre a se stesso una particolare domanda. Trovai e se l’era posta e e poteva darle una risposta coerente con la sua stessa teoria. Nel breve spazio di una parentesi avevo ane arrisiato alcune osservazioni su certe caraeristie generali dell’arcivescovo Whately in quanto filosofo. Ripensandoci mi parve e, bené il tono di queste osservazioni non fosse, spero, né irrispeoso né arrogante, io non avevo nessun titolo per farle; meno e mai quando il caso e avevo considerato come una loro illustrazione era ben lontano, come vedevo ora, dal corroborarle. Il cuore dell’intiera disputa — il punto di vista differente da noi assunto a proposito della funzione della premessa maggiore — rimane esaamente dov’era; ed io ero così

lontano dal pensare e la mia obiezione avesse ricevuto una «risposta completa» e fosse «insostenibile», e nella stessa edizione in cui avevo cancellato la nota non solo rafforzai la mia opinione per mezzo di altre argomentazioni, ma risposi (pur senza nominarlo) a quelle dell’arcivescovo Whately. Non ritengo necessario presentare le mie scuse per non aver fao prima questa diiarazione. Ciò signifierebbe aribuire un’enorme importanza alla minima cosa e uno dice, pensare e ogni volta e uno commee un errore sia obbligatoria una ritraazione formale. Né la fama tanto meritata dell’arcivescovo Whately è così debole da riiedere e, nel ritraare una piccolissima critica, fossi tenuto a presentare pubblica amende per avergliela mossa. c. Ma bené l’esistenza dell’uniformità nel corso della natura sia una condizione della validità di ogni induzione, e l’uniformità debba pervadere tua la natura non è la sua condizione necessaria. È sufficiente e pervada quella particolare classe di fenomeni a cui l’induzione si riferisce. Un’induzione e riguardi i moti dei pianeti o le proprietà del magnete non sarebbe viziata ane se si dovesse supporre e pioggia e vento sono il trastullo del caso: basterebbe assumere e i fenomeni astronomici e magnetici sono soo il dominio di leggi generali. Se così non fosse, le prime esperienze dell’umanità avrebbero riposato su un fondamento ben debole; infai nell’infanzia della scienza non si poteva sapere e tutti i fenomeni hanno un corso regolare. Non sarebbe neppure correo il dire e ogni induzione per il cui mezzo inferiamo una qualsiasi verità, implica e il fao generale dell’uniformità sia noto in precedenza, neane in riferimento alla specie di fenomeni in questione. Implica, o e questo fao generale è già noto, o e possiamo conoscerlo, così come la conclusione «Il duca di Wellington è mortale» traa dai casi A, B e C, implica o e abbiamo già concluso e tui gli uomini sono mortali o e ora abbiamo il dirio di concluderlo sulla base delle stesse prove. Se si tenessero presenti queste semplici considerazioni, si eliminerebbe una gran quantità di confusione e di paralogismi riguardanti i fondamenti dell’induzione. d. Infra, cap. XXI. e. Infra, capp. XXI, XXII. f. A rigore, dovunque lo spazio abbia quella costituzione e si presume e abbia; e abbiamo molte ragioni per credere e nella regione delle stelle fisse ce l’abbia. 1. Samuel Bailey (1791-1870), filosofo inglese, rappresentante del radicalismo filosofico. Autodidaa, figlio di un commerciante di Sheffield, intraprese l’aività commerciale, e abbandonò nel 1832 per dedicarsi senza successo alla politica. Si occupò, oltre e di filosofia, di economia, di psicologia e di leeratura, ma tua la sua opera risente della mancanza di un’educazione sistematica. Opere principali: Essays on the Pursuit of Truth, on the Progress of Knowledge, and on the Fundamental Principle of all Evidence and Expectation [Saggi sulla ricerca della verità, sul progresso della conoscenza e sul principio fondamentale di ogni evidenza e di ogni aspettativa] (1829); A Review of Berkeley Theory of Vision, Designed to Show the Unsoundness of that Celebrated Speculation [Analisi della teoria berkeleyana della visione, volta a mostrare l’infondatezza di quella celebre speculazione] (1842); The Theory of Reasoning [La teoria del ragionamento] (1852); Letters on the Philosophy of the Human Mind [Lettere sulla filosofia della mente umana] (1855). 2. «Induzione per enumerazione semplice, in cui non si trovano casi e la contraddicano». 3. «Un puro e semplice tastare».

CAPITOLO IV. LE LEGGI DI NATURA 1. Una delle prime osservazioni e ci vengono in mente quando consideriamo aentamente quell’uniformità del corso della natura e si assume in ogni inferenza traa dall’esperienza, è e l’uniformità in questione non è, per parlare propriamente, unica, ma e ci sono diverse uniformità. La regolarità generale risulta dalla coesistenza di regolarità parziali. Il corso della natura in generale è costante, peré è costante il corso di ciascuno dei vari fenomeni e lo compongono. Un certo fao avviene invariabilmente ogni volta e sono presenti certe circostanze, e non avviene quando le circostanze sono assenti: la stessa cosa è vera di un altro fao, e così via. Da questi fili separati e conneono le parti di quel gran tuo e iamiamo natura, s’intesse inevitabilmente un tessuto conneivo generale, e tiene insieme il tuo. Se A è sempre accompagnato da D, B da E, e C da F, segue e AB è accompagnato da DE, AC da. DF, BC da EF, e, infine, ABC da DEF. Nasce così quel caraere generale di regolarità e, insieme con l’infinita diversità, e in mezzo ad essa, pervade tua la natura. Perciò, il primo punto da notare a proposito di quella e si iama l’uniformità del corso della natura, è e quest’uniformità è a sua volta un fao complesso, composto di tue le uniformità separate e esistono relativamente ai singoli fenomeni. ando siano state accertate per mezzo di un’induzione giudicata sufficiente, queste varie uniformità si iamano, nel linguaggio comune, «leggi di natura». Nel linguaggio della scienza, invece, questa denominazione viene impiegata in senso più ristreo, per designare quelle uniformità e siano state ridoe alla loro espressione più semplice. Così, nell’illustrazione e abbiamo impiegato qui sopra c’erano see uniformità: stando all’applicazione meno rigorosa del termine tue queste uniformità, se fossero considerate sufficientemente certe, verrebbero iamate «leggi di natura». Ma di queste see, solo tre sono, propriamente, distinte e indipendenti: presupposte queste tre, le altre seguono naturalmente. Dunque, secondo l’accezione più rigorosa, le prime tre vengono iamate leggi di natura; le rimanenti no, peré, in verità, sono puri e semplici casi delle prime tre, virtualmente incluse in esse, e di cui si

dice, perciò, e risultano dalle prime tre: iunque affermi quelle tre ha già affermato tuo il resto. Per sostituire esempi reali agli esempi simbolici, ecco tre uniformità, o (se volete iamarle così) tre leggi di natura: la legge e l’aria ha peso; la legge e la pressione esercitata su un fluido si propaga egualmente in tue le direzioni, e la legge e la pressione e si esercita in una sola direzione, non contrastata da una pressione eguale e agisca in senso contrario, produce movimento, e questo movimento non cessa finé non venga ristabilito l’equilibrio. Partendo da queste tre uniformità dovremmo essere in grado di predire un’altra uniformità, cioè l’ascesa del mercurio in un tubo di Torricelli. esta, nell’uso più rigoroso dell’espressione, non è una legge di natura. È il risultato di leggi di natura. È un caso di ciascuna e di tue e tre le leggi, ed è la sola evenienza in cui queste leggi possono essere soddisfae tue e tre. Se il barometro non sostenesse il mercurio, e non lo sostenesse a un’altezza tale e il peso della colonna del mercurio fosse eguale al peso di una colonna di atmosfera dello stesso diametro, saremmo di fronte a un caso in cui, o l’aria non eserciterebbe la propria pressione sulla superficie con quella forza e iamiamo il suo peso, o la pressione verso il basso esercitata sul mercurio non si propagherebbe egualmente verso l’alto, o un corpo sarebbe spinto in un senso ma non nel senso opposto, o non si moverebbe nel senso verso il quale è spinto, o si fermerebbe prima di aver raggiunto l’equilibrio. Se dunque conoscessimo queste tre semplici leggi, ma non avessimo mai tentato l’esperimento di Torricelli, da queste leggi potremmo dedurre il risultato di tale esperimento. Il peso noto dell’aria, combinato con la posizione dell’apparato, farebbe rientrare il mercurio soo la prima delle tre induzioni; la prima induzione lo porterebbe nell’àmbito della seconda, e la seconda nell’àmbito della terza, nel modo e abbiamo caraerizzato traando del ragionamento deduivo. Arriveremmo così a conoscere l’uniformità più complessa indipendentemente dall’esperienza specifica, araverso la nostra conoscenza delle esperienze più semplici da cui risulta, ane se, per ragioni e saranno iare in séguito, sarebbe ancora desiderabile e forse ane indispensabile la verificazione per mezzo dell’esperienza specifica. È appropriato iamare «leggi» le uniformità complesse e, come questa, non sono altro e casi di uniformità più semplici e perciò sono state virtualmente affermate quando sono state affermate queste ultime; ma, dato il rigore del discorso scientifico, non è appropriato iamarle «leggi di

natura». Dovunque si possa rintracciare una regolarità di qualsiasi specie, in scienza è consuetudine iamare «legge» la proposizione e esprime la natura di quella regolarità — come quando, in matematica, parliamo della legge del decremento dei termini successivi di una serie convergente. Ma l’espressione «legge di natura» è stata generalmente impiegata con una specie di tacito riferimento al senso originale della parola «legge», cioè con riferimento all’espressione della volontà di un superiore. Perciò, quando fu iaro e una delle uniformità osservate in natura sarebbe risultata spontaneamente da certe altre uniformità, e e non era necessario supporre nessun ao separato di una volontà creatrice per spiegare il prodursi delle uniformità derivate, si cessò di parlare di queste ultime come di leggi di natura. Secondo uno dei modi d’esprimersi, la domanda «ali sono le leggi di natura?» può essere formulata in questo modo: «ali sono le assunzioni più semplici, e minori in numero, date le quali risulterebbe la totalità dell’ordine esistente della natura?». Un altro modo di formularla può essere il seguente: «ali sono le proposizioni generali, e minori in numero, da cui si possono inferire deduivamente tue le uniformità esistenti nell’universo?». Tui i grandi progressi, e segnano un’epoca nel cammino della scienza, sono consistiti in un passo verso la risoluzione di questo problema. Persino un semplice collegamento di induzioni già bell’e fae, e non implii nuove estensioni dell’inferenza induiva, costituisce già un progresso in questa direzione. ando con le tre proposizioni generali iamate le sue leggi, espresse la regolarità e esiste nei moti osservati dei corpi celesti, Keplero mise in evidenza tre ipotesi semplici e, per quanto se ne sapeva a quei tempi, sarebbero state sufficienti a costruire l’intiero sema dei moti celesti, venendo così a sostituirsi a un numero molto maggiore di altre ipotesi. Un passo simile e ancor maggiore, fu compiuto quando si scoprì e queste leggi, e a tua prima non sembravano incluse in nessuna verità più generale, erano casi particolari delle tre leggi del moto, in quanto queste vigono tra corpi e tendono l’uno verso l’altro con una certa forza e sui quali è stato impresso un certo impulso istantaneo. Dopo questa grande scoperta le tre proposizioni di Keplero vengono ancora iamate leggi; ma ben difficilmente sarebbero iamate leggi di natura da iunque sia abituato a usare il linguaggio con precisione: il termine «leggi di natura» dev’essere riservato a quelle leggi più semplici e più generali in cui, si dice, Newton le ha risolte.

Secondo questo linguaggio, ogni generalizzazione induiva ben fondata o è una legge di natura o è il risultato di leggi di natura, e, se queste leggi sono note, può essere predeo sulla loro base. E il problema della logica induiva può essere condensato in due questioni: come accertare le leggi di natura e come, dopo averle accertate, seguirle fino ai loro risultati. D’altra parte, non dobbiamo permeerci d’immaginare e questo modo di formulazione equivalga a un’analisi vera e propria, o a qualcosa e non sia una pura e semplice trasformazione verbale del problema: infai, l’espressione «leggi di natura» non significa nient’altro e le uniformità esistenti tra i fenomeni naturali (o, in altre parole, i risultati dell’induzione), quando siano state ridoe alla loro espressione più semplice. Comunque è già qualcosa essere giunti al punto di vedere e lo studio della natura è lo studio di leggi, non di una legge; di uniformità, al plurale; e i differenti fenomeni naturali hanno le loro regole separate, ossia accadono in molti modi separati: modi e regole e, pur essendo altamente frammisti e ingarbugliati fra loro, possono, fino a un certo punto, essere studiati separatamente; e (per riprendere la nostra metafora primitiva) la regolarità esistente in natura è una rete composta di fili distinti, e può essere compresa solo seguendo separatamente ciascuno di questi fili: scopo, questo, per il quale è spesso necessario sbrogliare quale parte della rete e meerne a nudo separatamente le fibre. Le regole della ricerca sperimentale sono gli espedienti per sbrogliare la rete. 2. ando si tenta così di accertare l’ordine generale della natura accertando l’ordine particolare secondo il quale accade ciascun fenomeno naturale, il procedimento più scientifico non può essere nulla più e una forma migliorata del modo di procedere seguìto, ai suoi primordi, dall’intelleo umano ancor privo della guida della scienza. ando gli venne in mente per la prima volta l’idea di studiare i fenomeni secondo un metodo più rigoroso e più sicuro di quello e avevano adoato spontaneamente agli inizi, gli uomini non si conformarono al preceo ben pensato ma impraticabile di Descartes, e non partirono dal presupposto e nulla fosse ancora stato accertato. Molte delle uniformità esistenti fra i fenomeni sono così costanti, e così apertamente esposte all’osservazione, da costringerci al riconoscimento involontario. Alcuni fai sono così perpetuamente e così familiarmente accompagnati da certi altri, e, come fanno i bambini, gli uomini impararono ad aspearsi l’uno quando

trovavano l’altro, molto tempo prima di saper come meere in parole la loro aspeativa e come asserire in una proposizione l’esistenza di una connessione fra quei due fenomeni. Per imparare e il cibo nutre, e l’acqua fa affogare, e spegne la sete, e il Sole dà luce e calore, e i corpi cadono al suolo, non c’era alcun bisogno della scienza. I primi ricercatori scientifici assunsero queste verità e altre simili come verità note e partendo da esse si accinsero a scoprirne altre, e erano ignote. E non avevano torto a far così ane se, come incominciarono a vedere in séguito quando il progresso del sapere mise in evidenza i loro limiti o mostrò la loro dipendenza da certe verità a cui in origine non s’era prestata aenzione, queste stesse generalizzazioni spontanee doveero esser sooposte a un’ulteriore revisione. Dalle parti successive della nostra ricerca risulterà iaramente, credo, e in questo modo di procedere non c’è nessuna fallacia logica; ma possiamo vedere fin d’ora e qualsiasi altro modo è rigorosamente impraticabile, dal momento e è impossibile costruire un metodo scientifico d’induzione o meere alla prova la correezza delle induzioni, se non soo l’ipotesi e si siano già fae certe induzioni meritevoli di fiducia. Per esemplificare quanto abbiamo deo, torniamo a una delle nostre prime illustrazioni, e consideriamo peré mai, avendo a nostra disposizione la stessa quantità di prove sia negative sia positive, non abbiamo rigeato l’asserzione e ci sono cigni neri, mentre dovremmo rifiutare credito a ogni testimonio il quale asserisse e sono esistiti uomini e portavano la testa al disoo delle spalle. La prima asserzione è più credibile della seconda. Ma peré? Fintantoé nessuno dei due fenomeni ha mai avuto davvero un testimonio, e ragione c’è di trovare il primo più difficile a credersi e non il secondo? Evidentemente peré c’è meno costanza nei colori degli animali e non nella struura generale della loro anatomia. Ma come facciamo a saperlo? Senza dubbio dall’esperienza. È iaro, allora, e per venir a sapere in qual grado, in quali casi o in qual genere di casi dobbiamo far affidamento sull’esperienza, abbiamo bisogno dell’esperienza. E dobbiamo consultare l’esperienza per imparare, da essa, in quali circostanze saranno valide le argomentazioni e da essa prendono le mosse. Non abbiamo alcun mezzo ulteriore di controllo, a cui sooporre l’esperienza in generale, ma sooponiamo l’esperienza al controllo di se stessa. L’esperienza testimonia e, fra tue le regolarità e esibisce o sembra esibire, su alcune si può far affidamento più e su altre e e perciò, dato un numero qualsiasi di casi, si

può presumere l’uniformità con un grado maggiore di sicurezza, a misura e il caso appartenga a una classe in cui, fino a quel momento, si è trovato e le uniformità sono più uniformi. esto modo di correggere una generalizzazione per mezzo di un’altra, una generalizzazione più ristrea per mezzo di una generalizzazione più ampia — modo e il senso comune suggerisce, e in pratica adoa — è il tipo autentico dell’induzione scientifica. L’arte non può far altro e dare accuratezza e precisione a questo processo, e adaarlo a tue le varietà di casi, senza e ciò implii alterazioni essenziali nel principio e lo governa. Naturalmente non c’è mezzo di applicare un controllo come quello descrio sopra, se non si possiede già una conoscenza generale del caraere predominante delle uniformità esistenti in tua quanta la natura. Pertanto, il fondamento indispensabile di una formula scientifica dell’induzione non potrà non essere costituito dalla visione complessiva delle induzioni a cui gli uomini sono stati condoi nell’esercizio della pratica non scientifica; tale visione complessiva avrà lo scopo di accertare quali specie di uniformità abbiamo trovato, e sono perfeamente invariabili e pervadono tua la natura, e quali abbiamo trovato e variano secondo le differenze di tempo, luogo, o di altre circostanze altreanto mutevoli. 3. La necessità di una tale visione complessiva è confermata dalla considerazione e le induzioni più forti sono la pietra di paragone a cui ci sforziamo sempre di riportare le più deboli. Se troviamo quale mezzo per dedurre una delle induzioni meno forti da altre più forti, l’induzione dedoa acquista immediatamente tua la forza delle induzioni dalle quali è stata dedoa, e aggiunge addiriura qualcosa a questa forza, dal momento e l’esperienza indipendente, sulla quale l’induzione più debole riposava prima, diventa una prova in più della verità della legge meglio consolidata, in cui ora si trova inclusa. Supponiamo di aver inferito in base a prove storie e il potere di un monarca, di un’aristocrazia, o della maggioranza, quando non sia controllato, conduce spesso ad abusi: saremo autorizzati a riporre in questa generalizzazione una fiducia ancor maggiore, quando avremo mostrato e è un corollario trao da fai consolidati ancor più stabilmente, quali il bassissimo grado di elevazione del caraere, finora raggiunto dalla media dell’umanità, la scarsa efficacia dei metodi educativi finora usati per mantenere il predominio della ragione e della coscienza sulle tendenze

egoistie. Nel medesimo tempo è ovvio e ane questi fai più generali derivano un di più di prova dalla testimonianza storica degli eflfei del dispotismo. ando sia stata connessa con un’induzione più debole, l’induzione forte diventa ancora più forte. D’altra parte, se un’induzione entra in conflio con induzioni più forti, o con conclusioni e possono essere dedoe correamente da tali induzioni, allora — a meno e ripensandoci non risulti e alcune delle induzioni più forti sono state espresse con un’universalità maggiore di quella e le loro prove riescano a garantire — l’induzione più debole deve cedere il passo. L’opinione, così a lungo prevalsa, e una cometa o qualsiasi altra apparizione insolita nelle regioni celesti preannunciasse calamità per il genere umano, o, per lo meno, per coloro e vi avevano assistito; la credenza nella veracità degli oracoli di Delfi e di Dodona; la fede nell’astrologia o nelle profezie sul tempo contenute negli almanaci, erano senza dubbio induzioni e si pensava fossero basate sull’esperienzaa, e la fede in tali illusioni sembra perfeamente capace di reggere contro un gran nùmero di fallimenti, puré sia nutrita da un numero ragionevole di coincidenze casuali tra la predizione e l’evento. Ciò e ha davvero posto un termine a queste induzioni insufficienti è il fao e sono incompatibili con le induzioni più forti, oenute successivamente grazie alla ricerca scientifica, relative alle cause da cui in realtà dipendono gli eventi e hanno luogo su questa Terra; dove invece queste verità scientifie non sono ancora riuscite a farsi strada, prevalgono ancora le stesse illusioni, o altre simili. Si può affermare, come principio generale, e tue le induzioni forti o deboli, e possono venir connesse mediante la deduzione, si confermano a vicenda, mentre tue quelle e portano deduivamente a conseguenze incompatibili finiscono col controllarsi l’una con l’altra e mostrano e l’una o l’altra dev’essere abbandonata, o almeno espressa con maggior cautela. Nel caso di induzioni e si confermano l’una coll’altra, l’induzione e diventa una conclusione traa da un ragionamento deduivo, si solleva almeno al medesimo livello di certezza e spea alla più debole tra quelle da cui è stata dedoa, mentre, in genere, tue crescono più o meno in certezza. Così l’esperimento di Torricelli, pur non essendo altro e un caso particolare di tre leggi più generali, non soltanto rafforzò di molto le prove su cui queste leggi riposavano, ma trasformò una di esse (il peso dell’atmosfera) da una dubbia generalizzazione qual era in una dorina completamente consolidata.

Dunque, se una visione complessiva delle uniformità e si sono accertate in natura, dovesse meerne in evidenza qualcuna e dovesse essere considerata perfeamente certa e perfeamente universale, nella misura in cui ogni scopo proprio dell’uomo riiede certezza, allora facendo uso di queste uniformità potremo forse essere capaci di sollevare allo stesso gradino della scala una grandissima quantità di altre induzioni. Infai, se possiamo mostrare, relativamente a una qualsiasi inferenza induiva, o e dev’essere vera oppure e una di queste induzioni certe e universali deve ammeere un’eccezione, allora, entro i limiti e le sono stati assegnati, la prima generalizzazione raggiungerà la medesima certezza e la medesima invincibilità e sono gli aributi dell’altra. Si sarà provato e è una legge: e, se non è il risultato di altre leggi più semplici, sarà una legge di natura. Induzioni del genere, certe e universali, esistono. E proprio peré esistono è possibile una logica dell’induzione. a.

Il door Whewell (Philosophy of Discovery, p. 246) non ammeerà e questi giudizi erronei, e altri simili, siano iamati induzioni, in quanto tali superstiziose fantastierie «non furono raccolte dai fai ricercando la legge secondo la quale accadono, ma furono suggerite dall’essersi immaginati l’ira di potenze superiori, ira rivelata da queste deviazioni dal corso ordinario della natura». Secondo me la questione non è: in qual modo queste nozioni furono suggerite la prima volta? ma: da quale prova si è supposto, di volta in volta, e fossero confermate? Se coloro e credevano in queste opinioni erronee fossero stati costrei a meersi sulla difensiva, avrebbero fao appello all’esperienza: alla cometa e precedee l’assassinio di Giulio Cesare, agli oracoli o alle altre profezie e, a quanto si sapeva, erano stati adempiuti. Ane ai giorni nostri tue le superstizioni analoghe tentano di giustificarsi proprio mediante tale appello ai fai: peré possano far presa sulla mente è necessaria questa supposta prova dell’esperienza. Sono pronto ad ammeere e l’influenza delle coincidenze di questo genere non sarebbe qual è, se non le conferisse forza quale presunzione precedente. Ma questa non è una caraeristica esclusiva di questi casi: parte della spiegazione di molti altri casi di credenze basate su prove insufficienti è formata da nozioni preconcee della probabilità. Il pregiudizio a priori non impedisce e l’opinione erronea sia considerata in tua sincerità come una conclusion legiima dall’esperienza ane se, impropriamente, predispone la mente a quell’interpretazione dell’esperienza. esto per quanto riguarda la difesa della sorta di esempi a cui sono state elevate obiezioni. Ma sarebbe facile produrre esempi egualmente adai allo scopo, e nei quali non sono affao implicati pregiudizi precedenti. «Per secoli e secoli», dice l’arcivescovo Whately, «tui i contadini e i giardinieri furono fermamente convinti — e convinti di saperlo per esperienza — e i raccolti non sarebbero cresciuti bene se non si fossero seminati i semi in fase di Luna crescente». esta era induzione, ma caiva induzione: proprio come un sillogismo vizioso è ragionamento, ma caivo ragionamento.

CAPITOLO V. LA LEGGE DI CAUSAZIONE UNIVERSALE 1. I fenomeni naturali esistono in due distinte relazioni gli uni con gli altri: quella di simultaneità e quella di successione. Ogni fenomeno è correlato in maniera uniforme con alcuni fenomeni e coesistono con esso e con alcuni altri fenomeni e l’hanno preceduto o lo seguiranno. Delle uniformità e esistono tra fenomeni simultanei le più importanti, per tui gli aspei, sono le leggi del numero: subito dopo vengono quelle dello spazio, o, in altre parole, le leggi dell’estensione e della figura. Le leggi del numero sono comuni sia ai fenomeni simultanei sia a quelli successivi. Che due più due faccia quaro è egualmente vero sia e il secondo due segua il primo, sia e l’accompagni. È vero di giorni e di anni, di piedi e di pollici. Al contrario le leggi dell’estensione e della figura (in altre parole, i teoremi della geometria, dalle sue brane elementari a quelle superiori) sono leggi dei soli fenomeni simultanei. Le varie parti dello spazio e degli oggei e, come si dice, riempiono lo spazio, coesistono, e le leggi invarianti e sono l’oggeo della scienza della geometria sono un’espressione del modo della loro coesistenza. esta è una classe di leggi, o, in altre parole, di uniformità, per la comprensione e la prova delle quali non è necessario presupporre nessun trascorrere del tempo, nessuna varietà di fai o di eventi e si succedano l’un l’altro. Le proposizioni della geometria sono indipendenti dalla successione degli eventi. Tue le cose e posseggono estensione, o, in altre parole, riempiono uno uno spazio, sono sooposte a leggi geometrie. Possedendo estensione, posseggono figura; possedendo figura devono possedere quale figura in particolare, e avere tue le proprietà e la geometria assegna a questa figura. Se un corpo è una sfera e un altro un cilindro di egual altezza ed egual diametro, il primo corpo sarà esaamente due terzi dell’altro, quali e siano la natura e la qualità del materiale di cui sono fai. Ancora: ciascun corpo, e ciascun punto di un corpo, deve occupare un posto, o posizione, fra gli altri corpi e la posizione di due corpi l’uno relativamente all’altro può essere inferita senza fallo dalla posizione di ciascuno di essi relativamente a un terzo corpo, quale e sia la natura di questi corpi.

Nelle leggi del numero e in quelle dello spazio, dunque, riconosciamo nella maniera più incondizionata la rigorosa universalità e stiamo cercando. In ogni tempo queste leggi sono state il tipo della certezza, il termine di paragone di tui i gradi inferiori di prova. La loro invariabilità è così perfea e ci rende incapaci perfino di concepire eccezioni a tali leggi; da questo i filosofi sono stati indoi — sia pure (come ho tentato di mostrare) erroneamente — a ritenere e le prove in favore di queste leggi risiedano, non nell’esperienza, ma nella costituzione originaria dell’intelleo. Perciò, se dalle leggi dello spazio e del numero fossimo in grado di dedurre uniformità di qualsiasi altro tipo, questa sarebbe per noi la prova conclusiva e quelle altre uniformità posseggono la medesima certezza rigorosa. Ma questo non possiamo farlo. Dalle sole leggi dello spazio e del numero nulla può essere dedoo se non le leggi dello spazio e del numero. Di tue le verità e si riferiscono a fenomeni, le verità e hanno maggior valore per noi sono quelle e si riferiscono all’ordine della loro successione. Sulla conoscenza di queste verità sono fondati ogni ragionevole anticipazione di fai futuri e il nostro potere, quale e sia, di influenzare questi fai a nostro vantaggio. Ane le leggi della geometria hanno per noi soprauo un’importanza pratica, in quanto costituiscono una parte delle premesse dalle quali si può inferire l’ordine di successione dei fenomeni. Poié il moto dei corpi, l’azione delle forze e la propagazione di influenze di ogni genere hanno luogo secondo certe linee e in spazi ben definiti, le proprietà di queste linee e di questi spazi costituiscono una parte importante delle leggi a cui quei fenomeni sono, a loro volta, sooposti. Ancora: moti, forze o altre influenze e istanti, sono grandezze numerabili, e le proprietà dei numeri possono essere applicate ad essi come a tue le altre cose. Ma pur essendo elementi importanti nell’accertamento delle uniformità di successione, le leggi del numero e dello spazio prese di per se stesse non possono far nulla per accertare tali uniformità. Possiamo farle servire a questo scopo soltanto quando le combiniamo con altre premesse, e esprimono uniformità di successione già note. Ad esempio, prendiamo come premesse le proposizioni seguenti: e i corpi sui quali agisce una forza istantanea si muovono con velocità uniforme descrivendo una linea rea; e i corpi sui quali agiscono due forze in direzioni differenti si muovono secondo la diagonale di un parallelogramma i cui lati rappresentano la direzione e la quantità di queste forze; combinando queste verità con proposizioni e si riferiscono alle proprietà delle ree e dei parallelogrammi

(come la proposizione e un triangolo è la metà di un parallelogrammo e ha la stessa base e la stessa altezza) possiamo dedurre un’altra importante uniformità di successione, cioè e un corpo e si muove intorno a un centro di forza descrive aree proporzionali ai tempi. Ma se tra le nostre premesse non ci fossero state leggi di successione, tra le nostre conclusioni non sarebbero potute esserci verità riguardanti la successione. Un’osservazione simile si potrebbe estendere a tue le altre classi di fenomeni veramente particolari; e se le si fosse prestata aenzione quest’osservazione ci avrebbe evitato molti tentativi imerici di dimostrare l’indimostrabile, e di dare spiegazioni e non spiegano nulla. Non ci basta, perciò, e le leggi dello spazio (e sono soltanto leggi di fenomeni simultanei) e le leggi del numero (e, pur essendo vere di fenomeni successivi non si riferiscono alla loro successione) posseggano la certezza e l’universalità rigorose e andiamo cercando. Dobbiamo sforzarci di trovare quale legge di successione e abbia quegli stessi aributi e perciò sia adaa a essere posta alla base dei processi per scoprire, e di uno strumento di controllo per verificare, tue le altre uniformità di successione. esta legge fondamentale deve somigliare alle verità della geometria quanto alla loro particolarità più notevole: quella di non essere mai, in nessun caso, smentite o sospese da nessun mutamento di circostanze. Ora, di tue queste uniformità nella successione dei fenomeni, per meere in luce le quali è sufficiente la comune osservazione, ben poe hanno una quale pretesa sia pure apparente a questa rigorosa indistruibilità e, di queste poe, soltanto una è stata trovata capace di soddisfare completamente questa pretesa. In quest’unica uniformità, però, riconosciamo una legge e è universale ane in un altro senso: è coestensiva con l’intiero campo dei fenomeni ordinati in successione, e tui i casi di successione ne costituiscono esemplificazioni. esta legge è la legge di causazione. La verità e ogni fao, e ha un inizio, ha una causa, è coestensiva con l’esperienza umana. Ad alcuni può sembrare e questa generalizzazione non equivalga a gran e, dal momento e, dopo tuo, asserisce solo questo: «è una legge, e ogni evento dipenda da quale legge «: «è una legge e c’è una legge per tuo». Comunque, non dobbiamo concludere e la generalità del principio è meramente verbale: esaminandola, si troverà e non si traa di un’asserzione vaga o insignificante, ma di una verità estremamente importante e veramente fondamentale.

2. Poié la nozione di causa è la radice di tua quanta la teoria dell’induzione, è indispensabile e fin dall’inizio della nostra ricerca quest’idea sia fissata e determinata col massimo grado di precisione possibile. In realtà, se per gli scopi della logica induiva fosse necessario aendere e venga sedata la disputa sull’origine e l’analisi della nostra idea di causazione — disputa e ha infuriato per tanto tempo tra le differenti scuole di metafisici — forse la diffusione, o, quanto meno, l’accoglimento generale, di una vera teoria dell’induzione sarebbe per molto tempo ancora impresa disperata. Ma fortunatamente la scienza della ricerca della verità per mezzo della prova è indipendente da gran parte delle controversie e rendono ingarbugliata la scienza della costituzione ultima della mente umana, e non si trova costrea dalla necessità di spingere l’analisi dei fenomeni mentali a quel limite estremo e, solo, dovrebbe soddisfare un metafisico. Premeo, dunque, e quando nel corso di quest’indagine parlerò della causa di un fenomeno, non intenderò una causa e non sia a sua volta un fenomeno: non vado alla ricerca della causa ultima, od ontologica, di alcuné. Per adoare una distinzione e ricorre comunemente negli scrii dei metafisici scozzesi, e specialmente di Reid: le cause e mi interessano non sono le cause efficienti, ma le cause fisiche. Sono cause solo nel senso in cui si dice e un fao fisico è la causa di un altro. Non sono perciò tenuto a dare un’opinione sulla causa efficiente dei fenomeni, o sul fao e cause così fae esistano o no. Le scuole di metafisica oggi più in voga ritengono e la nozione di causazione implii un legame misterioso e potentissimo, quale non può esistere, o perlomeno non esiste, tra un qualsiasi fao fisico e quell’altro fao fisico al quale il primo consegue invariabilmente, e e viene volgarmente iamato la causa del primo; si deduce di qui una supposta necessità di salire più in alto, di penetrare nell’essenza e nella costituzione intima delle cose, di trovare la causa vera, la causa e non solo è seguita dall’effeo ma, di fao, lo produce. Per gli scopi di questa ricerca una necessità del genere non esiste, e nelle pagine e seguono non si troverà nessuna dorina del genere. L’unica nozione di causa riiesta dalla teoria dell’induzione è una nozione tale da poter essere ricavata dall’esperienza. La legge di causazione, il cui riconoscimento è il pilastro principale della scienza induiva, non è altro e questa familiare verità: grazie all’osservazione si trova e tra ogni fao della natura e un certo altro fao e l’ha preceduto, vige l’invariabilità della successione indipendentemente

da tue le considerazioni sul modo ultimo in cui si producono i fenomeni e da ogni altra questione riguardante la natura delle «cose in sé». Dunque, tra i fenomeni e esistono in un istante qualsiasi e i fenomeni e esistono nell’istante successivo c’è un ordine invariabile di successione; e, come abbiamo deo parlando dell’uniformità generale del corso della natura, la rete è composta di fibre separate, quest’ordine colleivo è formato da sequenze particolari, e vigono invariabilmente tra le parti separate. A certi fai succedono sempre e (così crediamo) continueranno sempre a succedere, certi altri fai. L’antecedente invariabile si iama la causa, il conseguente invariabile l’effeo. E l’universalità della legge di causazione consiste in questo: e ogni conseguente è connesso, in questo modo, con quale particolare antecedente, o con quale particolare insieme di antecedenti. Sia quale sia, se è cominciato ad esistere, il fao era preceduto da quale fao, o da più fai, col quale, o coi quali è connesso invariabilmente. Per ogni evento esiste quale combinazione di oggei o di eventi, quale concorso ben determinato di circostanze positive e negative, il cui aver luogo è sempre seguito da quel fenomeno. Può darsi e non abbiamo trovato quale possa essere questo concorso di circostanze; ma non dubitiamo mai e ce ne sia uno, e e quest’uno non ha mai luogo senza avere, come suo effeo o conseguenza, il fenomeno in questione. Dall’universalità di questa verità dipende la possibilità di ridurre a regole il processo induivo. Vedremo tra poco e questa sicurezza incrollabile, e c’è una legge da trovare puré sappiamo come trovarla, è la fonte da cui i canoni della logica induiva derivano la loro validità. 3. Raramente, per non dir mai, questa sequenza invariabile sussiste tra un conseguente e un antecedente singolo. Sussiste, di solito, tra un conseguente e la somma di pareci antecedenti: per produrre il conseguente — cioè, peré sia certo e gli antecedenti siano seguiti dal conseguente — è indispensabile il concorso di tui gli antecedenti. In casi del genere è procedimento molto comune l’enucleare uno solo degli antecedenti dandogli il nome di causa, mentre gli altri antecedenti vengono iamati semplicemente condizioni. Così, se una persona mangia un certo piao, e in conseguenza di ciò muore — in altre parole, se non avesse mangiato quel piao non sarebbe morta — si è propensi a dire e l’aver mangiato quel piao è stato la causa della morte di quella persona. Non è tuavia necessario e tra l’aver mangiato quel piao e la morte ci sia una

connessione invariabile; certamente, però, tra le circostanze e hanno avuto luogo, c’è quale combinazione o l’altra di cui la morte è invariabilmente il conseguente: per esempio, l’ao di mangiare quel piao, combinato con una particolare costituzione corporea, con un particolare stato di salute in quel momento, e forse addiriura con un certo stato dell’atmosfera; in questo caso particolare l’insieme di tue queste circostanze ha forse costituito le condizioni del fenomeno, o, in altre parole, l’insieme degli antecedenti e l’hanno determinato e se non fosse stato per i quali il fenomeno non sarebbe accaduto. La causa vera e propria è la totalità di questi antecedenti e, filosoficamente parlando, non abbiamo nessun dirio di dare il nome di causa a uno solo di essi, ad esclusione di tui gli altri. Nel caso e abbiamo immaginato, quello e nasconde la scorreezza dell’espressione è il fao e le varie condizioni, ecceuata la sola condizione del mangiare quel cibo, non sono eventi (cioè, cambiamenti istantanei, o successioni di cambiamenti istantanei) ma stati più o meno permanenti, e quindi, per l’assenza dell’evento necessario a completare il concorso di condizioni riiesto, potrebbero aver preceduto l’effeo per un periodo di lunghezza indefinita. Non appena l’evento — il mangiare quel cibo — accade, non si aspea più un’altra causa: l’effeo comincia immediatamente ad aver luogo; di qui sorge l’apparenza e tra l’effeo e quell’unico antecedente esista una connessione più immediata e più strea di quella e esiste tra l’effeo e le condizioni rimanenti. Ma ane se pensiamo e sia appropriato dare il nome di causa a quella sola connessione il cui soddisfacimento colma la misura e senz’altro indugio produce l’effeo, in realtà questa connessione non ha, con l’effeo, nessuna relazione più strea di quella e ha qualsiasi altra condizione. Tue le condizioni erano egualmente indispensabili al prodursi del conseguente e, se non le introduciamo tue in una forma o nell’altra, l’enunciazione della causa è incompleta. Un uomo prende un preparato al mercurio, esce di casa e prende un raffreddore. Forse diremo e la causa del fao e si è preso il raffreddore è stata l’esposizione all’aria. È iaro però e una condizione necessaria del fao e quel tale s’è preso un raffreddore potrebbe essere stato il fao e ha preso il preparato al mercurio, e per quanto possa essere compatibile con l’uso il dire e la causa del suo accesso di raffreddore è stata l’esposizione all’aria, per essere precisi dovremmo dire e la causa del raffreddore è stata l’esposizione all’aria mentre era soo l’effeo del preparato al mercurio.

Se, pur tenendo all’accuratezza, non enumeriamo tue le condizioni, questo accade soltanto peré nella maggior parte dei casi alcune condizioni saranno intese senza venire espresse, o peré, per lo scopo e ci proponiamo, possono essere trascurate senza danno. Per esempio, quando diciamo e la causa della morte di un uomo è stata il fao e gli è scivolato un piede mentre saliva una scala a piuoli, omeiamo come cosa superflua a enunciarsi la circostanza costituita dal peso di quell’uomo, circostanza e pure è una condizione altreanto indispensabile dell’effeo e ha avuto luogo. ando diciamo e l’assenso della Corona a un progeo di legge lo trasforma in una legge, intendiamo dire e l’assenso — e non viene mai dato fin quando non siano state soddisfae tue le altre condizioni — perfeziona la somma delle condizioni, ane se oggi nessuno lo considera più come la condizione principale. Talvolta, quando la decisione di un’assemblea legislativa è stata determinata dal voto decisorio del presidente, diciamo e quest’unica persona è stata la causa di tui gli effei e sono risultati dall’entrata in vigore di quella legge. Ma non pensiamo davvero e il voto del presidente, da solo, abbia contribuito al risultato più di quanto non vi abbia contribuito quello di ogni altra persona e ha dato voto favorevole alla legge: tuavia, per lo scopo e ci proponiamo — e è quello di insistere sulla responsabilità individuale del presidente — la parte e ogni altra persona ha avuto nell’operazione è irrilevante. In tui questi esempi, il fao e è stato onorato del nome di causa è quella sola condizione e è venuta ad esistere per ultima. Ma non si deve pensare e nell’impiegare questo termine si obbedisca a questa, o a qualsiasi altra regola. Nulla può mostrare l’assenza di un qualsiasi fondamento scientifico nella distinzione tra cause e condizioni di un fenomeno, meglio della maniera capricciosa con cui, tra tue le condizioni, scegliamo quella e decidiamo di iamare «causa». Per quanto numerose siano le condizioni, non ce n’è quasi nessuna e non possa oenere questa preminenza verbale, secondo lo scopo del nostro discorso immediato. esto si vedrà analizzando le condizioni di quale fenomeno familiare. Per esempio, una pietra geata nell’acqua va a fondo. ali sono le condizioni di quest’evento? In primo luogo devono esserci una pietra e dell’acqua, poi si deve geare la pietra nell’acqua; ma siccome questi presupposti fanno parte dell’enunciazione del fenomeno stesso, il farli rientrare tra le condizioni sarebbe una viziosa tautologia. Per questa ragione, questa classe di condizioni non ha mai ricevuto il nome di causa da nessuno, tranne e

dagli aristotelici, e la iamarono la causa materiale (causa materialis). La condizione successiva è e dev’esserci la Terra: e di conseguenza si è deo spesso e la caduta di un pietra è causata dalla Terra, o da un potere o proprietà della Terra, o da una forza esercitata dalla Terra — tue espressioni, queste, e sono pure e semplici circonlocuzioni per dire e la caduta della pietra è causata dalla Terra — o, infine, dall’arazione terrestre; ane quest’ultima espressione non è altro e un modo per dire, in linguaggio tecnico, e la Terra è la causa del moto, e aggiunge la particolarità e il moto è direo verso il centro della Terra: caraeristica, questa, e è propria, non della causa ma dell’effeo. Passiamo ora a un’altra condizione. Non è sufficiente e la Terra esista: il corpo deve trovarsi a una distanza tale da essa e la forza d’arazione terrestre sia più forte di quella di qualsiasi altro corpo. Di conseguenza possiamo dire (e l’espressione sarebbe innegabilmente correa) e la causa del fao e la pietra cade è il fao e essa è situata all’interno della sfera dell’arazione terrestre. Procediamo ora a un’ulteriore condizione. La pietra viene immersa nell’acqua: perciò una condizione peré arrivi a toccare il fondo è e la sua gravità specifica superi quella del fluido circostante, o, in altre parole, e il suo peso sia maggiore di quello di un egual volume di acqua. Di conseguenza si dovrebbe riconoscere e parlerebbe correamente iunque dicesse e la causa per cui la pietra va a fondo è il fao e la sua gravità specifica è maggiore di quella del fluido in cui è stata immersa. Vediamo così e si possono prendere di volta in volta ciascuna e tue le condizioni del fenomeno, e con eguale proprietà nel modo di parlare comune ma con eguale improprietà nel linguaggio scientifico, se ne può parlare come se ciascuna di esse fosse l’intiera causa. E in pratica si è soliti iamare «causa» quella particolare condizione e, da un punto di vista superficiale, ha la parte più cospicua nel prodursi dell’effeo, o sulla cui indispensabilità per il prodursi dell’effeo ci accade, in quel momento, di stare insistendo. Tanto grande è il peso di quest’ultima considerazione e talvolta ci induce a dare il nome di causa addiriura a una delle condizioni negative. Diciamo, ad esempio: «L’esercito fu sorpreso dal nemico peré la sentinella non era al suo posto». Ma, siccome non è stata l’assenza della sentinella a creare il nemico, o a far addormentare i soldati, qual è stata la causa della sorpresa? i si intende soltanto dire e se la sentinella fosse stata al suo posto l’evento non sarebbe accaduto. Il fao e la sentinella non fosse al suo posto non è la causa e ha prodoo l’evento, ma la pura e semplice assenza

di una causa e l’avrebbe impedito: equivale perciò semplicemente alla non-esistenza della sentinella. Da nulla, da una negazione pura e semplice, non può discendere nessuna conseguenza. Tui gli effei sono connessi dalla legge di causazione con quale insieme di condizioni positive, ane se è vero e oltre alle condizioni positive si riiedono sempre ane condizioni negative. In altre parole, ogni fao o fenomeno e ha un inizio, sorge invariabilmente quando esiste una certa combinazione di fai positivi, puré non esistano certi altri fai positivi. C’è indubbiamente una tendenza (sufficientemente illustrata dal nostro primo esempio, quello della morte causata dall’ingestione di un particolare cibo) ad associare l’idea di causazione con l’evento immediatamente precedente, piuosto e con uno qualsiasi degli stati antecedenti, o con fai permanenti e potrebbero an’essi essere condizioni del fenomeno. La ragione è e l’evento non solo esiste, ma incomincia ad esistere immediatamente prima, mentre può darsi e le altre condizioni siano preesistite per un periodo di tempo indefinito. E questa tendenza si mostra molto iaramente nelle differenti finzioni logie a cui si fa ricorso, ane da parte di uomini di scienza, per evitare la necessità di dare il nome di «causa» a tuo ciò e sia esistito per un tempo di lunghezza indeterminata prima dell’effeo. Così, invece di dire e la Terra causa la caduta dei corpi, costoro aribuiscono tale caduta a una forza esercitata dalla Terra, o a un’attrazione da parte della Terra, astrazioni, queste, e possono rappresentarsi come tali e si esauriscono non appena si siano esercitate e perciò come costituenti, in ciascun istante successivo, un fao nuovo e è simultaneo all’effeo o appena lo precede immediatamente. Poié il sopravvenire delle circostanze e completa il radunarsi delle condizioni è un cambiamento o un evento, si dà il caso e l’antecedente e è apparentemente più prossimo al conseguente sia sempre un evento. esto può rendere conto dell’illusione e ci dispone a considerare l’evento più vicino come quello e occupa la posizione di causa, in modo più peculiare di qualsiasi altro stato antecedente. Ma, come abbiamo già visto, ane questa peculiarità, di essere più prossimo all’effeo di ogni altra condizione, è ben lontana dall’essere necessaria alla comune nozione di causa; al contrario, secondo le occasioni si trova e qualunque condizione positiva o negativa è completamente in accordo con questa nozionea.

Filosoficamente parlando, dunque, la causa è la somma totale delle condizioni positive e negative, prese insieme: la totalità delle contingenze di ogni tipo, realizzate le quali segue invariabilmente il conseguente. Comunque, le condizioni negative di un fenomeno (un’enumerazione speciale delle quali sarebbe, in genere, molto prolissa) possono essere raccolte tue soo una sola etiea: assenza di cause impedienti o contrastanti. La convenienza di questo modo d’esprimersi è basata principalmente sul fao e nella maggior parte dei casi gli effei di una causa e contrasti un’altra causa possono essere considerati, con rigorosa esaezza scientifica, come una pura e semplice estensione dei suoi effei propri, presi separatamente. ando ritarda il moto verso l’alto di un proieile e lo deflee trasformandolo in una traieoria parabolica, la gravità produce così facendo la medesima specie di effeo e (come i matematici sanno) addiriura la medesima quantità di effeo e produce nel suo operare ordinario, quando causa la caduta di corpi e siano stati semplicemente privati del loro sostegno. Se una soluzione alcalina mescolata a un acido ne distrugge l’acidità e gli impedisce di rendere rossi i blu vegetali, ciò accade peré l’effeo specifico di un alcale consiste nel combinarsi con l’acido e nel formare un composto dotato di qualità totalmente differenti. esta proprietà, in forza della quale una causa impedisce gli effei di altre cause in virtù (in massima parte) delle medesime leggi secondo le quali produce i proprib — proprietà e è condivisa dalle cause di tui i generi — fonda l’assioma generale e tue le cause possono essere contrastate nei loro effei da un’altra causa, e ci mee in grado di prescindere completamente dalla considerazione delle condizioni negative, limitando la nozione di causa all’insieme delle condizioni positive del fenomeno. Una sola condizione negativa invariabilmente sointesa (cioè l’assenza di cause contrarie) è infai sufficiente, insieme con la somma delle condizioni positive, a formare l’insieme totale delle circostanze dalle quali il fenomeno dipende. 4. Tra le condizioni positive, come abbiamo visto e ce ne sono alcune alle quali nel modo di parlare comune si assegna con maggiore prontezza e con maggiore frequenza il termine «causa», così ce ne sono altre a cui in circostanze ordinarie si rifiuta di applicare lo stesso termine. Nella maggior parte dei casi di causazione si è soliti tracciare una distinzione tra qualcosa e agisce e quale altra cosa e subisce l’azione: tra un agente e un

paziente.

Si ammeerà universalmente e sia l’agente sia il paziente sono condizioni del fenomeno, ma si penserà e è assurdo iamare il secondo «causa», peré questo titolo viene riservato al primo. Comunque, se si esamina aentamente la questione, la distinzione scompare, o, meglio, si trova e si traa di una distinzione puramente verbale. Essa sorge infai, puramente e semplicemente, da una particolarità accidentale del nostro modo di esprimerci: dal fao, cioè, e di solito l’oggeo e, si dice, subisce l’azione (e e viene considerato come la scena in cui l’effeo ha luogo) viene incluso nella stessa frase per mezzo della quale si parla dell’effeo; in tal modo, se ane lo si contasse come una parte della causa, sorgerebbe l’apparente incongruenza e consiste nel supporre e causi se stesso. Nel caso e abbiamo già preso in considerazione, dei corpi e cadono, la questione era stata posta nel modo seguente: «al è la causa e fa cadere una pietra?»; se la risposta fosse stata: «La pietra stessa», l’espressione sarebbe stata in apparente contraddizione con il significato della parola «causa». La pietra viene pertanto considerata come il paziente e la Terra (o, secondo la pratica più comune, e meno filosofica, quale qualità occulta della Terra) viene rappresentata come l’agente, o la causa. Ma e in questa distinzione non ci sia nulla di fondamentale si può vedere dal fao e è perfeamente possibile concepire la pietra come quello e causa la sua stessa caduta, puré il linguaggio impiegato sia tale da evitare un’incongruenza puramente e semplicemente verbale. Possiamo dire e la pietra si muove verso la Terra grazie alle proprietà della materia e la compone; stando a questo modo di presentare il fenomeno la pietra potrebbe essere iamata l’agente, senza e questo dia luogo ad alcuna improprietà, ane se di solito, pur di salvare la dorina ormai consolidata dell’inaività della materia, gli uomini preferiscono ane qui aribuire l’effeo a una qualità occulta e dire e la causa non è la pietra medesima, ma il peso, o la gravitazione della pietra. Generalmente, coloro e hanno sostenuto la necessità di una distinzione radicale tra agente e paziente hanno concepito l’agente come ciò e causa quale stato di, o quale cambiamento nello stato di, un altro oggeo, e viene iamato il paziente. Ma basta un minimo di riflessione per vedere e la licenza, e ci arroghiamo, di parlare dei fenomeni come di stati dei vari oggei e vi prendono parte (artificio, questo, di cui alcuni filosofi, e in modo particolare Brown, hanno fao largamente uso per dare un’apparente spiegazione ai fenomeni) è semplicemente una specie di finzione logica, e

talvolta è utile come uno fra i tanti modi d’esprimersi, ma e non dovrebbe mai essere presa per l’enunciazione di una verità scientifica. Ane quegli aributi di un oggeo e potrebbe sembrare perfeamente appropriato iamare stati dell’oggeo — le sue qualità sensibili: colore, durezza, forma, e simili — sono in realtà (nessuno l’ha messo in evidenza più iaramente dello stesso Brown) fenomeni di causazione nei quali la sostanza è iaramente l’agente, ossia la causa e li produce, mentre il paziente è rappresentato dai nostri stessi organi o dagli organi degli altri esseri senzienti. elli e iamiamo stati degli oggei sono sempre sequenze in cui gli oggei entrano generalmente come antecedenti o cause e mai le cose sono più aive e nella produzione di quei fenomeni nei quali si dice invece e subiscono un’azione. Così nell’esempio della pietra e cade a terra: secondo la teoria della gravitazione la pietra è un agente non meno della Terra, e non solo arae la pietra, ma ne è araa essa stessa. Nel caso di una sensazione prodoa nei nostri organi, le leggi della nostra organizzazione e addiriura quelle della nostra mente contribuiscono tanto direamente quanto le leggi dell’oggeo esterno a determinare l’effeo prodoo. Diciamo e l’acido prussico è l’agente della morte di una persona, ma nella catena di effei e termina così rapidamente con la morte, tue quante le proprietà vitali e organie del paziente sono strumenti tanto aivi quanto il veleno. Nel processo educativo possiamo iamare «agente» il maestro, e dire e l’allievo è soltanto il materiale su cui il maestro esercita la sua azione, ma, in realtà tui i fai e preesistono nella mente dell’allievo esercitano la loro azione sugli sforzi del maestro, sia peré collaborano con essi, sia peré vi si contrappongono. Non la luce soltanto è l’agente della visione, ma la luce insieme con le proprietà aive dell’ocio e del cervello e con quelle dell’oggeo visibile. La distinzione tra agente e paziente è puramente verbale: i pazienti sono sempre ane agenti e in gran parte dei fenomeni naturali i pazienti sono addiriura agenti a tal punto da reagire potentemente sulle cause e hanno agito su di essi. Ane quando questo non accade, i pazienti contribuiscono, nello stesso modo in cui vi contribuisce qualsiasi altra condizione, alla produzione di quell’effeo di cui volgarmente vengono traati come il puro e semplice teatro. Tue le condizioni positive di un fenomeno sono egualmente agenti, egualmente aive: da nessun’espressione della causa, e pretenda di essere completa, si può ragionevolmente escludere una sola di tali condizioni, se si ecceuano quelle e sono già implicite nelle parole usate per descrivere l’effeo. Del

resto l’improprietà in cui si incorrerebbe includendovi ane queste ultime, non sarebbe altro e un’improprietà puramente e semplicemente verbale. 5. C’è un caso di causazione e abbisogna di un’aenzione a parte, peré possiede una caraeristica tua particolare e presenta un grado di complessità maggiore di quella dei casi comuni. Accade spesso e l’effeo, o uno degli effei, di una causa consista, non già nel produrre di per se stessa un certo fenomeno, ma nel fare in modo e qualcos’altro venga messo in grado di produrre il fenomeno. In altre parole, c’è un caso di causazione in cui l’effeo consiste nel conferire una certa proprietà a un certo oggeo. ando si meono insieme zolfo, carbone di legna e salnitro in certe proporzioni e in una certa maniera, l’effeo non è un’esplosione, ma l’acquisto da parte della mistura di una proprietà in virtù della quale la mistura esploderà in certe circostanze. Le varie cause, naturali e artificiali, e educano il corpo o la mente umana hanno come loro effeo principale non già il costringere la mente o il corpo a fare una certa cosa lì sui due piedi, ma il dotare la mente umana di certe proprietà: in altre parole, l’assicurare e in determinate circostanze avranno luogo nella mente o nel corpo, o come conseguenze di quello e avviene nella mente o nel corpo, certi risultati. Spesso l’ufficio principale dell’azione degli agenti fisiologici, è quello di predisporre la costituzione a quale modo di agire. Per prendere un esempio più semplice di tui questi e abbiamo portato: il fao e si sia data una mano di vernice bianca su un muro, non si limita soltanto a produrre la sensazione di bianco in quelli e vedono il muro verniciato, ma conferisce al muro la proprietà permanente di dare questa specie di sensazione. Considerato in riferimento alla sensazione, il dare la mano di vernice è una condizione di una condizione; è una condizione del fao e il muro causi quel fao particolare. Può darsi e il muro sia stato verniciato anni fa; ma ha acquistato una proprietà e è durata fino ad oggi e durerà ancora più a lungo. La condizione antecedente, necessaria a meere il muro in grado di diventare a sua volta una condizione, è stata soddisfaa una volta per tue. In un caso come questo, in cui il conseguente immediato nella sequenza è una proprietà prodoa in un oggeo, nessuno oggi suppone e la proprietà sia un’entità sostanziale, «inerente» all’oggeo. Ciò e è stato prodoo è quello e, usando un altro linguaggio, potremmo iamare uno stato di preparazione di un certo oggeo a produrre un certo effeo. Gli ingredienti della polvere da sparo sono stati messi in uno stato di

preparazione ad esplodere non appena si saranno verificate le altre condizioni favorevoli a un’esplosione. Nel caso della polvere di cannone questo stato di preparazione consiste in una certa collocazione delle sue particelle, relativamente l’una all’altra. Nell’esempio del muro, consiste in una nuova collocazione di due cose, relativamente l’una all’altra: il muro e la vernice. Nell’esempio delle influenze plasmatrici esercitate sulla mente umana, il loro essere una collocazione è soltanto materia di congeura; peré, ane assumendo l’ipotesi materialistica, resterebbe ancora da provare e l’aumentata facilità con cui, dopo essere stato allenato a lungo al calcolo, il cervello somma una colonna di cifre, è il risultato di una nuova disposizione, ora diventata permanente, di alcune delle sue particelle materiali. Dobbiamo pertanto accontentarci di quello e sappiamo, e dobbiamo includere, tra gli effei delle cause, le capacità conferite agli oggei di essere cause di altri effei. esta capacità non è una cosa reale e esista negli oggei; non è altro e un nome per la nostra convinzione e quando sorgeranno certe circostanze nuove gli oggei agiranno in una maniera particolare. Possiamo conferire un’esistenza oggeiva fiizia a questa sicurezza circa gli eventi futuri, iamandola uno stato dell’oggeo. Ma a meno e lo stato non consista, come nel caso della polvere da sparo, in una collocazione di particelle, questo nome non esprime nessun fao presente; non è altro e il futuro fao contingente riportato indietro soo altro nome. Si potrebbe pensare e questa forma di causazione ci obblighi ad ammeere un’eccezione alla dorina e le condizioni di un fenomeno — cioè gli antecedenti necessari a farlo esistere — si debbano trovare tue tra i fai e precedono immediatamente, e non alla lontana, l’inizio del fenomeno stesso. Ma ciò a cui siamo pervenuti, non è una correzione, bensì soltanto una spiegazione della dorina. Nell’enumerazione delle condizioni riieste per l’accadere di un qualsiasi fenomeno si deve sempre far rientrare la condizione e devono essere presenti certi oggei dotati di determinate proprietà. È una condizione del fenomeno dell’esplosione e siano presenti certi oggei, dell’una o dell’altra di certe specie, e per questa ragione si iamano esplosivi. La presenza di uno di questi oggei è una condizione e è immediatamente precedente l’esplosione. La condizione e non precede immediatamente è la causa e ha prodoo, non già l’esplosione, ma la proprietà di essere un esplosivo. Le condizioni dell’esplosione stessa erano

tue presenti immediatamente prima e l’esplosione avesse luogo, e pertanto la legge generale rimane intaa. 6. Ora dobbiamo ancora rivolgere la nostra aenzione a una distinzione e è di primaria importanza sia per iarire la nozione di causa sia per ovviare a un’obiezione piuosto speciosa, e spesso è stata sollevata contro il punto di vista e abbiamo assunto a proposito di questo argomento. ando definiamo la causa di una cosa (nel solo senso in cui la presente ricerca ha qualcosa da fare con le cause), come «l’antecedente cui la cosa invariabilmente segue», non usiamo questa frase come il sinonimo esao di «l’antecedente cui la cosa è invariabilmente seguìta nella nostra esperienza passata». Un modo siffao di concepire la causazione sarebbe esposto all’obiezione, avanzata in modo estremamente convincente dal door Reid, e secondo questa dorina la noe dovrebbe essere la causa del giorno e il giorno la causa della noe, dal momento e questi fenomeni si sono invariabilmente succeduti l’un l’altro fin dal principio del mondo. Ma peré possiamo usare la parola «causa» è necessario e crediamo non solo e l’antecedente è sempre stato seguito dal conseguente, ma e sarà sempre così finé durerà l’auale costituzione delle cosec. E questo non sarebbe vero del giorno e della noe. Non crediamo e la noe sarà seguìta dal giorno in tue le circostanze immaginabili; crediamo soltanto e sarà seguita dal giorno purché il Sole sorga sull’orizzonte. Se il Sole cessasse di sorgere — il e, per quanto ne sappiamo, è perfeamente compatibile con le leggi generali della materia — la noe sarebbe, o potrebbe essere, eterna. D’altra parte, se il Sole è sopra l’orizzonte, se la sua luce non si è spenta e nessun corpo opaco è interposto tra noi e il Sole, crediamo fermamente e questa combinazione di antecedenti sarà seguita dal conseguente — cioè dal giorno — a meno e non avvenga un mutamento nelle proprietà della materia; crediamo e, se la combinazione di antecedenti potesse essere prolungata indefinitamente, sarebbe sempre giorno; e crediamo e se fosse sempre esistita la medesima combinazione, sarebbe sempre stato giorno, del tuo indipendentemente dall’esistenza della noe come condizione precedente. Ecco dunque peré non diciamo e la noe è la causa, e neppure e è una condizione, del giorno. Le unie condizioni del giorno sono l’esistenza del Sole (o di quale altro corpo luminoso simile al Sole) e il fao e nessun mezzo opaco sia situato, sulla stessa linea read, tra quel corpo e la parte della Terra in cui ci troviamo: l’unione di queste condizioni,

senza l’aggiunta di altre circostanze superflue, costituisce la causa del giorno. Proprio questo gli autori intendono quando dicono e la nozione di causa implica l’idea di necessità. Se c’è un significato e appartiene innegabilmente al termine «necessità», questo è incondizionatezza. Che una cosa è necessaria — cioè, e non può non essere — significa e quella cosa sarà, qualunque ipotesi possiamo fare a proposito di tue le altre cose. Evidentemente la successione del giorno e della noe non è necessaria in questo senso. È condizionata dal presentarsi di altri antecedenti. La cosa e sarà seguita da un dato conseguente quando, e solo quando, esiste ane una terza circostanza, non è la causa di quel conseguente, ane se non si è mai dato un solo caso in cui il fenomeno abbia avuto luogo senza quella cosa. Perciò «sequenza invariabile» non è sinonimo di «causazione» a meno e la sequenza, oltre ad essere invariabile, non sia ane incondizionata. Nella nostra esperienza passata ci sono sequenze uniformi quanto qualsiasi altra, e tuavia non le consideriamo come casi di causazione, ma come congiunzioni in quale modo accidentali. Tale è, per un pensatore accurato, il succedersi del giorno e della noe. Potrebbe darsi e l’uno fosse esistito per un tempo di lunghezza qualsiasi, e l’altra non fosse seguita prima proprio peré c’era il giorno; segue solo se esistono certi altri antecedenti, e dove esistano questi antecedenti segue in ogni caso. Probabilmente mai nessuno ha deo e la noe è la causa del giorno; gli uomini devono essere arrivati molto presto alla generalizzazione, molto ovvia, e lo stato di illuminazione generale e iamiamo giorno segue dalla presenza di un corpo sufficientemente luminoso, sia o non sia stato preceduto dall’oscurità. Possiamo perciò definire la causa di un fenomeno come l’antecedente, o il concorso di antecedenti, ai quali il fenomeno consegue invariabilmente e incondizionatamente. O, se adoiamo quella conveniente modificazione del significato della parola «causa» e la limita a designare l’insieme delle condizioni positive escludendo quelle negative, allora, invece di «incondizionatamente», dovremo dire: «soggea soltanto a condizioni negative». Siccome la sequenza di noe e giorno è invariabile nella nostra esperienza, a qualcuno potrà forse sembrare e per riconoscere i due fenomeni come causa ed effeo ci siano, in questo caso, tante ragioni quante l’esperienza può offrire in qualsiasi altro caso, e e il dire e è necessario qualcosa di più — l’esigere, cioè, la credenza e la successione è incondizionata, o, in altre parole, e rimarrebbe invariata araverso tui i

mutamenti di circostanze — signifii riconoscere nella causazione un elemento di credenza e non è derivato dall’esperienza. La risposta è e la stessa esperienza ci insegna e un’uniformità di successione è condizionata e un’altra è incondizionata. ando giudiiamo e la successione di noe e di giorno è una sequenza derivata, e dipende da qualcos’altro, procediamo sulle basi forniteci dall’esperienza. È la prova dell’esperienza a convincerci e il giorno potrebbe egualmente esistere ane se non fosse seguito dalla noe, e la noe potrebbe egualmente esistere senza essere seguita dal giorno. Il dire e queste credenze «non sono generate dalla nostra pura e semplice osservazione della sequenza»e equivale a dimenticare e, per ben due volte ogni ventiquaro ore, quando il cielo è sereno, disponiamo di un experimentum crucis per renderci conto e la causa del giorno è il Sole. Abbiamo una conoscenza sperimentale del Sole e ci giustifica, sopra basi sperimentali, a concludere e se il Sole fosse sempre al disopra dell’orizzonte sarebbe sempre giorno, ane se prima non fosse stata noe, e e se il Sole fosse sempre al disoo dell’orizzonte sarebbe sempre noe, ane se prima non fosse stato giorno. Sappiamo dall’esperienza, dunque, e la successione di giorno e noe non è incondizionata. Mi sia concesso di aggiungere e l’antecedente e è invariabile solo condizionatamente non è l’antecedente invariabile. Può darsi e nell’esperienza un fao sia sempre stato seguito da un altro fao; tuavia, se il resto della nostra esperienza ci insegna e il fao potrebbe non essere sempre seguìto da un altro o se l’esperienza stessa è tale da lasciar spazio alla possibilità e i casi noti non rappresentino correamente tui i casi possibili, l’antecedente, fino a quel momento ritenuto invariabile, non è più considerato la causa. Ma peré? Peré non siamo sicuri e sia davvero l’antecedente invariabile. Casi di successione come quello del giorno e della noe, non solo non contraddicono la dorina e risolve la causazione nella successione invariabile, ma sono necessariamente implicati da quella dorina. È evidente e da un numero limitato di successioni incondizionate risulterà un numero molto maggiore di sequenze condizionate. Date certe cause — dati, cioè, certi antecedenti seguiti incondizionatamente da certi conseguenti — la loro pura e semplice coesistenza darà luogo a un numero illimitato di uniformità e si aggiungono alle uniformità date. Se due cause esistono insieme, esisteranno insieme gli effei di entrambe, e se molte cause coesistono, queste cause (per quella e iameremo d’ora in poi la commistione delle loro leggi) daranno

origine a nuovi effei, e si accompagnano o si succedono l’un l’altro secondo quale ordine particolare: quest’ordine sarà invariabile finé le cause continueranno a coesistere, ma cesserà di esserlo quando le cause non coesisteranno più. Il moto della Terra intorno al Sole secondo un’orbita data, è una serie di cambiamenti e si susseguono l’un l’altro come antecedenti e conseguenti, e continueranno a susseguirsi finé l’arazione del Sole e la forza in virtù della quale la Terra tende ad avanzare in linea rea araverso lo spazio continueranno a coesistere nelle stesse quantità in cui coesistono aualmente. Ma si vari l’una o l’altra di queste cause e cesserà di aver luogo uno di questi moti. Perciò la serie dei moti della Terra è bensì un caso di sequenza, nei limiti dell’esperienza umana, invariabile, ma non è un caso di causazione. Non è incondizionata. esta distinzione tra quelle relazioni di successione e (per quanto ne sappiamo) sono incondizionate e quelle relazioni, di successione o di coesistenza, e come i moti della Terra o il seguire del giorno alla noe dipendono dall’esistenza o dalla coesistenza di altri fai antecedenti, corrisponde alla grande divisione del campo della scienza, operata dal door Whewell e da altri autori nella ricerca di quelle e iamano «le leggi dei fenomeni» e nella ricerca delle cause: terminologia, questa, e secondo me è filosoficamente insostenibile nella misura in cui l’accertamento di cause quali le facoltà umane sono in grado di accertare — di cause, cioè, e a loro volta sono fenomeni — non è altro, per quest’ultima ragione, e l’accertamento di leggi dei fenomeni diverse e più universali. E mi sia concesso di osservare, a questo punto, e il door Whewell, e in certa misura ane Sir John Hersel, sembrano aver frainteso ciò e intendono quegli autori e, come il signor Comte, limitano la sfera dell’indagine scientifica alle leggi dei fenomeni e parlano della ricerca delle cause come di cosa vana e futile. Le cause e il signor Comte designa come inaccessibili sono le cause efficienti. La ricerca delle cause fisie in quanto opposte alle cause efficienti (ricerca e comprende lo studio di tue le forze aive esistenti in natura, considerate come fai di osservazione) è una parte importante tanto della concezione della scienza del signor Comte quanto di quella del door Whewell. L’opposizione di quest’ultimo alla parola «causa» è una pura e semplice questione di nomenclatura nella quale, in quanto questione di nomenclatura, ritengo e abbia completamente torto. Osserva giustamente il signor Baileyf: «Coloro e, come fa il signor Comte, obbieano alla designazione di certi eventi come cause, obbieano senza

nessuna vera ragione a una pura e semplice generalizzazione, peraltro estremamente conveniente; a un nome comune molto utile, il cui impiego non implica, o almeno non implica necessariamente, nessuna teoria particolare». A questo si può aggiungere e rifiutando questa forma di espressione il signor Comte si ritrova privo di qualsiasi termine per contrassegnare una distinzione e, per quanto espressa scorreamente, non soltanto è reale, ma è una delle distinzioni fondamentali della scienza; in realtà, come vedremo in seguito, su questa sola distinzione riposa la possibilità di enunciare un canone rigoroso dell’induzione. E poié è molto facile e le cose lasciate senza nome vengano dimenticate, tra i molti benefici e la filosofia dell’induzione ha ricevuto dai grandi talenti del signor Comte, non si trova un canone siffao. 7. Una causa sta sempre, col suo effeo, nella relazione di antecedente a conseguente? Non diciamo spesso e sono causa ed effeo due fai simultanei, come quando diciamo e il fuoco è la causa del calore, il Sole e l’umidità sono la causa della vegetazione, e via discorrendo? Siccome una causa non cessa necessariamente di esistere dopo aver prodoo il suo effeo, generalmente le due cose coesistono; e alcune apparenze e alcune espressioni comuni sembrano implicare e le cause non solo possono, ma non possono non, essere contemporanee ai loro effei. Cessante causa cessat et effectus, era un dogma delle Scuole: sembra e un tempo la necessità dell’esistenza continuata della causa ai fini della continuazione dell’effeo, fosse dorina generalmente acceata. I numerosi tentativi di Keplero per render conto del moto dei corpi celesti in base a princìpi meccanici, abortirono, peré Keplero continuava a supporre e, per mantenere il moto e ha prodoo all’inizio, l’agente e mee in moto questi corpi debba continuare ad operare. Tuavia ad ogni piè sospinto si potevano incontrare molti esempi familiari di effei e continuavano per molto tempo dopo e erano cessate le loro cause. Un coup de soleil dà a una persona la febbre cerebrale: forse e la febbre scomparirà non appena quella persona sarà stata allontanata dal Sole? Una spada trapassa il corpo di un uomo: forse peré quel tizio continui a esser morto la spada deve rimanere infissa nel suo corpo? Un vomere, una volta fao, rimane un vomere ane se non si continua a forgiarlo e a martellarlo e ane dopo e l’uomo e l’ha forgiato e l’ha martellato è andato a raggiungere i suoi antenati. D’altra parte, la pressione e costringe il mercurio a salire in un tubo in cui sia stato fao il vuoto,

deve continuare, altrimenti non riuscirebbe a sostenere il mercurio nel tubo. esto (si può rispondere) accade peré agisce senza soste un’altra forza, la forza di gravità, la quale, a meno e non le si contrapponga una forza egualmente costante, riporterà il mercurio al suo livello primitivo. Ma ancora: una fasciatura troppo strea causa dolore, e talvolta il dolore se ne va non appena la fasciatura sia stata rimossa. L’illuminazione e il Sole diffonde sulla Terra scompare non appena il Sole sia tramontato. Si deve dunque fare una distinzione. Di tanto in tanto le condizioni necessarie a produrre per la prima volta un fenomeno sono ane necessarie peré il fenomeno continui a sussistere, ane se più spesso accade e la persistenza del fenomeno non riieda altre condizioni e quelle negative. La maggior parte delle cose, una volta prodoe, continuano ad essere quelle e sono finé qualcosa non le cambia, o non le distrugge; ma alcune cose riiedono la presenza permanente dell’agente e le ha prodoe. Se vogliamo, possiamo considerare queste cose come fenomeni istantanei, e devono essere rinnovati ad ogni istante dalla causa e li ha generati. Di conseguenza, l’illuminazione di un qualsiasi punto dato dello spazio è sempre stata considerata come un fao istantaneo, e cessa di esistere e viene perpetuamente rinnovato fintanto e sussistono le condizioni necessarie. Se adoiamo questo linguaggio evitiamo la necessità di ammeere e per mantenere l’effeo sia sempre necessario e continui ad esistere la causa. Possiamo dire e la causa è necessaria, non per mantenere l’effeo, ma per riprodurlo, oppure per contrastare l’azione di quale forza e tende a distruggerlo. E questa può forse essere una terminologia conveniente, ma è pur sempre una terminologia. Rimane il fao e in alcuni casi (e si traa, comunque, di una minoranza) la persistenza delle condizioni e hanno prodoo un effeo è necessaria alla persistenza di quell’effeo.

Frontespizio della prima edizione dell’Autobiografia di J. S. Mill (Londra, 1873)

Per quanto riguarda la questione ulteriore: se sia streamente necessario e la causa, o l’insieme delle condizioni, preceda, sia pure di un istante brevissimo, la produzione dell’effeo (questione, questa, sollevata e molto ingegnosamente discussa da Sir John Hersel in un saggio già citatog) l’indagine non ha alcuna importanza per il nostro scopo auale. Ci sono certamente casi in cui l’effeo segue senza e tra esso e la causa sia interposto alcun intervallo percepibile dalle nostre facoltà e, quando un intervallo c’è, non siamo in grado di dire quanti anelli intermedi, non percepibili da noi, siano realmente necessari per riempirlo. Ma il punto di vista sulla causazione e ho assunto non risulta per nulla modificato all’ao pratico, neane se si ammee e un effeo possa cominciare simultaneamente alla sua causa. Sia e la causa e il suo effeo siano necessariamente successivi, sia e non lo siano, è l’inizio di un fenomeno a implicare una causa, e la causazione è la legge di successione dei fenomeni. Ammeendo questi assiomi possiamo permeerci (ane se non vedo la necessità di farlo) di lasciar cadere le parole «antecedente» e «conseguente», in quanto applicate a causa ed effeo. Non ho alcuna obiezione a e si definisca una causa come l’insieme di fenomeni, accadendo i quali invariabilmente comincia, o ha la sua origine, quale altro fenomeno. Non ha importanza e l’effeo coincida all’istante con l’ultima delle sue condizioni o segua immediatamente ad essa. In nessun caso la precede; e quando, posti dinanzi a due fenomeni coesistenti, siamo in dubbio quale dei due sia la causa e quale l’effeo, riteniamo giustamente e la questione sia risolta se riusciamo ad accertare quale abbia preceduto l’altro. 8. Accade continuamente di trovare e pareci fenomeni differenti, e non dipendono minimamente l’uno dall’altro, o non sono minimamente condizionati l’uno dall’altro, dipendono tui — per dir così — da un solo e medesimo agente. In altri termini, si vede e un solo e medesimo fenomeno è seguito da parecie specie di effei, e sono del tuo eterogenei, ma procedono tui simultaneamente l’uno all’altro — puré, naturalmente, esistano ane tue le altre condizioni indispensabili per ciascuno di essi. Così, il Sole produce i movimenti celesti, produce la luce del giorno e produce calore. La Terra causa la caduta dei gravi e, con la sua funzione di grande magnete, causa i fenomeni dell’ago magnetico. Un cristallo di solfuro di piombo causa le sensazioni di durezza, di peso, di forma cubica, di color grigio e molte altre sensazioni tra le quali non possiamo rintracciare

nessun’interdipendenza. Ad esprimere questo tipo di casi è particolarmente adaa la terminologia delle proprietà e dei poteri. ando lo stesso fenomeno (sia o no sooposto alla presenza di altre condizioni) è seguito da effei di ordini differenti e dissimili, si è soliti dire e ciascun differente genere di effeo è prodoo da una differente proprietà della causa. Così distinguiamo la proprietà dell’arazione, o proprietà gravitazionale, dalla proprietà magnetica della Terra; le proprietà gravitazionale, luminosa e calorifica del Sole; il colore, la forma, il peso e la durezza di un cristallo. Si traa di pure e semplici frasi, e non spiegano nulla e non aggiungono nulla alla nostra conoscenza del soggeo, ma, considerate come nomi astrai e denotano la connessione tra i differenti effei prodoi e l’oggeo e li produce, sono potentissimo strumento d’abbreviazione, e di quell’accelerazione dei processi del pensiero e l’abbreviazione realizza. esta classe di considerazioni conduce a una concezione e troveremo di grande importanza: la concezione di causa permanente, o agente naturale originario. In natura esistono un certo numero di cause permanenti e sono sussistite fin da quando è esistita la razza umana, e probabilmente da un tempo enorme prima e la razza umana esistesse. Tali cause permanenti sono il Sole, la Terra e i pianeti insieme con i loro vari costituenti: aria, acqua e le altre sostanze ben distinte, semplici e composte, delle quali è costituita la natura. este cause sono esistite, e gli effei o conseguenze e erano adae a produrre hanno avuto luogo (tue le volte e concorrevano le condizioni favorevoli al prodursi degli effei) fin dagli albori della nostra esperienza. Ma dell’origine delle cause permanenti non possiamo rendere conto in alcun modo. Peré fin dall’origine siano esistiti questi particolari agenti naturali e non altri, o peré siano mescolati in queste determinate proporzioni e siano distribuiti per tuo lo spazio in questa determinata maniera, è una questione a cui non possiamo dare una risposta. Di più: nella loro stessa distribuzione non possiamo scoprire nulla di regolare: non possiamo ridurre tale distribuzione a nessuna uniformità, a nessuna legge. Non c’è nessun mezzo e, data la distribuzione di queste cause o agenti in una certa parte dello spazio, ci mea in grado di congeurare se in un’altra parte dello spazio si trovi la medesima distribuzione. Per quanto ci riguarda, dunque, la coesistenza delle cause primeve è da annoverarsi tra i concorsi puramente e semplicemente casuali. Del resto non classifieremmo certo tra i casi di causazione (ossia tra le leggi di natura), tue le successioni e tue le coesistenze tra gli effei di parecie di tali cause e, pur essendo

invariabili finé queste cause coesistono, cesserebbero di esistere non appena cessasse la coesistenza delle loro cause. Possiamo solo far conto di trovare queste successioni o coesistenze in quei casi in cui sappiamo, in base a prove diree, e gli agenti naturali dalle cui proprietà in ultima analisi dipendono, sono distribuiti nella maniera riiesta. Non sempre queste cause permanenti sono oggei: quale volta sono eventi, o per meglio dire cicli periodici di eventi, peré quest’ultimo è l’unico modo in cui gli eventi possono avere la proprietà della permanenza. Ad esempio, non solo la Terra, ma ane la sua rotazione, è una causa permanente o agente naturale primitivo: una causa e fin dalle epoe più antie ha prodoo (con l’aiuto delle altre condizioni necessarie) il succedersi del giorno e della noe, il flusso e il riflusso delle maree, e molti altri effei. Invece, siccome non possiamo assegnare (se non in via di congeura) nessuna causa alla rotazione stessa, quest’ultima dev’essere annoverata fra le cause primordiali. Ma solo l’origine della rotazione è per noi misteriosa: una volta cominciata, la rotazione è giustificata dalla prima legge del movimento (la legge della permanenza del moto reilineo uniforme e sia stato impresso a un corpo) combinata con la gravitazione delle parti della Terra l’una verso l’altra. Tui senza eccezione i fenomeni e cominciano ad esistere — in altre parole, tui i fenomeni ecceuate le cause primordiali — sono effei, immediati o remoti, di quei fai primitivi o di quale loro combinazione. Nell’universo a noi noto non nasce cosa, non accade evento, e non siano connessi per mezzo di un’uniformità o di una sequenza invariabile con uno o più dei fenomeni e li hanno preceduti, sicé quella cosa o quell’evento accadranno di nuovo non appena si presenteranno di nuovo quei fenomeni e se con essi non coesisterà nessun altro fenomeno e abbia il caraere di causa contrastante. A loro volta, questi fenomeni antecedenti sono connessi in maniera simile con alcuni dei fenomeni e li precedevano, e così via, fino a raggiungere — ultimo gradino e possiamo toccare — o le proprietà di una sola causa primordiale o la congiunzione di parecie di tali cause. Pertanto la totalità dei fenomeni della natura sono le conseguenze necessarie o, in altre parole, incondizionate di quale collocazione precedente delle cause permanenti. Noi crediamo e lo stato dell’intiero universo in un istante qualsiasi sia la conseguenza dello stato in cui si trovava nell’istante precedente; cosicé, i conoscesse tui gli agenti e esistono al momento auale, la loro collocazione nello spazio e tue le loro proprietà — in altre parole le leggi

della loro azione — potrebbe prevedere tua quanta la storia successiva dell’universo, almeno fin quando non intervenga quale nuova volizione di un potere capace di controllare l’universoh. E se quale particolare stato dell’intiero universo potesse mai ricorrere per la seconda volta, ritornerebbero ane tui gli stati successivi, e la storia si ripeterebbe periodicamente, come le cifre di un numero decimale periodico con molti decimali: Jam redit et virgo, redeunt Saturnia regna… Alter erit tum Typhys, et altera quae vehat Argo delectos heroas; erunt quoque altera bella,

4.

atque iterum ad Trojam magnus mittetur Achilles

E bené in realtà le cose non ritornino su se stesse secondo questo ciclo eterno, nondimeno l’intiera serie degli eventi nella storia passata, presente e futura dell’universo può, per sua stessa natura, essere costruita a priori da iunque possiamo supporre abbia familiarità con la distribuzione originaria di tui gli agenti naturali e con la totalità delle loro proprietà, cioè con le leggi della successione e esiste tra questi agenti e i loro effei: salve le facoltà, molto più e umane, di combinazione e di calcolo e sarebbero necessarie per l’esecuzione effeiva di questo compito ane a uno e possedesse tui i dati. 9. Siccome tuo quello e accade è determinato dalle leggi di causazione e dalla collocazione delle cause originarie, ne segue e le coesistenze e si possono osservare tra gli effei, non possono essere a loro volta l’oggeo di un insieme simile di leggi, distinte dalle leggi della causazione. Uniformità, tra gli effei, ce ne sono, sia di coesistenza sia di successione: ma in ogni caso non possono non essere un puro e semplice risultato dell’identità o della coesistenza delle loro cause: se le cause non coesistessero, non potrebbero coesistere neane gli effei. E poié queste cause sono ane effei di cause precedenti, e queste di altre cause ancora — fino a raggiungere le cause primordiali — segue (se si ecceua il caso di effei e possono essere riportati, immediatamente o alla lunga, a una sola e medesima causa) e le coesistenze di fenomeni non possono in nessun caso essere universali, a meno e le coesistenze delle cause primordiali, a cui possiamo ricondurre in ultima analisi gli effei, non possano essere ridoe a

una legge universale: ma abbiamo visto e questo è impossibile. Di conseguenza, tra effei di cause diverse non ci sono uniformità di coesistenza originarie e indipendenti, o, in altre parole, incondizionate: se tali effei coesistono, questo avviene peré, per caso, coesistevano le loro cause. Le sole coesistenze indipendenti e incondizionate, e siano sufficientemente invariabili per pretendere al caraere di leggi, sono le coesistenze tra effei differenti, e tra loro indipendenti, della medesima causa: in altre parole, tra proprietà differenti del medesimo agente naturale. esta parte delle leggi di natura sarà traata nell’ultima parte di questo Libro, soo il titolo «Proprietà specifie delle specie». 10. Dal giorno in cui è comparsa la prima edizione di questo traato, le scienze del mondo fisico hanno fao un gran passo in avanti sulla via della generalizzazione, grazie alla dorina conosciuta col nome di «conservazione, o persistenza, della forza». est’imponente edificio teorico, la cui costruzione e la cui progeazione hanno costituito per un certo tempo la principale occupazione dei fisici più sistematici, consiste di due stadi: l’uno è un fao accertato, l’altro contiene una larga parte di ipotesi. Cominciamo dal primo. È provato da numerosi fai, sia naturali sia prodoi artificialmente, e certi agenti e erano stati considerati come fonti di energia distinte e indipendenti — calore, elericità, azione imica, azione nervosa e muscolare, momento dei corpi in movimento — possono essere scambiati l’uno con l’altro in quantità fisse e definite. Da lungo tempo si sapeva e in certe condizioni questi fenomeni, tra loro dissimili, hanno il potere di prodursi l’un l’altro. La novità introdoa dalla teoria è una stima più accurata di quello in cui consiste questo prodursi. ello e accade è e certi fenomeni scompaiono, del tuo o in parte, e vengono sostituiti da fenomeni dell’uno o dell’altro genere in modo tale e, se si invertisse il processo ricomparirebbe, senza aumento o diminuzione, esaamente la medesima quantità e era scomparsa. Così, se viene spesa, poniamo, nell’espansione del vapore, la quantità di calore necessaria ad elevare di un grado del termometro la temperatura d’una libbra d’acqua solleva di un piede un peso di 772 libbre o di 772 piedi il peso di una libbra; e, usando certi mezzi, si può rioenere esaamente la stessa quantità di calore spendendo una quantità di movimento meccanico esaamente eguale. La formulazione di questa legge generale ha condoo a un cambiamento nel linguaggio in cui il mondo degli scienziati era stato abituato a parlare di

quelle e vengono iamate le forze della natura. Prima e si accertasse questa correlazione tra fenomeni così dissimili l’uno dall’altro, la loro dissimiglianza aveva fao in modo e li si facesse risalire ad altreante forze distinte. Ora e sappiamo e possono essere convertiti, senza perdite, l’uno nell’altro, ne parliamo come se fossero tui il risultato di una sola e medesima forza, e si manifesta in modi differenti. esta forza (si dice) può solo produrre una quantità d’effeo limitata e ben definita, ma produce sempre quella quantità definita; e la produce, secondo le circostanze, nell’una o nell’altra di quelle forme, o la suddivide tra parecie di esse, ma in modo da dare luogo sempre alla medesima somma (secondo una scala di equivalenti numerici stabiliti sperimentalmente); e nessuna delle manifestazioni può essere prodoa se non dalla sparizione della quantità equivalente di un’altra manifestazione, e a sua volta, in circostanze appropriate, ricomparirà inalterata. esta intersostituibilità reciproca delle forze di natura secondo equivalenti numerici fissi è quella parte della nuova dorina e riposa su fai inconfutabili. Tuavia, per rendere vero il suo enunciato è necessario aggiungere e tra la sparizione della forza in una certa forma, e la sua riapparizione in una certa altra forma, può trascorrere un intervallo di tempo indefinito e forse ane immenso. Una pietra e sia stata lanciata in aria con una data forza e ricada immediatamente a terra, quando avrà raggiunto il suolo avrà recuperato esaamente la medesima quantità di momento meccanico e è stato speso per lanciarla in aria, quando da questa quantità si sia soraa quella piccola parte di moto e è stata comunicata all’aria. Ma se la pietra è stata lanciata su un sostegno situato a una certa altezza, può darsi e non ricada per anni, o forse per secoli e secoli, e, fin quando non sarà caduta, la forza spesa per sollevarla sarà temporaneamente perduta e sarà rappresentata soltanto da quella e, nel linguaggio della nuova teoria, viene iamata energia potenziale. Il carbone e giace nelle viscere della Terra viene considerato, da questa teoria, come una vasta riserva di forza, e è rimasta sopita per molti periodi geologici, e sopita rimarrà finé, bruciando, non restituirà soo forma di calore la forza immagazzinata. Non si suppone, tuavia, e questa forza sia una cosa materiale e può essere confinata entro limiti certi, come si pensava del calore latente quando fu scoperto quest’importante fenomeno. ello e si intende è e, quando alla fine il carbone genererà per combustione una certa quantità di calore (trasformabile, come tuo l’altro calore, in momento meccanico e nelle altre

forme di forza) quest’estrinsecazione del calore sarà la riapparizione di una forza derivata dai raggi del Sole, e spesa miliardi di epoe avanti per far vegetare le sostanze organie e costituiscono la materia prima del carbone. Passiamo ora allo stadio superiore della teoria della conservazione della forza; a quella parte, cioè, e non è più una generalizzazione di fai provati, ma una combinazione di fai e di ipotesi. Enunciata in poe parole, suona come segue: la conservazione della forza è, in realtà, la conservazione del movimento; nei vari interscambi tra le diverse forme di forza si traa sempre di trasformazione di un movimento in un altro movimento. Per dimostrarlo è necessario assumere movimenti ipotetici. Si suppone e ci siano movimenti, e si manifestano ai nostri sensi soltanto come calore, elericità, ecc., e sono movimenti molecolari; e ci siano oscillazioni a noi invisibili, e hanno luogo tra le particelle minute dei corpi; e si suppone e questi movimenti molecolari siano trasformabili in movimenti molari (cioè in movimenti di masse), e e i movimenti molari siano trasformabili in movimenti molecolari. Ora, quest’ipotesi ha una base reale nei fai: abbiamo prove positive e in queste manifestazioni della forza esiste il movimento molecolare. Nel caso dell’azione imica, ad esempio, le particelle si separano e formano nuove combinazioni, spesso con una grande perturbazione visibile della massa. Nel caso del calore le prove sono egualmente conclusive, dal momento e il calore fa dilatare i corpi (cioè, è la causa del fao e le particelle dei corpi si muovono, allontanandosi l’una dall’altra) e, se è presente in quantità sufficiente, trasforma il loro stato d’aggregazione da solido a liquido o da liquido a gassoso. Ancora, data la natura del caso, le azioni meccanie e producono calore — quali l’arito e la collisione dei corpi — devono produrre un urto, cioè un movimento interno delle particelle, urto e, come vediamo, è spesso così violento da spezzarli in modo definitivo. Si pensa e tali fai legiimino l’inferenza e, contrariamente a quanto si supponeva, non è il calore a causare il moto delle particelle, ma è il moto delle particelle a causare il calore; la causa originaria sia del moto delle particelle sia del calore è il movimento (molare o molecolare, collisione di corpi o combustione di materiale infiammabile) e ha precedentemente formato l’agente del calore. est’inferenza contiene già ipotesi, ma almeno la supposta causa, il moto interno delle molecole, è una vera causa. Allo scopo, però, di ridurre la conservazione della forza alla conservazione del movimento, fu necessario aribuire al

movimento la propagazione del calore araverso la spazio, apparentemente vuoto, tra la Terra e il Sole. est’aribuzione rese necessaria la supposizione (già faa per dare una spiegazione alle leggi della propagazione della luce) di un etere soile e pervade lo spazio e e, pur non essendo da noi percepibile, deve per forza avere la proprietà e costituisce la materia, quella della resistenza, dal momento e le onde si propagano araverso di esso a partire da un punto dato. Si deve supporre (e questa supposizione non è riiesta dalla teoria della luce) e l’etere penetri negli interstizi minuti di tui i corpi. Si ritiene e il moto vibratorio e si suppone abbia luogo nella massa riscaldata del Sole, sia impartito da quella massa alle particelle dell’etere circostante, e, araverso tali particelle, alle particelle del medesimo etere presenti negli interstizi dei corpi terrestri; e e ane questo, data una forza meccanica sufficiente a geare le particelle di quei corpi in uno stato di vibrazione simile, produca l’espansione della loro massa e la sensazione di calore nelle creature dotate di sensibilità. Tuo questo è ipotesi, ane se, sulla sua legiimità in quanto ipotesi non intendo esprimere alcun dubbio. Sembrerebbe una conseguenza di questa teoria, e la forza possa, e debba, essere definita come materia in movimento. Però questa definizione non reggerebbe, peré, come abbiamo già visto, non è necessario e il movimento della materia sia movimento in atto. Non è necessario supporre e il movimento e si manifesterà in séguito stia avendo luogo, di fao, tra le molecole del carbone, durante la sua permanenza nelle viscere della Terrai; certo, non è necessario supporre e abbia luogo nella pietra, e si trova in istato di quiete sull’altura alla quale è stata sollevata. La vera definizione di forza dev’essere, non già quella di movimento, ma quella di potenzialità di movimento; e ciò a cui la dorina, se dimostrata, equivale, non è e nell’universo c’è sempre la medesima quantità di movimento in ao, ma e le possibilità di movimento sono limitate a una quantità di movimento ben definita, a cui non se ne può aggiungere altro, ma e non può essere esaurita, e e tui i movimenti efleivi e hanno luogo in natura non rappresentano e un piccolo contingente di questa riserva limitata. Non è necessario e tale movimento sia mai esistito tuo in ao. Nell’universo si trova, soo forma di gravitazione, una grande quantità di movimento potenziale, e signifierebbe fare un grosso abuso di ipotesi il supporre e questo movimento si sia immagazzinato in séguito alla spesa di una quantità eguale di movimento in ao in quale stato precedente dell’universo. E, per quanto ne sappiamo, il movimento prodoo dalla

gravità non ha luogo a spese di nessun altro movimento né molare né molecolare. È opportuno prendere in considerazione se l’adozione di questa teoria tra le verità scientifie — adozione e reca con sé un tale cambiamento nella concezione e finora si è avuta degli agenti fisici più generali — non renda necessarie modifie nel punto di vista da me assunto sulla causazione come legge di natura. Come la vedo io, non ne rende necessaria proprio nessuna. Le manifestazioni e la teoria considera come modi di movimento sono fenomeni egualmente distinti e separati, sia quando vengano aribuiti a una singola forza, sia quando vengano aribuite a parecie forze. Sia e venga iamato trasformazione di una forza, sia e venga iamato generazione di forza, il fenomeno ha il suo proprio insieme, o i suoi propri insiemi di antecedenti con i quali è connesso da una sequenza invariabile e incondizionata, e quest’insieme, o questi insiemi, di antecedenti costituiscono la sua causa. La relazione della teoria della conservazione con il principio di causazione è stata discussa molto deagliatamente e in modo molto istruivo dal professor Bain, nel secondo volume della sua Logica. La principale conclusione pratica e Bain trae a proposito della causazione è e, nell’aggregato di condizioni e costituisce la causa di un fenomeno, dobbiamo distinguere due elementi: l’uno è la presenza della forza, l’altro è la posizione o collocazione di oggei necessaria peré la forza possa soostare a quella particolare trasmutazione e costituisce il fenomeno. Ora si sarebbe sempre potuto dire, in modo incontestabilmente correo, e per produrre un qualsiasi fenomeno sono necessarie tanto una forza quanto una collocazione. La legge di causazione dice e il mutamento può essere prodoo soltanto dal mutamento. Insieme con un numero qualsiasi di antecedenti stazionari, e sono collocazioni, dev’esserci almeno un antecedente mutevole, e è una forza. Per produrre un falò non devono soltanto esserci il combustibile, l’aria, e una scintilla, e sono collocazioni, ma deve ane esserci l’azione imica tra l’aria e il materiale, e questa è una forza. Per macinare il grano dev’esserci una certa collocazione delle parti e compongono la macina, relativamente l’una all’altra e al grano; ma deve ane esserci la gravitazione dell’acqua, o il moto del vento, e forniscano la forza. Ma siccome in questi casi la forza era considerata come una proprietà degli oggei nei quali è incorporata, il dire e devono esserci la collocazione e la forza aveva tua l’aria di una tautologia. Siccome la

collocazione dev’essere una collocazione di oggei e posseggono la proprietà di fornire la forza, la collocazione, così intesa, includeva la forza. Come dovremmo dunque esprimere questi fai, se la dorina secondo cui tua la forza e riducibile a movimento precedente dovesse venire provata una volta per tue? Dovremo dire e una delle condizioni di ogni fenomeno è un movimento antecedente. Ma si dovrà spiegare e non è necessario e si trai di movimento in atto. Non si mostra e il carbone e fornisce la forza e si esercita nella combustione ha esercitato quella stessa forza soo forma di movimento molecolare quando era nelle viscere della Terra; allora non esercitava neppure una pressione. La pietra sull’altura esercita sì una pressione, ma si traa di una pressione e equivale al suo peso, e non del momento aggiunto, e acquisterebbe cadendo. Pertanto, l’antecedente non è una forza in azione, e per ora possiamo soltanto iamarlo una proprietà degli oggei, in virtù della quale gli oggei eserciterebbero una forza quando si presentasse una nuova collocazione. Pertanto, la collocazione include ancora la forza. La forza e si dice immagazzinata è semplicemente una particolare proprietà acquistata dall’oggeo. La causa di cui andiamo alla ricerca è una collocazione di oggei e posseggono quella particolare proprietà. ando poi approfondiamo la ricerca della causa da cui tali oggei derivano quella proprietà, entra in scena la nuova concezione introdoa dalla teoria della conservazione: la proprietà è a sua volta un effeo, e stando alla teoria la sua causa è un movimento precedente, di quantità esaamente eguale, e è stato impresso alle particelle del corpo, magari in quale periodo molto remoto. Ma il caso è semplicemente uno di quelli e abbiamo già preso in considerazione, in cui l’efficacia di una causa consiste nel conferire una certa proprietà a un oggeo. La forza e si dice immagazzinata, e puramente potenziale, non è una cosa realmente esistente più di quanto non siano realmente esistenti le altre proprietà qualsiasi degli oggei. L’espressione è un puro e semplice artificio del linguaggio, conveniente per descrivere i fenomeni: è superfluo supporre e qualcosa sia continuata ad esistere, se non come potenzialità astraa. Una forza la cui azione sia interroa, e non si manifesti né mediante il movimento, né mediante la pressione, non è un fao esistente, ma un nome per la nostra convinzione e in circostanze appropriate avrà luogo un certo fao. Sappiamo e un grave del peso di una libbra, e dovesse cadere dalla Terra nel Sole, acquisterebbe, cadendo, un momento eguale a milioni di libbre. Ma non aribuiamo a un grave, del peso

di una libbra, una forza esistente in ao e sia maggiore di quella eguale alla pressione e il grave sta esercitando in questo momento sulla Terra, e e è esaamente di una libbra. Potremmo dire tanto e in una libbra esiste una forza di milioni di libbre, quanto e la forza e si manifesterà quando bruceremo il carbone è una cosa e esiste realmente nel carbone. ello e è stabile, nel carbone, è una certa proprietà: è diventata adaa a costituire l’antecedente di un effeo iamato combustione, e in parte consiste nel cedere, in determinate condizioni, una data quantità definita di calore. Vediamo così e la teoria della conservazione non introduce nessuna nuova concezione generale della causazione. L’indistruibilità della forza non interferisce con la teoria della causazione più di quanto non vi interferisca l’indistruibilità della materia, intendendo con «materia» l’elemento di resistenza nel mondo sensibile. La teoria ci mee soltanto in grado di comprendere meglio di prima la natura e le leggi di alcune delle sequenze. Comunque, questa migliore comprensione ci mee in grado di ammeere (con il signor Bain) la spesa o il trasferimento di energia come uno dei criteri per distinguere la causazione dalla pura e semplice concomitanza. Se l’effeo, o una parte qualsiasi dell’effeo di cui dobbiamo rendere ragione, consiste nel meere in movimento la materia, allora uno qualsiasi degli oggei presenti e abbia perso movimento avrà contribuito all’effeo; e questo è il vero significato della proposizione e la causa è quell’antecedente e esercita una forza aiva. II. A questo punto è opportuno rivolgere la nostra aenzione a una dorina piuosto antica della causazione, dorina e in questi ultimi anni è stata resuscitata da più parti e e oggi dà più segni di vita di quanti non ne dia qualsiasi altra teoria della della causazione e si ponga in alternativa alla dorina enunciata nelle pagine precedenti. Secondo la teoria in questione, la mente, o, per usare un linguaggio più rigoroso, la volontà, è la sola causa dei fenomeni. Il tipo di causazione, e ane la fonte esclusiva, da cui deriviamo quest’idea è il fao e agiamo volontariamente. i e solo qui (si dice) abbiamo la prova direa della causazione. Sappiamo e possiamo muovere il nostro corpo. Per quanto riguarda i fenomeni della natura inanimata non abbiamo altra conoscenza direa se non quella del precedere e del seguire. Ma nel caso delle nostre azioni volontarie — si afferma — siamo consapevoli del potere prima ancora

di aver esperienza dei risultati. Un ao di volizione — sia o no seguito dall’effeo — è accompagnato da una consapevolezza di sforzo, «di forza esercitata, di potere in azione, potere e è necessariamente causale o causativo». esta sensazione di energia o forza inerente in ogni ao della volontà è conoscenza a priori, sicurezza antecedente l’esperienza, e abbiamo il potere di causare effei. Dunque, si asserisce, la volizione è qualcosa di più e un antecedente incondizionato: è una causa, in un senso differente da quello in cui si dice e i fenomeni fisici si causano l’un l’altro. È una causa efficiente. Di qui è facile passare alla dorina ulteriore, secondo cui la volizione è la sola causa efficiente di tui i fenomeni. «È inconcepibile e una forza morta, bené priva di sostegno, possa continuare ad agire ane un solo momento dopo la sua creazione. Senza l’energia di uno spirito non possiamo neppure concepire i cambiamenti dei fenomeni». «La stessa parola azione — scrive un altro appartenente alla medesima scuola — non ha alcun significato reale se non quando è applicata alle azioni di un agente dotato d’intelligenza. Provatevi pure a concepire, se ne siete capaci, un potere, un’energia o una forza qualsiasi e inerisca a una massa informe di materia». Può bensì darsi e i fenomeni abbiano l’apparenza di essere prodoi da cause fisie, ma in realtà sono prodoi — dicono questi autori — dall’azione immediata della mente. Tue le cose e non procedono da una volontà umana (o, suppongo, animale) procedono — dicono costoro — direamente dalla volontà divina. La Terra non è mossa da una combinazione di una forza centripeta e di una centrifuga; questo non è e un modo di dire, e serve a facilitare le nostre concezioni: è mossa dalla volizione direa di un essere onnipotente e le fa percorrere una traieoria e coincide con quella e deduciamo dall’ipotesi di queste due forze. Come ho osservato molto spesso, la questione generale dell’esistenza delle cause efficienti non rientra nei limiti del nostro argomento: ma una teoria e le rappresenti come capaci di essere oggei della conoscenza umana e e faccia passare per cause efficienti cause e sono soltanto fisie o fenomenie, appartiene alla logica non meno e alla metafisica ed è un oggeo adao alla nostra discussione. A mio modo di vedere una volizione non è una causa efficiente, ma semplicemente una causa fisica. La nostra volontà causa le nostre azioni corporee nello stesso senso — e in nessun altro — in cui il freddo causa il ghiaccio o una scintilla causa l’esplosione della polvere da sparo. La volizione — cioè uno stato della nostra mente — è l’antecedente; il

movimento degli arti in conformità con la volizione è il conseguente. Secondo me questa sequenza non è direamente oggeo della coscienza, nel senso in cui l’intende la teoria. È vero e l’antecedente e il conseguente sono oggeo di coscienza, ma la connessione tra i due è oggeo di esperienza. Non riesco ad ammeere e la nostra coscienza della volizione contenga, in se stessa, una qualsiasi conoscenza a priori del fao e il movimento muscolare seguirà. Se i nostri nervi motori fossero paralizzati, o i nostri muscoli fossero irrigiditi al punto da non essere flessibili, e fossero rimasti in questo stato per tua la nostra vita, non riesco a vedere la minima ragione per supporre (a meno e non ne fossimo stati informati da altri) e avremmo mai saputo qualcosa della volizione come di un potere fisico, o saremmo mai stati consapevoli di una tendenza, nelle sensazioni della nostra mente, a produrre movimenti del nostro corpo o di altri corpi. Non mi azzarderò a dire se in questo caso avremmo dovuto o no provare quella sensazione fisica e suppongo questi autori intendano quando parlano di «coscienza dello sforzo»: non vedo alcuna ragione per cui non avremmo dovuto provarla, dal momento e, probabilmente, quella sensazione fisica è uno stato di sensazione nervosa e comincia e finisce nel cervello, senza iamare in causa l’apparato motorio. È però certo e non si dovrebbe designare questa sensazione con un termine equivalente a «sforzo»: lo sforzo implica infai il tendere consapevolmente a un fine, cosa e in quel caso non solo non avremmo avuto alcuna ragione, ma non avremmo neane potuto avere l’idea, di fare. E se proprio non avessimo potuto non essere consapevoli di provare questa sensazione particolare, credo e ne saremmo stati consapevoli soltanto come di una specie di disagio e accompagna i nostri sentimenti di desiderio. Bene a ragione Sir William Hamilton obiea e la teoria in questione è confutata dalla considerazione e tra il fao esterno del movimento corporeo, di cui siamo a conoscenza, e l’ao interno di determinazione mentale, del quale siamo pure a conoscenza, interviene una serie numerosa di agenti intermedi di cui non abbiamo conoscenza alcuna; di conseguenza, non possiamo aver coscienza di nessuna connessione causale fra gli anelli estremi della catena — la volizione del muovere e il muoversi dell’arto — come asserisce quest’ipotesi. Ad esempio, nessuno è immediatamente conscio di muovere il proprio braccio in forza della sua volizione. Prima di questo movimento finale la volontà deve meere in moto muscoli, nervi e una gran quantità di parti solide e fluide, ma di questo moto non sappiamo,

dalla coscienza, assolutamente nulla. Una persona colpita da paralisi non è consapevole dell’incapacità dell’arto ad obbedire alle determinazioni della volontà; e solo dopo aver voluto, ed aver trovato e le sue membra non obbediscono alla volizione, impara da quest’esperienza e all’ao interno non segue il movimento esterno. Ma proprio come, solo dopo la volizione, il paralitico impara e le sue membra non obbediscono alla volontà, così solo dopo la volizione l’uomo sano impara e le sue membra obbediscono ai comandi della sua volontàj. Coloro contro i quali sto polemizzando non hanno mai prodoo, e non pretendono di produrre, prove positivek del fao e il potere della nostra volontà di muovere i nostri corpi ci può essere noto indipendentemente dall’esperienza. Su quest’argomento riescono solo a dire e la produzione di eventi fisici da parte della volontà sembra portare con sé la propria spiegazione, mentre l’azione della materia sulla materia sembra riiedere qualcos’altro e la spieghi: secondo loro, anzi, quest’ultima azione è addiriura «inconcepibile» se non soo l’ipotesi e tra la causa apparente e il suo effeo apparente intervenga una quale volontà. Essi dunque basano la difesa della loro causa su un appello alle leggi intrinsee alla nostra facoltà della concezione ma, secondo me, scambiano erroneamente le abitudini acquisite — e fondate sulle tendenze spontanee proprie di questa facoltà nel suo stato rozzo — con le leggi della facoltà. La successione del voler muovere un arto e del movimento effeivo dell’arto è una delle sequenze più diree e istantanee fra tue quelle e cadono soo la nostra osservazione, ed è familiare a ogni istante della nostra esperienza, fin dall’infanzia più remota: più familiare di qualsiasi altra successione di eventi esterna ai nostri corpi e, specialmente, più familiare di tui gli altri casi in cui si dà manifestamente origine a un movimento (nel senso in cui il dare origine è distinto dalla pura e semplice comunicazione del movimento). Ora, è tendenza naturale della mente il costante tentativo di facilitare la concezione degli ai non familiari, assimilandoli ad altri ai e le sono familiari. Di conseguenza, poié ci sono più familiari di qualsiasi altro caso di causazione, nell’infanzia e nella gioventù della razza umana i nostri ai volontari vengono spontaneamente presi come il tipo della causazione in generale, e si suppone e tui i fenomeni siano prodoi direamente dalla volontà di quale essere senziente. Per caraerizzare questo feticismo originario non userò le parole di Hume o di qualcuno dei suoi seguaci, ma quelle di un metafisico religioso, il door Reid: in tal modo riuscirò a

mostrare più efficacemente l’unanimità e regna, a questo proposito, fra tui i pensatori competenti. «ando rivolgiamo la nostra aenzione agli oggei esterni, e incominciamo ad esercitare su di essi le nostre facoltà razionali, troviamo e in essi ci sono alcuni moti e alcuni cambiamenti e abbiamo il potere di produrre, e e ce ne sono molti altri e devono avere quale causa diversa. O gli oggei devono avere vita e potere aivo, come quelli e abbiamo noi, o devono essere mossi o mutati da qualcosa e ha vita e potere aivo, così come gli oggei esterni vengono mossi da noi. Il nostro primo pensiero sembra e gli oggei, nei quali percepiamo tali movimenti, siano come noi in possesso di un potere aivo e intelligente. “Dovunque vedono un movimento e non sono capaci di spiegare, scrive l’Abbé Raynal5, là i selvaggi suppongono e ci sia un’anima”. Da questo punto di vista tui gli uomini possono essere considerati selvaggi, fin quando non siano capaci di essere istruiti e di usare le loro facoltà in modo più perfeo di quanto non facciano i selvaggi. L’osservazione dell’Abbé Raynal è sufficientemente confermata sia dai fai sia dalla struura di tue le lingue. I popoli primitivi credono davvero e il Sole, la Luna e le stelle, la Terra, il mare, l’aria, le sorgenti e i laghi siano dotati di intelligenza e di potere aivo. Il rendere loro omaggio, e l’implorarne i favori, costituisce una specie di idolatria naturale nei selvaggi. Tue le lingue recano, nella loro struura, i segni del fao e furono formate in periodi in cui predominava questa credenza. La distinzione dei verbi e dei participi in verbi e participi aivi e in verbi e participi passivi, distinzione e si trova in tue le lingue, dev’essere stata intesa originariamente a distinguere quello e è realmente aivo da quello e è puramente passivo, e in tue le lingue troviamo verbi aivi applicati a quegli oggei in cui, secondo l’osservazione dell’Abbé Raynal, i selvaggi credono e ci sia un’anima. Così, diciamo e il Sole si alza e si corica, e giunge al meridiano, e la Luna cambia, e il mare fluisce e rifluisce, e il vento soffia. Le lingue furono formate da uomini e credevano e questi oggei avessero in sé vita e poteri aivi. L’esprimerne i moti e i cambiamenti per mezzo di verbi aivi era perciò cosa correa e naturale. Per rintracciare quali fossero i sentimenti dei popoli prima e questi fossero in grado di registrarli, non c’è modo più sicuro e rivolgersi alla

struura della loro lingua, la quale, nonostante i cambiamenti prodoi in essa dal tempo, riterrà sempre quale segno dei pensieri di coloro e l’hanno inventata. Se nella struura di tue le lingue troviamo indicati gli stessi sentimenti, questo vuol dire e quando le lingue furono inventate questi sentimenti dovevano essere comuni alla specie umana. ando una minoranza di uomini, dotati di capacità intelleuali superiori, trovarono il tempo libero per dedicarsi alla speculazione, incominciarono a filosofare e scopersero presto e molti di quegli oggei e a tua prima venivano creduti intelligenti e aivi, in realtà erano privi di vita e passivi. esta è una scoperta molto importante. Eleva la mente, ci emancipa da molte superstizioni volgari e ci invita a ulteriori scoperte della stessa specie. Man mano e la filosofia progredisce, vita e aività si ritirano dagli oggei naturali e li lasciano morti e inaivi. Ci accorgiamo e invece di muoversi volontariamente sono necessitati a muoversi, e invece di agire subiscono l’azione; e la natura ci appare come una grande macina in cui una ruota viene faa girare da un’altra e questa da una terza: ma fin dove possa arrivare questa successione necessaria il filosofo non sa»l. C’è dunque una tendenza spontanea dell’intelleo a rendersi ragione di tui questi casi di causazione assimilandoli agli ai intenzionali di agenti volontari, quale esso stesso è. esta è la filosofia istintiva propria della mente umana nei suoi stadi primitivi, prima cioè e la mente abbia acquistato familiarità con altre sequenze invariabili e non siano quelle e hanno luogo tra le proprie volizioni o tra le volizioni di altri esseri umani, e i loro ai volontari. Con il graduale consolidarsi della nozione delle leggi costanti della successione dei fenomeni esterni, la propensione a far risalire tui i fenomeni ad agenti volontari cede lentamente il passo. Ma i suggerimenti della vita di ogni giorno continuano ad essere più potenti di quelli del pensiero scientifico: così questa filosofia istintiva originaria mantiene il suo terreno soo i germogli oenuti dalla coltivazione della nostra mente, e offre una resistenza tenace e costante all’affondare delle loro radici nel suolo. La teoria contro cui polemizzo deriva il suo nutrimento da quel substrato. La sua forza non sta nei ragionamenti, ma nella sua affinità con un’ostinata tendenza dell’infanzia della mente umana. Ma e questa tendenza non sia il risultato di una legge inerente alla nostra mente è provato da indizi più e abbondanti. Fin dai suoi primi albori la storia della scienza mostra e gli uomini non sono stati unanimi

nel pensare e l’azione della materia sulla materia non fosse concepibile, o e lo fosse l’azione della materia sulla materia. Ad alcuni pensatori e ad alcune scuole di pensiero antie e moderne quest’ultima ipotesi è apparsa molto più inconcepibile della prima. Non appena la mente umana ebbe acquistato sufficiente familiarità con certe sequenze interamente fisie e materiali, si arrivò a pensare e tali sequenze fossero perfeamente naturali, e si ritenne, non solo e di per se stesse non avessero bisogno di nessuna spiegazione, ma e fossero capaci di fornire spiegazioni per altre sequenze, e addiriura di servire come spiegazione ultima delle cose in generale. Uno dei più abili sostenitori contemporanei della teoria della volizione ha fornito una spiegazione storicamente vera e, nel medesimo tempo, filosoficamente acuta, del fallimento dei filosofi greci nella ricerca fisica, spiegazione in cui, secondo me, egli dipinge inconsapevolmente il suo stesso stato d’animo: «Dove i Greci inciamparono fu in quello e concerneva la natura delle prove da cui dovevano aspearsi di essere convinti… Non avevano afferrato l’idea e non ci si deve aspeare di comprendere i processi delle cause esterne, ma solo i loro risultati: di conseguenza l’intiera filosofia fisica dei Greci fu un tentativo di identificare mentalmente l’effeo con la causa, di cercare a tentoni quale connessione, non solo necessaria, ma naturale, intendendo con “naturale” quella connessione e, per se, fornisse alla loro mente quale credenza sufficientemente fondata… Volevano scorgere quale ragione per cui l’antecedente fisico deve produrre questo particolare conseguente, e i soli tentativi e fecero tendevano in quelle direzioni in cui potevano trovare tali ragioni»m. In altre parole, i Greci non si accontentavano semplicemente di sapere e un certo fenomeno è sempre seguito da un certo altro fenomeno: pensavano di non aver raggiunto il vero scopo della scienza fin quando non avessero potuto cogliere, nella natura di quel certo fenomeno, qualcosa da cui si sarebbe potuto sapere o presumere, prima ancora di metterlo alla prova, e quel fenomeno sarebbe stato seguìto da quell’altro: proprio questo l’autore, e pure ha messo in evidenza il loro errore con tanta iarezza, crede di cogliere nella natura del fenomeno della volizione. Per completare l’esposizione del suo caso avrebbe dovuto aggiungere e questi antii pensatori non solo fecero di ciò il loro scopo, ma rimasero completamente soddisfai del loro successo: non solo cercarono cause e portassero nel loro puro e semplice enunciato la prova della loro efficacia, ma erano pienamente convinti di averle trovate. Il

recensore è in grado di vedere con tua iarezza e questo era un errore, peré lui non crede e tra i fenomeni materiali esistano relazioni e possano rendere conto del fao e un fenomeno ne produce un altro; ma lo stesso fao e i Greci abbiano persistito in quest’errore mostra e le loro menti erano in uno stato molto differente: dall’assimilazione di un fao fisico a un altro fao fisico erano capaci di derivare quella specie di soddisfazione mentale e noi associamo con la parola «spiegazione» e e, stando a quello e il recensore vuol farci credere, si può trovare soltanto facendo risalire i fenomeni a una volontà. ando Talete e Ippone6 sostenevano e l’umidità è la causa universale e l’elemento esterno di cui tue le altre cose nella loro infinita varietà non sarebbero altro e manifestazioni sensibili; quando Anassimene predicava la stessa cosa dell’aria, Pitagora dei numeri, e via discorrendo, tui pensavano di aver trovato una spiegazione reale, e si ritenevano soddisfai di arrestarsi a questa spiegazione come alla spiegazione definitiva. Ad essi non meno e ai loro critici le sequenze ordinarie dell’universo esterno apparivano inconcepibili senza la supposizione di quale agente universale e conneesse gli antecedenti ai conseguenti; tuavia i Greci non pensavano e la volizione esercitata dalla mente sia l’unico agente e soddisfi quest’esigenza. L’umidità, l’aria, i numeri, davano alla loro mente un’impressione esaamente simile: l’impressione di rendere intellegibile ciò e altrimenti sarebbe stato inconcepibile, e davano la stessa soddisfazione piena alle esigenze della loro facoltà del concepire. Ma non erano solo i Greci a «voler trovare quale ragione per cui l’antecedente fisico debba produrre questo particolare conseguente», quale connessione «e, per se, fornisse alla loro mente quale credenza sufficientemente fondata». Tra i filosofi moderni, Leibniz enunciò come evidente di per sé il principio e tue le cause fisie senza eccezione devono contenere nella loro natura qualcosa e renda intellegibile la loro capacità di produrre gli effei e producono. Lungi dall’ammeere la volizione come la sola specie di cause e portino in se stesse la prova del loro proprio potere e come il vero e proprio legame e connee gli antecedenti fisici ai loro conseguenti, Leibniz esigeva, come legame e connea la volizione stessa e i suoi effei, quale antecedente fisico e agisca naturalmente e per se. Rifiutava recisamente di ammeere la volontà di Dio come spiegazione sufficiente di tuo quello e non è un miracolo, e

insisteva e si deve trovare qualcosa e spieghi i fenomeni naturali meglio di quanto non faccia il semplice riferimento alla volizione divinan. Di più, e al contrario, è stata proprio l’azione della mente sulla materia (e, a quanto ci dicono ora, non solo non necessita di alcuna spiegazione, ma costituisce la spiegazione di tui gli altri effei) ad apparire ad alcuni pensatori come la vera grande cosa inconcepibile. Proprio per superare questa difficoltà i Cartesiani inventarono il sistema delle cause occasionali. Non potevano concepire e i pensieri, e hanno sede in una mente, possano produrre movimenti in un corpo, o e movimenti corporei possano produrre pensieri. Non riuscivano a scorgere nessuna connessione necessaria, nessuna relazione a priori, tra un movimento e un pensiero. E poié i Cartesiani, come mai nessun’altra scuola filosofica prima o dopo di loro, avevano fao della loro propria mente la misura di tue le cose e rifiutavano per principio di credere e la natura avesse fao cose per fare le quali non riuscivano a vedere nessuna ragione, affermarono e è impossibile e un fao mentale e uno materiale possano essere l’uno la causa dell’altro. Li considerarono come pure e semplici occasioni nelle quali l’agente autentico, Dio, ritiene opportuno esercitare il proprio potere in quanto causa. ando un uomo vuole muovere il proprio piede, non è la sua volontà e lo muove, ma (dicevano) è Dio e lo muove in occasione del volere di quell’uomo. Secondo questo sistema, Dio è la sola causa efficiente, non in quanto mente o in quanto dotato di volizioni, ma in quanto onnipotente. Come ho deo, quest’ipotesi era stata inizialmente suggerita dalla supposta inconcepibilità di qualsiasi vera e propria azione reciproca tra mente e materia, ma in séguito fu estesa all’azione della materia sulla materia, peré, ripensandoci meglio, trovarono e ane quest’ultima azione è inconcepibile e perciò (stando alla loro logica) impossibile. Alla fine il deus ex machina fu iamato in causa per produrre la scintilla nell’occasione dell’urto tra la pietra focaia e l’acciarino, o per rompere un uovo in occasione della sua caduta al suolo. Tuo ciò mostra senza ombra di dubbio e nell’umanità in generale prevale la disposizione a non ritenersi appagati dalla conoscenza e un fao è invariabilmente un antecedente, e un altro invariabilmente un conseguente, ma quella di andare a cercare qualcosa e possa aver l’aria di spiegare peré lo sono. Ma vediamo ane e quest’esigenza può essere soddisfaa in modo completo da un agente puramente fisico, puré sia molto più familiare del fao per spiegare il quale lo si invoca. A Talete e ad

Anassimene appariva inconcepibile e gli antecedenti e vediamo in natura debbano produrre i conseguenti, mentre gli sembrava perfeamente naturale e debbano produrli l’acqua o l’aria. Gli autori contro i quali polemizzo diiarano e una cosa del genere è inconcepibile; tuavia riescono a concepire e la mente, o volizione, sia per se causa efficiente; dal canto loro, i Cartesiani non riuscivano neane a concepire questo, ma diiaravano perentoriamente e non è concepibile nessun modo per produrre nessun fao, di nessun genere, e non sia l’azione direa di un essere onnipotente. In questo modo fornivano una prova in più di un fao e trova nuove conferme in ogni stadio della storia della scienza: e sia quello e una persona può concepire, sia quello e non può concepire, è una faccenda in massima parte accidentale e dipende completamente dall’esperienza e dalle abitudini di pensiero di quella persona; e coltivando le associazioni di idee adae, uno può rendersi incapace di concepire qualsiasi cosa e può rendersi capace di concepire quasi qualsiasi cosa, per quanto inconcepibile possa apparire a prima vista; e, nella storia della mente di ciascun uomo, gli stessi fai e determinano quello e è o non è concepibile per lui, determinano ane quali, fra le varie sequenze e si trovano in natura, gli appariranno così naturali e plausibili da non riiedere nessun’altra prova della loro esistenza; da essere evidenti per luce propria, in modo egualmente indipendente dall’esperienza e dalla spiegazione. In base a quale regola si deve decidere tra una teoria di questo tipo e un’altra teoria? I teorici non ci indicano prove esterne: ciascuno di loro fa appello ai suoi sentimenti soggeivi. Uno dice: «La successione C, B mi sembra più naturale, più concepibile e più credibile per se della successione A, B; perciò tu sbagli nel pensare e B dipenda da A; sono certo — ane se non posso fornirne nessun’altra prova — e C viene tra A e B, ed è la vera e la sola causa di B». L’altro risponde: «le successioni C, B ed A, B mi sembrano egualmente naturali ed egualmente concepibili, o la seconda più della prima. A è capacissimo di produrre B senza l’intervento di nient’altro». Un terzo è d’accordo col primo nell’essere incapace di concepire e A possa produrre B, ma trova e la sequenza D, B è ancor più naturale della sequenza C, B, o e è imparentata più streamente con l’oggeo, e preferisce la sua teoria-D alla teoria-C. È iaro e qui non opera nessuna legge universale, se non quella e le concezioni di ciascun uomo sono governate e limitate dalla sua esperienza individuale e dalle sue abitudini di

pensiero. Di tui e tre gli interlocutori siamo autorizzati a dire quello e ciascuno di loro crede già degli altri due: cioè, e elevano al rango di legge originaria dell’intelleo umano e della natura esterna una particolare sequenza di fenomeni e gli appare più naturale e più concepibile delle altre sequenze soltanto peré gli è più familiare. Non riesco a vedere come a questo giudizio possa fare eccezione la teoria secondo cui la volizione è una causa efficiente. Non voglio abbandonare quest’argomento senza far cenno a un’altra fallacia contenuta nel corollario e si trae dalla teoria in questione: cioè nella conclusione e, siccome la volizione è una causa efficiente, allora è la sola causa, e l’agente direo e produce ane quello e apparentemente viene prodoo da qualcos’altro. Per quanto ne sappiamo, le volizioni non producono nulla direamente, ecceo l’azione nervosa, peré ane i muscoli la volontà li influenza soltanto araverso i nervi. Diamo pure per scontato e ogni fenomeno abbia una causa efficiente e non semplicemente una causa fenomenica e e, nel caso di quei fenomeni particolari e sappiamo essere prodoi da volizioni, la volizione sia questa causa efficiente. Dovremo per questo dire, d’accordo con questi autori, e siccome non conosciamo nessun’altra causa efficiente e non dovremmo mai assumerne una senza avere le prove della sua esistenza, non esiste nessun’altra causa e la volizione è la causa direa di tui i fenomeni? È difficile stiraciare un’inferenza in modo più sconveniente. Dal fao e tra la varietà infinita dei fenomeni naturali ce n’è uno — cioè un particolare modo d’agire di certi nervi — e ha per causa (e, stando all’ipotesi e abbiamo appena avanzato, per causa efficiente) uno stato della nostra mente, e dal fao e questa è l’unica causa efficiente di cui siamo consapevoli — peré è l’unica di cui, data la natura del caso, possiamo essere consapevoli dal momento e è l’unica e esista in noi stessi — siamo forse autorizzati a concludere e tui gli altri fenomeni devono avere la stessa specie di causa efficiente e ha quell’unico, specialissimo, ristreo fenomeno specificamente umano o animale? Il parallelo più vicino a questo bel campione di generalizzazione ci è suggerito dalla controversia, rimessa in voga recentemente, sul vecio argomento della pluralità dei mondi, in cui i contendenti sono riusciti così clamorosamente ad averla vinta l’uno sull’altro. Ane qui, abbiamo esperienza di un singolo caso soltanto — il caso del mondo in cui viviamo — ma sappiamo con assoluta certezza, e senza possibilità di dubbio e questo mondo è abitato. Ora, se sulla base di questa sola prova, qualcuno dovesse

inferire e ogni corpo celeste senza eccezione — sole, pianeta, satellite, cometa, stella fissa, nebula — è abitato, e dev’esserlo in forza della costituzione interna delle cose, la sua inferenza somiglierebbe esaamente a quella degli autori i quali, dal fao e la volontà è la causa efficiente dei nostri movimenti corporei, concludono e dev’essere la causa efficiente di ogni altra cosa nell’universo. È vero e in alcuni casi generalizziamo da un caso singolo a una moltitudine di casi, senza e nessuno possa meere in dubbio la legiimità di questa generalizzazione. Ma deve traarsi di casi e somigliano a quel solo caso noto, e non di casi e non abbiano con esso nessuna circostanza in comune, tranne, appunto, quella di essere casi. Per esempio, non ho nessuna prova direa e tue le creature, ecceuato me stesso, sono viventi: tuavia aribuisco con piena confidenza vita e sensibilità agli altri esseri umani e agli animali. Ma dal puro e semplice fao e io sono una creatura vivente, non concludo e lo sono ane tue le altre cose. A certe altre creature aribuisco una vita simile alla mia, peré queste creature la manifestano con la stessa specie di indizi con cui si manifesta la mia. Trovo e i loro fenomeni e i miei si conformano alle medesime leggi, e proprio per questa ragione credo e entrambi si originino da una causa simile. Così facendo non estendo la conclusione più di quanto non lo permeano i suoi fondamenti. La Terra, il fuoco, le montagne, gli alberi, sono agenti ben degni di rispeo, però i loro fenomeni non si conformano alle stesse leggi a cui si conformano le mie azioni: per questo non credo e Terra o fuoco, montagne o alberi, posseggano vita animale. Ma i sostenitori della teoria della volizione ci iedono d’inferire e la volontà causa ogni cosa per la sola ragione e causa una sola cosa particolare, ane se quell’unico fenomeno, lungi dall’essere un tipo di tui i fenomeni naturali, è, in grado eminente, singolare e le sue leggi non hanno quasi nessuna somiglianza con le leggi di altri fenomeni della natura, organica o inorganica. NOTA SUPPLEMENTARE AL CAPITOLO PRECEDENTE L’autore del saggio vincitore della seconda edizione del Premio Burnett (il door Tullo), e ha impiegato un numero considerevole di pagine per controbaere le dorine esposte nel capitolo precedente, mi ha sorpreso non poco negando un fao e io pensavo fosse troppo noto per riiedere una prova: il fao, cioè, e ci sono stati filosofi i quali hanno trovato nella

spiegazione fisica dei fenomeni la stessa completa soddisfazione mentale e, a quanto ci dicono, è elargita soltanto dalla spiegazione in termini di volizione; e e ci sono stati altri filosofi i quali hanno negato la teoria della volizione per la stessa ragione per cui altri la difendono: la sua inconcepibilità. L’asserzione dell’autore è sooscria ancor più recisamente da un abile recensore del Saggioo: «Il signor Mill», scrive il recensore, «fornisce due illustrazioni: il caso di Talete e di Anassimene, i quali hanno sostenuto secondo Mill, il primo, e l’origine di tue le cose è l’umidità, il secondo e è l’aria, e il caso di Descartes e di Leibniz, i quali, secondo quanto asserisce Mill, hanno trovato e la cosa veramente inconcepibile è l’azione della mente sulla materia. Per opporsi al primo di questi casi l’autore mostra — cosa, crediamo, oggi praticamente al di fuori di ogni dubbio — e i filosofi greci riconoscevano distintamente, al di là e al di sopra della loro origine materiale primitiva, il νoῦς, o intelligenza divina, come causa efficiente e fonte da cui tuo prende origine; per opporsi al secondo, prova e ciò e veniva rappresentato come inconcepibile non è il fatto, ma il modo dell’azione della mente sulla materia». Raramente in una sola frase è stato condensato un numero maggiore di errori storiografici. Per quanto riguarda Talete, l’asserzione e egli considerava l’acqua come un puro e semplice materiale nelle mani del voῦς riposa su un passo del De natura Deorum di Cicerone; e basta fare riferimento a uno qualsiasi degli storici più rigorosi della filosofia, per trovare e quest’opinione è da essi traata come una pura e semplice fantasia di Cicerone — fantasia e non trova il suo fondamento in nessuna autorità e anzi è contraddea da tue le testimonianze — e e questi storici fanno ipotesi su come mai Cicerone possa essere stato indoo in errore. (Si vedano RITTER, vol. I, p. 211, 2a ed.; BRANDIS, vol. I, pp. 118-19, Ia ed.; PRELLER, Historia Philosophiae Graeco-Romanae, p. 10). «Siefe Ansit duraus zu verwerfen» [Opinione falsa, da rigeare completamente]; «Augenseinli folgernd sta zu beriten» [Evidentemente arguita, non riferita]; «quibus vera sententia aletis plane detorquetur» [(parole) e iaramente distorcono il vero pensiero di Talete], sono le espressioni usate da questi autori. Per quanto riguarda Anassimene, ane secondo Cicerone, egli sosteneva non e l’aria è il materiale da cui dio ha fao il mondo, ma e l’aria è un dio: «Anaximenes aëra deum statuit» [Anassimene diiarò e l’aria è un dio], o, secondo Sant’Agostino, e l’aria è il materiale del quale

sono fai gli dèi: «non tamen ab ipsis [Diis] aërem factum, sed ipsos ex aëre ortos credidit» [credeva, non tanto e l’aria fosse stata faa dagli dèi, ma e gli dèi stessi fossero nati dall’aria]. Coloro e non hanno familiarità con la terminologia metafisica dell’antiità non devono lasciarsi indurre in errore quando trovano l’affermazione e Anassimene aribuiva ψυϰὴ) (anima, vita) all’elemento universale: l’aria. I filosofi greci riconoscevano diverse specie di ψυχὴ l’anima nutritiva, la sensitiva e l’intelleivap. Ane i moderni aribuiscono vita alle piante, e la correezza di questa posizione è generalmente ammessa. Per quanto possiamo interpretarne il pensiero, Anassimene scelse l’aria come agente universale per la ragione e l’aria si trova perpetuamente in movimento, senza alcuna apparente causa esterna: così egli riteneva e l’aria eserciti una forza spontanea, e sia il principio della vita e dell’aività di tue le cose, uomini e dèi compresi. Se questo non vuol dire rappresentare l’aria come causa efficiente, allora tua la disputa è completamente priva di significato. Se Anassimene o Talete, o uno qualsiasi dei loro contemporanei, avessero sostenuto la dorina e il νoῦς è la causa efficiente, nessuno avrebbe creduto — cosa e invece fu creduta da tua l’antiità — e la dorina avesse avuto origine da Anassagora. Per queste prime speculazioni è assolutamente decisiva la testimonianza di Aristotele nel primo Libro della Metafisica. Dopo aver enumerato quaro specie di cause (o, piuosto, quaro differenti significati della parola «causa»): l’essenza di una cosa, la materia della cosa, la causa del movimento (causa efficiente) e il fine, o causa finale, Aristotele continua dicendo e la maggior parte dei primi filosofi riconoscevano soltanto la seconda specie di causa, la materia di una cosa, τὰς ἔν ὓλης εἴδει μóνας ᾠήϑησαυ ἀρχὰς εἴναι πάντνυ7. Come primo esempio, Aristotele cita Talete, e descrive come il capo di questo indirizzo: ὁ τῆς τοιαύτης ἀρχηγóς φιλοσοφίας e continua con Ippone, Anassimene Diogene di Apollonia8, Ippaso di Metaponto9, Eraclito ed Empedocle. Ma Anassagora (continua Aristotele) insegnò, come sappiamo, una dorina differente, e si tramanda e prima di lui l’abbia insegnata Ermotimo di Clazomene10. Anassagora riteneva e, ane se queste diverse dorine della matria universale fossero vere, ci sarebbe ancora bisogno di quale causa e spieghi la trasformazione della materia, dal momento e la materia non può dare origine ai suoi propri cambiamenti: οὐ γὰρ δὴ τό γɛ ὑποϰɛίμɛνον αὐτὸ ποιɛῖ μɛταβάλλɛιν ἑαῦτο· λέγω δ’ οἷον οὔτɛ τὸ ξύλον οὔτɛ ὅ ϰαλϰὸς

αἴτιος τοῦ μɛταβάλλɛιν ἑϰάτɛρον αὐτῶν, οὐδὲ ποιɛῖ τὸ μὲν ξύλον ϰλίνη νὅ δέ χαλϰὸς ἀνδριάντα, ἀλλ’ ἑτɛρóν τι τῆς μɛταβολῆς αἴτιον, cioè l’altra specie di causa, ὅϑɛν ή ἀρχὴ τῆς ϰένήσɛως11; una causa efficiente. Aristotele esprime grande approvazione per questa dorina (la quale, dice, fa sì e il suo autore appaia come l’unico sano di mente tra persone e dicono cose da pazzi: οἷον νήφων ὲφάνη παρ’ ɛἰϰῆ λέγοντας τοῦς πρότɛρον); ma descrivendo l’influenza e la dorina in questione esercitò sulla speculazione successiva, osserva e i filosofi contro i quali fu faa valere questa difficoltà — e egli ritiene insuperabile — non avevano visto in essa alcuna difficoltà: οὐδὲν ɛδυσχɛράναν ἐν ἐαυτοῖς12. Certo, è superfluo dire una sola parola di più per provare questo dato di fao, e il door Tullo e il suo recensore negano. Dopo aver messo in evidenza quello e secondo lui è l’errore di questi antii pensatori — errore e consisterebbe nel non riconoscere il bisogno di una causa efficiente — Aristotele procede menzionando due altre cause efficienti, a cui avrebbero potuto far ricorso, invece e all’intelligenza: τύχη, il caso, e τὸ αὐτομάτον, la spontaneità. Per la verità, le mee da parte, non ritenendo e tali cause siano sufficientemente degne dell’ordine dell’universo: οὐδ’ αὖ τῷ αὐτομάτῳ ϰαι τῇ τύχη τοσοῦτον ɛπιτρɛψαι ϰαλῷς ɛἷϰɛν13. ma le rigea, non peré non siano capaci di produrre nessun effeo, ma solo peré non sono capaci di produrre quell’effeo. Egli stesso riconosce τύϰη e τὸ αὐτομάτον come agenti e, coordinati con la mente, producono i fenomeni dell’universo, il dominio loro assegnato essendo composto da tue le classi di fenomeni e si suppone non seguano nessuna legge uniforme. Facendo così rientrare il caso tra le cause efficienti, Aristotele cadde in un errore e la filosofia ha oggi superato, ma e non è affao così estraneo allo spirito della speculazione moderna come potrebbe sembrare a prima vista. Fino a poissimo tempo fa i filosofi hanno continuato ad aribuire — e molti di loro non hanno ancora finito di farlo — un’esistenza reale ai risultati dell’astrazione. Il caso potrebbe pretendere di essere elevato alla dignità di causa tanto quanto potrebbero pretenderlo molte altre creazioni astrae della mente: gli è stato dato un nome, e peré non dovrebbe essere una realtà? Per quanto riguarda τὸ αὐτομάτον ane quei pensatori e sostengono la cosiddea libertà del volere lo riconoscono come uno dei modi in cui i fenomeni hanno origine. Secondo gli antii, il medesimo potere di autodeterminazione e questa dorina aribuisce alle volizioni era posseduto da alcuni altri fenomeni naturali: circostanza, questa,

e gea una considerevole luce su più d’una delle cosiddee necessità invincibili della credenza. Ne ho parlato qui, peré questa credenza di Aristotele, o, piuosto, dei filosofi greci in generale, è fatale non meno delle dorine di Talete e della scuola ionica alla teoria secondo cui la mente umana è costrea dalla sua stessa costituzione a concepire la volizione come l’origine di tue le forze e come causa efficiente di tui i fenomeniq. Per quanto riguarda i filosofi moderni (Leibniz e i Cartesiani, e ho citato come i sostenitori della dorina secondo cui l’azione della mente sulla materia, lungi dall’essere la sola origine e si possa concepire dei fenomeni materiali, è a sua volta inconcepibile) il tentar di rigeare quest’argomento con l’asserzione e quello e veniva presentato come inconcepibile è il modo e non il fao dell’azione della mente sulla materia, significa arrogarsi illegiimamente il privilegio di scrivere con confidenza intorno ad autori e non si sono lei: la sia pur minima conoscenza di fisie, e specialmente quello e non possono predire — ane se, naturalmente, aribuito a un Autore della natura, nel caso e già riconoscano un tale Autore — si possa concepire come originato da una fatalità cieca; e in ogni caso non gli sembra e rei impresso in modo così ovvio il segno di una volontà divina. esta distinzione è stata difesa da eminenti autori di filosofia naturale, e in particolare dal door Chalmers14. Secondo lui, bené un disegno sia presente ovunque, la prova irresistibile di tale disegno non può essere trovata nelle leggi della natura, ma nelle collocazioni, cioè in quella parte della natura in cui è impossibile rintracciare una qualsiasi legge. È concepibile, ritiene, e alcune proprietà della materia inanimata possano rendere conto della successione regolare e invariabile di effei e di cause; ma quello e considera come prova di una Provvidenza divina è il fao e le differenti specie di materia siano state collocate in modo da produrre effei buoni. Nel suo saggio intitolato Philosophy of Creation [Filosofia della creazione], il signor Baden Powell è ritornato al punto di vista di Aristotele e degli antii e riasserisce vigorosamente la dorina secondo cui quello e dà un’indicazione dell’esistenza di un piano nell’universo non sono certi adaamenti speciali, ma l’uniformità e la legge, e e queste sono indizi e provano l’esistenza di una mente e non — come appare a noi — provvidenze per nostro uso e consumo. Mentre mi astengo qui dall’esprimere qualsiasi opinione su questa vexata quaestio, mi sento in dovere di non menzionare il volume del signor Powell senza rendere il

debito tributo allo spirito filosofico e pervade tui e tre i saggi e lo compongono, e e, nel caso di uno di essi (Unity of Worlds [Unità dei mondi]) forma un onorevole contrasto con le altre dissertazioni — con quelle, almeno, di cui sono venuto a conoscenza — apparse a difesa di entrambi i lati di questa controversia. Leibniz dovrebbe insegnare, a coloro e ne parlano in questi termini, e secondo lui «inconcepibilità del modo» e «impossibilità della cosa» erano espressioni sostituibili reciprocamente. Che cosa dice il famoso Principio di ragion sufficiente, pietra angolare della sua filosofia, di cui l’armonia prestabilita, la dorina della monade e tue le opinioni più caraeristie di Leibniz altro non sono e corollari? Che nulla esiste, la cui esistenza non possa essere provata e spiegata a priori — la prova e la spiegazione, nel caso dei fai contingenti, essendo derivata dalla natura delle loro cause — le quali non potrebbero essere le cause se nella loro natura non ci fosse qualcosa e mostrasse la loro capacità di produrre quei particolari effei. E questo «qualcosa», e rende conto della produzione di effei fisici, Leibniz poté trovarlo in molte cause fisie ma non riuscì a trovarlo in nessuna mente finita: perciò asserì senza esitazione e la mente è incapace di produrre qualsiasi effeo fisico. «On ne saurait concevoir», egli scrive, «une action réciproque de la matière et de l’intelligence l’une sur l’autre»15; perciò, sostiene, non c’è altra scelta se non quella tra le cause occasionali dei cartesiani e la sua armonia prestabilita, secondo cui tra le nostre volizioni e le nostre azioni muscolari non c’è più connessione di quanta ce ne sia tra due orologi e siano stati caricati in modo da baere l’ora nel medesimo istante. Ma per quanto riguarda le cause fisie non avvertì nessuna difficoltà di questo genere, e per tua la sua speculazione — come accade nel passo sulla gravitazione, e ho già citato — rifiuta distintamente di considerare come parte dell’ordine della natura qualsiasi fao e non possa essere spiegato a partire dalla natura della sua causa fisica. Per quanto riguarda i Cartesiani (e non Descartes: non ho fao quest’errore, ane se il recensore del Saggio del door Tullo me lo aribuisce), prendo, quasi a caso, un passo da Malebrane, e è il più noto dei Cartesiani e e, pur non essendo l’inventore del sistema delle cause occasionali ne è il principale espositore. Nella parte II, capitolo III del suo Libro sesto, dopo aver deo e la materia non può avere il potere di muoversi da sé, Malebrane procede ad argomentare e neppure la mente

può avere il potere di muoverla. «and on examine l’idée que l’on a de tous les esprits finis, on ne voit point de liaisons nécessaires entre leur volonté et le mouvement de quelque corps ce que ce soit, on voit au contraire qu’il n’y en a point et que il n’y en peut avoir» (nell’idea di mente finita non c’è nulla e possa rendere conto del fao e la mente causa il movimento di un corpo); «on doit aussi conclure, si on veut raisonner selon ses lumières, qu’il n’y a aucun esprit créé qui puisse remuer quelque corps que ce soit comme cause véritable ou principale, de même que l’on a dit qu’aucun corps ne se pouvait remuer soi-même»16: dunque, secondo Malebrane, l’idea di mente è tanto incompatibile con l’esercizio di forza aiva quanto lo è l’idea di materia. Ma, continua, quando consideriamo non una mente creata, ma la Mente divina, le cose cambiano: infai l’idea di Mente divina include l’idea di onnipotenza, e l’idea di onnipotenza contiene l’idea del potere di muovere i corpi. è dunque la natura dell’onnipotenza a rendere credibile o concepibile il movimento dei corpi, mentre, nella misura in cui dipendesse dalla pura e semplice natura della mente, tale movimento sarebbe inconcepibile e incredibile. Se Malebrane non avesse creduto in un essere onnipotente, avrebbe ritenuto e ogni azione della mente sul corpo è una provata impossibilitàr. È difficile immaginare una dorina più diametralmente opposta alla teoria volontaristica. La teoria volontaristica dice e conosciamo l’azione delle nostre volizioni mentali sulla materia, per intuizione o per esperienza direa; e di qui possiamo concludere e ogni altra azione sulla materia è dovuta alla volizione e possiamo così conoscere, senza bisogno di altre prove, e la materia è situata soo il governo di una mente divina. Al contrario, Leibniz e i Cartesiani sostengono e le nostre volizioni non agiscono e non possono agire sulla materia, e e solo l’esistenza di un Essere e tuo governa, e l’onnipotenza di quello stesso Essere, possono rendere conto della successione delle nostre volizioni e delle nostre azioni corporee. ando consideriamo e ciascuna di queste due teorie — le quali, in quanto teorie della causazione, stanno agli estremi opposti — invoca, non soltanto come prova, ma come unica prova possibile, l’inconcepibilità assoluta di qualsiasi altra teoria diversa, siamo in grado di misurare il valore di queste specie di prove. E quando ci rendiamo conto e la teoria volontaristica è costruita interamente sull’asserzione e data la costituzione della nostra mente siamo costrei a riconoscere le volizioni come cause efficienti, e poi troviamo altri pensatori e sostengono e

sappiamo e non sono e non possono essere cause siffae e non possiamo concepire e lo siano, penso e abbiamo il dirio di dire e questa fantomatica legge della costituzione della nostra mente non esiste. Il door Tullo (pp. 45-47) ritiene e a questo sia sufficiente rispondere e Leibniz e i Cartesiani erano teisti e credevano e la volontà divina sia una causa efficiente. Non c’è alcun dubbio e lo credessero, e i Cartesiani (ma non Leibniz) credevano ane e è la sola causa efficiente. Il door Tullo prende un abbaglio circa la natura di questa questione. A differenza del door Tullo io non stavo scrivendo un saggio sul teismo, ma scrivevo contro una particolare teoria della causazione, e, se è infondata, non può fornire alcun sostegno efficace al teismo o ad altre dorine. Ho trovato asserito e, siccome non è possibile concepire nessun’altra causa efficiente, la volizione è la sola causa efficiente. A quest’asserzione contrappongo gli esempi di Leibniz e dei Cartesiani, i quali affermarono, altreanto recisamente, e non è possibile concepire e la volizione in sé sia una causa efficiente e e solo l’onnipotenza, e rende ogni cosa concepibile, può eliminare quest’impossibilità. esta, pensavo e penso ancora, è una risposta conclusiva all’argomentazione da cui diiaratamente dipende questa teoria della causazione. Ma non mi sognavo certo e il teismo sia legato a doppio filo a questa teoria, né mi aspeavo di essere accusato di negare e Leibinz e i Cartesiani sono teisti, per il fao di aver negato e sono sostenitori della teoria in questione. a. L’asserzione e di ogni e di ciascuna condizione di un fenomeno si può parlare, e in certe occasioni e per certi scopi si parla, come della causa, è stata discussa da un intelligente recensore di questo libro sulla «Prospective Review» (e precedee la giustamente stimata «National Review»). Il recensore sostiene e «preferiamo sempre applicare la parola “causa” a quell’elemento, tra gli antecedenti, e esercita la forza e e tenderebbe sempre a produrre lo stesso effeo o un effeo simile a quello e produrrebbe effeivamente in certe condizioni». E dice e «iunque può rendersi conto» e l’espressione: «La causa della sorpresa del nemico è stato il fao e la sentinella aveva abbandonato il proprio posto», è scorrea; ma e «l’alleamento, o la forza, e l’ha tratta dal suo posto si può iamare “causa”, peré, allontanando la sentinella dal proprio posto, ha rimosso una resistenza e avrebbe prevenuto la sorpresa». Non riesco a pensare e sia scorreo il dire e l’evento ha avuto luogo peré la sentinella non era al suo posto, e tuavia sia correo il dire e ha avuto luogo peré la sentinella è stata allontanata dal suo posto con la corruzione. Siccome l’unico effeo direo della corruzione è stato l’assenza della sentinella, si potrebbe dire e la corruzione è stata la causa remota della sorpresa solo se si presupponesse e l’assenza della sentinella sia stata la sua causa prossima; e mi sembra e nessuno (a meno e non abbia una teoria da sostenere) userebbe un’espressione e rifiuterebbe l’altra. Il recensore osserva e, quando una persona muore di veleno, il fao e possegga organi corporei è condizione necessaria della sua morte, eppure nessuno ne parlerebbe come della causa. Ammeo

questo fao, ma credo e la ragione sia e non potrebbe sorgere l’occasione per parlarne in questi termini; quando infai, per l’inaccuratezza del discorso comune, siamo indoi a parlare di quale condizione del fenomeno come della sua causa, la condizione di cui si parla è sempre tale e è almeno possibile e i ci ascolta abbia bisogno di esserne informato. Il possesso degli organi corporei è una condizione nota e il darla come risposta quando ci iedono la causa della morte di una persona non fornirebbe l’informazione riiesta. Basta concepire e possa esistere un dubbio sul fao e quella persona abbia organi corporei, o e debba essere confrontata con quale essere e non li ha, e si possono immaginare casi in cui si può dire e il possesso di organi corporei è stato la causa della sua morte. Supponendo e Faust e Mefistofele avessero preso insieme del veleno, si sarebbe potuto dire e Faust è morto peré era un essere umano e aveva un corpo, mentre Mefistofele è sopravvissuto, peré era uno spirito. Per la stessa ragione (come osserva il recensore), nessuno «dice e i muscoli o i tendini del corpo sono la causa del salto, ane se ne sono le condizioni necessarie; e nessuno dice e causa di un sacrificio di sé era la conoscenza necessaria per compierlo, o e la causa dello scrivere un libro è il fao e uno ha tempo per scriverlo (cosa, questa, e ne costituisce una condizione necessaria)». Tue queste condizioni (a parte il fao e non sono eventi antecedenti prossimi ma stati antecedenti, e perciò non si traa mai delle condizioni e si trovano apparentemente più vicine all’effeo) sono così ovviamente implicite e è praticamente impossibile e debba presentarsi la necessità di insistere su di esse; è praticamente impossibile, cioè, e si presenti quella necessità e, sola, fornisce l’occasione di parlare di una singola condizione come se fosse la causa. Secondo me, dovunque questa necessità esista relativamente a una condizione, e non esista relativamente a nessun’altra, quando non si tenda all’accuratezza scientifica è compatibile con l’uso applicare il nome «causa» a quell’unica condizione. Se la sola condizione e si può supporre ignota è una condizione negativa, si può parlare della condizione negativa come della causa. Si potrebbe forse dire e una persona è morta per mancanza di cure medie; è però improbabile e lo si dica, a meno e non sia già sointeso e la persona era ammalata e allo scopo di indicare e quello e ha reso fatale la malaia è stata questa circostanza negativa e non la debolezza della costituzione del paziente o la virulenza originale della malaia. Si potrebbe dire e una certa persona è affogata peré non sapeva nuotare, la condizione positiva — cioè il fao e è caduta in acqua — essendo già implicita nella parola «affogato». E qui mi sia concesso di osservare e in questo caso il fao e la persona sia caduta nell’acqua è la sola condizione positiva: tue le condizioni non comprese esplicitamente o virtualmente in questa (come il fao e quel tizio non sapeva nuotare, e nessuno l’ha aiutato, e così via) sono condizioni negative. Tuavia, se si fosse semplicemente deo e la causa della morte di un uomo è stato il fao e è caduto nell’acqua, in quest’espressione ci sarebbe un senso di improprietà tanto grande quanto quello e ci sarebbe stato se si fosse deo e la causa della sua morte è il fao e quell’uomo non sapeva nuotare. Infai, ane se la prima condizione è positiva e l’altra è negativa, si avrebbe la sensazione e nessuna delle due, senza l’altra, sarebbe stata sufficiente a produrre la morte. Per quanto riguarda l’asserzione e nulla si iama «causa», se non quello e esercita una forza aiva, tralascio la questione relativa al significato di «forza aiva» e, acceando la frase nel suo senso popolare, mi rifaccio a un esempio precedente e iedo: sarebbe più conforme all’uso il dire e un uomo è caduto peré gli è scivolato un piede mentre saliva una scala, o il dire e è caduto a causa del suo peso? Infai, la forza aiva e ha determinato la caduta di quell’uomo è stata il suo peso, e non il movimento del piede. Se una persona inciampa e cade mentre cammina all’aperto in un giorno di gelo, si potrebbe dire e è inciampata peré il suolo era scivoloso o peré non ha fao sufficiente aenzione: ma poi, credo, direbbero e è inciampata peré camminava. Tuavia la sola forza aiva in ballo è quella e questa persona esercitava camminando: le altre erano pure e semplici condizioni negative. Si dà però il caso e siano le sole condizioni e potrebbe esserci quale necessità di enunciare: infai è molto probabile e quel tizio camminasse né più né meno nel suo modo solito, e e tua la differenza sia consistita nelle condizioni negative. Ancora, se si iedesse a qualcuno peré l’esercito di Serse abbia sconfio quello di Leonida, quello direbbe, probabilmente:

«peré era in numero mille volte superiore», ma non credo e direbbe: «peré ha combauto», ane se l’elemento di forza aiva è proprio questo. Per prendere a prestito un altro esempio, usato dal signor Grove1 e dal signor Baden Powell2: si dice e l’apertura delle iuse è la causa del flusso dell’acqua; tuavia la forza aiva è esercitata dall’acqua stessa, e l’apertura delle iuse fornisce semplicemente una condizione negativa. Il recensore aggiunge: «ci sono alcune condizioni assolutamente passive, e tuavia assolutamente necessarie ai fenomeni fisici, cioè le relazioni di spazio e di tempo: e nessuno può applicare a queste condizioni la parola “causa”, senza e i suoi ascoltatori lo facciano immediatamente tacere». Sono costreo a dissentire ane da quest’affermazione. Poe persone troverebbero incongruo il dire (ad esempio) e un segreto è diventato noto, peré se ne parlò mentre A. B. era a portata d’orecio (e questa è una condizione spaziale), o e la causa per cui, di due particolari alberi, uno è più alto dell’altro è il fao e il primo è stato piantato da più lungo tempo (e questa è una condizione temporale). b. Ci sono alcune eccezioni: esistono infai alcune proprietà degli oggei e sembrano essere proprietà puramente impedienti, come la proprietà per la quale i corpi opai interceano il passaggio della luce. Per quanto possiamo capirne, questo ci appare come un esempio, non già di una causa e si contrappone a un’altra in forza della stessa legge per la quale produce i propri effei, ma di un agente e non si manifesta altrimenti e annullando gli effei di un altro agente. Se sapessimo da quali altre relazioni con la luce o da quali particolarità struurali dipende l’opacità, troveremmo forse e quest’eccezione alla proposizione generale enunciata nel testo è un’eccezione solo apparente, non reale. In ogni caso, non necessariamente essa influenza l’applicazione pratica. I casi di questo genere non violano la formula e fa rientrare tue le condizioni negative di un effeo nella sola condizione e siano assenti cause e gli si contrappongono: bené, se tui gli agenti impedienti fossero di questo tipo, non ci sarebbe scopo nell’impiegare la formula. c. Con quest’espressione intendo le leggi fondamentali della natura (quali e possano essere) in quanto distinte dalle leggi derivate e dalle collocazioni. Per esempio, la rivoluzione diurna della Terra non è parte della costituzione delle cose, peré nulla può essere iamato così e possa un giorno finire, o essere alterato, per cause naturali. d. Uso la parola «linea rea» per brevità e semplicità. In realtà, la linea in questione non è esaamente rea, peré, per l’effeo della rifrazione, continuiamo a vedere il Sole per un breve intervallo durante il quale la massa opaca della Terra si è già interposta, in linea rea, fra il Sole e i nostri oci; realizziamo così l’ambiziosa aspirazione di vedere dietro un angolo. 3 e. Second Burnett Prize Essay, del Preside Tullo , p. 25. f. Letters on the Philosophy of the Human Mind, First Series, p. 219. g. Essays, pp. 206–208. h. All’universalità e gli uomini sono d’accordo nell’assegnare alla legge di causazione, c’è solo una pretesa di eccezione — un solo caso e viene messo in discussione: il caso della volontà umana. Una larga classe di metafisici non è disposta a ritenere e le determinazioni della volontà seguano le cause iamate motivi secondo leggi tanto rigorose quanto quelle e si suppone esistano nel mondo della materia pura e semplice. esto punto controverso sarà sooposto a un esame speciale quando perverremo a traare nei particolari della logica delle scienze morali (Libro VI, cap. II). Nel fraempo farò notare e secondo me questi metafisici — i quali, occorre osservare, fondano la parte principale della loro obiezione sull’assunzione e la dorina in questione ripugnerebbe alla nostra coscienza — si sbagliano a proposito del fao contro cui la coscienza testimonia. Credo e se si autoesaminassero a fondo troverebbero e la cosa e è realmente in contraddizione con la coscienza, è l’applicazione alle azioni e alle volizioni umane delle idee implicite nell’uso comune del termine «necessità», e io sono d’accordo con loro nell’obieare contro quest’uso. Ma se rifleessero e quando si dice e le azioni di una persona seguono necessariamente dal suo caraere, non s’intende altro (e in nessun caso di causazione, infai, non s’intende nulla più di questo) se non e quella persona agisce invariabilmente in conformità con il suo caraere, e e iunque conosca a fondo il suo caraere

potrebbe predire con certezza in qual modo agirà in un caso qualsiasi, probabilmente non troverebbero e questa dorina è contraria alla loro esperienza o ripugna al loro modo di sentire. E nessuno, e non sia un fatalista asiatico, sostiene qualcosa di più di questo. i. Credo però e gli autori e godono di maggior credito ritengano e, durante tuo questo lungo intervallo, se non nel carbone stesso almeno nell’ossigeno con cui si combinerà il carbone, stia effeivamente avendo luogo un moto molecolare equivalente a quello e si manifesterà nel carbone. Ma è superfluo far osservare quanto puramente ipotetica sia questa supposizione, e, oso dire, quanto inutilmente e stravagantemente ipotetica. j. Lectures on Metaphysics, vol. 11, lect. XXXIX, pp. 391-392. In favore delle mie opinioni sulla causazione mi spiace di non poter invocare l’autorità di Sir William Hamilton, così come posso invocarla contro la particolare teoria e ora sto combaendo. Ma quell’acuto pensatore ha una teoria della causazione tua sua, e, per quanto ne so, non è ancora stata esaminata criticamente ma e, oso pensare, è passibile di una confutazione tanto completa quanto una qualsiasi delle teorie psicologistie false o insufficienti dei cui cadaveri la sua potente falce metafisica ha disseminato, in così gran numero, il suolo. (In séguito la teoria di Hamilton è stata esaminata e contestata nel capitolo sedicesimo di An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy). k. A meno e non consideriamo tale la seguente asserzione, di uno degli autori citati nel testo: «Nel caso in cui si compia uno sforzo mentale, il risultato e si oiene è preconsiderato, o meditato, e perciò lo si conosce a priori, ossia anteriormente all’esperienza» (BOWEN, Lowell Lectures on the Application of Metaphysical and Ethical Science to the Evidence of Religion, Boston, 1849). esto equivale semplicemente al dire e quando vogliamo una cosa abbiamo un’idea di questa cosa. Ma l’avere un’idea di quello e desideriamo e accada non implica una conoscenza profetica e la cosa accadrà. Si dirà forse e la prima volta e abbiamo esercitato la nostra volontà — quando, naturalmente, non avevamo ancora nessun’esperienza dei poteri ìnsiti in noi — dovevamo già sapere di essere in possesso di tali poteri, dal memento e non possiamo volere quello e non crediamo sia in nostro potere. Ma forse l’impossibilità risiede soltanto nelle parole e non nei fai: infai possiamo desiderare ciò e non sappiamo se sia in nostro potere, e trovando per esperienza e il nostro corpo si muove secondo i nostri desideri possiamo passare, allora e soltanto allora, a quello stato mentale più complicato e si iama volontà. Dopo tuo, ane se conoscessimo per intuizione e le nostre azioni seguiranno alla nostra volontà, questa conoscenza, come osserva Brown, non proverebbe ancora nulla a proposito della natura della causazione. Il fao e prima di averne esperienza sappiamo e un certo antecedente sarà seguìto da un certo conseguente, non proverebbe e la relazione tra i due è qualcosa di più della relazione di antecedenza e conseguenza. l. REID, Essays on the Active Powers, Essay IV, cap. III. m. Prospettive Review, febbraio 1850. n. Vedi sopra, p. 499 nota. o. Westminster Review, oobre 1855. p. Si veda l’intiera dorina nel De Anima di Aristotele, dove la ϑρεπτιϰὴ ψυχὴ è traata come l’equivalente della ϑρεπτιϰὴ δύναμις q. Merita far osservare e le parti della natura, e secondo Aristotele presentano indizi e provano l’esistenza di un disegno, sono le uniformità, i fenomeni in quanto riducibili a una legge. Тύχη e τò αὐτομάτον lo soddisfano in quanto spiegazioni dell’elemento variabile dei fenomeni, ma secondo lui solo una volontà intelligente può rendere conto del fao e accadono secondo una regola fissa. L’interpretazione religiosa o, potremmo dire, istintiva della natura è l’inversa di questa. Gli eventi in cui gli uomini vedono spontaneamente la mano di un essere soprannaturale sono quelli e

secondo loro non possono essere ridoi a una legge fisica. Ritengono e quello e non possono conneere distintamente con cause r. Secondo le parole di Fontenelle, altro celebre cartesiano: «Les philosophes, aussi bien que le peuple avaient cru que l’âme et les corps agissaient réellement et physiquement l’un sur l’autre. Descartes vint, qui prouva que leur nature ne permeait point cee sorte de communication véritable, et qu’ils n’en pouvaient avoir qu’une apparente, dont Dieu était le médiateur». Ouvres de Fontenelle, ed. 1767, tomo V, p. 534.

[Tanto i filosofi quanto la gente comune credevano e l’anima e corpi agiscano realmente e fisicamente l’una sugli altri. Venne Descartes, e provò e la loro natura non permee affao questa specie di vera comunicazione, e e la loro non poteva essere e una comunicazione apparente, di cui Dio è il mediatore]. 1. Sir William Robert Grove (1811–1896), imico inglese, professore dal 1840 alla Royal Institution di Londra e fellow della Royal Society, autore, tra l’altro, di On the Correlation of Physical Forces [Sulla correlazione tra le forze fisiche], (1846) in cui si dimostra, con un anno di anticipo su Helmholtz, la reciproca convertibilità delle forze, riducendone ad unità la varietà apparente. Dal 1871 al 1878 fu membro dell’Alta Corte di Giustizia britannica. 2. Baden Powell (1796–1860), matematico inglese, dal 1824 fellow della Royal Society e dal 1827 professore di geometria a Oxford. Autore di pareci saggi di fisica, matematica e filosofia naturale, si occupò ane di teologia. L’opera cui si riferisce Mill è una raccolta intitolata: Essays on the Spirit of the Inductive Philosophy, The Unity of Worlds, and The Philosophy of Creation [Saggi sullo spirito della filosofia induttiva, l’unità dei mondi e la filosofia della Creazione](1855). 3. John Tullo (1823–1886), teologo e uomo di Chiesa scozzese, preside di St. Andrews, autore di opere di teologia e di storia della Chiesa. Il saggio cui si riferisce Mill è: Theism: The Witness of Reason and Nature to an Allwise and Beneficent Creator [Teismo: la testimonianza della ragione e della natura in favore di un Creatore onnisciente e benefico] (1855). 4. «Già ritorna la vergine, ritorna il regno di Saturno…», VERG., Ed., IV, v. 6. «Ci sarà un’altra Tifi, e un’altra nave Argo, e porterà eroi scelti; ci saranno altre guerre. E ancora una volta salperà per Troia il grande Aille». Ibidem, vv. 34-36. 5. Guillaume omas Raynal (1713-1796), leerato francese, autore di opere storie e filosofie, considerato uno dei precursori della rivoluzione francese. Fu amico di eminenti personalità filosofie e politie del suo tempo, quali Helvétius, d’Holba e Montesquieu. La sua opera più celebre è la Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux

in sei volumi (Ia ed., 1770, 2a ed. 1774, 3a ed. 1780) a cui contribuirono Diderot e un allievo di Montesquieu, Alexandre Deleyre. 6. Ippone, filosofo greco la cui acmé si situa intorno al 450 dopo Cristo, secondo alcuni (Giamblico e Aristosseno) nato a Samo, secondo altri (Sesto Empirico) a Reggio (in Italia), secondo altri ancora a Metaponto. Riprese la dorina di Talete, e sostenne e il mondo si origina dall’acqua. Da questa si origina pure il fuoco, e acqua e fuoco insieme, con il loro antagonismo, danno origine all’universo fisico. I suoi principali interessi furono però rivolti alla fisiologia e alla medicina: sostenne e la morte è dovuta al disseccamento dell’umidità presente nel corpo. 7. ARISTOTELE, Metaph., A 3, 983 b. Non riportiamo qui la traduzione italiana di questo e degli altri brani in greco, peré lo stesso S. Mill, nel testo e li accompagna, ne dà una traduzione quasi leerale. Indes

8. Diogene di Apollonia, filosofo ecleico del v secolo a. C., nato ad Apollonia (non si sa se nell’isola di Creta o in Frigia), ma vissuto ad Atene, dove al pari di Socrate fu perseguitato a causa delle sue opinioni, e, al pari di Socrate, fu messo alla berlina da Aristofane ne Le nuvole. Scrisse un libro Sulla natura, di cui rimangono frammenti. Tentò una conciliazione delle teorie di Anassimene di Mileto e di Anassagora: dal primo trasse la teoria secondo cui l’aria è la causa delle cose, e all’aria aribuì intelligenza. 9. Ippaso di Metaponto, filosofo pitagorico, vissuto nel 500 a. C., appartenente probabilmente alla generazione successiva a quella di Pitagora. Si dice e abbia rivelato alcuni segreti della Scuola Pitagorica, tra i quali l’incommensurabilità tra lato e diagonale del quadrato (tenuta segreta, appunto, peré violava il principio Pitagorico secondo cui tuo è esprimibile mediante i numeri). Sostenne contro la dorina pitagorica ortodossa (secondo cui la natura delle cose risiede nel numero) una dorina di origine eraclitea, affermando — così sembra — e l’anima è faa di fuoco. 10. Ermotimo di Clazomene, conciadino più anziano di Anassagora, vissuto forse tra il v e il vi secolo a. C., noto per le sue esperienze mistico-estatie. Secondo Aristotele (Protr., fr. 10 C, Metaph., A 3, 984 b) Anassagora avrebbe trao da lui quell’aeggiamento scientifico-contemplativo e sta alla base della sua teoria di una intelligenza separata dalle cose. 11. Methaph., A 3, 984 a. 12. Metaph., A 3, 984 b. 13. Metaph., A 3, 984 b, 14. 14. omas Chalmers (1780-1847), teologo e predicatore scozzese; dal 1823 al 1828 professore di filosofia morale a St. Andrews; dal 1828 al 1843 occupò la caedra di teologia all’Università di Edimburgo, e dal 1843 in poi fu professore al New College della stessa cià. Fu autore di numerosissime opere di teologia e di filosofia morale. Lo scrio a cui si riferisce Mill è uno dei Bridgewater Treatises, ed è intitolato On the Adaptation of External Nature to the Moral and Intellectual Constitution of Man [L’adattamento della natura esterna alla costituzione morale e intellettuale dell’uomo] (1833). 15. «Non si saprebbe concepire un’azione reciproca della materia e dell’intelligenza una sull’altra». 16. ando si esamina l’idea e si ha di tue le menti finite non si vedono affao legami necessari tra la loro volontà e il movimento di un corpo qualsiasi, mentre, al contrario, si vede e legami non ce ne sono e non ce ne possono essere; si deve così concludere, se si vuole ragionare secondo i propri lumi, e non c’è spirito creato e possa muovere un corpo qualsiasi, come causa vera o principale, proprio come si è deo e nessun corpo può muoversi da solo.

CAPITOLO VI. LA COMPOSIZIONE DELLE CAUSE 1. Allo scopo di completare la nozione generale di causazione, su cui devono essere fondate le regole dell’indagine sperimentale sulle leggi di natura, rimane ancora da meere in evidenza una distinzione: si traa di una distinzione così radicale e così piena d’importanza da riiedere un capitolo tuo per sé. Le discussioni precedenti ci hanno familiarizzato con il caso in cui pareci agenti, o cause, concorrono come condizioni a produrre un effeo: si traa, in verità, di un caso quasi universale, peré gli effei ai quali non contribuisce più di un agente sono molto poi. Supponiamo dunque e in un certo insieme di condizioni collaterali due agenti differenti e operano congiuntamente siano seguìti da un dato effeo. Se l’uno o l’altro di questi due agenti, invece di essere congiunto con l’altro, avesse operato da solo, allora, in un insieme di condizioni per tui gli altri aspei identico al primo, sarebbe probabilmente seguìto quale effeo e sarebbe stato differente dall’effeo congiunto dei due agenti, e più o meno dissimile da esso. Ora, se si dà il caso e sappiamo quale sarebbe l’effeo di ciascuna causa, quando agisca separatamente dall’altra, saremo spesso in grado di arrivare deduivamente, o a priori, a predire correamente e cosa risulterà dalla loro azione congiunta. Peré questo sia possible è necessaria una sola cosa: e la stessa legge, e esprime l’effeo di ciascuna causa quando agisce da sola, esprima ane correamente quale parte dell’effeo e segue dalle due cause prese insieme sia dovuta a quella causa. esta condizione è realizzata in quell’estesa e importante classe dei fenomeni e si dicono comunemente meccanici: cioè nei fenomeni della comunicazione del moto (o della pressione, e è tendenza al moto) da un corpo all’altro. In quest’importante classe di casi di causazione una causa, rigorosamente parlando, non ne sopraffà mai e non ne annulla mai un’altra: entrambe hanno il loro effeo pieno. Un corpo e sia spinto in due direzioni da due forze, una delle quali tende a spingerlo a Nord mentre l’altra tende a spingerlo ad Est, si moverà — causato a ciò da queste due forze — in entrambe le direzioni arrivando, in un tempo dato, fino al punto esao in cui l’avrebbero portato le due forze, se avessero agito separatamente, e si arresterà nel luogo preciso in cui si

sarebbe arrestato se su di esso avessero agito prima l’una e poi l’altra delle due forze. In dinamica questa legge di natura si iama principio della composizione delle forze: a imitazione di questa espressione, così felicemente scelta, darò il nome di principio di composizione delle cause al principio e si trova esemplificato in tui i casi in cui l’effeo congiunto di parecie cause è identico con la somma dei loro effei separati. Tuavia questo principio non prevale affao in tue le suddivisioni del campo della natura. La combinazione imica di due sostanze produce, come ben sappiamo, una terza sostanza, le cui proprietà sono interamente differenti da quelle di ciascuna delle due sostanze prese separatamente, e di entrambe le sostanze prese insieme. Nelle proprietà del composto di idrogeno e ossigeno — cioè dell’acqua — non si può osservare neppure una traccia delle proprietà dell’idrogeno o dell’ossigeno. Il gusto dello zucero di piombo1 non è la somma dei gusti degli elementi e lo compongono, cioè dell’acido acetico e del piombo o del suo ossido, e il colore del vetriolo azzurro2 non è una mistura dei colori dell’acido solforico e del rame. Ciò spiega peré la meccanica sia una scienza deduiva, o dimostrativa, mentre la imica non lo è. Nella prima di queste scienze possiamo calcolare gli effei di tue le combinazioni di cause, reali o ipotetie, a partire dalle leggi e sappiamo governare quelle cause quando agiscono separatamente; infai, quando le cause si trovano in combinazione continuano a osservare le stesse leggi e osservavano quando erano separate e tuo ciò e sarebbe accaduto come conseguenza di ciascuna causa, presa da sola, accade quando le due cause sono insieme, cosicé non dobbiamo far altro e addizionarne i risultati. Non così nei fenomeni e costituiscono l’oggeo particolare della scienza imica. i la maggior parte delle uniformità a cui si conformano le cause quando sono separate cessa completamente quando le cause sono congiunte, e almeno allo stato auale della nostra conoscenza, fin quando non abbiamo tentato l’esperimento specifico non siamo in grado di prevedere quale risultato seguirà da una combinazione nuova. Se questo è vero delle combinazioni imie, è ancor più vero di quelle combinazioni, di gran lunga più complesse, degli elementi e costituiscono i corpi dotati di organizzazione e in cui sorgono quelle nuove straordinarie uniformità e si iamano leggi della vita. Tui i corpi dotati di organizzazione sono composti di parti simili a quelle e compongono la natura inorganica, e e a loro volta sono ane esistiti allo stato inorganico: ma i fenomeni della vita, e risultano dalla giustapposizione di quelle parti

in una certa maniera, non presentano analogie con nessuno degli effei e sarebbero prodoi dall’azione delle sostanze e li compongono, considerate come puri e semplici agenti fisici. alunque sia il grado al quale possiamo immaginare di estendere e di perfezionare la nostra conoscenza delle proprietà dei diversi ingredienti di un corpo vivente, è certo e se ci limiteremo a sommare le azioni separate di quegli elementi non oerremo mai nulla e equivalga all’azione del corpo vivente stesso. Ad esempio la lingua, come tue le altre parti della struura animale, è composta di gelatina, fibrina e di altri prodoi della imica della digestione, ma nessuna conoscenza delle proprietà di queste sostanze ci renderà mai capaci di predire e la lingua può avere sensazioni di gusto; peré nella conclusione non può comparire nessun fao elementare e non sia già comparso nelle premesse. Ci sono dunque due differenti modi in cui le cause agiscono congiuntamente: da essi hanno origine due modi di conflio, o di reciproca interferenza, tra leggi di natura. Supponiamo e in un dato istante e in un dato punto dello spazio si trovino due o più cause e, se agissero separatamente, produrrebbero effei contrari, o almeno fra loro contrastanti, peré l’una tende a disfare completamente o in parte quello e l’altra tende a fare. Così, la forza d’espansione dei gas generati dalla combustione della polvere da sparo tende a lanciare un proieile verso il cielo, mentre la gravità del proieile tende a farlo cadere a terra. Una corrente e fluisca in un’estremità di un serbatoio tende a riempirlo sempre di più, mentre uno scarico, posto all’altra estremità, tende a svuotarlo. Ora, in casi come questi, ane se le cause e agiscono congiuntamente si annullano esaamente l’una con l’altra, tuavia le leggi di entrambe risultano soddisfae: l’effeo è il medesimo e se prima il rubineo di scarico fosse stato aperto per una mezz’oraa, e poi la corrente fosse fluita nel serbatoio per il medesimo periodo di tempo. Ciascun agente ha prodoo la medesima quantità di effeo e avrebbe prodoo se avesse agito separatamente, ane se l’effeo contrario, e ha avuto luogo per il medesimo tempo, l’ha cancellato tanto in frea quant’è stato prodoo. i, dunque, ci sono due cause e operando congiuntamente producono un effeo e a tua prima sembra piuosto dissimile da quegli effei e le stesse cause producono separatamente, ma e, se lo esaminiamo, si rivela in realtà come la somma di quegli effei separati. Si noterà e qui allarghiamo l’idea della somma dei due effei in modo da comprendervi quella e comunemente viene iamata la loro

differenza, ma e, in realtà, è il risultato dell’addizione di opposti; concezione, questa, di cui l’umanità è debitrice a quell’ammirevole estensione del calcolo algebrico e ha tanto accresciuto i suoi poteri in quanto strumento di scoperta, introducendo nei ragionamenti (per mezzo dell’apposizione del segno di sorazione, e con il nome di quantità negative) ogni specie di fenomeni positivi, puré, relativamente a quelli introdoi in precedenza, siano di qualità tale e l’aggiungerne uno sia l’equivalente del sorarre, dall’altro, una quantità eguale. Dunque, c’è un solo modo d’interferire reciprocamente da parte delle leggi di natura, in cui, ane quando annullano ciascuna l’effeo dell’altra, le cause concorrenti esercitano ciascuna la loro efficacia completa, secondo la loro propria legge — la loro legge in quanto agenti separati. Ma nell’altra classe di casi gli agenti e sono stati portati insieme cessano interamente, e nasce un insieme di fenomeni totalmente nuovo, come nell’esperimento dei due liquidi e, quando vengano mescolati in certe proporzioni, diventano istantaneamente, non una quantità più grande di liquido, ma una massa solida. 2. esta differenza, tra il caso in cui l’effeo congiunto di più cause è la somma dei loro effei separati, e il caso in cui tale effeo è eterogeneo rispeo agli effei separati — tra leggi e operano insieme senza alterazioni e cause e, iamate a operare insieme, la cedono e lasciano il posto ad altre — è una delle distinzioni fondamentali in natura. Il primo caso, quello della composizione delle cause, è il caso generale, l’altro è sempre speciale ed eccezionale. Non ci sono oggei e, almeno limitatamente a qualcuno dei loro fenomeni, non obbediscano al principio della composizione delle cause; non ci sono oggei non regolati da quale legge e non sia rigorosamente soddisfaa in ogni combinazione in cui gli oggei stessi entrano. Ad esempio, il peso di un corpo è una proprietà e il corpo mantiene in tue le combinazioni in cui lo si fa entrare. Il peso di un composto imico, o di un corpo dotato di organizzazione, è eguale alla somma dei pesi degli elementi e lo compongono. Il peso degli elementi o quello del composto può variare, secondo e li si allontani dal loro centro di arazione o li si avvicini ad esso, ma tuo quello e modifica l’uno modifica ane l’altro. Restano sempre esaamente eguali. Così, ancora, le parti e compongono una sostanza animale o vegetale non perdono le loro proprietà meccanie e imie di agenti separati quando, in seguito a un particolare modo di

sovrapposizione, acquistano, come un tuo aggregato, certe proprietà fisiologie o vitali in più. ei corpi continuano, come prima, a obbedire a leggi meccanie e imie fin quando l’azione di quelle leggi non è contrastata dalle nuove leggi e li governano in quanto esseri dotati di organizzazione. In breve, quando ha luogo un concorso di cause e iama in azione nuove leggi, le quali non presentano analogie con nessuna di quelle e possiamo rintracciare nell’operazione separata delle cause, le nuove leggi, pur soppiantando una certa porzione delle leggi precedenti, possono coesistere con un’altra porzione delle stesse leggi, e possono addiriura comporre col proprio l’effeo di quelle leggi precedenti. Ancora, leggi e a loro volta sono state generate nel secondo modo, possono generare altre leggi nel primo modo. Pur essendoci leggi e, come quelle della imica e della fisiologia, devono la loro esistenza a un’interruzione nel principio della composizione delle cause, non segue e queste leggi peculiari — o, come potremmo iamarle, eteropatiche — non siano susceibili di composizione l’una con l’altra. Le cause, le cui leggi sono state alterate da una certa combinazione, possono portare inalterate le loro nuove leggi nelle loro combinazioni successive. Non c’è dunque nessuna ragione per cui si debba disperare di riuscire infine a sollevare la imica e la fisiologia alla condizione di scienze deduive: infai, ane se è impossibile dedurre tue le verità della imica e della fisiologia dalle leggi o dalle proprietà di sostanze semplici o di agenti elementari, può darsi e tali verità siano deducibili da leggi e cominciano quando questi agenti elementari vengono messi insieme in modo da dar luogo a un certo numero, piuosto basso, di combinazioni non molto complesse. Le leggi della vita non saranno mai deducibili dalle pure e semplici leggi degli ingredienti della vita, ma può darsi e i fai prodigiosamente complessi della vita siano tui deducibili da leggi della vita relativamente semplici. E queste leggi (e dipendono bensì da combinazioni, ma da combinazioni relativamente semplici, di antecedenti) in circostanze più complesse, potranno comporsi rigorosamente l’una con l’altra e con le leggi fisie e imie degli ingredienti. Ane ora i deagli dei fenomeni vitali offrono innumerevoli esemplificazioni della composizione delle cause, e quanto più accuratamente si studiano questi fenomeni tanto più numerose risultano le ragioni per credere e le stesse leggi e operano nelle combinazioni più semplici di circostanze continueranno, di fao, a essere osservate nelle combinazioni più complesse. Si troverà e questo è egualmente vero dei fenomeni della mente, e ane

dei fenomeni sociali e politici, e sono i risultati delle leggi della mente. Solo nel caso dei fenomeni imici il progresso finora compiuto nel portare le leggi speciali soo leggi generali, da cui le prime possano essere dedoe, è minimo; ma ane in imica ci sono molte circostanze e incoraggiano a sperare e un giorno tali leggi verranno scoperte. Indubbiamente, non si troverà mai e le differenti azioni di un composto imico sono la somma dei suoi elementi presi separatamente, ma può darsi e tra le proprietà del composto e quelle dei suoi elementi esista quale relazione costante, e, se potrà essere scoperta per mezzo di un’induzione sufficiente, ci meerà in grado di prevedere il genere di composto e risulterà da una nuova combinazione prima ancora di averla effeivamente tentata, e di giudicare, ancor prima di averla analizzata, di quale genere di elementi sia composta una certa sostanza nuova. La legge delle proporzioni definite, scoperta per la prima volta nella sua piena generalità da Dalton, rappresenta una soluzione completa di questo problema in un solo aspeo, per quanto secondario: l’aspeo della quantità; per quanto riguarda la qualità, siamo già in possesso di alcune generalizzazioni parziali, sufficienti a indicare la possibilità di procedere più oltre. Possiamo predicare alcune proprietà comuni di quella specie di composti e risultano dalla combinazione, in ciascuna delle poe proporzioni definite, di un qualsiasi acido con una base qualsiasi. Abbiamo ane la curiosa legge, scoperta da Berthollet3, e due sali solubili si scompongono l’un l’altro, reciprocamente, tue le volte e le nuove combinazioni e ne risultano producono un composto insolubile, o un composto meno solubile dei due dai quali si è partiti. Un’altra uniformità è quella iamata la legge dell’isomorfismo: l’identità delle forme cristalline di sostanze le cui composizioni imie hanno in comune certe peculiaritàb. È iaro, perciò, e ane le leggi eteropatie — cioò quelle leggi d’azione combinata e non sono composte dalle leggi delle azioni separate — sono, almeno in alcuni casi, derivate da queste ultime secondo un principio fisso. Può darsi, perciò, e ci siano leggi di generazione delle leggi da altre leggi dissimili, e può darsi e in imica queste leggi, non ancora scoperte, della dipendenza delle proprietà del composto dalle proprietà dei suoi elementi, forniscano, insieme con le leggi degli elementi stessi, le premesse sulla base delle quali questa scienza è forse destinata ad essere resa, un giorno, deduiva. Sembrerebbe, perciò, e non ci sia classe di fenomeni in cui non valga la legge della composizione delle cause: e, come regola generale, le cause in

combinazione producano esaamente gli stessi effei e producono quando agiscono singolarmente; ma e questa regola, pur essendo generale, non sia universale; e, in alcuni casi, e in certi punti particolari della transizione dall’azione separata all’azione unita, le leggi cambino e una serie interamente nuova di effei si aggiunga a, o prenda il posto di, quegli effei e sorgono dall’azione separata delle medesime cause; e può darsi e le leggi di questi nuovi effei siano a loro volta susceibili di composizione, indefinitamente, come le leggi e hanno soppiantato. 3. La proposizione e gli effei sono proporzionali alle loro cause è stata enunciata da alcuni autori come un assioma della teoria della causazione, e talvolta nei ragionamenti sulle leggi di natura si fa un gran uso di questo principio ane se è ingarbugliato da molte difficoltà e da apparenti eccezioni, difficoltà ed eccezioni per provare la cui irrilevanza s’è spesa una gran quantità d’ingegno. Nella misura in cui è vera, questa proposizione rientra come caso particolare nel principio generale della composizione delle cause: in questo caso le cause composte sono omogenee; e se mai ci si può aspeare e il loro effeo congiunto sia identico con la somma degli effei separati, ciò accade proprio in questo caso. Se per sollevare un certo corpo lungo un piano inclinato ci vuole una forza capace di spostare cento ili, per spostare due corpi esaamente simili al primo ci vorrà una forza capace di spostare duecento ili, e perciò l’effeo è proporzionato alla causa. Ma una forza capace di spostare duecento ili non contiene effeivamente in sè due forze, ciascuna capace di spostare cento ili, e, impiegate separatamente, solleverebbero separatamente i due corpi in questione? Perciò il fao e le due forze esercitate congiuntamente sollevino i due corpi simultaneamente è il risultato della composizione delle cause, ed è una pura e semplice esemplificazione del fao generale, e le forze meccanie sono soggee alla legge della composizione. E così in ogni altro caso e si possa supporre. Infai la dorina della proporzionalità degli effei e delle loro cause non può, naturalmente, essere applicabile a casi in cui l’aumento della causa àltera la specie dell’effeo, cioè a casi in cui la quantità in sovrappiù, aggiunta alla causa, non si compone con la causa, ma le due cause insieme generano un fenomeno completamente nuovo. Supponiamo e l’applicazione di una certa quantità di calore a un corpo non faccia altro e accrescerne il volume; e una quantità doppia lo fonda e e una quantità tripla lo scomponga: siccome questi tre effei sono eterogenei, tra

loro non si può stabilire nessun rapporto, corrispondente o no al rapporto fra le quantità di calore applicate. Così il cosiddeo assioma della proporzionalità degli effei e delle loro cause cessa di valere nel punto preciso in cui cessa di valere ane il principio di composizione delle cause, cioè dove il concorso delle cause è tale da determinare un cambiamento nelle proprietà del corpo in generale, e da renderlo soggeo a nuove leggi più o meno dissimili da quelle a cui si conformava nel suo stato precedente. Pertanto il riconoscimento di qualsiasi principio del genere della legge della proporzionalità è soppiantato dal principio più comprensivo, in cui viene implicitamente asserito tuo ciò e è ane vero della legge in parolac. A questo punto possiamo meere fine alle osservazioni generali e sembravano necessarie a introdurre la teoria del processo induivo. esto processo è essenzialmente un’indagine sui casi di causazione. Come abbiamo visto, tue le uniformità esistenti nella successione dei fenomeni, e la maggior parte delle uniformità nella loro coesistenza, sono o a loro volta leggi della causazione, o conseguenze e risultano da tali leggi, e corollari e possono essere dedoi da esse. Se fossimo in grado di determinare quali cause si debbano correamente assegnare a ciascun effeo e quali effei a ciascuna causa, avremmo virtualmente una conoscenza direa dell’intiero corso della natura. Allora tue quelle uniformità e sono puri e semplici risultati di causazione potrebbero ricevere una spiegazione, e di tue si potrebbe rendere conto; si potrebbe predire ogni fao e ogni evento individuale, a condizione di essere in possesso dei dati indispensabili, cioè della conoscenza indispensabile delle circostanze, e, nel caso particolare, hanno preceduto il fao o evento in questione. Il compito principale dell’induzione consiste perciò nell’accertare quali siano le leggi di causazione esistenti in natura e nel determinare l’effeo di ogni causa e la causa di ogni effeo. Il meere in evidenza in e modo lo si debba fare, è l’oggeo principale della logica induiva. a.

Per semplicità non tengo conto, in quest’ultimo caso, dell’effeo causato dalla pressione, cioè dalla diminuzione del flusso d’acqua araverso lo scarico. Evidentemente esso non modifica affao la verità o l’applicabilità del principio, peré, quando le due cause agiscono simultaneamente, le condizioni della diminuzione di pressione non si verificano. b. Il professor Bain aggiunge altre generalizzazioni imie ben consolidate: «La legge e le sostanze semplici mostrano le più forti affinità; e i composti sono fusibili più dei loro elementi; e le combinazioni tendono a uno stato più basso della materia, dallo stato gassoso allo stato solido», e alcune proposizioni generali riguardanti le circostanze e facilitano la combinazione imica o vi si oppongono (Logic, II, 254).

c.

Il professor Bain mee in evidenza una classe di casi, diversi da quelli di cui abbiamo parlato noi nel testo, e, secondo lui devono essere considerati come altreante eccezioni alla composizione delle cause. «Le cause e si limitano a rendere la collocazione adaa a meere in azione un motore primario, o e scatenano una forza potenziale, non seguono nessuna regola del genere. Un uomo solo può puntare un cannone contro un forte, così come possono puntarlo tre uomini: due scintille non sono più efficaci di tre quando si traa di far esplodere un barile di polvere da sparo. In medicina c’è una certa dose, e fa raggiungere un certo scopo: aggiungerne di più non serve a nulla». Non sono sicuro e questi casi costituiscano davvero eccezioni. Secondo me, la legge della composizione delle cause è effeivamente rispeata, e l’apparenza e le cose non stiano così è prodoa dal fao e si presta aenzione all’effeo remoto anzié all’effeo immediato delle cause. L’effeo immediato delle cause e agiscono nei casi e il professor Bain ha menzionato è una collocazione, e il raddoppiamento della causa non raddoppia la quantità della collocazione. Due uomini potrebbero sollevare il cannone all’angolo riiesto due volte più rapidamente di uno, ane se uno solo è sufficiente alla bisogna. Due scintille comunicano a due insiemi di particelle di polvere da sparo quello stato di movimento interno e le fa esplodere, ane se una sola scintilla è sufficiente. È la collocazione stessa e, se la si raddoppia, non sempre raddoppia il proprio effeo. Infai, in molti casi una certa collocazione, una volta oenuta, è tuo quello e si riiede per produrre l’intiera quantità di effeo e si può produrre al tempo e al luogo dati. Raddoppiando la collocazione con tempi e luoghi differenti, come, per esempio, puntando due cannoni l’uno dopo l’altro o facendo esplodere una seconda carica dopo la prima, si oiene l’effeo doppio. est’osservazione vale ancor di più per il terzo esempio del signor Bain: quello della doppia dose di medicina. Infai, una dose doppia di un lassativo purga più violentemente, e una doppia dose di laudano produce un sonno più lungo e più profondo. Ma una doppia dose di purgante, o una doppia dose di narcotico possono avere effei remoti diversi, quanto alla loro specie, dall’effeo della dose minore, riducendo così il loro caso a quello delle leggi eteropatie, e abbiamo discusso nel testo. 1. Si iama così l’acetato di piombo, per il suo sapore dolce. 2. Cioè del solfato di rame. 3. Claudio Luigi Berthollet (1748-1822), medico e imico Savoiardò studio medicina a Torino, dove si laureò nel 1770, ma si trasferì a Parigi, dove intraprese gli studi di imica. Dopo il 1786 divenne intimo di Lavoisier. Fu in Egio al séguito di Napoleone, diventandone il consulente scientifico. Durante la Rivoluzione e l’Impero si occupò di problemi di difesa nazionale e di imica applicata. Usò per primo il cloro nell’imbianimento delle fibre tessili e della carta, scoprì gli ipocloriti alcalini e il clorato di potassio; stabilì la composizione dell’ammoniaca (1785); studiò l’idrogeno solforato e l’acido cianidrico. Introdusse il conceo di massa nelle reazioni imie, sostenendo e gli elementi si possono combinare in tue le proporzioni, secondo la massa delle sostanze reagenti.

CAPITOLO VII. OSSERVAZIONE ED ESPERIMENTO 1. Dall’esposizione e precede risulta e il processo consistente nell’accertare quali conseguenti, in natura, siano invariabilmente connessi con ciascun antecedente, o, in altre parole, quali fenomeni siano correlati l’uno con l’altro come causa ed effeo, è, in un modo o nell’altro, un processo d’analisi. Che ogni fao e comincia ad esistere abbia una causa, e e questa causa si debba trovare in quale fao o in quale concorso di fai e hanno immediatamente preceduto l’accadere del fao, può essere preso per certo. La totalità dei fai precedenti costituisce il risultato infallibile di tui i fai passati e, più immediatamente, di tui i fai e sono esistiti nell’istante precedente. Ecco qui, dunque, una grande sequenza, e sappiamo essere uniforme. Se tuo quanto lo stato dell’intiero universo precedente l’auale potesse ripresentarsi una seconda volta, sarebbe di nuovo seguìto dallo stato presente. La questione è in e modo si debba risolvere quest’uniformità complessa nelle uniformità più semplici e la compongono e in qual modo si debba assegnare a ciascuna porzione del vasto antecedente, quella porzione del conseguente e le compete. est’operazione, e abbiamo iamato analitica peré è la risoluzione di una totalità complessa negli elementi e la compongono, è qualcosa di più di un’analisi puramente e semplicemente mentale. In se stessa, la pura e semplice contemplazione dei fenomeni e la loro suddivisione ad opera del solo intelleo, non sarà mai in grado di farci raggiungere lo scopo e ci proponiamo ora. Nondimeno, questa partizione mentale è un primo passo indispensabile. Come lo percepiamo a una prima ociata, l’ordine della natura presenta in ogni istante un caos seguito da un altro caos. Dobbiamo scomporre ciascun caos in fai singoli. Dobbiamo imparare a vedere, nell’antecedente caotico, una gran quantità di antecedenti distinti, nel conseguente caotico una gran quantità di conseguenti distinti. esto — supponendo di averlo fao — non ci dirà, di per se stesso, a quale degli antecedenti competa invariabilmente ciascun conseguente. Per stabilire questo punto dobbiamo tentar di operare una separazione dei fai l’uno dall’altro, non soltanto nella nostra mente, ma in natura. Comunque, l’analisi mentale deve aver luogo per prima, e tui sanno e un intelleo

differisce enormemente dall’altro nel modo di compierla. È l’essenza dell’ao dell’osservare: l’osservatore, infai, non è colui e vede, puramente e semplicemente, la cosa e sta dinanzi ai suoi oci, ma colui e vede di quali parti la cosa è composta. Il farlo bene è talento raro. Una persona, per disaenzione, o soltanto peré lo fa nel posto sbagliato, trascura la metà di quello e vede: un’altra dice molto più di quanto non veda, confondendo quello e vede con quello e immagina o con quello e inferisce: un’altra nota soltanto la specie delle circostanze, ma non essendo esperta nello stimarne il grado lascia vaga e incerta la quantità di ciascuna di esse; un’altra vede bensì il tuo, ma lo divide così goffamente nelle sue parti, da ammuciare in una sola massa cose e esigono di essere separate e da separarne altre e invece sarebbe più conveniente considerare come una sola cosa, cosicé il risultato è lo stesso, e quale volta addiriura peggiore, di quello e sarebbe stato se non si fosse tentato di compiere nessun’analisi affao. Sarebbe possibile indicare quali qualità della mente, e quali modi di educazione mentale si riiedano per fare di una persona un buon osservatore: questa però non è una questione di logica, ma di teoria dell’educazione, nel senso più esteso del termine. Non esiste, propriamente, un’arte dell’osservare. Possono esserci regole per osservare, ma per parlar propriamente queste regole, come le regole per inventare, sono regole individuali per la preparazione della mente di ciascuno di noi: regole per meere la mente nello stato migliore per osservare o in quello più adao per inventare. Sono perciò essenzialmente regole di auto-educazione, e l’auto-educazione è una cosa diversa dalla logica. Non c’insegnano come fare la cosa, ma come rendere noi stessi capaci di farla. Sono un’arte di rafforzare le membra, non un’arte d’usarle. L’ampiezza e la minuziosità d’osservazione e possono essere riieste, e il grado di scomposizione a cui può essere necessario spingere l’analisi mentale, dipendono dallo scopo particolare e ci si propone. L’accertare lo stato dell’intiero universo in un qualsiasi istante particolare è impossibile, ma sarebbe ane inutile. ando facciamo esperimenti imici non pensiamo e sia necessario prender nota della posizione dei pianeti, peré l’esperienza ha mostrato (e del resto basta un’esperienza molto superficiale per mostrarlo) e in casi del genere la circostanza in parola non ha alcuna importanza ai fini del risultato. Invece, nelle epoe in cui gli uomini credevano nelle influenze occulte dei corpi celesti, l’omeere di accertare la condizione precisa di questi corpi al momento dell’esperimento, sarebbe

stato ritenuto contrario a tue le regole della sana filosofia. Per quanto riguarda il grado di minuziosità della suddivisione mentale, se fossimo obbligati a spezzeare l’oggeo della nostra osservazione nei suoi elementi più semplici, cioè, leeralmente, in fai singoli, sarebbe piuosto difficile dire dove dovremmo trovarli: è praticamente impossibile poter mai affermare e le nostre divisioni, di qualsiasi genere esse siano, hanno raggiunto l’unità ultima. Ma fortunatamente, neane questo è necessario. Il solo scopo della separazione mentale consiste nel suggerire la separazione fisica indispensabile, così e possiamo compierla noi stessi, o cercarla nella natura; e quando avremo spinto la suddivisione fino al punto in cui siamo in grado di vedere quali osservazioni o quali esperimenti siano necessari, avremo già fao abbastanza. ale e possa essere il punto di scomposizione mentale dei fai al quale ci siamo, per il momento, arrestati, l’unica cosa essenziale è e ci teniamo pronti a, e siamo capaci di, spingerla più avanti secondo e lo riieda l’occasione, e e non permeiamo e la libertà della nostra facoltà di discriminare venga imprigionata nelle fasce e nei vincoli della classificazione ordinaria, come accadde a tui i più antii speculatori e ricercatori, non ecceuati i Greci, a cui raramente venne in mente e quello e veniva iamato con un solo nome astrao poteva essere, in realtà, pareci fenomeni, o e c’era una possibilità di scomporre i fai dell’universo in altri elementi, e non fossero quelli e il linguaggio ordinario già riconosceva come tali. 2. Posto dunque e i differenti antecedenti e conseguenti siano stati accertati e discriminati l’uno dall’altro nella misura in cui il caso lo riiede, dovremo cercare quali siano le loro connessioni reciproe. In ogni caso e cade soo la nostra osservazione ci sono molti antecedenti e molti conseguenti. Se quegli antecedenti non potessero essere separati l’uno dall’altro tranne e idealmente, o se quei conseguenti non si trovassero mai separati, sarebbe per noi impossibile distinguere (almeno a posteriori) le vere e proprie leggi o assegnare a ogni causa il suo effeo o a ogni effeo la sua causa. Per farlo, dobbiamo essere in grado di incontrare alcuni degli antecedenti a parte dal resto, e osservare e cosa segua da essi, oppure di incontrare separatamente alcuni dei conseguenti e osservare da e cosa siano preceduti. Dobbiamo, in breve, seguire la regola baconiana e prescrive di far variare le circostanze. In realtà questa è soltanto la prima e

non, come ha suggerito qualcuno, la sola regola della ricerca fisica: però è il fondamento di tuo il resto. Allo scopo di variare le circostanze possiamo far ricorso (secondo una distinzione e si fa comunemente) o all’osservazione o all’esperimento: possiamo, o trovare in natura un caso adao ai nostri scopi, o, disponendo artificialmente le circostanze, fabbricarne uno. Il valore del caso dipende da ciò e esso è in sé, e non dal modo nel quale lo si è oenuto: nell’un caso e nell’altro il suo impiego per gli scopi dell’induzione dipende dagli stessi princìpi, così come gli usi del danaro sono gli stessi sia e l’abbiamo ereditato sia e ce lo siamo guadagnato. In breve, tra i due processi di indagine non c’è alcuna differenza specifica, nessuna distinzione logica vera e propria. Ci sono però distinzioni pratie a cui è di considerevole importanza il far cenno. 3. La prima e più ovvia distinzione tra osservazione ed esperimento è e quest’ultimo rappresenta un’estensione immensa della prima. Non soltanto l’esperimento ci mee in grado di produrre nelle circostanze un numero di variazioni molto più grande di quante non ce ne offra spontaneamente la natura, ma in migliaia di casi ci rende capaci ane di produrre quel preciso tipo di variazioni di cui abbiamo bisogno per scoprire la legge del fenomeno; servizio, questo, e la natura, e è costruita secondo uno sema molto diflferente da quello e servirebbe a facilitare i nostri studi, raramente è tanto amica da offrirci. Ad esempio, la variazione e ci occorre per accertare quale principio renda l’atmosfera capace di rendere possibile la vita, consisterebbe nell’immergere separatamente un animale vivo in ciascun componente dell’atmosfera. Ma la natura non ci offre l’ossigeno o l’azoto allo stato separato. Dobbiamo all’esperimento artificiale la conoscenza e è l’ossigeno, e non l’azoto a rendere possibile la respirazione; e all’esperimento artificiale dobbiamo la conoscenza della stessa esistenza di questi due ingredienti. Fin qui i vantaggi della sperimentazione sulla semplice osservazione sono universalmente riconosciuti: tui sono consapevoli e la sperimentazione ci mee in grado di oenere innumerevoli combinazioni di circostanze, e non si possono trovare in natura, e così aggiunge agli esperimenti fai dalla natura una gran quantità di esperimenti fai da noi. Ma i casi oenuti artificialmente — i nostri esperimenti — posseggono, sui casi spontanei o addiriura sugli esperimenti della natura, un’altra superiorità (o, come

avrebbe deo Bacone, un’altra prerogativa), e non è di minore importanza, ma e è ben lontana dall’essere sentita e riconosciuta nella stessa misura. ando possiamo produrre artificialmente un fenomeno, possiamo, per così dire, portarlo a casa con noi, e osservarlo in mezzo a circostanze di cui abbiamo una precisa conoscenza direa soo tui gli altri aspei. Se desideriamo sapere quali sono gli effei della causa A, e siamo in grado di produrre A con i mezzi a nostra disposizione, possiamo determinare, generalmente a nostra discrezione e nella misura in cui ciò è compatibile con la natura del fenomeno A, la totalità delle circostanze e saranno presenti insieme col fenomeno: e così, conoscendo esaamente lo stato simultaneo di tue le altre cose e sono alla portata dell’influenza di A, non dobbiamo far altro e osservare quale alterazione la presenza di A produca in quello stato. Per esempio, con la macina elerostatica possiamo produrre in circostanze note i fenomeni e la natura esibisce su scala molto più vasta, soo forma di lampi e tuoni. Si consideri ora quanta conoscenza degli effei e della legge dell’azione dell’elericità gli uomini avrebbero potuto oenere dalla semplice osservazione dei temporali, e la si paragoni con quella e hanno oenuto, e possono aendersi di oenere. dagli esperimenti elerici e galvanici. esto esempio è tanto più appropriato ora e abbiamo ragione di credere e, di tui i fenomeni naturali (ecceuato il calore), l’elericità è il più diffuso e il più universale, per cui una volta si sarebbe potuto supporre e per poter essere studiato avesse bisogno, meno di ogni altro, di essere prodoo con mezzi artificiali. Invece, le cose stanno esaamente all’opposto, tant’è vero e probabilmente, senza la macina elerostatica, la boiglia di Leyda e la pila di Volta non avremmo mai sospeato l’esistenza dell’elericità come di uno dei grandi agenti naturali: avremmo continuato a considerare i poi fenomeni elerici di cui saremmo stati a conoscenza come fenomeni soprannaturali o come una specie di anomalie e di eccentricità nell’ordine dell’universo. ando, ponendolo tra circostanze note, siamo riusciti a isolare il fenomeno e costituisce l’oggeo della nostra ricerca, possiamo produrre quante altre variazioni di circostanze vogliamo, nella misura e nel genere e meglio di ogni altro riteniamo adao a meere iaramente in luce le leggi del fenomeno. Introducendo nell’esperimento una circostanza ben definita dopo l’altra, raggiungiamo la sicurezza circa il modo in cui il

fenomeno si comporta in una varietà indefinita di circostanze possibili. Così, dopo aver oenuto allo stato puro quale sostanza scoperta da poco (cioè, dopo aver raggiunto la sicurezza e non è presente nulla e possa interferire con essa e modificarne l’azione) il imico introduce una per una svariate altre sostanze per accertare se la sostanza in questione si combina con loro, o le scompone, e con quale risultato; applica ane calore o elericità, o pressione, per scoprire e cosa accadrà a questa sostanza in ciascuna di queste circostanze. Ma se, d’altra parte, non è in nostro potere produrre il fenomeno, e dobbiamo andare alla ricerca di quei casi in cui la natura lo produce, il compito e dobbiamo affrontare è molto diverso. Invece di essere in grado di scegliere le circostanze concomitanti, dobbiamo scoprire quali esse siano; il e, quando si va oltre i casi più semplici e accessibili, è praticamente impossibile fare con precisione e completezza. Come esemplificazione di un fenomeno e non abbiamo alcun mezzo per fabbricare artificialmente prendiamo la mente di un uomo. La natura ne produce molte, ma la conseguenza del fao e non siamo capaci di produrle artificialmente, è e in tui i casi in cui vediamo una mente umana svilupparsi, o agire su altre cose, la vediamo circondata e oscurata da una quantità indefinita di circostanze e non possiamo accertare, e e rendono quasi illusorio l’uso dei comuni metodi sperimentali. Possiamo renderci conto di quanto questo sia vero se consideriamo, tra l ℉ altro, e ogni volta e produce una mente umana, la natura produce, in strea connessione con essa, un corpo, cioè una vasta complicazione di fai fisici, di cui non si dànno, forse, due casi esaamente simili e la maggior parte dei quali (se si ecceua la pura e semplice struura, e possiamo esaminare in modo piuosto rozzo solo dopo e ha cessato di agire) sono assolutamente fuori della portata dei nostri mezzi di esplorazione. Se supponiamo e invece di una mente umana l’oggeo dell’indagine sia una società umana o uno stato, le stesse difficoltà risorgono tue, in grado molto più alto. Così siamo già arrivati a intravedere una conclusione e secondo me il progresso della ricerca ci meerà dinanzi con la massima evidenza: nelle scienze e traano con fenomeni in cui gli esperimenti artificiali sono impossibili (come nel caso dell’astronomia) o in cui hanno una portata molto limitata (come nella filosofia della mente, nella scienza sociale, e ane in fisiologia), l’induzione dall’esperienza direa è praticata in condizioni così svantaggiose e nella maggior parte dei casi equivalgono all’impossibilità.

Da questo segue e per poter oenere quale risultato degno di essere raggiunto i metodi di queste scienze devono essere in grande misura, se non principalmente, deduivi. Sappiamo già e questo è il caso della prima delle scienze e abbiamo menzionato: l’astronomia; il fao e questa verità non sia riconosciuta ane a proposito delle altre scienze è probabilmente una delle ragioni per cui queste ultime non si trovano in uno stato più progredito. 4. Se in uno dei dipartimenti dell’esplorazione direa dei fenomeni, quella e viene iamata osservazione pura presenta, a confronto con la sperimentazione artificiale, svantaggi così grandi, c’è un’altra branca di tale esplorazione in cui i vantaggi stanno tui dalla parte dell’osservazione pura. Poiè la ricerca induiva ha per oggeo l’accertare quali cause siano connesse con ciascun effeo, possiamo cominciare questa ricerca a uno qualsiasi dei capi della strada e porta da un punto all’altro: possiamo indagare gli effei di una data causa, o le cause di un dato effeo. Il fao e la luce annerisce il cloruro d’argento si sarebbe potuto scoprire sia facendo esperimenti sulla luce (provando cioè quali effei la luce avrebbe provocato sulle varie sostanze) sia osservando e alcune parti del cloruro erano diventate ripetutamente nere, e indagando le circostanze. L’effeo del curaro sarebbe potuto diventar noto o inieando questo veleno agli animali o esaminando come mai accada e le ferite e gli Indiani della Guiana infliggono con le loro frecce si dimostrino così uniformemente mortali. Ora, dal semplice modo in cui s’enuncia l’esempio, è iaro — senza bisogno di una discussione teorica — e la sperimentazione artificiale può essere applicata soltanto al primo di questi modi di indagine. Possiamo prendere una causa e provare e cosa produrrà, ma non possiamo prendere un effeo e provare da e cosa sarà prodoo. Non possiamo far altro e stare a guardare, finè non vediamo e è stato prodoo, o per caso non diventiamo capaci di produrlo. La cosa avrebbe poca importanza, se dipendesse sempre dalla nostra scelta l’intraprendere le nostre ricere dall’una o dall’altra estremità della sequenza. Ma raramente abbiamo la possibilità di scegliere. Siccome possiamo solo procedere dal noto all’ignoto, siamo obbligati a cominciare da quella parte, qualunque essa sia, e conosciamo meglio. Se l’agente ci è più familiare dei suoi effei, aspeiamo, o provoiamo, casi particolari dell’agente, in tue quelle diverse e svariate circostanze e ci si offrono, e

osserviamo il risultato. Al contrario, se le condizioni da cui un fenomeno dipende sono oscure, ma il fenomeno stesso ci è familiare, dobbiamo cominciare la nostra indagine dall’effeo. Se ci colpisce il fao e il cloruro d’argento si è annerito, e non sospeiamo quale possa essere la causa del suo annerimento, non abbiamo altra risorsa se non quella di confrontare i casi in cui il fenomeno si è verificato casualmente, fin quando, grazie a questo confronto, non scopriamo e in tui quei casi le sostanze erano state esposte alla luce. Se delle frecce indiane non conoscessimo altro e l’effeo fatale, solo il caso potrebbe fare rivolgere la nostra aenzione agli esperimenti sul curaro; nel corso regolare dell’indagine non potremmo far altro e cercare, o tentare di osservare, e cosa sia stato fao alle frecce in casi particolari. In tui i casi in cui, non avendo nulla e ci guidi fino alla causa, siamo obbligati a prender le mosse dall’effeo e ad applicare ai conseguenti e non agli antecedenti la regola e ci dice di far variare le circostanze, siamo per forza privi della risorsa della sperimentazione artificiale. Non possiamo oenere i conseguenti a nostro piacimento, così come possiamo oenere gli antecedenti, in un qualsiasi insieme di circostanze compatibili con la loro natura. Non ci sono altri mezzi per produrre gli effei se non a partire dalle loro cause e, per ipotesi, le cause dell’effeo in questione non ci sono note. L’unico espediente di cui disponiamo è perciò quello di studiare l’effeo quando ci si offre spontaneamente. Se accade e la natura ci presenti casi le cui circostanze sono sufficientemente varie, e se siamo in grado di scoprire o tra gli antecedenti prossimi o tra quale altro ordine di antecedenti qualcosa e, per quanto varie siano le circostanze, si trova sempre quando si trova l’effeo e non si trova mai quando l’effeo non si trova, allora per mezzo della pura e semplice osservazione e senza alcun esperimento possiamo scoprire una vera e propria uniformità nella natura. Ma ane se questo è senza dubbio il caso più favorevole per le scienze di pura osservazione — contrapposte a quelle scienze in cui è possibile compiere esperimenti artificiali — in realtà non c’è caso e illustri in maniera più lampante l’imperfezione intrinseca dell’induzione direa, quando non sia fondata sulla sperimentazione. Supponiamo e confrontando certi casi in cui l’effeo si verifica si sia trovato un antecedente e sembra invariabilmente connesso con l’effeo, e e magari lo è: tuavia, finé non avremo invertito il processo e non avremo prodoo l’effeo per mezzo di quell’antecedente, non avremo ancora provato e

l’antecedente in questione ne è la causa. Se possiamo produrre artificialmente l’antecedente e se, prodoo tale antecedente, ne consegue l’effeo, l’induzione è completa: quell’antecedente è la causa di quel conseguentea. Ma allora abbiamo aggiunto la testimonianza dell’esperimento a quella della semplice osservazione. Prima di far questo avevamo soltanto provato l’antecedenza invariabile nei limiti dell’esperienza, ma non avevamo provato l’antecedenza incondizionata, o causazione. Per quanto ne sappiamo, finé producendo effeivamente l’antecedente in circostanze note e facendo perciò accadere il conseguente, non sia stato mostrato e l’antecedente è davvero la condizione da cui dipende il conseguente, l’uniformità di successione e abbiamo provato e esiste tra antecedente e conseguente potrebbe non essere affao un caso di causazione (come non lo è la successione del giorno e della noe): potrebbe darsi e tanto l’antecedente quanto il conseguente non siano altro e stadi successivi di una causa ulteriore. In breve, l’osservazione senza l’esperimento (posto e non ci siano aiuti da parte della deduzione) può accertare sequenze e coesistenze, ma non può provare l’esistenza della causazione. Per vedere queste osservazioni verificate dallo stato eflfeivo delle scienze, dobbiamo soltanto pensare alle condizioni della storia naturale. Ad esempio, in zoologia è stato accertato un numero enorme di uniformità — alcune di coesistenza, altre di successione — a molte delle quali non conosciamo nessun’eccezione, ane se le circostanze e le accompagnano variano in maniera considerevole: ma per la maggior parte gli antecedenti sono tali e non possiamo produrli artificialmente, o, se possiamo farlo, possiamo farlo solo meendo in moto l’esao processo per mezzo del quale la natura li produce. E siccome questo è per noi un processo misterioso le cui circostanze principali sono non soltanto ignote ma inosservabili, non riusciamo a oenere gli antecedenti in circostanze note. al è il risultato? Che in questa vasta materia, e fornisce all’osservazione un campo così ampio e così vario, abbiamo fao magrissimi progressi nell’accertare le leggi di causazione. Nel caso della maggior parte dei fenomeni e troviamo congiunti, non sappiamo con certezza quale fenomeno sia la condizione dell’altro, quale la causa e quale l’effeo, e se l’uno o l’altro dei fenomeni sia una causa o non si trai piuosto di effei congiunti di cause e devono ancora essere scoperte, risultati complessi di leggi finora sconosciute. Ane se in questo luogo alcune delle osservazioni e precedono sono forse premature dal punto di vista del rigore tecnico della disposizione

dell’argomento, ci è sembrato e alcune osservazioni generali sulla differenza tra scienze di pura e semplice osservazione e scienze di sperimentazione, e sull’estremo svantaggio in cui, nelle prime, viene per forza di cose condoa la ricerca direamente induiva, fossero la migliore preparazione alla discussione dei metodi dell’induzione direa; tale preparazione rende superflue molte di quelle cose e altrimenti si sarebbero dovute introdurre, non senza inconvenienti, nel cuore della discussione. Procediamo ora a prendere in considerazione questi metodi. a.

A meno e il conseguente non sia stato generato, non già dall’antecedente, ma dai mezzi impiegati per produrre l’antecedente. Comunque, nella misura in cui i mezzi sono in nostro potere, c’è una probabilita e li conosciamo ane abbastanza da essere in grado di giudicare se questo possa accadere o no.

CAPITOLO VIII. I QUATTRO METODI DELLA RICERCA SPERIMENTALE 1. I modi più semplici e più ovvi per enucleare, tra le circostanze e precedono o seguono un fenomeno, quelle con le quali il fenomeno è realmente connesso da una legge invariabile, sono due. Il primo consiste nel confrontare tra loro casi differenti in cui il fenomeno accade. Il secondo nel confrontare i casi in cui il fenomeno accade con i casi, per altri aspei simili, in cui non accade. esti due metodi possono essere iamati, rispeivamente, il metodo della concordanza e il metodo della differenza. Nell’illustrare questi metodi sarà necessario tenere a mente il duplice caraere delle ricere e hanno per oggeo le leggi dei fenomeni: tali ricere possono essere o ricere della causa di un dato effeo, o ricere degli effei o proprietà di una data causa. Prenderemo in considerazione i metodi nella loro applicazione a ciascuno dei due ordini di indagini, e ricaveremo i nostri esempi da entrambi questi ordini in egual misura. Denoteremo gli antecedenti con le leere maiuscole dell’alfabeto e i conseguenti ad essi corrispondenti con leere minuscole. Supponiamo dunque e A sia un agente, o una causa, e supponiamo e lo scopo della nostra ricerca sia quello di accertare quali sono gli effei di questa causa. Se possiamo trovare o produrre l’agente A in circostanze così varie e i differenti casi non abbiano alcuna circostanza in comune ecceuato A, allora, qualunque sia l’effeo e troviamo prodoo nei nostri tentativi, lo indieremo come l’effeo di A. Supponiamo per esempio e A sia stato messo alla prova insieme con B e C, e e l’effeo sia a b c, e supponiamo e successivamente A venga messo alla prova insieme con D ed E, ma senza B e C, e e l’effeo sia a d e. Allora possiamo ragionare così: b e c non sono effei di A, peré non sono stati prodoi da A nel corso del secondo esperimento, e non lo sono d ed e, e non sono stati prodoi nel corso del primo. ale e sia realmente, l’effeo di A dovrebbe essere stato prodoo in entrambi i casi: ora nessuna circostanza, tranne a, soddisfa questa condizione. Il fenomeno a non può essere l’effeo di B o C, dal momento e

è stato prodoo quando B e C non erano presenti e non può essere l’effeo di D o di E, peré è stato prodoo quando non erano presenti D ed E. Perciò è l’effeo di A. Supponiamo, per esempio, e l’antecedente A sia il contao di una sostanza alcalina e di un olio. Dopo aver tentato questa combinazione in parecie varietà di circostanze, e non si somigliano in nient’altro, si vede e i risultati concordano nel senso e dànno sempre luogo alla produzione di una sostanza grassa e detersiva, o saponosa: si conclude perciò e la combinazione di un olio e di un alcale causa la produzione di un sapone. In questo modo indaghiamo l’effeo di una data causa col metodo della concordanza. In maniera analoga possiamo andare alla ricerca della causa di un dato effeo. Sia a quest’effeo. i, come abbiamo mostrato nell’ultimo capitolo, non abbiamo altra risorsa e l’osservazione senza l’esperimento: non possiamo prendere un fenomeno di cui non conosciamo l’origine e tentare di trovare il modo in cui si produce, producendolo: se avessimo successo in questo tentativo fao a casaccio questo potrebbe avvenire solo accidentalmente. Ma se possiamo osservare a in due combinazioni differenti, a b c e a d e, e se sappiamo, o possiamo scoprire, e in questi casi le circostanze antecedenti erano rispeivamente A B C e A D E, con un ragionamento simile a quello dell’esempio precedente possiamo concludere e A è l’antecedente connesso con il conseguente a da una legge di causazione. B e C, possiamo dire, non possono essere cause di a, peré quando A è comparso per la seconda volta non erano presenti; e non possono esserlo neppure D ed E, peré non erano presenti quando A è comparso per la prima volta. Delle cinque circostanze, A è la sola e si sia trovata in entrambi i casi tra gli antecedenti di a. Ad esempio, supponiamo e l’effeo a sia la cristallizzazione. Confrontiamo certi casi in cui sappiamo e i corpi assumono struura cristallina, ma e non concordano in nessun altro punto; troviamo e hanno uno, e, per quanto possiamo osservare, un solo, antecedente in comune: il depositarsi di materia solida a partire da uno stato liquido, di fusione o di soluzione. Concludiamo perciò e la solidificazione di una sostanza a partire da uno stato liquido è un antecedente invariabile della cristallizzazione di quella

sostanza. In quest’esempio possiamo andare ancora più in là, e dire e la solidificazione non è solo l’antecedente invariabile, ma la causa della cristallizzazione, o, almeno, l’evento prossimo e completa la causa. In questo caso, infai, dopo aver scoperto l’antecedente A siamo in grado di produrlo artificialmente e, avendo trovato e a segue da esso, di verificare il risultato della nostra induzione. anto sia importante invertire la prova nel modo e si è deo, si vide in modo sorprendentemente iaro quando un imico (credo e si traasse del door Wollaston1) riuscì a oenere cristalli di quarzo tenendo indisturbato per anni un recipiente d’acqua carica di particelle di silicio; e si vide ane nell’esperimento, egualmente interessante, in cui Sir James Hall2 produsse marmo artificiale raffreddando soo pressione estremamente alta i materiali oenuti per fusione dal marmo stesso: si traa di due esempi ammirevoli e mostrano quanta luce possa geare, sui suoi processi più segreti, la ben congegnata interrogazione della natura. Ma se non possiamo produrre artificialmente il fenomeno A, la conclusione è e la causa di a rimane sooposta a considerevolissimo dubbio. può darsi e A, pur essendo l’antecedente invariabile di a, non ne sia l’antecedente incondizionato, ma lo preceda come il giorno precede la noe, o la noe il giorno. est’incertezza sorge dall’impossibilità di dare a noi stessi la sicurezza e A è il solo antecedente immediato comune ad entrambi i casi. Se potessimo essere sicuri di aver accertato tui gli antecedenti invariabili, potremmo ane essere sicuri e tra essi si deve trovare, da quale parte, l’antecedente incondizionato e invariabile, ossia la causa. Sfortunatamente, a meno e il fenomeno non sia uno di quelli e possiamo riprodurre artificialmente, è praticamente impossibile accertare tui gli antecedenti. E ane quando possiamo riprodurre il fenomeno, la difficoltà risulta semplicemente alleggerita, ma non eliminata: gli uomini sapevano come sollevare l’acqua per mezzo delle pompe molto tempo prima di aver prestato aenzione a quella e era, realmente, la circostanza e operava nei mezzi da loro impiegati; cioè, la pressione dell’atmosfera sulla superficie esposta dell’acqua. Comunque, è molto più facile analizzare completamente un insieme di disposizioni fae da noi stessi, e non l’intiera massa degli agenti e accade e la natura stia meendo in opera nel momento in cui si produce un determinato fenomeno. In un esperimento

compiuto con una macina elerostatica, può darsi e trascuriamo alcune circostanze rilevanti, ma alla peggio dovremmo averne una conoscenza direa migliore di quella e abbiamo delle circostanze di una tempesta. Il modo, e abbiamo ora preso in esame, per scoprire e provare le leggi di natura, procede sulla base dell’assioma seguente: tue quelle circostanze e possono essere escluse senza pregiudizio per il fenomeno, o e possono essere assenti, nonostante il fenomeno sia presente, non sono connesse causalmente con il fenomeno. Eliminate così le circostanze casuali, se ne rimane una sola, quest’una è la causa e stavamo cercando: se ne rimane più d’una, allora quelle e rimangono sono la causa, o contengono, tra esse, la causa; lo stesso vale, mutatis mutandis, per l’effeo. Poié questo metodo procede confrontando casi differenti allo scopo di accertare in e cosa concordino, l’ho iamato metodo della concordanza. Come principio regolatore di tale metodo possiamo adoare il seguente canone: PRIMO CANONE. Se due o più casi del fenomeno che stiamo indagando hanno solo una circostanza

in

comune,

la

sola

circostanza

per

la

quale

tutti

i

casi

concordano è la causa (o l’effetto) del fenomeno dato.

Lasciando per ora da parte il metodo della concordanza (al quale, peraltro, ritorneremo quasi immediatamente), procediamo ora a prendere in considerazione uno strumento ancor più potente per l’indagine della natura: il metodo della differenza. 2. Nel metodo della concordanza abbiamo tentato di oenere casi e concordassero rispeo alla circostanza data, ma differissero rispeo ad ogni altra: in questo metodo, al contrario, abbiamo bisogno di due casi e si somiglino per qualsiasi altro aspeo, ma differiscano rispeo alla presenza o all’assenza del fenomeno e desideriamo studiare. Se il nostro scopo è quello di scoprire gli effei di un agente, A, dobbiamo procurarci A in un certo insieme di circostanze note, come A B C, e, dopo aver annotato gli effei e esso ha prodoo, dobbiamo paragonarli con l’effeo delle circostanze e rimangono, B C, quando A è assente. Se l’effeo di A B C è a b c, e l’effeo di B C è b c, è evidente e l’effeo di A è a. Ancora, se

cominciamo dall’altro capo e desideriamo indagare la causa di un effeo a, dobbiamo scegliere un caso, come a b c, in cui l’effeo compare e in cui gli antecedenti siano A B C, e dobbiamo andare alla ricerca di un altro caso, in cui le circostanze rimanenti, b c, si presentino senza a. Se in questo caso gli antecedenti sono B C, sappiamo e la causa di a dev’essere A: o da sola o in congiunzione con qualcuna delle altre circostanze presenti. È praticamente superfluo dare esempi di un processo logico al quale siamo debitori di quasi tue le conclusioni induive e tiriamo nella nostra vita di ogni giorno. ando un uomo viene ferito da una fucilata al cuore, è proprio grazie a questo metodo e veniamo a sapere e quello e l’ha ucciso è stato il colpo di fucile: infai, immediatamente prima e gli sparassero quell’uomo si trovava nella pienezza della propria vita, e tue le circostanze, all’infuori della ferita, sono le medesime. Gli assiomi implicati da questo metodo sono, evidentemente, i seguenti. Tui quegli antecedenti e non possono essere esclusi senza impedire e il fenomeno accada, sono la causa, o una condizione, del fenomeno. Tui quei conseguenti e possono essere esclusi senza e negli antecedenti si verifiino altre differenze e non siano l’assenza di un particolare antecedente, sono l’effeo di quel solo antecedente. Invece di confrontare differenti casi di un fenomeno per scoprire in e cosa concordino, questo metodo mee a confronto un caso in cui il fenomeno accade con un caso in cui non accade, per scoprire in e cosa differiscano i due casi. Il canone, e funge da principio regolatore del metodo della differenza, può essere espresso nel modo seguente: SECONDO CANONE. Se un caso in cui il fenomeno che stiamo indagando accade e un caso in cui non accade hanno tutte le circostanze in comune eccettuata una e quest’una si presenta soltanto nel primo caso, quella sola circostanza in cui i due casi differiscono è l’effetto, o la causa, o una parte indispensabile della causa del fenomeno.

3. I due metodi e abbiamo ora formulato si somigliano per molte caraeristie, ma tra di essi ci sono ane molte differenze. Entrambi sono metodi di eliminazione. esto termine (impiegato nella teoria delle

equazioni per denotare il processo mediante il quale gli elementi di un problema vengono esclusi l’uno dopo l’altro, cosicé la soluzione del problema si fa dipendere da una relazione fra i soli elementi e permangono) è ben adao ad esprimere l’operazione, analoga a questa, e fin dal tempo di Bacone è stata ritenuta fondamento della ricerca sperimentale: l’esclusione successiva delle varie circostanze e accompagnano un fenomeno in un caso dato, esclusione e ha lo scopo di accertare quali, tra di esse, possono essere assenti compatibilmente con l’esistenza del fenomeno. Il metodo della concordanza riposa sul fondamento e tuo quello e può essere eliminato non è connesso col fenomeno da alcuna legge. Il metodo della differenza ha, come suo fondamento, e tuo quello e non può essere eliminato è connesso col fenomeno da una legge. Il metodo della differenza ha, come suo fondamento, e tuo quello e non può essere eliminato è connesso col fenomeno da una legge. Di questi due metodi, quello della differenza è, più in particolare, un metodo di esperimento artificiale, mentre quello della concordanza è, più specialmente, la risorsa e si impiega dove la sperimentazione è impossibile. Basteranno poe considerazioni per provare questo fao e meerne in evidenza la ragione. È parte essenziale del caraere specifico del metodo della differenza e la natura delle combinazioni, di cui esso ha bisogno, sia definita molto più rigorosamente di quanto non lo sia nel metodo della concordanza. I due casi e devono essere confrontati fra loro devono essere esaamente simili in tue le circostanze, ecceuata quella sola su cui stiamo tentando di indagare: devono essere nella relazione di A B C e B C o di a b c e b c. È vero e non è necessario e la somiglianza delle circostanze si estenda a quelle circostanze di cui si sa già e non hanno importanza per il risultato. E nel caso della maggior parte dei fenomeni impariamo subito, dall’esperienza più comune, e quasi tui i fenomeni coesistenti dell’universo possono essere presenti o assenti senza e questo modifii il fenomeno dato; ossia, e la loro eventuale presenza è indifferente all’accadere o al non accadere del fenomeno. Tuavia, ane limitando l’identità e deve pur esserci tra i due casi A B C e B C a circostanze tali e non si sappia già e sono indifferenti, è molto raro e la natura ci fornisca due casi di cui possiamo essere sicuri e stanno l’uno con l’altro in questa precisa relazione. Generalmente nelle operazioni spontanee della natura c’è una tale complicazione e una tale oscurità e le operazioni stesse sono per lo più compiute o su scala così

incommensurabilmente larga o su scala così inaccessibilmente piccola, e noi ignoriamo una parte così grande dei fai e hanno realmente luogo (e ane i fai e non ignoriamo sono tanti ed è perciò così infrequente e due casi qualsiasi siano esaamente simili), e di solito non è possibile trovare un esperimento spontaneo, del genere di quello riiesto dal metodo della differenza. ando, al contrario, oeniamo un fenomeno per mezzo di un esperimento artificiale, la coppia di casi di cui il metodo ha bisogno si oiene quasi automaticamente puré il fenomeno non duri troppo a lungo. Prima e cominciassimo l’esperimento esisteva già un certo stato di circostanze di contorno: sia questo stato B C. Introduciamo poi A, ad esempio limitandoci a portare un oggeo in un’altra parte della stanza prima e ci sia tempo e negli altri elementi abbiano luogo mutamenti. In breve (come osserva il signor Comte) è la stessa natura di un esperimento a introdurre nello stato delle circostanze preesistenti un cambiamento perfeamente definito. Scegliamo uno stato di cose precedente col quale abbiamo una perfea familiarità, cosicé sia improbabile e un’alterazione imprevista dello stato passi inosservata, e in esso introduciamo con la massima rapidità possibile il fenomeno e desideriamo studiare, in modo da essere autorizzati, in generale, a sentirci perfeamente sicuri e lo stato preesistente e lo stato e abbiamo prodoo non differiscono in nulla se non nella presenza o nell’assenza di quel fenomeno. Se si tira un uccello fuori da una gabbia e lo si immerge immediatamente in un gas di acido carbonico, lo sperimentatore può ritenersi pienamente sicuro (in ogni caso, dopo una o due ripetizioni) e nel fraempo non è sopravvenuta nessuna circostanza capace di causare soffocazione, se si ecceua il cambiamento dall’immersione nell’atmosfera all’immersione nel gas di acido carbonico. Tuavia, in alcuni casi di questo genere può restare un dubbio: e l’effeo possa essere stato prodoo non dal cambiamento ma dai mezzi e abbiamo impiegato allo scopo di produrre il cambiamento. Comunque, la possibilità di quest’ultima supposizione può in generale essere controllata in maniera conclusiva per mezzo di altri esperimenti. È pertanto iaro e nello studio delle varie specie di fenomeni e possiamo modificare o controllare con la nostra azione volontaria, possiamo soddisfare, in generale, le esigenze del metodo della differenza, mentre dalle operazioni spontanee della natura tali esigenze sono soddisfae solo raramente. Con il metodo della concordanza accade invece il contrario. i non esigiamo casi così speciali e così ben definiti. Per gli scopi di questo metodo

si possono prendere in esame casi qualsiasi, a nostro piacimento, in cui la natura ci presenti un fenomeno; e se tutti questi casi concordano in qualcosa, si raggiunge già una conclusione di considerevole valore. Raramente possiamo essere sicuri e questo punto di concordanza è l’unico; però, contrariamente a quanto accade col metodo della differenza, quest’ignoranza non vizia la conclusione; la certezza del risultato, fin dove arriva, non ne è affea. Per quanto numerosi siano gli altri antecedenti o gli altri conseguenti e restano ancora da determinare, abbiamo accertato un antecedente, o un conseguente, invariabile. Se A B C, A D E, A F G sono tui egualmente seguiti da a, allora a è un conseguente invariabile di A. Se a b c, a d e, a f g, annoverano tui A tra i loro antecedenti, allora A è connesso come antecedente con a da quale legge invariabile. Ma allo scopo di determinare se quest’antecedente invariabile sia una causa, o questo conseguente invariabile sia un effeo, dobbiamo, in più, essere in grado di produrre l’uno per mezzo dell’altro o almeno di oenere quel solo e ci dia la sicurezza e abbiamo prodoo qualcosa: cioè, un caso in cui l’effeo, a, è venuto ad esistere senza e nelle circostanze preesistenti avessero avuto luogo altri cambiamenti e non fossero l’aggiunta di A. E questa, se possiamo farla, è un’applicazione del metodo della differenza, non del metodo della concordanza. È dunque iaro e solo col metodo della differenza possiamo comunque arrivare con certezza alle cause per via di esperienza direa. Il metodo della concordanza conduce solo a quelle e alcuni autori iamano leggi dei fenomeni (ma, dal momento e le leggi di causazione sono ane leggi dei fenomeni, questa denominazione è impropria): cioè, a uniformità e o non sono leggi di causazione o sono tali e la questione della causazione deve, per il momento, rimanere indecisa. Al metodo della concordanza si deve far ricorso soprauo come a un mezzo e suggerisca applicazioni del metodo della differenza (così come, nell’ultimo esempio, il confronto di A B C, A D E, A F G ha suggerito e A era l’antecedente sul quale tentare l’esperimento se potesse produrre a), oppure come a una risorsa inferiore, nel caso e non si possa applicare il metodo della differenza: cosa, quest’ultima, e come abbiamo mostrato prima trova generalmente la sua origine nell’impossibilità di produrre artificialmente i fenomeni. Ed ecco peré il metodo della concordanza, pur essendo in linea di principio applicabile in entrambi i casi, è, in modo più eminente, il metodo per indagare su quei soggei su cui è

impossibile la sperimentazione artificiale; infai questo metodo è generalmente la sola risorsa di natura direamente induiva e possiamo applicare a tali soggei. Invece nei fenomeni e possiamo produrre a nostro piacimento, il metodo della differenza fornisce generalmente un processo più efficace sia per accertare le cause sia per accertare le leggi pure e semplici. 4. Comunque ci sono molti casi in cui, pur essendo completo il nostro potere di produrre il fenomeno, il metodo della differenza non può affao essere reso disponibile oppure non può essere reso disponibile se prima non s’impiega il metodo della concordanza. Ciò accade quando l’azione per mezzo della quale possiamo produrre il fenomeno non è quella di un singolo antecedente, ma quella di una combinazione di antecedenti e non abbiamo alcun potere di separare l’uno dall’altro e di esibire separatamente. Per esempio, supponiamo e l’oggeo della ricerca sia la causa della doppia rifrazione della luce. Possiamo produrre questo fenomeno a nostro piacere impiegando una qualsiasi delle molte sostanze di cui sappiamo e rifrangono la luce in quel modo particolare. Ma se prendiamo una di quelle sostanze (come, ad esempio, il feldspato d’Islanda) e vogliamo determinare da quale proprietà del feldspato d’Islanda dipenda questo notevole fenomeno, non possiamo far uso, per questo scopo, del metodo della differenza; infai non possiamo trovare un’altra sostanza e somigli esaamente al feldspato d’Islanda tranne e per quale proprietà. perciò, l’unico modo per proseguire questa ricerca è quello fornito dal metodo della concordanza; infai proprio grazie a questo metodo si accertò, confrontando tue le sostanze note e avevano la proprietà di rifrangere doppiamente la luce, e tali sostanze concordavano rispeo alla circostanza dell’essere sostanze cristalline; e sebbene non valga l’inversa — cioè, sebbene non tue le sostanze cristalline abbiano la proprietà della doppia rifrazione — si concluse, a ragione, e tra queste due proprietà esiste una connessione reale: e una delle condizioni della doppia rifrazione è o la struura cristallina o la causa e dà origine a questa struura. Da quest’impiego del metodo della concordanza trae origine una modificazione tua particolare di quel metodo, modificazione e talvolta è di grande utilità nell’indagine della natura. Nei casi simili a quello menzionato sopra, in cui non è possibile oenere proprio la coppia di casi riiesta dal nostro secondo canone — e si traa di casi e concordano in ogni antecedente ecceuato A o in ogni conseguente ecceuato a — può

darsi tuavia e siamo in grado, impiegando due volte il metodo della concordanza, di scoprire in e cosa i casi e contengono A o a diflferiscano dai casi e non li contengono. Se confrontiamo diversi casi in cui a compare, e troviamo e tui hanno in comune la circostanza A e (per quanto possiamo osservare) non ne hanno in comune nessun’altra, allora, in questa misura, il metodo della concordanza testimonia di una connessione fra A e a. Allo scopo di convertire, col metodo direo della differenza, questa testimonianza di connessione in una prova di causazione dovremmo essere in grado di lasciar fuori A da alcuni di questi casi (ad esempio in A B C) e di osservare se così facendo si impedisce l’aver luogo di a. Ora, ane supponendo di non essere in grado di tentare quest’esperimento decisivo (cosa, questa, e accade spesso), il vantaggio sarà il medesimo puré possiamo in quale modo scoprire quale sarebbe il risultato se potessimo tentare l’esperimento. Supponiamo poi di osservare diversi e svariati casi in cui a non compare e di trovare e concordano in quanto non contengono A, così come prima avevamo esaminato diversi e svariati casi in cui a compariva e avevamo trovato e concordavano in quanto contenevano A. Per il metodo della concordanza ciò stabilisce tra l’assenza di A e l’assenza di a la stessa connessione e prima era stata stabilita tra la loro presenza. Come in quel caso si era mostrato e ogni volta e è presente A è presente ane a, così, avendo mostrato ora e quando si toglie A si toglie, insieme con esso, ane a, per la proposizione A B C, a b c e per l’altra B C, b c troviamo i casi positivi e negativi riiesti dal metodo della differenza. esto metodo può essere iamato il metodo indireo della differenza, o il metodo congiunto della concordanza e della differenza, e consiste in un doppio impiego del metodo della concordanza, ciascuna prova essendo indipendente dall’altra e ciascuna corroborando l’altra. Non è però equivalente a una prova condoa con il metodo direo della differenza. Infai le esigenze fae valere dal metodo della differenza non risultano soddisfae a meno e non possiamo essere ben sicuri o e i casi affermativi di a non hanno in comune alcun antecedente ecceuato A, o e i casi negativi di a non hanno in comune nulla ecceo la negazione di A. Ora, se fosse possibile avere questa sicurezza (ma possibile non è mai), non dovremmo aver bisogno del metodo congiunto: infai uno qualsiasi dei due

insiemi di casi, preso separatamente, sarebbe sufficiente a provare la causazione. esto metodo indireo, perciò, può essere considerato soltanto come una grande estensione e un grande miglioramento del metodo della concordanza, ma non come partecipe della natura più costriiva del metodo della differenza. Il suo canone può essere enunciato nel modo seguente: TERZO CANONE. Se due o più casi in cui il fenomeno accade hanno soltanto una circostanza in comune, mentre due o più casi in cui il fenomeno non accade non hanno nulla in comune eccettuata l’assenza di quella circostanza, allora quell’unica circostanza, rispetto alla quale i due insiemi di circostanze differiscono, è l’effetto, o la causa, o una parte indispensabile della causa del fenomeno.

Mostreremo subito e il metodo congiunto della concordanza e della differenza costituisce, per un altro aspeo a cui non si è ancora accennato, un miglioramento nei confronti del comune metodo della concordanza: costituisce un miglioramento peré non è influenzato da un’imperfezione caraeristica di quel metodo, la natura della quale dobbiamo ancora meere in evidenza. Ma siccome non possiamo addentrarci in quest’esposizione senza introdurre un nuovo elemento di complessità in una discussione così lunga e intricata, la rimanderò a uno dei prossimi capitoli e procederò subito all’enunciazione di due altri metodi. Con questo L’enumerazione dei mezzi e L’umanità possiede per esplorare le leggi di natura con l’osservazione e l’esperienza specifie sarà completa. 5. Il primo di questi metodi è stato opportunamente denominato metodo dei residui. Il suo principio è molto semplice. Soraendo da ogni fenomeno dato tue le parti e, in virtù di induzioni precedenti, possono farsi risalire a cause note, quello e resta sarà l’effeo degli antecedenti e si sono trascurati, o il cui effeo era ancora una quantità sconosciuta. Supponiamo, come prima, di avere gli antecedenti A B C, seguìti dai conseguenti a b c, e di aver accertato le cause di alcuni di questi effei o gli effei di alcune di queste cause con induzioni precedenti (fondate, poniamo, sul metodo della differenza); e supponiamo di aver appreso, di qui, e l’effeo di A è a e l’effeo di B è b. Soraendo la somma di questi effei dal

fenomeno to tale, rimane c, di cui ora possiamo sapere, senza bisogno di nuovi esperimenti, e è l’effeo di C. esto metodo dei residui è, per la verità, una modificazione particolare del metodo della differenza. Se avessimo potuto confrontare il caso A B C, a b c con un caso singolo A B, a b, avremmo provato grazie al procedimento comune del metodo della differenza e C è la causa di c. Ma in quest’occasione, invece di un caso singolo, A B, abbiamo dovuto studiare separatamente le cause A e B e inferire, dagli effei e producono separatamente, quale effeo debbano produrre nel caso A B C, in cui agiscono insieme. Pertanto, dei due casi riiesti dal metodo della differenza — l’uno positivo, l’altro negativo — il caso negativo (quello cioe in cui il fenomeno dato è assente) non è il risultato direo di un’osservazione o di un esperimento, ma è stato raggiunto per mezzo della deduzione. In quanto è una delle forme del metodo della differenza, il metodo dei residui partecipa della sua rigorosa certezza puré le induzioni precedenti — e hanno dato gli effei A e B — siano state oenute con lo stesso metodo infallibile, e puré siamo certi e C è l’unico antecedente a cui si può far risalire il fenomeno residuo c, l’unico agente di cui non avessimo già calcolato e sorao l’effeo. Ma siccome non possiamo mai esserne perfeamente certi, la prova derivata dal metodo dei residui non è completa, a meno e non possiamo oenere C separatamente e meerlo alla prova separatamente; o a meno e della sua azione, una volta e ci sia stata suggerita, non si possa rendere conto in base a leggi note o non se ne possa dare una prova deduiva fondata su tali leggi. Ane con queste riserve, il metodo dei residui è uno dei più importanti fra i nostri strumenti di scoperta. Di tui i metodi per indagare le leggi di natura questo è il più fertile di risultati inaesi, peré spesso ci informa di sequenze in cui né la causa né l’effeo erano sufficientemente cospicui da ararre, da soli, l’aenzione degli osservatori. L’agente C può essere una circostanza oscura e aveva ben poe probabilità di imporsi alla nostra aenzione a meno e non andassimo a cercarla, e e aveva ben poe probabilità di essere cercata a meno e la nostra aenzione non fosse stata risvegliata dal fao e le cause evidenti erano insufficienti a rendere conto dell’effeo nella sua totalità. E c può essere così smaserato dalla sua commistione con a e b, e ben difficilmente si sarebbe presentato spontaneamente come oggeo di studio a sé. Presto citeremo alcuni notevoli

esempi di questi usi del metodo. Intanto ecco il canone del metodo dei residui: QUARTO CANONE. Si sottragga da un fenomeno quella parte che, da induzioni precedenti, si sa essere l’effetto di certi antecedenti: il residuo del fenomeno sarà l’effetto degli antecedenti che restano.

6. Resta una classe di leggi e nessuno dei tre metodi e ho tentato di caraerizzare è in grado di accertare: si traa delle leggi di quelle cause permanenti, o agenti naturali indistruibili, e è impossibile escludere o isolare; a cui non possiamo impedire di essere presenti, e e non possiamo fare in modo e siano presenti da soli. A prima vista potrebbe sembrare e ci sia assolutamente impossibile separare gli effei di questi agenti dagli effei di quegli altri fenomeni coi quali non possiamo impedirgli di coesistere. In realtà, per quanto riguarda la maggior parte delle cause permanenti, non s’incontra nessuna difficoltà di questo genere; infai, ane se non possiamo eliminarli in quanto fai coesistenti, possiamo eliminarli in quanto agenti e esercitano la loro influenza, semplicemente tentando l’esperimento in una situazione locale e sia soraa alla loro influenza. Per esempio, le oscillazioni del pendolo sono disturbate dalla vicinanza di una montagna: se portiamo il pendolo a distanza sufficiente dalla montagna il disturbo cessa: da questi dati possiamo determinare col metodo della differenza quanto dell’effeo sia realmente dovuto alla montagna; e oltre una certa distanza tuo procede esaamente come procederebbe se la montagna non esercitasse alcuna influenza; di conseguenza, abbiamo ragioni sufficienti per concludere e le cose stanno proprio così. Pertanto, la difficoltà e s’incontra nell’applicare i metodi di cui abbiamo già traato alla determinazione degli effei delle cause permanenti, è limitata ai casi in cui ci è impossibile uscire dai limiti locali della loro influenza. Il pendolo può essere sorao all’influenza della montagna, ma non può essere sorao all’influenza della Terra; se vogliamo accertare se il pendolo continuerà a oscillare una volta e si sia esclusa l’influenza e la Terra esercita su di esso, non possiamo portar via la Terra dal pendolo, né possiamo portar via il pendolo dalla Terra. Ma allora, in base a quali prove facciamo risalire le sue oscillazioni all’influenza della Terra? Non in base a

quale prova consacrata dal metodo della differenza, peré manca uno dei due casi, cioè il caso negativo. E neppure col metodo della concordanza, peré, ane se tui i pendoli vanno d’accordo nel fao e durante le loro oscillazioni la Terra è sempre presente, peré non possiamo con egual dirio imputare l’effeo al Sole, e, non meno della Terra, è un fao coesistente in tui gli esperimenti? È evidente e allo scopo di stabilire ane un fao di causazione semplice come questo, oltre ai metodi e abbiamo già esaminato è indispensabile impiegare quale altro metodo. Per dare un altro esempio, prendiamo il fenomeno del calore. Indipendentemente da tue le ipotesi a proposito della natura reale dell’agente e iamiamo così, un fao è certo: e non siamo in grado di privare un corpo di tuo il suo calore. È egualmente certo e mai nessuno ha percepito calore e non emanasse da un corpo. Non essendo perciò in grado di separare corpo e calore, non possiamo realizzare quella variazione nelle circostanze riiesta dai tre metodi precedenti; con questi metodi non possiamo accertare quale parte dei fenomeni manifestati da un corpo siano dovuti al calore contenuto nel corpo. Se potessimo osservare un corpo insieme col suo calore, e lo stesso corpo interamente privo di calore, allora il metodo della differenza mostrerebbe l’effeo dovuto al calore a parte da quello dovuto al corpo. Se potessimo osservare il calore in circostanze e non avessero in comune nulla ecceuato il calore, e perciò non fossero caraerizzate neppure dalla presenza di un corpo, col metodo della concordanza potremmo accertare gli effei del calore partendo da un caso di calore con un corpo e da un caso di calore senza corpo; oppure, volendolo, col metodo della differenza potremmo determinare quale effeo sia dovuto al corpo mentre il resto, e è dovuto al calore, ci sarebbe dato dal metodo dei residui. Ma non possiamo fare nessuna di queste cose, e senza di esse l’applicazione di uno qualsiasi di questi tre metodi alla soluzione di questi problemi sarebbe illusoria. Sarebbe ozioso, ad esempio, tentar di accertare l’effeo del calore provando a sorarre dai fenomeni manifestati da un corpo tuo quello e è dovuto alle altre sue proprietà; infai, siccome non ci è mai stato possibile osservare corpi e non avessero in sé un po’ di calore, può darsi e gli effei dovuti a quel calore formino una parte degli stessi risultati e ci proponiamo di sorarre peré il residuo possa mostrare l’effeo del calore. Perciò, se ci fossero solo questi tre metodi di indagine sperimentale, non saremmo mai capaci di determinare gli effei dovuti alla causa calore. Ma

abbiamo ancora una risorsa. Ane se non possiamo escludere del tuo un antecedente, possiamo forse produrre, o forse la natura può produrre per noi, quale modificazione in quest’antecedente. Per modificazione si intende qui un cambiamento nell’antecedente, e non equivalga alla rimozione totale dell’antecedente stesso. Se una certa modificazione nell’antecedente A è sempre seguìta da un cambiamento nel conseguente a, mentre gli altri conseguenti b e c rimangono gli stessi; o, viceversa, se si trova e ogni cambiamento in a è stato preceduto da quale modificazione in A, mentre in nessuno degli altri antecedenti è dato osservare una modificazione, allora possiamo concludere senza pericolo e a è in tuo o in parte un effeo riconducibile ad A, o almeno è connesso in quale modo con A per causazione. Ad esempio, nel caso del calore non possiamo eliminare completamente il calore da un corpo, però possiamo modificarne la quantità aumentandola o diminuendola: così facendo, grazie ai vari metodi di sperimentazione o di osservazione di cui abbiamo già traato, troviamo e quest’aumento o questa diminuzione di calore è seguito da un’espansione o da una contrazione del corpo. In questa maniera arriviamo alla conclusione, e ci sarebbe altrimenti negata, e uno degli effei del calore è la dilatazione delle dimensioni dei corpi; o, il e è la stessa cosa espressa in parole diverse, la dilatazione della distanza tra le loro particelle. Un cambiamento in una cosa, e non equivalga alla rimozione totale della cosa stessa — cioè, un cambiamento in séguito al quale la cosa rimanga ancora la stessa cosa — dev’essere o un cambiamento nella sua quantità o un cambiamento in alcune delle sue relazioni variabili con altre cose: la principale di queste relazioni variabili è la posizione nello spazio. Nell’esempio precedente, la modificazione prodoa nell’antecedente era un’alterazione quantitativa. Supponiamo ora e la questione sia: quale influenza la Luna eserciti sulla superficie della Terra. Non possiamo tentare un esperimento in assenza della Luna così da osservare a quali fenomeni terrestri porrebbe fine la distruzione della Luna; ma quando troviamo e tue le variazioni nella posizione della Luna sono seguite da variazioni corrispondenti nel tempo e nel luogo dell’alta marea, il luogo essendo sempre o sul lato della Terra più vicino alla Luna o su quello più lontano, abbiamo ampie prove del fao e la Luna è, in tuo o in parte, la causa e determina le maree. Accade molto comunemente, come accade in questo caso, e le variazioni di un effeo siano corrispondenti, o analoghe, a quelle

della sua causa; come la Luna si sposta verso Est, si sposta verso Est ane il punto di alta marea. Ma questa non è una condizione indispensabile, come si può vedere dal medesimo esempio: infai, insieme con quel punto d’alta marea c’è, nel medesimo istante, un altro punto di alta marea diametralmente opposto al primo e e perciò si sposta necessariamente verso Ovest man mano e la Luna avanza verso Est seguìta dall’onda di marea più vicina; e tuavia entrambi questi moti sono egualmente effei del movimento della Luna. Che le oscillazioni del pendolo siano causate dalla Terra si prova con argomenti simili. Tali oscillazioni hanno luogo tra punti equidistanti situati alle due estremità di una linea e, essendo perpendicolare alla Terra, varia ad ogni variazione della posizione della Terra, sia nello spazio sia relativamente all’oggeo. Rigorosamente parlando, soltanto con il metodo ora caraerizzato veniamo a sapere e tui i corpi terrestri tendono al centro della Terra e non a quale ignoto punto fisso e giace sulla medesima direzione. A causa della rotazione terrestre, ogni ventiquar’ore la rea condoa perpendicolarmente dal corpo alla Terra coincide successivamente con tui i raggi di un cerio, e nel corso di sei mesi il luogo in cui è situato quel cerio varia di quasi duecento milioni di miglia; tuavia, in tui questi cambiamenti della posizione della Terra, la linea secondo la quale i corpi tendono a cadere continua ad essere direa verso il centro della Terra: questo prova e la gravità terrestre è direa al centro della Terra e non, come qualcuno fantasticava un tempo, verso un punto fisso dello spazio. Il metodo grazie al quale si sono oenuti questi risultati può essere iamato il Metodo delle variazioni concomitanti. È regolato dal seguente canone: QUINTO CANONE. Qualunque fenomeno, che vari in un modo qualsiasi ogni volta che un altro fenomeno varia in qualche modo particolare, è una causa o un effetto di quel fenomeno, o è connesso a quel fenomeno mediante qualche fatto di causazione.

Si è aggiunta l’ultima clausola, peré dal fao e le variazioni di due fenomeni si accompagnano l’una all’altra, non segue affao e un

fenomeno sia la causa e l’altro fenomeno sia l’effeo. La stessa cosa può, e anzi deve accadere, se si suppone e i due fenomeni siano due effei differenti di una causa comune: e con questo metodo da solo non sarebbe mai possibile accertare quale delle due supposizioni sia quella vera. L’unico modo per sciogliere questo dubbio sarebbe quello a cui abbiamo già fao cenno più volte: quello, cioè, e consiste nel tentar di accertare se possiamo produrre un insieme di variazioni per mezzo dell’altro. Per esempio, nel caso del calore, aumentando la temperatura del corpo ne aumentiamo il volume, ma aumentandone il volume non ne aumentiamo la temperatura, anzi (come accade nella rarefazione dell’aria e ha luogo nell’aspiratore di una pompa peumatica) in genere la diminuiamo. Perciò il calore non è un effeo, ma una causa, dell’aumento di volume. Se non possiamo produrre le variazioni da noi stessi, dobbiamo tentare — ane se questo tentativo ben raramente conduce al successo — di trovarle già bell’e prodoe dalla natura in quale caso in cui le circostanze preesistenti ci sono perfeamente note. È quasi superfluo dire e per accertare la concomitanza uniforme delle variazioni dell’effeo con le variazioni della causa si devono usare le stesse precauzioni e si usano in ogni altro caso in cui si debba determinare una sequenza invariabile. Mentre quell’antecedente particolare viene sooposto alla serie di variazioni riiesta dobbiamo sforzarci di mantenere invariati tui gli altri antecedenti: in altre parole, peré dalla concomitanza delle variazioni possiamo essere autorizzati a inferire la causazione, la concomitanza stessa dev’essere provata col metodo della differenza. A prima vista potrebbe sembrare e il metodo delle variazioni concomitanti presupponga un nuovo assioma, o legge di causazione in generale; l’assioma, cioè, e ogni modificazione della causa è seguìta da un cambiamento nell’effeo. E in effei accade di solito e quando un fenomeno A causa un fenomeno a, qualsiasi variazione nella quantità o nelle diverse relazioni di A sia seguìta uniformemente da una variazione nella quantità o nelle relazioni di a. Prendiamo un esempio familiare, quello della gravitazione. Il Sole causa, nella Terra, una certa tendenza al moto: qui abbiamo causa ed effeo; ma questa tendenza è direa verso il Sole, e perciò la sua direzione varia col variare della relazione di posizione del Sole; inoltre la tendenza varia in intensità, secondo una certa corrispondenza numerica con la distanza del Sole dalla Terra, cioè, secondo un’altra relazione del Sole. Vediamo così e non solo tra il Sole e la gravitazione della Terra c’è una connessione invariabile, ma e due delle relazioni del Sole — la sua

posizione relativamente alla Terra e la sua distanza dalla Terra — sono invariabilmente connesse, come antecedenti, con la quantità e la direzione della gravitazione della Terra. La causa per cui la Terra gravita invece di non gravitare è, semplicemente, il Sole; ma la causa per cui gravita con una data intensità e in una data direzione è l’esistenza del Sole in una data direzione e a una data distanza. Non è strano e una causa modificata, e in realtà è una causa differente, debba produrre un effeo differente. Pur essendo in massima parte vero e una modificazione della causa è seguita da una modificazione dell’effeo, il metodo delle variazioni concomitanti non lo presuppone come assioma. Tale metodo esige soltanto la proposizione inversa: e tuo ciò dalle cui modificazioni conseguono invariabilmente modificazioni di un effeo dev’essere la causa (o dev’essere connesso con la causa) di quell’effeo; proposizione, questa, la cui verità è evidente. Infai, se la cosa, in sé stessa, non avesse alcuna influenza sull’effeo, non potrebbero averla neppure le modificazioni della cosa. Il fao e le stelle non hanno alcun potere sulle fortune degli uomini, implica ex terminis e congiunzioni od opposizioni di stelle differenti non possono avere tale potere. Ane se le applicazioni più appariscenti del metodo delle variazioni concomitanti si hanno nei casi in cui è impossibile applicare il metodo della differenza in senso streo, tuavia l’uso di questo metodo non è confinato a quei casi; spesso può essere usato utilmente dopo e si è usato il metodo della differenza, per aggiungere precisione a una soluzione e abbiamo già trovato con quell’altro metodo. Dopo aver accertato col metodo della differenza e un certo oggeo produce un certo effeo, il metodo delle variazioni concomitanti può essere utilmente iamato in causa per determinare secondo quale legge la quantità, o le differenti relazioni dell’effeo, seguano quantità e relazioni della causa. 7. esto metodo ammee l’impiego più esteso nel caso in cui le variazioni della causa siano variazioni quantititive. Di tali variazioni possiamo generalmente affermare con sicurezza non solo e saranno accompagnate da variazioni, ma ane e saranno accompagnate da variazioni simili, dell’effeo: la proposizione e una quantità maggiore della causa è seguita da una quantità maggiore dell’effeo è infai un corollario del principio della composizione delle cause e, come abbiamo visto, è la regola generale della causazione; al contrario, i casi della classe

opposta, in cui le cause cambiano le loro proprietà quando le si congiunge tra loro, sono speciali ed eccezionali. Supponiamo dunque e quando cambia la quantità di A cambi ane la quantità di a, e cambi in modo tale e possiamo rintracciare la relazione numerica in cui i cambiamenti dell’una stanno con quei cambiamenti dell’altra e hanno luogo nei limiti della nostra osservazione. Dopo aver preso certe precauzioni potremo allora concludere senza tema di smentite e oltre questi limiti continurà a valere la medesima relazione numerica. Se, ad esempio, troviamo e quando A è doppia è doppia ane a, e quando A è tripla o quadrupla, a è tripla o quadrupla, possiamo concludere e se A fosse un mezzo o un terzo, a sarebbe un mezzo o un terzo, e, infine, e se A fosse eguale a zero, lo sarebbe ane a, e e a è, in tuo e per tuo, l’effeo di A, o, in tuo e per tuo, l’effeo della stessa causa di A. E così pure per ogni altra relazione numerica secondo la quale A ed a si annullassero simultaneamente, come, ad esempio, se a fosse proporzionale al quadrato di A. Se, d’altra parte, a non è in tuo e per tuo l’effeo di A, ma tuavia varia col variare di A, allora, probabilmente, a è una funzione matematica non della sola A, ma di A e di qualcos’altro: per esempio, i suoi cambiamenti saranno tali quali avrebbero luogo se una parte di essa rimanesse costante o variasse in base a quale altro principio e il resto variasse secondo quale relazione numerica con le variazioni di A. In questo caso, quando A diminuisce, si vedrà e a non si approssima a zero ma tende a quale altro limite: e quando la serie delle variazioni è tale da indicare qual è il limite, se è costante, o la legge della variazione, se è variabile, il limite darà la misura esaa di quanta parte di a sia l’effetio di quale causa indipendente e diversa, mentre il resto sarà l’effeo di A (o della causa di A). Ma queste conclusioni non si devono trarre senza prendere certe precauzioni. In primo luogo, la stessa possibilità di trarle presuppone iaramente e si abbia conoscenza direa non soltanto delle variazioni, ma ane delle quantità assolute, di A e di a. Naturalmente, se non conosciamo le quantità totali non possiamo detrnon sappiamoeminare la relazione numerica effeiva secondo cui queste quantità variano. È pertanto un errore il concludere, come ha concluso qualcuno, e, siccome l’aumento del calore fa dilatare i corpi — cioè accresce la distanza fra le loro particelle — questa distanza è, in tuo e per tuo, effeo del calore, e e se potessimo

privare completamente il corpo del suo calore le particelle sarebbero in contao completo. esto non è nulla più e un tentativo di indovinare, ed ane dei più azzardati, e non un’induzione legiima: infai, poiè non sappiamo, né quanto calore ci sia in un corpo, né quale sia la distanza effeiva tra due qualsiasi delle sue particelle, non possiamo giudicare se la contrazione della distanza consegua o no alla diminuzione della quantità di calore secondo una relazione numerica tale e le due quantità si annullino simultaneamente. In contrasto con ciò, consideriamo ora un caso in cui le quantità assolute sono note; consideriamo, cioè, il caso contemplato nella prima legge del moto: e tui i corpi in movimento continuano a muoversi in linea rea, con velocità uniforme, finé su di essi non agisca quale nuova forza. est’asserzione si oppone apertamente alle apparenze immediate: tui gli oggei terrestri in movimento riducono gradatamente la loro velocità e alla fine si fermano; di conseguenza gli antii, con la loro inductio per enumerationem simplicem, immaginavano e questa fosse la legge. Comunque, ogni corpo in movimento incontra vari ostacoli, come l’arito, la resistenza dell’atmosfera, ecc., e, come sappiamo per esperienza quotidiana, sono cause capaci di far cessare il movimento. Si suggerì e tuo quanto il ritardo potesse essere dovuto a queste cause. Come si indagò in merito? Se gli ostacoli si fossero potuti eliminare del tuo, il caso sarebbe stato riconducibile al metodo della differenza. Però gli ostacoli non si potevano eliminare, ma solo diminuire, e perciò il caso poteva solo essere traato col metodo delle variazioni concomitanti. Avendo di conseguenza impiegato questo metodo si trovò e ogni diminuzione degli ostacoli diminuiva il ritardo del moto, e siccome in questo caso (a differenza di quanto accade nel caso del calore) le quantità totali dell’antecedente e del conseguente erano note, fu possibile stimare con un’approssimazione molto alta la quantità del ritardo e quella delle sue cause, o resistenze, e giudicare quanto prossime fossero ad esaurirsi: si vide allora iaramente e l’effeo si riduceva tanto rapidamente, e ad ogni passo era tanto vicino ad annullarsi, quanto la causa. Riducendo al massimo l’arito al punto di sospensione e facendo oscillare il corpo in uno spazio svuotato il più possibile di aria, Borda3 riuscì, nel suo esperimento, a portare a più di trenta ore l’oscillazione semplice di un grave sospeso a un punto fisso e fao muovere di poco dal suo asse, oscillazione e di solito dura soltanto poi minuti. Non si poteva quindi esitare ad aribuire all’influenza degli ostacoli il ritardo complessivo

del moto, e poié, soraendo questo ritardo dal fenomeno nella sua totalità si oeneva una velocità uniforme, ne risultò la proposizione nota come la prima legge del moto. L’inferenza, e la legge della variazione a cui le quantità ubbidiscono entro i limiti della nostra osservazione varrà ane oltre questi limiti, soffre ane di un’altra incertezza caraeristica. In primo luogo c’è, naturalmente, la possibilità e oltre quei limiti, e perciò in circostanze di cui non abbiamo nessun’esperienza direa, possa svilupparsi quale causa contraria: o un nuovo agente o una nuova proprietà degli agenti interessati e giace assopita nelle circostanze e siamo in grado di osservare. Si traa di un elemento d’incertezza e entra in larga misura nelle nostre predizioni degli effei, ma non è applicable in modo peculiare al metodo delle variazioni concomitanti. Invece l’incertezza di cui sto per parlare è caraeristica di questo metodo, specialmente nei casi in cui i limiti estremi della nostra osservazione sono molto ristrei a confronto con le variazioni possibili nella quantità dei fenomeni. Chiunque abbia una sia pur minima familiarità con la matematica sa benissimo e leggi di variazione molto differenti possono produrre risultati numerici e in limiti ristrei differiscono solo di poco l’uno dall’altro, e e spesso la differenza tra i risultati forniti da una legge o dall’altra diventa apprezzabile solamente quando le quantità assolute di variazioni sono considerevoli. Perciò, quando le variazioni nella quantità degli antecedenti e abbiamo modo d’osservare sono piccole a confronto con le quantità totali, c’è il grosso pericolo di scambiare erroneamente una legge numerica per l’altra e di essere indoi a sbagliare il calcolo delle variazioni e hanno luogo oltre questi limiti: quest’errore di calcolo vizierebbe tue le conclusioni sulla dipendenza dell’effeo dalla causa, e si fondassero su queste variazioni. Gli esempi di tali errori non fanno certo difeo. Scrive Sir John Hersel: «Le formule dell’elasticità del vapore e sono state dedoe empiricamente (fino a poissimo tempo fa), e quelle della resistenza dei fluidi e altre simili», quando gli si è prestato fede oltre i limiti delle osservazioni dalle quali sono state dedoe, «quasi invariabilmente non sono state in grado di sostenere le struure teorie eree su di esse»a. Data quest’incertezza, quando le quantità sono molto più grandi o molto più piccole di quelle e siamo arezzati per osservare, la conclusione e possiamo trarre, dalle variazioni concomitanti di a e di A all’esistenza di una connessione invariabile ed esclusiva tra di essi, o alla permanenza della stessa relazione numerica tra le loro variazioni, non si può considerare

fondata su un’induzione completa. Tuo quello e, in un caso del genere, si può considerare provato riguardo la causazione, è e esiste quale connessione tra i due fenomeni; e A, o qualcosa e può influenzare A, dev’essere una delle cause e, prese colleivamente, determinano a. Comunque possiamo ritenerci sicuri e la relazione e a quanto abbiamo osservato esiste fra le variazioni di A e a, sussisterà in tui i casi e cadono entro gli stessi limiti estremi; cioè, dovunque non si superi l’aumento o la diminuzione massimi entro i quali si è trovato, mediante l’osservazione, e il risultato coincide con la legge. I quaro metodi e abbiamo ora tentato di descrivere sono i soli modi possibili di ricerca sperimentale, di induzione direa a posteriori, in quanto distinta dalla deduzione: almeno, io non ne conosco, e non sono capace di concepirne, altri. E, come abbiamo visto, ane tra questi il metodo dei residui non è del tuo indipendente dalla deduzione pur potendo essere incluso, senza alcuna improprietà, tra i metodi di osservazione e di esperimento direi, dal momento e riiede, in più, esperienza specifica. Dunque, questi metodi, insieme con quel tanto di aiuto e possono oenere dalla deduzione, costituiscono le risorse di cui la mente umana dispone per accertare le leggi della successione dei fenomeni. Prima di procedere a meere l’accento su certe circostanze e rendono l’impiego di questi metodi enormemente più complicato e difficoltoso, sarà opportuno illustrare l’uso dei metodi con esempi trai dalle ricere fisie effeive. esti esempi costituiranno l’argomento del capitolo successivo. 1. William Hyde Wollaston (1766-1828), imico e filosofo naturale inglese; provò l’identità dell’elericità statica e di quella «voltaica»; fece parecie scoperte in imica, e sostenne la necessità di modelli tridimensionali per la disposizione geometrica degli atomi; descrisse un goniometro per la misurazione degli angoli della luce riflessa dalle sfacceature dei cristalli; apportò miglioramenti ai microscopi. Fu membro della commissione reale e si oppose all’introduzione in Inghilterra del sistema metrico decimale. 2. Sir James Hall (1761-1832), geologo e fisico scozzese. Compì approfonditi studi sulle rocce intrusive, ed è considerato il fondatore della geologia sperimentale. 3. Jean Charles de Borda (1733-1799), matematico e astronomo francese; si occupò della misurazione di un arco del meridiano, escogitando e costruendo egli stesso gli strumenti; compì ricere d’idrodinamica e di astronomia nautica. a. Discourse on the Study of Natural Philosophy, p. 179.

dCAPITOLO IX. MISCELLANEA DI ESEMPI DEI QUATTRO METODI 1. Come primo esempio sceglierò un’interessante speculazione di uno dei più eminenti imici teorici: il Barone Liebig. Lo scopo e egli si propone è l’accertamento della causa immediata della morte prodoa dai veleni metallici. L’acido arsenioso, e i sali di piombo, bismuto, rame e mercurio, introdoi nell’organismo animale distruggono la vita a meno e non siano assunti in dosi molto piccole. esti fai erano noti da molto tempo, come verità isolate del più basso ordine di generalizzazione; ma speò a Liebig, con un impiego adao dei nostri primi due metodi della ricerca sperimentale, conneere fra loro queste verità con un’induzione di ordine superiore, facendo vedere quale proprietà, comune a tue queste sostanze nocive, sia la causa realmente operante del loro effeo fatale. Se si meono soluzioni di queste sostanze in contao sufficientemente streo con molti prodoi animali — albumina, lae, fibra muscolare e membrane animali — l’acido o il sale lascia l’acqua in cui era stato sciolto ed entra in combinazione con la sostanza animale; troviamo e dopo aver subìto l’azione di queste altre sostanze la sostanza animale perde la propria tendenza alla decomposizione o putrefazione spontanea. Nei casi in cui la morte è stata prodoa da questi veleni, l’osservazione mostra ane e le parti del corpo con cui le sostanze velenose sono state portate a contao non si putrefanno. E, infine, quando sia stato somministrato in dosi troppo basse per provocare la morte, il veleno produce desquamazioni — cioè, distrugge certe parti superficiali dei tessuti — e in seguito vengono eliminate dal processo di riparazione e ha luogo nelle parti sane. esti tre insiemi di casi possono essere traati secondo il metodo della concordanza. In ciascuno di essi, i composti metallici vengono messi in contao con le sostanze e compongono il corpo umano o quello animale, e sembra e i casi non concordino in nessun’altra circostanza. Gli antecedenti e rimangono sono tanto differenti e addiriura tanto opposti quanto è possibile renderli; infai, in certi le sostanze animali esposte all’azione dei veleni sono in istato di vita, in altri solo in istato di organizzazione, in altri

neppure in questo. E qual è il risultato e segue in tui i casi? La conversione (per combinazione col veleno) della sostanza animale in un composto imico tenuto insieme da una forza così potente da resistere all’azione successiva delle cause ordinarie della decomposizione. Ora la vita organica (condizione necessaria della vita sensitiva) consiste di uno stato continuo di decomposizione e di ricomposizione dei diversi organi e dei diversi tessuti e tuo quello e li rende incapaci di decomporsi distrugge la vita. E così, la causa prossima della morte prodoa da questo tipo di veleni è accertata fin dove può accertarla il metodo della concordanza. Sooponiamo ora la nostra conclusione al controllo del metodo della differenza. Prendendo le mosse dai casi già menzionati — in cui l’antecedente è costituito dalla presenza di sostanze e formano coi tessuti un composto incapace di putrefazione (e, a fortiori, incapace delle azioni imie e costituiscono la vita) e il conseguente dalla morte dell’intiero organismo o di quale parte di esso — paragoniamo con questi casi altri casi, e somigliano ai primi il più possibile, ma in cui quell’effeo non si produce. E, prima di tuo, «si sa e molti sali basici insolubili dell’acido arsenioso non sono velenosi. La sostanza iamata alkargen1, scoperta da Bunsen2, e contiene una quantità molto alta di arsenico e la cui composizione è molto vicina a quella dei composti arseniosi organici e si trovano nel corpo, non ha la minima azione nociva sull’organismo». Ora, quando vengono portate in quale modo in contao coi tessuti, queste sostanze non si combinano con essi, non arrestano il cammino dei tessuti verso la decomposizione. Pertanto, fin dove arrivano questi esempi, è iaro e quando l’effeo è assente lo è a causa dell’assenza di quell’antecedente e avevamo già buone ragioni per considerare come la causa prossima. Ma le condizioni rigorose del metodo della differenza non sono ancora soddisfae; infai non possiamo essere sicuri e questi corpi non velenosi concordino con le sostanze velenose in ogni loro proprietà, ecceuata la proprietà particolare e consiste nel combinarsi con i tessuti animali dando luogo a un composto difficilmente decomponibile. Allo scopo di far sì e il metodo sia applicabile in modo rigoroso abbiamo bisogno di un caso in cui entri in giuoco, non già una sostanza differente, ma proprio una delle stesse sostanze, in circostanze e le impediscano di combinarsi coi tessuti formando il genere di composto in questione; allora, se non sopravviene la morte, il nostro caso è completo. Ora questi casi sono forniti dagli antidoti ai dei veleni. Ad esempio, in caso di avvelenamento da acido arsenioso, se ne

arresta istantaneamente l’azione distruiva somministrando perossido idrato di ferro. Ora, si sa e questo perossido si combina con l’acido e forma un composto e, essendo insolubile, non può agire affao sui tessuti animali. così pure, lo zucero è un ben noto antidoto all’avvelenamento da sali di rame; e lo zucero riduce questi sali trasformandoli o in rame metallico o nel soossido rosso — sostanze, queste due, delle quali nessuna si combina con i tessuti animali. Il male iamato colica dell’imbianino, così comune nelle manifaure di biacca, è sconosciuto dove gli operai sono abituati a prendere, come preventivo, limonata di acido solforico (una soluzione di zucero resa acida da acido solforico). Ora l’acido solforico diluito ha la proprietà di scindere tui i composti e il piombo forma con la materia organica, o di prevenirne la formazione. C’è un’altra classe di casi, della natura riiesta dal metodo della differenza, e a prima vista sembra in conflio con la teoria. I sali solubili d’argento, quali ad esempio il nitrato d’argento, hanno, sulle sostanze animali in decomposizione, lo stesso effeo antiseico e irrigidente del sublimato corrosivo e dei veleni metallici più mortali, e quando lo si applica alle parti esterne del corpo, il nitrato è un caustico potente e priva quelle parti di ogni aività vitale e causa il loro rigeo, soo forma di squame, da parte delle struure viventi e le circondano. Se la teoria è correa, sembrerebbe allora e il nitrato e gli altri sali d’argento dovessero essere velenosi; invece possono essere somministrati del tuo impunemente per via interna. Da quest’eccezione apparente risulta la più forte conferma e questa teoria di Liebig abbia finora ricevuto. Nonostante le sue proprietà imie, il nitrato d’argento non è velenoso quando viene introdoo nello stomaco: però nello stomaco, come in tui i liquidi animali, si trova sale comune, e si trova ane acido muriatico allo stato libero. Combinandosi col nitrato queste sostanze operano come antidoti naturali e, se la sua quantità non è troppo grande, lo convertono immediatamente in cloruro d’argento. est’ultima sostanza è leggermente solubile, e perciò incapace di combinarsi con i tessuti, ane se, nella misura in cui è solubile, esercita un’influenza medicamentosa araverso una classe completamente diversa di azioni organie. Gli esempi precedenti hanno fornito un’induzione in alto grado concludente, e illustra i due più semplici tra i nostri quaro metodi, pur non sollevandosi al massimo di certezza e il metodo della differenza, nella sua esemplicazione più perfea, è in grado di fornirci. Non dimentiiamo

infai e il caso positivo e il caso negativo indispensabili peré il nostro metodo sia rigoroso dovrebbero differire soltanto per la presenza o l’assenza di una singola circostanza. Ora, nell’argomentazione precedente, differiscono soltanto per la presenza o l’assenza, non già di una singola circostanza, ma di una singola sostanza; e siccome ogni sostanza ha innumerevoli proprietà, non c’è modo di sapere quale sia il numero di differenze reali implicate in quella e, nominalmente ed apparentemente, è una differenza sola. Si può pensare e l’antidoto — ad esempio il perossido di ferro — possa neutralizzare il veleno per mezzo di certe proprietà e non siano quelle di formare, col veleno, un composto insolubile; se le cose stessero così la teoria cadrebbe, almeno nella misura in cui è sostenuta da questo caso. In questo caso, però, questa fonte di incertezza e costituisce un serio impedimento a ogni generalizzazione in imica, si riduce praticamente al grado più basso, quando si trova e non una sola, ma molte sostanze posseggono la capacità di agire da antidoto ai veleni metallici e e tue queste sostanze concordano per la proprietà di formare composti insolubili coi veleni, mentre non si può accertare e concordino in nessun’altra proprietà. In favore della teoria disponiamo dunque di tue le prove e si possono oenere per mezzo di quello e abbiamo iamato metodo della differenza indirea, o metodo congiunto della concordanza e della differenza: queste prove, pur non potendo mai essere equivalenti a quelle del metodo della differenza propriamente deo, possono però approssimarvisi indefinitamente. 2. Supponiamo e il nostro scopo siaa l’accertare la legge di quella e si iama elericità indotta; trovare in quali condizioni un corpo, caricato di elericità negativa o positiva, dia origine in quale altro corpo ad esso contiguo a uno stato elerico contrario. L’esemplificazione più familiare del fenomeno e dobbiamo indagare è la seguente. Vediamo e intorno ai conduori primari di una macina elerostatica l’atmosfera, o la superficie di un conduore sospeso nell’atmosfera fino a una certa distanza dal conduore, si trova in una condizione elerica opposta a quella del conduore primario. Vicino e intorno al conduore primario positivo c’è elericità negativa, e vicino e intorno al conduore primario negativo c’è elericità positiva. Palline di midollo, avvicinate all’uno o all’altro dei due conduori si caricano di elericità di segno opposto a quella di cui è carico il conduore stesso, o

peré ricevono, per conduzione, una parte dell’elericità dall’atmosfera già elerificata, o peré subiscono, per induzione, l’influenza direa del conduore stesso: vengono allora arae dal conduore e si trova nello stato elerico opposto, o, se le riportiamo al loro stato elerico primitivo, saranno arae da qualsiasi altro corpo dotato di carica opposta. Analogamente la mano, avvicinata al conduore quel tanto e basta, riceve o cede una scarica elerica. Ora, non abbiamo nessuna prova e un conduore caricato d’elericità possa scaricarsi improvvisamente a meno e non lo si avvicini a un corpo dotato di carica elerica opposta. Nel caso della macina elerostatica è perciò iaro e l’accumulazione di elericità in un conduore isolato si accompagna sempre alla produzione di elericità di segno contrario nell’atmosfera circostante e in ogni conduore situato vicino al primo. In questo caso non sembra possibile e il conduore produca da sé un solo tipo di elericità. Esaminiamo ora tui gli altri casi e possiamo oenere e somigliano a questo per il conseguente dato, cioè per il fao e nelle vicinanze di un corpo elerificato si produce elericità di segno opposto a quella del corpo. Ne abbiamo un notevole esempio nella boiglia di Leyda; e dopo gli splendidi esperimenti di Faraday3, tesi a stabilire in modo completo e definitivo la sostanziale identità di magnetismo ed elericità, possiamo citare sia il magnete naturale sia l’eleromagnete. In nessuno di essi è possibile produrre elericità positiva senza produrre elericità negativa, o caricare un polo senza caricare contemporaneamente il polo opposto di elericità del segno contrario. Non possiamo avere un magnete con un solo polo: se spaciamo un magnete naturale in mille pezzi, ciascun pezzo sarà un magnete completo in se stesso, con i suoi due poli dotati di carie elerie opposte. Ancora, nel circuito voltaico non possiamo avere una corrente senza avere la corrente opposta. Nella macina elerostatica ordinaria il cilindro o il disco di vetro e la gomma acquistano carie elerie opposte. Da tui questi casi, traati col metodo della concordanza, risulta iaramente una legge generale. I casi abbracciano tui i modi noti in cui un corpo può caricarsi di elericità, e in tui questi casi si trova, come caso concomitante o come caso conseguente, e in un altro corpo, o in più d’un altro corpo, è stato eccitato lo stato elerico opposto. Sembra e ne segua e i due fai sono connessi invariabilmente, e e l’eccitazione dell’elericità in un corpo ha, come una delle sue condizioni necessarie, la

possibilità di eccitare simultaneamente l’elericità di segno opposto in quale corpo circostante. Siccome possono soltanto essere prodoe insieme, le due carie elerie contrarie possono cessare soltanto simultaneamente. esto si può mostrare applicando il metodo della differenza all’esempio della boiglia di Leyda. È superfluo, qui, osservare e nella boiglia di Leyda l’elericità può essere accumulata e conservata in quantità notevoli grazie all’espediente e consiste nel disporre di due superfici di materiale conduore di eguale estensione e tra loro parallele per tua la loro estensione e nell’interporre tra esse una sostanza non condurice, quale ad esempio il vetro. ando una faccia della boiglia viene caricata positivamente, l’altra si carica negativamente, e proprio in virtù di questo fao la boiglia di Leyda ci è appena servita come esempio dell’impiego del metodo della concordanza. Ora, è impossibile scaricare uno dei rivestimenti a meno e nel medesimo tempo non si possa scaricare ane l’altro. Un conduore avvicinato alla parte positiva non può sorarre elericità a meno e non si permea a una quantità eguale di elericità di uscire dalla parte negativa: basta e uno degli strati sia perfeamente isolato, peré la carica sia al sicuro. La dispersione dell’una deve procedere pari passu con la dispersione dell’altra. La legge, fortemente suggeritaci da queste considerazioni, può essere corroborata col metodo delle variazioni concomitanti. La boiglia di Leyda può ricevere una carica molto più alta di quella e può ordinariamente essere comunicata al conduore di una macina elerostatica. Ora, nel caso della boiglia di Leyda, la superficie metallica e riceve l’elericità indoa è un conduore esaamente simile a quello e riceve la carica primaria, ed è perciò susceibile di ricevere e di mantenere quella carica, proprio come la superficie opposta è capace di ricevere e di mantenere la carica elerica opposta: ma nel caso della macina elerostatica il corpo confinante, e riceverà la carica elerica opposta, è l’atmosfera circostante, o un qualsiasi corpo avvicinato casualmente al conduore, e poié l’atmosfera o un corpo qualsiasi hanno in genere una capacità elerica molto inferiore a quella del conduore stesso, questa loro limitata capacità impone un limite corrispondente alla capacità di essere caricato propria del conduore. anto più cresce la capacità del corpo confinante di sopportare l’opposizione, tanto più alta diventa la carica e si può dare al conduore: ed è iaro e la grande superiorità della boiglia di Leyda è dovuta proprio a questo.

Una conferma ulteriore, e più decisiva, oenuta col metodo della differenza, si può trovare in uno degli esperimenti compiuti da Faraday nel corso delle sue ricere sull’elericità indoa. Siccome per lo scopo auale l’elericità comune — ossia l’elericità prodoa dalla macina — e l’elericità voltaica possono essere considerate identie, Faraday volle sapere se, come il conduore primario sviluppa elericità di segno opposto su di un conduore posto nelle sue vicinanze, così una corrente voltaica e percorra un filo indurrebbe una corrente di segno opposto in un altro filo e giacesse parallelamente al primo e a breve distanza da esso. Ebbene, questo caso è simile ai casi esaminati in precedenza per ogni circostanza, ecceuata quella e abbiamo aribuito all’effeo. Nei casi precedenti abbiamo visto e ogni volta e in un corpo viene eccitata elericità di una specie, deve prodursi elericità della specie opposta, in un corpo vicino al primo. Ma nell’esperimento di Faraday quest’opposizione indispensabile esiste all’interno dello stesso filo. La natura di una carica voltaica fa sì e le due correnti opposte, ciascuna delle quali è necessaria all’esistenza dell’altra, si trovino entrambe in un solo filo, e non c’è bisogno di meere, accanto al primo filo, un secondo e contenga una di tali correnti, come invece accade nella boiglia di Leyda, e deve avere una superficie positiva e una negativa. La causa eccitante può produrre, e produce, tuo l’effeo e le sue leggi riiedono, indipendentemente da qualsiasi eccitazione elerica di un corpo vicino. Ora, il risultato dell’esperimento di Faraday con il secondo filo fu e non si produceva nessuna corrente di segno opposto. C’era bensì un effeo istantaneo alla iusura e all’interruzione del circuito voltaico: quando si allontanavano o si avvicinavano i due fili comparivano correnti elerie indoe, ma si traava di fenomeni appartenenti a una classe diversa. Non c’era elericità indoa nel senso in cui si parla di elericità indoa nella boiglia di Leyda; non c’era alcuna corrente costante e percorresse il filo in un senso, mentre una corrente di segno contrario percorreva l’altro filo nel senso opposto; e solo questo sarebbe stato un caso veramente parallelo all’altro. Si vede dunque iaramente, grazie alle prove combinate forniteci dal metodo della concordanza, dal metodo delle variazioni concomitanti e dalla forma più rigorosa del metodo della differenza, e non è possibile eccitare una delle due specie di elericità senza eccitare, egualmente, una corrente della specie diversa e opposta; e entrambe queste specie sono effei della medesima causa, e la possibilità dell’una è una condizione della possibilità dell’altra e

la quantità dell’una è un limite insormontabile alla quantità dell’altra. Si traa di un risultato scientifico e ha un considerevole interesse di per se stesso, e e illustra quei tre metodi in maniera caraeristica e, al medesimo tempo, facilmente intelligibileb. 3. Il nostro terzo esempio sarà trao dal Discourse on the Study of Natural Philosophy di Sir John Hersel, opera piena di esemplificazioni, ammirevolmente scelte, di processi induivi, trai da quasi tui i dipartimenti della scienza fisica. È il solo libro, fra tui quelli di cui sono venuto a conoscenza, in cui i quaro metodi siano riconosciuti distintamente, ane se non sono caraerizzati e definiti, e le loro correlazioni non vengono esibite, con la completezza e è sembrata desiderabile a me. L’esempio e segue è giustamente descrio da Sir John Hersel come «uno dei più begli esempi» e si possano citare «di ricerca sperimentale induiva ristrea in un àmbito piuosto limitato»: la teoria della rugiada, formulata per la prima volta dal defunto door Wells4 e ora universalmente adoata dagli uomini di scienza. I passi fra virgolee sono trai testualmente dal libro di Sir John Herselc. «Supponiamo e il fenomeno propostoci sia la rugiada, e di volerne conoscere la causa. In primo luogo» dobbiamo determinare con precisione e cosa intendiamo parlando di rugiada; e cosa sia, in realtà, il fao la cui causa desideriamo investigare. «Dobbiamo separare la rugiada dalla pioggia e dall’umidità della nebbia, e limitare l’applicazione del termine a quello e si intende realmente con esso, cioè alla comparsa spontanea di umidità su sostanze esposte all’aria aperta, quando non stia cadendo la pioggia, o umidità visibile». esto corrisponde a un’operazione preliminare e sarà caraerizzata nel Libro successivo e traa delle operazioni sussidiarie all’induzioned. «Ora, qui abbiamo fenomeni analoghi nellumidità e ricopre un metallo o una pietra freddi quando respiriamo su di essi; quella e compare su un biciere d’acqua ainta di fresco da un pozzo, quando fa caldo; quella e compare all’interno delle finestre quando una pioggia o una grandinata improvvisa raffreddano l’aria esterna; quella e scorre sui nostri muri quando, dopo una lunga gelata, arriva un disgelo caldo e umido». Confrontando questi casi troviamo e tui contengono il fenomeno e ci è stato proposto come oggeo d’indagine. Ora, «tui questi casi concordano in

un punto: la bassa temperatura dell’oggeo cosparso di rugiada, in confronto con l’aria in contao con esso». Ma rimane ancora il caso più importante, quello della rugiada nourna: la medesima circostanza è presente ane in questo caso? «È un fao e l’oggeo cosparso di rugiada è più freddo dell’aria? Certamente no, si sarebbe propensi a dire a tua prima; infai, e cosa lo rende tale? Ma… l’esperimento è facile: non dobbiamo far altro e meere un termometro in contao con la sostanza ricoperta di rugiada, e sospenderne un altro a una certa distanza, in modo e non subisca l’influenza della sostanza in questione. E così s’è fao l’esperimento: ci siamo posti la domanda, e la risposta è stata invariabilmente affermativa. Tue le volte e fa condensare rugiada, l’oggeo è più freddo dell’aria». Ecco qui un’applicazione completa del metodo della concordanza, applicazione grazie alla quale si stabilisce il fao e esiste una connessione invariabile tra il depositarsi della rugiada su una superficie e la bassa temperatura di quella superficie in confronto con la temperatura dell’aria esterna. Ma quale di queste due cose è la causa e quale l’effeo? O sono entrambe effeo di qualcos’altro? A questo proposito il metodo della concordanza non può illuminarci: dobbiamo iamare in nostro aiuto un metodo molto più potente. «Dobbiamo raccogliere più fai, o, il e è lo stesso, far variare le circostanze (infai, ogni caso in cui le circostanze differiscono è un nuovo fao): più in particolare, dovremo osservare i casi negativi o contrari, cioè a dire quei casi in cui non si produce rugiada»: la condizione necessaria per meere in giuoco il metodo della differenza è il confronto tra i casi in cui c’è rugiada e i casi in cui non c’è rugiada. «Ora, in primo luogo, la rugiada non si produce sulla superficie di metalli politi, ma si produce in quantità molto copiosa sui vetri, quando siano esposti con le facce all’insù, e in certi casi si ricopre di rugiada ane la faccia inferiore di una lastra di vetro disposta orizzontalmente». Ecco un caso in cui l’effeo si produce e un altro caso in cui non si produce; ma non possiamo ancora diiarare, come riiede il metodo della differenza, e l’ultimo caso concorda con il primo in tue le circostanze ecceo una. Infai le differenze tra il vetro e i metalli politi sono diverse e svariate e l’unica cosa di cui possiamo essere sicuri a questo punto è e la causa della rugiada si troverà fra le circostanze per le quali la prima sostanza si distingue dalla seconda. Ma se potessimo essere sicuri e il vetro e le varie altre sostanze su cui si deposita la rugiada hanno una sola qualità in comune, mentre ane le altre sostanze su cui la rugiada non si deposita non hanno nulla in comune

tranne la circostanza di non possedere quella sola qualità e le altre posseggono, le esigenze del metodo della differenza sarebbero completamente soddisfae e noi dovremmo riconoscere e la causa della rugiada è quella certa qualità delle sostanze. Di conseguenza, ora la nostra ricerca dovrà seguire questo sentiero. «Nel caso di metallo polito e di vetro polito, il contrasto mostra in modo evidente e la sostanza ha molto da fare col fenomeno; perciò si faccia in modo di diversificare il più possibile, la sola sostanza esponendo all’aria superfici polite di varie specie. Fao ciò, si vede molto iaramente e c’è una scala d’ intensità. Troviamo e si ricoprono maggiormente di rugiada quelle sostanze polite e sono le peggiori condurici di calore, mentre quelle e sono buone condurici resistono alla rugiada in modo estremamente efficace». La complicazione cresce: qui si iama in nostro aiuto il metodo delle variazioni concomitanti, e in quest’occasione non si può applicare nessun altro metodo, dal momento e non è possibile escludere la qualità dell’essere conduore di calore: tue le sostanze infai sono, quale più, quale meno, condurici di calore. La conclusione e si oiene è e, caeteris paribus, il depositarsi di rugiada è in quale misura proporzionale al potere, e il corpo possiede, di resistere al passaggio di calore, e e perciò questo potere (o qualcosa connesso con questo potere) dev’essere almeno una delle cause e aiutano il depositarsi della rugiada sulla superficie. «Ma se in luogo di superfici polite esponiamo superfici scabre, troviamo e quale volta questa legge soffre di interferenze. Così, il ferro reso scabro, specialmente se cosparso di vernice o annerito, si ricopre di rugiada più presto di quanto non faccia la carta ricoperta di vernice: perciò la specie di superficie ha una grande influenza. Si esponga, dunque, il medesimo materiale con superfici e si trovano in stati molto diversi» (cioè si impieghi il metodo della differenza per accertare la concomitanza delle variazioni) «e subito diventa evidente un’altra scala di intensità: si vedrà e quelle superfici e cedono più rapidamente il loro calore per irradiazione condensano una quantità più copiosa di rugiada». Ecco dunque i requisiti per un secondo impiego del metodo delle variazioni concomitanti e, in questo caso, è ane il solo metodo disponibile, peré, in maggiore o minore quantità, tue le sostanze irraggiano calore. La conclusione e si raggiunge in seguito a questa nuova applicazione del metodo è e, caeteris paribus, il

depositarsi della rugiada è in certa misura proporzionale al potere di irraggiare calore, e e la qualità di irraggiare abbondantemente calore (o una quale causa da cui dipende tale qualità) è un’altra delle cause e promuovono il depositarsi di rugiada sulla sostanza. «Ancora, l’influenza e abbiamo accertato, di sostanza e di superficie, ci induce a prendere in considerazione l’influenza della trama, e qui ci si presentano di nuovo, peré ci cimentiamo con esse, certe differenze degne di nota, e una terza scala di intensità, e indica come sfavorevoli al depositarsi di rugiada le sostanze dotate di trama solida e compaa, quali pietre, metalli ecc., mentre indica come eminentemente favorevoli alla sua formazione quelle sostanze e posseggono una trama allentata, quali stoffa, lana, velluto, piumino d’oca, cotone, ecc.». i, per la terza volta, si è fao ricorso al metodo delle variazioni concomitanti, e, come nel caso precedente, vi si è fao ricorso peré si è stati costrei dal fao e nessuna sostanza ha una trama assolutamente compaa o assolutamente allentata. La leggerezza della trama, perciò, o qualcosa e è la causa di questa qualità, è un’altra circostanza e favorisce il depositarsi della rugiada; ma questa terza causa si risolve nella prima, cioè nella qualità di opporre resistenza al passaggio del calore: infai le sostanze la cui trama è allentata, «sono proprio quelle e sono meglio adae per farne vestiti, o per impedire il libero scambio di calore tra pelle ed aria: in questo modo tali sostanze fanno sì e le loro superfici esterne siano molto fredde, mentre rimangono calde all’interno». est’ultima, pertanto, è un’induzione (da casi nuovi) e si limita a corroborare un’induzione precedente. È dunque iaro e i casi in cui si deposita una gran quantità di rugiada — casi e sono molto diversi fra loro — concordano in questo e, per quanto possiamo osservare, solo in questo: e irraggiano calore rapidamente o conducono calore lentamente; sono, queste, qualità e concordano tra loro soltanto per il fao e, in virtù dell’una o dell’altra, il corpo tende a perdere calore dalla superficie più rapidamente di quanto il calore non possa essere reintegrato dall’interno. Al contrario, i casi in cui non si forma rugiada o se ne forma soltanto una piccola quantità — e e sono ane estremamente diversi e svariati — non concordano (per quanto possiamo osservare) in nient’altro se non nel non avere questa medesima proprietà. Sembra perciò e abbiamo colto la differenza caraeristica tra le sostanze su cui si produce rugiada e quelle su cui la rugiada non si produce. Abbiamo così soddisfao le riieste di quello e abbiamo iamato metodo indireo della differenza

o metodo congiunto della concordanza e della differenza. L’esempio di questo metodo indireo, e della maniera in cui i metodi della concordanza e delle variazioni concomitanti gli apprestano i dati, è la più importante fra tue le illustrazioni dell’induzione fornite da quest’interessante speculazione. Possiamo ora prendere in considerazione la questione: da e cosa dipenda il depositarsi della rugiada. Avremo risolto completamente questa questione se potremo essere perfeamente sicuri e le sostanze su cui si produce rugiada non differiscono da quelle su cui la rugiada non si produce in nient’altro se non nella proprietà di perdere calore dalla loro superficie più velocemente di quanto non possano riparare alla perdita dall’interno. È vero e su questo punto non potremo mai raggiungere una certezza completa, però la cosa non è poi tanto importante come a tua prima si potrebbe supporre, peré, in ogni caso, abbiamo accertato e ane se esistesse una qualità finora rimasta inosservata, e fosse presente in tue le sostanze e fanno precipitare la rugiada e fosse assente da quelle e non la fanno precipitare, quest’altra proprietà dovrebbe essere presente o assente in tuo quel gran numero di sostanze, esaamente dove è presente o assente la proprietà di irradiare il calore meglio di quanto non lo si conduca. L’estensione di questa coincidenza fornisce la più forte presunzione in favore dell’esistenza di una causa comune, e, di conseguenza, della coesistenza invariabile delle due proprietà. Così, ane se la proprietà di irraggiare calore meglio di quanto non lo si conduca non è essa stessa la causa, è quasi certo e accompagna sempre la causa: per gli scopi della predizione non si commeerà dunque nessun errore traandola come se fosse davvero la causa. Tornando ora a uno stadio precedente della ricerca, ricordiamoci di aver accertato e in tui i casi in cui si forma la rugiada la superficie si trova effeivamente a una temperatura più bassa di quella dell’aria circostante. Tuavia non eravamo sicuri se questa bassa temperatura fosse la causa o l’effeo della rugiada: ora siamo in grado di sciogliere questo dubbio. Abbiamo trovato e in tui questi casi la sostanza dev’essere tale da diventare, in virtù delle sue proprie leggi o proprietà, più fredda dell’aria circostante, quando la si esponga all’aria della noe. Dell’abbassamento di temperatura si è quindi reso conto indipendentemente dalla rugiada, mentre è provato e tra le due cose esiste una connessione: deve dunque essere la

rugiada a dipendere dal freddo. In altre parole, il freddo é la causa della rugiada. Comunque, questa legge di causazione già così ampiamente consolidata, può ricevere un’efficace corroborazione supplementare in non meno di tre modi. In primo luogo, può essere corroborata deducendola dalle note leggi della diffusione del vapore acqueo nell’aria o in qualsiasi altro gas; e pur non essendo ancora arrivati a traare del metodo deduivo, faremo tuo il necessario per rendere completa questa speculazione. È noto, per esperienza direa, e per ciascuna temperatura data c’è soltanto una quantità limitata di acqua e può rimanere in sospensione allo stato di vapore, e e questo massimo diminuisce man mano e diminuisce la temperatura. Da questo segue deduivamente e se nell’aria si trova già tanto vapore in sospensione quanto l’aria può contenere a quella data temperatura, qualsiasi abbassamento della temperatura farà sì e una parte del vapore si condensi trasformandosi in acqua. Ma ane qui sappiamo, deducendolo dalle leggi del calore, e il contao dell’aria con un corpo più freddo abbasserà necessariamente la temperatura dello strato d’aria e si trova in contao immediato con la superficie del corpo, facendo sì e l’aria si separi da una parte dell’acqua e contiene: per le leggi ordinarie della gravitazione o della coesione, questa allora aderirà alla superficie del corpo, dando così luogo alla rugiada. Si sarà visto e questa prova deduiva ha il vantaggio di provare immediatamente tanto la causazione quanto la coesistenza; inoltre ha il vantaggio di render conto delle eccezioni all’accadere del fenomeno; di render conto, cioè, dei casi in cui la rugiada non si deposita ane se il corpo è più freddo dell’aria. E ne renderà conto mostrando e ciò accadrà necessariamente quando, relativamente alla sua temperatura, l’aria sarà così povera di vapor d’acqua da continuare a mantenerlo tuo in sospensione ane quando venga un poco raffreddata dal contao con il corpo più freddo: perciò in un’estate molto secca non ci saranno rugiade e in un inverno molto secco non ci saranno brine. Ecco qui, dunque, un’ulteriore condizione del prodursi della rugiada, condizione e i metodi di cui abbiamo fao uso in precedenza non erano stati in grado di cogliere, e e sarebbe potuta rimanere ancora inavvertita se non si fosse fao ricorso al procedimento e consiste nel dedurre l’effeo dalle proprietà accertate degli agenti la cui presenza è nota. La seconda corroborazione della teoria avviene mediante un esperimento direo, secondo il canone del metodo della differenza. Raffreddando la

superficie di un corpo possiamo sempre trovare una quale temperatura (più o meno inferiore a quella dell’aria circostante, secondo le sue condizioni igrometrie) alla quale la rugiada comincerà a depositarsi. Ane qui, dunque, la causazione è provata direamente. È vero: possiamo oenere questo risultato soltanto in piccola scala; abbiamo però oime ragioni per concludere e la stessa operazione, condoa nel grande laboratorio della natura, produrrà egualmente l’effeo. E, infine, siamo in grado di verificare il risultato ane sulla grande scala della natura. È uno di quei rari casi in cui, come abbiamo fao vedere, la natura elabora l’esperimento per conto nostro, nella stessa maniera in cui lo compiremmo noi: introducendo nello stato di cose precedente una nuova circostanza singola e perfeamente definita e manifestando l’effeo così rapidamente e non c’è tempo peré nelle circostanze preesistenti avvengano cambiamenti essenziali. «È stato osservato e la rugiada non si deposita mai in quantità copiose in luoghi molto riparati dal cielo aperto, e non si deposita affao in una noe nuvolosa; ma se le nuvole si aprono anche soltanto per pochi minuti, lasciando uno squarcio di sereno, la rugiada

e la condensazione continua ad aumentare… Spesso la rugiada formatasi in intervalli di sereno evaporerà di nuovo non appena il cielo tornerà a essere coperto». così la prova e la presenza o l’assenza di una comunicazione ininterroa col cielo causa il depositarsi o il non depositarsi della rugiada è completa. Ora, poié un cielo sereno non è altro e assenza di nubi, ed è una nota proprietà delle nubi e di ogni altro corpo e non sia separato da un oggeo dato da nient’altro e da un fluido elastico, e il corpo in questione tenda ad aumentare o a conservare la temperatura superficiale dell’oggeo interposto trasmeendogli calore per irraggiamento, vediamo subito e la sparizione delle nubi causerà il raffreddamento della superficie. Dunque, usando mezzi definiti e noti, in questo caso la natura produce un cambiamento nell’antecedente, e il conseguente segue d’accordo con questo cambiamento: è un esperimento naturale e soddisfa le esigenze del metodo della differenzae. Le prove cumulative, di cui si è visto e è susceibile la teoria della rugiada, costituiscono un esempio sorprendente della sicurezza piena e la prova induiva delle leggi di causazione può conseguire nei casi in cui la sequenza invariabile non è per nulla ovvia a uno sguardo superficiale. comincia subito a depositarsi

4. Le ammirevoli ricere fisiologie del door Brown-Séquard5 forniscono esempi brillanti dell’applicazione dei metodi induivi a una classe di ricere in cui, per ragioni e indieremo fra breve, l’induzione direa ha luogo in condizioni particolarmente difficili e svantaggiose. Come uno degli esempi più adai scelgo la sua speculazione (contenuta nei Proceedings of the Royal Society del 16 maggio 1861) sulle relazioni fra irritabilità muscolare, rigidità cadaverica e putrefazione. La legge e il door Brown-Séquard tende a stabilire è la seguente: «anto maggiore è il grado di irritabilità muscolare nell’istante della morte, tanto più tardi sopravviene e tanto più a lungo dura la rigidità cadaverica; tanto più tardi compare e tanto più lentamente progredisce la putrefazione». A prima vista si direbbe e il metodo da usare qui dev’essere quello delle variazioni concomitanti. Ma si traa di un’apparenza illusoria, originata dalla circostanza e la conclusione da meere alla prova é a sua volta un fao di variazioni concomitanti. Per verificare quel fao si può meere in opera uno qualsiasi dei nostri metodi. Si troverà e il quarto metodo, pur essendo stato effeivamente impiegato, occupa, in quest’indagine particolare, soltanto un posto subordinate. Le prove con le quali il door Brown-Séquard conferma la legge possono essere così enumerate: 1) I muscoli paralizzati hanno un’irritabilità maggiore dei muscoli sani. Ora, i muscoli paralizzati assumono la rigidità cadaverica più tardi di quanto non l’assumano i muscoli sani; la loro rigidità dura di più e la putrefazione sopravviene più tardi e progredisce più lentamente. Entrambe queste proposizioni doveero essere provate sperimentalmente, e ane per l’esperimento e le prova la scienza è in debito verso il door Brown-Séquard. Egli accertò in diversi modi la prima proposizione — e i muscoli paralizzati hanno un’irritabilità maggiore dei muscoli sani — ma l’accertamento più decisivo consistee nel «confrontare la durata dell’irritabilità in un muscolo paralizzato con quella del muscolo sano corrispondente del lato opposto, mentre entrambi venivano sooposti alla medesima eccitazione». Il door Brown-Séquard «trovò spesso, nel compiere questi esperimenti, e il muscolo paralizzato rimaneva irritabile due, tre, o addiriura quaro volte più a lungo del muscolo sano». esto è un caso di induzione compiùta mediante il metodo della differenza. Siccome le due membra appartenevano al medesimo animale, si presume e non differissero per nessun’altra circostanza rilevante per il caso, ecceuata la

paralisi, alla cui presenza e alla cui assenza, perciò, si doveva aribuire la differenza nell’irritabilità muscolare. È evidente e non per tue le coppie di esperimenti è correo fare quest’assunzione di somiglianza completa per tue le circostanze rilevanti tranne una, peré le due gambe di un qualsiasi animale dato potrebbero trovarsi, accidentalmente, in condizioni patologie molto differenti; ma se, oltre darsi la pena di evitare queste differenze, si ripete l’esperimento in animali differenti, per un numero di volte sufficientemente alto da escludere l’ipotesi e in tui gli animali esaminati possano essere presenti circostanze anormali, allora le condizioni del metodo della differenza risultano adeguatamente soddisfae. Nello stesso modo in cui provò e i muscoli paralizzati hanno irritabilità maggiore, il door Brown-Séquard provò ane la proposizione correlativa, riguardante rigidità cadaverica e putrefazione. Recidendo le radici del nervo sciatico e poi un emilato del midollo spinale, Brown-Séquard provocò la paralisi in una zampa posteriore di un animale, mentre le altre rimanevano sane: trovò e non solo l’irritabilità muscolare durava molto di più nell’arto paralizzato, ma ane e la rigidità sopravveniva più tardi e cessava più tardi, mentre la putrefazione cominciava più tardi ed era meno rapida di quella della parte sana. Si traa di un caso piuosto comune del metodo della differenza, e come tale non ha bisogno di commenti. Con lo stesso metodo si oenne un’ulteriore e importantissima corroborazione. Se si uccideva l’animale, non poco tempo dopo, ma un mese dopo aver praticato la resezione del nervo, l’effeo era invertito: la rigidità sopravveniva più rapidamente, e durava di meno, e nei muscoli sani. Ma dopo questo lasso di tempo i muscoli paralizzati, e la paralisi aveva mantenuto in istato di riposo, avevano perduto gran parte della loro irritabilità, e invece di diventare più irritabili erano diventati meno irritabili di quelli della parte sana. esto ci dà gli A B C, a b c e i B C, b c del metodo della differenza. Cambiato uno degli antecedenti — l’accresciuta irritabilità — e rimaste invariate le altre circostanze, la conseguenza non seguiva più; inoltre, quando si fornì un nuovo antecedente contrario al primo, quest’antecedente fu seguito da un conseguente contrario. esto caso presenta il particolare vantaggio di provare e il ritardo e il protrarsi della rigidità non dipendono direamente dalla paralisi (peré questa era la stessa in entrambi i casi), ma dipendono specificamente da uno degli effei della paralisi, cioé dall’accresciuta irritabilità: infai cessano quando cessa l’irritabilità e si invertono quando questa viene invertita.

2) La diminuzione della temperatura dei muscoli prima della morte diminuisce la loro irritabilità. Ma la diminuzione della loro temperatura ritarda ane la rigidità cadaverica e la putrefazione. Entrambe queste vertià furono rese note, per la prima volta, dallo stesso door Bown-Séquard, con esperimenti e concludono secondo il metodo della differenza. Nella natura del processo non c’è nulla e riieda un’analisi specifica. 3) L’esercizio muscolare, prolungato fino all’esaurimento, diminuisce l’irritabilità muscolare. esta è una vertià ben nota, e dipende dalle leggi più generali dell’azione muscolare ed è stata provata con esperimenti condoi secondo il metodo della differenza e ripetuti costantemente. Ora, l’osservazione ha mostrato e il bestiame affaticato fino all’esaurimento, ucciso prima e si riprenda dalla fatica, diventa rigido e putrefà in un tempo sorprendentemente breve. Un fao simile è stato osservato nel caso di animali inseguiti dai cacciatori fino a provocarne la morte, di galli uccisi durante o poco tempo dopo un combaimento, e di soldati ammazzati sul campo di baaglia. Tui questi vari casi non concordano in nessuna circostanza direamente connessa coi muscoli, se non per il fao e questi ultimi sono stati appena sooposti a uno sforzo e li ha esauriti. Perciò, grazie al canone del metodo della concordanza, si può inferire e tra i due fai c’è una connessione. In realtà, come abbiamo mostrato, il metodo della concordanza non è in grado di provare la causazione; però sappiamo già e il caso preso in esame è un caso di causazione, dal momento e è certo e lo stato del corpo dopo la morte deve in quale modo dipendere dallo stato del corpo al momento della morte. Siamo perciò autorizzati a concludere e quella singola circostanza in cui tui i casi concordano fa parte dell’antecedente e è la causa di quel particolare conseguente. 4) L’irritabilità dei muscoli è tanto più alta quanto migliore è lo stato di nutrizione in cui si trovano i muscoli stessi. esto fao riposa ane sulla prova generale fornita dalle leggi della fisiologia, leggi basate su molte applicazioni familiari del metodo della differenza. Ora, nel caso di quelli e muoiono di un incidente o di morte violenta, e i cui muscoli si trovano in istato di buona nutrizione, l’irritabilità muscolare continua per molto tempo dopo la morte, la rigidità sopravviene tardi e persiste a lungo, senza e abbia luogo il cambiamento della putrefazione. Al contrario, nel caso di malaie in cui la nutrizione è stata diminuita per lungo tempo prima della morte, tui questi effei sono invertiti. este sono le condizioni del

metodo congiunto della concordanza e della differenza. I casi di rigidità ritardata e protraasi a lungo, discussi qui, concordano solo per il fao di essere stati preceduti da un alto stato di nutrizione dei muscoli; i casi di rigidità breve e rapida concordano solo peré sono stati preceduti da uno stato di bassa nutrizione muscolare; risulta pertanto provata induivamente l’esistenza di una connessione tra il grado di nutrizione e la lentezza e il protrarsi della rigidità. 5) Le convulsioni, come gli esercizi e producono esaurimento, diminuiscono l’irritabilità muscolare, ma in grado ancor maggiore. Ora, quando la morte consegue a convulsioni violente e prolungate, come nel tetano, nell’idrofobia, in alcuni casi di colera e nel caso di avvelenamento da certi veleni, la rigidità sopravviene molto rapidamente, e, dopo una breve durata, dà luogo a putrefazione. Ecco un altro esempio del metodo della concordanza, e ha lo stesso caraere dell’esempio di cui al numero 3. 6) La serie di casi e prenderemo in considerazione per ultimi ha un caraere più complesso e riiede un’analisi più minuziosa. Già da molto tempo si è osservato e in certi casi di morte da folgorazione la rigidità non sopravviene affao oppure ha una durata estremamente breve, così da passare inosservata, e e in questi casi la putrefazione è molto rapida. In altri casi, però, compare la rigidità cadaverica solita. Nella causa dev’esserci quale differenza e renda conto di questa differenza nell’effeo. Ora, «la morte per folgorazione può essere l’effeo, 1) di una sincope dovuta alla paura o conseguente a un’influenza direa o riflessa della folgore sul vago; 2), di un’emorragia nel o intorno al cervello, o nei polmoni, nel pericardio, ecc., 3), di una commozione, o di quale altra alterazione del cervello». Nessuno di questi fenomeni ha proprietà note e possano render conto della soppressione, o della quasi soppressione, della rigidità cadaverica. Ma la causa della morte può ane essere dovuta al fao e la folgorazione produce «una violenta convulsione di ogni muscolo del corpo»: sappiamo e questa convulsione, se è sufficientemente intensa, ha l’effeo di far «cessare quasi subito l’irritabilità muscolare». Se la generalizzazione del door Brown-Séquard è una vera e propria legge, questi saranno proprio i casi in cui la rigidità è tanto breve da sfuggire all’aenzione; e i casi in cui, al contrario, la rigidità sopravviene come al solito, saranno quelli in cui il colpo di fulmine opera in qualcuno degli altri modi e abbiamo enumerato. Allora, come facciamo a controllare? Con esperimenti, non già sul fulmine, di cui non possiamo

disporre a nostro piacere, ma sullo stesso agente naturale, ridoo in forma maneggevole: quella del galvanismo artificiale. Il door Brown-Séquard galvanizzò i corpi tui intieri di animali, immediatamente dopo la morte. Se si ecceua il solo fao di produrre convulsioni muscolari, il galvanismo non può operare in nessuno degli altri modi in cui può operare il colpo di fulmine. Se perciò, dopo e i corpi sono stati galvanizzati, la durata della rigidità è molto più breve e la putrefazione molto più rapida, è ragionevole aribuire i medesimi effei prodoi dal fulmine alla proprietà e il galvanismo condivide col fulmine, e non a quelli e non condivide col fulmine. Ora il door Brown-Séquard trovò e accadeva proprio questo. L’esperimento galvanico fu tentato con carie di gradi di forza molto diversi: si trovò e quanto più forte era la carica tanto più breve era la durata della rigidità, e più rapida e breve era la putrefazione. Nell’esperimento in cui la carica era più forte, e l’irritabilità muscolare era stata annullata più prontamente, la rigidità durò soltanto quindici minuti. Dunque, in base al principio del metodo delle variazioni concomitanti si può inferire e la durata della rigidità dipende dal grado di irritabilità e e, se la carica fosse stata tanto più forte della più forte carica impiegata dal door Brown-Séquard quanto dev’esserlo un colpo di folgore in confronto con una scossa elerica e possiamo produrre artificialmente, la rigidità sarebbe stata abbreviata in ragione corrispondente, e forse sarebbe scomparsa del tuo. Arrivati a questa conclusione, il caso di una scossa elerica, artificiale o naturale e sia, si aggiunge a tui quelli, già accertati, in cui c’è corrispondenza tra l’irritabilità del muscolo e la durata della rigidità. Tui questi casi sono riassunti dalla seguente asserzione: «ando il grado di irritabilità muscolare al momento della morte è considerevole, sia in conseguenza di un buon stato di nutrizione del soggeo (come accade in una persona e muoia in piena salute, per cause accidentali) sia in conseguenza del riposo (come nei casi di paralisi), sia ancora per l’influenza del freddo; in tui questi casi la rigidità cadaverica sopravviene tardi e dura a lungo e la putrefazione compare tardi e progredisce lentamente». Invece, «quando il grado di irritabilità muscolare al momento della morte è basso, sia in conseguenza di un caivo stato di nutrizione, sia in conseguenza di un sovraffaticamento per un eccesso di sforzo, sia in conseguenza di convulsioni causate da malaia o da veleni, la rigidità cadaverica sopravviene e cessa presto, e la putrefazione compare e progredisce rapidamente». esti fai presentano, in tua la loro completezza, le condizioni del metodo congiunto

della concordanza e della differenza. La rigidità precoce e breve sopravviene nei casi e concordano solo nella circostanza di uno stato di bassa irritabilità muscolare. La rigidità comincia tardi e dura a lungo nei casi e concordano soltanto rispeo alla circostanza contraria: quella di un’irritabilità muscolare alta e protraasi più del solito. Segue e c’è una connessione causale fra il grado di irritabilità muscolare dopo la morte e il ritardo e il protrarsi della rigidità cadaverica. est’indagine mee fortemente in luce il valore e l’efficacia del metodo congiunto. Infai, come abbiamo già visto, il difeo di tale metodo consiste in questo: e, come il metodo della concordanza (di cui non è altro e una forma migliorata), il metodo congiunto della concordanza e della differenza non può provare l’esistenza della causazione. Ma nel caso presente (come in uno dei passi del ragionamento e vi ha condoo) l’esistenza della causazione è già provata; non può infai esserci alcun dubbio sul fao e la rigidità e la putrefazione e ne segue sono causate dal fao della morte: le osservazioni e gli esperimenti su cui riposa il ragionamento sono troppo familiari per aver bisogno d’analisi, e cadono soo il metodo della differenza. È fuor di dubbio e l’antecedente aggregato, la morte, è la causa effeiva dell’intiera catena di conseguenti: di conseguenza, se si può mostrare e una qualsiasi delle circostanze relative alla morte è seguìta, in tue le sue variazioni, da variazioni nell’effeo su cui stiamo indagando, allora quella circostanza dev’essere la caraeristica particolare del fao della morte da cui dipende l’effeo in questione. Il grado di irritabilità muscolare al momento della morte soddisfa questa condizione. L’unico punto e si potrebbe meere in questione sarebbe se l’effeo dipenda dall’irritabilità stessa o da qualcosa e accompagna sempre l’irritabilità, ma questo dubbio si mee a tacere mostrando e qualunque sia la causa dell’alta o della bassa irritabilità l’effeo segue egualmente. Esso dunque non può dipendere dalle cause dell’irritabilità, nè da altri effei di quelle cause, e sono vari quanto le cause stesse, ma solo e soltanto dall’irritabilità. 5. Chiunque abbia debitamente seguìto questi ultimi due esempi, ne avrà trao un conceo così iaro dell’uso e dello sfruamento pratico di tre dei quaro metodi di ricerca sperimentale, e ogni ulteriore esemplificazione gli parrà senz’altro superflua. Ma il metodo e rimane — quello dei residui — non ha trovato posto nelle indagini precedenti: citerò dunque alcuni

esempi di quel metodo traendoli dal libro di Sir John Hersel, insieme con le osservazioni e li introducono. «Di fao, proprio questo processo è la principale molla della scienza, nel suo stato auale di progresso. La maggior parte dei fenomeni e la natura ci presenta sono molto complicati, e quando gli effei di tue le cause note sono stati valutati con esaezza, e sono stati sorai, i fai residui compaiono costantemente in forma di fenomeni completamente nuovi, e conducono alle più importanti conclusioni. Ad esempio, il ritorno della cometa moltissime volte successive predeo dal professor Ene6, e la buona concordanza generale tra la posizione calcolata e la posizione osservata durante uno qualsiasi dei suoi periodi di visibilità, ci indurrebbe a dire e la gravitazione della cometa verso il Sole è la causa unica e sufficiente di tui i fenomeni del suo moto orbitale; ma quando si calcola l’effeo di questa causa in modo rigoroso, e lo si sorae dal moto osservato, si trova e rimane un fenomeno residuo la cui esistenza non sarebbe mai stata accertata altrimenti; e questo residuo consiste in una piccola anticipazione dell’istante della sua riapparizione o di una diminuzione del suo periodo, di cui la gravità non può rendere conto, e la cui causa deve pertanto esser faa oggeo di indagine. Tale anticipazione sarebbe causata dalla resistenza di un mezzo disseminato nelle regioni celesti, e siccome ci sono altre buone ragioni per credere e questa è una vera causa» (un antecedente esistente di fao) «l’anticipazione è stata aribuita a tale resistenzaf. «Arago7 sospese un ago magnetico a un filo di seta e lo fece oscillare: osservò e se lo si sospendeva su una lastra di rame l’ago raggiungeva lo stato di quiete più presto di quanto non lo raggiungesse quando soo di esso non si trovava la lastra di rame. Ora, in entrambi i casi c’erano due verae causae» (cioè due antecedenti di cui si conosceva l’esistenza) «per cui l’ago doveva alla lunga raggiungere lo stato di quiete: la resistenza dell’aria, e si oppone a tui i moti e hanno luogo in essa, e alla lunga li annulla, e la mancanza di mobilità perfea del filo di seta. Ma l’effeo di queste cause era noto con precisione grazie alle osservazioni fae in assenza del rame: datolo per scontato, e soraolo, comparve un fenomeno residuo: il fao e era il rame stesso a esercitare l’influenza ritardatrice. esto fao, una volta accertato, condusse rapidamente alla conoscenza di una classe di relazioni interamente nuova e inaspeata». Comunque quest’esempio appartiene, non

già al metodo dei residui, ma al metodo della differenza, dal momento e la legge fu scoperta mediante un confronto direo fra i risultati di due esperimenti, e non differivano per altro se non per la presenza o l’assenza della lastra di rame. Peré fosse adao ad esemplificare il metodo dei residui bisognava e l’effeo della resistenza dell’aria e quello della rigidità della seta fossero stati calcolati a priori, partendo da leggi oenute da esperimenti separati e già compiuti. «Spesso, nel corso di indagini di natura di gran lunga differente da quelle e hanno dato origine a certe induzioni, compaiono, soo forma di fenomeni residui, conferme inaspeate e sorprendenti delle leggi induive. Come esempio estremamente elegante si può citare la conferma inaesa, fornita dai fenomeni sonori, del fao e comprimendo i fluidi elastici si sviluppa calore. L’indagine sulla causa del suono aveva portato a certe conclusioni circa il modo di propagazione del suono, conclusioni dalle quali si poté calcolare con precisione la velocità del suono nell’aria. Si eseguirono i calcoli, ma quando li si confrontò coi fai si vide e, ane se l’accordo era perfeamente sufficiente a mostrare la correezza generale della causa e del modo di propagazione specificati, non si poteva tuavia mostrare e tutta quanta la velocità fosse derivabile da questa teoria. C’era ancora una velocità residua di cui rendere conto, e per molto tempo la cosa mise i filosofi della dinamica in un grosso dilemma. Alla fine Laplace8 s’imbaé nella felice idea e la velocità residua poteva essere originata dal calore e si sviluppa al momento di quella condensazione e ha necessariamente luogo ad ogni vibrazione mediante la quale si trasmee il suono. La cosa fu sooposta a calcolo esao e ne risultarono contemporaneamente la spiegazione completa del fenomeno residuo, e una conferma sorprendente della legge generale dello svilupparsi del calore per compressione, in circostanze e andavano al di là dell’imitazione artificiale». «Molti dei nuovi elementi della imica sono stati scoperti nel corso di indagini sui fenomeni residui. Così Arfwedson9 scoprì il litio dopo aver notato e il peso del solfato prodoo a partire da una piccola porzione di quello e egli credeva il magnesio presente in un minerale da lui analizzato era più grande del previsto. In forza di questo principio è quasi sicuro e i piccoli residui concentrati delle grandi operazioni della tecnica sono i luoghi in cui si nascondono nuovi ingredienti imici: testimoni lo iodio, il bromo, il selenio e i nuovi metalli e accompagnano il platino negli esperimenti di

Wollaston e Tennant10. Fu una felice idea, quella di Glauber11, di esaminare quello e tui gli altri buavano via»g. «asi tue le grandi scoperte dell’astronomia, dice il medesimo autoreh, sono state originate dalla considerazione di fenomeni residui di specie quantitativa o numerica… La grande scoperta della precessione degli equinozi risultò proprio, come fenomeno residuo, dalla spiegazione imperfea secondo cui il ritorno delle stagioni sarebbe dovuto al ritorno del Sole allo stesso posto apparente tra le stelle fisse. Così, ane l’aberrazione e la nutazione risultarono, come fenomeni residui, da quella parte dei cambiamenti nella posizione apparente delle stelle fisse di cui la precessione non era riuscita a rendere conto. E così, di nuovo, i moti propri apparenti delle stelle sono i residui osservati dei loro moti apparenti, residui e resistono ai tentativi di renderne conto per mezzo del calcolo rigoroso degli effei della precessione, della nutazione e dell’aberrazione. La massima perfezione a cui le teorie umane possono avvicinarsi consiste nel diminuire questo residuo, questo caput mortuum dell’osservazione (tale infai può essere considerato) quanto più si può e, se è possibile, nel ridurlo a zero, sia mostrando e nella nostra stima delle cause note è stato trascurato qualcosa, sia ragionando su di esso come su un nuovo fao e risalendo, in base al principio della filosofia induiva, dall’effeo alla sua causa o alle sue cause». All’inizio gli effei perturbatori prodoi dalla Terra sul moto dei pianeti e dai pianeti sul moto della Terra furono messi in luce, come fenomeni residui, dalla differenza e risultava tra le posizioni osservate di questi corpi e le loro posizioni calcolate tenendo conto soltanto della loro gravitazione verso il Sole. esto fece sì e gli astronomi considerassero la legge di gravitazione come una legge e vale per tui i corpi, e perciò per tue le particelle di materia, mentre la loro prima tendenza era stata quella di considerarla come una forza e agisce soltanto tra ciascun pianeta o satellite e il corpo centrale al cui sistema il pianeta o satellite appartiene. Ancora: in geologia i sostenitori della teoria delle catastrofi avvalorano la loro opinione — vera o falsa e sia — col pretesto e, dopo e si sia tenuto conto dell’effeo di tue le cause ora operanti, nella costituzione auale della Terra rimane un largo residuo di fai e provano l’esistenza in periodi precedenti o di altre forze o delle medesime forze in un grado d’intensità molto maggiore. Per aggiungere ancora un esempio: quelli e asseriscono — cosa per credere nella quale non è stata data nessuna buona ragione — e le

facoltà di un individuo o di una razza o di un sesso posseggono una superiorità intrinseca e inesplicabile su quelle degli altri individui, razze o sesso umani, poterono fondare questa loro proposizione solo soraendo dalle differenze intelleuali, e possiamo effeivamente vedere, tuo quello e si può far risalire, mediante leggi note, o alle differenze accertate nell’organizzazione fisica o alle differenze e sono esistite nelle circostanze esteriori in cui sono stati situati finora i soggei del confronto. ello di cui queste cause non riuscirebbero a rendere conto costituirebbe un fenomeno residuo il quale, e il quale soltanto, costituirebbe la prova di un’ulteriore distinzione originaria, e la misura della sua consistenza. Ma gli assertori di queste presunte differenze non si sono muniti di queste condizioni logie, necessarie a fondare la loro dorina. esti esempi hanno reso sufficientemente intelligibile (o almeno così si spera) lo spirito del metodo dei residui, mentre gli altri tre metodi sono già stati esemplificati a sufficienza: possiamo pertanto concludere qui la nostra esposizione dei quaro metodi, esposizione basata sul loro impiego nell’indagine dell’ordine più semplice ed elementare delle combinazioni dei fenomeni. 6. Il door Whewell ha espresso un’opinione molto sfavorevole sull’utilità dei quaro metodi e sull’idoneità degli esempi con i quali ho tentato di illustrarli. Ecco le sue parolei: «A proposito di questi metodi, viene immediatamente da osservare e essi dànno come scontata proprio la cosa più difficile da scoprire: la riduzione dei fenomeni a formule come quelle e ci vengono presentate qui. ando ci offrono un qualsiasi insieme di fai complessi, come, ad esempio, quelli e ci sono stati offerti nel caso delle scoperte e ho menzionato — cioè i fai delle traieorie dei pianeti, dei corpi e cadono, dei raggi rifrai, dei moti cosmici, delle analisi imie — e quando, in uno di questi casi, scopriamo la legge di natura e li governa o, se si vuole iamarla così, la caraeristica per la quale tui questi casi concordano, dove dobbiamo andare a cercare i nostri A, B, C e a, b, c? La natura non ci presenta i casi in questa forma: allora come dobbiamo fare per ridurveli? Dite: quando troviamo la combinazione di ABC e a b c, e di A B D e a b d, allora possiamo trarre la nostra inferenza. E va bene: ma quando e dove possiamo trovare tali combinazioni? Ane ora e le scoperte sono già state fae, i ci farà vedere quali sono gli elementi A, B, C e a, b, c, dei casi e sono stati appena

enumerati? Chi ci dirà quale dei metodi di ricerca esemplifica queste indagini, storicamente reali e riuscite? Chi seguirà queste ricere araverso la storia delle scienze, nel loro sviluppo effeivo, e ci mostrerà e questi quaro metodi hanno avuto parte aiva nella loro formazione, o e facendo riferimento a queste formule si riesce a far luce sui passi del loro progresso?». Whewell aggiunge e nel mio libro i metodi non sono stati applicati «a un largo corpo di esempi, cospicui e indubitabili, di scoperte, e si estendano per tuo l’arco della storia della scienza», cosa e invece avrei dovuto fare allo scopo di mostrare e i miei metodi posseggono il «vantaggio» (e Whewell pretende sia posseduto dai propri) di essere quei metodi «per mezzo dei quali si sono veramente compiute tue le grandi scoperte scientifie» (p. 277). C’è una somiglianza sorprendente tra le obiezioni qui fae ai canoni dell’induzione e gli argomenti e furono sollevati nel secolo scorso da uomini tanto dotati quanto il door Whewell, contro il canone generalmente acceato del ragionamento deduivo. Coloro e contestavano la logica aristotelica dicevano, del sillogismo, quello e il door Whewell dice dei metodi induivi: e «dà per scontata proprio la cosa e è più difficile da scoprire: la riduzione del ragionamento a formule come quelle e ci vengono presentate». La grossa difficoltà, dicevano, consiste nell’oenere il vostro sillogismo, non nel giudicare della sua correezza, una volta e è stato oenuto. In linea di fao, questi critici e il door Whewell hanno ragione. In entrambi i casi la difficoltà maggiore consiste nell’oenere la prova, e poi nel ridurla alla forma e ne controlla la concludenza. Ma sarebbe difficile far progressi se tentassimo di ridurla, senza sapere a e cosa la si debba ridurre. È più difficile risolvere un problema di geometria e non giudicare se una data soluzione è correa: ma se non sappiamo giudicare la soluzione una volta e l’abbiamo trovata, avremo ben poe probabilità di trovarla. E non si può pretendere e il giudicare di un’induzione, quando sia stata trovata, sia perfeamente facile, sia cioè una cosa per la quale sono superflui gli ausilii e gli strumenti, perè le induzioni erronee, le inferenze false trae dall’esperienza, sono tanto comuni quanto le inferenze vere, e anzi, per alcuni oggei, sono molto più comuni di queste ultime. Ufficio della logica induiva è il provvedere regole e modelli (quali il sillogismo e le sue regole, per il ragionamento deduivo) tali e, se i ragionamenti induivi gli si conformano, allora i ragionamenti sono

concludenti, ma non altrimenti. I quaro metodi intendono essere proprio questo, e io credo e tali siano considerati universalmente dai filosofi sperimentali, e li praticarono tui per molto tempo prima e qualcuno cercasse di ridurre la pratica a teoria. Gli avversari del sillogismo avevano anticipato il door Whewell ane nell’altra parte dell’argomentazione. Dicevano e nessuna scoperta fu mai compiuta mediante il sillogismo, e il door Whewell dice — o sembra dire — e coi quaro metodi dell’induzione nessuno ha mai fao scoperte. Agli obieori più antii l’Arcivescovo Whately rispose, in modo molto appropriato, e la loro argomentazione, ammesso e valesse, valeva soltanto contro il processo di ragionamento considerato come un tuo, dal momento e quello e non può essere ridoo al sillogismo non è un ragionamento affao. E l’argomentazione del door Whewell, ammesso e valga, vale per tue le inferenze trae dall’esperienza. Dicendo e coi quaro metodi non si sono mai fae scoperte, il door Whewell afferma e mai nessuna scoperta è stata faa mediante l’osservazione e l’esperimento; peré, sicuramente, se se ne fosse faa qualcuna, la si sarebbe faa grazie a processi riducibili all’uno o all’altro di questi metodi. esta differenza tra il door Whewell e me spiega peré i miei esempi l’abbiano lasciato insoddisfao: infai non ho scelto questi esempi allo scopo di soddisfare iunque volesse essere convinto del fao e l’osservazione e l’esperimento sono modi di acquistare la conoscenza: ammeo e quando li ho scelti pensavo soltanto di illustrare e di facilitare con esempi conereti la concezione dei metodi. Se il mio scopo fosse stato quello di giustificare i processi stessi come mezzi d’indagine, non ci sarebbe stato bisogno di guardare lontano, o di far uso di esempi reconditi o complicati. Come campione di una vertià accertata con il metodo della concordanza avrei potuto scegliere la proposizione «I cani abbaiano». esto cane, e quel cane e quell’altro cane corrispondono ad A B C, A D E, A F G. La circostanza di essere un cane corrisponde ad A. L’abbaiare corrisponde ad a. Come vertià resa nota dal metodo della differenza sarebbe potuta bastare «Il fuoco scoa». Prima di toccare il fuoco non sono scoato, e questo è B C; lo tocco e mi scoo, e questo è A B C, a B C. Il door Whewell non considera induzioni questi processi sperimentali così familiari, e tuavia sono perfeamente omogenei con quelli e, come mostra ane lui, forniscono la base alla piramide della scienza. Invano

il door Whewell tenta di sfuggire a questa conclusione imponendo le restrizioni più arbitrarie alla scelta di esempi ammissibili come casi d’induzione: non devono essere tali da essere ancora materia di discussione (p. 265); nessuno di essi dev’essere trao da soggei e abbiano da fare con la mente o con la società (p. 269), non devono essere desunti dall’osservazione ordinaria e dalla vita pratica (pp. 241-47). Devono essere trai esclusivamente dalle generalizzazioni mediante le quali gli scienziati si sono elevati alle grandi leggi comprensive dei fenomeni naturali. Ora, in queste complicate ricere, raramente è possibile andare molto al di là dei passi iniziali senza iamare in causa gli strumenti della deduzione e l’aiuto temporaneo delle ipotesi, come del resto io stesso ho sostenuto, insieme con il door Whewell, contro la scuola puramente empiristica. Pertanto, siccome per illustrare i princìpi della pura e semplice osservazione e del puro e semplice esperimento non sarebbe stato conveniente scegliere casi di questo genere, il door Whewell è stato erroneamente indoo dalla loro assenza a rappresentare i metodi sperimentali come privi di scopo nella ricerca scientifica, dimenticando e se quei metodi non avessero fornito le prime generalizzazioni non avrebbe avuto materiali su cui esercitare la propria concezione dell’induzione. È comunque facile rispondere alla sua sfida a indicare quali dei quaro metodi siano esemplificati in certi importanti casi di ricerca scientifica. «Le traieorie dei pianeti», ammesso e siano davvero un caso d’induzionej, cadono soo il metodo della concordanza. Storicamente, la legge della «caduta dei corpi» — cioè la legge secondo cui i corpi liberi di cadere descrivono spazi proporzionali ai quadrati dei tempi — fu dedoa dalla prima legge del moto, ma gli esperimenti mediante i quali la si verificò e per mezzo dei quali la si sarebbe potuta scoprire erano esempi del metodo della concordanza, mentre l’apparente deviazione dalla legge vera, deviazione causata dalla resistenza dell’aria, venne spiegata mediante gli esperimenti in vacuo, e costituiscono un’applicazione del metodo della differenza. La della «rifrazione dei raggi» (secondo cui i seni degli angoli di incidenza e di rifrazione sono costanti per ciascuna sostanza rifrangente) fu accertata per misurazione direa, e perciò mediante il metodo della concordanza. I «movimenti cosmici» furono determinati mediante processi logici altamente complessi in cui predominava la deduzione, ma i metodi della concordanza e delle variazioni concomitanti ebbero una gran parte nello stabilirne le leggi empirie. Ogni caso, senza eccezione, di «analisi imica» costituisce un

esempio ben iaro del metodo della differenza. Chiunque abbia familiarità con questi argomenti, e quindi lo stesso door Whewell, non dovrebbe incontrare la minima difficoltà a determinare «gli elementi A B C e a b c» di questi casi. Se mai si fecero scoperte in base all’osservazione e all’esperimento, senza la deduzione, i quaro metodi sono metodi di scoperta: ma ane se non fossero metodi di scoperta, non sarebbe per questo meno vero e sono i soli metodi di prova; e per questo loro caraere, ane i risultati della deduzione sono riconducibili ad essi. Le grandi generalizzazioni, e all’inizio sono ipotesi, devono finire col venir provate e in realtà vengono provate (come mostreremo qui di séguito) per mezzo dei quaro metodi. Ora, la logica traa principalmente della prova come tale. In realtà non è neane minimamente probabile e questa distinzione incontri favore presso il door Whewell: è una peculiarità del suo sistema, infai, il non riconoscere la necessità di una prova nei casi d’induzione. Se, dopo aver assunto un’ipotesi e averla accuratamente confrontata coi fai, non viene alla luce nulla e contraddica l’ipotesi; cioè, se l’esperienza non prova la falsità dell’ipotesi, allora il door Whewell è soddisfao: almeno, lo è fin quando non si presenti un’ipotesi più semplice, ed egualmente compatibile con l’esperienza. Se questa è induzione, allora non c’è dubbio e non c’è bisogno dei quaro metodi. Ma il supporre e lo sia mi sembra una concezione radicalmente errata della natura delle prove delle verità fisie. Che il bisogno di sooporre l’induzione a un controllo simile al controllo e il sillogismo esercita sulla deduzione, sia un bisogno reale e abbia una grande importanza pratica, si vede dal fao e eminenti ricercatori nel campo della scienza fisica, non appena siano usciti dal terreno sul quale traano coi fai, e non siano ridoi a giudicare soltanto in base a questo tipo di argomenti, producono senza baer ciglio inferenze e costituiscono un’aperta sfida alle più elementari nozioni della logica induiva; per quanto poi riguarda le persone colte in generale, si può dubitare se oggi siano giudici della bontà o della non bontà di un’induzione migliori di quanto non lo fossero prima e Bacone scrivesse i suoi libri. Raramente il miglioramento dei risultati del pensiero si è esteso ai processi: o, se ha raggiunto i processi, ha raggiunto soltanto quelli dell’indagine e non quelli della prova. Non c’è dubbio e si è giunti a conoscere molte leggi naturali formulando ipotesi e trovando i fai ad esse corrispondenti; e ci si è sbarazzati di molti errori pervenendo alla conoscenza di fai e erano

incompatibili con le ipotesi, pur senza rendersi conto e il modo di pensare e aveva condoo agli errori era in se stesso erroneo, cosa e si sarebbe potuta sapere indipendentemente dai fai e provavano la falsità della conclusione specifica. Ne segue e mentre su molti argomenti i pensieri dell’umanità si sono evoluti fino a diventare praticamente giusti, il potere di pensare rimane debole come non mai: e su tui gli argomenti nei quali i fai e controllerebbero i risultati non sono accessibili — come in quello e si riferisce al mondo invisibile e ane, come si è visto ultimamente, al mondo visibile delle regioni planetarie — uomini e hanno conseguito i più grandi risultati scientifici, ragionano in modo tanto pietoso quando il più sieo ignorante. Infai, pur avendo compiuto molte e profonde induzioni, non hanno imparato da esse (e il door Whewell pensa e non sia necessario e imparino) i princìpi della prova induiva. a.

Per questa speculazione, così come per molte altre mie illustrazioni trae dal campo della scienza, sono in debito verso il professor Bain, il cui traato di logica abbonda di opportune illustrazioni di tui i metodi induivi. b. esta concezione, della coesistenza necessaria di eccitazioni opposte, implica una grande estensione della dorina originale delle due elericità. I primi teorici assunsero e quando si sfrega l’ambra con gomma, l’ambra assume carica elerica positiva e la gomma assume carica elerica negativa, nel medesimo grado; ma non gli venne mai in mente di supporre e l’esistenza della carica dell’ambra dipendesse dall’esistenza di una carica opposta nei corpi ai quali l’ambra era contigua, mentre l’esistenza della carica negativa sulla gomma dipende egualmente da uno stato contrario delle superfici e potrebbero essere state accidentalmente in contao con essa; e in realtà, nel caso di un eccitamento elerico per arito, il minimo e possa esistere sono quaro carie. Ma questa duplice azione elerica è implicata essenzialmente nella spiegazione, ora universalmente adoata, dei fenomeni della comune macina elerostatica. c. pp. 159-62. d. V. infra, Libro IV, cap. II, «On Abstraction». e. Devo però osservare e quest’esempio, e sembra militare contro la nostra asserzione della relativa inapplicabilità del metodo della differenza ai casi di pura e semplice osservazione, è, in realtà, una di quelle eccezioni e secondo l’espressione proverbiale confermano la regola generale. Infai, in questo caso, in cui nel suo esperimento sembra aver imitato il tipo di esperimenti fai dall’uomo, la natura è riuscita soltanto a produrre qualcosa e somiglia agli esperimenti più imperfei dell’uomo; agli esperimenti, cioè, in cui, pur riuscendo a produrre il fenomeno, l’uomo è costreo a impiegare mezzi complessi e è incapace di analizzare perfeamente, cosicé non riesce a farsi un giudizio sufficiente su quale parte degli effei possa essere dovuta, non alla presunta causa, ma a quale azione ignota dei mezzi con i quali la causa è stata prodoa. Nell’esperimento naturale di cui stiamo parlando, il mezzo usato è lo siarirsi di uno strato di nubi, e certamente non sappiamo a sufficienza in e cosa consista, o da e cosa dipenda questo processo, per essere sicuri a priori e potrebbe operare sul depositarsi della rugiada, indipendentemente da qualsiasi effeo termometrico si verifii sulla superficie terrestre. Pertanto, ane in un caso così favorevole ai talenti sperimentali della natura, l’esperimento di quest’ultima ha poco valore, tranne e per corroborare una conclusione già raggiunta con altri mezzi.

f.

Nella sua opera successiva, Outlines of Astronomy (par. 570), Sir John Hersel suggerisce un’altra possibile spiegazione dell’accelerazione nella rivoluzione di una cometa. g. Discourse, pp. 156-58 e p. 171. h. Outlines of Astronomy, par. 856. i. Philosophy of Discovery, pp. 263 e 264. j. Su questo punto cfr. il secondo capitolo di questo Libro. 1. È il nome di un sale dell’acido cacodilico (così deo per il suo odore sgradevole), usato in farmacia tra i composti dell’arsenico. 2. Robert Wilhelm Bunsen (1811-1899), imico tedesco, pioniere dell’analisi sperografica. Esordì con l’analisi dei composti del cacodile, ma questa fu la sua unica escursione nel campo della imica organica. Si occupò di gasometria, inventando un metodo per la misurazione del volume dei gas; la sua fama è però legata all’analisi speroscopica, di cui geò le basi insieme con G. R. Kirhorf. 3. Miael Faraday (1791-1867), fisico e imico inglese; scoprì l’induzione eleromagnetica, le leggi dell’elerolisi e le relazioni tra luce e magnetismo, ed è considerato uno dei padri della moderna teoria del campo elcromagnetico. Fu uno degli speriipentatori più geniali e la scienza abbia mai avuto. Pubblicò parecie opere di fisica e di imica, in uno stile estremamente iaro e semplice. 4. William Charles Wells (1757-1817), medico al St. omas’s Hospital di Londra, e per primo soopose a esame scientiflco accurate) il fenomeno della rugiada, rendendo note le proprie ricere in un libro intitolato: An Essay on Dew and Several Appearances Connected with It [Saggio sulla rugiada e su parecchi fenomeni connessi] (1814). 5. Charles Edouard Brown-Séquard (1817-1894), fisiologo e neurologo inglese. Si laureò a Parigi e fu professore prima alla Harvard University, poi a Parigi. Succedee a Claude Bernard nella caedra di medicina sperimentale nel Collège de France. Si occupò, oltre e dell’argomento menzionato nel testo, di fisiologia del midollo spinale. Tra le sue scoperte più importanti fu la dimostrazione e la rimozione delle ghiandole surrenali causa la morte dell’animale. 6. Johann Franz Ene (1791-1865), astronomo tedesco: scopritore della cometa e porta il suo nome. Nel 1819 provò e le comete del 1786, 1795, 1805 e 1818 erano in realtà una sola, e calcolò per essa il periodo di 3,3 anni. Dal 1825 fu professore d’astronomia all’Università di Berlino, e direore dell’osservatorio astronomico di quella cià. 7. Dominique Francois Jean Arago (1786-1853), fisico francese, scoprì il principio del magnetismo per rotazione. Si occupò principalmente di eleromagnetismo e di teoria ondulatoria della luce. Mostrò e una spirale cilindrica di rame percorsa da una corrente arae limatura di ferro; mostrò — e a questo allude J. S. Mill nel testo — e un disco di rame rotante produce una rotazione in un ago magnetico sospeso su di esso. più tardi Faraday mostrò e questi fenomeni sono dovuti all’induzione. 8. Pierre Simon Laplace (1749-1827), matematico, flsico e astronomo francese, famoso soprauo per la sua opera sulla gravitazione esposta nella monumentale Mécanique céleste [Meccanica celeste] (1799), per la sua teoria sull’origine del sistema solare (e fu formulata ane da Kant, ed è perciò dea teoria di Kant-Laplace) e per la sua Théorie analytique des probabilités [Teoria analitica delle probabilità] (1812), in cui diede una versione sistematica al calcolo della probabilità. 9. Johann August Arfwedson (1792-1841), imico svedese, allievo di Berzelius Isolò il litio nel 1817. È l’autore di numcrose memorie di imica mineralogica. 10. Smithson Tennant (1761-1815), imico inglese, membro della Royal Society dal 1785; dal 1813 professore di imica a Cambridge. Nel 1793 dimostrò e il diamante è composto di carbonio; nel 1804 isolò l’osmio e l’iridio traando il platino con acqua regia. 11. Johann Rudolph Glauber (1604-1670), imico tedesco deo ane il Boyle tedesco, per la sua vasta conoscenza della imica. Bene ancora impastoiato nell’alimia, Glauber portò molti contributi alla nascita della imica moderna. Descrisse e preparò molti composti, quali sali di piombo, di stagno, di rame, di antimonio e di arsenico.

CAPITOLO X. LA PLURALITÀ DELLE CAUSE E LA MESCOLANZA DEGLI EFFETTI 1. Nell’esposizione precedente dei quaro metodi dell’osservazione e dell’esperimento, in cui abbiamo fao del nostro meglio per distinguere tra una massa di fenomeni coesistenti il particolare effeo dovuto a una causa data, o la particolare causa e ha dato origine a un dato effeo, per amore di semplificazione è stato necessario supporre, in primo luogo, e quest’operazione analitica non sia intralciata da altre difficoltà se non da quelle e ineriscono essenzialmente alla sua natura, così come è stato necessario rappresentarci ogni effeo, da un lato, come connesso esclusivamente con una sola causa e dall’altro come tale da non poter essere mescolato e confuso con altri effei coesistenti. Abbiamo considerato a b c d e, e cioè l’aggregato dei fenomeni esistenti in un istante qualsiasi, come consistente di fai dissimili, a, b, c, d, e, per ciascuno dei quali c’è bisogno di cercare una e una sola causa: allora la difficoltà consiste soltanto nell’enucleare questa sola causa dalla moltitudine delle circostanze antecedenti, A, B, C, D ed E. Può ben darsi e la causa non sia semplice, e consista di una raccolta di più condizioni: ma abbiamo supposto e ci fosse una sola raccolta di condizioni possibile, da cui potesse risultare l’effeo dato. Se le cose stessero davvero così, l’indagare le leggi di natura sarebbe un compito relativamente facile. Ma la supposizione non regge in nessuna delle sue parti. In primo luogo, non è vero e il medesimo fenomeno sia sempre prodoo dalla medesima causa: l’effeo a può risultare talvolta da A e talvolta da B. E, in secondo luogo, spesso gli effei di cause differenti non sono dissimili, ma omogenei, e non sono contrassegnati da nessun limite ben definito e possa distinguerli l’uno dall’altro: può darsi e A e B producano, non già a e b, ma parti differenti di un effeo a. L’oscurità e la difficoltà dell’indagine sulle leggi dei fenomeni è singolarmente accresciuta dalla necessità di prestare aenzione a queste due circostanze: la mescolanza degli effei e la pluralità delle cause. Dirigeremo prima la nostra aenzione a quest’ultima considerazione, peré, delle due, è la più semplice.

Dunque, non è vero e un effeo dev’essere connesso con una sola causa o con un solo insieme di condizioni, e ciascun fenomeno può essere prodoo in un modo solo. Spesso il medesimo fenomeno può essersi originato in diversi e svariati modi tra loro indipendenti. Un solo fao può essere il conseguente di parecie sequenze invariabili; può seguire, con eguale uniformità, a uno qualsiasi di pareci antecedenti o di parecie collezioni di antecedenti. Le cause e possono produrre il movimento sono molte; molte sono le cause e possono produrre certe specie di sensazioni, molte sono le cause e possono produrre la morte. Un effeo dato può essere di fao prodoo da una certa causa, e tuavia essere perfeamente capace di venir prodoo senza di essa. 2. Una delle conseguenze principali di questo fao della pluralità delle cause è quella di rendere incerto il primo dei metodi induivi, quello della concordanza. Per illustrare questo metodo avevamo supposto due casi: A B C seguito da a b c, e A D E seguìto da a d e. Da questi casi sembrerebbe e si possa concludere e A è un antecedente invariabile di a, e perfino e è il suo antecedente incondizionato invariabile, o causa, se solo si potesse essere sicuri e i due casi non hanno in comune nessun altro antecedente. Per togliere di mezzo questa difficoltà supponiamo e i due casi accertati positivamente non abbiano in comune nessun antecedente, ecceuato A. Però, nell’istante in cui ammeiamo la possibilità di una pluralità di cause, la conclusione non si può più trarre. Essa infai implica una tacita supposizione: e in entrambi i casi a debba essere stato prodoo dalla medesima causa. Se mai possono esserci state due cause, queste potrebbero essere, ad esempio, C ed E: l’una può essere stata la causa di a nel primo dei due casi, l’altra nell’ultimo, mentre A non ha alcuna influenza in nessuno dei due casi. Si supponga, ad esempio, di confrontare le circostanze dell’educazione e della storia di due grandi artisti o di due grandi filosofi, o di due persone estremamente egoiste, o di due persone estremamente generose, e di trovare e i due casi concordano in una sola circostanza: ne seguirebbe forse e questa sola circostanza è stata la causa della qualità e caraerizza questi due individui? Per nulla. Infai le cause e possono produrre un qualsiasi tipo di caraere sono innumerevoli, e può benissimo darsi e i caraeri

delle due persone siano simili, pur non essendoci stata alcuna somiglianza nella loro storia passata. esta è dunque un’imperfezione caraeristica del metodo della concordanza, imperfezione da cui il metodo della differenza è immune. Infai, se abbiamo due casi, A B C e B C, di cui B C dà b c, mentre l’aggiunta di A a B C trasforma b c in a b c, è certo e almeno in questo caso A è la causa di a, o una parte indispensabile della causa di a, ane se può darsi e la causa e lo produce in altri casi sia completamente differente. Pertanto la pluralità delle cause non solo non rende meno degno di fede il metodo della differenza, ma neppure rende necessario un numero maggiore di osservazioni o di esperimenti: due casi, uno positivo e l’altro negativo, sono ancora sufficienti per l’induzione più completa e rigorosa. Non così, invece, col metodo della concordanza. Le conclusioni e esso fornisce quando il numero dei casi confrontati è piccolo non hanno alcun valore reale, se non in quanto suggerimenti: come tali possono allora condurre o a esperimenti e li soopongano al controllo del metodo della differenza o a ragionamenti e li possano spiegare e verificare deduivamente. Solo quando i casi, moltiplicati e variati indefinitamente, continuano a suggerire il medesimo risultato, quest’ultimo acquista un alto grado di valore indipendente. Se i casi sono soltanto due, A B C e A D E, allora, ane se non hanno alcun antecedente in comune ecceuato A, siccome può darsi e l’effeo sia stato prodoo nei due casi da cause differenti, al massimo il risultato è soltanto una leggera probabilità in favore di A; forse c’è causazione, ma è quasi egualmente probabile e sia soltanto una coincidenza. Però, quanto più spesso ripetiamo l’osservazione variando le circostanze, tanto più ci avviciniamo alla soluzione di questo dubbio. Infai, se meiamo alla prova A F G, A H K, ecc., tui dissimili fra loro tranne e per il fao e contengono la circostanza A, e troviamo e in tui questi casi entra nel risultato l’effeo a, dobbiamo supporre una di queste due cose: o a è causato da A, oppure ha tante cause differenti quanti sono questi casi. Naturalmente, quando se ne presenti l’occasione, il ricercatore non trascurerà di escludere A da qualcuna di queste combinazioni, ad esempio da A H K e, meendo alla prova separatamente H K, iamerà il metodo della differenza in aiuto al metodo della concordanza. Con il solo metodo della differenza si può accertare e A è la causa di a, ma e sia la causa, o un

altro effeo della medesima causa, si può porre al di là di ogni ragionevole dubbio solo mediante il metodo della concordanza, puré i casi siano molto numerosi e sufficientemente vari. Ma allora, di quanto si devono moltiplicare e di quanto variare i casi e concordano tui nel solo antecedente A, peré sia possibile respingere in modo sufficientemente legiimo la supposizione di una pluralità di cause e considerare sgombra dalla sua imperfezione caraeristica, e ridoa a certezza virtuale, la conclusione e a è connesso con A? A questa domanda non ci si può esimere dal dare una risposta: ma la considerazione di questo punto appartiene a quella e si iama la teoria della probabilità, e costituirà l’argomento di un capitolo successivo. Comunque, si vede subito e dopo un numero sufficientemente alto di casi la conclusione equivale a una certezza pratica, e e pertanto il metodo non è viziato alla radice dall’imperfezione caraeristica. In primo luogo, il risultato di queste considerazioni consiste soltanto nell’indicare una nuova fonte di inferiorità del metodo della concordanza in confronto con altri metodi di indagine, e nel meere in evidenza nuove ragioni per non star mai contenti ai risultati oenuti con tale metodo, senza tentare di confermarli o col metodo della differenza o conneendoli deduivamente con quale legge, o con più d’una legge, già accertate con questo metodo superiore. E, in secondo luogo, da questo impariamo la vera teoria del valore del puro e semplice numero dei casi nella ricerca induiva. L’unica ragione per cui il puro e semplice numero ha una quale importanza è la pluralità delle cause. La tendenza dei ricercatori dotati di scarso spirito scientifico è quella di fidarsi troppo del numero, senza analizzare i casi: senza cioè scrutarne sufficientemente da vicino la natura, per accertare quali circostanze vengano eliminate per loro mezzo e quali no. I più sostengono le loro conclusioni con un grado di sicurezza tanto più alto quanto maggiore è la pura e semplice massa delle esperienze sulle quali le conclusioni sembrano riposare e non considerano e aggiungendo casi a casi, tui della medesima specie (casi, cioè, e differiscono l’uno dall’altro soltanto in punti e sono già stati riconosciuti come inessenziali) non si aggiunge proprio nulla alle prove in favore della conclusione. Un solo caso, e elimini certi antecedenti e erano presenti in tui gli altri casi, ha più valore della più grande moltitudine di casi, valutati soltanto in base al loro numero. Indubbiamente, è necessario assicurarci, ripetendo l’osservazione o l’esperimento, di non aver commesso nessun errore a proposito dei fai individuali osservati; e fin quando non ce ne

saremo assicurati, non agiremo mai troppo scrupolosamente se, invece di far variare le circostanze, ripeteremo lo stesso esperimento o la stessa osservazione senza fare cambiamenti. Ma una volta oenuta quest’assicurazione, il moltiplicare casi e non escludano nessun’altra circostanza, è del tuo inutile, puré i casi siano già in numero sufficientemente alto da escludere l’ipotesi della pluralità delle cause. È importante osservare e la particolare modificazione del metodo della concordanza e, in quanto partecipe in quale misura della natura del metodo della differenza, ho iamato metodo congiunto della concordanza e della differenza, non è viziata dall’imperfezione caraeristica ora messa in evidenza. Infai, nel metodo congiunto non soltanto si suppone e i casi in cui si trova a concordino solo in quanto contengono A, ma ane e i casi in cui a non si trova concordino solo in quanto non contengono A. Ora, se le cose stanno così, non solo A dev’essere la causa di a, ma dev’essere la sola causa possibile: infai se a avesse un’altra causa, ad esempio B, allora B dovrà essere stata assente nei casi in cui a non compare, proprio come è stata assente A; non sarebbe perciò vero e questi casi concordano soltanto in quanto non contengono A. esto rappresenta dunque un immenso vantaggio del metodo congiunto sul metodo semplice della concordanza. Può sembrare, in realtà, e il vantaggio non appartenga tanto al metodo congiunto, quanto piuosto a una delle sue due premesse (se le si può iamare così), cioè alla premessa negativa. ando lo si applica a casi negativi — ossia ai casi in cui un certo fenomeno non ha luogo — il metodo della concordanza è certamente immune dall’imperfezione caraeristica da cui è affeo nel caso affermativo. Si potrebbe perciò supporre e la premessa negativa si possa elaborare come un semplice caso del metodo della concordanza, senza riiedere e con essa vada congiunta una premessa negativa. Ma bené questo sia vero in linea di principio, in generale è completamente impossibile far funzionare il metodo della concordanza per mezzo di casi negativi, senza casi positivi: esaurire il campo della negazione è infai molto più difficile e esaurire il campo dell’affermazione. Per esempio, supponiamo di iederci quale sia la causa della trasparenza dei corpi: quali saranno le nostre prospeive di successo se ci accingeremo a indagare direamente in e cosa concordino le molteplici sostanze e non sono trasparenti? Invece possiamo sperare di afferrare molto più presto quale punto di somiglianza fra le specie di oggei,

relativamente poe e ben definite, e sono trasparenti. Fao ciò, dovremmo procedere in modo del tuo naturale ad esaminare se l’assenza di quest’unica circostanza non sia precisamente il punto in cui si troverà e si somigliano tue le sostanze opae. Pertanto, il metodo congiunto della concordanza e della differenza o, come l’ho altrimenti iamato, il metodo indireo della differenza (peré, come il metodo della differenza propriamente deo procede accertando come, e in e cosa, i casi in cui il fenomeno è presente differiscano da quelli in cui il fenomeno è assente) è, dopo il metodo direo della differenza, il più potente degli altri strumenti della ricerca induiva; e nelle scienze e dipendono dalla pura osservazione e non ricevono alcun aiuto dall’esperimento, o ne ricevono soltanto in misura minima, questo metodo, così ben esemplificato dalla speculazione sulla causa della rugiada, costituisce la risorsa principale, nella misura in cui entrano in causa gli appelli direi all’esperienza. 3. Finora abbiamo traato la pluralità delle cause soltanto come una supposizione possibile e, fin quando non la si sia eliminata, rende incerte le nostre induzioni, e ci siamo limitati a prendere in considerazione quali mezzi ci meano in grado di provare l’inesistenza di una pluralità di cause, quando davvero tale pluralità non esista. Ma dobbiamo ane considerare la pluralità delle cause come un caso e si trova effeivamente in natura e e i nostri metodi d’induzione devono essere in grado di accertare e di stabilire ogni volta e si presenti. Per farlo non c’è però bisogno di nessun metodo particolare. ando un effeo può davvero essere prodoo da due o più cause, il processo per scoprire queste cause non è per nulla differente da quello con cui scopriamo le cause da sole. Possono essere scoperte (in primo luogo) come sequenze separate, mediante insiemi separati di casi. Un certo insieme di osservazioni o di esperimenti mostra e il Sole è causa di calore, un altro, e una fonte di calore è l’arito, un altro, e lo è la percussione, un altro ancora, e lo è l’elericità, un altro e questa fonte è l’azione imica. Oppure (in secondo luogo) la pluralità può venire alla luce nel corso del confronto fra un certo numero di casi, mentre si tenta di trovare quale circostanza in cui tui questi casi concordano, e non si riesce a trovarla. Troviamo e è impossibile risalire a quale circostanza comune a tui i casi in cui incontriamo l’effeo. Troviamo e è possibile eliminare tutti gli

antecedenti, e nessuno di essi è presente in tui i casi, nessuno è indispensabile all’effeo. Però, se esaminiamo le cose più da vicino, vediamo e, ane se nessun antecedente è presente sempre, sono sempre presenti questo o quello di pareci antecedenti. Se, proseguendo nell’analisi, possiamo scoprire, negli antecedenti, quale elemento comune, può darsi e riusciamo a risalire da essi a quale causa e è la circostanza e realmente opera in tui. Così ora si pensa e la fonte ultima della produzione del calore, per arito, percussione, azione imica ecc., è sempre la medesima. Ma se (come accade continuamente) non possiamo compiere questo passo ulteriore, dobbiamo registrare provvisoriamente i diversi antecedenti come cause distinte, ciascuna di per se stessa sufficiente a produrre l’effeo. Chiudiamo qui le nostre osservazioni sulla pluralità delle cause e procediamo al caso, ancor più peculiare e più complesso, della mescolanza degli effei e dell’interferenza delle cause l’una con l’altra. esto caso costituisce la parte principale della complicazione e della difficoltà presentate dallo studio della natura; come vedremo subito, i quaro metodi dell’indagine induiva direa per osservazione ed esperimento sono, in massima parte, del tuo incapaci di affrontarlo con successo. Soltanto lo strumento della deduzione è in grado di sbrogliare le difficoltà e procedono da questa fonte, mentre i quaro metodi possono far ben poco oltre a fornire le premesse delle nostre deduzioni e a verificarle. 4. Come abbiamo già spiegato, il concorso di due o più cause, e non producono ciascuna il proprio effeo separatamente, ma interferiscono l’una con gli effei dell’altra o li modificano, può aver luogo in due modi. Nel primo, e in meccanica è esemplificato dall’azione congiunta di forze differenti, gli effei separati di tue le cause continuano a prodursi, ma sono composti tra loro, e scompaiono in un solo totale. Nell’altro, illustrato dal caso dell’azione imica, gli effei separati cessano interamente e ad essi succedono fenomeni completamente differenti e governati da leggi differenti. Di questi due casi, il primo è di gran lunga il più frequente, ed è proprio quello e per lo più sfugge alla presa dei nostri metodi sperimentali. L’altro caso, eccezionale, è essenzialmente riconducibile a questi metodi. ando le leggi degli agenti originari cessano completamente e fa la sua comparsa un fenomeno completamente eterogeneo rispeo a queste leggi — come

quando, per esempio, due sostanze gassose, l’idrogeno e l’ossigeno, messe insieme perdono le loro proprietà particolari e producono la sostanza iamata acqua — in questi casi il nuovo fao può essere sooposto a ricerca sperimentale come qualsiasi altro fenomeno, e gli elementi e si dice e lo compongono possono essere considerati come i puri e semplici agenti della sua produzione: le condizioni da cui dipende, i fai e costituiscono la sua causa. Con l’esperimento gli effetti del nuovo fenomeno — per esempio le proprietà dell’acqua — si trovano tanto facilmente quanto gli effei di qualsiasi altra causa. Ma spesso lo scoprirne la causa — lo scoprire, cioè, quella particolare congiunzione di effei da cui risulta l’acqua — è abbastanza difficile. In primo luogo, l’origine e il prodursi effeivo del fenomeno sono molto spesso inaccessibili alla nostra osservazione. Se non ci fosse stato possibile venir a sapere la composizione dell’acqua prima di aver trovato casi in cui l’acqua fosse stata effeivamente prodoa dall’ossigeno e dall’idrogeno, saremmo stati costrei ad aspeare fin quando qualcuno non si fosse imbauto per caso nell’idea di far passare una scintilla elerica araverso una mistura dei due gas, o di inserire in essa una candela accesa, solo per provare e cosa sarebbe accaduto. Inoltre, molte sostanze possono essere analizzate, ma non possono essere ricomposte con nessun mezzo artificiale noto. Per di più, ane se avessimo potuto accertare col metodo della concordanza e quando si produce acqua sono presenti tanto l’ossigeno quanto l’idrogeno, nessuna sperimentazione condoa separatamente sull’ossigeno e l’idrogeno, nessuna conoscenza delle loro leggi, avrebbe potuto meerci in grado di inferire deduivamente e avrebbero prodoo acqua. È necessario compiere un esperimento specifico sui due elementi combinati. Date queste difficoltà, della conoscenza delle cause di questa classe di effei saremmo stati debitori, in generale, non già a una ricerca direa specificamente verso quel fine, ma o al caso o al progresso graduale della sperimentazione sulle differenti combinazioni di cui sono susceibili gli agenti e li producono, se non fosse per una particolarità caraeristica degli effei di questo tipo per la quale spesso, in una particolare combinazione di circostanze, tali effei riproducono le loro cause. Se l’acqua risulta dalla combinazione di idrogeno e ossigeno ogni volta e tale combinazione può essere resa sufficientemente strea e intima, così, d’altro canto, la stessa acqua, in certe situazioni, riproduce idrogeno e ossigeno: alle nuove leggi

viene imposto bruscamente un termine e gli agenti riappaiono separatamente, con le loro vecie proprietà. La cosiddea analisi imica è il processo e consiste nell’andare a ricercare le cause di un fenomeno tra i suoi effei, o, piuosto, tra gli effei prodoi dall’azione su di esso di quale altra causa. Riscaldando mercurio in un recipiente iuso contenente aria, fino a fargli raggiungere un’alta temperatura, Lavoisier1 trovò e il peso del mercurio aumentava, e il mercurio stesso si trasformava in quello e allora si iamava «precipitato rosso»; esaminando l’aria dopo l’esperimento, si trovò e il suo peso era diminuito e e l’aria stessa era diventata incapace di rendere possibile la vita o la combustione. ando fu esposto a un calore ancora più grande, il precipitato rosso si trasformò nuovamente in mercurio e liberò un gas e sosteneva la vita e la combustione. Così gli agenti e con la loro combinazione hanno prodoo il precipitato rosso, cioè il mercurio e il gas, quando su di essi agisca il calore, ricompaiono come effei risultanti da quel precipitato. Così, scomponendo l’acqua per mezzo di limatura di ferro, produciamo due effei: ruggine e idrogeno: ora, grazie agli esperimenti compiuti sulle sostanze e la compongono, sappiamo già e la ruggine è un effeo dell’unione di ferro e di ossigeno: il ferro l’abbiamo fornito noi stessi, ma l’ossigeno dev’essere stato prodoo dall’acqua. Il risultato è perciò e l’acqua è scomparsa e in sua vece sono comparsi idrogeno e ossigeno; o, in altre parole: le leggi originali di questi agenti gassosi, e erano state sospese dal sopravvento delle nuove leggi iamate proprietà dell’acqua, sono ricominciate ad esistere, e tra i loro effei si trovano le cause dell’acqua. ando due fenomeni, tra le leggi o proprietà dei quali (considerati in se stessi) non è possibile rintracciare alcuna connessione, sono reciprocamente causa ed effeo, e ciascuno può essere a sua volta prodoo dall’altro, e ciascuno cessa di esistere quando produce l’altro (così come l’acqua è prodoa da ossigeno e idrogeno e ossigeno e idrogeno sono riprodoi dall’acqua), la causazione dei due fenomeni l’uno dall’altro — ciascuno essendo generato dalla distruzione dell’altro — è, per parlar propriamente, una trasformazione. L’idea di composizione imica è l’idea di trasformazione, ma di trasformazione incompleta; infai riteniamo e l’ossigeno e l’idrogeno siano presenti nell’acqua in quanto ossigeno e idrogeno, cosicé se nostri sensi fossero sufficientemente acuti saremmo in grado di scoprirli: si traa di una supposizione (peré non è nulla più di

una supposizione) basata soltanto sul fao e il peso dell’acqua è la somma dei pesi separati dei due ingredienti. Se non ci fosse stata quest’eccezione alla sparizione completa, nel composto, delle leggi degli ingredienti separati; se gli agenti combinati non avessero conservato le loro leggi, almeno per quanto riguarda, in particolare, il loro peso, e non avessero prodoo un risultato tato congiunto eguale alla somma dei loro risultati separati, probabilmente non avremmo mai avuto la nozione ora implicita nelle parole «composizione imica»: e dato e la trasformazione sarebbe stata completa, nel fao della produzione di acqua a partire dall’idrogeno e dall’ossigeno, e in quello della produzione di idrogeno e ossigeno a partire dall’acqua, non avremmo visto nient’altro e una trasformazione. In questi casi, in cui l’effeo eteropatico (come l’abbiamo iamato in un capitolo precedentea) non è altro e la trasformazione della sua causa o, in altre parole, in cui l’effeo e la sua causa sono reciprocamente causa ed effeo, e reciprocamente convertibili l’uno nell’altra, il problema di trovare le cause si risolve nel problema, di gran lunga più facile, di trovare un effeo, e questo è il genere di ricerca e può essere proseguito con esperimenti direi. Ma ci sono altri casi di effei eteropatici ai quali non è possibile applicare questo modo di indagine. Si prendano, per esempio, le leggi eteropatie della mente; quella parte dei fenomeni della nostra natura mentale e sono analoghi ai fenomeni imici piuosto e ai fenomeni dinamici, come quando la riunione di pareci impulsi elementari dà luogo a una passione complessa, o pareci piaceri o dolori semplici dànno luogo a un’emozione complessa e risulta da tali piaceri o da tali dolori senza però esserne l’aggregato o senza essere omogonea con essi, per nessun aspeo. In questi casi il prodoo è generato dai suoi vari faori, ma i faori non possono essere riprodoi a partire dal prodoo, proprio come un giovane può diventare vecio ma un vecio non può diventare giovane. Non possiamo accertare da quali sentimenti semplici siano generati i nostri stati mentali complessi, allo stesso modo in cui accertiamo gli ingredienti di un prodoo imico facendo in modo e questo generi, a sua volta, i propri ingredienti. Possiamo perciò scoprire queste leggi solo mediante il lento processo e consiste nello studiare i sentimenti semplici in se stessi, e nell’accertare sinteticamente — sperimentando le varie combinazioni di cui sono susceibili — e cosa siano capaci di generare con la loro azione reciproca.

5. Si sarebbe potuto supporre e l’altra varietà, apparentemente più semplice, di interferenza reciproca delle cause — in cui ciascuna causa continua a produrre il suo proprio effeo secondo le stesse leggi alle quali si conforma nel suo stato separato — avrebbe presentato, al ricercatore induivo, un minor numero di difficoltà di quella e abbiamo appena finito di prendere in considerazione. Ma, per quanto riguarda l’induzione direa a parte dalla deduzione, essa presenta difficoltà infinitamente più grandi. ando un concorso di cause dà origine a un nuovo effeo, e non ha nessuna relazione con gli effei separati di queste cause, il fenomeno e ne risulta sta in evidenza, non maserato, aira l’aenzione sulla sua particolarità, e non presenta ostacoli al riconoscimento da parte nostra della sua presenza o della sua assenza tra un qualsiasi numero di fenomeni circostanti. Pertanto, può essere facilmente fao rientrare tra i canoni dell’induzione, puré si possano oenere casi del genere di quelli riiesti da tali canoni: e il fao e questi casi non si presentino, o manino i mezzi per produrli artificialmente, è la sola difficoltà vera e propria di tali indagini, difficoltà non logica, ma in quale modo fisica. Le cose vanno diversamente per i casi di quella e in un capitolo precedente è stata iamata la composizione delle cause. Là, gli effei delle cause separate non terminano per dar luogo ad altri, cessando così di formare una parte del fenomeno da indagare: al contrario, avvengono ancora, ma sono commisti con gli effei omogenei e streamente congiunti di altre cause e maserati da essi. Non sono più a, b, c, d, e, e esistono l’uno a fianco dell’altro e e continuano ad essere discernibili separatamente: sono +a, —a, ½ b, —b, 2b, ecc., alcuni dei quali si annullano a vicenda, mentre molti altri non compaiono in modo tale e sia possibile distinguerli, ma si fondono in una sola somma, formando tui insieme un risultato, tra il quale e le cause da cui è stato prodoo è spesso praticamente impossibile rintracciare con l’osservazione una qualsiasi relazione definita. Abbiamo visto e l’idea generale della composizione delle cause è la seguente: due o più leggi, pur interferendo l’una con l’altra e rendendo apparentemente vano, o modificando l’una l’operare dell’altra, sono nondimeno tue soddisfae, e l’effeo colleivo è la somma esaa degli effei delle cause prese separatamente. Un esempio familiare è quello fornito da un corpo mantenuto in equilibrio da due forze eguali e contrarie. Una delle forze, agendo da sola, porterebbe il corpo in un tempo dato ad una certa distanza ad ovest, l’altra, agendo da sola, lo porterebbe esaamente alla

stessa distanza ad est. Il risultato è lo stesso e se il corpo fosse stato portato prima verso ovest, fin dove avrebbe potuto spingerlo la prima delle due forze, e poi di nuovo indietro fin dove avrebbe potuto spingerlo l’altra: vale a dire, esaamente alla stessa distanza; alla fine il corpo sarà lasciato dove si trovava all’inizio. ando entrano in conflio con altre leggi, il cui risultato separato è opposto al loro o più o meno incompatibile con esso, tue le leggi di causazione possono subire un’azione contraria simile a quella subìta dal corpo, ed essere apparentemente annullate. Accade perciò, per quasi tue le leggi, e molti casi nei quali in realtà la legge è completamente soddisfaa, a prima vista non sembrino affao casi in cui la legge è operante. Così è nell’esempio e abbiamo appena addoo: in meccanica, una forza non significa né più né meno e una causa di movimento, tuavia la somma degli effei di due cause di movimento può avere come risultato la quiete. Ancora, un corpo sollecitato da due forze e formano tra loro un angolo si muove in diagonale: e sembra un paradosso il dire e il movimento nella direzione diagonale è il risultato della somma dei due movimenti nelle due altre direzioni. Ma il movimento non è altro e il cambiamento di luogo, e a ogni istante il corpo si trova esaamente nel luogo in cui si sarebbe trovato se, anzié agire nel medesimo istante, le forze avessero agito in istanti alternati (salvo e, se si suppone e due forze e in realtà sono simultanee agiscano in successione, è naturale e si debba conceder loro il doppio del tempo). È dunque evidente e in ciascun istante ciascuna forza ha avuto tuo l’effeo e le è proprio e e si può ritenere e l’influenza modificatrice, e si dice e una delle due cause concorrenti eserciti sull’altra, si eserciti non già sull’azione della causa stessa, ma sull’effeo, dopo e si è compiuto. Per tui gli scopi della predizione, del calcolo o della spiegazione del loro risultato congiunto, le cause e dànno luogo agli effei composti possono essere traate come se producessero simultaneamente ciascuna il proprio effeo e come se tui questi effei coesistessero visibilmente. ando le cause subiscono — come si dice — l’azione di cause opposte, le loro leggi risultano soddisfae proprio come quando le cause sono lasciate libere di esercitare l’azione e è loro propria; dobbiamo perciò fare aenzione a non esprimere le leggi in termini tali e rendano contraddioria l’asserzione e in quei casi le leggi sono soddisfae. Se, per esempio, si asserisse come legge di natura e un corpo a cui sia stata

applicata una forza si muove nella direzione della forza con una velocità direamente proporzionale alla forza e inversamente proporzionale alla propria massa, quando di fao alcuni corpi a cui si applica una forza non si muovono affao mentre quelli e si muovono (almeno nel campo della nostra Terra) sono, fin dall’inizio, ritardati dall’azione della gravità e di altre forze contrarie e infine li fermano del tuo, è iaro e la proposizione generale, pur essendo vera soo una certa ipotesi, non esprimerebbe i fai come hanno luogo in realtà. Per adaare l’espressione della legge ai fenomeni reali, dobbiamo dire, non già e l’oggeo si muove, ma e tende a muoversi nella direzione e con la velocità specificate. In realtà potremmo salvaguardare la nostra espressione in un modo differente, dicendo e il corpo si muove in quel modo a meno e non ne sia impedito, o finé non ne sia impedito, da quale causa contraria. Ma non solo il corpo si muove in quel modo a meno e non ne sia impedito da quale causa contraria: tende a muoversi in quella maniera ane in presenza di una causa contraria: continua a esercitare nella direzione originaria la stessa energia di movimento e avrebbe esercitato se il suo primo impulso non fosse stato disturbato e produce, con quell’energia, una quantità di effeo esaamente equivalente. esto è vero ane quando la forza lascia il corpo come l’ha trovato, in istato di quiete assoluta, come quando tentiamo di sollevare un corpo di tre tonnellate con una forza eguale a una tonnellata. Se infai, mentre stiamo applicando questa forza, il vento, o l’acqua, o quale altro agente, fornisce una forza supplementare e superi di poco le due tonnellate, il corpo si solleverà. Sarà così provato e la forza e abbiamo applicato ha esercitato il suo effeo completo neutralizzando una parte equivalente di quel peso e era del tuo insufficiente a vincere. E se mentre stiamo esercitando questa forza di una tonnellata sull’oggeo in una direzione contraria a quella della gravità meiamo l’oggeo su di una bilancia e lo pesiamo, troviamo e avrà perduto una tonnellata del suo peso, o, in altre parole, e preme verso il basso con una forza eguale soltanto alla differenza tra le due forze e gli sono state applicate. esti fai sono indicati correamente dall’espressione «tendenza». Tue le leggi di causazione, in quanto sono soggee a subire azioni contrarie, devono essere espresse in parole e affermino soltanto tendenze, e non risultati effeivi. In quelle scienze di causazione e posseggono una nomenclatura accurata, ci sono parole speciali e significano una tendenza al particolare effeo di cui la scienza traa; così in meccanica «pressione» è

sinonimo di tendenza al moto, e si ragiona delle forze non in quanto causano effeivamente il moto, ma in quanto esercitano pressione. Un miglioramento analogo della terminologia sarebbe molto salutare per molti altri rami della scienza. L’abito di trascurare quest’elemento, necessario all’espressione precisa delle leggi di natura, ha dato origine al pregiudizio popolare e tue le verità generali hanno eccezioni; per questa ragione sulle conclusioni della scienza, quando siano state sooposte al giudizio di intellei insufficientemente disciplinati e coltivati, è stato sparso un discredito altamente immeritato. Di solito hanno eccezioni le rozze generalizzazioni suggerite dall’osservazione comune: non ne hanno, invece, i princìpi della scienza, o, in altre parole, le leggi di causazione. «ello e si pensa costituisca l’eccezione a un principio (per citare parole usate in un’altra occasione) è sempre quale altro principio distinto e s’insinua nel primo, quale altra forza e va a urtareb la prima e la fa deviare dalla sua direzione. Non ci sono una legge e l’eccezione a questa legge — la legge e agisce in novantanove casi e l’eccezione e agisce in un caso solo: ci sono due leggi, e forse agiscono tue e due in tui e cento i casi e con la loro azione congiunta producono un effeo comune. Se la forza, e essendo la meno cospicua delle due si iama la forza perturbatrice, prevale in quale caso sull’altra forza tanto da trasformare quel caso in quella e comunemente si iama un’eccezione, è probabile e la stessa forza perturbatrice agisca come causa modificante in molti altri casi e nessuno iamerebbe eccezioni. Così, se si asserisse e è una legge di natura e tui i corpi pesanti cadano al suolo, si direbbe probabilmente e la resistenza dell’atmosfera, e impedisce a una mongolfiera di cadere, fa sì e la mongolfiera rappresenti un’eccezione a quella pretesa legge di natura. Ma la legge vera e propria dice e tui i corpi pesanti tendono a cadere, e a questa legge nulla fa eccezione. Non vi fanno eccezione neppure il Sole e la Luna, peré an’essi, come sa bene ogni astronomo, tendono verso la Terra, con una forza esaamente eguale a quella con cui la Terra tende verso di essi. Nel caso particolare della mongolfiera si potrebbe dire, fraintendendo la vera natura della legge della gravitazione, e l’atmosfera prevale sulla legge; ma l’effeo perturbatore dell’atmosfera è altreanto reale in tui gli altri casi, peré, pur non impedendo la caduta di tui i corpi qualsiasi, tuavia la ritarda. La regola e la cosiddea eccezione non si spartiscono i casi tra loro;

ciascuna di esse è una regola comprensiva, e si estende a tui i casi. Il dire e uno di questi princìpi concorrenti è un’eccezione all’altro, è cosa superficiale e contraria ai princìpi correi della nomenclatura e della classificazione. Non è lecito collocare in due categorie differenti un effeo e sia esaamente della medesima specie e abbia origine dalla medesima causa, soltanto peré esiste o non esiste un’altra causa e ha la prevalenza su di esso»c. 6. Dobbiamo ora prendere in considerazione il metodo secondo il quale si devono studiare questi effei complessi, composti dagli effei di molte cause; in qual modo diventiamo capaci di ricondurre ciascun effeo al concorso di cause nel quale ha avuto origine e di accertare le condizioni della sua ricorrenza: le circostanze in cui ci si può aspeare e accada altre volte. Le condizioni di un fenomeno e si origina da una composizione di diverse cause possono essere indagate o deduivamente o sperimentalmente. Evidentemente, il caso è per sua natura susceibile di essere indagato col metodo deduivo. La legge di un effeo di questo tipo è un risultato delle leggi delle cause separate dalla cui combinazione dipende, ed in se stesso è perciò passibile di essere dedoo da queste leggi. esto si iama il metodo a priori. L’altro metodo, ossia il metodo a posteriori, diiara di procedere secondo i canoni dell’indagine sperimentale. Considerando come un’unica causa tuo quanto l’insieme delle cause concorrenti e hanno prodoo il fenomeno, tale metodo tenta di accertare la causa nella maniera ordinaria, mediante un confronto fra i casi. esto secondo metodo si suddivide a sua volta in due varietà differenti. Se si limita semplicemente a meere a confronto certi casi dell’effeo è un metodo di pura osservazione. Se invece opera sulle cause e mee alla prova differenti combinazioni di tali cause, nella speranza di imbaersi alla fine nella combinazione precisa e produrrà l’effeo totale dato, allora si traa di un metodo sperimentale. Allo scopo di iarire in modo più completo la natura di ciascuno di questi tre metodi, e di determinare quale di essi meriti la preferenza, sarà opportuno (seguendo una massima favorita del Lord Cancelliere Eldon2, alla quale — bené sia spesso incorsa nel ridicolo da parte dei filosofi — una filosofia più profonda non rifiuterebbe il proprio avallo) «rivestirli di circostanze». Per questo scopo sceglieremo un caso e fino ad oggi non costituisce ancora un esempio molto brillante del successo di nessuno dei tre

metodi, ma e, proprio per questa ragione, è ancor più adao a illustrare le difficoltà intrinsee a tali metodi. Poniamo e l’oggeo della ricerca siano le condizioni di salute e di malaia del corpo umano; o — per maggiore semplicità — le condizioni alle quali si guarisce da una data malaia. Allo scopo di restringere ancor di più la portata della questione, limitiamola, in primo luogo, a questa sola domanda: se un certo medicamento particolare (per esempio un preparato al mercurio) costituisca un rimedio per la malaia data. Ora, il metodo deduivo prenderebbe le mosse dalle proprietà note del preparato al mercurio e dalle leggi note del corpo umano, e, ragionando a partire da queste leggi, tenterebbe di scoprire se il preparato al mercurio agisca, su di un corpo e si trovi nelle condizioni morbose ipotizzate, in modo tale da ridargli la salute. Il metodo sperimentale si limiterebbe a somministrare il preparato al mercurio nel maggior numero di casi possibile, prendendo nota dell’età, del sesso, del temperamento e di altre peculiarità della costituzione corporea, della forma o varietà particolari della malaia, dello stadio particolare del suo decorso, ecc., osservando in quali di questi casi il rimedio abbia prodoo un effeo salutare, e con quali circostanze fosse combinato in tali occasioni. Il metodo della semplice osservazione meerebbe a confronto i casi di guarigione, allo scopo di trovare se questi casi concordino per il fao di essere stati preceduti dalla somministrazione del mercurio, oppure confronterebbe casi di guarigione con casi di fallimento della cura per trovare casi e, pur concordando per tui gli altri aspei, differiscano soltanto per il fao e si era somministrato o e non si era somministrato il preparato al mercurio. 7. Nessuno ha mai sostenuto seriamente e al nostro caso sia possibile applicare l’ultimo di questi tre modi di indagine. In questo modo, infai, non si è mai oenuta, su di un argomento così intricato, una conclusione e avesse quale valore. Il massimo e ne potrebbe risultare sarebbe una vaga impressione generale in favore o contro l’efficacia del preparato al mercurio, impressione e non potrebbe assolutamente servirci da guida se non fosse confermata da uno degli altri due metodi. Non e i risultati a cui questo metodo tende — se si potessero oenere — non sarebbero del massimo valore. Se, in un esame e copre un gran numero di casi, tui i casi di guarigione e si presentano fossero casi in cui il preparato al mercurio è

stato somministrato, potremmo generalizzare fiduciosamente da quest’esperienza ed avremmo così oenuto una conclusione dotata di valore reale. Ma in un caso di questo genere non possiamo sperare di oenere nessuna base siffaa per una generalizzazione. La ragione è quella di cui abbiamo parlato come di quello e costituisce l’imperfezione caraeristica del metodo della concordanza: la pluralità delle cause. Perfino supponendo e il preparato al mercurio tenda a curare la malaia, sta di fao e ci sono ane tante di quelle altre cause naturali e artificiali e tendono a curare la medesima malaia, e si può essere sicuri e ci saranno moltissimi esempi di guarigione in cui il preparato al mercurio non è stato somministrato. Se poi si suppone e la prassi sia di somministrarlo in tui i casi, allora lo si troverà egualmente ane nei casi in cui la cura fallisce. Generalmente, quando un effeo risulta dall’unione di molte cause, la parte e ciascuna di queste cause ha nella determinazione dell’effeo non può essere grande: e non è probabile e l’effeo segua, ane solo approssimativamente, da una sola delle cause, e neppure e da una sola causa dipendano la sua presenza o la sua assenza; tanto meno sarà probabile e ne dipendano le sue variazioni. La guarigione da una malaia è un evento a cui, in ogni caso, non possono non concorrere molte cause. Il preparato al mercurio può essere una di queste influenze; ma proprio per il fao e ci sono molte altre influenze del medesimo genere, accadrà necessariamente e spesso il paziente non guarisca ane se gli è stato somministrato il preparato al mercurio, peré non saranno presenti le altre influenze e concorrono alla guarigione, mentre spesso si darà il caso e guarisca quando non gli è stato somministrato il preparato, peré le altre influenze favorevoli sono sufficientemente potenti ane senza il preparato in questione. Perciò i casi di guarigione non concorderanno per il fao e il preparato al mercurio è stato somministrato, e i casi di mancata guarigione non concorderanno per il fao e non è stato somministrato. È già tanto se, da ripetuti e accurati resoconti degli ospedali e di istituzioni simili, possiamo venire a sapere e quando il preparato al mercurio è stato somministrato i casi di guarigione sono alquanto più numerosi, e i casi di fallimento alquanto meno numerosi, di quando non è stato somministrato. esto risultato, però, ha un valore molto secondario, ane come guida pratica, ed è quasi privo di valore come contributo alla teoria su questo argomentod.

8. Riconosciuta così l’inapplicabilità del metodo della semplice osservazione all’accertamento delle condizioni di effei e dipendono dal concorso di molte cause, procederemo ora a indagare se ci si possa aspeare quale beneficio maggiore dall’altra branca del metodo a posteriori: da quella branca, cioè, e procede meendo direamente alla prova differenti combinazioni di cause e sono state prodoe artificialmente o si trovano in natura, e prendendo nota di quale sia il loro effeo: per esempio, meendo realmente alla prova l’effeo del preparato al mercurio nel maggior numero possibile di circostanze differenti. esto metodo differisce da quello e abbiamo appena esaminato per il fao e invece di dirigere la nostra aenzione sull’effeo — cioè sulla guarigione della malaia — la fa convergere direamente sulle sue cause, o agenti. E siccome di regola gli effei delle cause sono in generale di gran lunga più accessibili alla nostra indagine di quanto non lo siano le cause degli effei, è naturale pensare e questo metodo abbia una possibilità di riuscita molto migliore di quella del primo. Il metodo e ora stiamo prendendo in considerazione si iama metodo empirico, e allo scopo di darne una stima equa dobbiamo supporre e sia completamente empirico, e non empirico solamente in parte. Dobbiamo escludere da esso tuo quello e partecipa non della natura delle operazioni sperimentali, ma di quelle deduive. Ad esempio, se tentiamo esperimenti col preparato al mercurio su una persona in salute allo scopo di accertare le leggi generali secondo le quali il preparato agisce sul corpo umano, e poi ragioniamo a partire da queste leggi per determinare in qual modo il preparato agirà su una persona affea da una malaia particolare, può ben darsi e questo sia un metodo davvero efficace, ma si traa pur sempre di deduzione. Il metodo sperimentale non deriva la legge di un caso complesso dalle leggi più semplici e collaborano a produrlo, ma compie i suoi esperimenti direamente sul caso complesso. Dobbiamo fare interamente astrazione da ogni conoscenza delle tendenze più semplici, dai modi operandi deagliati del preparato al mercurio. La nostra sperimentazione deve proporsi di oenere una risposta direa alla questione specifica: «Il mercurio tende o non tende a curare quella particolare malaia?». Ceriamo dunque di vedere fino a e punto, in questo caso, sia possibile aenerci a quelle regole di sperimentazione alle quali abbiamo trovato necessario aenerci in altri casi. ando progeiamo un esperimento per accertare l’effeo di un dato agente, ci sono certe precauzioni e, se

possiamo farne a meno, non omeiamo mai. In primo luogo, introduciamo l’agente nel mezzo di un insieme di circostanze e abbiamo accertato con esaezza. È quasi superfluo osservare quanto lontana questa condizione sia dall’essere realizzata in tui i casi connessi con i fenomeni della vita, quanto lontani siamo dal sapere quali siano tue le circostanze e preesistono a tui i casi nei quali si somministra il preparato al mercurio a un essere vivente. Tuavia questa difficoltà, e è insuperabile in tanti casi, può non esserlo in tui: talvolta ci sono concorsi di molte cause nei quali, tuavia, conosciamo con esaezza quali siano le cause. Inoltre, la difficoltà si può aenuare ripetendo gli esperimenti un numero sufficiente di volte, in circostanze e rendano improbabile e in tui esista una qualsiasi delle cause ignote. Ma una volta e ci siamo liberati di quest’ostacolo ne incontriamo un altro ancor più serio. In altri casi, quando intendiamo tentare un esperimento, non giudiiamo sufficiente e nel caso non ci siano circostanze la cui presenza ci sia ignota. Esigiamo ane e nessuna delle circostanze e conosciamo abbia effei susceibili di essere confusi con quelli dell’agente le cui proprietà desideriamo studiare. Ci diamo tue le pene possibili e immaginabili per escludere tue le cause e possano comporsi con la causa data. O, se siamo costrei ad ammeere qualsiasi causa di questo genere, ci preoccupiamo di renderla tale da poter calcolare la sua influenza e renderne conto. In questo modo, sorai quegli altri effei, l’effeo della causa data potrà rivelarsi come un fenomeno residuo. este precauzioni non possono essere applicate a casi del genere di quello e stiamo considerando ora. Dopo e il preparato al mercurio del nostro esperimento è stato messo alla prova con una moltitudine sconosciuta (o magari ane con una moltitudine nota) di altre circostanze influenti, il puro e semplice fao e si trai di circostanze influenti implica e tali circostanze maserano l’effeo del preparato e ci impediscono di sapere se abbia o no quale effeo. A meno e non sapessimo già prima e cosa e quanto si debba a ogni altra circostanza (cioè, a meno e non supponiamo e sia già stato risolto proprio il problema di cui stiamo prendendo in considerazione i mezzi per risolverlo) non possiamo dire e forse quelle altre circostanze non hanno prodoo l’intiero effeo indipendentemente dal preparato al mercurio, o addiriura nonostante tale preparato. Nel caso della mescolanza degli effei, dunque, il metodo della differenza è del tuo inutilizzabile nel modo in cui lo si usa ordinariamente — cioè nel modo d’usarlo e consiste nel meere a confronto lo stato di cose e segue

l’esperimento con lo stato di cose e l’ha preceduto — peré durante la transizione sono state all’opera cause diverse da quelle i cui effei stiamo cercando di determinare. Per quanto riguarda l’altro modo di impiegare il metodo della differenza (il modo cioè e consiste nel confrontare non già il medesimo caso in due periodi differenti, ma nel confrontare casi differenti) nel caso presente esso si rivela del tuo imerico. In fenomeni così complicati è dubbio se siano mai accaduti due casi simili per tui gli aspei ecceuato uno; e se dovessero accadere non potremmo mai sapere peré fossero così esaamente simili. In casi così complicati tuo quello e somiglia a un uso scientifico del metodo dell’esperimento è perciò fuori questione. Nei casi più favorevoli possiamo soltanto scoprire, dopo ripetuti tentativi, e una certa causa è seguita molto spesso da un certo effeo. Infai, come abbiamo osservato prima, in uno solo di questi effei congiunti la porzione e è determinata da uno solo degli agenti influenti, quale e esso sia, è in genere piuosto piccola; e deve traarsi di una causa più potente della maggior parte delle altre se ane la tendenza e di fao esercita non è ostacolata da altre tendenze in un numero di casi quasi uguale a quello in cui è adempiuta. In realtà ci sono alcune cause e sono più potenti di qualsiasi causa contraria alla quale sono comunemente esposte, e di conseguenza in medicina ci sono alcune verità e sono sufficientemente provate dall’esperimento direo. Di queste, le più familiari sono quelle e si riferiscono all’efficacia delle sostanze note come «specifici» per particolari malaie: «inino, colico, succo di cedro, olio di fegato di merluzzo»e, e poe altre. Neane queste sono invariabilmente seguite dal successo, ma hanno successo in una proporzione così grande di casi e contro ostacoli tanto poderosi, e la loro tendenza a reintegrare la salute nei disordini per i quali vengono prescrie può essere considerata come una verità sperimentalef. Se nel caso della scienza medica il metodo sperimentale può fare così poco per determinare le condizioni di un effeo di molte cause combinate, ancor meno questo metodo potrà essere applicato a una classe di fenomeni ancor più complicati di quelli della fisiologia: i fenomeni della politica e della storia. i, la pluralità delle cause esiste in eccesso praticamente illimitato, e per la maggior parte gli effei sono inestricabilmente interconnessi l’uno con l’altro. Ad aumentare l’imbarazzo, la maggior parte delle ricere nella scienza della politica hanno da fare con il prodursi di effei di una classe più comprensiva, quali la ricezza pubblica, la sicurezza pubblica, la moralità

pubblica, e simili: risultati e possono essere affei direamente o indireamente, in più o in meno, da quasi ogni fao esistente, o da quasi ogni evento e ha luogo, nella società umana. La nozione volgare, secondo cui i metodi sicuri nel campo della politica sono quelli dell’induzione baconiana — secondo cui, cioè, la vera guida non è costituita dal ragionamento generale ma dall’esperienza specifica — sarà citata un giorno come uno dei segni più inequivocabili e le facoltà speculative dell’età e le prestava fiducia si trovavano ad uno stadio di sviluppo molto primitivo. Nulla può essere più comico di quella specie di parodie del ragionamento sperimentale in cui siamo abituati ad imbaerci, non soltanto nelle discussioni popolari, ma ane in ponderosi traati e hanno per tema gli affari delle nazioni. «Come può — ci si iede — essere caiva un’istituzione quando la nazione è prosperata soo di essa?» «Come è possibile e queste cause così e così abbiano contribuito alla prosperità di un Paese, quando un altro Paese è prosperato senza di esse?» Chiunque faccia uso di un’argomentazione di questo genere senza aver l’intenzione di ingannare il leore, dovrebbe essere rimandato a impararsi gli elementi di qualcuna delle scienze fisie più semplici. esti ragionatori ignorano il fao della pluralità delle cause proprio nel caso e ne offre l’esempio più evidente. In un caso del genere, da qualsiasi confronto possibile di casi individuali, sarebbe possibile trarre così poe conclusioni e ane l’impossibilità caraeristica dei fenomeni sociali di fare esperimenti artificiali (impossibilità così pregiudizievole all’indagine induiva direa) non fornirebbe quasi nessuna ragione ulteriore di rammarico. Infai, ane se potessimo mai tentare esperimenti su una nazione o sulla razza umana con tanto poco scrupolo come fece M. Magendie4 con i cani e i conigli, non riusciremmo mai a rendere due circostanze identie soo tui gli aspei, ecceuata la presenza o l’assenza di quale circostanza singola ben definita. La cosa e, in politica, si approssima di più a un esperimento nel senso filosofico del termine, è l’introduzione, per mezzo di quale misura governativa speciale e ben determinata, di un nuovo elemento, quale l’entrata in vigore o l’abrogazione di una particolare legge, e faccia sentire i suoi effei negli affari della nazione. Ma dove operano tante influenze, ci vuole tempo peré l’influenza di una qualsiasi nuova causa su fenomeni e hanno luogo su scala nazionale diventi visibile; e poié le cause e operano in un àmbito così esteso non sono soltanto infinitamente numerose, ma si trovano in uno stato di perpetuo cambiamento, è sempre certo e prima e l’effeo della

nuova causa sia diventato sufficientemente cospicuo da costituire oggeo di induzione, un numero altreanto grande delle altre circostanze influenti sarà cambiato al punto da viziare l’esperimentog. Dunque, due dei tre metodi possibili per studiare i fenomeni e risultano dalla composizione di molte cause sono inefficaci e illusori, per la stessa natura del caso. Rimane soltanto il terzo, e considera le cause separatamente e inferisce l’effeo dalla media delle differenti tendenze e lo producono: rimane, in breve, il metodo deduivo, o a priori. La considerazione più particolareggiata di questo processo intelleuale riiede un capitolo a parte. a.

Cfr. ante, cap. VII, par. 1. b. Sembra superfluo il dire e la parola «urtare», come termine generale per esprimere la collisione di forze, è usata qui come modo di dire, e non in quanto esprima una qualsiasi teoria circa la natura della forza. c. Essays on Some Unseled estions of Political Economy, Essay V. d. Il professor Bain ha giustamente fao osservare e, sebbene i metodi della concordanza e della differenza non siano applicabili a questi casi, essi non sono però completamente inaccessibili al metodo delle variazioni concomitanti. «Se si dà il caso e una causa vari da sola, variera da solo ane l’effeo: una causa e un effeo possono così essere messi in evidenza tra le più grandi complicazioni. Così, quando l’appetito per il cibo aumenta con il freddo, abbiamo forti prove dell’esistenza di una connessione tra questi due fai, ane se può darsi e nella medesima direzione operino altre circostanze. L’aribuzione delle parti e il Sole e la Luna svolgono rispeivamente nell’azione delle maree può essere compiuta, fino a un certo grado d’esaezza, in base alle variazioni della quantità [delle maree] secondo le posizioni di questi due corpi e araggono le masse d’acqua. Con una serie di esperimenti di variazioni concomitanti, direi ad accertare l’eliminazione di azoto dal corpo umano in diverse e svariate specie di esercizio muscolare, il door Parkes3 raggiunse la notevole conclusione e un muscolo s’accresce durante l’esercizio e perde volume durante il riposo successivo all’esercizio stesso». Logic,11, 83. Indubbiamente è spesso possibile enucleare le cause influenti tra un gran numero di pure e semplici cause concomitanti, annotando quali siano gli antecedenti, una variazione dei quali è seguita da una variazione dell’effeo. Ma quando ci sono molte cause influenti, nessuna delle quali predomini sensibilmente sul resto, e specialmente quando alcune di queste cause cambino continuamente, è praticamente impossibile rintracciare, tra le variazioni dell’effeo e quelle di una delle cause, una relazione tale e ci permea di aribuire a quella causa la parte e realmente ha nel dare luogo all’effeo. e. BAIN, Logic, II, 360. f. ello e si è deo nel testo a proposito dell’impossibilità di applicare i metodi sperimentali alla risoluzione di particolari questioni riguardanti il traamento medico, non toglie nulla all’efficacia e questi metodi posseggono nell’accertare le leggi generali del sistema umano o animale. Per esempio, le funzioni delle differenti classi di nervi sono state scoperte per mezzo di esperimenti su animali viventi, e probabilmente si sarebbero potute scoprire soltanto in questo modo. L’osservazione e l’esperimento sono le basi ultime di tua la conoscenza umana. Da esse oeniamo le leggi elementari della vita, così come oeniamo tue le altre verità elementari. Solo quando traano con le combinazioni complesse, i metodi sperimentali sono per la massima parte illusori, e per sbrogliare la complessità di queste combinazioni è necessario invocare il metodo d’indagine deduivo.

g.

Pur concordando in linea generale con i punti di vista espressi in questo capitolo, il professor Bain sembra apprezzare più di quanto non lo apprezzi io lo spazio e le prove sperimentali specifie hanno in politica (Logic, II, 333-37). È vero e ci sono, come osserva a p. 336, alcuni casi «in cui l’agente introdoo improvvisamente è seguito quasi istantaneamente da alcuni altri cambiamenti, come quando l’annuncio della roura delle relazioni diplomatie tra due nazioni è seguita, nello stesso giorno, da una crisi del mercato monetario». Ma considerato puramente e semplicemente come un esperimento, quest’esperimento sarebbe piuosto inconcludente. Può soltanto servire, come può darsi e serva ogni espe 1. Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), imico francese. Tra le sue numerose acquisizioni ricordiamo: la confutazione definitiva della teoria flogistica, grazie alla dimostrazione sperimentale e l’ossigeno è il corpo e produce la combustione dei corpi combustibili ed esercita la medesima funzione nella respirazione degli animali; la determinazione, per via di analisi e di sintesi, della composizione dell’acqua; il contributo alla creazione della termoimica; la classificazione di trenta elementi e la formulazione di una tavola delle loro combinazioni; e infine la dimostrazione sperimentale della legge della conservazione della materia, formulata araverso la legge della conservazione del peso nelle reazioni, legge e porta il suo nome. Morì ghiglioinato durante il Terrore. 2. John Sco Eldon, primo conte di Eldon (1751-1838), avvocato e uomo politico inglese. Fu Lord Cancelliere. 3. Edmund Alexander Parkes (1819-1876), medico inglese, professore di medicina clinica allo University College dal 1849 e, dal 1860, di igiene alla Army Medical Sool di Chatham. È considerato il fondatore della scienza dell’igiene. Nel 1867 dimostrò, contro le teorie di Liebig, e il lavoro muscolare non implica la distruzione dei tessuti per ossidazione e la conseguente eliminazione di urea, ma e quest’ultima si produce per ossidazione dei composti azotati presenti nei cibi, mentre il tessuto muscolare non si brucia durante il lavoro. 4. Franҫois Magendie (1783-1855), fisiologo francese, dal 1836 professore di fisiologia e patologia generale al Collège de France; Vicepresidente dell’Académie des Sciences. È uno dei fondatori del metodo sperimentale in fisiologia e in patologia. rimento, a verificare la conclusione di una deduzione. Se non sapessimo già, per nostra conoscenza dei motivi e agiscono sugli uomini d’affari, e la prospeiva di una guerra tende a provocare una crisi sul mercato monetario, non riusciremmo mai a provare l’esistenza di una connessione tra i due fai se non dopo aver accertato storicamente e il numero di casi in cui l’uno ha seguito l’altro è troppo grande per essere compatibile con il fao di essere stati registrati con le debite precauzioni. Chiunque abbia aentamente esaminato uno qualsiasi dei tentativi e si fanno continuamente per provare le dorine economie con una tale parata di esempi, sa bene quanto essi siano futili. Vien sempre fuori e le circostanze di quasi nessuno dei casi considerati sono state enunciate in modo completo, e e si sono omessi casi, in numero eguale o addiriura maggiore, e avrebbero indirizzato verso una conclusione opposta.

CAPITOLO XI. IL METODO DEDUTTIVO 1. Provata ormai l’inapplicabilità dei metodi direi dell’osservazione e dell’esperimento, la principale fonte rimastaci della conoscenza e possediamo, o possiamo acquisire, delle condizioni e delle leggi grazie a cui i fenomeni più complessi ricorrono, è rappresentata da quel modo d’indagine e nella sua espressione più generale si iama «metodo deduivo». Consta di tre operazioni: la prima operazione è un’operazione di induzione direa, la seconda di deduzione, la terza di verifica. Chiamo «operazione induiva» il primo passo del processo, peré alla base del tuo dev’esserci un’induzione direa. È vero e in molte indagini particolari il posto dell’induzione può essere occupato da una deduzione precedente, ma le premesse di questa deduzione precedente devono essere state derivate dall’induzione. Il problema del metodo deduivo è quello di trovare la legge di un effeo partendo dalle leggi delle tendenze differenti di cui l’effeo è il risultato congiunto. Il primo requisito, perciò, è la conoscenza delle leggi di tali tendenze, della legge di ciascuna delle cause concorrenti, e questa presuppone e si compia, su ciascuna causa separatamente, un processo preventivo di osservazione o di esperimento, o una deduzione preliminare, la quale ane deve dipendere, per quanto riguarda le sue premesse fondamentali, dall’osservazione o dall’esperimento. Così, supponendo e l’oggeo sia costituito dai fenomeni storici o sociali, le premesse del metodo deduivo devono essere le leggi delle cause e determinano quella classe di fenomeni; e quelle cause sono le azioni umane, insieme con le circostanze esterne generali soo l’influenza delle quali si trova l’umanita, e e costituiscono la posizione dell’uomo sulla Terra. Il metodo deduivo, applicato ai fenomeni sociali, deve perciò cominciare coll’indagare — o deve presupporre e siano già state indagate — le leggi dell’agire umano, e quelle proprietà delle cose esterne dalle quali sono determinate le azioni degli esseri umani nella società. Alcune di queste verità generali saranno naturalmente oenute mediante l’osservazione e l’esperimento, altre si oerranno per mezzo della deduzione. Per esempio, le leggi più complesse delle azioni umane si possono oenere dalle leggi più semplici, ma le leggi semplici o

elementari saranno state oenute, sempre e necessariamente, per mezzo di un processo direamente induivo. Il primo desideratum del metodo deduivo è dunque l’accertamento delle leggi di ciascuna causa separata e prende parte al prodursi dell’effeo. Il sapere quali siano le cause e devono essere sooposte a questo processo di studio può essere difficile così come può non esserlo. Nell’ultimo caso e abbiamo menzionato, questa prima condizione può essere soddisfaa facilmente. Che i fenomeni sociali dipendano dagli ai e dalle impressioni mentali degli esseri umani non si sarebbe mai potuto meere in dubbio, per quanto imperfea potesse essere la conoscenza delle leggi e governano queste impressioni e questi ai, e quella delle conseguenze sociali a cui le loro leggi naturalmente conducono. Né, dopo e la scienza fisica ebbe raggiunto un certo grado di sviluppo, potevano sussistere fondati dubbi su dove andare a cercare le leggi dalle quali dipendono i fenomeni della vita, dal momento e tali leggi devono essere le leggi meccanie e imie delle sostanze solide e fluide e compongono il corpo organizzato e il mezzo in cui esso sussiste, insieme con le leggi vitali tue particolari e governano i differenti tessuti e costituiscono la struura organica. In altri casi, e pure sono di gran lunga più semplici di questi, era meno ovvio da e parti si dovessero andare a cercare le cause, e questo è il caso dei fenomeni celesti. Gli uomini non seppero quali fossero davvero queste cause fin quando non ebbero trovato, combinando le leggi di certe cause, e quelle leggi spiegavano tui i fai riguardanti i moti celesti, e l’esperienza aveva provato, e portavano ane a predizioni e erano sempre verificate dall’esperienza stessa. Ma sia e siamo in grado di porre la domanda prima ancora di essere diventati capaci di darle una risposta, sia e non siamo in grado di porla se non dopo aver raggiunto tale capacità, in entrambi i casi dobbiamo darle una risposta. Prima di poter procedere a dedurre le condizioni dell’effeo dalle leggi delle differenti cause, dobbiamo aver accertato queste leggi. Il modo per accertare queste leggi non e, e non può essere altro, e il quadruplice metodo della ricerca sperimentale, e abbiamo già discusso. Le sole cose indispensabili sono alcune osservazioni sull’applicazione di tale metodo ai casi della composizione delle cause. È ovvio e se ci affidiamo a un’induzione e prenda le mosse da casi in cui una certa tendenza è contrastata non possiamo aspearci di trovare le leggi di quella tendenza. Se si fossero osservati soltanto corpi mantenuti in

istato di quiete da forze opposte in equilibrio, non si sarebbero mai potute portare alla luce le leggi del moto. Ane quando la tendenza non è contrastata nel senso ordinario del termine, ma è solo modificata peré i suoi effei si compongono con gli effei e traggono origine da un’altra tendenza o da alcune altre tendenze, ci troviamo ancora in una posizione sfavorevole per rintracciare, per mezzo di tali casi, la legge della tendenza stessa. Sarebbe stato praticamente impossibile scoprire la legge e tui i corpi in movimento tendono a perseverare nel loro moto reilineo, se avessimo fao uso di un’induzione e partisse da casi in cui il moto è piegato secondo una curva peré è composto con l’effeo di una forza acceleratrice. Nonostante le risorse fornite nei casi di questo genere dal metodo delle variazioni concomitanti, i princìpi di una giudiziosa sperimentazione prescrivono e la legge di ciascuna tendenza sia studiata, se la cosa è possibile, in casi in cui la tendenza opera da sola, o in combinazione con quei soli altri agenti il cui effeo può essere calcolato e di cui si può rendere conto partendo da una conoscenza precedente. Di conseguenza, nei casi sfortunatamente molto numerosi e molto importanti in cui le cause non possono essere separate e osservate separatamente, è estremamente difficile geare con la certezza dovuta le fondamenta induive necessarie a sostenere il metodo deduivo. La difficoltà è soprauo evidente nel caso dei fenomeni fisiologici, peré raramente è possibile separare i diversi agenti e presi colleivamente compongono un corpo organizzato, senza distruggere proprio il fenomeno e ci proponiamo di indagare: inseguendo la vita, nelle creature e sezioniamo, la perdiamo nell’istante in cui la cogliamo. E per questa ragione sono propenso a ritenere e la fisiologia (per quanto grandi e rapidi siano i suoi progressi al giorno d’oggi) sia ostacolata da difficoltà naturali più grandi, e sia probabilmente susceibile di un grado di perfezione ultima minore, di quanto non lo sia la stessa scienza sociale, in quanto è possibile studiare le leggi e le operazioni di una singola mente umana a parte da quelle di altre menti, in modo molto meno imperfeo di quanto non possiamo studiare le leggi di un singolo organo o di un singolo tessuto del corpo umano, a parte dagli altri organi e dagli altri tessuti.

È stato giustamente osservato e nel caso della ricerca fisiologica i fai patologici, o, per usare il linguaggio comune, le malaie nelle loro forme e gradi differenti, forniscono il più prezioso equivalente della sperimentazione propriamente dea; spesso infai ci manifestano un disturbo ben definito in quale organo o in quale funzione organica mentre, almeno in prima istanza, gli organi e le funzioni rimanenti non ne risultano affei. È vero e per via delle perpetue azioni e reazioni e hanno luogo tra tue le parti dell’economia organica non può esserci nessun disturbo prolungato in una funzione e alla fine non ne coinvolga molte altre, e e, quando le abbia coinvolte, l’esperimento perde la maggior parte del suo valore scientifico. Tuo dipende dall’osservazione degli stadi precoci del disordine, e questi, sfortunatamente, sono necessariamente i meno evidenti. Tuavia, se gli organi e le funzioni non disturbati per primi vengono affei secondo un ordine di successione fisso, la cosa gea un po’ di luce sull’azione e un organo esercita su un altro, e di tanto in tanto si oiene una serie di effei e si possono far risalire abbastanza fiduciosamente al disordine locale originario. Ma per arrivare a questo è necessario sapere e il disturbo originale era davvero locale. Se invece si traa di quello e si iama disordine costituzionale — cioè, se non si sa in quale parte dell’economia dell’animale abbia avuto origine, o non si conosce la natura precisa del disturbo e ha avuto luogo in quella parte — non siamo in grado di determinare quale dei vari disordini sia stata la causa e quale sia Peffeo; quali di essi si siano prodoi l’uno dall’altra e quali per l’azione direa, ane se tardiva, della causa originaria. Accanto ai fai patologici naturali, possiamo produrre i fai patologici artificialmente; possiamo tentare esperimenti, ane nel senso popolare del termine, sooponendo l’essere vivente a quale agente esterno, quali il preparato al mercurio del nostro esempio precedente, o la resezione di un nervo allo scopo di accertare le funzioni delle differenti parti del sistema nervoso. Siccome questa sperimentazione non è intesa a oenere una soluzione direa di quale questione pratica, ma a scoprire le leggi generali dalle quali si possono in séguito oenere deduivamente le condizioni di un quale effeo particolare, i casi migliori e si possano scegliere sono quelli le cui circostanze possono essere accertate nel modo migliore: in genere si traa di casi in cui non ci si propone nessun scopo pratico. La condizione oimale per tentare un esperimento non è lo stato di malaia, e è essenzialmente uno stato mutevole, ma la condizione di salute, e è uno

stato relativamente stabile. Nel primo, operano agenti insoliti i cui risultati non abbiamo i mezzi per predire, mentre nel secondo si può generalmente presumere e il corso dei fenomeni fisiologici abituali rimarrà indisturbato, tranne e per le cause perturbatrici e noi stessi abbiamo introdoo. Tali — con l’aiuto occasionale del metodo delle variazioni concomitanti (e dalle difficoltà proprie dell’argomento non è meno ostacolato di quanto non lo siano i metodi più elementari) — sono le risorse induive di cui disponiamo per accertare le leggi delle cause considerate separatamente, quando non è in nostro potere il meerle alla prova in uno stato di separazione effeiva. L’insufficienza di queste risorse è così lampante e non c’è affao da sorprendersi e la scienza della fisiologia si trovi in uno stato di tale arretratezza; in questa scienza, infai, la nostra conoscenza delle cause è così imperfea e non possiamo spiegare — né senza un’esperienza specifica potremmo aver predeo — molti dei fai e l’osservazione più ordinaria ci aesta. Fortunatamente, sulle leggi empirie dei fenomeni, cioè sulle uniformità a proposito delle quali non possiamo ancora decidere se siano casi di causazione o puri e semplici risultati di causazione, siamo molto meglio informati. Non soltanto si è trovato e l’ordine in cui si manifestano successivamente i fai dell’organizzazione e della vita, dal primo germe dell’esistenza alla morte, è un ordine uniforme e tale da poter essere accertato con grande accuratezza, ma grazie a una massiccia applicazione del metodo delle variazioni concomitanti all’intiero corpo dei fai dell’anatomia e della fisiclogia comparate, si è determinata con considerevole precisione la struura organica caraeristica e corrisponde a ciascuna classe di funzioni. Se queste condizioni organie costituiscano la totalità delle condizioni, e in molti casi se siano condizioni affao o non siano altro e semplici effei collaterali di quale causa comune, lo ignoriamo del tuo: ed è probabile e non lo sapremo mai a meno e non possiamo costruire un corpo organizzato e tentiamo di farlo vivere. Tali sono gli svantaggi tra i quali, nei casi di questo genere, tentiamo il primo passo (ossia il passo induivo) dell’applicazione del metodo deduivo ai fenomeni complessi. Ma fortunatamente questo caso non è il più comune. In generale, le leggi delle cause da cui dipende l’effeo si possono oenere con un’induzione traa da casi relativamente semplici, o, nel peggiore dei casi, deducendole da leggi di cause più semplici e abbiamo oenuto in questo modo. Per casi semplici s’intendono, naturalmente, quei casi in cui l’azione di ciascuna causa non è commista con altre cause le cui leggi sono

sconosciute o non soffre interferenze da parte di cause così fae — almeno non in grande misura. E soltanto quando l’induzione e ha fornito le premesse al metodo induivo riposava su casi di quel genere, l’applicazione del metodo all’accertamento delle leggi di un effeo complesso è stato coronato da brillanti risultati. 2. Una volta e si siano accertate le leggi delle cause, e si sia portato soddisfacentemente a termine il primo stadio della grande operazione logica e stiamo ora discutendo, segue la seconda parte: quella e consiste nel determinare, partendo dalle leggi delle cause, quale effeo produrrà una qualsiasi combinazione data di tali cause. Si traa di un processo di calcolo, nel senso più ampio del termine, e molto spesso implica processi di calcolo nel senso più ristreo. È un ragionamento deduivo: e quando la nostra conoscenza delle cause è così perfea da estendersi alle leggi numerie esae cui le cause obbediscono quando producono i loro effei, il ragionamento deduivo può annoverare tra le sue premesse i teoremi della scienza del numero, in tua quanta l’immensa estensione di questa scienza. Non solo siamo spesso obbligati a far ricorso alle verità più avanzate della matematica peré queste ci meano in grado di calcolare un effeo la cui legge numerica peraltro conosciamo già, ma persino con l’aiuto di queste verità avanzatissime possiamo progredire solo di poco. In un caso così semplice come il problema piuosto comune di tre corpi e gravitano l’uno verso l’altro con una forza direamente proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze, tue le risorse del calcolo non sono finora state sufficienti a farci oenere una soluzione generale e non fosse approssimata. In un caso un po’ più complesso, ma e è ancora uno dei più semplici e sorgano nella pratica, quale il caso del moto di un proieile, le cause e agiscono sulla velocità e sulla traieoria (ad esempio) di una palla di cannone: la forza impressa dalla polvere, l’angolo di elevazione del cannone, la densità dell’aria, la forza e la direzione del vento, possono essere tue note e stimate; tuavia il combinare tue queste cause in modo da determinare l’effeo e risulta dalla loro azione colleiva è uno dei più difficili problemi della matematica. ando gli effei hanno luogo nello spazio e implicano movimento ed estensione — come accade in meccanica, in oica, in acustica, in astronomia — oltre ai teoremi del numero entrano in giuoco, come premesse dei nostri ragionamenti, ane i teoremi della geometria. Ma quando la complicazione

aumenta e gli effei si trovano soo l’influenza di cause così numerose e così mutevoli e non lasciano spazio né a numeri determinati né a linee ree o a curve regolari (come nel caso dei fenomeni fisiologici, per tacere di quelli mentali e sociali) le leggi del numero e dell’estensione sono applicabili (ammesso e lo siano) soltanto su quella larga scala in cui la precisione dei deagli perde ogni importanza. Benè abbiano una parte cospicua negli esempi più imponenti di indagine condoa sulla natura per mezzo del metodo deduivo, come per esempio nella teoria newtoniana dei moti celesti, queste leggi non costituiscono affao una parte indispensabile di tui i processi di questo genere. L’unica cosa essenziale è e si ragioni da una legge generale a un caso particolare, cioè, e per mezzo delle circostanze particolari di quel caso si determini quale risultato sia indispensabile, in quel caso, per soddisfare la legge. Così, nell’esperimento di Torricelli, se si fosse già conosciuto il fao e l’aria ha peso, sarebbe stato facile, senza dati numerici, dedurre dalla legge generale dell’equilibrio e la colonna di mercurio si sarebbe fermata nel tubo a un’altezza tale da controbilanciare esaamente una colonna di atmosfera di egual diametro: in caso contrario, infai, non esisterebbe equilibrio. Grazie a questi ragionamenti deduivi e prendono le mosse dalle leggi separate delle cause possiamo, fino a un certo punto, riuscire a dare una risposta all’una o all’altra delle seguenti domande: Data una certa combinazione di cause, quale effeo ne seguirà? e: ale combinazione di cause, se esistesse, produrrebbe un dato effeo? Nel primo caso determiniamo l’effeo e ci si deve aspeare in tue quelle circostanze complesse i cui differenti elementi sono noti; nel secondo caso veniamo a sapere in virtù di quale legge — soo quali condizioni antecedenti — avrà luogo un dato effeo complesso. 3. Ma a questo punto possiamo iederci: le stesse argomentazioni in forza delle quali il metodo dell’osservazione e dell’esperimento direi sono stati messi da parte come illusori quando venivano applicati alle leggi dei fenomeni complessi, non possono forse essere applicate con altreanta efficacia per meere da parte il metodo della deduzione? ando in ogni singolo caso una moltitudine — e spesso una moltitudine ignota — di agenti entrano tra loro in collisione o si combinano l’uno con l’altro, quale garanzia abbiamo di aver preso in considerazione tui questi agenti nel nostro computo a priori? anti, in generale, non dobbiamo ignorarne? Come è

probabile e fra tui quelli e conosciamo ne abbiamo trascurato qualcuno! E ane se ce li avessimo fai rientrate tui, com’è vana la pretesa di sommare tui gli effei di molte cause, se non conosciamo con esaezza le leggi numerie di ciascuna di esse! Nella maggior parte dei casi, però, questa condizione non può essere soddisfaa, ed ane quando sia stata soddisfaa, l’esecuzione dei calcoli trascende — ecceo e nei casi molto semplici — ane i più alti poteri della scienza matematica, nonostante tui i suoi miglioramenti più moderni. este obiezioni hanno un peso reale, e sarebbe del tuo impossibile dar loro una risposta se non esistessero criteri per mezzo dei quali possiamo giudicare se usando il metodo deduivo sia stato commesso o no un errore del tipo di quelli sopra descrii. Comunque questo criterio c’è, e la sua applicazione — e va soo il nome di «verifica» — costituisce il terzo componente essenziale del metodo deduivo. Senza verifica i risultati e il metodo deduivo può fornire hanno ben poco valore se non come congeure. Peré si possa garantire la credibilità delle conclusioni generali a cui si è pervenuti mediante la deduzione, si deve trovare, dopo un accurato confronto, e queste conclusioni concordano coi risultati delle osservazioni diree in tui i casi in cui si sono potute fare tali osservazioni. Se, quando abbiamo esperienze con cui confrontare le conclusioni, queste esperienze le confermano, allora possiamo tranquillamente affidarci ad esse in altri casi di cui non abbiamo ancora avuto esperienze specifie. Ma se le nostre deduzioni hanno portato alla conclusione e da una particolare combinazione di cause dovrebbe risultare un dato effeo, allora in tui i casi conosciuti, in cui si può mostrare e tale combinazione è esistita senza e l’effeo seguisse dobbiamo essere in grado di mostrare (o almeno di fare una congeura probabile su) e cosa glie l’abbia impedito. Se non possiamo farlo la teoria è imperfea e non c’è ancora da fidarsene. Del resto, la verifica non è completa a meno e alcuni dei casi in cui la teoria è stata corroborata dal risultato osservato non siano di complessità almeno eguale a quella di tui gli altri casi in cui se ne è potuta auare l’applicazione. Se l’osservazione direa e il confronto dei casi ci hanno fornito certe leggi empirie dell’effeo (vere in tui i casi osservati, o vere solo per la maggior parte di essi) la verifica più efficace di cui la teoria potrebbe essere susceibile si avrebbe nel caso in cui la teoria conducesse deduivamente a quelle leggi empirie; nel caso in cui delle uniformità complete o incomplete e venissero osservate tra i fenomeni rendessero conto le leggi

delle cause — in cui, cioè, le uniformità fossero tali da non poter non esistere se le cause in parola fossero realmente quelle e producono i fenomeni. Così si ritenne, molto ragionevolmente, e il requisito essenziale di ogni vera teoria delle cause dei moti celesti fosse e tale teoria dovesse condurre deduivamente alle leggi di Keplero: e la teoria di Newton vi conduceva. Perciò, allo scopo di facilitare la verifica di teorie oenute deduivamente è importante e si sia accertato il maggior numero possibile delle leggi empirie dei fenomeni, mediante un confronto tra casi condoo in conformità col metodo della concordanza; e così pure (si potrebbe aggiungere) è importante e i fenomeni stessi siano descrii nel modo più esauriente ed accurato possibile, raccogliendo dall’osservazione delle parti le espressioni corree più semplici per tui i corrispondenti. esto accadde, per esempio, quando la serie delle posizioni osservate di un pianeta fu espressa dapprima con un circolo, poi con un sistema di epicicli e da ultimo con un’ellisse. Vale la pena osservare e una volta e siano serviti per verificare l’analisi, i casi complessi e non sarebbero stati di nessuna utilità per la scoperta delle leggi semplici in cui, in ultima analisi, scomponiamo i loro fenomeni, diventano prove in più a favore delle leggi medesime. Forse non saremmo potuti giungere alla legge partendo da casi complessi; tuavia, quando si trova e la legge (e abbiamo oenuto in quale altro modo) concorda con il risultato di un caso complesso, il caso diventa un nuovo esperimento sulla legge e aiuta a confermare quello e non aveva aiutato a scoprire. È una nuova prova a cui il principio viene sooposto in un insieme di circostanze diverso, e di tanto in tanto serve a eliminare alcune circostanze e non erano state escluse in precedenza e la cui esclusione potrebbe riiedere un esperimento impossibile a eseguirsi. esto divenne sorprendentemente evidente nell’esempio già citato, in cui si accertò e la differenza tra la velocità del suono osservata e quella calcolata era dovuta al calore sviluppato dalla condensazione e ha luogo in tue le vibrazioni sonore. esto fao rappresentò un collaudo in circostanze nuove della legge dello svilupparsi del calore in seguito a compressione, e costitui un’aggiunta importante alla prova dell’universalità di quella legge. Di conseguenza, quando si trova e una legge di natura spiega certi casi complessi e prima non erano stati pensati in connessione con la legge si ritiene e la legge abbia guadagnato in certezza: questa, peraltro, è una

considerazione e i ricercatori scientifici hanno l’abitudine di sopravvalutare, piuosto e di soovalutare. Al metodo deduivo, così caraerizzato nelle tre parti e lo costituiscono — induzione, ragionamento deduivo e verificazione — l’intelleo umano deve i suoi trionfi più cospicui nell’indagine della natura. Gli dobbiamo tue le teorie per mezzo delle quali abbracciamo vasti e complicati fenomeni soo un piccolo numero di leggi semplici e, considerate come le leggi di quei grandi fenomeni, non si sarebbero mai potute cogliere studiandole direamente. Possiamo formarci una concezione di quello e il metodo ha fao per noi se consideriamo il caso dei moti celesti, uno dei più semplici tra i grandi esempi di composizione delle cause, poié (tranne e in poi casi di importanza secondaria) si può ritenere, con sufficiente accuratezza, e un corpo celeste non sia mai influenzato dall’arazione di più di due corpi contemporaneamente: il Sole e un altro pianeta o satellite. Contando la reazione del corpo stesso e la forza generata dal moto del corpo e e agisce in direzione della tangente, gli agenti dal cui concorso dipendono i moti di quel corpo sono soltanto quaro: si traa indubbiamente di un numero di agenti molto più piccolo del numero di agenti e determina o modifica ogni altro grande fenomeno della natura. Ma come avremmo mai potuto accertare la combinazione delle forze da cui dipendono i moti della Terra e dei pianeti se ci fossimo limitati a confrontare le orbite o le velocità dei diversi pianeti, o le velocità e le posizioni differenti del medesimo pianeta? Bené i moti planetari manifestino una regolarità e molto raramente si manifesta tra gli effei di un concorso di cause, e bené la ricorrenza periodica del medesimo e identico effeo fornisca la prova positiva e tue le combinazioni di cause e si presentano una volta ricorrono periodicamente, noi non avremmo mai saputo quali erano le cause se, per un caso fortunato, l’esistenza di agenti esaamente simili sulla nostra Terra non avesse messo le cause stesse alla portata della nostra sperimentazione, in circostanze semplici. Siccome in séguito avremo occasione di analizzare questo grande esempio del metodo deduivo, non impiegheremo il nostro tempo a traarne qui, ma procederemo a quell’applicazione secondaria del metodo deduivo, il cui risultato non consiste nel provare le leggi dei fenomeni, ma nello spiegarli.

CAPITOLO XII. LA SPIEGAZIONE DELLE LEGGI DI NATURA 1. L’operazione deduiva per mezzo della quale deriviamo la legge di un effeo dalle leggi delle cause e col loro concorso danno origine all’effeo, si può intraprendere o alio scopo di scoprire la legge o allo scopo di spiegare una legge già scoperta. La parola «spiegazione» compare con tanta frequenza e occupa un posto tanto importante in filosofia, e un po’ di tempo speso per fissarne il significato non sarà certo sprecato. Si dice e un fao individuale è spiegato quando se ne sia indicata la causa; cioè, quando si siano enunciate la legge o le leggi di causazione di cui il prodursi del fao costituisce un’esemplificazione. Così, una conflagrazione è stata spiegata quando si sia provato e ha avuto origine dalla caduta di una scintilla nel bel mezzo di un mucio di combustibile. Analogamente, si dice e una legge o un’uniformità della natura è stata spiegata quando si sia indicata un’altra legge, o si siano indicate altre leggi, di cui la legge stessa non è altro e un caso particolare, e da cui può essere dedoa. 2. Ci scno tre insiemi distinti di circostanze in cui una legge di causazione può essere spiegata in base a — o, come si dice spesso, risolta in — altre leggi. Il primo è il caso — già preso esaurientemente in considerazione — di una mescolanza di leggi e producono un effeo congiunto eguale allfla legge del moto di una somma degli effei delle cause prese separatamente. La legge dell’effeo complesso si spiega risolvendola nelle leggi separate delle cause e contribuiscono a quell’effeo. Così la legge del moto di un pianeta si spiega risolvendola nella legge della forza acquisita e tende a produrre un moto uniforme per la tangente, e nella legge della forza centripeta e tende a produrre un moto accelerato verso il Sole: il moto reale sarà la componente di questi due moti. i è necessario osservare e in questa risoluzione della legge di un effeo complesso, le leggi di cui è composta non sono i soli elementi. Si risolve nelle leggi delle cause separate insieme con il fao della loro coesistenza. Entrambi questi elementi sono egualmente essenziali, sia e ci proponiamo di scoprire la legge dell’effeo, sia e ci proponiamo soltanto di spiegare l’effeo. Per dedurre le leggi dei moti celesti abbiamo bisogno di

conoscere, non soltanto la legge di una forza reilinea e di una forza gravitazionale, ma l’esistenza di entrambe queste forze nelle regioni celesti e perfino la loro quantità relativa. Le leggi complesse di causazione vengono così risolte in due specie distinte di elementi: la prima specie consta delle leggi di causazione più semplici, l’altra (per usare l’espressione opportunamente impiegata dal door Chalmers) di collocazioni (le collocazioni consistono dell’esistenza di certi agenti o poteri in certe circostanze di tempo e di spazio). In séguito avremo occasione di ritornare su questa distinzione e di soffermarci su di essa abbastanza diffusamente: questo ci dispensa dall’insistervi oltre in questo luogo. Dunque, il primo modo della spiegazione della legge di causazione si ha quando si risolve la legge di un effeo nelle varie tendenze di cui è il risultato, insieme con le leggi di quelle tendenze. 3. Abbiamo un secondo caso di spiegazione quando, tra quella e sembrava la causa e quello e si supponeva fosse il suo effeo, un’osservazione ulteriore coglie un anello intermedio: un fao e è causato dall’antecedente e e causa a sua volta il conseguente, cosicé la causa e gli abbiamo aribuito a tua prima non è altro e la causa remota, e opera araverso il fenomeno intermedio. A sembrava la causa di C, ma in séguito si è visto e A era soltanto la causa di B, e è la causa di C. Ad esempio: gli uomini hanno sempre saputo benissimo e l’ao di toccare un oggeo esterno causa una sensazione. Solo in séguito si scoprì e dopo e abbiamo toccato l’oggeo, e prima e esperiamo la sensazione, in una specie di filo iamato nervo e e si estende dagli organi esterni al cervello hanno luogo alcuni cambiamenti. Il toccare l’oggeo, perciò, è solo la causa remota della nostra sensazione: cioè, per parlar propriamente, il contao con l’oggeo non è la causa, ma la causa della causa della sensazione, mentre la sua causa vera e propria è il mutamento avvenuto nello stato del nervo. Può darsi e le esperienze future non solo ci diano, sulla natura particolare di tale cambiamento, una quantità di conoscenze maggiore di quella e possediamo aualmente, ma e ci consentano ane di interpolare un altro anello; per esempio, può darsi e tra il contao dell’oggeo con i nostri organi esterni e il prodursi del mutamento nello stato del nervo abbia luogo quale fenomeno elerico, o quale fenomeno di natura tale da non somigliare agli effei di nessun agente noto. Fino ad oggi, però, non è stato ancora scoperto alcun anello intermedio di questo genere, e il contao con

l’oggeo dev’essere considerato, provvisoriamente, come la causa prossima dell’affezione del nervo. Perciò, si è accertato e il succedere di una sensazione taile al contao con un oggeo non è una legge fondamentale; si risolve, come si dice, in due altre leggi: la legge e il contao con un oggeo produce un’affezione del nervo e la legge e un’affezione del nervo produce una sensazione. Per prendere un altro esempio: gli acidi più potenti corrodono o anneriscono i composti organici. Si traa di un caso di causazione, ma di causazione remota, e si dice e la causazione è spiegata quando si sia mostrato e c’è un anello intermedio: la separazione, dal resto, di alcuni elementi imici della struura organica e il loro entrare in combinazione con l’acido. L’acido causa questa separazione degli elementi e la separazione degli elementi causa la disorganizzazione e spesso la carbonizzazione della struura. Così, ancora, il cloro estrae le materie coloranti (e di qui deriva la sua efficacia nel candeggio) e purifica l’aria dalle infezioni. esta legge si risolve nelle due leggi seguenti: il cloro ha una potente affinità con le basi di ogni specie, in particolare con le basi metallie e l’idrogeno. este basi sono i componenti essenziali delle materie coloranti e dei composti contagiosi: perciò queste sostanze vengono decomposte e distrue dal cloro. 4. È importante far osservare e quando una sequenza viene, in questo modo, risolta in altre leggi, le leggi in cui viene risolta sono sempre leggi più generali. La legge e A è seguìto da C è meno generale sia delle leggi e conneono B con C, sia di quelle e conneono A con B. La cosa risulterà iara da considerazioni molto semplici. Tue le leggi di causazione possono essere contrastate o rese nulle dal fao e certe condizioni negative non sono soddisfae: perciò la tendenza di B a produrre C può essere annullata. Ora, la legge e A produce B è soddisfaa sia nel caso in cui B sia seguito da C sia nel caso in cui B non sia seguìto da C. Ma naturalmente la legge e A produce C per mezzo di B è soddisfaa solo quando B è davvero seguìto da C, ed è perciò meno generale della legge e A produce B. È ane meno generale della legge e B produce C. Infai B può avere altre cause oltre ad A, e poié A produce C solo per mezzo di B, mentre B produce C sia e sia stato esso stesso prodoo da A sia e sia stato prodoo da qualcos’altro, la seconda legge

abbraccia un numero maggiore di casi; copre, per dir così, una porzione di terreno più grande di quella e copre la prima. Così, nel nostro esempio precedente, la legge e il contao con un oggeo causa un mutamento nello stato del nervo, è più generale della legge e il contao con un oggeo causa una sensazione, peré, per quanto ne sappiamo, il mutamento nel nervo può ane aver luogo quando esiste una causa contrastante — quale ad esempio una forte eccitazione mentale —e impedisce il seguire della sensazione; questo accade, per esempio, in baaglia, dove quale volta si rimane feriti senza rendersene conto. E, ancora, la legge e un mutamento nello stato di un nervo produce la sensazione è più generale della legge e il contao con un oggeo produce sensazione, peré la sensazione consegue egualmente al mutamento nello stato di un nervo ane quando non sia stata prodoa dal contao con un oggeo, ma da quale altra causa, come nel caso ben noto in cui una persona e ha perso un arto continua a provare nell’arto la stessa sensazione e era abituato a iamare dolore. Non soltanto le leggi di una successione più immediata, nelle quali si risolve la legge di una sequenza remota, godono di una generalità maggiore di quella di cui gode quest’ultima legge, ma (in conseguenza della loro maggiore generalità, o meglio, in quanto implicate in essa), c’è da fidarsene di più: ci sono infai meno probabilità di trovare, in ultima analisi, e non sono universalmente vere. Dal momento in cui si mostra e la successione di A e di C non è immediata ma dipende da un fenomeno intermedio, allora, per quanto costante e invariabile si sia finora trovata la successione di A e C, sorgono possibilità di un suo fallimento ben più numerose di quelle e possono modificare una delle sequenze più immediate, A, B e B, C. La tendenza di A a produrre C può essere annullata da qualsiasi cosa e possa annullare la tendenza di A a produrre B, o la tendenza di B a produrre C: è perciò passibile di fallimento due volte di più di quanto non lo sia ciascuna delle tendenze più elementari, ed è due volte più probabile e si trovi erronea la generalizzazione e A è sempre seguìto da C. Lo stesso accade per la generalizzazione inversa, e C è sempre preceduto e causato da A: infai tale generalizzazione sarebbe erronea non soltanto se si desse il caso e ci sia un secondo modo immediato di produrre lo stesso C, ma ane se si desse il caso e ci sia un secondo modo di produrre B, l’antecedente immediato di C nella sequenza.

La risoluzione di una generalizzazione nelle altre due non mostra soltanto e sono possibili limitazioni alla prima generalizzazione, limitazioni da cui i suoi due elementi sono esenti: mostra ane dove si debbano andar a cercare queste limitazioni. Non appena sappiamo e B interviene tra A e C, sappiamo ane e se ci fossero casi in cui C non conseguisse ad A sarebbe estremamente probabile il trovarli studiando gli effei o le condizioni del fenomeno B. È iaro, dunque, e nel secondo dei tre modi in cui una legge può essere risolta in altre leggi, queste ultime sono più generali, cioè si estendono a un numero maggiore di casi della legge e servono a spiegare ed è ane meno probabile e debbano essere limitate da un’esperienza successiva. Si avvicinano di più all’incondizionatezza, sono rese nulle da un numero minore di contingenze, s’approssimano maggiormente alla verità universale della natura. Le stesse osservazioni sono ancor più evidentemente vere per quanto riguarda il primo di questi tre modi di soluzione. ando la legge di un effeo di forze combinate viene risolta nelle leggi separate delle cause, la natura del caso implica e la legge dell’effeo sia meno generale della legge di una qualsiasi delle cause, dal momento e essa vale soltanto quando le cause sono combinate. Invece la legge di una qualsiasi delle cause vale sia in quel caso sia ane nel caso in cui quella causa agisce separatamente dal resto. È ane manifesto e la legge complessa può risultare insoddisfaa più spesso di ciascuna delle leggi più semplici da cui risulta: infai ogni contingenza e rende nulla una qualsiasi delle leggi impedisce l’accadere di quella parte dell’effeo e dipende dalla legge e è stata resa nulla, e perciò rende nulla l’intiera legge. Per esempio, spesso basta e arrugginisca una piccola parte di una grande macina peré ne sia impedito l’effeo e risulta dall’azione congiunta di tue le parti. La legge dell’effeo di una combinazione di cause è sempre sooposta alla totalità delle condizioni negative associate all’azione di tue le cause, prese una per una. C’è una ragione diversa, ed egualmente forte, per la quale la legge di un effeo complesso dev’essere meno generale delle leggi delle cause e concorrono a produrla. Spesso le medesime cause, e agiscono secondo le medesime leggi e molte volte differiscono soltanto per le proporzioni secondo le quali sono combinate, producono effei e non soltanto differiscono in quantità, ma sono ane di specie differenti. La combinazione, secondo le proporzioni e vigono in tui i pianeti e i satelliti del nostro sistema solare, di una forza centripeta e di una forza propulsiva dà

origine a un moto elliico; ma è dimostrato e se la proporzione fra le due forze fosse alterata ane solo di poco, il moto prodoo dalle due forze sarebbe circolare o parabolico o iperbolico, e si pensa e probabilmente una di queste circostanze si verifii nel caso di alcune comete. Tuavia la legge del moto parabolico potrebbe essere risolta in quelle medesime leggi semplici in cui si risolve la legge del moto elliico, cioè nella legge della permanenza del moto reilineo e nella legge di gravitazione. Se perciò nel corso dei tempi dovesse manifestarsi quale circostanza e, senza rendere nulla la legge dell’una o dell’altra di queste forze, dovesse semplicemente alterare il rapporto reciproco tra di esse (e questa circostanza potrebbe essere, per esempio, l’urto con un corpo solido, o ane l’effeo cumulativo della resistenza del mezzo in cui gli astronomi sono inclini a ritenere e abbiano luogo i moti dei corpi celesti) il moto elliico potrebbe tramutarsi in un moto e avviene secondo quale altra sezione conica, e la legge complessa e i moti dei pianeti avvengono secondo ellissi sarebbe privata della sua universalità, ane se la scoperta non toglierebbe proprio nulla all’universalità delle leggi più semplici in cui si risolve quella legge complessa. In breve, la legge di ciascuna delle cause concorrenti rimane la medesima, per quanto possano variare le collocazioni di tali cause, ma la legge del loro effeo congiunto varia col variare delle collocazioni. Non è più necessario mostrare quanto più generali di ogni altra legge complessa da esse derivata debbano essere le leggi elementari. 5. Accanto ai due modi di cui abbiamo traato, c’è un terzo modo per risolvere le leggi l’una nell’altra, ed è di per sé evidente e secondo questo modo le leggi vengono risolte in leggi più generali. esto terzo modo consiste nella sussunzione (così è stata iamata) di una legge soo l’altra, o (il e è la stessa cosa) nel raccogliere diverse leggi in una sola legge più generale e le include tue. L’esempio più splendido di questa operazione si ebbe quando la gravità terrestre e la forza centrale del sistema solare furono raccolte entrambe soo la legge generale della gravitazione. In precedenza era stato provato e la Terra e gli altri pianeti tendono verso il Sole, e fin dai tempi più antii si sapeva e i corpi terrestri tendono verso il centro della Terra. Si traava di fenomeni simili, e per fare in modo e potessero essere sussunti soo la medesima legge fu sufficiente provare e, siccome erano simili qualitativamente, i loro effei dovevano conformarsi alle medesime regole ane per quanto riguardava la quantità. Prima di tuo si

mostrò e la cosa era vera della Luna, e si comporta come gli oggei terrestri non soltanto in quanto tende a un centro, ma in quanto questo centro è la Terra. Dopo e si fu accertato e il tendere della Luna verso la Terra varia in ragione inversa al quadrato della distanza si dedusse, calcolandolo direamente, e se la Luna fosse vicina alla Terra quanto lo sono gli oggei terrestri e cessasse di operare la forza acquisita, e agisce in direzione della tangente, la Luna cadrebbe verso la Terra con una velocità in piedi al secondo esaamente eguale a quella degli oggei e vi cadono in virtù del loro peso. Di qui si fu irresistibilmente spinti a trarre l’inferenza e ane la Luna tende alla Terra in virtù del suo peso e e, siccome i due fenomeni — il tendere della Luna alla Terra e il tendere degli oggei terrestri alla Terra — non sono soltanto simili qualitativamente ma, quando le circostanze siano le medesime, sono ane identici qualitativamente, si traa di due esemplificazioni di una e medesima legge di causazione. Ma si sapeva già e il tendere della Luna alla Terra e il tendere della Terra e degli altri pianeti al Sole sono casi della medesima legge di causazione: così si riconobbe e le leggi di tue queste tendenze e la legge della gravità terrestre sono identie, e le si sussunse soo una sola legge generale, quella della gravitazione. In maniera analoga le leggi dei fenomeni magnetici sono state sussunte, più recentemente, soo le leggi note dell’elericità. Proprio in questo modo si è di solito arrivati alle leggi più generali della natura: ascendiamo ad esse per passi successivi. Infai l’arrivare, per via di un’induzione correa, a leggi e valgono in una tale immensa varietà di circostanze — a leggi così generali e sono indipendenti da qualsiasi variazione nello spazio e nel tempo e siamo in grado di osservare — esige, per la massima parte, molti insiemi distinti di esperimenti o di osservazioni, condoi in tempi diversi e da persone diverse. Prima si accerta una parte della legge, in séguito se ne accerta un’altra parte; un insieme di osservazioni ci insegna e la legge vale in certe condizioni, un altro e vale in certe altre condizioni: combinando queste osservazioni troviamo e la legge vale in condizioni molto più generali, o addiriura ane universalmente. In questo caso la legge generale è, leeralmente, la somma di tue le leggi parziali: è il riconoscimento della medesima sequenza in insiemi differenti di casi singoli, e in realtà può essere considerata come un puro e semplice passo nel processo di eliminazione. La tendenza dei corpi l’uno all’altro, e ora iamiamo gravità, era stata osservata per la prima volta soltanto sulla superficie della Terra, dove si

manifesta solamente come una tendenza dei corpi verso la Terra, e perciò la si sarebbe potuta aribuire a una proprietà peculiare della Terra medesima: non era stata eliminata una delle circostanze, vale a dire la vicinanza della Terra. L’eliminazione di questa circostanza riiedeva e in altre parti dell’universo si raccogliesse un nuovo insieme di casi singoli: non potevamo crearli noi stessi, e sebbene la natura li avesse creati per noi, eravamo situati in circostanze troppo sfavorevoli per osservarli. Il fare queste osservazioni toccò naturalmente a persone diverse da coloro e studiavano i fenomeni terrestri, ed in realtà era diventata una faccenda di grande interesse in un’epoca in cui si riteneva e l’idea di spiegare i fai celesti per mezzo delle leggi terrestri fosse il risultato di una confusione tra due ordini di fai irrimediabilmente distinti. Comunque, quando si furono accertati con accuratezza i moti celesti e quando si furono portati a termine i processi deduivi da cui risultava iaramente e le leggi dei moti celesti e quelle della gravità terrestre corrispondevano, quelle osservazioni celesti diventarono un insieme di casi singoli e eliminavano proprio la circostanza costituita dalla vicinanza della Terra, e provarono e nel caso originale — quello degli oggei terrestri — non era la Terra in quanto tale a causare il moto o la pressione, ma la circostanza comune a quel caso e al caso dei moti celesti: la presenza, entro certi limiti di distanza, di quale grande corpo. 6. Ci sono dunque tre modi per spiegare le leggi di causazione o, il e è la medesima cosa, per risolverle in altre leggi. Primo, quando la legge di un effeo di cause combinate viene risolta nelle leggi separate delle cause, insieme con il fao della loro combinazione. Secondo, quando la legge e connee due anelli qualsiasi — non prossimi — di una catena causale viene risolta nelle leggi e conneono ciascun anello con gli anelli intermedi. In entrambi questi casi si risolve una sola legge in due o più leggi; nel terzo si risolvono due o più leggi in una sola: quando, dopo aver mostrato e la legge vale in parecie classi differenti di casi, decidiamo e quello e è vero in ciascuna di queste classi di casi è vero in quale ipotesi più generale, e raccoglie quello e tue quelle classi hanno in comune. i possiamo osservare e quest’operazione non implica nessuna delle incertezze e pesano sull’induzione quando si usa il metodo della concordanza, dal momento e non abbiamo bisogno di supporre e il

risultato venga esteso, per mezzo dell’inferenza, a nuove classi di casi diversi da quelli dal confronto coi quali è stato generato. Come abbiamo visto, in tui e tre questi processi le leggi vengono risolte in leggi più generali: in leggi e si estendono a tui i casi a cui si estendevano le prime, e, oltre a questi, ad altri ancora. Nei primi due modi di procedere le leggi vengono ane risolte in leggi più certe, o, in altre parole, più universalmente vere; in realtà, si prova e tali leggi non sono a loro volta leggi di natura, il cui caraere sia di essere universalmente vere, ma risultati di leggi di natura, e possono essere veri solo condizionatamente, e per lo più. Nel terzo caso non esiste nessuna differenza di questo genere, peré qui in realtà le leggi parziali fanno tu’uno con la legge generale, e qualsiasi eccezione alle leggi parziali sarebbe ane un’eccezione alla legge generale. esti tre processi allargano la portata della scienza deduiva. Infai da quel punto in poi le leggi così risolte possono essere dedoe dimostrativamente dalle leggi in cui sono state risolte. Come abbiamo già osservato, lo stesso processo deduivo e prova una legge o un fao di causazione, quando ancora ci siano sconosciuti, serve a spiegare quella legge o quel fao, una volta e siano noti. i la parola «spiegazione» è usata nel suo senso filosofico. ella e si iama «spiegazione di una legge di natura per mezzo di un’altra», non è e la sostituzione di un mistero a un altro, e non riesce a far altro e a rendere misterioso il corso generale della natura: non possiamo dare un perché alle leggi più estese, più di quanto non possiamo darlo alle leggi parziali. La spiegazione può sostituire un mistero, e è diventato familiare fino a non apparire più misterioso, a un mistero e ci è ancora estraneo. E questo è il significato di «spiegazione» nel modo di parlare comune. Ma spesso il processo e ci interessa qui fa esaamente il contrario: risolve un fenomeno e ci è familiare in un fenomeno di cui prima sapevano poco o nulla; come accadde quando il fao consueto della caduta dei gravi fu risolto nella tendenza l’una verso l’altra di tue le particelle della materia. Dobbiamo perciò tenere costantemente presente e nella scienza coloro e parlano di spiegare un fenomeno intendono (o dovrebbero intendere) l’indicazione, non già di quale fenomeno più familiare, ma semplicemente di quale fenomeno più generale, di cui il primo è un’esemplificazione parziale, o certe leggi di causazione e lo producono con la loro azione congiunta o successiva e a partire dalle quali, perciò, le condizioni del fenomeno da

spiegare possono essere determinate deduivamente. Ogni operazione di questo genere ci fa avanzare di un passo verso la risposta alla questione e avevamo formulato, nel capitolo precedente, come la questione e comprende l’intiero problema dell’indagine della natura: al è il minor numero di assunzioni, ammesse le quali dovrebbe risultare l’ordine della natura quale è aualmente? al è il minor numero di proposizioni generali da cui potrebbero essere dedoe tue le uniformità esistenti in natura? Talvolta si dice e delle leggi — spiegate o risolte in questo modo — è stata resa ragione; ma se si intende e questo signifii qualcosa di più di quello e è già stato enunciato, allora l’espressione è scorrea. In intellei non abituati al pensiero rigoroso si trova spesso la confusa nozione e le leggi generali siano le cause delle leggi parziali: e la legge della gravitazione generale, per esempio, causi il fenomeno della caduta dei corpi sulla Terra. Ma l’asserire una cosa del genere signifierebbe fare un caivo uso della parola «causa»: la gravità terrestre non è un effeo della gravitazione generale, ma un caso di tale gravitazione, cioè una specie dei casi particolari in cui vale quella legge generale. «Rendere ragione» di una legge di natura non significa e non può significare nient’altro e individuare altre leggi più generali, insieme con certe collocazioni, poste le quali la legge parziale segue senza bisogno di aggiungervi altre ipotesi.

CAPITOLO XIII. ESEMPI MISTI DI SPIEGAZIONI DELLE LEGGI DI NATURA 1. L’esempio più sorprendente e la storia della scienza presenti, di leggi di causazione e di altre uniformità di successione tra fenomeni speciali spiegate mediante la loro risoluzione in leggi di semplicità e di generalità maggiori, è la grande generalizzazione operata da Newton. Su questo tipico esempio sono già state dee tante di quelle cose e sarà sufficiente riiamare l’aenzione sul gran numero e sulla grande varietà delle uniformità speciali osservate, di cui in questo caso si rende ragione sia come casi particolari sia come conseguenze di una sola, semplicissima legge di natura universale. Il semplice fao e ogni particella di materia tenda verso ogni altra particella in ragione inversa al quadrato della distanza, spiega la caduta dei corpi sulla Terra, le rivoluzioni dei pianeti e dei satelliti, i movimenti finora noti delle comete e tue le diverse e svariate regolarità e sono state osservate in questi fenomeni speciali, quali le orbite elliie e le variazioni da un’ellisse esaa, le relazioni tra le distanze dei pianeti dal Sole e la durata delle loro rivoluzioni, la precessione degli equinozi, le maree e un gran numero di verità astronomie di minore importanza. Nel capitolo precedente si è ane faa menzione della spiegazione dei fenomeni del magnetismo a partire dalle leggi dell’elericità: le leggi speciali dell’azione magnetica sono state affiliate per deduzione alle leggi osservate dell’azione elerica, nelle quali, da quel giorno in poi, sono state considerate incluse come casi speciali. Un esempio, e non è così completo in se stesso, ma è dotato di conseguenze più fertili e ha costituito il punto di partenza dello studio veramente scientifico della fisiologia, è dato dall’affiliazione, iniziata da Biat1 e continuata dai biologi successivi, delle proprietà degli organismi corporei alle proprietà elementari dei tessuti nei quali gli organismi si possono scomporre da un punto di vista anatomico. Un altro esempio altreanto imponente è costituito dalla generalizzazione operata da Dalton, e comunemente nota come teoria atomica. Fin da quando s’incominciarono a compiere osservazioni imie accurate si sapeva e due corpi si combinano imicamente fra loro soltanto in un certo numero di proporzioni; ma queste proporzioni erano espresse, in ciascun caso, da una percentuale — tante parti (in peso) di ciascun ingrediente in 100 parti del

composto (ad esempio, 35 e una frazione di un elemento, 64 e una frazione dell’altro elemento). In questo modo, però, non si riusciva a percepire alcuna relazione tra la proporzione secondo la quale un dato elemento si combina con una certa sostanza e la proporzione secondo la quale si combina con un’altra. Il grande passo compiuto da Dalton consistee nel rendersi conto e per ciascuna sostanza si poteva fissare un’unità di peso tale e supponendo e la sostanza entri in tue le combinazioni possibili in ragione o di quell’unità o di quale basso multiplo di quell’unità, si trova e ne risultano tue le differenti proporzioni e prima venivano espresse soo forma di percentuali. Così, se si assume 1 come l’unità dell’idrogeno e si prende 8 come unità dell’ossigeno, la combinazione di una unità di idrogeno con una unità di ossigeno darà luogo all’esaa proporzione tra i pesi delle due sostanze e sappiamo esistere nell’acqua; la combinazione di una unità di idrogeno con due unità di ossigeno produrrà la proporzione e esiste nell’altro composto dei medesimi due elementi iamato perossido di idrogeno, e la combinazione di idrogeno e di ossigeno con tue le altre sostanze corrisponderà all’ipotesi e questi elementi entrano in combinazione secondo unità singole, o coppie, o triple, dei numeri loro assegnati, 1 e 8, mentre le altre sostanze si combinano secondo unità, o coppie, o triple di altri determinati numeri, propri di ciascuna. Il risultato è una tavola dei numeri equivalenti, o, come li iamano, dei pesi atomici di tue le sostanze elementari, tavola e comprende in sé e spiega scientificamente tue le proporzioni in cui si trova e una qualsiasi sostanza, elementare o composta, è capace di entrare in combinazione imica con un’altra sostanza qualsiasi. 2. Alcuni casi interessanti di spiegazione delle vecie uniformità per mezzo di leggi da poco accertate sono forniti dalle ricere del professor Graham2. esto eminente imico fu il primo ad airare l’aenzione sulla possibilità di ripartire tue le sostanze in due classi iamate cristalloidi e colloidi, o, piuosto, di ripartire tui gli stati della materia in stati cristalloidi e stati colloidali, peré molte sostanze possono esistere in entrambi questi stati. ando una sostanza si trova nello stato colloidale, le sue proprietà sensibili sono molto differenti da quelle della medesima sostanza quando sia cristallizzata o si trovi in uno stato facilmente susceibile di cristallizzazione. Le sostanze colloidali passano allo stato cristallino con estrema difficoltà ed estrema lentezza e sono estremamente

inerti in tue le relazioni imie ordinarie. Combinate con l’acqua, le sostanze allo stato colloidale sono quasi sempre più o meno viscose o gelatinose. Gli esempi più rilevanti dello stato colloidale sono costituiti da certe sostanze animali e vegetali, in particolare dalla gelatina, dall’albume, dall’amido, dalle gomme, dal caramello, dal tannino e da alcune altre sostanze. Tra le sostanze di origine inorganica gli esempi più notevoli sono l’acido silicico idrato e l’idrato di alluminio, insieme con altri perossidi metallici della classe degli allumi. Ora, troviamo e mentre sono facilmente penetrate dall’acqua e dalle soluzioni di sostanze cristalline, le sostanze colloidali sono molto poco penetrabili l’una dall’altra. esto fao ha messo il professor Graham in grado di introdurre un processo altamente efficace, iamato dialisi, per separare le sostanze cristalline contenute in una qualsiasi mistura liquida, facendole passare araverso un soile diaframma di materia colloidale e non lascia passare nessun colloide, o ne lascia passare soltanto una quantità minima. esta proprietà dei colloidi ha fao sì e il signor Graham potesse rendere ragione di un certo numero di risultati speciali per i quali prima non esisteva alcuna spiegazione. Ad esempio, «mentre i cristalloidi solubili sono sempre altamente sapidi, i colloidi solubili sono singolarmente insipidi». E c’era da aspearselo. Infai, siccome le estremità sensibili dei nervi del palato «sono probabilmente protee da una membrana colloidale» impermeabile agli altri colloidi, quando si assaggia un colloide è probabile e questo non raggiunga mai quei nervi. Ancora: «si è osservato e la gomma vegetale non viene digerita nello stomaco; le pareti di quest’organo dializzano il cibo solubile, assorbendo i cristalloidi e rigeando tui i colloidi». Uno dei processi misteriosi e accompagnano la digestione — la secrezione di acido muriatico libero da parte delle pareti dello stomaco — riceve una spiegazione ipotetica probabile dalla medesima legge. Infine, il fao e le membrane siano colloidali, gea una gran luce sul fenomeno osservato dell’osmosi (cioè del passaggio di fluidi al di fuori e al di dentro, araverso membrane animali). Di conseguenza, l’acqua e le soluzioni saline contenute nel corpo animale passano facilmente e rapidamente araverso le membrane, mentre le sostanze direamente applicabili alla nutrizione — e per la maggior parte sono sostanze colloidali — sono ritenute dalle membranea. La proprietà, posseduta dal sale, di preservare le sostanze animali dalla putrefazione è stata risolta da Liebig in due leggi più generali: la forte

affinità del sale per l’acqua e la necessità della presenza di acqua come una delle condizioni della putrefazione. i il fenomeno intermedio, interposto fra la causa remota e l’effeo, non può soltanto essere inferito: può ane essere visto. È un fao familiare, infai, e quando si bua sale sulla carne, si può vedere quasi subito e questa nuota in acqua salata. Il secondo di questi due faori (così infai possiamo iamarli) nei quali è stata risolta la legge precedente — la necessità dell’acqua per la putrefazione — fornisce, da solo, un altro esempio di risoluzione delle leggi. La legge stessa viene provata con il metodo della differenza, peré la carne completamente essiccata e mantenuta in un’atmosfera priva di umidità non si putrefà, come si vede nel caso di provviste alimentari essiccate o dei corpi umani nei climi molto seci. Dalle speculazioni di Liebig si ricava una spiegazione deduiva di questa medesima legge. La putrefazione degli animali e degli altri corpi azotati è un processo imico mediante il quale tali corpi vengono gradualmente dissolti in forma di gas, specialmente in forma di acido carbonico e di ammoniaca. Ora la conversione in acido carbonico del carbonio della sostanza animale riiede ossigeno, mentre la conversione dell’azoto in ammoniaca riiede idrogeno, e ossigeno e idrogeno sono gli elementi di cui è composta l’acqua. L’estrema rapidità con cui avviene la putrefazione delle sostanze azotate, confrontata con il decadimento graduale dei corpi non-azotati (quali il legno e simili) grazie all’azione del solo ossigeno, viene spiegata da Liebig in base alla legge generale secondo cui le sostanze vengono decomposte molto più facilmente dall’azione su due dei loro elementi di due differenti affinità, e non dall’azione di un’affinità sola. 3. Tra le molte proprietà importanti del sistema nervoso e sono state scoperte originariamente, o illustrate in modo sorprendente, dal door Brown-Séquard, scelgo l’influenza riflessa del sistema nervoso sulla nutrizione e la secrezione. Per azione nervosa riflessa si intende quell’azione e una parte del sistema nervoso esercita su un’altra parte, senza alcuna azione intermedia sul cervello, e di conseguenza senza e il processo sia cosciente; oppure quell’azione e, se passa per il cervello, almeno produce i suoi effei indipendentemente dalla volontà. Ci sono molti esperimenti i quali provano e l’irritazione di un nervo in una parte del corpo può esercitare, in questo modo, una potente azione in un’altra parte del corpo. Per esempio, se si iniea cibo nello stomaco araverso un esofago diviso si

produce nondimeno secrezione di saliva; si è trovato e l’acqua calda inieata negli intestini e varie altre irritazioni dell’intestino inferiore eccitano la secrezione di succo gastrico, e così via. Provata così la realtà del potere, la sua azione spiega una gran varietà di fenomeni apparentemente anomali. Tra questi scelgo, dalle Lectures on the Nervous System [Lezioni sul sistema nervoso] del door Brown-Séquard, i seguenti esempi. La produzione di lacrime in seguito ad irritazione dell’ocio, o della membrana mucosa del naso. L’aumento delle secrezioni dell’ocio e del naso, dovuto all’esposizione al freddo di altre parti del corpo. L’infiammazione dell’ocio, specialmente quando sia di origine traumatica, produce un’affezione simile nell’altro ocio, affezione e può essere curata reddendo il nervo interposto. La perdita della vista, prodoa quale volta da nevralgia. Si sa e è stata curata istantaneamente dall’estirpazione (ad esempio) di un dente cariato. Perfino la cataraa è stata prodoa in un ocio sano dalla cataraa nell’altro ocio, o da una nevralgia, o da una lesione del nervo frontale. Il ben noto fenomeno dell’arresto improvviso dell’azione del cuore (arresto a cui consegue la morte) provocato dall’irritazione di qualcuna delle estremità nervose: ad esempio, quando si sia bevuta acqua molto fredda, o si sia ricevuto un colpo nell’addome, o ci sia stata quale altra eccitazione improvvisa del nervo simpatico addominale, ane se, una volta e si sia operata una resezione dei nervi comunicanti, questo nervo può essere irritato a piacimento senza e ciò provoi l’arresto dell’azione del cuore. Gli straordinari effei prodoi sugli organi interni da una ustione estesa sulla superficie corporea, effei consistenti nell’infiammazione violenta dei tessuti dell’addome, del peo e della testa. ando a questo genere di ingiuria segue la morte, quest’infiammazione ne costituisce una delle cause più frequenti. Paralisi e anestesia di una parte del corpo, provocata da una nevralgia nell’altra parte, e atrofia muscolare prodoa da nevralgia, ane in assenza di paralisi. Contrazioni tetanie prodoe dalla lesione di un nervo: il door BrownSéquard pensa e sia altamente probabile e l’idrofobia sia un fenomeno di natura simile. Mutamenti morbosi nella nutrizione del cervello e del midollo spinale, e si manifestano con epilessia, còrea, isteria e altre malaie, occasionati dalla

lesione in luoghi remoti di qualcuna delle terminazioni nervose, lesione causata, per esempio, da vermi, calcoli, tumori, carie delle ossa, e, in alcuni casi, ane da leggerissime irritazioni della pelle. 4. Dagli esempi precedenti, e da altri simili, possiamo vedere quanto sia importante, quando si sia portata alla luce una legge di natura prima sconosciuta o quando un nuovo esperimento abbia geato nuova luce su una legge nota, esaminare tui i casi e presentano le condizioni necessarie a meere in azione quella legge. Si traa di un processo fertile di dimostrazioni di leggi speciali fino a quel momento insospeate, e di spiegazioni di altre leggi già note empiricamente. Ad esempio, Faraday scoprì sperimentalmente e l’elericità voltaica può essere sviluppata da un magnete naturale purè si mea in moto un corpo conduore disposto ad angolo reo rispeo alla direzione del magnete, e trovò e questo vale non soltanto per i piccoli magneti, ma ane per quel grande magnete e è la Terra. Consolidata così sperimentalmente la legge e da un magnete e da un corpo conduore e si muova secondo angoli rei rispeo alla direzione dei suoi poli si sviluppa elericità, possiamo ora andare alla ricerca di casi nuovi, in cui concorrano queste condizioni. Dovunque un conduore si muova o ruoti ad angolo reo rispeo alla direzione dei poli magnetici della Terra, là possiamo aspearci e si sviluppi elericità. Nelle regioni nordie, dove la direzione del polo è praticamente perpendicolare all’orizzonte, tui i moti orizzontali dei conduori produrranno elericità: per esempio, ruote orizzontali fae di metallo, e così pure tue le correnti in movimento, produrranno una corrente elerica e circolerà intorno ad esse. L’aria, così carica di elericità, può essere una delle cause dell’aurora boreale. Al contrario, nelle regioni equatoriali, ruote metallie disposte parallelamente all’equatore origineranno un circuito voltaico, e le cascate d’acqua diventeranno naturalmente elerie. Un secondo esempio: è stato provato, soprauo dalle ricere del professor Graham, e i gas hanno una forte tendenza a permeare le membrane animali e a diffondersi negli spazi raciusi da queste membrane, nonostante la presenza in tali spazi di altri gas. Procedendo da questa legge generale, e riprendendo in considerazione una gran varietà di casi in cui certi gas giacciono contigui alle membrane, siamo in grado di dimostrare o di spiegare le seguenti leggi più speciali: 1). ando è circondato da un gas

e non sia già contenuto all’interno del corpo, il corpo umano o animale lo assorbe rapidamente: tale, per esempio, è il caso dei gas delle materie in putrefazione, e questo aiuta a spiegare la malaria. 2). Il gas di acido carbonico delle bevande effervescenti, e si sviluppa nello stomaco, permea le sue membrane e si diffonde rapidamente per tuo il sistema. 3). L’alcool, assunto nello stomaco, si trasforma in vapore e si spande per tuo il sistema con grande rapidità (e questo fao, combinato con quello della grande combustibilità dell’alcool, o, in altre parole, della sua prontezza a combinarsi con l’ossigeno, può forse aiutare a dare una spiegazione del calore corporeo e segue immediatamente l’ingestione di liquori spiritosi). 4). In qualsiasi stato del corpo in cui, all’interno del corpo stesso, si formano gas particolari, questi gas esaleranno rapidamente per tue le parti del corpo: di qui la rapidità con cui, in certi stati di malaia, si ammorba l’atmosfera circostante. 5). La putrefazione delle parti interne di una carcassa procederà tanto rapidamente quanto quella delle parti esterne, per via della pronta uscita dei prodoi gassosi. 6). Lo scambio di ossigeno e di acido carbonico nei polmoni non è impedito, ma piuosto aiutato, dal fao e tra il sangue e l’aria sono interposte la membrana polmonare e le pareti dei vasi sanguigni. È comunque necessario e nel sangue ci sia una sostanza con cui l’ossigeno dell’aria possa combinarsi immediatamente: altrimenti, invece di passare nel sangue, l’ossigeno permeerebbe l’intiero organismo; ed è necessario e, come si forma nei capillari, l’acido carbonico trovi nel sangue una sostanza con cui combinarsi, altrimenti, invece di scaricarsi araverso i polmoni, abbandonerebbe il corpo da ogni suo punto. 5. La seguente deduzione conferma, spiegandola, la generalizzazione empirica, vecia ma messa più volte in discussione, secondo cui le polveri di sodio indeboliscono il sistema umano. este polveri, e consistono in una mistura di acido tartarico con bicarbonato di sodio, e libera l’acido carbonico, devono passare nello stomaco come tartrato di sodio. Ora troviamo e i tartrati, i citrati e gli acetati neutri degli alcali, passando araverso il sistema, si trasformano in carbonati e la conversione di un tartrato in un carbonato riiede una quantità addizionale di ossigeno, l’estrazione del quale sorae di necessità l’ossigeno, destinato all’assimilazione col sangue, dalla quantità da cui in parte dipende l’azione vigorosa del sistema umano.

Gli esempi di nuove teorie e concordano con la vecia empiria e la spiegano sono innumerevoli. Tue le giuste osservazioni sul caraere e la condoa dell’uomo fae da persone dotate di esperienza sono altreante leggi speciali e le leggi generali della mente umana spiegano e risolvono. Le generalizzazioni empirie sulle quali di solito sono state fondate le operazioni della tecnica vengono continuamente giustificate e confermate da una parte, o corree e migliorate dall’altra, dalla scoperta delle leggi scientifie più semplici dalle quali dipende l’efficacia di queste operazioni. Gli effei della rotazione delle colture, dei vari concimi e degli altri processi di un’agricoltura progredita sono stati risolti per la prima volta, ai giorni nostri, in leggi note dell’azione imica e organica, da Davy, Liebig e altri. Ancor oggi, i procedimenti dell’arte medica sono per la maggior parte empirici: in ciascun caso si conclude alla loro efficacia sulla base di una generalizzazione sperimentale speciale ed estremamente precaria; però man mano e la scienza va avanti nella scoperta delle leggi semplici della imica e della fisiologia, si fanno progressi nell’accertare gli anelli intermedi nella serie dei fenomeni e le leggi più generali da cui dipendono; e così, mentre i veci processi vanno all’aria, o — se sono efficaci — se ne spiega l’efficacia, vengono continuamente suggeriti e fai entrare nell’uso processi migliori, fondati sulla conoscenza delle cause prossimeb. Prima e le si deducesse dai primi princìpi addiriura molte delle verità della geometria erano generalizzazioni trae dall’esperienza. Si dice e la quadratura della cicloide sia stata eseguita, la prima volta, per mezzo di misurazioni, o, per meglio dire, pesando un pezzo di carta di forma cicloidale e paragonando il suo peso con quello di un pezzo di carta simile, le cui dimensioni erano note. 6. Agli esempi precedenti, trai dalla scienza fisica, ci sia concesso di aggiungerne un altro, trao dalla scienza della mente. Le idee piacevoli o dolorose formano associazioni più facili e più forti e le altre idee; cioè a dire, si associano dopo un numero di ripetizioni minori e la loro associazione è più duratura di quella delle altre idee. esta è una legge sperimentale, basata sul metodo della differenza. Deducendole da questa legge, è possibile dimostrare e spiegare molte delle leggi più speciali e, a quanto ci mostra l’esperienza, esistono tra fenomeni mentali particolari: per esempio, la facilità e la rapidità con cui si eccitano i pensieri connessi con le nostre passioni, o con gli interessi e più ci stanno a cuore, e la forte presa e

hanno sulla nostra memoria i fai legati a interessi e passioni; il vivido ricordo e conserviamo di circostanze minute e hanno accompagnato oggei o eventi e ci abbiano interessato profondamente, e dei tempi e dei luoghi in cui siamo stati molto felici o molto infelici; l’orrore con cui consideriamo qualsiasi strumento accidentale di un evento e ci abbia scossi, o la località dove l’avvenimento ha avuto luogo, e il piacere e deriviamo dalla rimembranza della felicità passata. Tui questi effei sono proporzionali alla sensibilità della mente individuale e alla conseguente intensità del dolore o del piacere da cui si è originata l’associazione. L’abile autore di uno sizzo biografico del door Priestley, comparso su una rivista mensilec, ha suggerito e la medesima legge elementare della nostra costituzione mentale, opportunamente sviluppata in tue le sue conseguenze, spiegherebbe una gran varietà di fenomeni e prima erano inesplicabili, e, in particolare, certe diversità fondamentali del caraere e del genio umani. Le associazioni sono di due tipi: o avvengono tra impressioni sincrone o avvengono tra impressioni successive, e l’influenza della legge e rende le associazioni tanto più forti quanto più piacevole o doloroso è il caraere delle impressioni si fa sentire con forza tua particolare nella classe di associazioni sincrone. L’autore e abbiamo citato osserva perciò e in intellei dotati di forte sensibilità organica sarà più probabile e predominino le associazioni sincrone, producendo in tal modo una tendenza a concepire le cose secondo immagini e concretamente, rivestite riccamente di aributi e circostanze; questo abito mentale si iama comunemente immaginazione ed è una delle particolarità del piore o del poeta. Invece le persone dotate di minore susceibilità al piacere o al dolore avranno una tendenza ad associare i fai soprauo secondo l’ordine della loro successione: questi individui, se posseggono una superiorità mentale, si dedieranno alla storia o alla scienza, piuosto e all’arte creativa. In un’altra occasione, l’autore di questo libro ha tentato di spingere più in là quest’interessante speculazione, cercando di esaminare fino a qual punto essa ci sia utile per spiegare le peculiarità del temperamento poeticod. Si traa per lo meno di un esempio e può servire, in luogo di molti altri, a mostrare quanto sia esteso l’ambito della ricerca deduiva della scienza della mente, così importante e, fino a oggi, così imperfecta. 7. L’abbondanza con cui è stata qui esemplificata la scoperta e la spiegazione delle leggi speciali dei fenomeni a partire da leggi più semplici e

più generali, era stata suggerita da un desiderio di caraerizzare con iarezza e meere nel debito rilievo il metodo deduivo, e allo stato auale della conoscenza è irrevocabilmente destinato, d’ora in poi, a dominare il cammino della ricerca scientifica. In filosofia sta avvenendo una rivoluzione pacifica e progressiva, ed è la rivoluzione opposta a quella cui Bacone ha associato il proprio nome. el grand’uomo cambiò il metodo delle scienze trasformandolo da deduivo in sperimentale: oggi il metodo delle scienze, da sperimentale e era, sta rapidamente tornando deduivo. Ma le deduzioni e Bacone abolì erano trae da premesse freolosamente raffazzonate o assunte arbitrariamente. I princìpi non erano stati stabiliti in base ai canoni legiimi della ricerca sperimentale, e i risultati non venivano sooposti a controllo da quell’elemento indispensabile di un metodo deduivo razionale e è la verifica per mezzo di esperienze specifie. Tra il metodo primitivo della deduzione, e il metodo deduivo e io ho tentato di caraerizzare, c’è tua la differenza e intercorre tra la fisica aristotelica e la teoria newtoniana dei cieli. Sarebbe però un errore l’aspearsi e quelle grandi generalizzazioni da cui è probabile e un giorno o l’altro si dedurranno, col solo ragionamento, le verità subordinate delle scienze più arretrate (così come dalle generalizzazioni della teoria newtoniana si deducono le verità dell’astronomia) si trovino in tui, o ane solo nella maggior parte dei casi, tra verità ora note ed ammesse. Possiamo star sicuri e molte delle leggi più generali della natura sono a tu’oggi del tuo impensate, e e molte altre leggi e d’ora in poi sono destinate ad assumere il medesimo caraere, si conoscono, ammesso e si conoscano, soltanto come leggi o proprietà di quale classe limitata di fenomeni. Così, l’elericità, e ora si riconosce come uno fra gli agenti naturali più universali, un tempo era nota soltanto come una curiosa proprietà, e certe sostanze acquistavano dopo essere state soffregate, di ararre in un primo tempo i corpi leggeri e poi di respingerli. Se le teorie del calore, della coesione, della cristallizzazione e dell’azione imica sono destinate — e non c’è dubbio e lo siano — a diventare deduive, è probabile e le verità e quel giorno saranno considerate come i principia di queste scienze apparirebbero oggi come complete novitàe, proprio come la teoria della gravitazione era apparsa ai contemporanei di Newton. E magari sembreranno ancora più nuove, peré, dopo tuo, la legge di Newton altro non era e un’estensione della legge del peso — cioè di una generalizzazione da lungo tempo familiare, e e

comprendeva di già un corpo di fenomeni naturali tu’altro e trascurabile. Forse le leggi generali e posseggono un caraere così imperioso, e e a tu’oggi speriamo di scoprire, non troveranno sempre tanti fondamenti già bell’e pronti. Senza dubbio queste verità generali faranno la loro prima apparizione nella parte di ipotesi, e in prima istanza non sono provate e non ammeono prove, ma e vengono assunte come premesse allo scopo di dedurre, da esse, le leggi note dei fenomeni concreti. esto sarà forse il loro stato iniziale, ma può darsi e non sia quello definitivo. Per avere il dirio di essere acceata come una delle verità di natura, e non semplicemente come un puro e semplice ausilio tecnico delle facoltà umane, un’ipotesi deve poter essere sooposta a controllo mediante i canoni dell’induzione legiima, e deve effeivamente essere stata sooposta a questo controllo. ando questo controllo sarà stato fao, e sarà stato fao con successo, si saranno oenute premesse delle quali tue le altre proposizioni della scienza saranno da quel momento in poi presentate come conclusioni, e, grazie a una nuova, inaspeata induzione, la scienza sarà resa deduiva. a.

Si veda la Memoria di omas Graham, F. R. S., Mastro della Zecca: «Liquid Diffusion Applied to Analysis», in Philosophical Transactions, del 1862, ristampata in Journal of the Chemical Society e pubblicata ane separatamente, soo forma di volumeo. b. Era una vecia generalizzazione della irurgia e una fasciatura strea ha la tendenza a prevenire o a far scomparire un’infiammazione locale. Col progredire delle conoscenze fisiologie questa sequenza fu risolta in leggi più generali e condusse all’importante invenzione irurgica faa dal door Arno3: il traamento di infiammazioni e di tumescenze locali per mezzo di una pressione egualmente distribuita, prodoa da una vescica parzialmente riempita d’aria. La pressione, tenendo il sangue lontano dalla parte, impedisce e il gonfiore, o la tumescenza, vengano nutriti. Nel caso dell’infiammazione, rimuove lo stimolo e l’organo è inadao a ricevere; nel caso della tumescenza, tiene lontano il fluido nutritivo e perciò fa sì e l’assorbimento di materia superi il rifornimento, cosicé la massa malata viene assorbita gradualmente e infine scompare. 4 c. esto scrio è poi stato riconosciuto come proprio dal signor Martineau , e riprodoo nei suoi Miscellanies. d. Dissertations and Discussion, vol. I, IV saggio. e. esta parte fu scria prima e sorgessero le nuove teorie sulle relazioni tra calore e forza meccanica; ma invece di contraddire il punto di vista qui esposto, queste teorie lo confermano. 1. Marie-FranҫoisXavier Biat (1711-1802), anatomo e fisiologo francese, professore a Parigi. Precisò, le nozioni di organi e di tessuto, e le relazioni tra organo e funzione. Distinse le proprietà fisie, quali l’elasticità, dalle proprietà vitali, come la sensibilità. Divise le aività degli organismi in funzioni della vita organica e funzioni della vita animale (rapporti con il mondo esterno). Opere principali: Traité des membranes [Trattato sulle membrane] (1800); Recherches physiologiques sur la vie et sur la mort [Ricerche fisiologiche sulla vita e sulla morte] (1800).

2. omas Graham (1805-1869), imico scozzese, fellow e poi vicepresidente della Royal Society. Studiò le proprieta dell’acido fosforico; scoprì la legge secondo cui la diffusione dei gas è inversamente proporzionale alla radice quadrata della loro intensity. Studiò la dialisi dei liquidi e applicò per primo i termini «cristalloide» e «colloide». Fu Mastro della Zecca d’Inghilterra, succedendo in tale carica a Sir John Hersel. 3. Neill Arno (1788-1874), medico scozzese, dal 1838 fellow della Royal Society. Fu irurgo per la East India Company e fece pareci viaggi in Estremo Oriente, compiendo numerose osservazioni scientifie. Lasciata la pratica nel 1855 si dedicò alla ricerca scientifica e fece parecie invenzioni pratie nel campo della irurgia. È l’autore di un’opera in due volumi, Elements of Physics [Elementi di fisica] (1827-1833) e ebbe parecia fortuna ane sul Continente, e di una Survey of Human Progress [Panorama del progresso umano] (1861) e risente di una forte influenza dell’utilitarismo. 4. James Martineau (1805-1900), teologo unitariano e filosofo morale inglese, dal 1840 professore di filosofia morale e dal 1869 preside del New College di Manester. Autore di parecie opere teologie e filosofie, e ricordato soprauo per l’opcra Types of Ethical Theory [Tipi di teoria etica] (1885) in due volumi, e ebbe larghissima diffusione nell’insegnamento universitario. L’opera cui si riferisce Mill — una biografia del dr. Priestley — comparve nel 1833 e fu ristampata in una raccolta, Miscellanies, edita a Boston nel 1855.

LIBRO TERZO

L’INDUZIONE (Capp. XIV-XXV)

CAPITOLO XIV. I LIMITI DELLA SPIEGAZIONE DELLE LEGGI DI NATURA. LE IPOTESI 1. Le considerazioni e precedono ci hanno condoo a riconoscere una distinzione tra due specie di leggi, o uniformità, osservabili in natura: le leggi fondamentali e quelle e possiamo iamare leggi derivate. Le leggi derivate sono quelle leggi e possono essere dedoe da altre leggi generali e possono essere risolte in leggi generali in uno qualsiasi dei modi e abbiamo indicato. Le leggi fondamentali sono quelle e non possono essere risolte in, o dedoe da, leggi più generali. Di nessuna delle uniformità delle quali abbiamo conoscenza a tu’oggi siamo sicuri e siano leggi fondamentali: sappiamo però e leggi fondamentali devono essercene, e e ogni risoluzione di una legge derivata in leggi più generali ci avvicina ad esse. Poié continuamente scopriamo e certe uniformità, e prima si sapevano essere leggi fondamentali, sono in realtà derivate e possono essere risolte in leggi più generali; poié, in altre parole, andiamo continuamente scoprendo la spiegazione di quale sequenza e prima era nota solo come un fao, diventa interessante iedersi se ci siano limiti necessari a quest’operazione filosofica, o se essa possa procedere fin quando tue le sequenze uniformi della natura non siano state risolte in una sola legge universale. esto infai sembra, a tua prima, il fine ultimo verso il quale tende il cammino dell’induzione con l’aiuto del metodo deduivo e riposa sopra una base di osservazione e di esperimenti. Progei di questo genere erano diffusi universalmente nell’infanzia della filosofia, mentre le speculazioni e offrivano prospeive meno brillanti non erano ritenute, in quei tempi antii, degne di essere perseguite. E apparentemente quest’idea riceve ancor oggi tanto sostegno dalla natura dei successi più notevoli della scienza moderna, e ane ai giorni nostri spuntano di frequente pensatori e diiarano di avere risolto il problema o suggeriscono modi in cui si potrà risolverlo un giorno o l’altro. Ane quando non si avanzino pretese così grandiose, spesso il caraere delle soluzioni e si dànno, o e si cercano di dare, a classi particolari di fenomeni, implica, di ciò e costituisce la spiegazione, concezioni tali da rendere perfeamente

ammissibile l’idea di spiegare tui quanti i fenomeni per mezzo di una sola causa, o di una sola legge. 2. Sarà pertanto utile far osservare e è assolutamente impossibile e le leggi fondamentali della natura siano meno numerose delle sensazioni e possiamo distinguere, o degli altri sentimenti propri della nostra natura: voglio dire, di quelle sensazioni e di quei sentimenti e possiamo distinguere l’uno dall’altro per la loro qualità, e non semplicemente per la loro quantità o per il loro grado. Per esempio, dal fao e c’è un fenomeno sui generis iamato colore, il quale, a quanto ci testimonia la nostra coscienza, non è una gradazione particolare di quale altro fenomeno come il calore, l’odore o il movimento, ma è intrinsecamente diverso da tui gli altri, segue e ci sono leggi fondamentali del colore: segue e, pur essendo susceibili di spiegazione, i fai propri del colore non potranno mai essere spiegati a partire dalle leggi del solo calore, o del solo odore, o del solo moto, ma e, per quanto lontano si possa spingere la spiegazione, in essa rimarrà sempre una legge del colore. Non voglio dire e forse non sarà mai possibile mostrare e un certo altro fenomeno, per esempio una certa azione imica o meccanica, precede invariabilmente ogni fenomeno del colore e ne è la causa: voglio dire e pur costituendo, se venisse provata, un’importante estensione della nostra conoscenza della natura, una cosa del genere non spiegherebbe come e peré un certo movimento o una certa azione imica possano produrre una sensazione di colore; e per quanto diligente sia il nostro esame dei fenomeni; per quanto alto sia il numero di anelli occulti e possiamo cogliere nella catena causale e ha il suo termine nel colore, l’ultimo anello sarebbe ancora una legge del colore, e non una legge del movimento o di un altro fenomeno qualsiasi. E quest’osservazione non vale soltanto per il colore a confronto con una qualsiasi delle altre grandi classi di sensazioni: vale per ciascun colore particolare, a confronto con gli altri colori. In nessun modo il colore bianco può essere spiegato esclusivamente in base alle leggi della produzione del colore rosso. In ogni tentativo di spiegarlo non possiamo fare a meno di introdurre, come elemento della spiegazione, la proposizione e la sensazione di bianco è prodoa dall’uno o dall’altro di certi antecedenti. Pertanto, il limite ideale della spiegazione dei fenomeni naturali (limite al quale — come ad altri limiti ideali — tendiamo continuamente senza la prospeiva di riuscire, un bel giorno, a raggiungerlo completamente)

consisterebbe nel mostrare e per ogni varietà distinta delle nostre sensazioni o degli altri stati di coscienza c’è un solo genere di causa; e, per esempio, ogni qualvolta percepiamo un colore bianco, c’è quale condizione, o quale insieme di condizioni, e è sempre presente e la cui presenza produrrà sempre in noi quella sensazione. Fin quando ci saranno pareci modi del prodursi di un fenomeno (parecie sostanze differenti, per esempio, munite della proprietà della bianezza e tra le quali non possiamo rintracciare nessun’altra somiglianza) non sarà impossibile e uno di questi modi di prodursi del fenomeno possa essere risolto in un altro, o e tui possano essere risolti in quale modo di prodursi più generale, e fino ad oggi non è ancora stato riconosciuto. Ma quando i modi in cui si producono i fenomeni siano stati ridoi a uno solo, non sarà possibile semplificare ulteriormente le cose e andare oltre. Può ben darsi e, dopo tuo, questo modo di prodursi del fenomeno non sia quello fondamentale; può darsi e tra quella e crediamo la causa, e l’effeo, rimangano ancora da scoprire altri anelli; ma noi possiamo risolvere ulteriormente la legge nota soltanto introducendo quale altra legge fisica fino ad oggi ignota; cosa, questa, e certamente non ridurrà il numero delle leggi fondamentali. In quali casi, dunque, la scienza ha oenuto i suoi maggiori successi nella spiegazione dei fenomeni mediante la risoluzione delle loro leggi complesse in leggi di maggiore semplicità e di maggiore generalità? Finora, soprauo nel caso della propagazione dei vari fenomeni araverso lo spazio; e, prima di tuo e principalmente, nel caso più diffuso e più importante dei fai di questo tipo: il fao del movimento meccanico. Ora, dati i princìpi e abbiamo enunciato qui, questo è né più né meno quello e potevamo aspearci. Non soltanto il movimento è, tra tui i fenomeni, uno dei più universali: come ci si poteva aspeare da questa circostanza, è ane uno di quei fenomeni e, almeno apparentemente, si producono nel maggior numero di modi. Ma rispeo alle nostre sensazioni il fenomeno in se stesso è sempre il medesimo per tui gli aspei, tranne e per il grado. Evidentemente le differenze di durata, o di velocità sono soltanto differenze di grado, mentre (almeno per quanto riguarda le nostre sensazioni) le differenze nella direzione nello spazio, e è la sola ad avere quale sembianza di distinzione specifica, spariscono completamente quando cambia la nostra posizione; in realtà, secondo la nostra posizione il medesimo movimento ci sembra e abbia luogo nelle direzioni più diverse e svariate, mentre movimenti e avvengono in tue le direzioni differenti ci

sembrano aver luogo nella medesima direzione. E ancora: un moto reilineo e un moto curvilineo non si distinguono in altro e in questo: e l’uno è un movimento e continua nella medesima direzione, mentre l’altro è un movimento e cambia direzione ad ogni istante. Di conseguenza, stando ai princìpi e ho enunciato, non è per nulla assurdo il supporre e tuo il movimento possa essere prodoo, in un solo e medesimo modo, dalla medesima specie di cause. Pertanto, i più grandi successi e si siano mai oenuti nella scienza fisica sono consistiti nella risoluzione di una legge osservata del prodursi del moto, in altre leggi di altri modi noti di produzione, o delle leggi di pareci di tali modi in un solo modo più generale: come quando si fecero rientrare la caduta dei corpi sulla Terra e i moti dei pianeti soo la sola legge dell’arazione reciproca di tue le particelle di materia; o quando si mostrò e i movimenti e si dicevano prodoi dal magnetismo sono in realtà prodoi dall’elericità, o quando si dimostrò e i moti dei fluidi in direzione laterale, o addiriura in direzione contraria a quella della gravità, sono prodoi dalla gravità, e via discorrendo. Le cause del movimento e non sono ancora state risolte l’una nell’altra abbondano: la gravitazione, il calore, l’elericità, l’azione imica, l’azione nervosa, e così via; ma ane se alla fine gli sforzi compiuti dall’auale generazione di sapienti per risolvere in uno solo tui questi modi differenti non dovessero avere successo, il tentativo di risolverli sarebbe pur sempre perfeamente legiimo. Infai, ane se per altri aspei queste varie cause producono sensazioni intrinsecamente differenti — e per questa ragione non sono susceibili di essere risolte l’una nell’altra — tuavia, nella misura in cui tue producono il movimento, è perfeamente possibile e in tui questi casi differenti l’antecedente immediato del moto sia il medesimo, e non è impossibile e tui questi svariati agenti abbiano come loro antecedente immediato quale modo di movimento molecolare. Non è necessario estendere la nostra illustrazione ad altri casi quali, per esempio, la propagazione araverso lo spazio della luce, del suono, del calore, dell’elericità, e così via; né è necessario estenderla a uno qualsiasi degli altri fenomeni e, in séguito alla risoluzione delle loro leggi osservate in leggi più generali, si sono trovati susceibili di spiegazione. Per meere in evidenza la differenza tra quella specie di spiegazione e di risoluzione di leggi e è imerica, e quella la cui realizzazione costituisce il grande scopo della scienza, si è già deo abbastanza; e si è già deo abbastanza per

mostrare in qual genere di elementi la risoluzione debba essere effeuata, ammesso e possa mai esserloa. 3. Comunque, siccome praticamente tui i princìpi di un vero metodo filosofico devono essere salvaguardati dagli errori e possano insinuarsi da entrambe le parti, mi sento in dovere di meere in guardia contro un altro fraintendimento, direamente contrario al precedente. Tra le altre occasioni in cui ha condannato non senza asprezza i tentativi di spiegare quei fenomeni e sono «evidentemente primordiali» (intendendo semplicemente, a quanto pare, e ogni fenomeno particolare deve avere almeno una legge sua particolare, e perciò inesplicabile) il signor Comte ha parlato del tentativo di fornire spiegazioni del colore proprio di ciascuna sostanza — la couleur élémentaire propre à chaque substance — come di un tentativo per sua essenza illusorio. «Ai nostri tempi», scrive, «nessuno tenta di spiegare la gravità specifica particolare di ciascuna sostanza o di ciascuna struura. Peré le cose dovrebbero andare altrimenti per il colore specifico, la cui nozione, indubbiamente, non è meno primordiale?”b. Ora, sebbene (come osserva altrove) un colore debba necessariamente rimanere in eterno una cosa diversa da un peso o da un suono, le varietà di colore potrebbero nondimeno conseguire, o corrispondere, a varietà date di peso o di suono, o a quale fenomeno tanto differente quanto peso e colore sono differenti dal suono. Che cosa sia una certa cosa, è una questione; da e cosa dipenda, è un’altra questione: e sebbene accertare le condizioni di un fenomeno elementare non signifii raggiungere una nuova penetrazione nella natura del fenomeno stesso, non c’è nessuna ragione per cui non si debba tentare di scoprirne le condizioni. La proibizione del tentativo di ridurre le distinzioni tra i colori a un quale principio comune avrebbe reo egualmente contro un tentativo analogo, riguardante le distinzioni tra suoni, ane se si è trovato e queste ultime sono precedute immediatamente, e causate, da varietà ben distinte di vibrazioni dei corpi elastici, e ane se non c’è alcun dubbio e un suono è tanto differente da un colore quanto da un qualsiasi moto di particelle, vibratorio o di altra specie. Potremmo aggiungere e nel caso dei colori ci sono forti indicazioni positive e non si traa di proprietà fondamentali delle differenti specie di sostanze, ma e i colori dipendono da condizioni e possono essere imposte a tue le sostanze: non esiste infai sostanza a cui non si possa far assumere praticamente qualsiasi colore, secondo la specie di luce con la quale la si illumina; e quasi tui i cambiamenti nel modo d’aggregazione delle

particelle della medesima sostanza sono seguiti da un’alterazione del colore e, in generale, delle proprietà oie della sostanza medesima. Il punto veramente debole dei tentativi di rendere conto dei colori ricorrendo alle vibrazioni di un fluido, non consiste nel fao e il tentativo in se stesso è contrario a tui i princìpi della filosofia, ma nel fao e l’esistenza del fluido e il suo moto vibratorio non sono provati, ma vengono assunti soltanto in ragione della facilità con cui ci permeerebbero di spiegare i fenomeni. E questa considerazione ci conduce ad affrontare l’importante questione dell’uso appropriato delle ipotesi scientifie, questione la cui connessione con la spiegazione dei fenomeni naturali e l’esistenza dei limiti necessari di tale spiegazione, non ha certamente nessun bisogno di essere faa notare. 4. Un’ipotesi è una qualsiasi supposizione e facciamo (quando siamo sforniti di prove effeive, o quando siamo in possesso di prove diiaratamente insufficienti) allo scopo di tentar di dedurre da essa conclusioni e concordino con fai la cui realtà ci è nota: e questo in base al presupposto e, se le conclusioni cui l’ipotesi conduce sono verità note, l’ipotesi stessa dev’essere vera, o per lo meno probabile. Se si riferisce alla causa di un fenomeno o al modo in cui questo si produce, l’ipotesi servirà, se la si ammee, a spiegare quei fai e si sono trovati susceibili di essere dedoi da essa. E questa spiegazione è lo scopo di molte ipotesi, se non quasi di tue. Poié, nel senso scientifico dei termine, «spiegare» significa risolvere un’uniformità e non è una legge di causazione nelle leggi di causazione da cui risulta, o una legge complessa di causazione in leggi più semplici e più generali dalle quali può essere inferita deduivamente, quando non esistano leggi note e soddisfino quest’esigenza possiamo inventarcene o immaginarcene una e la soddisfi; e «fare un’ipotesi» vuol dire proprio questo. Poié un’ipotesi è una pura e semplice supposizione, i soli limiti imposti all’ipotesi sono i limiti dell’immaginazione umana; se proprio ci fa piacere, quando tentiamo di rendere conto di un effeo possiamo immaginare quale causa di una specie assolutamente ignota, e agisca in conformità con una legge completamente fiizia. Ma siccome ipotesi di questo genere non avrebbero per nulla la plausibilità propria di quelle ipotesi e si alleano, per analogia, con le leggi naturali note e inoltre non soddisferebbero il bisogno per soddisfare il quale generalmente s’inventano ipotesi arbitrarie,

meendo l’immaginazione in grado di rappresentarsi soo una luce familiare un fenomeno oscuro — è probabile e nella storia della scienza non esista ipotesi in cui l’agente stesso, e la legge del suo operare, siano entrambi fiizi. O il fenomeno individuato come la causa è reale, mentre è puramente ipotetica la legge secondo la quale agisce, oppure la causa è fiizia ma si suppone e produca i propri effei secondo leggi simili a quelle di quale classe nota di fenomeni. Un esempio della prima specie ci è fornito dalle differenti supposizioni sulla legge della forza planetaria centrale e furono fae prima della scoperta della legge vera, secondo la quale la forza varia in ragione inversa al quadrato della distanza — legge, questa, e a tua prima si presentò a Newton come un’ipotesi, e venne verificata provando e se ne potevano ricavare deduivamente le leggi di Keplero. Ipotesi della seconda specie sono quelle ipotesi come i vortici di Descartes, e erano fiizi, ma e si supponeva e obbedissero alle leggi note del moto rotatorio; oppure le due ipotesi rivali a proposito della natura della luce, delle quali l’una aribuisce il fenomeno a un fluido emesso da tui i corpi luminosi, mentre l’altra (oggi generalmente acceata) l’aribuisce ai moti vibratori e hanno luogo tra le particelle di un etere e pervade tuo lo spazio. Non c’è nessuna testimonianza dell’esistenza dell’uno o dell’altro fluido, se si ecceua la spiegazione di alcuni fenomeni, spiegazione in vista della quale questi due fluidi sono stati escogitati: ma si suppone e i fluidi producano i loro effei in conformità con leggi note: nel primo caso, le leggi del moto continuo, nel secondo, quelle della propagazione di movimenti ondulatori tra le particelle di un fluido elastico. Secondo le osservazioni e precedono, le ipotesi vengono inventate allo scopo di fare in modo e il metodo deduivo possa essere applicato più presto ai fenomeni. Mac peré si possa scoprire la causa di un qualsiasi fenomeno per mezzo del metodo deduivo, il processo deve consistere di tre parti: induzione, ragionamento deduivo e verifica. Induzione (il cui posto, comunque, può essere occupato da una deduzione precedente) per accertare le leggi delle cause; ragionamento deduivo, per calcolare, a partire da quelle leggi, in qual modo le cause opereranno nella particolare combinazione e sappiamo esistere nel caso e abbiamo per le mani; verifica, e consiste nel confrontare con i fenomeni realmente accaduti l’effeo e abbiamo calcolato. Di nessuna di queste tre parti del processo si può fare a meno. Tue e tre si possono trovare nella deduzione e prova l’identità della gravità e della forza centrale del sistema solare. In primo

luogo, partendo dai moti della Luna si prova e la Terra l’arae secondo una forza e varia in proporzione inversa al quadrato della distanza. esto passo (e tuavia dipende parzialmente da deduzioni precedenti) corrisponde al primo passo, puramente induivo, dell’accertamento delle leggi della causa. In secondo luogo, da questa legge e dalla conoscenza (già in nostro possesso) della distanza media della Luna dalla Terra e dal valore numerico effeivo della sua deviazione dalla tangente, si accerta con quale velocità la Terra farebbe cadere la Luna se questa non fosse più lontana dei corpi terrestri, e su essa non agissero più le stesse forze estranee e agiscono su questi ultimi: questo è il secondo passo, quello del ragionamento deduivo. Infine, confrontata la velocità calcolata con la velocità osservata con cui tui i gravi cadono verso la superficie della Terra in forza della gravità pura e semplice (sedici piedi nel primo secondo, quarantoo nel terzo, e così via, secondo la ragione con cui si succedono i numeri dispari, 1, 3, 5, ecc.) si trova e le due quantità concordano. L’ordine in cui i passi sono stati presentati qui non è l’ordine con cui sono stati scoperti, bensì il loro ordine logico correo, in quanto passi della prova e la medesima arazione terrestre e causa il moto della Luna causa ane la caduta dei gravi sulla Terra. In tal modo la prova è completa in tue le sue parti. Ora, il metodo ipotetico sopprime il primo dei tre passi — l’induzione e ha il compito di accertare la legge — e si accontenta delle altre due operazioni: ragionamento deduivo e verifica. La legge a partire dalla quale si ragiona non si prova: si assume. Evidentemente, questo processo può essere legiimo soltanto se si fonda sul presupposto e la natura del caso sia tale e il passo conclusivo — la verificazione — equivalga a un’induzione completa e ne soddisfi le condizioni. Vogliamo avere la sicurezza e la legge e abbiamo assunto ipoteticamente sia una legge vera: e il fao e conduca deduivamente a risultati veri ci fornirà questa sicurezza, puré nessun’altra legge — ecceuata proprio quella e abbiamo assunto — possa condurre deduivamente alle medesime conclusioni a cui quella ci conduce. E questa condizione è realizzata spesso. Per esempio, nel campione completo di deduzione e abbiamo appena citato, la premessa maggiore originaria del ragionamento deduivo — la legge della forza d’arazione — è stata accertata in questo modo, cioè per mezzo di quest’impiego legiimo del metodo ipotetico. Newton incominciò con l’assumere e la forza e ad ogni istante fa deviare un pianeta dalla sua traieoria reilinea e gli fa

descrivere una curva intorno al Sole, è una forza e tende direamente al Sole. indi provò e se le cose stanno così il pianeta descriverà aree eguali in tempi eguali (e dalla prima legge di Keplero sappiamo e le descrive); infine provò e se la forza agisse in una qualsiasi altra direzione il pianeta non descriverebbe aree eguali in tempi eguali. Essendosi dunque mostrato e nessun’altra ipotesi avrebbe concordato con i fai, l’assunzione risultò provata, e l’ipotesi diventò una verità induiva. Facendo uso di questo procedimento ipotetico, Newton non si limitò ad accertare la direzione della forza deviante: procedee, esaamente nella medesima maniera, ad accertare la legge secondo cui varia la quantità di quella forza. Assunse e la forza vari in ragione inversa al quadrato della distanza; mostrò e da quest’assunzione si potevano dedurre le altre due leggi di Keplero, e, infine, e qualsiasi altra legge di variazione avrebbe dato risultati incompatibili con quelle leggi e perciò incompatibili con i moti reali dei pianeti, moti reali di cui si sapeva e le leggi di Keplero costituiscono l’espressione correa. Ho deo e in questo caso la verifica soddisfa le condizioni di un’induzione: ma di quale specie d’induzione? Se esaminiamo la cosa, troviamo e tale induzione si conforma al canone del metodo della differenza. Essa fornisce i due casi, A B C, a bc, e B C, b c. A rappresenta la forza centrale; A B C rappresentano i pianeti più una forza centrale; B C i pianeti, esclusa la forza centrale. I pianeti con una forza centrale dànno luogo ad a, vale a dire ad aree proporzionali ai tempi; i pianeti privi di una forza centrale dànno luogo a b c (cioè a un insieme di movimenti) senza a, o con qualcos’altro al posto di a. esto è il metodo della differenza in tuo il suo rigore. È vero e in quest’occasione i due casi riiesti dal metodo non sono stati oenuti da un esperimento, ma da una deduzione precedente: questo, tuavia, non ha importanza. Non ha importanza di quale natura siano le prove dalle quali deriviamo la sicurezza e A B C produrrà a b c, mentre B C produrrà soltanto b c: questa sicurezza ci basta averla. Nel nostro caso, fu un processo di ragionamento a fornire a Newton quegli stessi esempi e, se la natura del caso l’avesse consentito, avrebbe cercato per mezzo dell’esperimento. È dunque perfeamente possibile (e in realtà accade molto spesso) e quella e all’inizio dell’indagine era un’ipotesi, diventi una legge provata della natura prima e l’indagine sia finita. Ma peré questo accada dobbiamo essere in grado di oenere, con la deduzione o con l’esperimento,

i casi riiesti dal metodo della differenza. Il fao e partendo dall’ipotesi siamo in grado di dedurre i fai noti, ci dà soltanto i casi affermativi, A B C, a b c. È egualmente necessario e si sia in grado di oenere, come fece Newton, il caso negativo, B C, b c, mostrando e ecceuato quello e è stato assunto con l’ipotesi, nessun antecedente in congiunzione con B C produrrebbe a. Ora, per me è iaro e questa sicurezza non si può oenere quando la causa e si assume nell’ipotesi sia una causa sconosciuta, escogitata soltanto per rendere conto di a. ando stiamo solamente cercando di determinare la legge precisa di una causa già accertata, o di distinguere quell’agente particolare, e è in realtà la causa, tra pareci agenti della medesima specie dei quali sappiamo già e l’uno o l’altro è la causa, allora possiamo oenere il caso negativo. Una ricerca volta a determinare quale dei corpi del sistema solare causi, con la sua arazione, una certa irregolarità particolare nell’orbita o nel periodo di un certo satellite o di una certa cometa, sarebbe un esempio del secondo genere. ello di Newton era un caso del primo. Se non si fosse già saputo e quale forza e tende verso l’interno delle loro orbite impedisce ai pianeti di muoversi in linea rea (ane se sulla direzione di questa forza non si sapeva niente di preciso); o se non si fosse saputo e man mano e la distanza diminuisce la forza aumenta secondo una proporzione o l’altra, e diminuisce man mano e la distanza aumenta, il ragionamento di Newton non sarebbe riuscito a provare la propria conclusione. Comunque, siccome questi fai erano già certi, il campo delle supposizioni ammissibili era limitato alle varie direzioni possibili di una linea, e alle varie relazioni numerie e possono intercorrere tra le variazioni della distanza e le variazioni della forza d’arazione: ora, tra queste, non fu difficile mostrare e supposizioni differenti non potevano condurre a conseguenze identie. Di conseguenza, Newton non avrebbe potuto compiere la sua seconda grande operazione scientifica: l’identificazione della gravità terrestre con la forza centrale del sistema solare, per mezzo del medesimo metodo ipotetico. Una volta e le leggi dell’arazione della Luna erano state provate in base ai dati relativi alla Luna medesima, allora, avendo trovato e la medesima legge concorda con i fenomeni propri della gravità terrestre, era autorizzato ad adoarla come legge ane di quei fenomeni. Ma se non fosse stato in possesso di dati riguardanti la Luna, non gli sarebbe stato lecito assumere, entrambi

soltanto peré questo rapporto l’avrebbe messo in grado di rendere ragione della gravità terrestre, e la Luna sia araa verso la Terra con una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Infai, gli sarebbe stato impossibile provare e la legge osservata — cioè la legge della caduta dei gravi sulla Terra — non poteva risultare da nessun’altra forza, se non da una forza e si estende fino alla Luna, e e è inversamente proporzionale al quadrato della distanza. È dunque evidente e una delle condizioni alle quali deve soddisfare un’ipotesi genuinamente scientifica è e l’ipotesi non sia destinata a rimanere sempre un’ipotesi, ma sia di natura tale da essere provata o smentita dal confronto con i fai osservati. esta condizione è soddisfaa quando si sappia già e l’effeo dipende dalla stessa causa e si è supposta; e l’ipotesi si riferisce soltanto al modo preciso della dipendenza: alla legge della variazione dell’effeo secondo le variazioni della quantità e delle relazioni della causa. Fra tali ipotesi possiamo classificare quelle e non fanno alcuna supposizione relativa alla causazione, ma ne fanno soltanto di relative alla legge della corrispondenza tra i fai le cui variazioni si accompagnano l’una con l’altra, ane se può darsi e fra tali fai non sussista nessuna relazione di causa e di effeo. Tali erano le differenti ipotesi false e Keplero avanzò a proposito della legge della rifrazione della luce. Si sapeva e la direzione della linea di rifrazione varia con il variare della direzione della linea d’incidenza, ma non si sapeva in qual modo variasse, cioè quali cambiamenti dell’una corrispondessero ai differenti cambiamenti dell’altra. In questo caso qualsiasi legge diversa da quella vera doveva necessariamente condurre a risultati falsi. E infine, dobbiamo aggiungere, a questi modi, tui i modi ipotetici di rappresentare puramente e semplicemente, ossia di descrivere, i fenomeni. Tali sono, per esempio, l’ipotesi degli astronomi antii e i corpi celesti si muovono secondo circoli; le varie ipotesi delle eccentrie, dei deferenti e degli epicicli e furono aggiunte all’ipotesi originaria; le diciannove ipotesi false sulla forma delle orbite planetarie, e Keplero formulò per poi abbandonarle e persino la dorina, di cui finalmente fu soddisfao, secondo la quale le orbite sono ellissi; dorina e, fin quando non fu verificata dai fai, non era se non un’ipotesi come tue le altre. In tui questi casi, verificare equivale a provare: se la supposizione concorda con i fenomeni, allora non c’è bisogno di altre prove. Ma peré questo possa accadere, ritengo e sia necessario, quando l’ipotesi riguarda

la causazione, e la causa presunta non sia soltanto un fenomeno reale — qualcosa e esiste effeivamente in natura — ma e si sappia già e esercita sull’effeo un’influenza di quale genere (o per lo meno e è capace di esercitarla). In nessun altro caso il fao e siamo in grado di dedurre i fenomeni reali dall’ipotesi costituisce una prova della verità dell’ipotesi medesima. Ma allora in un’ipotesi scientifica non è forse mai lecito assumere una causa? È lecito soltanto aribuire una legge ipotizzata a una causa nota? Non voglio dire una cosa del genere. Mi limito ad asserire e soltanto nell’ultimo caso l’ipotesi può essere acceata come vera semplicemente in base al fao e spiega i fenomeni. Nel primo caso può essere molto utile solamente in quanto suggerisce una linea d’indagine e magari può terminare con l’acquisizione della prova vera e propria. Per questo proposito è però indispensabile, come ha giustamente osservato il signor Comte, e la causa suggerita dall’ipotesi sia per sua stessa natura susceibile di essere provata in base ad altre prove. esto sembra il significato filosofico della massima di Newton (citata tanto spesso, con tono di approvazione, dagli autori successivi) e la causa e si aribuisce a un qualsiasi fenomeno, non soltanto dev’essere tale e, se la si ammeesse, spiegherebbe il fenomeno, ma deve ane essere una vera causa. In realtà, Newton non diede una definizione molto esplicita di e cosa intendesse con vera causa, e il door Whewell, e non è d’accordo e sia appropriato imporre tali restrizioni alla facoltà di formulare quante e quali ipotesi si voglia, non ha fao molta fatica a mostrared e la concezione newtoniana di vera causa non è né precisa né autocompatibile: di conseguenza, la teoria newtoniana dell’oica costituisce una violazione lampante della regola formulata dallo stesso Newton. Indubbiamente, non è necessario e la causa e si aribuisce a un fenomeno sia una causa già nota: altrimenti dovremmo rinunciare alle nostre migliori opportunità di acquisire una conoscenza direa di cause nuove. Ma nella massima c’è questo di vero: e, pur non essendo nota in precedenza, la causa dovrebbe poter essere conosciuta in séguito; e la sua esistenza dovrebbe poter essere colta, e la sua connessione con l’effeo e le viene aribuito dovrebbe poter essere provata, per mezzo di prove indipendenti. Suggerendoci osservazioni ed esperimenti, l’ipotesi ci mee sulla strada e conduce a quelle prove indipendenti, se queste possono essere oenute davvero; e fintanto e non le abbiamo oenute, l’ipotesi dovrebbe contare soltanto come una congeura, più o meno plausibile.

5. Comunque, questa funzione delle ipotesi dev’essere considerata assolutamente indispensabile nella scienza. ando Newton scrisse hypotheses non fingo non voleva dire e intendeva privarsi di quelle facilitazioni per la ricerca offertegli dall’assunzione, in prima istanza, di quello e sperava di essere in grado di provare alla fine. Senza tali assunzioni la scienza non avrebbe mai raggiunto il suo stato auale: sono passi necessari del cammino e ci conduce a qualcosa di più certo; e quasi tuo quello e oggi è teoria, una volta era ipotesi. Ane nelle scienze puramente sperimentali, peré si possa tentare un esperimento piuosto e un altro, è necessario un quale incoraggiamento; e sebbene in astrao sia possibile e tui gli esperimenti e sono stati tentati siano stati motivati dal puro e semplice desiderio di accertare e cosa sarebbe accaduto in certe circostanze, senza e si facessero congeure preliminari circa il risultato di questi esperimenti, tuavia, di fao, quei processi sperimentali tu’altro e ovvi, delicati e spesso complicati e tediosi, e hanno geato tanta luce sulla costituzione generale della natura, non sarebbero stati affao intrapresi dalle persone e li intrapresero o nel periodo in cui furono intrapresi, se non fosse sembrato e da essi dipendevano l’acceazione o il rifiuto di quale dorina generale e era stata proposta, ma non era ancora stata provata. Se la cosa è vera persino della ricerca puramente sperimentale, è altreanto vero e, se le ipotesi non avessero temporaneamente prestato il loro aiuto tu’altro e indifferente, ancor meno si sarebbero potute trasformare le verità sperimentali in verità induive. Il processo del rintracciare la regolarità in ogni insieme di apparenze complicato e a prima vista confuso, ha, necessariamente, caraere di tentativo: cominciamo con il fare una supposizione qualsiasi, ane falsa, per vedere quali conseguenze ne seguiranno, e impariamo quali siano le correzioni da arrecarsi alla nostra assunzione osservando in qual modo queste conseguenze differiscano dai fenomeni reali. La supposizione più semplice, e concorda con i fai più ovvi, è la migliore per cominciare, peré è più facile rintracciarne le conseguenze. In séguito, questa rozza ipotesi viene correa rozzamente e si ripete l’operazione: il confronto tra le conseguenze deducibili dall’ipotesi così correa e i fai osservati suggerisce di apportare ulteriori correzioni, finé non si sia fao in modo e i risultati delle deduzioni combacino con i fenomeni. «Finora alcuni fai sono poco compresi, o una certa legge è sconosciuta: su questi fai e su questa legge formuliamo un’ipotesi e concordi il più possibile con l’insieme totale dei

dati di cui già disponiamo; la scienza, messa così in grado di progredire liberamente, finisce sempre con il condurre a nuove conseguenze osservabili, e confermano o confutano inequivocabilmente la prima supposizione». Né l’induzione né la deduzione ci meerebbero in grado di capire ane il fenomeno più semplice «se spesso non cominciassimo con l’anticipare i risultati, facendo una supposizione provvisoria, e all’inizio ha essenzialmente il caraere di congeura, a proposito di alcune delle stesse nozioni e costituiscono l’oggeo finale della ricerca»e. Chiunque osservi la maniera in cui egli stesso sbroglia una matassa complicata di prove; iunque osservi in qual modo, per esempio, egli stesso trae la vera storia di un avvenimento fuori dalle asserzioni complicate di molti testimoni, troverà e per farlo non si mee in mente i capi di prova tui in una volta sola, per poi tentare di intesserli insieme; in realtà, traendola da poi particolari, sizza una prima, rozza teoria estemporanea del modo in cui hanno avuto luogo i fai e poi osserva le altre asserzioni una per una, al fine di provare se tali asserzioni possano essere riconciliate con quella teoria provvisoria, o di trovare quali alterazioni o quali aggiunte si debbano fare alla teoria per poterla far quadrare con quelle asserzioni. In questo modo, e è stato giustamente paragonato al metodo d’approssimazione proprio della matematica, arriviamo, per mezzo di ipotesi, a conclusioni e non sono ipotetief. 6. È perfeamente compatibile con lo spirito del metodo l’assumere, in questo modo provvisorio, non soltanto un’ipotesi e riguardi la legge di quella e sappiamo già essere la causa, ma ane un’ipotesi e riguardi la causa medesima. È legiimo, utile, e spesso addiriura necessario, cominciare con il iederci quale causa possa aver prodoo l’effeo, allo scopo di riuscire a sapere in quale direzione dobbiamo cercare prove e stabiliscano se davvero la causa abbia prodoo quell’effeo. I vortici di Descartes sarebbero stata un’ipotesi perfeamente legiima, se fosse stato possibile sooporre la realtà dei vortici, in quanto fai di natura, al controllo definitivo dell’osservazione, e se avessimo potuto sperar di possedere un metodo d’indagine per fare una cosa del genere. Il difeo dell’ipotesi consisteva in questo: e non poteva condurre a nessun ordine d’indagini capaci di convertirla, da un’ipotesi e era, in un fao provato. Le sarebbe potuto capitare di essere smentita o dalla mancanza di corrispondenza con i fenomeni e pretendeva di spiegare, o (come accadde nella realtà) da

quale fao estraneo. «Il fao e araverso gli spazi in cui si sarebbero dovuti trovare tali vortici passassero liberamente le comete, convinse gli uomini e i vortici non esistevano»g. Ma l’ipotesi sarebbe stata falsa ane se non fosse stato possibile procurarsi una prova così direa dalla sua falsità. Prove diree della sua verità non potevano essercene. L’ipotesi oggi predominante, dell’esistenza di un etere e costituisce il mezzo di trasmissione della luce — ipotesi e per altri aspei non manca di presentare analogie con quella di Descartes — non è, per sua natura, tagliata interamente fuori dalla possibilità e si trovino prove diree in suo favore. È ben noto e la differenza tra i tempi calcolati e quelli osservati del ritorno periodico della cometa di Enoke ha condoo alla congeura secondo cui nello spazio è diffuso un mezzo capace di opporre resistenza al moto. Se nel corso delle età questa congeura dovesse essere confermata dall’accumulazione graduale di una discrepanza simile nel caso degli altri corpi del sistema solare, l’etere come mezzo di trasmissione della luce avrebbe compiuto un notevole passo avanti verso l’acquisizione del caraere di vera causa, peré si sarebbe accertata l’esistenza di un grande agente cosmico e possiede alcuni degli aributi e l’ipotesi assume. Rimarrebbero però molte difficoltà: e anzi, secondo me l’identificazione dell’etere con il mezzo e offre resistenza darebbe addiriura origine a nuove difficoltà. Comunque, allo stato auale delle cose, questa supposizione non può essere considerata nulla più e una congeura: l’esistenza dell’etere riposa ancora sulla possibilità di dedurre, dalle leggi e presumibilmente lo regolano, un numero considerevole di fenomeni effeivi. Non posso però ritenere e queste prove sarebbero conclusive, peré, nel caso dell’ipotesi in parola, non abbiamo la sicurezza e se l’ipotesi fosse falsa dovrebbe necessariamente condurre a risultati e non concordano con i fai veri. Di conseguenza, per poco cauti e siano, la maggior parte dei pensatori ammeono e un’ipotesi di questo genere non dev’essere acceata come probabilmente vera soltanto peré rende ragione di tui i fenomeni noti: si traa infai di una condizione e quale volta è soddisfaa abbastanza bene da due ipotesi tra loro in conflio, mentre probabilmente ce ne sono molte altre egualmente possibili e tuavia le nostre menti non sono in grado di concepire peré l’esperienza non ci offre nulla di analogo. Sembra però e si pensi e un’ipotesi del genere di quella di cui stiamo parlando abbia dirio a ricevere un’accoglienza più favorevole se, oltre a rendere

conto di tui i fai noti in precedenza, ha condoo all’anticipazione e alla predizione di altri fai e in séguito sono stati verificati dall’esperienza: così, la teoria ondulatoria della luce ha condoo alla predizione, in séguito realizzata sperimentalmente, e due raggi luminosi possono incontrarsi in modo tale da produrre oscurità. Tali predizioni, e il loro adempimento, sono in realtà ben calcolate per impressionare le persone poco informate, la cui fede nella scienza riposa soltanto su simili coincidenze tra le profezie e la scienza fa e quello e accade. È strano però e gente e ha oenuto notevoli successi scientifici debba meere un accento tanto forte sopra coincidenze di questo genere. Se le leggi della propagazione della luce si accordano con le leggi delle vibrazioni di un fluido elastico per tanti aspei quanti ne sono necessari a far sì e l’ipotesi sia in grado di esprimere correamente tui, o la maggior parte dei fenomeni noti fino a un certo periodo, non c’è nulla di strano e debbano concordare l’una con l’altra per un aspeo in più. Di coincidenze del genere potrebbero accaderne venti, senza tuavia e questo provi la realtà dell’etere ondulatorio: da esse non risulterebbe e i fenomeni luminosi sono i risultati delle leggi dei fluidi elastici, ma al massimo e tali fenomeni sono governati da leggi parzialmente identie a queste; e questo, possiamo osservare, è già reso certo dal fao e l’ipotesi in questione è potuta risultare, almeno per il momento, sostenibileh. Nonostante e la nostra familiarità con la natura sia imperfea, possiamo citare casi in cui certi agenti, e abbiamo buone ragioni per considerare radicalmente distinti, producono i loro effei, o alcuni dei loro effei, secondo leggi e sono identie. Per esempio, la legge dell’inverso dei quadrati delle distanze non misura soltanto la gravitazione, ma (a quanto si crede) ane la propagazione dell’illuminazione e del calore da un punto centrale. Tuavia nessuno considera quest’identità come una prova del fao e i meccanismi secondo i quali si producono queste tre specie di fenomeni sono tra loro simili. Secondo il door Whewell, la coincidenza tra i risultati predei a partire da un’ipotesi, e i fai osservati in séguito, equivale a una prova definitiva della verità della teoria. «Poniamo e io copi una lunga serie di leere, l’ultima mezza dozzina delle quali sono nascoste; le ultime sei le indovino correamente (e io abbia indovinato giusto posso vederlo quando, in séguito, scopro le leere): se non fossi riuscito a capire il significato dell’intiera iscrizione non avrei potuto indovinare quelle ultime sei leere. Il dire e, per il fao di aver copiato tue le leere e potevo vedere, non c’è

nulla di strano e io abbia indovinato quelle e non potevo vedere, sarebbe assurdo, se non si supponesse e la ragione per cui le ho indovinate è appunto il fao e ho capito il significato dell’intiera iscrizione»i Se un tizio, esaminando la maggior parte di una lunga iscrizione, riesce a interpretare i caraeri in modo e l’iscrizione dia un senso razionale in una lingua nota, c’è una forte presunzione in favore dell’ipotesi e l’interpretazione di quel tizio sia correa; non credo però e questa presunzione sia molto rafforzata dal fao e quel tizio è stato capace di indovinare, senza vederle, le poe leere e rimanevano. Dovremmo infai naturalmente aspearci (quando la natura dell’esempio sia tale da escludere la possibilità e le leere siano state scrie a casaccio) e ane un’interpretazione erronea, e meesse d’accordo tue le parti visibili dell’iscrizione, concordi ane con il poco e rimane: una cosa del genere accadrebbe, per esempio, se l’iscrizione fosse stata escogitata espressamente in modo da ammeere un doppio senso. Assumo e l’accordo tra i caraeri scoperti sia troppo grande peré si trai di una pura e semplice coincidenza casuale; in caso contrario quest’illustrazione sarebbe sleale. Nessuno suppone e la concordanza dei fenomeni luminosi con la teoria ondulatoria sia puramente fortuita: tale concordanza deve per forza avere la sua origine nell’identità effeiva tra alcune leggi dei fenomeni ondulatori e alcune leggi della luce; e se quest’identità ci fosse, sarebbe ragionevole supporre e le sue conseguenze non s’arrestino ai fenomeni e per primi hanno suggerito quest’identificazione, e non siano neppure confinate a quei fenomeni e erano conosciuti a quel tempo. Ma dal fao e alcune leggi concordano con le leggi dei fenomeni ondulatori non segue e esistano effeivamente fenomeni ondulatori: non più di quanto, dal fao e alcune (non, però, proprio tante) delle stesse leggi concordano con quelle dell’emissione di particelle, segua e c’è stata effeivamente un’emissione di particelle. Neane l’ipotesi ondulatoria rende ragione di tui i fenomeni della luce. I colori naturali degli oggei, la natura composita dei raggi solari, l’assorbimento della luce e la sua azione vitale e imica, sono tue cose e quest’ipotesi lascia avvolte nello stesso mistero in cui le ha trovate; e, almeno apparentemente, alcuni di questi fai possono essere riconciliati con la teoria dell’emissione corpuscolare più facilmente di quanto non possano esserlo con la teoria di Young4 e di Fresnel5. Chissà e con il tempo una terza ipotesi, e includa tui questi fenomeni, non possa lasciarsi indietro la teoria di Newton e dei suoi successori.

All’affermazione e la condizione di rendere conto di tui i fenomeni noti spesso risulta soddisfaa altreanto bene da due ipotesi in conflio tra di loro, il door Whewell risponde dicendo di non conoscere, «in tua la storia della scienza, e un caso del genere si dia là dove i fenomeni sono appena appena numarosi e complicati»l. Un’affermazione del genere, faa da un autore e, come il door Whewell, ha una conoscenza così direa e così minuziosa della storia della scienza, sarebbe estremamente autorevole, se poe pagine prima lo stesso door Whewell non si fosse preso la briga di confutarlam sostenendo e ane le ipotesi scientifie e sono andate all’aria si sarebbero sempre (o quasi sempre) potute modificare in modo da farne rappresentazioni corree dei fenomeni. Con modificazioni successive, ci dice il door Whewell, si fece in modo e l’ipotesi dei vortici coincidesse nei suoi risultati con la teoria di Newton e con i fai. In realtà, i vortici non spiegavano tui i fenomeni di cui si trovò e, in ultima analisi, la teoria newtoniana rendeva conto, quali la precessione degli equinozi; ma in quel tempo nessuna delle due parti prendeva in considerazione questo fenomeno come uno dei fai di cui si dovesse rendere conto. Tui i fai e si prendevano effeivamente in considerazione avrebbero potuto concordare — e possiamo crederlo sull’autorevole parola del door Whewell — con la versione definitivamente migliorata dell’ipotesi cartesiana, tanto accuratamente quanto concordavano con la teoria di Newton. Secondo me, però, il fao e non siamo capaci di immaginare nessun’altra ipotesi e renda conto dei fai, non costituisce una ragione valida per acceare qualsiasi ipotesi ci venga presentata. Non è affao necessario supporre e la spiegazione vera debba essere una spiegazione e potremmo immaginare soltanto alla luce della nostra esperienza auale. Tra gli agenti naturali di cui abbiamo conoscenza direa, le vibrazioni di un fluido elastico potrebbero essere i soli le cui leggi presentino una strea somiglianza con le leggi della luce; non possiamo però dire e non esiste una causa ignota, e non sia un etere elastico diffuso per lo spazio ma e tuavia produca effei per quale aspeo identici agli effei e risulterebbero dalle ondulazioni di un etere così fao. L’assumere e non possa esistere nessuna causa del genere mi sembra un caso estremo di assunzione priva di fondamento. E a costo di essere accusato di mancanza di modestia, non posso fare a meno di esprimere il mio stupore e un filosofo, e è dotato dell’abilità, e e ha oenuto i brillanti successi e ha oenuto il door Whewell, abbia scrio un elaborato traato di filosofia

dell’induzione nel quale non riconosce assolutamente nessun modo dell’induzione se non quello e consiste nel tentare ipotesi dopo ipotesi, fin quanto non se ne sia trovata una e s’aaglia ai fenomeni e e, una volta e sia stata trovata, si deve assumere per vera senza altre riserve se non questa: e se, riesaminandola, dovesse risultare e assuma di più di quanto sia indispensabile assumere per spiegare i fenomeni, si dovrà tagliar via la parte superflua dell’assunzione. E questo senza fare la minima distinzione tra i casi nei quali si può sapere in precedenza e due ipotesi differenti non possono condurre al medesimo risultato, e i casi nei quali, per quanto ne potremmo mai sapere, il campo delle supposizioni tue egualmente compatibili con i fenomeni può essere infiniton. Nonostante questo, non sono d’accordo con il signor Comte nel condannare quelli e si dànno da fare per elaborare nei suoi deagli l’applicazione di queste ipotesi alla spiegazione di fai accertati: puré costoro non dimentiino e il massimo e riusciranno a provare non è e l’ipotesi è vera, ma e può essere vera. L’ipotesi dell’etere può vantare pretese molto forti a e la si persegua in questo modo, e queste pretese si sono grandemente rafforzate da quando si è mostrato e l’ipotesi mee a nostra disposizione un meccanismo in base al quale è possibile spiegare, non soltanto il modo in cui si propaga la luce, ma ane il modo in cui si propaga il calore. In realtà, nel caso della sua applicazione al calore, l’elemento ipotetico di questa speculazione è minore e non nel caso per il quale fu formulata originariamente. I nostri sensi ci aestano l’esistenza di un movimento molecolare tra le particelle di tui i corpi riscaldati, mentre nel caso della luce non abbiamo nessun’esperienza simile a questa. Pertanto, quando il calore si comunica dal Sole alla Terra araverso uno spazio apparentemente vuoto, all’inizio e alla fine della catena causale stanno movimenti molecolari. L’ipotesi non fa altro e render continuo il movimento, estendendolo alla sua porzione intermedia. Ora, si sa e è possibile trasmeere il movimento da un corpo al corpo contiguo, e l’intervento di un ipotetico fluido elastico e occupa lo spazio tra il Sole e la Terra fornisce quella contiguità e è la sola condizione mancante, e e può essere fornita soltanto dalla supposizione e tra i due estremi sia interposto un mezzo. Ciò nonostante, nel migliore dei casi la supposizione è una congeura probabile, non una verità provata. Non ci sono prove, infai, e per comunicare il movimento da un corpo all’altro sia assolutamente indispensabile la contiguità. Non sempre nei casi in cui movimento produce

movimento c’è contiguità, almeno per i nostri sensi. Le forze e vanno soo il nome di arazione, e specialmente la più grande di tue, vale a dire la gravitazione, sono esempi di movimento e produce movimento senza e, apparentemente, ci sia contiguità. ando un pianeta si muove, i suoi satelliti, per quanto distanti, ne accompagnano il movimento. Il Sole si tra scina con sé, nel cammino e, a quanto si è accertato, percorre nello spazio, tuo quanto il sistema solare. E ane se dovessimo acceare come concludente il ragionamento geometrico (sorprendentemente simile a quello con il quale i Cartesiani difendevano i vortici) con cui si è tentato di mostrare e i movimenti dell’etere possono rendere conto della stessa gravitazione, ane allora non si sarebbe provato nient’altro se non e il presunto modo in cui questo fenomeno si produce può essere quello vero: non e è l’unico vero. 7. Prima di abbandonare l’argomento delle ipotesi è necessario porre in guardia contro la falsa impressione e qui si stia geando discredito sul valore scientifico di parecie brane della ricerca fisica, e al contrario io considero rigorosamente induive, bené si trovino soltanto nella loro fase infantile. C’è una grossa differenza tra l’inventare agenti e rendano conto di certe classi di fenomeni e lo sforzarsi, in conformità con le leggi note, di congeurare quali collocazioni precedenti di agenti noti possano aver dato origine a fai individuali e esistono tuora. est’ultima è l’operazione legiima, e consiste nell’inferire da un effeo osservato l’esistenza — nel passato — di una causa simile a quella da cui sappiamo e l’effeo è stato prodoo in tui quei casi in cui abbiamo avuto un’esperienza effeiva del suo originarsi. esto, per esempio, è lo scopo delle indagini geologie, e le indagini geologie non sono né più illogie né più cervellotie delle inieste giudiziarie, le quali pure tendono a scoprire un evento passato inferendolo da quelli, tra i suoi effei, e sussistono tuora. Come, dalle indicazioni offerteci dal cadavere, dalla presenza o dall’assenza di segni di loa sul terreno o sugli oggei adiacenti — le tracce di sangue, le orme lasciate dai piedi dei presunti assassini, e così via — possiamo accertare se un uomo è stato assassinato o è morto di morte naturale, procedendo sempre in base a uniformità accertate mediante un’induzione perfea e completamente scevra da ipotesi, così, se sopra o soo la superficie del nostro pianeta troviamo masse esaamente simili a quelle depositate dai sedimenti dell’acqua, o a quelle e risultano dal raffreddamento di materia fusa nel

fuoco, possiamo giustamente concludere e quella è stata la loro origine. E se gli effei, pur essendo di specie simile, avvengono su scala di gran lunga più vasta di tui quelli e avvengono al giorno d’oggi, allora possiamo ragionevolmente concludere, e senza fare uso di ipotesi, o e prima le cause esistevano con intensità maggiore di quelle odierne, o e hanno operato per un periodo di tempo enorme. Da quando è sorta l’auale, illuminata scuola di speculazione geologica, più in là di così nessun geologo autorevole ha tentato di spingersi. Senza dubbio, in molte ricere geologie accade e, pur essendo note le leggi alle quali si fanno risalire i fenomeni, e pur essendo noti gli agenti, non si sappia se questi ultimi siano stati presenti in quel caso particolare. Nella speculazione sull’origine ignea del granito non è possibile dare una prova direa del fao e queste sostanze sono state effeivamente sooposte ad un calore intenso. Ma lo stesso si potrebbe dire di tue le inieste giudiziarie e procedono sulla base di prove indiziarie. Possiamo concludere e un uomo è stato assassinato, ane se il fao e sul posto era presente quale persona e aveva intenzione di ucciderlo non è stato provato da testimoni oculari. Per quasi tui gli scopi è sufficiente e nessun’altra causa abbia potuto generare gli effei e, si è mostrato, sono stati poi prodoi. La celebre speculazione di Laplace sull’origine della Terra e dei pianeti partecipa essenzialmente del caraere induivo della moderna teoria geologica. Secondo questa speculazione, l’atmosfera del Sole si estendeva originariamente fino agli auali limiti del sistema solare. Raffreddandosi, si sarebbe contraa fino a raggiungere le dimensioni e possiede aualmente: e siccome, per i princìpi generali della meccanica, la rotazione del Sole e dell’atmosfera e l’accompagna deve diventare sempre più rapida man mano e il volume del Sole stesso diminuisce, l’accresciuta forza centrifuga generata dalla rotazione più rapida, soveriando l’azione della gravitazione, ha fao sì e il Sole abbandonasse successivamente anelli di materia allo stato di vapore: raffreddandosi, questi anelli si sarebbero condensati e si sarebbero trasformati nei pianeti. In questa teoria non trova posto nessuna sostanza sconosciuta, e sia stata introdoa per ipotesi, così come non si trova e a una sostanza nota si sia aribuita quale legge o quale proprietà ignota. Le leggi note della materia ci autorizzano a supporre e un corpo il quale, come il Sole, emea continuamente una quantità così grande di calore, debba raffreddarsi progressivamente e e, in séguito al processo di raffreddamento, debba contrarsi. Se perciò, dallo stato presente di questa

fonte luminosa, tentiamo di inferire il suo stato in un tempo da lungo trascorso, dobbiamo necessariamente supporre e la sua atmosfera si estendesse molto più in là di quelli e sono i suoi limiti auali; e siamo autorizzati a supporre e tale atmosfera si estendesse fin dove possiamo rintracciare quegli effei e avrebbe potuto naturalmente lasciarsi dietro ritirandosi. I pianeti sono appunto tali effei. Fae queste supposizioni, dalle leggi note segue e l’atmosfera solare avrebbe potuto abbandonare successivamente certe zone; e queste zone avrebbero continuato a rotare intorno al Sole con la medesima velocità con cui rotavano quando formavano una parte della sua sostanza, e e si sarebbero raffreddate’molto tempo prima di quanto non si sia raffreddato il Sole stesso, fino a raggiungere una data temperatura, e, di conseguenza, fino a raggiungere quella temperatura alla quale la maggior parte della materia allo stato di vapore, di cui consistevano, sarebbe diventata liquida o solida. La nota legge della gravitazione le avrebbe allora fae agglomerare in masse e avrebbero assunto la forma auale dei nostri pianeti; ciascuna di esse avrebbe assunto un movimento rotatorio intorno al proprio asse, ed in questo stato avrebbe rotato intorno al Sole, come fanno aualmente i pianeti, nella stessa direzione della rotazione del Sole, ma con velocità minore, dal momento e la rotazione sarebbe avvenuta nello stesso tempo periodico e il Sole, rotando, impiegava quando la sua atmosfera si estendeva fino a quel punto. Dunque, a rigor di termini, nella teoria di Laplace non c’è nulla d’ipotetico: essa è un esempio di ragionamento legiimo da un effeo presente a una possibile causa passata, secondo le leggi note di quella causa. Come ho deo, la teoria ha perciò un caraere simile a quello delle teorie dei geologi, ma è considerevolmente inferiore ad esse dal punto di vista delle prove e si possono portare in suo favore. Ane se fosse provato (e provato non è) e dovevano certamente presentarsi le condizioni necessarie a determinare il distaccarsi successivo di anelli dalla massa centrale, assumendo e le leggi auali della natura sono le stesse e esistevano all’origine del sistema solare si correrebbe un risio d’errore ancor più grande di quello e si corre quando ci si limita semplicemente a presumere (come fanno i geologi) e quelle leggi sono durate per poe rivoluzioni e per poe trasformazioni di uno solo dei corpi di cui è composto quel sistema.

a.

Come ha giustamente osservato il professor Bain nel pregevolissimo capitolo della sua Logic, e traa di questo argomento (II, 121), «dal momento e la spiegazione scientifica e la generalizzazione induiva sono la stessa cosa, i limiti della spiegazione sono i limiti dell’induzione», e «i limiti della generalizzazione induiva sono i limiti della concordanza e della comunanza dei fai. L’induzione presuppone la similarità tra i fenomeni, e tale similarità, quando viene scoperta, riduce i fenomeni a una formulazione comune. La similarità tra gravità terrestre e arazione celeste fa sì e le due forme di gravità possano essere espresse come un solo fenomeno. La similarità tra arazione capillare, soluzione, azione dei cementi, ecc., fa sì e tui questi fenomeni siano considerati, non come una pluralità, ma come una unità, come una singola connessione causale, come l’azione di un singolo agente… La risposta alla domanda se possiamo far rientrare la gravità stessa soo una legge di ordine più alto non può non dipendere dai fai… Ci sono altre forze, aualmente distinte dalla gravità, e possiamo sperare di far fraternizzare con essa, così da congiungerle tue in un’unità superiore? La gravità è una forza d’arazione, e un’altra grande forza d’arazione è la coesione, cioè la forza e lega insieme gli atomi di materia solida. Potremmo allora congiungere queste due forze in una unità ancora più alta, espressa da una legge più comprensiva? Certo e lo potremmo, ma la cosa non ci reerebbe alcun vantaggio. Le due specie di forze concordano in un solo punto, l’arazione, ma non concordano in nessun altro; in realtà, per quanto riguarda il modo dell’arazione, sono largamente differenti; così largamente differenti e dovremmo formulare, per ciascuna di esse, leggi totalmente distinte. La gravità è comune a tua la materia, e quantitativamente eguale in masse eguali di materia, di qualunque specie esse siano; segue la legge della diffusione nello spazio da un punto (secondo l’inverso del quadrato della distanza); si estende fino a distanze illimitate, è indistruibile ed invariabile. La coesione è una forza speciale per ciascuna sostanza separata; con la distanza decresce molto più rapidamente e secondo l’inverso del quadrato e già a distanze molto piccole si annulla del tuo. Due forze del genere non hanno parentele sufficienti per essere generalizzate in una sola forza; la generalizzazione è soltanto illusoria; asserire l’esistenza di una differenza equivarrebbe a farne ancora due forze. D’altra parte, la considerazione dell’una non semplifierebbe in nessun modo i fenomeni dell’altra, come è accaduto invece per la generalizzazione della gravità stessa». Ai limiti insuperabili imposti, nel testo, alla spiegazione delle leggi di natura, si deve perciò aggiungere un’ulteriore limitazione. Ane se quando i fenomeni da spiegare non sono per loro natura, genericamente distinti, il tentativo di farli risalire alla medesima causa è scientificamente legiimo, tuavia, per il successo del tentativo è indispensabile mostrare e la causa è in grado di produrli secondo la medesima legge. Altrimenti, l’unità della causa è un puro e semplice tentativo d’indovinare, e la generalizzazione è soltanto una generalizzazione nominale e, ane quando venisse ammessa, non ridurrebbe il numero delle leggi fondamentali della natura. b. Cours de Philosophie positive, II, p. 656. c. V. sopra, Libro III, cap. XI. d. Philosophy of Discovery, pp. 185 segg. e. COMTE, Philosophie positive, II, pp. 434-437. f. Come esempio di ipotesi legiima secondo il criterio qui enunciato, è stata giustamente citata l’ipotesi di Broussais1 e, procedendo in base al principio estremamente ragionevole secondo cui ogni malaia deve originarsi in quale parte ben definita dell’organismo, assunse arditamente e certe febbri e, non essendo note come febbri locali furono iamate costituzionali, abbiano la loro origine nella membrana mucosa del canale alimentare. In realtà, come ora si ammee generalmente, la supposizione era erronea, ma Broussais era giustificato a farla peré, deducendo le conseguenze della supposizione e paragonandole coi fai di quelle malaie, poteva essere sicuro di provare la falsità dell’ipotesi, nel caso e questa fosse priva di fondamento, e poteva aspearsi e il confronto l’avrebbe aiutato, in modo decisivo, a formulare un’altra ipotesi più conforme ai fenomeni. La dorina ora universalmente acceata, secondo cui la Terra è un magnete naturale, era originariamente un’ipotesi, dovuta al celebre Gilbert2.

Un’altra ipotesi, alla cui legiimità non può validamente opporsi nessun’obiezione, e e è molto ben calcolata alla luce del cammino della ricerca scientifica, è quella suggerita da pareci autori contemporanei, secondo cui il cervello è una pila voltaica e ciascuna delle sue pulsazioni costituisce una scarica di elericità araverso il sistema. È stato osservato e la sensazione e il baito del cervello fa percepire alla mano presenta una forte somiglianza con una scossa voltaica. E quest’ipotesi, se la si seguisse in tue le sue conseguenze, potrebbe fornire una spiegazione plausibile di molti fai fisiologici, mentre nulla scoraggia la speranza e col tempo sia possibile comprendere le condizioni dei fenomeni voltaici abbastanza da rendere riconducibile la verità dell’ipotesi all’osservazione e all’esperimento. Il tentativo di localizzare gli organi fisici delle nostre differenti facoltà e propensioni mentali in regioni differenti del cervello era, da parte di i la formulò per primo, un esempio legiimo di ipotesi scientifica, per cui non dovremmo biasimare quest’autore per le ragioni estremamente tenui in base alle quali spesso procedeva in un’operazione e non poteva non avere il caraere di tentativo, ane se possiamo rammaricarci e i materiali, appena appena sufficienti per una prima, rozza ipotesi, siano poi stati elaborati freolosamente fino a dargli la vana apparenza di scienza. Se ci fosse realmente una connessione fra la scala delle doti mentali e i vari gradi di complicazione e si trovano a livello del sistema cerebrale, l’unica probabilità di portare alla luce la natura di questa connessione consisteva nell’enunciare, in prima istanza, un’ipotesi simile a quella di Gall3. Ma, data la natura tua particolare del fenomeno, la verificazione di qualsiasi ipotesi del genere è accompagnata da difficoltà e i frenologi non si sono mostrati neppure capaci di apprezzare, non parliamo poi di risolvere. La notevole speculazione del signor Darwin sull’origine della specie è un altro esempio impeccabile di ipotesi legiima. Non solo quella e il signor Darwin iama «selezione naturale» è una vera causa, ma si può provare e è capace di produrre effei della medesima specie di quelli e l’ipotesi le aribuisce: la questione della possibilità è in tuo e per tuo una questione di grado. È irragionevole accusare (come si è fao) il signor Darwin di violare le regole dell’induzione. Le regole dell’induzione hanno da fare con le condizioni della prova. Il signor Darwin non ha mai preteso e la sua dorina fosse provata. Non era vincolato dalle regole dell’induzione, ma dalle regole dell’ipotesi. E raramente queste ultime sono state soddisfae in un modo più completo. Darwin ha aperto alla ricerca una strada piena di promesse, una strada i cui risultati nessuno può prevedere. E non è forse un meraviglioso successo della conoscenza e dell’ingegno scientifici l’aver reso ammissibile e disponibile alla discussione un suggerimento così ardito, e il primo impulso era di respingere immediatamente? g. WHEWELL, Philosophy of Discovery, pp. 275 e 276. h. ello e ha contribuito più d’ogni altra cosa ad accreditare l’ipotesi di un mezzo fisico per la trasmissione della luce è il fao, certo, e la luce viaggia (cosa, questa, e non si può provare della gravitazione); e la sua comunicazione non è istantanea, ma riiede tempo, e e la luce viene interceata da oggei interposti fra la fonte e l’oggeo illuminato (mentre la gravitazione non lo è). este sono analogie tra i fenomeni luminosi e i fenomeni del movimento meccanico di una sostanza solida o fluida. Ma non abbiamo il dirio di assumere e il movimento meccanico sia il solo potere in natura e sia capace di manifestare questi aributi. i. Philosophy of Discovery, p. 274. l. p. 271. m. p. 251, e tua l’Appendice G. n. Nell’ultima versione e ha dato della propria teoria (Philosophy of Discovery, p. 331) parlando del mezzo in cui si trasmee la luce, il door Whewell fa una concessione e, presa insieme con il resto della sua dorina non mi riesce, lo confesso, molto intelligibile, ma e — se pure di fao non elimina — tuavia compie un gran passo verso l’eliminazione di ogni differenza sussistente tra lui e me. Contro Sir William Hamilton, il door Whewell sostiene e tua la materia è dotata di peso. A prova del contrario, Sir William cita il mezzo di trasmissione della luce — l’etere — e i fluidi elerico e calorico «e, dice, non possiamo né spogliare del caraere di sostanza né rivestire dell’aributo del

peso». «Al e — continua il door Whewell — rispondo e li spoglio effettivamente del caraere di sostanza, proprio peré non posso rivestirli dell’aributo del peso. Non si traa di sostanze, ma di agenti. È improprio iamare “fluidi imponderabili” questi agenti imponderabili. esto è quanto io credo di aver provato». Nulla può essere più conforme ai princìpi di una sana filosofia. Ma se il mezzo di trasmissione della luce — l’etere — non è materia, e non è neppure materia fluida, qual è allora il significato dei suoi moti ondulatori? Può un agente aver moti ondulatori? Possono esistere moti alternati, in avanti e all’indietro, delle particelle di un agente? E l’intiera teoria matematica dei moti ondulatori non implica forse e tali moti sono materiali? Non si traa forse di una serie di deduzioni trae dalle proprietà note dei fluidi elastici? Quest’opinione del door Whewell riduce i moti ondulatori a un modo di dire, e la teoria ondulatoria alla proposizione — e tui sono costrei ad ammeere — e la trasmissione della luce avviene secondo leggi e presentano un’analogia estremamente sorprendente e notevole con le leggi dei moti ondulatori. Se il door Whewell è pronto a sierarsi dalla parte di questa dorina, allora tra di noi non c’è nessuna differenza su quest’argomento. 1. François Joseph Victor Broussais (1772-1838), medico francese, fautore dell’uso delle sanguisughe in medicina. Sostenne la teoria secondo cui tue le malaie sono locali e si trasmeono agli organi o per simpatia o araverso il trao gastrointestinale. La natura non ha nessun potere riparatore, e il digiuno e l’applicazione delle sanguisughe curano tue le malaie. Tra le sue opere ricordiamo: L’Histoire des phlegmasie ou inflammations chroniques [Storia delle flegmasie, o infiammazioni croniche] (1808). 2. William Gilbert (1544-1603), uno dei maggiori scienziati inglesi durante il regno di Elisabea I. Studiò a Cambridge, e nel 1569 fu eleo fellow del St. John’s College in quell’Università. Viaggiò in Europa e al suo ritorno a Londra fu ammesso al Collegio dei Medici, dove ricoperse importanti incarii. Nel 1589 fu incaricato della supervisione della Pharmacopeia Londinensis, e nel 1601 venne nominato medico personale della Regina Elisabea. La sua opera principale è un traato sul magnetismo, intitolato De magnete, magneticisque corporibus et de magno manete Tellure [Sul magnete, i corpi magnetici e il grande magnete Terra], e pubblicato nel 1600. Fondandosi su un metodo streamente sperimentale, Gilbert vi sostiene e la Terra non è altro e un grande magnete, cosa questa e spiega sia la direzione sia l’inclinazione dell’ago magnetico della bussola. Fu uno dei sostenitori delle teorie di Copernico, e asserì e le stelle fisse si trovano a distanze differenti dalla Terra. Le sue teorie a questo proposito sono espresse in un’opera, De mundo nostro sublunari philosophia nova [La nuova filosofia del nostro mondo sublunare], e fu pubblicata postuma nel 1651. 3. Franz Joseph Gall (1758-1828), fisiologo e anatomo tedesco, fondatore della frenologia. Sostenne la tesi e i talenti e le disposizioni degli uomini hanno una localizzazione precisa nelle aree del cervello e il cui sviluppo determina la forma e la struura ossea del cranio — tesi e ebbe una certa fortuna nell’ ’800 e fu acceata tra l’altro ane da Hegel. Fu professore a Vienna, ma nel 1802 le sue lezioni furono vietate dal governo austriaco peré ritenute pericolose per la religione. Gall si recò allora a Parigi (1805) dove trascorse il resto della sua vita. 4. omas Young (1773-1829), fisico e medico inglese. Dal 1801 al 1803 professore di fisica alla Royal Institution, e dal 1802 al 1809 segretario della Royal Society. I maggiori contributi dati alla fisica riguardano le ricere sulla teoria ondulatoria della luce, e in particolare la scoperta del cosiddeo «modulo di Young». Come fisiologo, descrisse per primo l’accomodazione dell’ocio e l’astigmatismo, e avanzò l’ipotesi, e in séguito doveva essere sviluppata dal fisico tedesco Helmholtz, secondo cui la percezione del colore dipende dalla presenza nella rètina di tre specie di fibre nervose e sono sensibili, rispeivamente, al rosso, al verde e al violeo. Si occupò ane della decifrazione dei geroglifici egizi. 5. Auguste Jean Fresnel (1788-1827), fisico francese. Si occupò soprauo di oica, e fu uno dei pionieri di questa disciplina. Nel 1814 scrisse un lavoro sulle aberrazioni cromatie, lavoro e però non fu pubblicato; le sue ricere sull’interferenza luminosa prepararono la strada alla dimostrazione

della teoria ondulatoria. Costruì ane vari appareci per la produzione di frange d’interferenza. Con il suo collega Arago studiò le leggi d’interferenza dei raggi polarizzati.

CAPITOLO XV. GLI EFFETTI PROGRESSIVI. L’AZIONE CONTINUATA DELLE CAUSE 1. Negli ultimi quaro capitoli abbiamo tracciato i lineamenti generali della teoria del generarsi delle leggi derivate da leggi fondamentali. In questo capitolo la nostra aenzione sarà direa a un caso specifico di derivazione di leggi da altre leggi; si traa, però, di un caso così generale e così importante e non solo ci ricompensa del fao e lo si sooponga a un esame separato, ma anzi, quest’esame lo esige addiriura. È il caso di un fenomeno complesso e risulta da una sola legge semplice, in virtù del continuo sommarsi di un effeo a se stesso. Ci sono alcuni fenomeni, per esempio alcune sensazioni corporee, e sono per loro essenza istantanee, e la cui esistenza si può prolungare solamente prolungando l’esistenza della causa e li produce. Ma per loro natura, la maggior parte dei fenomeni sono permanenti. Una volta e hanno cominciato ad esistere, continuano ad esistere per sempre a meno e non intervenga quale causa e abbia la tendenza ad alterarli o a distruggerli. Tali, per esempio, sono tui i fai o fenomeni e iamiamo «corpi». L’acqua, una volta prodoa, non ritornerà spontaneamente allo stato di idrogeno e ossigeno: un tale cambiamento riiede quale agente e abbia il potere di decomporre il composto. Tali, ancora, sono le posizioni nello spazio e i movimenti dei corpi. Nessun oggeo in stato di quiete cambia la propria posizione senza l’intervento di quale condizione ad esso estranea; e una volta in moto nessun oggeo ritorna allo stato di quiete, o àltera la propria direzione o la propria velocità, se non si introduce quale nuova condizione esterna. Accade perciò perpetuamente e una causa temporanea dia origine a un effeo permanente. Il contao, per poe ore, del ferro con l’aria umida, produce una ruggine e può durare addiriura per secoli; una forza propulsiva e lanci una palla di cannone nello spazio produce un movimento e continuerebbe per sempre se quale altra forza non lo contrastasse. Tra i due esempi e abbiamo dato qui, c’è una differenza e vale la pena di far osservare. Nel primo (in cui il fenomeno prodoo è una sostanza, e non il movimento di una sostanza), dal momento e la ruggine rimane per

sempre e resta inalterata finé non sopravvenga quale nuova causa, possiamo parlare del contao dell’aria di cent’anni fa come della causa prossima della ruggine e è esistita da quel giorno fino ad oggi. Ma dobbiamo usare un linguaggio differente quando l’effeo è il movimento, e è un cambiamento a sua volta. In questo caso, la permanenza dell’effeo non è altro e la permanenza di una serie di cambiamenti. Il secondo piede, o il secondo pollice, o il secondo miglio di movimento non sono il puro e semplice prolungamento della durata del primo piede, del primo pollice o del primo miglio, ma un altro fao e succede al primo e e per molti aspei può essere molto diverso dal primo, peré porta il corpo in una regione differente dello spazio. Ora, la forza propulsiva originaria e ha messo in movimento il corpo è la causa remota di tuo il movimento del corpo, per quanto a lungo questo duri, ma non è la causa prossima di nessun moto, ecceuato quello e ha avuto luogo al primo istante. Il moto ad ogni istante successivo ha come causa prossima il moto e ha avuto luogo nell’istante precedente. Proprio da questo moto, e non dalla causa motrice originaria, dipende il moto ad ogni istante dato. Supponiamo, infai, e il corpo passi araverso quale mezzo, la cui resistenza contrasti parzialmente l’effeo dell’impulso originario, ritardando così il movimento del corpo. L’azione contraria (è superfluo ripeterlo) è un esempio di obbedienza alla legge dell’impulso, tanto rigoroso quanto lo sarebbe se il corpo avesse continuato a muoversi alla sua velocità originaria; ma il movimento e ne risulta è differente, peré ora è la componente degli effei di due cause e agiscono in direzioni contrarie, e non l’effeo singolo di una sola causa. Ora, a quale causa obbedisce il corpo nel suo moto successivo? Alla causa originaria del movimento, o al movimento effeivo all’istante precedente? A quest’ultimo: infai, quando l’oggeo esce dal mezzo e gli oppone resistenza continua a muoversi, non già con la sua velocità originaria, ma con la sua velocità ritardata. Rallentato il movimento, rallenta tuo quello e segue. L’effeo cambia, peré la causa a cui realmente obbedisce — la causa prossima e, anzi, la causa vera e propria — è cambiata. esto principio è riconosciuto dai matematici, quando tra le cause e determinano il movimento di un corpo a ogni istante enumerano la forza generata dal moto precedente. est’espressione sarebbe assurda se la si usasse per implicare e questa «forza» è un anello intermedio tra la causa e l’effeo; ma in realtà significa soltanto lo stesso moto precedente, considerato come causa di un moto ulteriore. Perciò, se vogliamo parlare con perfea precisione, dobbiamo

considerare ciascun anello nella successione dei moti come l’effeo dell’anello e lo ha preceduto. Ma se, per convenienza del discorso, parliamo dell’intiera serie come di un solo effeo, dobbiamo parlarne come di un effeo prodoo da una causa istantanea, e e possiede la proprietà di perpetuare se stesso. Supponiamo ora e l’agente o la causa originari invece di essere istantanei siano permanenti. alunque esso sia, l’effeo prodoo fino a un certo istante sussisterebbe permanentemente ane se la causa dovesse cessare di esistere, a meno e non ne fosse impedito dall’intervento di quale nuova causa. Comunque, siccome non cessa di esistere, ma continua ad esistere e ad operare, la causa deve continuare a produrre una quantità di effeo sempre maggiore, e invece di avere un effeo uniforme abbiamo una serie progressiva di effei e sorgono dall’accumularsi dell’influenza di una causa permanente. Così, il contao del ferro con l’atmosfera fa sì e una parte del ferro arrugginisca; e se la causa cessasse di esistere, l’effeo già prodoo sarebbe permanente, ma non gli si aggiungerebbe nessun effeo ulteriore. Comunque, se la causa (cioè l’esposizione all’aria umida) continua, una parte sempre maggiore del ferro diventa arrugginita finé tuo il ferro esposto non si sia convertito in una polvere rossa, cioè finé non abbia cessato di esistere una delle condizioni del prodursi della ruggine (cioè la presenza di ferro non ossidato) e l’effeo non possa più essere prodoo. Ancora, la Terra è la causa del fao e i corpi cadono verso di essa: cioè, l’esistenza della Terra a un dato istante è la causa per cui un corpo privo di sostegno si muove verso di essa nell’istante successivo; se la Terra venisse distrua, quel tanto di effeo e è già stato prodoo continuerebbe ad esistere: l’oggeo continuerebbe a muoversi nella medesima direzione, con la velocità e ha acquistato, finé non venisse interceato da quale corpo, o non fosse deviato da quale altra forza. Comunque, non essendo stata distrua, nel secondo istante la Terra continua a produrre un effeo simile e quantitativamente eguale all’effeo prodoo nel primo: questi due effei si sommano tra di loro, e così ne risulta una velocità accelerata. Poié quest’operazione si ripete a ogni istante successivo, fin quando continuano a essere realizzate tue le condizioni negative e positive del prodursi di quell’effeo la pura e semplice permanenza della causa, pur senza nessun incremento, dà origine a un incremento costante e progressivo nell’effeo. È ovvio e questo stato di cose non è altro e un caso di composizione delle cause. Ad un’analisi rigorosa, una causa e continua ad agire

dev’essere considerata come un certo numero di cause esaamente simili introdoe successivamente, e e combinandosi producono la somma degli effei e produrrebbero una per una, se agissero da sole. L’arrugginimento progressivo del ferro è, a rigore, la somma degli effei di molte particelle d’aria e agiscono successivamente sulle particelle corrispondenti di ferro. L’azione continua della Terra su un corpo e cade è equivalente a una serie di forze, applicate in istanti successivi, ciascuna delle quali tende a produrre una certa quantità costante di movimento; e il movimento a ciascun istante è la somma degli effei della nuova forza applicata all’istante precedente e del moto già acquisito. In ciascun istante, all’effeo di cui la gravità era la causa remota si aggiunge un effeo nuovo, di cui la gravità è la causa prossima; o (per esprimere la stessa cosa in un’altra maniera) l’effeo prodoo dall’influenza della Terra nell’ultimo istante trascorso si aggiunge alla somma degli effei le cui cause remote erano le influenze esercitate dalla Terra in tui gli istanti precedenti, a partire dall’istante in cui il movimento ha avuto inizio. Il caso rientra perciò nell’àmbito del principio di un concorso di cause e producono un effeo eguale alla somma dei loro effei separati. Ma siccome le cause entrano in giuoco, non tue in una volta, ma l’una dopo l’altra, e siccome l’effeo ad ogni istante è la somma degli effei di quelle sole cause e sono entrate in azione fino a quell’istante, il risultato assume la forma di una serie ascendente: una successione di somme ciascuna più grande di quella e l’ha preceduta. Abbiamo così un effeo progressivo originato dall’azione ininterroa di una causa. Dal momento e il perdurare della causa influenza l’effeo soltanto in quanto aggiunge qualcosa alla sua quantità, e dal momento e l’aggiunta ha luogo secondo una legge fissa (quantità eguali in tempo eguale), il risultato può essere calcolato in base a princìpi matematici. In realtà, proprio questo (e è il caso degli incrementi infinitesimi) è il caso per affrontare il quale si inventò il calcolo differenziale. Le questioni: quale effeo risulterà dal continuo sommarsi di una data causa a se stessa, e quale quantità della causa, continuamente sommata a se stessa, produrrà una data quantità dell’effeo, sono evidentemente questioni matematie, e perciò devono essere traate deduivamente. Se, come abbiamo visto, è vero e i casi di composizione delle cause raramente si adaano a qualcosa e non sia l’indagine deduiva, questo è particolarmente vero del caso e abbiamo ora preso in esame: la composizione continua di una causa con il suo effeo precedente. Tale caso, infai, è particolarmente adao a essere ricondoo al

metodo deduivo, mentre il modo indistinto in cui gli effei si mescolano l’uno con l’altro e con le cause, non può non rendere ancor più imerico e in tui gli altri casi il traamento sperimentale di un caso del genere. 2. Rivolgeremo ora la nostra aenzione a un modo d’operare alquanto più intricato del medesimo principio: al caso, cioè, in cui la causa non continua nella sua azione, puramente e semplicemente, ma nel medesimo tempo soostà a un cambiamento progressivo in quelle sue circostanze e contribuiscono a determinare l’effeo. Come nel primo caso, ane in questo l’effeo totale continua ad accumularsi per il continuo sommarsi di un effeo nuovo all’effeo già prodoo, ma l’accumulazione non avviene più per il sommarsi di quantità eguali in tempi eguali; le quantità aggiunte sono diseguali, e perfino la quantità può ora essere differente. Se il cambiamento nello stato della causa permanente fosse progressivo, l’effeo passerebbe araverso una duplice serie di cambiamenti, originati in parte dall’accumularsi dell’azione della causa, e in parte dai mutamenti nella sua azione. L’effeo è ancora un effeo progressivo, però è prodoo, non già dal puro e semplice perdurare di una causa, ma dalla combinazione del suo perdurare e del suo caraere progressivo. Un esempio familiare è fornito dall’aumentare della temperatura con l’avanzare dell’estate, cioè con l’avvicinarsi del Sole a una posizione verticale e col suo rimanere all’orizzonte per un maggior numero di ore. esto caso esemplifica in modo molto interessante la duplice azione sull’effeo, azione originata dal perdurare della causa e dal suo cambiamento progressivo. ando il Sole è arrivato abbastanza vicino allo zenith e rimane al disopra dell’orizzonte abbastanza a lungo da fornire, durante una rotazione diurna, più calore di quanto non possa disperderne la causa contraria — l’irradiazione della Terra — il puro e semplice perdurare della causa accresce progressivamente l’effeo, ane se il Sole non si avvicina ulteriormente e i giorni non si allungano più: ma oltre a ciò negli accidenti della causa (cioè nella serie delle posizioni diurne del Sole) ha luogo un cambiamento, e tende ad accrescere la quantità dell’effeo. ando il solstizio d’estate è passato, il cambiamento progressivo nella causa comincia ad aver luogo in senso inverso, ma per un po’ di tempo l’effeo cumulativo del puro e semplice perdurare della causa supera l’effeo dei cambiamenti e hanno avuto luogo in essa, e la temperatura continua a crescere.

Ancora, il moto di un pianeta è un effeo progressivo, prodoo da cause e sono, nel medesimo tempo, permanenti e progressive. Trascurando le perturbazioni, l’orbita di un pianeta è determinata da due cause: primo, dall’azione del corpo centrale, cioè da una causa permanente e aumenta e diminuisce alternativamente secondo e il pianeta si avvicini al suo perielio o se ne allontani e e agisce in ogni punto in una direzione differente; secondo, dalla tendenza del pianeta a continuare a muoversi nella direzione e con la velocità e ha già acquistato. esta forza aumenta ane man mano e il pianeta si avvicina al suo perielio peré, come vi si avvicina, la sua velocità aumenta; e diminuisce man mano e il pianeta si allontana dal suo perielio: tanto questa forza quanto l’altra agiscono, in ciascun punto, in una direzione differente, peré in ogni punto l’azione della forza e devia il pianeta dalla sua direzione precedente àltera la traieoria lungo la quale il pianeta tende a continuare a muoversi. Il moto in ciascun istante è determinato dalla quantità e dalla direzione del moto e dalla quantità e dalla direzione dell’azione del Sole all’istante precedente. E se parliamo dell’intiera rivoluzione del pianeta come di un solo fenomeno (cosa e, essendo tale rivoluzione periodica e simile a se stessa, spesso troviamo conveniente fare) quel fenomeno è l’effeo di due cause permanenti e progressive: la forza centrale e il moto acquisito. Siccome si dà il caso e queste cause siano progressive in quel particolare modo e si iama periodico, ane l’effeo sarà necessariamente progressivo nel medesimo modo. Infai, poié le quantità e devono essere sommate tra loro si ripresentano seguendo un ordine regolare, dovranno ripresentarsi in modo regolare ane le medesime somme. est’esempio è degno di essere preso in considerazione ane per un altro aspeo. Ane se, in se stesse, le cause sono permanenti e indipendenti da tue le condizioni di cui siamo a conoscenza, i cambiamenti e hanno luogo nelle quantità e nelle relazioni delle cause sono in realtà causati da cambiamenti periodici negli effei. Le cause, così come esistono in ogni momento, hanno prodoo un certo moto. esto moto diventa a sua volta una causa, e pertanto, reagendo sopra le cause, produce in esse un cambiamento. Facendo variare la distanza e la direzione del corpo centrale relativamente al pianeta, e il senso e la quantità della forza nella direzione della tangente, àltera gli elementi e determinano il moto nell’istante immediatamente successivo. esto cambiamento rende alquanto differente il moto successivo e questa differenza, reagendo di nuovo sulle cause, fa sì

e il moto successivo sia ancora differente, e così via. Poteva darsi e originariamente lo stato delle cause non fosse tale da rendere periodica questa serie di azioni modificate da reazioni. Poteva darsi e l’azione del Sole, e la forza propulsiva originaria, stessero tra loro in un rapporto tale e la reazione dell’effeo alterasse sempre più le cause, senza mai riportarle indietro allo stato in cui si trovavano in un qualsiasi istante precedente. Allora il pianeta si sarebbe mosso secondo una parabola o secondo un’iperbole, vale a dire secondo curve e non ritornano su se stesse. Comunque, in origine le quantità delle due forze erano tali e dopo un certo tempo le successive reazioni dell’effeo riportano le cause al loro stato precedente; e da quell’istante in poi tue le variazioni continuano a ricorrere sempre nel medesimo ordine periodico, e, finé le cause continuano a sussistere e non c’è nulla e le contrasti, non possono non continuare a ricorrere in quell’ordine. 3. In tui i casi di effei progressivi — sia e tali effei sorgano dall’accumularsi di elementi immutabili, sia e sorgano dall’accumularsi di elementi mutevoli — c’è un’uniformità di successione, non semplicemente tra la causa e l’effeo, ma tra i primi stadi dell’effeo e i suoi stadi successivi. Che un corpo in vacuo, cadendo, percorra sedici piedi nel primo secondo, quarantoo nel secondo successivo, e così via, secondo la ragione con cui si succedono i numeri dispari, è una sequenza tanto uniforme quanto il succedersi della caduta di un corpo alla rimozione dei suoi sostegni. Il succedersi dell’estate alla primavera è tanto regolare e invariabile quanto il succedersi della primavera all’avvicinarsi del Sole alla Terra; ma non per questo riteniamo e la primavera sia la causa dell’estate: è evidente e primavera ed estate sono effei successivi del calore e la Terra ha ricevuto dal Sole e e, considerata puramente e semplicemente in se stessa, la primavera potrebbe continuare indefinitamente senza avere la minima tendenza a produrre l’estate. Come abbiamo osservato tanto spesso, si dà il nome di causa non già all’antecedente condizionato, ma all’antecedente incondizionato e invariabile. ello e non sarebbe seguìto dall’effeo se prima non fosse venuto qualcos’altro, e e, se quel qualcos’altro fosse venuto prima, non sarebbe stato necessario all’effeo, non è la causa, per quanto invariabile la sequenza possa essere nel fao. Proprio in questo modo si genera la maggior parte di quelle uniformità di successione e non sono casi di causazione. ando un fenomeno continua

a crescere, oppure quando cresce e decresce periodicamente o passa araverso quale processo continuo e incessante di variazione riducibile a una regola o a una legge uniforme di successione, non per questa ragione presumiamo e due termini successivi qualsiasi della serie siano causa ed effeo. Presumiamo anzi il contrario; ci aspeiamo di trovare e l’intiera serie si origina o dall’azione continua di cause fisse o da cause e passano araverso un processo corrispondente di cambiamento continuo. Da mezzo pollice e era, un albero cresce fino a diventare alto un centinaio di piedi; e generalmente certi alberi cresceranno fino a raggiungere quell’altezza a meno e non ne siano impediti da quale causa contraria. Ma non diciamo e l’arboscello è la causa dell’albero nella sua piena maturità: certamente è il suo antecedente invariabile; e pur sapendo soltanto molto imperfeamente da quali altri antecedenti dipenda la sequenza, siamo convinti e da qualcosa dipende. Infai, l’omogeneità tra antecedente e conseguente, la strea somiglianza tra l’arboscello e l’albero per tui gli aspei tranne e per la grandezza e per la gradualità della crescita (gradualità e somiglia tanto puntualmente all’accumularsi progressivo dell’effeo quale è prodoo dalla lunga azione di questa o di quell’altra causa) non ci lasciano aperta la minima possibilità di dubitare e l’arboscello e l’albero siano due termini di una serie di quel genere, il primo termine della quale dobbiamo ancora cercare. La conclusione è ulteriormente confermata da questo: e per mezzo di un’induzione rigorosa siamo in grado di provare la dipendenza della crescita dell’albero, e persino quella della continuazione della sua esistenza, dalla ripetizione ininterroa di certi processi di nutrizione, dalla salita della linfa, dall’assorbimento e dall’esalazione da parte delle foglie, ecc.; e probabilmente i medesimi esperimenti ci proverebbero e la crescita dell’albero è la somma cumulativa degli effei di questi processi continui, se, per mancanza di oci microscopici, non fossimo incapaci di osservare correamente e in deaglio e cosa siano questi effei. esta supposizione non riiede affao e durante tuo questo sviluppo l’effeo non debba soostare a molte modificazioni oltre quelle quantitative, o e talvolta non debba sembrare e le sue caraeristie soostiano a un cambiamento molto accentuato. esto può accadere, sia peré la causa ignota consiste di pareci elementi e la compongono, o agenti, i cui effei accumulandosi secondo leggi differenti si compongono in proporzioni differenti in differenti periodi dell’esistenza dell’essere organizzato; sia peré, in certi punti del suo cammino, intervengono, o si

sviluppano, cause o agenti nuovi e mescolano le loro leggi con le leggi dell’agente originario.

CAPITOLO XVI. LE LEGGI EMPIRICHE 1. Gli scienziati dànno il nome di leggi empirie a quelle uniformità la cui esistenza è stata dimostrata dall’esperimento e dall’osservazione, ma alle quali esitano ad affidarsi nei casi molto differenti da quelli effeivamente osservati, peré non riescono a vedere nessuna ragione per cui una legge del genere debba esistere. Nella nozione di legge empirica è perciò implicito e tale legge non è una legge fondamentale; e, ane ammesso e sia vera, della sua verità si può e si deve rendere ragione. È una legge derivata, la cui derivazione non è ancora nota. Enunciare la spiegazione, il perché della legge empirica, signifierebbe enunciare le leggi da cui la legge empirica è derivata, le cause ultime da cui dipende. E se conoscessimo queste cause ultime sapremmo ane quali sono i limiti della legge: sapremmo cioè in quali condizioni la legge non sarebbe più soddisfaa. Il ritorno periodico delle eclissi — così come è stato accertato originariamente dalle pazienti osservazioni dei primi astronomi orientali — rimase una legge empirica finé le leggi generali dei moti celesti non ne diedero ragione. Ecco una lista di leggi empirie e aendono ancora di essere risolte nelle leggi più semplici dalle quali derivano. Le leggi locali del flusso e del riflusso delle maree in luoghi differenti; il succedersi di certe specie di tempo atmosferico a certi aspei del cielo; le apparenti eccezioni alla verità quasi universale e i corpi si dilatano con l’aumentare della temperatura; la legge e sia le progenie animali sia quelle vegetali vengono migliorate dagli incroci; la legge e i gas hanno una forte tendenza a permeare le membrane animali; e le sostanze contenenti una percentuale molto alta di azoto (come l’acido cianidrico e la morfina) sono potenti veleni; e, quando si fondono insieme diversi metalli, la lega è più dura e non i vari elementi; e il numero degli atomi di acido necessari per neutralizzare un atomo di qualsiasi base è eguale al numero degli atomi di ossigeno presenti in quella base; e la solubilità delle sostanze l’una nell’altra dipendea (almeno in certa misura) dalla similarità dei loro elementi. Dunque, una legge empirica è un’uniformità osservata, e si presume sia risolubile in leggi più semplici, ma e non è ancora stata risolta in tali leggi. Spesso, l’accertamento delle leggi empirie dei fenomeni precede di un

lungo intervallo la spiegazione di queste leggi per mezzo del metodo deduivo; e di solito la verificazione di una deduzione consiste nel confronto dei suoi risultati con le leggi empirie accertate in precedenza. 2. Da un numero limitato di leggi fondamentali di causazione si genera necessariamente un vasto numero di uniformità derivate, sia di successione sia di coesistenza. Alcune sono leggi di successione o di coesistenza tra effei differenti della medesima causa: di queste abbiamo dato esempi nel capitolo precedente. Alcune sono leggi di successione tra gli effei e le loro cause remote, e possono essere risolte nelle leggi e conneono ciascuno di essi con l’anello intermedio. In terzo luogo, quando certe cause agiscono insieme e compongono i loro effei, le leggi di quelle cause generano la legge fondamentale dell’effeo; la legge, cioè, secondo cui l’effeo dipende dalla coesistenza di quelle cause. E, da ultimo, l’ordine di successione o di coesistenza e vige tra gli effei, dipende necessariamente dalle loro cause. Se si traa di effei della medesima causa, l’ordine dipende dalle leggi di quella causa; se si traa di effei di cause differenti, dipende dalle leggi di quelle cause prese una per una e dalle circostanze e determinano la loro coesistenza. Se poi indaghiamo ulteriormente sul quando e sul come le cause coesisteranno, questo a sua volta dipenderà dalle cause di quelle cause; e così possiamo risalire sempre più indietro nella catena dei fenomeni finé le serie differenti degli effei non si saranno incontrate in un punto, e non si sarà provato e tuo quanto dipende in ultima analisi da quale causa comune; oppure procederemo fin quando, invece di convergere in un punto solo, le differenti serie di effei non saranno terminate in punti differenti, e non si sarà provato e l’ordine degli effei ha avuto origine dalla collocazione di alcune fra le cause primordiali, o agenti naturali. Per esempio, l’ordine di successione e di coesistenza dei moti celesti, ordine e è espresso dalle leggi di Keplero, è derivato dalla coesistenza di due cause primordiali: il Sole e l’impulso originario, o forza propulsiva, propria di ciascun pianetab. Le leggi di Keplero si risolvono nelle leggi di queste cause e nel fao della loro coesistenza. Pertanto, le leggi derivate non dipendono soltanto dalle leggi fondamentali in cui possono essere risolte: per lo più dipendono da quelle leggi fondamentali e da un fao fondamentale, cioè, dal modo di coesistenza di alcuni degli elementi e compongono l’universo. Poteva darsi e le leggi fondamentali di causazione fossero le medesime di quelle auali, e tuavia,

se le cause fossero coesistite in proporzioni differenti o ci fosse stata una differenza qualsiasi in quelle relazioni dalle quali gli effei risultano influenzati, le leggi derivate fossero completamente differenti. Se, per esempio, l’arazione del Sole e la forza propulsiva originaria fossero esistite in rapporto reciproco diverso da quello in cui esistevano effeivamente (e non conosciamo nessuna ragione per cui le cose non sarebbero potute andare diversamente) le leggi derivate dei moti celesti sarebbero potute essere completamente diverse da quelle e sono. Si dà il caso e le proporzioni esistenti siano tali da dar luogo a movimenti elliici regolari: una qualsiasi altra proporzione avrebbe prodoo ellissi differenti, oppure moti circolari o parabolici o iperbolici, ma pur sempre regolari. Infai gli effei di ciascuno degli agenti si accumulano secondo una legge uniforme e due serie regolari di quantità, quando si sommino tra loro i termini corrispondenti, devono necessariamente produrre una serie regolare di quale specie, quali e siano le quantità in se stesse. 3. Ora, quest’elemento della risoluzione di una legge derivata e abbiamo menzionato per ultimo — l’elemento, cioè, e non è una legge di causazione, ma una collocazione di cause — non può a sua volta essere ridoo a una legge. Come abbiamo osservato in precedenzac, nella distribuzione degli agenti naturali primordiali nell’universo non possiamo percepire nessuna uniformità, nessuna norma, nessun principio o regola. Le differenti sostanze e compongono la Terra, i poteri e pervadono l’universo, non stanno gli uni con gli altri in una relazione costante. Una certa sostanza è più abbondante di certe altre, un certo potere agisce araverso una regione di spazio più ampia di quelle araverso la quale agiscono gli altri, senza e possiamo scoprire un’analogia e valga per tui. Non soltanto non conosciamo alcuna ragione per cui l’arazione del Sole e la forza e agisce in direzione della tangente coesistano nell’esaa proporzione in cui coesistono, ma non possiamo neppure rintracciare una coincidenza tra questa proporzione e le proporzioni secondo cui sono commiste tra loro altre forze elementari dell’universo. Nella combinazione delle cause regna, in modo più e evidente, il massimo disordine; e tuavia questo disordine è compatibile con il massimo ordine e la massima regolarità nei loro effei. Infai, quando ciascun agente esegue le proprie operazioni in conformità con una legge uniforme, ane la combinazione più capricciosa di agenti genererà una regolarità di questa o di quell’altra specie, come

vediamo nel caleidoscopio in cui un qualsiasi arrangiamento casuale di pezzi di vetro colorati produce, per le leggi della riflessione, una bella regolarità nell’effeo. 4. Nelle considerazioni e precedono si trova la giustificazione del grado limitato di fiducia e gli scienziati sono abituati a riporre nelle leggi empirie. Una legge derivata, e risulti in tuo e per tuo dall’azione di quale causa singola, sarà tanto universalmente vera quanto le leggi della causa stessa: cioè, sarà sempre vera ecceuati quei casi in cui uno di quegli effei della causa, da cui dipende la legge derivata, non venga annullato da una causa contrastante. Ma quando la legge derivata risulta non già da effei differenti di una sola causa ma dagli effei di parecie cause, non possiamo essere certi e sarà vera per tue le variazioni nel modo in cui queste cause coesistono, o in cui coesistono gli agenti naturali primitivi dai quali le cause, in ultima analisi, dipendono. La proposizione e i lei di carbone riposano esclusivamente su certi tipi di strati, è vera — fin dove arriva la nostra osservazione — sulla Terra, ma non può essere estesa alla Luna o ad altri pianeti, posto e lassù esista il carbone. Non possiamo infai avere la certezza e la costituzione originaria di un qualsiasi altro pianeta sia tale da produrre i medesimi depositi nel medesimo ordine in cui sono stati prodoi nel nostro globo. In questo caso la legge derivata non dipende soltanto da leggi, ma da una collocazione; e le collocazioni non possono venir ridoe a nessuna legge. Ora, per la stessa natura di una legge derivata e non sia stata ancora risolta nei suoi elementi — o, in altre parole, per la stessa natura di una legge empirica — non sappiamo se essa risulti dai differenti effei di una sola causa, o dagli effei di cause differenti. Non possiamo dire se dipenda interamente da leggi, o se dipenda in parte da leggi e in parte da una collocazione. Se dipende da una collocazione, sarà vera in tui i casi in cui esiste quella particolare collocazione. Ma, siccome nel caso in cui dipenda da una collocazione ignoriamo completamente quale sia questa collocazione, non possiamo estendere con sicurezza la legge oltre i limiti di tempo e di spazio entro i quali abbiamo l’esperienza effeiva della sua verità. Dal momento e entro questi limiti si è sempre trovato e la legge è vera, abbiamo le prove e le collocazioni da cui dipende, quali e siano, esistono realmente entro quei limiti. Ma non essendo a cono scenza di nessuna legge

o di nessun principio ai quali le collocazioni, a loro volta, si conformino, dal fao e è provato e una collocazione esiste entro certi limiti di spazio e di tempo non possiamo concludere e la collocazione esisterà oltre questi limiti. Pertanto, le leggi empirie possono essere acceate come vere soltanto entro i limiti di spazio e di tempo nei quali, per mezzo dell’osservazione, si è trovato e sono vere. E non si traa soltanto di limiti di tempo e di luogo, ma di tempo, di luogo e di circostanza. Infai, poié il significato di una legge empirica è proprio e non conosciamo le leggi fondamentali di causazione da cui dipende, non possiamo prevedere, senza provarci davvero, in quale modo o in qual misura l’introduzione di una qualsiasi nuova circostanza possa modificarla. 5. Ma allora come facciamo a sapere e un’uniformità, accertata per mezzo dell’esperienza, è soltanto una legge empirica? Dato e, per ipotesi, non siamo stati capaci di risolverla in altre leggi, come facciamo a sapere e non si traa di una legge fondamentale di causazione? Rispondo: una generalizzazione e riposi soltanto sulla prova del metodo della concordanza non può mai equivalere a nulla più e a una legge empirica. Abbiamo visto, infai, e con quel metodo da solo non possiamo mai arrivare alle cause. Il massimo e il metodo della concordanza possa fare è accertare tue quante le circostanze comuni a tui i casi in cui si produce un fenomeno; e quest’aggregato comprende, non soltanto la causa del fenomeno, ma tui i fenomeni con i quali è connesso da una qualsiasi uniformità derivata, sia come effei collaterali della medesima causa, sia come effei di una qualsiasi altra causa e, in tui i casi e siamo stati in grado di osservare, coesisteva con il fenomeno in questione. Il metodo non fornisce alcun mezzo per determinare quali di queste uniformità siano leggi di causazione e quali siano pure e semplici leggi derivate e risultano da quelle leggi di causazione e dalla collocazione delle cause. Nessuna di esse, pertanto, può essere acceata con altro caraere e non sia il caraere di legge derivata, la cui derivazione non è stata rintracciata; in altre parole, nessuna può essere acceata se non come legge empirica. Tui i risultati oenuti con il metodo della concordanza (e perciò quasi tue le verità oenute per mezzo della semplice osservazione, senza l’esperimento) devono essere considerati soo questa luce, fin quando non siano stati confermati per mezzo del metodo della differenza, o spiegati deduivamente: in altre parole, fin quando non se ne sia reso conto a priori.

este leggi empirie possono aver maggiore o minore autorità, secondo e ci sia ragione per presumere e sono risolubili in leggi soltanto, o in leggi e collocazioni, insieme. Le sequenze e osserviamo nella produzione di un animale o di un vegetale e nella loro vita successiva, sequenze e riposano soltanto sul metodo della concordanza, sono pure e semplici leggi empirie; ma ane se può darsi e in queste sequenze gli antecedenti non siano le cause dei conseguenti, è indubbio e gli uni e gli altri sono principalmente stadi successivi di un effeo progressivo, e hanno avuto origine da una causa comune e perciò non dipendono da collocazioni. D’altra parte, le uniformità nell’ordine della sovrapposizione degli strati sulla Terra sono leggi empirie di una specie molto più debole, peré non soltanto non sono leggi di causazione, ma non c’è nessuna ragione per credere e dipendano da quale causa comune: le apparenze parlano tue in favore di una loro dipendenza dalla collocazione particolare degli agenti naturali e sono esistiti sul nostro globo in un’epoca o nell’altra, collocazione dalla quale non si può trarre nessun’inferenza relativamente alla collocazione e esiste, o è esistita, in una qualsiasi altra parte dell’universo. 6. Siccome la nostra definizione di legge empirica comprende, non solo quelle uniformità di cui non sappiamo se siano leggi di causazione, ma ane quelle di cui lo sappiamo (puré ci siano buone ragioni per credere e non si traa di leggi fondamentali) questo è il luogo appropriato per considerare da quali segni possiamo giudicare e una certa uniformità e abbiamo osservato, pur essendo una legge di causazione, è ancora una legge derivata e non una legge fondamentale. Il primo segno si ha quando ci sono prove dell’esistenza di quale anello intermedio tra l’antecedente a e il conseguente b: cioè quando ci sono prove di quale fenomeno di cui possiamo ipotizzare l’esistenza ane se, data l’imperfezione dei nostri sensi o dei nostri strumenti, non siamo in grado di accertare la sua precisa natura e le sue leggi precise. Se un fenomeno cosiffao c’è (e possiamo denotarlo con la leera x) segue e, pur essendo la causa di b, a non è altro e la sua causa remota, e e la legge «a causa b» si può risolvere in almeno due leggi: «a causa x» e «x causa b». Si traa di un caso molto frequente, peré le operazioni della natura hanno luogo, per lo più, su scala talmente minuta, e molti dei passi successivi sono imperceibili, o vengono percepiti in modo molto indistinto.

Si prendano, per esempio, le leggi della combinazione imica delle sostanze: come quella e, combinando idrogeno e ossigeno, si produce acqua. Tuo quello e riusciamo a vedere di questo processo è e mescolando i due gas in certe proporzioni e applicando calore o elericità, ha luogo un’esplosione, i gas spariscono e rimane l’acqua. Non c’è alcun dubbio intorno alla legge, o intorno al fao e si trai di una legge di causazione. Ma tra l’antecedente (i gas in istato di miscuglio meccanico vengono riscaldati o elerificati) e il conseguente (la produzione di acqua) dev’esserci un processo intermedio, e non vediamo. Infai, se prendiamo una qualsiasi porzione di quell’acqua e l’analizziamo, troviamo e contiene sempre idrogeno e ossigeno; anzi, troviamo e contiene sempre le medesime proporzioni di questi due gas, cioè due terzi, in volume, di idrogeno e un terzo di ossigeno. esto è vero di una singola goccia: è vero della più piccola porzione di acqua e i nostri strumenti siano in grado di apprezzare. Allora, dal momento e la più piccola porzione di acqua e siamo in grado di percepire contiene entrambe queste sostanze, in ogni porzione così piccola di spazio devono essersi combinate porzioni di idrogeno e di ossigeno più piccole della più piccola porzione e siamo in grado di percepire; tali porzioni devono essersi avvicinate di più di quanto non lo fossero quando i gas erano in uno stato di miscuglio meccanico, peré (per non menzionare altre ragioni) l’acqua occupa uno spazio di gran lunga più piccolo di quello occupato dai gas. Ora, poié non possiamo scorgere questo contao, o questo streo avvicinamento delle particelle minute, non possiamo osservare da quali circostanze sia accompagnato, o secondo quali leggi produca i suoi effei. Può darsi e la produzione di acqua, cioè l’accadere dei fenomeni sensibili e caraerizzano il composto, sia un effeo molto remoto di queste leggi. Può darsi e ci siano innumerevoli anelli intermedi, e siamo sicuri e qualcuno dev’essercene. Avendo la prova completa e prima di ogni grande trasformazione nelle proprietà sensibili delle sostanze ha luogo un’azione corpuscolare di quale specie, non possiamo aver dubbi sul fao e, per quanto ne sappiamo aualmente, le leggi dell’azione imica non sono leggi fondamentali ma leggi derivate: e non possiamo aver dubbi, per quanto grande possa essere la nostra ignoranza della natura delle leggi dell’azione corpuscolare da cui quelle altre leggi sono derivate, e ane ammesso e tale ignoranza debba durare per sempre.

In maniera analoga, tui i processi della vita vegetativa — sia i fenomeni e avvengono nel corpo vegetale propriamente deo, sia quelli e avvengono nel corpo animale — sono processi corpuscolari. La nutrizione è l’aggiunta di particelle l’una all’altra, aggiunta e talvolta avviene sostituendo semplicemente altre particelle separate ed escrete, quale altra volta dando occasione a un aumento di massa o di peso così graduale e diventa percepibile solo dopo essere continuato per lungo tempo. Vari organi, per mezzo di vasi particolari, secernono dal sangue certi fluidi le cui particelle componenti dovevano già trovarsi nel sangue, ma e differiscono larghissimamente dal sangue, sia per le loro proprietà meccanie sia per la loro composizione imica. Ane qui c’è da riempire una gran quantità di anelli ignoti, e non può esserci dubbio e le leggi dei fenomeni della vita vegetativa od organica sono leggi derivate, e dipendono dalle proprietà dei corpuscoli e di quei tessuti elementari e sono combinazioni relativamente semplici di corpuscoli. Dunque, il primo segno da cui si può inferire e una legge di causazione (per quanto fino ad oggi non ancora risolta) è una legge derivata, si ha quando c’è un’indicazione qualsiasi e tra l’antecedente e il conseguente esiste un anello intermedio, o ne esistono diversi. Il secondo segno si ha quando l’antecedente è un fenomeno estremamente complesso ed è perciò probabile e i suoi effei siano composti almeno in parte dagli effei dei suoi diversi elementi. Sappiamo infai e il caso in cui l’effeo del tuo non è costituito dagli effei delle sue parti è eccezionale, dal momento e la composizione delle cause è il caso di gran lunga più ordinario. Illustreremo con due esempi quello e abbiamo deo. In uno di questi esempi l’antecedente è la somma di molte parti omogenee, nell’altro è la somma di molte parti eterogenee. Il peso di un corpo è formato dai pesi delle sue particelle minute: verità, questa, e gli astronomi esprimono in termini più generali dicendo e corpi posti a distanze eguali gravitano l’uno verso l’altro in proporzione alla loro quantità di materia. Pertanto, tue le proposizioni vere e possiamo enunciare a proposito della gravitazione sono leggi derivate: la legge fondamentale, nella quale tue queste leggi possono essere risolte, è infai e ogni particella di materia arae ogni altra particella di materia. Come secondo esempio, possiamo prendere una qualsiasi delle sequenze osservate in meteorologia: per esempio, una diminuzione della pressione atmosferica (diminuzione indicata da una caduta del barometro) è seguìta da pioggia. i l’antecedente è un fenomeno

complesso, composto di elementi eterogenei: infai la colonna d’atmosfera e sta sopra un qualsiasi posto particolare consiste di due parti: una colonna d’aria e una colonna di vapore acqueo mescolata con l’aria; e il cambiamento simultaneo nelle due parti, cambiamento e si manifesta con la caduta del barometro ed è seguìto dalla pioggia, sarà necessariamente o un cambiamento nell’una, o un cambiamento nell’altra, o un cambiamento in entrambe queste parti. Allora, ane in assenza di ogni altra prova, in base alla presenza invariabile dell’antecedente in entrambi questi elementi possiamo ragionevolmente presumere e probabilmente la sequenza non è una legge fondamentale, ma è il risultato delle leggi dei due diversi agenti; e questa presunzione potrebbe essere falsificata soltanto quando avessimo acquisito, con le leggi di entrambi gli agenti, una familiarità tale da essere in grado di affermare e a loro volta queste leggi non sarebbero in grado di produrre il risultato osservato. Non ci sono e poi casi noti di successione da antecedenti molto complessi, di cui non si sia effeivamente reso ragione a partire da leggi semplici, o a proposito dei quali non si sia inferito con un’alta probabilità (in base all’esistenza accertata di anelli intermedi di causazione non ancora completamente capiti) e è possibile renderne conto nel modo e s’è deo. È pertanto altamente probabile e tue le sequenze e si originano da antecedenti complessi siano risolubili in questo modo, e e in tui i casi le leggi fondamentali siano relativamente semplici. Se, per credere e le leggi della natura organizzata sono risolubili in leggi più semplici, non ci fossero le altre ragioni già menzionate, il fao e gli antecedenti della maggior parte delle sequenze siano così altamente complessi, costituirebbe una ragione sufficiente per questa credenza. 7. Nella discussione e precede abbiamo riconosciuto due specie di leggi empirie: quelle di cui si sa e sono leggi di causazione, ma di cui si presume e siano risolubili in leggi più semplici, e quelle di cui non si sa neppure se siano leggi di causazione. Entrambe queste specie di leggi concordano in questo: e pretendono di essere spiegate deduivamente; e concordano ane per il fao di essere esse stesse i mezzi appropriati per verificare tale deduzione, dal momento e rappresentano le esperienze con cui devono essere confrontati i risultati della deduzione. Inoltre, concordano ancora in questo: e, fin quando non saranno state spiegate e non saranno state messe in relazione con le leggi fondamentali da cui risultano, non

avranno raggiunto il grado più alto di certezza di cui le leggi siano susceibili. In un’occasione precedente abbiamo mostrato e le leggi di causazione e sono derivate e composte di leggi più semplici, non soltanto sono meno generali (come del resto implica la natura del caso) ma sono addiriura meno certe delle leggi più semplici dalle quali risultano, e e sulla loro verità universale non è possibile fare affidamento nella stessa misura in cui si fa affidamento sulla verità universale delle leggi più fondamentali. Comunque, l’inferiorità propria delle prove relative a questa classe di leggi è ben poca cosa se la si confronta con quella e inerisce alle uniformità di cui non si sa per nulla se siano leggi di causazione. Fintanto e rimangono irrisolte non possiamo dire, né da quali collocazioni, né da quali leggi possa mai dipendere la loro verità; pertanto non possiamo mai estenderle fiduciosamente a casi in cui non ci siamo assicurati per tentativi e esiste la necessaria collocazione di cause, quale e essa sia. Soltanto a questa classe di leggi appartiene, in tuo il suo rigore, quella proprietà e di solito i filosofi considerano caraeristica delle leggi empirie: la proprietà di non poter far affidamento su di esse oltre i limiti di tempo, di spazio e di circostanze in cui sono state fae le osservazioni. Si traa di leggi empirie nel senso più forte del termine; e quando impiegherò questo termine intenderò generalmente designare (tranne e quando il contesto non indii manifestamente il contrario) soltanto quelle uniformità, di successione e di coesistenza, di cui non si sa se siano leggi di causazione. a.

Così nell’acqua — oo noni del cui peso sono costituiti da ossigeno — sono solubili la maggior parte dei corpi e contengono un’alta percentuale di ossigeno, quasi tui i nitrati (e contengono più ossigeno di quanto non ne contenga qualsiasi altro tipo di sale comune), la maggior parte dei solfati, molti carbonati, ecc. Ancora: i corpi composti in gran parte di elementi combustibili, come l’idrogeno e il carbonio, sono solubili in corpi di composizione simile: per esempio, la resina si dissolverà in alcool, il catrame si dissolverà in trementina. esta generalizzazione empirica è ben lontana dall’essere vera universalmente, senza dubbio peré si traa del risultato remoto, e pertanto facilmente confutabile, di leggi generali troppo profonde peré possiamo penetrarle allo stato auale delle nostre conoscenze; col tempo, però, essa suggerirà probabilmente processi di ricerca e condurranno alla scoperta di questeleggi. b. O, stando alla teoria di Laplace, il Sole e la rotazione del Sole. c. Cfr. sopra, Libro III, cap. V, par. 7.

CAPITOLO XVII. IL CASO E LA SUA ELIMINAZIONE 1. Considerando leggi empirie soltanto quelle uniformità osservate rispeo alle quali la questione se si trai di leggi di causazione deve rimanere indecisa fin quando non siano state spiegate deduivamente o non si sia trovato quale mezzo per applicare al loro caso il metodo della differenza, nel capitolo precedente abbiamo mostrato e un’uniformità non può essere con sicurezza diiarata vera oltre i limiti entro i quali la si è trovata vera per mezzo dell’osservazione effeiva, fin quando non la si possa portare, nell’uno o nell’altro di questi modi, fuori dalla classe delle leggi empirie e farla rientrare o nella classe delle leggi di causazione o in quella dei risultati, dimostrati, delle leggi di causazione. Rimane da prendere in considerazione in qual modo ci si debba assicurare della sua verità ane entro questi limiti e quale sia la quantità di esperienze, fae le quali una generalizzazione e riposi soltanto sul metodo della concordanza si può ritenere sufficientemente consolidata, sia pure in quanto legge empirica. In un capitolo precedente, traando del metodo dell’induzione direa, ci siamo espressamente riservati di prendere in considerazione questa questionea: ora è venuto il tempo di provarci a risolverla. Abbiamo trovato e il metodo della concordanza ha il difeo di non provare la causazione, e perciò può essere impiegato soltanto per accertare le leggi empirie. Ma abbiamo ane trovato e oltre questa deficienza il metodo soffre di un’imperfezione specifica, e tende a rendere incerte persino quelle conclusioni e di per se stesso è adao a provare. est’imperfezione sorge dalla pluralità delle cause. Può darsi e due casi in cui si è incontrato il fenomeno a non abbiano in comune nessun antecedente ecceuato A; ma questo non prova e tra a ed A ci sia una qualsiasi connessione, dal momento e a può avere molte cause e può essere stato prodoo, in questi differenti casi, non da qualcosa e i casi avevano in comune ma da alcuni di quei loro elementi per i quali differivano. Abbiamo nondimeno osservato e l’incertezza caraeristica del metodo diminuisce proporzionalmente al moltiplicarsi dei casi e indicano A come antecedente e diventa sempre più certa l’esistenza di una legge di connessione tra A ed a. Occorre ora determinare quale sia la quantità di

esperienza, oenuta la quale, si può ritenere di aver praticamente raggiunto questa certezza, e si può acceare come legge empirica la connessione tra A ed a. D’altro canto questa questione può essere formulata in termini più familiari: — Dopo quanti, e dopo qual genere di casi, si può concludere e una coincidenza e si è osservata tra due fenomeni non è un effeo del caso? Se vogliamo comprendere la logica dell’induzione, è estremamente importante e ci formiamo una concezione distinta di e cosa si intenda per «caso», e in qual modo si producano, in realtà, i fenomeni e il linguaggio comune aribuisce a quest’astrazione. 2. Di solito si parla di caso in direa antitesi a «legge»; tuo quello e si suppone non possa essere aribuito a una legge viene aribuito al caso. È certo però e tuo quello e accade è il risultato di una legge; è un effeo di cause, e si sarebbe potuto predire in base alla conoscenza dell’esistenza di queste cause, e in base alle loro leggi. Il fao e io pesi una certa carta piuosto e un’altra, è la conseguenza del fao e quella carta occupava un certo posto nel mazzo. Il posto e la carta occupava nel mazzo è una conseguenza del modo in cui le carte erano state mescolate, o dell’ordine in cui le si era giocate nella mano precedente; e tue queste cose, a loro volta, sono effei di cause precedenti. Se avessimo avuto una conoscenza accurata delle cause esistenti in ogni stadio del giuoco ci sarebbe stato teoricamente possibile predire l’effeo. Un evento e accada per caso può essere descrio, in modo più appropriato, come una coincidenza dalla quale non abbiamo nessuna ragione per inferire una uniformità: come l’accadere di un fenomeno in certe circostanze, senza e abbiamo ragioni per inferire in base a ciò e accadrà di nuovo in quelle circostanze. Ma questo, se lo guardiamo più a fondo e più da vicino, implica e l’enumerazione delle circostanze non è completa. ale e sia il fao, se è accaduto una volta possiamo essere sicuri e, ripetendosi tutte le medesime circostanze, accadrà di nuovo. E accadrà di nuovo, non soltanto se si ripetono tue le circostanze, ma se c’è una porzione particolare di queste circostanze cui il fenomeno consegue invariabilmente. Con la maggior parte di tali circostanze il fao non è però connesso in maniera permanente: si dice e la sua connessione con queste circostanze è l’effeo del caso, è puramente casuale. Fai congiunti

casualmente sono, ciascuno per conto proprio, l’effeo di cause e perciò di leggi, ma sono gli effei di cause differenti, e di cause non connesse da nessuna legge. È dunque scorreo il dire e un certo fenomeno si produce per caso: ma possiamo dire e due o più fenomeni sono congiunti per caso, e coesistono o si succedono l’un l’altro soltanto per caso, intendendo con ciò e non sono affao collegati causalmente, e non sono né causa ed effeo, né effei della medesima causa; né, ancora, effei di cause tra le quali sussista una qualsiasi legge di coesistenza, e neppure effei della medesima collocazione di cause primordiali. Se una medesima coincidenza casuale non ricorresse mai una seconda volta saremmo in possesso di un facile criterio per distinguere una coincidenza di questo genere dalle coincidenze e sono risultati di una legge. Fin quando i fenomeni sono stati trovati insieme soltanto una volta, fino ad allora, a meno e non conosciamo quale legge più generale da cui potrebbe essere risultata la coincidenza, non potremmo distinguerla da una coincidenza casuale; ma se ricorresse due volte, dovremmo sapere e i fenomeni così congiunti devono essere connessi in quale modo araverso le loro cause. Comunque un Criterio del genere non esiste. Una coincidenza può ricorrere più e più volte e tuavia essere soltanto casuale. Anzi, sarebbe in contraddizione con quanto sappiamo dell’ordine della natura il dubitare e ogni coincidenza casuale si ripeterà presto o tardi, fin quando i fenomeni tra i quali è accaduta non cessano di esistere o di riprodursi. Pertanto, il fao e la medesima coincidenza ricorra più d’una volta, o addiriura il fao e ricorra frequentemente, non prova e si traa dell’esemplificazione di una legge: non prova e la coincidenza non è casuale o, per usare il linguaggio comune, e non è l’effeo del caso. E tuavia, quando una coincidenza non si può dedurre da leggi note, o non si può provare e è essa stessa un caso di causazione, la frequenza con cui si presenta è la sola prova da cui possiamo inferire e si traa del risultato di una legge. Non, però, la sua frequenza assoluta. La questione non è: se la coincidenza si presenti spesso o raramente, nel senso ordinario di questi termini, ma se si presenti più volte di quanto il caso non possa render conto; più spesso, cioè, di quanto ci si potrebbe ragionevolmente aspeare se la coincidenza fosse casuale. Dobbiamo perciò decidere quale sia il grado di frequenza di una coincidenza di cui è il caso a render conto. E a questa

questione non è possibile dare una risposta generale. Non possiamo far altro e enunciare il principio da cui dev’essere determinata la risposta: la risposta stessa sarà differente in ciascun caso differente. Supponiamo e uno dei fenomeni, A, esista sempre, e e l’altro fenomeno, B, esista soltanto occasionalmente: segue e ogni caso particolare di B sarà un caso particolare della sua coincidenza con A, e tuavia la coincidenza sarà puramente casuale e non sarà il risultato di una qualsiasi connessione tra A e B. Le stelle fisse sono esistite costantemente fin dagli albori dell’esperienza dell’uomo, e in ogni singolo caso tui i fenomeni e sono caduti soo l’osservazione umana sono coesistiti con esse; tuavia questa coincidenza, e pure è tanto invariabile quanto quella e si incontra tra uno qualsiasi di questi fenomeni e la sua causa, non prova e le stelle sono la causa di quel fenomeno, e neppure e sono in quale modo connesse con esso. Perciò il caso più forte di coincidenza e possa esistere (e e dal punto di vista della pura e semplice frequenza è addiriura molto più forte della maggior parte di quelli e provano l’esistenza di una legge) non prova, qui, l’esistenza di una legge. Peré? Peré, dal momento e sono sempre esistite, le stelle non possono non coesistere con ogni fenomeno, sia o no connesso ad esse per causazione. L’uniformità, per grande e sia, non è maggiore di quanto sarebbe se si supponesse e non esista nessuna connessione del genere. D’altra parte, supponiamo di star indagando se tra la pioggia e un qualsiasi vento particolare ci sia una connessione qualsiasi. Sappiamo e la pioggia si accompagna occasionalmente con qualsiasi vento: perciò questa connessione, se esiste, non può essere una legge vera e propria. Tuavia, la pioggia potrebbe essere connessa causalmente con quale vento particolare. Cioè: pur non potendo sempre essere effei della medesima causa (peré se così fosse coesisterebbero regolarmente) potrebbe darsi e ci fosse quale causa comune ad entrambi, cosicé, nella misura in cui l’uno o l’altro dei due è prodoo da questa causa comune, si troverà e i due fenomeni coesistono per le leggi di quelle cause. Ma allora come faremo ad accertarlo? La risposta ovvia è: osservando se la pioggia cade più frequentemente con un certo vento e non con un certo altro. esto però non basta: può darsi infai e un certo vento soffi con maggior frequenza e non un certo altro, cosicé quando il tempo è piovoso soffia né più né meno di quanto non soffi di solito, pur non essendoci nessuna connessione tra il soffiare del vento e le

cause della pioggia, e puré il soffiare del vento non sia connesso con cause contrarie alla pioggia. In Inghilterra il vento da occidente soffia per una parte dell’anno e è circa doppia della parte durante la quale soffia il vento da oriente. Perciò, se con il vento occidentale piove soltanto due volte di più di quanto non piova con un vento orientale, non abbiamo nessuna ragione per inferire e in questa coincidenza è implicata una legge di natura. Se piovesse più di due volte tanto, potremmo essere sicuri e è implicata quale legge: o in natura c’è quale causa e in questo clima tende a produrre sia la pioggia sia un vento occidentale, oppure un certo vento occidentale ha di per sé una quale tendenza a produrre pioggia. Ma se piove due volte di meno possiamo tirare un’inferenza direamente opposta: invece di essere una causa, o di essere connesso con alcune cause della pioggia, il vento occidentale dev’essere connesso con quale causa contraria alla pioggia, o con l’assenza di una quale causa e produce pioggia; e ane se può ancor darsi e piova più spesso quando soffia un vento occidentale e non quando soffia un vento da oriente, la cosa sarebbe cosí lontana dal provare l’esistenza di una connessione tra i due fenomeni, e la connessione di cui risulta provata l’esistenza sarebbe una connessione tra la pioggia e quel vento da oriente, col quale la pioggia è meno collegata dal punto di vista della pura e semplice frequenza delle coincidenze. i, dunque, ci sono due esempi: nel primo, la massima frequenza possibile di coincidenza senza nessun caso contrario non prova l’esistenza di una legge; nel secondo, una frequenza di coincidenza molto minore, prova e una legge esiste, ane quando la non-coincidenza è ancor più frequente. In entrambi i casi il principio è il medesimo. In entrambi i casi prendiamo in considerazione la frequenza positiva dei fenomeni stessi, e quanto frequente sia la coincidenza e deve produrre di per se stessa, senza supporre e tra i fenomeni ci sia una quale connessione, e puré tra di essi non ci sia incompatibilità: puré nessuno dei due fenomeni sia connesso con una causa e tende ad annullare l’altro. Nel primo caso concludiamo e in certe circostanze uno dei fenomeni può causare l’altro o e esiste qualcosa e è capace di causarli entrambi; nel secondo concludiamo e uno dei fenomeni, o quale causa e produce uno dei fenomeni, è capace di contrastare il prodursi dell’altro. Dalla frequenza osservata della coincidenza dobbiamo così sorarre tuo ciò e potrebbe essere effeo del caso, cioè della pura e semplice frequenza dei fenomeni stessi; e se rimane qualcosa,

quello e alla fine rimane è il fao residuo e prova l’esistenza di una legge. La frequenza dei fenomeni può essere accertata soltanto entro limiti ben definiti di spazio e di tempo, dipendendo, come dipende, dalla quantità e dalla distribuzione degli agenti naturali primordiali di cui non possiamo sapere nulla al di là dei limiti dell’osservazione umana, dal momento e in essa non è possibile rintracciare nessuna legge, nessuna regolarità e ci mea in grado di inferire l’ignoto dal noto. Ma per lo scopo e ci proponiamo aualmente, la cosa non è affao svantaggiosa, dal momento e la questione è confinata entro gli stessi limiti in cui sono confinati i dati. Le coincidenze si sono verificate in certi luoghi e in certi istanti, e nell’ambito di questi luoghi e di questi istanti possiamo stimare la frequenza con cui tali coincidenze sarebbero state prodoe dal caso. Dunque, se in base all’osservazione troviamo e A esiste in un caso su due, e B in un caso su tre, allora, se tra A e B o se tra una qualsiasi delle loro cause non c’è né connessione né incompatibilità, i casi in cui esisteranno sia A sia B — cioè a dire in casi in cui coesisteranno A e B — saranno uno su sei. Infai A esiste in tre casi su sei, mentre B, e esiste in un caso su tre indipendentemente dalla presenza o dall’assenza di A, esisterà in un caso su tre di quei casi. Del numero totale dei casi ce ne saranno perciò due in cui A esiste senza B, uno in cui B esiste senza A, due in cui non esistono né A né B e un caso su sei di cui A e B esistono entrambi. Dunque, se in linea di fao si trova e coesistono più spesso e in un caso su sei, e di conseguenza se due volte sa tre A non esiste senza B, e una volta su tre B non esiste senza A, allora esiste quale causa e tende a produrre una congiunzione tra A e B. Generalizzando il risultato, possiamo dire e se A accade in una proporzione dei casi in cui c’è B, maggiore della proporzione dei casi in cui B non c’è, B accadrà in una proporzione dei casi in cui c’è A, più grande della proporzione dei casi in cui A non c’è, e e tra A e B c’è quale connessione causale. Se potessimo risalire alle cause dei due fenomeni troveremmo, a quale stadio prossimo o remoto, quale causa, o più d’una causa, comune a entrambi; e se potessimo accertare quali siano queste cause, potremmo costruire una generalizzazione e sarebbe vera senza alcuna restrizione di tempo o di luogo; ma finé non possiamo farlo, il fao e ci sia una connessione tra i due fenomeni rimane una legge empirica.

3. Avendo considerato in qual maniera si possa stabilire se una qualsiasi congiunzione data di due fenomeni sia casuale, o sia il risultato di una quale legge, per completare la teoria del caso è necessario prendere ora in considerazione quegli effei e sono in parte il risultato del caso e in parte il risultato di una legge, o, in altre parole, quegli effei in cui gli effei delle congiunzioni casuali delle cause sono abitualmente mescolati in un solo risultato con gli effei di una causa costante. esto è un caso di composizione delle cause: e la sua particolarità è e invece di due o più cause e mescolano i loro effei in maniera più o meno regolare, abbiamo ora una causa costante, e produce un effeo e viene modificato successivamente da una serie di cause variabili. Così, come l’estate avanza, l’avvicinarsi del Sole a una posizione verticale tende a produrre un costante aumento di temperatura, ma con quest’effeo di una causa costante sono mescolati gli effei di molte cause variabili, quali venti, nuvole, evaporazione, agenti elerici e cose del genere, cosicé la temperatura di un qualsiasi giorno dato dipende in parte da queste cause variabili e soltanto in parte dalla causa costante. Se l’effeo della causa costante è sempre accompagnato e camuffato dagli effei delle cause variabili, sarà impossibile accertare la legge della causa costante nel modo in cui la si accerta ordinariamente: sarà cioè impossibile accertarla separandola da tue le altre cause e osservandola separatamente. Di qui prende origine la necessità di aggiungere una regola della ricerca sperimentale. ando è possibile e l’agire di una causa A soffra interferenze, non in maniera costante e duratura da parte della medesima causa e delle medesime cause, ma da parte di cause differenti in tempi differenti, e quando queste cause sono così frequenti o così indeterminate e per quanto le facciamo variare non possiamo in alcun modo escluderle tue da un esperimento, la sola risorsa di cui disponiamo consiste nel provarci ad accertare quale sia l’effeo di tue le cause variabili prese insieme. A questo scopo dobbiamo fare il maggior numero possibile di tentativi, mantenendo invariata A. Il risultato di questi differenti tentativi sarà naturalmente differente, dal momento e le cause modificanti indeterminate saranno differenti in ciascun tentativo. Dunque, se non troviamo e questi risultati sono progressivi, ma, al contrario, oscillano intorno a un certo punto — cosicé un esperimento darà un risultato un poco maggiore, un altro un risultato un po’ minore; uno un risultato e tende un po’ di più in una certa direzione, un altro un risultato e tende un po’ di più nella direzione

contraria, mentre la media, ossia il punto mediano non varia, ma insiemi differenti di esperimenti (compiuti nella maggior varietà possibile di circostanze), puré siano sufficientemente numerosi, dànno luogo alla stessa media — allora questa media, o risultato medio, rappresenta la parte e in ciascun esperimento è dovuta alla causa A, ed è l’effeo e si sarebbe oenuto se A avesse potuto agire da sola. Il resto variabile è l’effeo del caso, cioè delle cause la cui coesistenza con la causa A era puramente casuale. In questo caso il criterio della sufficienza dell’induzione è dato dal fao e aumentando a piacere il numero dei tentativi da cui si ricava la media non si àltera in modo significante la media stessa. esta specie di eliminazione, in cui non eliminiamo una causa determinata, ma eliminiamo la gran quantità delle cause variabili non determinabili, può essere iamato l’«eliminazione del caso». Abbiamo un esempio di tale eliminazione quando ripetiamo un esperimento allo scopo di sbarazzarci degli effei degli errori inevitabili di ciascun esperimento singolo, prendendo la media dei differenti risultati. ando non c’è nessuna causa permanente, tale e produca una tendenza all’errore in una direzione in particolare, l’esperienza ci autorizza ad assumere e in un certo numero di esperimenti gli errori da una certa parte bilanceranno praticamente gli errori dalla parte contraria. Per questo ripetiamo l’esperimento fin quando un qualsiasi cambiamento prodoosi nella media della totalità degli esperimenti in seguito a ripetizioni successive, non cadrà entro margini d’errore compatibili col grado di accuratezza riiesta dallo scopo e ci proponiamob. 4. Nell’ipotesi e si è faa fino a questo punto, abbiamo assunto e l’effeo della causa costante, A, costituisca una parte così grande e cospicua del risultato generale, e la sua esistenza non possa mai essere oggeo d’incertezza, mentre lo scopo del processo di eliminazione era soltanto quello di accertare quanto si debba aribuire alla causa: quale sia la sua legge esaa. Si dànno però casi in cui l’effeo di una causa costante è così piccolo a paragone con quello di alcune cause mutevoli con cui è probabile e sia connesso casualmente, e di per se stesso sfugge all’aenzione, e la stessa esistenza di un effeo e prende origine da una causa costante si apprende, la prima volta, da un processo e in generale serve soltanto per accertare la quantità di quell’effeo. esto caso d’induzione può essere

caraerizzato nel modo e segue. Si sa e un dato effeo è principalmente — ma non si sa e è in tuo e per tuo — determinato da cause mutevoli. Supponendo e sia prodoo in tuo e per tuo da cause mutevoli, allora, se prendiamo l’aggregato di un numero sufficiente di casi particolari, gli effei di queste cause differenti si annulleranno vicendevolmente. Se perciò non troviamo e questo accade, ma, al contrario, dopo aver compiuto un numero di tentativi tale e nessun aumento ulteriore àlteri il risultato medio, troviamo e la media aritmetica non è zero, ma quale altra quantità intorno alla quale nondimeno l’effeo oscilla (per quanto piccola essa sia in confronto con l’effeo totale) e e costituisce il punto mediano della sua oscillazione, possiamo concludere e quest’effeo è l’effeo di quale causa costante. E questa causa possiamo sperare di dedurla facendo uso dell’uno o dell’altro dei metodi di cui abbiamo già traato. esta può essere iamata la scoperta di un fenomeno residuo mediante l’eliminazione degli effetti del caso. In questa maniera, ad esempio, possiamo scoprire e i dadi sono truccati. Naturalmente nessun dado è truccato in modo così maldestro e tui i lanci debbano necessariamente dare lo stesso numero, altrimenti la frode sarebbe scoperta sull’istante. La truccatura, e è una causa costante, si misia con certe cause mutevoli e determinano quale numero risulterà in ciascun lancio singolo. Se i dadi non fossero truccati, e si lasciasse e il numero oenuto a ciascun lancio dipendesse interamente dalle cause mutevoli, dato un numero sufficiente di lanci queste cause si equilibrerebbero vicendevolmente, e nessun numero di lanci, di nessuna specie, prevarrebbe sugli altri. Perciò, se dopo un numero di tentativi tale e nessun aumento ulteriore, per quanto grande, del loro numero ha un effeo rilevante sulla media aritmetica, troviamo una preponderanza in favore di un lancio particolare, possiamo concludere con sicurezza e c’è quale causa costante e agisce in favore di quel lancio, o, in altre parole, e i dadi sono truccati; e possiamo ane trovare l’esao ammontare della loro slealtà. In maniera simile, fu scoperta quella e viene iamata la variazione diurna del barometro — e è molto piccola a confronto con le variazioni e hanno origine dai cambiamenti irregolari nello stato dell’atmosfera: fu scoperta cioè confrontando l’altezza media della colonna del barometro in ore differenti della giornata. ando si fece questo confronto, si trovò e esisteva una piccola differenza, e, per quanto potessero variare le quantità assolute era in media costante, e e perciò questa differenza doveva essere

l’effeo di una causa costante. In seguito si accertò deduivamente e questa causa è la rarefazione dell’aria, occasionata dall’aumento di temperatura proporzionale all’avanzare del giorno. 5. Dopo queste osservazioni generali sulla natura del caso, siamo pronti a prendere in considerazione in qual maniera sia possibile oenere la sicurezza e una congiunzione di due fenomeni — congiunzione e è stata osservata un certo numero di volte — non è casuale, ma è il risultato di causazione, e deve perciò essere acceata come una delle uniformità della natura, sia pure (finé non se ne sia dato conto a priori) soltanto come legge empirica. Supporremo e si dia il caso più forte: cioè, e il fenomeno B non sia mai stato osservato se non in congiunzione con A. Ane in questo caso la probabilità e A e B siano connessi non è misurata dal numero totale dei casi in cui A e B sono stati trovati insieme, ma dall’eccedenza di quel numero rispeo al numero dovuto alla frequenza assoluta di A. Ad esempio, se A esiste sempre (e perciò coesiste con tuo) nessun numero di esempi della sua coesistenza con B sarebbe sufficiente a provare l’esistenza di una connessione, come nel nostro esempio delle stelle fisse. Se A è un fao e accade così comunemente e si può presumere e sia presente nella metà di tui i casi e accadono, e perciò nella metà dei casi in cui accade B, solo l’eccedenza relativa rispeo alla metà dev’essere considerata come una prova dell’esistenza di una connessione tra A e B. Oltre alla questione: «al è il numero di coincidenze e ci si può aspeare e sorgano soltanto dal caso su una media costituita di una gran moltitudine di tentativi?», c’è ane un’altra questione, cioè: «Di quale ampiezza dev’essere la deviazione da quella media, peré sia credibile e sorga soltanto dal caso, in un certo numero di casi più piccolo del numero riiesto per raggiungere una buona media?». Non si deve soltanto prendere in considerazione quale sia il risultato generale del caso a lungo andare, ma ane quali siano i limiti estremi della variazione dal risultato generale e occasionalmente possiamo aenderci come risultato di quale numero più piccolo di esempi. La considerazione di quest’ultima questione, e qualsiasi considerazione della questione precedente e vada al di là di quella e già ne abbiamo

dato, appartiene a quella e i matematici iamano la dorina del caso, o, per usare una frase e ha maggiori pretese, la teoria della probabilità. a.

V. sopra, Libro III, cap. X, par. 2. b. Nella discussione e precede si parla della media [mean] come se fosse la stessa cosa della media aritmetica [average]. Ma per gli scopi della ricerca induiva la media non è la media aritmetica, ane se in un’illustrazione popolare della teoria la differenza può essere trascurata. Se le deviazioni da una parte della media aritmetica sono molto più numerose delle deviazioni dall’altra parte (queste ultime essendo più grandi, ma di numero minore), l’effeo dovuto alla causa invariabile — in quanto distinta dalle cause variabili — non coinciderà con la media aritmetica, ma si troverà al di soo o al di sopra della media aritmetica, quale e sia la parte dalla quale si trova il numero di casi maggiore. Ciò segue da una verità, accertata sia induivamente sia deduivamente, secondo cui le piccole deviazioni dal vero punto centrale sono di gran lunga più frequenti e le grandi deviazioni. La legge matematica suona così: «La determinazione più probabile di uno o di più elementi invariabili dall’osservazione, è quella in cui la somma dei quadrati delle aberrazioni individuali», o deviazioni, «sarà la più piccola possibile». Si veda la formulazione di questo principio, e la spiegazione popolare dei suoi fondamenti, nella recensione di Sir John Hersel al lavoro di etelet sulla probabilità. Tale recensione si trova in Essays, pp. 395 segg.

CAPITOLO XVIII. IL CALCOLO DELLE PROBABILITÀ 1. «La probabilità», dice Laplacea, «si riferisce in parte alla nostra ignoranza e in parte alla nostra conoscenza. Dati tre o più eventi, sappiamo e uno, e uno solo, deve necessariamente accadere; ma non c’è nulla e ci induca a credere e ne accadrà uno piuosto e un altro. In questo stato d’indecisione è impossibile per noi pronunciarci con certezza sul loro accadere. È comunque probabile e uno qualsiasi di questi eventi, scelto a piacere, non accadrà, peré siamo a conoscenza di pareci casi tui egualmente possibili e escludono il suo accadere, mentre ne conosciamo soltanto uno e lo favorisce. La teoria del caso consiste nel ridurre tui gli eventi della stessa specie a un certo numero di casi egualmente possibili, cioè tali e siamo egualmente indecisi circa la loro esistenza, e nel determinare il numero dei casi e sono favorevoli all’evento di cui si cerca la probabilità. Il rapporto di quel numero col numero di tui i casi possibili è la misura della probabilità. La probabilità è dunque una frazione e ha per numeratore il numero dei casi favorevoli all’evento e per denominatore il numero di tui i casi possibili». Secondo Laplace, dunque, due cose sono necessarie al calcolo del caso: dati pareci eventi dobbiamo sapere e ne accadrà certamente uno e non più d’uno, e non dobbiamo sapere — e non avere nessuna ragione d’aspearci — e si traerà di uno degli eventi piuosto e di un altro. Si è sostenuto e questi non sono i soli requisiti, e e nell’enunciazione teorica generale Laplace ha trascurato una parte necessaria dei fondamenti della teoria del caso. Per essere in grado (si è deo) di diiarare e due eventi sono egualmente probabili, non è sufficiente sapere e dovrà necessariamente accadere l’uno o l’altro dei due, senza avere alcun fondamento per congeurare quale. L’esperienza deve aver mostrato e i due eventi accadono con eguale frequenza. Peré, quando geiamo per aria un soldino, prevediamo e è egualmente probabile e verrà testa quanto e verrà croce? Peré sappiamo e dato un qualsiasi numero di lanci grande a piacere, testa e croce risultano con frequenza praticamente eguale, e e quanto maggiore sarà il numero di volte e lanciamo il soldino, tanto più questa frequenza si avvicinerà a un’eguaglianza perfea. Se vogliamo,

possiamo venirlo a sapere facendo effeivamente l’esperimento; oppure grazie all’esperienza quotidiana, e la vita ci fornisce, di eventi e hanno il medesimo caraere generale; oppure ancora, deduivamente, dall’effeo delle leggi della meccanica su un corpo simmetrico su cui agiscano forze la cui quantità e la cui direzione variano indefinitamente. In breve, possiamo venirlo a sapere, o per mezzo di un’esperienza specifica, o per mezzo delle prove forniteci dalla nostra conoscenza generale della natura. Ma, in un modo o nell’altro, dobbiamo per forza saperlo, se vogliamo essere giustificati quando diciamo e i due eventi sono egualmente probabili; e se non lo sapessimo procederemmo in modo egualmente azzardato, sia e puntassimo somme eguali sul risultato, sia e scommeessimo sulla maggiore probabilità e si verifii un risultato piuosto dell’altro. esto punto di vista sull’argomento era stato assunto nella prima edizione di questo libro: ma da allora mi sono convinto e la teoria della probabilità, così come è stata concepita da Laplace e dai matematici in generale, non soffre della fallacia fondamentale e io le avevo aribuito. Non dobbiamo dimenticare e la probabilità di un evento non è una qualità dell’evento in se stesso, ma un puro e semplice nome per il grado di fondatezza e noi, o qualcun altro, abbiamo per aspearci l’evento stesso. La probabilità di un evento è, per una certa persona, una cosa diversa da quello e è la probabilità del medesimo evento per un’altra persona, o per la stessa persona, dopo e ha raccolto prove in più. Per me la probabilità e un individuo, di cui non conosco nient’altro e il nome, muoia entro l’anno, cambia completamente, se il minuto successivo mi dicono e quell’uomo si trova all’ultimo stadio della consunzione. Tuavia questo non fa alcuna differenza per l’evento in se stesso, né la fa per le cause da cui l’evento dipende. Ogni evento è in se stesso certo, non probabile: se sapessimo tuo, o sapremmo positivamente e l’evento accadrà, o sapremmo positivamente e non accadrà. Ma la probabilità dell’evento per noi non significa altro e il grado di aesa del suo accadere, grado di aesa e le prove di cui siamo in possesso al momento ci autorizzano ad avere. Tenendo questo a mente, io penso e si debba ammeere e ane quando non abbiamo affao nessuna conoscenza e guidi le nostre aese, ecceuata la conoscenza e quello e accade dev’essere una tra un certo numero di possibilità, possiamo ancora ragionevolmente giudicare e una supposizione è più probabile per noi di quanto non lo sia un’altra

supposizione; e se abbiamo quale interesse in ballo, provvederemo ad esso nel migliore dei modi se agiremo in conformità con quel giudizio. 2. Supponiamo e ci iedano di estrarre una palla da una scatola di cui sappiamo soltanto e contiene palle biane e palle nere, e nessuna palla di altro colore. Sappiamo e la palla e sceglieremo sarà o una palla nera o una palla bianca, ma non abbiamo nessuna ragione per aspearci una palla nera piuosto e una palla bianca, o una palla bianca piuosto e una palla nera. In questo caso, se siamo obbligati a fare una scelta e a scommeere qualcosa sull’una o sull’altra supposizione, dal punto di vista della prudenza sarà perfeamente indifferente su quale palla scommeiamo, ed agiremo precisamente nel modo in cui avremmo agito se avessimo saputo in anticipo e la scatola conteneva un numero eguale di palle biane e di palle nere. Ma pur essendo la stessa, la nostra condoa non sarebbe fondata sopra nessuna congeura circa il fao e le palle siano davvero suddivise in modo eguale. Al contrario, potremmo sapere grazie a un’informazione autentica e la scatola contiene novantanove palle di un colore e solo una palla dell’altro colore; ma se non ci dicono quale colore ha quella sola palla e quale colore hanno le altre novantanove, l’estrazione di una palla bianca sarà per noi tanto probabile quanto l’estrazione di una palla nera. Non avremo nessuna ragione per puntare qualcosa su un evento piuosto e sull’altro: l’opzione tra i due eventi sarà una questione di indifferenza; in altre parole, avremo chances eguali. Ma supponiamo ora e invece di due colori ce ne siano tre: bianco nero e rosso, e e noi ignoriamo completamente la proporzione secondo la quale sono misiati. Allora non avremmo nessuna ragione per aspearci un colore piuosto e l’altro e se fossimo obbligati a scommeere azzarderemmo la nostra puntata con eguale indifferenza su rosso, bianco o nero. Ma saremmo indifferenti se dovessimo scommeere pro o contro un solo colore, per esempio, pro o contro il bianco? Sicuramente no. Proprio per il fao e per noi nero e rosso, ciascuno preso separatamente, sono tanto probabili quanto lo è il bianco, i due colori presi insieme devono essere due volte più probabili. In questo caso dovremmo aspearci non-bianco piuosto e bianco, e ce l’aspeeremo tanto più, e scommeeremo due a uno contro il bianco. È vero e per quanto ne sappiamo potrebbero esserci più palle biane e palle nere e rosse prese insieme, e e in questo caso se ne sapessimo di più, vedremmo e la nostra scommessa è stata svantaggiosa.

Ma è ane vero e per quanto ne sappiamo potrebbero esserci più palle rosse e palle nere e biane, o più palle nere e palle rosse e biane, e in questo caso il sovrappiù di conoscenza ci proverebbe e la nostra scommessa era più vantaggiosa di quanto non supponessimo. Allo stato auale della nostra conoscenza c’è una ragionevole probabilità di due a uno contro il bianco, e questa probabilità è tale e possiamo farne la base della nostra condoa. Nessuna persona ragionevole scommeerebbe alla pari in favore del bianco, contro rosso e nero, pur potendo scommeere contro il nero da solo o contro il rosso da solo senza commeere imprudenze. Perciò, la teoria comune del calcolo delle probabilità sembra sostenibile. Ane se non conosciamo nulla più e il numero delle contingenze possibili e reciprocamente escludentisi, e siamo completamente all’oscuro circa il numero della loro frequenza relativa, può darsi e abbiamo ragioni — e ragioni numericamente apprezzabili — per agire in base a una supposizione piuosto e in base a un’altra. E questo è il significato di «probabilità». 3. Tuavia, il principio sul quale procede il ragionamento è sufficientemente evidente. È il principio ovvio, secondo cui quando i casi esistenti sono divisi tra parecie specie, è impossibile e ciascuna di queste specie abbia la maggioranza su tue le altre; al contrario, dev’esserci una maggioranza su ciascuna specie, ecceuata al massimo una; e se l’una o l’altra di queste specie ha più di quanto le spei in proporzione al numero totale, le altre, prese colleivamente, devono avere di meno. Ammesso quest’assioma, e supponendo di non avere nessuna ragione per scegliere una specie piuosto e le altre come quella e ha maggiori probabilità di superare la proporzione media, segue e non possiamo ragionevolmente presumere e questo accada di una specie particolare, cosa e invece faremmo se dovessimo scommeere in suo favore; ma in questo caso avremmo un numero di probabilità favorevoli minore di quello e avremmo scommeendo sulla maggioranza numerica delle altre specie. Perciò, ane in questo caso estremo del calcolo delle probabilità e non riposa affao su un’esperienza speciale, il fondamento logico del processo è la nostra conoscenza: la conoscenza e abbiamo, in quel momento, delle leggi e governano la frequenza con cui i differenti casi avvengono. Ma in questo caso la conoscenza è limitata a ciò e, essendo universale ed assiomatico, non riiede e si faccia riferimento all’esperienza specifica, o

a una quale considerazione e tragga origine dalla natura speciale del problema e stiamo discutendo. Comunque, se si ecceuano quei giuoi d’azzardo in cui lo stesso scopo e ci si propone esige ignoranza invece di conoscenza, non posso concepire nessun caso in cui dovremmo essere soddisfai di una stima delle probabilità come questa, cioè di una stima fondata sull’assoluto minimum di conoscenza relativa all’oggeo. È ovvio e nel caso delle palle colorate basterebbe la sia pur minima congeura sul fao e le palle biane siano davvero più numerose delle palle rosse o delle palle nere a viziare tui quanti i calcoli e abbiamo fao nel nostro precedente stato di indifferenza. Tale congeura ci meerebbe in quella posizione di conoscenza più avanzata in cui le probabilità per noi sarebbero differenti da quello e erano prima, e nello stimare queste probabilità dovremmo procedere in base a un insieme completamente differente di dati, forniti non più dal puro e semplice computo delle supposizioni possibili, ma dalla conoscenza specifica dei fai. esti dati dovremmo sempre sforzarci di oenerli; e a meno e non si trai di ricere su oggei e stanno egualmente al di là della portata dei nostri mezzi di conoscenza e dei nostri usi pratici possono essere oenuti in tue le ricere, se non in modo esauriente almeno per quel tanto e è meglio e nienteb. È ane ovvio e, ane quando le probabilità sono state derivate dall’osservazione e dall’esperimento, un leggerissimo miglioramento nei dati — miglioramento oenuto in séguito a osservazioni migliori o all’aver preso in considerazione più completa le circostanze speciali del caso —è più utile e non le più elaborate applicazioni del calcolo a probabilità fondate sui dati meno completi di cui disponevamo in precedenza. L’aver trascurato queste riflessioni peraltro così ovvie ha dato origine a quelle caive applicazioni del calcolo della probabilità e ne hanno fao l’autentico obbrobrio della matematica. È sufficiente far riferimento alle applicazioni del calcolo al problema della credibilità dei testimoni e della correezza del verdeo delle giurie. Per quanto riguarda il primo problema, basterebbe il senso comune ad ammonire e è impossibile oenere una media aritmetica generale della veracità, ed altre proprietà caraeristie della testimonianza veridica, per l’umanità o per una qualsiasi classe di uomini; ed ane se la cosa fosse possibile, l’impiego di tale media per uno scopo del genere implica un fraintendimento dell’uso delle medie. este infai, servono bensì a proteggere coloro il cui interesse è in ballo contro il pericolo di valutare

erroneamente il risultato di grandi masse di casi, ma hanno un valore estremamente piccolo come fondamenti dell’aesa in un qualsiasi caso individuale, a meno e non si trai di uno di quei casi in cui la grande maggioranza degli esempi individuali non differisce di molto dalla media. Nel caso di un testimonio, le persone dotate di senso comune trarrebbero le loro conclusioni dal grado di coerenza interna delle sue asserzioni, dalla sua condoa durante il controinterrogatorio e della relazione e il caso stesso ha con i suoi interessi, le sue parzialità e la sua capacità mentale, invece di applicare un sistema di valutazione così rozzo (dato e non concesso e possa essere verificato) quale il rapporto tra il numero di asserzioni vere e quello di asserzioni erronee e si suppone possa aver fao nel corso della sua vita. Ancora, per quanto riguarda l’argomento delle giurie o di altri tribunali, alcuni matematici hanno preso le mosse dalla proposizione e il giudizio di un singolo giudice o di un singolo giurato qualsiasi ha, per quanto in grado non molto elevato, maggiori probabilità di essere giusto e di essere ingiusto, e hanno concluso e la probabilità e un certo numero di persone concorrano a formulare un verdeo ingiusto diminuisce col crescere del numero delle persone. Così basta rendere sufficientemente numerosi i giudici peré la correezza del giudizio possa essere ridoa quasi alla certezza. Taccio della mancanza di considerazione mostrata verso l’effeo e l’aumento del numero dei giudici produrrebbe sulla loro posizione morale; della virtuale distruzione delle loro responsabilità individuali, e di quanto indebolita risulterebbe l’applicazione delle loro menti all’argomento. Mi limito a far osservare come sia fallace il ragionare da una media larga a casi e di necessità differiscono grandemente da ogni media. Forse sarà vero e, considerando tue le cause gli uni insieme con gli altri, l’opinione di uno qualsiasi dei giudici sarebbe giusta più spesso di quanto non sarebbe ingiusta; ma l’argomentazione trascura e in tui i casi tranne e nei più semplici — in tui i casi, cioè, in cui ha davvero grande importanza il modo in cui il tribunale è costituito — la proposizione potrebbe probabilmente essere invertita. Oltre a ciò, se la causa d’errore (sia e tragga la sua origine dall’intricatezza del caso, sia e tragga origine da quale pregiudizio comune o da quale infermità mentale) agisse su un solo giudice, potrebbe con estrema probabilità colpire tui gli altri, o almeno la maggioranza degli altri nella stessa maniera, rendendo in tal modo una decisione ingiusta più

probabile di una decisione giusta, e ciò quanto più il numero dei giudici è stato aumentato. esti sono soltanto alcuni esempi degli errori commessi molto frequentemente da uomini i quali, essendosi familiarizzati con le difficili formule fornite dall’algebra per la stima delle probabilità, soo ipotesi complesse, preferiscono impiegare queste formule per calcolare quali sono le probabilità di una persona informata a mezzo intorno a un caso, e non andare alla ricerca degli strumenti per oenere informazioni migliori. Prima di applicare la dorina della probabilità a un qualsiasi scopo scientifico, è necessario geare le fondamenta per una valutazione dei casi entrando in possesso della massima quantità di conoscenza positiva e possiamo oenere. La conoscenza riiesta è quella della frequenza relativa con cui i differenti eventi accadono nel fao. Perciò, per gli scopi di questo lavoro è lecito supporre e le conclusioni riguardanti la probabilità di un fao di una specie particolare riposino sulla conoscenza da parte nostra della proporzione tra i casi in cui i fai di quella specie avvengono e quelli in cui invece tali fai non avvengono: questa conoscenza o sarà derivata da esperimenti specifici o sarà dedoa dalla nostra conoscenza delle cause operanti e tendono a produrre il fao in questione, confrontate con quelle e invece tendono ad impedirlo. esto calcolo delle probabilità è fondato sopra un’induzione, e peré il calcolo sia legiimo l’induzione dev’essere un’induzione valida. Si traa pur sempre di un’induzione, ane se non prova e l’evento accade in tui i casi di una specie determinata, ma prova soltanto e dato un certo numero di tali casi l’evento accade in circa tanti casi. La frazione con cui i matematici sono soliti designare la probabilità di un evento è il rapporto tra questi due numeri; la proporzione accertata tra il numero di casi in cui l’evento accade, e la somma di tui i casi, quelli in cui accade e quelli in cui non accade, presi insieme. Nel giuoco della testa e croce, la specie di casi in questione è rappresentata dai lanci, e la probabilità di croce è di un mezzo, peré se geiamo in aria la moneta per un numero sufficiente di volte oeniamo croce circa una volta ogni due lanci. Nel caso del lancio di undado, la probabilità di un uno è di un sesto: non semplicemente peré ci sono sei possibili risultati di un lancio e l’uno è uno di questi risultati e peré non conosciamo nessuna ragione per cui debba venire un numero piuosto e un altro (ane se ho ammesso la validità di questa ragione in mancanza di una migliore); ma peré sappiamo di fao, in base al ragionamento o in

base all’esperienza, e in un centinaio o in un milione di lanci, l’uno uscirà in un sesto del numero dei lanci, ossia una volta su sei. 4. Dico «o in base al ragionamento o in base all’esperienza», e intendo l’esperienza specifica. Ma nello stimare le probabilità non è affao indifferente da quale di queste due fonti deriviamo la nostra sicurezza. La probabilità degli eventi, calcolata in base alla loro pura e semplice frequenza nell’esperienza passata, fornisce una base meno solida per la guida pratica di quanto non la forniscano le probabilità di quegli eventi in quanto dedoe da una conoscenza egualmente accurata dalla frequenza con cui le loro cause ricorrono. La generalizzazione, e un evento accade in dieci su cento casi di una specie ben determinata, è un’induzione tanto autentica quanto lo sarebbe la generalizzazione e l’evento accade in tui i casi. Ma quando arriviamo alla conclusione limitandoci semplicemente a contare i casi dati nell’esperienza effeiva e a confrontare il numero dei casi in cui A è stato presente con il numero in cui è stato assente, le prove su cui facciamo conto sono solo quelle forniteci dal metodo della concordanza, e la conclusione equivale soltanto a una legge empirica. ando possiamo risalire alle cause dalle quali dipende l’accadere o il non accadere di A possiamo fare un passo al di là di questa conclusione e possiamo formare una stima della frequenza relativa delle cause favorevoli e di quelle sfavorevoli all’accadere dell’evento. esti sono dati di ordine superiore, dai quali risulterà o correa o confermata la legge empirica derivata da un puro e semplice confronto tra i casi affermativi e i casi negativi; e in entrambi i casi oerremo una misura della probabilità più correa di quella e ci è data da quel confronto numerico. È stato giustamente osservato e nella specie di esempi per mezzo dei quali si è soliti illustrare la dorina della probabilità — l’esempio delle palle contenute in una scatola — la stima delle probabilità è sostenuta da ragioni di causazione più forti dell’esperienza specifica. «Per quale ragione, da una scatola dove ci sono nove palle nere e una bianca ci aspeiamo di estrarre una palla nera nove volte tanto (in altre parole, nove volte di più, dal momento e la frequenza è l’indice dell’intensità della nostra aspeativa) di quanto estraiamo una palla bianca? Ovviamente, peré le condizioni locali sono nove volte più favorevoli, peré la mano può soffermarsi in nove posti e trovare una palla nera, mentre può soffermarsi solo in un posto in cui troverà una palla bianca; esaamente per

la stessa ragione per cui non ci aspeiamo di riuscire a trovare un amico in una folla, le condizioni alle quali possiamo incontrarci essendo molte e difficili a realizzarsi. Naturalmente, la cosa non varrebbe nella stessa misura se le palle biane fossero di dimensioni minori delle palle nere, né la probabilità rimarrebbe la stessa: la palla più grande avrebbe una probabilità maggiore di incontrare la mano»c. In realtà, è evidente e una volta e si sia ammessa la causazione come legge universale, la nostra aspeativa degli eventi può essere ragionevolmente fondata soltanto su quella legge. Per una persona e riconosca e ogni evento dipende da cause, il fao e una cosa sia accaduta una volta costituisce una ragione per aspearsi e accada altre volte, soltanto peré prova e esiste, o può esistere, una causa adeguata a produrlad. Lasciando da parte tue le congeure riguardanti la sua causa, la frequenza di quell’evento particolare non può dare origine a nessun’altra induzione e non sia l’induzione per enumerationem simplicem, e le inferenze precarie derivate da tale induzione sono rese superflue, e scompaiono dalla scena, non appena vi abbia fao la sua comparsa il principio di causazione. Tuavia, nonostante la superiorità astraa posseduta da una stima della probabilità e sia fondata sulle cause, è un fao e in quasi tui i casi in cui le chances ammeono una stima sufficientemente precisa da conferire un quale valore pratico alla loro valutazione numerica, i dati numerici non sono trai dalla conoscenza delle cause, ma dall’esperienza degli eventi stessi. Le probabilità della durata della vita ad età differenti, o in climi differenti; le probabilità di guarigione da una particolare malaia, le chances e nasca una prole masile o una prole femminile; le chances e una casa o una proprietà vengano distrue dal fuoco, le chances di perdita di una nave in un particolare viaggio, vengono dedoe dai resoconti della mortalità, del ritorno dagli ospedali, dai registri della nascita, dei naufragi e via discorrendo: cioè dalla frequenza osservata, non delle cause, ma degli effei. La ragione di questo è e in tue queste classi di fai, le cause o non sono affao riconducibili all’osservazione direa o non vi sono riconducibili con la precisione riiesta, e noi non abbiamo alcun mezzo per giudicare la loro frequenza, ecceo e in base alla legge empirica fornita dalla frequenza degli effei. Nondimeno la differenza dipende dalla sola causazione. Ragioniamo da un effeo a un effeo simile passando araverso

la causa. Se il direore di una compagnia di assicurazioni inferisce dalle sue tavole e su cento persone di una certa età particolare, aualmente viventi, una media di cinque raggiungerà l’età di seant’anni, la sua inferenza è legiima, non per la semplice ragione e questa è la proporzione di coloro e nel passato sono vissuti fino a seant’anni, ma peré il fao e siano vissuti fino a quell’età mostra e questa è la proporzione esistente, in quel luogo e in quel tempo, tra le cause e prolungano la vita fino all’età di seant’anni e le cause e tendono a farle raggiungere una fine più precocee. 5. Dai princìpi e precedono è facile dedurre la dimostrazione di quel teorema della dorina della probabilità e costituisce il fondamento dell’applicazione di tale dorina alle ricere e hanno per scopo l’accertamento dell’accadere di un determinato evento o la realtà di un fao singolo. I segni, o le testimonianze, e di solito provano un fao sono alcune tra le conseguenze di quel principio: e l’indagine è connessa principalmente con la determinazione della causa le cui probabilità di aver prodoo un determinato effeo sono maggiori. Il teorema applicabile a queste ricere è il sesto principio dell’Essai philosophique sur les Probabilités di Laplace, principio e è descrio dal suo autore come il «principio fondamentale di quella branca dell’analisi del caso, e consiste nel risalire dagli eventi alle loro cause»f. Dato un effeo di cui rendere conto, ed essendoci molte cause e potrebbero averlo prodoo, ma della cui presenza in quel caso particolare non si sa nulla, la probabilità e l’effeo sia stato prodoo da una qualsiasi di queste cause è la probabilità antecedente della causa, moltiplicata per la probabilità che la causa, se esistesse, avrebbe di produrre quel dato effetto. Sia M l’effeo e A, B due cause, l’una o l’altra delle quali avrebbe potuto produrre l’effeo in questione. Per trovare la probabilità e l’effeo ha di essere prodoo dall’una causa e non dall’altra, si accerti quale delle due è più probabile e sia esistita, e quale delle due, se è esistita, avrebbe la probabilità maggiore di produrre l’effeo M: la probabilità cercata è un composto di queste due probabilità. CASO I. Siano entrambe le cause eguali per il secondo aspeo: e si supponga e sia A sia B abbiano probabilità eguali di produrre M (o sia egualmente certo e lo producono): ma supponiamo e A, di per se stessa, abbia una probabilità di esistere due volte maggiore della probabilità e ha

B,

cioè sia un fenomeno due volte più frequente. Allora è due volte più probabile e A sia esistita in questo caso, e sia perciò stata la causa e ha prodoo M. Infai, dal momento e A esiste in natura due volte più spesso di quanto non esista B, dati 300 casi in cui è esistita l’una o l’altra, A è esistita 200 volte e B 100. Ma ogni qual volta si produce M dev’essere esistita o A o B: perciò, su 300 volte e si è prodoo M, A è stata 200 volte la causa e l’ha prodoo, B lo è stata soltanto 100; cioè, A è stata la causa di M nella ragione di 2 a 1. Così, dunque, se le cause sono simili quanto alla loro capacità di produrre l’effeo, la probabilità relativa a quale delle due cause l’abbia effeivamente prodoo è il rapporto tra le due probabilità antecedenti delle cause. CASO II. Invertendo l’ultima ipotesi, supponiamo e le cause siano egualmente frequenti, e e sia egualmente probabile e siano esistite, ma e non sia egualmente probabile, se sono davvero esistite, e abbiano prodoo M: e su tre volte in cui ricorre, A produca quell’effeo due volte, mentre B lo produca solo una volta su tre. Poié la ricorrenza delle due cause è egualmente frequente, su sei volte e ne esiste una o ne esiste l’altra, A esiste tre volte e tre volte esiste B. Su queste tre volte, A produce M due volte; sulle sue tre volte, B lo produce una volta. Di conseguenza, su tue e sei le volte, M viene prodoo solo tre volte, ma su quelle tre volte è prodoo due volte da A e solo una volta da B. Pertanto, quando le probabilità antecedenti delle cause sono eguali, le probabilità e l’effeo sia stato prodoo da esse sono in ragione delle probabilità e le cause avrebbero di produrre l’effeo, se esistessero. CASO III. Il terzo caso, quello in cui le cause sono dissimili per entrambi gli aspei, è risolto dai due casi e l’hanno preceduto. Infai, quando una quantità dipende da due altre quantità in maniera tale e, mentre l’una o l’altra delle due rimane costante, è proporzionale all’altra, la quantità deve necessariamente essere proporzionale al prodoo delle due quantità, questo prodoo essendo la sola funzione delle due e obbedisce a quella legge di variazione. Pertanto, la probabilità e M sia stato prodoo dall’una o dall’altra delle due cause è la probabilità antecedente della causa, moltiplicata per la probabilità e avrebbe di produrre M, se esistesse. Come volevasi dimostrare.

Oppure possiamo provare il terzo caso come abbiamo provato il primo e il secondo. Sia A due volte più frequente di B, e sia ane diversamente probabile e, quando esistono, A e B producano M: A lo produca due volte su quaro, B, tre volte su quaro. La probabilità antecedente di A sta a quella di B come 2 sta a 1; le probabilità e A e B producano M stanno tra loro come 2 sta a 3; il prodoo dei loro rapporti è il rapporto di 4 a 3, e questo sarà il rapporto delle probabilità e A o B siano la causa e ha prodoo l’effeo nell’esempio dato. Infai, dal momento e A è due volte più frequente di B, su dodici casi in cui esistono l’una o l’altra delle due cause, A esiste in 8 e B in 4. Ma su questi oo casi, A, per ipotesi, produce M soltanto in 4, mentre sui suoi quaro casi B produce M in 3. Pertanto M viene prodoo soltanto in see dei dodici casi, ma in quaro di essi viene prodoo da A, in tre da B; quindi, le probabilità e sia prodoo da A e le probabilità e sia prodoo da B stanno tra loro come 4 a 3, e sono espresse dalle frazioni 4/7 e 3/7. Come volevasi dimostrare. 6. Resta da esaminare la portata della dorina della probabilità sul problema particolare e ci ha tenuti occupati nel capitolo precedente, cioè sul problema: come distinguere le coincidenze e sono casuali dalle coincidenze e sono il risultato di una legge; dalle coincidenze in cui i fai e si accompagnano o si susseguono l’un l’altro sono in quale modo connessi causalmente. La dorina del caso mee a nostra disposizione mezzi grazie ai quali, se conoscessimo il numero medio delle coincidenze e si devono cercare tra due fenomeni connessi soltanto casualmente, potremmo determinare la frequenza con cui una qualsiasi deviazione da quella media avrà luogo per caso. Se la probabilità di una qualsiasi coincidenza casuale, considerata in se stessa, è 1/m, la probabilità e la stessa coincidenza si ripeta n volte in successione sarà 1/mn. Ad esempio, poié la probabilità di oenere un uno con un solo lancio di un dado è di 1/6, la probabilità di oenere un uno due volte in successione sarà 1 diviso per il quadrato di 6, cioè sarà 1/36. Infai, si oiene l’uno al primo lancio, una volta su sei, o sei volte su trentasei, e su quelle sei volte geando di nuovo il dado l’uno si oerrà una volta sola: tuo insieme farà una volta su trentasei. Con un ragionamento simile si vede e la probabilità di oenere tre volte successivamente lo stesso

numero è 1/63, cioè, 1/216. In altre parole, in una larga media aritmetica l’evento accadrà soltanto una volta su duecentosedici lanci. Abbiamo dunque una regola per mezzo della quale stimare la probabilità e una qualsiasi serie data di coincidenze abbia origine per caso, puré possiamo misurare correamente la probabilità di una coincidenza singola. Se possiamo oenere un’espressione egualmente precisa per la probabilità e la stessa serie di coincidenze sorga causalmente, non dovremmo far altro e confrontare i numeri. La cosa però può essere faa soltanto di rado. Vediamo quale sia il grado di approssimazione alla precisione necessaria, e possiamo raggiungere in pratica. La questione rientra nell’àmbito del sesto principio di Laplace, e abbiamo appena dimostrato. Il fao dato, cioè a dire la serie delle coincidenze, può aver avuto la sua origine o da una congiunzione casuale di cause o da una legge di natura. Pertanto, le probabilità e il fao si sia originato in questi due modi sono le loro probabilità antecedenti moltiplicate per le probabilità e avrebbero avuto di produrre l’effeo, se fossero esistiti. Ma la combinazione particolare di accidenti, se si fosse presentata, o la legge della natura, se fosse reale, produrrebbero certamente la serie di coincidenze. Pertanto, le probabilità e le coincidenze siano prodoe dalle due cause in questione sono tante quante sono le probabilità antecedenti delle cause. Una di queste, la probabilità antecedente della combinazione di puri e semplici casi accidentali e produrrebbero il risultato dato, è una quantità numericamente apprezzabile. La probabilità antecedente dell’altra supposizione può essere susceibile di una stima più o meno esaa, secondo la natura del caso. In alcuni casi, la coincidenza, supposto e sia il risultato di causazione, dev’essere il risultato di una causa nota, così come la successione degli uno, se non è accidentale, deve nascere dal fao e il dado è stato truccato. In casi del genere possiamo forse essere in grado di formare una congeura a proposito della probabilità antecedente di una tale circostanza, basandoci sul caraere delle parti interessate, o su altre prove di questo genere, ma sarebbe impossibile stimare la probabilità con qualcosa e somigli alla precisione numerica. Tuavia, siccome la probabilità contraria — la probabilità cioè dell’origine accidentale della coincidenza — diminuisce così rapidamente ad ogni nuovo tentativo, si raggiunge ben presto lo stadio in cui la probabilità e il dado sia truccato, per quanto sia di per se stessa piccola, dev’essere maggiore della probabilità di una concidenza casuale; e su questa base, se c’è

la possibilità di ripetere l’esperimento, si può generalmente arrivare a una decisione pratica senza troppa esitazione. Comunque, quando la coincidenza è tale e non se ne può dare ragione ricorrendo a quale causa nota e la connessione tra i due fenomeni, se prodoa per causazione, dev’essere il risultato di quale legge fino a questo momento ignota (e questo è il caso e abbiamo preso in considerazione nel capitolo precedente), allora, ane se la probabilità di una coincidenza casuale può essere apprezzata numericamente, la probabilità della supposizione contraria — cioè, della supposizione dell’esistenza di una legge di natura non ancora scoperta — non è iaramente susceibile neppure di una valutazione approssimativa. Allo scopo di venire in possesso dei dati e un caso del genere riiede, sarebbe necessario sapere quale proporzione di tue le sequenze o di tue le coesistenze individuali e hanno luogo in natura siano il risultato di una legge e quale proporzione invece siano pure e semplici coincidenze casuali. È evidente e non possiamo formare nessuna congeura plausibile a proposito di questa proporzione, e tanto meno apprezzarla numericamente: non possiamo perciò tentare nessuna stima precisa delle probabilità relative. Ma di una cosa siamo sicuri: e il cogliere una legge naturale sconosciuta — una quale costanza nella congiunzione tra i fenomeni, e prima non avevamo riconosciuto — non è affao un evento fuori del comune. Perciò, se il numero di casi in cui viene osservata una coincidenza, al di sopra e al di là di quella e sorgerebbe in media dal puro e semplice concorso di accidenti, è tale e una quantità così grande di coincidenze puramente accidentali sarebbe un evento estremamente fuori dal comune, abbiamo buone ragioni per concludere e la concidenza è l’effeo della causazione e può essere considerata (pur essendo sooposta a correzioni in base a ulteriori esperienze) come una legge empirica. Più in là di così in fao di precisione non possiamo andare, e nella maggior parte dei casi non si riiede neppure una precisione maggiore per la risoluzione di un dubbio praticog. 5a ed., Parigi, p. 7. b. A me sembra addiriura e il calcolo delle probabilità, quando non ci siano dati fondati o su un’esperienza speciale o su un’inferenza speciale, debba fallire, nella stragrande maggioranza dei casi, per la pura impossibilità di individuare un qualsiasi principio e ci guidi nel compilare l’elenco delle possibilità. Nel caso delle palle colorate non abbiamo nessuna difficoltà nel fare l’enumerazione, peré siamo noi stessi a determinare quali saranno le possibilità. Ma supponiamo un caso e presenti maggiori analogie con quelli e accadono in natura. Invece di tre colori supponiamo e nella scatola ci siano tui i colori possibili: supponiamo di ignorare la frequenza relativa con cui i a. Essai philosophique sur les Probabilités,

diversi colori si trovano in natura, o nelle produzioni dell’arte. Come dobbiamo fare la lista? Ogni singola sfumatura di colore dev’essere considerata come un colore? Se è così, il criterio dev’essere quello di un ocio comune o quello di un ocio addestrato? Per esempio dell’ocio di un piore? Dalla risposta a queste domande dipenderà se le chances contrarie a quale colore particolare debbano essere stimate a dieci, venti, o magari a cinquecento contro uno. Invece, se sapessimo dall’esperienza e quel colore particolare ricorre una volta, o una media d’un certo numero di volte, su cento o mille volte, non avremmo bisogno di conoscere nulla né della frequenza né del numero delle altre possibilità. c. «Prospective Review», febbraio 1850. d. «Se le cose non stanno così, allora, peré ci rendiamo conto e il primo caso aggiunge una probabilità tanto maggiore di quanta non glie ne aggiunga qualsiasi caso singolo successivo? Peré, se non per il fao e il primo caso ci dà la sua stessa possibilità (una causa adeguata) mentre ogni altro caso ci dà solo la frequenza delle sue condizioni? Se si supponesse di non far nessun riferimento a una causa, la possibilità non avrebbe alcun significato; tuavia è iaro e, prima e accadesse, avremmo potuto supporre e l’evento fosse impossibile; cioè, avremmo potuto credere e al mondo non esistesse davvero nessun’energia capace di produrlo… Dopo la prima volta e è accaduto — e e perciò è più importante per l’intiera probabilità di quanto non lo sia qualsiasi altro caso singolo (peré ne prova la possibilità) — il numero di volte in cui accade diventa importante come un indice dell’intensità o dell’estensione della causa, e della sua indipendenza da qualsiasi istante particolare. Se prendessimo il caso di un magnifico salto in alto, per esempio, e desiderassimo formare una stima della probabilità e riesca per un certo numero di volte, il primo caso sarebbe della massima importanza peré ne mostra la possibilità (prima dubbia), ma ogni salto successivo mostra e il potere di compierlo è controllato in modo più perfeo, maggiore e maggiormente invariabile, e così ne accresce la probabilità. E in questo caso nessuno mai penserebbe di ragionare direamente da un caso al caso successivo, senza fare riferimento all’energia fisica di cui ciascun salto è l’indice. Allora, non è forse iaro e non concludiamo mai» (diciamo piuosto e non concludiamo mai quando la nostra conoscenza si trova a uno stadio di notevole progresso) «direamente dal fao e un evento sia accaduto alla probabilità e accada di nuovo, ma e facciamo riferimento alla causa, considerando i casi passati come un’indicazione della causa, e la causa come la nostra guida al futuro?». «Perspective Review», gennaio 1850. e. L’autore e abbiamo citato nella nota precedente dice e la valutazione della probabilità, faa confrontando il numero di casi in cui l’evento avviene con il numero dei casi in cui non avviene, «sarebbe, in generale, completamente erronea» e «non sarebbe la vera teoria della probabilità». Si traa, almeno, della teoria e costituisce il fondamento delle assicurazioni e di tui quei calcoli sulle probabilità e si fanno nelle faccende della vita, e e l’esperienza verifica così abbondantemente. La ragione data dal recensore per il suo rifiuto della teoria è e tale teoria «considererebbe come certo un evento e finora non ha mai mancato di accadere, e la cosa è estremamente lontana dalla realtà, ane per un numero molto alto di successi costanti». Si traa però di un difeo, non già di una teoria particolare, ma di ogni teoria del caso. Nessun principio di valutazione può rendere conto di un caso come quello e il recensore suppone. Se un evento non ha mai mancato di accadere, neppure per una volta in un numero di tentativi sufficiente a eliminare il caso, allora possiede davvero tua la certezza e può essere fornita da una legge empirica: è certo fin quando continua ad esistere la medesima collocazione di cause e era esistita durante le osservazioni. Se mai manca di accadere, questo accade in conseguenza di quale cambiamento nella collocazione. Ora, nessuna teoria del caso ci meerà in grado di inferire la probabilità futura di un evento partendo dalla sua probabilità passata, se le cause all’opera, capaci di influenzare l’evento, sono nel fraempo state sooposte a un cambiamento. f. pp. 18 e 19. Il teorema non è stato formulato da Laplace negli esai termini nei quali l’ho formulato io; ma l’identità di significato dei due modi di esprimerlo è facilmente dimostrabile.

g.

Per un traamento più completo delle molte e interessanti questioni sollevate dalla teoria della probabilità, posso ora rimandare a un’opera recente del signor Venn1, fellow del Caius College di Cambridge, intitolata The Logic of Chance [La logica del caso]. Si traa di uno dei traati più densi di pensiero e di maggior valore filosofico su qualsiasi argomento connesso con la logica e con le prove e da molti anni siano comparsi in questo o in qualsiasi altro Paese. Alcune critie contenute in questo traato mi sono state molto utili durante la revisione dei capitoli corrispondenti di questo libro. Tuavia, non concordo con molte opinioni del signor Venn. ali siano queste opinioni sarà ovvio a qualsiasi leore dell’opera del signor Venn, e sia ane leore di questa. 1. John Venn (1834-1923), logico, uomo di leere ed ecclesiastico inglese; abbandonò la carriera religiosa nel 1883 per dedicarsi all’insegnamento e alla ricerca. In logica seguì le orme di A. De Morgan e di George Boole, nella cui algebra della logica introdusse parecie semplificazioni, ma fu ane fortemente influenzato dalla Logic di J. S. Mill. Le sue opere logie principali sono: Logic of Chance [Logica del caso] (1866), in cui si riprendono le tesi di Boole sulla natura logica del calcolo delle probabilità; Symbolic Logic [Logica simbolica] (1881), in cui viene perfezionato l’algoritmo booleano; The Principles of Empirical Logic [I princìpi della logica empirica] (1889), e rappresenta il tentativo di fondere i princìpi della logica di Mill con la logica algebrica. esti tre traati ebbero larga diffusione in Gran Bretagna. Venn introdusse in logica i diagrammi, e portano il suo nome, per rappresentare graficamente le relazioni tra le proposizioni. Egli fu ane uno storico aento e scrupoloso dell’università di Cambridge e scrisse parecie opere sull’argomento.

CAPITOLO XIX. L’ESTENSIONE DELLE LEGGI DERIVATE AI CASI CONTIGUI 1. Abbiamo più volte avuto occasione di far osservare e la generalità delle leggi derivate è inferiore, a confronto con quella delle leggi fondamentali dalle quali sono derivate. est’inferiorità, e influenza non soltanto la portata delle proposizioni in se stesse ma ane il grado di certezza e hanno nell’ambito di quella portata, è più e mai evidente nelle uniformità di coesistenza e di successione e vigono tra due effei e dipendono in ultima analisi da cause primordiali differenti. Tali uniformità vigeranno soltanto dove esista la medesima collocazione di queste cause primordiali. Se la collocazione varia, ma le leggi di per se stesse rimangono le medesime, il risultato può essere (e in generale sarà) un insieme totalmente differente di uniformità derivate. Ane quando vige tra due effei differenti della medesima causa, l’uniformità derivata non vigerà affao universalmente come la legge della causa stessa. Se a e b si accompagnano o si succedono l’uno all’altro, come effei della causa A, non segue affao e A sia la sola causa e li possa produrre o e, se ci fosse un’altra causa come B, capace di produrre a, questa causa debba produrre ane b. Forse, dunque, la congiunzione di a e b non vale universalmente, ma soltanto nei casi in cui a prende origine da A. ando a è prodoo da una causa e non sia A, a e b possono essere disgiunti. Per esempio, stando alla nostra esperienza il giorno è sempre seguito dalla noe, ma non è la causa della noe; giorno e noe sono effei successivi di una causa comune: il passaggio periodico dello speatore dentro e fuori l’ombra della Terra, passaggio conseguente alla rotazione della Terra e alle proprietà illuminanti del Sole. Perciò, se mai venisse prodoo da una causa o da un insieme di cause differenti da questa, il giorno non sarà — o almeno potrà non essere — seguìto dalla noe. esto può accadere, per esempio, sulla superficie del Sole. Infine, ane quando è essa stessa una legge di causazione (e risulta dalla combinazione di parecie cause), l’uniformità derivata non è completamente indipendente dalle collocazioni. Se sopravviene una causa capace di contrastare del tuo o in parte l’effeo di una qualsiasi delle cause

congiunte, l’effeo non sarà più conforme alle leggi derivate. Perciò, mentre ciascuna legge fondamentale è soggea ad essere annullata soltanto da un insieme di cause contrastanti, la legge derivata è soggea ad essere annullata da parecie di tali insiemi. Ora la possibilità e si presentino cause contrastanti e non si originano da nessuna delle condizioni implicate nella legge stessa dipende dalle collocazioni originarie. Come abbiamo fao precedentemente osservare, è vero e nella maggior parte dei casi le leggi di causazione, fondamentali o derivate e siano, sono soddisfae ane quando vengano contrastate: la causa produce il suo effeo, ane se poi quest’effeo viene distruo da qualcos’altro. Che l’effeo possa essere annullato, non costituisce perciò un’obiezione all’universalità delle leggi di causazione, ma è fatale all’universalità delle sequenze o delle coesistenze di effei e compongono la maggior parte delle leggi derivate e discendono da leggi di causazione. ando dalla legge di una certa combinazione di cause risulta un certo ordine negli effei — come dalla combinazione di un unico sole con la rotazione di un corpo opaco intorno al proprio asse risulta un alternarsi di giorno e di noe sull’intiera superficie di quel corpo opaco — allora, supponendo e una delle cause combinate venisse contrastata (cessasse la rotazione, il sole si spegnesse, o gli si aggiungesse un secondo sole) la verità di quella particolare legge di causazione non ne risulterebbe affea in alcun modo: sarebbe ancora vero e un unico sole e brilla su un corpo rotante opaco produce alternativamente il giorno e la noe; ma siccome il sole non brilla più su quel corpo, l’uniformità derivata (la successione di giorno e noe sul pianeta dato) non è più vera. Perciò, quelle uniformità derivate e non sono leggi di causazione, sono (tranne e nel caso peraltro raro in cui dipendano da una causa sola e non da una combinazione di cause) sempre più o meno dipendenti da collocazioni. Sono perciò soggee al difeo caraeristico delle leggi empirie: quello di essere ammissibili soltanto dove si sappia per esperienza e le collocazioni sono tali quali è indispensabile e siano peré la legge sia vera; cioè, soltanto entro le condizioni di tempo e di luogo confermate dall’osservazione effeiva. 2. Enunciato in termini generali, questo principio sembra iaro e inoppugnabile: tuavia, molti giudizi ordinari degli uomini — giudizi la cui correezza non viene mai messa in questione — hanno almeno l’apparenza di essere incompatibili con esso. In base a quali ragioni, possiamo iedere,

ci aspeiamo e domani il Sole sorgerà? Il domani è al di là dei limiti delle nostre osservazioni. este si sono estese per più di un migliaio d’anni nel passato, ma non comprendono il futuro. Tuavia inferiamo fiduciosamente e domani il Sole sorgerà, e nessuno dubita e abbiamo il dirio di farlo. Consideriamo qual è la garanzia su cui riposa questa fiducia. Nell’esempio in questione, conosciamo le cause dalle quali dipende l’uniformità derivata. Sono: il fao e il Sole emee luce, il fao e la Terra si trova in istato di rotazione e intercea la luce. L’induzione e mostra e queste sono le cause reali, e non puramente e semplicemente effei precedenti di una causa comune e completa: di conseguenza, le unie circostanze e potrebbero rendere nulla la legge derivata sono quelle e distruggerebbero, o contrasterebbero, l’una o l’altra delle cause combinate. Fintanto e le cause esistono e non vengono contrastate, l’effeo continuerà. Se domani continueranno ad esistere, e non saranno contrastate, domani il Sole sorgerà. Dal momento e le cause — cioè, il Sole e la Terra, l’uno e si trova nello stato di emissione di luce, l’altra nello stato di rotazione — esisteranno finé qualcosa non le distrugga, tuo dipende dalle probabilità e hanno di essere distrue o di essere contrastate. Dall’osservazione (e lasciando da parte le prove, oenute per inferenza, di un’esistenza e dura da migliaia di epoe) sappiamo e questi fenomeni sono continuati ad esistere per, diciamo, cinquemila anni. Per tuo questo tempo non è esistita nessuna causa sufficiente a diminuirle in maniera apprezzabile, così come non è esistita nessuna causa e abbia contrastato il loro effeo in misura apprezzabile. Pertanto, la probabilità e il Sole possa sorgere domani equivale alla probabilità e domani esista quale causa (e per cinquemila anni non si è manifestata neane in minimo grado) così intensa da distruggere il Sole o la Terra, la luce del Sole o la rotazione della Terra, o da produrre un’immensa perturbazione nell’effeo e risulta da queste cause. Ora, se una causa del genere esisterà domani, o in un qualsiasi istante futuro, deve esistere ora; e per tui quei cinquemila anni dev’essere esistita quale causa prossima o remota di quella causa. Perciò, se domani il Sole non sorgerà, questo accadrà peré è esistita quale causa i cui effei, pur essendo stati quantitativamente imperceibili per cinquemila anni, diventeranno preponderanti in un giorno solo. Dal momento e gli osservatori di stazione sulla nostra Terra non l’hanno riconosciuta per tuo

quest’intervallo di tempo, questa causa, se è un agente singolo, dev’essere un agente i cui effei si sviluppano gradualmente e molto lentamente, o un agente e è esistito in regioni e si trovano al di là dei limiti della nostra osservazione ed ora è sul punto di arrivare nella nostra parte dell’universo. Ora, tue le cause di cui abbiamo esperienza agiscono secondo leggi incompatibili con la supposizione e i loro effei, dopo essersi accumulati così lentamente da rimanere imperceibili per cinquemila anni, diventino immensi in un solo giorno. Nessuna legge matematica della proporzione tra un effeo e la quantità o le relazioni della sua causa potrebbe produrre risultati tanto contraddiori. Lo svilupparsi improvviso di un effeo di cui in precedenza non c’era traccia alcuna sorge sempre dal radunarsi di parecie cause distinte; ma se un tale congiungimento improvviso è destinato ad aver luogo, le sue cause, o le cause di queste cause, devono essere esistite per tui i cinquemila anni, e il fao e in tuo questo periodo non si siano radunate neppure una volta sola mostra quanto rara sia questa particolare combinazione. Abbiamo perciò la garanzia di una rigorosa induzione per considerare probabile, in un grado e non è distinguibile dalla certezza, e le note condizioni necessarie peré il Sole sorga, esisteranno ane domani. 3. Ma quest’estensione delle leggi derivate, non causali, oltre i limiti dell’osservazione, può solamente essere un’estensione ai casi contigui. Se invece di «domani» avessimo deo «ventimila anni da oggi», l’induzione sarebbe stata tu’altro e con cludente. Che una causa, e opponendosi a cause molto potenti, non abbia prodoo nessun effeo percepibile per cinquemila anni, debba produrne uno piuosto considerevole quando saranno trascorsi altri ventimila anni, non ha nulla e non sia conforme alla nostra esperienza delle cause. Conosciamo molti agenti il cui effeo in un breve periodo di tempo non equivale a una quantità percepibile, ma diventa considerevole accumulandosi per un periodo molto più lungo. Oltre a ciò, se guardiamo all’immensa moltitudine dei corpi celesti, alle loro enormi distanze, ed alla rapidità dei moti di quelli di cui sappiamo e si muovono, non è affao contraddiorio con l’esperienza supporre e verso noi possa muoversi quale corpo (o e noi possiamo muoverci verso di lui) entro i limiti della cui influenza non siamo entrati per cinquemila anni, ma e forse tra ventimila anni produrrà su di noi gli effei più straordinari. In altre parole: può darsi e il fao capace di impedire il sorgere del Sole sia, non già l’effeo cumulativo di una sola causa, ma quale nuova combinazione

di cause. E può darsi e le probabilità favorevoli a questa combinazione, pur non avendola prodoa una sola volta in cinquemila anni la producano però una volta in ventimila. Di conseguenza l’induzione e ci autorizza ad aspearci gli eventi futuri diventa sempre più debole quanto più lontano guardiamo nel futuro e, alla lunga, diventa priva di valore. Abbiamo considerato le probabilità e il Sole sorga domani come derivate dalle leggi vere e proprie, cioè dalle leggi delle cause dalle quali quest’uniformità dipende. Consideriamo ora in e modo le cose sarebbero andate se l’uniformità fosse stata conosciuta soltanto come legge empirica, se non fossimo stati consapevoli del fao e la luce del Sole e la rotazione della Terra (o il moto del Sole) sono le cause da cui dipende la ricorrenza periodica della luce del giorno. In questo caso avremmo potuto estendere questa legge empirica a casi contigui nel tempo, ma non a una distanza così grande come quella alla quale possiamo estenderla ora. Avendo le prove e gli effei sono rimasti inalterati e sono stati puntualmente congiunti per cinquemila anni, potremmo inferire e le cause ignote dalle quali dipende la congiunzione sono esistite, non sminuite e non contrastate, per il medesimo periodo. Perciò, seguirebbe la stessa conclusione e segue nel caso precedente, solo e ora sapremmo soltanto e per cinquemila anni non è accaduto niente e potesse rendere percepibilmente nullo, quest’effeo particolare. Invece quando conosciamo le cause, abbiamo in più la sicurezza e per tuo quell’intervallo, nelle cause stesse non è stato possibile osservare nessun cambiamento tale e moltiplicandone la lunghezza o la durata avrebbe potuto render nullo l’effeo. A questo si deve aggiungere e quando conosciamo le cause può darsi e siamo in grado di giudicare se esista una qualsiasi causa nota capace di contrastarle mentre, fintanto e le cause sono sconosciute, non possiamo essere sicuri e, se le conoscessimo, potremmo predire la loro distruzione da parte di cause effeivamente esistenti. Un selvaggio costreo a leo da quale malaia, e non abbia mai visto le cascate del Niagara, ma viva a portata d’orecio da esse, potrebbe immaginare e il rumore e sente durerà in eterno; ma se sapesse e si traa dell’effeo di una corrente impetuosa di acqua su una barriera di rocce e la corrente stessa sta consumando progressivamente, saprebbe e entro un certo numero di età — e può essere calcolato — il rumore non si sentirà più. anto maggiore, dunque, è la nostra ignoranza delle cause dalle quali dipende la legge empirica, tanto minore sarà la nostra sicurezza e la legge continuerà a

valere. E quanto più lontano guardiamo nel futuro, tanto meno improbabile è e una delle cause, la cui coesistenza dà origine all’uniformità derivata, possa essere distrua o contrastata. Man mano e si va in là nel tempo le probabilità di un tale evento si moltiplicano; vale a dire, il fao e quell’evento non sia accaduto finora diventa una garanzia sempre più debole del fao e non accadrà entro il tempo dato. Allora, se è vero e una qualsiasi legge derivata, non di causazione, può essere estesa con una sicurezza equivalente alla certezza soltanto ai casi e sono temporalmente contigui (o quasi contigui) a quelli e abbiamo di fao osservato, questo sarà tanto più vero di una legge puramente e semplicemente empirica. Fortunatamente, per gli scopi della vita, non abbiamo quasi mai l’occasione di estenderla ad altri casi e a questi. Dal punto di vista spaziale, potrebbe sembrare e una legge puramente e semplicemente empirica non possa essere estesa neppure ai casi contigui; e non abbiamo nessuna assicurazione e sia vera in un luogo in cui non sia stata specificamente osservata. La durata di una causa nel passato è una garanzia della sua esistenza futura, a meno e non accada qualcosa e la distrugge; ma l’esistenza di una causa in un solo luogo, o in un certo numero di luoghi, non costituisce affao una garanzia della sua esistenza in quale altro luogo, dal momento e nella collocazione delle cause primordiali non c’è uniformità. Pertanto, quando si estende una legge empirica oltre i limiti locali entro i quali è stata trovata vera in base all’osservazione, i casi ai quali è stata in tal modo estesa devono essere tali da trovarsi, presumibilmente, nel raggio d’influenza dei medesimi agenti individuali. Se scopriamo un nuovo pianeta all’interno dei limiti noti del sistema solare (o ane oltre questi limiti, puré riveli la propria connessione col sistema, rotando intorno al Sole) possiamo concludere, con grande probabilità, e questo pianeta ruota intorno al proprio asse. Infai tui i pianeti e conosciamo ruotano intorno al loro asse, e quest’uniformità è l’indizio dell’esistenza di quale causa comune, e precede le prime registrazioni delle osservazioni astronomie. E bené la natura di questa causa non possa essere altro e materia di congeura, tuavia se, come non è improbabile e sia e come suppone la teoria di Laplace, non è semplicemente la stessa specie di causa, ma è la stessa causa individuale (quale un impulso impresso contemporaneamente a tui i corpi) allora è probabile e questa causa agendo ai punti estremi dello spazio occupato dal Sole e dai pianeti abbia agito ane su tui i punti intermedi e probabilmente ane un po’ oltre

questi limiti a meno e non sia stata annullata da quale causa contrastante. Pertanto ha agito, con tua probabilità, sul supposto pianeta da poco scoperto. Perciò, quando certi effei e si trovano sempre congiunti, si possono far risalire con una quale probabilità a un’origine identica (e non semplicemente simile), possiamo, con la stessa probabilità, estendere la legge empirica della loro congiunzione a tui i luoghi e si trovano all’interno dei limiti spaziali estremi entro i quali è stato osservato il fao, ane se questa legge è soggea alla possibilità di cause contrastanti in quale parte del campo. Con confidenza ancor maggiore possiamo far ciò quando la legge non è puramente e semplicemente empirica; quando i fenomeni e troviamo congiunti sono effei di cause accertate dalle cui leggi è possibile dedurre la congiunzione dei loro effei. In questo caso possiamo estendere l’uniformità derivata a uno spazio più grande, e con una riduzione ancor minore della probabilità di cause contrastanti. Possiamo fare la prima cosa, peré invece dei limiti locali della nostra osservazione del fao stesso, possiamo includere i limiti estremi dell’influenza accertata delle sue cause. Così, la successione di giorno e noe vale, lo sappiamo, di tui i corpi del sistema solare ecceuato il Sole; ma questo lo sappiamo solo peré abbiamo una conoscenza direa delle cause: se non l’avessimo, non potremmo estendere la proposizione oltre le orbite della Terra e della Luna, alle estremità delle quali l’osservazione ci fornisce la prova direa della sua verità. Per quanto riguarda la probabilità di cause contrastanti abbiamo visto e questa implica una diminuzione della nostra confidenza, tanto maggiore quanto maggiore è la nostra ignoranza delle cause da cui il fenomeno dipende. Nell’uno e nell’altro caso, dunque, una legge derivata, e sappiamo come risolvere, è susceibile di un’estensione, ai casi spazialmente contigui, maggiore di quella di cui è susceibile una legge puramente e semplicemente empirica.

CAPITOLO XX. L’ANALOGIA 1. La parola «analogia», come nome per un modo di ragionare, si impiega generalmente per indicare una quale specie di ragionamento e si suppone abbia natura induiva, ma non equivalga a un’induzione completa. Comunque non c’è parola e sia usata in modo meno rigoroso, e in una maggiore varietà di sensi, della parola «analogia». Talvolta sta per ragionamenti e potrebbero essere presi come esempi dell’induzione più rigorosa. Ad esempio l’arcivescovo Whately, seguendo Ferguson1 ed altri autori, definisce l’analogia in conformità con l’accezione primitiva della parola, quella e le è stata data dai matematici: somiglianza di relazioni. In questo senso quando si iama «madre patria» un Paese e ha mandato coloni fuori del suo territorio metropolitano, si usa un’espressione analogica, e significa e le colonie di un Paese stanno con quel Paese nella medesima relazione in cui i figli stanno coi loro genitori. E se si trae un’inferenza da questa somiglianza di relazioni, come, ad esempio, quando si conclude e le colonie devono obbedienza ed affeo alla madre patria, questo si iama «ragionamento per analogia». Oppure quando dal fao generalmente ammesso e altre associazioni e si propongono uno scopo comune, quali le società per azioni, sono governate meglio da un comitato scelto dalle parti interessate, si conclude e una nazione è governata nel modo migliore da un’assemblea elea dal popolo, ane questo ragionamento è un ragionamento per analogia nel senso precedente, peré il suo fondamento non è e una nazione è come una società per azioni, o il parlamento come un comitato di direori, ma e il parlamento sta con la nazione nella medesima relazione in cui un comitato di direori sta con una società per azioni. Ora, quanto alla sua concludenza, un’argomentazione di questa natura non è intrinsecamente inferiore a nessun’altra. Come altri ragionamenti e prendono le mosse dalla somiglianza, può finire in niente, o può essere un’induzione perfea e concludente. Può darsi e sia possibile mostrare e la circostanza per la quale i due casi si somigliano è la circostanza veramente importante: quella da cui dipendono tue le conseguenze di cui è necessario tener conto in quella particolare discussione. Nell’ultimo esempio e abbiamo dato la somiglianza è una somiglianza di

relazioni: il fundamentum relationis è l’amministrazione, da parte di poe persone, di affari a cui, insieme con queste persone, è interessato un numero molto più grande di individui. Ora, qualcuno può sostenere e questa circostanza, e è comune ai due casi, e le varie conseguenze e discendono da essa, hanno la parte predominante nel determinare tui gli effei e costituiscono quella e iamiamo buona o caiva amministrazione. Se riescono a dimostrare questo punto, la loro argomentazione avrà tua la forza di un’induzione rigorosa; se non ci riescono, si dice e non sono riusciti a provare l’analogia tra i due casi. esto modo di dire implica e quando l’analogia può essere provata l’argomentazione fondata su di essa è irresistibile. 2. Tuo sommato, però, accade più comunemente e si estenda il nome di prova analogica ad argomentazioni e procedono da somiglianze di ogni genere, puré non equivalgano a un’induzione completa, e senza distinguere in modo particolare la somiglianza delle relazioni. In questo senso, il ragionamento analogico può essere ridoo alla formula seguente: Due cose si somigliano per uno o più aspei; una certa cosa è vera dell’una, quindi sarà vera ane dell’altra. Ma qui non abbiamo nulla in base a cui discriminare l’analogia dall’induzione, peré questo tipo di formula servirà per tui i ragionamenti e prendono le mosse dall’esperienza. Sia nell’induzione più rigorosa, sia nella più pallida analogia, dal fao e A somiglia a B in una o in più proprietà, concludiamo e A somiglia a B in una certa altra proprietà. La differenza consiste in questo: e nel caso di un’induzione completa si è prima mostrato, confrontando debitamente certi casi, e tra la prima proprietà (o le prime proprietà) e quest’ultima c’è una congiunzione invariabile, mentre in quello e si iama ragionamento analogico non si è riscontrata nessuna congiunzione del genere. Non ci sono state opportunità di meere in pratica il metodo della differenza, e neppure quello della concordanza; tuavia concludiamo (e l’argomentazione per analogia è tua qui) e un fao m, di cui si sa e è vero di A, è più probabilmente vero di B se B concorda con A in qualcuna delle sue proprietà (ane se non si conosce l’esistenza di nessuna connessione tra m e queste proprietà) di quanto non lo sarebbe se tra B e qualsiasi altra cosa di cui si sa e possiede l’aributo m non si potesse rintracciare nessuna somiglianza affao.

Naturalmente per quest’argomentazione sarà indispensabile semplicemente non sapere e le proprietà e A e B hanno in comune sono connesse con m; non devono essere proprietà di cui si sa e non sono connesse con m. Se mediante un processo di eliminazione o mediante una deduzione delle leggi delle proprietà in questione da conoscenze precedenti si può concludere e queste proprietà non hanno nulla da spartire con m, il ragionamento per analogia viene messo fuori causa. La supposizione dev’essere e m è un effeo e dipende realmente da quale proprietà di A, senza però e sappiamo da quale. Tra le proprietà di A non possiamo indicarne nessuna e sia la causa di m o sia unita con essa da quale legge. Dopo aver scartato tuo quello di cui sappiamo e non ha nulla da fare con A, ne rimangono parecie tra le quali non siamo in grado di decidere; di queste rimanenti proprietà, B ne possiede una o più. Di conseguenza considereremo questa proprietà come quella e fornisce ragioni più o meno forti per concludere, per analogia, e B possiede l’aributo m. Non può esserci dubbio e ogni somiglianza di questo genere, e possa essere messa in evidenza tra A e B, fornisce un quale grado di probabilità in più di quello e esisterebbe altrimenti, in favore della conclusione e ne abbiamo trao. Se B somigliasse ad A in tue le sue proprietà fondamentali, il fao e possegga l’aributo m sarebbe una certezza e non una probabilità: e ogni somiglianza, la cui esistenza si può mostrare tra B e A, lo avvicinerebbe sempre di più a quel punto. Se la somi glianza risiedesse in una proprietà fondamentale ci sarebbe somiglianza fra tue le proprietà derivate e dipendono da quella proprietà fondamentale, e di queste proprietà una può essere m. Se la somiglianza risiedesse in una proprietà derivata, ci sarebbe ragione per aspearci la somiglianza nella proprietà fondamentale da cui questa dipende e nelle altre proprietà derivate e dipendono dalla medesima proprietà fondamentale. Ogni somiglianza di cui si può mostrare l’esistenza ci fornisce quale ragione per aspearci un numero indefinito di altre somiglianze; pertanto la somiglianza particolare e ceriamo si troverà più spesso tra cose di cui siamo venuti a sapere, in questo modo, e si somigliano, e non tra cose tra le quali non sappiamo di alcuna somiglianza. Ad esempio, potrei inferire e probabilmente ci sono abitanti sulla Luna, peré ci sono abitanti sulla Terra, nel mare e nell’aria: e questa è una prova

per analogia. i la circostanza di essere abitato viene assunta non già come una proprietà fondamentale, ma (come è ragionevole supporre) come una conseguenza di altre proprietà; e nel caso della Terra viene assunta perciò come una proprietà e dipende da alcune delle proprietà della Terra in quanto parte dell’universo, ane se non sappiamo da quali. Ora, la Luna somiglia alla Terra in quanto è una sostanza solida, opaca, quasi sferica, e sembra contenga, o abbia contenuto, vulcani aivi; e riceve calore e luce dal Sole quasi nella stessa quantità in cui li riceve la nostra Terra; e ruota sul suo asse; e è composta di materiali e gravitano e obbediscono a tue le varie leggi risultanti da tale proprietà. E secondo me nessuno negherà e se questo fosse tuo quello e si conosce della Luna, l’esistenza di abitanti su questo corpo illuminato deriverebbe da queste sue varie somiglianze con la Terra un grado di probabilità maggiore di quanto non avrebbe altrimenti, ane se sarebbe inutile tentare di stimare di quanto più alto sarebbe questo grado. Ad ogni modo, se ogni somiglianza provata tra B e A in un qualsiasi punto di cui non si sa e è inessenziale rispeo a m, costituisce una quale ragione in più per presumere e B abbia l’aributo m, è iaro e contra e ogni dissimiglianza e si può provare tra di essi, fornisce una controprobabilità della medesima natura alla supposizione contraria. In realtà non è in solito e in alcuni casi particolari proprietà fondamentali differenti producano la medesima proprietà derivata; ma tuo sommato è certo e cose, e differiscono nelle loro proprietà fondamentali, differiranno almeno altreanto nell’aggregato delle loro proprietà derivate, e e nella media dei casi le differenze ignote saranno in quale misura proporzionali a quelle note. Di conseguenza ci sarà una competizione tra i punti sui quali si sa e A e B concordano e i punti sui quali si sa e differiscono; e secondo e si possa ritenere e prevalgono gli uni o gli altri, la probabilità derivata dall’analogia sarà favorevole al possesso da parte di B della proprietà m o contraria a tale possesso. Per esempio, la Luna concorda con la Terra per la circostanza e abbiamo già menzionato; ma ne differisce in quanto è più piccola, ha una superficie più diseguale e in apparenza di natura completamente vulcanica, e in quanto, almeno sulla faccia prospiciente la Terra, non ha un’atmosfera sufficiente a rifrangere la luce, non ha nuvole e (di qui si conclude) non ha acqua. Considerate puramente e semplicemente in se stesse, queste differenze potrebbero forse controbilanciare le

somiglianze, cosicé l’analogia non fornirebbe alcuna ragione per fare assunzioni in un senso o nell’altro. Ma se si considera e alcune di quelle circostanze e mancano sulla Luna sono tra quelle e, sulla Terra, si è trovato e sono condizioni indispensabili alla vita animale, possiamo concludere e se il fenomeno della vita esiste sulla Luna (o, in ogni caso, sulla faccia della Luna prospiciente la Terra) dovrà essere un effeo di cause totalmente differenti da quelle da cui dipende quaggiù; e e perciò esiste come una conseguenza delle differenze tra la Luna e la Terra, e non come una conseguenza dei loro punti di concordanza. Viste soo questa luce, tue le somiglianze esistenti diventano presunzioni, non già in favore, ma in sfavore dell’esistenza di abitanti della Luna. Dal momento e sulla Luna la vita non può esistere nello stesso modo in cui esiste qui, quanto maggiore sarà la somiglianza e il mondo lunare ha con il mondo terrestre soo altri aspei, tanto minore sarà il numero delle ragioni di cui disponiamo per credere e la Luna possa ospitare la vita. Comunque, nel nostro sistema ci sono altri corpi e presentano una somiglianza più strea con la Terra; e posseggono un’atmosfera, nuvole, e quindi acqua (o quale fluido analogo all’acqua) e addiriura presentano forti indicazioni dell’esistenza di neve nelle loro regioni polari, mentre il caldo o il freddo, pur differendo di molto, in media, dal caldo e dal freddo esistenti sulla Terra, non sono forse più estremi di quanto non lo siano in alcune regioni della Terra e pure sono abitabili. Le differenze accertate e controbilanciano questi motivi di concordanza si hanno soprauo nella illuminazione e nel calore medi, nella velocità media di rotazione, nella densità media del materiale di cui sono composti, nell’intensità media della gravità e in simili circostanze secondarie. Perciò, per quanto riguarda questi pianeti, l’argomentazione per analogia conferisce una preponderanza decisiva a favore della loro somiglianza con la Terra in ogni loro proprietà derivata, quale la proprietà di avere abitanti; tuavia, se consideriamo quanto incommensurabilmente alto, a confronto con le poe e conosciamo, sia il numero delle loro proprietà e ignoriamo completamente, vediamo e non possiamo aribuire e un peso insignificante a tue quelle considerazioni di somiglianza, in cui gli elementi noti sono così trascurabili in proporzione a quelli ignoti. Oltre alla competizione tra analogia e diversità, può esserci una competizione tra analogie in conflio tra loro. Può darsi e il caso nuovo sia simile, per alcune delle sue circostanze, ai casi in cui il fao m esiste, ma

può ane darsi e per altre circostanze sia simile al caso in cui si sa e il medesimo fao non esiste. L’ambra ha alcune proprietà in comune con certi prodoi vegetali, e altre in comune con certi prodoi minerali. Un dipinto di autore sconosciuto può somigliare, per certi suoi caraeri, alle opere note di un particolare maestro, mentre per certi altri può somigliare, in maniera altreanto sorprendente, a quelle di un altro piore. Un vaso può presentare quale analogia con le opere dell’arte greca e quale altra analogia con le opere dell’arte etrusca o egizia. esto, naturalmente, supponendo e non possegga nessuna qualità di cui si sia accertato, per mezzo di un’induzione sufficiente, e è un segno decisivo dell’una o dell’altra. 3. Dal fao e il valore di un’argomentazione analogica, e inferisce una sola somiglianza da altre somiglianze senza e ci sia nessuna prova precedente e tra di esse esiste quale connessione, dipende dall’ampiezza della somiglianza accertata confrontata prima con la quantità di differenza accertata e poi con l’estensione della regione inesplorata delle proprietà e non sono state accertate, segue e quando la somiglianza è molto grande, la differenza accertata molto piccola e la nostra conoscenza dell’argomento sufficientemente estesa, la forza dell’argomentazione per analogia può approssimarsi moltissimo a quella di un’induzione valida. Se, dopo aver compiuto molte osservazioni di B, troviamo e B concorda con A in nove su dieci delle sue proprietà note, possiamo concludere con una probabilità favorevole di nove a uno, e B possederà qualsiasi proprietà derivata data di A. Se scopriamo, per esempio, un animale o una pianta sconosciuti e somigliano molto da vicino a quale animale o a quale pianta noti per il maggior numero di proprietà e osserviamo in essi, ma ne differiscono soltanto per poe, possiamo ragionevolmente aspearci di trovare nel resto delle loro proprietà e non abbiamo osservato una concordanza generale con le proprietà dell’animale o della pianta noti; ma dobbiamo ane aspearci di trovare una differenza e corrisponde, proporzionalmente, alla quantità della differenza osservata. È dunque iaro e soltanto quando il caso a cui ragioniamo è un caso contiguo, le conclusioni derivate per analogia hanno quale valore degno di essere preso in considerazione: quando è un caso contiguo, non già, come prima, nello spazio o nel tempo, ma dal punto di vista delle circostanze. Spesso, nel caso di effei le cui cause sono note soltanto imperfeamente, o non sono note affao — quando, di conseguenza, l’ordine osservato secondo

cui accadono equivale solamente a una legge empirica — accade e le condizioni e sono coesistite ogni qual volta si è osservato l’effeo siano state molto numerose. Ora, poniamo e si presenti un nuovo caso, in cui queste condizioni non esistono tue, ma ne esiste la parte di gran lunga maggiore, peré ne mancano soltanto una o poco più d’una: allora, nonostante quest’assenza di somiglianza completa con i casi in cui il comparire dell’effeo è stato osservato, l’inferenza, e l’effeo in questione avrà luogo, può possedere un’alta probabilità pur avendo la natura dell’analogia. È quasi superfluo aggiungere e, per quanto considerevole possa essere questa probabilità, nessuno e indaghi la natura con conoscenza di causa ne sarà soddisfao quando è possibile oenere un’induzione completa, ma considererà l’analogia alla stessa stregua di un puro e semplice segnale stradale, e indica la direzione nella quale devono essere proseguite le indagini più rigorose. Proprio per quest’ultimo aspeo le considerazioni di analogia hanno il loro valore scientifico più alto. Come abbiamo già osservato, i casi in cui la prova analogica fornisce di per se stessa un grado molto alto di probabilità, sono quei casi in cui la somiglianza è molto grande e molto estesa; ma non c’è analogia, per quanto debole, e non possa essere del massimo valore in quanto suggerisce esperimenti od osservazioni e possono condurre a conclusioni più positive. ando gli agenti e i loro effei sono fuori della portata di osservazioni ulteriori e di ulteriori esperimenti — come accade nelle osservazioni a cui abbiamo già fao allusione, e riguardano la Luna e i pianeti — le piccole probabilità di questo genere non sono niente più e un tema interessante sul quale esercitare piacevolmente la nostra immaginazione; ma un qualsiasi sospeo, per quanto debole, e stimoli una persona a meersi al lavoro allo scopo di escogitare un esperimento, o e fornisca una buona ragione per tentare un esperimento piuosto e un altro, può portare, alla scienza, i più grandi benefici. Per questa ragione non posso acceare come verità positive quelle ipotesi scientifie e in ultima analisi non possano essere sooposte al controllo dell’induzione vera e propria: tali sono, per esempio, le due teorie della luce — la teoria corpuscolare formulata un secolo fa e la teoria ondulatoria, e va per la maggiore al giorno d’oggi — ane se non riesco a trovarmi d’accordo con coloro e considerano tali ipotesi come del tuo indegne di essere prese in considerazione. Come ha ben deo Hartley (trovandosi d’accordo, su questo, con un pensatore le cui opinioni sono in genere

diametralmente opposte alle sue, voglio dire con Dugald Stewart), «qualsiasi ipotesi e sia tanto plausibile da spiegare un numero considerevole di fai ci aiuta ad assimilare questi fai secondo l’ordine appropriato, a portare alla luce fai nuovi e a fare experimenta crucis per amore dei ricercatori e verranno dopo di noi»a. Se un’ipotesi spiega i fai noti e nel medesimo tempo ha condoo alla predizione di altri fai prima ignoti e in séguito verificati dall’esperienza, le leggi del fenomeno e costituisce l’oggeo della ricerca devono presentare una grande somiglianza almeno con le leggi della classe di fenomeni a cui l’ipotesi assimila il fenomeno in questione; e poié l’analogia e si estende fino a quel punto può probabilmente estendersi ancora più in là, nulla più del seguire tale ipotesi fino alle sue conseguenze estreme può suggerire esperimenti e tendono a gear luce sulle proprietà reali del fenomeno. Ma a questo scopo non è affao necessario e l’ipotesi venga erroneamente scambiata per una verità scientifica. Al contrario, per quest’aspeo come per ogni altro, quest’illusione è un ostacolo al progresso della conoscenza reale, peré conduce i ricercatori a limitarsi arbitrariamente all’ipotesi particolare e in quel tempo gode di credito maggiore, invece di spingerli ad andare alla ricerca di ogni classe di fenomeni le cui leggi presentino una quale analogia con le leggi del fenomeno dato, e a tentare tui quegli esperimenti e possono tendere alla scoperta di analogie ulteriori, e puntano nella medesima direzione. a. HARTLEY, Observations on Man, vol. I, p. l6. Il passo in questione non si trova nell’edizione ridoa, curata da Priestley. 1. Adam Ferguson (1723-1816), leerato, storico e filosofo. Nel 1759 fu nominato professore di filosofia naturale all’Università di Edinburgo e nel 1764 professore di filosofia della mente e filosofia morale nella stessa università. Nel 1778 fu membro della commissione inglese e traò con gli Americani a Filadelfia. Opere filosofie principali: Essay on the History of Civil Society [Saggio sulla storia della società civile] (1767); Institutes of Moral Philosophy [Istituzioni di filosofia morale] (1769); Principles of Moral and Political Science [Princìpi di scienza politica e morale], 2 voll. (1792).

CAPITOLO XXI. PROVE IN FAVORE DELLA LEGGE DI CAUSAZIONE UNIVERSALE 1. Abbiamo ora completato la nostra rassegna dei processi logici per mezzo dei quali si accertano, o si soopongono a controllo, le leggi, o uniformità, della successione dei fenomeni, e quelle uniformità della loro coesistenza e dipendono dalle leggi della loro successione. Come abbiamo riconosciuto all’inizio e siamo stati in grado di vedere sempre più iaramente man mano e la nostra indagine procedeva, la base di tue queste operazioni è la legge di causazione. La validità di tui i metodi induivi dipende dall’assunzione e ogni evento, o l’inizio di ogni fenomeno, deve avere quale causa, quale antecedente, dalla cui esistenza consegue invariabilmente e incondizionatamente. Nel metodo della concordanza la cosa è ovvia: infai tale metodo procede diiaratamente in base alla supposizione e non appena si siano escluse tue le altre cause si sarà trovata la causa vera. L’asserzione è egualmente vera del metodo della differenza. esto metodo ci autorizza a inferire una legge generale da due casi: uno, in cui A esiste insieme con un gran numero di altre circostanze, e B segue; un altro, in cui, essendo stata eliminato A e tue le altre circostanze rimanendo le stesse, l’accadere di B risulta impedito. Ma e cosa prova tuo questo? Prova e in quel caso particolare B non può aver avuto altra causa e A. Però concludere da questo e A era la causa, o e in altre occasioni A sarà seguito da B, è lecito soltanto nell’ipotesi e B debba avere quale causa; e in ogni singolo caso in cui accade, tra i suoi antecedenti debba essercene uno e ha la capacità di produrlo altre volte. Ammesso questo, si vede e nel caso in questione quell’antecedente non può essere altro e A; ma e, se non è altro e A, allora debba necessariamente essere A, ciò non è provato, almeno da questi casi, ma è dato per scontato. Non è necessario sprecare il nostro tempo per provare e la stessa cosa è vera degli altri metodi induivi. In tui questi metodi si assume l’universalità della legge di causazione. Ma quest’assunzione è legiima? Non c’è dubbio (si può dire) e la maggior parte dei fenomeni sono connessi come effei con quale

antecedente o causa — cioè, e non si producono mai a meno e non siano prodoi da quale fao ben preciso: ma la stessa circostanza e quale volta siano necessari complicati processi d’induzione, mostra e esistono casi in cui l’ordine regolare della successione non risulta evidente alla nostra apprensione, se non la si aiuta. Dunque non ci troviamo forse di fronte a una petitio principii se processi, e fanno rientrare questi casi soo la stessa categoria nella quale rientra tuo il resto, riiedono e si assuma l’universalità della stessa legge e a prima vista non sembrano esemplificare? Possiamo provare una proposizione facendo uso di un ragionamento e l’assume già come certa? E se in questo modo non la si prova, quali sono le prove su cui si fonda? La scuola dei metafisici e ha così a lungo spadroneggiato in questo Paese trova una pronta scappatoia per questa difficoltà, e io ho a bella posta formulato nei termini più drastici in cui è possibile formularla. esti metafisici affermano e l’universalità della causazione è una verità e non possiamo fare a meno di credere; e la credenza in essa è un istinto, una delle leggi della nostra facoltà della credenza. Come prova di questa loro asserzione dicono (e non hanno nient’altro da dire) e tui ci credono, e l’annoverano tra le proposizioni — e nel loro catalogo sono piuosto numerose — contro cui si può forse argomentare logicamente e e forse non possono essere logicamente provate, ma e posseggono un’autorità più alta di quella della logica e sono così essenzialmente connaturate alla mente umana e ane i le nega in teoria mostra, con la sua pratica abituale, e le sue stesse argomentazioni non fanno nessun’impressione su di lui. Sarebbe estraneo al mio proposito entrare, qui, nel merito di questa questione, e è di pertinenza della psicologia: devo però protestare contro il tentativo di addurre come prova della verità di un fao della natura esterna la disposizione della mente umana a credere in esso, per quanto forte, o per quanto generalizzata sia tale disposizione. La credenza non costituisce una prova, e non dispensa dalla necessità di una prova. So perfeamente e iedere la prova di una proposizione in cui dovremmo credere istintivamente significa esporsi all’accusa di rifiutare l’autorità delle facoltà umane, cosa e naturalmente nessuno può fare senza cadere in contraddizione, dal momento e le facoltà umane sono tuo quello e abbiamo per giudicare; e nella misura in cui il significato della parola «prova» si suppone e sia: «qualcosa e, posto davanti alla mente, la induce a credere», il iedere una prova quando la credenza è assicurata

dalle stesse leggi della mente dovrebbe voler dire far appello all’intelleo, contro l’intelleo stesso. Ma secondo me questo è un fraintendimento della natura della prova. Per «prova» non si intende qualsiasi cosa, e tuo ciò, e produce credenza. Oltre alle prove ci sono molte altre cose e generano la credenza. Spesso una pura e semplice associazione di idee causa una credenza così intensa da non poter essere scossa né dall’esperienza né dal ragionamento. La prova non è quella cosa a cui la mente si aiene, o non può non aenersi, ma quella a cui dovrebbe aenersi: in altre parole è quella cosa, aenendosi alla quale, la mente mantiene la propria credenza conforme ai fai. Non c’è appello da parte delle facoltà umane in generale, c’è un appello da parte di una facoltà umana a un’altra facoltà umana; da parte della facoltà di giudicare, a quelle facoltà e prendono conoscenza dei fai, cioè alle facoltà del senso e della coscienza. La legiimità di quest’appello è riconosciuta in tui quei casi nei quali s’ammee e i nostri giudizi debbano essere conformi ai fai. Il dire e la credenza è sufficiente a giustificare se stessa significa fare dell’opinione il criterio dell’opinione: significa negare l’esistenza di qualsiasi sistema di riferimento esterno, tale e la verità di un’opinione è costituita dalla sua conformità con esso. Diciamo e un certo modo di formarsi un’opinione è giusto, e e un certo altro modo è sbagliato, peré il primo tende a far sì e l’opinione si conformi ai fai, mentre il secondo tende a far sì e non vi si conformi; peré il primo tende a far sì e la gente creda a quello e realmente è, e si aspei quello e realmente sarà. Ora, una pura e semplice disposizione a credere, ane se fosse istintiva, non costituisce una garanzia per la verità della cosa creduta. In realtà, se la credenza consistesse davvero in una necessità irresistibile, sarebbe perfeamente inutile sfidarla, peré non ci sarebbe la minima possibilità di alterarla. Ma ane in questo caso, la verità della credenza non seguirebbe: segui rebbe soltanto e l’umanità si trova soo la necessità permanente di credere in cose e potrebbero ane non essere vere; in altre parole, e potrebbe darsi un caso in cui i nostri sensi o la nostra coscienza, se li si potesse interrogare, potrebbero testimoniare una certa cosa mentre la nostra ragione ne crede un’altra. Ma in realtà, una tale necessità permanente non esiste. Non c’è nessuna proposizione di cui si possa asserire e ogni mente umana deve crederla, irrevocabilmente e in eterno. Un grandissimo numero di esseri umani hanno creduto false molte delle proposizioni delle quali questo è stato asserito con la massima confidenza. Le cose di cui si è supposto e nessuno avrebbe mai potuto

credere false sono innumerevoli, ma date due generazioni qualsiasi, nessuna di esse ne farebbe il medesimo catalogo. Un’età, o una nazione, crede senza sognarsi di meerle in dubbio a cose e a un’altra età o a un’altra nazione sembrano incredibili e inconcepibili: in un certo individuo non si trova neppure la traccia di una credenza e un certo altro individuo ritiene sia assolutamente connaturata con l’umanità. Non c’è neane una di queste cosiddee credenze istintive e sia realmente inevitabile. Ognuno di noi ha il potere di coltivare abiti di pensiero e lo rendono indipendente da tali credenze. L’abito dell’analisi filosofica (il cui effeo più sicuro consiste nel render la mente capace di comandare alle leggi della parte puramente passiva della sua stessa natura, invece di esserne soltanto comandata), nella misura in cui ci mostra e le cose non sono necessariamente connesse nella realtà solo per il fao e le idee e ne abbiamo sono connesse nella nostra mente, è in grado di sciogliere innumerevoli associazioni e regnano dispoticamente su una mente non disciplinata, o preda di pregiudizi da lungo tempo radicati in essa. E quest’ambito non è privo di potere neppure su quelle associazioni e la scuola di cui sto parlando considera come innate ed istintive. Sono convinto e nessuno e sia abituato all’astrazione e all’analisi ed eserciti senza pregiudizi le sue facoltà per questo scopo, una volta e la sua immaginazione abbia imparato a mantener ferma la nozione troverà difficoltà a concepire, per esempio, e in uno dei molti firmamenti in cui l’astronomia siderale oggi divide l’universo gli eventi possono succedersi l’un l’altro a casaccio, senza nessuna legge determinata; e nulla, nella nostra esperienza o nella natura della nostra mente, può costituire una ragione sufficiente, o addiriura una ragione qualsiasi, per credere e questo non accade in nessun luogo. Supponiamo (ed è perfeamente possibile immaginarlo) e l’ordine auale dell’universo finisca, e e gli succeda un caos in cui non c’è nessuna connessione stabile di eventi, e il passato non dà la minima sicurezza del futuro; ora, se un essere umano fosse miracolosamente tenuto in vita in modo da poter testimoniare di questo cambiamento, è certo e ben presto smeerebbe di credere in qualsiasi uniformità, dal momento e la stessa uniformità non esisterebbe più. Se si ammee questo, allora o la credenza nell’uniformità non è un istinto, o è un istinto e, come tui gli altri istinti, può essere sconfio dalle conoscenze acquisite. Ma dal momento e abbiamo una conoscenza positiva e certa di quello e è stato, non è affao necessario speculare su quello e potrebbe

accadere. Di fao, non è vero e l’umanità ha sempre creduto e tue le successioni di eventi sono uniformi e hanno luogo secondo certe leggi ben determinate. I filosofi greci, non ecceuato neane Aristotele, riconoscevano il caso e la spontaneità (τύχη e τò αὐτομάτου) come due degli agenti e si trovano in natura; in altre parole, credevano e in quella misura non esistesse nessuna garanzia e il passato fosse stato simile a se stesso, o e il futuro sarebbe somigliato al passato. Ancora oggi una buona metà del mondo dei filosofi, compresi proprio quegli stessi metafisici e sostengono con maggior energia il caraere istintivo della credenza nell’uniformità, ritengono e un’importante classe di fenomeni — le volizioni — costituiscano un’eccezione all’uniformità, e non siano governati da una legge determinataa. 2. Come è stato osservato in un passo precedenteb, la nostra credenza nell’universalità, in tua quanta la natura, della legge di causa e di effeo, è essa stessa un esempio di induzione, e non è per nulla una delle.più antie induzioni e iunque di noi, o l’umanità in generale, possa aver fao. A questa legge universale arriviamo in base a una generalizzazione da molte leggi dotate di una generalità più bassa. Non avremmo mai avuto la nozione di causazione (nel significato filosofico del termine) come condizione di tui i fenomeni, se prima non ci fossero diventati familiari molti casi di causazione, o, in altre parole, molte uniformità parziali di successione. Le più ovvie tra le uniformità particolari suggeriscono l’esistenza dell’universalità generale e ne forniscono la prova; e l’uniformità generale, una volta stabilita, ci mee in grado di provare il rimanente delle uniformità particolari di cui è costituita. Ad ogni modo, siccome tui i processi rigorosi d’induzione presuppongono l’uniformità generale, è naturale e la nostra conoscenza delle uniformità particolari, da cui l’uniformità generale fu inferita per la prima volta, non sia stata derivata da un’induzione rigorosa ma dal modo poco rigoroso e incerto dell’induzione per enumerationem simplicem: e la legge della causazione universale, essendo stata formulata in base alla raccolta dei risultati oenuti per enumerationem simplicem, non può a sua volta riposare su fondamenti più saldi. Sembrerebbe perciò e l’induzione per enumerationem simplicem non solo non sia necessariamente un processo logico illecito, ma sia in realtà l’unica specie di induzione possibile, dal momento e la validità del processo più elaborato dipende da una legge e a sua volta è stata oenuta

in quel modo non artificiale. Ma allora non c’è forse contraddizione nel contrapporre la mancanza di rigore dell’un metodo al rigore dell’altro, se quest’ultimo è debitore della propria fondatezza al metodo meno rigoroso? Ma la contraddizione è soltanto apparente. Certo, se l’induzione per enumerazione semplice fosse un processo privo di validità, nessun processo fondato su di essa potrebbe essere valido, proprio come non potremmo prestare nessuna fede ai telescopi, se non potessimo fidarci dei nostri oci. Ma pur essendo un processo valido, l’induzione per enumerazione semplice è un processo fallibile, ed è fallibile in gradi molto differenti. Perciò, se alle forme più fallibili del processo possiamo sostituire un’operazione basata sul medesimo processo in forma meno fallibile, avremo oenuto un miglioramento di grande importanza. E questo è proprio quello e fa l’induzione scientifica. Un modo di concludere dall’esperienza dev’essere diiarato non degno di fede quando l’esperienza successiva rifiuta di confermarlo. Secondo questo criterio, l’induzione per enumerazione semplice — in altre parole, la generalizzazione di un fao osservato compiuta in base alla pura e semplice assenza di qualsiasi caso contrario noto — fornisce, in generale, una base di sicurezza piuosto precaria e malsicura: infai, con ulteriori esperienze, si scopre incessantemente e le generalizzazioni di questo genere sono false. Tuavia, esso fornisce una certa sicurezza e in molti casi è sufficiente alla guida ordinaria della condoa. Sarebbe assurdo il dire e le generalizzazioni a cui l’umanità è pervenuta agli albori della sua esperienza — generalizzazioni quali «II cibo nutre», «Il fuoco brucia», «L’acqua ti fa affogare» — sono indegne di fiduciac. C’è una scala della fiducia e si può prestare ai risultati dell’induzione non-scientifica originaria, e da questa diversità (come abbiamo osservato nel quarto capitolo di questo Libro) dipende il miglioramento del processo. Il miglioramento consiste nel correggere una di queste generalizzazioni non artificiali per mezzo di un’altra. Come abbiamo già fao osservare, questo è tuo quello e l’arte può fare. Il sooporre a controllo una generalizzazione, mostrando e segue da quale induzione più forte o è in conflio con quale induzione più forte; e segue da, o e è in conflio con, quale generalizzazione e riposa su un fondamento empirico più largo, è l’alfa e l’omega della logica dell’induzione.

3. Ora, la precarietà del metodo dell’enumerazione semplice è inversamente proporzionale all’ampiezza della generalizzazione. anto più la portata dell’oggeo dell’osservazione è specializzata e ristrea, tanto più deludente e insufficiente è il processo. anto più la sfera dell’osservazione si allarga, tanto minore diventa la probabilità e questo metodo nonscientifico d’osservazione ci inganni: e la classe più universale di verità — per esempio la legge di causazione e i princìpi del numero e della geometria — sono provate, soddisfacentemente e nel modo dovuto, da questo solo metodo, e non sono susceibili di nessun’altra prova. Per quanto riguarda l’intiera classe di generalizzazioni di cui abbiamo traato recentemente — cioè la classe delle uniformità e dipendono dalla causazione — la verità dell’osservazione e abbiamo appena fao segue, per un’inferenza evidente di per sé, dai princìpi e abbiamo enunciato nei capitoli precedenti. ando si è osservato per un certo numero di volte e un fao è vero, e non si conosce nessun caso in cui sia falso, affermando immediatamente e il fao è una verità universale o una legge di natura senza sooporlo al controllo di uno dei quaro metodi dell’induzione commeiamo, in genere, un errore grossolano: ma siamo perfeamente autorizzati ad affermarlo come legge empirica, vera entro certi limiti di tempo spazio e circostanze, puré il numero delle coincidenze sia così grande e sia impossibile farlo risalire, con quale probabilità, al caso. La ragione per non estendere la sua verità oltre questi limiti consiste in questo: e il fao e sia vero entro questi limiti potrebbe essere una conseguenza di certe collocazioni, a proposito delle quali non si può concludere e per il fao e esistono in un certo luogo esistono ane in un certo altro; oppure può darsi e dipenda dall’assenza accidentale di agenti contrari, agenti e la più piccola variazione nel tempo, o il più piccolo cambiamento nelle circostanze, possono rimeere in giuoco. Se dunque supponiamo e l’oggeo di una qualsiasi generalizzazione sia così largamente diffuso e non ci sia istante, non ci sia luogo e non ci sia combinazione di circostanze e non forniscano un esempio della sua verità o della sua falsità, e se troviamo e non è mai altro e vero, la sua verità non può dipendere da nessuna collocazione (a meno e non dipenda da collocazioni tali e esistono in ogni tempo e in ogni luogo) e non può essere annullata da nessun agente contrario, a meno e non si trai di agenti e di fao non si presentano mai. Si traa, perciò, di una legge empirica e ha la stessa estensione di tua quanta l’esperienza umana: ma a questo punto la

differenza tra leggi empirie e leggi di natura svanisce e la proposizione assume il proprio posto tra le verità più saldamente consolidate e più estese e siano accessibili alla scienza. Ora la più estesa, quanto al suo oggeo, di tue le generalizzazioni garantite dall’esperienza a proposito delle successioni e delle coesistenze dei fenomeni, è la legge di causazione. anto alla sua universalità, e perciò (se le osservazioni precedenti sono corree) quanto alla sua certezza, sta in testa a tue le uniformità osservate. E se consideriamo, non già quello e l’umanità sarebbe stata giustificata a credere agli albori della sua conoscenza, ma quello e può razionalmente essere creduto nel suo auale stato di maggior progresso, troveremo e siamo autorizzati a considerare questa legge fondamentale — e pure a sua volta è stata oenuta per induzione da leggi particolari di causazione — non come meno certa, ma al contrario come più certa di ognuna delle leggi da cui è stata ricavata. Aggiunge a quelle leggi quanto di prova riceve da esse. Infai, neppure tra le leggi di causazione meglio consolidate ce n’è una e quale volta non sia contrastata, e alla quale non si presentino perciò eccezioni apparenti e avrebbero necessariamente e giustamente dovuto scuotere la fiducia degli uomini nell’universalità di quelle leggi se i processi induivi fondati sulla legge universale non ci avessero resi capaci di far risalire queste eccezioni all’azione di cause contrastanti, riconciliandole così con la legge con la quale entrano apparentemente in conflio. Inoltre, può darsi e nell’enunciato di una qualsiasi delle leggi speciali si siano insinuati errori dovuti al fao e non si è prestata aenzione a quale circostanza importante, cosicé, invece della proposizione vera, può darsi e sia stata enunciata una proposizione e come legge universale è falsa, ma e in tui i casi finora osservati ha condoo al medesimo risultato a cui avrebbe condoo la propozione vera. Al contrario, invece, non solo non conosciamo nessun’eccezione alla legge di causazione, ma le eccezioni e limitano o apparentemente invalidano le leggi speciali sono così lontane dal contraddire la legge universale, e anzi la confermano; infai in tui quei casi e sono sufficientemente accessibili alla nostra osservazione siamo in grado di far risalire la differenza nel risultato o all’assenza di una causa e era stata presente nei casi ordinari o alla presenza di una causa e da questi casi era stata assente. Essendo dunque certa, la legge di causa ed effeo è in grado di trasmeere la propria certezza a tue le altre proposizioni induive e

possono esserne dedoe, e si può ritenere e ane le induzioni più ristree ricevano la loro sanzione definitiva da questa legge. Di tali induzioni, infai, non ce n’è una e non possa essere resa più certa di quanto non fosse prima, quando si sia in grado di conneerla con l’induzione più ampia e di mostrare e non può essere negata senza contraddire la legge e ogni cosa e esiste ha una causa. È quindi giustificata la contraddizione in cui cadiamo apparentemente quando sosteniamo e l’induzione per enumerazione semplice è buona abbastanza per provare questa verità generale e sta a fondamento dell’induzione scientifica, e tuavia ci rifiutiamo di prestarle fiducia quando si traa di induzioni più ristree. Ammeo senza riserve e se la legge di causazione fosse sconosciuta, sarebbe tuavia possibile fare generalizzazioni nei casi più ovvi di uniformità dei fenomeni, e pur essendo in ogni caso più o meno precarie, e talvolta anzi estremamente precarie, queste generalizzazioni sarebbero tuavia sufficienti per costituire una certa misura di probabilità. Ma quale possa essere l’ammontare di questa probabilità, siamo dispensati dallo stimare, dal momento e essa non potrebbe mai equivalere al grado di certezza e la proposizione acquista quando, grazie all’applicazione dei quaro metodi, si mostra e l’ipotesi e la proposizione sia falsa sarebbe incompatibile con la legge di causazione. Da un punto di vista logico siamo perciò autorizzati, e anzi, per le necessità dell’induzione scientifica siamo obbligati, a trascurare le probabilità derivate dal grossolano metodo primitivo di generalizzazione e a non considerare provata nessuna generalizzazione di minore importanza se non nella misura in cui la confermi la legge di causazione, e a non considerarla probabile finé non ci si possa ragionevolmente aspeare e sarà confermata in questo modo. 4. L’asserzione e i nostri processi induivi presuppongono la legge di causazione mentre la legge di causazione è a sua volta un caso d’induzione, è un paradosso solo dal punto di vista della vecia teoria del ragionamento, e presuppone e in un ragionamento deduivo la verità universale o premessa maggiore sia la prova vera e propria delle verità particolari e ne sono iaramente inferite. Secondo la dorina sostenuta in questo traatod, la premessa maggiore non costituisce la prova della conclusione, ma è essa stessa provata, insieme con la conclusione, dalle medesime prove. «Tui gli uomini sono mortali» non è la prova e Lord Palmerston è mortale; al contrario, la nostra esperienza passata della mortalità ci autorizza a inferire

la verità generale, sia il fao particolare, e ci autorizza a inferire la prima esaamente con il medesimo grado di fiducia con cui inferiamo il secondo. La mortalità di Lord Palmerston non è un’inferenza dalla mortalità di tui gli uomini, ma dall’esperienza e prova la mortalità di tui gli uomini; ed è un’inferenza correa dall’esperienza se ane quella verità generale lo è. esta relazione tra le nostre credenze generali e la loro applicazione particolare è egualmente vera nel caso più comprensivo e stiamo discutendo ora. Ogni fao nuovo di causazione inferito per induzione è inferito correamente se all’inferenza non si possono elevare altre obiezioni se non quelle e si possono elevare alla verità generale e ogni evento ha una causa. Fino a questo punto, e non più in là, arriva la massima certezza e può essere conferita a una conclusione alla quale si sia pervenuti per via d’inferenza. ando abbiamo accertato e una certa conclusione particolare deve stare in piedi o cadere con l’uniformità generale delle leggi di natura — quando abbiamo accertato, cioè, e la conclusione non è soggea a nessun altro dubbio tranne e al dubbio se ogni evento abbia davvero una causa — abbiamo fao tuo quello e era in nostro potere. L’assicurazione più forte e possiamo oenere per qualsiasi teoria e riguardi la causa di un fenomeno dato è e o il fenomeno ha quella causa o non ne ha nessuna. est’ultima supposizione sarebbe stata ammissibile soltanto in un periodo molto primitivo del nostro studio della natura. Ma abbiamo potuto renderci conto e nello stadio aualmente raggiunto dall’umanità, la generalizzazione e dà luogo alla legge della causazione universale si è trasformata in un’induzione più forte e migliore, e merita una fiducia maggiore di quanto non meriti una qualsiasi delle generalizzazioni subordinate. Penso e possiamo addiriura fare un passo più avanti e considerare la certezza di quella grande induzione non come semplicemente relativa, ma, per tui gli scopi, come assoluta. Le considerazioni e secondo me oggi dànno questo caraere di completezza e di concludenza alla prova della legge dell’uniformità di successione, in quanto vera di tui i fenomeni senza eccezione, sono le seguenti: Primo, ora sappiamo direamente e è vera di un numero di gran lunga maggiore di fenomeni; e non ci sono fenomeni di cui sappiamo e non sia vera, il massimo e possiamo dire essendo e di alcuni fenomeni non possiamo affermare positivamente la verità con la prova direa; invece, man mano e arriviamo a conoscerli meglio, i fenomeni passano sia

costantemente, l’uno dopo l’altro, dalla seconda classe alla prima, e in tui i casi in cui questa transizione non ha ancora avuto luogo, l’assenza di una prova direa si spiega tenendo conto della rarità e dell’oscurità dei fenomeni, dell’insufficienza dei nostri mezzi di osservazione o delle difficoltà logie e sorgono dalla complicazione delle circostanze in cui fenomeni accadono; tanto più e, nonostante dipendano, da certe condizioni date, così rigidamente come ne dipende qualsiasi altro fenomeno, non è probabile e di queste condizioni si raggiunga una conoscenza direa molto migliore di quella e ne abbiamo. Oltre questa prima classe di considerazioni ce n’è una seconda e corrobora ancor di più la conclusione. Sebbene ci siano fenomeni il cui prodursi ed il cui mutamento eludono tui i nostri tentativi di ridurli universalmente a quale legge accertata, tuavia in tui i casi di questo genere si trova e quale volta il fenomeno o gli oggei interessati nel fenomeno obbediscono alle leggi di natura note. Ad esempio, il vento rappresenta il tipo stesso dell’incertezza e del capriccio; tuavia troviamo e in alcuni casi obbedisce con altreanta costanza di ogni altro fenomeno in natura alla legge secondo cui i fluidi tendono a distribuirsi in modo da eguagliare la pressione su ogni lato di ciascuna delle loro particelle, come nel caso degli alisei e dei monsoni. Può darsi e un tempo si sia pensato e la folgore non obbedisce a nessuna legge, ma da quando si è accertato e è identica con l’elericità, sappiamo e in alcune delle sue manifestazioni il medesimo fenomeno obbedisce implicitamente all’azione di cause ben determinate. Non credo e, almeno entro i limiti del sistema solare, oggi esista, in tua la nostra esperienza della natura, un solo oggeo o un solo evento di cui non si sia accertato per esperienza direa e segue leggi sue proprie, o di cui non si sia provato e è streamente simile a oggei e a eventi e, in manifestazioni più familiari o su scala più limitata, seguono leggi rigorose; la nostra incapacità a rintracciare nei casi più reconditi le medesime leggi e vigono su scala più larga si spiega tenendo conto del numero e della complicazione delle cause modificanti e della loro inaccessibilità all’osservazione. Il progresso dell’esperienza ha pertanto dissipato il dubbio e non poteva non incombere sull’universalità della legge di causazione quando sembrava e ci fossero fenomeni sui generis, non soggei alle medesime leggi alle quali sono sooposte tue le altre classi di fenomeni, e di cui peraltro non si era ancora accertato e obbediscono a leggi tue loro particolari. Prima e ci fossero ragioni sufficienti per accoglierla come una certezza, su questa

grande generalizzazione si sarebbe però potuto agire, e di fao si è agito, come su una probabilità dell’ordine più alto. In materia di prove, così come in tue le altre faccende umane, non possiamo pretendere l’assoluto, né possiamo arrivarci. Ane le nostre convinzioni più forti dobbiamo sostenerle lasciando aperto, nella nostra mente, uno spiraglio e vi lasci penetrare quei fai e le contraddicono. Solo quando avremo preso questa precauzione ci saremo guadagnati il dirio di agire sulle nostre convinzioni con fiducia completa, quando non compaia nessuna contraddizione. Infai, su tuo ciò e si è trovato vero in innumerevoli casi e, dopo il debito esame, non si è mai trovato falso in nessun caso, possiamo agire con sicurezza come se fosse universale, almeno provvisoriamente, fin quando non si presenti un’eccezione indubbia, e puré la natura del caso sia tale e sia praticamente impossibile e alla nostra aenzione sfuggano le eccezioni vere e proprie. Dal momento e ogni fenomeno e conosciamo sufficientemente bene da essere in grado di rispondere alla questione ha una causa alla quale consegue invariabilmente, è più ragionevole supporre e la nostra incapacità a individuare le cause di altri fenomeni abbia origine dalla nostra ignoranza, piuosto e ritenere e ci siano fenomeni privi di cause e e questi fenomeni, guarda caso, siano proprio quelli e fino a questo momento non abbiamo avuto sufficiente opportunità di prendere in considerazione. Nel medesimo tempo si deve osservare e le ragioni per nutrire questa fiducia non reggono in circostanze e ci siano sconosciute, e oltre la portata possibile della nostra esperienza. Sarebbe una pazzia l’affermare e in parti estremamente lontane delle regioni stellari — dove i fenomeni possono essere completamente differenti da quelli di cui abbiamo una conoscenza direa — questa legge generale valga più di quanto non valgano quelle e, a quanto abbiamo trovato, valgono universalmente sul nostro pianeta. L’uniformità nella successione degli eventi, altrimenti iamata legge di causazione, dev’essere considerata, non già come una legge dell’intiero universo, ma soltanto come una legge di quella parte dell’universo e rientra nell’ambito dei nostri mezzi di osservazione sicura, con un ragionevole grado di possibilità di estenderla ai casi contigui. Estenderla ancora più in là signifierebbe fare una supposizione priva di sostegni e alla quale, in assenza di ogni fondamento empirico per stimarne il grado di probabilità, sarebbe ozioso tentare di assegnarne uno qualsiasie.

a.

A conferma, sia dal punto di vista storico sia da quello teorico, dell’asserzione faa nel testo, sono lieto di poter citare qust’eccellente passo trao dall’Essay on Inductive Philosophy del signor Baden Powell. Parlando della «convinzione nell’uniformità universale e permanente della natura», il signor Powell scrive (pp. 98-100): «Possiamo osservare e quest’idea, nella sua estensione appropriata, non è affao un’idea e venga acceata popolarmente, o sia sorta naturalmente. Fin dove arriva l’esperienza di ciascuno di noi, fino a questo punto e non più in là, ciascuno di noi arriva ad abbracciare una certa persuasione di questa specie, ma ci arriva soltanto entro questi limiti ristrei: arriva ad abbracciare, cioè, la persuasione e quello e sta aualmente succedendo intorno a lui, nella sua ristrea sfera di osservazione, continuerà a succedere in maniera analoga ane in futuro. Il contadino crede e il Sole, e è sorto oggi, sorgerà ane domani; e entro il tempo dovuto il seme e ha piantato nel suolo sarà seguito dalla messe quest’anno come l’anno passato, e così via; ma non ha la minima nozione di tali inferenze in campi e vanno al di là della sua osservazione immediata. E si dovrebbe osservare e nell’ammeere questa credenza nell’ambito limitato della propria esperienza, pur dubitandone o negandola in tuo ciò e va al di là di tale àmbito, ciascuna classe di persone porta, di fao, una testimonianza inconsapevole in favore della sua verità universale. E questa limitazione alla verità non s’impone soltanto tra i più ignoranti. C’è una propensione molto diffusa a credere e tuo quello e va al di là dell’esperienza comune, o delle leggi di natura specificamente accertate, sia abbandonato al dominio del caso, o del fato, o dell’intervento arbitrario, e addiriura ad opporsi a ogni tentativo di spiegare i fenomeni facendo ricorso a cause fisie, se tale spiegazione viene avanzata in via di congeura, per un fenomeno di cui apparentemente non si può rendere conto. La dorina rigorosa della generalizzazione di quest’idea dell’uniformità della natura, lungi dall’essere ovvia, o naturale, o intuitiva, è completamente al di là della portata dei più. In tua l’estensione della sua universalità, essa è caraeristica del filosofo. Si traa, iaramente, del risultato della cultura e dell’addestramento filosofici e non è affao la prole spontanea di un qualsiasi principio primario, inerente alla nostra mente, come sembrano credere alcuni. Non si traa di una pura e semplice quanto vaga persuasione, assunta senza esaminarla, in quanto possesso comune a cui siamo abituati da sempre: al contrario, tui i pregiudizi e tue le associazioni comuni parlano in suo sfavore. Si traa, in modo preminente, di un’idea acquisita, e non la si acquisisce senza un profondo studio e senza una profonda riflessione. Il filosofo meglio informato è l’uomo e crede in essa più fermamente opponendosi, addiriura, alle nozioni meglio consolidate: l’acceazione di questa legge da parte sua dipende dall’estensione e dalla profondità dei suoi studi sull’induzione «. b. Cfr. sopra, libro III, cap. III, par.?. c. È degno di nota e, al contrario di quanto accade per le induzioni scientifie, queste generalizzazioni primitive non presupponevano la causazione. Presupponevano Yuniformità dei fai fisici. Ma gli osservatori erano pronti a presupporre l’uniformità nelle coesistenze dei fai tanto quanto erano pronti a presupporla nelle loro successioni. D’altra parte, non pensarono mai di assumere e quest’uniformità fosse un principio e pervade tua la natura: le loro generalizzazioni non implicavano l’esistenza dell’uniformità in tuo, ma solo e quel tanto di uniformità e esisteva nell’ambito delle loro osservazioni esiste ane al di là di esse. L’induzione: «Il fuoco brucia» non esige, per essere valida, e tua la natura segua leggi uniformi, ma soltanto e ci sia uniformità in una sola classe particolare di fenomeni naturali: gli effei del fuoco sui sensi e sulle sostanze combustibili. Ed entro questi limiti l’uniformità non veniva assunta prima di ogni esperienza, ma solo nella misura in cui fosse provata dall’esperienza. Gli stessi casi osservati e provavano la verità più ristrea provavano quel tanto della verità più ampia e corrispondeva alla verità più ristrea. Proprio peré persero di vista questo fao e considerarono la legge di causazione, nella sua estensione completa, come presupposta necessariamente nelle generalizzazioni più antie, alcune persone furono indoe a credere e la legge di causazione sia nota a priori e non sia essa stessa una conclusione traa dall’esperienza.

d.

Libro II, cap. HI. e. Uno dei pensatori e maggiormente si vanno affermando tra la nuova generazione dei filosofi francesi, il signor Taine1 (e nella «Revue des Deux Mondes», ci ha dato l’analisi più magistrale e sia mai stata faa della presente opera, almeno da un certo punto di vista), pur rifiutando su questo e su altri punti psicologici la teoria intuizionistica nella sua forma ordinaria, assegna alla legge di causazione e ad alcune altre fra le leggi più universali quella certezza e va al di là dei limiti dell’esperienza umana, e e io non sono stato in grado di assegnargli. L’assegna in forza della fiducia e nutre nella facoltà dell’astrazione, in cui sembra riconoscere una fonte indipendente di prove; una fonte e, pur non rivelandoci nessuna verità e non sia già contenuta nella nostra esperienza, ci fornisce un’assicurazione (e la nostra esperienza non ci fornisce) dell’universalità di quelle leggi e invece tale facoltà contiene. Il signor Taine sembra pensare e grazie all’astrazione siamo capaci non soltanto di analizzare quella parte della natura e vediamo e di esibire separatamente gli elementi e la riempiono, ma ane di distinguere quelli, tra essi, e sono elementi del sistema della natura considerata come un tuo e non accidenti e appartengano alla nostra limitata esperienza terrestre. Non sono sicuro di essere riuscito a capire del tuo quello e il signor Taine intende, ma confesso di non esser capace di vedere come una semplice concezione astraa, e le nostre menti hanno ricavato dalla nostra esperienza, possa costituire la prova di un fao oggeivo della natura universale, oltre a quello di cui l’esperienza stessa ci reca testimonianza; o in qual modo, nel corso dell’interpretazione delle testimonianze forniteci dall’esperienza, si possano buare all’aria le limitazioni della testimonianza medesima. In un pregevole articolo comparso sulla «Dublin Review» dell’oobre 1871, il door Ward2 sostiene e l’uniformità della natura non può essere provata dall’esperienza, ma soltanto da «considerazioni trascendentali» e e di conseguenza se una tale prova trascendentale fosse impossibile, tua la scienza fisica sarebbe privata della propria base. ando si dice e la scienza fisica dipende dall’assunzione e il corso della natura è invariabile, non si intende asserire nient’altro se non e le conclusioni della scienza fisica non sono conosciute come verità assolute: la verità di tali conclusioni è condizionata dall’uniformità del corso della natura, e tuo ciò e le osservazioni e gli esperimenti più definitivi possono provare è questo: e il risultato cui si perviene sarà vero se, e fin quando, saranno valide le auali leggi di natura. Ma per la guida della nostra condoa non abbiamo bisogno di nessun’altra assicurazione. Neppure il door Ward pensa e la prova trascendentale renda tale sicurezza maggiore dal punto di vista pratico: come caolico, infai, egli crede e il corso della natura non soltanto sia stato, ma sia spesso e addiriura tui i giorni, sospeso dall’intervento sovrannaturale. Ma sebbene questa definitività condizionata delle prove fornite dall’esperienza (definitività e è sufficiente per gli scopi della vita) sia tuo ciò e io mi ritenevo obbligato a provare, ho tuavia fornito buone ragioni per pensare e l’uniformità, in quanto essa stessa parte dell’esperienza, sia provata abbastanza da giustificare l’incrollabile fiducia e si ripone in essa. Il door Ward lo contesta per le ragioni seguenti: In primo luogo (p. 315), ane supponendo e sia vero e fino a questo momento non c’è stato nessun caso ben autenticato di interruzione dell’uniformità della natura, «il numero di agenti naturali costantemente all’opera è incalcolabilmente grande, e i casi osservati di uniformità nell’azione di tale agenti, non possono non essere in numero incommensurabilmente minore di un millesimo del totale. Supponiamo, per il momento, e gli scienziati abbiano scoperto e in una certa percentuale di casi — incommensurabilmente minore dell’uno per mille del totale — sia prevalso un certo fao, cioè a dire il fao dell’uniformità, e e non abbiano trovato un solo caso in cui tale fao non predominasse. Ci iediamo: hanno il dirio di inferire, da queste premesse, e il fao è universale? esta è indubbiamente una domanda retorica. Facciamo un’ipotesi piuosto groesca, in cui, tuavia la conclusione sarà davvero messa alla prova in base alle argomentazioni addoe. In un deserto dell’Africa c’è un enorme edificio in sé coniuso, e circonda un vasto spazio in cui abitano certi

esseri ragionevoli. esti esseri sono incapaci di uscire dal loro recinto. In quest’edificio ci sono più di mille camere e alcuni anni addietro furono tue iuse, e le cui iavi nessuno sa dove siano. Dopo ricere costanti e diligenti, sono state trovate venticinque iavi sul numero totale, e si sono aperte le camere corrispondenti, situate sparsamente qua e là per tuo l’edificio. Esaminata ciascuna camera, si è trovato e tue hanno la forma esaa di un dodecaedro. Basandosi su quanto hanno trovato, gli abitanti dell’edificio sono autorizzati a sostenere con sicurezza e le restanti 975 camere sono state costruite secondo il medesimo progeo?». Non con perfea sicurezza, ma (se le camere di cui sono trovate le iavi sono davvero «situate sparsamente qua e là») con un grado di probabilità così alto e li legiimerebbe ad agire in base a quest’ipotesi fin quando non compaia un’eccezione. Tuavia l’argomentazione del door Ward non tocca la mia, così com’è enunciata nel testo. La mia argomentazione si fonda sul fao e l’uniformità del corso della natura come un tuo è costituita dal succedersi uniforme di effei speciali ad agenti naturali speciali; sul fao e il numero di questi agenti naturali nella parte dell’universo e ci è nota non è incalcolabile e non è neppure estremamente grande; sul fao e oggi abbiamo ragione di credere di aver fao in modo e la maggior parte di tali agenti, se non separatamente almeno nell’una o nell’altra delle combinazioni in cui entrano, possano essere sooposti al controllo dell’osservazione per quel tanto e ci mee in grado di accertare effeivamente alcune delle loro leggi fisse; e sul fao e questa quantità d’esperienza giustifica un grado di fiducia nell’uniformità completa del corso della natura, eguale a quello e prima nutrivamo nell’uniformità del succedersi dei fenomeni a noi noti. Se è correo, questo modo di vedere la faccenda distrugge la forza della prima argomentazione del door Ward. La seconda argomentazione del door Ward è la seguente: molte persone o la maggior parte delle persone, siano scienziati siano non-scienziati, credono nell’esistenza di casi ben autenticati di interruzione dell’uniformità della natura, vale a dire, nell’esistenza dei miracoli. Neppure questa considerazione tocca quello e io ho deo nel testo. Non ammeo, nel corso della natura, altre uniformità all’infuori della legge di causazione e (come ho spiegato nel capitolo di questo volume e traa delle ragioni della non-credenza) un miracolo non fa per nulla eccezione a questa legge. In ogni caso di supposto miracolo si afferma e esiste un nuovo antecedente:, una causa contrastante, vale a dire la volizione di un essere sovrannaturale. Pertanto, per tui coloro per cui la vera causa sono esseri dotati di potere sovrumano sulla natura, un miracolo è un caso della legge di causazione, non una deviazione da questa legge. L’ultima e, stando a quello e dice lui, la più forte argomentazione del door Ward, è l’argomentazione familiare di Reid, Stewart e dei loro seguaci: quale e sia la conoscenza e ci dà del passato e del presente, l’esperienza non ci dà nessuna conoscenza del futuro. In quest’argomentazione confesso di non riuscire a scorgere proprio nessuna forza. In e cosa un fao futuro differisce da un fao presente o da un fao passato se non nella relazione, puramente momentanea, con gli esseri umani aualmente esistenti? A me sembra sufficiente la risposta data da Priestley3 nel suo esame della filosofia di Reid, e cioè, e pur non avendo avuto nessun’esperienza di quello e è futuro, tuavia abbiamo avuto un’abbondante esperienza di quello e futuro è stato. Il «salto nel buio» (come lo iama il professor Bain) dal passato al futuro è un salto nel buio esaamente come il salto da un passato e abbiamo osservato personalmente a un passato e non abbiamo osservato personalmente. Sono d’accordo con il signor Bain nel ritenere e la somiglianza tra quello e non abbiamo esperito e quello e invece abbiamo esperito si presume, per una legge della nostra natura, prima e l’esperienza l’abbia provata, e in forza della pura e semplice energia dell’idea. Comunque, contrariamente a quanto sembra pensare il door Ward quando critica il signor Bain, questa verità psicologica non è incompatibile con la verità logica, e è l’esperienza a provare tale somiglianza. La prova viene dopo l’assunzione, e consiste nella verificazione invariabile da parte dell’esperienza, quando l’esperienza arriva. Il fao, e non poteva essere osservato fintanto e era

futuro peré non aveva ancora esistenza, quando è presente e può essere osservato si trova conforme al passato. Nella sua Examination of Mr. J. S. Mill Philosophy [Esame della filosofia del signor J. S. Mill], il door M’Cosh4 sostiene e l’uniformità del corso della natura è una cosa diversa dalla legge di causazione, e mentre da un lato ammee e la prima risulta provata soltanto da un’esperienza prolungata e continua e e non è né inconcepibile né necessariamente incredibile e possano esistere mondi in cui essa non vale, dall’altra ritiene e la legge di causazione sia nota intuitivamente. Tuavia, negli eventi naturali non ci sono altre uniformità se non quelle e traggono la loro origine dalla legge di causazione. Pertanto finé sussiste il sia pur minimo dubbio sul fao e il corso della natura sia completamente uniforme (almeno quando non sia modificato dall’intervento di una nuova causa sovrannaturale) implicitamente non può non sussistere ane un dubbio a proposito, non già della legge di causazione, ma della sua universalità. Se l’uniformità del corso della natura ha una qualsiasi eccezione — se un qualsiasi evento succede a un qualsiasi altro senza una causa — nella misura in cui ciò accade la legge di causazione cessa di valere: ci sono eventi e non dipendono da cause. 1. Hyppolite Adolphe Taine (1828-1893), storico francese; cominciò la sua carriera insegnando filosofia a Nevers, ma l’abbandonò ben presto per ragioni politie. Nel 1855-56 pubblicò sulla «Revue de l’instruction publique» una serie di articoli sui filosofi francesi a lui contemporanei, e ripubblicò in volume nel 1857; in quest’opera Taine aaccava la filosofia di Cousin, e auspicava l’applicazione dei metodi della scienza alla metafisica e alla psicologia. Altre opere di contenuto specificamente filosofico sono La philosophie de l’art (1865), L’ideal dans l’art (1867) e Théorie de l’intelligence (1870). La sua fama rimane però affidata al monumentale lavoro Les origines de la France contemporaine, la cui stesura lo tenne occupato dal 1884 fino all’anno della sua morte, e e lasciò incompiuto. 2. James Ward (1843-1925), psicologo e filosofo inglese. Fu fellow al Trinity College, Cambridge, e nel 1897 professore di «filosofia della mente» in quell’università. La sua opera mostra una profonda influenza di Leibniz e di Lotze, noné dell’evoluzionismo. Tra le sue opere si ricordano: Naturalism and Agnosticism [Naturalismo e agnosticismo] (1899), Psychological Principles {Principi psicologici] (1920); A Study in Kant [Studio su Kant] (1922). L’articolo cui si riferisce Mill è una recensione della VII edizione della Logica e della III edizione dell’’Esame della filosofia di Hamilton: «Mr Mill’s Denial of Necessary Truth» [La negazione milliana della verità necessaria] (1871). 3. Joseph Priestley (1733-1804), imico e uomo di iesa inglese. Fu amico di Benjamin Franklin in séguito ai cui suggerimenti scrisse una History of Electricity [Storia dell’elettricità] mentre era professore di lingue e leeratura classie a Warrington. Nel 1767 rassegnò le dimissioni dall’insegnamento per contrasti con le autorità accademie e oenne una parrocia vicino Leeds. i, vivendo nei pressi di una distilleria, incomnciò ad interessarsi all’anidride carbonica e risulta dalla fermentazione. Il 1° agosto 1774 oenne per la prima volta l’ossigeno partendo dall’ossido di mercurio, e ne preconizzò l’uso «per il risanamento dei malati di polmoni». Grazie al metodo impiegato per oenere l’ossigeno scoperse pareci altri gas e erano passati inosservati ai suoi contemporanei, peré solubili in acqua. Un’altro contributo alla imica è rappresentato dal suo lavoro su «la purificazione dell’aria ad opera delle piante e l’influenza della luce su questo processo», e precorreva i moderni lavori sulla fotosintesi e sulla respirazione delle piante. 4. James McCosh (1811-1894), filosofo e teologo scozzese, allievo di William Hamilton e di omas Chalmers. Intraprese la carriera ecclesiastica, e abbandonò nel 1851 quando gli fu affidata la caedra di logica al een’s College di Belfast. Nel 1868 fu iamato a Princeton, nel New Jersey

(USA), dove fu nominato Reore e professore di filosofia. Tenne la prima carica fino al 1888, la seconda fino alla morte. Tra le sue opere filosofie ricordiamo: The Method of Divine Government, Physical and Moral [Il metodo del governo fisico e morale di Dio] (1850); An Examination of Mr. J. S. Mill’s Philosophy: being a Defence of Fundamental Truth [Esame della filosofia del signor J. S. Mill: difesa della verità fondamentale]

(1866), e è una replica, in difesa di Hamilton, al libro di Mill: (1868).

Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy; Philosophical Papers [Scritti filosofici]

CAPITOLO XXII. UNIFORMITÀ DI COESISTENZA CHE NON DIPENDONO DALLA CAUSAZIONE 1. L’ordine con cui i fenomeni accadono nel tempo è un ordine di successione o un ordine di simultaneità: di conseguenza le uniformità e vigono nell’accadere dei fenomeni sono o uniformità di successione o uniformità di coesistenza. Tue le uniformità di successione sono comprese soo la legge di causazione e le sue conseguenze. Ogni fenomeno ha una causa, alla quale segue invariabilmente, e da questa si derivano altre sequenze invariabili tra gli stadi successivi del medesimo effeo, e così pure tra gli effei e risultano da cause e si succedono invariabilmente l’una all’altra. Nello stesso modo in cui sorgono queste uniformità derivate di successione, prendono ane origine una grande varietà di uniformità di coesistenza. Effei coordinati della medesima causa coesistono naturalmente l’uno con l’altro. L’alta marea in un punto qualsiasi della superficie terrestre e l’alta marea al punto diametralmente opposto, sono effei uniformemente simultanei, e risultano dalla direzione in cui le arazioni combinate del Sole e della Luna agiscono sulle acque dell’oceano. In maniera analoga, un’eclisse solare per noi e un’eclisse solare della Terra per uno speatore situato sulla Luna sono fenomeni e coesistono invariabilmente; e la loro coesistenza può egualmente essere dedoa dalle leggi e regolano il loro prodursi. Viene perciò ovvio iedersi se di tue le uniformità di coesistenza tra i fenomeni non si possa rendere conto in questa maniera. E non si può dubitare e le coesistenze tra i fenomeni e a loro volta sono effei debbano necessariamente dipendere dalle cause di quei fenomeni. Se sono effei immediati o remoti della medesima causa non possono coesistere se non in virtù di alcune leggi o proprietà di questa causa; se sono effei di cause differenti non possono coesistere a meno e non coesistano le loro cause; e l’uniformità di coesistenza tra gli effei prova, se c’è, e nei limiti della nostra osservazione quelle cause particolari sono coesistite in modo uniforme.

2. Ma queste stesse considerazioni ci costringono a riconoscere e dev’esserci una classe di coesistenze e non possono dipendere dalla causazione: si traa delle coesistenze tra le proprietà fondamentali delle cose — vale a dire tra quelle proprietà e sono le cause di tui i fenomeni ma a loro volta non sono state causate da nessun fenomeno — e di una causa di cui si può andare alla ricerca soltanto risalendo all’origine di tue le cose. Tuavia, tra queste proprietà fondamentali, non ci sono soltanto coesistenze, ma ane uniformità di coesistenza. Si possono formare, e si formano, proposizioni generali e asseriscono e ogni qual volta si trovano certe proprietà, insieme con esse se ne trovano certe altre. Percepiamo un oggeo; diciamo, per esempio, dell’acqua. Naturalmente, riconosciamo e si traa di acqua da certe sue proprietà. Avendolo riconosciuto, siamo in grado di affermare di quest’oggeo innumerevoli altre proprietà, cosa questa e non potremmo fare se non fosse una verità generale, una legge o uniformità della natura, e quelle altre proprietà sono sempre congiunte con l’insieme delle proprietà in base alle quali identifiiamo la sostanza come acqua. In un passo precedente di questo libroa abbiamo spiegato abbastanza deagliatamente e cosa si intenda parlando di specie o di generi reali di oggei: si intendono quelle classi e differiscono l’una dall’altra non per un numero di distinzioni limitato e definito, ma per un numero di distinzioni indefinito e ignoto. A questo dobbiamo ora aggiungere e ogni proposizione per mezzo della quale si asserisce qualcosa di un genere o di una specie, afferma un’uniformità di coesistenza. Dal momento e dei generi e delle specie non conosciamo nulla se non le loro proprietà, per noi il genere (o la specie) è l’insieme delle proprietà per mezzo delle quali viene identificato, e e, naturalmente, dev’essere sufficiente a distinguerlo da ogni altro genere (o specie)b. Perciò, quando affermiamo qualcosa di un genere (o di una specie), affermiamo e una certa cosa coesiste in modo uniforme con le proprietà in base alle quali si riconosce quel genere (o quella specie), e questo è il solo significato dell’asserzione. Tra le uniformità di coesistenza e esistono in natura si possono quindi enumerare tue le proprietà dei generi (e delle specie). Comunque, non tue queste proprietà, ma solo una parte di esse sono indipendenti dalla causazione. Alcune sono proprietà fondamentali, altre proprietà derivate; di alcune di esse non si può individuare alcuna causa, mentre altre dipendono manifestamente da cause. Così, l’ossigeno puro è una specie reale, e una delle sue proprietà meno equivoe è la sua forma gassosa: comunque,

questa proprietà ha come sua causa la presenza di una certa quantità di calore latente, e se questo calore potesse essergli sorao (come si è fao per tanti gas, negli esperimenti di Faraday) la forma gassosa senza dubbio sparirebbe, e con essa sparirebbero numerose altre proprietà e dipendono da quella proprietà o sono causate da essa. Per quanto riguarda tue le sostanze e sono composti imici, e e perciò possono essere considerate come prodoi della giustapposizione di sostanze e differiscono tra di esse quanto al genere o alla specie, ci sono buone ragioni per presumere e le proprietà specifie del composto conseguono, in quanto effei, da alcune proprietà degli elementi, sebbene fino ad ora si siano fai poi progressi nel rintracciare una quale relazione invariabile tra queste e quelle. Una simile presunzione sarà ancora più forte quando l’oggeo stesso, come nel caso degli esseri organizzati, non è un agente primordiale, ma un effeo, la cui stessa esistenza dipende da una causa o da più cause. Perciò le specie reali e in imica vengono iamate sostanze semplici o agenti elementari naturali, sono le sole le cui proprietà possano essere considerate con certezza fondamentali; e le proprietà fondamentali di tali specie sono probabilmente molto più numerose di quanto non riconosciamo aualmente, dal momento e ogni caso in cui si sia riusciti a risolvere le proprietà dei loro composti in leggi più semplici, porta generalmente al riconoscimento di proprietà di tali elementi e sono diverse da qualsiasi proprietà conosciuta in precedenza. La risoluzione delle leggi dei moti celesti, portò all’individuazione della proprietà fondamentale, prima sconosciuta, di un’arazione reciproca di tui i corpi: la risoluzione — fino al punto in cui è arrivata a tu’oggi — delle leggi della cristallizzazione, della composizione imica, dell’elericità, del magnetismo, e via discorrendo, è indice di svariate polarità e ineriscono fondamentalmente alle particelle di cui sono composti i corpi; i pesi atomici relativi delle differenti specie di corpi furono accertati risolvendo in leggi più generali le uniformità e si erano osservate nelle proporzioni secondo le quali le sostanze si combinano tra loro, e così via. Così, sebbene ogni risoluzione di un’uniformità complessa in leggi più semplici ed elementari abbia un’apparente tendenza a ridurre il numero delle proprietà fondamentali, e in realtà elimini dalla lista molte di tali proprietà, tuavia (siccome il risultato di questo processo di semplificazione consiste nel far risalire ai medesimi agenti una quantità sempre più grande di effei differenti) quanto più procediamo in questa direzione, tanto maggiore è il numero di proprietà

distinte e siamo obbligati a riconoscere nel medesimo oggeo: di conseguenza, l’esistenza di queste proprietà dev’essere annoverata tra le generalità fondamentali della natura. 3. Ci sono perciò soltanto due specie di proposizioni e asseriscono uniformità di coesistenza tra proprietà. O le proprietà dipendono da cause o non ne dipendono. Se ne dipendono, la proposizione e afferma la loro coesistenza è una legge derivata di coesistenza tra effei e, fin quando non sia stata risolta nelle leggi di causazione da cui dipende, è una legge empirica e dev’essere messa alla prova in base ai princìpi di induzione cui sono riconducibili tali leggi. D’altra parte, se le proprietà non dipendono da cause ma sono proprietà fondamentali, allora, se è vero e coesistono invariabilmente, devono essere tue proprietà fondamentali di un solo e medesimo genere o di una sola e medesima specie, e soltanto la coesistenza di queste proprietà può essere classificata come un tipo tuo particolare di leggi di natura. ando affermiamo e tui i corvi sono neri, o e tui i negri hanno una capigliatura lanuginosa, asseriamo una uniformità di coesistenza. Asseriamo e la proprietà dell’essere nero, o dell’avere la capigliatura lanuginosa coesiste invariabilmente con le proprietà e, nel linguaggio comune o nella classificazione scientifica e abbiamo adoato, si considerano costituenti la classe dei corvi, o la classe dei negri. Ora, supponendo e l’essere nero sia una proprietà fondamentale degli oggei neri, o e la capigliatura lanuginosa sia una proprietà fondamentale degli animali e la posseggono, e supponendo e queste proprietà non siano risultati di causazione, e nessuna legge le connea con fenomeni antecedenti, allora, se tui i corvi sono neri e tui i negri hanno la capigliatura lanuginosa, l’essere nero e l’avere la capigliatura lanuginosa devono essere proprietà fondamentali delle specie «corvo» o «negro», o di quale genere e li include. Se, al contrario, l’essere nero o l’avere la capigliatura lanuginosa è un effeo e dipende da cause, queste proposizioni generali sono manifestamente leggi empirie, e tuo quello e è già stato deo a proposito di quella classe di generalizzazioni può essere applicato, senza modificazioni, ane a queste. Ora, abbiamo visto e nel caso di tui i composti — in breve, nel caso di tue le cose ecceuate le sostanze elementari e i poteri primari della natura — si presume e le proprietà dipendano realmente da cause, e in nessun

caso è possibile essere certi e non ne dipendano. Perciò le nostre pretese sarebbero infondate se per ogni generalizzazione riguardante la coesistenza di proprietà pretendessimo di raggiungere un grado di certezza al quale la generalizzazione non avrebbe nessun dirio se accadesse e le proprietà fossero il risultato del caso. Una generalizzazione riguardante la coesistenza, o, in altre parole, riguardante le proprietà dei generi e delle specie, può essere una verità fondamentale, ma può ane essere puramente e semplicemente una proprietà derivata; e dal momento e, così stando le cose, si traa di una di quelle verità derivate e non sono leggi di causazione e non sono state risolte nelle leggi di causazione da cui dipendono, la generalizzazione non può possedere un grado di evidenza più alto di quello e si addice a una legge empirica. 4. esta conclusione sarà confermata dalla considerazione di una sola grande deficienza, e preclude l’applicazione, alle uniformità fondamentali di coesistenza, di un sistema di induzione scientifica così rigorosa quale si è visto ammeono le uniformità nella successione dei fenomeni. La base di un tale sistema manca: non ci sono assiomi generali e stiano con le uniformità di coesistenza nella medesima relazione in cui la legge di causazione sta con le uniformità di successione. I metodi d’induzione applicabili all’accertamento di cause e di effei sono basati sul principio e tuo quello e ha un inizio deve avere una causa o l’altra; e tra le circostanze e esistevano di fao al tempo del suo cominciamento c’è certamente quale combinazione da cui l’effeo in questione consegue incondizionatamente e, ripetendosi il quale, l’effeo ricorrerebbe certamente un’altra volta. Ma in una ricerca volta a determinare se una certa specie (come la specie «corvo») possegga universalmente una certa proprietà (quale la proprietà di essere nero) non c’è spazio per assunzioni analoghe a questa. Non abbiamo nessuna certezza precedente e la proprietà deve avere qualcosa e coesiste costantemente con quella specie, vale a dire, e deve avere un coesistente invariabile allo stesso modo e un evento deve avere un antecedente invariabile. ando sentiamo dolore, dobbiamo trovarci in certe circostanze nelle quali, se fossero ripetute esaamente, sentiremmo sempre dolore. Ma quando siamo consapevoli dell’essere nero, non segue e sia presente qualcos’altro e è accompagnato costantemente dall’essere nero. Non c’è dunque spazio per l’eliminazione; non ci sono il metodo della concordanza o della differenza, o delle variazioni concomitanti (il quale

ultimo non è e una modificazione o del metodo della concordanza o del metodo della differenza). Dal semplice fao e non è presente null’altro di cui il nero possa essere una proprietà invariabile non possiamo concludere e il nero e vediamo nei corvi dev’essere una proprietà invariabile dei corvi. Perciò, indaghiamo la verità di una proposizione come «Tui i corvi sono neri» nelle stesse condizioni svantaggiose in cui ci troveremmo se, nelle nostre indagini sulla causazione, fossimo costrei ad ammeere, come una delle possibilità, la possibilità e in quel caso particolare l’effeo sia sorto senza nessuna causa. Mi sembra e l’aver trascurato questa grande distinzione sia stato l’errore più grave della concezione baconiana della filosofia induiva. Il principio di eliminazione, questo grande strumento logico e Bacone ebbe il grandissimo merito di introdurre per primo nell’uso generale, era da lui ritenuto applicabile nel medesimo senso, e senza restrizioni, tanto alle indagini sulla coesistenza quanto a quelle sulle successioni dei fenomeni. Bacone sembra aver pensato e, come ogni evento ha una causa o un antecedente invariabile, così ogni proprietà di un oggeo ha un coesistente invariabile, e egli iamò la Forma di quell’oggeo: e gli esempi e per lo più scelse per l’applicazione e l’illustrazione del suo metodo, erano indagini a proposito di queste Forme: tentativi di determinare in e cos’altro si somiglino tui quegli oggei e concordano in quale proprietà generale, come durezza o mollezza, secezza o umidità, caldo o freddo. este indagini non potevano approdare a nessun risultato. Raramente gli oggei hanno in comune l’una o l’altra di tali circostanze. Di solito concordano in quel solo punto su cui s’indaga, e in nient’altro. Una grande percentuale delle proprietà e, per quanto possiamo congeurare, è più probabile e siano quelle veramente fondamentali, sembrerebbero essenzialmente proprietà di molte specie diverse di cose, non imparentate tra loro per nessun altro aspeo. E per quanto riguarda le proprietà delle quali siamo in grado di dare quale ragione peré sono gli effei di cause, in genere esse non hanno nulla da fare con le somiglianze o le differenze fondamentali tra gli oggei in sé ma dipendono da quale circostanza esterna, soo l’influenza della quale qualsiasi oggeo è capace di manifestare quelle proprietà; e questo accade in modo più evidente e mai per quegli oggei favoriti delle ricere scientifie di Bacone quali il caldo e il freddo, e così pure per la durezza e la mollezza, la solidità e la fluidità, e per molte altre qualità e s’impongono alla nostra aenzione.

Pertanto, mancando una qualsiasi legge universale di coesistenza simile alla legge universale di causazione e regola la successione, siamo riportati indietro, all’induzione non scientifica degli antii: all’induzione per 1 enumerationem simplicem ubi non reperitur instantia contradictoria . La ragione e abbiamo per credere e tui i corvi sono neri è semplicemente e abbiamo visto e abbiamo sentito parlare di molti corvi neri, mentre non abbiamo mai visto corvi di un altro colore e non ne abbiamo mai sentito parlare. Rimane ora da prendere in considerazione fin dove possano arrivare queste prove, e in e modo dobbiamo misurare la loro forza in un qualsiasi caso dato. 5. Accade talvolta e un puro e semplice cambiamento nel modo di enunciare verbalmente una questione, bené in realtà non aggiunga nulla al significato espresso, costituisca, di per se stesso, un passo considerevole verso la sua risoluzione. esto, io credo, accade nel caso presente. Il grado di certezza di qualsiasi generalizzazione e non riposi su nessun’altra prova se non sulla concordanza di tue le osservazioni passate (fin dove tale concordanza arriva) non è e un altro modo per esprimere il grado di improbabilità e un’eccezione, ammesso e ne siano mai esistite, sia passata inosservata fino a quel momento. La ragione per credere e tui i corvi sono neri è misurata dall’improbabilità e fino a questo momento siano esistiti, senza e ce ne accorgessimo, corvi di quale altro colore. Formuliamo dunque la questione in quest’ultimo modo, e consideriamo e cosa sia implicato nella supposizione e possano esserci corvi e non sono neri, e in quali condizioni siamo autorizzati a considerare incredibile una cosa del genere. Se esistono realmente corvi e non sono neri, una di queste due cose deve darsi. O in tui i corvi osservati fino ad oggi la circostanza dell’essere nero dev’essere per così dire un accidente e non è connesso con nessuna distinzione specifica, o, se è una proprietà specifica, i corvi e non sono neri devono essere necessariamente una specie nuova, una specie fino ad oggi trascurata, sebbene ricada soo gli stessi trai salienti per mezzo dei quali i corvi sono stati caraerizzati fino a questo momento. Se dovessimo scoprire casualmente un corvo bianco tra corvi neri, o se si trovasse e quale volta i corvi diventano biani, risulterebbe provata la verità della prima supposizione. Si sarebbe provata la verità della seconda, se si trovasse e in Australia o in Africa esiste una specie, o una razza, di corvi biani o grigi.

6. La prima di queste supposizioni implica necessariamente e il colore è un effeo della causazione. Se nei corvi in cui è stata osservata, la proprietà di essere nero non fosse una proprietà della specie, ma potesse essere presente o assente senza e, in generale, la cosa faccia quale differenza nelle proprietà dell’oggeo, allora questo non sarebbe un fao fondamentale ìnsito negli individui in se stessi, ma dipenderebbe certamente da una causa. Indubbiamente ci sono molte proprietà e variano da individuo a individuo della medesima specie, o addiriura della medesima infima species, o specie più bassa. Certi fiori possono essere biani o rossi, senza differire per nessun altro aspeo. Ma queste proprietà non sono fondamentali: dipendono da cause. Nella misura in cui appartengono alla sua propria natura e non hanno origine da quale causa estrinseca ad essa, le proprietà di una cosa sono sempre le medesime nel medesimo genere. Si prendano, ad esempio, tue le sostanze semplici e tui i poteri elementari, cioè le sole cose di cui siamo certi e almeno alcune delle loro proprietà sono realmente fondamentali. Il colore è ritenuto generalmente la più variabile di tue le proprietà: tuavia non troviamo e lo zolfo è talvolta giallo e talvolta bianco, o e il suo colore varia, se non nella misura in cui questo suo colore è l’effeo di quale causa estrinseca, quale il tipo di luce con cui lo si illumina, la disposizione meccanica delle particelle (ad esempio dopo la fusione) ecc. Non troviamo e, alla medesima temperatura, il ferro è quale volta fluido e quale volta solido; e quale volta l’oro è malleabile e quale volta è fragile, e quale volta l’idrogeno si combina con l’ossigeno e quale altra volta no, e via discorrendo. Se dalle sostanze semplici passiamo a uno qualsiasi dei loro composti definiti, come acqua, ossido di calcio o acido solforico, troviamo e nelle proprietà di questi composti esiste la medesima costanza. ando le proprietà variano da individuo a individuo, ciò avviene o nel caso di aggregazioni soo forma di miscuglio quali l’aria atmosferica o la roccia, composte di sostanze eterogenee e e non costituiscono nessuna specie reale né vi appartengonoc, o nel caso di esseri organici. In quest’ultimo, infai, la variabilità si trova in alto grado. Animali della medesima specie e della medesima razza, esseri umani della medesima età, del medesimo sesso, e della medesima nazionalità differiranno in maniera grandissima, ad esempio per i trai del viso e la corporatura. Ma siccome (data l’estrema complicazione delle leggi dalle quali sono regolati) gli esseri organizzati sono altamente modificabili — cioè possono essere influenzati da un numero e da una varietà di cause maggiore

e non qualsiasi altro fenomeno — e siccome ane loro hanno avuto un inizio (e perciò una causa) ci sono buone ragioni per credere e nessuna delle loro proprietà sia fondamentale, ma e tue le loro proprietà siano derivate e siano state prodoe per causazione. E quest’assunzione è confermata dal fao e generalmente le proprietà e variano da un individuo all’altro in istanti differenti variano ane, più o meno, nel medesimo individuo. Come ogni altro evento, questa variazione presuppone una causa, e di conseguenza implica e le proprietà non sono indipendenti dalla causazione. Perciò, se nei corvi la proprietà di essere nero è puramente accidentale e può variare mentre la specie rimane la medesima, indubbiamente la sua presenza o la sua assenza non sono fai fondamentali, ma sono l’effeo di quale causa sconosciuta: e in questo caso l’universalità dell’esperienza e tui i corvi sono neri costituisce una prova sufficiente dell’esistenza di una causa comune, e consolida la generalizzazione, in quanto legge empirica. Dal momento e ci sono innumerevoli casi affermativi, e finora nessun caso negativo, le cause da cui la proprietà dipende devono esistere dovunque, nei limiti delle osservazioni e si sono fae, e la proposizione può essere considerata universale entro questi limiti e secondo il grado al quale è lecito estenderli ai casi contigui. 7. In secondo luogo, se, nel caso in cui è stata osservata, la proprietà non è un effeo di causazione, allora è una proprietà specifica; e in questo caso la generalizzazione può essere scartata soltanto in séguito alla scoperta di una nuova specie di corvi. Comunque, e in natura debba esistere una certa specie particolare e finora non era ancora stata scoperta, è un’ipotesi e si è avverata così spesso e non la si può affao considerare improbabile. Nulla autorizza il tentativo di limitare le specie di cose e esistono in natura. L’unica cosa improbabile sarebbe la scoperta di una nuova specie in località e prima c’era ragione di credere e fossero state esplorate completamente; e ane quest’improbabilità dipende dal grado di cospicuità della differenza tra le specie da poco scoperte e le altre specie, dal momento e nelle situazioni più familiari si scoprono continuamente nuove specie di minerali, piante e addiriura di animali e prima erano state trascurate, o erano state confuse con specie note. Perciò, sia per questa seconda ragione, sia ane per la prima, l’uniformità di coesistenza e è stata osservata può valere soltanto come legge empirica, e questo non soltanto entro i limiti

dell’osservazione effeiva, ma ane di un’osservazione tanto accurata quanto lo riiede la natura del caso. E proprio per questo (come abbiamo fao osservare in un capitolo precedente di questo Libro) accade e alle prime avvisaglie rinunciamo tanto spesso alle generalizzazioni di questa classe. Se un testimonio degno di fede asserisse di aver visto un corvo bianco in circostanze tali per cui non è incredibile e in precedenza il corvo sia sfuggito alla nostra aenzione, dovremmo prestare piena fiducia alla sua asserzione. È dunque iaro e le uniformità e vigono nella coesistenza dei fenomeni — quelle e abbiamo ragione di considerare fondamentali, non meno di quelle e traggono le loro origini dalle leggi di cause e non abbiamo ancora scoperto — hanno il dirio di essere acceate soltanto come leggi empirie; non si devono presumere vere se non entro i limiti di tempo, spazio e circostanza in cui le osservazioni sono state fae, o in casi streamente contigui. 8. Nell’ultimo capitolo abbiamo visto e c’è un punto di generalità in cui le leggi empirie diventano tanto certe quanto le leggi di natura: o, per meglio dire, un punto in cui non c’è più nessuna differenza tra leggi empirie e leggi di natura. Come si avvicinano a questo punto, o, in altre parole, come il loro grado di generalità diventa più alto, le leggi empirie diventano più certe: sulla loro universalità si può fare più forte affidamento. Peré, in primo luogo, se sono risultati di causazione (cosa, questa, del cui contrario non possiamo mai essere certi nemmeno per le classi di uniformità di cui abbiamo traato nel presente capitolo) è provato e quanto più sono generali tanto più grande è lo spazio nel quale predominano le collocazioni necessarie ed entro il quale non esiste nessuna causa capace di contrastare le cause ignote dalle quali dipende la legge empirica. Il dire e una certa cosa è una proprietà invariabile di una quale classe molto limitata di oggei, equivale a dire e questa proprietà accompagna invariabilmente quale gruppo molto numeroso e molto complesso di proprietà differenziali; e questo, ammesso e nella faccenda sia implicata la causazione, parla in favore di una combinazione di molte cause, e perciò di una grande probabilità e tali cause vengano contrastate, mentre l’estensione relativamente ristrea delle osservazioni rende impossibile predire fino a qual punto le cause contrastanti ignote possano essere distribuite per tua la natura. Ma quando si è trovato e una generalizzazione vale per una

percentuale molto alta di tue le cose qualsiasi, è già provato e quasi nessuna delle cause e esistono in natura ha un quale potere su di essa; e ben poi cambiamenti nella combinazione delle cause possono influire su di essa, dal momento e il massimo numero di combinazioni possibili dev’essere già esistito nell’uno o nell’altro dei casi in cui la si è trovata vera. Se perciò una qualsiasi legge empirica è un risultato di causazione, quanto più sarà generale tanto più si potrà fare affidamento su di essa. E ane se non fosse un risultato di causazione ma una coesistenza fondamentale, quanto più sarà generale tanto più grande sarà la quantità di esperienza da cui è stata derivata e perciò tanto più grande sarà la probabilità e, se fossero esistite eccezioni, se ne sia già presentata qualcuna. Per queste ragioni, per accertare l’esistenza di eccezioni a una delle leggi empirie più generali ci vogliono molte più prove di quante non ce ne vogliano per accertare l’esistenza di eccezioni alle leggi più speciali. Per credere e potrebbe esistere un nuovo genere di corvi, o una nuova specie di uccelli e somigliano ai corvi per le proprietà e fino a questo momento abbiamo considerato come distintive di questa specie, non dovremmo incontrare nessuna difficoltà. Ma per convincerci dell’esistenza di una specie di corvi e posseggono proprietà differenti da qualsiasi proprietà universale generalmente riconosciuta agli uccelli, ci vorrebbero prove più forti; e prove di grado ancora più alto ci vorrebbero se le proprietà fossero in conflio con tue le altre proprietà universali e si riconoscono come proprie degli animali. Tuo questo è conforme al modo di giudicare raccomandato dal senso comune e dalla pratica generale dell’umanità, e di fronte a ogni novità in natura è tanto più incredula quanto più alto è il grado di generalità dell’esperienza e queste novità sembrano contraddire. 9. È concepibile e le presunte proprietà possano entrare in conflio con alcune proprietà universali e si riconoscono come proprie della materia. In questo caso la loro improbabilità sarebbe massima, ma neppure allora equivarrebbe all’incredibilità. Si conoscono soltanto due proprietà e siano comuni a tua quanta la materia; in altre parole, c’è una sola uniformità nota di coesistenza di proprietà e si estenda a tua quanta la natura fisica, cioè questa: e tuo quello e oppone resistenza al movimento gravita, o, per meerla nei termini in cui la mee il professor Bain, l’inerzia e la gravità coesistono in tua quanta la materia, e le loro quantità sono proporzionali. este proprietà (come dice a ragione il professor Bain) non si implicano

reciprocamente; da nessuna di esse potremmo presumere l’esistenza dell’altra basandoci sulla causazione. Ma proprio per questa ragione non saremo mai sicuri e non si possa scoprire una nuova specie e possegga una delle due proprietà senza possedere l’altra. L’ipotetico etere, ammesso e esista, potrebbe essere una specie così faa. I nostri sensi non possono riconoscere in esso né resistenza né gravità; ma se alla fine dovesse risultare provata la realtà di un mezzo e oppone resistenza (se dovesse risultare provata, per esempio, dall’alterazione dei tempi di rivoluzione delle comete periodie, insieme con le prove fornite dai fenomeni luminosi e termici) sarebbe precipitoso concludere, da queste prove soltanto e senza averne altre, e l’etere deve gravitare. Infai, ane generalizzazioni più ampie, e abbracciano specie comprensive contenenti in sé un gran numero e una grande varietà di infimae species, non sono altro e leggi empirie e riposano, puramente e semplicemente, sull’induzione per enumerazione semplice e non su un qualsiasi processo di eliminazione, processo e peraltro sarebbe completamente inapplicabile in questo genere di casi. Tali generalizzazioni dovrebbero pertanto essere fondate su un esame di tue le infimae species e sono comprese in esse e non soltanto sull’esame di una parte di esse. Dove non entra la causazione, dal fao e una proposizione è vera di un certo numero di cose e si somigliano tra loro soltanto peré sono animali, non possiamo concludere e, per questo, la proposizione è vera di tui gli animali. Anzi, se una certa cosa è vera di specie e differiscono tra di loro più di quanto non differiscano da una terza (specialmente se nella maggior parte delle sue proprietà note questa terza specie occupa una posizione intermedia tra le prime due) c’è quale probabilità e la stessa cosa sarà vera ane di quelle specie intermedie; infai per lo più (ane se non universalmente) si trova e c’è una sorta di parallelismo tra le proprietà di specie differenti e e il loro grado di dissimiglianza per un certo aspeo è in quale modo proporzionale al loro grado di somiglianza per certi altri. Riscontriamo questo parallelismo nelle proprietà dei differenti metalli; nelle proprietà dello zolfo, del fosforo e del carbonio; in quelle del cloro, dello iodio e del bromo, negli ordini naturali delle piante e degli animali e via discorrendo. Ma questa specie di conformità soffre di innumerevoli anomalìe e di innumerevoli eccezioni, sempre e la stessa conformità non sia a sua volta un’anomalìa e un’eccezione in natura.

Per questa ragione non dovremmo mai azzardarci a enunciare proposizioni universali e riguardino proprietà delle specie superiori, a meno e tali proposizioni non siano basate su una connessione causale provata o presunta, e soltanto dopo aver esaminato separatamente ogni soospecie inclusa nella specie più ampia. E ane allora dobbiamo tenerci pronti a rinunciare a tali generalizzazioni non appena si presenti quale nuova anomalia e, quando l’uniformità non derivi dalla causazione, non può mai essere considerata molto improbabile neppure nel caso della più generale fra queste leggi empirie. Così, con il progredire dell’esperienza, tue le proposizioni universali e abbiamo tentato di enunciare a proposito delle sostanze semplici o di una qualsiasi delle classi e sono state formate con le sostanze semplici (e questo tentativo è stato fao molto spesso) o sono svanite nel nulla o si sono dimostrate erronee; e se si ecceua un certo parallelismo con alcune delle altre specie e gli sono più simili, ciascuna specie di sostanze semplici, insieme con la sua collezione di proprietà, rimane separata dal resto. Anzi, per quanto riguarda gli esseri organizzati, c’è una gran quantità di proposizioni di cui si è accertato e sono universalmente vere delle specie superiori, e e la scoperta di eccezioni a una qualsiasi di queste proposizioni dev’essere considerata come estremamente improbabile. Ma, come abbiamo già osservato, abbiamo tue le ragioni per credere e si trai di proprietà e dipendono dalla causazioned. Per gli scopi della logica, dunque, le uniformità di coesistenza — non soltanto quando sono conseguenze di leggi di successione, ma ane quando sono verità fondamentali — devono essere annoverate tra le leggi empirie; e per tui i loro aspei possono essere ricondoe alle stesse regole alle quali si possono ricondurre le uniformità non risolte, delle quali sappiamo e dipendono dalla causazionee. a.

Libro I, cap. VII. b. In alcuni casi una specie è sufficientemente identificata da quale proprietà notevole; ma, più comunemente, per identificarla sono necessarie parecie proprietà, dal momento e ciascuna proprietà considerata singolarmente è nel medesimo tempo una proprietà di quella e di altre specie. Il colore e la lucentezza del diamante sono comuni sia al diamante sia alla pasta da cui si fanno diamanti falsi; la forma di oaedro è comune al diamante, all’allume e al minerale di ferro magnetico; ma il colore, la forma e la luce insieme identificano la specie «diamante», cioè sono per noi un segno e il diamante è combustibile, e quando lo si brucia produce acido carbonico, e non può essere tagliato da nessuna sostanza nota, insieme con altre proprietà accertate e con il fao e ne esiste un numero indefinito di non ancora accertate.

c.

Naturalmente questa dorina presuppone e le forme allotropie di quella e imicamente è la medesima sostanza costituiscano altreante specie differenti; e tali realmente sono, nel senso in cui la parola «specie» viene usata in questo traato. d. Il professor Bain (Logic, II, 13) menziona due leggi empirie e, con la sola eccezione della legge e connee tra loro la gravità e la resistenza al movimento, considera come «le due leggi finora scoperte, e operano più diffusamente nei casi in cui due proprietà distinte sono congiunte in tue le sostanze in generale». La prima è «una legge e connee peso atomico e calore specifico in proporzione inversa. Per corpi semplici dotati di pesi eguali, il peso atomico, moltiplicato per un numero e esprime il calore specifico, dà luogo a un prodoo praticamente uniforme. Per tui gli elementi, i prodoi sono molto prossimi al numero costante 6». L’altra è una legge e vale «tra la gravità specifica delle sostanze allo stato gassoso e i pesi atomici. In alcuni casi la relazione tra i due numeri è l’eguaglianza, in altri casi l’una è un multiplo dell’altra». Nessuna di queste due generalizzazioni ha il sia pur minimo aspeo di legge fondamentale. Entrambe rimandano senza possibilità d’errore a leggi più alte. Dal momento e il calore necessario a portare a una data temperatura il medesimo peso di sostanze differenti (calore e si iama il calore specifico di quelle sostanze) è inversamente proporzionale al loro peso atomico, cioè direamente proporzionale al numero di atomi presente in un determinato peso di ogni sostanza, segue e, per essere portato a una data temperatura, un solo atomo di ogni sostanza ha bisogno del medesimo ammontare di calore. Si traa certo di una legge molto interessante e molto importante, ma si traa pur sempre di una legge di causazione. L’altra legge menzionata dal signor Bain indirizza alla conclusione e tue le sostanze e si trovano allo stato gassoso contengono, nel medesimo volume, il medesimo numero di atomi; siccome però lo stato gassoso sospende tue le forze di coesione, era naturale aspearci una cosa del genere, ane se non la si poteva assumere positivamente. esta legge potrebbe ane essere un risultato del modo in cui agiscono le cause, vale a dire dei movimenti molecolari. Il caso in cui uno dei numeri non è identico all’altro ma è multiplo di esso può essere spiegato in base alla supposizione per nulla improbabile e, nelle nostre stime auali dei pesi atomici di alcune sostanze, scambiamo erroneamente due o tre atomi per un atomo solo, o un atomo solo per pareci atomi. e. A pagina 324 del suo libro, il door M’Cosh considera le leggi della composizione imica dei corpi come non ricadenti soo il principio di causazione, e ritiene e costituisca un’omissione di questo libro il non aver fornito canoni speciali per la loro analisi e la loro prova. Ma, come ho spiegato, tui i casi di composizione imica sono casi di causazione. ando si dice e l’acqua è un composto di idrogeno e di ossigeno, si afferma e idrogeno e ossigeno generano le proprietà dell’acqua in virtù dell’azione e esercitano l’uno sull’altro in certe condizioni. Di conseguenza a questo caso è possibile applicare i canoni dell’induzione, così come sono stati enunciati in questo traato. egli adaamenti speciali e i metodi induivi possono riiedere nella loro applicazione alla imica o a qualsiasi altra scienza, costituiscono un argomento appropriato per iunque trai della logica delle scienze particolari come ne traa il professor Bain nel suo libro, ma non appartengono alla logica generale. Il door M’Cosh lamenta ane (a p. 325) e io non abbia fornito i canoni per quelle scienze nelle quali «il fine e si cerca di oenere non è la scoperta di cause o di composizioni di cause, ma di classi, vale a dire di classi naturali». esti canoni non potrebbero essere altro e i princìpi e le regole della classificazione naturale, i princìpi e regole e io certamente ritenevo di aver esposto in modo considerevolmente diffuso. Ma questo è ben lungi dall’essere l’unico caso in cui il door M’Cosh sembra non essersi reso conto del contenuto dei libri e critica. 1. «Per enumerazione semplice, in cui non si trovano casi e contraddicano gli altri».

CAPITOLO XXIII. GENERALIZZAZIONI APPROSSIMATE E PROVE PROBABILI 1. Nelle nostre indagini sulla natura del processo induivo non dobbiamo confinare la nostra aenzione a quelle generalizzazioni trae dall’esperienza e diiarano esplicitamente la loro verità universale. C’è una classe di verità induive, e sono diiaratamente non universali, in cui tuavia non si pretende e il predicato sia sempre vero del soggeo, ma il cui valore in quanto generalizzazioni è nondimeno estremamente grande. Una parte importante del campo della conoscenza induiva non consiste di verità universali, ma di approssimazioni a tali verità, e quando si dice e una conclusione riposa su prove probabili, di solito le premesse da cui è traa sono generalizzazioni di questo tipo. Come ogni inferenza certa a proposito di un caso particolare implica e una proposizione generale della forma «Tui gli A sono B» è fondata, così ogni inferenza probabile assume e sia fondata una proposizione della forma «La maggior parte degli A sono B»: e il grado di probabilità dell’inferenza in un caso medio dipenderà dalla proporzione tra il numero di casi esistenti in natura e concordano con la generalizzazione e il numero di quelli e invece sono in conflio con essa. 2. Nella scienza le proposizioni della forma «La maggior parte degli A sono B» hanno gradi d’importanza molto differenti da quelli e hanno nella pratica quotidiana. Per il ricercatore scientifico tali proposizioni hanno valore soprauo come materiali per, e passi verso, l’acquisizione di verità universali. La scoperta di queste ultime è lo scopo proprio della scienza: il suo lavoro non può dirsi compiuto se si arresta alla proposizione e una maggioranza di A sono B, senza circoscrivere questa maggioranza per mezzo di quale caraere comune, adao a distinguerla dalla minoranza. Indipendentemente dalla minor precisione di tali generalizzazioni imperfee e dalla minor sicurezza con cui possono essere applicate a casi individuali, è evidente e a paragone con le generalizzazioni esae esse sono quasi inutili come mezzi per scoprire deduivamente nuove verità. È bensì vero e combinando la proposizione «La maggior parte degli A sono B» con una

proposizione universale, «Tui i B sono C», possiamo arrivare alla conclusione e la maggior parte degli A sono C. Generalmente, però, quando s’introduce una seconda proposizione approssimativa — o ane quando ce n’è una sola, se quest’una è la premessa maggiore — non si può arrivare a nessuna conclusione positiva. ando la maggiore è «La maggior parte dei B sono D», allora, ane se la minore è «Tui gli A sono B», non possiamo inferire e la maggior parte degli A sono D, e non possiamo neppure inferire con quale sicurezza e alcuni A sono D. Ane se la maggioranza della classe B ha l’aributo significato da D, può ancor darsi e l’intiera sooclasse A appartenga alla minoranzaa. Ane se in scienza se ne può fare un uso così limitato, tranne e come tappe sulla strada e conduce a qualcosa di meglio, spesso nella guida della nostra condoa pratica le generalizzazioni approssimative sono tuo ciò su cui possiamo fare affidamento. Ane quando la scienza ha realmente determinato le leggi universali di un quale fenomeno, non solo queste leggi sono in genere eccessivamente gravate da condizioni e devono essere adaate all’uso quotidiano, ma i casi e si presentano nella vita sono troppo complicati, e le nostre decisioni devono essere prese troppo rapidamente, peré ci si possa aspeare e l’esistenza di un fenomeno possa essere provata per mezzo di quelli e, a quanto si è accertato scientificamente, sono i suoi contrassegni universali. L’essere indecisi e riluanti ad agire peré non si può agire in base a prove dotate di caraere perfeamente concludente è un difeo e talvolta costituisce una caraeristica secondaria dello spirito scientifico ma e, dovunque esista, lo rende inadao ad affrontare le emergenze pratie. Se vogliamo e la nostra azione abbia successo dobbiamo giudicare in base ad indicazioni e, ane se generalmente non c’inducono in errore, tuavia quale volta in errore c’inducono, e alla concludenza incompleta di una qualsiasi indicazione dobbiamo sopperire, per quanto è possibile, oenendone altre e la corroborino. I princìpi dell’induzione e si possono applicare alle generalizzazioni approssimative sono perciò un oggeo di ricerca non meno importante delle regole per la ricerca delle verità universali, e se non fosse per il fao e questi princìpi sono puri e semplici corollari di quelli dei quali abbiamo già traato, sarebbe ragionevole aspearci e ci tengano impegnati quasi altreanto a lungo.

3. Ci sono due sorta di casi in cui siamo costrei a regolarci in base a generalizzazioni e hanno la forma imperfea: «La maggior parte degli A sono B». Il primo caso si dà quando non abbiamo altre generalizzazioni; quando, cioè, non siamo stati in grado di proseguire ulteriormente la nostra indagine dei fenomeni, come nelle proposizioni seguenti: «La maggior parte delle persone con oci scuri hanno capelli scuri», «La maggior parte delle sorgenti contengono sostanze minerali», «La maggior parte delle formazioni stratificate contengono fossili». L’importanza di questa classe di generalizzazioni non è molto grande, peré, ane se accade frequentemente e non riusciamo a vedere nessuna ragione per cui quello e è vero della maggior parte degli individui della classe non debba essere vero del resto della classe e non siamo in grado di raccogliere i primi soo una caraeristica generale e possa distinguerli dal rimanente, tuavia, se vogliamo accontentarci di proposizioni e hanno un grado minore di generalità e vogliamo spaccare la classe A in sooclassi, generalmente possiamo oenere una collezione di proposizioni esaamente vere. Non sappiamo per quale ragione la maggior parte del legno sia più leggero dell’acqua, né possiamo indicare una proprietà generale e distingua il legno e è più leggero dell’acqua dal legno e dell’acqua è più pesante. Ma sappiamo esaamente quali specie di legno siano più leggere e quali più pesanti dell’acqua, e se c’imbaiamo in un esemplare e non si conforma a nessuna specie nota (e questo è il solo caso in cui la nostra conoscenza precedente non ci fornisca altra guida e non sia la generalizzazione approssimativa), possiamo generalmente fare un esperimento specifico, e costituisce una risorsa più sicura.

John Stuart Mill. Dagherrotipo

Accade spesso, comunque, e la proposizione «La maggior parte degli A sono B» non sia l’ultima parola in fao di progresso scientifico, ane se la conoscenza e possediamo oltre a questa proposizione non si può convenientemente adaare al caso particolare. Può darsi e sappiamo abbastanza bene quali circostanze distinguano la parte di A e ha l’aributo B dalla parte e non ce l’ha, ma non abbiamo i mezzi o non abbiamo il tempo per esaminare se queste circostanze caraeristie esistano o no nel caso individuale. esta è la situazione in cui generalmente ci troviamo quando l’indagine è di quella specie iamata «morale», cioè, di quella specie e ha come scopo la predizione delle azioni umane. Per meerci in grado di affermare qualcosa di universale a proposito delle azioni di certe classi di esseri umani, la classificazione dev’essere fondata sulle circostanze della loro cultura e dei loro abiti mentali, circostanze e nei casi individuali raramente sono conosciute con esaezza; dal canto loro, le classi fondate su queste distinzioni non si accorderanno mai esaamente con quelle in cui gli uomini vengono divisi per scopi sociali. Tue le proposizioni e possiamo enunciare a proposito delle azioni degli esseri umani, così come vengono classificati ordinariamente o così come vengono classificati secondo l’una o l’altra specie di indicazioni esteriori, sono semplicemente approssimative. Possiamo soltanto dire: «La maggior parte delle persone di una certa età, di una certa professione, di un certo Paese o di una certa posizione sociale, hanno queste qualità così e così», oppure: «La maggior parte delle persone, messe in certe circostanze, agiscono in questo modo così e così». Non e spesso non sappiamo abbastanza bene da quali cause dipendano le loro qualità, o quale specie di persone siano quelli e agiscono in un certo modo particolare; sta di fao, però, e raramente abbiamo i mezzi per sapere se una certa persona individuale sia stata sooposta all’influenza di quelle cause, o se sia una persona di quella specie particolare. Alle generalizzazioni approssimative potremmo sostituire proposizioni universalmente vere; ma sarebbe praticamente impossibile applicare queste proposizioni alla pratica. Saremmo sicuri delle nostre maggiori, ma non saremmo in grado di trovare minori e gli si adaino. Siamo perciò costrei a trarre le nostre conclusioni da indicazioni più rozze e maggiormente soggee a fallimento. 4. Procedendo ora a prendere in considerazione e cosa debba essere ritenuta una prova sufficiente di una generalizzazione approssimativa, non ci

sarà difficile riconoscere immediatamente e, dato pure e sia ammissibile, sarà ammissibile soltanto come una legge empirica. Le proposizioni della forma «Tui gli A sono B» non sono necessariamente leggi di causazione o uniformità fondamentali di coesistenza. Le proposizioni come «La maggior parte degli A sono B» non possono esserlo. Potrebbe darsi e le proposizioni e finora abbiamo trovato vere in ogni caso osservato non siano conseguenze necessarie di leggi di causazione o di uniformità fondamentali: e in questo caso, per quanto ne sappiamo, potrebbe darsi e al di là dei limiti dell’osservazione effeiva siano false: ancora più evidentemente questo deve accadere nel caso di proposizioni e sono vere soltanto in una maggioranza semplice dei casi osservati. Comunque, c’è una certa differenza nel grado di certezza della proposizione «La maggior parte degli A sono B», secondo e questa generalizzazione approssimata comprenda o non comprenda la totalità della nostra conoscenza dell’argomento. Supponiamo, in primo luogo, e sia vera la prima cosa. Sappiamo soltanto e la maggior parte degli A sono B, però non sappiamo né peré lo siano, né per quale aspeo quelli e lo sono differiscano da quelli e non lo sono. Allora come siamo venuti a sapere e la maggior parte degli A sono B? Precisamente nello stesso modo in cui saremmo venuti a saperlo se si fosse dato il caso e tui gli A fossero B. Abbiamo raccolto un certo numero di esempi, sufficienti ad escludere e la circostanza fosse casuale e, fao questo, abbiamo confrontato il numero dei casi affermativi con il numero dei casi negativi. Come accade con altre leggi derivate non ancora risolte, del risultato ci si può fidare soltanto entro i limiti, non soltanto di spazio e di tempo, ma ane di circostanza, nei quali la verità della proposizione è stata effeivamente osservata. Infai, poié si suppone e ignoriamo le cause e rendono vera la proposizione, non possiamo dire in qual maniera una quale circostanza nuova possa forse modificare la nostra proposizione. Forse si troverà e la proposizione «La maggior parte dei giudici sono incorruibili» è vera degli Inglesi, dei Francesi, dei Nord Americani, e così via; ma se, basandoci soltanto su queste prove, estendessimo quest’asserzione agli Orientali, faremmo un passo al di là dei limiti, non soltanto di luogo, ma di circostanza, entro i quali il fao è stato osservato, e lasceremmo libero accesso alle possibilità di assenza di cause determinanti o di presenza di cause contrastanti, possibilità e potrebbero essere fatali alla generalizzazione approssimativa.

Nel caso in cui la proposizione approssimativa non costituisce l’ultima parola della nostra conoscenza scientifica, ma solamente la forma di tale conoscenza più facilmente disponibile per la guida pratica; nel caso cioè in cui non soltanto sappiamo e la maggior parte degli A hanno l’aributo B, ma conosciamo ane le cause di B, o certe proprietà per cui la parte di A e ha quell’aributo si distingue dalla parte e non ce l’ha, ci troviamo in una posizione alquanto più favorevole di quella in cui ci trovavamo nel caso precedente. Ora, infai, disponiamo di un duplice modo per accertare se è vero e la maggior parte degli A sono B: il modo direo, come prima, e un modo indireo, e consiste nell’esaminare se la proposizione possa essere dedoa dalla causa nota o da un quale criterio noto di B. Supponiamo, per esempio, e la questione sia se la maggior parte degli Scozzesi siano capaci di leggere. Può darsi e non abbiamo osservato un numero e una varietà di Scozzesi sufficienti a meerci in grado di accertare questo fao o non abbiamo ricevuto, da parte di altre persone, sufficienti testimonianze a questo proposito. ando però consideriamo e la causa del fao e qualcuno sia capace a leggere è il fao e glie l’abbiano insegnato, ci si presenta un altro modo per decidere la questione: quello e consiste nell’indagare se la maggior parte degli Scozzesi siano stati mandati a scuole in cui s’insegna efficacemente a leggere. Di questi due modi, talvolta è più facilmente disponibile il primo, talaltra è più facilmente disponibile il secondo. In alcuni casi la frequenza dell’effeo è più accessibile a quell’osservazione estesa e varia e è indispensabile per stabilire la verità di una legge empirica; altre volte è più accessibile la frequenza delle cause, o di quale altra indicazione collaterale. Accade comunemente e nessuna delle due sia susceibile di un’induzione tanto soddisfacente quanto si potrebbe desiderare, e e le ragioni in base alle quali si accea la conclusione siano composte da entrambe. Così, una persona può credere e la maggior parte degli Scozzesi siano capaci di leggere, peré, per quanto ne sa, la maggior parte degli Scozzesi sono stati mandati a scuola e la maggior parte delle scuole scozzesi insegnano efficacemente a leggere; oppure può crederci, peré la maggior parte degli Scozzesi e ha conosciuto o di cui ha sentito parlare erano capaci di leggere, ane se di per se stesso nessuno di questi due insiemi di osservazioni può soddisfare le condizioni necessarie, sia dal punto di vista dell’estensione sia da quello della varietà. Può darsi e nella maggior parte dei casi la generalizzazione approssimativa sia indispensabile per farci da guida ane quando

conosciamo la causa o l’uno o l’altro di certi segni dell’aributo predicato; tuavia è superfluo fare osservare e in tui i casi in cui siamo effeivamente in grado di riconoscere l’esistenza della causa o del segno, all’indicazione incerta possiamo sostituirne una certa. Per esempio, un testimonio fa un’asserzione, e la questione è se crederci oppure no. Se non guardiamo a nessuna delle circostanze individuali del caso, non abbiamo nulla e ci diriga tranne la generalizzazione approssimativa e la verità è più comune della falsità, o, in altre parole, e la maggior parte delle persone dice la verità nella maggior parte delle occasioni. Ma se consideriamo in quali circostanze i casi in cui è stata dea la verità differiscano dai casi in cui non è stata dea, troviamo, per esempio, le circostanze seguenti: il fao e il testimonio sia una persona onesta, o il fao e non lo sia; il fao e sia un osservatore accurato, o il fao e non lo sia; il fao e abbia interesse a rendersi utile nella faccenda, o e non ce l’abbia. Ora, non soltanto può darsi e siamo capaci di oenere altre generalizzazioni approssimate riguardanti il grado di frequenza di queste varie possibilità, ma può ane darsi e sappiamo quale di esse sia positivamente realizzata nel caso individuale. Se il testimonio abbia, o non abbia, interesse a rendersi utile, forse lo sappiamo direamente, mentre conosciamo gli altri due punti indireamente, da certi segni: per esempio, dalla sua condoa in occasioni precedenti, o dalla sua reputazione e, pur essendo un contrassegno molto incerto, fornisce una generalizzazione approssimativa (per esempio: «La maggior parte delle persone e sono ritenute oneste da coloro con cui hanno avuto spesso da fare, sono davvero oneste») e si avvicina alla verità universale più di quanto non faccia la proposizione generale approssimativa dalla quale abbiamo preso le mosse, e cioè: «La maggior parte delle persone, nella maggior parte delle occasioni, dicono la verità». Dal momento e pare superfluo soffermarci ulteriormente sulla questione delle prove a sostegno delle generalizzazioni approssimative, procederemo ora a traare un argomento non meno importante: quello delle cautele e si devono osservare quando si argomenta da queste proposizioni non completamente universali al caso particolare. 5. Per quanto riguarda l’applicazione direa di una generalizzazione approssimativa a un caso individuale, questa questione non presenta alcuna difficoltà. Se la proposizione «La maggior parte degli A sono B» è stata stabilita come legge empirica per mezzo di un’induzione sufficiente, siamo

autorizzati a concludere e un qualsiasi particolare A è B con una probabilità e è proporzionale alla prevalenza del numero dei casi affermativi sul numero delle eccezioni. Se è stato trovato e è possibile conseguire la precisione numerica nei dati, alla valutazione delle possibilità di errore nella conclusione si può dare un grado di precisione corrispondente. Se si può stabilire come legge empirica e su dieci A nove sono B, nell’assumere e un A qualsiasi, e non conosciamo in persona propria, è B, ci sarà una possibilità di errore su dieci: ma naturalmente questo vale soltanto entro i limiti di tempo, spazio e circostanza abbracciati dalle nostre osservazioni, e perciò non possiamo contarci per tue le sooclassi o varietà di A (o per A, in ogni insieme di circostanze esterne) e non siano comprese nella media. Si deve aggiungere e possiamo farci guidare dalla proposizione «Su dieci A nove sono B» soltanto in casi in cui non sappiamo nulla, tranne e rientrano nella classe A. Se infai, dato un caso particolare i, non soltanto sappiamo e cade soo A, ma sappiamo ane a quale specie o verità di A appartiene, generalmente sbaglieremo se applieremo a i la media relativa all’intiero genere, da cui la media corrispondente a quella sola specie potrebbe, con ogni probabilità, differire in misura non irrilevante. E così pure, se invece di essere una sorta particolare di caso, i fosse un caso di cui si sa e è soo l’influenza di un particolare insieme di circostanze. Probabilmente, in un caso del genere la presupposizione traa dalle proporzioni numerie presenti nell’intiero genere non farebbe altro e indurre in errore. Una media generale dovrebbe essere applicata soltanto a casi di cui non si sa, né si può presumere, e sono diversi dai casi medi. Di solito, perciò, queste medie sono ben poco utili per la guida pratica di quegli affari e non concernano i grandi numeri. Le tavole delle probabilità di sopravvivenza sono utili agli uffici di assicurazione, ma sono ben poco utili per informare ciascuno di noi delle probabilità della durata della propria vita, o di ogni altra vita a cui è interessato, dal momento e la durata di quasi ogni vita è superiore o inferiore alla media. Si può soltanto ritenere e queste medie forniscano il primo termine di una serie di approssimazioni; i termini successivi procedono in base a un apprezzamento delle circostanze proprie del caso particolare.

6. Dall’applicazione di una generalizzazione approssimativa singola ai casi individuali passiamo ora all’applicazione di due generalizzazioni, o di più generalizzazioni insieme, al medesimo caso. ando un giudizio applicato a un caso individuale è basato soltanto su due generalizzazioni approssimative prese congiuntamente, le proposizioni possono cooperare in due modi differenti a farci raggiungere il risultato. Nel primo, ciascuna proposizione è applicabile separatamente al caso e si ha per le mani, e il nostro scopo, quando combiniamo le due proposizioni, è quello di dare a quel particolare caso la doppia probabilità e sorge dalle due proposizioni prese separatamente. esto procedimento si potrebbe iamare l’unione delle due probabilità per mezzo di un’addizione, e il risultato è una probabilità più grande di ciascuna delle due, presa da sola. L’altro modo si ha quando al caso è applicabile direamente una sola delle proposizioni, mentre la seconda gli è applicabile soltanto in virtù dell’applicazione della prima. esto equivale a congiungere le due probabilità per mezzo del ragionamento deduivo, o deduzione, e il risultato di quest’operazione è una probabilità minore di ciascuna delle due, prese separatamente. Il tipo del primo argomento è: «La maggior parte degli A sono B. La maggior parte dei C sono B». «esta cosa è sia un A sia un C, perciò è probabilmente un B». Il tipo del secondo è «La maggior parte degli A sono B. La maggior parte dei C sono A. esto è un C, perciò è probabilmente un B». Il primo tipo si trova esemplificato quando proviamo un fao per mezzo della testimonianza di due testimoni privi di relazioni tra loro; il secondo quando adduciamo soltanto la testimonianza di un testimonio, e ha sentito asserire la cosa da un altro. O, ancora: nel primo modo si può concludere e l’accusato ha commesso il delio dal fao e si è nascosto e dal fao e le sue vesti erano maciate di sangue; nel secondo, e ha commesso il delio peré ha lavato o ha distruo i suoi vestiti, cosa e dovrebbe rendere probabile il fao e erano maciati di sangue. Invece di catene formate soltanto da due anelli, come in questi casi, possiamo pensare catene di lunghezza qualsiasi. Benthamb iamò le catene della prima specie «catene autocorroborative di prove», iamò le seconde «catene autoinfirmative». ando si congiungono per addizione generalizzazioni approssimative, in base alla teoria della probabilità enunciata in uno dei capitoli precedenti

possiamo dedurre in qual maniera ciascuna di esse aggiunga qualcosa alla probabilità di una conclusione e ha l’avallo di tue. Se, in media, due A su tre sono B, e tre C su quaro sono B, la probabilità e qualcosa e è A e C sia un B sarà di più e due su tre o tre su quaro. Su dodici cose e sono A, tue, tranne quaro, sono B per l’ipotesi; e se tue e dodici, e di conseguenza quelle quaro, hanno ane il caraere di C, per questa ragione tre di queste saranno B. Perciò, su dodici cose e sono A e C, undici saranno B. Per formulare il ragionamento in un altro modo: una cosa e sia tanto A quanto C, ma e non sia B, si trova soltanto in una sezione su tre della classe A e soltanto in una sezione su quaro della classe C; ma siccome questo quarto di C è sparso indiscriminatamente per tua la classe A, soltanto una terza parte di esso (ossia un dodicesimo dell’intiero numero) appartiene alla terza sezione di A; perciò una cosa e non è un B compare solo una volta fra dodici cose e sono sia A sia C. Nel linguaggio della dorina della probabilità questo ragionamento verrebbe espresso nel modo e segue: la probabilità e un A non sia un B è di 1/3, la probabilità e un C non sia un B è di 1/4; quindi, se la cosa è sia un A sia un C, la probabilità è di 1/3 di 1/4, = 1/12c. Naturalmente in questo calcolo si è supposto e le probabilità e si originano da A e da C siano tra loro indipendenti. Tra A e C non dev’esserci nessuna connessione tale e quando una cosa appartiene all’una classe appartenga, per ciò stesso, ane all’altra, o ane abbia una probabilità maggiore di appartenervi. In caso contrario, quasi tui, o addiriura tui i non-B e sono C potrebbero essere identici con i non-C e sono A. In quest’ultimo caso la probabilità e ha origine dagli A e dai C presi insieme non sarebbe più grande di quella e ha origine dai soli A. ando le generalizzazioni approssimative vengono congiunte insieme nell’altro modo, quello della deduzione, il grado di probabilità invece di aumentare diminuisce ad ogni passo. Da due premesse come «La maggior parte degli A sono B», «La maggior parte dei B sono C», non possiamo concludere con certezza neppure e è C un solo A; infai potrebbe sempre darsi e il tuo, o la parte di A e cade comunque soo B, sia compreso nella parte di B e fa eccezione. Ancora: le due proposizioni in questione forniscono una probabilità apprezzabile e un qualsiasi A dato sia C, puré

la media su cui è basata la seconda proposizione sia stata presa correamente, in riferimento alla prima proposizione; puré la proposizione «La maggior parte dei B sono C» sia stata oenuta in maniera tale da non lasciar sussistere il minimo sospeo sul fao e la probabilità e da essa prende origine sia distribuita in modo men e correo sulla sezione di B e appartiene ad A. Infai, sebbene i casi e sono A possano essere tui nella parte minore, può ane darsi e siano tui nella parte maggiore; e l’una possibilità dev’essere contrapposta all’altra. In totale, la probabilità e si origina dalle due proposizioni prese insieme sarà misurata correamente dalla probabilità e prende origine dall’una, diminuita della ragione di quella e prende origine dall’altra. Se nove svedesi su dieci hanno i capelli biondi, e oo su nove abitanti di Stoccolma sono svedesi, la probabilità, e prende origine da queste due proposizioni, e un qualsiasi abitante dato di Stoccolma abbia i capelli iari, equivarrà a oo decimi, ane se, a rigore, è possibile e tua quanta la popolazione svedese di Stoccolma appartenga a quella decima parte degli Svedesi e costituiscono un’eccezione a tuo il resto. Se si sa e le premesse sono vere, non già di una piccolissima maggioranza, ma della quasi totalità dei loro rispeivi soggei, possiamo continuare a congiungere una di tali proposizioni all’altra per pareci passi prima di raggiungere una conclusione e presumibilmente non è neppure vera di una certa maggioranza. L’errore della conclusione equivarrà alla somma degli errori di tue le premesse. Supponiamo e la proposizione «La maggior parte degli A sono B» sia vera nove volte su dieci e e la proposizione «La maggior parte dei B sono C» sia vera oo volte su nove: allora non soltanto un A su dieci non sarà C, peré non è un B, ma ane, dei nove decimi e sono B, soltanto oo noni saranno C: vale a dire, i casi di A e sono C saranno soltanto 8/9 di 9/10, ossia quaro quinti. Aggiungiamo ora «La maggior parte dei C sono D», e supponiamo e questo sia vero di see casi su oo. La percentuale di A e sono D sarà soltanto 7/8 di 8/9 di 9/10, ossia 7/10. Così, la probabilità diminuisce costantemente e progressivamente. Comunque, è così raro e l’esperienza su cui sono fondate le nostre generalizzazioni approssimate sia stata sooposta a una stima numerica accurata, o ne sia susceibile, e in generale non possiamo applicare nessuna misurazione alla diminuzione della probabilità e ha luogo in ciascuna illazione, ma dobbiamo accontentarci di

ricordare e tale probabilità diminuisce ad ogni passo e e, a meno e le premesse siano proprio molto vicine alla verità universale, dopo un numero molto piccolo di passi la conclusione cessa di avere il bené minimo valore. Un sentito dire di aver sentito dire, o un ragionamento e prenda le mosse da prove indiziarie e dipendono non da segni immediati, ma da segni di segni, è già privo di valore a brevissima distanza dal passo iniziale. 7. Ci sono però due casi in cui i ragionamenti e dipendono da generalizzazioni approssimate possono essere portati avanti quanto a lungo vogliamo con la stessa sicurezza, e in modo altreanto rigorosamente scientifico, e se fossero composti di leggi universali di natura. Ma questi casi sono eccezioni di quel genere di cui si dice correntemente e conferma la regola. Nei casi in questione le generalizzazioni approssimate possono essere adaate agli scopi del ragionamento deduivo, proprio come se si traasse di generalizzazioni complete, dal momento e possono essere trasformate in generalizzazioni complete esaamente equivalenti. Primo: Se la generalizzazione approssimata appartiene alla classe in cui la ragione e abbiamo per arrestarci all’approssimazione non è l’impossibilità di procedere, ma soltanto la mancanza di convenienza di procedere; se siamo a conoscenza del caraere e distingue i casi e si accordano con la generalizzazione dai casi e costituiscono un’eccezione ad essa, allora alla proposizione approssimata possiamo sostituire una proposizione universale insieme con una condizione. La proposizione «La maggior parte delle persone e dispongono di un potere illimitato lo impiegano malamente» è una generalizzazione di questa classe e si può trasformare nella generalizzazione seguente: «Tue le persone e dispongono di potere illimitato lo impiegano malamente, a meno e non si trai di persone dotate di una insolita fermezza di giudizio e di una reitudine di propositi inconsueta». esta proposizione, e reca con sé l’ipotesi, o condizione, può allora essere traata non più come una proposizione approssimata, ma come una proposizione universale: e quale e sia il numero di passi di cui il ragionamento consiste, l’ipotesi e il ragionamento trascina con sé fino alla conclusione indierà con esaezza quanto la conclusione sia lontana dal poter essere applicata universalmente. Se nel corso del ragionamento si introducono altre generalizzazioni approssimate — ciascuna delle quali sia espressa, in maniera analoga, come proposizione universale con annessa una condizione — la somma di tue le condizioni apparirà alla fine come la

somma di tui gli errori e modificano la conclusione. Così, alla proposizione e abbiamo citato per ultima, aggiungiamo la seguente: «Tui i monari assoluti hanno un potere incontrollato, a meno e la loro posizione sia tale e abbiano bisogno dell’appoggio aivo dei loro sooposti (come accadde alla Regina Elisabea, a Federico di Prussia e ad altri)». Combinando queste due proposizioni possiamo dedurre da esse una conclusione universale, e sarà soggea a entrambe le ipotesi delle premesse: «Tui i monari assoluti impiegano malamente il loro potere, a meno e la loro posizione non faccia sì e abbiano bisogno dell’appoggio aivo dei loro sooposti, o a meno e non siano persone dotate di una insolita fermezza di giudizio e di una reitudine di propositi inconsueta». Se siamo in grado di registrare in questa maniera ciascun errore, e di tener nota del loro mucio, man mano e s’ingrandisce, non ha nessuna importanza quanto rapidamente gli errori si accumulino nelle nostre premesse. Secondo: c’è un caso in cui le proposizioni approssimate, ane se non prendiamo nota delle condizioni alle quali non sono vere dei casi individuali, sono tuavia, per gli scopi della scienza, proposizioni universali: sono universali, cioè, nelle ricere e si riferiscono alle proprietà, non già di individui, ma di moltitudini. Il principale di questi casi è quello della scienza politica o della società umana. esta scienza traa principalmente delle azioni, non di individui solitari, ma di masse; delle fortune, non di persone singole, ma di comunità. Generalmente, perciò, per lo statista è sufficiente sapere e la maggior parte delle persone agiscono, o subiscono azioni, in un modo particolare, dal momento e le sue speculazioni e le sue disposizioni pratie si riferiscono quasi esclusivamente a casi in cui si agisce contemporaneamente sull’intiera comunità, o su quale grossa parte di essa, e in cui, perciò, quello e vien fao o sentito dalla maggior parte delle persone determina il risultato prodoo in grande dal, o sul, corpo. Lo statista può andare avanti abbastanza bene con generalizzazioni approssimate sulla natura umana, dal momento e quello e è approssimativamente vero di tui gli individui è assolutamente vero di tue le masse. E ane quando le operazioni degli uomini singoli hanno una parte da svolgere nelle sue deduzioni (come quando ragiona di re, o di altri reggitori singoli) tuavia, siccome ha in mente una durata indefinita e implica una successione indefinita di tali individui, lo statista deve generalmente ragionare ed agire come se quello e è vero della maggior parte delle persone fosse vero di tue.

Le due specie di considerazioni e abbiamo addoo qui sopra costituiscono una confutazione sufficiente dell’errore popolare, secondo cui le speculazioni sulla società e sul governo, in quanto riposano su prove semplicemente probabili, devono essere inferiori in certezza e in accuratezza scientifica alle conclusioni di quelle e vengono iamate «scienze esae», e tali e, in pratica, su di esse si può fare un affidamento minore. Ci sono sufficienti ragioni peré le scienze morali debbano rimanere inferiori almeno alla più perfea delle scienze fisie; per cui le leggi dei loro fenomeni più complicati non possano essere decifrate in modo altreanto completo, e i fenomeni non possano essere predei con il medesimo grado di sicurezza. Ma ane se non possiamo raggiungere altreante verità, non c’è ragione per cui quelle e possiamo raggiungere debbano meritare una fiducia minore, o debbano avere caraere meno scientifico. Comunque, di questo argomento traerò in modo più sistematico nel Libro conclusivo, a cui devo perciò rinviare ogni ulteriore considerazione. a.

Nella sua Formal Logic il signor De Morgan osserva giustamente e da due premesse quali «La maggior parte degli A sono B» e «La maggior parte dei B sono C» possiamo inferire con certezza e alcuni B sono C. Ma questo è il limite massimo delle conclusioni e si possono trarre da due generalizzazioni approssimate, quando il grado preciso della loro approssimazione all’universalità sia ignoto o indefinito. b. Rationale of Judicial Evidence, vol. III, p. 224. c. Un amico e si occupa di matematica ha contestato la valutazione delle probabilità quale è esposta in quest’enunciato. Secondo lui il modo correo per stabilire le possibilità è il seguente. Se la cosa (iamiamola T) e è sia A sia C, è un B, allora è vero qualcosa e è vero soltanto due volte su tre, ed è vero qualcos’altro e è vero soltanto tre volte su quaro. Poié il primo fao è vero oo volte su dodici, e il secondo è vero sei volte su oo, e di conseguenza sei volte su quelle oo, i due fai, presi insieme, saranno veri soltanto sei volte su dodici. D’altra parte, se T, pur essendo sia un A sia un C, non è un B, sarà vero qualcosa e è vero soltanto una volta su tre e qualcos’altro e è vero soltanto una volta su quaro. Poié la prima cosa è vera quaro volte su dodici, e l’ultima una volta su quaro, e perciò una volta su quelle quaro, le due cose saranno entrambe vere soltanto in un caso su dodici. Di conseguenza, T è un B sei volte su dodici, e T non è un B soltanto una volta. esto fa sì e le probabilità relative siano, non già undici a una come prima pensavo e fossero, ma sei a una. Nella seima edizione di questo libro, avevo acceato questo ragionamento come definitivo. Tuavia, considerazioni più atente mi hanno convinto e esso contiene una fallacia. Il mio obieore argomenta e il fao e A è un B è vero oo volte su dodici, e il fao e C è un B è vero sei volte in quelle oo volte; pertanto entrambi i fai sono veri soltanto sei volte su dodici. Cioè, conclude e per il fao e tra gli A presi a casaccio soltanto oo su dodici sono B mentre gli altri quaro non lo sono, deve egualmente essere vero e quaro su dodici non sono B, quando i dodici sono stati presi da quella porzione scelta di A e sono ane C. Assunto ciò, egli arriva allo strano risultato e, tra le cose e sono sia A sia C, ci sono meno B di quanti non ce ne siano tra gli A

o i C, presi a casaccio, cosicé una cosa e abbia entrambe le possibilità di essere un B ha meno probabilità di esserlo e se avesse solo l’una o solo l’altra chance. Come ha acutamente fao osservare uno dei miei corrispondenti, il mio critico applica al problema e stiamo prendendo in considerazione un modo di calcolare e è adao soltanto al problema inverso. Se la questione fosse stata: «Se su tre B due sono A, e su quaro B tre sono C, quanti B saranno sia A sia C?», il suo ragionamento sarebbe stato correo. Infai, i B e sono sia A sia C devono essere in numero minore o dei B e sono A o dei B e sono C, e per trovare il loro numero dobbiamo rendere minore l’uno o l’altro di questi due numeri nel rapporto con l’altro. Ma quando il problema consiste, non già nel trovare quanti B sono sia A sia C, ma quante cose e sono sia A sia C siano ane B, è evidente e tra queste cose la percentuale dei B dev’essere, non minore, ma maggiore e non tra le cose e sono soltanto A o tra le cose e sono soltanto B. La vera teoria delle probabilità si può trovare più facilmente risalendo alle basi scientifie su cui riposano le proporzioni. Il grado di frequenza di una coincidenza dipende dalla, ed è una misura della, frequenza combinata con l’efficacia delle cause e operano in modo favorevole ad essa. Se di dodici A presi a casaccio oo sono B e quaro non lo sono, è implicito e su A stanno operando cause e tendono a farne un B, e e queste cause sono sufficientemente costanti e sufficientemente potenti da aver successo in oo casi su dodici. Così, se di dodici C, nove sono B e tre non lo sono, devono esserci cause della medesima tendenza e operano su C, e e hanno successo in nove casi mentre non le hanno in tre. Ora supponiamo e si diano dodici casi e sono sia A sia C. Ora tui quanti i dodici casi sono sooposti all’azione di entrambi gli insiemi di cause. Un insieme è sufficientemente forte da prevalere in oo dei dodici casi, l’altro lo è da prevalere in nove. L’analisi dei casi mostra e sei dei dodici casi saranno B in forza dell’azione di entrambi gli insiemi di cause; altri due lo saranno in forza delle cause e agiscono su A, e altri tre in forza di quelle e agiscono su C, e e ci sarà soltanto un caso in cui non agirà nessuna delle cause. Pertanto, il numero totale dei B sarà di undici su dodici, e la valutazione data nel testo sarà correa.

CAPITOLO XXIV. LE RIMANENTI LEGGI DI NATURA 1. Nel Libro primo abbiamo visto e tue le asserzioni e possono essere trasmesse dal linguaggio esprimono una o più di cinque cose differenti: esistenza, ordine nello spazio, ordine nel tempo, causazione e somiglianzaa. Tra queste la causazione non è, secondo il nostro punto di vista, fondamentalmente differente dall’ordine nel tempo: di conseguenza le cinque specie di possibili asserzioni si riducono a quaro. Le proposizioni e affermano l’ordine nel tempo in uno dei suoi due modi, coesistenza e successione, hanno formato, fino a questo punto, l’argomento del presente libro. E abbiamo appena concluso l’esposizione (nella misura in cui essa cade entro i limiti assegnati a quest’opera) della natura delle prove su cui riposano queste proposizioni e dei processi di indagine per mezzo dei quali le proposizioni in parola vengono accertate e provate. Rimangono tre classi di fai: esistenza, ordine nello spazio e somiglianza, a proposito dei quali dobbiamo ora risolvere le medesime questioni. Per quanto riguarda il primo di questi fai, c’è ben poco da dire. In generale l’esistenza è oggeo non già della scienza, ma della metafisica. Il determinare quali cose possano essere riconosciute come realmente esistenti, indipendentemente dalle nostre impressioni sensibili o di altro tipo, e in quale significato, in questo caso, il termine venga predicato di queste cose, appartiene a quella considerazione delle «cose in sé» dalla quale, nel corso di tua quest’opera, ci siamo guardati il più possibile. Per quanto interessa alla logica, l’esistenza si riferisce soltanto ai fenomeni, agli stati di coscienza esterna o interna effeivi o possibili, in noi stessi o negli altri. Le sensazioni degli esseri dotati di sensibilità, o le possibilità di avere tali sensazioni, sono le sole cose la cui esistenza può essere oggeo di induzione logica, peré sono le sole cose la cui esistenza nei casi individuali può essere oggeo di esperienza. È vero e diciamo e una cosa esiste ane quando è assente e perciò non è e non può essere percepita. Ma ane allora, la sua esistenza non è per noi se non un’altra parola per la nostra convinzione e dovremmo percepire quella cosa, posto e si realizzassero certe condizioni — posto cioè e ci trovassimo nelle circostanze adae di tempo e di luogo e fossimo dotati di

organi sufficientemente perfei. La mia credenza e l’imperatore della Cina esiste è semplicemente la mia credenza e se mi trasportassero al palazzo imperiale della Cina, o in quale altra località di Peino, io dovrei vedere l’imperatore. La mia credenza e Giulio Cesare è esistito è la mia credenza e se fossi stato presente sul campo di Farsalo o nella sede del Senato a Roma, l’avrei visto. ando credo e esistono stelle e stanno al di là della portata massima della mia vista, ane aiutata dal più potente telescopio finora inventato, la mia credenza, espressa in termini filosofici, è e se esistessero telescopi ancora più potenti, potrei vederle con il loro aiuto; oppure e potrebbero percepirle esseri situati a minore distanza da esse nello spazio, o da esseri le cui capacità di percezione fossero superiori alle mie. L’esistenza di un fenomeno non è dunque se non un’altra parola per il suo essere percepito, o per la possibilità, e si è inferita, di percepirlo. ando il fenomeno rientra nei limiti dell’osservazione auale, ci assicuriamo della sua esistenza per mezzo dell’osservazione auale; quando invece è oltre la portata dell’osservazione, e perciò si dice e è assente, inferiamo la sua esistenza da segni o da prove. Ma quali possono essere queste prove? Altri fenomeni di cui si è accertato, per induzione, e sono connessi col fenomeno dato o peré succedono ad esso, o peré coesistono con esso. Pertanto, quando non sia percepita direamente, la semplice esistenza di un fenomeno individuale è inferita da quale legge induiva di successione o di coesistenza, e di conseguenza non può essere ricondoa a nessun principio induivo in particolare. Proviamo l’esistenza di una cosa provando e è connessa, per successione o per coesistenza, con quale cosa nota. Per quanto riguarda le proposizioni generali di questa classe, le proposizioni, cioè, e affermano il fao nudo e crudo dell’esistenza, esse posseggono una peculiarità e rende il loro traamento un affare molto facile: sono generalizzazioni e sono provate a sufficienza da un singolo caso. Che esistano speri, o unicorni, o serpenti marini, sarebbe provato in modo completo se potessimo accertare positivamente e queste cose sono state viste, almeno una volta. Tuo quello e è accaduto una volta sola può accadere di nuovo: la sola questione si riferisce alle condizioni alle quali accade. Pertanto, nella misura in cui si riferisce alla semplice esistenza, la logica induiva non ha nodi da sciogliere. E possiamo perciò procedere a due delle

altre grandi classi in cui sono stati divisi i fai: la somiglianza e l’ordine nello spazio. 2. Raramente la somiglianza e il suo opposto vengono considerate come oggeo di scienza, tranne e nel caso in cui assumano il nome di eguaglianza e ineguaglianza. Si suppone e siano percepite con la semplice apprensione: applicando semplicemente i nostri sensi, o dirigendo la nostra aenzione ai due oggei contemporaneamente, o in successione immediata. E quest’applicazione simultanea, o virtualmente simultanea, delle nostre facoltà alle due cose e si devono confrontare costituisce di necessità l’ultimo appello, dovunque tale applicazione sia possibile. Ma nella maggior parte dei casi non è possibile: gli oggei non possono essere avvicinati l’un l’altro al punto e nella mente sorga direamente la sensazione della loro somiglianza (almeno, la sensazione completa). Possiamo solo confrontare ciascuno di essi con un terzo oggeo, e può essere trasportato dall’uno all’altro. Inoltre, ane quando gli oggei possono essere giustapposti immediatamente, la loro somiglianza, o la loro differenza, ci sono note soltanto in modo imperfeo, a meno e non abbiamo confrontato minuziosamente i due oggei, parte con parte. Finé non lo si sia fao, spesso cose in realtà molto dissimili appaiono indistinguibilmente simili. Due linee di lunghezza molto ineguale appariranno quasi eguali se giacciono in direzioni differenti; ma meetele in modo e siano parallele e e le loro estremità siano pari; allora se guardiamo alle estremità più vicine, la loro ineguaglianza diventa oggeo di percezione direa. Per questo non sempre l’accertare se, e in e cosa, due fenomeni si somigliano o differiscono, è cosa tanto facile quanto potrebbe sembrare a prima vista. ando le due cose non si possono sovrapporre, o almeno non si possono sovrapporre in modo e l’osservatore sia in grado di confrontare deagliatamente le loro parti, si devono impiegare i mezzi indirei del ragionamento e delle proposizioni generali. ando non possiamo avvicinare due linee ree in modo da determinare se sono eguali, lo determiniamo con l’aiuto fisico di un regolo e appliiamo prima all’una poi all’altra, e con l’aiuto logico della proposizione generale, o formula: «Cose e sono eguali alla stessa cosa sono eguali tra loro». Il confronto tra due cose mediante l’intervento di una terza cosa quando il confrontarle direamente è impossibile, è il processo scientifico appropriato per accertare

somiglianze e dissimiglianze, ed è tuo quanto la logica possa insegnare su quest’argomento. Un’indebita estensione di quest’osservazione indusse Loe a considerare il ragionamento stesso come nient’altro e il confronto tra due idee per mezzo di una terza, e la conoscenza come la percezione dell’accordo o del disaccordo tra due idee: dorine, queste, e la scuola di Condillac adoò ciecamente, senza le precisazioni e le distinzioni di cui il loro illustre autore le aveva cautamente circondate. È bensì vero e dove quello e si deve determinare è proprio l’accordo o il disaccordo (altrimenti iamati somiglianza e dissimiglianza) di due cose qualsiasi — come accade, in modo particolare, nelle scienze della quantità e dell’estensione — là il processo per mezzo del quale si deve cercare indireamente una soluzione (se questa non si può oenere mediante la percezione direa) consiste nel confrontare queste due cose facendo ricorso a una terza. Ma questo non è affao vero di tue le indagini. La conoscenza del fao e i corpi cadono a terra non è una percezione di accordo o di disaccordo, ma di una serie di accadimenti fisici, una successione di sensazioni. Le definizioni di conoscenza e di ragionamento date da Loe si sarebbero dovute limitare alla nostra conoscenza delle somiglianze, e del ragionamento intorno ad esse. Eppure, neane con queste restrizioni le proposizioni sono rigorosamente corree, peré il confronto non viene istituito, come pretende Loe, tra le idee di due fenomeni, ma tra i fenomeni stessi. est’errore è stato messo in evidenza in una parte precedente della nostra ricercab, e là è stato ricondoo a una concezione imperfea di quello e ha luogo in matematica, dove molto spesso il confronto viene effeivamente compiuto tra due idee, senza fare appello ai sensi esterni. esto, però, accade soltanto peré in matematica un confronto tra idee è rigorosamente equivalente a un confronto tra i fenomeni stessi. Dove invece — come nel caso di numeri, linee e figure — la nostra idea di un oggeo è un’immagine completa dell’oggeo stesso, almeno relativamente al punto di vista dal quale ci siamo messi, è naturale e là dall’immagine possiamo venire a sapere tuo quello e potremmo venire a sapere se ci limitassimo a contemplare l’oggeo così come esisteva in quel determinato istante in cui lo si è raffigurato. La pura e semplice contemplazione della polvere da sparo non ci insegnerebbe mai e una scintilla la farebbe esplodere, e di conseguenza non ce l’insegnerebbe la contemplazione dell’idea della polvere da sparo: ma la pura e semplice contemplazione di una linea rea mostra e la linea non può raciudere

uno spazio. Di conseguenza, la contemplazione dell’idea di linea rea ci mostrerà la stessa cosa. ello e ha luogo in matematica non costituisce perciò un argomento in favore della tesi secondo cui il confronto avviene soltanto tra due idee. Indireamente o direamente, si traa sempre di un confronto tra i fenomeni. Nei casi in cui non possiamo in nessun modo sooporre i fenomeni al controllo di un esame direo, oppure non possiamo sooporveli in maniera sufficientemente precisa ma siamo costrei a giudicare della loro somiglianza inferendola da altre somiglianze o dissimiglianze, abbiamo naturalmente bisogno, come in tui i casi di ragionamento deduivo, di generalizzazioni o formule e si possano applicare all’oggeo. Dobbiamo ragionare a partire da leggi di natura: dalle uniformità e sono osservabili in fao di somiglianza o dissimiglianza. 3. Di queste leggi o uniformità, le più comprensive sono quelle e ci sono fornite dalla matematica: gli assiomi e si riferiscono all’eguaglianza, alla diseguaglianza, alla proporzionalità, e i vari teoremi e su questi assiomi si fondano. E queste sono le sole leggi di somiglianza e devono, o possono, essere traate separatamente. È vero e ci sono innumerevoli altri teoremi e affermano somiglianze tra i fenomeni: come quello e l’angolo di riflessione della luce è eguale al suo angolo di incidenza (eguaglianza e non è altro e somiglianza esaa dal punto di vista della grandezza). Lo stesso accade per il teorema e i corpi celesti descrivono aree eguali in tempi eguali e e i quadrati dei loro periodi di rivoluzione sono proporzionali (un’altra specie di somiglianza) al cubo della loro distanza dal centro di arazione. este proposizioni, e altre simili, affermano somiglianze della medesima natura di quelle asserite nei teoremi della matematica, ma dai teoremi della matematica si differenziano in questo: e le proposizioni matematie sono vere di tui i fenomeni senza distinzione, o almeno senza distinzioni di origine, mentre le verità in questione sono affermate soltanto di fenomeni speciali e si originano in un certo modo, e le eguaglianze, le proporzionalità, o le altre somiglianze, e esistono tra tali fenomeni devono necessariamente essere derivate da, o essere identie con, la legge della loro origine: la legge di causazione da cui dipendono. L’eguaglianza delle aree descrie in tempi eguali dai pianeti, è derivata dalle leggi delle cause, e, fin quando non se ne mostrò la derivazione, era una legge empirica. L’eguaglianza degli angoli di riflessione e di incidenza è

con la legge della causa; infai la causa è l’incidenza di un raggio di luce su una superficie rifleente, e l’eguaglianza in questione è proprio la legge secondo la quale la causa produce i suoi effei. Perciò questa classe di uniformità o di somiglianze tra i fenomeni sono inseparabili, di fao e idealmente, dalle leggi secondo cui questi fenomeni si producono: e i princìpi dell’induzione e possono essere loro applicati non sono altri e quelli di cui abbiamo traato nei capitoli precedenti di questo Libro. Le cose vanno diversamente con le verità della matematica. Le leggi di eguaglianza o diseguaglianza tra spazi, o tra numeri, non hanno nessuna connessione con le leggi di causazione. Che l’angolo di riflessione sia eguale all’angolo d’incidenza è un’enunciazione del modo in cui agisce quella causa particolare; ma e quando due linee ree si intersecano tra loro gli angoli opposti siano eguali, è vero di tue le linee e gli angoli di quel genere, quale e sia la causa e li ha prodoi. Che i quadrati dei tempi periodici dei pianeti siano proporzionali ai cubi delle loro distanze dal Sole è un’informità derivata dalle leggi delle cause (o forze) e producono i moti dei pianeti; ma e il quadrato di un numero qualsiasi sia quaro volte il quadrato della metà del numero stesso, è vero indipendentemente da qualsiasi causa. Perciò le sole leggi di somiglianza e siamo iamati a prendere in considerazione indipendentemente dalla causazione appartengono alla provincia della matematica. identica

4. La stessa cosa è evidente rispeo all’unica delle nostre cinque categorie e ormai ci rimanga da esaminare: l’ordine nello spazio. Come ogni altra cosa di pertinenza degli effei, l’ordine nello spazio degli effei di una causa è una conseguenza delle leggi di quella causa. L’ordine nello spazio o, come l’abbiamo iamato, la collocazione, delle cause primordiali è (così come la loro somiglianza) un fao fondamentale in ciascun caso, un fao, cioè, in cui non è possibile rintracciare leggi o uniformità. Le sole proposizioni generali e rimangano, relative all’ordine nello spazio, e le sole e non abbiano nulla da fare con la causazione, sono alcune verità della geometria; leggi mediante le quali, dall’ordine spaziale di certi punti, di certe linee o di certi spazi, siamo in grado di inferire l’ordine nello spazio di altri punti, linee o spazi e sono connessi con i primi in quale modo noto, del tuo indipendentemente dalla natura particolare di questi punti, linee o spazi per tui gli altri aspei tranne e per la posizione e per la grandezza, e

indipendentemente dalla causa fisica da cui, in ogni caso particolare, accade e traggano la loro origine. È dunque iaro e la matematica è il solo dipartimento della scienza i cui metodi ci rimane ancora da indagare. E siccome nel libro secondo abbiamo già fao considerevoli progressi in quest’indagine, è meno necessario e quest’indagine debba tenerci occupati a lungo. Nel libro secondo avevamo osservato e il numero delle verità direamente induive della matematica è basso e consiste degli assiomi insieme con certe proposizioni e riguardano l’esistenza, proposizioni tacitamente implicate in molte delle cosiddee definizioni. E abbiamo dato quelle e sembravano le ragioni definitive per affermare e nonostante tue le apparenze contrarie queste premesse originali, da cui si deducono le rimanenti verità della scienza, sono risultati di osservazione e di esperienza fondati, in breve, sulla prova dei sensi. Che cose eguali alla medesima cosa siano eguali tra loro, e e due linee ree, dopo essersi intersecate tra loro, continuino a divergere, sono verità induive; in realtà, come la legge di causazione universale, riposano soltanto sull’induzione per enumerationem simplicem: sul fao e sono state perpetuamente percepite come vere, e non si è mai trovato, neppure una volta, e fossero false. Ma, come abbiamo visto in un recente capitolo, nel caso di una legge così completamente universale come la legge di causazione, queste testimonianze probanti equivalgono alla prova più completa: di conseguenza questo è vero, in modo ancor più evidente, delle proposizioni generali alle quali stiamo ora per rivolgere la nostra aenzione. Infai, dal momento e la percezione della loro verità in un qualsiasi caso individuale non riiede nient’altro e il semplice ao e consiste nel guardare gli oggei dalla posizione appropriata, per quanto li riguarda non sarebbero mai potuti esserci casi (e invece per un lungo periodo di tempo ci furono per la legge di causazione) e costituissero eccezioni, ane se apparenti e non reali. La loro verità infallibile fu riconosciuta fin dagli albori della speculazione, e siccome l’estrema familiarità con queste proposizioni rendeva impossibile alla mente il concepire e gli oggei fossero sooposti a qualsiasi altra legge, esse furono, e ancor oggi sono, considerate come verità e si riconoscono come tali per la loro propria evidenza o per istinto. 5. Nel fao e da un numero così piccolo di leggi elementari si può tirar fuori l’immensa moltitudine di verità comprese nelle scienze matematie —

moltitudine e ancor oggi è più lontana e mai dall’essere esaurita — c’è qualcosa e sembra riiedere una spiegazione. A prima vista non si riesce a vedere come mai, su argomenti apparentemente così limitati, possa esserci spazio per una tale infinita varietà di proposizioni vere. Cominciamo dalla scienza del numero. Le verità elementari, o fondamentali, di questa scienza sono i comuni assiomi e riguardano l’eguaglianza, cioè: «Cose e sono eguali alla medesima cosa sono eguali tra loro», e «Cose eguali, aggiunte a cose eguali, dànno somme eguali «(non si riiede nessun altro assiomac), insieme con le definizioni dei vari numeri. Come altre cosiddee definizioni, queste proposizioni sono composte di due cose: la spiegazione di un nome e l’asserzione di un fao; di queste due cose, solo l’ultima può formare un principio primo, o premessa di una scienza. Il fao asserito nella definizione di un numero è un fao fisico. Ciascun numero: due, tre, quaro, ecc., denota fenomeni fisici e connota una proprietà fisica di questi fenomeni. Per esempio, due denota tue le coppie di cose e dodici tue le dozzine, e connota quello e le rende coppie o dozzine; e quello e le rende coppie o dozzine è un qualcosa di fisico. Non si può negare, infai, e due mele sono fisicamente distinguibili da tre mele, due cavalli da tre cavalli, e così via: non si può negare, cioè, e si traa di differenti fenomeni visibili e taili. Non mi accingerò a dire e cosa sia questa differenza: è sufficiente e ci sia una differenza di cui i sensi possano prendere conoscenza. E sebbene centodue cavalli non siano così facilmente distinguibili da centrotré cavalli come due cavalli lo sono da tre, tuavia possono essere messi in una posizione tale e sia possibile percepire una differenza, altrimenti non li avremmo mai distinti e non gli avremmo mai dati nomi differenti. Il peso è incontestabilmente una proprietà fisica delle cose, e tuavia, nella maggior parte delle situazioni, le piccole differenze tra grandi pesi sono tanto imperceibili ai sensi quanto lo sono le piccole differenze tra grandi numeri, e si meono in evidenza soltanto se si situano i due oggei in una posizione particolare, cioè sui piai opposti di una bilancia molto sensibile. Che cosa connota, allora, il nome di un numero? Ovviamente, quale proprietà e appartiene all’agglomerato di cose e iamiamo con quel nome, e questa proprietà è la maniera caraeristica in cui l’agglomerato è formato di, e può essere separato in, parti. Tenterò di rendere la cosa più intelligibile con alcune spiegazioni.

ando iamiamo una collezione di oggei «due», «tre» o «quaro», non sono due, tre o quaro in astrao: sono due, tre o quaro cose di una quale specie particolare, come sassolini, cavalli, pollici, libbre. ello e il nome del numero connota è la maniera in cui si devono meere insieme oggei singoli della specie data per produrre quel particolare aggregato. Se l’aggregato è formato di sassolini, e lo iamiamo «due» il nome implica e per comporre l’aggregato dobbiamo aggiungere un sassolino a un sassolino. Se lo iamiamo «tre», per produrlo si devono meere insieme uno e uno e un sassolino, oppure si deve aggiungere un sassolino a un aggregato già esistente, della specie iamata «due». L’aggregato e iamiamo «quaro» ha un numero ancor più grande di modi caraeristici di formazione. Si possono meere insieme un sassolino e un sassolino e un sassolino e un sassolino; oppure si possono unire due aggregati della specie iamata «due»; oppure si può aggiungere un sassolino a un aggregato della specie iamata «tre». Ogni numero successivo nella serie ascendente può essere formato dalla congiunzione di numeri più piccoli in una varietà di modi e è sempre più grande. Ane limitando le parti a due, il numero può essere formato, e di conseguenza può essere diviso, in tanti modi differenti quanti sono i numeri più piccoli del numero dato, e, se ammeiamo tre, quaro, ecc. parti, in una varietà di modi ancor più grande. Si presentano altri modi di arrivare al medesimo aggregato non per via della riunione di aggregati più piccoli, ma per mezzo dello smembramento di aggregati più grandi. Così, l’aggregato tre sassolini si può formare portando via un sassolino da un aggregato di quaro sassolini, l’aggregato due sassolini dividendo in parti eguali un aggregato simile, e così via. Ogni proposizione aritmetica, ogni enunciato del risultato di un’operazione aritmetica è un enunciato di uno dei modi di formazione di un dato numero. Afferma e un certo aggregato potrebbe essere stato formato meendo insieme certi altri aggregati, o soraendo certe parti di certi aggregati, e e, di conseguenza, invertendo il processo possiamo riprodurre quegli aggregati a partire da quell’aggregato. Così, quando affermiamo e il cubo di 12 è 1728, quello e affermiamo è e: se avendo un numero sufficiente di sassolini o di altri oggei qualsiasi li meiamo insieme in modo da formare quel particolare tipo di muci o di aggregati iamati «dodici», e meiamo di nuovo insieme questi dodici in collezioni simili, e infine facciamo dodici di questi muci più grandi, l’aggregato così formato sarà quello e iamiamo 1728, cioè quello e (per

prendere il più familiare tra i suoi modi di formazione) può essere formato congiungendo il mucio iamato mille sassolini, il mucio iamato seecento sassolini, il mucio iamato venti sassolini e il mucio iamato oo sassolini. La proposizione inversa, e la radice cubica di 1728 è 12, asserisce e questo grande aggregato può a sua volta essere scomposto nelle dodici dozzine di dozzine di sassolini di cui consiste. I modi di formazione di ciascun numero sono innumerevoli, ma basta e conosciamo un solo modo di formazione di ciascuno di essi, peré tuo il resto possa essere determinato deduivamente. Se sappiamo e a è formato da b e c, b da a ed e, c da d e f, e così via, finé non si siano esauriti tui i numeri di qualsiasi serie progressiva possiamo aver scelto (facendo aenzione a e il modo di formazione di ciascun numero sia realmente distinto da tui gli altri, e non ci porti di nuovo ai numeri dai quali siamo partiti, ma introduca nuovi numeri) abbiamo un insieme di proposizioni a partire dalle quali possiamo ragionare a tui gli altri modi in cui questi numeri si formano l’uno dall’altro. Dopo aver stabilito una catena di verità induive e conneono tra loro tui i numeri della successione, possiamo accertare la formazione di uno qualsiasi di questi numeri da ogni altro, limitandoci a percorrere la catena passando dall’un numero all’altro. Supponiamo di conoscere soltanto i seguenti modi di formazione: 6 = 4 + 2, 4 = 7 — 3, 7 = 5 + 2, 5 = 9 — 4. Potremmo determinare in qual modo 6 si possa formare a partire da 9. Infai, 6 = 4 + 2 = 7 — 3 + 2 = 5 + 2 — 3 + 2 = 9 — 4 + 2 — 3 + 2. Pertanto 6 si può formare togliendo 4 e 3 e aggiungendo 2 e 2. Se inoltre sappiamo e 2 + 2 = 4, oeniamo 6 da 9 in un modo più semplice, limitandoci a togliere 3. Come mezzo per accertare tuo il resto sarà pertanto sufficiente scegliere uno dei vari modi di formazione di ciascun numero. E poié l’intelleo accea e ritiene più facilmente le cose e sono uniformi, e perciò semplici, la scelta di un modo di formazione e sia eguale per tui i numeri presenterà un ovvio vantaggio: sarà cioè vantaggioso fissare la connotazione dei nomi dei numeri in base a un solo principio uniforme. Il modo in cui è congegnata la nostra nomenclatura numerica auale possiede questo vantaggio, e in più possiede il vantaggio di comunicare felicemente allo spirito due dei modi di formazione di ogni numero. Ciascun numero è considerato come formato aggiungendo una unità al numero immediatamente minore in grandezza, e questo modo di formazione è

comunicato dal posto e il numero occupa nella serie. E ciascun numero è ane considerato come formato dall’addizione di un numero di unità minore di dieci e di un numero di aggregati ciascuno dei quali è eguale a una delle potenze successive di dieci; e questo modo di formazione è espresso dal suo nome nella lingua parlata, e dalla sua cifra numerica. ello e fa dell’aritmetica il tipo di ogni scienza deduiva è la felice applicabilità ad essa di una legge così comprensiva come «Le somme di eguali sono eguali», o (per esprimere il medesimo principio in un linguaggio meno familiare ma più caraeristico): «Tuo quello e è fao di parti è fao di parti di queste parti». esta verità, ovvia ai sensi, in tui i casi e possono essere correamente lasciati alla loro decisione, è vera di ogni sorta di fenomeni (peré tui ammeono di essere numerati) e deve perciò essere considerata come una verità induiva, o legge di natura, dell’ordine più alto. E ogni operazione aritmetica è un’applicazione di questa legge, o di altre leggi e possono essere dedoe da questa. esto è la garanzia di tui i nostri calcoli. Crediamo e cinque e due è eguale a see proprio in base alle prove fornite da questa legge induiva, combinata con le definizioni di quei numeri. Arriviamo a questa conclusione (come sa iunque ricordi in e modo l’ha imparata) aggiungendo una unità per volta: 5 + 1 = 6, perciò 5 + 1 + 1 = 6 + 1 = 7; e ancora: 2 — 1 = 1, perciò 5 + 2 = 5 + 1 + 1 = 7. 6. Per quanto le proposizioni riguardanti i numeri particolari, e possiamo formare, siano innumerevoli, da queste soltanto non si potrebbe oenere nessuna concezione adeguata dell’estensione delle verità e compongono la scienza del numero. Le proposizioni come quelle di cui abbiamo parlato sono le meno generali fra tue le verità numerie. È vero e ane queste si estendono a tua quanta la natura: le proprietà del numero quaro sono vere di tui gli oggei e sono divisibili in quaro parti eguali, e tui gli oggei, idealmente o di fao, sono divisibili in quaro. Ma le proposizioni e compongono la scienza dell’algebra sono vere, non di un numero particolare, ma di tui i numeri; non di tue le cose a condizione e siano divise in un certo modo particolare, ma di tue le cose, a condizione e siano divise in un modo qualsiasi; a condizione di essere comunque designate da un numero. Siccome è impossibile e numeri differenti abbiano qualcuno dei loro modi di formazione completamente in comune, è una specie di paradosso il dire e tue le proposizioni e possiamo enunciare relativamente ai

numeri si riferiscono ai loro modi di formazione da altri numeri, e e tuavia ci sono proposizioni e sono vere di tui i numeri. Ma questo stesso paradosso conduce al vero e proprio principio di generalizzazione e riguarda le proprietà dei numeri. Due numeri differenti non possono formarsi, nella medesima maniera, dai medesimi numeri; ma possono formarsi nella medesima maniera da numeri differenti, così come il nove si forma dal tre moltiplicando il tre per se stesso e il sedici si forma dal quaro grazie al medesimo processo. Sorge così una classificazione dei modi di formazione o, per usare il linguaggio comunemente usato dai matematici, una classificazione delle funzioni. Ogni numero, se lo si considera come formato da qualsiasi altro numero, si iama funzione di quel numero, e ci sono tante specie di funzioni quanti sono i modi di formazione dei numeri. Le funzioni semplici non sono affao numerose, dal momento e la maggior parte delle funzioni sono formate dalla combinazione di parecie delle operazioni e formano le funzioni semplici, o per ripetizioni successive di qualcuna di quelle operazioni. Le funzioni semplici di un qualsiasi numero, x, sono tue riducibili alle forme seguenti: x + a, x — a, ax, ,xa, log x (in base a), e la stessa espressione può essere variata sostituendo x ad a dovunque questa sostituzione àlteri il valore della funzione; a queste funzioni si dovrebbero forse aggiungere sen x e arc (sen x). Tue le altre funzioni di x si formano sostituendo una o più funzioni semplici ad x o a e sooponendole alle medesime operazioni elementari. Allo scopo di condurre ragionamenti generali sulle funzioni abbiamo bisogno di una nomenclatura e ci mea in grado di esprimere due numeri qualsiasi per mezzo di nomi e, senza specificare di quali numeri particolari si trai, mostri quale funzione l’uno è dell’altro, o, in altre parole, mea in evidenza il modo in cui i due numeri si formano l’uno dall’altro. Il sistema del linguaggio generale iamato notazione algebrica assolve a questo compito. Le espressioni a e a2 + 3a denotano, la prima un numero qualsiasi e la seconda il numero formato a partire da questo numero in un modo particolare. Le espressioni a, b, n, e (a + b)n denotano tre numeri qualsiasi e un quarto numero e è formato a partire da essi in un certo modo. Il problema generale del calcolo algebrico può essere formulato nel modo seguente: Posto e F sia una certa funzione di un dato numero, trovare quale funzione F sarà di una qualsiasi funzione di quel numero. Ad esempio,

un binomio, a + b, è una funzione delle sue due parti, a e b, e queste parti sono, a loro volta, funzioni di a + b: ora, (a + b)n è una certa funzione del binomio: quale funzione sarà di a e b, vale a dire delle due parti del binomio? La risposta a questa questione è data dal teorema del binomio. La formula ecc., mostra in qual maniera il numero formato moltiplicando n volte a + b per se stesso, si possa formare senza far ricorso a quel processo, direamente da a, b e n. E tui i teoremi della scienza del numero sono di questa natura. Affermano l’identità del risultato di differenti modi di formazione. Affermano e un certo modo di formazione da x e un certo altro modo di formazione da una certa funzione di x producono il medesimo numero. Oltre questi teoremi generali o formule, rimane, nel calcolo algebrico, la risoluzione delle equazioni. Ma ane la risoluzione di un’equazione è un teorema. Se l’equazione è x2 + ax ═ b, la risoluzione di quest’equazione, cioè: è una proposizione generale, e può essere considerata come una risposta alla questione: «Se b è una certa funzione di x e a (cioè, x2 + ax), quale funzione di b e a sarà x? La risoluzione delle equazioni, perciò, non è nient’altro e una varietà del problema generale enunciato più sopra. Il problema è: Data una funzione, e funzione è di una certa altra funzione? E nella risoluzione di un’equazione, la questione è: trovare quale funzione di una delle sue stesse funzioni è il numero stesso. Tale, quale l’abbiamo descrio qui sopra, è lo scopo e il fine del calcolo. Per quanto riguarda i suoi processi, tui sanno e si traa di processi semplicemente deduivi. Nel dimostrare un teorema algebrico, o nel risolvere un’equazione, passiamo dal datum al quaesitum mediante il puro ragionamento deduivo, in cui le sole premesse introdoe oltre alle ipotesi originali sono gli assiomi fondamentali già menzionati: e cose eguali alla stessa cosa sono eguali tra loro e e le somme di eguali sono eguali. A ciascun passo della dimostrazione o del calcolo appliiamo l’una o l’altra di queste verità, o certe verità deducibili da esse, quali: le differenze, i prodoi, ecc., di numeri eguali sono eguali. Sarebbe incompatibile con le dimensioni di questo lavoro, e non sarebbe necessario al suo scopo, lo spingere più in là l’analisi delle verità e dei processi dell’algebra; e questa è ane la cosa di cui si sente meno il bisogno,

dal momento e questo compito è stato in larghissima misura eseguito da altri. L’Algebra di Peaco1, e la Doctrine of Limits del door Whewell, sono piene di insegnamenti su questo argomento. Il profondo traato di un matematico dotato di spirito veramente filosofico, il professor De Morgan, dovrebbe essere studiato da iunque voglia comprendere i fondamenti su cui riposano le verità matematie e il significato dei processi più oscuri del calcolo, mentre le speculazioni sulla filosofia dei rami superiori della matematica, contenute nel Cours de Philosophie Positive del signor Comte sono tra i molti doni preziosi di cui la filosofia è debitrice a questo eminente pensatore. 7. Se l’estrema generalità delle leggi del numero, e la loro estrema lontananza, non tanto dai sensi, quanto dall’immaginazione visiva e taile, fanno sì e lo sforzo d’astrazione riiesto per concepire queste leggi come verità realmente fisie oenute con l’osservazione sia piuosto difficoltoso, la stessa difficoltà non esiste a proposito delle leggi dell’estensione. I fai di cui queste leggi sono espressioni sono di una specie accessibile ai sensi in modo particolare, e suggeriscono alla fantasia immagini eminentemente distinte. Che la geometria sia una scienza rigorosamente fisica sarebbe senza dubbio stato riconosciuto in tui i tempi se non fosse stato per le illusioni prodoe da due circostanze. Una di queste circostanze è la proprietà caraeristica già osservata dei fai della geometria, di poter essere desunti efficacemente tanto dalle nostre idee o immagini mentali degli oggei quanto dagli oggei stessi. L’altra è il caraere dimostrativo delle verità geometrie, e ad un certo punto si ritenne costituisse una differenza radicale tra le verità geometrie e le verità fisie, le quali ultime, riposando su prove puramente probabili, venivano ritenute essenzialmente incerte e imprecise. Ma il progresso della conoscenza ha reso manifesto e nei suoi rami meglio compresi la scienza fisica è tanto dimostrativa quanto la geometria. Si è trovato e il compito di dedurre i suoi deagli da alcuni princìpi relativamente semplici è tu’altro e impossibile, come si credeva una volta, e la nozione della superiore certezza della geometria si è rivelata un’illusione e sorge dall’antico pregiudizio e, in quella scienza, scambia erroneamente i dati ideali a partire dai quali ragioniamo, per una classe tua particolare di realtà, mentre i dati ideali corrispondenti di una qualsiasi scienza fisica vengono riconosciuti per quello e realmente sono: ipotesi.

Ogni teorema della geometria è una legge della natura esterna, e si sarebbe potuto accertare generalizzando dall’osservazione e dall’esperimento, e in questo caso si risolvono in comparazione e misurazione. Ma si trovò e era possibile — ed essendo possibile era desiderabile — ricavare per mezzo del ragionamento deduivo queste verità da un piccolo numero di leggi generali della natura la cui certezza e la cui universalità sono ovvie ane all’osservatore meno accurato, e e costituiscono i princìpi primi e le premesse fondamentali della scienza. Tra queste leggi generali devono essere fae rientrare le stesse due leggi e abbiamo menzionato come i princìpi fondamentali della scienza del numero, e e possono essere applicate a ogni tipo di quantità, cioè: «Le somme di eguali sono eguali» e «Cose e sono eguali alla stessa cosa sono eguali tra loro». est’ultima legge può essere espressa, in una maniera e meglio suggerisce l’inesauribile moltitudine delle sue conseguenze, nei seguenti termini: «Tuo ciò e è eguale a una qualsiasi di un certo numero di grandezze eguali, è eguale a ogni altra di tali grandezze». A questi due princìpi si deve aggiungere, in geometria, una terza legge di eguaglianza, e cioè, e linee, superfici o spazi solidi, e possono essere sovrapposti l’uno all’altro in modo da farli coincidere, sono eguali. Alcuni autori hanno asserito e questa legge di natura è una pura e semplice definizione verbale; e l’espressione «grandezze eguali» non significa nient’altro se non: grandezze e si possono sovrapporre in modo da farle coincidere. Io però non posso essere d’accordo con quest’opinione. L’eguaglianza di due grandezze geometrie non può differire fondamentalmente, nella sua natura, dall’eguaglianza di due pesi, di due gradi di calore, o da due parti di durata: grandezze, queste, a nessuna delle quali potrebbe adaarsi questa pretesa definizione di eguaglianza. Nessuna di queste cose può essere sovrapposta ad un’altra in modo da farle coincidere, tuavia noi comprendiamo perfeamente e cosa intendiamo iamandole eguali. Certe cose sono eguali in grandezza, così come certe altre sono eguali in peso, quando si percepisce e sono esaamente simili rispeo all’aributo secondo il quale le confrontiamo: e il sovrapporre gli oggei l’uno all’altro in un caso, come il meerli in equilibrio su una coppia di piai di una bilancia nell’altro, non è e un modo per portarli in una posizione tale e i nostri sensi possano riconoscere quelle mancanze di somiglianza esaa, e altrimenti sfuggirebbero alla nostra aenzione.

Insieme con questi tre princìpi generali o assiomi, il resto delle premesse della geometria consiste delle cosiddee definizioni, cioè a dire di proposizioni e asseriscono l’esistenza reale dei vari oggei in esse designati, insieme con una quale proprietà di ciascuno di questi oggei. Di solito in alcuni casi si assume più d’una proprietà, ma in nessun caso ne è necessaria più d’una. Si assume e in natura ci sono cose come le linee ree e e due qualsiasi di queste linee e si originano dal medesimo punto divergono sempre più, senza limite. est’assunzione (e include, e va oltre, l’assioma di Euclide e due linee ree non possono raciudere uno spazio) è indispensabile in geometria e, com’è evidente, riposa su un’osservazione semplice, familiare e universale, come tui gli altri assiomi. Si assume ane e le linee ree divergono tra loro in gradi differenti; in altre parole, e ci sono cose come gli angoli, e e gli angoli possono essere eguali o diseguali. Si assume e c’è qualcosa come un cerio, e e tui i suoi raggi sono eguali; e ci sono cose come le ellissi, e e le somme delle distanze focali sono eguali per ogni punto sull’ellisse; e ci sono cose come le linee parallele e e in ogni punto queste linee sono egualmente distanti tra lorod. 8. È qualcosa di più e una questione di curiosità, il considerare a quale caraeristica particolare delle verità fisie e sono oggeo della geometria si debba il fao e tue queste verità possono essere dedoe da un numero così piccolo di premesse originarie; per quale ragione possiamo prendere le mosse da una sola proprietà caraeristica di ciascuna specie di fenomeni, e, muniti di questa proprietà e di due o tre verità generali e si riferiscono all’eguaglianza, possiamo passare da segno a segno fino ad oenere un vasto corpo di verità derivate e, stando alle apparenze, sono estremamente diverse dalle verità elementari dalle quali siamo partiti. Sembra e la spiegazione di questo notevole fao si debba cercare nelle circostanze seguenti. In primo luogo tue le questioni di posizione e di figura possono essere risolte in questioni di grandezza. La posizione e la figura di un qualsiasi oggeo si determinano determinando la posizione di un numero sufficiente di punti dell’oggeo, e la posizione di un punto qualsiasi può essere determinata dalla grandezza di tre coordinate ortogonali, cioè delle perpendicolari tirate dal punto a tre piani normali tra loro, scelti ad arbitrio. Grazie a questa trasformazione di tue le questioni di qualità in questioni di quantità, la geometria si riduce al solo problema della

misurazione di grandezze, cioè all’accertamento delle eguaglianze e esistono tra queste grandezze. Ora, quando consideriamo e grazie a uno degli assiomi generali ogni eguaglianza, quando sia stata accertata, prova tante altre eguaglianze quante sono le altre cose eguali a una delle due cose eguali, e e, grazie a un altro di questi assiomi, qualunque eguaglianza, una volta accertata, è prova dell’eguaglianza di tante coppie di grandezze quante se ne possono formare per mezzo delle numerose operazioni e si risolvono nell’addizione di eguali a se stessi o ad altri eguali, cessiamo di meravigliarci e, nella misura in cui traa dell’eguaglianza, una scienza debba fornirci una quantità più copiosa di segni di segni, e e le scienze del numero e dell’estensione, e traano quasi soltanto con l’eguaglianza, debbano essere le più deduive tra tue le scienze. Ci sono ane due o tre delle principali leggi dello spazio, o dell’estensione, e sono insolitamente adae a far sì e una posizione, o una grandezza, diventi un segno di un’altra, contribuendo in tal modo a rendere la scienza largamente deduiva. In primo luogo, le grandezze degli spazi raciusi da linee, siano essi superfici o solidi, sono determinate in modo completo dalle grandezze delle linee e degli angoli e li delimitano. In secondo luogo, la lunghezza di una linea qualsiasi, rea o curva e sia, si misura (date certe altre cose) per mezzo dell’angolo e essa soende, e viceversa. Infine, l’angolo e due linee ree formano tra loro in un punto e non possiamo raggiungere, si misura per mezzo degli angoli e le due linee, prese separatamente, formano con una terza linea scelta a nostro piacere. Per mezzo di queste leggi generali, la misurazione di ogni linea, di ogni angolo, e di ogni spazio, a piacere, può essere effeuata misurando una sola linea rea e un numero sufficiente di angoli, procedimento, questo, e si segue di fao nei rilevamenti trigonometrici di un territorio; ed è una fortuna e questo procedimento sia possibile, peré la misurazione esaa di lunghe linee ree è sempre difficile e spesso impossibile, mentre quella degli angoli è molto facile. Fornendoci linee o angoli noti e sono segni della grandezza delle linee e degli angoli ignoti, e perciò degli spazi e raciudono, tre generalizzazioni di questo genere meono a nostra disposizione, per la misurazione esaa delle grandezze, facilitazioni tali e è facile capire come partendo da poi dati possiamo andare avanti ad accertare la grandezza di una moltitudine indefinita di linee, angoli e spazi, e non potremmo misurare facilmente, o non potremmo misurare affao, con nessun processo più direo.

9. Tali sono le osservazioni e sembra necessario fare in questo luogo a proposito delle leggi di natura e costituiscono l’oggeo tuo particolare delle scienze del numero e dell’estensione. È ben nota l’immensa parte e queste leggi svolgono nel dare un caraere deduivo a tui gli altri dipartimenti della scienza fisica; e ciò non deve sorprenderci, se consideriamo e tue le cause operano secondo leggi matematie. L’effeo dipende sempre dalla quantità della causa, o è una funzione di tale quantità e generalmente ane della sua posizione. Perciò non possiamo ragionare sulla causazione senza introdurre ad ogni passo considerazioni di quantità e di estensione; e se la natura dei fenomeni è tale e possiamo oenere dati numerici sufficientemente accurati, le leggi della quantità diventano il grande strumento per andare avanti a calcolare fino a oenere l’effeo, o fino a risalire a una causa. Che in tue le altre scienze, così pure come in geometria, le questioni di qualità non siano quasi mai indipendenti da questioni di quantità, si può vedere dai fenomeni più familiari. Persino quando sulla tavolozza di un piore sono mescolati pareci colori, è la quantità relativa di ciascuno di essi a determinare in tuo e per tuo il colore della miscela. In quest’occasione devo accontentarmi di dare questa semplice indicazione delle cause generali e conferiscono ai princìpi e ai processi matematici una posizione così predominante in quelle scienze deduive e dispongono di dati numerici precisi: il leore e desideri acquistare una conoscenza più completa e direa dell’argomento potrà consultare i primi due volumi dell’opera sistematica del signor Comte. Nella stessa opera, e più particolarmente nel terzo volume, sono ane discussi esaurientemente i limiti dell’applicabilità dei princìpi matematici al miglioramento di altre scienze. Tali princìpi sono manifestamente inapplicabili là dove le cause da cui dipende ciascuna classe di fenomeni sono accessibili alla nostra osservazione in modo così imperfeo e non possiamo accertare, con un’induzione appropriata, le loro leggi numerie; oppure sono inapplicabili quando le cause sono così numerose e sono frammisiate tra loro in una maniera così complessa, e, ane supponendo e le loro leggi siano note, il calcolo dell’effeo complessivo trascende i poteri del calcolo così com’è, o come può essere; infine, i princìpi in questione non possono essere applicati nei casi in cui le cause medesime sono in istato di perpetua fluuazione, come in fisiologia e ancor più, se possibile, nelle scienze sociali. Le risoluzioni matematie di questioni fisie

diventano progressivamente più difficili e meno perfee quanto più si spogliano del loro caraere astrao ed ipotetico per avvicinarsi sempre più al grado di complicazione effeivamente esistente in natura; e diventano imperfee al punto e oltre i limiti dei fenomeni astronomici e di quelli più analoghi ad essi, l’accuratezza matematica è oenuta, generalmente, «a spese della realtà dell’indagine», mentre ane nelle questioni astronomie, «nonostante l’ammirevole semplicità dei loro elementi matematici, la nostra debole intelligenza diventa incapace di seguire efficacemente in tue le loro diramazioni le combinazioni di leggi da cui dipendono i fenomeni, e questo non appena si tenti di prendere simultaneamente in considerazione più di due o tre influenze essenziali»e. Il caso dei tre corpi è già stato citato più d’una volta come un notevole esempio di questa difficoltà, dal momento e la risoluzione di una questione relativamente così semplice ha messo invano alla prova l’abilità dei matematici più profondi. Possiamo renderci conto, allora, di come sia imerica la speranza di poter applicare vantaggiosamente i princìpi della matematica a fenomeni e dipendono dall’azione reciproca delle innumerevoli particelle di corpi come quelli della imica e, più ancora, della fisiologia. Per ragioni simili, continua ad essere impossibile applicare i princìpi in questione a quelle ricere ancor più complesse i cui oggei sono costituiti dai fenomeni della società e del governo. Il valore dell’istruzione matematica come preparazione a queste ricere più difficili consiste non già nell’applicabilità delle sue dorine, ma nell’applicabilità del suo metodo. La matematica rimarrà per sempre l’esempio più perfeo di metodo deduivo in generale, e le applicazioni della matematica alle parti deduive della fisica rappresentano l’unica scuola in cui i filosofi possano imparare la parte più difficile e importante della loro arte: l’impiego delle leggi dei fenomeni più semplici per spiegare e predire le leggi dei fenomeni più complessi. este ragioni sono perfeamente sufficienti per considerare l’addestramento matematico come una base indispensabile di una vera e propria educazione scientifica e per considerare (secondo il dictum e una tradizione, antica ma non autentica, aribuisce a Platone) l’ἀγεωμέτρητος come uno e manca di una delle qualifie più essenziali per coltivare con successo le brane superiori della filosofia. a.

V. sopra, Libro I, cap. V.

b.

V. sopra, Libro I, cap. V, § 1, e Libro II, cap. V, § 5. c. L’assioma «Eguali sorai da eguali hanno differenze eguali» si può dimostrare a partire dai due assiomi enunciati nel testo. Se A = a e B = b, A — B = a — b. Supponendo infai e non lo sia, poniamo e sia A — B = a — b + c. Allora, siccome B = b, aggiungendo eguali ad eguali, avremo A = a + c. Ma A = a, perciò avremo a = a + c, e è impossibile. Dimostrata questa proposizione, possiamo, per suo mezzo, dimostrare la proposizione seguente: «Se si aggiungono eguali a diseguali, si oengono somme diseguali». Se è A = a, e non è B = b, non sarà A + B = = a + b. Infai, supponiamo e lo sia. Allora, dal momento e A = a e A + B = a + b, soraendo cose eguali da cose eguali avremo B = b, e va contro l’ipotesi. Ancora: in questo modo si può provare e due cose, una delle quali è eguale, e l’altra diseguale a una terza cosa, sono diseguali tra loro. Se è A = a, e non è A = B, allora non è neppure a = B. Supponiamo infai e a e B siano eguali. Allora, dal momento e A = a e a = b, e dal momento e cose eguali alla stessa cosa sono eguali tra loro, avremo A = B, e è contrario all’ipotesi. d. Di solito i geometri hanno preferito definire le ree parallele in base alla proprietà di essere complanari e di non incontrarsi mai. esto però ha reso necessario assumere, come assioma complementare, alcune altre proprietà delle ree parallele, e il modo insoddisfacente in cui Euclide e altri geometri hanno scelto queste proprietà è sempre stato ritenuto l’obbrobrio della geometria elementare. Ane come definizione verbale, l’equidistanza è una proprietà più adaa per caraerizzare le parallele, dal momento e l’equidistanza è l’aributo realmente implicato dalla significazione del nome. Se l’essere complanari e il non incontrarsi mai esaurissero completamente il significato di «essere parallele», non dovremmo affao trovare assurdo e si parli di una curva come parallela al suo asintoto. Il significato di «ree parallele» è «linee e seguono esaamente la medesima direzione e e perciò non si avvicinano mai, né mai si allontanano, l’una dall’altra», e questa concezione è suggerita immediatamente dall’osservazione della natura. Che le linee non s’incontreranno mai è, naturalmente, compreso nella proposizione più comprensiva: e in ogni loro punto le linee sono tra loro equidistanti. E e linee parallele qualsiasi, e giacciono sul medesimo piano e non sono equidistanti, certamente s’incontreranno, può essere dimostrato nel modo più rigoroso a partire dalla proprietà fondamentale delle linee ree e abbiamo assunto nel testo: dalla proprietà, cioè, e se due ree hanno in comune la medesima origine, divergono sempre più, senza limite. e. Philosophie positive, III, 414-16. 1. George Peaco (1791-1858), matematico inglese, fellow, poi lecturer e tutor al Trinity College di Cambridge, fu membro della Royal Society dal 1818 e dal 1836 professore di astronomia. Nel 1839 fu nominato decano della Caedrale di Ely. Insieme con Robert Woodhouse, John Hersel e Charles Babbage fondò, nel 1812, la Cambridge Analytical Society, allo scopo di introdurre la notazione leibniziana nel calcolo infinitesimale fino a quel tempo legato, in Gran Bretagna, all’algoritmo newtoniano e ne limitava fortemente i poteri di astrazione e generalizzazione. Affermatasi faticosamente araverso polemie e coinvolsero gran parte del mondo accademico britannico, la riforma della notazione «differenziale» diede un poderoso impulso agli studi di algebra astraa e di logica formale, contribuendo altresì al riasseo dei curricula delle università inglesi. Della riforma universitaria, peraltro, Peaco si occupò aivamente, e fu membro di parecie commissioni incaricate di approfondirne i problemi e di redigerne i progei. La sua opera matematica di maggior peso è A Treatise on Algebra [Trattato di algebra] in due volumi (1830).

CAPITOLO XXV. LE RAGIONI DELLA NON-CREDENZA 1. Il metodo per giungere a verità generali, ossia a proposizioni generali tali da poter essere credute, e la natura delle prove sulle quali si fondano queste proposizioni, sono stati discussi — per quanto lo permeevano lo spazio e le capacità dell’autore — nei ventiquaro capitoli precedenti. Ma il risultato dell’esame delle prove non è sempre la credenza, e neppure la sospensione del giudizio: talvolta è la non-credenza. Pertanto, la filosofia dell’induzione e della ricerca sperimentale è incompleta se, oltre a traare delle ragioni della credenza, non traa ane delle ragioni della noncredenza: a quest’argomento dedieremo un capitolo, quello conclusivo. Per «non-credenza» non si deve intendere, qui, la pura e semplice assenza di credenza. Le ragioni per astenersi dalla credenza sono semplicemente l’assenza o l’insufficienza delle prove, e nel prendere in considerazione quali prove siano sufficienti a sostenere una data conclusione, abbiamo già implicitamente preso in considerazione quali prove non siano sufficienti a raggiungere il medesimo scopo. Per «non-credenza» s’intende, qui, non già lo stato della mente in cui non ci formiamo nessun’opinione a riguardo di un oggeo, ma quello stato in cui siamo fermamente persuasi e una certa opinione non è vera: e ne siamo persuasi al punto e, se in favore di quest’opinione venissero prodoe prove ane dotate apparentemente di grande forza (prove fondate sulla testimonianza altrui o sulle nostre supposte percezioni), crederemmo e i testimoni dicono il falso, o s’ingannano, oppure (se i le percepisce siamo noi) e ad ingannarci siamo noi stessi. Certo, nessuno meerà in dubbio e casi del genere esistano. Spesso, basandosi su quella e si iama l’improbabilità, o l’impossibilità, di certe asserzioni, si credono false asserzioni per le quali c’è abbondanza di prove positive. E la questione da prendere in considerazione è e cosa signifiino, in questo caso, le parole «impossibilità» e «improbabilità», e in quali circostanze le proprietà e queste parole esprimono costituiscano ragioni sufficienti per la non-credenza.

2. In primo luogo si deve osservare e le prove positive prodoe a sostegno di un’asserzione e venga tuavia rigeata a causa della sua impossibilità o della sua improbabilità non sono mai tali da equivalere a una prova completa. Sono sempre basate su quale generalizzazione approssimativa. Può darsi e il fao sia stato asserito da cento testimoni: ma ci sono molte eccezioni all’universalità della generalizzazione e quello e cento testimoni affermano è vero. Può darsi e a noi stessi sembri di aver effeivamente visto il fao; ma e vediamo veramente quello e crediamo di vedere, non è affao una verità universale. Può darsi e in quel momento i nostri sensi si trovassero in istato patologico, oppure può darsi e immaginiamo di aver percepito una cosa e invece abbiamo soltanto inferito. Dunque, siccome la prova affermativa non è mai nulla più e una generalizzazione approssimata, tuo dipenderà dalla prova negativa. Se ane la prova negativa riposa su una generalizzazione approssimata, si traa di un caso in cui si devono meere a confronto le probabilità. Se, quando le si somma, le generalizzazioni approssimate e conducono alla prova affermativa sono meno forti, o, in altre parole, sono più lontane dall’essere universali di quanto non lo siano le generalizzazioni approssimate e corroborano il lato negativo della questione, si dice e la proposizione è improbabile e e per il momento non dev’essere creduta. Se invece un fao e si suppone reale è in contraddizione, non già con un certo numero di generalizzazioni approssimate, ma con una generalizzazione completa fondata su un’induzione rigorosa, allora si dice e il fao è impossibile, e non lo si crede affao. est’ultimo principio, semplice ed evidente come ci appare, è la dorina e suscitò una controversia così violenta quando si tentò di applicarla alla questione della credibilità dei miracoli. La celebre dorina di Hume, secondo cui nulla è credibile e contraddica l’esperienza o sia in disaccordo con le leggi di natura, non è altro e la proposizione molto semplice e innocua e tuo quello e contraddice un’induzione completa non è credibile. Il fao e una massima come questa debba essere con siderata come una pericolosa eresia o debba essere erroneamente scambiata per una verità grande e recondita, depone a tuo sfavore dello stato della speculazione filosofica su tali argomenti. Ma, si può iedere, lo stesso enunciato della proposizione non implica forse una contraddizione? Secondo questa teoria, un fao presunto, e contraddica un’induzione completa, non dev’essere creduto. Ma alla

completezza dell’induzione è essenziale e l’induzione non contraddica nessun fao noto. Allora, non è forse una petitio principii il dire e il fao non dev’essere creduto peré l’induzione e gli si contrappone è un’induzione completa? Come possiamo avere il dirio di diiarare completa l’induzione mentre i fai, sostenuti da prove credibili, si presentano come incompatibili con essa? Rispondo e abbiamo questo dirio tue le volte e ce lo dànno i canoni scientifici dell’induzione; cioè, tue le volte e l’induzione può essere completa. esto dirio ce l’abbiamo, per esempio, in un caso di causazione in cui si sia effeuato un experimentum crucis. Se un antecedente, A, sovrapposto a un insieme di antecedenti e rimangono inalterati per tui gli altri aspei, è seguito da un effeo B e prima non esisteva, allora, in quel caso particolare, A è la causa di B o una parte indispensabile della causa di B; e se A si mee un’altra volta alla prova con molti insiemi di antecedenti completamente differenti e B segue ane questa volta, allora A è tua e sola la causa di B. Se queste osservazioni o questi esperimenti sono stati ripetuti tanto spesso e da un numero così alto di persone da escludere ogni sospeo e da parte dell’osservatore sia stato commesso un errore, si è definitivamente consolidata una legge di natura; e fin quando questa legge viene acceata come tale, l’asserzione e in una certa occasione particolare A ha avuto luogo e B non ha avuto luogo senza che operassero cause contrarie, non dev’essere creduta. Se la quantità delle prove in suo favore è ane soltanto di poco inferiore a quella e sarebbe sufficiente per mandarla all’aria, a un’asserzione del genere non si deve dar credito. Le verità generali: e tuo quello e ha un principio ha una causa, e e quando non esistono altro e le medesime cause seguono i medesimi effei, riposano sulle prove più forti di cui si possa disporre; la proposizione e cose affermate ane da una folla di testimoni sono vere, non è altro e una generalizzazione approssimativa; e ane se fantastiiamo di aver visto o di aver percepito effeivamente il fao e contraddice la legge, in realtà quello e un essere umano può vedere non è nulla più e un insieme di apparenze, e la natura reale del fenomeno è una pura e semplice inferenza traa da queste apparenze: inferenza nella quale, di solito, le generalizzazioni approssimate svolgono una parte tu’altro e indifferente. Perciò, se scegliamo di aenerci alla legge, nessuna quantità di prove, per quanto alta, dovrebbe poterci persuadere e è successo qualcosa e è

incompatibile con la legge. Invece, se le prove prodoe sono tali da rendere più probabile e l’insieme di osservazioni e di esperimenti sui quali riposa la legge siano stati compiuti in modo non accurato o siano stati interpretati in modo inesao, di quanto non sia probabile e le prove in questione siano false, allora possiamo credere alle prove: ma in questo caso dobbiamo abbandonare la legge. E poié era stata acceata in base a quella e sembrava un’induzione completa, la legge può essere rigeata soltanto sulla base di prove equivalenti; può essere soltanto rigeata, cioè, in quanto incompatibile, non già con un numero qualsiasi di generalizzazioni approssimate, ma con quale altra legge di natura meglio consolidata. Probabilmente, questo caso estremo di conflio tra due supposte leggi di natura non si è mai dato là dove nel processo d’indagine sulle sue leggi si sono tenuti presenti i veri canoni dell’induzione scientifica; ma se dovesse darsi non potrebbe non finire con il rigeo totale di una delle presunte leggi. Proverebbe e nel processo logico per mezzo del quale si è avvalorata l’una o l’altra delle leggi doveva esserci una mancanza: e se le cose dovessero stare così, allora la supposta legge di natura non sarebbe affao una verità. Non possiamo ammeere una certa proposizione come legge di natura, e tuavia credere in un fao e sta in reale contraddizione con essa. Dobbiamo negare la nostra credenza al presunto fao, o credere e quando ammeevano la presunta legge eravamo in errore. Ma peré un qualsiasi fao presunto contraddica una legge di causazione non è sufficiente supporre e la causa esista senza essere seguìta dall’effeo, peré un avvenimento del genere non sarebbe per nulla insolito: bisogna e il fao sia accaduto in assenza di qualsiasi causa contraria adeguata. Ora, nel caso di un presunto miracolo, si fa l’asserzione esaamente opposta: si asserisce e l’effeo non è accaduto, non già in assenza, ma in conseguenza, di una causa contraria: cioè, in conseguenza di un’interposizione direa dell’ao di volontà di un Essere e ha potere sulla natura e, in particolare, di un Essere la cui volontà — e, poié si suppone e abbia dotato tue le cause dei poteri grazie ai quali producono i loro effei — si può ben supporre e sia in grado di contrastarli. Come è stato giustamente osservato da Browna, un miracolo non contraddice alla legge di causa e di effeo: è un nuovo effeo e si suppone sia stato prodoo dall’introduzione di una nuova causa. Sull’adeguatezza di questa causa, se è presente, non possono esserci dubbi: l’unica probabilità antecedente e si

può ascrivere al miracolo è l’improbabilità e sia mai esistita una causa del genere. Perciò tuo quello e Hume è riuscito a dimostrare — e bisogna riconoscere e c’è riuscito — è e, (dato almeno lo stato imperfeo della nostra conoscenza degli agenti naturali, e lascia sempre aperta la possibilità e ci sia stato tenuto nascosto qualcuno degli antecedenti fisici) nessuna prova può dimostrare l’esistenza di un miracolo a i non creda già nell’esistenza di un Essere o di più esseri dotati di poteri soprannaturali, o a i creda di avere lui stesso la prova inconfutabile e il caraere dell’Essere, la cui esistenza si ammee, è incompatibile con l’aver visto e era in grado di interferire nell’occasione in parola. Se già non crediamo negli agenti sovrannaturali nessun miracolo può provarcene l’esistenza. Il miracolo stesso, considerato semplicemente come un fao straordinario, può esserci aestato in modo soddisfacente dai nostri sensi o da testimoni, ma nulla potrà mai provare e si traa di un miracolo. È ancora possibile un’altra ipotesi; e si trai del risultato di quale causa naturale sconosciuta, e questa possibilità non può essere esclusa in modo tanto completo da non lasciare altra alternativa e non sia quella di ammeere l’esistenza e l’intervento di un Essere superiore alla natura. Comunque, quelli e già credono in un Essere così fao possono scegliere tra due ipotesi; l’ipotesi di un agente sovrannaturale e l’ipotesi di un agente naturale ignoto, e devono giudicare quale delle due sia la più probabile in quel caso particolare. Un elemento importante della formazione di questo giudizio sarà costituito dalla conformità del risultato con le leggi del presunto agente, cioè con il caraere della divinità quale costoro la concepiscono. Ma data la conoscenza aualmente in nostro possesso dell’uniformità generale del corso della natura, la religione è stata costrea a riconoscere, in séguito al risveglio della scienza, e il governo dell’universo come un tuo si esercita per mezzo di leggi generali e non di interposizioni speciali. Per iunque sostenga questa credenza c’è una presunzione generale contro ogni supposizione e l’agente divino non operi araverso leggi generali; o, in altre parole, prima di ogni miracolo c’è un’improbabilità per soveriare la quale si riiede una forza straordinaria da parte della probabilità antecedente derivata dalle circostanze speciali del caso. 3. Da quello e si è deo si vede iaramente e l’asserzione, e la causa di un effeo connesso con essa da una legge di causazione

completamente accertata è stata annullata, dev’essere creduta o non dev’essere creduta secondo e sia probabile o improbabile e in quel caso particolare esista una causa contraria adeguata. Dare una valutazione di questa probabilità non è più difficile e darla di altre. Generalmente abbiamo quale conoscenza antecedente della frequenza o della rarità dell’occorrere di tue le cause note in grado di contrastare le cause date, e da questa conoscenza possiamo trarre un’inferenza a proposito della probabilità antecedente e quelle cause fossero presenti in un qualsiasi caso particolare. E né per quanto riguarda le cause note, né per quanto riguarda quelle ignote, siamo obbligati a pronunciarci sulla loro probabilità di esistere in natura; siamo soltanto obbligati a pronunciarci sulla probabilità e esistessero in quel tempo e in quel luogo in cui si presume e sia avvenuta la transazione. Raramente, perciò, quando le circostanze del caso ci siano note, siamo privi dei mezzi per giudicare fino a qual punto sia probabile e in quel tempo e in quel luogo una causa del genere sia esistita senza aver manifestato la propria presenza per mezzo di altri segni e (nel caso e la causa sia sconosciuta) senza e fino a questo momento abbia manifestato la propria esistenza in quale altro caso. Crediamo alla testimonianza con un grado di convinzione più forte o più debole, secondo e ad apparire più improbabile sia questa circostanza o sia la falsità della testimonianza; ci crediamo, cioè, fin quando la testimonianza non entri in conflio con una generalizzazione approssimata di ordine superiore: e, almeno fin quando non avremo vagliato ulteriormente la faccenda, il grado di questa nostra convinzione sarà proporzionato al prevalere dell’una o dell’altra. Tanto basti per il caso in cui il fao presunto entra in conflio, o sembra entrare in conflio, con una legge reale di causazione. Ma un caso forse più comune è quello in cui il fao entra in conflio con uniformità di pura e semplice coesistenza, di cui non è provato e dipendano da causazione: in altre parole, quando il fao entra in conflio con le proprietà delle specie e dei generi. Soprauo con queste uniformità sembrano essere in contrasto le storie meravigliose riportate dai viaggiatori, come le storie di uomini con la coda o con le ali e (fin quando non fu confermata dall’esperienza) con la storia dei pesci volanti; oppure come la storia del ghiaccio, nel celebre aneddoto dei viaggiatori olandesi e del re del Siam1. I fai di questo genere — fai mai uditi fino a questo momento, ma e nessuna legge di causazione ci autorizzerebbe a iamare impossibili — sono quelli e Hume caraerizza, non già come contrari all’esperienza, ma semplicemente come

non conformi ad essa, e e nel suo traato sulle prove Bentham iama fai non conformi in specie, distinguendoli da quelli e non sono conformi in toto o in grado. In un caso di questo genere, il fao asserito è l’esistenza di una nuova specie, cosa e in se stessa non è minimamente incredibile e e dev’essere rigeata soltanto se l’improbabilità e l’esistenza di una certa varietà di oggei in quel certo luogo e in quel certo tempo non sia stata scoperta prima è maggiore dell’improbabilità e i testimoni abbiano commesso errori o abbiano deo il falso. Di conseguenza, alle asserzioni di questo genere fae da persone degne di fede a proposito di luoghi ancora inesplorati, non si nega la credenza, ma la si considera al massimo come proposizioni e aendono di essere confermate da osservazioni successive a meno e le proprietà presunte di quella e si suppone sia una specie nuova non contrastino con le proprietà note di quale specie più grande, e l’include; o, in altre parole, a meno e non si dica di aver trovato, nella nuova specie della quale si asserisce l’esistenza, e certe proprietà sono disgiunte da certe altre di cui si è sempre saputo e le accompagnavano, come nel caso degli uomini di Plinio o di qualsiasi altra specie di animali dotata di una struura differente da quella e, a quanto si è sempre trovato, coesiste con la vita animale. Circa il modo di traare con i casi di questo genere, non c’è da aggiungere molto a quanto è stato deo sul medesimo argomento nel capitolo ventiduesimob. ando le uniformità di coesistenza e il fao presunto violerebbe sono tali da alimentare una forte presunzione in favore dell’ipotesi e si trai del risultato di causazione, almeno provvisoriamente il fao e è in conflio con esse non dev’essere creduto e dev’essere sooposto a indagini ulteriori. ando la presunzione equivale virtualmente alla certezza — come nel caso della struura generale degli esseri organizzati — la sola questione e dev’essere presa in considerazione è se in fenomeni così poco capiti non sia possibile e certe cause fino a quel momento ignote esercitino un’azione contraria, o non possa darsi e i fenomeni siano in grado di originarsi in quale altro modo, e produrrebbe un insieme differente di uniformità derivate. ando, come nel caso del pesce volante o dell’ornitorinco, la generalizzazione di cui il presunto fao costituirebbe un’eccezione è molto speciale e ha una portata limitata, nessuna delle supposizioni di cui sopra può essere ritenuta molto improbabile, e nel caso di tali presunte anomalie è saggio sospendere il giudizio in aesa di ricere successive e non maneranno di confermare l’asserzione, se è vera. Ma

quando la generalizzazione è molto comprensiva e abbraccia un territorio considerevolmente ampio del dominio della natura, allora, per le ragioni e sono state esaurientemente spiegate, una legge empirica di quel genere si avvicina di molto alla certezza di una legge di causazione accertata, e a tale legge non si può ammeere nessun’eccezione presunta a meno e questo non avvenga in base a quale legge di causazione provata da un’induzione ancor più completa. Come abbiamo già visto, quelle uniformità nel corso della natura e non recano su di sé il mario dei risultati di causazione possono essere ammesse come verità universali dotate di un grado di credibilità proporzionato alla loro generalità. elle e sono vere di tue le cose, quali e siano o, almeno, e sono completamente indipendenti dalle differenze di genere e di specie — vale a dire le leggi del numero e dell’estensione (alle quali possiamo aggiungere la stessa legge di causazione) — sono probabilmente le sole leggi un’eccezione alle quali sia assolutamente e permanentemente incredibile. Di conseguenza, la parola «improbabilità» (almeno nel senso d’impossibilità totale) sembra doversi limitare generalmente alle asserzioni e si suppone siano incompatibili con queste leggi o con certe altre leggi e s’avvicinano molto ad esse in generalità. Coloro e si studiano di oenere l’accuratezza dell’espressione, dicono e le violazioni delle altre leggi, per esempio delle leggi speciali della causazione, sono impossibili nelle circostanze del caso, o e sono impossibili a meno e non sia esistita quale causa, e nel caso particolare non esistevac. Alle asserzioni e non contraddicano qualcuna di queste leggi generalissime nessuna persona prudente aribuirà qualcosa di più dell’improbabilità: e aribuirà loro un’improbabilità e non è del grado più alto, a meno e il tempo e il luogo in cui si dice e il fao sia avvenuto non rendano quasi certo e l’anomalia, se è reale, non sarebbe potuta passare inosservata ad altri osservatori. In tui gli altri casi, risorsa del ricercatore prudente è la sospensione del giudizio, puré, quando sia stata vagliata a dovere, la testimonianza in favore dell’anomalia non presenti circostanze sospee. Ma nei casi in cui l’anomalia non è reale, non si trova quasi mai e la testimonianza supera l’esame. Nei casi registrati, in cui un gran numero di testimoni e godono di buona reputazione e hanno oenuto buoni successi scientifici hanno testimoniato la verità di qualcosa e poi si è rivelata falsa, ci sono sempre state circostanze e avrebbero reso la testimonianza indegna di fede a un osservatore acuto e si fosse presa la pena di vagliare

debitamente la faccenda. Generalmente ci sono stati mezzi per rendere conto delle impressioni esercitate sui sensi o sulle menti dei presunti percipienti dalle apparenze fallaci: o nel caso era coinvolta quale illusione epidemica propagata dall’influenza contagiosa del sentimento popolare, oppure c’è andato di mezzo quale forte interesse: zelo religioso, passione politica, o, almeno, l’arazione esercitata dal meraviglioso su persone e ne erano fortemente susceibili. ando non c’è nessuna di queste circostanze a render conto dell’apparente forza della testimonianza e l’asserzione non è in contraddizione né con quelle leggi universali e non conoscono nessun’azione contraria e nessun’anomalia né con le generalizzazioni e vengono subito dopo queste per ampiezza, ma, se fosse ammessa, equivarrebbe soltanto all’asserzione e in circostanze non ancora completamente esplorate esiste una causa ignota o una specie anomala (così e si può ancora credere e possano venire alla luce cose fino a quel momento ignote) allora una persona prudente non ammeerà né rigeerà la testimonianza, ma aspeerà e venga confermata altre volte e da parte di altre fonti indipendenti. Tale sarebbe dovuta essere la condoa del re del Siam quando il viaggiatore olandese affermò davanti a lui l’esistenza del ghiaccio. Ma nella sua sprezzante incredulità una persona ignorante è tanto ostinata quanto irragionevolmente credula. Non crede a nulla e non rientri nei limiti della sua ristrea esperienza personale e e non accarezzi quale sua inclinazione; se questo accade, allora costui sarà pronto a mandar giù qualsiasi favolea da bambini. 4. Prenderò ora in considerazione un equivoco molto serio a proposito dei princìpi di questa materia, equivoco e è stato commesso da alcuni degli autori e scrissero contro il Saggio sui miracoli di Hume (e, prima e da costoro, dal vescovo Butler2) nella loro ansia di distruggere quella e a loro sembrava un’arma formidabile contro la religione cristiana: l’effeo di quest’equivoco è quello di confondere interamente la dorina delle ragioni della non-credenza. L’errore consiste nel trascurare la distinzione tra quella e si potrebbe iamare l’improbabilità prima del fao e l’improbabilità dopo il fao; o (dal momento e, come fa notar il signor Venn, la distinzione tra passato e futuro non è una circostanza rilevante) tra l’improbabilità e ha di essere giusto un puro e semplice tentativo d’indovinare e l’improbabilità e ha di essere vero un fao presunto.

Prima e accadano, o prima e c’informino e sono accaduti, sono per noi completamente improbabili molti eventi e, quando ne siamo stati informati, non sono affao incredibili, peré non sono contrari a nessun’induzione, neane a un’induzione approssimativa. ando si lancia un dado perfeamente non truccato, le probabilità e venga un uno sono di cinque contro una: cioè, su sei lanci l’uno verrà fuori soltanto una volta. Ma questa non è una buona ragione per non credere e in una certa occasione sia stato oenuto un uno, se lo asserisce quale testimonio degno di fede: infai, ammesso e un uno si oenga soltanto una volta su sei, se si è buato il dado si deve pur aver oenuto qualche numero, e esce soltanto una volta su sei. Dunque l’improbabilità, o, in altre parole, la rarità di un fao qualsiasi, non è una buona ragione per non credergli, se la natura del caso rende certo e è accaduto o quel fao o qualcos’altro egualmente improbabile, vale a dire egualmente insolito. E questo non è tuo. Infai, ane se le altre cinque facce del dado fossero tui due o tui tre, tuavia, siccome in media l’asso dovrebbe ancora uscire una volta ogni sei lanci, il fao e esca a un lancio ben determinato non contraddirebbe ancora in nessun modo l’esperienza. Se non credessimo a nessuno dei fai e prima di accadere avevano contro di sé le probabilità, ci sarebbe praticamente impossibile credere a qualcosa. Ci dicono e A. B. è morto ieri: un aimo prima e ce lo dicessero le probabilità contrarie al fao e morisse quel giorno erano, magari, diecimila contro una; ma siccome era certo e un giorno o l’altro sarebbe morto e, quando fosse morto, era certo e doveva necessariamente morire un giorno o l’altro (mentre la preponderanza delle probabilità contrarie a e morisse un giorno piuosto e un altro era molto grande) l’esperienza non fornisce nessuna ragione per non prestar fede a una qualsiasi testimonianza, e si possa produrre a proposito del fao e l’evento abbia avuto luogo in un certo giorno. Tuavia il door Campbell3 e altri hanno considerato come una risposta definitiva alla dorina di Hume (secondo cui sono incredibili quelle cose e sono contrarie al corso uniforme dell’esperienza) il fao e non rifiutiamo di credere cose rigorosamente conformi al corso uniforme della nostra esperienza semplicemente peré le probabilità sono contrarie; e non rifiutiamo di credere un presunto fao semplicemente peré la combinazione di cause da cui dipende càpita soltanto una volta su un certo numero di volte. È evidente e nulla di cui l’osservazione ci mostri, o di cui si possa provare in base a leggi di natura, e accade in una certa

proporzione (per quanto piccola) dell’intiero numero dei casi, è contrario all’esperienza, ane se avremmo ragione a non crederci nel caso e una cert’altra ipotesi riguardante l’oggeo in questione implicasse, nel complesso, una deviazione minore dal corso ordinario degli eventi. Tuavia, ragioni come questa hanno condoo autori d’ingegno alla straordinaria conclusione e non si deve mai rifiutare di credere nulla e sia confermato da una testimonianza degna di fede. 5. Abbiamo preso in considerazione due specie di eventi, di cui si dice comunemente e sono improbabili: gli eventi di una di queste due specie non sono affao straordinari, ma, avendo in contrario una stragrande maggioranza di probabilità, sono improbabili fin quando non si siano affermati, ma poi non più; gli eventi dell’altra specie, essendo contrari a quale legge naturale riconosciuta, sono incredibili quale e sia il numero delle prove in loro favore, a meno e non si trai di testimonianze sufficienti a scuotere la nostra credenza nella legge stessa. Ma tra queste due classi di eventi c’è una classe intermedia, e consiste di quelle e vengono comunemente iamate coincidenze; in altre parole, di quelle combinazioni di casi e presentano quale regolarità peculiare e inaspeata e, in questa misura, le rende simili ai risultati di una legge. Una cosa del genere accadrebbe, per esempio, se in una loeria dotata di mille bigliei i numeri dovessero venire estrai esaamente nel medesimo ordine di quelli e vengono iamati i numeri naturali: 1, 2, 3, ecc. I princìpi delle prove e si possono applicare a questo caso devono ancora essere presi in considerazione: dobbiamo cioè cercar di stabilire se tra le coincidenze e gli eventi ordinari ci sia quale differenza relativa alla quantità delle testimonianze o degli altri tipi di prova necessari a renderle credibili. È certo e, stando a ogni principio razionale di aesa, una combinazione di questo genere particolare si può aspeare tanto spesso quanto una qualsiasi altra successione data di mille numeri; e in un dado perfeamente leale, su mille lanci o su un milione di lanci i sei usciranno due volte, tre volte, o un qualsiasi altro numero di volte in successione tanto spesso quanto uscirà qualsiasi altra successione di numeri stabilita in precedenza; e e nessun giocatore giudizioso scommeerebbe, contro una certa serie, somme più forti di quelle e scommeerebbe contro un’altra. Nonostante questo, esiste una disposizione generale a considerare una serie molto più improbabile di un’altra, e a ritenere e per diventare credibile

abbia bisogno di prove molto più forti dell’altra. La forza di quest’impressione è tale da indurre alcuni pensatori alla conclusione e la natura trova maggiori difficoltà a produrre combinazioni regolari di quante non ne trovi a produrre combinazioni irregolari; o, in altre parole, e nelle cose c’è una quale tendenza generale, una quale legge, e impedisce alle combinazioni regolari di aver luogo. Tra questi autori possiamo annoverare D’Alembert, e in un Saggio sulle probabilità e si trova nel quinto volume dei suoi Mélanges, sostiene e le combinazioni regolari, pur essendo egualmente probabili quanto tue le altre dal punto di vista della teoria matematica, lo sono di meno dal punto di vista fisico. D’Alembert fa appello al senso comune o, in altre parole, alle impressioni comuni, e dice: se due dadi, geati ripetutamente in nostra presenza, dessero due sei tue le volte, prima e il numero dei lanci sia arrivato a dieci (per non parlare di centinaia di milioni) non saremmo pronti ad affermare, con la convinzione più assoluta, e i dadi sono truccati? L’impressione comune e naturale sta dalla parte di D’Alembert: si è disposti a pensare e la serie regolare sia molto più improbabile di una serie irregolare. Ma io ritengo e quest’impressione comune sia fondata semplicemente sul fao e quasi nessuno ricorda di aver visto una di queste peculiari coincidenze: la ragione di questo risiede nel fao e l’esperienza di nessuno di noi è tanto estesa da arrivare a coprire qualcosa e sia ane soltanto simile al numero di tentativi entro il quale ci si può aspeare e abbia luogo questa o quest’altra combinazione. Poié le probabilità e in un solo lancio di due dadi escano due sei sono di 1/36, le probabilità e i due sei escano dieci volte in successione sono di I diviso per 36 elevato alla decima. In altre parole, un avvenimento del genere può accadere soltanto una volta su 3.656.158.440.062.976 tentativi, e questo numero è così grande e in tuo l’arco della sua esperienza un giocatore non s’avvicina neppure alla milionesima parte di esso. Ma se invece e sull’uscita del sei dieci volte in successione, ci si fissa su una qualsiasi altra successione di dieci lanci, sarà altreanto improbabile e quella sequenza particolare si presenti mai nell’esperienza di un qualsiasi individuo, ane se questo non sembra egualmente improbabile, peré è praticamente impossibile e qualcuno possa ricordare se l’ha incontrata o no, e peré si fa tacitamente un confronto, non già tra l’uscita del sei dieci volte in successione e un’altra qualsiasi sequenza particolare di lanci, ma tra tue le successioni, regolari e irregolari, prese insieme.

È indubitabilmente vero, come dice D’Alembert, e se la successione di sei uscisse effeivamente davanti ai nostri oci, non l’aribuiremmo al caso ma al fao e i dadi sono truccati. Ma questo ha origine da un principio totalmente differente. Dovremmo allora prendere in considerazione non già la probabilità del fao in se stesso, ma la probabilità relativa con cui, quando si sa e è accaduto, il fao può essere ricondoo all’una o all’altra causa. Che la serie regolare sia prodoa dal caso non è affao meno probabile e lo sia la serie irregolare; anzi, è molto più probabile e la serie irregolare sia prodoa in base a quale piano, o da quale causa generale e opera araverso la struura dei dadi. È nella natura delle combinazioni casuali il produrre una ripetizione del medesimo evento tanto spesso quanto ogni altra serie di eventi, e non più spesso. Ma è nella natura delle cause generali il riprodurre sempre il medesimo evento nella medesima circostanza. Il senso comune e la scienza c’impongono — tuo il resto rimanendo invariato — di aribuire l’effeo a una causa e, se fosse reale, avrebbe molte probabilità di riprodurlo. Secondo il sesto teorema di Laplace, e abbiamo dimostrato in uno dei capitoli precedenti, dopo poissimi lanci la differenza tra le probabilità, e sorge dall’efficacia superiore della causa costante (cioè dal fao e il dado è stato truccato) supererebbe di gran lunga ogni possibile probabilità antecedente sfavorevole alla sua esistenza. D’Alembert avrebbe dovuto porre la questione in un’altra maniera. Avrebbe dovuto presupporre e noi stessi avessimo già provato i dadi e sapessimo, basandoci sopra un’ampia esperienza, e non erano truccati. Poi un’altra persona li prova in nostra assenza e ci assicura di aver oenuto un sei per dieci volte di fila. L’asserzione è credibile o no? i l’effeo di cui si deve rendere conto non è l’accadimento in se stesso, ma il fao e il testimone lo asserisca. esto fao può aver origine, o dal fao e la cosa sia realmente accaduta, o da quale altra causa. ello e dobbiamo stimare è la probabilità relativa di queste due supposizioni. Supponendo e il testimone sia persona veridica e sufficientemente scrupolosa, e e diiari di aver prestato un’aenzione particolare, se affermasse di aver oenuto una qualsiasi altra serie di numeri gli crederemmo. Ma allora la probabilità e abbia realmente oenuto dieci sei è esaamente eguale alla probabilità e abbia oenuto una qualsiasi altra sequenza di numeri. Perciò, se quest’asserzione è meno credibile dell’altra, la ragione dev’essere, non già e è meno probabile e l’altra sia vera, ma e è più probabile e l’altra sia falsa.

Una delle ragioni per cui il falso si asserisce più spesso a proposito delle cosiddee coincidenze e non a proposito delle combinazioni ordinarie è immediatamente ovvia. Una coincidenza desta maraviglia. Gratifica l’amore per lo straordinario. Pertanto, i motivi della falsità, tra i quali uno dei più frequenti è il desiderio di stupire, operano, in favore di questa specie di asserzione, con forza maggiore di quanto non operino in favore delle asserzioni dell’altra specie. Fin qui è evidente e ci sono più ragioni per prestar fede a una supposta coincidenza e a un’asserzione e in se stessa non è meno probabile ma e, se la si facesse, non sarebbe ritenuta degna di nota. Ci sono però casi in cui questa medesima ragione non legiimerebbe la presunzione opposta. Esistono testimoni e, quanto più straordinario possa apparire un avvenimento, tanto più ansiosi sarebbero di verificarlo con osservazioni il più possibile scrupolose prima di avventurarsi a crederlo, e, ancor più, prima di asserirlo ad altri. 6. Ma, indipendentemente da tue le possibilità particolari di dire il falso e possono avere la loro origine nella natura dell’asserzione, Laplace sostiene e a una coincidenza non possiamo credere in base alla medesima quantità di testimonianze in base alle quali saremmo autorizzati a credere a una combinazione ordinaria di eventi, e questo semplicemente per la ragione generale e una testimonianza è fallibile. Allo scopo di rendere giustizia a questa sua argomentazione, sarà necessario illustrarla con gli esempi e ha scelto lo stesso Laplace. Supponiamo, dice Laplace, e in una scatola ci siano mille bigliei, e e ne sia stato estrao soltanto uno; allora, se un testimone oculare afferma e il numero estrao era 79, la sua affermazione non è resa meno credibile dal fao e le probabilità di estrarre il 79 sono una su mille; ma la credibilità di questo fao è eguale alla probabilità antecedente della veracità del testimone. Se però nella scatola ci sono 999 palle nere e soltanto una palla bianca, e il testimonio afferma e è stata estraa la palla bianca, il caso è, secondo Laplace, molto differente: la credibilità dell’asserzione del testimonio non è e una piccola frazione di quella e era nel caso precedente. La ragione di questa differenza è la seguente. Data la natura del caso, i testimoni di cui stiamo parlando devono essere tali e la loro credibilità si approssimi praticamente alla certezza: supponiamo dunque e nel caso in questione la credibilità del testimonio

sia di 9/10; supponiamo, cioè, e su dieci asserzioni fae dal testimonio, nove in media siano corree e una sia scorrea. Supponiamo ora e abbia avuto luogo un numero di estrazioni sufficienti a esaurire tue le combinazioni possibili, e e il testimonio abbia deposto per ciascuna di esse. In tue queste estrazioni, il testimonio avrà effeivamente asserito il falso in un caso su dieci. Ma nel caso dei mille bigliei queste asserzioni false saranno state distribuite imparzialmente su tui i numeri, e dei 999 casi in cui non è stato estrao il numero 79, ci sarà stato soltanto un caso in cui è stato annunciato tale numero. Nel caso delle mille palle, al contrario (l’annuncio essendo sempre o «nero» o «bianco»), se non è stato estrao il bianco e c’è stato un annuncio falso, quest’ultimo non può non essere stato «bianco»; e poié, per ipotesi, c’è stato un annuncio falso una volta su dieci, il bianco sarà stato annunciato falsamente in un decimo dei casi in cui non è stato estrao, vale a dire in un decimo di 999 casi su mille. In media, dunque, il bianco viene estreo esaamente tanto spesso quanto il numero 79, ma viene annunciato, senza essere stato estrao, 999 volte tanto. Di conseguenza, peré l’annuncio diventi credibile, è necessaria una quantità di testimonianze molto maggiored. Per rendere valida quest’argomentazione si deve naturalmente supporre e le diiarazioni fae dal testimonio siano campioni medi della sua veridicità e della sua accuratezza generali, o, almeno, e nel caso dei mille bigliei non lo siano né più né meno e nel caso delle mille palle. est’assunzione è però infondata. È di gran lunga più probabile e una persona sbagli quando deve guardarsi da una sola forma d’errore e non quando deve evitare 999 errori differenti. Per esempio, nell’esempio e abbiamo scelto, un messaggero e potrebbe commeere un errore una volta su dieci quando si traasse di riferire il numero estrao in una loeria, potrebbe non sbagliare neppure una volta su mille quando fosse stato semplicemente mandato a osservare se una palla è nera o bianca. Perciò l’argomentazione di Laplace è difeosa ane quando la si applii allo stesso caso scelto da lui. Ancor meno questo caso si può acceare come completamente rappresentativo di tui i casi di coincidenza. Laplace ha escogitato il suo esempio in modo e, sebbene il nero corrisponda a 999 possibilità distinte e il bianco soltanto a una, il testimonio non abbia nessun’inclinazione e possa fargli preferire il nero al bianco. Il testimonio non sapeva e nell’urna c’erano 999 palle nere e soltanto una palla bianca; o, se lo sapeva, Laplace si è preso cura di rendere tui i 999 casi così

indistinguibilmente simili, e è praticamente impossibile e in favore di uno qualsiasi di essi operino cause di falsità o di errore e invece non opererebbero nella medesima maniera se di casi ce ne fosse soltanto uno. Si àlteri questa supposizione e tua quanta l’argomentazione di Laplace va in pezzi. Supponiamo, per esempio, e le palle siano state numerate, e supponiamo e la palla bianca rei il numero 79. Considerate dal punto di vista del loro colore, ci sono soltanto due cose e il testimone può aver interesse ad asserire o può aver sognato, o può essersi immaginato, o tra cui deve scegliere, se risponde a casaccio: nero e bianco; ma se si considerano dal punto di vista dei numeri e gli sono stati assegnati, ce ne sono mille; e se si dà il caso e l’interesse, o l’errore, del testimonio abbia da fare con i numeri ane se l’unica asserzione e fa è un’asserzione sui colori, il caso diventa esaamente simile a quello dei mille bigliei. O, in luogo delle palle, supponiamo e ci sia una loeria, con 1000 bigliei e un solo premio, e e io abbia il biglieo con il numero 79. Dal momento e sono interessato soltanto a quello, al testimonio iedo, non già qual è il numero estrao, ma se il numero estrao è il 79 o quale altro numero. Ora, come nell’esempio di Laplace, ci sono soltanto due casi: tuavia Laplace non direbbe certo e se il testimonio rispondesse 79 la sua asserzione sarebbe enormemente meno credibile di quanto non lo sarebbe se avesse dato la medesima risposta alla medesima domanda formulata nell’altro modo. Se per esempio (per fare un caso ipotizzato dallo stesso Laplace) il testimonio ha puntato una grossa somma su uno dei numeri e pensa e annunciandone l’estrazione aumenterà il proprio credito, è egualmente verisimile e abbia scommesso su uno qualsiasi dei 999 numeri assegnati alle palle nere e, per quanto riguarda le probabilità e dica il falso per aumentare il proprio credito, ci saranno 999 probabilità e diiari il falso a proposito del bianco contro una e lo diiari a proposito del nero. Oppure, si supponga e ci sia una reggimento di 1000 uomini, di cui 999 sono inglesi e uno francese, e e uno di questi uomini sia stato ammazzato, ma non si sappia i. Chiedo i hanno ammazzato e il testimonio risponde: il Francese. esta non solo era tanto improbabile a priori, ma è, di per se stessa, una circostanza tanto singolare e una coincidenza tanto degna di nota, quanto l’estrazione della palla bianca; tuavia crederemmo all’affermazione del testimonio tanto prontamente quanto le crederemmo se la risposta fosse stata «John ompson». Infai, ane se i 999 Inglesi erano tui eguali per il fao di differire dal Francese, non erano tuavia

indistinguibili per ogni altro aspeo come lo erano le 999 palle; ma essendo tui differenti, le possibilità di interesse o di errore ammesse erano tante quante sarebbero state se ciascun uomo fosse stato di una nazionalità differente; e se si è dea una menzogna o si è commesso un errore, l’asserzione falsa poteva ricadere con eguale proprietà tanto su un qualsiasi Jones o su un qualsiasi ompson dell’insieme quanto sul Francese. A quest’ultima classe, più e alla classe di casi presi in considerazione da Laplace, appartiene l’esempio di coincidenza scelto da D’Alembert, vale a dire l’esempio dei dieci sei di fila oenuti lanciando una coppia di dadi. i la concidenza è di gran lunga più degna di nota, per via e si presenta più raramente di quanto non si presenti l’estrazione di una palla bianca. Ma sebbene l’improbabilità e accada effeivamente sia maggiore, non è possibile stabilire in base a prove altreanto valide e la probabilità e il testimonio abbia diiarato il falso è più alta. La diiarazione «nero» rappresentava 999 casi, ma poteva darsi e il testimonio non lo sapesse, e, se lo sapeva, i 999 casi sono così esaamente simili e in realtà c’è un solo insieme di cause possibili di menzogna e corrisponda al tuo. La diiarazione: «i sei non sono stati oenuti dieci volte di fila» rappresenta — e il testimonio sa e rappresenta — una grande quantità di contingenze, e siccome ciascuna di esse è dissimile da tue le altre, può darsi e a ciascuna di esse corrisponda un insieme di cause di menzogna diverso e interamente nuovo. Mi sembra perciò e la dorina di Laplace non sia rigorosamente vera di qualsiasi coincidenza, e e sia completamente inapplicabile alla maggior parte delle coincidenze; e mi sembra e volendo sapere se per rendere credibile una coincidenza si debbano o no fornire più prove di quante ne siano indispensabili per rendere credibile un evento ordinario, si debba in ogni caso fare riferimento ai primi princìpi e stimare da capo quale sia la probabilità e in quel caso venisse resa una certa testimonianza, supponendo e il fao asserito dal testimonio non sia vero. Con queste osservazioni iudiamo la discussione delle ragioni della noncredenza e, con essa, quell’esposizione e lo spazio ci consente, e e l’autore ha il potere di dare, della logica dell’induzione. a.

Si vedano le pregevoli note (A) e (F) aggiunte alla sua Effect [Ricerca sulla relazione di causa ed effetto]. b. Si veda sopra, alle pp. 784, 788.

Inquiry into the Relation of Cause and

c.

Un autore e ho citato parecie volte dà la seguente definizione di «impossibilità»: quella cosa, per produrre la quale non esiste al mondo nessuna causa adeguata. esta definizione non prende in considerazione impossibilità come queste: e due più due sia eguale a cinque; e due ree raciudano una porzione di spazio; o e qualcosa cominci ad essere senza una causa. Non riesco a pensare a nessuna definizione dell’impossibilità e sia tanto comprensiva da comprendere in sé tue le varietà d’impossibilità, se si ecceua la definizione e ho dato io: un’impossibilità è quella cosa la cui verità entrerebbe in conflio con un’induzione completa, vale a dire con la prova più conclusiva e possediamo delle verità universali. Per quanto riguarda le supposte impossibilità e riposerebbero unicamente su questo fondamento: e ignoriamo l’esistenza di qualsiasi causa capace di produrre i presunti effei, poissime tra queste sono certamente impossibili o permanentemente incredibili. Non molti anni fa, occupavano un posto eminente tra queste impossibilità: il fao di viaggiare a seanta miglia all’ora, le operazioni irurgie indolori e le conversazioni, per mezzo di segnali istantanei, tra Londra e New York. d. Non però, come potrebbe sembrare a prima vista, 999 volte tanto. Un’analisi completa dei casi mostra e (sempre assumendo e la veridicità del testimonio sia di 9/10) in 10.000 estrazioni l’estrazione del numero 79 avverrà nove volte, e sarà annunciata falsamente una volta sola. Pertanto, la credibilità della diiarazione e è uscito il numero 79 è di 9/10, mentre l’estrazione di una palla bianca avrà luogo nove volte, e sarà annunciata falsamente 999 volte. Pertanto, la credibilità della diiarazione «bianco» sarà di 9/1008, e la proporzione tra le due diiarazioni sarà di 1008/10. Di conseguenza una diiarazione sarà soltanto cento volte, e non 999 volte, più credibile dell’altra. 1. Non siamo riusciti a rintracciare la fonte dalla quale l’Autore ha trao l’aneddoto citato. 2. Joseph Butler (1692-1725), teologo e vescovo inglese. La sua opera principale è The Analogy of Religion, Natural and Revealed, to the Course and Constitution of Nature [L’analogia tra la religione, naturale e rivelata, e il corso e la costituzione della natura] (1733), e ebbe una grande fortuna nel xix secolo. In essa Butler aacca i capisaldi del deismo, sostenendo l’impossibilità, per la religione, di essere confinata interamente nella sfera della ragione. Le difficoltà e i deisti incontrano nella religione rivelata hanno la loro controparte nel regno della natura: qui, l’imperfezione caraeristica delle facoltà umane ci impedisce una conoscenza a priori del campo dell’esperienza. Tale conoscenza non può mai raggiungere la verità, ma può solo aspirare a gradi sempre più alti di probabilità. Gli stessi dogmi della religione, e i deisti ritengono irragionevoli, hanno un alto grado di probabilità, fondata sulle prove dell’esistenza di un ordine morale del mondo da parte di Dio. La rivelazione non è quindi contraria alla ragione, ma ne costituisce il complemento: e ane se le prove in favore della religione rivelata non possono considerarsi una dimostrazione in senso rigoroso, esse tuavia sono in possesso del più alto grado di probabilità. 3. George Campbell (1719-1796), teologo e filosofo scozzese, autore di una Dissertation on Miracles; containing an Examination of the Principles advanced by David Hume [Dissertazione sui miracoli, con un esame dei princìpi enunciati da D. Hume] (1762) a cui, appunto, fa riferimento Mill) e di un traato di retorica, Philosophy of Rhetoric [Filosofia della retorica] (1776), e ebbe una larga diffusione ane nel secolo successivo. Fu preside e professore di teologia al Marisal College di Aberdeen.

LIBRO QUARTO

LE OPERAZIONI SUSSIDIARIE ALL’INDUZIONE

«Idee iare e distinte sono termini e, pur essendo familiari e frequenti sulla bocca degli uomini, ho ragione di credere e i li usa non li capisca perfeamente. Ed è possibile e solo qua e là ci sia qualcuno e si dà la pena di prenderli in considerazione al punto di sapere e cosa, egli stesso o gli altri, intendano di preciso con essi. Nella maggior parte dei passi di questo libro ho perciò scelto di scrivere “definito” o “determinato”, in luogo di “iaro” e di “distinto”, come termini e più probabilmente faranno capire agli uomini il mio pensiero su quest’argomento». JOHN LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, «Epistola al leore». «Il ne peut y avoir qu’une méthode parfaite, qui est la méthode naturelle; on nomme ainsi un arrangement dans lequel les êtres du même genre seraient plus voisins entre eux que ceux de tous les autres genres; les genres du même ordre, plus ceux de tous les autres ordres; et ainsi de suite. Cee méthode est l’idéal auquel l’histoire naturelle doit tendre; car il est évident que si l’on y parvenait, l’on aurait l’expression exacte et complète de la nature entière». CUVIER, Règne animal, Introductiona. «Deux grandes notions philosophiques dominent la théorie fondamentale de la méthode naturelle proprement dite, savoir la formation des groupes naturels, et ensuite leur succesion hiérarique». COMTE, Cours de philosophie positive, 42a lezioneb. a. Non può esserci e un metodo perfeo, e questo è il metodo naturale: si iama così una disposizione nella quale gli esseri del medesimo genere siano più vicini tra loro e non a quelli di tui gli altri generi; i generi del medesimo ordine più vicini tra loro e non a quelli di tui gli altri ordini, e così di séguito. esto metodo è l’ideale a cui deve tendere la storia naturale; è infai evidente e, quando lo si sia raggiunto, si avrà l’espressione esaa e completa della natura intiera. b. Due grandi nozioni filosofie dominano la teoria fondamentale del metodo naturale propriamente deo, e cioè, la formazione dei gruppi naturali e la loro successione gerarica.

CAPITOLO I. OSSERVAZIONE E DESCRIZIONE 1. L’indagine e ci ha tenuti occupati nei due libri precedenti ci ha condoo a quella e sembra una soluzione soddisfacente del problema principale della logica, secondo la concezione e mi sono formato della scienza. Abbiamo trovato e ane quando le apparenze sembrino indirizzare a una teoria differente, il processo mentale di cui la logica si occupa, cioè l’operazione dell’accertare le verità per mezzo delle prove, è sempre un processo d’induzione. E abbiamo analizzato nei loro minimi particolari i vari modi d’induzione, oenendo una iara visione dei princìpi a cui l’induzione stessa deve conformarsi per condurre a risultati sui quali si possa fare affidamento. L’esame dell’induzione non termina tuavia con le regole diree per eseguire induzioni. Si deve dire qualcosa di quelle altre operazioni della mente e sono presupposte necessariamente in ogni induzione o servono come strumenti per i piocessi induivi più difficili e complicati. esto Libro sarà dedicato alla considerazione di quelle operazioni sussidiarie, e tra queste la nostra aenzione dev’essere direa in primo luogo a quelle operazioni e sono i preliminari indispensabili di ogni e qualsiasi induzione. Siccome l’induzione non è altro e l’estensione, a tua una classe di casi, di qualcosa e si è osservato essere vero in certi casi individuali appartenenti alla classe, il primo posto tra le operazioni sussidiarie all’induzione spea di dirio all’osservazione. Non è questo, tuavia, il luogo di enunciare regole per creare buoni osservatori, e il farlo non è di competenza della logica, ma dell’arte dell’educazione dell’intelleo. Con l’osservazione abbiamo da fare soltanto nelle sue connessioni con il problema vero e proprio della logica: la valutazione delle prove. Dobbiamo prendere in considerazione, non come o e cosa si debba osservare, ma in quali condizioni si possa far affidamento sull’osservazione; e cosa si riieda peré il fao e si suppone sia stato osservato possa essere tranquillamente acceato come vero.

2. Almeno di primo acito, la risposta a questa domanda è molto semplice. La sola condizione è e quello e si suppone di avere osservato sia stato realmente osservato; cioè, e sia un’osservazione e non un’inferenza. Infai in quasi ogni ao delle nostre facoltà di percezione, l’osservazione e l’inferenza sono intimamente mescolate. Di solito quello e si dice di aver osservato è un risultato composito, di cui un decimo può essere osservazione, mentre i nove decimi rimanenti sono inferenza. Per esempio, affermo di udire la voce di un uomo. Secondo il modo d’esprimersi comune questa passerebbe per una percezione direa. Invece, l’unica cosa e sia davvero una percezione è il fao e io odo un suono. Che il suono sia una voce, e e quella voce sia la voce di un uomo, non sono percezioni, ma inferenze. Ancora: affermo di aver visto mio fratello a una certa ora di questa maina. Se mai c’è una proposizione di fao, di cui si dica comunemente e è conosciuta per la direa testimonianza dei sensi, questa è sicuramente tale. Ma la verità è ben diversa. Io non ho visto altro e una certa superficie colorata; o, piuosto, ho avuto quella specie di sensazioni visive e di solito sono prodoe da una superficie colorata; e da queste sensazioni, in quanto segni e, per l’esperienza precedente, so essere tali, ho concluso di aver visto mio fratello. Avrei potuto avere sensazioni esaamente simili ane se mio fratello non fosse stato in quel posto. Potrei aver visto quale altra persona e somigliasse esteriormente a mio fratello al punto e, a quella distanza e con il grado di aenzione e gli ho prestato, potesse essere scambiata per lui. Potrei essere stato addormentato e aver sognato di vederlo, oppure potrei essermi trovato in uno stato di disordine nervoso e avesse portato la sua immagine davanti ai miei oci, in uno stato di allucinazione da sveglio. In tui questi modi, molti sono stati indoi a credere di aver visto persone a loro ben note, e invece erano morte o si trovavano a grande distanza. Se una qualsiasi di queste ipotesi fosse stata vera, l’affermazione e ho visto mio fratello sarebbe stata erronea; ma quale e fosse l’oggeo della percezione direa, cioè, della sensazione visiva, questo sarebbe stato reale. Soltanto l’inferenza sarebbe stata malamente fondata: io avrei fao risalire queste sensazioni alla causa sbagliata. Si possono dare, e analizzare nello stesso modo, innumerevoli esempi di quelli e volgarmente si iamano errori di senso. Per parlar propriamente, nessuno di essi è un errore del senso: sono inferenze erronee trae dal senso. ando guardo una candela araverso un prisma, invece di una sola

candela vedo quella e mi sembra una dozzina di candele, e se le reali circostanze del caso fossero abilmente maserate, potrei credere e ci sono effeivamente dodici candele: sarei cioè di fronte a quella e si iama un’illusione oica. Nel caleidoscopio ci troviamo davvero di fronte a quest’illusione: quando guardo araverso questo strumento, invece di vedere quello e c’è effeivamente, cioè una disposizione casuale di frammenti colorati, mi si presenta l’apparenza della stessa combinazione ripetuta parecie volte, in disposizione simmetrica, intorno a un punto. Naturalmente, l’illusione si oiene dandomi le medesime sensazioni e avrei provato se mi fosse stata davvero presentata una tale combinazione simmetrica. Se incrocio due delle mie dita e porto un piccolo oggeo, ad esempio una pallina, a contao con entrambe in due punti e di solito non vengono toccati simultaneamente da un solo oggeo, ben difficilmente, a oci iusi, potrò esimermi dal credere e le palline non sono due, invece di una. Ma in questo caso non è il mio tao a essere ingannato, così come nell’altro caso a essersi ingannata non è la vista: l’inganno, durevole o soltanto momentaneo e sia, risiede nel mio giudizio. Dai sensi ho soltanto le sensazioni, e queste sono genuine. Essendo abituato a provare queste o simili sensazioni quando, e solo quando, è presente ai miei organi una certa disposizione di oggei esterni, ho acquisito l’abitudine, quando provo le sensazioni, di inferire istantaneamente l’esistenza di quello stato di cose esterno. est’abitudine è diventata così potente e l’inferenza, eseguita con la rapidità e la certezza di un istinto, si confonde con le percezioni intuitive. ando è correa, non mi accorgo neppure e abbia bisogno di prove, e ane quando so e è scorrea non posso astenermi dal trarla senza fare uno sforzo considerevole. Per accorgermi e non viene traa per istinto, ma per un’abitudine acquisita, sono costreo a rifleere sul lento processo per mezzo del quale ho imparato a giudicare coll’ocio molte cose e adesso mi sembra di percepire direamente con la vista e sull’operazione inversa, e compiono le persone e imparano a disegnare, e con difficoltà e pena si liberano delle percezioni acquisite e imparano di nuovo a vedere le cose come appaiono all’ocio. Sarebbe facile proseguire in queste illustrazioni, se pure ci fosse bisogno di spaziare su un argomento così copiosamente esemplificato in varie opere popolari. Dagli esempi già dati si vede a sufficienza e i fai individuali dai quali raccogliamo le nostre generalizzazioni induive non si oengono praticamente mai in base alla sola osservazione. L’osservazione si estende

soltanto alle sensazioni con le quali riconosciamo gli oggei; ma le proposizioni di cui facciamo uso sia nella scienza sia nella vita comune si riferiscono quasi sempre agli oggei stessi. In ogni ao di quella e iamiamo osservazione c’è almeno un’inferenza — dalle sensazioni alla presenza dell’oggeo: dai segni o sintomi all’intiero fenomeno. E di qui, tra le altre conseguenze, segue l’apparente paradosso e una proposizione generale costruita a partire da particolari è spesso più sicuramente vera di una qualsiasi delle proposizioni particolari da cui è stata inferita mediante un ao di induzione. Infai, ciascuna di queste proposizioni particolari (o, piuosto, singolari) implica un’inferenza dall’impressione sensibile al fao e ha causato quell’impressione, e ane se può darsi e quest’inferenza sia stata erronea in uno qualsiasi dei suoi casi particolari, non è possibile e sia stata erronea in tui, sempre e il numero dei casi sia stato sufficiente ad escludere l’accidentalità. La conclusione è pertanto e la proposizione generale può meritare un credito più completo di quello e sarebbe prudente riporre in una qualsiasi delle premesse induive. Dunque, la logica dell’osservazione consiste soltanto in una discriminazione correa tra quello e è stato realmente percepito nel risultato di un’osservazione e quello e invece è un’inferenza dalla percezione. ale e essa sia, la parte e spea all’inferenza può essere ricondoa alle regole dell’induzione di cui abbiamo già traato, e non c’è bisogno, qui, e ce ne occupiamo ancora; in questo luogo, la questione e ci dobbiamo porre è e cosa rimanga quando si sia tolto tuo ciò e è inferenza. Rimangono, in primo luogo, i sentimenti o stati di coscienza propri della mente, cioè, i suoi sentimenti e le sue sensazioni esterne e i suoi sentimenti interni — pensieri, emozioni e volizioni. Se resti quale altra cosa, o se tuo sia inferenza da questi; se la mente non sia in grado di apprendere nulla ecceuati gli stati della sua propria coscienza, è un problema di metafisica e non può essere discusso in questo luogo. Ma dopo aver escluso tue le questioni su cui i metafisici differiscono, rimane vero e per la maggior parte degli scopi la discriminazione, e siamo iamati ad esercitare nella pratica, è quella tra sensazioni o altri sentimenti, nostri o di altre persone, e inferenze trae da essi. E questo è tuo ciò e sembra necessario dire, per gli scopi di questo lavoro, sulla teoria dell’osservazione.

3. Se una gran parte delle osservazioni più semplici, o di ciò e passa per tale, non è osservazione ma è qualcos’altro, allora nella più semplice descrizione di un’osservazione si asserisce sempre, e non si può non asserir sempre, molto di più di quanto non sia contenuto nella percezione medesima. Non possiamo descrivere un fao senza implicare di più del fao. La percezione è soltanto di una cosa individuale; ma descrivere la cosa significa affermare una connessione tra la cosa e ogni altra cosa e è denotata o connotata da ciascuno dei termini usati. Tanto per cominciare con l’esempio più elementare e si possa concepire: ho una sensazione visiva e mi sforzo di descriverla dicendo e vedo qualcosa di bianco. Dicendo questo non mi limito semplicemente ad affermare la mia sensazione, la classifico ane. Asserisco una somiglianza tra la cosa e vedo e tue le cose e io e gli altri siamo abituati a iamare biane. Asserisco e somiglia a queste cose relativamente alla circostanza per la quale tue queste cose si somigliano tra loro: relativamente a quella circostanza, cioè, e è la ragione per cui quelle cose vengono iamate con questo nome. esto non è soltanto uno dei tanti modi per descrivere un’osservazione: è il solo modo possibile. Se dovessi registrare la mia osservazione per il mio personale uso futuro, o renderla nota a beneficio degli altri, dovrei asserire una somiglianza tra il fao e ho osservato e qualcos’altro. È parte inseparabile d’una descrizione l’essere l’affermazione di una somiglianza, o di più somiglianze. Vediamo dunque e è impossibile esprimere in parole un qualsiasi risultato di osservazione senza compiere un ao e possiede quella e il door Whewell ritiene sia la caraeristica dell’induzione. Si introduce sempre qualcosa e non era incluso nell’osservazione in se stessa: quale concezione e il fenomeno ha in comune con gli altri fenomeni coi quali viene confrontato. Nel linguaggio non si può per nulla parlare di un’osservazione senza diiarare qualcosa di più e non quella sola osservazione: senza assimilarla ad altri fenomeni già osservati e classificati. Ma quest’identificazione di un oggeo — questo riconoscimento e un certo oggeo possiede certe caraeristie note — non è mai stata confusa con l’induzione. È un’operazione e precede ogni induzione, e fornisce all’induzione i propri materiali. È una percezione di somiglianze oenute mediante un confronto. este somiglianze non sono sempre apprese direamente, limitandosi a confrontare l’oggeo osservato con quale altro oggeo presente, o con il

nostro ricordo di un oggeo e è assente. Spesso vengono accertate facendo ricorso a segni intermedi, cioè deduivamente. Supponiamo e nel descrivere quale nuova specie animale, io dica e dalla sommità del cranio all’estremità della coda l’animale misura dieci piedi di lunghezza. esto non l’ho accertato a ocio nudo. Avevo un regolo lungo due piedi, e ho applicato all’oggeo e così (come si dice comun mente) l’ho misurato; quest’operazione non è un’operazione interamente manuale, ma un’operazione parzialmente matematica, e implica due proposizioni: «Cinque per due dieci» e «Cose e sono eguali alla medesima cosa sono eguali tra loro». indi, il fao e l’animale sia lungo dieci piedi non è una percezione immediata, ma la conclusione di un ragionamento, di cui solo la premessa minore è fornita dall’osservazione dell’oggeo. Nondimeno, questa si iama un’osservazione o una descrizione dell’animale, e non un’induzione su di esso. Per passare immediatamente da un esempio molto semplice a un esempio molto complesso: affermo e la Terra è un globo. L’asserzione non è basata sulla percezione direa, peré non possiamo percepire direamente la figura della Terra, ane se l’asserzione non sarebbe vera se non si potessero supporre circostanze in cui la sua verità possa essere percepita in questo modo. Che la Terra abbia la forma di un globo, si inferisce da certi contrassegni, quali, per esempio, questo: e l’ombra e proiea sulla Luna è circolare; o quest’altro: e sul mare, o su ogni pianura un po’ estesa, il nostro orizzonte è sempre un circolo; ciascuno di questi segni è incompatibile con qualsiasi altra forma e non sia quella globulare. Inoltre asserisco e la Terra è quella particolare specie di globo e si iama «sferoide siacciato», peré da misurazioni compiute in direzione del meridiano si è trovato e, sulla superficie della Terra, la lunghezza dell’arco di geodetica e soende un dato angolo al centro diminuisce man mano e ci allontaniamo dall’equatore e ci avviciniamo ai poli. Ma ciascuna di queste proposizioni: e la Terra è un globo, e è uno sferoide siacciato ai poli, asserisce un fao individuale e per sua natura può essere percepito dai sensi quando si supponga di possedere gli organi necessari e di trovarsi nella posizione opportuna, e e non può essere percepito di fao peré non abbiamo quegli organi e non ci troviamo in quella posizione. est’identificazione della Terra, prima con un globo e poi con uno sferoide siacciato ai poli, identificazione e, se il fao si fosse potuto vedere, sarebbe stata iamata una descrizione della figura della Terra, può essere

iamata così senza alcuna improprietà quando, invece di essere stato visto, il fao è stato inferito. Ma non potremmo iamare una di queste induzioni «induzione dai fai e riguardano la Terra» senza commeere un’improprietà. Non si traa di proposizioni generali costruite raccogliendo fai particolari, ma di fai particolari dedoi da proposizioni generali. Sono conclusioni oenute deduivamente da premesse e avevano la loro origine nell’induzione, ma di queste premesse alcune non erano state oenute dall’osservazione della Terra, né vi si riferivano in modo particolare. Dunque, se la verità sulla conformazione della Terra non è un’induzione, peré dovrebbe esserlo la verità e riguarda la conformazione dell’orbita della Terra? I due casi differiscono soltanto in questo; e, a differenza di quanto accade per la forma della Terra, la forma dell’orbita non fu ricavata con una deduzione da fai e erano segno di elliicità, ma fu oenuta in base a un ardito tentativo d’indovinare, e e solo in séguito, esaminandola, si trovò e le osservazioni erano in armonia con l’ipotesi. Secondo il door Whewell, tuavia, questo processo consistente nel tentar d’indovinare e nel verificare i nostri tentativi non soltanto è induzione, ma l’induzione tua quanta; nessun’altra esposizione si può dare di quest’operazione logica. Spero e il Libro precedente, nella sua interezza, abbia provato a sufficienza e, quando fa quest’ultima asserzione, il door Whewell ha torto; e e il processo in base al quale si è accertata l’elliicità delle orbite dei pianeti non sia affao induzione, ho tentato di mostrarlo nel secondo capitolo del medesimo Libroa. In ogni caso, adesso siamo pronti ad addentrarci nel cuore della materia più profondamente di quanto non fossimo pronti a penetrarvi in una fase precedente di questa nostra ricerca; e siamo pronti a mostrare, non soltanto e cosa l’operazione in questione non è, ma e cos’è. 4. Nel secondo capitolo abbiamo osservato e la proposizione «La Terra si muove secondo un’ellisse», in quanto serve soltanto per collegare, o conneere tra loro, osservazioni effeive (cioè, in quanto si limita ad affermare e le posizioni osservate della Terra possono essere correamente rappresentate da altreanti punti sulla circonferenza di un’ellisse immaginaria) non è un’induzione, ma una descrizione: è un’induzione soltanto quando è possibile constatare e le posizioni intermedie, e non sono state osservate direamente, corrispondono ai rimanenti punti della medesima circonferenza elliica. Ora, sebbene quest’induzione vera e

propria sia una cosa, e la descrizione sia un’altra, prima di aver oenuto la descrizione ci troviamo in una condizione molto diversa per compiere l’induzione da quella in cui ci trovavamo dopo aver oenuto la descrizione. Infai, nella misura in cui, come tue le altre descrizioni, contiene l’asserzione e esiste una somiglianza tra il fenomeno descrio e un certo altro fenomeno, nel meere in evidenza e c’è qualcosa cui la serie delle posizioni osservate di un pianeta somiglia, questa descrizione mee altresì in evidenza qualcosa in cui queste medesime posizioni differenti concordano tra loro. Se la serie delle posizioni corrisponde ad altreanti punti di un’ellisse, le posizioni stesse concordano tra loro per il fao di essere situate su quell’ellisse. In virtù del medesimo processo e ci ha fornito la descrizione, abbiamo perciò oenuto i dati necessari per compiere un’induzione con il metodo della concordanza. Le successive posizioni osservate della Terra essendo considerate come effei, e il suo moto essendo considerato come la causa e le produce, troviamo e quegli effei, cioè quelle posizioni, concordano per la circostanza di essere situate su un’ellisse. Concludiamo e gli effei rimanenti — le posizioni e non abbiamo osservato — concordano per la medesima circostanza, e e la legge del moto della Terra è il moto elliico. Pertanto, il collegamento di fai per mezzo d’ipotesi, o, come preferisce dire il door Whewell, per mezzo di concei, lungi dall’essere l’induzione stessa (come crede lui) trova il proprio posto tra le operazioni sussidiarie dell’induzione. Ogni induzione suppone e abbiamo prima confrontato il numero indispensabile di casi individuali e abbiamo accertato in quali circostanze concordano. Il collegamento dei fai non è altro e quest’operazione preliminare. ando Keplero, dopo aver tentato vanamente di conneere le posizioni osservate di un pianeta per mezzo delle varie ipotesi del moto circolare, tentò infine l’ipotesi dell’ellisse e trovò e corrispondeva ai fenomeni, quello e realmente tentò — prima senza successo, e alla fine con successo — fu di scoprire la circostanza nella quale concordavano tue le posizioni osservate del pianeta. E quando, in maniera analoga, mise in connessione tra loro un altro insieme di fai osservati — i tempi periodici dei differenti pianeti — mediante la proposizione e i quadrati dei tempi sono proporzionali ai cubi delle distanze, non fece altro e accertare la proprietà in cui concordavano i periodi dei differenti pianeti. Pertanto, dal momento e tuo questo è vero e e per gli scopi della dorina dei concei del door Whewell non potrebbe essere espresso in

modo completo con il termine più familiare di «ipotesi», e poié il suo «collegamento dei fai per mezzo di concezioni appropriate» non è altro e il processo ordinario consistente nel trovare, meendo a confronto i fenomeni, in e cosa consista la loro concordanza o somiglianza, io, per parte mia, mi sarei limitato ben volentieri a usare quell’espressione, meglio compresa, e avrei continuato ad astenermi dalle discussioni ideologie (come ho fao fino ad oggi) ritenendo e il meccanismo dei nostri pensieri sia un argomento distinto da, e di nessuna importanza per, i princìpi e le regole in base ai quali si deve valutare l’affidabilità dei risultati del pensiero. Ma siccome un’opera di così alte pretese e, diciamolo pure, di tanto merito effeivo, ha fondato l’intiera teoria dell’induzione su tali considerazioni di natura ideologica, sembra necessario e gli altri e seguono pretendano per se stessi e per le loro dorine la posizione e gli spea per le medesime ragioni metafisie, quale e essa sia. E questo sarà l’oggeo del capitolo successivo. a.

Cfr. sopra, Libro III, cap. II, par. 3, 4, 5.

CAPITOLO II. L’ASTRAZIONE, O FORMAZIONE DEI CONCETTI 1. L’indagine metafisica sulla natura e la composizione di quelle e sono state iamate idee astrae o, in altre parole, l’indagine sulle nozioni e corrispondono nella mente alle classi e ai nomi generali, non appartiene alla logica, ma a una scienza diversa, e per lo scopo e ci proponiamo non è necessario e ce ne occupiamo in questa sede. L’unica cosa e ci interessa è il fao universalmente riconosciuto e tali nozioni, o concei, esistono davvero. La mente può concepire una moltitudine di individui come una sola raccolta o classe, e i nomi generali ci suggeriscono realmente certe idee o rappresentazioni mentali, altrimenti non potremmo usare i nomi ed essere consapevoli e hanno un significato. Loe, Brown e i conceualisti sostengono e l’idea riiamata da un nome generale è composta dalle varie circostanze in cui concordano tui gli individui denotati dal nome, e da nessun’altra. Berkeley, il signor Baileya e i nominalisti moderni, ritengono e sia l’idea di qualcuno di quegli individui, rivestita delle peculiarità e l’individuano ma accompagnata dalla conoscenza e quelle peculiarità non sono proprietà della classe. Il signor James Mill, invece, sostiene e l’idea di classe è l’idea di una raccolta e di una mescolanza di individui e appartengono alla classe. Ora, qualunque di queste cose sia, secondo le circostanze accidentali del caso, è certo e tue le volte e udiamo o impieghiamo un nome generale avendo consapevolezza del suo significato, il nome in questione ci suggerisce una qualche idea o concezione mentale. E quello e il nome ci suggerisce — e e se ci piace possiamo iamare idea generale — rappresenta nella nostra mente l’intiera classe di cose a cui si applica il nome. Ogni qual volta pensiamo alla classe, o ragioniamo su di essa, pensiamo o ragioniamo per mezzo di quest’idea. E il potere e la mente ha di concentrarsi a volontà su una parte di quello e le è presente in un certo momento trascurandone un’altra parte, ci mee in grado di mantenere i nostri ragionamenti e le nostre conclusioni riguardanti la classe immuni da tuo ciò e, nell’idea o immagine mentale, non è effeivamente comune all’intiera classe — o almeno da tuo ciò e non crediamo effeivamente e lo siab.

Ci sono dunque cose come concei generali, ossia concei per mezzo dei quali possiamo pensare in termini generali; e quando trasformiamo un insieme di fenomeni in una classe — cioè, quando confrontiamo i fenomeni tra loro allo scopo di accertare in e cosa concordino — in quest’operazione mentale è implicato quale conceo generale. E nella misura in cui un tale confronto è un preliminare necessario dell’induzione, è perfeamente vero e, se mancassero le concezioni generali, l’induzione non potrebbe andare avanti. 2. Ma da tuo questo non segue e queste concezioni generali debbano essere esistite nella mente prima del confronto. Non è una legge del nostro intelleo e, quando confrontiamo le cose tra loro e prendiamo nota della loro concordanza, non facciamo altro e renderci conto dell’esistenza, nel mondo esterno, di qualcosa e avevamo già nella nostra mente. Originariamente, la concezione ha trovato la strada per entrare in noi in quanto risultato di un tale confronto. È stata oenuta (per usare termini metafisici) per astrazione dalle cose individuali. este cose possono essere cose e abbiamo percepito o pensato in quale occasione precedente, ma possono ane essere cose e stiamo percependo o pensando proprio in quell’occasione. ando Keplero confrontò le posizioni osservate del pianeta Marte, e trovò e concordavano per il fao di essere punti di una circonferenza elliica, applicò una concezione generale e era già nella sua mente peré era stata derivata dalla sua esperienza precedente. Ma non è affao deo e questo accada sempre e dovunque. ando confrontiamo pareci oggei e troviamo e concordano per il fao di essere biani, o quando confrontiamo le varie specie di animali ruminanti e troviamo e concordano per il fao di avere lo zoccolo fesso, abbiamo in mente una concezione generale, proprio come ce l’aveva Keplero; abbiamo la concezione di una «cosa bianca» o la concezione di un «animale fessipede». Ma nessuno suppone e portiamo necessariamente queste concezioni con noi e le superinduciamo ai fai (per adoare l’espressione del door Whewell); infai, da questi semplici casi tui possono vedere e lo stesso ao di confronto e culmina nella connessione, da parte nostra, dei fai per mezzo della concezione, può essere la fonte da cui deriviamo la concezione stessa. Se non avessimo mai visto oggei biani, o non avessimo mai visto un animale con lo zoccolo fesso, acquisiremmo l’idea nello stesso istante e con lo stesso ao mentale con cui l’impieghiamo per collegare i fenomeni

osservati. Al contrario, Keplero dovee realmente portare l’idea con sé e superindurla ai fai; non poteva trarla dai fai: se non avesse già avuto l’idea, non sarebbe stato in grado di acquisirla confrontando le posizioni dei pianeti. Ma quest’incapacità era puramente accidentale: se non si fosse dato il caso e le traieorie dei pianeti sono invisibili, l’idea di un’ellisse si sarebbe potuta acquisire dalle traieorie dei pianeti tanto efficacemente quanto da qualsiasi altra cosa. Se il pianeta avesse lasciato dietro di sé una scia visibile, e noi fossimo stati disposti in modo da poterla vedere soo l’angolazione giusta, avremmo potuto astrarre la nostra idea originaria dell’ellisse dall’orbita planetaria. In realtà, ogni concezione e possa essere trasformata in uno strumento per conneere un insieme di fai, potrebbe essere stata ricavata originariamente da questi stessi fai. La concezione è una concezione di qualcosa, e la cosa di cui essa è una concezione è realmente nei fai; e potrebbe essere stata colta nei fai in certe circostanze e possiamo immaginare o grazie a una quale estensione pensabile delle facoltà effeivamente in nostro possesso. E questo non soltanto è sempre possibile di per sé, ma accade effeivamente in quasi tui i casi in cui il conseguimento della concezione giusta presenti quale difficoltà degna di nota. Infai, se non fosse riiesta nessuna nuova concezione, se servisse allo scopo una delle concezioni già familiari agli uomini, a ciascuno di noi potrebbe accidentalmente accadere (almeno nel caso in cui l’intiero mondo della scienza sia impegnato a tentar di conneere un certo insieme di fenomeni) di essere il primo a cui viene in mente la concezione giusta. Nel caso di Keplero, a lui spea l’onore di aver fao calcoli accurati, pazienti e complessi per confrontare, con le osservazioni di Tyo Brahe1, i risultati e seguivano dalle sue differenti ipotesi; ma il merito di aver azzeccato l’ipotesi dell’ellisse è molto piccolo: l’unica cosa di cui ci si deve meravigliare è e gli uomini non l’abbiano indovinato prima: e se non fosse esistito un ostinato pregiudizio aprioristico secondo cui, se non proprio in circolo, i corpi celesti si muovono secondo una certa combinazione di circoli, non avrebbero potuto fare a meno di indovinarlo. I casi veramente difficili sono quelli in cui la concezione destinata a creare luce e ordine nell’oscurità e nella confusione si deve andar a cercare tra gli stessi fenomeni e poi servirà ad ordinare. Peré, secondo lo stesso door Whewell, gli antii non riuscirono a scoprire le leggi della meccanica, cioè le leggi dell’equilibrio e quelle della comunicazione del moto? Peré non avevano, o almeno non avevano iaramente, le idee o concezioni di

pressione e resistenza, di impulso e di forza uniforme e di accelerazione. E da dove avrebbero potuto ricavare queste idee, se non dagli stessi fai dell’equilibrio e del moto? Il ritardo nello sviluppo di parecie scienze fisie — per esempio dell’oica, dell’elericità, del magnetismo e delle generalizzazioni superiori della imica — viene aribuito dal door Whewell al fao e gli uomini non erano ancora entrati in possesso dell’idea di polarità, cioè dell’idea di proprietà opposte in direzioni opposte. Ma nulla avrebbe mai potuto suggerire tale idea, fin quando, in séguito a un esame separato di parecie di queste brane differenti della conoscenza, non si fosse mostrato e almeno in alcuni casi i fai di ciascuna di esse presentano il curioso fenomeno di avere proprietà opposte in direzioni opposte. La cosa era superficialmente manifesta soltanto in due casi: il caso del magnete e il caso dei corpi elerificati; e qui la concezione trovava un ostacolo nella circostanza dei poli materiali, ossia di punti fissi nel corpo medesimo, a cui sembrava e quest’opposizione di proprietà appartenesse intrinsecamente. Il primo confronto e la prima astrazione avevano portato soltanto a questa concezione dei poli: e se nei fenomeni della imica o dell’oica fosse esistito qualcosa e corrispondesse a questa concezione, la difficoltà, ora giustamente considerata così grande, sarebbe stata estremamente piccola. L’oscurità sorgeva dal fao e le polarità in imica e in oica erano di specie distinte dalle polarità in elericità e in magnetismo pur appartenendo al medesimo genere, e e per rendere i fenomeni simili l’uno all’altro era necessario confrontare una polarità senza poli — quale, per esempio, è esemplificata nella polarizzazione della luce — con la polarità fornita di poli (apparenti) e vediamo nel magnete, e riconoscere e queste polarità, pur essendo differenti soo molti altri aspei, concordano in quel solo caraere e è espresso dalla frase «proprietà opposte in direzioni opposte». Proprio in base al risultato di tale confronto le menti degli uomini di scienza formarono questa nuova concezione generale: e tra essa, e la prima confusa sensazione dell’esistenza di una quale analogia tra i fenomeni della luce e quelli dell’elericità e del magnetismo, c’è un lungo intervallo, riempito dai travagli e dai suggerimenti più o meno sagaci di molti intellei superiori. Dunque, le concezioni e impieghiamo per collegare e ordinare metodicamente i fai non si sviluppano dall’interno, ma vengono impresse sulla mente dall’esterno: non vengono mai oenute altrimenti e per mezzo di confronto e di astrazione, e, nei casi più importanti e più numerosi,

vengono ricavate per astrazione da quegli stessi fenomeni e è loro compito collegare. Sono comunque ben lontano dal voler suggerire implicitamente e il compiere bene questo processo di astrazione non sia spesso una cosa molto difficile, o e in molti casi il successo non dipenda principalmente dall’abilità con la quale lo compiamo. Bacone aveva perfeamente ragione quando individuava nelle concezioni generali formate erroneamente — notiones temere a rebus abstractae — uno degli ostacoli principali e si oppongono a una buona induzione. A questo il door Whewell aggiunge, e non solo la caiva astrazione fa la caiva induzione, ma e, per compiere bene un’induzione, dobbiamo aver astrao bene: le nostre concezioni generali devono essere «iare» e «appropriate» all’oggeo e abbiamo per le mani. 3. Nel tentar di mostrare quale sia realmente la difficoltà in questa materia, e come la si debba superare, devo pregare una volta per tue il leore di meersi bene in testa questo: e bené nel discutere le opinioni di una scuola filosofica differente io sia perfeamente disposto ad adoare il suo linguaggio e a parlare, perciò, di conneere i fai mediante lo strumento di una concezione, questa fraseologia tecnica non significa, né più né meno, e quello e viene comunemente iamato confronto dei fai tra loro e determinazione di quello in cui concordano. E l’espressione tecnica non ha neppure il vantaggio di essere correa dal punto di vista della metafisica. I fai non sono connessi, tranne e in un’accezione puramente metaforica del termine. Possono venire connesse le idee dei fai (cioè, possiamo essere indoi a pensarle insieme), ma questa loro connessione non è nulla più di quello e potrebbe essere prodoo da una qualsiasi associazione casuale. Secondo me, quello e qui accade realmente si può esprimere, con la parola comune «confronto», in maniera filosoficamente più correa, e non con le frasi «conneere» o «superindurre». Infai, poié la concezione generale si oiene, di per se stessa, confrontando fenomeni particolari, così, quando tale concezione è stata oenuta, il modo in cui l’appliiamo ad altri fenomeni è ancora quello del confronto. Per oenere la concezione confrontiamo tra loro i fenomeni e poi confrontiamo questi e altri fenomeni con la concezione. Ad esempio, oeniamo la concezione di un animale confrontando animali differenti, e quando in séguito vediamo una creatura e somiglia a un animale, la confrontiamo con la nostra concezione generale di animale; e se

concorda con quella concezione la facciamo rientrare nella classe. La concezione diventa il tipo del confronto. E ci basta considerare e cosa sia il confronto, per vedere e dove gli oggei sono più di due, e, ancor di più quando sono in numero indefinito, una condizione indispensabile del confronto è l’esistenza di questo o di quel tipo. ando dobbiamo disporre e classificare un gran numero di oggei secondo le loro concordanze e le loro differenze, non facciamo un tentativo confuso di confrontare tuo con tuo. Sappiamo e il massimo su cui la mente possa concentrarsi facilmente sono due cose per volta, e perciò ci fissiamo su un oggeo (a caso o peré presenta quale caraeristica importante in maniera particolarmente vistosa) e, prendendo quest’oggeo come unità di misura, paragoniamo con esso gli oggei l’uno dopo l’altro. Se troviamo un secondo oggeo e presenta una notevole concordanza con il primo così da indurci a classificarli insieme, sorge immediatamente la questione in quale circostanza particolare i due oggei concordino, e il prender nota di queste circostanze è già un primo stadio di astrazione, e dà origine a una concezione generale. Arrivati fino a questo punto, quando prendiamo in mano un terzo oggeo ci poniamo naturalmente la domanda, non soltanto se questo terzo oggeo concordi col primo, ma se concordi col primo nelle medesime circostanze in cui concordava il secondo. In altre parole, ci iediamo se concordi con la concezione generale e è stata oenuta per astrazione dal primo e dal secondo oggeo. Vediamo così e, non appena formate, le concezioni generali tendono a sostituirsi, come tipi, a qualsiasi oggeo individuale e prima rispondesse, nei nostri paragoni, a quello scopo. Può darsi, forse, e troviamo e nessun numero apprezzabile di altri oggei concorda con la prima concezione generale: allora dobbiamo lasciar cadere la concezione, e cominciare di nuovo con un caso individuale diverso e procedere, con nuovi confronti, a una concezione generale differente. ale volta, ancora, troviamo e può servire la medesima concezione generale puré si lascino fuori di essa alcune circostanze; e con questo sforzo maggiore di astrazione oeniamo una concezione ancor più generale, come è accaduto nel caso al quale abbiamo fao riferimento qui sopra, in cui il mondo degli scienziati si è elevato dalla concezione dei poli alla concezione generale di proprietà opposte in direzioni opposte; o come è accaduto a quegli abitanti delle isole dei mari del Sud, la cui concezione di quadrupede era stata oenuta per astrazione dai porci (cioè dai soli animali di quel genere e avessero mai visto): quando in séguito confrontarono

quella concezione con altri quadrupedi lasciarono cadere alcune circostanze e arrivarono alla concezione più generale, e gli Europei associano con il termine «quadrupede». Secondo me queste brevi osservazioni contengono tuo quello e c’è di ben fondato nella dorina secondo cui la concezione mediante la quale la mente ordina e dà unità ai fenomeni dev’essere fornita dalla mente medesima, e secondo cui troviamo la concezione giusta procedendo per tentativi, provando prima l’una e poi l’altra concezione, fin quando non colpiamo nel segno. Fin quando non sia stata fornita alla mente, la concezione non viene fornita dalla mente; e quale volta i fai e fornisce sono fai estranei, ma, più spesso, sono i medesimi fai e tentiamo di ordinare per suo mezzo. È però verissimo e, quale e sia il punto da cui cominciamo, quando ci sforziamo di ordinare i fai non procediamo mai di tre passi senza formarci una concezione generale, più o meno distinta e precisa; e e questa concezione generale diventa il filo e tentiamo immediatamente di rintracciare araverso il resto dei fai, o, piuosto, diventa l’unità di misura con cui, da allora in poi, li confrontiamo. Se non siamo soddisfai delle concordanze e scopriamo tra i fenomeni quando li confrontiamo con questo tipo o con quale concezione ancor più generale e possiamo formare a partire da quel tipo, passando a un livello di astrazione ulteriore, cambiamo strada e andiamo a cercare altre concordanze: ricominciamo il confronto partendo da un punto diverso e così generiamo un insieme differente di concezioni generali. esto è il procedimento per tentativi di cui parla il door Whewell, e e ha suggerito, in modo non del tuo innaturale, la teoria secondo cui la concezione è fornita dalla stessa mente, dal momento e quest’ultima possiede già dalla sua esperienza precedente, o peré le sono state fornite nel primo stadio del corrispondente ao di confronto, le differenti concezioni e mee alla prova l’una dopo l’altra; di conseguenza, nella parte successiva del processo la concezione si manifesta come qualcosa e viene confrontato con i fenomeni, non come qualcosa e è stato trao da essi. 4. Se questo è un resoconto correo del modo in cui le concezioni generali fungono da strumenti nel confronto e necessariamente precede l’induzione, siamo ora in grado di tradurre nel nostro linguaggio quello e il door Whewell intende quando dice e per poter servire all’induzione le concezioni devono essere «iare» e «appropriate».

Se la concezione corrisponde a una concordanza reale tra i fenomeni; se il confronto e abbiamo fao tra un insieme di oggei ci ha condoi a classificarli secondo le loro somiglianze reali e le loro reali differenze, la concezione, e confronta e classifica, non può non essere appropriata per uno scopo o per l’altro. La questione della sua proprietà è relativa allo scopo particolare e ci proponiamo. Non appena, grazie al nostro confronto, abbiamo accertato quale concordanza, qualcosa e può essere predicato in comune di un certo numero di oggei, abbiamo oenuto una base su cui è possibile fondare un processo induivo. Ma le concordanze, o le conseguenze ulteriori, a cui conducono queste concordanze, possono avere gradi d’importanza molto differenti. Se, per esempio, ci limitiamo a paragonare gli animali secondo i colori, e meiamo nella medesima classe quelli e hanno colori eguali, formiamo le concezioni generali di un animale bianco, nero, ecc., e sono concezioni formate legiimamente; e se si dovesse tentare un’induzione sulle cause dei colori degli animali, questo confronto sarebbe la preparazione appropriata e necessaria a tale induzione, ma non ci aiuterebbe a raggiungere la conoscenza delle leggi di qualsiasi altra proprietà degli animali. Ma se, con Cuvier, confrontiamo e classifiiamo gli animali secondo la struura dello seletro, o, con Blainville2, secondo la natura dei loro tegumenti esterni, non solo le concordanze e le differenze e possiamo osservare da questi punti di vista avranno un’importanza molto maggiore di per se stesse, ma saranno i segni di concordanze e differenze in molti altri particolari importanti della struura e del modo di vita degli animali. Se perciò nostro oggeo fosse lo studio della struura e delle abitudini degli animali, le concezioni generate da questi ultimi confronti sarebbero di gran lunga più «appropriate» di quelle generate dai primi. Con «proprietà di una concezione» non si può intendere nient’altro e questo. ando il door Whewell dice e gli antii o gli Scolastici, o qualsiasi ricercatore moderno, non sono riusciti a scoprire la vera legge di un fenomeno, peré invece di applicarla a una concezione appropriata l’hanno applicata a una concezione impropria, non può voler dire altro se non e nel confrontare i vari casi particolari del fenomeno per accertare in e cosa concordassero questi casi particolari, si sono lasciati sfuggire i punti di concordanza importanti e si sono tenuti strei a punti e o erano immaginari (e quindi non erano concordanze affao) o e, se erano

concordanze vere e proprie, erano relativamente inessenziali e non avevano alcuna connessione con il fenomeno di cui si cercava la legge. Filosofando sul moto, Aristotele osservò e certi moti sono apparentemente spontanei — i corpi cadono al suolo, le fiamme salgono, le bolle d’aria salgono nell’acqua, ecc. — e iamò tui questi moti «moti naturali». Altri moti, invece, non soltanto non hanno mai luogo senza essere eccitati dall’interno, ma ane quando gli si applica tale eccitazione, tendono spontaneamente a cessare. Per distinguerli dai primi, Aristotele li iamò «moti violenti». Ora, nel confrontare tra loro i cosiddei moti naturali, sembrò ad Aristotele e questi moti concordassero in una circostanza: nella circostanza, cioè, e il corpo e si muove (o sembra muoversi) spontaneamente, si muove verso il luogo che gli è proprio, intendendo con quest’espressione il luogo da cui il corpo è venuto originariamente, o il luogo dove si trova raccolta una grande quantità di materia simile a quella di cui il corpo è fao. Al contrario, nell’altra classe di moti, come quando si lancia un corpo per aria, i corpi si muovono dal luogo e gli è proprio. Ora, questa concezione di un corpo e si muove verso il luogo e gli è proprio, può a ragione essere considerata impropria; è bensì vero, infai, e essa esprime una circostanza e si trova realmente in qualcuno degli esempi più familiari di moto apparentemente spontaneo: tuavia, in primo luogo, ci sono molti altri casi di moto apparentemente spontaneo da cui questa circostanza è assente (ad esempio il moto della Terra e dei pianeti), e, in secondo luogo, ane quando questa circostanza è presente, esaminando le cose più da vicino spesso si vede e il moto non è spontaneo, come quando l’aria si alza nell’acqua: si alza non per la sua propria natura, ma peré il maggior peso dell’acqua e preme su di essa le imprime una spinta verso l’alto. Infine ci sono molti casi in cui il moto spontaneo ha luogo nella direzione contraria a quello e la teoria considera il luogo naturale del corpo; per esempio, quando la nebbia si alza da un lago, o quando l’acqua evapora. Pertanto, la concordanza e Aristotele scelse come principio di classificazione non si estendeva fino a coprire tui i casi del fenomeno e voleva studiare, cioè il moto spontaneo, mentre comprendeva casi in cui il fenomeno era assente: casi, cioè, di moto non spontaneo. La concezione era perciò «impropria». Possiamo aggiungere e nel caso in questione nessuna concezione sarebbe appropriata; nessuna concordanza corre araverso tui i casi di moto spontaneo o apparentemente spontaneo, e nessun altro: tali moti non

possono essere raccolti soo un’unica legge: si traa di un caso di pluralità delle causec. 5. Tanto basti per la prima delle condizioni stabilite dal door Whewell: la condizione, cioè, e le concezioni devono essere appropriate. La seconda è e siano «iare». Ceriamo di vedere e cosa implii questa condizione. A meno e non corrisponda a una concordanza effeiva, la concezione può avere un difeo ancor peggiore di quello di non essere iara: quello di non essere per nulla applicabile al caso. Pertanto, dobbiamo supporre e tra i fenomeni e stiamo cercando di conneere per mezzo della concezione ci sia effeivamente una concordanza, e e la concezione sia una concezione di tale concordanza. Dunque, l’unico requisito peré la concezione possa essere iara, è e noi sappiamo esaamente in e cosa consista la concordanza; cioè, e sia stata osservata accuratamente e accuratamente ricordata. Si dice e non abbiamo una concezione iara della somiglianza tra gli oggei di un certo insieme, quando abbiamo soltanto una sensazione generica e gli oggei si somiglino, senza peraltro avere analizzato la loro somiglianza, o esserci resi conto in quali punti risieda, e senza aver fissato nella nostra memoria un ricordo esao di questi punti. esta mancanza di iarezza, o, come la si potrebbe iamare altrimenti, quest’imprecisione della concezione generale, può essere dovuta o al fao e non abbiamo una conoscenza accurata degli oggei stessi, o, più semplicemente, al fao e non li abbiamo confrontati con la dovuta accuratezza. Così, una persona può non avere nessuna idea iara di una nave, per il fao e non ne ha mai vista una o peré si ricorda bensì di quello e ha visto, ma poco e di quel poco debolmente. Oppure, può avere una conoscenza e un ricordo perfei di molte navi di varie specie, comprese le fregate, e tuavia non avere un’idea iara di una fregata ma averne soltanto una confusa, peré non gli è mai stato deo in quali punti particolari una fregata differisca da quale altra specie di nave e non ha mai confrontato a sufficienza le fregate con altre navi per averlo osservato e per ricordarlo. Comunque, per avere idee iare non è necessario e conosciamo tue le proprietà delle cose e meiamo in una medesima classe. esto vorrebbe dire e il conceo e abbiamo di quella classe sarebbe completo oltre e iaro. È sufficiente e non classifiiamo mai insieme le cose se non sappiamo con esaezza peré lo facciamo — se cioè non abbiamo accertato con esaezza quali concordanze vogliamo includere nella nostra concezione

— e, avendo così fissato la nostra concezione, è sufficiente e non ce ne discostiamo mai, e non includiamo mai nella classe cose e non abbiano queste proprietà comuni, né ne escludiamo cose e ce l’hanno. Una concezione iara significa una concezione ben definita; una concezione e non fluua, e non è una cosa oggi e un’altra cosa domani, ma e rimane fissa e invariabile tranne quando, peré la nostra conoscenza è progredita o peré abbiamo correo quale errore, non vi aggiungiamo consapevolmente qualcosa, o consapevolmente non l’alteriamo. Una persona e ha idee iare è una persona e sa sempre in virtù di quali proprietà siano costituite le sue classi, quali aributi siano connotati dai nomi generali e usa. Pertanto, i requisiti principali delle concezioni iare sono: l’abito di compiere osservazioni aente ed esperienze estese, e una memoria e riceva e ritenga un’immagine esaa di quello e si è osservato. E le concezioni di una persona saranno tanto più iare quanto più possegga l’abito di osservare minutamente e di confrontare accuratamente una classe particolare di fenomeni, e una memoria accurata per i risultati dell’osservazione e dei confronti, puré questa persona abbia l’abito indispensabile (abito e, comunque, risulta naturalmente da queste e altre doti) di non usar mai nomi generali senza una connotazione precisa. Siccome la iarezza delle nostre concezioni dipende principalmente dall’accuratezza e dalla precisione delle nostre facoltà di osservare e di confrontare, così, la loro proprietà, o, piuosto, la probabilità e abbiamo di imbaerci nella concezione appropriata ad ogni caso, dipende principalmente dall’attività di queste stesse facoltà. Chi, per un abito fondato su di una sufficiente aitudine naturale, abbia acquistato una certa prontezza ad osservare accuratamente e ad accuratamente confrontare i fenomeni, percepirà tante più concordanze, e con tanto maggiore rapidità, di quanto non facciano altre persone, e in ogni caso particolare le sue probabilità di percepire la concordanza da cui dipendono le conseguenze importanti saranno molto maggiori di quelle di iunque altro. 6. È così importante comprendere reamente quella parte del processo della ricerca della verità e abbiamo discusso in questo capitolo, e penso sia desiderabile riformulare, usando un modo di esprimersi in quale misura diverso, i risultati ai quali siamo pervenuti.

Non possiamo accertare verità generali, cioè verità e possono essere applicate alle classi, se non abbiamo formato le classi in modo tale e di esse si possano affermare verità generali. Nella formazione di una qualsiasi classe, è sempre coinvolta una concezione di certe circostanze come di quelle e caraerizzano la classe e distinguono da tue le altre cose gli oggei e la compongono. ando sappiamo esaamente quali siano queste circostanze, abbiamo un’idea (o concezione) iara della classe e del significato del nome generale e la designa. La condizione primaria, implicita nel fao e si abbia quest’idea iara, è e la classe sia realmente una classe; e corrisponda a una distinzione reale; e le cose e essa include concordino realmente tra loro in certi particolari e differiscano, in quegli stessi particolari, da tue le altre cose. Una persona senza idee iare è uno e abitualmente classifica insieme, soo i medesimi nomi generali, cose e non hanno proprietà in comune, o hanno proprietà nessuna delle quali è posseduta ane da altre cose; o e, se l’uso delle altre persone gli impedisce di classificare malamente le cose, non è capace di diiarare a se stesso quali siano le proprietà comuni in virtù delle quali classifica correamente quelle cose. Ma e le classi siano classi reali, costruite in base a un processo mentale legiimo, non è l’unico requisito della classificazione. Alcuni modi di classificare le cose hanno più valore degli altri per gli usi e ne fanno gli uomini, sia e si trai di un uso speculativo sia e si trai di un uso pratico; e le nostre classificazioni non saranno ben fae, non soltanto se le cose e meono insieme non concordano l’una con l’altra in qualcosa e le distingua da tue le altre cose, ma se non concordano tra loro e non differiscono da altre cose proprio in quelle circostanze e hanno un’importanza primaria per lo scopo (teoretico o pratico) e ci proponiamo e e costituisce il problema e ci sta dinnanzi. In altre parole, le nostre concezioni possono benissimo essere iare, ma non saranno appropriate per il nostro scopo se le proprietà e comprendiamo in esse non sono quelle proprietà e ci aiutano a capire quello e desideriamo capire — cioè, se non sono o quelle proprietà e penetrano più profondamente di ogni altra nella natura delle cose (se è questa e ci proponiamo di capire), o quelle e sono connesse più streamente con quella particolare proprietà e ci stiamo sforzando d’indagare. Non possiamo pertanto costruire anticipatamente buone concezioni generali. Che la concezione e abbiamo oenuto sia proprio quella e

volevamo, possiamo saperlo soltanto dopo aver compiuto il lavoro per cui ne avevamo bisogno; dopo aver compreso completamente il caraere generale dei fenomeni, o le condizioni della proprietà particolare alla quale siamo interessati. Le concezioni generali formate senza questa conoscenza completa sono le notiones temere a rebus abstractae di cui parlava Bacone. Tuavia man mano e procediamo verso qualcosa di meglio, siamo costrei a formarci continuamente concezioni premature. Solo quando ci adagiamo permanentemente in esse queste concezioni costituiscono un ostacolo al progresso della conoscenza. ando sia diventata abitudine il raggruppare le cose nelle classi sbagliate — in gruppi e in realtà non sono classi, peré non hanno punti distintivi di concordanza (assenza di idee chiare), o non sono classi di cui possa essere predicato qualcosa di importante per il nostro scopo (assenza di idee appropriate) — e quando, credendo e queste classi costruite malamente siano quelle sancite dalla natura, ci rifiutiamo di cambiarle con altre e non possiamo o non vogliamo costruire le nostre concezioni generali a partire da altri elementi, in questi casi si presentano davvero tui i mali e Bacone aribuisce alle sue notiones temere abstractae. esto fecero gli antii in fisica, e questo il mondo in generale fa in morale e in politica, ane ai giorni nostri. A mio modo di vedere, dunque, il dire e una delle condizioni preliminari della generalizzazione sarebbe il conseguimento di concezioni appropriate è un modo di esprimersi inesao. La mente tenta di costruire una concezione durante tuo il processo del confrontare tra loro i fenomeni per gli scopi della generalizzazione; ma la concezione e tenta di costruire è quella del punto realmente importante in cui i fenomeni concordano. Naturalmente, man mano e oeniamo una conoscenza più estesa dei fenomeni stessi e delle condizioni dalle quali dipendono le loro proprietà importanti, cambiano i nostri punti di vista sull’argomento; e così, col progredire della nostra indagine, passiamo da una concezione generale meno «appropriata» a una concezione generale più appropriata. Nel medesimo tempo non dovremmo però dimenticare e non sempre l’accordo realmente importante può essere scoperto in base a un puro e semplice confronto dei soli fenomeni in questione, senza l’aiuto di una concezione acquisita altrove, come nel caso, a cui abbiamo tanto spesso fao riferimento, delle orbite planetarie. La ricerca della concordanza di un insieme di fenomeni è in verità molto simile alla ricerca di un oggeo perduto o nascosto. In primo luogo ci

meiamo in una posizione e ci consenta una visione sufficientemente ampia, e giriamo intorno lo sguardo, e se possiamo vedere l’oggeo tanto meglio; se non riusciamo a vederlo, ci iediamo mentalmente quali siano mai i posti in cui potrebbe nascondersi, per poi poterlo cercare: e così via, finé non immaginiamo il posto in cui davvero si trova. E ane qui, dobbiamo avere una concezione o una conoscenza precedenti di questi differenti luoghi. Come in questo processo familiare, così nell’operazione filosofica e esso illustra, prima tentiamo di trovare l’oggeo perduto o di riconoscere l’aributo comune senza invocare in via di congeura l’aiuto di una concezione acquisita precedentemente, o, in altre parole, senza l’aiuto di nessun’ipotesi. Se la cosa non ci riesce, facciamo appello alla nostra immaginazione peré ci fornisca quale ipotesi su un possibile luogo, o su un possibile punto di somiglianza, e poi guardiamo per vedere se i fai concordano con la congeura. Per questi casi si riiede qualcosa di più e non una mente abituata all’osservazione e al confronto accurati. Dev’essere una mente in cui sono state immagazzinate concezioni generali, acquisite in precedenza, dei generi e hanno affinità con l’oggeo della nostra ricerca particolare. E molto dipenderà ane dalla forza naturale e dalla cultura acquisita di quella e è stata iamata l’immaginazione scientifica; dal possesso della facoltà di disporre mentalmente gli elementi noti in modo da farli entrare in nuove combinazioni e, pur non essendo incompatibili con nessuna legge nota, non sono ancora state osservate in natura. Ma la grande varietà di abiti intelleuali, gli scopi a cui servono e i modi in cui possono essere promossi e coltivati, sono oggeo di considerazioni e appartengono all’arte dell’educazione: argomento, questo, di gran lunga più ampio di quello della logica, e e questo traato non intende discutere. Di conseguenza, il presente capitolo può ben iudersi qui. a.

Il signor Bailey ha dato la migliore enunciazione di questa teoria. «Il nome generale, egli scrive, fa sorgere l’immagine, quale volta, di un individuo già visto in precedenza, quale volta di un altro individuo, non di rado di molti individui in successione, e quale volta suggerisce un’immagine costituita di elementi trai da pareci oggei differenti, mediante un processo nascosto, di cui non siamo consapevoli» (Letters on the Philosophy of the Human Mind [Lettere sulla filosofia della mente a umana], I serie, Leera XXII). Ma il signor Bailey deve ammeere e, per mezzo di quest’idea o concezione di quale individuo appartenente alla classe, noi compiamo induzioni e deduzioni riguardanti la classe. esto è tuo ciò e io gli iedo. Il nome di una classe evoca quale idea per mezzo della quale possiamo, per ogni scopo e proposito, pensare la classe come tale, e non soltanto un membro individuale della classe.

b.

Mi sono occupato piuosto esaurientemente di questa questione nel capitolo XVII di An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy, intitolato: «La dorina di concei, o nozioni generali», e contiene il mio punto di vista più recente su quest’argomento. c. Altri esempi di concezioni improprie ci sono forniti dal door Whewhell (Philosophy of Inductive Sciences, II, p. 185) nel modo e segue: «Aristotele e i suoi seguaci tentarono invano di rendere conto della relazione meccanica delle forze nella leva, applicando le concezioni geometrie non appropriate delle proprietà del circolo; non riuscirono a spiegare la forma della macia luminosa creata dal Sole araverso un foro, peré applicarono la concezione impropria di una qualità circolare nella luce del Sole; specularono senza alcun risultato sulla composizione elementare dei corpi; peré, invece di partire dalla nozione genuina secondo cui gli elementi si limitano a determinare le qualità del composto, assumevano la concezione impropria di una somiglianza tra gli elementi e il composto». Ma in queste concezioni c’è qualcosa di più e non una concezione impropria: c’è una concezione falsa, una concezione e non ha nessun prototipo in natura, e non ha nulla e le corrisponda nei fai. esto è evidente negli ultimi due esempi, ed è egualmente vero del primo: le «proprietà del circolo», a cui si è fao riferimento, sono infai puramente fantastie. Oltre alla scelta sbagliata di un principio generale c’è pertanto ancora un altro errore: c’è una falsa assunzione dei fai. Si fa un tentativo di risolvere certe leggi di natura in una legge più generale, quando quest’ultima non è una legge e, pur essendo reale, sia impropria, ma è una legge completamente immaginaria. 1. Tyo Brahe (1546-1601), grande astronomo danese: studiò a Kopenhagen, Lipsia, Rosto, Augusta, viaggiò in Germania e in Italia. Nel 1572 scoprì una nuova stella nella costellazione di Cassiopea, e pubblicò la sua scoperta in De nova stella (1573), dimostrando e la nuova stella era molto lontana dalla Luna, contrariamente all’opinione generale. Nel 1576, avvalendosi del generoso aiuto di Federico II di Danimarca, intraprese nel suo fornitissimo osservatorio di Hven un catalogo stellare, e terminò nel 1596. Nel 1599 si recò a Praga, trasportando con sé la maggior parte degli strumenti di Hven. i fu raggiunto da Keplero, e insieme fecero alcune osservazioni, interroe dalla morte di Tyo, nel 1601. Keplero stesso curò l’edizione della sua opera principale, Astronomiae instauratae Progymnasmata, in 2 volumi. Nel primo volume, Tyo traa dei moti del Sole e della Luna e dà le posizioni di 777 stelle fisse; nel secondo traa principalmente della cometa del 1577, dimostrando e si traa di un corpo estraneo al sistema solare, dato il suo parallasse praticamente trascurabile. In questo secondo volume (e era stato pubblicato privatamente nel 1588 soo il titolo De mundi aetherii recentioribus phaenomenis) Tyo espone ane il proprio sistema dell’universo, in cui si cerca una mediazione tra il sistema tolemaico e il sistema copernicano, ammeendo e la Terra sia immobile, e e il Sole e gli altri pianeti (e a differenza della Terra girano intorno al Sole) girino intorno ad essa. Ebbe una corrispondenza con Galileo il quale, pur mostrando grande stima per la precisione delle sue osservazioni, lo mee dalla stessa parte di Aristotele e Tolomeo. Tyo fu il primo a tener conto, nelle osservazioni astronomie, della rifrazione dell’atmosfera terrestre, e ad introdurre metodi per la correzione degli errori e il calcolo dell’errore medio. 2. Henry Marie Ducrotay de Blainville (1777-1850), naturalista francese, dapprima amico e poi avversario di Cuvier. Tenne ia caedra di anatomia e di zoologia alla facoltà di scienze dell’università di Parigi; nel 1830 successe a Lamar alla caedra di storia naturale e nel 1827, alla morte di Cuvier, gli successe alla caedra di anatomia comparata.

CAPITOLO III. IL DENOMINARE COME SUSSIDIARIO DELL’INDUZIONE 1. Non rientra tra i compiti di questo lavoro il soffermarsi sull’importanza del linguaggio come mezzo per gli scambi e hanno luogo tra gli uomini, sia per scopi emotivi sia per scopi d’informazione. Né il nostro progeo ci concede molto di più se non un’allusione passeggera a quella grande proprietà dei nomi da cui, in realtà, dipendono in ultima analisi le loro funzioni in quanto strumenti dell’intelleo: la loro potenza in quanto mezzi per formare e ribadire associazioni tra le nostre idee. A proposito di quest’argomento un eminente pensatorea ha scrio: «I nomi sono impressioni sensibili, e come tali fanno una presa fortissima sulla mente; e fra tue le altre impressioni sono quelle e più facilmente possono essere riiamate e tenute ferme dinnanzi agli oci. Servono perciò a fornire un punto d’appiglio a tui gli oggei più volatili del pensiero e del sentimento. Grazie alla loro connessione col linguaggio, impressioni, e una volta passate potrebbero essere dissolte per sempre, sono continuamente alla nostra portata. Di per se stessi i pensieri scivolano perpetuamente fuori del campo della visione immediata della mente. Ma il nome abita con noi e basta pronunciarlo peré in un aimo i pensieri vengano riportati indietro. Le parole sono i custodi di tui quei prodoi della mente i vi rimangono impressi meno bene delle parole stesse. Tue le estensioni della conoscenza umana, tue le nuove generalizzazioni vengono fissate e diffuse, ane non intenzionalmente, dall’uso delle parole. Crescendo, il bambino impara insieme con i vocaboli della sua lingua materna e certe cose e egli credeva differenti sono, per certi aspei importanti, le stesse. Senza nessun’istruzione formale, il linguaggio nel quale cresciamo c’insegna tua la filosofia comune di un’epoca. Ci guida ad osservare e a conoscere cose e avremmo trascurato; ci fornisce generalizzazioni bell’e pronte, grazie alle quali gli oggei (fin dove l’ammea la luce sparsa dalle generazioni passate) vengono ordinati insieme con gli oggei con i quali hanno la maggiore somiglianza totale. Il numero dei nomi generali e si trovano in un linguaggio e il grado di generalità di questi nomi ci forniscono una testimonianza del grado di conoscenze dell’epoca e della penetrazione intelleuale e spea, per dirio di nascita, a iunque vi sia nato».

Comunque, qui non traeremo delle funzioni dei nomi, considerati in generale, ma soltanto della maniera e del grado in cui sono strumenti direi della ricerca della verità; in altre parole, del processo d’induzione. 2. Osservazione ed astrazione, le operazioni e hanno formato l’oggeo dei due capitoli precedenti, sono condizioni indispensabili all’induzione. Non può esserci induzione dove non ci siano osservazione e astrazione. Si è immaginato e il denominare sia un’operazione egualmente indispensabile. Alcuni pensatori hanno sostenuto e il linguaggio non è soltanto, secondo una frase e corre sulle boce di tui, uno strumento del pensiero, ma lo strumento del pensiero; e i nomi, o qualcosa di equivalente ad essi (cioè una certa specie di segni artificiali) sono necessari al ragionamento; senza di essi non potrebbe esserci inferenza, e di conseguenza non potrebbe esserci induzione. Ma se la spiegazione della natura del ragionamento e abbiamo dato nelle prime parti di quest’opera è correa, quest’opinione dev’essere ritenuta un’esagerazione, ane se si traa dell’esagerazione di una verità importante. Se il ragionamento è da particolari a particolari, e se consiste nel riconoscere un fao come segno di un altro, per rendere possibile il ragionamento non si riiede nient’altro e i sensi e l’associazione: i sensi, per percepire e due fai sono congiunti, l’associazione, come legge in forza della quale uno di questi due fai fa sorgere l’idea dell’altrob. Per questi due fenomeni mentali, così pure come per la credenza o l’aspeativa e segue, e per mezzo della quale riconosciamo e è accaduta o e sta per accadere la cosa di cui abbiamo percepito il segno, non c’è evidentemente alcun bisogno del linguaggio. E quest’inferenza di un fao particolare da un altro fao particolare è un caso di induzione. Si traa della specie di induzione di cui sono capaci i bruti; proprio in questa forma gli intellei rozzi compiono quasi tue le loro induzioni, e proprio in questa forma le compiamo noi tui nei casi in cui l’esperienza a noi familiare ci impone le conclusioni, senza e da parte nostra abbia luogo un processo di ricerca aivo, e nei casi in cui la credenza, o l’aspeazione, seguono i suggerimenti delle prove con la prontezza e la certezza di un istintoc. 3. Ma sebbene sia possibile senza l’uso dei segni, senza di essi l’inferenza induiva non potrebbe mai essere portata molto oltre i casi semplicissimi e abbiamo appena descrio, e e con tua probabilità segnano i limiti dei ragionamenti di quegli animali a cui è sconosciuto il linguaggio

convenzionale. Senza il linguaggio, o senza qualcosa di equivalente al linguaggio, potrebbe esserci solamente quel tanto di ragionamento dall’esperienza e può aver luogo senza l’aiuto di proposizioni generali. Ora, ane se a rigore possiamo ragionare dall’esperienza passata a un nuovo caso individuale senza passare araverso lo stadio intermedio di una proposizione generale, tuavia, senza proposizioni generali raramente ci ricorderemmo delle esperienze e abbiamo avuto in passato, e non ricorderemmo praticamente mai quali conclusioni saranno garantite da quest’esperienza. La divisione del processo induivo in due parti: la prima parte, e accerta e cosa sia un segno d’un dato fao, la seconda, e accerta se nel nuovo caso quel segno esista, è una divisione naturale e scientificamente indispensabile. Anzi, nella maggior parte dei casi è resa indispensabile dalla pura e semplice distanza nel tempo. L’esperienza per mezzo della quale dobbiamo orientarci nei nostri giudizi può essere l’esperienza delle altre persone, e poco o niente di quest’esperienza può esserci comunicato con altri mezzi e non siano il linguaggio; quando si traa della nostra esperienza personale, generalmente si traa di un’esperienza passata da lungo tempo; perciò, a meno e non sia stata registrata per mezzo di segni artificiali, ben poco di essa rimarrebbe nella nostra mente (se si ecceuano quei casi e implicano le nostre sensazioni e le nostre emozioni più intense, o quegli oggei e abbiamo davanti agli oci ogni giorno e ogni ora). È superfluo aggiungere e quando l’inferenza induiva è ane di poco diversa da quella più direa e più ovvia — quando cioè riiede parecie osservazioni e pareci esperimenti in circostanze variabili, e il confronto di una di queste osservazioni o di uno di questi esperimenti con un altro esperimento o un’altra osservazione — senza la memoria artificiale offertaci dalle parole sarebbe impossibile avanzare di un solo passo. Senza parole, se avessimo visto spesso A e B in connessione immediata e ovvia, ci aspeeremmo B ogni volta e vediamo A; ma lo scoprire la loro connessione, quando non è ovvia, o il determinare se si trai davvero di una congiunzione costante e non piuosto di una congiunzione casuale, e se ci siano buone ragioni per aspearcela in un qualsiasi cambiamento dato delle circostanze, sarebbe un processo di gran lunga troppo complesso, peré lo si possa eseguire senza quale artificio e renda accurato il ricordo delle nostre stesse operazioni mentali. Ora il linguaggio è un artificio così fao. ando si iama in nostro aiuto questo strumento, tue le difficoltà si riducono a quella di rendere accurato il

nostro ricordo del significato delle parole. Assicuratici di ciò, tuo quello e passa per la nostra mente può essere ricordato accuratamente meendolo scrupolosamente in parole e affidando le parole allo scrio o alla memoria. La funzione del denominare e, particolarmente, la funzione dei nomi generali nell’induzione, può essere ricapitolata nel modo e segue. Ogni inferenza induiva e sia comunque valida, è valida per un’intiera classe di casi; e peré, a garanzia della propria correezza, l’inferenza possa avere qualcosa di meglio del puro e semplice aderire insieme di due idee, è necessario un processo di sperimentazione e di confronto, nel quale l’intiera classe dei casi sia dispiegata alla vista, e sia messa in luce e accertata quale uniformità nel corso della natura, dal momento e per giustificare l’inferenza ane in un solo caso è indispensabile e una tale uniformità esista. Pertanto quest’uniformità può essere accertata una volta per tue; e se, essendo stata accertata, può ane essere ricordata, nei casi particolari servirà come formula per fare tue quelle inferenze e risultano garantite dall’esperienza precedente. Ma possiamo assicurarci e sarà ricordata, o addiriura possiamo dare a noi stessi la possibilità di recare con noi nella nostra memoria un numero considerevole di tali uniformità, soltanto se le registriamo per mezzo di segni permanenti i quali (essendo segni, data la natura del caso, non già di fai individuali, ma di un’uniformità, cioè a dire di un numero indefinito di fai tra loro simili) sono segni generali, universali: nomi generali e proposizioni generali. 4. E qui non posso esimermi dal far notare una svista commessa da alcuni eminenti pensatori, i quali hanno deo e usiamo nomi generali a causa dell’infinita moltitudine di oggei individuali, moltitudine e, rendendo impossibile il disporre di un nome per ogni oggeo, ci costringe a fare in modo e un nome solo serva per molti oggei. esta è una visione molto angusta della funzione dei nomi generali. Senza nomi generali non potremmo esprimere il risultato di un solo confronto, né registrare alcuna delle uniformità e esistono in natura, e nei confronti dell’induzione non ci troveremmo per nulla meglio di quanto ci troveremmo se non avessimo nomi affao. Forse, se non avessimo altri nomi e quelli degli individui (cioè, se non avessimo altri nomi e i nomi propri), pronunciando il nome potremmo magari suggerire l’idea dell’oggeo, ma non potremmo asserire nessuna proposizione, tranne le proposizioni insignificanti e si formano predicando l’uno dell’altro due nomi propri. Soltanto per mezzo dei nomi

generali possiamo trasmeere una qualsiasi informazione, predicare un qualsiasi aributo, ane di un’individio e, più ancora, di una classe. Rigorosamente parlando, potremmo farcela senza altri nomi generali e i nomi astrai degli aributi; tue le nostre proposizioni potrebbero essere della forma: «Il tale oggeo individuale possiede il tale aributo», o «Il tale aributo è sempre (o non è mai) congiunto con il talaltro aributo». In realtà, però, gli uomini hanno sempre dato nomi propri tanto agli oggei quanto agli aributi; ma i nomi generali dati agli oggei implicano aributi, derivano tuo quanto il loro significato dagli aributi, e sono utili soprauo in quanto costituiscono il linguaggio per mezzo del quale prediiamo gli aributi e essi connotano. Rimane da prendere in considerazione a quali princìpi si debba aderire quando si dànno nomi generali, cosicé questi nomi, e le proposizioni generali in cui occupano un posto, possano essere maggiormente utili agli scopi dell’induzione. a.

Il professor Bain. b. esta frase è stata fraintesa, come se io intendessi asserire e la credenza non è altro e un’associazione irresistibile. Credo perciò necessario osservare e non esprimo nessuna teoria riguardante l’analisi definitiva del ragionamento o della credenza, due tra i punti più oscuri della psicologia analitica. Non parlo delle facoltà in se stesse, ma delle condizioni necessarie a rendere quelle facoltà capaci di esercitarsi. Sostengo e il linguaggio non è una di queste condizioni, e e a ciò sono sufficienti i sensi e l’associazione, senza il linguaggio. La teoria della credenza come associazione irresistibile, e le difficoltà connesse con quest’argomento, sono state discusse esaurientemente nella nuova edizione dell’Analysis of the Phenomena of the Human Mind, di James Mill. c. Il signor Bailey è d’accordo con me nel pensare e ogni volta e, «da qualcosa effeivamente presente ai miei sensi, congiunto con l’esperienza passata, mi sento soddisfao e qualcosa è accaduto o accadrà o sta accadendo oltre la sfera della mia osservazione personale», si può dire, in modo rigorosamente appropriato, e ragiono; e naturalmente ragiono induivamente, peré il ragionamento dimostrativo è escluso dalle circostanze del caso. (The Theory of Reasoning, 2a ed., p. 27).

CAPITOLO IV. I REQUISITI DI UN LINGUAGGIO FILOSOFICO E I PRINCÌPI DELLA DEFINIZIONE 1. Allo scopo di possedere un linguaggio e sia perfeamente adao alla ricerca e all’espressione delle verità generali, è necessario e siano soddisfai due requisiti principali e pareci altri di minore importanza. Il primo requisito è e ogni nome generale abbia un significato saldamente fissato e determinato con precisione. ando, soddisfaa e sia questa condizione, i nomi di cui siamo in possesso sono stati adaati all’adempimento delle loro funzioni, il requisito successivo (e è ane il secondo in ordine d’importanza) è e si possegga un nome ogni volta e c’è bisogno di un nome; ogni volta, cioè, e c’è da designare con il nome qualcosa e è importante esprimere. In questo capitolo dedieremo la nostra aenzione esclusivamente al primo di questi due requisiti. 2. Dunque, ogni nome generale deve avere un significato certo e conoscibile. Ora (e l’abbiamo spiegato molte volte) il significato di un nome generale connotativo risiede nella connotazione: nell’aributo in ragione del quale, e per esprimere il quale, si dà il nome. Così, siccome il nome «animale» viene dato a tue le cose e posseggono gli aributi della sensazione e del movimento volontario, la parola connota esclusivamente questi aributi ed essi costituiscono tuo intiero il suo significato. Se il nome è astrao, la sua connotazione è la stessa cosa della denotazione del concreto corrispondente: designa direamente l’aributo e il termine concreto implica. Dare un significato preciso ai nomi generali significa quindi fissare saldamente l’aributo o gli aributi connotati da ciascun nome generale concreto e denotati dall’astrao corrispondente. Poié, nell’ordine in cui vengono creati, i nomi astrai non precedono i nomi concreti ma li seguono — cosa, questa, provata dal fao etimologico e quasi tui i nomi astrai derivano dai concreti — possiamo ritenere e il loro significato sia determinato dal significato del loro concreto e da esso dipenda; e così il problema di dare un significato distinto al linguaggio

generale è compreso tuo in quello di dare una connotazione precisa a tui i nomi generali concreti. Nel caso di nomi nuovi — vale a dire nel caso dei termini tecnici creati dai ricercatori scientifici per gli scopi della scienza o dell’arte — la cosa non è difficile. Ma quando un nome è di uso comune, la difficoltà è maggiore: in questo caso, infai, il problema non è quello di scegliere una connotazione conveniente per il nome, bensì quello di accertare e fissare la connotazione con cui il nome è già usato. Che quest’ultima possa mai essere materia di dubbio è una specie di paradosso. Ma raramente il volgo (e includo in questo termine tui coloro e non hanno abiti accurati di pensiero) sa con esaezza quale asserzione intenda fare, quale proprietà comune intenda esprimere quando applica il medesimo nome a un certo numero di cose differenti. Per questa gente, tuo ciò e il nome esprime quando lo predicano di un oggeo, è un senso nebuloso di somiglianza tra quell’oggeo e qualcuna delle altre cose e sono stati abituati a denotare con quel nome. Hanno applicato il nome «pietra» a vari oggei visti in precedenza; vedono un nuovo oggeo, e gli appare in quale modo simile ai primi, e lo iamano «pietra», senza iedersi per quale aspeo sia simile ad essi, o quale modo o grado di somiglianza le migliori autorità, o loro stessi, riiedano come garanzia per usare il nome. esta rozza impressione generale di somiglianza è tuavia costituita da circostanze particolari di somiglianza, e in queste ultime è affare del logico lo scomporla per accertare quali punti di somiglianza tra le diverse cose comunemente iamate con quel nome abbiano prodoo nella mente del volgo questo vago sentimento di affinità; abbiano dato alle cose quella similitudine d’aspeo e ne ha fao una classe, e abbiano fao sì e ad esse venisse imposto lo stesso nome. Ma sebbene i nomi generali siano imposti dal volgo senz’altra connotazione definita e quella di una vaga somiglianza, col tempo si arriva a enunciare proposizioni generali in cui a quei nomi si applicano predicati: cioè, si fanno asserzioni generali e riguardano la totalità delle cose denotate dal nome. E poié in ciascuna di queste proposizioni si predica naturalmente quale aributo concepito con maggiore o minor precisione, le idee di questi aributi finiscono così con l’essere associate al nome, e in un modo o nell’altro questo finisce con il connotarli sia pure in maniera incerta; si prova una certa esitazione ad applicare il nome in tui i nuovi casi in cui non esiste l’uno o l’altro degli aributi e di solito si predicano

della classe. E così, per la mentalità comune, le proposizioni e la gente ode o pronuncia abitualmente a proposito di una classe, costituiscono, in modo approssimativo, una specie di connotazione del nome della classe. Prendiamo, per esempio, la parola «civile». Ane tra le persone più colte, se ne troverebbero ben poe e osino dire esaamente e cosa connoti il termine «civile». Tuavia, nella mente di tui quelli e l’usano, c’è la sensazione di usarlo con un significato; e questo significato è costituito, confusamente, da tuo quello e hanno udito o leo su quello e sono, o ci si può aspeare e siano, gli uomini civili o le comunità civili. Probabilmente è proprio a questo punto della storia di un nome concreto e si comincia a usare il nome astrao corrispondente. Ritenendo e il nome concreto debba naturalmente comunicare un significato o, in altre parole, ritenendo e ci sia quale proprietà comune a tue le cose e il nome denota, la gente dà un nome a questa proprietà comune; dal concreto «civile» forma l’astrao «civiltà». Ma siccome la maggior parte delle persone non ha mai confrontato le differenti cose e vengono iamate col nome concreto in modo da accertare quali proprietà queste cose abbiano in comune, o se mai ne abbiano, ciascuno viene rimandato ai segni dai quali è stato abituato a lasciarsi guidare quando applica il termine. E siccome questi segni consistono semplicemente in vaghi sentito dire e in frasi d’uso corrente, nessuno di essi è il medesimo per due persone, o è il medesimo per la medesima persona in istanti diversi. A mala pena, quindi, la parola (come, ad esempio, «civiltà») e pretende di essere la designazione della proprietà comune ignota, riesce a comunicare la medesima idea a più di una persona. Non si trovano due persone e siano d’accordo sulle cose e predicano di essa; e quando la parola viene a sua volta predicata di qualcosa, non c’è una persona su due e sappia e cosa si intenda asserire con essa, e con precisione non lo sa neppure quella stessa persona e la predica. Si potrebbero citare molte altre parole, come la parola «onore», o la parola «gentiluomo», e esemplificano quest’incertezza in modo ancor più sorprendente. È superfluo osservare e le proposizioni generali, di cui nessuno sa dire con esaezza e cosa asseriscano, non possono in alcun modo essere state sooposte alla prova di un’induzione correa. Sia e un nome debba essere usato come uno strumento del pensiero, sia e debba essere usato come un mezzo per comunicare il risultato del pensiero, è assolutamente necessario

determinare esaamente l’aributo o gli aributi e è iamato ad esprimere: dargli, in breve, una connotazione fissa e certa. 3. Signifierebbe però fraintendere completamente il compito proprio di un logico quando traa coi termini già in uso il pensare e, per il fao e aualmente un nome non ha una connotazione certa, competa a qualcuno il dargliene una, a propria scelta. Il significato di un termine effeivamente in uso non è una quantità arbitraria in aesa di essere determinata, ma una quantità incognita e si deve cercare. In primo luogo, è ovviamente desiderabile avvalerci fin dove sia possibile delle associazioni già connesse col nome, anzié incoraggiarne l’impiego in una maniera e entri in conflio con tue le abitudini precedenti, e specialmente riiedere la roura delle più forti tra tue le associazioni tra nomi e sono state create dalla familiarità con proposizioni in cui questi nomi vengono predicati l’uno dell’altro. Avrebbe ben poe probabilità di vedere il proprio esempio seguìto da altri, il filosofo e dovesse dare ai suoi termini un significato tale per cui si rendesse necessario iamare «popolazioni civili» gl’Indiani del Nord America, o «selvagge» le classi dell’alta borghesia d’Europa; o e dovesse dire e i popoli civili vivono di caccia e i selvaggi d’agricoltura. Ane se non ci fossero altre ragioni per fare una cosa del genere, una ragione più e sufficiente sarebbe l’estrema difficoltà di mandare ad effeo una rivoluzione così completa nella lingua. Dopo aver stabilito il nuovo significato si dovrebbe infai tentar di fare in modo e tue le proposizioni generalmente acceate, in cui entra il termine, siano almeno vere come lo erano prima, e e, perciò, il nome concreto non riceva una connotazione tale e gli impedisca di denotare cose di cui lo si afferma abitualmente nel linguaggio d’ogni giorno. La connotazione determinata e precisa e il termine riceve non dovrebbe allontanarsi dalla connotazione vaga e fluuante e aveva già, ma, fin dove la cosa sia possibile, dovrebbe essere d’accordo con essa. Stabilire la connotazione di un nome concreto, o la denotazione del nome astrao corrispondente, significa definire il nome. ando lo si può fare senza rendere inammissibile neane una sola asserzione acceata, il nome può essere definito d’accordo con il suo uso istituzionale, e questo si iama volgarmente definire la cosa e non il nome. Mediante l’espressione impropria «definire una cosa» (o piuosto una classe di cose, peré nessuno parla di definire gli individui) s’intende: definire il nome, a condizione e denoti

quelle cose. esto, naturalmente, presuppone un confronto tra le cose, trao per trao e proprietà per proprietà, allo scopo di accertare in quali aributi concordino; e non di rado presuppone un’operazione streamente induiva e ha lo scopo di accertare quale concordanza non ovvia, e è la causa della concordanza ovvia. Infai, allo scopo di dare a un nome una connotazione compatibilmente con il fao e il nome denota certi oggei, dobbiamo fare la nostra scelta tra i vari aributi in cui quegli oggei concordano. La prima operazione logica e è necessario compiere è dunque l’accertare in e cosa concordino quegli oggei. Fao questo fin dove sia necessario e possibile farlo, sorge la questione: quale di questi aributi comuni si deve scegliere per associarlo al nome? Infai, se la classe e il nome denota fosse una specie autentica, le proprietà comuni sarebbero innumerevoli; e ane se non lo è, tali proprietà sono spesso estremamente numerose. La nostra scelta è limitata, in primo luogo, dalla preferenza da darsi a proprietà ben note e e è consuetudine predicare della classe. Ma spesso ane queste proprietà sono troppo numerose peré le si possa includere tue nella definizione; inoltre, può darsi e le proprietà più generalmente conosciute non siano quelle e meglio servono a contrassegnare la classe tra tue le altre. Tra le proprietà comuni (se se ne trovano) dovremmo perciò scegliere quelle da cui si è accertato empiricamente, o si è provato deduivamente, e ne dipendono molte altre; o almeno e sono segni sicuri di quelle e da cui, perciò, ne seguiranno molte altre per inferenza. Vediamo così e il meere assieme una buona definizione di un nome già in uso non è una faccenda di scelta, ma di discussione, e di una discussione e non riguarda puramente e semplicemente l’uso del linguaggio, ma concerne le proprietà delle cose e addiriura le origini di queste proprietà. E pertanto ogni ampliamento della nostra conoscenza degli oggei a cui si applica il nome può suggerire un miglioramento nella definizione. È impossibile costruire un insieme perfeo di definizioni su un certo oggeo fin quando la teoria di quell’oggeo non sia perfea; e, come la scienza progredisce, progrediscono ane le sue definizioni. 4. La discussione delle definizioni, in quanto non verta sull’uso delle parole ma sulle proprietà delle cose, viene iamata dal door Whewell «esplicazione dei concei». Nella fraseologia tecnica da lui coniata, il door Whewell iama «dispiegamento dei concei generali in virtù dei quali i

fenomeni sono stati classificati in quel certo modo» l’ao dell’accertare meglio di quanto non si fosse fao prima in quali particolari concordino certi fenomeni e sono stati classificati insieme. Facendo la tara di quella e a me sembra la forviante tendenza all’oscurità di questo modo di esprimersi, parecie tra le sue osservazioni sono così pertinenti e mi prenderò la libertà di trascriverle. Il door Whewell osservaa e molte delle controversie e hanno svolto una parte importante nella formazione dell’auale corpo della scienza hanno «assunto la forma di una baaglia di definizioni. Per esempio, l’indagine sulla caduta dei corpi ha condoo alla questione se la definizione appropriata di forza uniforme sia quella secondo cui tale forza genera una velocità proporzionale allo spazio percorso a partire dallo stato di quiete, o quella secondo cui la forza genera una velocità proporzionale al tempo trascorso a partire da tale stato. La controversia sulla vis viva verteva su quale sia la definizione appropriata di misura della forza. Una questione di primaria importanza nella classificazione dei minerali è: qual è la definizione di una specie minerale? I fisiologi si sono sforzati di gear luce sugli oggei della loro scienza definendo “organizzazione” e altri termini simili». estioni della medesima natura sono aperte da molto tempo e non sono ancora state completamente iuse: riguardano la definizione di «calore specifico», «calore latente», «combinazione imica» e «soluzione». «È molto importante per noi osservare e queste controversie non sono mai state questioni isolate e definizioni arbitrarie, come gli uomini sembrano spesso tentati di immaginare e siano. In tui i casi si assume tacitamente quale proposizione, e dev’essere espressa per mezzo della definizione e e conferisce alla definizione l’importanza e ha. La disputa sulla definizione acquista così un valore reale, e diventa una questione sul vero e sul falso. Così, nella discussione della questione: Che cos’è una forza uniforme? si dava per scontato e la gravità sia una forza uniforme. Nel dibaito sulla vis viva si assumeva e nell’azione reciproca dei corpi l’effeo totale della forza rimanga costante. Nella definizione zoologica della specie (e consiste di individui e sono nati, o potrebbero essere nati, dai medesimi genitori) si presume e gli individui così imparentati si assomiglino tra loro più di quelli e sono stati esclusi da una tale definizione; o, forse, e la specie così definita abbia differenze permanenti e ben definite. Una definizione di «organizzazione» o di quale altro termine,

e non fosse impiegata per esprimere quale principio, sarebbe priva di valore. Pertanto, lo stabilimento di una definizione correa di un termine può costituire un utile passo in avanti verso l’esplicazione dei nostri concei; ma questo accadrà solo quando potremo prendere in considerazione quale proposizione in cui viene impiegato il termine. Infai, allora la questione è in realtà in qual modo si debba intendere e definire il conceo peré la proposizione possa essere vera». «Il dispiegamento dei nostri concei per mezzo di definizioni non è mai servito molto nella scienza, se non quando tale dispiegamento è stato associato con un uso immediato delle definizioni. Il tentativo di definire la forza uniforme era combinato con l’asserzione e la gravità è una forza uniforme; il tentativo di definire la forza d’accelerazione fu immediatamente seguito dalla dorina secondo cui le forze d’accelerazione possono essere composte; il procedimento di definizione dell’impulso era connesso con il principio e gli impulsi acquistati e quelli perduti sono eguali; invano i naturalisti avrebbero dato la definizione di specie e abbiamo citato se non avessero ane dato le caraeristie delle specie separate… La definizione può essere il miglior modo di spiegare il nostro conceo, ma la sola cosa e faccia sì e valga la pena di spiegarlo in un modo o nell’altro è l’opportunità e abbiamo di usarlo per esprimere la verità. ando ci presentano una definizione come un utile passo in avanti verso la conoscenza, abbiamo sempre il dirio di iedere quale principio essa serva ad enunciare». Perciò, nel dare una connotazione esaa alla frase «una forza uniforme», si sointendeva la condizione e la frase continuasse a denotare la gravità. Pertanto, la discussione sulla definizione, si risolvee nella questione: Che cosa c’è, e abbia natura uniforme, nei movimenti prodoi dalla gravità? Per mezzo di osservazioni e di confronti si trovò e quello e è uniforme, in questi movimenti, è il rapporto tra la velocità acquistata e il tempo trascorso, le velocità accrescendosi di quantità eguali in tempi eguali. Pertanto la forza uniforme fu definita come una forza e aumenta le velocità di quantità eguali in tempi eguali. E così per la definizione dell’impulso. Era già dorina universalmente acceata e quando due oggei si urtano tra loro, l’impulso perso dall’uno è eguale all’impulso guadagnato dall’altro. esta proposizione si ritenne necessario mantenerla, non peré (motivo, questo, e si rivela operante in molti altri casi) fosse

saldamente radicata nella credenza popolare (infai mai nessuno, tranne le persone dotate di cultura scientifica aveva udito la proposizione in parola), ma peré ci si rese conto e conteneva una verità: bastava un’osservazione ane superficiale dei fenomeni per constatare, al di là di ogni dubbio, e nel propagarsi del moto da un corpo all’altro c’è un qualcosa di cui un corpo guadagna esaamente quello e l’altro aveva perso, e per esprimere quest’incognito qualcosa, si dovee inventare la parola «impulso». Perciò, per rendere permanente la definizione di «impulso» era necessario rispondere alla questione: «Che cos’è quella cosa di cui un corpo, quando ne mee in movimento un altro, perde una quantità esaamente eguale a quella e comunica?». E quando gli esperimenti ebbero mostrato e questo qualcosa è il prodoo della velocità del corpo per la sua massa (o quantità di materia), quest’ultima proposizione divenne la definizione dell’impulso. Sono perciò perfeamente corree le seguenti osservazionib: «L’ufficio della definizione è parte dell’ufficio della ricerca… Il definire, in modo e la nostra definizione abbia un valore scientifico, riiede una parte non piccola di quella sagacia con la quale si scopre la verità… ando si sia visto iaramente quale debba essere la nostra definizione, si deve sapere piuosto bene quale verità dobbiamo enunciare. Così come la scoperta, la definizione presuppone e si sia fao un deciso passo in avanti nella nostra conoscenza. Gli autori di logica del Medio Evo avevano fao della definizione l’ultima tappa nel progresso della conoscenza, e, almeno in quest’ordine, la storia della scienza e la filosofia derivata dalla storia confermano i loro punti di vista speculativi». Infai, per dare un giudizio definitivo sul modo in cui il nome e denota una classe può essere definito meglio e ci sia possibile, dobbiamo conoscere tue le proprietà comuni alla classe e tue le relazioni di causazione o di dipendenza e vigono tra queste proprietà. Se le proprietà più adae a essere scelte come segni di altre proprietà comuni sono ane ovvie e familiari, e specialmente se esercitano una funzione rilevante nel produrre quell’aria generale di somiglianza e originariamente ci aveva indoi a formare la classe, la definizione sarà delle più felici. Ma spesso è necessario definire la classe facendo ricorso a quale proprietà e non è nota e familiare, puré questa proprietà sia il miglior segno delle proprietà note. Per esempio, il signor de Blainville fondò la sua definizione di vita sul processo di decomposizione e ricomposizione e ha incessantemente luogo in ogni essere vivente, cosicé le particelle e lo compongono non sono mai le medesime in due istanti diversi. esta non è

affao una delle proprietà più note dei corpi viventi e potrebbe sfuggire completamente all’aenzione di un osservatore non scientifico. Tuavia gli scienziati più autorevoli (indipendentemente dal signor de Blainville e a sua volta è un’autorità di prim’ordine) hanno pensato e nessuna proprietà risponde meglio di questa alle condizioni indispensabili per la definizione. 5. Enunciati così i princìpi e si dovrebbero per lo più seguire quando si tenta di dare una connotazione precisa a un termine in uso, devo ora aggiungere e non sempre è possibile aderire a questi princìpi e, ane quand’è possibile, quale volta non è desiderabile. Molto spesso si presentano casi in cui è impossibile soddisfare tue le condizioni per dare, di un nome, una definizione precisa e d’accordo con l’uso. Spesso non è possibile assegnare a una parola una sola connotazione in modo e essa continui a denotare tuo quello e denota di solito; ossia in modo e tue le proposizioni nelle quali è solita entrare e e hanno quale fondamento nella verità rimangano ancora vere. Indipendentemente dalle ambiguità accidentali, in cui i differenti significati non hanno alcuna connessione tra loro, accade continuamente e una parola sia usata in due o più sensi derivati l’uno dall’altro, ma tuavia radicalmente distinti. Fintanto e un termine è vago, cioè fintanto e la sua connotazione non è stata accertata e fissata in modo permanente, il termine può costantemente essere applicato per estensione da una cosa all’altra, fino a e non raggiungerà cose e hanno ben poe somiglianze, e addiriura non ne hanno affao, con quelle e inizialmente erano state designate da quel termine. Supponiamo, dice Dugald Stewart nei suoi Philosophical Essaysc, «e le leere A, B, C, D, E denotino una serie di oggei; e A possegga una quale qualità in comune con B; B una qualità in comune con C; C una qualità in comune con D; D una qualità in comune con E, mentre, nel medesimo tempo, non si può trovare nessuna qualità e appartenga, in comune, a tre oggei qualsiasi della serie. È forse inconcepibile e l’affinità tra A e B possa far sì e il nome della prima venga trasferito alla seconda e e, in conseguenza delle altre affinità e conneono tra loro i rimanenti oggei, il medesimo nome possa passare in successione da B a C, da C a D, e da D a E? In questa maniera, A ed E acquisteranno un appellativo comune, ane se per la loro natura e per le loro proprietà può darsi e i due oggei

siano così distanti l’uno dall’altro e, per quanto si stiraci l’immaginazione, sia impossibile concepire come il nostro pensiero sia stato condoo dal primo all’ultimo. Cionondimeno può darsi e le transizioni siano state tue così agevoli e graduali e, se fossero colte con successo dal fortunato ingegno di un teorico, riconosceremmo istantaneamente non soltanto la verisimiglianza, ma la verità della congeura, proprio come ammeiamo, con la fiducia e ci viene dalla convinzione intuitiva, la certezza del ben noto processo etimologico e connee la preposizione latina e o ex al sostantivo inglese stranger [straniero], non appena qualcuno sooponga al nostro esame gli anelli intermedi della catena»d. Adoando un’espressione del signor Payne Knight1 Stewart iama applicazioni transitive le applicazioni e una parola acquista in séguito a questa sua estensione graduale da un insieme di oggei all’altro e, dopo aver brevemente illustrato quelle applicazioni e sono il risultato di associazioni locali o casuali, continua cosìe: «Ma sebbene la parte di gran lunga maggiore delle applicazioni transitive o derivate di una parola dipenda da capricci casuali e inspiegabili del sentimento o della fantasia, ci sono certi casi in cui tali applicazioni aprono un campo interessantissimo alla speculazione filosofica. Tali sono quelle applicazioni in cui si può osservare universalmente, o molto generalmente, un trasferimento analogo del significato del termine corrispondente in altre lingue, e in cui, naturalmente, l’uniformità del risultato dev’essere aribuita ai princìpi essenziali della natura umana. Comunque, neane esaminando questi casi si troverà sempre e le varie applicazioni del medesimo termine hanno avuto origine da una o più qualità comuni nell’oggeo al quale si riferiscono i termini. Nella grande maggioranza dei casi, possono essere ricondoe a quale associazione di idee naturale e universale, fondata sulle facoltà comuni, sugli organi comuni e sulla comune condizione della razza umana… Possiamo aspearci e sorgano effei molto differenti, secondo e le associazioni su cui sono fondate le transizioni da una lingua all’altra siano più o meno intime e più o meno forti. Nei casi in cui l’associazione è superficiale e casuale, i diversi significati rimarranno distinti tra loro, e spesso, col tempo, assumeranno l’apparenza di varietà capricciose nell’uso del medesimo segno arbitrario. Nei casi in cui l’associazione è così naturale e così abituale da diventare praticamente indissolubile, i significati transitivi

si fonderanno in una sola concezione complessa; ed ogni nuova transizione diventerà una generalizzazione più comprensiva del termine in questione».

Intendo riiamare un’aenzione particolare sulla legge della mente espressa nell’ultimo enunciato, legge e è all’origine della perplessità e proviamo così spesso quando cogliamo queste transizioni di significato. L’ignoranza di questa legge è la secca nella quale sono andati a incagliarsi alcuni degli intellei più poderosi e abbiano ornato la razza umana. Le indagini di Platone sulle definizioni di alcuni dei termini più generali della speculazione morale sono state caraerizzate da Bacone come un’approssimazione al vero metodo induivo molto più esaa di quante non se ne possano trovare altrove tra gli antii, e sono in realtà esempi quasi perfei del processo preparatorio di confronto e di astrazione; ma per il fao di non essere consapevole della legge appena menzionata, Platone spesso sprecò i poteri di questo grande strumento logico, esercitandoli in ricere in cui non poteva raggiungere nessun risultato, dal momento e i fenomeni, le cui proprietà comuni egli cercò così faticosamente di cogliere, non avevano in realtà nessuna proprietà comune. Bacone stesso cadde nel medesimo errore nelle sue speculazioni sulla natura del calore, nelle quali evidentemente confondeva, con il nome «calore», classi di fenomeni e non hanno in comune alcuna proprietà. Certo, Stewart esagera questo punto quando parla di «un pregiudizio e è disceso fino ai tempi moderni dalle età della Scolastica: pregiudizio secondo cui, quando una parola ammee una grande varietà di significazioni, tue queste differenti significazioni devono essere specie del medesimo genere e devono di conseguenza comprendere quale idea essenziale comune a ogni individuo cui si può applicare il termine generico»f: infai, tanto Aristotele quanto i suoi seguaci erano ben consapevoli e ci sono cose come le ambiguità linguistie, e si divertivano moltissimo a distinguerle. Ma non sospearono mai e ci fosse ambiguità nei casi in cui (come osserva Stewart) l’associazione sulla quale era fondata la transizione di significato è così naturale ed abituale e i due significati si fondono insieme nella mente e quella e in realtà è una transizione si trasforma in una generalizzazione apparente. Di conseguenza, si diedero infinite pene per tentar di trovare una definizione e servisse contemporaneamente per pareci significati distinti, come nel caso, notato dallo stesso Stewart, della «causazione»: «l’ambiguità della parola e nella lingua greca corrisponde alla parola inglese cause, gli aveva suggerito l’inutile tentativo di rintracciare l’idea comune e nel caso di qualsiasi

appartiene all’efficiente, alla materia, alla forma e al fine. Le oziose generalizzazioni (aggiunge Stewart) e incontriamo in altri filosofi intorno alle idee del buono dell’adatto, e del conveniente, hanno avuto la loro origine dalla medesima, indebita influenza, degli epiteti popolari sulle speculazioni dei doi»g. Tra le parole i cui significati hanno subito un numero così alto di transizioni successive e è andata perduta ogni e qualsiasi traccia di una proprietà comune a tue le cose cui si applicano, o, almeno, ogni traccia comune e ane peculiare a quelle cose, Stewart ritiene e ci sia la parola «bello». E (senza tentar di decidere una questione e non appartiene affao alla logica) non posso fare a meno di provare, d’accordo con lui, considerevoli dubbi a proposito della questione se la parola «bello» connoti la medesima proprietà quando parliamo di un bel colore, di un bel viso, di un bello speacolo, di un bel caraere e di una bella poesia. Senza dubbio la parola fu estesa da uno di questi oggei a un altro in virtù d’una somiglianza tra di essi o, più probabilmente, in virtù d’una somiglianza tra i moti dell’animo eccitati da questi oggei; e infine, grazie a quest’estensione progressiva, ha raggiunto cose molto lontane da quegli oggei della vista a cui non c’è dubbio e venisse applicata originariamente. E si può almeno meere in dubbio se ora ci sia una qualsiasi proprietà e sia comune a tue le cose e, coerentemente con l’uso, si possono iamare belle, se si acceua la proprietà della piacevolezza, e il termine certamente connota, ma e non può essere tuo quello e di solito la gente intende esprimere con il termine «bello»: infai ci sono molte cose piacevoli e non vengono mai iamate «belle». Se le cose stanno così, è impossibile dare alla parola «bello» una qualsiasi connotazione fissa, tale e la parola denoti tui gli oggei e denota nell’uso comune, senza peraltro denotarne altri. Comunque, una connotazione fissa deve averla; peré, fintanto e non ce l’avrà, non potrà essere usata come termine scientifico e costituirà una fonte perpetua di false analogie e di generalizzazioni erronee. esto, dunque, costituisce un caso e ben serve a esemplificare la nostra osservazione e ane quando una proprietà comune a tue le cose denotate da un nome c’è, non sempre è desiderabile innalzare questa proprietà a definizione e a connotazione esclusiva del nome. Indubbiamente, le varie cose e vengono iamate belle si somigliano tra loro per il fao di essere piacevoli: ma il fare di questo la definizione di bellezza, estendendo in tal modo la parola «bello» a tue le cose piacevoli, signifierebbe lasciar effetto

cadere del tuo una porzione di significato e la parola comunica realmente, ane se in modo indistinto, e fare tuo quello e è in nostro potere peré vengano trascurate e dimenticate quelle qualità degli oggei e la parola indicava inizialmente, sia pure in maniera vaga. In un caso del genere è meglio dare una connotazione fissa al termine, restringendone l’uso piuosto e estenderlo; escludendo dall’epiteto «bello» alcune cose alle quali di solito si ritiene e il termine non possa essere applicato, piuosto e lasciar fuori dalla sua connotazione una qualsiasi delle qualità e forse hanno guidato abitualmente la mente degli uomini comuni nelle applicazioni più ordinarie e più interessanti del termine stesso, ane se di tanto in tanto tali qualità sono state perse di vista. Infai, è fuor di questione e quando la gente dice e una certa cosa è «bella» pensa di asserire qualcosa di più e non e questa cosa è semplicemente piacevole. Pensano, così facendo, di aribuire alla cosa una specie particolare di piacevolezza, analoga a quella e trovano nell’una o nell’altra delle cose alle quali sono abituati ad applicare il medesimo termine. Perciò, se esiste una quale specie particolare di piacevolezza e sia comune, non già a tue le cose e vengono iamate belle, ma soltanto alle cose principali e vengono iamate così, è meglio restringere la denotazione del termine a queste ultime, e non lasciare quella specie di qualità priva di un termine e la connoti, distraendo in questo modo l’aenzione dalle sue peculiarità. 6. L’ultima osservazione esemplifica una regola terminologica di grande importanza, e tuavia non è praticamente mai stata riconosciuta come una regola se non da poi pensatori di questo secolo. Nel tentativo di reificare l’uso di un termine vago dandogli una connotazione fissa, dobbiamo sempre stare aenti a non scartare (a meno e non lo facciamo espressamente, in ragione di una conoscenza più profonda dell’oggeo) una qualsiasi porzione della connotazione e, sia pure in maniera indistinta, la parola portava con sé precedentemente. Altrimenti il linguaggio perderebbe una delle sue proprietà intrinsee e più preziose: quella di essere il conservatore dell’esperienza passata; di essere il mezzo e mantiene in vita quei pensieri e quelle osservazioni delle età e ci hanno preceduti, pensieri e osservazioni e può darsi siano estranei alle tendenze del tempo presente. esta funzione del linguaggio è stata trascurata o soovalutata tanto spesso, e mi sembra ci sia un estremo bisogno di fare alcune osservazioni su di essa.

Ane quando la connotazione di un termine è stata fissata accuratamente (e ancor più se è stata lasciata allo stato di un vago sentimento non analizzato di somiglianza), nella parola c’è una tendenza costante, araverso l’uso quotidiano, a disfarsi di parte della propria connotazione. È una legge ben nota della mente e una parola, originariamente associata con un grappolo molto complesso di idee, è ben lontana dal riiamare tue quelle idee ogni volta e venga usata; ne riiama soltanto una o due: e da queste, in virtù di nuove associazioni, la mente passa di corsa a un altro insieme di idee senza aspeare e la parola le suggerisca il resto di questo grappolo complesso. Se questo non accadesse, i processi del pensiero non potrebbero aver luogo con quella rapidità di cui li sappiamo capaci. Anzi, quando nel corso delle nostre operazioni mentali impieghiamo una parola, molto spesso siamo così lontani dall’aspearci e l’idea complessa corrispondente al suo significato venga dispiegata alla nostra coscienza in tue le sue parti, e, per mezzo di altre associazioni eccitate dalla parola pura e semplice, passiamo in tua frea ad altre associazioni d’idee senza aver realizzato, nella nostra immaginazione, la bené minima parte del suo significato. In questo modo usiamo la parola, e anzi, la usiamo ane bene e accuratamente; e per mezzo suo portiamo così a termine, in modo quasi meccanico, importanti processi di ragionamento. Tant’è vero e alcuni metafisici, generalizzando da un caso estremo, si sono messi in testa e tuo il ragionamento non sia altro e l’uso meccanico di un certo insieme di segni, secondo una certa forma. Possiamo discutere e risolvere gli interessi più importanti di cià e di nazioni applicando teoremi generali e massime pratie già enunciati in precedenza, senza e durante tuo questo processo ci vengano in mente, neppure una sola volta, le case e i verdi campi, i mercati affollati e i focolari domestici, di cui queste cià e queste nazioni non soltanto consistono, ma e le parole «cià» e «nazione» significano espressamente. Allora, dal momento e i nomi generali vengono a essere usati in questa maniera (e arrivano persino a far bene una parte del loro lavoro) senza suggerire alla nostra mente tuo quanto il loro significato, e spesso, anzi, suggerendone una parte molto piccola o non suggerendone nessuna affao, non c’è da maravigliarsi se, col tempo, le parole usate in questo modo arrivino al punto di non essere più capaci di suggerire nessun’altra delle idee ad esse appropriate, tranne quelle con cui l’associazione è più immediata e più forte o è stata tenuta viva più a lungo dai casi della vita, mentre il resto è

andato perduto del tuo, a meno e la mente non abbia mantenuto in vita l’associazione soffermandosi spesso e consapevolmente su di esse. Naturalmente, le parole ritengono una parte molto maggiore del loro significato per le persone dotate di immaginazione aiva, e abitualmente si rappresentano le cose in concreto in tui quei deagli e appartengono loro nel mondo reale. Per le menti fae in un modo diverso, il solo antidoto a questa corruzione della lingua è la predicazione. L’abito di predicare del nome tue le proprietà e il nome connotava originariamente mantiene viva l’associazione tra il nome e queste proprietà. Ma peré il nome possa mantenere tale associazione, è necessario e a loro volta i predicati ritengano la loro associazione con le proprietà e connotano separatamente. Infai, se dovesse andar perduto lo stesso significato delle proposizioni, le proposizioni non potrebbero mantener vivo il significato delle parole. E non c’è nulla di più comune del trovare e le proposizioni vengono ripetute meccanicamente, vengono ritenute meccanicamente nella memoria, e e alla loro verità si assente senza il minimo dubbio e si presta loro fede ane quando non trasmeono alla mente nessun significato distinto e quando il fao e la legge di natura esprimeva originariamente si è perso di vista ed è stato praticamente trascurato, proprio come se non se ne fosse mai sentito parlare. In quegli argomenti e sono nel medesimo tempo familiari e complicati, e specialmente in quegli argomenti e sono familiari e complicati in grado così alto come gli argomenti sociali e morali, è dato osservare molto frequentemente quante proposizioni importanti vengano credute e quante vengano ripetute per abitudine, senza e si possa dare nessuna ragione, e senza e in pratica si renda manifesto alcun senso, della verità e comunicano. Per questa ragione, spesso le massime tradizionali della vecia esperienza, bené vengano raramente messe in dubbio, hanno un effeo così ridoo sulla condoa della vita: peré la maggior parte delle persone non ne sentono mai realmente il significato fin quando non glie lo faccia sentire la loro esperienza personale. E per questa ragione, ane, molte dorine della religione, dell’etica e persino della politica, così piene di significato e di realtà per i neofiti, dopo e l’associazione di quel significato con le formule verbali non sia più mantenuto in vita dalle controversie e hanno accompagnato la loro prima introduzione, hanno manifestato la tendenza a degenerare rapidamente in dogmi inerti; tendenza e tui gli

sforzi dell’educazione, espressamente e ingegnosamente direa a mantenerne vivo il significato, sono a mala pena sufficienti a contrastare. Considerato, dunque, e in generazioni differenti la mente umana si occupa di cose differenti, e in una certa età è indoa dalle circostanze a prestare un’aenzione maggiore a una certa proprietà di una cosa, in una cert’altra età è indoa a prestarla a un’altra proprietà, è naturale e inevitabile e in ogni età una parte della nostra conoscenza, sia di quella registrata, sia di quella trasmessaci dalla tradizione, non essendoci continuamente suggerita dai propositi e dalle ricere e in quel tempo assorbivano l’umanità, debba, per così dire, cadere in letargo e svanire dalla memoria. Correrebbe il pericolo di andar perduta del tuo se non rimanessero le proposizioni e le formule, risultati dell’esperienza passata: magari soo forma di parole, ma di parole e una volta recavano realmente con sé un significato e e perciò dovrebbero recarlo con sé ane al giorno d’oggi. Bené sia caduto in letargo, questo significato può essere rintracciato storicamente: e, quando gli venga suggerito, gli intellei forniti delle doti necessarie possono riconoscere e è ancora dato di fao, ossia verità. Fintanto e rimangono le formule, il significato può rivivere in qualsiasi momento; e come, da un lato, le formule perdono progressivamente il significato e s’intendeva dovessero comunicare, così, dall’altro, quando questa dimenticanza ha raggiunto il suo apice e ha cominciato a produrre conseguenze ovvie, vengono alla ribalta menti e dalla contemplazione delle formule riscoprono la verità e era contenuta in esse, quando verità era, e l’annunciano di nuovo agli uomini non come una scoperta, ma come il significato vero di quello e gli era stato insegnato a credere e e ancora diiarano di credere. Dunque, le verità spirituali e, ane quando non siano verità, le dorine dello spirito dotate di una quale significanza, sono in perpetua oscillazione. Il loro significato è quasi sempre sul punto di essere perduto o di essere riscoperto. Chiunque si sia dedicato alla storia delle convinzioni più profonde degli uomini — delle opinioni e regolano (o secondo loro dovrebbero regolare) in modo più particolare la condoa generale della loro vita — sa bene e, ane quando riconoscano a parole le medesime dorine, in periodi differenti gli uomini aribuiscono ad esse una quantità ora maggiore ora minore, e persino una specie differente, di significato. Nella loro accezione originaria le parole connotavano, e le proposizioni esprimevano, una complicata mescolanza di fai esteriori e di sentimenti

interni; e in generazioni differenti, la mente degli uomini in generale presta un’aenzione più particolare a questa e non a quella parte di tale mescolanza. In ciascuna generazione, alla mente degli uomini comuni viene suggerita soltanto quella porzione di significato di cui quella generazione trova il correlato nella sua esperienza di ogni giorno. Ma le parole e le proposizioni sono lì, pronte a suggerire il resto di quel significato a ogni persona dotata della debita preparazione. Di menti debitamente preparate se ne trovano quasi sempre, e il significato perduto e esse riportano in vita si fa di nuovo strada gradatamente, fino a raggiungere la mente del volgo. Tuavia, l’arrivo di questa salutare reazione può essere ritardato in maniera tu’altro e indifferente dalle concezioni superficiali e dall’incauto modo di procedere dei logici puri. Accade talvolta e verso la fine della parabola discendente, quando le parole hanno perso parte della loro significanza e tuavia non hanno ancora cominciato a riacquistarla, facciano la loro comparsa persone la cui idea dominante e favorita è l’importanza delle concezioni iare e dei pensieri precisi, e perciò la necessità di un linguaggio definito. Esaminando le vecie formule, queste persone si rendono facilmente conto e in esse le parole sono usate senza significato; e se non appartengono a quel genere di persone e sono capaci di riscoprirne la significazione perduta, è abbastanza naturale e lascino da parte la formula e definiscano il nome senza fare alcun riferimento a tale significazione. Così facendo, incatenano il nome a quello e esso connota nell’uso comune, proprio nel momento in cui il nome reca con sé la quantità minima di significato, e inaugurano la prassi dell’impiegarlo, coerentemente e uniformemente, secondo quella connotazione. In questo modo, la parola acquista un’ampiezza di denotazione e va ben al di là di quella e aveva prima: viene estesa a molte cose alle quali in precedenza veniva rifiutata, apparentemente senza nessuna ragione. Delle proposizioni in cui era usata prima, quelle e erano vere in virtù della parte dimenticata del suo significato ora, grazie alla luce più iara e la definizione diffonde, vengono considerate non vere in virtù della definizione; la quale definizione, però, è l’espressione riconosciuta e sufficientemente correa di tuo quello di cui ci rendiamo conto e è nella mente di iunque usi il termine al giorno d’oggi. Di conseguenza, le antie formule vengono traate come pregiudizi e, a differenza di quanto si faceva prima, alla gente non s’insegna più a comprenderle, bené si continui a insegnargli a credere e in esse c’è verità. Non stanno più nella mente della generalità degli uomini, circondate

dal rispeo e pronte a suggerire il loro significato originario in qualsiasi momento. In queste circostanze le verità e esse contengono, quali e siano, non solo vengono riscoperte molto più lentamente, ma, quando siano state riscoperte, il pregiudizio con cui si guarda alle novità, invece di stare dalla loro parte, milita, almeno in piccola misura, contro di esse. Un esempio può rendere più comprensibili queste osservazioni. In tui i tempi, tranne nelle epoe in cui la speculazione morale è stata messa a tacere dalla violenza esercitata dall’esterno, o in cui i sentimenti e la ispirano continuano a essere soddisfai dalle dorine tradizionali di una fede ormai ben consolidata, uno degli argomenti e hanno maggiormente tenuto impegnato l’intelleo delle persone dedite alla speculazione, è la ricerca: Che cos’è la virtù? O: Che cos’è un caraere virtuoso? Tra le differenti teorie sull’argomento e sono sorte in tempi diversi, e hanno oenuto credito parziale — teorie ciascuna delle quali ha riflesso come nello specio più terso l’immagine esplicita dell’età e le ha dato origine — ce n’è una seconda cui la virtù consiste in un calcolo correo dei nostri interessi personali, sia di quelli e riguardano soltanto questo mondo, sia di quelli e riguardano ane l’altro mondo. Naturalmente, peré questa teoria fosse plausibile, era necessario e le sole azioni portatrici di bene e la gente in generale era abituata a vedere, e perciò a lodare, fossero — o almeno si potesse pensare e erano, senza con questo contraddire fai ovvi — il risultato di una prudente considerazione del proprio interesse personale. Cosicé, nella sua accezione comune, la parola non connotava, in realtà, nulla di più di quanto non fosse stato enunciato nella definizione. Supponiamo ora e i partigiani di questa teoria avessero escogitato un modo per introdurre un uso coerente e costante del termine, secondo questa definizione. Supponiamo e avessero seriamente tentato di bandire dall’uso linguistico la parola «disinteresse», e e il tentativo gli fosse riuscito; e supponiamo e fossero ane riusciti a far cadere in disuso tue le espressioni e bollavano l’egoismo come cosa odiosa o e meevano in luce favorevole il sacrificio di sé, o e implicavano e la generosità e la gentilezza sono cose completamente diverse dal beneficare il prossimo allo scopo di oenere a nostra volta un vantaggio personale maggiore. C’è forse bisogno di dire e quest’abrogazione delle vecie formule, faa allo scopo di mantenere iare le idee e coerente il pensiero, sarebbe stata estremamente dannosa? E intanto, la stessa incoerenza in cui li avrebbe fai cadere la coesistenza delle formule con le opinioni filosofie e

sembravano condannare queste stesse formule come assurdità, avrebbe stimolato gli uomini a riprendere in esame l’argomento: e così, le stesse dorine e avevano avuto origine dall’oblìo in cui era caduta una parte della verità, sarebbero diventati strumenti indirei, ma potenti, della rinascita di questa stessa verità. Espressa in questi termini, la dorina della scuola di Coleridge2, secondo cui la lingua di un popolo di antica cultura è un sacro deposito, è la proprietà di tui i tempi e nessun’età dovrebbe ritenersi in dirio di alterare, sconfina, a dire il vero, con la stravaganza. Ma è fondata su di una verità spesso trascurata da quella classe di logici i quali ritengono e il possesso di un significato iaro sia più prezioso del possesso di un significato comprensivo e e, pur rendendosi conto e ogni età aggiunge qualcosa alle verità e le sono state tramandate dai suoi predecessori, non riescono a vedere e sta costantemente avendo luogo un processo contrario, e consiste nella perdita di verità già possedute: processo per contrastare il quale è necessario esercitare la vigilanza più assidua. La lingua è la depositaria del corpo di esperienze, alla cui accumulazione hanno dato il loro contributo tue le età precedenti, e e costituisce il retaggio di tue le epoe ancora a venire. Non abbiamo nessun dirio di impedire a noi stessi di trasmeere ai nostri posteri una porzione di quest’eredità ancor maggiore di quella di cui noi stessi siamo stati in grado di approfiare. Per quanto capaci possiamo essere di migliorare le conclusioni raggiunte dai nostri padri, dovremo star bene aenti a non lasciare e qualcuna delle loro premesse ci sfugga inavvertitamente di tra le dita. Può darsi e sia bene alterare il significato di una parola, ma è male lasciare e una qualsiasi parte di questo significato vada perduta. Da iunque ceri di introdurre un uso più correo di un termine con il quale sono connesse associazioni importanti si dovrebbe esigere il possesso di una conoscenza direa e accurata della storia di quella particolare parola e delle opinioni e essa è servita ad esprimere nelle differenti tappe del suo cammino. Per avere le qualifie necessarie a definire il nome, dobbiamo conoscere tuo quello e si sia mai conosciuto delle proprietà della classe di oggei e sono, o e erano originariamente, denotati da quel nome. Peré, se gli diamo un significato secondo il quale diventi falsa una qualsiasi proposizione e in generale era stata ritenuta vera, è nostro preciso dovere essere sicuri di conoscere, e di aver preso in considerazione, tuo ciò e quelli e credevano la proposizione intendevano con essa.

a. Novum organum renovatum,

pp. 35-37. b. Novum organum renovatum, pp. 39-40. c. p. 217, ed. in quarto. d. «E, ex, extra, extraneus, étranger, stranger».

Un altro esempio di etimologia citato quale volta è la derivazione dell’inglese uncle [zio] dal latino avus. Sembra quasi impossibile e due parole portino impresso un numero minore dei segni esterni delle loro relazioni. Tuavia tra di esse non c’è e un passo: avus, avunculus, uncle. Così pilgrim [pellegrino], da ager, per agrum, peragrinus, peregrinus, pellegrino [in italiano nel testo], pilgrim. Il professor Bain dà alcuni esempi molto appropriati di queste transizioni di significato. «La parola damp significava originariamente umido, ma spesso questa proprietà è accompagnata dalla sensazione di freddo o di brivido, e perciò la parola suggerisce fortemente l’idea di freddo. esto non è tuo. Per continuare a considerare il significato e è stato sovraimposto alla parola: parliamo di damping a man’s ardor [raffreddare i bollenti spiriti di un uomo], metafora, questa, in cui l’unica circostanza presa in considerazione è il raffreddamento; e andiamo ancora avanti: per designare lo sportello di ferro e iude l’aperura di una stufa, lo iamiamo the damper, e qui il significato primitivo è stato lasciato completamente cadere. Analogamente, dry [secco], pur significando l’assenza di umidità, acqua o liquido, viene usato per designare l’acido solforico anidro, e pure non per questo cessa di essere una sostanza umida, o liquida». Così nelle espressioni dry sherry o dry champagne. «Originariamente street significava una strada selciata, con o senza case. Ora il suo significato è stato esteso alle strade, selciate o no, affiancate da case. Impertinent [non pertinente] significava inizialmente irrilevante, estraneo allo scopo, e di qui è arrivato a significare intrigante, importuno, ineducato, insolente». (Logic, II, 173, 174). e. pp. 226-27. f. Essays, p. 214. g. Ibidem, p. 215. 1. Riard Payne Knight (1750-1824), inglese, numismatico e studioso dell’antiità classica. Lasciò una copiosa raccolta di monete, sculture e gioielli antii. Fu autore di pareci scrii sull’arte e sulla leeratura dell’antica Grecia. Il libro cui si riferisce Mill è: An Analytical Inquiry into the Principles of Taste [Indagine analitica sui princìpi del gusto] (1805). 2. Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), il poeta inglese. Negli ultimi anni della sua vita si occupò ane di filosofia della religione, e divenne uno degli ispiratori del movimento di liberalizzazione del pensiero religioso inglese. Partito da un’adesione allo spinozismo, professò una crescente adesione a dorine di stampo neoplatonico, filtrate araverso la leura di Selling, a cui si ispirò largamente nei suoi scrii filosofici, talvolta arrivando persino a plagiarne le opere, sia per quanto riguarda la metafisica, sia ane per quanto riguarda le teorie estetie e cosmologie. Bené manino di vigore, di rigore e di originalità, i suoi scrii filosofici ebbero il merito di stimolare, in Inghilterra, studi e discussioni, accentrate intorno a quella e viene comunemente iamata la sua «scuola».

CAPITOLO V. STORIA NATURALE DELLE VARIAZIONI NEL SIGNIFICATO DEI TERMINI 1. Non è soltanto nel modo e è stato appena indicato (cioè, non è soltanto per il fao e gradualmente si presti un’aenzione sempre minore a una parte delle idee da esse comunicate) e le parole d’uso comune possono cambiare la loro connotazione. La verità è e la connotazione di tali parole varia continuamente: e questo c’era da aspearselo, dato il modo in cui le parole d’uso comune acquistano la loro connotazione. Un termine tecnico, inventato per gli scopi dell’arte o della scienza, ha fin dall’inizio la connotazione e gli è stato data da i lo ha inventato; ma un nome e è sulla bocca di tui prima ancora e qualcuno pensi di definirlo deriva la sua connotazione soltanto dalle circostanze e di solito vengono in mente quando lo si pronuncia. Naturalmente, tra queste circostanze occupano un posto preminente le proprietà comuni alle cose denotate dal nome, e se il linguaggio fosse regolato dalla convenzione piuosto e dall’abitudine e dal caso sarebbero le sole a occuparlo. Ma, oltre a queste proprietà comuni — e, se esistono, sono certamente presenti ogni volta e il nome viene impiegato — si può trovare casualmente qualsiasi altra circostanza, e la si può trovare così frequentemente e sarà poi associata col nome nel medesimo modo, e altreanto fortemente quanto le medesime proprietà comuni. A misura e questa associazione si forma, la gente rinuncia ad usare il nome nei casi in cui non esistono queste circostanze casuali. Piuosto e impiegare un’espressione e riiami un’idea e non vogliono suscitare, preferiscono usare quale altro nome, o il medesimo nome con quale aggiunta. La circostanza, e originariamente era una circostanza casuale, diventa così parte regolare della connotazione della parola. Proprio questa continua incorporazione, nella significazione permanente delle parole, di circostanze e originariamente erano accidentali è la causa del fao e ci sono così poi sinonimi esai. Ed è ane questo a far sì e, per generale riconoscimento, il significato lessicale di una parola diventi un esponente così imperfeo del significato vero e proprio di quella parola. Il significato assegnato dal dizionario è definito in modo elastico e poco neo,

e probabilmente comprende tuo quello e originariamente era necessario all’impiego correo del termine; con l’andar del tempo, tuavia, alle parole aderiscono tante associazioni collaterali, e iunque dovesse tentare di usarle senza nessun’altra guida e il dizionario, confonderebbe un migliaio di buone distinzioni e di soili sfumature di significato, di cui i dizionari non tengono conto; cosa questa e possiamo notare, nell’uso di una lingua, durante la conversazione o la corrispondenza con uno straniero e non ne sia completamente padrone. In questi casi la storia di una parola, e mostra le cause e ne determinano l’uso, è una guida, all’impiego della parola, migliore di quanto non lo sia una definizione; infai le definizioni non possono far altro e mostrare il significato della parola in quel momento particolare; o al massimo possono mostrare la serie dei suoi significati successivi, ma la storia della parola può rendere manifesta la legge, in virtù della quale si è prodoa la successione. Per esempio la parola Gentleman [gentiluomo] al cui correo impiego nessun dizionario potrebbe guidarci, originariamente non significava nient’altro e un uomo nato da un certo ceto. Da questo significato pervenne gradualmente a connotare tue quelle qualità o quelle circostanze accessorie e di solito si trovavano in possesso delle persone appartenenti a quel ceto. esta considerazione spiega immediatamente peré in una delle sue accezioni popolari la parola signifii iunque viva senza ricorrere al lavoro; in un’altra, iunque viva senza ricorrere al lavoro manuale; e peré nella sua significazione più elevata abbia in ogni età significato la condoa, il caraere, gli abiti e l’apparenza esterna e si trovano in iunque, secondo le idee dell’epoca, appartenga, o ci si può aspeare e appartenga, a un ceto di persone nate o educate in posizione sociale elevata. Accade continuamente e, date due parole i cui significati secondo il dizionario sono i medesimi o sono solo di poissimo differenti, l’una sia la parola da usare propriamente in un certo insieme di circostanze, l’altra quella da usare in un certo altro, senza e sia possibile mostrare come si sia originata l’abitudine di usarla in questo modo. Il fao accidentale e l’una delle parole, e non l’altra, sia stata usata in una particolare occasione o in un particolare circolo sociale sarà sufficiente a produrre un’associazione così forte tra la parola e una certa specie ristrea di circostanze, e gli uomini smeeranno di usarla in tui gli altri casi e queste circostanze speciali diventeranno parte della sua significazione. La marea dell’abitudine prima

trascina la parola sulla riva di un particolare significato, poi si ritira, e ce la lascia. A questo proposito, un esempio è dato dal notevole cambiamento e, almeno nella lingua inglese, ha avuto luogo nella significazione della parola loyalty [lealtà]. Originariamente questa parola significava in inglese (e ancora significa nella lingua da cui proviene) comportamento franco e aperto e fedeltà agli impegni; in questo senso la qualità e essa esprime faceva parte del caraere cavalleresco ideale. Io non sono sufficientemente versato nella storia del linguaggio delle corti, da essere in grado di dire per quale processo in Inghilterra il termine fu ristreo all’unico caso della fedeltà al trono. La distanza e separa un loyal chevalier da un suddito leale è certamente grande. Posso soltanto supporre e, in quale epoca, la parola fosse il termine favorito a corte per esprimere la fedeltà al giuramento di soomissione: a lungo andare, coloro e desideravano parlare di una qualsiasi specie diversa e, come probabilmente si riteneva, inferiore di fedeltà, non osavano impiegare un termine così pieno di dignità, o trovavano conveniente usarne quale altro allo scopo di evitare fraintendimenti. 2. Non sono infrequenti i casi in cui una circostanza, e a tua prima è stata incorporata casualmente nella connotazione di una parola e originariamente non aveva nessun riferimento ad essa, col tempo soppianta del tuo il significato originario e diventa, non semplicemente una parte della connotazione, ma la connotazione tua quanta. esto è esemplificato nella parola «pagano», paganus, e originariamente, come comporta la sua etimologia, era equivalente ad «abitante del villaggio», ad abitante, cioè, di un pagus, ossia di un villaggio. In un periodo particolare del propagarsi della Cristianità nell’Impero romano, gli aderenti alla vecia religione e gli abitanti dei villaggi, ossia i contadini, costituivano praticamente il medesimo corpo di individui peré gli abitanti delle cià erano stati i primi a convertirsi al Cristianesimo; come nei nostri giorni e in tui i tempi, la maggiore ricezza di aività e di relazioni sociali fa sì e i ciadini siano i primi a recepire le nuove opinioni e le nuove mode, mentre le vecie abitudini e i veci pregiudizi dimorano più a lungo tra gli abitanti delle campagne; per non menzionare il fao e le cià erano più immediatamente soo l’influenza direa del governo, e a quei tempi aveva abbracciato il Cristianesimo. In virtù di questa coincidenza casuale, la parola paganus portò con sé, e cominciò a suggerire in maniera sempre più

consistente, l’idea di adoratore delle antie divinità, finé, a lungo andare, suggerì quest’idea con tanta forza e, coloro e non desiderassero suggerire l’idea, evitarono d’usare la parola. Ma quando paganus arrivò a connotare l’idolatria, nell’impiego della parola fu ben presto trascurata quella medesima circostanza inessenziale, e si riferiva al fao del luogo di residenza. Poié raramente si presentavano occasioni di fare asserzioni separate sui pagani e vivevano in campagna, non c’era bisogno di una parola separata e li denotasse, e non soltanto «pagano» finì col significare ane idolatra, ma finì col significare soltanto idolatra, e nient’altro. Un caso ancor più familiare alla maggior parte dei leori è quello della parola villain o villein [villano]. Come tui sanno, nel Medio Evo questo termine aveva una connotazione tanto definita quanto una parola può avere, peré era la designazione legale appropriata di quelle persone e erano sooposte alle forme meno onerose del vincolo feudale. Il disdegno dell’aristocrazia militare semibarbara per questi suoi abbiei sooposti, fece sì e l’ao di meere una qualsiasi persona alla pari con le persone di questa classe diventasse un segno del massimo disprezzo; il medesimo disdegno li condusse ad aribuire a queste stesse persone ogni sorta di qualità odiose, qualità e indubbiamente, data la situazione degradante in cui erano costrei, spesso gli erano imputate non ingiustamente. este circostanze, combinandosi, fecero sì e al termine «villano» si associassero così fortemente idee di crimine e di colpa e l’applicazione dell’epiteto, ane a coloro cui apparteneva legalmente, divenne un affronto e si evitò di applicare il termine ogni qual volta non s’intendesse recare un’offesa. Da allora in poi la colpa diventò parte della connotazione, e ben presto diventò tua quanta la connotazione del termine; e ciò accadde quando gli uomini non ebbero più alcun motivo urgente per continuare a fare, nella loro lingua, una distinzione tra uomini spregevoli di stato servile e uomini spregevoli appartenenti a un altro ceto qualsiasi. esti esempi e altri esempi simili — in cui la significazione originaria di un termine è andata completamente perduta mentre un significato diverso e interamente distinto ha cominciato dapprima con l’innestarsi sul significato originario e poi ha finito col soppiantarlo — forniscono esempi del duplice movimento e ha luogo da sempre nel linguaggio; si traa di due movimenti contrari: uno di generalizzazione, in virtù del quale le parole vanno continuamente perdendo una parte della loro connotazione e assumono un significato più ristreo e un’accezione più generale; l’altro di

specializzazione, in virtù del quale altre parole, o magari ane queste stesse parole, vanno acquistando continuamente nuove connotazioni; vanno acquistando significati in più, peré il loro impiego è ristreo soltanto a una parte delle occasioni in cui prima potevano venire usate con proprietà. esto duplice movimento è sufficientemente importante nella storia naturale della lingua (storia naturale alla quale le modificazioni artificiali dovrebbero sempre riferirsi in una misura o nell’altra) da giustificare il fao e ci soffermiamo un po’ di più sulla natura del duplice fenomeno e sulle cause alle quali esso deve la propria esistenza. 3. Cominciamo con il movimento di generalizzazione. Potrebbe sembrare superfluo il soffermarci su quei mutamenti nel significato dei nomi e hanno luogo puramente e semplicemente peré i nomi vengono usati, senza conoscenza di causa, da persone e, non essendosi impadronite in modo proprio della connotazione istituzionale di una parola, l’applicano in un senso meno rigoroso e più ampio di quanto non le spei. Tuavia questa è una vera e propria fonte di alterazioni nella lingua: infai, quando una parola, per il fao di essere spesso impiegata in casi in cui una delle qualità e connota non esiste, non suggerisce più con certezza quella qualità, allora ane coloro e non fanno errori relativi al significato autentico della parola, preferiscono esprimere quel significato in quale altro modo e abbandonano la parola originaria al proprio destino. La parola squire [scudiero], usata per denotare un proprietario terriero, parson [parroco], usata per denotare, non già il reore della Parrocia, ma uomini di iesa in generale; artist [artista], usata per denotare soltanto un piore o uno scultore, son casi di questa specie. esti casi ci permeono di geare uno sguardo iaro e penetrante sul processo di degenerazione in cui incorsero le lingue nei periodi storici in cui la cultura leeraria era in declino; e ai giorni nostri corriamo il pericolo di sperimentare un simile danno a causa dell’estensione superficiale della medesima cultura. Tante persone e non hanno nulla e meriti il nome di «educazione» sono diventate scriori di professione, e si può quasi dire e la lingua scria è quasi tua nelle mani di persone e ignorano l’uso correo dello strumento, e lo rovinano semspirare] portava con sé in modo molto espressivo il suo signifino, espressioni trae dal volgare, e s’insinuano nel linguaggio nessuno sa come, vanno spogliando la lingua inglese di modi preziosi per l’espressione del pensiero. Per prendere un esempio e abbiamo soo gli oci: un tempo

il verbo transpire [trasparire] portava con sé in modo molto espressivo il suo significato correo, cioè: diventare noto araverso canali nascosti, esalare, per così dire, in pubblico, araverso pori invisibili come un vapore di gas e si libera. Ma ultimamente, per amore di finezza, ha cominciato ad affermarsi la pratica di impiegare questa parola come un puro e semplice sinonimo di «accadere»: «gli eventi e sono traspirati in Crimea», intendendo con ciò gli avvenimenti bellici. esto spregevole campione di caivo inglese si può già notare nei messaggi dei nobili e dei Viceré ed è iaro e non è lontano il tempo in cui nessuno capirà la parola, quando questa verrà usata nel suo senso autentico. In altri casi non è l’amore di finezza, ma la semplice mancanza di cultura a far sì e gli scriori impieghino le parole in sensi e sono ignoti all’inglese genuino. L’uso di aggravating [aggravante] per provoking [provocante], e al tempo della mia fanciullezza era un uso comune negli asili infantili, si è insinuato in quasi tui i giornali, e in molti libri, e quando la parola viene usata nel suo senso proprio — come quando gli scriori di dirio penale parlano di «circostanze aggravanti» e di «circostanze aenuanti» — è probabile e quello e intendono venga già frainteso. È un grosso errore pensare e queste corruzioni della lingua non reino danno. Coloro e loano con la difficoltà dell’esprimersi con iarezza e con precisione (e e sanno per esperienza quanto grande già essa sia) trovano e le loro risorse vengono continuamente diminuite da scriori illeerati, e s’impadroniscono dell’una o dell’altra forma di discorso, e una volta serviva a comunicare brevemente e concisamente un significato ben definito, e ne distorcono i propositi. Si stenta a credere quante sono le circonlocuzioni a cui lo scriore è costreo da un solo modo di dire, e è stato introdoo nell’uso popolare soltanto da poi anni: si traa di quel modo di usare la parola alone [solo] come un avverbio, peré only [soltanto] non è abbastanza raffinato per la retorica dell’ignoranza ambiziosa. Uno dirà: «A questo io non sono solo [alone] vincolato dall’onore, ma ane dalla legge», senza rendersi conto e quello e ha deo senza averne l’intenzione, è e lui non è il solo ad essere vincolato, ma e insieme con lui sono vincolate ane altre persone. Una volta, se uno diceva: «Io non sono solo [alone] responsabile di questo» si intendeva (e in inglese correo le sue parole significano questa sola cosa) e quel tizio non era la sola persona responsabile; ma se un’espressione del genere l’usassimo al giorno d’oggi, il leore confonderebbe questo e due altri significati: e

quel tizio è, non soltanto [not only] responsabile, ma è qualcosa di più e responsabile; e e è responsabile non soltanto per questa cosa, ma per qualcos’altro ancora. Verrà il tempo in cui l’Enone di Tennyson non potrà più dire I will not die alone [non morrò sola], peré altrimenti qualcuno potrebbe credere e voglia dire, non soltanto e morirà, ma e oltre a morire farà ancora qualcos’altro1. L’errore mariano e consiste nello scrivere predicate [predicare] in luogo di predict [predire] è tanto diffuso e ci sono ormai buone probabilità e renda inintelligibile uno dei termini più utili del vocabolario scientifico della logica. Il termine matematico e logico to eliminate [eliminare] sta subendo una distruzione simile. Tui coloro e hanno una conoscenza direa dell’uso proprio della parola o della sua etimologia, sanno e eliminare una cosa significa buarla fuori; ma quelli e non sanno nulla, né dell’uso della parola né della sua etimologia se non e si traa di una parola e sembra raffinata, la usano in un senso esaamente inverso: non per denotare il fao e si porta fuori qualcosa, ma per denotare il fao e lo si porta dentro. Parlano di «eliminare2 quale verità, o quale risultato utile, da una massa di particolari»a. Gli svarioni dei traduori risiano di provocare una simile deteriorazione permanente della lingua. Gli scriori di telegrammi e i corrispondenti esteri dei giornali hanno continuato per tanto tempo a tradurre il francese demander con to demand senza sospeare e demander significa soltanto iedere [mentre to demand significa esigere] e (ane quando il contesto dimostra e non s’intende nient’altro e iedere) i leori inglesi vanno gradualmente associando la parola inglese demand con il iedere puro e semplice, lasciando così la loro lingua priva di un termine e esprima un’esigenza, nel senso proprio della parola. Analogamente, transaction, parola francese per «compromesso», viene tradoa con la parola inglese transaction [transazione, contrao], mentre (cosa questa abbastanza curiosa) il cambiamento inverso sta avvenendo in Francia, dove in questi ultimi tempi per esprimere la medesima idea si è incominciato a usare la parola compromis. Continuando di questo passo, i due Paesi finiranno con lo scambiarsi le espressioni. Comunque, indipendentemente dalla generalizzazione dei nomi dovuta al loro caivo uso causato dall’ignoranza, esiste una tendenza nella medesima direzione, e è compatibile con una perfea conoscenza del loro significato,

e e sorge dal fao e il numero delle cose e conosciamo, e di cui sentiamo il desiderio di parlare, si moltiplica più rapidamente di quanto non si moltipliino i nomi delle cose stesse. Se si ecceuano gli argomenti per i quali è stata costruita una terminologia scientifica, terminologia con cui non si cimentano le persone prive di cultura scientifica, generalmente quando si tenta di immeere nell’uso un nome nuovo si incontrano grosse difficoltà; e indipendentemente da queste difficoltà è naturale e si preferisca dare a un oggeo nuovo un nome e almeno esprime la somiglianza tra questo oggeo e quale altro oggeo già noto: infai, la prima volta e prediiamo dell’oggeo un nome interamente nuovo non trasmeiamo nessun’informazione. In questo modo, spesso il nome d’una specie diventa il nome d’un genere; così, per esempio, è accaduto per «sale» e «olio». Originariamente la prima di queste parole denotava soltanto il cloruro di sodio e l’ultima, come indica la sua etimologia, soltanto l’olio d’oliva: ora però queste parole denotano classi grandi e ben differenziate di sostanze e somigliano alle sostanze suddee soltanto per alcune qualità, e denotano soltanto quelle qualità comuni, e non tue quante le proprietà e contraddistinguono l’olio d’oliva e il sale marino. Le parole «vetro» e «sapone» vengono usate dai imici moderni in maniera analoga, per denotare generi dei quali le sostanze iamate «vetro» e «sapone» sono singole specie. E accade spesso, come in questi casi, e oltre alla significazione più generale il termine mantenga la sua significazione specifica e diventi ambiguo: diventi cioè due nomi invece di uno solo. esti cambiamenti, in forza dei quali certe parole d’uso ordinario diventano sempre più generalizzate ed esprimono sempre di meno, hanno luogo, in misura ancor maggiore, con quelle parole e esprimono i complicati fenomeni della mente e della società. I grandi agenti di questa modificazione della lingua sono gli storici, i viaggiatori, e in generale coloro e parlano o scrivono di fenomeni sociali e morali con i quali, e dei quali, non hanno né familiarità né conoscenza direa. In questi argomenti il vocabolario di tui, tranne quello delle persone insolitamente istruite o insolitamente dedite al pensiero, è eminentemente povero. Posseggono un piccolo insieme di parole alle quali sono abituati e e impiegano per esprimere i fenomeni più eterogenei, peré non hanno mai analizzato i fai, cui queste parole corrispondono nella loro patria, abbastanza da associare a queste parole idee perfeamente definite. Per esempio, i primi conquistatori inglesi del Bengala portarono con sé la frase landed proprietor [proprietario

terriero] in un Paese in cui i dirii degli individui sulla terra erano estremamente differenti in grado e ane in natura da quelli riconosciuti in Inghilterra. Applicando il termine con tue le sue associazioni inglesi in uno stato di cose siffao, a uno e aveva soltanto un dirio limitato conferirono un dirio assoluto; a un altro, e non aveva un dirio assoluto, tolsero tui i dirii. Così spinsero intiere classi di popolazione alla rovina e alla disperazione, riempirono il Paese di banditi, crearono la sensazione e nulla fosse sicuro e, pur con le migliori intenzioni di questo mondo, produssero una disorganizzazione della società e non era stata provocata in quel Paese neppure dai più selvaggi dei suoi invasori barbarici. Tuavia è proprio l’uso fao da persone capaci di fraintendimenti così grossolani a determinare il significato del linguaggio; e le parole, e queste persone usano tanto malamente, crescono in generalità fin quando le persone istruite non sono obbligate ad arrendersi e a impiegare quelle parole (dopo averle liberate dall’imprecisione dando loro una connotazione definita) come termini generici, suddividendo i generi in specie. 4. Mentre da un lato il fao e le idee si moltipliino più rapidamente dei nomi crea una necessità perpetua di fare in modo e i medesimi nomi servano, sia pure in modo imperfeo, in un numero sempre maggiore di occasioni, dall’altro stiamo assistendo a un’operazione contraria, grazie alla quale, invece, i nomi vengono confinati a un numero sempre minore di occasioni, come se, per così dire, acquistassero un’aggiunta di connotazione da circostanze e originariamente non erano connesse con il loro significato, ma e a tale significato sono venute conneendosi per via di quale causa accidentale. Abbiamo visto più sopra, nelle parole pagan e villain, esempi notevoli della specializzazione del significato delle parole dovuta ad associazioni casuali, e così pure esempi della generalizzazione di quel significato in una nuova direzione, generalizzazione e spesso consegue a quella specializzazione. Specializzazioni simili hanno luogo frequentemente ane nella storia della nomenclatura scientifica. «Non è affao raro» — scrive il door Paris3 nella sua Pharmacologiab — «trovare e una parola, e a tua prima viene usata per esprimere caraeri generali, in séguito diventa il nome di una sostanza specifica in cui tali caraeri predominano; e vedremo e in questo modo è possibile spiegare alcune anomalie importanti della parola. Il termine “ἀρσενιϰόν”, da cui è derivata la parola “arsenico” era un antico epiteto e veniva applicato a quelle sostanze naturali e possedevano

proprietà forti ed acri; e quando si trovò e la qualità venefica dell’arsenico era piuosto potente, il termine fu applicato specialmente all’orpimento4, cioè alla forma in cui questo metallo5 si trovava più frequentemente. Così, il termine verbena (quasi herbena) denotava originariamente (come veniamo a sapere dai poeti) tue quelle erbe e erano ritenute sacre per il fao di essere impiegate nei sacrifici rituali; siccome però in queste occasioni si adoperava di solito una sola erba, la parola “verbena” finì con il denotare soltanto quella particolare erba, e con questo nome, cioè “verbena” o vervain, ci è stata trasmessa fino ai giorni nostri; anzi, fino a poco tempo addietro quest’erba godeva della reputazione medica e le conferiva la sua origine sacra: infai si portava appesa al collo, come un amuleto. Nella sua applicazione originaria, la parola «vetriolo «denotava un qualsiasi corpo cristallino dotato di un certo grado di trasparenza (vitrum); è praticamente superfluo osservare e oggi il termine è stato reso appropriato a una specie particolare; allo stesso modo, “corteccia”, e è un termine generale, viene applicato per esprimere un solo genere, e per antonomasia gli si prefigge l’articolo determinativo, come: “la corteccia [di ina]” La medesima considerazione vale per il termine “oppio”, e nel suo senso primitivo significava qualsiasi succo (ὀπὸς, succus), mentre ora denota soltanto una specie di succo, vale a dire il succo del papavero. Così ancora, elaterium era usato da Ippocrate per significare varie applicazioni interne, specialmente a scopo purgativo, di natura drastica e violenta (dalle parole ἐλαύνω, agito, moveo, stimulo) ma gli autori successivi lo applicarono esclusivamente per denotare la sostanza aiva e si ricava dal succo del cocomero selvatico. Ancora: originariamente la parola fecula doveva comprendere qualsiasi sostanza oenuta dal depositarsi spontaneo di un liquido (da faex, e sono i fondi, o il residuo, di ogni liquido); in séguito fu applicata all’amido, e si deposita in questa maniera agitando nell’acqua la farina di frumento; da ultimo è stata applicata a un particolare principio vegetale e, come l’amido, non è solubile in acqua fredda, mentre è completamente solubile nell’acqua bollente, con la quale forma una soluzione gelatinosa. esto significato della parola fecula ha provocato numerosi errori nella imica farmaceutica. Per esempio, si dice e l’elaterium è fecula, e nel senso originario della parola questa denominazione è appropriata, in quanto l’elaterium si ricava da un succo vegetale per deposito spontaneo; ma

nell’accezione limitata e moderna del termine, questa parola comunica un’idea erronea; infai non si traa del principio aivo del succo e si deposita in fecula, ma di un principio prossimo particolare, sui generis, al quale mi sono arrisiato di dare il nome di elatin. Per la medesima ragione, il significato della parola «estrao «è avvolto da molti dubbi e da molte oscurità, peré in senso generico la parola viene applicata a qualsiasi sostanza si oenga facendo evaporare una soluzione generale, e in senso specifico denota un principio prossimo particolare, e possiede certi caraeri grazie ai quali si distingue da qualsiasi altro corpo elementare». Così, un termine generico può sempre essere ristreo a denotare specie singole, o perfino individui, se la gente ha occasione di pensare a quell’individuo o a quella specie, o se ha occasione di parlarne, più spesso di quanto non pensi a qualsiasi altra cosa e è contenuta nel genere, o più spesso di quanto non ne parli. Così, con «bestiame» un mastro di posta intenderà «cavalli»; nel linguaggio dell’agricoltore «bestie» sta per vace e buoi, e per alcuni sportivi «uccelli» sta soltanto per le pernici. La legge della lingua e opera in questi esempi così banali è esaamente la stessa in conformità con la quale i termini «Θεòς», Deus e God furono ereditati dal politeismo e adoati dal Cristianesimo per esprimere il singolo oggeo d’adorazione. asi tua la terminologia della Chiesa cristiana è formata da parole ordinariamente usate in un’accezione molto più generale: ecclesia (assemblea) [iesa], bishop, episcopus (sovrintendente) [vescovo], priest, presbyteros (anziano) [prete], deacon, diaconus (amministratore) [diacono], sacrament (voto di fedeltà) [sacramento], evangelium (buona novella) [vangelo], e alcune parole come minister (ministro) [sacerdote] vengono ancora usate sia nel loro senso generale sia nel loro senso limitato. Sarebbe interessante seguire le tracce del processo in virtù del quale «autore» pervenne, nel suo senso più familiare, a significare lo scriore e ποιητής, o faore, il poeta. Gli esempi dell’incorporazione, nel significato di un termine, di circostanze connesse con quel termine in quale periodo particolare — come nel caso di «pagano» — si potrebbero facilmente moltiplicare. Physician (φυσιϰòς, o naturalista) diventò in Inghilterra sinonimo di «guaritore di malaie», peré, fino a un periodo relativamente tardo, coloro e praticavano la medicina erano i soli naturalisti. Clerk, cioè a dire clericus

o studioso, finì col significare un ecclesiastico, peré per molti secoli i soli studiosi erano ecclesiastici. Comunque, fra tue le idee, quelle e possono aderire più facilmente, per associazione, a una cosa con la quale sono state connesse ane una volta sola, per vicinanza, sono le idee dei nostri piaceri o dei nostri dolori, o delle cose e abitualmente riteniamo fonti dei nostri piaceri o dei nostri dolori. Pertanto, l’aggiunta di connotazione e una parola assume più presto e più prontamente, è la connotazione di piacere e di dolore nelle varie specie o nelle varie gradazioni del piacere e del dolore: la connotazione, cioè, secondo cui una certa cosa è buona o caiva, desiderabile o indesiderabile, oggeo di odio o di paura, di disprezzo, di ammirazione, di speranza o d’amore. Di conseguenza, è praticamente impossibile trovare ane un solo nome, e esprima un fao morale o sociale e sia destinato a suscitare forti affezioni di natura favorevole od ostile, e non porti con sé in modo neo e irresistibile una connotazione di queste forti affezioni o almeno di approvazione o di censura; a tal punto e impiegare quei nomi insieme con altri nomi, e esprimono sentimenti contrari, produrrebbe l’effeo di un paradosso, o addiriura di una contraddizione in termini. La perniciosa influenza e una connotazione così acquisita esercita sugli abiti di pensiero predominanti, specialmente in morale e in politica, è stata molto bene indicata in diverse occasioni da Bentham. Essa dà origine alla fallacia dei «nomi e contengono una petizione di principio». La stessa proprietà, a proposito della quale indaghiamo se una certa cosa la possegga o non la possegga, è associata al nome della cosa fino a far parte del suo significato; e vi è associata al punto e ci basta pronunciare il nome per assumere quello e invece dovevamo stabilire: è questa una delle fonti più frequenti di proposizioni apparentemente autoevidenti. Senza star lì ad accrescere ulteriormente il numero degli esempi per illustrare i cambiamenti e l’uso provoca continuamente nella significazione dei termini, aggiungerò, come regola pratica, la seguente: siccome non è in grado di evitare tali trasformazioni, il logico vi si sooponga di buona grazia, quando sono compiute in modo irrevocabile; e, se una definizione è necessaria, definisca una parola secondo il suo significato nuovo, mantenendo il significato precedente come una significazione secondaria, se la cosa è indispensabile e se c’è una quale probabilità di riuscire a preservare quel primo significato, sia nel linguaggio della filosofia sia nell’uso comune. I logici non possono fare il significato di

nessun termine, se non dei termini della loro scienza; il significato di tue le altre parole è fao dalla razza umana, nella sua totalità. Ma i logici possono accertare con iarezza e cosa, con il suo lavorìo soerraneo, abbia guidato la mente della generalità degli uomini in modo da far loro impiegare un nome particolare; e, quando l’abbiamo trovato, possono rivestirlo di termini così distinti e permanenti e l’umanità veda con iarezza il significato e prima percepiva soltanto confusamente, e non permea e in séguito questo significato venga dimenticato o frainteso. a.

Ane se è probabile e dalla manìa moderna di scrivere sanatory [aggeivo: sanatorio, e risana] in luogo di sanitary [sanitario] non derivino conseguenze così perniciose come quelle e hanno luogo in questi casi, vale la pena di riiamare l’aenzione su questa manìa, come su un esempio affascinante di pedanteria innestata sull’ignoranza. elli e si assumono il compito di correggere in questo modo l’ortografia degli autori inglesi classici, non si rendono conto e il significato di sanatory si riferirebbe — se nella nostra lingua ci fosse una parola del genere — non già alla conservazione della salute, ma alla cura delle malaie. b. «Historical Introduction» [Introduzione storica], vol. I, pp. 67-68. 2. Nel senso algebrico di «meere in evidenza», portando fuori parentesi. 1. Dato e non è caivo italiano usare l’aggeivo in funzione di avverbio, una traduzione di questi esempi e ne renda fedelmente il senso è impossibile. Abbiamo cercato di rendere perspicuo il significato delle critie di Mill affiancando il termine inglese alla traduzione italiana. 3. John Ayrton Paris (1785-1856), medico inglese, autore di pareci traati di medicina, fisiologia, imica e medicina sportiva. La sua opera maggiore è la Pharmacologia, pubblicata nel 1812, e ebbe grandissima fortuna nel XIX secolo. 4. Solfuro d’arsenico. 5. In realtà l’arsenico è un metalloide.

CAPITOLO VI. RICONSIDERAZIONE DEI PRINCÌPI DI UNA LINGUA FILOSOFICA 1. Finora abbiamo preso in considerazione soltanto uno dei requisiti di una lingua adaa alla ricerca della verità: e ciascuno dei termini di questa lingua trasmea un significato ben determinato e inequivocabile. Come abbiamo già osservato, però, ci sono altri requisiti: alcuni di essi hanno un’importanza soltanto secondaria, ma uno di essi è fondamentale, e cede appena appena in importanza, se mai cede, soltanto alla qualità e abbiamo già discusso così diffusamente. Peré la lingua possa adaarsi ai propri scopi, non soltanto ogni parola deve esprimere perfeamente il proprio significato, ma non dev’esserci nessun significato importante e non abbia la propria parola. Tuo quello a cui abbiamo occasione di pensare spesso, e per scopi scientifici, deve avere un nome appropriato. esto requisito della lingua filosofica può essere considerato soo tre aspei differenti, peré tre sono le condizioni separate in esso implicite. 2. In primo luogo, devono esserci tui quei nomi e sono necessari per registrare le osservazioni singole, di modo e le parole della registrazione mostrino esaamente qual è il fao e è stato osservato. In altri termini, dev’esserci una terminologia descriiva accurata. Siccome le sole cose e possiamo osservare direamente sono le nostre sensazioni o gli altri sentimenti, una lingua descriiva completa dovrebbe essere un linguaggio in cui ci sia un nome per ogni varietà di sensazioni o di sentimenti elementari. Se possediamo un nome per ciascuno dei sentimenti elementari e le compongono, le combinazioni di sensazioni o di sentimenti possono sempre essere descrie; ma la brevità e la iarezza della descrizione (e spesso la iarezza dipende in grandissima misura dalla brevità) risultano molto facilitate se i nomi distinti si danno, non soltanto ai singoli elementi, ma ane a tue le combinazioni e ricorrono con maggior frequenza. A questo punto non posso far altro e citare qualcuna delle eccellenti osservazioni e il door Whewell ha fao su quest’importante branca del nostro argomentoa.

«Inizialmente il significato dei termini tecnici descriivi può essere fissato soltanto per convenzione, e può essere reso intelligibile soltanto presentando ai sensi quello e i termini devono significare. La conoscenza di un colore per mezzo del suo nome può essere insegnata soltanto araverso l’ocio. Nessuna descrizione può trasmeere, a i ci ascolta, e cosa intendiamo con “verde-mela” o “grigio-Francia”. Si potrebbe forse supporre e nel primo esempio il termine “mela”, e si riferisce a un oggeo così familiare, sia sufficiente a suggerire il colore e intendiamo. Ma si può facilmente vedere e questo non è vero. Infai le mele hanno molte e diverse sfumature di colore verde, e soltanto in séguito a una scelta convenzionale possiamo fare in modo e il termine sia appropriato a una sfumatura speciale. ando sia stato reso appropriato, il termine si riferisce alla sensazione e non alle parti del termine, peré queste entrano nel composto semplicemente come un aiuto per la memoria, sia e suggeriscano una connessione naturale, come “verde-mela” sia e suggeriscano una connessione casuale, come in “grigio-Francia”. Allo scopo di oenere il debito vantaggio dai termini tecnici di questa specie, li si deve associare immediatamente con la percezione cui appartengono, e non conneerli ad essa per mezzo di usi linguistici comuni non ben definiti. La memoria deve conservare la sensazione; e si deve poter comprendere il termine tecnico tanto direamente quanto, e più distintamente di quanto, si intende la parola più familiare. ando troviamo termini come “bianco-stagno” o “marrone-princisbecco” il colore metallico denotato in questo modo deve risvegliarsi nella nostra memoria senza ritardi e senza bisogno e si vada a cercarlo. esto, e è estremamente importante ricordare a proposito delle proprietà più semplici dei corpi quali colore e forma, è non meno vero di nozioni più complesse. In tui i casi il termine è ancorato convenzionalmente a un significato particolare, e allo scopo di poter usare la parola lo studioso deve avere una completa familiarità con la convenzione così da non aver bisogno di formular congeure a partire dalla parola medesima. Tali congeure sarebbero sempre malsicure e spesso erronee. Così, il termine “papilionacea”, usato per denotare un fiore, si impiega per indicare, non soltanto una somiglianza con una farfalla, ma una somiglianza e ha la sua origine nel fao e i cinque petali hanno una forma e una disposizione del tuo particolari; e ane se la somiglianza fosse molto più forte di quanto non sia in tali casi, tuavia, se fosse prodoa in modo

diverso — come, per esempio, soltanto da un petalo o due invece e da un “vessillo”, due “ali” e una “carena” consistente di due parti più o meno unite in una sola — non saremmo più autorizzati a parlare di quel fiore come di un fiore “papilionaceo”. Comunque, quando la cosa nominata è una combinazione di sensazioni semplici, come in quest’ultimo caso, per imparare il significato della parola non è necessario e lo studioso faccia riferimento alle sensazioni medesime; il significato può essergli comunicato per mezzo di altre parole; in breve: i termini possono essere definiti. Ma i nomi delle sensazioni elementari o dei sentimenti elementari d’una qualsiasi specie non possono essere definiti; e per rendere nota la loro significazione non c’è altra maniera se non quella di far sì e il discente abbia esperienza della sensazione, o di farlo risalire, ricorrendo a quale segno noto, al ricordo di esperienze simili. indi soltanto le impressioni esercitate sui sensi esterni, o quei sentimenti interni e sono connessi in maniera molto ovvia e uniforme con gli oggei esterni, possono veramente essere espressi da una lingua descriiva esaa. Sarebbe cosa vana il pensar di nominare le innumerevoli varietà di sensazioni e sorgono, per esempio, da malaie o da stati fisiologici tui particolari; infai, siccome nessuno è in grado di giudicare se la sensazione e provo io sia la stessa e prova l’altro, il nome non può avere, per me e per l’altro, una vera e propria comunanza di significato. Lo stesso si può dire, in certa misura, dei sentimenti puramente mentali. Ma è praticamente impossibile superare la perfezione a cui questa qualità di una lingua filosofica è stata spinta in alcune delle scienze e hanno da fare con gli oggei puramente esterni. «La formazioneb di una lingua descriiva esaa ed estesa per la botanica è stata portata a termine con tanta abilità, e così felicemente, e, prima e la si costruisse davvero, nessuno si sarebbe mai sognato e si potesse oenere. È stato dato un nome a ogni parte delle piante, e la forma di ogni parte, ane della più minuta, ha ricevuto una grande quantità di termini descriivi appropriati per mezzo dei quali il botanico può trasmeere e ricevere conoscenze riguardanti la forma e la struura delle piante con un’esaezza eguale a quella e riuscirebbe a realizzare se gli fosse presentata, ingrandita molte volte, ciascuna minima parte della pianta. est’acquisizione faceva parte della riforma di Linneo… “Sembra” — dice De Candolle1 — “e Tournefort2 sia stato il primo a essersi effeivamente reso conto di quanto sia utile fissare il senso dei termini in modo da

impiegare sempre la medesima parola nel medesimo senso, e da esprimere sempre la medesima idea con le medesime parole; ma fu Linneo e realmente creò e rese stabile questa lingua della botanica; e questo è il suo maggior titolo di gloria, peré, fissando in questo modo il linguaggio, ha diffuso iarezza e precisione su tue le parti di questa scienza”. i non è necessario dare un resoconto particolareggiato dei termini della botanica. I termini fondamentali sono stati introdoi gradatamente, man mano e si esaminavano con maggior accuratezza e più minutamente le varie parti delle piante. Così si rivelò necessario distinguere il fiore in calice, corolla, stami, pistilli; le sezioni della corolla furono iamate “petali” da Columna3, quelle del calice furono iamate “sepali” da Neer4. ale volta si escogitarono termini di maggiore generalità, come “perianzio”, e comprende il calice e la corolla, sia quando è presente uno solo di questi elementi, sia quando questi elementi sono presenti tui e due; “pericarpo”, per la parte e raciude il seme, di qualunque genere esso sia: fruo, nòcciolo, baccello, ecc. E si può facilmente immaginare e per definizione e per combinazione i termini descriivi possano diventare molto numerosi e molto distinti. Così, le foglie possono essere iamate “pennatofide”, “pennatopartite”, “pennatosee”, “pennatolobate”, “palmatefide”, “palmatepartite”, e via enumerando: e ciascuna di queste parole designa combinazioni differenti dei modi e del numero delle divisioni della foglia con le divisioni del suo perimetro. In certi casi, nella definizione vengono introdoe relazioni numerie arbitrarie: così una foglia si iama “bilobata” quando è divisa in due parti da una fessura, ma se la fessura arriva fino alla metà della lunghezza della foglia, questa è bifida. Se la fessura arriva molto vicina alla base della foglia, questa è bipartita; se arriva fino alla base, la foglia è bisea. Così pure, il baccello di una pianta crucifera è una siliqua, ma se è più corto di quanto non sia largo, allora è una silicula. Stabiliti questi termini, la forma della foglia, o fronda, estremamente complessa, di una felce (Hymenophyllum Wilson) è resa esaamente dalla frase e segue: “fronde rigide, pennate, pinne ricurve subunilaterali pennatofide, segmenti lineari indivisi o bifidi, spinuloserrati”. Come la forma, sono resi con eguale precisione ane altri caraeri: i colori per mezzo di una classificazione in scala dei colori… esta fu stabilita, con estrema precisione, da Werner5. La sua scala dei colori è ancora il termine di riferimento più comune tra i naturalisti. Werner introdusse ane una terminologia più esaa riguardante altri caraeri più importanti

della mineralogia, come la lucentezza e la durezza. Ma Mohs6 la migliorò fornendo una scala numerica della durezza in cui il talco ha il valore 1, il gesso 2, la calcite 3, e così via… La misura numerica di proprietà quali la gravità specifica viene data immediatamente insieme con la definizione di quelle proprietà; altre proprietà, quali la forma dei cristalli, riiedono un armamentario considerevole di calcoli matematici e di ragionamenti e meano in evidenza le loro relazioni e le loro gradazioni». 3. Per quanto riguarda la terminologia descriiva, ossia la lingua necessaria per registrare le nostre osservazioni di casi singoli, questo può bastare. Ma quando dalla registrazione passiamo all’induzione o, per meglio dire, al confronto tra i casi osservati — passo, questo, e è il preliminare dell’induzione — abbiamo ancora bisogno di un’altra, e diversa, specie di nomi generali. Tue le volte e per gli scopi dell’induzione riteniamo necessario introdurre quella e per usare la terminologia del door Whewell possiamo iamare una nuova concezione generale — cioè tue le volte e il confronto tra un insieme di fenomeni ci conduce a riconoscere e in essi si trova quale circostanza comune (circostanza e, per il fao e la nostra aenzione non è stata riiamata su di essa in occasioni precedenti è per noi un fenomeno nuovo) — è importante e questa nuova concezione o questo nuovo risultato dell’astrazione abbiano un nome appropriato, specialmente se la circostanza è tale da condurre a molte conseguenze, oppure è tale e sia facile rintracciarla ane in altre classi di fenomeni. Indubbiamente, nella maggior parte dei casi di questo genere, il significato potrebbe essere trasmesso meendo insieme parecie parole già in uso. Ma quando di una certa cosa si deve parlare spesso, le ragioni per parlarne nel modo più conciso possibile vanno ben oltre il puro e semplice risparmio di tempo e di spazio. ale oscurità calerebbe sulle dimostrazioni geometrie se tue le volte e si deve usare la parola «cerio» si inserisse, al suo posto, la definizione di un cerio! Nella matematica e nelle sue applicazioni, dove la natura dei processi esige e l’aenzione sia fortemente concentrata, ma non riiede e sia largamente diffusa, l’importanza della concentrazione, ane nelle espressioni, si è sempre faa debitamente sentire; e non appena trova e avrà spesso occasione di parlare di due cose insieme, il matematico crea subito un termine per esprimere la loro combinazione; proprio come, nelle

sue operazioni algebrie, sostituisce,

ecc., le

singole leere P, Q, o S, non soltanto allo scopo di abbreviare le proprie espressioni simbolie, ma ane per semplificare la parte puramente intelleuale delle proprie operazioni meendo la mente in grado di concentrare la propria aenzione esclusivamente sulle relazioni tra la quantità S e le altre quantità e entrano nell’equazione, senza lasciarsi distrarre dal fao di dover pensare (cosa e sarebbe del tuo superflua) alle parti di cui S è, a sua volta, composta. Ma oltre e per favorire la perspicuità, c’è un’altra ragione per dare un nome breve e compao a ciascuno dei risultati più considerevoli dell’astrazione, oenuti nel corso dei nostri fenomeni intelleuali. Dando loro un nome, fissiamo su di essi la nostra aenzione e li manteniamo con maggiore costanza davanti alla mente; i nomi si ricordano e, nella misura in cui vengono ricordati, suggeriscono la propria definizione. Invece, se il significato fosse stato espresso, non per mezzo di nomi specifici e caraeristici, ma meendo insieme un certo numero di altri nomi, quella particolare combinazione di parole e sono già nell’uso comune per altri scopi non avrebbe in sé nulla e la faccia ricordare. Se vogliamo e una particolare combinazione d’idee resti nel nostro spirito in modo permanente, nulla la ribadirà meglio di un nome designato specialmente ad esprimerla. Se i matematici fossero stati obbligati a parlare di «ciò a cui una quantità, aumentando o diminuendo, si approssima sempre più, cosicé la differenza diventa minore di qualsiasi quantità data pur senza diventare mai esaamente eguale a questa quantità», invece di esprimere tuo questo con la semplice frase «il limite di una quantità», probabilmente saremmo rimasti molto a lungo privi delle verità più importanti e sono state scoperte per mezzo delle relazioni tra le quantità delle varie specie e i loro limiti. Se, invece di parlare di impulso, fosse stato necessario dire: «il prodoo del numero di unità di velocità nella velocità per il numero di unità di massa nella massa», molte verità della dinamica e ora vengono apprese per mezzo di quest’idea complessa sarebbero probabilmente sfuggite alla nostra aenzione, peré non avremmo avuto i mezzi per riiamare la stessa idea con sufficiente prontezza e con sufficiente familiarità. E ane in materie meno estranee agli argomenti di discussione popolare, iunque desideri airare l’aenzione su quale distinzione nuova o poco familiare tra certe cose, non troverà strada più sicura di quella e consiste nell’inventare o

nello scegliere i nomi e meglio si adaano allo scopo specifico di meere in evidenza quella distinzione. Un intiero volume, dedicato alla spiegazione di quello e il suo autore intende con «civiltà» non sarebbe sufficiente a far nascere, della civiltà, una concezione così vivida come quella e fa nascere la singola espressione: la civiltà è cosa differente dalla cultura. La compaezza di questa breve designazione per qualità contrapposte è infai l’equivalente di una lunga discussione. Così, se vogliamo far rimanere definitivamente impressa nell’intelleo e nella memoria la distinzione tra le due concezioni del governo rappresentativo, il sistema più efficace è quello e consiste nel dire e delega non è rappresentanza. Nessun pensiero originale su argomenti di caraere psicologico o sociale riuscirebbe mai a farsi strada tra gli uomini, o ad assumere l’importanza e gli spea (neppure nella mente dei suoi inventori) se non fosse come iniodato e tenuto ben fermo da parole o da frasi scelte opportunamente. 4. Delle tre parti essenziali di una lingua filosofica ne abbiamo finora menzionate due: una terminologia adaa a descrivere con precisione i fai individuali osservati e un nome per ogni proprietà comune, e abbia una quale importanza o presenti un certo interesse, proprietà e cogliamo confrontando quei fai: compresi (in quanto termini concreti corrispondenti a quei termini astrai) nomi per le classi e costruiamo artificialmente in virtù di quelle proprietà; o almeno, tanti nomi quante sono le classi di cui abbiamo frequenti occasioni di predicare qualcosa. Ma c’è una sorta di classi, per riconoscere le quali non è necessario nessun processo così elaborato, peré ciascuna di esse è distinta dalle altre, non da quale proprietà singola la cui scoperta può dipendere da un difficile ao d’astrazione, ma dalle sue proprietà in generale. Voglio dire, le specie reali delle cose, nel senso e in questo traato è stato aribuito in modo speciale al termine «specie (o genere) reale». Si ricorderà e per specie reale intendiamo una di quelle classi e si distinguono da tue le altre non per una o per poe proprietà definite, ma per una moltitudine ignota di proprietà, la combinazione di proprietà sulla quale si basa la classe essendo un puro e semplice indice di un numero indefinito di altri aributi distintivi. La classe «cavallo» è una specie reale, peré le cose e concordano nel possesso dei caraeri in virtù dei quali riconosciamo un cavallo concordano, come sappiamo, in un gran numero di altre proprietà, e senza dubbio

concordano in un numero di proprietà molto maggiore di quanto non sappiamo. Ancora, «Animale» è un genere reale, peré nessuna definizione e possiamo dare del nome «animale» potrebbe esaurire le proprietà comuni a tui gli animali, o fornirci le premesse da cui sia possibile inferire il resto di quelle proprietà. Ma una combinazione di proprietà e non ci fornisca gl’indizi dell’esistenza di altre particolarità indipendenti non costituisce una specie reale. Pertanto, «Cavallo bianco» non è una specie reale, peré i cavalli e hanno in comune la bianezza non hanno in comune nient’altro se si ecceuano le qualità comuni a tui i cavalli, e quali e possano essere le cause o gli effei di quel particolare colore. In forza del principio secondo cui dovrebbe esserci un nome per tuo quello su cui abbiamo frequenti occasioni di far as serzioni, è evidente e dovrebbe esserci un nome per ogni specie e per ogni genere reale. Infai, siccome il significato di una specie reale è e gli individui e la compongono hanno in comune una moltitudine di proprietà, segue e la specie è un oggeo a cui si dovranno applicare molti predicati, se non con la conoscenza e ne abbiamo aualmente almeno con la conoscenza e potremo acquistarne in séguito. Il terzo elemento e compone una lingua filosofica è pertanto questo: dovrà esserci un nome per ogni specie e per ogni genere reale. In altre parole dev’esserci non soltanto una terminologia, ma ane una nomenclatura. La maggior parte degli autori impiegano le parole «nomenclatura» e «terminologia» in maniera piuosto indiscriminata; e, per quanto ne so, il door Whewell è l’unico ad aver aribuito significati differenti alle due parole. Comunque, siccome la distinzione tra esse è reale e importante, è probabile e l’esempio del door Whewell sarà seguito; e (come spesso accade quando tali innovazioni linguistie sono felici) troviamo e prima ancora e si sia messa in evidenza l’opportunità di differenziare questi due termini da un punto di vista filosofico, un vago senso di questa distinzione ha già influenzato il loro impiego nella pratica quotidiana. Chiunque direbbe e la riforma portata a termine da Lavoisier e da Guyton de Morveau7 nel linguaggio della imica è consistita nell’introduzione di una nuova nomenclatura, e non di una nuova terminologia. «Foglia lineare, lanceolata, ovale od oblunga, serrata, dentata o crenata», sono espressioni e formano parte della terminologia della botanica, mentre i nomiViola odorata e Ulex Europaeus appartengono alla sua nomenclatura.

Una nomenclatura può essere definita come la collezione dei nomi di tue le specie di cui traa una certa branca della conoscenza; o, più propriamente, dei nomi di tue le specie più basse, o infimae species: di quelle e possono bensì essere suddivise, ma non in specie, e e generalmente si accordano con quelle e nella storia naturale si iamano, semplicemente, specie. La scienza possiede due splendidi esempi di nomenclatura sistematica: quella delle piante e degli animali, creata da Linneo e dai suoi successori, e quella della imica, di cui siamo debitori al gruppo di illustri imici fioriti in Francia verso la fine del dicioesimo secolo8. In questi due dipartimenti della scienza, non soltanto ogni specie nota, o specie infima, ha un nome, ma quando si scoprono nuove specie infime gli si dànno subito nomi, in base a un principio uniforme. In altre scienze, aualmente la nomenclatura non viene costruita in base a un principio sistematico, sia peré le specie a cui si devono dar nomi non sono abbastanza numerose da riiederne uno (come accade, per esempio, in geometria) sia peré nessuno ha ancora suggerito un principio adao per tale sistema, come accade in mineralogia dove la mancanza di una nomenclatura costruita scientificamente è oggi una delle cause principali e ritardano il progresso di questa scienza. 5. A prima vista, sembra e una parola e reca impressa su di sé la propria appartenenza a una nomenclatura differisca dagli altri nomi concreti generali in questo: e il suo significato non risiede nella sua connotazione, vale a dire negli aributi implicati da essa, ma nella sua denotazione, vale a dire nel particolare gruppo di cose e è stata incaricata di designare. Sembra perciò e una parola di questo genere non possa essere spiegata per mezzo di una definizione ma debba essere faa conoscere in quale altro modo. A me, però, quest’opinione sembra erronea. Secondo me, le parole e appartengono a una nomenclatura differiscono da altre parole soprauo in questo: e oltre alla connotazione ordinaria ne hanno un’altra, tua loro particolare: oltre a connotare certi aributi, connotano ane il fao e questi aributi contraddistinguono una certa specie. Per esempio, il termine «perossido di ferro», e in virtù della sua forma appartiene alla nomenclatura sistematica della imica, porta impresso su di sé il fao di essere il nome di una specie tua particolare di sostanza. Inoltre, come il nome di qualsiasi altra classe, connota una certa porzione delle proprietà comuni a quella classe: in questo caso la proprietà di essere un composto del ferro e della più grande dose di ossigeno e possa combinarsi con il ferro.

este due cose: il fao di essere un composto così e il fao di essere una specie costituiscono la connotazione del nome «perossido di ferro». Dicendo e la sostanza e ci sta davanti è perossido di ferro asseriamo, primo, e si traa di un composto del ferro e della massima dose d’ossigeno e possa combinarsi con il ferro; secondo, e la sostanza così composta è una specie particolare di sostanza. Ora, questa seconda parte della connotazione di ogni parola appartenente a una nomenclatura è una parte del suo significato tanto essenziale quanto la prima parte, mentre la definizione diiara soltanto la prima; di qui sorge l’apparenza e la significazione di questi termini non possa essere trasmessa da una definizione: ma quest’apparenza è fallace. Il nome Viola odorata denota una specie, di cui un certo numero di caraeri sufficienti a distinguerla sono enunciati nei libri di botanica. In questo come in altri casi, quest’enumerazione di caraeri è sicuramente una definizione del nome. No, dice qualcuno: non è una definizione, peré il nome Viola odorata non significa questi caraeri: significa quel gruppo particolare di piante, e i caraeri sono stati scelti, tra un numero di caraeri molto più grande, semplicemente come segni per mezzo dei quali riconosciamo il gruppo. A quest’obiezione, però, io rispondo e il nome non significa quel gruppo, peré altrimenti andrebbe bene per quel gruppo solo fin quando si crede e sia un’infima species: se si dovesse scoprire e soo questo solo nome sono state confuse parecie specie distinte, più nessuno applierebbe il nome Viola odorata al gruppo nella sua interezza, ma, ammesso pure e glie lo conservi, lo applierebbe soltanto a una parte della specie e sono contenute in esso. ello e è obbligatorio, pertanto, non è e il nome denoti una collezione particolare di oggei, ma e denoti una specie, e una specie infima. La forma del nome diiara e, accada quello e deve accadere, il nome deve denotare un’infima species, e e perciò le proprietà e esso connota e e sono espresse nella definizione non dovranno più essere connotate dal nome non appena avremo cessato di credere e, quando le troviamo insieme, queste proprietà indiino una specie e e la loro totalità si trovi in non più d’una specie. Con l’aggiunta di questa connotazione tua particolare implicita nella forma di ogni parola e appartenga a una nomenclatura sistematica, l’insieme di caraeri impiegati per discriminare ciascuna specie (insieme di caraeri e è una definizione vera e propria) costituirà tuo quanto il

significato del termine in modo tanto completo quanto in ogni altro caso. Il dire e l’insieme dei caraeri può essere cambiato e può essergliene sostituito un altro più adao allo scopo di distinguere la specie da altre specie (come spesso accade in storia naturale) mentre non si deve ritenere e la parola, e continua ancora a denotare il medesimo gruppo, abbia cambiato il proprio significato, non costituisce un’obiezione valida. esto, infai, non è nulla più di quello e può accadere nel caso di un qualsiasi altro nome generale: quando ne riformiamo la connotazione possiamo benissimo lasciare intaa la sua denotazione, e generalmente è preferibile lasciarla intaa. Non per questo, però, si può dire e la connotazione non costituisce il vero e proprio significato del nome, peré dovunque troviamo i caraeri esposti nella definizione, là appliiamo immediatamente il nome, e la significazione del nome dev’essere costituita da quello e ci guida in maniera esclusiva quando appliiamo il termine. Se, contrariamente a quello e credevamo in precedenza, troviamo e i caraeri non sono propri di una sola specie in particolare, cessiamo di usare il termine ogni volta e incontriamo quei caraeri; ma allora questo accade peré cessa di esistere l’altra parte della connotazione: vale a dire, la condizione e la classe debba essere una specie. Perciò la connotazione è ancora il significato; l’insieme dei caraeri descriivi è una definizione vera e propria, e il significato viene dispiegato, non già, come in altri casi, dalla sola definizione, ma dalla definizione e dalla forma della parola, prese insieme. 6. Abbiamo ora analizzato le implicazioni dei due principali requisiti di una lingua filosofica: primo, la precisione o definitezza; secondo, la completezza. alsiasi osservazione ulteriore sul modo di costruire una nomenclatura dev’essere differita a quando traeremo della classificazione: il modo in cui denominiamo le specie o i generi è infai subordinato al modo in cui disponiamo specie e generi in classi più grandi. Per quanto riguarda i requisiti di minore importanza della terminologia, alcuni di essi sono stati bene enunciati e illustrati negli «Aphorisms Concerning the Language of Science» [Aforismi riguardanti il linguaggio della scienza] compresi nella Philosophy of the Inductive Sciences del door Whewell. Non farò più alcun riferimento a tali requisiti, e dal punto di vista particolare della logica hanno un’importanza secondaria: limiterò le mie osservazioni a una sola qualità e, accanto alle due delle quali ho già traato, mi sembra

la più preziosa e il linguaggio della scienza possa mai possedere. Un’idea generale di questa qualità possiamo averla dall’aforisma e segue: Ogni volta e la natura dell’argomento permea e i nostri processi di ragionamento vengano condoi, senza pericolo, in modo meccanico, la lingua dovrebbe essere costruita per quanto è possibile in base a processi meccanici; mentre, nel caso contrario, dovrebbe essere costruita in modo da frapporre il maggior numero possibile d’ostacoli a un suo uso puramente meccanico. Mi rendo conto e questa massima riiede molte spiegazioni, e mi accingerò subito a darle. In primo luogo, spiegherò e cosa s’intenda quando si parla di usare meccanicamente una lingua. Il caso completo ed estremo di uso meccanico della lingua si ha quando la lingua viene usata senza avere nessuna consapevolezza di un significato, e soltanto con la consapevolezza di star usando certi segni visibili o udibili, in conformità con certe regole tecnie enunciate precedentemente. esto caso estremo non si trova mai realizzato tranne e nelle cifre dell’aritmetica, e, ancor più, nei simboli dell’algebra: lingua, quest’ultima, e è unica nel suo genere e e, dati gli scopi ai quali è stata destinata, s’avvicina alla perfezione tanto quanto si possa forse dire e vi s’avvicini ogni altra creazione della mente umana. La sua perfezione consiste nel suo completo adaamento a un uso puramente meccanico. I simboli sono puri e semplici geoni, privi persino delle sembianze di un significato e non sia la convenzione, e viene rinnovata tue le volte e li si impiega e e viene alterata ogni volta e la si rinnova, dal momento e i medesimi simboli, a o x, vengono usati, in occasioni differenti, per rappresentare cose e non hanno nessuna proprietà in comune oltre alla proprietà di poter essere numerate (come del resto ogni altra cosa). Pertanto, non c’è nulla e possa distrarre la mente dall’insieme di operazioni meccanie e si devono compiere sui simboli, come il quadrare ambo i membri di un’equazione, moltiplicarli o dividerli per i medesimi simboli o per simboli equivalenti, e così via. Ciascuna di queste operazioni, è vero, corrisponde a un sillogismo; rappresenta un passo del ragionamento deduivo e si riferisce, non già ai simboli, ma alle cose significate dai simboli. Ma siccome si è trovato e è possibile costruire una forma tecnica, conformandoci alla quale possiamo essere sicuri di trovare la conclusione del ragionamento deduivo, il nostro fine può essere raggiunto completamente senza mai pensare a null’altro e non siano i simboli. esti, essendo stati escogitati in modo da funzionare puramente e

semplicemente come un meccanismo, hanno tue le qualità e un meccanismo deve avere. Hanno il minimo ingombro possibile, cosicé occupano poissimo spazio, e la loro manipolazione non riiede nessuno spreco di tempo; sono compai, e si aagliano così streamente l’uno all’altro, e l’ocio può cogliere immediatamente la loro totalità in quasi tue le operazioni, per eseguire le quali li impieghiamo. este ammirevoli proprietà del linguaggio simbolico della matematica hanno fao un’impressione così forte sulla mente di molti pensatori, da indurli a considerare la lingua simbolica dell’algebra come il tipo ideale della lingua filosofica in generale; a pensare e i nomi in generale o (come preferiscono iamarli) i segni, siano tanto più adai agli scopi del pensiero quanto più si possono far approssimare alla compaezza, alla totale mancanza di significato e alla capacità di essere usati come geoni (caraeristie, queste, e sono proprie degli a e dei b, degli x e degli y dell’algebra). esta nozione ha condoo a una concezione eccessivamente oimistica della possibilità di accelerare il progresso della scienza con mezzi e, secondo me, non possono affao aiutarci a raggiungere quel fine, e fa parte di quella stima esagerata in cui è tenuta l’influenza dei segni, stima e ha contribuito in misura tu’altro e indifferente a impedire e le leggi reali delle nostre operazioni intelleuali vengano comprese correamente. In primo luogo, un insieme di segni con i quali ragioniamo senza essere consapevoli del loro significato può servirci, al massimo, soltanto nelle nostre operazioni deduive. Nelle nostre induzioni diree non possiamo fare a meno, neppure per un istante, di un’immagine mentale distinta dei fenomeni, dal momento e l’intiera operazione dipende da una percezione dei particolari in cui questi fenomeni concordano, e di quelli in cui differiscono. Ma oltre a ciò questo ragionare per geoni è adao soltanto a una porzione limitata persino dei nostri processi deduivi. I soli princìpi generali e abbiamo mai occasione d’introdurre nei nostri ragionamenti deduivi sono i seguenti: «Cose eguali alla medesima cosa sono eguali tra loro»; e «Le somme o le differenze di cose eguali sono eguali», insieme con i loro differenti corollari. Non soltanto a proposito dell’applicabilità di questi princìpi non possono mai sorgere esitazioni (dal momento e sono veri di qualsiasi grandezza), ma, anzi, ogni possibile applicazione di cui possano essere susceibili può essere ridoa a una regola tecnica; e tali, infai, sono le regole del calcolo. Ma, se oltre a rappresentare i numeri puri e semplici, i simboli rappresentano qualsiasi altra cosa — diciamo pure linee curve o ree

— allora dobbiamo applicare teoremi di geometria e non sono veri di tue le linee senza eccezione, e scegliere quei teoremi e sono veri delle linee intorno alle quali stiamo ragionando. E come potremmo farlo se non terremo ben saldo in mente di quali particolari linee si trai? Dal momento e in qualsiasi stadio dello sviluppo di un ragionamento deduivo possiamo introdurre verità geometrie sempre nuove, neppure nella parte più insignificante di questo sviluppo possiamo permeerci di usare i nomi meccanicamente (come facciamo quando usiamo i simboli algebrici) senza conneervi un’immagine. Soltanto dopo e si sia accertato e la risoluzione di una questione riguardante le linee si può far dipendere da una questione precedente riguardante i numeri — o, in altre parole, soltanto dopo e, tecnicamente parlando, la questione sia stata ridoa a un’equazione — ci sarà lecito usare i segni senza assegnargli un significato, e si potrà trascurare la natura degli stessi fai ai quali si riferisce l’indagine. Fin quando non si sia formulata l’equazione, la lingua nella quale i matematici conducono i loro ragionamenti non differisce, quanto al suo caraere, dalla lingua di i compie ragionamenti rigorosi in una qualsiasi altra specie di argomenti. Non nego e, quando sia stato geato nella forma sillogistica, ogni ragionamento deduivo correo, sia concludente in virtù della pura e semplice forma dell’espressione, puré nessuno dei termini usati sia ambiguo. E questa è una delle circostanze e hanno indoo alcuni autori a pensare e se tui i nomi fossero costruiti in modo tanto giudizioso, e definiti in modo tanto accurato, da non lasciare spazio a nessun’ambiguità, il miglioramento così oenuto nella lingua non soltanto darebbe alle conclusioni di ogni scienza deduiva la medesima correezza e spea ai ragionamenti della matematica, ma ridurrebbe tui i ragionamenti all’applicazione di una formula tecnica, facendo in modo e si possa assentire alle loro conclusioni dopo un processo puramente meccanico (come senza dubbio accade in algebra). Ma se si ecceua la geometria, le cui conclusioni sono già tanto certe ed esae quanto è possibile renderle, l’unica scienza in cui la validità pratica d’un ragionamento può risultare evidente a iunque si limiti ane soltanto a guardare il ragionamento stesso, è la scienza del numero. Chiunque abbia prestato il proprio assenso a quello e è stato deo nel Libro precedente a proposito del caso della composizione delle cause e del caso, ancor più forte, dello spodestamento completo di un insieme di cause per opera di un altro, sa benissimo e la geometria e

l’algebra sono le sole scienze le cui proposizioni siano vere categoricamente; le proposizioni generali di tue le altre scienze sono vere soltanto ipoteticamente, soo il presupposto e non intervenga nessuna causa contraria. Perciò, per quanto correa dal punto di vista formale sia la sua deduzione da leggi di natura ammesse, una conclusione non avrà altra certezza all’infuori di una certezza ipotetica. A ogni passo dobbiamo assicurarci e nessun’altra legge di natura abbia spodestato, o abbia mescolato la propria azione con quella delle leggi e costituiscono le premesse del ragionamento: e come si può fare una cosa del genere, se ci si limita semplicemente a dare un’ociata alle parole? Non soltanto dobbiamo pensare costantemente ai fenomeni stessi, ma dobbiamo ane studiarli costantemente; dobbiamo acquistare una conoscenza direa delle particolarità di ogni caso al quale tentiamo di applicare i nostri princìpi generali. Considerata come una lingua filosofica, la notazione algebrica si adaa perfeamente agli oggei per i quali viene comunemente impiegata, vale a dire a quegli oggei le indagini sui quali sono già state ridoe all’accertamento di una relazione tra numeri. Ma per quanto ammirevole essa sia per i suoi propri scopi specifici, le proprietà e la rendono tale sono così lontane dal farne il modello ideale della lingua filosofica in generale, e quanto più la lingua di una qualsiasi altra branca della scienza le si approssima, tanto meno questa lingua si rivelerà adaa ad adempiere le funzioni e le sono proprie. In tui gli altri argomenti, invece di espedienti e impediscano alla nostra aenzione di essere distraa dal dover pensare al significato dei nostri segni, dovremmo desiderare di possedere strumenti e ci rendano impossibile il perdere di vista quel significato, ane per un solo istante. Da questo punto di vista, nella formazione della parola si dovrebbe far entrare la maggior quantità possibile di significato, meendo a nostra disposizione gli ausilii dell’etimologia e dell’analogia, allo scopo di mantener viva la consapevolezza di tuo quello e è significato dalla parola. Soo quest’aspeo sono enormemente avvantaggiate quelle lingue e formano i loro composti e i loro derivati da radici indigene (come fa la lingua tedesca) e non da radici straniere o appartenenti a lingue morte, come accade molto spesso con l’inglese, il francese e l’italiano. Le lingue migliori, poi, sono quelle e formano composti e derivati secondo analogie fisse, e corrispondono alle relazioni tra le idee e si devono esprimere. Tue le

lingue, quale più quale meno, lo fanno: ma tra le lingue moderne questo accade in modo particolare con la lingua tedesca; mentre, dal canto suo, ane la lingua tedesca è inferiore alla lingua Greca, in cui generalmente la relazione tra il significato di una parola derivata e quello della sua parola primitiva è messa iaramente in evidenza dal modo della sua formazione, se si ecceua il caso delle parole composte con preposizioni, parole e spesso sono estremamente anomale, sia nella lingua tedesca sia nella lingua Greca. Ma tuo qullo e si può fare nella costruzione delle parole, per impedire e degenerino in suoni e passano per la mente senza e questa apprenda distintamente il loro significato, è sempre troppo poco per la necessità del caso. Per quanto bene siano state costruite in origine, alle parole accade come alle monete, le cui iscrizioni tendono sempre e continuamente a essere obliterate dal passaggio di mano in mano; e il solo modo possibile per fare rivivere questo significato consiste nel coniarle sempre di nuovo, vivendo nella contemplazione costante dei fenomeni stessi e non adagiandosi nella familiarità con le parole e li esprimono. Chiunque, dopo essere entrato in possesso delle leggi dei fenomeni così come sono state registrate nelle parole (sia e in origine gli siano state trasmesse da altri, sia e le abbia trovate da solo) si accontenti, da quel momento in poi, di vivere tra queste formule, di pensare esclusivamente ad esse e di applicarle ai casi man mano e si presentano, senza mantener vivo il contao direo con le realtà dalle quali queste leggi sono state desunte, non soltanto vedrà i propri sforzi fallire continuamente nella pratica, peré applierà le proprie formule senza prendere nella debita considerazione se in questo o in quell’altro caso altre leggi di natura non le soppiantino o non le modifiino; ma le formule stesse perderanno progressivamente il significato e hanno per lui, e alla fine non sarà neppure più capace di riconoscere con certezza se un certo caso rientri o non rientri nell’ambito della sua formula. In breve, in tui quegli argomenti e non hanno nulla da fare con la matematica, è necessario e le cose su cui ragioniamo siano concepite da noi in concreto, e «rivestite di circostanze», proprio come in algebra è necessario e teniamo laboriosamente lontane tue le particolarità individualizzanti. Con quest’avvertenza iudiamo le nostre osservazioni sulla filosofia del linguaggio. a. History of Scientific Ideas,

II, pp. 110 e 111.

b. History of Scientific Ideas,

II, pp. 111-13. 1. Augustine Pyrame De Candolle (1778-1841), biologo e medico ginevrino, è la figura dominante nella botanica della prima metà dell’Oocento. Si formò a Parigi, alla scuola di Cuvier, Lamar e Geoffrey. Fu professore a Montpellier e a Ginevra. Nella Théorie élémentaire de la botanique (1813) espose una concezione di tipo linneano e antilamariano. Definì la specie come l’insieme di tui gli individui più simili tra loro e non ad altri, e fecondandosi dànno origine a una prole feconda. Continuò il progeo linneano di ricerca di un sistema di classificazione. A lui si deve la distinzione tra piante cellulate e piante vascolate; cercò di definire i concei di genere, famiglia, gruppo. Diede inizio a un’opera, Prodromus systematis naturalis regni vegetabilis [Prodromi di un sistema naturale del regno vegetale] (20 voll., Parigi, 1825-1873), nel quale si proponeva di descrivere tue le piante conosciute. est’opera fu portata a termine dal figlio e dai suoi collaboratori. 2. Joseph Pion de Tournefort (1656-1708), biologo e medico francese, dal 1683 insegnante di botanica al Jardin du Roy di Parigi. Insieme con Bauhin contribuì alla precisazione e all’introduzione in botanica del conceo di genere, cioè di un aggruppamento di parecie specie streamente affini. Molti dei generi da lui istituiti sono rimasti nella sistematica moderna. Sua opera principale sono le Institutiones rei her-bariae [Istituzioni di botanica] (1700). 3. Fabio Colonna (1567-1650), della famiglia dei Colonna di Napoli, Linceo. Dotaro di grande erudizione, si dedicò principalmente alla botanica. Dimostrò le virtù terapeutie della valeriana e tentò una classificazione del regno vegetale. 4. Noel Joseph de Neer (1729-1793), botanico belga, studiò e classificò la flora del suo Paese, dando importanti contributi allo studio delle Criogame. È autore di un monumentale Elementa botanica. 5. Abraham Golob Werner (1750-1817), mineralogo tedesco, professore alla Scuola mineraria di Friburgo, è considerato uno dei creatori della mineralogia. 6. Friedri Mohs (1773-1839), mineralogo tedesco, professore a Graz e a Friburgo, e quindi a Vienna, escogitò una scala per misurare la durezza dei minerali, determinando la loro resistenza all’incisione e all’abrasione. Tale resistenza si determina graffiando con una punta acuminata di diverse sostanze di durezza nota la superficie della sostanza di cui si vuole determinare la durezza. La scala di Mohs consente così un’agevole identificazione dei minerali sconosciuti, di cui si possa determinare la durezza approssimativa. Come sistema di riferimento Mohs adoò una serie di dieci minerali, disposti in ordine di durezza relativa crescente: 1, talco; 2, gesso; 3, calcite; 4, fluorite; 5, apatite; 6, feldspato; 7, quarzo; 8, topazio; 9, corindone; 10, diamante. Per determinare la durezza di un minerale, si tenta di scalfirlo con due minerali e occupano posti successivi nella scala. Così, per esempio, se un minerale viene scalfito dal corindone ma non dal topazio, si dirà e la sua durezza è di 8,5. 7. Louis Bernard Guyton de Mourveau (1737-1816), imico francese; fino al 1782 fu avvocato generale al Parlement, dedicando il tempo libero allo studio e all’insegnamento della imica. Fu tra i fautori di una revisione della nomenclatura della imica: nel 1772 pubblicò Digressions académiques, contenenti i suoi punti di vista sul flogisto e la cristallizzazione. Nel 1782 pubblicò sul «Journal de Physique» un articolo sulla nomenclatura della imica, le cui idee sviluppò in séguito con l’aiuto di Lavoisier, Berthollet, Fourcroy. Il risultato fu l’opera Méthode d’une nomenclature chemique (1787), i cui princìpi furono presto adoati dai imici di tua Europa. Durante la Rivoluzione fu membro dell’assemblea legislativa, della convenzione e del comitato di salute pubblica. Fino al 1805 fu insegnante e direore della celebre École Polythecnique di Parigi. 8. Si traa, appunto, di Lavoisier, Berthollet, Fourcroy, Guyton de Mourveau.

CAPITOLO VII. LA CLASSIFICAZIONE, COME SUSSIDIARIO DELL’INDUZIONE 1. Come è stato frequentemente osservato in quest’opera, c’è una classificazione delle cose e non può essere separata dal fao e alle cose si dànno nomi generali. Ogni nome e connota un aributo divide, per questo stesso fao, tue le cose qualsiasi in due classi: la classe delle cose e hanno quest’aributo e la classe delle cose e non ce l’hanno. E la divisione faa così non è semplicemente una divisione di quelle cose e esistono realmente, o di cui si sa e esistono, ma ane di tue quelle cose e potranno essere scoperte in séguito, e perfino di tue quelle e possono essere immaginate. Su questa specie di classificazione non c’è nulla da aggiungere a quello e abbiamo deo in precedenza. La classificazione e dobbiamo discutere come un ao separato della mente è completamente diversa. Nell’una la disposizione degli oggei in gruppi, e la loro distribuzione in compartimenti, è un puro e semplice effeo secondario e consegue all’uso di nomi dati per un altro scopo; per lo scopo, cioè, di esprimere semplicemente alcune delle loro qualità. Nell’altra, la disposizione e la distribuzione degli oggei costituiscono lo scopo principale, mentre la denominazione è secondaria rispeo a quell’operazione più importante e, lungi dal governarla, vi si conforma di proposito. Considerata da questo punto di vista, la classificazione è un espediente per ordinare nella nostra mente gli oggei o le idee nel miglior modo possibile; per far sì e le idee si accompagnino o si succedano in modo tale da renderci al massimo padroni delle conoscenze già acquisite e da condurre per via più direa all’acquisizione di altre conoscenze. Relativamente a questi scopi, il problema generale della classificazione può essere enunciato nel modo e segue: provvedere a e le cose vengano pensate secondo quei raggruppamenti, e i raggruppamenti secondo quell’ordine, e meglio di tui gli altri ci aiuteranno a ricordare e ad accertare le loro leggi. La classificazione considerata in questo modo differisce dalla classificazione intesa in senso più ampio, per il fao e si riferisce esclusivamente a oggei reali, e non si riferisce affao a oggei immaginari; il suo scopo è perciò la debita coordinazione, nella nostra mente, di quelle

sole cose delle cui proprietà abbiamo effeivamente occasione di acquistare una conoscenza direa. Ma, d’altra parte, essa abbraccia tutti gli oggei realmente esistenti. Se non facciamo riferimento a una divisione generale della totalità della natura, non possiamo costituire, in senso proprio, nessuna classe; non possiamo determinare il gruppo nel quale un qualsiasi oggeo può essere situato nel modo più conveniente, se non prendiamo in considerazione tue le varietà degli oggei esistenti, o, almeno, di tui gli oggei e hanno quale grado di affinità con l’oggeo in parola. Non si sarebbe mai potuta costituire razionalmente una famiglia di piante e di animali se non la si fosse costituita come parte di un ordinamento sistematico; e un ordinamento di questo genere non si sarebbe potuto istituire se prima non si fosse determinata la posizione esaa delle piante e degli animali in una divisione generale della natura. 2. Non ci sono proprietà degli oggei e non possano essere prese, se così vogliamo, come fondamento per classificare o per raggruppare quegli oggei nella nostra mente; è probabile e nei nostri primi tentativi scegliamo, per questo scopo, proprietà e sono semplici, facilmente concepibili e percepibili immediatamente, senza bisogno di un processo preliminare di pensiero. Così, la classificazione delle piante istituita da Tournefort era basata sulla forma e le suddivisioni della corolla, mentre quella e viene comunemente iamata di Linneo (ane se Linneo suggerì una classificazione diversa e più scientifica) era fondata soprauo sul numero degli stami e dei pistilli. Raramente, però, queste classificazioni e di primo acito si raccomandano peré ci rendono agevole l’accertare a quale classe appartenga un certo individuo, sono molto adae ai fini di quel tipo di classificazione e costituisce l’oggeo delle nostre osservazioni auali. La classificazione di Linneo risponde allo scopo di farci pensare insieme tue quelle specie di piante e posseggono il medesimo numero di stami e di pistilli; ma il pensarle in questa maniera non è molto utile, dal momento e ben di rado ci càpita di affermare qualcosa e sia comune alle piante e hanno un dato numero di stami e di pistilli. Se le piante della classe Pentandria, ordine Monogymnia, concordassero in qualsiasi altra proprietà, l’abitudine a pensare alle piante e a parlarne soo una designazione comune ci condurrebbe a ricordare quelle proprietà comuni nella misura in cui sono state accertate, e ci predisporrebbe a stare aenti caso mai se ne trovino di

quelle e non sono ancora note. Ma siccome le cose non stanno così, il solo scopo conceuale cui serva la classificazione di Linneo è quello di farci ricordare il numero esao degli stami e dei pistilli di tue le specie di piante meglio di quanto non l’avremmo ricordato altrimenti. Ora, dal momento e questa proprietà è ben poco importante e presenta poco interesse, non ha la minima importanza e la si ricordi più o meno accuratamente. E nella misura in cui il fao di pensare abitualmente alle piante secondo questi raggruppamenti ci impedisce di pensarvi abitualmente secondo gruppi e hanno in comune un numero maggiore di proprietà, l’effeo e tale classificazione ha sui nostri abiti intelleuali, quando ad essa si aderisca in maniera sistematica, dev’essere considerato funesto. I fini della classificazione scientifica sono meglio soddisfai quando gli oggei vengono disposti in gruppi rispeo ai quali sia possibile enunciare un numero maggiore di proposizioni generali e quando queste proposizioni sono più importanti di quelle e si potrebbero formulare a proposito di qualsiasi altro gruppo in cui potrebbero essere distribuite queste stesse cose. Pertanto, se è possibile, le proprietà secondo le quali vengono classificati gli oggei dovrebbero essere quelle e sono causa di molte altre proprietà o, in ogni modo, quelle e ne sono il segno più sicuro. Le cause sono però da preferirsi, sia peré sono i più sicuri e i più direi tra i segni, sia peré, a loro volta, sono le proprietà sulle quali è più utile concentrare più fortemente la nostra aenzione. Purtroppo, però, raramente la proprietà e è la causa delle principali particolarità di una classe è adaa a servirci da mezzo diagnostico della classe. Generalmente, invece della classe dobbiamo scegliere qualcuno dei suoi effei più promiscui, e questi effei possono servire come segni degli altri effei e della causa. Una classificazione così formata è scientifica, o filosofica, nel senso proprio dei termini, e viene comunemente iamata «classificazione naturale» per distinguerla da una classificazione, o ordinamento, tecnica o artificiale. L’espressione «classificazione naturale» sembra quella e più particolarmente s’adaa alle disposizioni e, nei gruppi e formano, corrispondono alle tendenze spontanee della mente, peré meono insieme gli oggei più simili tra loro per i loro aspei generali; al contrario di quei sistemi tecnici e, disponendo le cose secondo le loro concordanze in certe circostanze scelte deliberatamente, spesso geano nel medesimo gruppo oggei e non presentano nessuna somiglianza nell’aggregato generale delle loro proprietà, mentre geano in gruppi differenti e tra loro remoti altri

oggei e presentano le somiglianze più stree. Uno dei titoli più validi di scientificità propri di una classificazione è il fao e sia una classificazione naturale, ane nel senso qui stabilito; infai il criterio della sua scientificità è dato dal numero e dall’importanza delle proprietà e possono essere asserite in comune di tui gli oggei compresi in un gruppo; e le proprietà da cui dipende l’aspeo generale delle cose sono, se non altro per questa ragione, tanto importanti quanto, nella maggior parte dei casi, numerose. Ma sebbene questo titolo di scientificità sia molto forte, questa circostanza non è una conditio sine qua non: infai può darsi e a paragone con altre proprietà e non sono ovvie, le proprietà più ovvie delle cose siano insignificanti. Ho visto menzionare come una grande assurdità della classificazione di Linneo il fao e essa mea la violea fianco a fianco con la quercia (cosa e, sia deo per inciso, non fa): essa certamente distingue certe affinità naturali e mee assieme cose piuosto differenti, come differenti sono la quercia e la violea. Ma all’ocio del volgo la differenza, apparentemente così grande, e fa sì e l’accostamento di questi due vegetali costituisca un’illustrazione tanto opportuna della scarsa bontà di tale ordinamento, dipende soprauo dalle dimensioni pure e semplici e dalla pura e semplice struura; ora, se cercassimo studiosamente di adoare quella classificazione e implii il minor pericolo di simili rapprochements, dovremmo ritornare alla divisione ormai sorpassata, in alberi cespugli ed erbe, divisione e pur essendo d’importanza primaria dal punto di vista dell’aspeo generale puro e semplice tuavia, ane a paragone con una distinzione così pignola e così poco ovvia come quella in dicotiledoni e monocotiledoni, trova riscontro in un numero tanto basso di differenze nelle altre proprietà delle piante e (ane non tenendo conto del fao e le linee di demarcazione e essa traccia mancano di distinzione) una classificazione fondata su di essa sarebbe tanto completamente artificiale e tecnica quanto la classificazione di Linneo. Spesso, perciò, i nostri gruppi naturali devono essere fondati, non già sulle proprietà ovvie, ma sulle proprietà non ovvie delle cose. In questi casi, però, è essenziale e ci siano altre proprietà o altri insiemi di proprietà e possano essere riconosciuti più prontamente dall’osservatore e e possano coesistere con le proprietà e sono il fondamento reale della classificazione e possano essere acceati come segni di queste proprietà. Per esempio, un ordinamento naturale degli animali dev’essere fondato principalmente sulla loro struura interna, ma (come osserva il signor Comte) sarebbe assurdo

e non fossimo in grado di determinare il genere e la specie dell’animale senza prima averlo ucciso. Per questa ragione tra tue le classificazioni zoologie la preferenza dovrebbe probabilmente andare a quella del signor de Blainville, fondata sulle differenze tra i tegumenti esterni, differenze e corrispondono, molto più accuratamente di quanto non si potrebbe supporre, alle varietà realmente importanti e si riscontrano sia nelle altre parti della struura degli animali, sia nelle loro abitudini e nella loro storia. esto mostra, più fortemente e mai, quanto estesa debba essere la conoscenza delle proprietà degli oggei peré se ne possa fare una buona classificazione. E siccome uno dei vantaggi offerti da tale classificazione consiste in questo: e airando l’aenzione sulle proprietà sopra le quali è fondata (e e, se la classificazione è ben faa, sono segni di molte altre proprietà) facilita la scoperta di quelle altre, vediamo in qual maniera la conoscenza e abbiamo delle cose e la classificazione e ne facciamo, tendano indefinitamente e reciprocamente al miglioramento l’una dell’altra. Abbiamo appena deo e la classificazione degli oggei dovrebbe seguire quelle loro proprietà e indicano, non soltanto le caraeristie peculiari più numerose degli oggei medesimi, ma ane quelle più importanti. Che cosa s’intende, qui, con «importanza»? Il termine si riferisce allo scopo particolare e ci proponiamo, e per questo i medesimi oggei possono essere susceibili di parecie classificazioni differenti, tue egualmente appropriate. Ciascuna scienza, o ciascun’arte, forma la propria classificazione delle cose secondo le proprietà e rientrano nell’àmbito delle sue competenze speciali, o delle quali deve tener conto allo scopo di conseguire i suoi fini pratici particolari. Un contadino non divide le piante in dicotiledoni e monocotiledoni, come fa un botanico, ma le divide in piante utili e in erbacce. Un geologo divide i fossili, non già — come fa lo zoologo — in famiglie e corrispondono a quelle delle specie viventi, ma in fossili del periodo palezoico, mesozoico e terziario: in fossili e si trovano al di sopra e in fossili e si trovano al disoo degli strati di carbone, ecc. Le balene sono o non sono pesci, secondo lo scopo in vista del quale le stiamo prendendo in considerazione. «Se parliamo della struura interna e della fisiologia dell’animale non possiamo iamarle “pesci”, peré, da questo punto di vista, le balene sono molto diverse dai pesci: hanno sangue caldo e partoriscono e allaano la loro prole come fanno i quadrupedi terrestri. Ma questo non c’impedisce di parlare della pesca della balena e di iamare “pesci” questi animali in tue le occasioni e hanno da fare con questo loro

impiego: infai le relazioni e si originano in questo modo dipendono dal fao e l’animale vive nell’acqua e viene caurato in un modo simile a quello in cui vengono caurati gli altri pesci. Un giudice intelligente respingerebbe immediatamente la pretesa e le leggi umane e menzionano i pesci non valgano per le balene»a. este differenti classificazioni sono tue egualmente buone per gli scopi dei dipartimenti particolari della conoscenza o dell’aività pratica nel cui àmbito vengono istituite. Ma quando studiamo gli oggei, non già per un quale scopo pratico speciale, ma per estendere alla totalità delle loro proprietà e delle loro relazioni la conoscenza e ne abbiamo, allora dobbiamo considerare come i più importanti quegli aributi e, sia di per se stessi sia in virtù dei loro effei, contribuiscono in misura maggiore a rendere le cose simili tra loro e dissimili da altre cose: quegli aributi e conferiscono l’individualità più spiccata alla classe composta dagli oggei in questione; quegli aributi e, per così dire, riempiono lo spazio più largo nell’esistenza di quegli oggei e e s’imporrebbero più facilmente all’aenzione di uno speatore e conoscesse tue le loro proprietà ma non avesse un interesse specifico per nessuna di esse. Le classi formate in base a tale principio possono essere iamate, più enfaticamente di quanto non possa essere iamata ogni altra classe, gruppi naturali. 3. A proposito di questi gruppi il door Whewell enuncia una teoria basata su una verità importante: per certi aspei il door Whewell ha espresso e illustrato la sua teoria molto felicemente; tuavia, a quanto mi sembra, ha ane lasciato infiltare in essa quale errore. Per entrambe queste ragioni sarà perciò vantaggioso esporre questa sua dorina con le stesse parole da lui usate. Secondo questa teoriab «i gruppi naturali sono dati dal tipo, non dalla definizione». E questa considerazione rende conto dell’«indefinitezza e dell’indecisione e troviamo molto spesso nelle descrizioni di questi gruppi, e e deve apparire così strana e così contraddioria a iunque non supponga e queste descrizioni posseggano un fondamento di connessione più profondo di quello posseduto da una scelta arbitraria, faa da un botanico. Così, ci dicono e molto raramente nella famiglia delle Rosacee gli ovuli sono erei, e e di solito gli stimmi sono semplici. Di quale utilità, verrebbe da iedere, possono essere queste descrizioni, così poco rigorose? La risposta è e esse non sono state introdoe allo scopo di distinguere le

specie, ma allo scopo di descrivere la famiglia, e e in virtù di quest’enunciato generale si possono conoscere meglio le relazioni totali tra gli ovuli e gli stimmi. Un’osservazione simile si può fare rispeo alle anomalie di ciascun gruppo, anomalie e si presentano così frequentemente e, nella sua Introduction to the Natural System of Botany [Introduzione al 1 sistema naturale di botanica] il door Lindley fa delle anomalie un paragrafo a sé per ciascuna famiglia. Così, fa parte del caraere delle Rosacee e abbiano foglie alternate stipulate e e l’albume sia obliterato; ma già nella Lowea, uno dei generi di questa famiglia, le stipule sono assenti, mentre l’albume è presente in un altro genere, il genere Neillia. Come abbiamo già visto, questo implica e il caraere artificiale (o, come lo iama il signor Lindley, la diagnosi) è imperfeo. Bené sia molto vicino al gruppo naturale, non è tuavia commisurato esaamente ad esso; e quindi in certi casi su questo caraere si fa ricadere il peso generale delle affinità naturali. È probabile e questi punti di vista — di classi determinate da caraeri e non possono essere espressi in parole; di proposizioni e enunciano, non già quello e accade in tui i casi, ma soltanto quello e accade per lo più; di particolari e vengono fai rientrare in una classe ane se sono incompatibili con la definizione di quella classe — sorprendano il leore. Sono così contrari a molte delle opinioni e vanno per la maggiore sull’uso delle definizioni e sulla natura delle proposizioni scientifie, e è probabile e a molte persone appaiano altamente illogie e tu’altro e filosofie. Ma la disposizione a questo giudizio nasce, in grande misura, da questo: e mentre la matematica e le scienze fisico-matematie hanno determinato in larga misura i punti di vista degli uomini a proposito della natura e della forma generali delle verità scientifie, la storia naturale non ha ancora avuto né il tempo né l’opportunità di esercitare sulle abitudini correnti del filosofare l’influenza e dovrebbe esercitare. L’apparente indeterminatezza e l’apparente contraddiorietà delle classificazioni e delle definizioni della storia naturale sono proprie, in misura ancora maggiore, di tue le altre speculazioni e non siano quelle della matematica, e i modi in cui, in storia naturale, si sono fae approssimazioni alle distinzioni esae e alle verità generali, sono ben degni della nostra aenzione, ane per la luce e geano sui modi migliori di perseguire verità d’ogni genere.

Bené in un gruppo naturale le definizioni non possano più essere di alcuna utilità come princìpi regolativi, non per questo le classi vengono lasciate del tuo indeterminate, prive di un criterio o di una guida ben definiti. La classe è fissata saldamente, ane se non è delimitata con precisione: è data, non circoscria; è definita, non da una linea di demarcazione e la delimita dall’esterno, ma da un punto centrale, e sta al suo interno; non da quello e essa rigorosamente esclude, ma da quello e include in modo eminente; da un esempio, non da un preceo: in breve, come guida, invece di avere una definizione abbiamo un tipo. Un tipo è un’esemplificazione di una classe, per esempio, una specie di un certo genere, e viene considerata come quella e possiede in modo eminente il caraere della classe. Tue le specie e presentano, con questa specie-tipo, un’affinità maggiore di quella e hanno con qualsiasi altra, formano il genere, e sono disposte intorno ad esso, deviando da esso in varie direzioni e in gradi differenti. Così un genere può consistere di parecie specie e si approssimano moltissimo al tipo, e la cui pretesa di occupare un posto nel genere è ovvia, mentre possono esserci altre specie e sono molto lontane da questo nodo centrale e e tuavia, iaramente, sono connesse con esso più e con qualsiasi altro. E ane se ci fossero alcune specie il cui posto fosse dubbio, e e apparissero legate in egual misura a due tipi generici, si vede iaramente e questo non distruggerebbe la realtà dei gruppi generici più di quanto gli alberi sparsi nella pianura e separa due colline non ci impediscano di parlare in modo intelligibile delle foreste distinte e stanno su ciascuna delle due colline. La specie-tipo di ogni genere, il genere-tipo di ogni famiglia, è dunque una specie-tipo, o un genere-tipo, e possiede in maniera spiccata e prominente tui i caraeri e le proprietà del genere. Il tipo della famiglia delle Rosacee ha foglie stipulate alternate, manca di albume, ha gli ovuli non erei, ha stimmi semplici e oltre a queste caraeristie e lo distinguono dalle eccezioni o varietà della sua classe, possiede le caraeristie e lo rendono prominente nella propria classe. È uno di quei tipi e posseggono iaramente pareci aributi eminenti; e così, ane se di nessun genere possiamo dire e deve essere il tipo del genere, tuavia non è necessario e andiamo a cercare dappertuo: il tipo dev’essere connesso da molte affinità con la maggior parte degli altri tipi del suo gruppo: dev’essere vicino al centro della folla; non dev’essere tra quelli e se tengono lontani».

In questo passo — l’ultima parte del quale, specialmente, non posso esimermi dal far notare come un esempio ammirevole di stile filosofico — il door Whewell ha enunciato con iarezza ed energia ma, secondo me, senza fare tue le distinzioni necessarie, uno dei princìpi cui deve obbedire una classificazione naturale. Che cosa sia questo principio, quali siano i suoi limiti e in qual modo il door Whewell sembri averli travalicati, apparirà iaramente quando avremo enunciato un’altra regola dell’ordinamento naturale, regola e a me sembra ancor più fondamentale. 4. A quest’ora il leore si sarà già familiarizzato con la verità generale (e io formulo e riformulo così spesso per via della grande confusione e la circonda di solito): e in natura ci sono distinzioni di specie e di genere; distinzioni e non consistono in un dato numero di proprietà definite, più gli effei e conseguono a queste proprietà, ma e corrono araverso l’intiera natura, araverso gli aributi in generale, delle cose così distinte. La conoscenza e abbiamo delle proprietà di una specie non è mai completa. Scopriamo continuamente, e continuamente ci aspeiamo di scoprire, nuove proprietà. ando la distinzione tra due classi non è una distinzione di specie, ci aspeiamo di trovare e le proprietà di queste due classi sono simili, tranne e quando c’è quale ragione per cui siano differenti. Al contrario, quando la distinzione è una distinzione di specie, ci aspeiamo di trovare e le proprietà delle due classi siano differenti, tranne e nei casi in cui ci sia quale ragione per cui siano le medesime. Necessariamente, tua la conoscenza di una specie si oiene per osservazioni ed esperimenti condoi sulla specie medesima: nessun’inferenza e tenti di distinguere le proprietà di quella classe dalle proprietà di cose e non le sono connesse in forza della specie andrà molto più in là di quella sorta di congeura e di solito viene caraerizzata come analogia e, generalmente, in uno dei suoi gradi più deboli. Dal momento e le proprietà comuni di una specie vera e propria e, di conseguenza, le asserzioni generali e si possono fare a suo riguardo, o e è certo e si faranno man mano e si estenderà la nostra conoscenza, sono indefinite ed inesauribili; e dal momento e lo stesso principio primo della classificazione naturale prescrive di formare le classi in modo e gli oggei e compongono ciascuna di esse possano avere in comune il massimo numero di proprietà, il principio prescrive e ogni classificazione di questo genere riconosca e adoi in sé medesima tue le distinzioni di specie e

esistono tra gli oggei e diiara di classificare. Passar sopra a ogni distinzione di specie, e sostituirle distinzioni definite e, per degne di nota e possano essere, non sono l’indice di ulteriori differenze ignote, signifierebbe sostituire, alle classi e hanno in comune un numero maggiore di aributi, altre classi e ne hanno in comune un numero minore, e questo sovvertirebbe il metodo naturale della classificazione. Di conseguenza, gli ordinamenti naturali — e i loro autori si siano resi conto della realtà della distinzione in specie, o e non se ne siano resi conto — sono stati indoi, dal puro e semplice fao e perseguivano lo scopo e era loro proprio, a conformarsi alle distinzioni in specie fino al punto in cui queste distinzioni erano state accertate al momento in cui si era faa la classificazione. Le specie di piante non sono soltanto specie reali, ma probabilmente sono tue specie reali del grado più basso, infimae species; e se dovessimo suddividerle in sooclassi (cosa e, naturalmente, possiamo fare benissimo) la suddivisione sarebbe necessariamente fondata sopra distinzioni definite e (a parte quello e possiamo sapere delle loro cause o dei loro effei) non sarebbero l’indice di nessuna differenza al di là di se stesse. Nella misura in cui una classificazione naturale è fondata sopra specie reali, i suoi gruppi non sono certamente convenzionali; è perfeamente vero e non dipendono da una scelta arbitraria dei naturalisti, ma da questo non segue — e, secondo me, non per questo è vero — e queste classi siano determinate da un tipo e non da certi caraeri. Il determinarle per mezzo di un tipo sarebbe un modo per lasciarsi sfuggire la specie tanto sicuro quanto lo scegliere arbitrariamente un certo tipo di caraeri. Le classi sono determinate dai caraeri, ma i caraeri non sono arbitrari. Il problema è quello di trovare poi caraeri definiti, e siano l’indice della moltitudine dei caraeri indefiniti. Le specie sono classi tra cui si erge una barriera impenetrabile, e noi dobbiamo cercare segni per mezzo dei quali sia possibile determinare da quale parte della barriera trovi posto un certo oggeo. Si dovranno scegliere i caraeri e servono meglio a questo scopo: tanto meglio se sono importanti ane di per se stessi. ando avremo scelto i caraeri, ripartiremo gli oggei secondo questi caraeri e non — così almeno pare a me — secondo la somiglianza degli oggei con un tipo. La specie Ranunculus acris non la componiamo meendo insieme tue le piante e presentano un grado soddisfacente di somiglianza con un ranuncolo modello, ma riunendo quelle piante e posseggono certi caraeri

scelti come segni, in virtù dei quali possiamo riconoscere la possibilità di una parentela comune; e l’enumerazione di questi caraeri costituirà la definizione della specie. Sorge poi la questione se, come tue le specie devono avere un posto tra le classi, così, in un ordinamento naturale, tue le classi debbano essere specie. A questa domanda rispondo: certamente no. Le distinzioni di genere o di specie non sono abbastanza numerose da costituire una classificazione nella sua interezza. Di poissimi generi di piante, e persino di poissime famiglie, si può dire con certezza e sono generi reali. Le grandi distinzioni delle piante in piante Vascolate e Cellulate, Dicotiledoni o Esogene, e Monocotiledoni o Endogene, sono, forse, differenze generie, e la linea di demarcazione e divide queste classi sembra correre araverso l’intiera natura delle piante (ane se neppure su questo mi azzarderei a pronunciarmi affermativamente). Ma di solito le differenti specie di un genere, o i differenti generi di una famiglia, hanno in comune soltanto un numero limitato di caraeri. Una rosa non sembra differire da un Rubus, le Umbrellifere non sembrano differire dalle Ranuncolacee, in molto di più e nei caraeri e i botanici assegnano a questi generi o a queste famiglie. Certamente, in alcuni casi esistono realmente differenze e non sono state enumerate: ci sono famiglie di piante e hanno peculiarità di composizione imica, o e danno luogo a prodoi, e hanno effei particolari sopra l’economia del mondo animale. Le Crucifere e i Funghi contengono una percentuale insolita d’azoto; le Labiate sono le fonti principali di oli essenziali; molto frequentemente le Solanacee sono narcotie, e via discorrendo. In questi casi, e in casi simili, è possibile (ma non è affao indispensabile) e ci siano distinzioni di specie e di genere. Può ben darsi e, pur essendo contraddistinti gli uni dagli altri da proprietà presenti in numero limitato, i generi e le famiglie siano eminentemente naturali: è sufficiente e queste proprietà siano importanti e gli oggei contenuti in ciascun genere o in ciascuna famiglia si somiglieranno di più di quanto non somiglino a qualsialsi altra cosa e sia esclusa dal genere o dalla famiglia. Pertanto, dopo aver riconosciuto e definito le infimae species, il passo successivo consisterà nell’ordinare in gruppi più ampi queste infimae species, facendo in modo e, dovunque la cosa sia possibile, questi gruppi corrispondano a specie, ma in molti casi, ane, senza una guida siffaa. Così facendo, è peraltro vero e — almeno nella maggior parte dei casi — ci facciamo guidare in modo naturale e correo dalla somiglianza con un tipo.

Formiamo i nostri gruppi intorno a certe specie selezionate, ciascuna delle quali serve come una sorta d’esemplare del suo gruppo. Ma sebbene la suddivisione in gruppi sia suggerita dai tipi, io non posso pensare e, quando viene formato, un gruppo sia determinato dal tipo; e, nel decidere se una specie appartenga a un gruppo, si faccia riferimento ai tipi e non ai caraeri; e i caraeri «non possano essere espressi in parole». est’asserzione è incompatibile con l’enunciazione, da parte dello stesso door Whewell, del principio fondamentale della classificazione: il principio, cioè, e prescrive e «devono essere possibili le asserzioni generali». ali asserzioni generali si potrebbero fare riguardo alla classe, se la classe non possedesse nessun caraere comune? Se si ecceua l’asserzione e tui gli oggei si somigliano l’un l’altro più di quanto non somiglino a qualsiasi altra cosa, della classe non si potrebbe predicare proprio nulla. Al contrario, la verità è e ogni genere ed ogni famiglia sono costruiti con un riferimento ben preciso a certi caraeri, e sono composti, in primo luogo e per eccellenza, di specie e concordano per il possesso di tui questi caraeri. A questi si aggiungono, come una sorta di appendice, quelle altre specie (generalmente non molte) e posseggono quasi tue le proprietà prescelte; alcune di esse mancano di quale proprietà, alcune altre di quale altra proprietà: e mentre concordano con il resto quasi quanto concordano tra loro, non somigliano in misura eguale a nessun altro gruppo. La nostra concezione della classe è pur sempre fondata sui caraeri, e la classe potrebbe essere definita come quelle cose e o posseggono quell’insieme di caraeri, oppure somigliano, alle cose e posseggono quell’insieme di caraeri, più di quanto non somiglino a qualsiasi altra cosa.

Frontespizio della prima edizione del Sistema di logica (Londra, 1843)

E al contrario di quello e accade per la somiglianza tra sensazioni semplici e fai fondamentali, questa somiglianza non è di per se stessa impermeabile all’analisi. Perfino il grado più basso di somiglianza è creato dal possesso di caraeri comuni. Tuo quello e somiglia al genere Rosacee più di quanto non somigli a ogni altro genere, gli somiglia peré dei caraeri di quel genere ne possiede un numero maggiore e non dei caraeri di ogni altro genere. Né possono esserci vere e proprie difficoltà nel rappresentare, mediante un’enumerazione dei caraeri, la natura e il grado

di somiglianza streamente sufficiente a far rientrare nella classe un qualsiasi oggeo. Ci sono sempre alcune proprietà comuni a tue le cose incluse nella classe. Spesso ce ne sono altre a cui certe cose, e sono tuavia comprese nella classe, fanno eccezione. Ma gli oggei e costituiscono eccezioni rispeo a un caraere non sono eccezioni rispeo a un altro: la mancanza di somiglianza in alcuni particolari dev’essere compensata dalla somiglianza in altri particolari. Pertanto, la classe è costituita dal possesso di tutti i caraeri universali e della maggior parte di quei caraeri e ammeono eccezioni. Probabilmente, una pianta e avesse ovuli erei, stimmi divisi, possedesse albume e fosse priva di stipule, non verrebbe classificata tra le Rosacee. Ma potrebbe darsi e mancasse di uno o più di questi caraeri e tuavia venisse faa rientrare tra le Rosacee. Ciò accadrebbe peré, facendovela rientrare, si soddisferebbero meglio gli scopi di una classificazione scientifica. Infai, siccome le sue proprietà note concordano tanto da vicino con la somma dei caraeri della classe, è probabile e, per quelle sue proprietà e non sono ancora state scoperte, somigli a quella classe più e a qualsiasi altra. Di conseguenza, non soltanto i gruppi naturali sono determinati dai caraeri non meno di quanto lo siano i gruppi artificiali; ma anzi, sono costituiti in vista e in ragione di quei caraeri. In vista, però, non soltanto di quei caraeri e sono rigorosamente comuni a tui gli oggei compresi nel gruppo, ma dell’intiero corpo di caraeri e si trovano tui nella maggior parte degli oggei e, la maggior parte, in tui gli oggei del gruppo. Pertanto la nostra concezione della classe — l’immagine e la rappresenta nella nostra mente — è quella di un campione completo in tui i suoi caraeri; più naturalmente, di un campione e, possedendo tui questi caraeri nel grado più alto in cui possano mai trovarsi, è il più adao a esibire iaramente e in maniera spiccata e cosa essi siano. Proprio facendo mentalmente riferimento a questo campione, non già in sostituzione della definizione della classe, ma allo scopo di illustrare questa definizione, determiniamo di solito, e a tuo nostro vantaggio, se un qualsiasi individuo o una qualsiasi specie appartengano alla classe o non vi appartengano. E questo, mi sembra, è quel tanto di vero e c’è nella dorina dei tipi. Vedremo subito e là dove la classificazione vien faa allo scopo esplicito di una ricerca induiva speciale non è facoltativo, ma è necessario a soddisfare le condizioni di un metodo induivo correo, e si stabilisca una specie-tipo o un genere-tipo: quello cioè e manifesta in grado più

eminente quel fenomeno particolare e stiamo indagando. Ma di questo parleremo in séguito. Per completare la teoria dei gruppi naturali non resta e dire poe parole sui princìpi della nomenclatura e le si adaa. 5. Come abbiamo deo, una nomenclatura scientifica è un sistema dei nomi dei generi o delle specie. esti nomi, come altri nomi di classe, sono definiti dall’enumerazione dei caraeri distintivi della classe. Il solo merito e un insieme di nomi può avere oltre a questo, è quello di trasmeere, in virtù del modo in cui i nomi stessi sono costruiti, il maggior numero d’informazioni possibile, cosicé quando si trai di ricordare quello e sa, una persona e conosca quella cosa può ricevere tuo l’aiuto e il nome le può dare, menre i non conosca la cosa può ricevere, al suo riguardo, tua la conoscenza e il caso permee e si riceva semplicemente dal nome. Ci sono due modi per dare questa sorta di significanza al nome di un genere o d’una specie. Il metodo migliore e però, sfortunatamente, può essere applicato soltanto di rado, si ha quando si fa in modo e in virtù della sua stessa formazione la parola indii quelle stesse proprietà e è destinata a connotare. Naturalmente, il nome di un genere o d’una specie non connota tue le proprietà di quel genere o di quella specie, peré queste ultime sono inesauribili, ma soltanto quelle proprietà e sono sufficienti a distinguere il genere o la specie: cioè quelle proprietà e sono un segno sicuro delle proprietà rimanenti. Ora, solo molto raramente possono rispondere a questo scopo una sola proprietà o ane due o tre proprietà qualsiasi. Il distinguere la margherita comune da tue le altre specie di piante riiederebbe la specificazione di molti caraeri: e un nome non può, senza essere troppo ingombrante per l’uso, dare indicazioni, in virtù della sua etimologia e del modo in cui è stato costruito, su più e poissime di tali proprietà. Pertanto, la possibilità di una nomenclatura idealmente perfea è probabilmente limitata al solo caso in cui abbiamo la fortuna di essere in possesso di qualcosa e le si approssimi: la nomenclatura della imica elementare. Le sostanze, semplici o composte, di cui si occupa la imica sono specie, e, come tali, le proprietà e distinguono ciascuna di esse da tue le altre sono innumerevoli; ma nel caso delle sostanze composte (quelle semplici non sono abbastanza numerose da riiedere una nomenclatura sistematica) c’è una sola proprietà, la composizione imica, e è di per se stessa sufficiente a distinguere la specie e (con certe riserve non ancora comprese a fondo) è un segno sicuro

di tue le altre proprietà del composto. Era perciò sufficiente far sì e il nome del composto esprimesse, di primo acito, la sua composizione imica: era cioè sufficiente formare il nome del composto in una quale maniera uniforme a partire dai nomi delle sostanze semplici e entrano nel composto come suoi elementi. E questo fu fao, in modo estremamente abile e con oimo successo, dai imici francesi, ane se ora la loro nomenclatura è diventata inadeguata ad esprimere in modo conveniente i complicatissimi composti oggi noti ai imici. La sola cosa e i imici francesi lasciarono inespressa era la proporzione esaa in cui si combinano gli elementi: dopo la fondazione della teoria atomica si è trovato e con un semplice adaamento della terminologia da loro escogitata è possibile esprimere ane tale proporzione. Ma là dove i caraeri e si devono prendere in considerazione allo scopo di designare la specie in maniera sufficiente sono troppo numerosi per essere significati tui dalla derivazione del nome, e nessuno di tali caraeri ha un’importanza talmente preponderante da giustificare il fao e lo si mea in evidenza allo scopo di indicarlo nel modo e abbiamo deo, possiamo avvalerci di una risorsa sussidiaria. Ane se non ci è possibile indicare le proprietà distinive della specie, possiamo però indicare le sue affinità naturali più prossime, incorporando nel nome del genere il nome del gruppo naturale prossimo di cui è una delle specie. Su questo principio si fonda l’ammirevole nomenclatura binaria della botanica e della zoologia. In questa nomenclatura il nome di ogni specie è costituito dal nome del genere, o del gruppo naturale immediatamente superiore, a cui si aggiunge una parola e distingue la specie particolare. L’ultima porzione del nome composto vien presa, quale volta, da qualcuna delle peculiarità in cui la specie in parola differisce dalle altre specie del genere, come «Clematide integrifolia», «Potentilla alba», «Viola palustris», «Artemisia vulgaris»; quale altra volta la si prende da circostanze di natura storica, come «Narcissus poëticus», «Potentilla tormentilla» (e indica e la pianta è quella stessa e prima era conosciuta con l’ultimo nome) «Exacum Candolli» (dal fao e il suo scopritore fu De Candolle); e quale altra volta la parola è puramente convenzionale, come «laspi bursapastoris», «Ranunculus thora»; e ha ben poca importanza quale sia questa parola, dal momento e, indipendentemente dalla convenzione, il secondo nome o (come viene iamato di solito) il nome specifico, potrebbe al massimo esprimere soltanto

una piccolissima parte della connotazione del termine. Ma aggiungendo a questo nome il nome del genere superiore siamo in grado di rimediare nel modo migliore possibile al fao e ci è impossibile escogitare un nome e esprima i caraeri distintivi della specie. In ogni caso facciamo in modo e il nome esprima tanti caraeri quanti sono comuni al gruppo naturale prossimo in cui è compresa la specie. Se ane quei caraeri comuni sono tanto numerosi e tanto poco familiari da riiedere un’estensione ulteriore della medesima risorsa, invece di una nomenclatura binaria potremmo adoare una nomenclatura ternaria. La cosa è stata faa nella nomenclatura della mineralogia, proposta dal professor Mohs. «I nomi da lui costruiti sono composti, non da due, ma da tre elementi, e designano rispeivamente il genere la specie e l’ordine; così, ci sono molte specie come: calce romboedrica aloide, fluorite romboedrica aloide, barite romboedrica aloide»c. Comunque, si è trovato e la costruzione binaria è sufficiente in botanica e in zoologia, le sole scienze nelle quali questo principio generale sia stato finora adoato con successo nella costruzione di una nomenclatura. Oltre al vantaggio e possiede per il fao di dare ai nomi delle specie la massima quantità di significato indipendente compatibile con le circostanze del caso, questo principio della nomenclatura risponde ane allo scopo di economizzare immensamente sull’uso dei nomi e di impedire e la memoria venga gravata da un fardello altrimenti intollerabile. Come osserva il door Whewelld, quando i nomi delle specie diventano estremamente numerosi è assolutamente necessario ricorrere a quale artificio e renda possibile il ricordare e l’applicare quei nomi. «Per esempio, ai tempi di Linneo le specie note di piante erano diecimila, e ora sono, con ogni probabilità, sessantamila. Sarebbe inutile tentar di costruire e di impiegare nomi separati per ciascuna di queste specie. La divisione degli oggei in un sistema classificatorio subordinato ci mee in grado di introdurre una nomenclatura e non riiede quest’enorme numero di nomi. Ciascun genere ha il suo nome, e le specie sono contrassegnate dall’aggiunta di quale epiteto al nome generico. In questa maniera, Linneo trovò e per designare con precisione tue le specie vegetali note ai suoi tempi, erano sufficienti circa milleseecento nomi generici». E ane se, da allora, il numero dei nomi generici è cresciuto moltissimo, tuavia non è affao cresciuto in proporzione al crescere del numero delle specie e conosciamo. a. Nov. Org. Renov.,

pp. 286, 287.

b. Hist. Sc. Id.,

II, pp. 120-22. c. Nov. Org. Ren., p. 274. d. Hist. Sc. Id., I, p. 133. 1. John Lindley (1799-1865), botanico inglese, primo professore di botanica all’Università di Londra dal 1829 al 1860. Contro il sistema di classificazione di Linneo, sostenne la necessità di un sistema di una classificazione «naturale», ane se le sue ricere sulla struura delle piante lo portarono a oscillazioni notevoli a riguardo di quest’ultimo. Tra le sue opere principali ricordiamo: Observations on the Structure of Fruits [Osservazioni sulla struttura dei frutti](1819); A Natural System of Botany [Sistema naturale di botanica] (1836) e incorpora l’opera citata nel testo (e e comparve nel 1830) Key to Structural and Systematic Botany [Chiave alla botanica sistematica e strutturale] (1835) Elements of Botany [Elementi di botanica] (1841), oltre a numerose opere di orticultura.

CAPITOLO VIII. LA CLASSIFICAZIONE IN SERIE 1. Finora abbiamo preso in considerazione i princìpi della classificazione scientifica soltanto nella misura in cui questa ha da fare con la formazione di gruppi naturali: a questo punto molti di coloro e hanno tentato di istituire una teoria dell’ordinamento naturale — compreso, tra gli altri, il door Whewell — si sono arrestati. Rimane, tuavia, un’altra parte, non meno importante, della teoria; e, per quanto ne so, fino ad oggi questa parte non è ancora stata traata sistematicamente da nessun autore, eccezion faa per il signor Comte. Si traa dell’ordinamento in serie dei gruppi naturalia. Come abbiamo deo prima, il fine della classificazione in quanto strumento per l’indagine sulla natura è quello di farci pensare assieme quegli oggei e hanno in comune il maggior numero di proprietà e e perciò abbiamo più frequenti occasioni di prendere in considerazione congiuntamente nel corso delle nostre induzioni. Le nostre idee degli oggei vengono così disposte nell’ordine più favorevole alla felice prosecuzione delle ricere induive in generale. Ma quando lo scopo è quello di facilitare quale ricerca induiva in particolare, c’è bisogno di qualcosa di più. Peré possa servire a questo scopo la classificazione deve riunire quegli oggei la cui contemplazione simultanea è probabile e gei la massima luce su quell’argomento particolare. Poié quest’argomento è costituito dalle leggi di quale fenomeno o di quale insieme di fenomeni connessi tra loro, come fondamento della classificazione occorre scegliere lo stesso fenomeno, o lo stesso insieme di fenomeni, e si prende in considerazione. I requisiti di una classificazione intesa a facilitare lo studio di un particolare fenomeno sono: primo, e si portino in una sola classe tue quelle specie di cose e manifestano il fenomeno in parola; secondo, e si dispongano queste specie in una serie, secondo il grado in cui manifestano il fenomeno di cui si traa, a cominciare da quelle e ne manifestano di più, per finire con quelle e ne manifestano di meno. Fino ad oggi l’esempio principale di una classificazione così faa ci è fornito dall’anatomia e dalla fisiologia comparate: da queste due scienze, pertanto, trarremo le nostre illustrazioni.

2. Posto e l’oggeo sia costituito dall’indagine delle leggi della vita animale, il primo passo da compiere dopo e del fenomeno stesso si sia formata la concezione più distinta e ci è possibile formare allo stato auale delle nostre conoscenze, consiste nel costituire in una sola grande classe (la classe degli animali) tue le specie note di esseri in cui si presenta il fenomeno, per varie e siano le sue combinazioni con altre proprietà e per quanto differenti siano i suoi gradi. Siccome alcune di quelle specie manifestano il fenomeno generale della vita animale in grado molto alto e altre in grado insignificante e appena appena sufficiente a farsi riconoscere, successivamente dovremo disporre le varie specie in una serie, in modo e l’una segua dall’altra secondo i gradi in cui manifestano il fenomeno ciascuna per conto proprio. Cominceremo perciò dall’uomo, e finiremo con le specie più imperfee di zoofiti. esto significa semplicemente e i casi dai quali dovremo ricavare induivamente la legge devono essere collocati nell’ordine e ci è prescrio implicitamente da uno dei quaro metodi dell’indagine sperimentale discussi nel Libro precedente: il metodo delle variazioni concomitanti. Come abbiamo osservato in precedenza, spesso il metodo delle variazioni concomitanti è l’unico cui si possa fare ricorso con la sicurezza di raggiungere una conclusione vera in quei casi in cui disponiamo soltanto di mezzi limitati per separare, per mezzo di esperimenti artificiali, certe circostanze e di solito sono congiunte. Il principio sul quale si fonda questo metodo è e fai e aumentano o diminuiscono insieme e scompaiono insieme sono o causa ed effeo, o effei di una causa comune. ando si sia accertato e tra le variazioni sussiste davvero questa relazione, tra i fai medesimi si può fiduciosamente stabilire una connessione sia come legge di natura sia ane soltanto come legge empirica, secondo le circostanze. Che l’applicazione di questo metodo debba essere preceduta dalla formazione di una serie come quella e abbiamo descrio, è cosa troppo ovvia peré sia necessario meerla in evidenza; e le necessità proprie delle nostre operazioni induive suggeriscono, in maniera fin troppo naturale peré la cosa debba essere illustrata diffusamente in questo luogo, e tuo quello e dobbiamo fare è disporre in serie un certo insieme di oggei secondo il grado in cui questi oggei manifestano un quale fao di cui stiamo cercando la legge. Ma ci sono casi in cui la disposizione riiesta dallo scopo speciale e ci proponiamo diventa il principio determinante

della classificazione dei medesimi oggei, per scopi generali. esto accadrà, naturalmente e opportunamente, quando le leggi degli oggei delle quali andiamo alla ricerca nella nostra indagine particolare impersonino una parte così importante nel caraere generale e nella storia di questi oggei — esercitino, in altre parole, un’influenza così grande nella determinazione dei fenomeni di cui sono l’agente o il teatro — e tue le altre differenze tra gli oggei vengano opportunamente considerate come pure e semplici modificazioni del solo fenomeno e si sta cercando, come effei determinati dall’azione congiunta, con le leggi di quel fenomeno, di quale circostanza accidentale. Così, nel caso degli esseri animati, le differenze tra una classe di animali e un’altra possono essere ragionevolmente considerate come pure e semplici modificazioni del fenomeno generale: la vita animale; si traa di modificazioni e si originano o dai gradi differenti in cui il fenomeno si manifesta in differenti animali, o dalla mescolanza degli effei di cause secondarie, proprie della natura particolare di ciascun animale, con gli effei prodoi dalle leggi generali della vita, continuando queste leggi ad esercitare un’influenza predominante sul risultato. Così stando le cose, non è possibile condurre con successo nessun’altra ricerca induiva sugli animali, se non subordinatamente alla grande ricerca sulle leggi universali della vita animale; e la classificazione degli animali e meglio si adaa a questo scopo sarà quella e si adaa più d’ogni altra a tui gli altri scopi della scienza della zoologia. 3. Per istituire una classificazione di questo genere, o ane per apprenderla una volta e sia stata istituita, è indispensabile e si possegga la capacità di riconoscere la somiglianza essenziale tra un fenomeno nei suoi gradi più minuti e nelle sue forme più oscure, e quello e viene iamato il medesimo fenomeno nella perfezione massima del suo sviluppo: in altre parole, è indispensabile possedere la capacità di riconoscere l’identità di tui quei fenomeni e differiscono soltanto per il loro grado e per certe proprietà e si suppone siano causate dalla differenza di grado. Allo scopo di riconoscere quest’identità o, in altre parole, quest’esaa somiglianza qualitativa, è indispensabile assumere una specie-tipo. Come tipo della classe dobbiamo considerare quella tra le specie comprese nella classe e esibisce nel loro grado più alto le proprietà e costituiscono la classe medesima, considerando le altre varietà come casi di quella e potremmo iamare la degenerazione da quel tipo: deviazioni dal tipo e sono

contrassegnate da una minore intensità della proprietà o delle proprietà caraeristie. Infai, ogni fenomeno si può studiare meglio nei casi in cui, caeteris paribus, esiste con intensità maggiore. Proprio in questi casi, infai, esisteranno, nel loro grado più alto, gli effei e dipendono o dal fenomeno o dalle medesime cause da cui il fenomeno dipende. In questi casi e solo in questi, di conseguenza, gli effei del fenomeno o gli effei connessi con il fenomeno possono diventarci completamente noti, di modo e possiamo imparare a riconoscere i loro gradi più bassi, o addiriura i loro semplici rudimenti, nei casi in cui lo studiarli direamente sarebbe difficile o addiriura impossibile. Per non menzionare il fao e nei suoi gradi più alti il fenomeno può essere accompagnato da effei o da circostanze collaterali e nei suoi gradi più bassi non compaiono per nulla: infai, peré tali effei o tali circostanze collaterali si producano in maniera significante, è indispensabile e la causa abbia un grado di intensità maggiore di quello e s’incontra colà. Per esempio, nel corso della vita dell’uomo (e la specie «uomo» è quella in cui si trovano, nel loro grado più alto, sia i fenomeni della vita animale sia i fenomeni della vita organica) si sviluppano molti fenomeni della vita animale e le varietà inferiori di animali non presentano. Sebbene tali fenomeni siano propri soltanto dell’uomo, la conoscenza di queste proprietà può essere di grande aiuto nella scoperta delle condizioni e delle leggi dei fenomeni generali della vita, e l’uomo ha in comune con quegli animali inferiori. E tali proprietà sono addiriura considerate, e a ragione, proprietà della natura animata stessa: peré possono evidentemente essere associate alle leggi generali della natura animale; peré abbiamo buone ragioni per ritenere e organi più perfei dei nostri, o ane strumenti più perfei dei nostri, potrebbero scoprire, in tui gli animali, alcuni rudimenti, ossia alcuni gradi molto bassi di queste proprietà; e peré si può dire senza tema di sbagliare e le proprietà e una certa cosa manifesta nell’esaa misura in cui appartiene alla classe — nella misura, cioè, in cui possiede gli aributi principali e costituiscono la classe — sono proprietà di quella classe. 4. Rimane ora da prendere in considerazione come la distribuzione interna della serie possa aver luogo nel modo più appropriato: in quale maniera la serie debba essere divisa in ordini, famiglie e generi. Il principio più importante di questa suddivisione dev’essere, naturalmente, il principio dell’affinità naturale: le classi e vengono formate

devono essere gruppi naturali, e della formazione di questi ultimi abbiamo già traato a sufficienza. Ma i princìpi del raggruppamento naturale devono essere applicati subordinatamente al principio e guida la formazione della serie naturale. I gruppi non devono essere costruiti in modo da meere nel medesimo gruppo cose e dovrebbero occupare punti differenti della scala generale. La precauzione, e è necessario osservare a questo proposito, è e le divisioni primarie devono essere fondate, non già sopra tue le distinzioni indiscriminatamente, ma sopra quelle distinzioni e corrispondono a variazioni nel grado del fenomeno più importante. Le serie della natura animata dovrebbero essere spaccate in parti in quei punti in cui la variazione del grado d’intensità del fenomeno più importante (punti contrassegnati dai caraeri principali del fenomeno: sensazione, pensiero, movimenti volontari, e via enumerando) comincia con l’essere accompagnata da cambiamenti cospicui nelle proprietà miste dell’animale. esti cambiamenti rilevanti hanno luogo, per esempio, dove termina la classe dei Mammiferi; nei punti in cui i Pesci sono separati dagli Insei, gli Insei dai Mollusi, e via dicendo. ando siano stati formati in questo modo, i gruppi naturali primari comporranno le serie per pura e semplice sovrapposizione, senza bisogno di essere ridistribuiti, e ciascuno di essi corrisponderà a una sezione ben definita della scala. In maniera analoga, ciascuna famiglia dovrebbe, se è possibile, essere suddivisa in modo tale e una porzione di essa stia più in alto e l’altra più in basso, ane se, naturalmente, nella scala generale le due sezioni saranno contigue. E solo quando questa ripartizione sia impossibile sarà permesso fondare le suddivisioni rimanenti sopra caraeri e non abbiano nessuna connessione ben determinabile con il fenomeno più importante. ando il fenomeno principale trascende in importanza tue le altre proprietà sopra le quali si potrebbe fondare una classificazione di tanto di quanto le trascende nel caso dell’esistenza degli esseri animati, il primo principio cui deve obbedire un ordinamento naturale — vale a dire il principio secondo il quale i gruppi naturali devono essere formati in conformità con i caraeri più importanti — è, in generale, sufficiente a salvaguardarci da violazioni significanti della regola e abbiamo enunciato per ultima. Fin dal tempo in cui si cominciò a studiare con successo l’anatomia e la fisiologia degli animali, i tentativi di dare una classificazione scientifica degli animali medesimi sono stati compiuti facendo istintivamente un certo qual riferimento a una serie naturale, e sono andati

d’accordo, in un numero di punti molto maggiore di quelli nei quali ne hanno differito, con la classificazione e si sarebbe dovuta, in modo più naturale, fondare su tale serie. Ma l’accordo non è sempre stato completo, e ancor oggi è spesso materia di discussione quale, tra le diverse e svariate classificazioni esistenti, meglio si accordi con la vera scala d’intensità del fenomeno più importante. Per esempio, Cuvier è stato giustamente criticato per aver formato i suoi gruppi naturali facendo un riferimento indebitamente grande al modo d’alimentazione degli animali; circostanza, questa, connessa direamente soltanto con la vita organica, e e non conduce all’ordinamento più appropriato per gli scopi di un’indagine sulle leggi della vita animale, dal momento e in ogni gradino della scala della perfezione animale è dato trovare sia animali carnivori sia animali erbivori, sia, ancora, animali frugivori; invece la classificazione di de Blainville è stata considerata, da alte autorità, immune da questo difeo, in quanto con il puro e semplice ordine dei gruppi principali rappresenta in maniera correa la degenerazione successiva della natura animale dalle sue esemplificazioni più alte a quelle più imperfee. 5. Fino a questo momento l’unico grande caso di classificazione di una grossa porzione di un campo della natura, e sia stata trovata possibile in conformità con i princìpi enunciati qui sopra, è la classificazione degli animali. Neppure nel caso dei vegetali l’ordinamento naturale è stato spinto più in là della formazione dei gruppi naturali. I naturalisti hanno trovato, e probabilmente continueranno ancora a trovare, e è impossibile ordinare quei gruppi in una serie i cui termini corrispondano alle gradazioni reali del fenomeno della vita vegetativa e organica. Una tale differenza di grado può essere rintracciata tra la classe delle piante vascolate e quella delle piante cellulate, e include Lieni, Alghe, e altre sostanze, la cui organizzazione è più semplice e più rudimentale di quella dei vegetali di ordine superiore, e e pertanto si avvicinano maggiormente alla natura inorganica pura e semplice. Ma quando ci solleviamo molto al disopra di questo punto non troviamo nessuna differenza significante nel grado in cui le diverse piante posseggono le proprietà dell’organizzazione e della vita. Le dicotelidoni hanno una struura più complessa e, in un certo senso, un’organizzazione più perfea delle monocotiledoni; e l’organizzazione di alcune famiglie di dicotiledoni, quale, ad esempio, la famiglia delle Compositae, posseggono un’organizzazione alquanto più complessa del resto delle dicotiledoni. Ma le

differenze non sono di caraere troppo marcato, e non promeono di spandere una luce particolare sopra le condizioni e le leggi della vita e dello sviluppo dei vegetali. Se la spandessero, la classificazione dei vegetali dovrebbe essere compiuta, come quella degli animali, facendo riferimento alla scala o alla serie indicata. Bené fino ad oggi l’ordinamento scientifico della natura organica ci fornisca il solo esempio completo del vero principio della classificazione razionale, sia per quanto riguarda la formazione di gruppi, sia per quanto riguarda la formazione delle serie, questi princìpi possono essere applicati a tui quei casi nei quali l’umanità è iamata a dare una coordinazione mentale alle varie parti di un’estesa materia. I princìpi in parola si rivelano operanti tanto nel caso in cui gli oggei devono essere classificati per gli scopi dell’arte o degli affari, quanto nel caso in cui li si debba classificare per gli scopi propri della scienza. Per esempio, l’ordinamento appropriato di un codice legale dipende dalle medesime condizioni scientifie dalle quali dipendono le classificazioni della storia naturale; e non potrebbe esserci disciplina preparatoria a quell’importante funzione, migliore dello studio dei princìpi di un ordinamento naturale, non soltanto in astrao, ma ane nella loro applicazione effeiva alla classe di fenomeni per i quali le leggi furono elaborate originariamente, e e costituiscono ancora la scuola migliore per apprenderne l’uso. Di questo era perfeamente consapevole quella grande autorità in fao di codificazione e fu Geremia Bentham; e il suo giovanile Fragment on Government [Frammento sul governo], e costituisce un’ammirevole introduzione a una serie di scrii mai eguagliati nel loro campo, contiene punti di vista iari e correi (fino dove arrivano) del significato di un ordinamento naturale: punti di vista e ben difficilmente sarebbero potuti venire in mente a qualcuno e fosse vissuto prima dell’età di Linneo e di Bernard de Jussieu1. a. Nella sua risposta alle mie obiezioni (Philosophy of Discovery, p. 270) il door Whewell diiara di «essersi arrestato davanti alla dorina di una serie di esseri organizzati, o, per meglio dire, di essere passato ad altro», peré «pensava e fosse caiva e miope filosofia». Se l’ha fao, l’ha fao evidentemente senza capire questa forma della dorina. Infai continua citando un passo della sua History in cui la dorina e egli condanna è designata come quella secondo cui ci sarebbe «un puro e semplice progresso lineare nella natura, progresso e meerebbe ciascun genere in contao soltanto con quelli e lo precedono e quelli e lo seguono». Ora, la serie di cui si traa nel testo concorda con la progressione lineare soltanto in questo: e in entrambi i casi si traa di una progressione.

Sarebbe sicuramente possibile ordinare (per esempio) tui i luoghi secondo l’ordine della loro distanza dal Polo Nord, ane se in questo caso si traerebbe, non semplicemente di una pluralità, ma di un intiero cerio di luoghi per ogni singolo gradino della scala. 1. Bernard de Jussieu (1699-1777), botanico francese. Studiò medicina a Montpellier; nel 1722 entrò al Jardin du Roy di Parigi dove intraprese ad ordinare le piante secondo gruppi e a lui apparivano «naturali». Alla sua classificazione si ispirò il di lui nipote, Antoine Laurent de Jussieu (1784-1836), per la «classificazione naturale», e costituisce la base della classificazione moderna delle piante.

LIBRO QUINTO

LE FALLACIE

«Errare non modo affirmando et negando, sed etiam sentiendo, et in tacita hominum cogitatione contingit»a. HOBBES, Computano sive logica, cap. V.

«Il leur semble qu’il n’y a qu’à douter par fantaisie, et qu’il n’y a qu’à dire en général que notre nature est infirme; que notre esprit est plein d’aveuglement; qu’il faut avoir un grand soin de se défaire de ses préjugés, et autres oses semblables. Ils pensent que cela suffit pour ne plus se laisser séduire à ses sens, et pour ne plus se tromper du tout. Il ne suffit pas de dire que l’esprit est foible, il faut lui faire sentir ses foiblesses. Ce n’est pas assez de dire qu’il est sujet à l’erreur, il faut lui découvrir en quoi consistent ses erreurs»b. MALEBRANCHE, Recherche de la vérité. a.

«L’errore non si trova soltanto nell’affermare e nel negare, ma ane nel sentire, e nel tacito pensar tra sé e sé degli uomini». b. «A costoro sembra e basti dubitare quando ci salta in mente; e basti dire, in generale, e la nostra natura è debole e il nostro spirito pieno di cecità; e si debba prendere gran cura per disfarsi dei pregiudizi e di altre cose simili. Pensano e questo sia sufficiente per non lasciarsi sedurre dai propri sensi, e per non sbagliarsi più. Ma non basta dire e lo spirito è fallibile: bisogna fargli sentire la sua fallibilità. Non è sufficiente dire e è soggeo all’errore: bisogna fargli scoprire in e cosa i suoi errori consistano».

CAPITOLO I. LE FALLACIE IN GENERALE 1. È una massima degli Scolastici e contrariorum eadem est scientia: non sappiamo mai realmente e cosa sia una cosa a meno e non siamo ane capaci di rendere ragione a sufficienza del suo opposto. In conformità con questa massima, una porzione non indifferente della maggior parte dei traati di logica è dedicata alla traazione delle fallacie; e questa pratica è troppo meritevole d’essere osservata, peré a noi sia consentito di allontanarcene. Per essere completa, la filosofia del ragionamento deve comprendere tanto la teoria del caivo ragionamento quanto la teoria del ragionamento buono. Ci siamo sforzati di accertare i princìpi in base ai quali è possibile controllare se una qualsiasi prova sia sufficiente, e in base ai quali è possibile stabilire in anticipo la natura e la quantità delle prove necessarie a provare una qualsiasi conclusione data. Se ci si conformasse a questi princìpi, sarebbe pur sempre vero e il numero e il valore delle verità accertate risulterebbero limitati dalle opportunità, o dall’industriosità, dall’ingegno e dalla pazienza del ricercatore singolo, ma almeno non si abbraccerebbe l’errore in luogo della verità. Ma il consenso generale del genere umano, consenso fondato sulla sua esperienza, aesta e nell’impiego delle sue facoltà raziocinative l’umanità è ben lontana da questa, sia pur negativa, specie di perfezione. Nella condoa della vita — nelle faccende pratie dell’umanità — le inferenze sbagliate, le interpretazioni scorree dell’esperienza, sono assolutamente inevitabili se non a prezzo di un’intensa coltivazione della facoltà del pensiero; e presso la maggior parte della gente queste inferenze erronee, e dànno luogo ad errori corrispondenti nella condoa degli uomini, sono deplorabilmente frequenti ane dopo e gli uomini abbiano raggiunto il loro grado di cultura più alto. Perfino nelle speculazioni alle quali si sono dedicati sistematicamente intellei eminenti, e nelle quali lo spirito colleivo del mondo scientifico è sempre disponibile per prestare aiuto agli sforzi degli individui e per correggere le loro aberrazioni, alla lunga le opinioni e non riposano sopra induzioni corree sono state espulse, generalmente parlando, soltanto dalle scienze più perfee, vale a

dire da quelle scienze il cui oggeo è il meno complicato. In quei seori della ricerca scientifica e hanno da fare con fenomeni naturali più complessi, e specialmente in quei seori e hanno per oggeo l’uomo, sia come essere morale e intelleuale sia come essere sociale sia ane come essere fisico, la diversità di opinioni e ancora predomina tra le persone colte e l’eguale confidenza con cui persone e pensano nei modi più opposti abbracciano i loro rispeivi dogmi sono la prova, non soltanto e a proposito di questi argomenti non sono ancora stati adoati i modi di filosofare giusti, ma e sono stati adoati i modi di filosofare sbagliati; non soltanto e in generale i pensatori hanno perso di vista la verità, ma e spesso hanno abbracciato l’errore; e ane la parte più colta della specie umana non ha ancora imparato ad astenersi dal trarre conclusioni e non siano garantite dalle prove. L’unica salvaguardia completa contro il ragionamento caivo è l’abito del ragionar bene: la familiarità con i princìpi del ragionamento correo e la pratica nell’applicazione di questi princìpi. Non sarà comunque superfluo prendere in considerazione quali siano i modi più comuni di ragionar male, quali siano le false apparenze e hanno maggiori probabilità di distogliere dall’osservanza dei veri princìpi dell’induzione; quali, in breve, siano le varietà più comuni e più pericolose di prove apparenti e possono sviare le persone inducendole ad abbracciare opinioni per le quali non esistono prove realmente concludenti. Un catalogo delle varietà di prove e sembrano tali, ma e non sono prove reali, consiste in un’enumerazione delle fallacie. Se non contenesse una tale enumerazione, la presente opera soffrirebbe perciò di una manevolezza essenziale. E mentre certi autori, e nella loro teoria del ragionamento hanno fao rientrare soltanto la deduzione, coerentemente con questa limitazione hanno confinato le loro osservazioni alle fallacie e hanno la loro sede in quella parte del processo della ricerca, noi, e professiamo di traare del processo tuo intiero, alle indicazioni per portare correamente a termine tale processo dovremo aggiungere avvertenze e ci impediscano di compierlo scorreamente in ogni e qualsiasi sua parte: sia e il difeo del ragionamento risieda nella sua parte deduiva sia e risieda in quella sperimentale, sia e risieda nel fao e si prescinde completamente dalla deduzione e dall’induzione.

2. ando si prendono in considerazione le fonti dell’inferenza infondata, è inutile meere nel conto gli errori e hanno origine, non da un metodo sbagliato o magari dall’ignoranza del metodo giusto, ma da una dimenticanza casuale dovuta alla frea o alla disaenzione nell’applicazione dei veri princìpi dell’induzione. Come gli sbagli e facciamo accidentalmente quando eseguiamo un’addizione, questi errori non hanno bisogno di analisi filosofica o di classificazione; le considerazioni di natura teoretica non geano luce sui mezzi per evitarli. In questo traato la nostra aenzione deve concentrarsi, non già sulla pura e semplice incapacità a compiere l’operazione nel modo giusto (i soli rimedi a tale incapacità sono infai un’accresciuta aenzione e una pratica più assidua) ma su quei modi secondo cui la si compie in maniera fondamentalmente sbagliata; sulle condizioni nelle quali la mente umana si persuade d’avere ragioni sufficienti per trarre una conclusione, cui peraltro è arrivata senza seguire nessuno dei metodi legiimi d’induzione, e e non ha tentato di meere alla prova, neppure in modo trascurato e affreatamente, mediante quei modi legiimi. 3. C’è un’altra branca di quella e possiamo iamare la filosofia dell’errore, e dobbiamo menzionare qui ane se la menzioniamo soltanto per escluderla dagli oggei della nostra considerazione. Le fonti delle opinioni erronee sono di due specie: morali e intelleuali. Di queste, le fonti morali non rientrano nell’ambito di questo lavoro. Possono essere classificate soo due titoli distinti: l’indifferenza nei confronti del conseguimento della verità e l’inclinazione. Il caso più comune di inclinazione si ha quando ci lasciamo influenzare dai nostri desideri; però, se la conclusione è tale da meere in azione una qualsiasi delle passioni più forti, il risio e adoiamo indebitamente una conclusione per noi spiacevole è quasi tanto grande quanto quello e ne adoiamo una e ci fa piacere. anto più una proposizione è stata calcolata per allarmarle, tanto più le persone dotate di un caraere timoroso sono predisposte a crederci. In realtà, è una legge psicologica deducibile dalle leggi più generali della costituzione mentale dell’uomo, e una forte passione ci rende creduli circa l’esistenza degli oggei adai ad eccitarla. Ma pur essendo per la maggior parte delle persone le più potenti di tue, le cause morali delle opinioni non sono e cause remote: non agiscono direamente, ma per mezzo delle cause intelleuali, con le quali hanno la medesima relazione e le circostanze, e nella teoria della medicina

vengono iamate «cause predisponenti», hanno con le cause cosiddee «eccitanti». In sé e per sé, l’indifferenza nei confronti della verità non può produrre una credenza erronea: piuosto essa agisce impedendo alla mente di raccogliere le prove appropriate o di applicare alle prove il controllo di un’induzione legiima e rigorosa; per colpa di quest’omissione la mente è esposta, senza alcuna protezione, a ogni sorta di prove apparenti e le si presentino spontaneamente o e essa stessa porti alla luce quando abbia voglia di darsi la sia pur minima pena di cercarle. Così pure, non si può dire e sia fonte di conclusioni sbagliate l’inclinazione. Non possiamo credere a una proposizione soltanto peré desideriamo crederle o soltanto peré abbiamo paura di crederle. Le inclinazioni più violente a trovar vere un insieme di proposizioni non costringeranno a crederle vere neppure il più debole degli uomini, se il suo intelleo non ha almeno una pallida traccia di buone ragioni per crederci; se cioè il suo intelleo non è neppure in possesso di prove apparenti. L’inclinazione agisce indireamente, meendogli davanti agli oci le ragioni intelleuali della credenza in una forma distorta o incompleta. Lo induce, non appena abbia il presentimento e i risultati di tale induzione possano riuscirgli spiacevoli, a rifuggire dalla tediosa fatica di un’induzione rigorosa; e, nella ricerca e costui istituisce, lo induce ad esercitare in modo sleale la propria aenzione (e in certa misura è volontaria) facendo in modo e ne presti di più a quelle prove e sembrano essere favorevoli alla conclusione desiderata e di meno a quelle e sembrano esserle sfavorevoli. Agisce ane inducendolo a cercare con sollecitudine buone ragioni, o ragioni apparenti, per sostenere le opinioni e si conformano ai suoi interessi o ai suoi sentimenti e per opporsi invece a quelle e a tali sentimenti e a tali interessi repugnano. E quando gli interessi o i sentimenti sono comuni a grandi quantità di persone, vengono acceate e diventano moneta corrente ragioni alle quali non si potrebbe dar rea neppure per un momento, come tali, se a proprio favore la conclusione non avesse nulla di più potente delle proprie ragioni. Le parzialità naturali o acquisite dell’umanità sfornano ad ogni piè sospinto teorie filosofie il cui solo titolo di raccomandazione consiste nel fao e offrono premesse adae a provare le dorine predilee o a giustificare i sentimenti favoriti; e quando una di queste dorine sia stata screditata in modo così completo da non servire più allo scopo per il quale fu creata, c’è sempre un’altra dorina pronta a prendere il suo posto. ando sia esercitata in favore di una qualsiasi persuasione o di un qualsiasi sentimento largamente diffusi, questa

propensione viene spesso abbellita di epiteti elogiativi, mentre l’abito contrario a questo, abito e consiste nel mantenere il giudizio completamente subordinato alle prove, viene bollato con vari termini dispregiativi, quali: sceicismo, immoralità, freddezza, durezza di cuore, ed espressioni simili, secondo la natura del caso. Ma bené, quando non dipendano dalla pura e semplice abitudine e dal fao e gli sono state inculcate, le opinioni della generalità degli uomini abbiano la loro radice nelle inclinazioni assai più e nell’intelleo, una delle condizioni necessarie al trionfo della prevenzione morale è e essa riesca prima a corrompere l’intelligenza. Pur avendo la loro origine in cause morali, tue le inferenze erronee implicano l’operazione intelleuale e consiste nell’ammeere come sufficienti le prove insufficienti; e iunque stia in guardia contro tue le specie di prove inconcludenti e possono essere erroneamente scambiate per prove concludenti, non correrà il pericolo di essere indoo in quest’errore neppure dalla prevenzione più forte. Ci sono spiriti il cui intelleo è così fortemente agguerrito da non permeergli di rimaner ciei di fronte alla luce della verità, ane quando sono realmente desiderosi di farlo; con tua l’inclinazione di questo mondo, questi spiriti non potrebbero contrabbandare a se stessi come buone le argomentazioni caive. Se fosse possibile far tacere completamente le sofistierie dell’intelleo, la sofistieria dei sentimenti, privata dello strumento con cui lavora, sarebbe impotente. Una classificazione esauriente di tue quelle cose e, pur non essendo prove, risiano di apparire tali all’intelleo, dovrà perciò, di per se stessa, comprendere tui gli errori di giudizio e hanno la loro origine nelle cause morali, escludendo unicamente gli errori di pratica e si commeono contro una conoscenza migliore. Pertanto, l’oggeo di quella parte della nostra ricerca nella quale stiamo per addentrarci tra breve è costituito dall’esame di quelle diverse specie di prove apparenti e non sono prove affao, e di tue le prove apparentemente concludenti, e in realtà concludenti non sono. L’argomento non è fuori della portata della classificazione e di una esposizione sistematica. In realtà, le cose e non sono prove di nessuna conclusione data sono manifestamente infinite, e, poié non dipende da nessuna proprietà positiva, questa proprietà negativa non può essere messa a fondamento di una classificazione reale. Ma le cose e pur non essendo prove possono tuavia essere scambiate erroneamente per prove, possono essere classificate relativamente alla proprietà positiva, e invece

posseggono, di avere l’apparenza di prove. Possiamo disporle, a nostra scelta, in base all’uno o all’altro di due princìpi: in base alla causa e fa sì e abbiano l’apparenza di prove pur non essendo tali, o in base alla particolare specie di prove di cui hanno l’apparenza. La classificazione delle fallacie e stiamo per tentare nel prossimo capitolo sarà fondata, congiuntamente, su tu’e due queste considerazioni.

CAPITOLO II. CLASSIFICAZIONE DELLE FALLACIE 1. Nel tentar di stabilire certe distinzioni generali e differenzino l’una dall’altra le varie specie di prove fallaci, ci proponiamo un compito completamente differente da quello e si sono proposti pareci eminenti pensatori i quali, soo il nome di fallacie politie, o di altro genere, si sono limitati a fornire una semplice enumerazione di un certo numero di opinioni erronee, di false proposizioni generali e accade spesso di incontrare; di loci communes di caivi ragionamenti a proposito di quale argomento particolare. La logica non si occupa delle opinioni false e si dà il caso e la gente abbia, ma del modo in cui si arriva ad averle. La questione non è: quali fai si è creduto erroneamente, in una certa epoca, e fossero prova di certi altri fai? ma: qual era quella proprietà dei fai e ha condoo certe persone a questa supposizione sbagliata? ando si suppone, sia pure erroneamente, e un fao sia prova, o segno, di quale altro fao, quest’errore deve pur avere una causa: il presunto fao probante deve pur essere connesso in quale maniera particolare con il fao di cui si ritiene costituisca una prova; deve pur stare con quel fao in quale relazione particolare: in una relazione, senza la quale non sarebbe considerato soo quella certa luce. La relazione può essere una relazione e risulta dalla semplice osservazione dei due fai, l’uno accanto all’altro, o può essere una relazione e dipende da quale processo mentale in forza del quale è stata precedentemente stabilita un’associazione tra i due fai. In ogni caso, quale peculiarità la relazione non può non averla: ane nel caso delle aberrazioni più folli, il fao, di cui si può supporre e provi un altro fao, deve stare in quale posizione speciale rispeo a questo secondo fao: e se potessimo accertare e definire questa posizione speciale riusciremmo a scoprire l’origine dell’errore. Se non crediamo e due fai sono congiunti sempre o nella maggior parte dei casi, non possiamo considerare uno dei due fai come prova dell’altro fao. La ragione per cui crediamo e A sia la prova di B quando, vedendo A, siamo inclini ad inferirne B, consiste nel fao e crediamo e, dovunque c’è A, là ane B ci sia sempre, o nella maggior parte dei casi, sia come antecedente sia come conseguente sia come concomitante. La ragione

per cui quando vediamo A siamo inclini a non aspearci B — la ragione, cioè, per cui crediamo e A sia una prova dell’assenza di B — sta nel fao e crediamo e dove c’è A là B non si trovi mai, o si trovi solo raramente. In breve, le conclusioni erronee, non meno delle conclusioni corree, hanno una relazione invariabile con una formula generale iaramente espressa o assunta tacitamente. ando inferiamo un quale fao da quale altro fao e non lo prova davvero, allora, o abbiamo ammesso o, se non vogliamo contraddirci, dobbiamo ammeere, quale proposizione generale infondata relativa alla connessione tra i due fenomeni. Di conseguenza per ogni proprietà dei fai o del nostro modo di considerare i fai e ci conduca a credere e i fai sono abitualmente congiunti quando non lo sono, oppure e non sono congiunti mentre in realtà lo sono, c’è una specie corrispondente di fallacia: e un’enumerazione delle fallacie dovrebbe consistere in una specificazione di quelle proprietà dei fai e di quelle peculiarità del nostro modo di considerare i fai e dànno origine a quest’opinione erronea. 2. Dunque, per cominciare: la presunta connessione o la presunta incompatibilità tra due fai può essere una conclusione traa da certe prove (cioè da quale altra proposizione, o da più d’una proposizione) oppure può essere ammessa senza nessuna ragione di questo genere; può essere ammessa, come si dice, in base alla sua propria evidenza: abbracciata come una verità evidente di per sé, assiomatica. esto dà origine alla prima grande distinzione: quella tra le fallacie d’inferenza e le fallacie a prima vista. In quest’ultima divisione devono essere fai rientrare non soltanto tui i casi in cui una proposizione viene creduta vera e come tale viene sostenuta senza e ci sia, leeralmente, nessuna prova estrinseca traa vuoi dall’esperienza specifica vuoi dal ragionamento generale, ma ane quei casi più frequenti nei quali basta dare un’ociata a una proposizione peré si crei una presunzione in suo favore: questa presunzione non è sufficiente a giustificare la credenza, ma è sufficiente a indurci a far a meno dei princìpi di un’induzione regolare e a creare una predisposizione a credere alla proposizione in base a prove e, se tale presunzione non esistesse, sarebbero insufficienti. esta classe, e comprende la totalità di quelli e potremmo iamare «pregiudizi naturali» e e io iamerò indifferentemente «fallacie a prima vista» o «fallacie a priori», sarà messa a capo della nostra lista.

Le fallacie d’inferenza, ossia le conclusioni erronee trae da prove presunte, devono essere suddivise in base alla natura delle prove apparenti da cui sono trae le conclusioni; o (il e è la stessa cosa) secondo la specie particolare di buon ragionamento e la fallacia in parola simula. Ma prima occorre tracciare una distinzione, e non corrisponde a nessuna delle divisioni in cui sono ripartiti i ragionamenti buoni ma e trae la propria origine dalla natura dei ragionamenti caivi. Può darsi e sappiamo perfeamente quali sono le nostre prove, e tuavia ne tiriamo una conclusione falsa; può darsi e concepiamo con precisione quali siano le nostre premesse, quali presunti dati di fao o quali princìpi generali stiano a fondamento della nostra inferenza, e ciò nonostante può darsi e la nostra conclusione sia erronea, o peré le nostre premesse sono false o peré abbiamo inferito da esse qualcosa e non sono in grado di sorreggere. Ma un caso forse ancor più frequente è il caso in cui l’errore sorge dal fao e non si concepiscono le nostre premesse con la debita iarezza, cioè (come abbiamo mostrato nel libro precedentea), con la dovuta fermezza; dal fao e quando raccogliamo o quando acceiamo la nostra prova ce ne facciamo una certa concezione, mentre quando ne facciamo uso ce ne formiamo una concezione diversa; oppure dal fao e, man mano e procediamo, alle premesse dalle quali eravamo partiti sostituiamo sconsideratamente, e, in generale, senza rendercene conto, premesse differenti, o sostituiamo una conclusione differente alla conclusione e ci eravamo accinti a provare. esto mee in esistenza una classe di fallacie e (usando una frase presa a prestito da Bentham) possono a ragione essere iamate «fallacie di confusione». Tra le altre, esse comprendono tue quelle fallacie e hanno la loro origine nel linguaggio, sia peré sorgono dall’imprecisione o dall’ambiguità dei nostri termini, sia peré sorgono da associazioni casuali connesse con i nostri termini. ando la fallacia non è una fallacia di confusione, cioè quando la proposizione creduta e le prove in base alle quali la si crede sono state apprese saldamente e sono state espresse In modo non ambiguo, rimangono ancora da fare due divisioni trasversali. Le prove apparenti possono essere o fai particolari o generalizzazioni precedenti: cioè, il processo può simulare o la semplice induzione o la deduzione; e ancora: sia e consistano di fai presunti, sia e consistano di proposizioni generali, le prove possono essere false di per se stesse oppure, se sono vere, possono non essere in grado di corroborare la conclusione e si tenta di fondare su di esse. esto ci dà:

primo, le fallacie di deduzione e le fallacie d’induzione; secondo, una suddivisione di ciascuna di queste fallacie, secondo e le presunte prove siano false, oppure siano vere ma inconcludenti. ando i fai in base ai quali l’induzione procede sono erronei, le fallacie d’induzione possono essere iamate «fallacie d’osservazione». Il termine non è rigorosamente accurato, o, per meglio dire, non coincide esaamente con la classe di fallacie e mi propongo di designare con esso. L’induzione non è sempre fondata sopra fai immediatamente osservati, ma, quale volta, sopra fai inferiti: e quando questi ultimi siano erronei, può darsi e l’errore non sia un esempio di caiva osservazione nel senso leerale del termine, ma sia piuosto un esempio di caiva inferenza. In ogni caso, sarà conveniente raccogliere in una classe tue le induzioni il cui errore risiede in questo: e i fai sui quali è fondata la teoria non sono stati sufficientemente accertati; o e la causa del fallimento sia la caiva osservazione, o e sia una pura e semplice mancanza d’osservazione, o e la caiva osservazione sia direa, o e sia avvenuta per mezzo di segni intermedi e non provano quello e dovrebbero provare. E in assenza di un termine abbastanza vasto da denotare l’accertamento dei fai sui quali è fondata un’induzione — quali e siano i mezzi con cui lo si compie —, per questa classe di fallacie mi arrisierò, in forza della spiegazione e ne abbiamo dato or ora, a conservare il nome di «fallacie d’osservazione». L’altra classe di fallacie induive, in cui i fai sono correi, ma la conclusione non è garantita dai fai, vengono denominate, in maniera appropriata, «fallacie di generalizzazione»; a loro volta, queste fallacie ricadono nelle varie classi subordinate, o gruppi naturali, alcuni dei quali saranno enumerati a tempo debito. Se ora rivolgiamo la nostra aenzione alle fallacie di deduzione, vale a dire a quei modi dell’argomentazione scorrea le cui premesse, o alcune tra le cui premesse, sono proposizioni generali mentre l’intiera argomentazione è un ragionamento deduivo — vediamo e possiamo suddividere ane queste due fallacie in due specie simili alle precedenti; vale a dire, in quelle fallacie e procedono in base a premesse false e in quelle fallacie le cui premesse, pur essendo vere, non riescono a sorreggere la conclusione. Ma di queste due specie, la prima non deve necessariamente cadere soo l’uno o soo l’altro dei capitoli e abbiamo già enumerato. Infai l’errore deve per forza stare o in quelle premesse e sono proposizioni generali o in quelle premesse e asseriscono fai individuali. Nel primo caso si traa di una

fallacia d’osservazione a meno e nell’uno e nell’altro caso le premesse non siano state assunte a prima vista: e in questo caso la fallacia è a priori. Infine, può darsi e le premesse, di qualsivoglia specie siano, non siano mai state concepite in maniera tanto distinta da produrre una iara consapevolezza dei mezzi grazie ai quali sono state oenute, come nel caso di quello e si iama ragionamento circolare: allora la fallacia sarà una fallacia di confusione. Rimangono pertanto, come l’unica classe di fallacie e abbiano la loro sede appropriata nella deduzione, le fallacie in cui le premesse del ragionamento deduivo non riescono a corrobararne la conclusione; in breve, rimangono i vari casi di argomentazione viziosa, ad evitare i quali provvedono le regole del sillogismo. Le iameremo «fallacie del ragionamento deduivo». Possiamo così distinguere cinque classi di fallacie, e possono essere espresse nella seguente tavola sinoica:

3. Non dobbiamo comunque aspearci di trovare e gli errori commessi effeivamente dagli uomini cadano sempre, o ane soltanto per lo più, in una di queste due classi, tanto infallibilmente e non sia possibile farli rientrare in nessun’altra classe. Le argomentazioni erronee non sono susceibili di una divisione così nea come la divisione di cui sono susceibili le argomentazioni valide. Se è erronea, un’argomentazione

espressa in modo completo e con tui i suoi passi scanditi distintamente in un linguaggio e non presti il fianco a fraintendimenti, non può non rientrare inequivocabilmente nell’uno o nell’altro dei cinque modi suddei: o meglio, non può non rientrare nell’uno o nell’altro dei primi quaro modi, dal momento e, in forza dell’ipotesi, il quinto modo non ha ragione di esistere. Ma non è nella natura del caivo ragionamento l’esprimersi in modo tanto privo d’ambiguità. ando si può costringere un sofista, e voglia ingannare se stesso o tenti d’abbindolare qualcun altro, a geare il proprio sofisma in una forma così distinta, nella maggior parte dei casi non sarà più necessario far ancora qualcosa per smaserarlo. Dovunque, tranne e nelle scuole, da tue le argomentazioni vengono soppressi alcuni passi: questo accade, a fortiori, quando i argomenta intende ingannare il suo interlocutore, oppure è un pensatore zoppo e inesperto, poco abituato a sooporre a controlli i propri processi di ragionamento: e l’errore s’annida più spesso proprio in quei passi del ragionamento e vengono compiuti in questa maniera tacita e semiconsapevole, o addiriura del tuo inconsapevolmente. Se si vuole smaserare la fallacia si deve rendere esplicita la proposizione e, così facendo, viene assunta tacitamente; ma è molto probabile e l’autore del ragionamento non si sia mai realmente iesto e cosa assumesse; i intenda confutarlo (a meno e non gli sia concesso impiegare il modo d’interrogazione socratico per estorcergli la premessa e ha soppresso) deve giudicare da sé quale dovrebbe essere, peré possa sostenere la conclusione, la premessa e quell’altro ha soppresso. E quindi, per usare le parole dell’Arcivescovo Whately, «spesso non può non essere materia di dubbio, o, per meglio dire, di scelta arbitraria, non soltanto in quale genere si debba far rientrare ciascuna specie di fallacia, ma ane a quale specie si debba aribuire ciascuna singola fallacia; infai, siccome di solito nel corso di qualsiasi argomentazione viene taciuta almeno una premessa, nel caso di una fallacia accade frequentemente e agli uditori non sia lasciata altra alternativa e non sia quella o di supplire alla mancanza con una premessa e non è vera o, altrimenti, di aggiungere una premessa e non prova la conclusione. Per esempio, se un uomo, dopo aver analizzato deagliatamente le caive condizioni in cui versa il Paese, arguisce e il governo di quel Paese è un governo tirannico, dobbiamo ritenere e assuma, o e “ogni Paese e versa in caive condizioni si trova soo il

dominio di una tirannide” — e questo è manifestamente falso — o, semplicemente, e “ogni Paese e si trovi soo il dominio di una tirannide versa in caive condizioni”, e questo, per quanto possa essere vero, non prova nulla, dal momento e il termine medio non è stato preso universalmente». Nella nostra distribuzione, la prima di queste fallacie verrebbe classificata tra le fallacie di generalizzazione, l’ultima tra le fallacie di deduzione. «Che cosa dobbiamo supporre e il nostro interlocutore volesse darci ad intendere? di sicuro» (ammesso e lui stesso capisse quello e diceva) «esaamente quello e si dà il caso e ciascuno dei suoi uditori preferisca intendere: alcuni possono assentire alla premessa falsa, altri possono concedere il sillogismo fallace». A rigore, perciò, quasi tue le fallacie potrebbero essere fae rientrare nella nostra quinta classe: quella delle fallacie di confusione. Raramente una fallacia può essere faa rientrare in assoluto in qualcuna delle altre classi: possiamo soltanto dire e se tra gli anelli e si dovrebbero poter fornire in un’argomentazione valida non ci fosse nessun posto vuoto, le cose starebbero così (e formerebbero una fallacia di una certa classe) oppure così (e allora formerebbero una fallacia di una cert’altra classe); oppure possiamo dire, al massimo, e è estremamente probabile e la conclusione abbia avuto origine in una fallacia di questa o di quell’altra classe. Così, è estremamente probabile e nell’esempio e abbiamo appena citato l’errore e si è commesso possa esser fao risalire a una fallacia di generalizzazione: la fallacia, cioè, e consiste nello scambiare erroneamente un segno incerto, o un pezzo di prova incerta, per un segno o per una prova certi; nel concludere da un effeo a una delle sue possibili cause quando ci sono altre cause e sarebbero egualmente state in grado di produrre quell’effeo. Tuavia, bené le cinque classi confluiscano l’una nell’altra e spesso sembri e sia del tuo arbitrario il far rientrare un certo errore particolare in una di queste classi piuosto e in una qualsiasi altra, la distinzione e abbiamo tracciato è di considerevole utilità. Troveremo e è conveniente separare dalle altre, come fallacie di confusione, quelle fallacie la cui caraeristica più ovvia è appunto la confusione; quelle fallacie, cioè, in cui per l’errore e si è commesso non si può trovare altra causa e non sia la trascuratezza nel formulare la questione, o l’incapacità di formularla con proprietà e di apprendere le prove in modo ben definito e con esaezza. Nelle quaro classi e rimangono meerò non soltanto i casi la cui prova si

può vedere iaramente per quello e è, e tuavia se ne ricava una conclusione sbagliata, ma ane quei casi in cui, pur essendoci confusione, questa non è la sola causa dell’errore ma c’è una sia pur debole traccia di ragioni d’errore nella natura delle prove medesime. E nel distribuire tra le quaro classi di fallacie questi casi di confusione parziale, supporrò, quando possa sussistere quale esitazione a proposito della collocazione precisa della fallacia, e quest’ultima risieda in quella parte del processo in cui, data la natura del caso e le tendenze della mente umana, è più probabile e si commea un errore in quelle circostanze particolari. Fae queste osservazioni procederemo senza ulteriori preamboli a prendere in considerazione le cinque classi, nell’ordine e abbiamo stabilito. a.

Cfr. sopra, p. 808.

CAPITOLO III. FALLACIE A PRIMA VISTA, O A PRIORI 1. La tribù d’errori di cui traeremo per primi comprende quelli in cui non avviene proprio nessun’inferenza effeiva: in tali casi la proposizione (e perciò non può essere iamata conclusione) viene acceata, non già in quanto sia stata provata, ma in quanto non ha bisogno di nessuna prova; viene acceata come una prova evidente di per sé, oppure come qualcosa e possiede una tale verisimiglianza intrinseca e le prove esterne, e di per se stesse non equivalgono a una prova in senso rigoroso, sono sufficienti a venire in aiuto all’assunzione e l’ha preceduta. Se tentassimo di traare quest’argomento in modo esauriente trasgrediremmo i limiti e abbiamo imposto a quest’opera, peré una traazione del genere renderebbe necessaria quella ricerca e costituisce per eccellenza la grossa questione della cosiddea metafisica: quali sono le proposizioni e possono essere ragionevolmente acceate senza prova? Che di queste proposizioni debbano essercene tui sono d’accordo, dal momento e una serie infinita di prove, come una catena appesa al nulla. non può esserci. Ma il determinare quali siano queste proposizioni è l’opus magnum della più profonda filosofia della mente. Fin dai primi albori della speculazione filosofica le scuole dei pensatori sono state divise da due opinioni principali. Una scuola non riconosce altre premesse fondamentali se non i fai della nostra coscienza soggeiva: le nostre sensazioni, le nostre emozioni, gli stati intelleuali della nostra mente e le nostre volizioni. Stando a questa teoria possiamo conoscere tue queste cose, e tuo quello e da queste cose può essere derivato per mezzo di regole induive rigorose: di tuo il resto non possiamo non restare nell’ignoranza. La scuola opposta sostiene e ci sono altre esistenze, e sono bensì suggerite alla nostra mente da questi fenomeni soggeivi, ma e non possono essere inferite da essi in base a nessun processo, né di deduzione né d’induzione; esistenze e, data la costituzione della nostra natura mentale, non possiamo non riconoscere in ogni caso come realtà, e anzi come realtà di un ordine più alto di quello in cui si situano i fenomeni della nostra coscienza, peré sono le cause efficienti e il substrato necessario di tui i fenomeni. Tra queste entità, costoro fanno rientrare le sostanze, materiali o spirituali e siano:

dalla polvere e sta soo i nostri piedi all’anima, e dall’anima alla divinità. Secondo gli appartenenti a questa scuola tui questi esseri sono esseri preternaturali o sovrannaturali, e non hanno eguale nell’esperienza, ane se l’esperienza è in tuo e per tuo una manifestazione del loro agire. In base a questa teoria l’esistenza di tali esseri e, insieme con la loro esistenza, un numero più o meno grande delle leggi cui conformano il loro operare, vengono appresi intuitivamente e riconosciuti come reali dalla mente stessa: in questa faccenda l’esperienza (sia soo forma di sensazioni, sia soo forma di sentimento mentale) non avrebbe altra parte se non quella e consiste nel fornire fai compatibili con questi postulati necessari della ragione, fai di cui questi esseri dànno una spiegazione e una giustificazione. Siccome è estraneo allo scopo di questo traato il decidere tra queste teorie contrastanti, l’indagare se la conoscenza a priori esista o il cercar di definirne l’estensione e i limiti ci sono preclusi; e ci è precluso il caraerizzare la specie di assunzione correa di cui la fallacia di assunzione scorrea, e stiamo ora considerando, si dà falsamente l’aria. Tuavia, siccome da entrambe le parti si ammee e tali assunzioni vengano fae spesso in modo improprio, può darsi e si trovi conveniente, senza peraltro entrare nelle ragioni metafisie ultime della discussione, formulare alcune proposizioni speculative e suggerire alcune cautele pratie circa le forme in cui è più probabile e si facciano tali assunzioni prive di garanzie. 2. Nei casi in cui, stando ai pensatori della scuola ontologica, la mente apprende per intuizione cose e leggi di cose e non possono essere conosciute dalla nostra facoltà sensibile, queste percezioni intuitive, o presunte tali, non possono essere distinte da quelle e gli appartenenti alla scuola opposta sono soliti iamare idee della mente. ando questi stessi pensatori affermano di percepire le cose con un ao immediato di una facoltà datagli per questo scopo dal loro creatore, i loro avversari potrebbero dire e in realtà costoro trovano un’idea o concezione nelle loro menti, e e da quest’idea, o concezione, inferiscono l’esistenza di una realtà oggeiva corrispondente. esta, d’altra parte, non sarebbe affao un’asserzione sleale, ma la pura e semplice versione in parole differenti della descrizione data da molti di quegli stessi pensatori; una descrizione e potrebbe essere sooscria, e in genere viene sooscria senza esitazione, da quelli, tra loro, e vedono le cose con maggior iarezza. Perciò, siccome nei casi e avanzano le più forti pretese a valere come esempi di conoscenza

a priori la mente procede dall’idea di una cosa alla realtà della cosa stessa, non può sorprenderci il trovare e le assunzioni a priori illecite consistono nel fare la medesima cosa in maniera errata: consistono nello scambiare erroneamente fai soggeivi per fai oggeivi, leggi della mente e percepisce per leggi dell’oggeo percepito; proprietà delle idee o delle concezioni per proprietà delle cose concepite. Di conseguenza, una grossa percentuale dei pensieri errati e si pensano nel mondo procede in base alla tacita assunzione e tra gli oggei esistenti in natura debba sussistere il medesimo ordine e sussiste tra le nostre idee di questi oggei. Che se pensiamo sempre due cose insieme, le due cose debbano sempre esistere insieme; e se una certa cosa ci fa pensare a un’altra cosa come predecessore o come successore della prima, questa seconda cosa debba precedere o seguire la prima nella realtà di fao. E e, per converso, quando non possiamo concepire due cose insieme le due cose non possano esistere insieme e e la loro combinazione possa essere espunta, senza bisogno di prove ulteriori, dalla lista degli accadimenti possibili. Io sono propenso a ritenere e poe persone abbiano rifleuto su quanto esteso sia stato, e sia tuora, il predominio di questa fallacia nelle credenze e nelle azioni effeive dell’umanità. Per dare una prima illustrazione di questo predominio possiamo far riferimento a una grossa classe di superstizioni popolari. Chiunque esamini in quali circostanze concordino la maggior parte di quelle cose e in epoe differenti e da parti differenti dalla razza umana sono state considerate come presagi o pronostici di un quale evento interessante, calamitoso o fortunato e fosse, troverà e tue queste cose sono caraerizzate, in modo generalissimo, da questa proprietà: e inducono la mente a pensare a ciò di cui, proprio per il fao e ci si pensa, si suppone e presagiscano l’accadere effeivo. L’espressione: «Parla del diavolo e quello mostrerà le corna» è diventata proverbiale. Parla del diavolo, cioè suscita un’idea, e la realtà seguirà. Senza dubbio, nei tempi in cui si pensava e l’apparizione in forma visibile di quel personaggio fosse una cosa e accadeva abbastanza frequentemente, a persone dotate di immaginazione vivida e di nervi fragili era spesso accaduto e il parlare del diavolo gli avesse davvero fao immaginare d’averlo visto; così pure, perfino in questi nostri giorni più sceici l’ascoltare storie di fantasmi ci predispone a vedere fantasmi: e così, a sostegno della fallacia a priori si potrebbe aggiungere un’altra fallacia ausiliaria: la fallacia di caiva generalizzazione

e, basata sopra quest’ultima fallacia, una fallacia di falsa generalizzazione. Spesso in questo modo si raggruppano e si ammassano insieme fallacie di ordini differenti, e ciascuna di esse spiana la strada alle altre. Ma l’origine della superstizione è evidentemente quella e abbiamo deo. In maniera analoga è stato universalmente ritenuto infausto il parlare delle disgrazie. Il giorno in cui è accaduta una qualsiasi calamità è stato considerato un giorno infausto, e c’è un sentimento universalmente diffuso — e in alcune nazioni c’è addiriura un obbligo religioso — contro il traare, in quel giorno, qualsiasi affare importante, peré è probabile e in quel giorno i nostri pensieri siano pensieri calamitosi. Per una ragione simile è stato considerato presagio di fallimento qualsiasi accadimento sfavorevole avvenuto all’inizio di un’impresa, e senza dubbio questa convinzione ha spesso contribuito al fallimento dell’impresa peré ha messo in condizioni di spirito più o meno sfavorevoli la persona e vi era impegnata; ma la credenza ha preso egualmente piede in quei casi in cui, indipendentemente dalla superstizione, le circostanze sfavorevoli erano troppo insignificanti peré potessero deprimere lo spirito con la loro influenza. Tui conoscono la storia di Cesare e inciampò accidentalmente mentre sbarcava sulla costa dell’Africa, e la presenza di spirito con cui, esclamando: «Africa, io t’abbraccio!», tramutò un presagio infausto in un presagio favorevole. È bensì vero e tali presagi, se veri, erano spesso considerati avvertimenti sul futuro dati da una divinità amievole o da una divinità ostile; ma questa stessa superstizione nasceva da una tendenza preesistente: si pensava e, come indicazione di quello e doveva accadere, un dio mandasse qualcosa e la gente era già disposta a considerare soo quella luce. Così nel caso di nomi fausti o infausti. Erodoto ci racconta come i Greci, mentre si dirigevano verso Micale, traessero incoraggiamento per la loro impresa dall’arrivo di una deputazione di Samo, uno dei cui membri si iamava Egesistrato, e significa conduore d’eserciti. Si possono indicare alcuni casi in cui una certa cosa e non poteva avere nessun effeo reale tranne quello di far sì e le persone pensassero alla sfortuna, fu considerata non soltanto come un pronostico, ma quasi quasi come la causa reale della sfortuna. L’εὐφήµεɩ dei Greci e il favete linguis o il bona verba quaeso dei Romani sono iare indicazioni della cura con cui Greci e Romani si sforzavano d’impedire e si pronunciassero parole e esprimessero o suggerissero fortuna infausta: non per cortesia o per delicatezza — cose, queste, con le quali il loro modo generale di comportarsi

e di sentire aveva ben poco da fare — ma per dare, bona fide, un avvertimento affiné gli eventi suggeriti all’immaginazione da quelle parole non accadessero in realtà. Sappiamo e ane ai giorni nostri tra le persone incolte si possono trovare tracce di questa superstizione: si pensa e il parlare della morte di una persona, o l’ipotizzarla, mentre questa persona è ancora in vita, sia cosa contraria alla carità cristiana. Si sa con quanta cura i Romani evitassero, mediante l’uso di circonlocuzioni, di profferire qualsiasi parola e esprimesse direamente morte o altre calamità; come, invece di dire mortuus est, dicessero vixit; e come dicessero, invece di «avverso»: «sia e l’evento sia fortunato, sia e vada altrimenti». Il nome Maleventum, di cui Salmasio1 ha colto così sagacemente l’origine tessala (Mαλóεɩϛ, Mαλoέντoϛ), fu da loro tramutato nella denominazione, altamente propizia, di Beneventum; Egesta fu tramutato in Segesta, ed Epidamnus, nome così interessante, per via delle sue associazioni, per il leore di Tucidide, lo tramutarono in Dyrrachium, per sfuggire ai pericoli d’una parola e suggeriva damnum, o detrimento. «Se una lepre araversa la strada», dice Sir omas Browne2, «ben poe persone al disopra dei sessant’anni non rimangono turbate; questo non è altro e un terrore augurale, secondo la ben nota espressione augurale 3 Inauspicatum dat iter oblatus lepus . E la ragione di quest’idea fantastica era probabilmente né più né meno e questa; e un animale timoroso e passi vicino a noi ci preannuncia l’esistenza di qualcosa di temibile; così pure, per una considerazione analoga, l’incontrare una volpe era presagio di quale impostura a venire»a. Superstizioni come queste ultime devono per forza essere il risultato di uno studio accurato: sono troppo astruse peré possano essere cresciute naturalmente o spontaneamente. Ma quando si tentò di costruire una scienza delle previsioni, qualsiasi associazione, per pallida e remota e fosse, per mezzo della quale, sia pure in maniera estremamente stiraciata, si potesse conneere un oggeo con idee di prosperità o di pericolo o di sfortuna, era sufficiente a far sì e quell’oggeo venisse classificato tra i presagi fausti o tra quelli infausti. Un esempio di specie piuosto diversa, ma e cade soo il medesimo principio, è il famoso tentativo di rendere potabile l’oro, tentativo nel quale gli alimisti spesero tante fatie e tanto ingegno. Il motivo di ciò era la falsa idea e l’oro potabile non potesse non essere né più né meno e la medicina universale. E peré l’oro? Peré è così prezioso. Siccome la

mente era già abituata a provar maraviglia di fronte ad esso, l’oro doveva per forza possedere tue le proprietà maravigliose di una sostanza medicinale. Proprio per un sentimento simile, dice il door Parisb, non c’è sostanza, «la cui origine sia avvolta nel mistero, e di tanto in tanto non sia stata applicata entusiasticamente agli scopi della medicina. Non molto tempo addietro cadde sull’Italia seentrionale una di quelle pioggie di cui ora sappiamo e sono composte dagli escrementi di certi insei; gli abitanti credeero e fosse manna, o quale panacea sovrannaturale, e la inghioirono con tale avidità e ci volle una grandissima abilità per poterne oenere una piccolissima quantità da sooporre all’analisi imica. In questo caso la superstizione, bené in parte avesse indubbiamente caraere religioso, in parte ane sorse probabilmente dal pregiudizio e una cosa maravigliosa debba avere naturalmente proprietà maravigliose». 3. Gli esempi di fallacie a priori e abbiamo citato fin qui appartengono alla classe degli errori volgari, e oggi non fanno più presa, né poterono mai farla se non in età molto arretrate, sulle menti di un certo livello. Invece, quelle e stiamo per traare sono state, e sono ancora oggi, quasi universalmente acceate dai pensatori. La medesima disposizione a conferire oggeività a una legge della mente — la disposizione, cioè, a supporre e quello e è vero delle nostre idee delle cose debba essere vero delle cose in se stesse — si manifesta in molti dei modi più accreditati dell’analisi filosofica, sia di argomenti fisici sia di argomenti metafisici. In una delle sue manifestazioni più scoperte, tale disposizione s’incarna in due massime, e hanno la pretesa di valere come verità assiomatie: «Le cose e non possiamo pensare insieme non possono coesistere» e: «Le cose e non possiamo fare a meno di pensare insieme devono necessariamente coesistere». Non sono sicuro e queste massime siano mai state espresse con queste precise parole; ma la storia sia della filosofia sia delle opinioni popolari abbonda di esemplificazioni di entrambe le forme di questa dorina. Cominciamo dall’ultima: «Le cose e non si possono pensare se non insieme devono necessariamente esistere insieme». esta massima viene presupposta in quel modo di ragionare, e è generalmente acceato e e gode di un credito universale, e conclude e A deve accompagnare B nella realtà di fao peré «è contenuta nell’idea di B». elli e la

pensano in questo modo non rifleono sul fao e l’idea, essendo un risultato dell’astrazione, deve conformarsi ai fai e non può far sì e i fai si conformino ad essa. L’argomentazione è ammissibile, al massimo, come appello all’autorità; come una supposizione secondo cui quello e ora è parte dell’idea, prima di diventarlo doveva per forza essere stato trovato nei fai dai ricercatori di allora. Cionondimeno, il filosofo e più di ogni altro fece professione di rifiuto dell’autorità, Descartes, costruì il sistema proprio su questo fondamento. «Credidi me», dice la sua celebre massima, «pro regula generali sumere posse, omne id quod valde dilucide et distincte concipiebam, verum esse»4; tuo quello e può essere concepito molto iaramente deve certamente esistere; cioè, come spiega in séguito Cartesio, se l’idea include l’esistenza. E su questa base inferisce e le figure geometrie esistono realmente, peré possono essere concepite distintamente. Tue le volte e l’esistenza è «contenuta in un’idea» deve esistere realmente una cosa e si conforma all’idea; il e equivale, né più né meno, a dire e tuo quello e l’idea contiene deve avere il suo equivalente nella cosa; quello e non siamo in grado di lasciar fuori dall’idea non può essere assente dalla realtàc. est’assunzione riempie di sé non soltanto la filosofia di Descartes, ma quella di tui i pensatori e da Descartes trassero la loro ispirazione, e, in particolare, quella di due tra i più notevoli di tali pensatori: Spinoza e Leibniz dai quali emana essenzialmente la filosofia tedesca contemporanea. Io sono anzi disposto a pensare e la fallacia e stiamo prendendo in considerazione in questo momento sia stata la causa dei due terzi della caiva filosofia, e specialmente della caiva metafisica, e la mente umana non ha mai cessato di produrre. Le nostre idee generali non contengono nient’altro se non quello e gli è stato messo dentro o dalla nostra esperienza passiva o dai nostri abiti intelleuali aivi; e in tue le età i metafisici e hanno tentato di costruire le leggi dell’universo a partire dalle presunte necessità del nostro pensiero, sono sempre proceduti (e non potevano proceder altrimenti) trovando a gran fatica nelle loro stesse menti quello e ci avevano messo dentro loro stessi, e traendo fuori dalle loro idee delle cose quello e ci avevano fao entrare prima. In questo modo tue le opinioni e tui i sentimenti radicati erano messi in grado di creare dimostrazioni apparenti della propria verità e della propria ragionevolezza, traendole, per così dire, dalla loro propria sostanza. L’altra forma della fallacia — le cose e non possiamo pensare insieme non possono esistere insieme — comprende, come una delle sue

ramificazioni, la proposizione e le cose e non possiamo pensare come esistenti non possono esistere affao; essa può pertanto venir espressa, brevemente, nel modo e segue: «Tuo quello e è inconcepibile deve necessariamente essere falso». Contro questa dorina così diffusa ho già avanzato sufficienti obiezioni in un altro Librod; in questo luogo basterà darne alcuni esempi. Per lungo tempo si sostenne e gli Antipodi sono impossibili, per via della difficoltà e s’incontrava nel concepire persone e avessero le teste nella medesima posizione in cui noi abbiamo i piedi. E uno degli argomenti più in voga contro il sistema copernicano era e non possiamo concepire uno spazio vuoto così grande come quello di cui il sistema suppone l’esistenza nelle regioni celesti. È naturale e in un’epoca in cui l’immaginazione degli uomini era stata abituata da sempre a concepire le stelle come saldamente incastonate in sfere solide, gli uomini incontrassero grosse difficoltà ad immaginarle in una situazione così differente e, come senza dubbio gli appariva, così precaria. Ma non avevano affao il dirio di scambiare erroneamente la limitazione (naturale o, come poi si dimostrò in realtà, soltanto artificiale) delle loro medesime facoltà, per una limitazione intrinseca dei possibili modi d’esistenza nell’universo. Si può obieare dicendo e in questo caso l’errore risiedeva nella premessa minore e non nella premessa maggiore; e si traava di un errore di fao, non di un errore di principio; e l’errore non consisteva nel supporre e quello e è inconcepibile non può essere vero, ma nel supporre e gli Antipodi fossero inconcepibili, quando l’esperienza auale prova e possono essere concepiti. Ane se si ammeesse quest’obiezione e si lasciasse e la proposizione, e quello e è inconcepibile non può essere vero, rimanesse fuor di questione in quanto verità speculativa, si traerebbe tuavia di una verità sulla quale non si potrebbe mai fondare una conseguenza pratica; infai su questa base, di una qualsiasi proposizione e non sia una contraddizione in termini, non si può affermare e è inconcepibile. Gli Antipodi erano davvero, e non soltanto per finta, inconcepibili per i nostri antenati: sono davvero concepibili per noi; e come i limiti del nostro potere di concepire le cose sono stati tanto estesi dall’allargarsi della nostra esperienza e dall’esercizio più vario al quale abbiamo sooposto la nostra immaginazione, così può darsi e la posterità trovi perfeamente concepibili molte combinazioni e sono inconcepibili per noi. Ma in quanto esseri forniti di un’esperienza limitata, dovremo

sempre e necessariamente aver poteri limitati di concepire le cose; da questo però non segue affao e la medesima limitazione valga per le possibilità della natura, neppure nelle sue manifestazioni effeive. Poco più d’un secolo e mezzo fa era una massima della scienza e nessuno meeva in dubbio, e della quale nessuno riteneva necessario riiedere una prova, e «una cosa non può agire dove non è»e. Muniti di quest’arma, i Cartesiani mossero una guerra formidabile contro la teoria della gravitazione, e secondo loro doveva essere rigeata in limine per il fao e conteneva un’assurdità così evidente: il Sole non può affao agire sulla Terra, peré non è lì. Non deve sorprenderci e i sostenitori del vecio sistema astronomico avanzassero quest’obiezione contro il nuovo sistema; ma la falsa assunzione fece egualmente la sua impressione sullo stesso Newton e, allo scopo di aggirare l’ostacolo di quest’obiezione, immaginò un etere soile e dovrebbe riempire lo spazio tra il Sole e la Terra e con la sua azione mediatrice dovrebbe essere la causa prossima dei fenomeni gravitazionali. «È inconcepibile, scrisse Newton in una delle sue leere al door Bentley11, e la materia bruta e inanimata debba agire su altra materia, e modificarla, senza nessun contatto reciproco… Che la gravità debba essere innata, intrinseca ed essenziale alla materia, cosicé un corpo possa agire su un altro a distanza, araverso il vuoto, senza la mediazione di nessun’altra cosa per mezzo della quale e araverso la quale la loro azione e la loro forza possano trasmeersi dall’uno all’altro dei due corpi, è per me un’assurdità tanto grande e credo e nessuno, e sia in possesso di una facoltà di pensare competente nelle faccende filosofie, potrà mai cadervi»f. esto passo dovrebbe essere appeso nella stanzea di ogni cultore di scienza e si senta comunque tentato di diiarare impossibile un fao per la ragione e sembra inconcepibile a lui. Ai nostri giorni si sarebbe piuosto tentati, commeendo però un’ingiustizia eguale, di capovolgere l’osservazione conclusiva e di considerare, come vero e proprio segno dell’assenza di una «facoltà competente di pensare» proprio il fao e si veda una qualsiasi assurdità in una cosa tanto semplice e naturale. Al giorno d’oggi nessuno prova la sia pur minima difficoltà a concepire e, come qualsiasi altra proprietà, la gravità sia «intrinseca ed essenziale» alla materia, né trova e la comprensione della gravità risulti facilitata — neppure in minima parte — dall’ipotesi di un etere (ane se, per spiegare la gravità, alcuni ricercatori contemporanei fanno davvero ricorso a quest’ipotesi) e neppure ritiene minimamente incredibile e i corpi celesti

possano agire, e di fao agiscano, là dove non sono presenti con la loro presenza corporea. Per noi, del fao e i corpi agiscano l’uno sull’altro «senza e ci sia contao reciproco» non c’è da maravigliarsi più di quanto non ci sia da maravigliarsi del fao e agiscano l’uno sull’altro quando in contao sono; abbiamo familiarità con entrambi questi fai e li troviamo egualmente inesplicabili ma egualmente facili a credersi. A Newton l’uno appariva naturale e ovvio pré la sua immaginazione era familiarizzata con esso, mentre l’altro, per la ragione contraria, sembrava troppo assurdo peré gli si potesse prestar credito. È strano e dopo un simile avvertimento ci sia ancora qualcuno e possa fidarsi senza nessuna riserva dell’evidenza a priori di proposizioni come queste: La materia non può pensare, lo spazio, ossia l’estensione, è infinito; nulla si può creare dal nulla (ex nihilo nihil fit). Non è questo il luogo per determinare se queste proposizioni siano vere o non lo siano, e neppure se tali questioni siano risolubili dalle facoltà proprie dell’uomo. Ma queste dorine non sono verità evidenti di per sé più di quanto non lo sia l’antica massima e una cosa non può agire là dove non è, cosa, questa, a cui probabilmente nessuna persona colta in Europa crede piùg. La materia non può pensare: peré? Peré non possiamo concepire e il pensiero sia connesso con una qualsiasi disposizione di particelle materiali. Lo spazio è infinito peré, non avendo mai conosciuto nessuna parte dello spazio e avesse dopo di sé altre parti, non possiamo concepire e lo spazio abbia un termine assoluto. Ex nihilo nihil fit, peré, non avendo mai conosciuto l’esistenza di un prodoo fisico là dove non preesistesse un materiale fisico, non possiamo immaginare una creazione dal nulla, o pensiamo di non poterla immaginare. Prese in se stesse, però, queste cose possono essere concepibili esaamente com’è concepibile la gravitazione in assenza di un mezzo interposto, cosa e Newton riteneva un’assurdità troppo grande peré una persona dotata di una facoltà competente a pensar filosoficamente potesse ammeerla: e ane supponendo e queste cose non siano concepibili, la loro inconcepibilità potrebbe essere, per quanto ne sappiamo, una pura e semplice limitazione fra le tante limitazioni delle nostre limitatissime menti, e non una limitazione propria della natura. Nessun autore si è identificato più direamente con la fallacia e stiamo ora prendendo in considerazione, o l’ha incarnata in termini più inequivocabili, di quanto non abbia fao Leibniz. Secondo lui, una cosa non

potrebbe esistere in natura se non fosse, non soltanto concepibile, ma addiriura spiegabile. Di tui i fenomeni naturali si deve, secondo Leibniz, poter rendere ragione a priori. I soli fai di cui non si può dare altra spiegazione e non sia la volontà di Dio sono i miracoli propriamente dei. «Je reconnais», dice Leibniz, «qu’il n’est pas permis de nier ce qu’on n’entend pas; mais j’ajoute qu’on a droit de nier (au moins dans l’ordre naturel) ce que absolument n’est point intelligible ni explicable. Je soutiens aussi… qu’enfin la conception des créatures n’est pas la mesure du pouvoir de Dieu, mais que leur conceptivité, ou force de concevoir, est la mesure du pouvoir de la nature, tout ce qui est conforme à l’ordre naturel pouvant être conçu ou entendu par quelque créature»h. Non contenti di assumere e nulla può essere vero e noi non siamo in grado di concepire, gli scienziati hanno spesso allargato ulteriormente questa dorina e hanno sostenuto e ane delle cose non completamente inconcepibili quella e possiamo concepire con la massima facilità ha le maggiori probabilità di essere vera. Per lungo tempo si acceò come una verità assiomatica (e questa proposizione non ha ancora perduto del tuo il suo credito) e «la natura agisce sempre con i mezzi più semplici», cioè a dire, con quei mezzi e sono più facilmente concepibilii. Una grossa percentuale di tui gli errori e siano mai stati commessi nel corso delle indagini sulla natura hanno trao la loro origine dall’assunzione e le ipotesi o le spiegazioni più familiari debbano essere le più vere. Uno dei fai più istruivi della storia della scienza è la pertinacia con cui la mente umana è rimasta aaccata alla credenza secondo e i corpi celesti devono muoversi in cerio, o essere trascinati in cerio dalla rivoluzione delle sfere, semplicemente peré, di per se stesse, queste erano le supposizioni più semplici; ane se, per farle concordare con i fai e continuavano sempre più a contraddirle, divenne necessario aggiungere sfera a sfera e cerio a cerio, fin quando la semplicità originaria non si tramutò in una complicazione quasi inesplicabile. 4. Passiamo ora a un’altra fallacia a priori, o pregiudizio naturale, alleata con la prima e e, come la prima, trova la sua origine nella tendenza a supporre e tra le leggi della mente e le leggi delle cose esterne alla mente esista una corrispondenza esaa. La fallacia può essere enunciata in questa forma generale: tuo quello e può essere pensato separatamente esiste separatamente. La sua manifestazione più notevole consiste nella

personificazione delle astrazioni. Gli uomini hanno sempre avuto una forte propensione a concludere e dovunque ci sia un nome dev’esserci un’entità distinta e separata e corrisponde al nome; e si è sempre ritenuto e ad ogni idea complessa e la mente abbia formato per se stessa operando sopra le proprie concezioni delle cose individuali, corrisponda una realtà oggeiva esterna. Il Fato, il Caso, la Natura, il Tempo, lo Spazio, erano esseri reali, anzi, addiriura dèi. Se l’analisi delle qualità e abbiamo compiuto nella prima parte di questo lavoro è correa, i nomi di qualità e i nomi di sostanze stanno per i medesimi insiemi di fai o fenomeni; «la bianezza» e «una cosa bianca» non sono altro e modi di dire differenti, resi necessari dal fao e del medesimo fao esterno si rivela conveniente parlare soo relazioni differenti. Tale non era, però, la nozione e, nei tempi passati, questa distinzione suggeriva al volgo o agli uomini di scienza. La bianezza era un’entità e ineriva, ossia era conficcata, nella sostanza bianca; e così per tue le altre qualità. esta personificazione veniva spinta a un punto tale, e si supponeva e ane i termini concreti generali fossero non già nomi di un numero indefinito di sostanze individuali, ma nomi di una specie particolare di entità iamate sostanze universali. Poié possiamo pensare l’uomo in generale, e parlarne; vale a dire, poié possiamo pensare e parlare di tue le persone in quanto posseggono gli aributi comuni della specie senza saldare permanentemente i nostri pensieri a quale persona singola, per questa ragione si supponeva e l’uomo in generale fosse, non già un aggregato di persone individuali, ma un uomo astrao e universale, ben distinto da queste persone. Si può immaginare e gran pasticcio i metafisici, addestrati a queste abitudini, abbiano combinato con la filosofia quando pervennero alla più larga di tue le generalizzazioni. Di quelsiasi specie fossero, le substantiae secundae erano già abbastanza nocive; ma certe substantiae secundae, quali, per esempio, τò ὄν e τò ἕν, e stavano per entità tue particolari e si supponeva inerissero a tue le cose e esistono o a tue le cose di cui si dice e sono una, bastarono per meere fine a ogni discussione intelligibile, specialmente peré, avendo la giusta percezione e le verità di cui la filosofia va alla ricerca sono verità generali, non si tardò a deare e queste sostanze generali sono i soli oggei di scienza, peré sono immutabili,

mentre le sostanze individuali conoscibili per mezzo dei sensi, essendo in perpetuo fluire, non possono essere oggeo di conoscenza vera e propria. est’incomprensione del significato del linguaggio generale costituisce il misticismo, parola, questa, e è stata scria e pronunciata più spesso di quanto non sia stata compresa. Nei Veda, nei platonici e negli hegeliani, il misticismo consiste né più né meno nell’aribuire esistenza oggeiva alle creazioni soggeive delle nostre facoltà, alle idee o ai sentimenti della mente, e nel credere e osservando e contemplando queste idee e essa stessa ha fabbricato, la mente possa leggere in esse quello e avviene nel mondo esterno. 5. Procedendo nell’enumerazione delle fallacie a priori, e tentando di ordinarle facendo riferimento, per quanto ci è possibile, alle loro affinità naturali, arriviamo a un’altra fallacia: ane questa è streamente imparentata con la penultima fallacia e abbiamo menzionato, e sta con una delle sue varietà nella medesima relazione in cui la fallacia in parola sta con l’altra. Ane questa fallacia rappresenta la natura come dominata da incapacità e corrispondono a quelle del nostro intelleo; ma invece di limitarsi ad asserire e la natura non può fare una certa cosa, peré non possiamo concepire e quella certa cosa venga faa, questa fallacia va più in là e arriva fino al punto di affermare e la natura fa una certa cosa particolare per la sola ragione e noi non possiamo scorgere nessuna ragione peré non debba farla. Per assurdo e sembri quando viene enunciato in maniera così dimessa, questo è il principio di cui le maggiori autorità scientifie si avvalgono per dimostrare a priori le leggi dei fenomeni fisici. Un fenomeno deve seguire una certa legge, peré non riusciamo a scorgere nessuna ragione per cui debba discostarsi da quella legge in un modo piuosto e nell’altro. esto principio viene iamato «principio di ragion sufficiente»l, e spesso i filosofi si vantano di essere in grado di stabilire, per suo mezzo e senza fare nessun appello all’esperienza, le verità più generali della fisica sperimentale. Si prendano, per esempio, due delle più elementari tra tue le leggi: la legge d’inerzia e la prima legge del moto. Si afferma e un corpo in istato di quiete non può muoversi a meno e su di esso non agisca quale forza esterna; infai, se si movesse, dovrebbe muoversi in su o in giù, in avanti o all’indietro, e così via; ma se su di esso non agisce nessuna forza esterna, non può esserci nessuna ragione per cui si muova all’insù piuosto e all’ingiù, o all’ingiù piuosto e all’insù, e via dicendo. Ergo, non si moverà affao.

Ritengo e questo ragionamento sia interamente fallace, come del resto ha mostrato con grande acutezza e rigore di pensiero il door Brown nel suo traato sulla causa e l’effeo. Abbiamo osservato in precedenza e ogni fallacia può essere faa rientrare in generi differenti, secondo i differenti modi in cui si completano i vuoti lasciati dai passi soppressi; in particolare, questa fallacia può essere faa rientrare, a nostra scelta, nella categoria della petitio principii. Essa suppone e nulla, ecceuata quale forza esterna, possa essere una «ragion sufficiente» per cui il corpo si muova in una certa direzione particolare. Ma questa è proprio la cosa e si deve provare. Peré non quale forza interna? Peré non la legge della natura propria della cosa? Naturalmente, dal momento e ritengono necessario provare la legge d’inerzia, questi filosofi non supporranno e proprio essa sia evidente di per sé: perciò devono essere dell’opinione e la supposizione e un corpo si muova in virtù di un impulso interno sia un’ipotesi ammissibile anteriormente a qualsiasi prova; ma se le cose stanno così, peré non dovrebbe essere ammissibile ane l’ipotesi e l’impulso interno agisca naturalmente in una certa direzione particolare piuosto e in una cert’altra? Se la legge della materia sarebbe potuta essere il moto spontaneo, peré non sarebbe potuta esserlo il moto spontaneo verso il Sole, verso la Terra o verso lo Zenith? Peré non, come supponevano gli antii, verso un luogo particolare dell’universo, caraeristico di ciascuna specie particolare di sostanza? Certamente, non è lecito il dire e la spontaneità del moto è bensì credibile di per se stessa, ma e quando si supponga e il movimento abbia luogo in una quale direzione ben determinata allora non è più credibile. In realtà, i scegliesse di asserire e tui i corpi privi di controllo s’incamminano in linea rea verso il Polo Nord, facendo uso del principio di ragion sufficiente potrebbe provare la sua tesi altreanto bene. Con quale dirio si assume e lo stato di quiete sia quello stato particolare dal quale un corpo non può essere smosso se non da una causa speciale? Peré non uno stato di moto? Peré non possiamo dire e lo stato naturale di un cavallo, lasciato a se stesso, è quello dell’ambiare, peré altrimenti il cavallo dovrebbe o troare o galoppare o star fermo e peré non conosciamo nessun’altra ragione per cui debba fare una di queste cose piuosto e l’altra? Se questo si deve iamare un uso poco correo della «ragion sufficiente» mentre l’altro si deve iamare il suo uso correo, allora si deve assumere tacitamente e nel cavallo lo stato di quiete sia più naturale e

non lo stato dell’ambiare. Se questo significa e si traa dello stato e l’animale assumerà quando venga lasciato a se stesso, questo è esaamente il punto e si doveva provare, e, se non significa ciò, allora può significare soltanto e lo stato di quiete è lo stato più semplice, e pertanto quello e sarà più probabile trovare in natura: e questa è una delle fallacie, o pregiudizi naturali, e abbiamo già preso in esame. Così pure, per quanto riguarda la prima legge del movimento: un corpo in movimento, lasciato libero di muoversi, continuerà a muoversi di moto reilineo uniforme. Si tenta di provare questa legge dicendo e se le cose non stessero così il corpo dovrebbe deviare a destra o a sinistra, e e non c’è nessuna ragione per cui debba fare una cosa piuosto e l’altra. Ma i potrebbe mai sapere, prima di averne fao l’esperienza, se c’era o non c’era una ragione peré ciò avvenisse? Non potrebbe essere nella natura dei corpi, o di alcuni corpi particolari, il deviare verso destra o, se si preferisce quest’altra ipotesi, verso Est o verso Sud? Per lungo tempo si pensò e i corpi, per lo meno quelli terrestri, avessero una tendenza naturale a cadere verso il basso, e non c’è nemmeno l’ombra di un’obiezione e si possa muovere a questa supposizione, ecceo e non è vera. La pretesa prova della legge del movimento è ancor più manifestamente insostenibile della prova della legge d’inerzia, peré è flagrantemente autocontraddioria. Essa assume e il perseverare del moto nella prima direzione presa sia più naturale della deviazione a destra o a sinistra, ma nega e una di queste deviazioni possa mai essere più naturale dell’altra. In verità, tue queste fantasie circa la possibilità di conoscere e cosa sia naturale e e cosa non lo sia, con altri mezzi e non siano l’esperienza, sono completamente futili. L’unica prova vera e propria delle leggi del movimento o di una qualsiasi altra legge dell’universo è l’esperienza; è la prova e, semplicemente, nessun’altra ipotesi spiega i fai della natura universale o è compatibile con essi. In tue le età i geometri sono stati esposti all’accusa di tentar di provare i fai più generali del mondo esterno facendo ricorso a ragionamenti sofistici pur di evitare l’appello ai sensi. Arimede, scrive il professor Playfairm, ha stabilito alcune delle proposizioni elementari della statica ricorrendo a un processo in cui non prende a prestito nessun principio dell’esperienza, ma fonda interamente le proprie conclusioni sopra ragionamenti a priori. Assume, in realtà, e corpi eguali, posti alle estremità dei bracci eguali di una leva, si bilanceranno reciprocamente, e e ane un cilindro o un

parallelepipedo di materia omogenea sarà in equilibrio intorno al suo baricentro. este, però, non sono inferenze trae dall’esperienza: sono, per parlar propriamente, «conclusioni dedoe dal principio di ragion sufficiente». E a tu’oggi sono ben poi i geometri e non riterrebbero di gran lunga più scientifico fondare queste o altre premesse in questo modo, piuosto e far riposare le loro prove su quell’esperienza familiare a cui, nel caso in questione, avrebbero potuto fare appello con tante garanzie di sicurezza. 6. Un altro pregiudizio naturale, e ha ancora una larghissima diffusione al giorno d’oggi e ha avuto una grossa parte di colpa nel provocare gli errori in cui caddero gli antii nel corso delle loro ricere fisie, è il seguente: le differenze e si trovano in natura devono corrispondere alle distinzioni da noi comunemente acceate; gli effei, e nel linguaggio popolare siamo abituati a iamare con nomi differenti e a disporre in classi differenti, devono avere nature differenti e cause differenti. esto pregiudizio, la cui origine è così evidentemente la medesima di quelli di cui abbiamo già traato, caraerizzò in modo più particolare lo stadio più primitivo della scienza, quando quest’ultima non s’era ancora liberata dalle pastoie della fraseologia quotidiana. Lo straordinario successo di cui questa fallacia godee tra i filosofi Greci si può spiegare con il fao e questi ultimi non conoscevano altra lingua se non la loro propria; in conseguenza di ciò, le loro idee si modellarono sopra le combinazioni accidentali o arbitrarie di quella lingua in maniera molto più radicale di quanto non possa accadere, tra i moderni, a iunque tranne e alle persone illeerate. I Greci incontravano grosse difficoltà a fare distinzioni tra cose e la loro lingua confondesse, o nel meere insieme mentalmente cose tra cui la loro lingua facesse distinzione; e praticamente non sapevano combinare gli oggei della natura in nessun’altra classe se non in quelle e trovavano già bell’e fae nelle frasi popolari della loro lingua patria; o, almeno, non potevano esimersi dall’immaginare e quelle classi fossero naturali, mentre tue le altre sarebbero state arbitrarie e artificiali. Di conseguenza, tra le scuole filosofie Gree e tra i loro seguaci del Medioevo la ricerca scientifica era poco più di un puro e semplice vaglio e di una pura e semplice analisi delle nozioni connesse con il linguaggio comune. Pensavano di poter raggiungere una conoscenza direa dei fai determinando il significato delle parole. «Per loro», scrive il door Whewelln, «la filosofia deve risultare indiscutibilmente dalle relazioni tra quelle nozioni e sono implicite nell’uso comune del

linguaggio; e così procedeero a cercarla studiando tali nozioni». Nel capitolo successivo dell’opera citata, il door Whewell ha illustrato ed esemplificato così bene quest’errore e io mi prenderò la libertà di citarlo piuosto diffusamente. «La propensione a cercare princìpi nell’uso comune del linguaggio può essere riscontrata già in un periodo molto antico. Ne abbiamo un esempio in un deo e viene aribuito a Talete, il fondatore della filosofia Greca. ando gli iesero “al è la cosa più grande?”, Talete rispose: “Il luogo”: infai tue le altre cose sono nel mondo, ma il mondo è nel luogo. In Aristotele troviamo la perfezione massima di questo modo di speculazione. Il punto da cui di solito Aristotele prende le mosse nelle sue ricere è e nel linguaggio comune noi diciamo così o così. Perciò, quando deve discutere la questione se in una qualsiasi parte dell’universo ci sia il vuoto, ossia uno spazio in cui non c’è nulla, comincia con l’indagare in quanti sensi si dica e una cosa è in un’altra. Aristotele enumera pareci di questi sensi: diciamo e una parte è nel tuo come un dito è nella mano; ancora, diciamo e la specie è nel genere come Uomo è incluso in Animale; ancora: il governo della Grecia è nel re. Di questi sensi ne discrive e ne esemplifica diversi e svariati, ma tra essi il più proprio si ha quando diciamo e una certa cosa è in un vaso e, generalmente, in un luogo. In séguito esamina e cosa sia luogo e arriva a questa conclusione: e, “se intorno a un corpo c’è un altro corpo e lo include, allora il primo corpo è in un luogo; se no, no”. Un corpo si muove quando cambia il proprio luogo; ma, aggiunge Aristotele, se c’è dell’acqua in un vaso e il vaso è in quiete, allora le parti dell’acqua possono ancora muoversi peré ciascuna di esse è raciusa dall’altra; cosicé, mentre il tuo non cambia il suo luogo, le parti possono cambiare il loro luogo secondo un ordine circolare. Procedendo poi ad affrontare la questione del vuoto, Aristotele esamina nel solito modo i sensi differenti in cui viene usato il termine “vuoto” e adoa come il senso più proprio quello di luogo senza materia, e con questo non oiene nessun risultato utile. In una questione riguardante l’azione meccanica dice ancora: “quando un uomo muove una pietra spingendola con un bastone, diciamo, sia e l’uomo muove la pietra, sia e il bastone muove la pietra, ma quest’ultima cosa si dice con maggiore proprietà”.

Ancora troviamo e i filosofi Greci si davano da fare per ricavare i loro dogmi dalle nozioni più generali e più astrae e potessero trovare: per esempio, dalla concezione dell’universo come Uno o come Molti. Tentavano di determinare fino a qual punto possiamo, o dobbiamo, combinare con queste concezioni la concezione di un tuo, delle parti, del numero dei limiti, del luogo, dell’inizio, della fine, del pieno e del vuoto, della quiete, del movimento, della causa e dell’effeo, e via enumerando. L’analisi di tali concezioni, da tale punto di vista, occupa, per esempio, quasi tuo il traato di Aristotele Sul mondo”. Merita un’aenzione particolare il periodo seguente: “Un altro modo di ragionare, applicato molto diffusamente in questi tentativi, era la dottrina dei contrari, nella quale si presupponeva e gli aggeivi o le sostanze e nel linguaggio comune o in quale modo astrao di concepire le cose sono opposti gli uni agli altri, devono necessariamente essere l’indice di quale antitesi fondamentale esistente in natura, antitesi e è importante studiare. Così Aristotele dice e dai contrasti suggeriti dal numero i Pitagorici ricavarono dieci princìpi: limite e illimitato, dispari e pari, uno e molti, destra e sinistra, masio e femmina, quiete e movimento, reo e curvo, luce e oscurità, bene e male, quadrato e reangolo… Lo stesso Aristotele dedusse la dorina dei quaro elementi, ed altri dogmi, da opposizioni della medesima specie». Della maniera in cui gli antii tentarono di dedurre leggi di natura da premesse oenute in questo modo, viene fornito un esempio nella medesima opera, quale pagina più avanti. «Aristotele decide e non c’è vuoto, in base a ragionamenti come quello e segue: nel vuoto non potrebbero esserci differenze di alto e di basso; infai, siccome nel nulla non ci sono differenze, così non ce ne sono in una privazione o negazione; ma il vuoto è semplicemente una privazione o negazione di materia; perciò nel vuoto i corpi non potrebbero muoversi in su e in giù, il e è invece nella loro natura di fare. Si vede facilmente [aggiunge a ragione il door Whewell] e un tale modo di ragionare assegna alle forme familiari del linguaggio e alle connessioni tra i termini stabilite dall’intelleo una supremazia sui fai, facendo dipendere la verità dal fao e i termini siano o no privativi, e dal fao e diciamo e i corpi cadono naturalmente». La propensione ad assumere e tra gli oggei in sé Vigano le medesime relazioni e vigono tra le idee e abbiamo degli oggei è vista qui nello stadio estremo del suo sviluppo. Infai il modo di filosofare esemplificato

negli esempi precedenti assume, niente meno, e il modo appropriato per arrivare alla conoscenza della natura consista nello studiare la natura stessa soggeivamente: nell’applicare la nostra osservazione e la nostra analisi, non già ai fai, ma alle nozioni e si hanno comunemente dei fai. Si potrebbero dare molti altri esempi, egualmente sorprendenti, della tendenza ad assumere e le cose e vengono poste in classi differenti per le convenienze pratie della vita di ogni giorno, debbano differire per tui gli aspei. Di questa natura era il pregiudizio diffuso e profondamente radicato nell’antiità e nel Medioevo, pregiudizio secondo il quale i fenomeni celesti e i fenomeni terrestri debbano essere tra loro sostanzialmente differenti e non possano dipendere dalle medesime leggi, neane in misura minima. Della medesima specie era il pregiudizio contro cui combaé Bacone e secondo il quale nulla e sia stato prodoo dalla natura può essere imitato con successo dall’uomo. «Calorem solis et ignis toto genere differre; ne scilicet homines putent se per opera ignis, aliquid simile iis quae in natura fiunt, educere et formare posse»: e ancora: «Compositionem tantum opus hominis, mistionem vero opus solius naturae esse ne scilicet homines sperent aliquam ex arte corporum naturalium generationem aut transformationem»12. L’adozione della grossa distinzione faa nelle speculazioni scientifie degli antii, tra moti naturali e moti violenti, bené, stando alle apparenze in se stesse, non fosse del tuo priva di un fondamento plausibile, fu senza dubbio grandemente favorita dal fao e tale distinzione si conformava al pregiudizio in questione. 7. Dall’errore fondamentale degli scienziati dell’antiità passiamo ora, per associazione naturale, a un errore quasi altreanto fondamentale, commesso dal loro grande rivale e successore: Bacone. Ha suscitato la sorpresa dei filosofi il fao e il particolareggiato sistema di logica induiva e quest’uomo straordinario si dee tanta pena per costruire, abbia poi avuto così poe utilizzazioni diree da parte dei ricercatori successivi: e non sia continuato ad essere riconosciuto come teoria ecceo e in un piccolo numero dei suoi aspei più generali, né abbia condoo, in pratica, a nessun grande risultato scientifico. Ma questo fao, pur essendo stato fao osservare tu’altro e raramente, non ha mai ricevuto una spiegazione plausibile, e anzi, pur di non avanzare l’ipotesi e le regole di Bacone siano fondate su di un’analisi insufficiente del processo induivo, alcuni hanno preferito asserire e tue le regole dell’induzione sono inutili.

Però, non appena si prenda in considerazione il fao e Bacone trascurò interamente la pluralità delle cause, si vede subito e le cose non stanno veramente così. Tue queste regole implicano tacitamente l’assunzione, così contraria a tuo quello e ora sappiamo della natura, e un fenomeno non possa avere più d’una causa. ando indaga quella e egli iama la forma calidi aut frigidi, gravis 13 aut levis, sicci aut humidi , e via dicendo, Bacone non mee mai in dubbio, neppure per un istante, e ci sia quale cosa — quale condizione invariabile, o quale insieme invariabile di condizioni — e è presente in tui i casi di caldo o di freddo, o di qualsiasi altro fenomeno e egli stia considerando; l’unica difficoltà consiste, per lui, nel trovare e cosa sia questo qualcosa, e di conseguenza cerca di trovarlo ricorrendo a un processo di eliminazione, respingendo o escludendo per mezzo di esempi negativi tuo quello e non sia la forma o la causa, allo scopo di arrivare a quello e invece forma o causa è. Ma e questa forma, o causa, sia una sola cosa, e sia la medesima in tui gli oggei caldi, su questo non ha più dubbi di quanti un’altra persona non ne abbia sul fao e una causa o l’altra c’è sempre. Ane se non avessimo già traato la questione in maniera tanto esauriente, allo stato auale della nostra conoscenza potrebbe non essere necessario meere in evidenza quanto siano in contrasto con la verità queste supposizioni. È un caso particolarmente disgraziato per Bacone e, cadendo in questi errori, egli si sia fissato quasi esclusivamente su una classe d’indagini in cui l’errore era particolarmente fatale; cioè sulle ricere sopra le cause delle qualità sensibili degli oggei. Infai la sua assunzione, infondata in ogni caso, è falsa in grado particolarmente alto per quello e riguarda queste qualità sensibili. Praticamente per nessuna di esse si è trovato e sia possibile rintracciare una qualsiasi unità della causa, cioè un qualsiasi insieme di condizioni e accompagnino invariabilmente la qualità. Le congiunzioni di tali qualità le une con le altre costituiscono quella varietà di specie in cui, come abbiamo già fao osservare, non è stato possibile rintracciare nessuna legge. Bacone cercava cose e non esistono. Molto più spesso il fenomeno di cui cercava l’unica causa non ha nessuna causa affao; e quando ce l’ha dipende (per quanto sia stato accertato fino a questo momento) da una varietà indeterminabile di cause ben distinte. E su questa roccia non può non andar a cozzare iunque si rappresenti come problema primo e fondamentale della scienza l’accertamento della

causa di un dato effeo, piuosto e l’accertamento degli effei di una data causa. In uno stadio precedente della nostra indagine sulla natura dell’induzioneo, abbiamo mostrato quanto le risorse di cui la scienza dispone per quest’ultima ricerca siano più ampie delle risorse di cui dispone per la prima; soltanto sull’ultima, infai, possiamo geare un po’ di luce direa per mezzo dell’esperimento; il potere di produrre artificialmente un certo effeo implica infai una conoscenza precedente di almeno una delle sue cause. Se scopriamo le cause di certi oggei, questo accade, generalmente, peré prima abbiamo scoperto gli effei di certe cause; per grande e sia, la nostra abilità nell’escogitare istanze cruciali per il primo scopo non può non meere capo a un risultato nullo — come del resto accadde alle ricere fisie di Bacone. È forse accaduto e la sua bramosìa di impadronirsi del potere di produrre, a beneficio dell’uomo, effei di importanza pratica per la vita umana, l’abbia reso impaziente di perseguire quel fine seguendo una strada contorta, e gli abbia fao preferire — proprio a lui, campione dell’esperimento — il metodo direo (e pure è un metodo di semplice osservazione) al metodo indireo, grazie al quale, soltanto, è possibile l’esperimento? O forse Bacone non aveva mai sbarazzato la propria mente dalla nozione degli antii e «rerum cognoscere causas» sia il solo oggeo della filosofia, mentre la ricerca degli effetti delle cose appartiene alle arti servili e meccanie? Vale la pena osservare e, mentre un indebito disprezzo per i lavori manuali faceva sì e ci si lasciasse sfuggire il solo modo efficace per coltivare la scienza speculativa, i punti di vista speculativi falsi e così si vennero a generare, imprimevano, a loro volta, un indirizzo falso a quegli scopi pratici e meccanici di cui si tollerava l’esistenza. L’assunzione, universalmente diffusa tra gli antii e nel Medio Evo, e ci sono princìpi del caldo e del freddo, del secco e dell’umido, ecc., portarono direamente alla credenza nell’alimia; alla credenza in una trasmutazione delle sostanze, in un cambiamento da una specie all’altra. Peré non dovrebbe essere possibile fabbricare l’oro? Ciascuna delle proprietà caraeristie dell’oro ha la sua forma, la sua essenza, il suo insieme di condizioni, sicé, se potessimo scoprire tue queste cose e potessimo imparare come realizzarle, potremmo superindurre quella proprietà particolare su qualsiasi altra sostanza: sul legno, sul ferro, sul fango, sulla creta. Dunque, se potessimo fare una cosa del genere con ognuna delle proprietà essenziali del

prezioso metallo, avremmo convertito le altre sostanze in oro. E questo, una volta date per scontate le premesse, non sembrava neppure trascendere i poteri reali dell’umanità. Infai l’esperienza quotidiana mostrava e ognuna delle proprietà sensibili e distinguono un oggeo qualsiasi — la sua consistenza, il suo colore, il suo odore, la sua forma — potevano essere cambiate in maniera totale dal fuoco, dall’acqua o da quale altro agente imico. E poié sembrava e rientrasse nell’ambito dei poteri umani il produrre o il distruggere le formae di tue queste qualità, non soltanto la trasmutazione delle sostanze appariva possibile in astrao, ma sembrava e l’impiego di quei poteri pratici, a nostra discrezione, non fosse per nulla impresa disperatap. Un pregiudizio così universalmente diffuso nel mondo antico, e da cui Bacone era così lontano dall’essersi sbarazzato e pervase e viziò l’intiera parte pratica del suo sistema di logica, può occupare, a buon dirio, un posto preminente nell’ordine delle fallacie di cui stiamo traando in questo capitolo. 8. Rimane ancora una fallacia a priori, o pregiudizio naturale: la più profondamente radicata, forse, fra tue quelle e abbiamo enumerato; una fallacia e non soltanto regnava sovrana nel mondo antico, ma e ancora al giorno d’oggi esercita un dominio quasi incontrastato su molte delle menti più colte; e alcuni dei più notevoli tra i numerosi esempi con cui riterrò necessario illustrarla saranno trai da pensatori recenti. La fallacia è questa: e le condizioni di un fenomeno non potranno non somigliare al fenomeno medesimo, o, per lo meno, sarà probabile e gli somiglino. In conformità con quello e (come abbiamo osservato in precedenza) accade di solito, questa fallacia si sarebbe potuta far rientrare senza troppa improprietà in una classe differente, cioè nella classe delle fallacie di generalizzazione; infai, in certa misura l’esperienza fornisce quale appoggio a quest’assunzione. In moltissimi casi la causa somiglia effeivamente al suo effeo; il simile produce effeivamente il simile. Molti fenomeni hanno una tendenza direa a perpetuare la propria esistenza, o a dare origine ad altri fenomeni simili a sé. Per non menzionare le forme e si modellano effeivamente l’una sull’altra, come le impressioni sulla cera e simili, forme in cui la somiglianza tra l’effeo e la causa costituisce la stessa legge del fenomeno, tui i movimenti tendono effeivamente a perpetuarsi con la loro propria velocità e la loro propria direzione originarie; il

movimento di un corpo tende a meere in moto gli altri corpi, e questo è in realtà uno dei modi più comuni in cui i movimenti dei corpi si originano. È praticamente superfluo menzionare il contagio, la fermentazione o le altre cose di questo genere, oppure il prodursi d’effei in séguito alla crescita o allo sviluppo di un germe o rudimento e somigliano, in scala ridoa, al fenomeno fao e finito, come accade nella crescita di una pianta o di un animale da un embrione, il quale, a sua volta, deriva la propria origine da un’altra pianta o da un altro animale della medesima specie. Ancora: i pensieri o le reminiscenze, e sono gli effei delle sensazioni e abbiamo avuto in passato, rassomigliano a quelle sensazioni; i sentimenti producono, per simpatia, sentimenti simili; gli ai producono ai simili, per imitazione volontaria o involontaria. Con tante apparenze in proprio favore, non c’è da maravigliarsi e si sia faa strada la presunzione e le cause debbano necessariamente somigliare ai loro effei, e e il simile possa soltanto essere prodoo dal simile. esto principio della fallacia ha di solito presieduto ai tentativi fantastici di influenzare il corso della natura con mezzi adoati in base a congeure: con mezzi, cioè, la cui scelta non era direa da osservazioni e da esperimenti precedenti. Le congeure si sono fissate quasi sempre su certi mezzi e possedevano trai di somiglianza apparente o reale con lo scopo e ci si proponeva. Se, come la Medea di Ovidio, si voleva un filtro e prolungasse la vita, si raccoglievano tui gli animali longevi — o stimati tali — e se ne faceva un brodo: … nec defuit illic squamea Cinyphii tenuis membrana chelydri vivacisque jecur cervi; quibus insuper addit

14.

ora caputque novem cornicis saecula passae

Una nozione simile era incarnata nella celebre teoria medica iamata la «dorina dei segni» e, dice il door Parisq, “non è nient’altro e la credenza secondo cui ogni sostanza naturale e possegga una quale virtù medicinale, indica, per mezzo di quale caraere esterno ovvio e ben marcato, la malaia della quale è un rimedio, o lo scopo per il quale dovrebbe essere impiegata». esto caraere esterno consisteva generalmente in quale trao di somiglianza reale o fantastica o con l’effeo e si riteneva e quella sostanza producesse o con il fenomeno sul

quale si pensava e esercitasse il proprio potere. «Così, i polmoni di una volpe dovevano per forza essere uno specifico contro l’asma, peré quell’animale è noto per le sue forti capacità respiratorie. Il rizoma della Curcuma longa ha un colore giallo brillante, e questo indica e la pianta ha il potere di curare l’ierizia; per la medesima ragione i papaveri devono liberare dai mali di testa; l’agarico da quelli della vescica; la Cassia fistula cura le affezioni dell’intestino e l’Aristolochia i disordini dell’utero; si riteneva e la superficie levigata e la durezza petrigna e caraerizzano in modo così evidente i semi del Lithospermum officinale costituissero un’indicazione certa dell’efficacia di questi semi nelle malaie da calcoli e petrose; per una ragione simile le radici della Saxifraga granulata acquistarono un’oima reputazione nella cura della medesima malaia; e l’Euphrasia15 si guadagnò fama di cataplasma buono per le malaie dell’ocio, peré nella sua corolla si vede una macia nera e somiglia a una pupilla. L’ematite (l’eliotropia degli antii) viene impiegata ancor oggi in molte parti dell’Inghilterra e della Scozia per arrestare le epistassi, per via delle piccole macioline, o punti color rosso sangue, e occasionalmente presenta sulla sua superficie, e come rimedio popolare per la cura dell’orticaria si usa ancor oggi l’infuso di ortie. È stato ane asserito e alcune sostanze portano impressi i segni degli umori: così il petalo della rosa rossa porta impresso il segno del sangue e le radici del rabarbaro e dei fiori di zafferano quello della bile». Le più antie speculazioni sulla composizione imica dei corpi furono fae abortire da una circostanza sopra tue le altre: e gli antii davano invariabilmente per scontato e le proprietà degli elementi dovessero somigliare alle proprietà dei composti e erano stati formati a partire da essi. Per discendere a esempi più moderni: per lungo tempo si pensò, e da parte dei cartesiani e dello stesso Leibniz si sostenne ostinatamente contro il sistema newtoniano (e, come abbiamo visto, neane Newton contestò quest’assunzione ma la eluse facendo ricorso a un’ipotesi arbitraria) e nulla (o, almeno, nulla e abbia natura fisica) possa rendere ragione del moto se non un moto precedente; cioè, l’impulso o impao di quale altro corpo. Passò moltissimo tempo prima e il mondo degli scienziati potesse vincere la propria riluanza ad ammeere l’arazione e la repulsione (vale a dire, le tendenze spontanee delle particelle ad avvicinarsi e ad allontanarsi

l’una dall’altra) come leggi fondamentali, di cui non si deve rendere ragione più di quanto non si dovrebbe rendere ragione dello stesso impulso, se quest’ultimo non fosse, in verità, risolubile nelle prime. Dalla medesima fonte trassero origine le innumerevoli ipotesi escogitate per spiegare quelle classi di movimenti e apparivano più misteriosi di altri, peré non c’era nessun modo ovvio per aribuirli all’impulso, quali, per esempio, i movimenti volontari del corpo umano. Tali erano gli interminabili sistemi di vibrazioni propagantisi lungo i nervi, o gli spiriti animali e passeggiavano su e giù tra i muscoli e il cervello; e se si fossero potuti provare i fai, la cosa avrebbe dato un impulso tu’altro e indifferente alla nostra conoscenza delle leggi fisiologie; ma soltanto un uomo in preda al più violento delirio avrebbe potuto credere e per rendere più comprensibili i fenomeni della vita animale fosse sufficiente inventare tali entità, o introdurle arbitrariamente per mezzo di un’ipotesi. Tuavia, l’unica conclusione soddisfacente sembrava quella e il moto è prodoo dal moto, cioè da qualcosa di simile a se stesso. Se non si traava di una specie di moto doveva per forza traarsi di un’altra. In maniera analoga si suppose e le qualità fisie degli oggei dovessero sorgere da quale qualità simile (o forse soltanto da quale qualità e portasse il medesimo nome) ìnsita nelle particelle o negli atomi di cui sono composti gli oggei; per esempio, e il sapore pungente dovesse originarsi da particelle pungenti. E, rovesciando l’inferenza, si supponeva e gli effei prodoi da un fenomeno debbano somigliare, nei loro aributi fisici, al fenomeno medesimo. Si suppose e le influenze dei pianeti fossero analoghe alle loro particolarità visibili. Marte, essendo di colore rosso, preannunciava fuoco e massacri, e via discorrendo. Se ora passiamo dalla fisica alla metafisica possiamo osservare, tra i frui più notevoli di questa fallacia a priori, due teorie streamente analoghe e venivano impiegate nei tempi antii, e vengono impiegate in quelli moderni, per geare un ponte sull’abisso tra il mondo della mente e il mondo della materia: le species sensibiles degli Epicurei e la moderna dorina secondo cui la percezione avviene per mezzo delle idee. In realtà, è probabile e queste teorie siano debitrici della loro esistenza non soltanto alla fallacia e stiamo ora prendendo in considerazione, ma a questa fallacia combinata con un altro pregiudizio naturale, di cui ci siamo già occupati: il pregiudizio e una cosa non possa agire là dove non è. In entrambe le dorine si assume e il fenomeno e ha luogo in noi quando vediamo o quando tociamo un oggeo, e e consideriamo come un effeo di

quell’oggeo o piuosto della sua presenza ai nostri organi, debba necessariamente somigliare molto da vicino all’oggeo esterno medesimo. Per soddisfare questa condizione gli Epicurei supponevano e gli oggei proieino costantemente in tue le direzioni immagini impalpabili di se stessi; immagini e entrano negli oci e di qui penetrano nella mente. Pur rifiutando quest’ipotesi, i metafisici moderni concordano tuavia nel ritenere e sia necessario supporre e l’oggeo direo della percezione non sia la cosa in se stessa ma un’immagine o rappresentazione mentale della cosa. Il door Reid dovee impiegare un mondo di ragionamenti e di illustrazioni per familiarizzare la gente con la verità e le sensazioni o le impressioni prodoe sulla nostra mente non devono necessariamente essere copie delle cause e le producono, o avere una qualsiasi somiglianza con queste cause, contro il pregiudizio naturale e induceva la gente a ritenere e le azioni esercitate dai corpi sopra i nostri sensi e, araverso i nostri sensi, sopra la nostra mente, s’identificassero con il trasferimento di una data forma da un oggeo a un altro, stampandosi leeralmente su quest’ultimo. Ancor oggi, le opere del door Reid costituiscono il corso di studi più efficace per liberare la mente dal pregiudizio di cui questa teoria era un esempio. E il valore del servizio e il door Reid rese, in questo modo, alla filosofia popolare non risulta troppo sminuito dal fao e sia possibile sostenere, con Brown, e Reid esagerò nell’imputare «la teoria delle idee» [ideal theory] come effeivo punto di dorina, alla generalità dei filosofi e l’avevano preceduto, e specialmente a Loe e a Hume; infai, ane se questi due ultimi filosofi non caddero consapevolmente nell’errore, non c’è dubbio e più d’una volta vi abbiano fao cadere i loro leori. Di tanto in tanto il pregiudizio secondo il quale le condizioni di un fenomeno devono somigliare al fenomeno viene esagerato, almeno verbalmente, e tradoo in un’assurdità ancor più palpabile: si parla delle condizioni della cosa come se queste fossero né più né meno e la cosa medesima. Nel modello di indagine fornito da Bacone, e e occupa uno spazio così grande nel Novum Organum (cioè, nella inquisitio in formam calidi) la conclusione acceata da Bacone è e il calore è una specie di movimento; intendendo, naturalmente, non già le sensazioni di calore, ma le condizioni di questa sensazione; intendendo perciò soltanto e dovunque ci sia calore, là dev’esserci stata, prima, una specie particolare di movimento; ma nel suo linguaggio Bacone non fa nessuna distinzione tra queste due idee e s’esprime come se il calore e le condizioni del calore fossero una sola e

medesima cosa. Così Darwin il vecio16 dice all’inizio della sua Zoonomia: «Per gli scriori di metafisica la parola “idea” ha diversi e svariati significati: negli scrii di metafisica questa parola viene usata semplicemente per indicare quelle nozioni delle cose esterne e i nostri sensi ci fanno conoscere direamente, all’origine» (fin qui la proposizione, bené vaga, è ineccepibile dal punto di vista del suo significato) «e si definisce come una contrazione, un movimento o una configurazione delle fibre e costituiscono l’organo immediato del senso». Le nostre nozioni una configurazione di fibre! Che specie di logico sarà mai uno e pensi e un fenomeno si definisca come la condizione dalla quale si suppone e dipenda? Di conseguenza, Darwin dice di lì a poco, non già e le nostre idee sono causate da, o sono la conseguenza di, certi fenomeni organici, ma e «le nostre idee sono moti animali degli organi di senso». E questa confusione corre per tui e quaro i volumi della sua Zoonomia: il leore non può mai sapere se i scrive stia parlando dell’effeo o se stia parlando della sua presunta causa; dell’idea, vale a dire di uno stato di consapevolezza proprio della mente, o dello stato dei nervi e del cervello e, secondo l’autore, l’idea presuppone. Ho dato diversi e svariati esempi di casi nei quali il pregiuzio naturale secondo cui le cause e gli effei devono somigliarsi gli uni alle altre, ha agito in pratica così da dare origine a seri errori. Ora mi spingerò ancora più in là e produrrò, ane da scrii comparsi al giorno d’oggi o in tempi molto recenti, esempi in cui questo pregiudizio viene enunciato come un dogma incrollabile. Nell’ultima delle sue celebri lezioni su Loe, il signor Victor Cousin enuncia la massima nei seguenti termini, estremamente generici: «Tout ce qui est vrai de l’effet est vrai de la cause»17: dorina, questa, alla quale non si può immaginare e una persona aderisca leeralmente, se non è spinto ad aderirvi da quale significato molto particolare e molto tecnico delle parole «causa» ed «effeo»; ma uno e ha potuto scrivere parole del genere dev’essere abbastanza lontano dal rendersi conto e l’effeo potrebbe essere proprio l’opposto della causa: e non c’è nulla d’impossibile nel supporre e della causa possa non essere vera nessuna proprietà e è vera dell’effeo. Nella sua Biographia literariar, pur senza usare un modo di esprimersi così azzardato, Coleridge afferma come «verità evidente» e «la legge di causalità regge soltanto tra cose omogenee, cioè tra cose e hanno quale proprietà in comune», e perciò e «non può estendersi da un

mondo a un altro mondo e sia l’opposto del primo». indi, siccome mente e materia non hanno alcuna proprietà in comune, la mente non può agire sulla materia, né la materia sulla mente. Che cos’è, questa, se non la fallacia a priori di cui stiamo parlando? Come molte altre dorine di Coleridge, questa dorina è stata traa da Spinoza. Nel primo libro della sua Ethica «De Deo») essa sta come la terza Proposizione: «ae res commune nihil inter se habent, earum una alterius causa esse non potest»18, e viene provata in base a due cosiddei assiomi, tanto gratuiti quanto la stessa proposizione. Ma Spinoza, sempre coerente dal punto di vista sistematico, perseguì la propria dorina fino alla sua conseguenza inevitabile: la materialità di Dio. La medesima concezione dell’impossibilità condusse la mente ingegnosa e soile di Leibniz alla sua celebre dorina dell’armonia prestabilita. Ane Leibniz pensava e la mente non possa agire sulla materia né la materia possa agire sulla mente, e e perciò le due cose devono essere state ordinate dal loro faore come due orologi e pur non avendo nessuna connessione l’uno con l’altro baono le ore simultaneamente e segnano sempre la medesima ora. La dorina egualmente famosa delle cause occasionali enunciata da Malebrane era un’altra forma della medesima concezione. Invece di supporre e i due orologi siano stati caricati originariamente in modo e baessero simultaneamente le ore, Malebrane sostenne e quando uno di essi bae le ore, Dio ci si mee di mezzo e fa sì e l’altro baa le ore in corrispondenza con il primo. In maniera analoga Descartes, le cui opere costituiscono una ricca miniera di quasi ogni tipo di fallacia a priori, dice e la causa efficiente deve avere almeno tue le perfezioni dell’effeo, e per questa singolare ragione: «Si enim ponamus aliquid in idea reperiri quod non fuerit in ejus causa, hoc igitur habet a nihilo»19; e non sarebbe affao una parodia di quest’asserzione il tradurla in questi termini: se c’è pepe nella minestra dev’esserci pepe nel cuoco e l’ha faa, altrimenti il pepe sarebbe senza causa. Una fallacia simile è stata commessa da Cicerone nel secondo Libro del suo De finibus, dove, parlando in persona propria contro gli Epicurei, li accusa di contraddirsi da sé, peré dicono e i piaceri dello spirito hanno avuto la loro origine da quelli del corpo, e e tuavia i primi sarebbero più pregevoli: come se l’effeo potesse essere maggiore della causa: «Animi voluptas oritur propter voluptatem corporis, et major est animi voluptas quam corporis? ita fit ut gratulator, laetior sit quam is cui gratulatur»20.

Sicuramente, neane quest’ultima è un’impossibilità: la buona fortuna di una persona ha spesso dato maggior piacere agli altri di quanto non ne abbia dato alla persona medesima. Con prontezza non minore Descartes applica il medesimo principio in senso inverso, e inferisce la natura degli effei in base all’assunzione e essi devono somigliare alla causa in questa o in quest’altra proprietà, o in tue le loro proprietà. A questa classe appartengono quelle sue speculazioni, e le speculazioni di tanti altri suoi successori, e tendono a inferire l’ordine dell’universo non già dalle osservazioni, ma dal ragionamento a priori basato sopra presunte qualità della natura divina. Probabilmente, questa specie d’inferenza non fu mai stiraciata di più di quanto non avesse fao lo stesso Descartes in un caso particolare. Ciò accadde quando, per provare uno dei princìpi della sua fisica — il principio secondo cui la quantità di moto nell’universo è invariabile — Descartes fece ricorso all’immutabilità della natura divina. Comunque, ragionamenti di un caraere molto simile sono ora quasi tanto comuni quanto lo erano ai suoi tempi e funzionano soprauo come artifici per tenere lontane le conclusioni spiacevoli. Gli autori non hanno ancora cessato di opporre la teoria della benevolenza divina all’evidenza dei fai fisici, per esempio, al principio della popolazione. E in genere, dicendo e il supporre e una certa proposizione sia vera equivale a censurare la bontà e la saggezza della divinità sembra a questa gente di aver fao uso di un’argomentazione potentissima. Messo nelle parole più semplici possibili, il loro ragionamento è il seguente: «se le cose fossero dipese da me io non avrei mai reso vera questa proposizione; perciò la proposizione non è vera». Messo in parole diverse suona così: «Dio è perfeo, perciò (quella e io ritengo) la perfezione dev’essere diffusa nella natura». Ma siccome in realtà tui pensiamo e la natura sia ben lontana dall’essere perfea, la dorina non viene mai applicata in modo coerente. Essa fornisce un argomento al quale come a molti altri di caraere simile, alla gente piace fare appello quando porta acqua al suo mulino. Non riesce a convincere nessuno, ma tui sembrano pensare e nelle discussioni questa dorina mea la religione dalla loro parte, e quindi costituisca un’utile arma d’offesa per far male a un avversario. Sebbene alle fallacie qui specificate si possano probabilmente aggiungere parecie altre varietà di fallacie a priori, queste sono tue le fallacie a priori contro cui ci è sembrato necessario meere in guardia in modo particolare. Il nostro scopo è quello di aprire il discorso sull’argomento, non già quello di

tentar d’esaurirlo, o di darsi le arie d’esaurirlo. Avendo pertanto illustrato sufficientemente a lungo questa classe di fallacie, procederò ora a occuparmi della seconda. a. Vulgar Errors,

libro V, cap. XXI. b. Pharmacologia, Introduzione storica, p. 16. 5 c. L’autore di uno dei Bridgewater Treatises è caduto, mi sembra, in una fallacia analoga, quando dopo aver discusso in maniera piuosto d. Cfr. più sopra, libro II, cap. V, § 6 e cap. VII, §§ 1, 2, 3, 4. Vedi ane An examination of Sir William Hamilton’s Philosophy, cap. VI e altrove. e. Sembra e prima dell’epoca e ho menzionato questa dorina sia stata messa in dubbio da alcuni pensatori. Il dor Ward menziona Scoto6, Vasquez7 Biel8, Francesco Lugo9 e Valentia10. f. Cito questo passo dal celebre lavoro di Playfair, Dissertation on the Progress of Mathematical and Physical Science [Dissertazione sul progresso delle scienze matematica e fisica]. g. Ora devo correggere quest’asserzione come troppo generica. La massima in questione fu sostenuta con estrema convinzione da un’autorità del calibro, nientemeno, e di Sir William Hamilton. Si veda il capitolo XXIV della mia Examination. h. «Riconosco e non è permesso negare quello e non si comprende; ma aggiungo e si ha il dirio di negare (almeno nell’ordine naturale) quello e non è assolutamente intelligibile o è assolutamente inesplicabile. Sostengo altresì… e in ultima analisi la concezione delle creature non è la misura del potere di Dio, ma e la loro facoltà, o forza di concezione, è la misura del potere della natura, dal momento e tuo quello e è conforme all’ordine naturale può essere percepito, o inteso, da quale creatura». Nouveaux essais sur o entendement humain, Avantpropos (Oeuvres, Paris, 1842, vol. I, p. 19). i. Ane questa dorina fu acceata come vera da Sir William Hamilton, e su di essa fondò parecie conclusioni. Si veda l’Examination, cap. XXIV. l. Non quello formulato da Leibniz, ma quello a cui molti matematici si riferiscono con questo nome. m. Dissertation, come sopra, p. 27. n. Hist. Ind. Sc., libro I, cap. I. o. V, sopra, Libro III, cap. VII, § 4. p. È superfluo osservare e qui non s’intende dire nulla contro la possibilità e in quale epoca futura s’arrivi a fabbricare l’oro, scoprendo, prima, e l’oro è un composto, e poi meendo insieme i suoi differenti elementi, o ingredienti. Ma quest’idea è totalmente differente da quella e ispirò i cercatori del grande arcano. q. Pharmacologia, pp. 43-45. r. Vol. I, cap. VIII. 1. Claudius Salmasius, nome latinizzato di Claude Saumaise (1588-1653), filologo francese, autore di parecie edizioni di autori classici e di un De re militari romanorum, composta per Federico di Nassau, mentre era professore a Leida. 2. Sir omas Browne (1605-1682), medico e scriore inglese, autore della Religio Medici [La religione di un medico] (e di una Pseudodoxia epidemica, or Enquiries into Very Many Received Tenets and Commonly Presumed Truth [Pseudodossia epidemica, ovvero: ricerche su molti punti di vista comunemente accettati e molte verità comunemente presunte tali]).

3. «Una lepre e ti passi davanti è segno di un viaggio inaspeato». 4. «Credei di poter assumere, come regola generale, e tuo quello e concepivo iaramente e distintamente è vero». 5. Si iamano così oo traati di caraere apologetico composti da vari autori, e comparsi tra il 1833 e il 1840, la cui pubblicazione fu patrocinata da Francis Henry Egerton, conte di Bridgewater (1756-1829), fellow dell’All Souls College di Oxford e membro della Royal Society, mediante una borsa di 8.000 sterline. I «traati» sono, nell’ordine, i seguenti: The Adaptation of External Nature to the Moral and Intellectual Condition of Man [L’adattamento della natura esterna alle condizioni morali e intellettuali dell’uomo]

di omas Chalmers;

The Adaptation of External Nature to the physical

Condition of Man [L’adattamento della natura esterna alla condizione fisica dell’uomo]

di John Kidd;

Astronomy and General Physics Considered with Reference to Natural Theology [L’astronomia e la fisica generale considerate in relazione alla teologia naturale]

di William Whewell;

The Hand, its

Mechanism and Vital Endowments as Evincing Design [La mano, il suo meccanismo e le sue doti vitali in quanto mettono in evidenza un piano]

di Sir Charles Bell;

Animal and Vegetable Physiology

Considered With Reference to Natural Theology [La fisiologia animale e vegetale considerata in relazione alla teologia naturale]

di William Buland;

The Habits and Instincts of Animals with

Reference to Natural Theology [Le abitudini e gli istinti degli animali considerati in relazione alla teologia naturale]

di Wilsingolare per provare e la materia non può esistere senza possedere nessuna delle proprietà note della materia, e e pertanto può essere mutevole, conclude e la materia non può essere eterna, peré «l’esistenza eterna (passiva) implica necessariamente l’incapacità del mutamento». Credo e sarebbe difficile indicare una qualsiasi connessione tra il fao dell’eternità e il fao dell’immutabilità, se si ecceua una forte associazione tra le due idee. La maggior parte delle argomentazioni a priori, religiose o antireligiose e siano, sull’origine delle cose, sono fallacie trae dalla medesima fonte. liam Kirby; Chemistry, Meteorology and the Function of Digestion Considered with Reference to Natural Theology [La chimica, la meteorologia e la funzione della digestione considerate in relazione alla teologia naturale]

di William Prout. 6. Duns Scoto (Doctor subtilis) 1266 o 1724-1308), filosofo scozzese. Appartenente all’ordine dei francescani, studiò a Oxford. Nel 1302 si recò a Parigi come baccelliere, e tenne un corso di commento alle Sentenze. Cacciato da Parigi per essersi sierato a favore del Papa nella loa tra Bonifacio VII e Filippo il Bello, vi ritornò nel 1304 e fu nominato maestro all’Università. Nel 1305 ritornò in Inghilterra dove redasse la sua opera principale, il Commento alle Sentenze, noto ane come Opus oxoniense. Nel 1308 fu iamato a Colonia dove morì. Oltre all’Opus oxoniense, scrisse: De primo principio, le Quaestiones in Metaphysicam, i Reportata parisiensia e un Quodlibet. La speculazione del Doctor subtilis, volta a determinare esaamente la parte e nei problemi filosofici e teologici spea alla scienza e quella e spea alla fede, e a circoscrivere la fede al dominio pratico (cosicé la teologia diventa una scienza sui generis, priva di ogni primato sulle altre scienze) segna una svolta decisiva della filosofia scolastica. 7. Gabriel Vasquez (1549-1604), teologo neoscolastico spagnolo, professore di filosofia morale ad Ocaña e di teologia prima a Madrid, e poi a Roma. Nel suo insegnamento e nei suoi scrii rivelò un aeggiamento critico verso alcuni punti fondamentali del tomismo. La sua dorina secondo cui l’essere reale della cosa conosciuta s’identifica con l’ao mediante il quale essa viene conosciuta, fu forse alla base della nozione di idea elaborata da Cartesio. Criticò le cinque dimostrazioni dell’esistenza di Dio date da Tommaso, e sostenne e l’esistenza di Dio si può dimostrare in quanto esigenza morale. Tra le sue opere principali ricordiamo Commentaria ac Disputationes in Primam partem S. Thomae, 8 voll., 1598-1615 e Disputationes Metaphysicae (1617).

8. Gabriel Biel (?-1495), filosofo scolastico tedesco: fu professore all’Università di Tubinga, e più tardi entrò nell’Ordine dei Fratelli della vita comune. Il suo pensiero fu essenzialmente legato a quello di Guglielmo d’Occam, le cui teorie espose e sviluppò in un’Epitome et collectorium ex Occamo super quatuor sententiarum (1508). Il tono generale della sua opera, e molte osservazioni sparse qua e là nei suoi scrii, gli valsero il soprannome di Papista antipapista, e certamente esercitarono un’influenza non indifferente sul pensiero di Lutero e di Melantone. Oltre e di opere di caraere filosofico. Biel è autore di un’opera di economia, dal titolo De potestate et utilitate monetarum. 9. Francisco de Lugo (1580-1652), gesuita spagnolo, professore di filosofia e teologia in varie università spagnole e in Messico, teologo generale della Compagnia di Gesù. Opere principali: De principiis moralibus actuum humanorum (1642), Theologia scolastica de Deo, de Trinitate, de Angelis (1647). 10. Gregorio de Valencia (1549-1603), teologo spagnolo; insegnò teologia a Dillingen e a Ingolstadt, e, dal 1598, al Collegio Romano, iamatovi da Papa Clemente VIII. La sua opera più nota sono i Commentarii Theologici alla Summa di S. Tommaso, pubblicati nel 1591. 11. Riard Bentley (1662-1742), uno dei più grandi filologi classici inglesi; fu professore a Cambridge, e curò parecie edizioni di classici greci e latini. Fu un sostenitore dello studio critico della Bibbia. 12. «Il calore del Sole e quello del fuoco differiscono in modo radicale: e non credano gli uomini di poter creare e formare, per opera del fuoco, alcuné di simile a quello e accade in natura». «La composizione è solo opera dell’uomo, la mescolanza è opera della sola natura; e non sperino gli uomini d’oenere con l’arte una quale generazione o una quale trasformazione dei corpi naturali». Novum organum, Aforisma 75. 13. «Forma del caldo o del freddo, del pesante e dei leggero, del secco e dell’umido». 14. «Né mancò / la squamea, soile membrana del elidro africano / né il fegato del cervo vivace; a questi aggiunse / il becco e il capo di una cornacia vecia di nove secoli. 15. Dea in inglese «Eyebright» cioè «ocio brillante». 16. Erasmo Darwin (1731-1802), scienziato e poeta inglese, nonno di Charles, il fondatore della teoria dell’evoluzione. La sua Zoonomia (1794-96) contiene in germe molte teorie e verranno poi sviluppate da Lamar e dal nipote. 17. «Tuo quello e è vero dell’effeo è vero della causa». 18. Due cose, e non hanno tra loro nulla in comune, non possono essere l’una la causa dell’altra». 19. «Se infai supponiamo e nell’idea si trovi qualcosa e non fosse nella sua causa, questo qualcosa verrà dal nulla». 20. «Il piacere dell’anima nasce dal piacere del corpo: e il piacere dell’anima non è forse maggiore del piacere del corpo? Accadrebbe così e quando mi congratulo con qualcuno, sono più felice di quello con cui mi congratulo».

CAPITOLO IV. FALLACIE D’OSSERVAZIONE 1. Dalle fallacie e per parlar propriamente sono pregiudizi o presunzioni e precedono la prova e vi si sostituiscono, passiamo adesso a quelle fallacie e consistono nell’esecuzione scorrea del processo della prova. E siccome nella sua estensione più ampia la prova abbraccia uno, o più, o tui e tre i processi di osservazione, generalizzazione e deduzione, noi prenderemo in considerazione nel loro ordine gli errori e possono venir commessi in queste tre operazioni. Cominceremo dalla prima operazione e abbiamo menzionato. Una fallacia di mancata osservazione può essere negativa o positiva. Cioè, può essere una fallacia di non-osservazione o una fallacia di caiva osservazione. È una fallacia di non-osservazione quando l’errore consiste tuo nel trascurare o nel dimenticare certi fai o particolari e invece si sarebbero dovuti osservare. È una fallacia di caiva osservazione quando, non soltanto non si vede una cosa, ma la si vede nel modo sbagliato; quando il fao o il fenomeno, invece di essere riconosciuto per quello e è in realtà, viene scambiato per qualcos’altro. 2. La non-osservazione può aver luogo, o peré si trascurano certi casi, o peré si trascurano alcune delle circostanze proprie di un dato caso. Se dovessimo concludere e un indovino è un profeta verace, senza prestare aenzione ai casi in cui le sue predizioni sono state falsificate dai fai, la nostra sarebbe una non-osservazione di certi casi; ma se trascurassimo il fao e nei casi in cui le predizioni si erano avverate l’indovino era in collusione con qualcuno e gli aveva fornito le informazioni su cui le sue previsioni erano fondate, o rimanessimo nell’ignoranza di tue queste cose, la nostra sarebbe non-osservazione delle circostanze. Per quanto riguarda l’ao d’induzione traa da prove insufficienti, il primo caso non rientra in questa classe di fallacie, ma nella terza classe, vale a dire nella classe delle fallacie di generalizzazione. Comunque, in tui i casi di questo genere, in luogo di un solo difeo o di un solo errore ce ne sono due: c’è l’errore e consiste nel traare le prove insufficienti come se fossero sufficienti, e questa è una fallacia della terza classe; e c’è

l’insufficienza medesima: il fao e non si abbiano prove migliori; e questa, quando si dovessero oenere tali prove (o, in altre parole, quando si dovessero oenere altri casi) è non-osservazione; e nella misura in cui dev’essere aribuita a questa causa, l’inferenza erronea è una fallacia della seconda classe. Non rientra tra i nostri scopi il traare della non-osservazione in quanto trae la sua origine da disaenzioni casuali, da una generale sciaeria degli abiti mentali, dalla mancanza della debita pratica nell’uso delle facoltà impegnate nell’osservazione o da un insufficiente interesse per l’argomento. La questione di pertinenza della logica è la seguente: data per scontata la mancanza di una competenza completa da parte dell’osservatore, in quale punto è più probabile e quest’insufficienza induca in errore l’osservatore? O, per meglio dire: dato un caso qualsiasi, quali specie di casi o di circostanze hanno maggiori probabilità di sfuggire all’aenzione degli osservatori in generale e, su scala ancor più larga, dell’umanità? 3. In primo luogo, dunque, è evidente e quando i casi e militano a favore di una sola parte di una certa questione hanno maggiori probabilità di essere ricordati e registrati di quante non ne abbiano quelli e militano in favore dell’altra (specialmente quando ci sia quale forte motivo e conservi la memoria dei primi ma non quella dei secondi) è probabile e questi ultimi vengano trascurati e sfuggano all’osservazione della gran massa degli uomini. esta è la spiegazione riconosciuta del credito e, a dispeo della ragione e delle prove, si dà a molte classi d’impostori: ai mediconi e agli indovini di tui i tempi, al «santone» dei tempi moderni e agli oracoli dei tempi antii. Poi hanno considerato debitamente quanto sia esteso il campo in cui questa fallacia opera nella pratica, persino di fronte alle prove negative più evidenti. Un esempio sorprendente di tale fallacia è la fede e la parte meno educata delle classi rurali di questo e di altri Paesi continua a riporre nelle profezie sul tempo ammannitegli dai compilatori di almanaci, ane se ogni stagione gli fornisce ane numerosi casi di previsioni completamente errate. Ma siccome ogni stagione gli fornisce ane alcuni casi in cui la predizione si avvera, questo è sufficiente a mantener alto il credito del profeta presso quella gente e non riflee su quanto sia alto il numero dei casi necessari a quella e, nella nostra terminologia induivistica, abbiamo iamato l’eliminazione della casualità: infai, tra due eventi privi di qualsiasi connessione tra loro, non solo può

darsi, ma è addiriura certo, e si verifierà un certo numero di coincidenze accidentali. In uno dei saggi comparsi sul Friend, Coleridge ha illustrato l’argomento e stiamo ora prendendo in considerazione, discutendo l’origine di un proverbio «e, espresso con parole differenti, si può trovare in tue le lingue d’Europa: “La fortuna favorisce i mai”». Coleridge aribuisce questo proverbio in parte «alla tendenza a esagerare tui gli effei e sembrino sproporzionati alla loro causa visibile e tue le circostanze e, in un modo o nell’altro, contrastino fortemente con le idee e ci siamo fai delle persone e vi si trovano coinvolte». Tralasciando alcune spiegazioni e forse si adaerebbero meglio all’errore di caiva osservazione, o alle altre specie di non-osservazione (la non-osservazione delle circostanze) riprendo la citazione un po’ più avanti. «Può darsi e certe coincidenze impreviste abbiano molto favorito un certo uomo; tuavia, se hanno fao per lui soltanto quello e lui stesso avrebbe potuto fare per sé, con le proprie capacità, la sua buona fortuna risveglierà una minore aenzione, e i casi saranno meno ricordati. Che gli uomini abili debbano conseguire gli scopi e si propongono, sembra naturale, e noi trascuriamo le circostanze e forse hanno dato luogo a quel successo di per se stesse, senza nessun intervento dell’abilità o della lungimiranza; ma quando la stessa cosa succede a un uomo debole e ignorante ci soffermiamo su quel fao e lo ricordiamo come qualcosa di strano. Così pure, ane se l’uomo ignorante dovesse fallire nella sua impresa a causa del concorso di circostanze e sarebbero potute capitare al più saggio degli uomini, tuavia, siccome il suo fallimento non è né più né meno quello e ci si sarebbe potuti aspeare data la sua mancanza di buon senso ed è esaamente ciò di cui la sua mancanza di buon senso potrebbe rendere ragione, la cosa non aira su di sé la nostra aenzione ma scorre via tra le altre onde indistinte e la corrente della vita di ogni giorno fa passare mormorando accanto a noi, ed è subito dimenticata. Se fosse stato tanto vero quanto notoriamente era falso e quelle scoperte onnicomprensive e hanno diffuso la prima luce della scieniza sull’arte della imica e e sono iara promessa di quale grande legge costitutiva nella luce della quale dimoreranno il dominio e il potere della profezia; se queste scoperte, dico, invece d’essere state concertate in precedenza dalla meditazione del professor Davy (come di fao furono) si fossero sviluppate dall’intelleo dell’illustre Padre fondatore dell’alimia filosofica dopo essergli venute in mente per un insieme di accidenti

fortunati; se si fossero disvelate al professor Davy soltanto peré aveva la fortuna di possedere una particolare baeria galvanica; se, per quanto lo riguardava, questa baeria gli fosse a sua volta venuta tra le mani accidentalmente e non fosse stata (come in realtà fu) desiderata e oenuta da lui allo scopo di assicurare ai suoi princìpi la testimonianza dell’esperienza e allo scopo di piegare all’inquisizione della ragione la natura della materia traendone di forza, come per tortura, risposte precise a questioni preparate e preconcepite; se tuo questo fosse accaduto, delle sue scoperte non si sarebbe tuavia mai parlato come di esempi di fortuna, e non le si sarebbe mai descrie come tali, ma come risultati del suo ben riconosciuto genio e della sua ben nota abilità. Ma se queste scoperte si fossero rivelate accidentalmente a un meccanico di Birmingham o di Sheffield, e se quest’uomo fosse diventato ricco in conseguenza loro e, in parte a causa dell’invidia dei suoi vicini e in parte con buona ragione, fosse stato considerato persona dotata di facoltà intelleuali generali al disotto della media, allora: “Oh, e individuo fortunato! Ebbene, è proprio vero e la fortuna favorisce i mai! Ma certo! È sempre così”. E a questo punto, i fa tue queste esclamazioni riferisce mezza dozzina di casi simili. Accumulando così una sola specie di fai, senza mai raccogliere gli altri, facciamo come fanno i poeti nel loro linguaggio e i ciarlatani di tue le specie nei loro ragionamenti: meiamo un parte al posto del tuo». esto passo espone molto felicemente la maniera in cui — in virtù di quello sciao modo di indurre e procede per enumerationem simplicem senza andare alla ricerca di casi e consentano di decidere la questione, ma generalizzando tui quei casi e si presentano, o, piuosto, e si ricordano — nascono e crescono certe opinioni e apparentemente godono della sanzione dell’esperienza, ma e in realtà non hanno nessun fondamento nelle leggi della natura. «Itaque recte respondit ille (possiamo dire con Bacone) qui cum suspensa tabula in templo ei monstraretur eorum, qui vota solverant, quod naufragii periculo elapsi sint, atque interrogando premeretur, anne tum quidem Deorum numen agnosceret, quaesivit denuo, At ubi sunt illi depicti qui post vota nuncupata perierunt? Eadem ratio est fere omnis superstitionis, ut in astrologicis, in Somniis, Ominibus, Nemesibus et hujusmodi; in quibus, homines delectati hujusmodi vanitatibus, advertunt eventus, ubi implentur; ast ubi fallunt, licet multo frequentius, tamen negligunt, et praetereunt»1. E Bacone va avanti dicendo

e, indipendentemente dall’amore del maraviglioso, o da qualsiasi altra distorsione delle inclinazioni, lo stesso intelleo possiede una tendenza naturale a cadere in questa specie di fallacia, peré ane se le istanze negative sono le più utili in filosofia, la mente è maggiormente stimolata dalle istanze affermative. «Is tamen humano intellectui error est proprius et perpetuus, ut magis moveatur et excitetur Affirmativis quam Negativis; cum rite et ordine aequum se utrique praebere debeat; quin contra, in omni axiomate vero constituendo, major vis est instantiae negativae»2. Ma la maggiore di tue le cause di non-osservazione è l’opinione preconcea. È stata proprio l’opinione preconcea a far sì e in tue le età la razza umana nella sua totalità, e ogni parte separata di essa, trascurasse nella maggior parte dei casi di prestare aenzione a tui quei fai (per quanto fossero abbondanti, e per quanto gli passassero addiriura soo gli oci) e contraddicessero a qualsiasi apparenza immediata o a qualsiasi dogma indiscusso. Di tanto in tanto vale la pena di riiamare alla labile memoria dell’umanità qualcuno dei notevoli esempi in cui si continuarono a sostenere opinioni e il più semplice esperimento avrebbe dimostrato erronee, soltanto peré a nessuno era mai venuto in mente di tentare quell’esperimento. Uno dei più degni di nota tra questi esempi venne in luce durante la controversia sul sistema copernicano. Gli oppositori di Copernico concludevano e la Terra non si muove, peré, se si movesse, una pietra lasciata cadere dalla cima di un’alta torre non tocerebbe il suolo ai piedi della torre ma a una piccola distanza da essa, in direzione contraria al corso della Terra; in maniera analoga — dicevano — se si lascia cadere una palla dall’albero maestro di una nave e viaggi a vele spiegate, la palla non cade esaamente ai piedi dell’albero, ma più vicino alla poppa del vascello. Se avessero provato a geare una palla dall’albero maestro di una nave in navigazione, i Copernicani avrebbero potuto far tacere immediatamente queste obiezioni. Avrebbero infai trovato e la palla cadeva esaamente ai piedi dell’albero maestro, come esige la teoria. Ma no. Ammisero questo pesudo-fao e loarono invano per cercar di trovare una differenza tra i due casi. «La palla non è parte della nave; il movimento in avanti non è naturale, né per la palla né per la nave. D’altra parte, la pietra lasciata cadere dalla cima della torre è parte della Terra, e pertanto le rivoluzioni diurne e annuali, e sono naturali per la Terra, sono naturali ane per la pietra.

Dunque, la pietra conserverà il medesimo movimento della torre e colpirà il suolo precisamente ai suoi piedi»a. Il door Whewellb registra altri esempi, per nulla meno sorprendenti, in cui la gente ha continuato a ritenere reali certe leggi naturali immaginarie, semplicemente peré mai nessuno aveva guardato nel modo dovuto a fai e quasi tui avevano l’opportunità di osservare. «Un certo modo, vago e inesao, di guardare a fai molto facilmente osservabili, lasciò per molto tempo gli uomini in preda alla credenza e un corpo dieci volte più pesante di un altro cada dieci volte più velocemente di quest’ultimo; e gli oggei immersi nell’acqua appaiano sempre ingranditi, senza e la forma della loro superficie c’entri per nulla; e il magnete eserciti una forza a cui nulla può resistere; e il cristallo si trovi sempre associato con il ghiaccio, e via discorrendo. esti, e molti altri, sono esempi di come l’uomo possa essere cieco e trascurato ane nell’osservazione delle apparenze più ovvie e più comuni, e dimostrano e le pure e semplici facoltà della percezione possono rivelarsi assolutamente incapaci di condurre a qualsiasi conoscenza esaa, pur essendo esercitate sempre e costantemente sopra innumerevoli oggei». Se le facoltà d’osservazione possono essere siave passive delle impressioni preconcee degli uomini fino a questo punto, ane a proposito dei fai fisici, e a proposito dei fai fisici più ovvi, non c’è da sorprendersi e la stessa cosa debba essere così deplorevolmente vera per quanto riguarda le cose e sono connesse più da vicino con i sentimenti più forti degli uomini, come aesta l’esperienza: per quanto riguarda, cioè, gli argomenti morali, sociali e religiosi. Le informazioni e un viaggiatore ordinario riporta da un paese straniero, facendole passare per risultati della testimonianza dei suoi sensi, sono quasi sempre tali da confermare esaamente le opinioni e quello aveva già prima di partire. Ha avuto oci e orecie soltanto per quelle cose e s’aspeava di vedere. Gli uomini leggono i libri sacri della loro religione e lasciano passare inosservate, in essi, moltissime cose e sono fondamentalmente inconciliabili addiriura con le loro stesse nozioni dell’eccellenza morale. Avendo di fronte le medesime documentazioni, storici diversi, egualmente incolpevoli di ogni intenzione di rappresentare falsamente i fai, vedono soltanto quello e è favorevole, vuoi ai Protestanti vuoi ai Caolici, ai realisti o ai repubblicani, a Carlo I o a Cromwell; mentre altri, avendo intrapreso le loro ricere con il preconceo e gli estremi devono per forza trovarsi dalla parte del torto, non sono

capaci di vedere la verità e la giustizia quando queste stiano tue da una sola parte. L’influenza di una teoria preconcea è bene esemplificata nelle superstizioni dei barbari a proposito delle virtù dei medicamenti e degli amuleti. Secondo il door Parisc i negri, da cui il corallo viene portato come un amuleto (come accadeva da noi nei tempi passati), affermano e il suo colore «è sempre affeo dallo stato di salute di i lo porta, e quando il suo portatore è ammalato, diventa più pallido». In una materia e è esposta all’osservazione di tui, viene acceata come risultato dell’esperienza una proposizione generale, e non reca su di sé la più piccola traccia di verità; l’opinione preconcea impedisce infai (o almeno così sembrerebbe) qualsiasi osservazione al proposito. 4. ello e abbiamo appena deo può essere sufficiente per illustrare la prima specie di non-osservazione; cioè quella di non-osservazione dei casi. Ma può ane esserci non-osservazione di alcune circostanze importanti, in casi e non siano stati del tuo trascurati; anzi, in casi e forse sono proprio quegli stessi sopra i quali è stata fondata l’intiera sovrastruura di una teoria. Come nei casi presi in esame fin qui si acceava troppo affreatamente una proposizione generale basandosi sulle prove fornite da particolari forse veri, ma insufficienti a sostenerla, così, nei casi ai quali rivolgeremo ora la nostra aenzione, i particolari stessi sono stati osservati in modo imperfeo, e le proposizioni singolari su cui è basata la generalizzazione, o almeno, alcune di quelle proposizioni singolari, sono false. Tale, per esempio, era uno degli errori commessi nella celebre teoria flogistica, dorina e spiegava la combustione iamando in causa lo sprigionarsi d’una sostanza iamata flogisto, e si riteneva fosse contenuta in tue le sostanze combustibili. L’ipotesi concordava abbastanza bene con le apparenze superficiali: la salita della fiamma suggerisce naturalmente la fuga di una sostanza; e generalmente il residuo visibile di cenere è di gran lunga minore, per massa e per peso, del materiale combustibile. L’errore consisteva nella non-osservazione di una parte importante del residuo effeivo, cioè di prodoi gassosi della combustione. ando finalmente ci si rese conto dell’esistenza di tali prodoi, e se ne tenne conto, fu iaro e era una legge universale e tue le sostanze, quando vengano sooposte a combustione, acquistano peso invece di perderlo; e dopo il solito tentativo di

accomodare la vecia teoria al fao nuovo introducendo un’ipotesi arbitraria (l’ipotesi secondo cui il flogisto avrebbe la qualità della levità positiva, anzié quella della gravità) i imici pervennero alla spiegazione vera: cioè, e nella combustione non si separa una sostanza, ma al contrario, ne viene assorbita un’altra. Molte delle pratie assurde e si è ritenuto e possedessero efficacia medica sono debitrici della loro reputazione alla nonosservazione di questa o di quella circostanza accessoria, circostanza e era l’agente reale delle guarigioni aribuite a quelle pratie. Così, della «polvere simpatetica di Sir Kenelm Dingby3: ogni volta e a qualcuno veniva inflia una ferita, si applicava questa polvere all’arma e l’aveva inflia, e per di più l’arma veniva spalmata d’unguento e cosparsa di polvere due o tre volte al giorno. Nel fraempo le labbra della ferita venivano riunite accuratamente e accuratamente fasciate con bende pulite di lino, ma, soprattutto, non venivano toccate per see giorni. Al termine di questo periodo si rinnovavano le bende, e generalmente si trovava e la ferita si era rimarginata perfeamente. Tuo il merito della guarigione veniva aribuito all’azione misteriosa della polvere simpatetica, e veniva applicata all’arma con tanta assiduità, laddove è praticamente inutile far osservare e la prontezza della guarigione dipendeva dal fao e la ferita veniva completamente isolata dall’aria, e dal fao e l’azione risanatrice della natura non veniva in nessun modo disturbata dall’interferenza zelante dell’arte. Senza dubbio, il risultato fornì il primo suggerimento e indusse i irurghi a perfezionare la pratica del guarire le ferite con quella e tecnicamente viene iamata la prima intenzione»d. Il door Paris aggiunge: «In tue le registrazioni di guarigioni straordinarie provocate da agenti misteriosi, si trova un grande desiderio di tener nascosti i rimedi e gli altri mezzi curativi e sono stati somministrati contemporaneamente a questi agenti. Così per la cura dell’epilessia Oribasio4 raccomanda caldamente di portare un collare fao di radici di Peonia; ma poi veniamo a sapere e si prendeva sempre cura di accompagnare l’uso della Peonia con copiose evacuazioni, pur non aribuendo a queste ultime nessuna parte del credito per la guarigione. In tempi più recenti abbiamo un buon esemplare di questa specie di inganno in un lavoro sulla scrofola, opera del signor Morley5 e scrio, come c’informa l’autore, al solo scopo di rimeere in voga l’uso e le virtù tanto vituperate della Verbena. In questo traato, l’autore prescrive di

legare intorno al collo, con un nastro di seta bianca lungo circa un metro, la radice di questa pianta: intorno al collo deve rimanere finé il paziente non sia guarito; ma, si osservi, durante quest’intervallo Morley iama in proprio aiuto le medicine più aive conosciute nella farmacopea»e. In altri casi le guarigioni, e in realtà sono provocate dal riposo, dalla dieta e dallo svago, sono state aribuite ai mezzi medici, o, di tanto in tanto, soprannaturali, e venivano messi in uso. «Il celebre John Wesley6, mentre celebra il trionfo dello zolfo e delle preghiere sopra le infermità del suo corpo, dimentica di apprezzare nella sua giusta luce l’influenza risanatrice di quaro mesi di riposo dalle fatie apostolie; e tale è la disposizione della mente umana a prestare fiducia all’opera di agenti misteriosi, e lo troviamo più incline ad aribuire la propria guarigione a un impiastro di uovo, zolfo e carta marrone, e non alla salutare prescrizione del door Fothergill7: aria di campagna, riposo, lae d’asina ed esercizi d’equitazione»f. Nell’esempio e segue, la circostanza trascurata ha caraere piuosto differente: «ando la febbre gialla infuriava in America i medici s’affidavano esclusivamente all’uso copioso di preparati al mercurio; a tua prima questo piano fu ritenuto così universalmente efficace e, nell’entusiasmo del momento, si proclamò trionfalmente e la morte non sopravveniva mai dopo e il preparato al mercurio avesse esercitato completamente i propri effei sul sistema; tuo questo era verissimo, ma non forniva nessuna prova dell’efficacia di quel metallo, peré la malaia, nella sua forma grave, aveva un decorso così rapido e spazzava via le sue viime molto tempo prima e il sistema potesse essere sooposto completamente all’azione del mercurio, mentre nella sua forma più mite guariva egualmente bene senza l’aiuto dell’arte»g. In questi esempi, la circostanza e veniva trascurata poteva essere conosciuta per mezzo dei sensi. In altri casi si traa di una circostanza la cui conoscenza si potrebbe oenere soltanto con il ragionamento; ma la fallacia può tuavia essere classificata tra quelle a cui, in mancanza di un nome più appropriato, abbiamo imposto l’appellativo di fallacie di non-osservazione. ello e costituisce quest’ordine naturale di fallacie non è la natura delle facoltà e si sarebbero dovute adoperare, ma il fao e queste facoltà non siano state impiegate. In tui quei casi in cui l’errore è negativo, non positivo; in tui quei casi in cui l’errore consiste specialmente nell’aver trascurato, nell’aver ignorato, o nel non aver posto mente a quale fao

e, se fosse stato conosciuto e se gli fosse stata prestata aenzione, avrebbe creato una differenza nella conclusione alla quale si è pervenuti, l’errore si può far rientrare con proprietà nella classe e stiamo prendendo in considerazione. A differenza di quanto accade per tue le altre fallacie, in questa classe c’è una stima positiva sbagliata della prova e sta effeivamente a nostra disposizione. Se la parte del caso e si è presa in considerazione esaurisse il caso stesso tuo quanto, la conclusione sarebbe correa; ma si è trascurata un’altra parte del caso, e questo vizia il risultato. Per esempio, c’è una dorina piuosto degna di nota, e di tanto in tanto viene divulgata nei discorsi pubblici di legislatori poco saggi, ma e, per quanto ne so, ha ricevuto la sanzione di un filosofo soltanto in un caso; parlo del signor Cousin, e nella sua prefazione al Gorgia di Platone sostiene e la punizione deve avere quale giustificazione, diversa e più alta, e non la prevenzione del crimine. Cousin usa quest’argomentazione: se la punizione fosse somministrata soltanto per dare un esempio, l’innocenza o la colpevolezza della persona punita sarebbero indifferenti, dal momento e, considerata come un esempio, la punizione sarebbe egualmente efficace in entrambi i casi. Ora, per andare d’accordo con questo ragionamento, dobbiamo supporre e la persona e si sente portata a delinquere, osservando e qualcuno viene punito, concluda di correre an’essa il pericolo di essere punita nella medesima maniera, e ne sia terrorizzata in conseguenza. Ma si dimentica e, se si suppone e la persona punita sia innocente, o addiriura e sussista un sia pur minimo dubbio circa la sua colpevolezza, lo speatore rifleerà e il pericolo e corre lui stesso, qualunque esso sia, non dipende dalla sua colpevolezza, ma lo minaccerebbe egualmente ane se si mantesse innocente; ma allora, come potrebbe il timore di una punizione tanto indiscriminata impedirgli di commeere un reato? Il signor Cousin suppone e gli uomini saranno dissuasi dal commeere crimini da tuo ciò e renda più pericolosa la posizione del colpevole, ma dimentica e nel caso ipotizzato la condizione dell’innocente (e è ane uno degli elementi e si devono far rientrare nel calcolo) viene resa pericolosa in misura esaamente eguale a quella del colpevole. esta è una fallacia di trascuratezza, o di non-osservazione, e rientra nello scopo della nostra classificazione. In economia politica le fallacie di questo genere rappresentano un grosso ostacolo al pensiero correo. Le aività economie della società forniscono numerose esemplificazioni in cui gli effei di una causa consistono di due

insiemi di fenomeni: l’uno, immediato, concentrato, apertamente visibile a tui e e, nella conoscenza e se ne ha comunemente, passa per l’effeo tuo intiero; l’altro, largamente diffuso, oppure nascosto più profondamente soo la superficie, e è esaamente il contrario del primo. Si prenda, per esempio, la nozione comune, così plausibile a una prima ociata, secondo cui gli sperperi favoriscono l’industria. Si pensa e A, e spende tue le sue entrate e addiriura tuo il suo capitale per vivere lussuosamente, dia grande impiego alla mano d’opera. B, e vive in strea economia e investe il resto nel mercato fondiario, si pensa e incoraggi poco, o non incoraggi affao, l’impiego della manodopera; tui infai possono vedere i guadagni fai dai fornitori, dalla servitù, e dalle altre persone e hanno da fare con A, mentre costui spende i propri soldi. Al contrario, i risparmi di B passano nelle mani della persona di cui ha comperato le azioni; con questo denaro costui salda un debito a quale baniere, il quale a sua volta dà nuovamente in imprestito questi danari a quale mercante o a quale industriale; e il capitale viene impiegato per acquistare telai e macine per la filatura, oppure per acquistare veicoli, o per pagare la ciurma di navi mercantili, e non soltanto dà un impiego immediato ad almeno tanta manodopera quanta è quella e A impiega nel corso di tua la sua carriera, ma, ritornando con gl’interessi, grazie alla rendita dei beni e sono stati confezionati o importati, costituisce un fondo per l’impiego perpetuo della medesima quantità di mano d’opera, o, forse, per l’impiego di una quantità di mano d’opera ancor più grande. Ma l’osservatore non vede, e pertanto non prende in considerazione, e cosa ne sia del danaro di B; vede invece quello e vien fao del danaro di A; osserva la quantità di industrie cui la prodigalità di A dà di e vivere; e non osserva la quantità di gran lunga maggiore e invece le spese di A impediscono di utilizzare; e di qui il pregiudizio universalmente diffuso ai tempi di Adamo Smith8: e la prodigalità incoraggi l’industria, e e la parsimonia la danneggi. L’argomentazione comune contro il libero commercio era una fallacia della medesima natura. L’acquirente di seta inglese favorisce l’industria inglese; l’acquirente di seta lionese favorisce soltanto l’industria francese; la condoa del primo è patrioica; la condoa del secondo dovrebbe essere impedita per legge. Si trascura la circostanza e l’acquirente di una qualsiasi merce straniera causa necessariamente, in modo direo o in modo indireo, l’esportazione di un valore equivalente di quale articolo prodoo

nella propria patria (oltre a quello e la sua patria esporterebbe comunque) o nel medesimo Paese straniero o in quale altro Paese; e questo fao, ane se, data la complicazione delle circostanze, non può sempre essere verificato da osservazioni specifie, non può però essere contraddeo da nessuna osservazione, mentre la solidità del ragionamento sul quale riposa è la medesima del caso precedente: è la fallacia, cioè, e consiste nel vedere soltanto una parte dei fenomeni e nell’immaginare e questa parte sia il tuo; questa fallacia, pertanto, può essere classificata tra le fallacie di nonosservazione. 5. Per completare l’esame della seconda delle nostre cinque classi dovremo ora parlare della caiva osservazione, in cui l’errore non risiede nel fao e una certa cosa passa inosservata, ma nel fao e quella certa cosa viene osservata malamente. Poié la percezione è la prova infallibile di tuo quello e si è realmente percepito, l’errore e stiamo prendendo in considerazione ora non può essere commesso in altro modo se non scambiando erroneamente per una percezione quella e in realtà è un’inferenza. In precedenza abbiamo mostrato quanto intimamente queste due cose siano mescolate in quasi tuo quello e porta il nome di osservazione, e, ancor più, in ogni descrizioneh. ello e viene percepito effeivamente dai nostri sensi in qualsiasi occasione, è quantitativamente così insignificante e generalmente costituisce una parte così poco importante dello stato di fao e intendiamo accertare o comunicare, e sarebbe assurdo il dire e quando facciamo le nostre osservazioni o quando comuniiamo ad altri i risultati di tali osservazioni, non dovremmo mescolare l’inferenza con il dato di fao; tuo quello e possiamo dire è e, quando mescoliamo inferenze e dati di fao, dovremmo essere ben consapevoli di quello e stiamo facendo; e dovremmo sapere quale parte dell’asserzione riposi sulla nostra consapevolezza, e sia perciò indiscutibile, e quale, invece, riposi sull’inferenza, e possa pertanto essere messa in discussione. Uno degli esempi più celebri di un errore universalmente diffuso, provocato dallo scambiare erroneamente un’inferenza per la testimonianza direa dei sensi, era costituito dalla resistenza e si opponeva al sistema copernicano in base al senso comune. La gente immaginava di vedere e il Sole sorge e tramonta, e le stelle girano in cerio intorno al Polo Nord. Ora sappiamo e non vedevano nulla di tuo questo: quello e in realtà vedevano era un insieme di apparenze e sono egualmente conciliabili sia

con la teoria da essi sostenuta sia con una teoria completamente differente. Sembra strano e un caso come questo, in cui s’invocava con la massima convinzione la testimonianza dei sensi in favore di qualcosa e invece era una pura e semplice inferenza del giudizio e, come si vide poi, era per di più un’inferenza falsa, non abbia aperto gli oci ai bigoi del senso comune e non li abbia ispirati a nutrire, nella competenza degli ignoranti a giudicare le conclusioni del pensiero dei doi, una sfiducia maggiormente temperata dalla modestia. Generalmente, l’incapacità di una persona a discriminare tra le sue inferenze e le percezioni sulle quali sono basate tali inferenze è direamente proporzionale alla mancanza di conoscenze e di raffinatezza intelleuale di quella persona. A quest’incapacità devono la loro origine le storie maravigliose e molti aneddoti scandalosi. Il narratore riferisce, non già quello e ha visto o sentito, ma le impressioni e ha derivato da quello e ha visto e sentito, impressioni la maggior parte delle quali consiste forse d’inferenze, ane se poi tua quanta la storia viene raccontata, non soltanto come un’inferenza, ma come un dato di fao. Gli avvocati esperti sanno bene quali e quante difficoltà si debbano superare quando si tenti d’indurre i testimoni a restringere entro limiti ragionevoli la mescolanza delle loro inferenze con la narrazione di quello e hanno percepito; in misura ancora maggiore, questo accade quando persone ignoranti tentino di descrivere un qualsiasi fenomeno naturale. Scrive Dugald Stewarti: «Ane la più semplice narrazione, faa dall’osservatore più illeerato, contiene una quantità più o meno grande d’ipotesi; anzi, in generale si troverà e quanto più grande è l’ignoranza dell’osservatore, tanto più grande è il numero dei princìpi fondati su semplici congeure e sono contenuti nelle sue asserzioni. Raramente un farmacista di villaggio (o in misura se possibile ancor maggiore un’infermiera esperta) sono capaci di descrivere il caso più semplice senza impiegare una fraseologia ogni parola della quale è di per se stessa una teoria; laddove un’individuazione semplice e genuina dei fenomeni e caraerizzano una particolare malaia — individuazione non inquinata dalla fantasia o dalle opinioni preconcee — può essere considerata come il contrassegno inequivocabile di una mente e uno studio lungo e fruuoso ha allenato alla più difficile di tue le arti: l’arte dell’interpretazione fedele della natura».

L’universalità della confusione tra le percezioni e le inferenze trae dalle percezioni, e la rarità del potere di discriminare le prime dalle seconde, cessano di sorprenderci quando consideriamo e nella maggioranza dei casi le percezioni effeive dei nostri sensi non hanno la minima importanza e non presentano il minimo interesse per noi ecceo e come segni dai quali inferiamo qualcosa e va oltre i segni stessi. Non il colore e l’estensione della superficie percepita dagli oci sono importanti per noi, ma l’oggeo del quale quelle apparenze visibili testimoniano la presenza; e dove la sensazione in sé e per sé è indifferente (come accade generalmente) non abbiamo nessun motivo per prestarle un’aenzione particolare; anzi, acquistiamo l’abitudine di passarvi sopra senza esserne distintamente consapevoli e procediamo direamente a trarre l’inferenza. Cosicé, il conoscere quello e la percezione effeivamente era, è uno studio tuo a sé; uno studio al quale i piori, per esempio, devono addestrare se stessi con una disciplina e con un’applicazione speciali e lungamente esercitate. In quelle cose e sono ancora più distanti dai sensi esterni, nessuno, e non possegga una grande esperienza di analisi psicologica, ha la competenza necessaria a spezzare questa tenace associazione; e quando tali abiti analitici non siano presenti nella misura necessaria, sarà praticamente impossibile menzionare uno qualsialsi dei giudizi e l’umanità forma abitualmente sopra oggei situati a un alto livello d’astrazione (dall’essere di Dio e dall’immortalità dell’anima, giù giù, fino alla tavola pitagorica) e non siano, o non siano stati, considerati come oggei d’intuizione direa. Tanto forte è la tendenza ad aribuire un caraere intuitivo a giudizi e sono inferenze pure e semplici, e spesso, anzi, sono inferenze false. Nessuno può dubitare e molti visionari, in preda a delirio, abbiano davvero creduto di essere ispirati direamente dal Cielo, e e l’Onnipotente abbia conversato con loro a quar’oci; tuavia, da parte di costoro, questa credenza era semplicemente una conclusione traa da apparenze presentatesi ai loro sensi, o da sentimenti propri della loro coscienza interna, apparenze e non offrivano la minima garanzia a una credenza di questo genere. Pertanto, un avvertimento a stare in guardia da questa classe d’errori non è soltanto utile, ma è indispensabile; ane se poi il determinare se in una qualsiasi delle grandi questioni della metafisica questi errori siano stati effeivamente compiuti, non è compito della logica, ma, come ho già deo tante altre volte, di una scienza diversa.

a.

PLAYFAIR, Dissertation, § 4. b. Novum organum renovatum, p. 61. c. Pharmacologia, p. 21. d. Pharmacologia, pp. 23-24. e. Pharmacologia, p. 28. f. Pharmacologia, p. 62. g. Pharmacologia, pp. 61-62. h. Cfr. sopra, p. 1026. i. Elements of the Philosophy of the Mind, vol. II, cap. 4, § 5. 1. Dunque, bene rispose colui e, a un tizio e dopo avergli mostrato un quadro appeso in un tempio, raffigurante coloro e avevano adempiuto ai voti ed erano sfuggiti ai perigli del naufragio gli iedeva con insistenza se in conseguenza di ciò non riconoscesse l’esistenza degli dèi, iese di rimando: «Ma dove sono dipinti quelli e, pur avendo adempiuto ai voti, sono annegati?». La stessa cosa accade, più o meno, in tue le superstizioni, come nell’astrologia, nell’interpretazione dei sogni, nei presagi, nelle nemesi e in altre cose simili: qui gli uomini, arai da siocezze di questo genere, notano subito gli eventi, quando questi accadono; ma pinti quelli e, pur avendo adempiuto ai voti, sono annegati». La stessa cosa accadano) se ne dimenticano e passano oltre. Nov. Org., Aforisma 46. 2. L’errore proprio e perpetuo dell’intelleo umano è questo: e viene colpito ed eccitato più dagli eventi positivi e non da quelli negativi, quando invece dovrebbe, propriamente, prestare aenzione agli uni e agli altri; al contrario, anzi, in ogni assioma vero, la forza del caso negativo è maggiore. (Ibidem). 3. Sir Kenelm Digby (1603-1665), scienziato, uomo d’armi e diplomatico inglese. Scrisse di medicina, filosofia, imica, botanica, astrologia, poesia, senza mai raggiungere una vera originalità. La «scoperta» della «polvere simpatetica» è esposta in un’opera pubblicata nel 1658, dal titolo A Late Discourse made in Solemn Assembly of Nobles and Learned Men at Montpellier in France, Touching the Cure of Wounds by the Powder of Sympathy. With Instructions How to make the Said Powder [Un recente discorso tenuto in solenne assemblea di nobili e di dotti, sulla cura delle ferite per mezzo della polvere simpatetica, con istruzioni sul modo di confezionare la suddetta polvere].

4. Oribasio (325-403 d. C), medico della scuola bizantina. Studiò ad Alessandria e nel 355 fu nominato medico personale dell’imperatore Giuliano l’Apostata. Dal 361 al 363 fu questore di Costantinopoli. La sua opera maggiore sono le Συναγωγαὶ ἰατριϰαί, in 70 libri, in cui sono raccolti gli scrii degli antii medici Greci. Aribuì un’importanza fondamentale all’opera di Galeno, e propugnò il metodo dell’osservazione clinica e delle ricere sperimentali in medicina. 5. John Morley (?-1776?), medïco inglese, autore dell’opera An Essay on the Nature and Cure of Scrophulous Disorders [Saggio sulla natura e la cura delle malattie scrofolose] (1767). 6. John Wesley (1703-1791), teologo inglese, fondatore del movimento metodista. 7. John Fothergill (1712-1780), medico inglese; pubblicò una «Relazione sui mali di gola accompagnati da ulcerazioni» (1748) e descrive le sue osservazioni su un’epidemia, probabilmente di scarlaina. Si occupò di botanica, e propagandò l’uso del caffè e della corteccia dell’albero della ina. 8. Adam Smith (1723-1790), filosofo ed economista inglese. Nella sua Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) fornì la prima esposizione scientifica dell’economia politica. Sia la sua dorina economica sia la sua dorina morale (e espose nell’opera del 1759: Teoria dei sentimenti morali) sono improntate a un oimismo metafisico e vede nelle aività umane il dispiegarsi di un principio di armonia e di finalità. Un essere benevolo e onnisciente, meendo nell’uomo una guida infallibile e lo dirige al bene e alla felicità — la simpatia — mantiene nell’universo «la massima quantità possibile di felicità». La stessa origine provvidenziale ha l’ordine

naturale e garantisce, nell’aività economica dell’uomo, la perfea coincidenza tra l’interesse del singolo e l’interesse della colleività. Da questo presupposto Smith traeva la conclusione e l’individuo dev’essere lasciato libero di perseguire il proprio interesse, peré, così facendo, perseguirà automaticamente l’interesse della società, e condannava, d’accordo con i fisiocrati francesi, ogni interferenza statale nell’aività economica dell’individuo.

CAPITOLO V. FALLACIE DI GENERALIZZAZIONE l. La classe di fallacie di cui stiamo ora per parlare è la più estesa di tue: essa infai abbraccia un numero e una varietà di inferenze infondate, ben più grandi del numero e della varietà delle fallacie di qualsiasi altra classe, e e è addiriura più difficile ridurre a sooclassi, o specie. Se il tentativo di definire i princìpi della generalizzazione ben fondata compiuto nei libri precedenti ha avuto successo, tue le generalizzazioni e non si conformano a quei princìpi potrebbero, in un certo senso, esser fae rientrare in questa classe: quando però le regole sono note e le si tiene presenti, ma nell’applicarle si commee una svista casuale, allora si traa di una disaenzione, non già di una fallacia. Peré un errore di generalizzazione possa a buon dirio ricevere l’appellativo di fallacia, dev’essere un errore di principio; in esso deve trovarsi quale concezione generale erronea del processo induivo; il modo legiimo di trarre conclusioni dall’osservazione e dall’esperimento dev’esservi concepito in modo fondamentalmente sbagliato. Senza tentare niente di così imerico come una classificazione esauriente di tue le concezioni sbagliate e possono esistere a questo proposito, ci accontenteremo di far notare, tra le cautele e si potrebbero suggerire, quelle più utili ed indispensabili. 2. In primo luogo, ci sono certe specie di generalizzazioni e, se i princìpi e abbiamo enunciato sono correi, non possono non essere infondate: l’esperienza non può fornirci le condizioni necessarie per dimostrarle mediante un’induzione correa. Tali sono, per esempio, tue le inferenze trae, dall’ordine naturale esistente sulla Terra o nel sistema solare, all’ordine e può esistere in quale parte remota dell’universo, dove per quello e ne sappiamo i fenomeni potrebbero essere totalmente differenti o succedersi l’un l’altro secondo leggi differenti o, addiriura, senza obbedire a nessuna legge determinata. Tali ancora, in argomenti e dipendono dalla causalità, sono tue le proposizioni universali negative, vale a dire tue le proposizioni e asseriscono un’impossibilità. Per uniformi e possano essere, in suo favore, le testimonianze dell’esperienza, la non-esistenza di un

dato fenomeno prova al massimo e fino a questo momento non s’è ancora manifestata nessuna causa adeguata a produrre quel fenomeno; ma e nessuna causa del genere esista in natura possiamo inferirlo soltanto se siamo così stupidi da supporre di conoscere tue le forze esistenti in natura. Nel migliore dei casi la supposizione sarebbe prematura dato e la nostra conoscenza direa di alcune cause, ane di quelle di cui abbiamo una conoscenza effeiva, è così estremamente recente. E per quanto la nostra conoscenza della natura possa essere estesa in séguito, non è facile vedere come quella conoscenza potrà mai essere completa o come, se lo fosse, potremo mai essere certi e lo è. Le sole leggi di natura e offrano una garanzia sufficiente per aribuire l’impossibilità a qualcosa (ane relativamente all’ordine esistente della natura e alla regione dell’universo nella quale viviamo) sono: primo, le leggi del numero e dell’estensione e sono superiori alle leggi della successione dei fenomeni e non prestano il fianco all’azione di cause contrarie; e, secondo, la stessa legge universale di causalità. Che non avrà luogo nessuna variazione in nessun effeo o conseguente fin quando la totalità degli antecedenti rimarrà la medesima, si può affermarlo con piena sicurezza. Ma e l’aggiunta di quale nuovo antecedente non possa alterare del tuo, e sovvertire, il conseguente abituale, o e l’antecedente e può fare una cosa del genere non esista in natura, questo non abbiamo il potere di concluderlo positivamente in nessun caso. 3. Dobbiamo poi osservare e tue le generalizzazioni le quali, come le teorie di Talete, di Democrito e di altri speculatori Greci, pretendono di risolvere tue le cose in quale elemento unico o, come molte teorie moderne, pretendono di risolvere fenomeni radicalmente differenti nel medesimo fenomeno, sono necessariamente false. Con «fenomeni radicalmente differenti» intendo impressioni dei nostri sensi e differiscono per qualità e non semplicemente per grado. ello e mi sembrava necessario dire sopra quest’argomento è stato deo nel capitolo sui limiti della spiegazione delle leggi di natura; ma siccome ane ai giorni nostri la fallacia è piuosto comune, ritornerò su di essa un po’ più avanti. ando diciamo e la forza e mantiene i pianeti nelle loro orbite si risolve nella gravità, oppure e la forza e fa sì e le sostanze si combinino imicamente si risolve nell’elericità, asseriamo, nell’un caso, quello e può, e nell’altro quello e potrebbe essere (e probabilmente in

ultima analisi sarà), il risultato legiimo dell’induzione. In entrambi questi casi il moto si risolve nel moto. L’asserzione è e il caso di moto, e si supponeva fosse speciale e seguisse una propria legge ben distinta, si conforma alla legge generale e regola un’altra classe di movimenti, ed è compreso in questa legge. Ma partendo da queste generalizzazioni e da generalizzazioni simili si è dato favore e credito ai tentativi di risolvere, non già il movimento nel movimento, ma il calore nel movimento, la luce nel movimento e la sensazione stessa nel movimento; gli stati di coscienza negli stati del sistema nervoso, come accade nelle forme più rozze della filosofia materialistica; i fenomeni vitali nei fenomeni meccanici o nei processi fisici, come hanno fao certe scuole di fisiologia. Ora, io sono ben lontano dal pretendere e sia possibile provare o e, se venisse provato, non costituisca un’aggiunta importante alla nostra conoscenza, il fao e certi movimenti delle particelle dei corpi siano le condizioni del prodursi del calore o della luce; e certe modificazioni fisie ben determinate dei nervi possano essere le condizioni, non soltanto delle nostre sensazioni e delle nostre emozioni, ma addiriura dei nostri pensieri; e certe condizioni meccanie o fisie possano, nell’ordine della natura, essere sufficienti a determinare l’azione delle leggi fisiologie della vita. Tuo quello su cui insisto, d’accordo con ogni pensatore e abbia un’idea iara della logica della scienza, è e non si deve credere e quando si siano provate tue queste cose si sia fao un solo passo verso una spiegazione reale del calore, della luce o della sensazione; o e tali scoperte, per ben consolidate e siano, ci consentano di sfuggire, sia pure in misura minima, alla specificità di questi fenomeni. Supponiamo, per esempio, di mostrare e, quando si produce una sensazione di colore, nell’ocio e nel cervello si succede una serie estremamente complessa di cause e di effei fisici: raggi e colpiscono l’ocio, e vengono rifrai, e convergono, e s’intersecano reciprocamente, formano sulla retina un’immagine capovolta; dopo di e avviene un movimento — supponiamo e sia una vibrazione, o la corrente di un fluido nervoso, o qualunque altra cosa ci piaccia supporre — lungo il nervo oico: una propagazione di questo movimento al cervello medesimo; e avvengono quanti altri movimenti differenti ci piaccia di scegliere; tuavia, alla fine di tui questi movimenti c’è qualcosa e non è un movimento: c’è un sentimento o sensazione di colore. Per quanto grande sia il numero dei movimenti e riusciamo a frapporre tra l’inizio e la fine del processo — siano essi movimenti reali, siano movimenti immaginari —

alla fine della serie troveremo ancora il movimento come antecedente, ma, come conseguente, troveremo un colore. Magari può darsi benissimo e il modo in cui uno qualsiasi di questi movimenti produce il movimento successivo sia susceibile di spiegazione in base a quale legge generale del movimento; ma il modo in cui l’ultimo movimento produce la sensazione di colore non può essere spiegato da nessuna legge del movimento; è la legge del colore e è, e non può non continuare ad essere sempre, una cosa tua particolare. Dove la nostra coscienza riconosce una distinzione intrinseca tra due fenomeni; dove percepiamo una differenza e non è puramente e semplicemente una differenza di grado, e ci rendiamo conto e nessun’aggiunta di uno di quei fenomeni a se stesso produrrà l’altro, ogni teoria e tenti di portare l’uno soo le leggi dell’altro deve necessariamente essere falsa, ane se può benissimo darsi e sia vera una teoria e si limiti semplicemente a traare l’uno come causa o condizione dell’altro. 4. Tra le restanti forme di generalizzazione erronea, parecie di quelle più degne d’essere osservate, e e devono essere fae osservare più d’ogni altra, sono cadute soo il nostro esame in luoghi precedenti; in quei luoghi in cui, nell’indagare le regole dell’induzione correa, abbiamo avuto l’occasione di fare riferimento alla distinzione tra l’induzione correa, appunto, e quale modo comune di induzione scorrea. Tra questi ultimi si trova quella e in precedenza ho iamato induzione naturale propria di menti non allenate alla ricerca: l’induzione degli antii e procede per enumerationem simplicem: «esto, quello e quell’altro A sono B; io non posso pensare a nessun A e non sia B, perciò tui gli A sono B». Come condanna definitiva di questo modo rozzo e trascurato di generalizzare citerò l’enfatica denuncia e ne ha fao Bacone; denuncia e, come ho osato asserire più d’una volta, è la parte più importante del servizio duraturo da lui reso alla filosofia. «Inductio quae procedit per enumerationem simplicem, res puerilis est, et precario concludit» (conclude, cioè, col vostro permesso, ossia provvisoriamente) «et periculo exponitur ab instantia contradictoria, et plerumque secundum pauciora quam par est, et ex his tantummodo quae praesto sunt pronunciat. At inductio quae ad inventionem et demonstrationem Scientiarum et Artium erit utilis, Naturam separare debet, per rejectiones et exclusiones debitas; ac deinde post negativas tot quot sufficiunt, super affirmativas concludere»1.

Ho già deo e il modo d’induzione per enumerazione semplice è ancora il modo d’induzione più comunemente acceato per tuo quello e si riferisce all’uomo e alla società. Di questo potranno bastare poissimi esempi, e daremo più a scopo di memento e non a scopo di insegnare qualcosa. Per esempio, e cosa dobbiamo pensare di tue le massime del «senso comune» di cui la massima e segue può servire come formula universale: «Tuo quello e non è mai stato non sarà mai»? Così, per esempio: I negri non sono mai stati esseri civili come lo sono talvolta i biani, perciò è impossibile e lo saranno mai. Fino ad oggi le donne, considerate come una classe, non sono state intelleualmente eguali all’uomo, perciò gli sono necessariamente inferiori. La società non può prosperare senza questa o senza quest’altra istituzione; per esempio, ai tempi di Aristotele senza la siavitù, in tempi più recenti senza una casta di preti, senza distinzioni artificiose di rango, e così via. Di solito una persona povera su mille, e abbia ricevuto un’istruzione mentre le altre sono rimaste nell’ignoranza, ha tentato di sollevarsi al di sopra della sua classe; di conseguenza: l’istruzione tende a rendere la gente insoddisfaa della propria condizione di lavoratore. Si è spesso trovato, o si è ritenuto di trovare, e gli uomini e vivono tra i libri, tolti dalle loro faccende speculative e messi a lavorare a qualcosa di cui non sanno niente, l’hanno fao male: si è concluso e i filosofi non sono adai agli affari, eccetera eccetera. Tue queste sono induzioni per enumerazione semplice. Per alcune di queste proposizioni si è tentato, pur senza riuscirci, di dare ragioni e avessero quale ainenza con i canoni della ricerca scientifica. Ma queste ragioni non hanno avuto successo. Tuavia, per la grande maggioranza di coloro e le ripetono papagallescamente, la sola prova di queste affermazioni è la enumeratio simplex ex his tantummodo quae presto sunt pronuncians. La fallacia di queste proposizioni consiste in questo: e sono induzioni prive di eliminazione; non c’è stato nessun confronto vero e proprio tra i casi, e non c’è stato neppure l’accertamento dei fai pertinenti a un dato caso. C’è ane l’errore ulteriore, e consiste nel dimenticare e tali generalizzazioni, se ane fossero ben fondate, non potrebbero essere verità ultime ma dovrebbero necessariamente essere il risultato di altre leggi molto più elementari; e pertanto, fin quando non saranno dedoe da tali leggi più elementari, nel migliore dei casi potranno essere ammesse come leggi empirie e valgono soltanto nei limiti di spazio e di tempo nei quali erano

circoscrie le particolari osservazioni e hanno suggerito le generalizzazioni. La specie di generalizzazioni alla quale abbiamo fao riferimento qui sopra esemplificano soltanto le forme più grossolane di quest’errore, e consiste nel meere sul medesimo piano la certezza delle leggi empirie pure e semplici e delle leggi per le quali non ci sono prove diree di causazione, e la certezza propria delle leggi di causa e di effeo — e e sta alla radice di quello e è forse il numero più grande di caive induzioni. Anzi, tali generalizzazioni non posseggono neppure il grado di evidenza e spea a una legge empirica ben accertata, ma possono essere confutate proprio su basi empirie, senza mai sollevarsi al grado di leggi causali. È sufficiente rifleere un po’, per vedere e le pure e semplici negazioni possono formare soltanto la base della specie più bassa e meno apprezzabile di legge empirica. Non si è mai osservato un certo fenomeno: questo non prova nient’altro se non e le condizioni di quel fenomeno non si sono ancora presentate nell’esperienza, ma non prova e non potranno presentarvisi in séguito. Esiste una specie migliore di legge empirica, e questa si ha quando un fenomeno osservato presenta, nei limiti delle osservazioni, una serie di gradazioni in cui è possibile percepire una regolarità o qualcosa e somiglia a una legge matematica, e da cui, pertanto, si può razionalmente fare quale assunzione a proposito di quei termini della serie e stanno al di là dei limiti dell’osservazione. Ma nella negazione non ci sono gradazioni e non ci sono serie: pertanto le generalizzazioni e negano la possibilità di una data condizione dell’uomo e della società semplicemente peré tale condizione non è mai stata osservata fino a questo momento, non possono essere in possesso di questo grado superiore di validità, neppure in quanto leggi empirie. C’è di più: applicato all’oggeo di queste leggi, l’esame più minuzioso e quell’ordine superiore di leggi empirie presuppone, non soltanto non le conferma, ma di fao le confuta. Nella realtà, infai, la storia passata dell’uomo e della società, lungi dall’esibire l’uno e l’altra come immobili, immutabili, incapaci addiriura di presentare fenomeni nuovi, mostra, al contrario, non soltanto e molti dei particolari più importanti sono mutevoli, ma e sono effeivamente sooposti a un cambiamento progressivo. Pertanto, la legge empirica e nella maggior parte dei casi esprime meglio di ogni altra il risultato genuino dell’osservazione, non è e il tale e il talatro fenomeno continueranno a

rimanere immutati, ma anzi e continueranno a cambiare in quale maniera particolare. Di conseguenza, mentre quasi tue le generalizzazioni relative all’uomo e alla società e sono state fae prima degli ultimi cinquanta o sessant’anni hanno sbagliato nella maniera grossolana e abbiamo tentato di caraerizzare — hanno sbagliato, cioè, assumendo implicitamente e la natura e la società umane continueranno per sempre a rotare nella medesima orbita e a manifestare essenzialmente i medesimi fenomeni (e questo è ane l’errore delle persone ostentatamente pratie, dei devoti del senso comune e ai nostri giorni vivono specialmente in Gran Bretagna) — quasi tue le menti più pensose della nostra epoca, dopo aver sooposto a un’analisi più minuziosa le documentazioni passate della nostra razza, hanno abbracciato l’opinione contraria: e la specie umana si trova in uno stato di progresso necessario, e e dai termini della serie passata possiamo inferire positivamente i termini e devono ancora venire. Di questa dorina, considerata come una teoria filosofica, parleremo più diffusamente nel Libro conclusivo. Ane se non in tue le sue forme va esente da errori, questa teoria è almeno libera da quell’errore grossolano e stupido e abbiamo esemplificato in precedenza. Ma dovunque, tranne e tra le menti più eminentemente filosofie, essa è viziata esaamente dalla medesima specie di fallacia da cui è affea quell’altra. Non dobbiamo dimenticare, infai, e dopo tuo ane quest’altra e migliore generalizzazione — il cambiamento progressivo delle condizioni della specie umana — non è se non una legge empirica, e e non è molto difficile indicare eccezioni estremamente grandi ane a questa legge; e ane se potessimo sbarazzarci di queste eccezioni, o meendo in dubbio i fai, o spiegando la teoria e limitandola, rimane valida l’obiezione generale contro l’applicabilità della presunta legge a tui i casi e non siano quelli e nel terzo libro abbiamo iamato casi contigui. Infai, non soltanto non è una legge fondamentale, ma non è neppure una legge causale. In realtà, nelle faccende umane hanno bensì luogo cambiamenti, ma ognuno di tali cambiamenti dipende da cause ben determinate: la «progressività della specie» non è una causa, ma un’espressione sommaria per indicare il risultato generale di tue le cause. Non appena si sarà accertato per mezzo di una specie differente d’induzione quali cause abbiano prodoo questi cambiamenti successivi dall’inizio della storia (nella misura in cui questi cambiamenti hanno avuto luogo realmente) e da quali cause di tendenza contraria essi siano stati di tanto in tanto tenuti

a freno o contrastati del tuo, potremo forse avere la preparazione necessaria a predire il futuro con ragionevole preveggenza; forse saremo in possesso della legge reale del futuro, e magari potremo essere in grado di dire da quali circostanze dipenderà, in ultima analisi, la continuazione del medesimo movimento progressivo. Ma molti dei pensatori più avanzati dell’età auale commeono proprio l’errore di trascurare questo fao e d’immaginare e la legge empirica formulata raccogliendo i risultati del puro e semplice confronto tra le condizioni nelle quali la nostra specie si era trovata in diverse epoe passate, sia una legge reale, sia cioè la legge dei cambiamenti non soltanto passati, ma ane di quelli a venire, dell’umanità. La verità è e in ogni epoca e quasi in ogni paese le cause da cui dipendono i fenomeni del mondo morale sono combinate in proporzioni differenti, cosicé non c’è affao da aspearsi e il risultato generale di tue queste cause debba conformarsi molto streamente, almeno nei suoi deagli, a una qualsiasi serie e tenda uniformemente al progresso. E tue le generalizzazioni secondo le quali l’umanità ha la tendenza a diventare migliore o peggiore, più ricca o più povera, più raffinata o più barbara; secondo cui la popolazione cresce più rapidamente di quanto non crescano i mezzi di sussistenza, o i mezzi di sussistenza crescono più rapidamente di quanto non cresca la popolazione; secondo cui l’ineguaglianza dei mezzi ha una tendenza a crescere, o a scomparire, e simili — proposizioni, queste, dotate di considerevole valore come leggi empirie, entro certi limiti peraltro generalmente piuosto ristrei — sono in realtà vere o false secondo le epoe e secondo le circostanze. ello e abbiamo deo delle generalizzazioni empirie dai tempi passati ai tempi ancora a venire vale egualmente per le generalizzazioni simili e vanno dal presente al passato; vale egualmente nel caso di quelle persone la cui conoscenza direa dei fai morali o sociali è confinata alla loro età e e prendono gli uomini e le cose di quest’età per il tipo degli uomini e delle cose in generale e applicano senza alcun scrupolo, all’interpretazione degli eventi della storia, le leggi empirie e rappresentano, in modo sufficientemente preciso per la guida quotidiana, i fenomeni della natura umana in quel tempo e per quel particolare stato della società. Se c’è bisogno di esempi, quasi ogni opera storica scria fino a un periodo molto recente ne contiene in abbondanza. La stessa cosa si può dire di coloro e generalizzano empiricamente dalla gente dei loro Paesi alla

gente di altri Paesi, come se gli esseri umani sentissero, giudicassero e agissero dappertuo nella medesima maniera. 5. Negli esempi e precedono si confonde la distinzione tra leggi empirie, e esprimono puramente e semplicemente l’ordine abituale in cui si succedono gli effei, e le leggi di causazione, da cui gli effei dipendono. Può comunque darsi e di generalizzazioni scorree ne esistano ane dove non venga commesso quest’errore; ne esistano, cioè, ane quando l’indagine prende la sua direzione appropriata, quella delle cause, e il risultato oenuto erroneamente ha la pretesa di essere realmente una legge causale. La forma più diffusa di questa fallacia è quella e comunemente viene iamata post hoc, ergo propter hoc o cum hoc, ergo propter hoc. Come quando s’inferì e l’Inghilterra era debitrice della sua supremazia industriale alle restrizioni imposte sul commercio; come quando la vecia scuola di tecnici delle finanze e di alcuni scriori teorici sostenne e il debito nazionale è una delle cause della prosperità della nazione; come quando s’inferì l’eccellenza della Chiesa, delle Camere dei Pari e dei Comuni, e delle procedure legali delle corti inglesi, dal puro e semplice fao e soo queste istituzioni il Paese aveva prosperato. In casi del genere, se può essere reso probabile per mezzo di altre prove e le supposte cause abbiano una quale tendenza a produrre l’effeo e viene loro aribuito, il fao e l’effeo sia stato prodoo sia pure in un solo caso non è privo di valore, in quanto verifica oenuta per mezzo di un’esperienza specifica; ma di per se stesso non riesce affao a dimostrare e una tendenza siffaa esiste, peré, ane ammesso l’effeo, potrebbe darsi e esistano cento altri antecedenti e avanzano un titolo egualmente valido di quel genere a essere considerati come la causa. In questi esempi vediamo caive generalizzazioni a posteriori, ossia l’empirismo propriamente deo: la causazione inferita da una congiunzione casuale, senza e abbia avuto luogo la debita eliminazione, o senza e dalle proprietà note del supposto agente sorga una qualsiasi presunzione in favore di questa generalizzazione. Ma è altreanto diffusa quella caiva generalizzazione a priori e dev’essere iamata, propriamente, falsa teoria; si traa di conclusioni ricavate deduivamente da certe proprietà di un quale agente, di cui non si sa e è presente, o si suppone e lo sia, mentre tui gli altri agenti e esistono vengono trascurati. Come il primo

errore è un errore di ignoranza pura e semplice, così quest’ultimo errore è proprio, in particolare, delle menti semi-istruite, e viene commesso soprauo quando si tenta di spiegare certi fenomeni complicati facendo ricorso a una teoria più semplice di quanto non ammea la natura di tali fenomeni. Così accadde quando una certa scuola di medici cercò il principio universale di tue le malaie nello «spessore e nella viscosità morbosa del sangue» e, imputando la maggior parte dei disordini del corpo a ostruzioni meccanie, tentò di curarli con rimedi meccanicia; mentre un’altra scuola, la scuola imica, «non riconobbe altre fonti di malaia se non la presenza di quale acido o di quale base nocivi, o di quale condizione di disordine nella composizione imica del fluido o delle parti solide», e pensò, pertanto, e «tui i rimedi debbano agire producendo cambiamenti imici nel corpo. Così vediamo Tournefort tuo indaffarato a meere alla prova ogni succo vegetale, allo scopo di scoprire in esso quale traccia di un ingrediente acido o alcalino e potesse conferirgli efficacia medicamentosa. Gli errori fatali in cui un’ipotesi del genere poteva far cadere il medico riceveero una terribile illustrazione nella storia della memorabile febbre e infuriò su Leyda nell’anno 1699 e e condusse a una morte prematura i due terzi degli abitanti di quella cià. Evento, questo, e dipese in grande misura dal professor Sylvius de la Boe3, il quale, avendo da poco abbracciato le dorine imie di Van Helmont4, aribuì l’origine della malaia alla predominanza di un acido e diiarò e la sua guarigione poteva provenire soltanto5 dalla somministrazione di medicine assorbenti e argillose»b. este aberrazioni nella teoria medica trovano i loro paralleli esai in politica. Tue le teorie e aribuiscono bontà assoluta a particolari forme di governo, a particolari ordinamenti sociali, e ane a particolari modi d’educazione, senza tener conto dello stato di civiltà e dei vari altri caraeri e distinguono la società per cui sono stati escogitati, prestano il fianco alla medesima obiezione: quella e gli imputa di assumere e una certa classe di circostanze influenzanti sia quella e sopra tue regola i fenomeni, mentre in realtà questi dipendono, in misura eguale o addiriura maggiore, da molte altre circostanze. Ma non è affao necessario e ci soffermiamo ora sopra queste considerazioni, peré esse occuperanno più diffusamente la nostra aenzione nel Libro successivo. 6. L’ultimo modo di generalizzazione erronea a cui rivolgerò la mia aenzione è quello e possiamo iamare delle false analogie. esta

fallacia si distingue da quelle e abbiamo già traato, per questa particolarità: e non simula neppure un’induzione completa e concludente, ma consiste nella caiva applicazione di un’argomentazione, e nel migliore dei casi è ammissibile soltanto come ipotesi non concludente là dove non sia possibile oenere la prova vera e propria. Un ragionamento per analogia è l’inferenza e quello e è vero in un certo caso è vero in un caso di cui si sa e è pressappoco simile, ma di cui non si sa se sia esaamente parallelo, cioè, se sia simile al primo in tue le circostanze e contano. Un certo oggeo ha la proprietà B; di un altro oggeo non si sa se abbia quella proprietà; però quest’oggeo somiglia al primo nella proprietà A, di cui, a sua volta, non si sa se sia connessa con B; e la conclusione alla quale indirizza quest’analogia è e l’oggeo in questione ha ane la proprietà B. Per esempio, e i pianeti sono abitati peré è abitata la Terra. I pianeti somigliano alla Terra peré descrivono orbite elliie intorno al Sole, peré il Sole li arae e si araggono l’un l’altro; peré sono quasi sferici, girano intorno ai loro assi, e via discorrendo e, come ora abbiamo ragione di credere da quanto ci rivela lo speroscopio, peré sono composti almeno in gran parte di materiali simili; però non si sa se una di queste proprietà, o tue queste proprietà prese insieme, siano le condizioni dalle quali dipende la presenza di abitanti, o se siano segni di queste condizioni. Nondimeno, fin quando non si saprà quali siano queste condizioni, esse possono venir connesse con queste proprietà comuni per mezzo di quale legge di natura; e nei limiti di questa possibilità, e i pianeti siano abitati è più probabile di quanto non lo sarebbe se non somigliassero per nulla alla Terra. Il sostegno e una conclusione può derivare dall’analogia sta tuo quanto in quest’incremento, peraltro imprecisabile, e generalmente piccolo, della probabilità e esisterebbe altrimenti. Infai, se avessimo la sia pur minima ragione per supporre e esista una qualsiasi connessione reale tra le due proprietà A e B, il ragionamento non sarebbe più un ragionamento per analogia. Se fosse stato accertato (faccio di proposito un’ipotesi assurda) e esiste una connessione causale tra il fao di rotare intorno al proprio asse e l’esistenza di esseri animati, o se ci fosse un qualsiasi fondamento ragionevole ane soltanto per sospeare l’esistenza di una tale connessione, la probabilità e esistano abitanti sui pianeti potrebbe diventare alta a piacere, fino a coincidere con un’induzione completa; ma allora dovremmo inferire il fao dalla legge di

causazione, accertata o presunta e sia, e non dall’analogia tra gli altri pianeti e la Terra. Tuavia, quale volta il nome «analogia» viene impiegato per estensione, allo scopo di denotare quelle argomentazioni e hanno caraere d’induzione, ma non equivalgono a un’induzione vera e propria, e e vengono impiegate per rafforzare le indicazioni trae da una semplice somiglianza. Sebbene non sia possibile mostrare e A, vale a dire la proprietà comune ai due casi, è la causa o l’effeo di B, i ragiona per analogia tenterà di mostrare e tra A e B c’è un quale grado più o meno streo di connessione; e A è una di un insieme di condizioni dalle quali, se fossero tue unite, risulterebbe B; oppure e è un effeo occasionale di quale causa di cui si sa ane e ha prodoo B, e via di séguito. Ciascuna di queste cose, se la si mostrasse, renderebbe l’esistenza di B molto più probabile di quanto non sarebbe stata se tra A e B non ci fosse neppure quella quantità di connessione nota. Ora, un errore (o fallacia) di analogia si può commeere in due modi. ale volta l’errore consiste nell’impiegare un’argomentazione dell’una o dell’altra specie sopra menzionate, bensì correamente, ma sopravvalutandone la forza probante. ale volta si ritiene e il commeere questa comunissima aberrazione càpiti, in modo particolare, a persone e si distinguono per la loro immaginazione; in realtà, però, è il difeo intelleuale caraeristico di quelle persone la cui immaginazione è sterile sia per mancanza di esercizio sia per un difeo naturale, sia per la ristreezza delle loro idee. A tali menti gli oggei si presentano rivestiti di ben poe proprietà; e perciò, siccome gli vengono in mente soltanto poe analogie tra l’uno e l’altro oggeo, quasi invariabilmente costoro sopravvalutano il grado d’importanza di queste poe; invece un uomo, la cui fantasia abbracci un campo più vasto, percepisce e ricorda tante di quelle analogie tendenti a conclusioni tra loro in conflio, e è molto meno probabile e mea un accento indebito sull’una o sull’altra di esse. Troviamo sempre e i più grandi siavi del linguaggio metaforico sono quelli e padroneggiano un solo insieme di metafore. Ma questo è soltanto uno dei modi per commeere errori nell’argomentazione per analogia. C’è un altro errore e merita, più propriamente, il nome di fallacia: si traa dell’errore nel quale si cade quando la somiglianza in un certo punto s’inferisce dalla somiglianza in un

certo altro punto, ane se non soltanto non esiste nessuna prova e ci autorizzi a stabilire una connessione tra le due circostanze, ma le prove tendono positivamente a tenerle separate. esta, per parlar propriamente, è la fallacia delle false analogie. Come primo esempio possiamo citare quell’argomentazione favorita in difesa del potere assoluto, e viene ricavata dall’analogia con il governo esercitato dal padre in una famiglia: per quanto esso stesso abbia un gran bisogno di controlli, questo governo non può essere controllato dai figli stessi, fin quando rimangono bambini. Il governo esercitato dal padre, dice questo ragionamento, funziona bene; perciò funzionerà bene ane il governo dispotico di uno stato. Lascio da parte, come non pertinente in questo luogo, tuo quello e si potrebbe dire per ridurre nei suoi giusti limiti la presunta eccellenza del governo paterno. Comunque stiano queste cose, però, l’argomentazione e passa dalla famiglia allo stato, procederebbe pur sempre sulla base di una falsa analogia, e implica e il buon funzionamento del governo esercitato dal padre nella famiglia dipende dal solo punto e tale governo ha in comune con il dispotismo politico: cioè dall’irresponsabilità dei soggei. Invece, quando è effeivo, il potere paterno non dipende da questa circostanza, ma da altre due circostanze del caso: l’affeo del padre per i figli e la sua superiorità sui figli in saggezza e in esperienza: tuavia, tra un despota politico e i suoi sooposti non si può riconoscere l’esistenza di nessuna di queste due proprietà, ed è probabile e nessuna di esse esista; e quando ane nella famiglia viene a cadere l’una o l’altra di queste circostanze e si permee e l’influenza dell’irresponsabilità agisca senza controlli, il risultato sarà di tuo, tranne e un buon governo. esta, di conseguenza, è una falsa analogia. Un altro esempio è il dictum, non insolito, secondo il quale i corpi politici hanno giovinezza, maturità veciaia e morte, come i corpi naturali; secondo il quale, dopo e la loro prosperità è durata per un certo tempo, tendono spontaneamente a decadere. Ane questa è una falsa analogia, peré il decadimento delle forze vitali in un corpo animale può essere iaramente fao risalire al progresso naturale di quegli stessi cambiamenti di struura e, nei loro stadi primitivi, costituiscono la crescita di quel corpo verso la maturità; mentre, generalmente parlando, nel corpo politico il progredire di questi cambiamenti non può avere altro effeo e non sia un’ulteriore continuazione della crescita. Soltanto l’arresto di questo progresso e l’inizio

della regressione costituirebbero il decadimento. I corpi politici muoiono, ma muoiono di malaia o di morte violenta: non inveciano mai. La seguente proposizione, traa dalla Ecclesiastical Polity di Hooker6, è un altro esempio di falsa analogia dai corpi fisici a quelli e vengono iamati corpi politici: «Come nei corpi naturali non potrebbe esserci moto di nulla se non ci fosse qualcosa e muove tue le cose e rimane sempre immobile, così nelle società politie dev’esserci qualcuno e non può essere punito, altrimenti non sarebbe possibile punire nessuno «. i c’è una duplice fallacia: peré, non soltanto è insostenibile l’analogia, ma è insostenibile ane la premessa da cui è stata traa. La nozione e dev’esserci qualcosa d’immobile e muove tue le altre cose è, né più né meno, l’errore scolastico di un primum mobile. Cito l’esempio seguente della Rhetoric dell’arcivescovo Whately. «Si ammeerà e una diminuzione grande e permanente della quantità di quale bene utile, come grano, carbone o ferro, e interessi tuo il mondo, rappresenterebbe una perdita seria e durevole; e si ammeerà altresì e se i campi e le miniere di carbone offrissero doppia quantità di materia prima con la medesima quantità di lavoro, saremmo due volte più rici; di qui si può inferire e se la quantità d’oro o d’argento esistente nel mondo diminuisse della metà o venisse raddoppiata, seguirebbero risultati simili, dal momento e l’utilità di questi metalli per il conio delle monete è molto grande. Ora, è bensì vero e ci sono molti punti di somiglianza e molti punti di differenza tra i metalli preziosi da un lato e grano, carbone, e via dicendo, dall’altro; ma la circostanza importante per questa presunta argomentazione è e l’utilità dell’oro e dell’argento (l’utilità in quanto moneta di scambio, e è di gran lunga l’utilità principale) dipende dal loro valore e il valore è regolato dalla loro scarsità o, piuosto, rigorosamente parlando, dalle difficoltà e s’incontrano per oenerli; laddove, se il grano o il carbone fossero dieci volte più abbondanti (cioè, se si potessero oenere dieci volte più facilmente), uno staio di grano o di carbone sarebbe ancora tanto utile quanto lo è adesso. Ma se procurarsi oro fosse due volte più facile di quanto non lo sia aualmente, una sovrana sarebbe due volte più grande di quanto è aualmente; se fosse facile soltanto la metà, sarebbe delle dimensioni di una mezza sovrana auale, e (lasciando da parte la circostanza irrilevante del prezzo più o meno alto dei monili d’oro) la differenza sarebbe

tua qui. Pertanto l’analogia vien meno nel punto essenziale all’argomentazione». Il medesimo autore, seguendo il vescovo Copleston7, nota il caso di quella falsa analogia e consiste nell’inferire, dal fao e la metropoli di un Paese e il cuore del corpo animale si somigliano per molti aspei, e l’aumento delle dimensioni di una metropoli è una malaia. Alcune delle false analogie sulle quali si fondavano fiduciosamente i sistemi di fisica ai tempi dei filosofi Greci, sono tali e ai nostri giorni le iamiamo fantastie; non peré spesso le somiglianze non siano reali, ma peré è ormai passato molto tempo da quando qualcuno si è dimostrato propenso a trarne le inferenze e ne venivano trae a quei tempi. Tali, per esempio, sono le curiose speculazioni dei Pitagorici sui numeri. Trovando e le distanze tra i pianeti stavano, o sembravano stare l’una con l’altra in un rapporto e non è molto diverso da quello in cui stanno tra loro le suddivisioni del monocordo, ne inferirono l’esistenza di una musica inudibile, la musica delle sfere; come se la musica di un’arpa dipendesse soltanto dalle proporzioni numerie e non dal materiale, e neppure da un materiale qualsiasi: come se non dipendesse affao dalle corde. Analogamente, si è immaginato e certe combinazioni di numeri, e a quanto si è trovato prevalgono in quale fenomeno naturale, debbano correre per tua quanta la natura: come se dovessero esserci quaro elementi, solo peré ci sono quaro possibili combinazioni di caldo e freddo, umido e secco; come se dovessero esserci see pianeti soltanto peré ci sono see metalli, e magari addiriura peré ci sono see giorni in una seimana. Lo stesso Keplero pensava e potessero esserci soltanto sei pianeti, peré ci sono soltanto cinque solidi regolari. Tra queste fallacie possiamo classificare i ragionamenti così comuni nelle speculazioni degli antii, fondati sopra una presunta perfezione della natura, dove per «natura» s’intende l’ordine abituale degli eventi, in quanto hanno luogo da sé, senza l’interferenza dell’uomo. Ane questo è un rozzo tentativo d’indovinare un’analogia e si suppone pervada tui i fenomeni, per quanto dissimili essi siano l’uno dall’altro. Dal fao e quella e si pensava fosse la perfezione sembrava presente in alcuni fenomeni, si inferì (contro le prove più evidenti) e la medesima perfezione è presente in tui i fenomeni. «Supponiamo sempre e in natura accada quello e è meglio e accada, se è possibile», dice Aristotele; e poié soo la nozione di meglio si confondevano le quantità più vaghe e più eterogenee, non c’era

limite alla stravaganza delle inferenze. Così, siccome i corpi celesti sono «perfei», devono muoversi in cerio e di moto uniforme. Dice Gemino8: «Essi infai (i Pitagorici) non ammeerebbero nessun disordine tra le cose divine ed eterne, cosicé esse si muovano quale volta più velocemente e quale volta più lentamente, o quale volta stiano ferme; nessuno, infai, tollererebbe una tale anomalia, neppure nei movimenti di un uomo educato e ordinato. Comunque, le ragioni per cui gli uomini vanno più in frea o più adagio sono spesso fornite dalle occasioni della vita; ma non è possibile ammeere nessuna causa di accelerazione o di rallentamento nella natura incorruibile delle stelle»c. Supporre e nel loro portamento e nel loro modo di comportarsi le stelle debbano osservare quelle stesse regole di decoro e i barbuti filosofi presi di mira dalla satira di Luciano imponevano a sé medesimi, vorrebbe dire andare a cercare un po’ troppo lontano le prove dell’analogia. Ane in epoca più vicina a noi — cioè al tempo della controversia sul sistema copernicano — in favore della teoria vera del sistema solare si avanzò l’argomentazione e tale teoria meeva al centro dell’universo il fuoco, e è il più nobile degli elementi. Si traava di una reliquia della nozione secondo cui l’ordine della natura dev’essere perfeo e la perfezione consisterebbe nella conformità a regole di precedenza per ordine di dignità, reali o convenzionali e siano. Per ritornare ancora ai numeri: certi numeri erano perfetti, pertanto dovevano ritrovarsi nei grandi fenomeni della natura. Il sei era un numero perfeo, cioè un numero eguale alla somma di tui i suoi faori: ragion di più peré dovessero esserci né più né meno di sei pianeti. D’altra parte, i Pitagorici aribuivano la perfezione al numero dieci, ma erano d’accordo e il numero perfeo dev’essere in quale modo realizzato nei cieli: e siccome conoscevano soltanto nove corpi celesti, allo scopo di colmare la differenza asserirono «e dall’altra parte del Sole c’è un d 9 antichthon, o Antiterra, a noi invisibile» . Persino Huygens era persuaso e, quando avesse raggiunto il dodici, il numero dei corpi celesti non sarebbe più stato susceibile di un aumento ulteriore: infai la potenza creatrice non può andar oltre questo numero sacro. Alcuni curiosi esempi di false analogie si possono trovare nelle argomentazioni usate dagli Stoici per provare e tui i crimini sono eguali, e e coloro e non avessero realizzato l’idea di virtù perfea da essi faa valere erano tui scellerati. Verso la fine del quarto Libro del De finibus

Cicerone enuncia alcuni di questi argomenti nel modo seguente: «Ut, inquit, in fidibus plurimis, si nulla earum ita contenta numeris sit, ut concentum servare possit, omnes aeque incontentae sunt; sic peccata, quia discrepant, aeque discrepant; paria sunt igitur»10. A quest’argomentazione lo stesso Cicerone risponde, molto opportunamente: «aeque contingit omnibus fidibus, ut incontentae sint; illud non continuo, ut aeque incontentae»11. Lo Stoico riprende: «Ut enim, inquit, gubernator aeque peccat, si palearum navem evertit, et si auri; item aeque peccat qui parentem, et qui servum, injuria verberat»12; assumendo e, siccome l’entità degli interessi in ballo non reca alcuna differenza nella pura e semplice mancanza di abilità, non può recarne nessuna neane nel difeo morale: e questa è una falsa analogia. Ancora: «is ignorat, si plures ex alto emergere velint, propius fore eos quidem ad respirandum, qui ad summam jam aquam appropinquant, sed nihilo magis respirare posse, quam eos, qui sunt in profundo? Nihil ergo adiuvat procedere, et progredi in virtutem, quominus miserrimus sit, antequam ad eam pervenerit, quoniam in aqua nihil adjuvat: et quoniam catuli, qui jam despecturi sunt, caeci aeque et ii qui modo nati; Platonem quoque necesse est, quoniam nondum videbat sapientiam, aeque caecum animo ac Phalarim fuisse»13. Parlando in persona propria, Cicerone combae queste false analogie per mezzo di altre analogie e tendono a una conclusione opposta. «Ista similia non sunt, Cato… Illa sunt similia; hebes acies est cuipiam oculorum: corpore alius languescit: hi curatione adhibita levantur in dies: alter valet plus quotidie: alter videt. Hi similes sunt omnibus, qui virtuti student; levantur vitiis, levantur erroribus»14. 7. In queste, e in tue le altre argomentazioni trae da analogie remote e da metafore e sono casi di analogia, è evidente (specialmente quando consideriamo l’estrema facilità con cui si può dare vita ad analogie contrarie o a metafore contrastanti) e la metafora, o l’analogia, sono ben lontane dal provare alcuné; anzi, la cosa da provare è proprio la possibilità di applicare la metafora. Si deve mostrare e nei due casi di cui abbiamo asserito l’analogia opera, in realtà, la medesima legge: e tra la somiglianza nota e la somiglianza inferita c’è quale connessione causale. Cicerone e Catone avrebbero potuto continuare all’infinito a palleggiarsi analogie opposte: toccava a ciascuno di essi provare o almeno rendere probabile per mezzo di un’induzione correa e, nelle circostanze sulle quali era effeivamente imperniata la questione e si stava discutendo, il caso somigliava all’un

insieme di casi analoghi e non all’altro. Per la maggior parte, dunque, le metafore presuppongono la proposizione per provare la quale sono state introdoe: la loro utilità consiste nell’aiutarci ad apprenderla; nel farci capire iaramente e con vivezza e cosa si proponga di far vedere la persona e impiega la metafora, e quale volta, ane, con quali mezzi si proponga di farlo. Infai, pur non potendo provare nulla, spesso una metafora adaa ci suggerisce la prova. esto accadde, per esempio, quando d’Alembert (credo e fosse lui) osservò e in certi governi soltanto due creature trovano la strada per raggiungere i posti più elevati: l’aquila e il serpente. Non soltanto questa metafora comunica con grande vivacità quello e s’intende asserire, ma contribuisce a sostanziare l’asserzione suggerendo, in maniera vivida, i mezzi con i quali riescono ad ascendere i due caraeri opposti così tipizzati. ando si dice e una certa persona ne fraintende un’altra, peré il minore di due oggei non può comprendere il maggiore, l’applicazione di quello e è vero nel senso leerale della parola «comprendere» al senso metaforico di questa medesima parola, indica il fao e costituisce il fondamento e la giustificazione dell’asserzione: cioè, e una mente non può comprenderne completamente un’altra a meno e non la possa contenere in se stessa: cioè, a meno e non possegga tuo quello e è contenuto nell’altra. ando si adduce, come argomento in favore dell’educazione, e se si lascia il suolo in colto cresceranno le erbacce, la metafora, pur non essendo una prova ma un’enunciazione della cosa e si deve provare, la enuncia in termini e, suggerendo un caso parallelo, meono la mente sulle tracce della prova vera e propria. Infai, la ragione per cui le erbacce crescono in un suolo incolto è e i semi delle piante prive di valore esistono dappertuo e possono germinare e crescere in quasi tue le circostanze, mentre con i semi pregiati accade esaamente il contrario; e poié questo è egualmente vero dei prodoi della mente, questo modo di comunicare un’argomentazione possiede un valore logico indipendentemente dai suoi vantaggi retorici, peré non soltanto suggerisce quali siano le basi sulle quali deve fondarsi la conclusione, ma allude a un altro caso in cui si è trovato e queste basi sono sufficienti, o almeno si pensa e lo siano. D’altra parte, quando Bacone, e è egualmente prodigo nell’uso e nell’abuso di illustrazioni figurate, dice e la corrente del tempo ci ha tramandato soltanto la parte meno pregevole degli scrii degli antii, così

come un fiume porta galleggianti sulla sua superficie la siuma e la paglia, mentre gli oggei più pesanti affondano, questa non sarebbe una buona illustrazione neane se l’asserzione illustrata fosse vera, peré tra le due cause non c’è la minima parità. La leggerezza in virtù della quale una sostanza galleggia su una corrente, e la leggerezza e è sinonimo di mancanza di valore, non hanno nulla in comune ecceuato il nome; e se vogliamo mostrare quanto poco valore abbia questa metafora, non dobbiamo far altro e sostituire la parola «capacità di galleggiamento» alla parola «leggerezza»; in questo modo ritorceremo contro il suo autore la parvenza d’argomentazione contenuta in quest’illustrazione di Bacone. Una metafora, dunque, non dev’essere considerata come un’argomentazione, ma come l’asserzione e un’argomentazione esiste; e sussiste una parità tra il caso da cui la metafora è stata traa e il caso cui la si applica. esta parità può esistere ane se i due casi sono apparentemente molto lontani l’uno dall’altro; l’unica somiglianza esistente tra di essi può essere una somiglianza di relazioni, un’analogia nel senso di Ferguson e dell’arcivescovo Whately: come nell’esempio precedente, in cui un’illustrazione traa dal campo dell’agricoltura veniva applicata alla coltivazione della mente. 8. Per porre termine all’argomento delle fallacie di generalizzazione rimane da dire e la fonte più fertile di tali fallacie è costituita dalla caiva classificazione: e la caiva classificazione consiste nel portare insieme, soo un solo gruppo o soo un solo nome, cose e non hanno nessuna proprietà in comune o non hanno in comune altre proprietà se non quelle e sono troppo poco importanti per permeere e si formino, a proposito della classe, proposizioni generali dotate di un valore qualsiasi. L’effeo forviante è tanto maggiore quanto più una parola, e nell’uso comune esprime quale fao ben definito, viene estesa, per mezzo di piccoli anelli di connessione, a casi in cui quel fao non esiste, ma esiste quale altro fao e somiglia al primo soltanto vagamente. Così Baconee, parlando degli idola, ossia delle fallacie e sorgono da nozioni temere et inaequaliter a 15 rebus abstractae , li esemplifica facendo ricorso alla nozione di humidum, ossia di umido, così familiare nella fisica dell’antiità e del Medioevo. «Invenietur verbum istud, Humidum, nihil aliud quam nota confusa diversarum actionum, quae nullam constantiam aut reductionem patiuntur. Significat enim, et quod circa aliud corpus facile se circumfundit; et quod in

se est indeterminabile, nec consistere potest: et quod facile se unit et colligit; et quod facile fluit et in motu ponitur; et quod alteri corpori facile adhaeret, idque madefacit; et quod facile reducitur in liquidum sive colliquatur cum antea consisteret. Itaque quum ad hujus nominis praedicationem et impositionem ventum sit; si alias accipias, flamma humida est; si alias accipias, aer humidus non est; si alia, pulvis minutus humidus est; si alia, vitrum humidum est: ut facile appareat istam notionem ex aqua tantum, et communibus et vulgaribus liquoribus; absque ulla debita verificationem, temere abstractam esse»16. Lo stesso Bacone si espone ad un accusa simile quando indaga la natura del calore: qui, di tanto in tanto, procede come uno e, cercando la causa della durezza, dopo aver esaminato questa qualità nel ferro, nella pietra e nel diamante, si aspei di trovare e la durezza è qualcosa e può essere rintracciata ane nell’acqua dura, in un nodo duro e in un cuore duro. La parola ϰίνησɩϛ nella filosofia Greca, e le parole «generazione» e «corruzione», sia ai tempi dei Greci, sia per molto tempo dopo, denotavano una tale quantità di fenomeni eterogenei, e qualsiasi tentativo di filosofare sopra queste parole era quasi fatalmente destinato ad abortire, come sarebbe accaduto con la parola «duro» se questa fosse stata presa per denotare una classe e comprendesse tue le cose e abbiamo menzionato più sopra. Per esempio, ϰίνησɩϛ, e significa propriamente movimento, venne usata per denotare, non soltanto tui i movimenti, ma ane qualsiasi cambiamento: l’ἀλλoίωσɩϛ era infai riconosciuta come uno dei modi della ϰίνησɩϛ. esto fao ebbe l’effeo di conneere con ogni forma di ἀλλoίωσɩϛ, ossia di cambiamento, idee trae dal movimento nel senso proprio e leerale del termine, e e non avevano nessuna connessione reale con altre specie di ϰίνησɩϛ e non fosse quella. A causa di questo caivo uso dei termini, Aristotele e Platone furono viime di continue perplessità. Ma se procediamo oltre in questa direzione incontreremo la fallacia di ambiguità, e appartiene a una classe differente, ed è l’ultima nell’ordine della nostra classificazione: la classe delle fallacie di confusione. Così Fourcroy2, scrive il door Paris, spiegava l’azione del mercurio facendo ricorso alla gravità specifica di questo metallo, e i sostenitori di questa dorina favorivano, in generale, l’introduzione dei preparati di ferro, specialmente nella cirrosi epatica, in base al medesimo principio ipotetico. Infai, dicevano, «gli strumenti appropriati della cura devono essere tue quelle sostanze e rivelano una forza maggiore nel rimuovere le ostruzioni: tale è l’acciaio, e oltre al potere aenuante di cui è dotato, ha, in questo caso, una forza maggiore grazie alla gravità delle sue particelle, peré, avendo a.

un peso specifico see volte più grande di quello di qualsiasi vegetale, agisce con un impulso proporzionalmente maggiore ed è perciò un disostruente più potente. esto può essere preso come un campione dello stile in cui questi medici meccanicisti ragionavano e praticavano la medicina». Pharmacologia, pp. 38-39. b. Pharmacologia;, pp. 39-40. a c. Cito dalla History of Inductive Sciences, 3 ed., I, 129, del door Whewell. d. Hist. Ind. Sc., I, 52. e. Nov. Org., Aforisma 60. 1. L’induzione e procede per enumerazione semplice è cosa puerile e conclude in modo provvisorio, peré è sempre minacciata da un caso e la contraddica; inoltre conclude secondo un numero di casi minore di quanto non sia opportuno, e tra questi prende soltanto quelli e sono lì, a portata di mano. Invece l’induzione e sarà utile all’invenzione e alla dimostrazione delle scienze e delle arti deve operare separazioni nella natura, procedendo per debiti rifiuti e per debite esclusioni; e poi, dopo aver preso in considerazione tui i casi negativi e è sufficiente prendere in considerazione, pronunciarsi su quelli affermativi. 2. Antoine-Françoise de Fourcroy (1755-1809), imico e uomo politico francese. Con Lavoisier e Berthollet fondò le Annales de Chimie (1789). Durante il Terrore fu membro del Comitato per l’istruzione pubblica. Ministro della Pubblica Istruzione soo Bonaparte, riorganizzò l’insegnamento scientifico. Le sue opere maggiori, di caraere prevalentemente teorico e dedicate a combaere le teorie flogistie, sono: La philosophie chimique (1792) e Systèmes de connaissances chimiques, in 11 volumi (1801). 3. Francis de la Boë (latinizzato in Franciscus Sylvius) (1614-1672), medico, imico, fisiologo francese, professore dell’Università di Leida; dimostrò e la fermentazione con conseguente liberazione di gas, è soltanto uno dei molti processi imici dell’organismo. Secondo Sylvius, la conoscenza degli acidi e degli alcali fornisce la iave per la conoscenza dei fenomeni vitali, e per la cura delle malaie. Fu celebratissimo come eccelso clinico. 4. Jan Baptista Van Helmont (1577-1644), imico, fisiologo e medico belga: fu il primo ad avanzare l’ipotesi e ci sono gas distinti dall’aria atmosferica (si vantò di aver introdoo lui stesso la parola «gas») e riconobbe e il gas silvestre (ossia l’anidride carbonica) e si libera bruciando carbone di legna è la stessa sostanza e si produce nella fermentazione del mosto. Accanto al solido impianto sperimentale, si trovano nella sua opera parecie teorie di origine magica, o alimistica. Credeva nella pietra filosofale, e riteneva e l’acqua sia uno dei principali costituenti della materia, al punto e il legno, la corteccia, le foglie e le radici degli alberi (e si nutrirebbero d’acqua pura) sarebbero formati di sola acqua. Formulò una teoria della digestione come conseguenza dell’azione di fermenti e in sei stadi convertono il cibo in carne. Tuavia introdusse un complicato sistema di agenti sovrannaturali per spiegare la nascita, la crescita e il movimento dei corpi viventi. Secondo la teoria delle malaie cui accenna Mill, le malaie sarebbero prodoe dalla roura dell’equilibrio acidi-basi; il rimedio consiste dunque nel ristabilire quest’equilibrio ingerendo, secondo i casi, sostanze acide o sostanze alcaline. Le sue opere furono pubblicate dal figlio Franz Mercurius soo il titolo: Ortus medicinae, vel opera et opuscula omnia (Amsterdam, 1648). 5. A questo punto il testo contiene una correzione di Mill intraducibile in italiano: il brano del door Paris suona «… and declared that its cure could alone…», dove «alone» viene usato nel modo improprio e Stuart Mill lamenta a p. 000. Tra parentesi quadre, Mill corregge l’«alone» del testo con only. 6. Riard Hooker (1554-1600), teologo anglicano, ricordato appunto quale autore del libro Of the Laws of Ecclesiastical Polity [Sulle leggi della politica ecclesiastica] (1593), uno dei capolavori della leeratura elisabeiana, in cui con argomenti di caraere religioso e politico, si difende la legiimità

della struura politicoreligiosa del regime elisabeiano contro caolici e puritani. Il punto fondamentale delle argomentazioni di Hooker è la rigorosa unità di Chiesa e di Stato. 7. Edward Copleston (1776-1849), vescovo inglese, vicario del St. Mary’s College di Oxford, più tardi professore di poesia e decano e poi prevosto dell’Oriel College. Scrisse soprauo di argomenti economici. 8. Gemino, matematico e astronomo di Rodi, fiorito verso il 70 a. C. Volgarizzò le dorine meteorologie di Posidonio da Rodi — di cui fu contemporaneo — in un Compendio della Meteorologia di Posidonio; compose un’opera matematica e una, e ci è rimasta, di astronomia, Introduzione ai fenomeni celesti, e costituisce una fonte importantissima per la conoscenza dell’astronomia antica. Fu il primo a distinguere tra scienze matematie pure (aritmetica e geometria) e applicate (logistica, armonia, oica, meccanica, astronomia). 9. Christiaan Huygens (1629-1695), matematico, astronomo e fisico olandese. Scoprì la vera forma degli anelli di Saturno, e fu il primo osservatore scientifico della nebulosa di Orione. Applicò il pendolo alla regolazione del moto degli orologi; precisò le leggi del pendolo e completò i teoremi relativi alla forza centrifuga nei moti circolari, e aiutarono Newton a formulare la sua legge della gravitazione. La sua maggiore scoperta fu però la formulazione esaa della teoria ondulatoria della luce, contenuta nell’opera Traité de la lumière, composta nel 1678 e pubblicata a Leyda nel 1690. 10. E lui: «facciamo il caso di più strumenti a corda: se qualcuno di essi non fosse accordato in modo da non poter serbare l’armonia, tui sarebbero egualmente scordati; così è per i peccati: poié discordano, sono egualmente discordi, e quindi sono eguali». [CICERONE, De finibus bonorum et malorum, IV, XXVII; tr. it. di N. Marinone, UTET, Torino, 1965, p. 205]. 11. «Capità egualmente a tui gli strumenti di essere scordati, ma non egualmente scordati». [Op. cit., trad. e loc. cit.]. 12. «Come un nociero pecca egualmente se fa naufragare una nave carica di paglia o una carica d’oro, parimenti pecca egualmente i frusta a torto uno siavo o i un genitore». [Op. cit., trad. e loc. cit.]. 13. «Chi infai ignora e se più persone vogliono emergere da un’acqua profonda, saran più prossimi a respirare quelli e già s’avvicinano al pelo dell’acqua, ma non hanno affao maggior possibilità di respirare di coloro e stanno al fondo? A nulla, dunque, giova avanzare e far progressi a proposito della virtù — così da non essere al colmo dell’infelicità prima d’averla raggiunta — poié a proposito dell’acqua non giova a nulla. E poié i cuccioli e già stanno per aprire gli oci sono ciei come quelli appena nati, ane Platone, poié non vedeva ancora la sapienza, doveva necessariamente essere cieco nell’anima proprio come Falaride?». [Op. cit., IV, XXIII, trad. it. cit., p. 200]. 14. «Non calzano, o Catone, cotesti paragoni… esti son paragoni possibili: uno ha la vista debole, un altro va perdendo il vigore fisico; in séguito all’applicazione di una cura, di giorno in giorno va migliorando: l’uno ogni giorno si sente sempre più in forze, l’altro vede ogni giorno sempre di più. A costoro son simili tui quelli e tendono alla virtù: son sollevati dai vizi, son sollevati dagli errori». [Op. cit.. IV, XXIV, tr. it. cit., p. 200]. 15. Astrae dalle cose avventatamente e in modo diseguale. 16. «In questa parola, “umido”, non si trova nient’altro e una nota confusa di diverse azioni, e non sono affao costanti e non possono essere ridoe a un denominatore comune. “Umido” significa infai ciò e si diffonde facilmente intorno a un altro corpo; ciò e in sé è indeterminabile e non può restare solido; ciò e cede facilmente da tue le parti; ciò e facilmente si divide e si disperde; ciò e facilmente si unisce e facilmente si raccoglie; ciò e facilmente fluisce e facilmente vien messo in moto; ciò e facilmente aderisce a un altro corpo e lo rende madido; ciò e facilmente si riduce in liquido, mentre prima era solido. Pertanto, quando si trai di predicare e d’imporre questo nome, se si assumeranno certe cose sarà umida la fiamma; se se ne assumeranno altre, l’aria non sarà umida; se

altre ancora, sarà umida la polvere minuta; se ancor altre, sarà umido il vetro. Si vede facilmente e questa nozione è stata astraa soltanto dall’acqua e dai liquidi comuni e volgari, ma senza la debita verificazione, e avventatamente».

CAPITOLO VI. LE FALLACIE DEL RAGIONAMENTO DEDUTTIVO 1. Nel nostro viaggio araverso le varie classi di fallacie siamo arrivati così a quelle a cui, in generale, è riservato esclusivamente l’appellativo di fallacie nei manuali di logica e vanno per la maggiore: le fallacie e hanno la loro sede in quella parte della ricerca e è fondata sopra il ragionamento deduivo. Su queste fallacie è meno necessario, per noi, soffermarci diffusamente, dal momento e esse sono state traate in modo estremamente soddisfacente in un’opera e almeno in questo Paese è familiare a quasi tui coloro e provano quale interesse per questo genere di speculazioni: la Logic dell’arcivescovo Whately. Contro le forme più ovvie di questa classe di fallacie le regole del sillogismo offrono una protezione completa. Non già, come abbiamo deo tante volte, e la deduzione non possa essere buona deduzione se non viene messa soo forma di sillogismo; ma il fao è e mostrandola soo questa forma siamo sicuri di scoprire se è caiva, o almeno se contiene una qualsiasi fallacia appartenente a questa classe. 2. Tra le fallacie del ragionamento deduivo dovremmo forse includere gli errori commessi in quei processi e hanno soltanto l’apparenza, ma non la realtà, di un’inferenza compiuta in base a certe premesse: le fallacie connesse con la conversione e l’equipollenza delle proposizioni. Io credo e gli errori di questo genere vengano commessi molto più spesso di quanto non si supponga in generale, o di quanto non possa sembrare e ammea la loro estrema ovvietà. Per esempio, la conversione semplice di una proposizione universale affermativa: «Tui gli A sono B, perciò tui i B sono A» è, secondo me, una forma d’errore molto comune, ane se, come tante altre fallacie, viene commessa più spesso nel silenzio del pensiero e non in parole iaramente espresse, dal momento e è ben difficile e possa essere enunciata esplicitamente senza e i l’enuncia se ne renda conto. E la stessa cosa accade con un’altra forma di fallacia, e non è sostanzialmente differente dalla precedente: la conversione erronea di una proposizione ipotetica. L’inversa propria di una proposizione ipotetica è la seguente: se il conseguente è falso l’antecedente è falso; invece quest’altra proposizione: «se

il conseguente è vero l’antecedente è vero» non regge affao: è un errore e corrisponde alla conversione semplice di un’universale affermativa. Poe cose, tuavia, sono così diffuse tra la gente come il trarre quest’inferenza mentre si pensa tra sé e sé. Così accade quando la conclusione viene acceata come prova delle premesse, cosa questa e si fa tanto spesso. Che le premesse non possano essere vere se la conclusione è falsa, è il fondamento ineccepibile di quel modo legiimo di ragionamento iamato reductio ad absurdum. Ma la gente continuamente pensa, e continuamente si esprime come se pensasse, e quando la conclusione è vera le premesse non possano essere false. La verità (o la presunta verità) delle inferenze e seguono da una dorina, spesso mee quest’ultima in grado di essere acceata a dispeo delle grosse assurdità contenute in essa. anti sistemi filosofici, e in sé e per sé non avevano nulla e li rendesse acceabili, sono stati ritenuti validi dagli uomini dediti alla speculazione, peré si pensava e aggiungessero quale altro sostegno alla religione, alla moralità, a quale punto di vista politico favorito, o a quale persuasione predilea? E questo non semplicemente peré in conseguenza di ciò i desideri di questi uomini finissero tui con il militare dalla parte di questa persuasione, ma peré il fao e conducesse a quelle e ritenevano conclusioni legiime gli sembrava una forte presunzione in favore della sua verità: ane se, considerata nella sua giusta luce, tale presunzione equivaleva solamente all’assenza di quella particolare prova di falsità e si sarebbe oenuta se, in séguito a un’inferenza correa, avesse portato a qualcosa di cui si sapeva già e era falsa. Ancora: l’errore di condoa così frequente, e consiste nello scambiare erroneamente l’opposto di «torto» per «ragione», è la forma pratica e assume un certo errore logico riguardante l’opposizione delle proposizioni. Si traa di un errore e viene commesso per la mancanza dell’abito di distinguere la contraria di una proposizione dalla sua contraddittoria e di osservare il canone logico secondo cui le proposizioni contrarie, pur non potendo essere entrambe vere, possono essere entrambe false. Se l’errore dovesse essere espresso in parole, la sua incompatibilità con questo canone diventerebbe esplicita. Generalmente, però, esso non viene espresso in parole, e costringerlo ad esplicitarsi è il metodo più efficace per coglierlo e meerlo a nudo.

3. Tra le fallacie del ragionamento deduivo dobbiamo collocare al primo posto tui i casi di sillogismo vizioso esposti nei manuali. esti errori si risolvono generalmente nel fao e il sillogismo ha più di tre termini, sia esplicitamente, sia in modo surreizio quando il suo termine medio non è preso universalmente, oppure in uno dei due estremi il termine è distribuito, mentre nell’altro non lo è. In realtà non è molto facile dimostrare in modo esauriente e un’argomentazione è colpevole di rientrare, in particolare, in uno di questi casi di fallacia; e questo per la ragione alla quale abbiamo già fao cenno più d’una volta: e raramente le premesse sono state esplicitate in modo formale. Se lo fossero state, la fallacia non farebbe la minima presa su icessia; mentre quando esplicitate non sono il modo in cui si deve sostituire l’anello e è stato soppresso è, almeno fino a un certo punto, quasi sempre facoltativo. Le regole del sillogismo sono regole per costringere una persona a prendere consapevolezza di tuo quello e deve impegnarsi a difendere, se persiste nel voler sostenere la propria conclusione. asi sempre è in suo potere il rendere correo il proprio sillogismo introducendo una premessa falsa; e pertanto è quasi sempre impossibile affermare recisamente e una certa argomentazione contiene un caivo sillogismo; ma ciò non toglie nulla al valore delle regole sillogistie, dal momento e proprio per mezzo di queste regole l’autore del ragionamento è costreo a scegliere in modo inequivocabile quali siano le premesse e è pronto a sostenere. Generalmente, faa la scelta, è così facile vedere se la conclusione segua dalle premesse e si sono enunciate e, se avessimo fao rientrare questa quarta classe di fallacie nella quinta classe, cioè nella classe di fallacie di confusione, non saremmo incorsi in nessuna improprietà logica. 4. Forse però le fallacie più comuni, e certamente le più pericolose tra quelle appartenenti alla classe in parola, non sono quelle e hanno la loro sede in un sillogismo singolo, ma quelle e, in una catena di argomentazioni, s’insinuano tra un sillogismo e l’altro e si commeono cambiando le premesse. Nella prima parte di una certa argomentazione si prova una certa proposizione o si enuncia una verità riconosciuta, mentre nella seconda parte si fonda un’ulteriore argomentazione, non sulla medesima proposizione, ma su di un’altra proposizione e somiglia alla prima per quel tanto e basta peré la si scambi erroneamente con questa. Esempi di questa fallacia si troveranno in quasi tui i discorsi argomentativi dei pensatori poco rigorosi. i a noi basta riiamare l’aenzione su una

delle sue forme più oscure, riconosciuta dagli Scolastici come la fallacia a dicto secundum quid ad dictum simpliciter. Tale fallacia si commee quando nelle premesse si asserisce una proposizione con una certa restrizione, e poi la restrizione viene persa di vista nella conclusione; o, più spesso, quando alla verità di quella proposizione è necessaria una limitazione, o un condizionamento, sia pure non asseriti esplicitamente, ma poi, quando questa proposizione viene asserita come una premessa, ci si dimentica di questa limitazione. Appartengono a questa classe di errori molte delle caive argomentazioni e vanno per la maggiore. La premessa è una quale verità riconosciuta, una quale massima familiare, le ragioni o le prove in favore della quale sono state dimenticate, o alle quali in quel momento non si pensa, ma dalle quali, se non fossero state dimenticate o trascurate, sarebbe risaltata la necessità di limitare la premessa a tal punto e quest’ultima non avrebbe più corroborato la conclusione e ne veniva traa. Di questa natura è la fallacia di quella e in economia politica Adamo Smith e altri iamano la teoria mercantilistica. esta teoria prende le mosse dalla massima comunemente acceata secondo cui tuo ciò e porta in casa danaro arricisce, e ciascuno è ricco in proporzione alla quantità di danaro e possiede. Da questa massima si deduce e il valore di una qualsiasi branca del commercio, o di tuo quanto il commercio del Paese, consiste nella bilancia aiva del danaro e il commercio introduce nel Paese; e ogni commercio e porti fuori del Paese più danaro di quanto non ve ne faccia entrare è in perdita; e pertanto si dovrebbe ararre nel Paese il danaro e mantenervelo per mezzo di proibizioni e d’incentivazioni, e tua una serie di corollari simili. Tuo questo, peré non s’è rifleuto sul fao e, se le ricezze di un individuo sono proporzionali alla quantità di danaro di cui quell’individuo può disporre, ciò accade peré questa è la misura del suo potere d’acquistare quello e vale danaro, ed è perciò sooposta alla condizione e all’individuo in questione non s’impedisca di impiegare il proprio danaro in tali acquisti. Pertanto, la premessa è vera soltanto secundum quid, mentre la teoria assume e sia vera in assoluto, e inferisce e l’aumento del danaro equivale all’aumento della ricezza ane quando tale aumento venga prodoo con mezzi e sovvertono le condizioni alle quali soltanto il danaro può costituire la ricezza. Un secondo esempio è costituito dall’argomentazione in base alla quale, prima della commutazione delle decime, si era soliti sostenere e le decime gravano sul proprietario e costituiscono una deduzione dalla rendita; e

infai la rendita del terreno esente da decime era sempre più alta della rendita del terreno e avesse le medesime qualità e la cui posizione presentasse i medesimi vantaggi, ma e fosse soggeo a decime. Un traato di logica non è il luogo più adao per esaminare se sia vero o no e la decima grava sulla rendita; ma è certo e questo non ne costituisce una prova. Vera o falsa e sia la proposizione, il terreno esente da decime deve, per necessità del caso, dare una rendita più alta. Infai, se le decime non gravano sulla rendita, ciò accade, necessariamente, peré gravano sul consumatore rialzando i prezzi dei prodoi agricoli. Ma se si rialzano i prezzi dei prodoi agricoli, oerranno benefici eguali tanto i coltiva il terreno esente da decime quanto i coltiva il terreno gravato da decime. Per quest’ultimo, il rialzo dei prezzi non è altro e una compensazione per le decime e paga; per il primo, e non le paga, rappresenta un guadagno neo, e per questa ragione lo mee in grado (e se c’è libertà di concorrenza lo obbliga) a pagare al proprietario del terreno un affio adeguatamente maggiorato. Rimane la questione: a quale classe appartenga questa fallacia. La premessa è e il proprietario del terreno gravato da decime ne ricava una rendita minore del proprietario del terreno esente da decime; la conclusione è e, perciò, riceverebbe di meno di quanto non riceverebbe se la decima venisse abolita. Ma la premessa è vera soltanto a una condizione: e il proprietario dei terreni gravato da decime ne ricavi di meno di quanto non sia in grado di ricavarne il proprietario del terreno esente da decime, quando gli altri terreni siano gravati da decime; invece la conclusione viene applicata a uno stato di circostanze in cui questa condizione viene a mancare e in cui, di conseguenza, la premessa non sarà vera. Pertanto la fallacia è una fallacia a dicto secundum quid ad dictum simpliciter. Un terzo esempio è costituito dalla resistenza e talvolta si oppone alle interferenze legiime del governo negli affari economici della società, resistenza fondata su di una caiva applicazione della massima secondo cui l’individuo è miglior giudice del proprio interesse pecuniario di quanto non lo sia il governo. est’obiezione fu elevata al principio della colonizzazione formulato dal signor Wakefield1: secondo questo principio è necessario realizzare la concentrazione dei coloni fissando, per le terre non occupate, un prezzo tale da mantenere la proporzione oimale tra la quantità di terre coltivate e la popolazione dei lavoratori. Contro questo principio si obbieò e se gli individui trovassero e per loro è più vantaggioso occupare aree

molto estese di terreni, non gli si dovrebbe impedire di farlo, dal momento e del loro interesse personale i singoli sono giudici migliori di quanto non lo sia la legislazione, e può procedere soltanto per via di regole generali. Ma in quest’argomentazione si dimenticò e il fao e una persona s’appropri di una grossa area di terreno prova semplicemente e è suo interesse prenderne tanto quanto ne prendono gli altri, ma non prova e potrebbe non essere suo interesse accontentarsi di una quantità minore, se potesse essere sicuro e ane gli altri faranno così: e quest’assicurazione può dargliela soltanto una regolamentazione governativa. Se tui gli altri s’impadronissero di una grossa quantità di terra, e costui ne occupasse soltanto una piccola quantità, non mieterebbe nessuno dei vantaggi derivanti dalla concentrazione della popolazione e dalla conseguente possibilità di procurarsi mano d’opera salariata, ma con la sua condoa si sarebbe messo in una situazione di volontaria inferiorità senza peraltro riceverne una contropartita. Pertanto, la proposizione e la quantità di terreno di cui s’impadronirà la gente quando venga lasciata libera di prendersene quanta ne vuole, è la quantità e più d’ogni altra è conforme al loro interesse di prendere, è vera soltanto secundum quid: è nell’interesse della gente fin quando non abbiano garanzie sulla condoa altrui. Ma l’argomentazione trascura la limitazione, e considera questa proposizione come se fosse vera simpliciter. Una delle condizioni e si lasciano cadere più spesso, quando quella e altrimenti sarebbe una proposizione vera viene impiegata come una premessa per provare altre proposizioni, è la condizione del tempo. È un principio dell’economia politica e i prezzi, i profii, i salari, «trovano sempre il loro equilibrio»; ma spesso questo principio viene interpretato come se volesse dire e i prezzi, i profii, i salari, e via dicendo, sono sempre, o generalmente in equilibrio; la verità invece è, come la esprime epigrammaticamente Coleridge, e prezzi, profii e salari sono sempre sul punto di trovare l’equilibrio: «e questa potrebbe essere considerata come una parafrasi, o una definizione ironica, di “tempesta”». Soo il medesimo titolo, cioè soo il titolo della fallacia a dicto secundum quid ad dictum simpliciter, si potrebbero collocare tui gli errori e volgarmente vengono iamati caive applicazioni delle verità astrae: cioè, quando su un principio vero (come si dice comunemente) in astratto (cioè, sopra un principio e è vero supponendo e le cause modificanti siano

assenti) si ragiona come se fosse vero assolutamente, e non esistessero mai, neppure allo stato di possibilità, circostanze e possano modificarlo. Non è necessario e esemplifiiamo qui questa forma molto diffusa di errore, dal momento e ne traeremo particolareggiatamente in séguito, nella sua applicazione ad argomenti in cui è più frequente e più fatale: gli argomenti riguardanti la politica e la societàa. a. «ale volta, scrive il signor De Morgan nella Formal Logic (p. 270) un avvocato si rende colpevole dell’argomentazione a dicto secundum quid ad dictum simpliciter: è suo dovere fare tuo quello e il cliente potrebbe fare onestamente per se stesso. Non è forse vero e la parola qui scria in corsivo viene frequentemente tralasciata? Potrebbe, onestamente, un uomo fare per se stesso tuo quello e il suo avvocato spesso tenta di fare per lui? Spesso ci viene in mente la storia dei due uomini e avevano rubato una coscia di montone: uno poteva giurare di non averla, l’altro di non averla presa. L’avvocato sta facendo il proprio dovere per il suo cliente; il cliente ha messo la faccenda nelle mani del suo avvocato. Tra l’intenzione non auata del cliente e l’auazione non intesa dell’avvocato può darsi e sia stata commessa un’azione illegale e, se dobbiamo credere alla massima usuale, senza e nessuno l’abbia commessa». Il medesimo autore osserva giustamente (p. 251) e c’è una fallacia inversa: la fallacia a dicto simpliciter ad dictum secundum quid, e viene iamata dai logici Scolastici fallacia accidentis, e un’altra fallacia e si può iamare a dictum secundum quid ad dictum secundum alterum quid (p. 265). Per trovare esemplificazioni opportune di entrambe queste fallacie devo rimandare il leore al bel capitolo sulle fallacie contenuto nel libro del signor De Morgan. 1. Edward Gibbon Wakefield (1796-1862), statista inglese, promotore della colonizzazione della Nuova Zelanda; fu segretario alla legazione britannica a Torino, fino al 1820. Nel 1827 fu imprigionato per rao di minorenne; in carcere scrisse Letters from Sydney [Lettere da Sydney] (1829), in cui individuava le cause del lento progresso della colonia australiana nella tendenza al latifondo dimostrata in quel continente dalla proprietà terriera. Dopo la sua liberazione scrisse un traato su Facts Relating to the Punishment of Death in the Metropolis [Fatti concernenti la pena di morte nel territorio metropolitano]. La sua competenza negli affari coloniali fece una grossa impressione su Stuart Mill e su altri economisti dell’epoca, e Wakefield divenne presto uno dei maggiori esponenti della South Australian Company; nel 1833 pubblicò un traato anonimo dal titolo England and America, in cui sviluppava le sue teorie colonialistie; nel 1846 pubblicò le sua opera maggiore: Art of Colonization [Arte della colonizzazione].

CAPITOLO VII. FALLACIE DI CONFUSIONE 1. In questa quinta e ultima classe converrà disporre tue quelle fallacie in cui la fonte dell’errore è costituita, non tanto da una falsa stima della forza probante delle prove note, quanto piuosto da una concezione indistinta, indefinita e fluuante di quello e la prova è. Alla testa di queste fallacie sta quel corpo multiforme di ragionamenti fallaci nei quali la fonte dell’errore è l’ambiguità dei termini e e si commeono quando, su qualcosa e sarebbe vero se una parola venisse usata in un senso particolare, si ragiona come se la cosa fosse vera in un senso differente. In un caso del genere non c’è una stima errata delle prove peré, per parlar propriamente, sul punto in questione non ci sono prove affao: ci sono bensì prove, ma queste riguardano un punto differente e si ritiene e sia il medesimo soltanto peré si ha una nozione confusa del significato dei termini impiegati. Naturalmente, quest’errore verrà commesso più sovente nei nostri ragionamenti deduivi e non nelle nostre induzioni diree, peré nei primi noi decifriamo le annotazioni nostre o degli altri, mentre nelle seconde ai sensi o alla memoria sono presenti le cose stesse, tranne quando la deduzione proceda, non dai casi particolari a una generalità, ma da certe generalità a una generalizzazione ancora più alta; in questo caso la fallacia d’ambiguità può colpire tanto il processo induivo quanto il processo deduivo. Nel ragionamento deduivo la fallacia si presenta in due modi: quando il termine medio è ambiguo, o quando uno dei termini del sillogismo viene preso in un senso nelle premesse e in un altro senso nella conclusione. Alcune esemplificazioni di questa fallacia sono state date dall’arcivescovo Whately. «Un caso, egli dice, e può essere considerato come ricadente soo il titolo di “ambiguità del medio” è quello e, io credo, gli scriori di logica intendono con fallacia figurae dictionis: cioè la fallacia costruita sulla struura grammaticale del linguaggio e e trae la sua origine dal fao e di solito gli uomini danno per scontato e le parole paronime (o coniugate) — cioè quelle parole e si adaano l’una all’altra, come il sostantivo, l’aggeivo, il verbo, ecc. derivanti dalla medesima radice — abbiano un significato esaamente corrispondente; cosa, questa, e invece non è affao

vera universalmente. In realtà, una fallacia di questo genere non potrebbe neppure essere esibita in forma logica rigorosa: infai, il meerla in tale forma c’impedirebbe addiriura di tentar di commeerla, dal momento e l’argomentazione avrebbe due termini medi sia dal punto di vista del suono sia dal punto di vista del senso. In pratica, però, nulla è più comune e il variare continuamente i termini impiegati, prestando un ocio alla convenienza grammaticale. E fin tanto e si mantiene inalterato il significato, in questa pratica non c’è neppure nulla di scorreo; per esempio: “l’assassinio dev’essere punito con la morte; quest’uomo è un assassino, pertanto merita di morire”, eccetera. i procediamo in base all’assunzione (e in questo caso è giustificata) e commeere un assassinio ed essere un assassino, meritare la morte ed essere uno e dovrebbe morire, siano, rispeivamente, espressioni equivalenti; e spesso l’essere privati di questa specie di libertà si dimostrerebbe estremamente scomodo; tuavia l’abuso di questa libertà dà origine alla fallacia in questione. Per esempio, “Chi fa progei campati in aria non è degno di fiducia; costui ha fao un progeo, quindi non è degno di fiducia”. i il sofista procede in base all’ipotesi e i fa progei debba per forza far progei campati in aria, laddove il senso negativo e di solito è connesso con quest’ultima espressione non è affao contenuto nella prima1. Spesso possiamo ritenere e questa fallacia non risieda nel medio, ma in uno dei termini della conclusione, cosicé la conclusione e si trae da un ragionamento siffao non sarà, in realtà, affao garantita dalle premesse, bené sembri esserlo a causa dell’affinità grammaticale tra le parole: per esempio, l’aver familiarità con il colpevole è una presunzione di colpa; quest’uomo ha familiarità con il colpevole, perciò possiamo presumere e sia colpevole. est’argomentazione procede in base all’ipotesi e esista una corrispondenza esaa tra “presumere” e “presunzione”, corrispondenza e invece non esiste nella realtà. Infai, il termine “presunzione” viene usato comunemente per esprimere una specie di leggero sospetto, mentre “presumere” equivale alla credenza vera e propria. Ci sono innumerevoli casi di non-corrispondenza tra parole paronime, casi e sono simili a quelli esemplificati qui sopra, come: tra “arte” e “artificiale”, “trama” e “tramare”2, “fede” e “fedele”3: e quanto più leggere sono le variazioni nel significato, tanto più è probabile e la fallacia abbia successo; infai, quando il senso delle parole sia diventato così remoto,

come in “pietà” e “pietoso”, tui sono in grado di rendersi conto della fallacia, e nessuno l’impiegherebbe se non in tono serzosoa. La fallacia di cui stiamo parlando è streamente collegata con quella fondata sopra l’etimologia (o piuosto, potrebbe forse essere considerata come una sua derivazione), vale a dire con quella fallacia e si commee quando un termine viene usato una volta nel suo senso solito e un’altra volta nel suo senso etimologico. Forse non si può trovare nessun esempio di questa fallacia e sia impiegato in modo più diffuso e più funesto del caso della parola “rappresentativo”; assumendo e il significato correo della parola “rappresentativo” debba corrispondere esaamente al senso originario e rigoroso del verbo “rappresentare” il sofista persuade la moltitudine e un membro della Camera dei Comuni è vincolato a lasciarsi guidare in tuo e per tuo dalla volontà dei suoi eleori e, in breve, ad essere semplicemente il loro portavoce; laddove la legge e l’uso, e in questo caso può essere considerato come ciò e stabilisce il significato del termine, non riiedono nulla del genere, ma ingiungono al rappresentante di agire secondo il meglio del proprio giudizio, e in base alla propria responsabilità». Gli esempi e seguono sono di grande importanza pratica: in essi le argomentazioni sono fondate abitualmente sopra un’ambiguità verbale. Il pubblico dei commercianti si lascia frequentemente indurre in questa fallacia dalla frase «scarsità di danaro». Nel linguaggio del commercio «danaro» ha due significati: danaro corrente, vale a dire il mezzo in circolazione; capitale in attesa d’investimento, e specialmente d’investimento su prestito. In quest’ultimo senso si usa la parola quando si parla di «mercato monetario» e quando si dice e «il costo del danaro» è alto o basso, intendendo con questo il tasso d’interesse. La conseguenza di quest’ambiguità è e, non appena cominci a farsi sentire la scarsità di danaro nell’ultimo di questi due sensi — non appena, in altre parole, ci siano difficoltà nell’oenere prestiti e il tasso d’interesse sia alto — si conclude e la cosa deve nascere da cause e agiscono sulla quantità di danaro nell’altro senso, più popolare, del termine «danaro»; e forse la quantità del mezzo in circolazione è diminuita, e e pertanto tale quantità dovrebbe essere aumentata. Sono ben consapevole e, indipendentemente dal doppio significato del termine, nei fai medesimi ci sono alcune peculiarità e dànno un apparente sostegno a quest’errore; ma l’ambiguità del linguaggio

sta sulla soglia stessa dell’argomento, e si frappone a tui i tentativi di geare luce su di esso. Un’altra espressione ambigua, e incontriamo continuamente nelle controversie politie del tempo presente, e specialmente in quelle e si riferiscono a cambiamenti organici, è la frase «influenza della proprietà», e quale volta s’usa per indicare l’influenza esercitata dal rispeo e l’intelligenza superiore impone, o la gratitudine per la specie di offici e le persone dotate di larghi mezzi hanno così grande potere di prestare; altre volte la si usa per indicare l’influenza del timore: timore e una grossa proprietà conferisca al suo possessore ane la peggior sorta di potere: vale a dire il potere di far torti ai propri dipendenti. La confusione tra questi due significati dà luogo a quella fallacia d’ambiguità e si oppone costantemente a coloro e cercano di purificare il sistema eleorale dalla corruzione e dall’intimidazione. L’influenza della persuasione, agendo araverso la coscienza dell’eleore e trascinando con sé il suo cuore e la sua mente è un’influenza benefica; perciò (si sostiene) l’influenza della coercizione, e costringe l’eleore a dimenticare di essere un agente morale, o lo costringe ad agire contro le sue convinzioni morali, non dovrebbe essere sooposta a restrizioni. Un’altra parola e spesso viene tramutata in uno strumento della fallacia di ambiguità è la parola «teoria». Nella sua accezione più appropriata, «teoria» significa il risultato completo dell’induzione filosofica, traa dall’esperienza. In questo senso, ci sono tanto teorie erronee quanto teorie vere, peré l’induzione può essere compiuta in modo scorreo, ma una teoria, di una specie o dell’altra, è il risultato inevitabile del fao e si conosca qualcosa su un certo argomento, e e si sia messa la propria conoscenza in forma di proposizioni generali per la guida della condoa pratica. In questo senso, e è il senso proprio della parola, «teoria» è la spiegazione della pratica. In un senso diverso e più popolare, «teoria» significa qualsiasi pura e semplice finzione prodoa dall’immaginazione, e invece di esaminare il modo in cui una certa cosa è stata prodoa nella realtà, si sforzi di concepire come mai quella cosa possa essere stata prodoa. Soltanto in quest’ultimo senso le teorie e i teorici sono guide malsicure. Ma per colpa di esso si tenta di geare ridicolo o discredito sulle teorie nel senso proprio della parola, vale a dire sopra le generalizzazioni legiime, e sono lo scopo e il fine di tua la filosofia; e una conclusione viene presentata come priva di valore, soltanto peré è stato fao quello

e, se vien fao correamente, costituisce il massimo valore e un principio possa mai avere per la guida della condoa pratica: quello, cioè, di comprendere in poe parole la legge reale da cui dipende un certo fenomeno, o da cui dipendono quale proprietà o quale relazione e valgono universalmente per quel fenomeno. Talvolta «la Chiesa» s’intende come se significasse soltanto il clero, quale altra volta come se significasse l’intiero corpo dei credenti, o almeno dei praticanti. Le enfatie diiarazioni sull’inviolabilità delle proprietà ecclesiastie devono la maggior parte della loro forza apparente a quest’ambiguità. I sacerdoti, e vengono iamati «la Chiesa» dovrebbero essere i reali proprietari di quella e viene iamata «proprietà ecclesiastica», mentre, in realtà, non sono altro e i membri amministratori, e rappresentano un corpo di proprietari molto più grande, e e, da parte loro, godono di un puro e semplice usufruo, e non va più in là di un interesse vitalizio. L’argomentazione e segue è dovuta agli Stoici, ed è stata traa da Cicerone, De finibus, Libro terzo, «od est bonum, omne laudabile est. od autem laudabile est, omne honestum est. Bonum igitur quod est, honestum est»4. i la parola ambigua è laudabile, e nella premessa minore significa tuo ciò e l’umanità è abituata, per buone ragioni, ad ammirare e ad apprezzare — per esempio, la bellezza e la buona fortuna — ma e nella maggiore denota esclusivamente qualità morali. Esaamente nella medesima maniera gli Stoici pensavano di giustificare logicamente, come verità filosofie, le espressioni figurate e retorie del sentimento etico, come: l’uomo virtuoso è il solo libero, il solo bello, il solo re, ecc. Chiunque possieda la virtù possiede il Bene (peré in precedenza s’era stabilito di non iamare «bene» nient’altro e non fosse la virtù); ma, ancora: il Bene include necessariamente libertà, bellezza e ane regalità; e tue queste cose sono buone: perciò, iunque possegga la virtù possiede ane tue queste cose. L’argomentazione e segue è usata da Descartes per provare, nella sua maniera a priori, l’esistenza di un dio. Il conceo, egli dice, di un essere infinito, prova l’esistenza reale di un tale essere. Peré, se un tale essere non esistesse nella realtà, io dovrei aver creato il conceo; ma se io posso crearlo, allora posso ane disfarlo, il e evidentemente non è vero. Perciò fuori di me dev’esserci un aretipo dal quale è stato derivato il conceo. In quest’argomentazione (e, come si può osservare, riuscirebbe altreanto

bene a provare l’esistenza reale dei fantasmi e delle streghe) l’ambiguità risiede nel pronome «io «con il quale si deve intendere, in un posto, la mia volontà, in un altro, le leggi della mia natura. Se il conceo — esistendo, come esiste, nella mia mente — non avesse alcun originale fuori di sé, seguirebbe indubbiamente la conclusione e l’ho fao io; vale a dire, e in un modo o nell’altro devono averlo creato le leggi della mia natura; ma non seguirebbe e l’ha fao la mia volontà. Ora, quando in séguito aggiunge e io non posso disfare il mio conceo, Descartes vuol dire e non posso liberarmene con un ao della mia volontà. esto è vero: ma la proposizione di cui avevamo bisogno non è questa. Posso disfare questo conceo proprio come posso disfare qualsiasi altro conceo: una volta e ho avuto un conceo non posso licenziarlo con una pura e semplice volizione: ma quello e alcune delle leggi della mia natura hanno prodoo, altre leggi, o quelle medesime leggi in circostanze diverse, possono in séguito cancellare: e spesso lo cancellano. Analoghe a questa, sono alcune delle ambiguità nella controversia sul libero arbitrio, e io menziono qui soltanto memoriae causa, dal momento e riserveremo loro una considerazione speciale nel Libro conclusivo. Ane in questa discussione la parola «io» viene spesso faa passare da un significato all’altro: una volta sta per le mie volizioni, un’altra per le azioni e conseguono alle mie volizioni o per le disposizioni mentali dalle quali procedono le mie volizioni. est’ultima ambiguità è esemplificata in un’argomentazione di Coleridge a sostegno del libero arbitrio, argomentazione contenuta nel suo libro Aids to Reflection [Aiuti per la riflessione]. Non è vero, dice Coleridge, e l’uomo sia governato dai motivi. «L’uomo fa il motivo, non il motivo l’uomo». La prova è e «quello e per un certo uomo è un forte motivo, per un altro uomo non è un motivo affao». La premessa è vera, ma equivale solamente a questo: e persone differenti sono susceibili al medesimo motivo in gradi differenti così come sono susceibili in gradi differenti al medesimo liquido inebriante: il e tuavia non prova e siano liberi di ubriacarsi o di non ubriacarsi quale e possa essere la quantità di liquido e ingeriscono. ello e viene provato è e, insieme con il motivo esterno, al compimento dell’ao devono cooperare certe condizioni mentali proprie della persona stessa; ma queste condizioni mentali sono an’esse effei di cause; e nell’argomentazione non c’è nulla e provi e tali effei possono sorgere quando cause non ce ne

sono; e, come suppone la teoria del libero arbitrio, abbia mai luogo una determinazione spontanea della volontà, del tuo priva di cause. Il duplice uso, nella controversia sul libero arbitrio, della parola «necessità», e quale volta sta soltanto per «certezza», quale altra volta, invece, per «costrizione», quale volta per quello e non può essere evitato, quale altra volta ancora soltanto per quello e abbiamo ragione di essere sicuri e non sarà evitato, sarà preso in esame in séguito, quando se ne presenterà l’occasione; e qui sarà seguito fino ad alcune delle sue conseguenze estreme. Un’ambiguità estremamente più importante, sia nel linguaggio comune sia nel linguaggio della metafisica, è messa così in evidenza dall’arcivescovo Whately, nell’Appendice alla sua Logic. «La parola “medesimo” (come pure le parole “uno solo”, “identico”, e altre parole derivate da queste) viene usata frequentemente in un senso molto diverso dal suo senso primario, in quanto applicabile a un oggeo singolo. ando pareci oggei sono tanto simili da non poter essere distinti, per ciascuno di essi varrà egualmente una singola descrizione; quindi si dice e tui questi oggei sono di una sola e medesima natura, di un solo e medesimo aspeo esterno, e via discorrendo. Così, per esempio, quando diciamo: “esta casa è costruita con la medesima pietra con cui è costruita quell’altra”, intendiamo semplicemente dire e le pietre non possono essere distinte per le loro qualità, non e è stato abbauto un certo edificio e e l’altro è stato costruito con i materiali di recupero. Invece nel suo senso primario “medesimezza” non implica necessariamente neppure somiglianza, peré, se diciamo di un certo uomo e è molto cambiato da quello e era quale tempo fa, con la stessa espressione intendiamo, e in realtà impliiamo, e è una sola persona, ane se differente per parecie qualità. Vale la pena osservare ane e, secondo l’uso popolare, “medesimo” nel suo senso secondario ammee gradi: parliamo di due cose e sono quasi, ma non del tuo, la medesima cosa: l’identità personale invece non ammee gradi. Nulla, forse, ha contribuito all’errore del realismo più di quanto vi ha contribuito il fao e non si sia prestata aenzione a quest’ambiguità. ando si dice e parecie persone hanno una sola e medesima opinione, un solo e medesimo pensiero, una sola e medesima idea, molti, trascurando la vera e semplice enunciazione del caso — cioè, e tutti pensano al medesimo modo — vanno a cercare qualcosa di più astruso e di mistico e immaginano e debba

esserci Una Cosa, nel senso primario del termine, e magari non è una cosa individuale, ma è presente simultaneamente nella mente di ciascuna di queste persone; e di qui saltò fuori immediatamente la teoria platonica delle idee ciascuna delle quali sarebbe, secondo Platone, un solo oggeo reale, eterno, esistente, intiero e completo, in ciascuno degli oggei individuali e sono conosciuti con un solo nome». In realtà, e la dorina platonica delle idee e la dorina aristotelica delle forme sostanziali e delle sostanze seconde (per questo aspeo simile alla dorina platonica) si siano sviluppate, nel modo e abbiamo indicato prima, dalla supposta necessità di trovare nelle cose di cui si diceva e avessero la medesima natura o le medesime qualità, qualcosa e fosse il medesimo esaamente nel senso in cui un uomo è la medesima cosa con se stesso, non è una semplice illazione, ma un dato storicamente accertato. Tue le oziose speculazioni sul τò ὄν, τò ἔν, τò ὁµoίoν5 e su astrazioni simili, così comuni tra gli antii e in alcune scuole moderne di pensiero, scaturirono dalla medesima fonte. I logici aristotelici s’avvidero però di un caso di quest’ambiguità e presero provvedimenti contro di esso con quella loro mano particolarmente felice nell’inventare un linguaggio tecnico, facendo una distinzione tra le cose e differiscono sia specie sia numero e le cose e differiscono numero tantum, vale a dire e sono esaamente simili (almeno per quale aspeo particolare) ma sono individui ben distinti. Se questa distinzione fosse stata estesa ai due significati della parola «medesimo», cioè: cose e sono medesime specie tantum e cose e sono le medesime tanto numero quanto specie, si sarebbe evitata quella confusione e è stata la fonte di tanta oscurità e di tanta abbondanza di veri e propri errori nella filosofia metafisica. Uno degli esempi più singolari, e ci mostra fino a qual punto un eminente pensatore possa lasciarsi trascinare da un’ambiguità del linguaggio, ci è fornito proprio da questo caso. Mi riferisco alla famosa argomentazione con la quale il vescovo Berkeley si vantava d’aver messo per sempre la parola «fine» allo «sceicismo, all’ateismo e alla mancanza di religione». In breve, l’argomentazione è la seguente: ieri ho pensato a una cosa; ho smesso di pensarci; ci penso di nuovo oggi. Perciò, ieri avevo nella mia mente un’idea dell’oggeo; ho un’idea dell’oggeo ane oggi; evidentemente quest’idea non è diversa da quella e avevo ieri, ma è proprio la medesima idea. Tuavia è trascorso un certo intervallo di tempo

in cui non ce l’avevo. Dov’era l’idea durante quest’intervallo? Da quale parte deve pur essere stata; non ha cessato d’esistere, altrimenti l’idea e avevo ieri non potrebbe essere la medesima; non più di quanto l’uomo e vedo vivo e vegeto oggi possa essere il medesimo e ho visto ieri, se l’uomo nel fraempo fosse morto. Ora non si può concepire e un’idea possa esistere in un altro luogo e non sia una mente; quindi deve esistere una mente universale, in cui tue le idee hanno la loro residenza permanente durante gl’intervalli di tempo in cui non sono presenti consciamente alle nostre menti. È evidente e qui Berkeley confondeva l’identità numero con l’identità specie, vale a dire con la somiglianza esaa, ed assumeva e ci fosse la prima quando invece c’era soltanto la seconda, non rendendosi conto e quando diciamo e oggi abbiamo il medesimo pensiero e avevamo ieri non intendiamo il medesimo pensiero individuale, ma un pensiero esaamente simile, così come, quando diciamo e abbiamo la medesima malaia e avevamo l’anno scorso, intendiamo semplicemente e abbiamo la stessa sorta di malaia. In un altro caso degno di nota, il mondo degli uomini di scienza fu diviso in due partiti furiosamente ostili da un’ambiguità linguistica e colpiva una branca della scienza e più di ogni altra gode il vantaggio di una terminologia precisa e ben definita. Mi riferisco alla famosa disputa a proposito della vis viva, la cui storia viene narrata con abbondanza di particolari nella Dissertation del professor Playfair. La questione era se la forza di un corpo in movimento sia proporzionale (data la massa del corpo) semplicemente alla sua velocità, o se non sia invece proporzionale al quadrato della sua velocità. L’ambiguità risiedeva nella parola «forza». «Uno degli effei», scrive il professor Playfair, «prodoi da un corpo in movimento è proporzionale al quadrato della velocità, mentre un altro effeo è proporzionale semplicemente alla velocità»; di qui i pensatori e avevano le idee più iare furono successivamente indoi a stabilire una doppia misura dell’azione di una forza motrice: una iamata vis viva, e l’altra momentum. Per quanto riguarda i fai, i due partiti erano d’accordo fin dall’inizio: la sola cosa in questione era a quale dei due effei si dovesse, o fosse più conveniente, associare il termine «forza». Ma i contendenti non si rendevano affao conto e le cose finivano lì: pensarono e la forza fosse una cosa e la produzione degli effei un’altra; e la questione: da quale

insieme di effei dovesse essere misurata la forza e produce l’uno o l’altro, veniva ritenuta non già una questione di terminologia, ma una questione di fao. L’ambiguità della parola «infinito» costituisce la vera e propria fallacia nel divertente rompicapo logico di Aille e della tartaruga, rompicapo e si è rivelato troppo ostico per l’ingegno o per la pazienza di molti filosofi, e e un pensatore del calibro niente meno e di Sir William Hamilton considerava insolubile, in quanto si traerebbe di un’argomentazione valida e tuavia conduce a una palpabile falsità. Come suggerì Hobbes, la fallacia risiede nella tacita assunzione e tuo quello e è infinitamente divisibile sia infinito; ma la seguente soluzione (e peraltro non pretendo affao di aver inventato io) è più precisa e più soddisfacente. L’argomentazione procede nel modo e segue. Supponiamo e Aille corra dieci volte più velocemente della tartaruga; tuavia, se la tartaruga parte per prima, Aille non la raggiungerà mai. Supponiamo infai e alla partenza Aille e la tartaruga siano separati da un intervallo di mille piedi; quando Aille avrà percorso, correndo, i primi mille piedi, la tartaruga ne avrà percorsi cento; quando Aille avrà percorso quei cento piedi, la tartaruga ne avrà percorsi dieci, e così via, per sempre. Pertanto Aille può correre per sempre, ma non raggiungerà mai la tartaruga. Ora, nella conclusione il «per sempre» significa: per qualsiasi intervallo di tempo possiamo assumere; invece nelle premesse «sempre» non significa un qualsiasi intervallo di tempo, ma significa un qualsiasi numero di suddivisioni di un intervallo di tempo dato. Significa e possiamo dividere mille piedi per dieci, e possiamo dividere questo quoziente ancora per dieci, e così via, per tante volte quante ci piace; e non ci sarà necessariamente un termine alle suddivisioni di questa distanza, né, di conseguenza, alle suddivisioni del tempo nel quale questa distanza viene percorsa. Ma di ciò e è di per se stesso limitato si può fare un numero illimitato di suddivisioni. L’argomentazione non prova altra infinità di durata se non quella e può essere abbracciata da cinque minuti. Fin quando i cinque minuti non siano spirati, quello e ne rimane può essere diviso per dieci, e poi ancora per dieci, e così via a nostro piacimento, e questo è perfeamente compatibile con il fao e i minuti, presi tui insieme, sono soltanto cinque minuti. In breve, l’argomentazione prova e per araversare questo spazio finito è indispensabile un tempo infinitamente divisibile, ma non prova e è

indispensabile un tempo infinito; distinzione, questa, nella cui confusione Hobbes aveva già individuato il succo della fallacia. Le seguenti ambiguità della parola «dirio» (e si aggiungono a quella, ovvia e familiare, tra il sostantivo «dirio» e l’aggettivo «dirio») sono state trae da un mio articolo, ormai dimenticato, comparso in un periodico: «Dal punto di vista della morale, si dice e tu hai il dirio di fare una certa cosa quando tue le persone sono moralmente obbligate a non impedirti di farla. Ma, in un altro senso, avere il dirio di fare una certa cosa è l’opposto del non avere nessun dirio di farla, cioè dell’essere sooposto all’obbligo morale di evitare di farla. In questo senso, il dire e tu hai un dirio di fare una certa cosa, significa e puoi fare quella cosa senza infrangere nessun dovere da parte tua; e le altre persone, non soltanto non devono impedirti di farla, ma non hanno nessuna ragione di pensar male di te peré l’hai faa. esta è una proposizione neamente distinta dalla proposizione precedente. Il dirio e tu hai, in virtù di un dovere e incombe su altre persone, è, ovviamente, una cosa del tuo diversa dal dirio e consiste nell’assenza di un qualsiasi dovere da parte tua. Tuavia, le due cose vengono continuamente confuse. Così un uomo dirà di avere il dirio di rendere pubblie le proprie opinioni, e questo può essere vero nel senso e qualsiasi altra persona e interferisse con la loro manifestazione, o l’impedisse, violerebbe il proprio dovere; ma, su questa base, quell’uomo assume e nel rendere manifeste le proprie opinioni non viola, da parte sua, nessun dovere; e questo può essere vero o falso, secondo e si sia dato o non si sia dato la pena di assicurarsi, in primo luogo, e le sue opinioni sono vere, e, in secondo luogo, e la loro manifestazione in questa maniera e in questo particolare concorso di circostanze, arreerà probabilmente un beneficio agli interessi della verità in generale. La seconda ambiguità è quella e consiste nel confondere un dirio di qualsiasi specie con il dirio di rendere operante quel dirio resistendo a una violazione, oppure punendola. Si dirà, per esempio, e la gente ha dirio a un buon governo, e questo è innegabilmente vero, dal momento e è dovere morale dei governanti il governare bene i propri sudditi. Ma si suppone e ammeendo ciò tu abbia ammesso il dirio, ossia la libertà, dei sudditi di destituire i loro governanti e magari ane di punirli quando abbiano mancato di compiere il loro dovere; e questo, lungi dall’essere la medesima cosa, non è affao vero universalmente, ma dipende da un numero immenso di circostanze variabili» e devono essere

coscienziosamente soppesate prima e si adoi una risoluzione del genere, o si agisca in base ad essa. est’ultimo esempio (come altri e sono stati citati) è un caso di fallacia dentro la fallacia: non contiene soltanto la seconda delle ambiguità e abbiamo indicato, ma contiene ane la prima. Una forma non insolita della fallacia di ambiguità dei termini è nota, tecnicamente, come la fallacia di composizione e divisione: questa fallacia si commee quando il medesimo termine è preso colleivamente nelle premesse e distributivamente nella conclusione, e viceversa; oppure, quando il termine medio è preso colleivamente in una delle premesse e distributivamente nell’altra. Come se uno dicesse (e cito dall’Arcivescovo Whately): «Tui gli angoli di un triangolo sono eguali a due angoli rei; ABC è un angolo di un triangolo, perciò ABC è eguale a due rei… Non c’è fallacia più comune, o dalla quale sia più facile lasciarsi ingannare, della fallacia e abbiamo appena descrio. La forma in cui viene impiegata con maggior frequenza è quella e consiste nel provare quale verità e concerne ciascun singolo membro di una certa classe, preso separatamente, e nell’inferire, di qui, la stessa cosa del tutto, preso collettivamente. Come nell’argomentazione, e quale volta sentiamo usare per provare e il mondo potrebbe far senza i grandi uomini. Se Colombo (si dice) non fosse mai vissuto, l’America sarebbe stata scoperta egualmente, al massimo sarebbe stata scoperta soltanto poi anni dopo. Se Newton non fosse mai esistito, la legge della gravitazione sarebbe stata scoperta da qualcuno altro, e così via. Verissimo: queste cose sarebbero state fae, ma con tua probabilità non sarebbero state fae fin quando non si fosse di nuovo trovato qualcuno e avesse le medesime qualità di Colombo o di Newton. Dal fao e un qualsiasi grand’uomo sarebbe potuto essere sostituito da un qualsiasi altro grand’uomo, l’argomentazione conclude e si sarebbe benissimo potuto fare a meno di tui i grandi uomini. Il termine “grandi uomini” è preso distributivamente nelle premesse e colleivamente nella conclusione. «Tale è ane la fallacia e probabilmente opera sulla maggior parte di quelli e s’avventurano a giocare nelle loerie. Per esempio: “La vincita di un grosso premio non è un avvenimento eccezionale; e quello e non costituisce un avvenimento eccezionale possiamo ragionevolmente aspearcelo. Pertanto ci si può ragionevolmente aspeare la vincita di un grosso premio”. ando venga applicata all’individuo (come accade in pratica) la conclusione dev’essere intesa nel senso di “ragionevolmente

aspeato da un certo individuo”; di conseguenza, peré la premessa maggiore sia vera, si deve intendere il termine medio come se significasse: “non è un evento eccezionale per una certa persona particolare”, laddove, peré sia vera la minore (e qui è stata messa davanti alla maggiore) si deve intendere “non è un avvenimento insolito per questa o per quest’altra persona”: e così avrete la fallacia di composizione. Si traa di una fallacia con la quale gli uomini sono disposti a ingannare se stessi con estrema facilità: infai, quando alla mente viene presentata una grande quantità di particolari, molti sono troppo deboli o troppo indolenti per dar loro uno sguardo comprensivo, ma restringono la loro aenzione a ciascun singolo punto alla volta; e poi decidono, inferiscono, e agiscono in conseguenza. Per esempio, trovando e può permeersi questa, o quella, o quell’altra cosa, lo spendaccione imprudente dimentica e tutte le spese, fatte insieme, lo manderanno in rovina». Il licenzioso distrugge la propria salute con ai successivi d’intemperanza, peré nessuno di questi ai, preso singolarmente, sarebbe di per se stesso sufficiente a recargli un danno serio. Un malato ragiona tra sé e sé: «esto, quest’altro e quest’altro ancora dei miei sintomi non provano e io sia affeo da una malaia fatale», e conclude, in pratica, e tui questi sintomi, presi insieme, non lo provano. 2. Ora abbiamo esemplificato sufficientemente uno dei principali generi di quest’ordine di fallacie, in cui, siccome la fonte dell’errore è l’ambiguità dei termini, soltanto verbalmente, ma non di fao le premesse sono quello e ci vuole per sostenere la conclusione. Nella seconda grande fallacia di confusione le premesse non sono sufficienti a sostenere la conclusione né verbalmente né di fao, ane se, a causa della loro molteplicità e della confusione e sussiste nel modo in cui sono ordinate, e, ancor più spesso, a causa di difei di memoria, non li si vede per quello e sono. La fallacia di cui sto parlando è quella della petitio principii; ossia, quella fallacia in cui si assume come vero quello e si deve provare; e questa fallacia comprende la varietà più complessa e meno insolita di quello e si iama il ragionamento circolare. Secondo la definizione datane dall’arcivescovo Whately, la petitio principii è la fallacia «in cui la premessa o è manifestamente la stessa cosa della conclusione, o viene effeivamente provata a partire dalla conclusione, o è tale e sarebbe proprio e naturale provarla in questo modo»b. Con

quest’ultima asserzione suppongo e l’arcivescovo Whately intenda e la proposizione non è susceibile di essere provata; infai, se così non fosse, non ci sarebbe fallacia. Spesso il dedurre da una proposizione certe altre proposizioni dalle quali sarebbe più naturale e venisse dedoa la prima proposizione, costituisce una deviazione lecita dall’ordine didaico consueto; o, al massimo, si traa di quella e, adaando una frase familiare ai matematici, si può iamare un’ineleganza logica. L’impiegare una proposizione per provare quello da cui la proposizione stessa dipende quanto alla sua prova non implica affao quel grado d’imbecillità mentale e a prima vista si potrebbe supporre e implii. Le difficoltà e s’incontrano nel comprendere come mai questa fallacia possa venir commessa spariscono quando rifleiamo sul fao e tue le persone, ane quelle istruite, posseggono un gran numero d’opinioni senza peraltro ricordarsi esaamente di come siano arrivati a possederle. Credendo d’avere verificato queste opinioni in quale tempo precedente, per mezzo di prove sufficienti, ma avendo dimenticato quali fossero le prove, è facile e possano tradirsi ed essere indoi a dedurre da queste opinioni quelle stesse proposizioni e sono le sole e possano fungere da premesse per la loro dimostrazione. «Come se, dice l’arcivescovo Whately, si tentasse di provare l’esistenza di un dio a partire dall’autorità delle Sacre scriure», cosa, questa, e potrebbe accadere facilmente a uno per cui entrambe le dorine, in quanto dogmi fondamentali del suo credo religioso, stessero sul medesimo piano, in quanto credenza familiare e tradizionale. L’argomentare in circolo, comunque, è il caso più forte di questa fallacia e implica qualcosa di più e non la pura e semplice recezione passiva di una premessa da parte di uno e non ricordi come la si debba provare. Implica un vero e proprio tentativo di provare reciprocamente due proposizioni, l’una in base all’altra; e raramente, nelle sue proprie speculazioni, una persona fa ricorso a tale ragionamento, per lo meno in termini espliciti; quest’errore viene invece commesso da coloro e, essendo duramente incalzati da un avversario, sono costrei a dar ragioni di un’opinione della quale, quando avevano cominciato a discutere, non avevano preso in sufficiente considerazione i fondamenti. esto accade nell’esempio e segue, citato dall’arcivescovo Whately: «alcuni meccanici tentano di provare (cosa e invece dovrebbero enunciare come un’ipotesi, probabile ma dubbiac) e ogni particella di materia gravita in modo eguale. “Peré?”, “Peré quei corpi e contengono un numero maggiore di particelle

gravitano più fortemente, cioè sono più pesanti”; “ma”, si potrebbe obbieare, “non sempre i corpi e sono più pesanti sono quelli e hanno massa maggiore”; “no, ma contengono un numero maggiore di particelle, ane se più condensate”; “come fai a saperlo?” “Peré sono più pesanti”. “Come puoi provare una cosa del genere?” “Peré tue le particelle di materia gravitano in modo eguale, e quindi la massa specifica più pesante deve necessariamente contenere, nel medesimo volume, la quantità maggiore di particelle”». È iaro, per me, e se pensasse tra sé e sé, probabilmente l’autore del ragionamento fallace non andrebbe più in là del primo passo. Si riterrebbe soddisfao e sia sufficiente la ragione data per prima: «Corpi e contengono un numero maggiore di particelle sono più pesanti». Soltanto quando trova e questa proposizione viene messa in dubbio ed è invitato a provarla senza peraltro e lo sappia fare, tenta di fondare questa sua premessa supponendo e sia provato quello e invece sta tentando di provare per suo mezzo. Infai, quando le circostanze lo permeano, il modo più efficace per denunciare una petitio principii consiste nello sfidare l’autore del ragionamento a provare le proprie premesse: quando tenterà di farlo sarà necessariamente costreo ad argomentare in circolo. Accade non di rado, però, e persino nei loro pensieri privati, i pensatori — e non certo i pensatori appartenenti alle categorie più basse — siano indoi, magari non a provare formalmente ciascuna delle due proposizioni in base all’altra, ma ad ammeere proposizioni e possono essere provate soltanto in questo modo. Nell’esempio precedente, le due proposizioni prese insieme formavano una spiegazione completa e coerente, ane se ipotetica, dei fai di cui si stava parlando. E la tendenza a scambiare erroneamente la compatibilità reciproca per verità, ad affidare la propria sicurezza a una catena, e per quanto solida sia non ha alcun punto d’appoggio, sta alla base di molti di quei ragionamenti e, ridoi alle forme rigorose dell’argomentazione, non possono manifestarsi altrimenti e come ragionamenti circolari. Tua la nostra esperienza reca testimonianza di quanto sia seducente l’effeo esercitato su di noi da una nitida concatenazione di un sistema di dorine, e della difficoltà con cui la gente si lascia persuadere e una cosa, e sta così bene insieme, possa cadere. Siccome sono casi di petitio principii tui quei casi in cui per provare certe premesse viene usata una certa conclusione e può essere provata soltanto sulla base di queste premesse, questa fallacia comprende una

grandissima percentuale di tui i ragionamenti scorrei. Per completare il nostro sguardo d’assieme sulla fallacia è necessario esemplificare alcune delle fogge soo le quali questa fallacia si masera abitualmente, e grazie alle quali, abitualmente, sfugge ai nostri tentativi di smaserarla. Nessuna persona e sia nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali ammeerebbe una proposizione come corollario di se stessa, a meno e questa proposizione non fosse espressa in un linguaggio e la facesse sembrare diversa da quello e è. Una delle maniere più comuni di esprimerla in modo da farla apparire diversa consiste nel presentare la proposizione enunciata in termini astrai, come prova della medesima proposizione espressa in linguaggio concreto. Si traa di un modo molto frequente, non soltanto di pretesa prova, ma ane di pretesa spiegazione; e questo modo viene parodiato da Molière, e fa dire a uno dei suoi assurdi medici: Mihi a docto doctore domandatur causam et rationem quare Opium facit dormire. A quoi respondeo, quia est in eo virtus dormitiva Cujus est natura

6.

sensus assopire

Le parole «natura» ed «essenza» sono grandi strumenti di questo modo di argomentare in circolo; come nella ben nota argomentazione dei teologi scolastici, secondo cui la mente non cessa mai di pensare, peré l’essenza della mente è quella di pensare. Loe dovee far vedere e se qui per «essenza» s’intende quale proprietà e deve manifestarsi esercitandosi effeivamente in modo continuo, la premessa assume direamente la conclusione; mentre, se «essenza» vuol dire soltanto e il pensare è la proprietà distintiva di una mente, tra le premesse e la conclusione non c’è la minima connessione, peré non è necessario e una proprietà distintiva agisca in continuazione.

L’esempio seguente è uno dei modi in cui questi termini astrai, «natura» ed «essenza», vengono impiegati come strumenti di questa fallacia. Si scelgono più o meno arbitrariamente alcune proprietà di una cosa e le si iamano la «natura» o l’«essenza» di questa cosa. Fao questo, si suppone e le proprietà in parola siano rivestite d’una specie d’inalienabilità, e e siano diventate tanto superiori a tue le altre proprietà delle cose e nulla possa prevalere su di esse, o possa contrastarle. Così Aristotele, in un passo e abbiamo già citato, «decide e il vuoto non esiste in base a ragionamenti come questo: nel vuoto non potrebbero esserci differenze di alto e di basso, peré, siccome nel nulla non ci sono differenze, così non ci sono differenze in una privazione o in una negazione; ma il vuoto è semplicemente una negazione o privazione di materia; pertanto nel vuoto i corpi non potrebbero mai muoversi su e giù, cosa e è nella loro natura di fare»d. In altre parole, il movimento verso l’alto o verso il basso è nella natura dei corpi; ergo, qualsiasi fao fisico e presupponga e i corpi non si muovano così non può essere un fao autentico. esto modo di ragionare, in forza del quale si fa in modo e una caiva generalizzazione si sbarazzi di tui i fai e la contraddicono, è una petitio principii, in una delle sue forme più palpabili. Nessuno dei modi di assumere quello e si dovrebbe provare viene usato con maggiore frequenza di quello e consiste nell’usare quei termini e Bentham iama «appellativi circolari», cioè i nomi e presuppongono quello e si deve provare dandosi le arie di asserirlo. I più potenti tra questi termini sono quelli e hanno un caraere elogiativo o dispregiativo. In politica, un esempio di tali termini è costituito dalla parola «innovazione». Il significato di questo termine, quale ci viene dato dai dizionari, è semplicemente: «un cambiamento e mee capo a qualcosa di nuovo». È quindi difficile, ane per i difensori del miglioramento più salutare, negare e un miglioramento sia un’innovazione. Tuavia, siccome in aggiunta al significato datole dai dizionari, la parola ha acquistato, nell’uso comune, una connotazione dispregiativa, l’ammissione e una certa cosa è un’innovazione viene sempre interpretata come una larga concessione a discapito della cosa e è stata proposta. Il seguente passo, trao dall’argomentazione usata per confutare gli Epicurei e si trova nel secondo Libro del De finibus di Cicerone, fornisce un bell’esempio di questa specie di fallacia: «Et quidem illum ipsum non nimium probo (et tantum patior) philosophum loqui de cupiditatibus

finiendis. An potest cupiditas finiri? Tollenda est, atque extrahenda radicitus. is est enim, in quo sit cupiditas, quin recte cupidus dici possit? Ergo avarus erit, sed finite: adulter, verum habebit modum: et luxuriosus eodem modo. alis ista philosophia est, quae non interitum afferat pravitatis, sed sit contenta mediocritate vitiorum?»7. La questione era se certi desideri, quando siano contenuti entro certi limiti, siano vizi oppure non lo siano; e l’argomentazione decide la questione applicandogli una parola (cupiditas) e implica vizio. Dalle osservazioni e seguono risulta però iaramente e Cicerone non la considerava come un’argomentazione seria, ma come una critica di quello e egli riteneva un modo d’esprimersi non appropriato: «Rem ipsam prorsus probo; elegantiam desidero. Appellet haec desideria 8 naturae; cupiditatis nomen servet alio», eccetera . Ma molti, antii e moderni, hanno impiegato questa stessa argomentazione, o qualcosa di equivalente ad essa, come un’argomentazione reale e concludente. Possiamo osservare e il passo relativo a cupiditas e a cupidus costituisce ane un esempio di un’altra fallacia sulla quale abbiamo già airato l’aenzione: la fallacia dei termini paronimi. Nella classe delle petitiones principii rientrano ancora moltissime argomentazioni dei moralisti antii, e specialmente degli Stoici. Per esempio, nel De finibus (e io continuo a citare peré è probabilmente la migliore esemplificazione e ci rimanga delle dorine e dei metodi delle scuole di filosofia esistenti in quell’epoca), e valore hanno mai, come argomentazioni, le tirate del tipo di quella e Catone fa nel terzo Libro: e se la virtù non fosse felicità non sarebbe una cosa di cui vantarsi; e se la morte o il dolore fossero mali sarebbe impossibile non temerli, e non potrebbe perciò essere lodevole il disprezzarli, e via discorrendo? Secondo un certo modo di considerarle, queste argomentazioni possono essere viste come appelli all’autorità del sentimento generale dell’umanità e, per mezzo delle frasi cui abbiamo fao riferimento, ha impresso la propria approvazione su certe azioni e su certe caraeristie; ma se si considera il disprezzo e i filosofi antii nutrivano per le opinioni del volgo, è molto improbabile e si volesse intendere proprio una cosa del genere. In tui gli altri sensi, sono iari esempi di petitio principii, dal momento e la parola «lodevole» e l’idea di vantarsi implicano princìpi della condoa; e le massime pratie possono essere provate soltanto in base a verità speculative, vale a dire soltanto in base alle proprietà dell’oggeo, e pertanto

non possono essere impiegate per provare quelle proprietà. Allo stesso titolo si potrebbe argomentare e un certo governo è buono peré abbiamo il dovere di sostenerlo, o e Dio esiste peré abbiamo il dovere di pregarlo. Da tui gli interlocutori del De finibus si assume, come fondamento della ricerca del summum bonum, e «sapiens semper beatus est»9. Non semplicemente, e la saggezza ci dia le migliori chances di felicità, o e la saggezza consista nel sapere e cosa sia la felicità e quali cose la promuovano (queste proposizioni non sarebbero state ritenute sufficienti dagli interlocutori del dialogo): il fao è, piuosto, e il saggio è sempre felice, e non può non esserlo. L’idea e la saggezza possa essere compatibile con l’infelicità è sempre stata respinta come un’idea inammissibile. La ragione di ciò, data verso l’inizio del terzo Libro da uno degli interlocutori, è la seguente: se il saggio potesse essere infelice sarebbe ben poco utile perseguire la saggezza. Ma per «infelicità» non intendevano dolore o sofferenza; si ammeeva tacitamente e ane la persona più saggia può provar dolore e sofferenza, come tue le altre persone: il saggio è felice peré, possedendo la saggezza, ha il più prezioso di tui i possessi; quello e più d’ogni altra cosa dev’essere cercato e apprezzato; e possedere la cosa più preziosa significava essere il più felice. Ponendo dunque all’inizio della ricerca la proposizione e il saggio deve necessariamente essere felice, in realtà non si faceva altro e dare per scontato proprio il punto messo in discussione, vale a dire il punto riguardante il summum bonum; e in più si assumeva e, nella misura in cui possono coesistere con la saggezza, il dolore e la sofferenza non sono infelicità e non sono male. Ecco ora alcuni altri esempi di petitiones principii più o meno maserate. Nel Sofista Platone tenta di provare e possono esistere cose incorporee, facendo ricorso all’argomentazione e la giustizia e la saggezza sono cose incorporee: e la giustizia e la saggezza devono pur essere qualcosa. i, se per «qualcosa» s’intende, come Platone effeivamente intendeva, una cosa capace di esistere in sé e per sé, e non una qualità di quale altra cosa, asserendo e la giustizia e la saggezza devono essere qualcosa Platone dà per scontato lo stesso punto e vuole provare. alunque altra cosa s’intenda, la conclusione non risulta provata. esta fallacia potrebbe ane essere classificata tra le fallacie derivanti dall’ambiguità del termine medio: nell’una premessa «qualcosa» significa infai quale sostanza, nell’altra

significa semplicemente quale oggeo del pensiero, sostanza o aributo e sia. Anticamente, per provare quella e al giorno d’oggi non è più una dorina e goda i favori generali, vale a dire la dorina dell’infinita indivisibilità della materia, s’impiegava un’argomentazione di questo genere: e ogni porzione di materia, per quanto piccola, deve almeno avere una superficie superiore e una superficie inferiore. Coloro e usavano quest’argomentazione non si rendevano conto di assumere proprio il punto e si stava discutendo, vale a dire l’impossibilità di arrivare a un minimo di spessore peré, se tale minimo ci fosse, la superficie superiore e la superficie inferiore della particella sarebbero ovviamente una cosa sola: la particella stessa sarebbe tua superficie e nient’altro. L’argomentazione deve la sua considerevolissima plausibilità a questo: e la premessa sembra effeivamente più ovvia della conclusione, ane se in realtà è identica con essa. Così com’è enunciata nella premessa, la proposizione fa appello direamente, e in linguaggio concreto, all’incapacità dell’immaginazione umana di concepire un minimo. Vista in questa luce, diventa un caso della fallacia a priori, o pregiudizio naturale, secondo cui tuo quello e non può essere concepito non può esistere. È praticamente superfluo ripetere e ogni fallacia di confusione, una volta e sia stata iarita, diventerà una fallacia di quale altro genere; e si troverà e quando le fallacie di deduzione, in generale, inducono in errore, questo accade abitualmente peré nascosta dietro di esse c’è sempre, come in questo caso, una fallacia d’altro tipo; soprauo in virtù di quest’ultima fallacia, il pasticcio verbale e costituisce l’esterno, o il corpo, di quest’ultima specie di fallacia passa inosservato. L’Algebra di Eulero10, libro e per altri versi possiede grandi meriti, ma e è pieno zeppo di errori logici riguardanti i fondamenti di questa scienza, contiene il seguente ragionamento per provare e meno, moltiplicato per meno, dà più: dorina, questa, e costituisce la vergogna di tui i matematici puri e del vero metodo per provare la quale Eulero non possedeva neppure la più pallida idea. Eulero dice e meno, moltiplicato per meno, non può dare meno; infai meno, moltiplicato per più, dà meno, e meno, moltiplicato per meno, non può dare il medesimo prodoo e dà meno moltiplicanto per più. Ora si sente costreo a iedere: peré meno moltiplicato per meno deve dare un prodoo qualsiasi? E se lo dà, peré il

prodoo di meno per meno non può essere lo stesso di quello di meno moltiplicato per più? esto, infai, a prima vista non sembrerebbe più assurdo del fao e meno per meno debba dare la stessa cosa e dà più moltiplicato per più; proposizione, questa, e Eulero preferisce alla prima. La premessa ha bisogno d’una prova proprio come ne ha bisogno la conclusione, e non può essere provata se non per mezzo di quella visione più comprensiva della natura della moltiplicazione e dei processi algebrici in generale, e ci fornirebbe altresì una prova di gran lunga più convincente di quella fornita dalla misteriosa dorina e Eulero sta tentando di dimostrare qui. Un esempio sorprendente di ragionamento circolare è quello commesso da alcuni scriori di cose morali, e prima prendono a loro modello di verità morale quelli e ritengono siano i sentimenti e le percezioni naturali o istintive dell’umanità peré sono generalmente diffusi, e poi si sbarazzano con una spiegazione dei numerosi esempi di divergenza dai modelli e hanno assunto, rappresentandoli come casi in cui le percezioni sono patologie. Si afferma e certi modi particolari di condursi e di sentire sono innaturali: peré? Peré repugnano ai sentimenti universali e naturali dell’umanità. Non trovate in voi stessi nessun sentimento del genere, e meete in dubbio questo fao. Se il vostro antagonista è cortese, la risposta è e siete un’eccezione, un caso particolare. Ma (dite voi) questi sentimenti di repugnanza non li trovo neppure nella gente di altri paesi o di altre età passate: «Ah! Ma i loro sentimenti erano corroi e malsani!». Uno dei campioni più notevoli di ragionamento circolare è la dorina di Hobbes, di Rousseau e di altri, e fa riposare su di un presunto pao sociale le obbligazioni dalle quali gli esseri umani sono vincolati in quanto membri della società. Non sto lì a prendere in considerazione la natura fiizia del pao medesimo; ma quando Hobbes, per tuo il Leviathan, deduce faticosamente l’obbligo di obbedire al sovrano, non dalla necessità o dall’utilità, ma da una promessa (e suppone sia stata faa dai nostri antenati) di rinunciare alla vita selvaggia e di meersi d’accordo per fondare la società politica, è impossibile non obbieargli iedendogli: peré siamo obbligati a mantenere una promessa e altri ha fao per noi, o peré siamo obbligati, tout court, a mantenere una promessa? Per quest’obbligo non si può trovare nessuna ragione soddisfacente, se si ecceuano le conseguenze funeste dell’assenza di fiducia e di confidenza reciproca tra gli

uomini. Siamo pertanto ricondoi in circolo agli interessi della società come alla ragione fondamentale dell’obbligo di mantenere una promessa; e tuavia non s’ammee e questi interessi costituiscano una ragione sufficiente per l’esistenza di un governo o di una legge. Si pensa e se non ci fosse la promessa non saremmo obbligati a fare tuo quello e ci obbligano implicitamente a fare i modi del vivere in società: cioè, a prestare un’obbedienza generale alle leggi e sono state stabilite nell’àmbito della società; e la promessa è ritenuta così necessaria e, se ane in realtà non ne fosse stata faa nessuna, si crede e inventandone una si darebbe quale sicurezza in più ai fondamenti sui quali riposa la società. 3. Liquidate così le due suddivisioni principali delle fallacie di confusione, ne rimane una terza in cui, contrariamente a quello e accade per le fallacie di ambiguità, la confusione non consiste nel fao e si abbia una concezione falsa del significato delle premesse, né, come accade per la petitio principii, nel fao e si sia dimenticato quali siano le premesse, ma consiste in una caiva scelta della conclusione e si deve provare. Si traa della fallacia di ignoratio elenchi, nel senso più ampio dell’espressione; della fallacia e l’arcivescovo Whately iama ane fallacia di conclusione superflua. Gli esempi e le osservazioni dell’arcivescovo Whately sono ben degni di essere riportati a questo punto. «Secondo le occasioni, alla proposizione di cui si riiede la prova, si sostituiscono varie specie di proposizioni; quale volta si sostituisce la proposizione particolare alla proposizione universale; quale volta le si sostituisce una proposizione e ha termini differenti; e diversi e svariati sono gli stratagemmi e s’impiegano per compiere questa sostituzione e per nasconderla e per far sì e la conclusione e il sofista ha trao risponda praticamente al medesimo scopo al quale risponderebbe la conclusione e avremmo dovuto trarre in sua vece. Diciamo “praticamente al medesimo scopo”, peré molto spesso accadrà e la proposizione susciti quale emozione, e imprima sulla mente quale sentimento (con un abile impiego di questa fallacia) tale e mea gli uomini nella disposizione adaa al vostro scopo, ane se forse non hanno dato il loro assenso alla proposizione e era affar vostro provare, oppure non l’hanno enunciata distintamente nella loro mente. Così, se il sofista deve difendere qualcuno e si sia reso colpevole di quale seria offesa, offesa e poi desidera

aenuare, pur non essendo in grado di provare distintamente e non si traava di un’offesa può tuavia riuscire a fare in modo che gli uditori ridano di fronte a quale evento inaeso, e in questo modo avrà raggiunto, praticamente, il medesimo risultato. Così pure, se qualcuno ha fao vedere quali siano le circostanze aenuanti di quale caso particolare di infrazione della legge, in modo da mostrare e esso differisce di molto dalla generalità dei casi della medesima classe, il sofista, se si rende conto di non essere in grado di provare e queste circostanze non sussistono, può sbarazzarsi della loro forza semplicemente facendo rientrare quell’azione in quella stessa classe a cui nessuno può negare e appartenga, e il cui stesso nome risveglierà un senso di disgusto sufficiente a rendere vane le circostanze aenuanti. Per esempio, supponiamo e si trai di un caso di peculato e e siano state invocate molte circostanze attenuanti, e nessuno può negare. L’oppositore sofista replierà: “Bene! Però, tuo sommato, quest’uomo è un mariolo, e la cosa finisce qui!”. In realtà, questo non era mai stato messo in discussione nell’ipotesi, e la pura e semplice asserzione di quello e non è mai stato negato non dovrebbe, in tua buona fede, essere considerata come decisiva: ma in pratica l’odiosità della parola, odiosità e in larga misura trova origine in quelle medesime circostanze e vigono per la maggior parte dei membri della classe (ma e abbiamo supposto siano assenti in questa particolare faispecie) risveglia esaamente quel sentimento di disgusto e in effei distrugge la forza della difesa. In maniera analoga, possiamo far rientrare soo questo titolo tui i casi in cui si faccia impropriamente appello alle passioni e a tue quelle altre cose e vengono menzionate da Aristotele come estranee all’argomento e si sta discutendo (ἔξω τοῦ πράγματος)».. Ancora, «invece di provare e “questo prigioniero ha commesso un atroce delio” provate e il delio di cui è accusato è atroce; invece di provare (come nella ben nota storia di Ciro e dei due mantelli) e il ragazzo più alto aveva il dirio di obbligare l’altro ragazzo a scambiarsi d’abito con lui, provate e lo scambio sarebbe stato vantaggioso per entrambi; invece di provare e il povero dovrebbe essere soccorso in questo modo piuosto e in quell’altro, provate e il povero dev’essere soccorso; invece di provare e l’agente irrazionale (sia esso un bruto, sia un pazzo) non può mai essere distolto dal compiere una certa azione facendogli balenare la prospeiva di una punizione (come, per esempio, si distoglie un cane dal mordere le pecore

inculcandogli la paura d’essere bastonato) provate e bastonare un cane non funziona come esempio per gli altri cani, ecc. ecc. È evidente e l’ignoratio elenchi può essere impiegata tanto per la confutazione apparente della proposizione del vostro avversario quanto per l’apparente dimostrazione della vostra; infai è sostanzialmente la stessa cosa il provare la verità di quello e non è stato negato e il provare la falsità di quello e non è stato asserito. est’ultima pratica non è meno comune, ed è più offensiva, peré il più delle volte equivale a un affronto personale, nella misura in cui aribuisce a una persona opinioni, e altre cose del genere, dalle quali magari quello aborre. Così, quando in una discussione una parte sostiene e nel caso di un’oppressione intollerabile è necessario opporre una specie particolare di resistenza al governo, peré tale specie di resistenza è generalmente opportuna, l’oppositore può sostenere gravemente: “non dobbiamo fare il male peré ne venga il bene”, proposizione, questa, e naturalmente non è mai stata negata, dal momento e il punto in discussione è “se in questo caso particolare resistere sia o non sia far male”. O ancora, per provare la falsità del dirio del giudizio privato in fao di religione, si può udire un’argomentazione, profferita con gravità, secondo cui “è impossibile e ognuno possa aver ragione nel suo giudizio privato”». Raramente le opere dei polemisti vanno esenti da questa fallacia. Per esempio, i tentativi per provare la falsità delle dorine sulla popolazione enunciate da Malthus11 sono, per la maggior parte, casi di ignoratio elenchi. Si ritiene e se si potesse mostrare e in quale Paese o in quale epoca la popolazione è stata praticamente stazionaria, si sarebbe in grado di confutare Malthus, come se Malthus avesse asserito e la popolazione cresce sempre secondo una data progressione, o come se non avesse diiarato esplicitamente e la popolazione cresce nel modo in cui cresce soltanto nella misura in cui non venga limitata dalla prudenza, o non venga mantenuta ad un basso livello dalla miseria o dalle malaie. O, magari, si produce una collezione di fai per provare e in quale Paese ad alta densità di popolazione la gente vive meglio di quanto non viva in un altro Paese, e ha una densità di popolazione più bassa; oppure e la gente è diventata più numerosa e contemporaneamente vive meglio; come se Malthus avesse asserito e una popolazione densa non può viver bene; come se non fosse parte della medesima dorina, e non le fosse essenziale,

e dove c’è una produzione abbondante là può esserci una popolazione più numerosa, senza e la povertà cresca e senza e la popolazione diminuisca. L’argomentazione favorita addoa contro la teoria di Berkeley della nonesistenza della materia, l’argomentazione e trova maggior séguito tra il volgo, quasi come una «risata»e — argomentazione e, per di più, non è limitata agli uomini di «poco cervello», né a quelli come Samuel Johnson12, le cui abilità (peraltro molto sopravvalutate) non erano certamente orientate verso le speculazioni metafisie, ma e anzi, è l’argomentazione decisiva della scuola dei metafisici scozzesi — è una palpabile ignoratio elenchi. Forse quest’argomentazione viene espressa tanto frequentemente a gesti quanto a parole, e una delle sue forme più comuni consiste nel baere un bastone contro il suolo. esta breve e felice confutazione trascura il fao e, quando negava la materia, Berkeley non negava nulla di cui i nostri sensi diano testimonianza, e quindi non gli si può rispondere facendo appello ai sensi. Il suo sceicismo aveva come oggeo il supposto substrato, o causa occulta, delle apparenze percepite dai sensi, le prove della cui esistenza, qualunque cosa si possa pensare della loro concludenza, non sono certamente le prove fornite dai sensi; e rimarrà sempre una prova considerevole della mancanza di profondità metafisica di Reid, Stewart e, sono dolente di dover aggiungere, di Brown, il fao e costoro abbiano persistito nell’asserire e, se avesse veramente creduto nelle proprie dorine, Berkeley sarebbe stato destinato a finire, mentre camminava, dentro una pozzanghera, o ad andare a sbaere la propria testa contro un palo. Come se le persone e non riconoscono l’esistenza di una causa occulta delle loro percezioni non potessero in alcun modo credere e tra le loro sensazioni, di per se stesse, sussista un ordine fisso. Neane il più stupido tra i discepoli di Kant o di Coleridge potrebbe fare a meno di comprendere questa distinzione tra una cosa e la sua manifestazione sensibile o, per usare il linguaggio della metafisica, tra il noumeno e il fenomeno. Sarebbe facile aggiungere un numero molto maggiore di esempi di questa fallacia, e così pure di tue le altre fallacie e ho tentato di caraerizzare. Ma un’esemplificazione più copiosa non sembra necessaria; e l’intelligente leore troverà ben poe difficoltà ad aggiungerne al catalogo altre, trae direamente dalla sua esperienza. Concluderemo pertanto a questo punto la nostra esposizione dei princìpi generali della logica, e procederemo all’indagine supplementare e è necessaria per completare il nostro disegno.

a.

Un esempio di questa fallacia è dato dall’errore popolare secondo cui le bevande forti devono essere causa di forza. i c’è una fallacia dentro la fallacia; infai, ammesso e le parole «forte» e «forza» non siano applicate (come di fao sono) in un senso totalmente differente ai liquori fermentati e al corpo umano, in essa sarebbe ancora implicito l’errore e consiste nel supporre e un effeo debba essere simile alla propria causa; e le condizioni di un fenomeno possano somigliare al fenomeno stesso; e questa fallacia è già stata presa da noi in considerazione come una fallacia a priori del primo ordine. Con eguale dirio si potrebbe supporre e un veleno forte renderebbe forte la persona e lo prende. b. Nelle ultime edizioni della sua opera l’arcivescovo Whately riserva il nome di petitio principii «a quei casi in cui una delle premesse o ha manifestamente il medesimo senso della conclusione o è tale e le persone alle quali ci si rivolge non possono conoscerla, o ammeerla, se non come inferenza traa dalla conclusione; come, per esempio, se si dovesse inferire l’autenticità di una certa storia dal fao e essa registra tali e talaltri fai, la cui realtà riposa sulle prove fornite da quella storia». c. Da quando è stata provata la teoria atomica, non si traa neppure più di un’ipotesi probabile: è certo ora e le particelle costitutive di sostanze differenti gravitano in modo ineguale. È vero e queste particelle, pur essendo veri e propri minima dal punto di vista degli scopi della combinazione imica, possono non essere le particelle elementari delle quali è composta la sostanza; e questo dubbio, da solo, rende ammissibile l’ipotesi, ane se soltanto in quanto ipotesi. d. Hist. Ind. Sc., I, 34. e. «E i deboli di cervello sconfiggono Berkeley con una risata». 1. In inglese, i fa progei campati in aria è deo projector, mentre la parola project, progeo, è priva di qualsiasi connotazione negativa. In italiano non si è potuto rendere completamente questa paronimia. 2. Traduciamo con «trama» e «tramare» l’inglese design (disegno, progeo) e designing (colui e fa progei, o disegni, losi). 3. Probabilmente faith e faithful, e traduciamo leeralmente con «fede» e «fedele» devono essere intesi, rispeivamente, come: fede nel senso di credenza assoluta, fiducia e fedele nel senso in cui si dice: questa donna mi è fedele. 4. «Tuo ciò e è bene è lodevole, ma tuo ciò e è lodevole è onesto: dunque tuo ciò e è bene è onesto». CICERONE, De finibus, III, VIII, 27; trad. it. cit., p. 148. 5. L’essere, l’uno, l’identico. 6. «Da un cioo doore / mi si iede la causa e la ragione / per cui / l’oppio fa dormire. / Al e rispondo: / peré in esso c’è / la virtù dormitiva / la cui natura è quella / d’assopire i sensi». [MOLIÈRE, Le malade imaginaire]. 7. «Ma su questo punto specifico non lo approvo eccessivamente e riesco soltanto a tollerarlo: e un filosofo parli di limitare le cupidigie. Si può forse limitare la cupidigia? Bisogna abolirla e strapparla fin dalle radici. E infai, i vi è, in preda a una cupidigia, a cui non sia giusto dare l’appellativo di cupido? indi sarà avido di danaro, ma in modo limitato; adultero, ma avrà un limite; e dissoluto allo stesso modo. Che razza di filosofia è mai codesta, e non porta all’annientamento della malvagità, ma si accontenta di vizi mediocri?». [CICERONE, De finibus, II, IX, 27, trad. it. cit., p. 93]. 8. «Approvo certo la sostanza, ma sento la mancanza di precisione. Li iami bisogni naturali, riservi il nome di “desiderio” per un’altra occasione…». [Op. cit., loc. cit.]. 9. «Il sapiente è sempre beato». 10. Leonardo Eulero (1707-1783), matematico svizzero, uno dei più grandi del secolo XVIII. Insegnò a Basilea, a Berlino e a Pietroburgo, dove morì. La sua opera spazia dalla geometria elementare al calcolo infinitesimale, lasciando dovunque un’impronta duratura. Tra le sue opere principali ricordiamo: Lettres à una princesse allemande [Lettere a una principessa tedesca], Introductio in

analysin infinitorum

[Introduzione

all’analisi degli infiniti]

(2 voll., 1748);

Institutiones calculi

[Istituzioni di calcolo differenziale] (1755); Institutiones calculi integralis [Istituzioni di calcolo integrale] (3 voll., 1768-1770). 11. omas Robert Malthus (1766-1834), economista inglese, figlio di Daniel Malthus, uno degli esecutori testamentari di Rousseau. Studiò a Cambridge; nel 1797 prese gli ordini e nel 1805 fu nominato professore di storia moderna e di economia politica al College della Compagnia delle Indie orientali, ad Haileybury. Nel 1798 pubblicò la prima edizione dell’opera e doveva renderlo famoso: differentialis

An Essay on the Principle of Population as It Affects the Future Improvement of Society, with Remarks on the Speculations of Mr. Godwin, M. Condorcet and Other Writers

[Saggio

sul principio della

popolazione, in quanto influenza il miglioramento futuro della società, con osservazioni sulle speculazioni del signor Godwin, del signor Condorcet e di altri autori].

In esso si combae l’oimismo metafisico e in Inghilterra aveva uno dei maggiori sostenitori in Smith, e si asserisce e la popolazione, quando non venga controllata e limitata, tende a crescere in progressione geometrica, mentre i mezzi di sussistenza tendono a crescere soltanto in progressione aritmetica: gli unici mezzi e possano limitare la crescita sproporzionata della popolazione sono la guerra, la carestia, le pestilenze, e l’influenza della miseria e del vizio. In base a questo principio Malthus sosteneva la pericolosità del sistema di leggi a favore dei poveri allora vigente in Inghilterra, e con benefici e sussidi tendeva ad incoraggiare e a sostenere le famiglie numerose. Il saggio ebbe un’enorme popolarità e suscitò furiose controversie, molte delle quali non sempre imparziali. Malthus riscrisse allora il Saggio correndandolo di statistie e di abbondanti documentazioni. In questa seconda edizione, Malthus riconosce e i mezzi per limitare la crescita della popolazione non sono soltanto guerre, pestilenze e carestie, ma sono ane certi mezzi preventivi, e iama «freni morali» e e sono sostanzialmente la proibizione di contrarre matrimonio in giovane età e una rigida continenza sessuale. Dal saggio di Malthus, Charles Darwin trasse probabilmente il conceo di loa per l’esistenza e costituisce una delle pietre angolari della sua teoria evoluzionistica. Malthus fu ane autore di parecie, pregiate opere di economia. 12. Samuel Johnson (1709-1784), il grande leerato inglese, uno dei maestri della prosa inglese del secolo XVIII.

LIBRO SESTO

LA LOGICA DELLE SCIENZE MORALI

«Si l’homme peut prédire, avec une assurance presque entière, les phénomènes dont il connaît les lois; si lors même qu’elles lui sont inconnues, il peut, d’après l’expérience, prévoir avec une grande probabilité les événemens de l’avenir; pourquoi regarderait-on comme une enterprise imérique celle de tracer avec quelque vraisemblance le tableau des destinées futures de l’espèce humaine, d’après les résultats de son histoire? Le seul fondement de croyance dans les sciences naturelles, est cee idée, que les lois générales, connues ou ignorées, qui règlent les phénomènes de l’univers, sont necessaires et constantes; et par quelle raison ce principe serait-il moins vrai pour le développement des facultés intellectuelles et morales de l’homme, que pour les autres opérations de nature? Enfin, puisque des opinions formées d’après l’expérience… sont la seule règle de la conduite des hommes les plus sages, pourquoi interdirait-on au philosophe d’appuyer ses conjectures sur cee même base, pourvu qu’il ne leur aribue pas une certitude supérieure à celle qui peut naître du nombre, de la constance, de l’exactitude des observations?». CONDORCET, Esquisse d’un tableau historique de l’esprit humain1 1. «Se l’uomo può predire, con sicurezza quasi totale, i fenomeni di cui conosce le leggi, se, ane quando esse gli sono ignote, può, in base all’esperienza del passato, prevedere con grande probabilità gli avvenimenti dell’avvenire, peré si dovrebbe reputare impresa imerica quella di tracciare con quale verosimiglianza il quadro dei futuri destini della specie umana, in base ai risultati della sua storia? Il solo fondamento di credenza nelle scienze naturali è quest’idea, e le leggi generali, note o ignote, e regolano i fenomeni dell’universo, sono necessarie e costanti; e per quale ragione questo principio sarebbe meno vero per lo sviluppo delle facoltà intelleuali e morali dell’uomo e per le altre operazioni della natura? Da ultimo, poié le opinioni formate secondo l’esperienza… sono la sola regola di condoa degli uomini più saggi, peré mai vieteremo al filosofo di fondare le sue congeure su questa stessa base, sempre e non aribuisca loro una certezza superiore a quella e può nascere dal numero, dalla costanza, dall’esaezza delle osservazioni?». CONDORCET, Schizzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, trad. it. di M. Minerbi, Torino, 1969, p. 164.

CAPITOLO I. OSSERVAZIONI INTRODUTTIVE 1. I princìpi della prova e le teorie del metodo non possono essere costruiti a priori. Come quelle di ogni altro agente naturale, le leggi della nostra facoltà razionale si apprendono soltanto se si guarda l’agente all’opera. I primi successi della scienza furono oenuti senza e si osservasse consapevolmente un qualsiasi metodo scientifico; e se prima non avessimo accertato molte verità non saremmo mai riusciti a sapere con quale processo la verità debba essere accertata. Ma in questo modo si poteva risolvere soltanto il problema più facile: quando mise alla prova la propria forza contro i problemi più difficili, la sagacia naturale o fallì completamente, o, se riuscì qua e là a trovare una soluzione, non aveva alcun mezzo sicuro per convincere gli altri e la soluzione da lei trovata era quella correa. Nell’indagine scientifica, come in tue le altre opere e riiedono l’abilità dell’uomo, il modo per raggiungere uno scopo viene visto, per così dire istintivamente, dalle menti superiori in quale caso relativamente semplice, e poi, con una giudiziosa generalizzazione, viene adaato a tua la varietà dei casi complessi. Impariamo a fare una cosa in circostanze difficili facendo aenzione alla maniera in cui abbiamo fao spontaneamente la medesima cosa nelle circostanze più facili. esta verità si trova esemplificata nella storia delle varie brane della conoscenza e hanno assunto successivamente, in ordine crescente di complessità, il caraere di scienze; e senza dubbio riceverà nuove conferme da quelle la cui sistemazione scientifica è ancora di là da venire, e e sono ancora in preda all’incertezza propria delle discussioni imprecise e popolari. Sebbene parecie altre scienze siano emerse da quest’ultimo stato in data particolarmente recente, nessuna di esse vi si trova più, se si ecceuano quelle e si riferiscono all’uomo stesso, cioè all’oggeo di studio più complesso e più difficile in cui la mente umana possa mai trovarsi impegnata. Sulla natura fisica dell’uomo in quanto essere organizzato — sebbene regnino ancora molte incertezze e molte controversie e potranno essere messe a tacere soltanto dopo e si saranno acceate, e verranno generalmente impiegate, regole induive più rigorose di quelle e vengono

acceate comunemente — esiste dunque un considerevole corpo di verità e tui coloro e si sono dedicati a quest’argomento considerano pienamente consolidate; e fino ad oggi, nel metodo seguìto in questo dipartimento della scienza dalla maggior parte degli insegnanti più illustri del nostro tempo, non è dato di scorgere nessuna imperfezione radicale. Ma le leggi della mente e, in misura ancor maggiore, le leggi della società, sono così lontane dall’aver raggiunto un simile stato di riconoscimento ane parziale, e è ancora materia di controversia se siano in grado di diventare oggeo di scienza nel senso più rigoroso del termine, mentre tra quelli e sono d’accordo su questo punto regnano le divergenze più irreconciliabili a proposito di quasi tui gli altri punti. i, più e altrove, ci si può pertanto aspeare e possano tornare utili i princìpi enunciati nei libri precedenti. Se mai dovrà esistere un accordo più generale tra i pensatori sulle faccende e sono di gran lunga le più importanti di cui possa occuparsi l’intelleo dell’uomo; se quello e è stato proclamato «lo studio proprio dell’umanità» non è destinato a rimanere il solo oggeo e la filosofia non riuscirà mai a salvare dall’empirismo, il medesimo processo araverso cui, per riconoscimento generale, le leggi di molti dei fenomeni più semplici sono state poste al di là d’ogni discussione dev’essere applicato deliberatamente e consapevolmente a quelle ricere più difficili. Se è vero e ci sono alcuni oggei, i risultati oenuti a proposito dei quali hanno definitivamente oenuto l’assenso unanime da parte di tui coloro e si sono preoccupati di meerli alla prova, e ce ne sono altri al cui proposito l’umanità non ha ancora conseguito un successo eguale; se è vero e ci sono oggei sui quali le menti più sagaci si sono affaticate fin dai tempi più antii senza mai riuscire a stabilire un corpo di verità sufficientemente grande e a fondarlo al di là d’ogni dubbio e di ogni possibilità di confutazione, allora, soltanto generalizzando i metodi e sono stati seguìti con successo in quelle prime ricere e adaandoli a queste ultime, possiamo sperare di cancellare questa macia dal volto della scienza. I capitoli rimanenti costituiscono un tentativo di facilitare questo scopo, così altamente desiderabile. 2. Nell’accingermi a intraprendere questo tentativo, sono perfeamente consapevole di quanto poco si possa fare in un semplice traato di logica per raggiungere lo scopo e mi sono prefisso; di quanto vaghi e insoddisfacenti debbano necessariamente apparire tui i precei del metodo quando non siano esemplificati praticamente nella fondazione di un corpo di dorine.

Indubbiamente, il modo più efficace per mostrare come possano essere costruite le scienze dell’etica e della politica sarebbe quello di costruirle: compito, questo, e, è superfluo dire, non mi propongo di intraprendere qui. Ma ane se non ci fossero altri esempi, a dimostrare e quale volta è possibile e utile indicare la strada ane se non si è preparati ad avventurarvisi per un lungo trao, sarebbe sufficiente l’esempio memorabile di Bacone. E ane se si dovesse tentare qualcosa di più, questo, in ultima analisi, non sarebbe il luogo più adao per intraprendere il tentativo. In sostanza, tuo quello e si può fare per la logica delle scienze morali in un’opera come questa, è già stato fao, o dovrebbe già essere stato fao, nei cinque Libri precedenti; di tali Libri il presente non può essere altro e una specie di supplemento, o d’appendice: infai, se il mio tentativo di enumerare e di caraerizzare i metodi della scienza in generale ha avuto successo, in esso devono già essere stati descrii i metodi d’indagine e si possono applicare alle scienze morali e sociali. Rimane comunque da prendere in esame quali di questi metodi siano adai in modo più particolare alle varie brane dell’indagine morale; quali siano le difficoltà, e quali siano le facilitazioni particolari cui deve soostare il loro impiego; fino a qual punto lo stato insoddisfacente in cui versano quelle indagini sia dovuto a una scelta sbagliata dei metodi; e fino a qual punto sia da imputare alla mancanza di abilità nell’applicazione dei metodi giusti; e quale grado di successo definitivo si possa raggiungere, o si possa sperar di raggiungere, con una scelta migliore e con un impiego più accurato dei processi logici appropriati al caso. In altre parole, se le scienze morali esistano, o se possano esistere; a quale grado di perfezione possano essere portate e con quale scelta o con quale adaamento dei metodi messi in luce nelle fasi precedenti di quest’opera sia possibile raggiungere quel grado di perfezione. Alla soglia di quest’indagine c’imbaiamo in un’obiezione e, se non venisse eliminata, sarebbe fatale al tentativo di traare la condoa umana come oggeo di scienza. Le azioni degli esseri umani sono soggee a leggi invariabili come tui gli altri eventi naturali? Tra esse regge realmente la costanza della causazione, e è il fondamento di ogni teoria scientifica dei fenomeni e si succedono nel tempo? Spesso questo viene negato: e, se non per una necessità pratica inderogabile almeno per amore di completezza sistematica, la questione deve ricevere una risposta ponderata in questo luogo. A quest’argomento dedieremo un capitolo a parte.

CAPITOLO II. LIBERTÀ E NECESSITÀ 1. La questione, se per le azioni umane la legge di causalità valga nel medesimo senso rigoroso in cui vale per gli altri fenomeni, è a fondamento della controversia a proposito del libero arbitrio, controversia e, almeno fin dai tempi di Pelagio1, ha tenuto divisi sia il mondo filosofico sia quello religioso. La dorina secondo cui questa domanda deve ricevere una risposta affermativa viene comunemente iamata la dorina della necessità, in quanto asserisce e le azioni e le volizioni umane sono necessarie e inevitabili. La dorina secondo cui deve invece rispondere una risposta negativa, sostiene e la volontà non è determinata dagli antecedenti come lo sono gli altri fenomeni, ma determina se stessa; e, per parlar propriamente, le nostre volizioni non sono gli effei di cause, o e almeno non hanno cause cui obbediscano uniformemente e senza eccezioni. Ho già reso sufficientemente iaro e la prima di queste opinioni è quella e io considero vera; ma i termini ingannevoli in cui molte volte viene espressa, e la maniera confusa in cui viene compresa di solito, hanno impedito la sua recezione e, quando sia stata acceata, ne hanno pervertito l’influenza. La teoria metafisica del libero arbitrio, così come è stata sostenuta dai filosofi (peré il senso pratico e se ne ha, senso e in misura maggiore o minore è comune a tua l’umanità, non è per nulla incompatibile con la teoria contraria) fu inventata peré la presunta alternativa, e consisterebbe nell’ammeere e le azioni umane sono necessarie, era ritenuta tanto incompatibile con la consapevolezza istintiva di ciascuno di noi quanto umiliante per il nostro orgoglio, e addiriura degradante per la natura dell’uomo. Né io nego e la dorina, come viene sostenuta il più delle volte, presti il fianco a queste imputazioni; sfortunatamente, infai, l’incomprensione dalla quale (come sarò in grado di mostrare) traggono la loro origine queste accuse non è limitata agli oppositori della dorina, ma è condivisa da molti, e forse potremmo dire dalla maggior parte, dei suoi sostenitori. 2. Concepita correamente, la dorina iamata della necessità filosofica è semplicemente questa: e, dati i motivi e sono presenti alla mente di un

individuo e dati, analogamente, il caraere o la disposizione dell’individuo, se ne potrà inferire senza tema di sbagliare, in quale maniera agirà quest’individuo: e se avessimo una conoscenza completa della persona, e conoscessimo tue le influenze e agiscono su di essa, potremmo predire la sua condoa con una certezza eguale a quella con cui possiamo predire un qualsiasi evento fisico. Secondo il mio punto di vista questa proposizione è una pura e semplice interpretazione di un’esperienza universale; un’enunciazione in parole di quello di cui ciascuno di noi è internamente convinto. Nessuno e credesse di avere una conoscenza completa delle circostanze di un certo caso e dei caraeri delle differenti persone interessate esiterebbe a predire come agiranno tue queste persone. ale e sia il grado di dubbio e costui può di fao provare, esso ha la sua origine nell’incertezza se conosca realmente le circostanze o il caraere dell’una o dell’altra delle persone nella misura e con l’accuratezza riieste, ma non sorge per nulla dal fao e quel tizio pensi di poter avere la sia pur minima incertezza sulla condoa futura di quelle persone, quando conoscesse tue queste cose. E questa piena sicurezza non è neppur minimamente in conflio con quello e viene iamato il nostro sentimento della libertà. Non ci sentiamo meno liberi, peré coloro e ci conoscono intimamente sono ben sicuri di come agiremo in un caso particolare. Al contrario, spesso consideriamo il dubbio a proposito della nostra condoa futura come un segno del fao e i dubita non conosce il nostro caraere, e talvolta arriviamo persino al punto di offendercene, come se si traasse di un’accusa. I metafisici religiosi, e hanno asserito l’esistenza del libero arbitrio, hanno sempre sostenuto e esso è compatibile con la prescienza, da parte di dio, delle nostre azioni: e se è compatibile con la prescienza divina, allora sarà compatibile con qualsiasi altra prescienza. Può ben darsi e siano liberi, e può ben darsi e tuavia un altro abbia ragione di essere perfeamente certo di quale uso faremo della nostra libertà. Pertanto ad essere contraddea dalla nostra coscienza e ad essere sentita come degradante, non è la dorina e le nostre volizioni e le nostre azioni sono conseguenze invariabili dei nostri stati mentali antecedenti. Ma quando si considera la causazione stessa come vigente tra le nostre volizioni e i loro antecedenti, si ritiene quasi universalmente e la dorina della causazione implii qualcosa di più. Molte persone non credono (e poissime, praticamente, se ne rendono conto) e nella causazione ci sia qualcos’altro oltre a una sequenza invariabile, certa e incondizionata. Ci

sono ben poe persone a cui la pura e semplice costanza di successione appaia come un legame sufficientemente vincolante per una relazione così particolare come la relazione di causa e d’effeo. Ane se la ragione ripudia il sentimento di quale connessione più intima, di quale legame tuo particolare o di quale misteriosa costrizione esercitata dall’antecedente sopra il conseguente, l’immaginazione lo mantiene ben fermo. Ora, proprio questo, considerato come qualcosa e vale per la mente umana, è in conflio con la nostra coscienza e ripugna ai nostri sentimenti. Noi siamo certi e nel caso delle nostre volizioni non c’è nessuna costrizione misteriosa. Sappiamo di non essere costrei, come da un incantesimo magico, a obbedire a un qualsiasi motivo particolare; sentiamo e se volessimo provare e abbiamo il potere di resistere al motivo potremmo farlo (e questo desiderio, è superfluo osservarlo, sarebbe un nuovo antecedente); il pensare altrimenti sarebbe umiliante per il nostro orgoglio e (cosa ben più importante) sarebbe paralizzante per il nostro desiderio d’eccellere. Né, al giorno d’oggi, le migliori autorità filosofie ritengono e ci sia una qualsiasi altra causa e eserciti sul proprio effeo una tale misteriosa costrizione. elli e pensano e le cause trascinino dietro di sé i propri effei in forza di un legame mistico, hanno ragione di credere e la relazione tra le volizioni e i loro antecedenti sia di altra natura. Ma dovrebbero andare più in là, e ammeere e questo è vero di tui gli altri effei e dei loro antecedenti. Se si pensa e nella parola «necessità» sia implicito un tale legame, allora la dorina non sarà vera delle azioni umane; ma allora non sarà neppure vera degli oggei inanimati. Il dire e la materia non è vincolata dalla necessità sarebbe più correo e non il dire e ne è vincolata la mente. Dato e appartengono per la maggior parte alla scuola e rifiuta l’analisi della relazione di causa e di effeo dovuta a Hume e a Brown, non può sorprenderci e i metafisici del libero arbitrio debbano sbagliar strada: infai viene a mancargli la luce e quell’analisi gea sul problema. ello e deve sorprenderci è e i necessitaristi, e di solito ammeono quella teoria filosofica, la perdano egualmente di vista nella pratica. Per quanto possano negarlo a parole, credo e nella mente della maggior parte dei necessitaristi ci sia, più o meno iara, quella medesima concezione erronea della dorina iamata della necessità filosofica e impedisce al partito opposto di riconoscerne la verità. Se non mi sbaglio di grosso, costoro ritengono abitualmene e la necessità e riconoscono nelle azioni non sia

semplicemente uniformità di ordine e capacità di essere predee. Hanno la sensazione e in fondo in fondo tra le volizioni e le loro cause ci sia un legame più forte; e asserendo e la volontà è governata dalla bilancia dei motivi intendano qualcosa di più di quello e avrebbero inteso se si fossero semplicemente limitati a dire e iunque conosca i motivi e la nostra susceibilità abituale ai motivi, potrebbe predire come vorremo agire. In contraddizione con il proprio sistema scientifico, commeono esaamente il medesimo errore e, coerentemente con i loro sistemi, commeono i loro avversari; e di conseguenza in alcuni casi soffrono davvero quelle deprimenti conseguenze e i loro oppositori imputano erroneamente alla dorina stessa. 3. Sono propenso a credere e quest’errore sia, quasi in tuo e per tuo, un effeo delle associazioni con una parola, e e potrebbe essere evitato se per esprimere il semplice fao della causazione si evitasse di impiegare un termine così altamente improprio come il termine «necessità». Nelle sue altre accezioni, quella parola implica molto di più e non la pura e semplice uniformità di successione. Implica irresistibilità. Applicata alla volontà, significa solamente e una data causa sarà seguita dall’effeo, salve tue le possibilità e venga contrastata da altre cause; ma nell’uso comune sta per l’azione di quelle cause, e soltanto di quelle, e si suppone siano troppo potenti peré le si possa contrastare, sia pure in misura minima. ando diciamo e tue le azioni umane hanno luogo necessariamente, intendiamo semplicemente e se nulla le impedisce accadranno certamente: quando diciamo e per quelli e non possono procurarsi cibo il morire di fame è una necessità, intendiamo e la cosa accadrà certamente, qualunque cosa si possa fare per evitarla. ando venga faa abitualmente, l’applicazione, agli agenti dai quali dipendono le azioni umane, del medesimo termine e viene impiegato per esprimere quelle azioni della natura e sono realmente incontrollabili, non può mancar di creare la sensazione e siano incontrollabili ane le prime. esta, però, è una pura e semplice illusione. Ci sono certe sequenze fisie e iamiamo necessarie, come la morte per mancanza di cibo o di aria; ce ne sono altre e, pur essendo casi di causazione tanto quanto lo sono i primi, non vengono iamate necessarie, come la morte da veleno, e un antidoto, o l’uso di una lavanda gastrica, riuscirà quale volta ad evitare. È facile e i sentimenti della gente dimentiino, ane se lo ricorda il loro intelleo, e le azioni umane si

trovano in quest’ultima, intricata situazione: se si ecceuano alcuni casi di pazzia, tali azioni non sono mai regolate da nessun motivo e abbia un dominio talmente assoluto da non lasciar spazio all’influenza di nessun altro motivo. Pertanto, le cause da cui dipende l’azione non sono mai incontrollabili, e un certo effeo accadere altrimenti a meno e non avesse avuto luogo qualcosa e fosse stato in grado d’impedirgli d’accadere. Ma iamare questa circostanza con il nome di «necessità» significa usare il termine in un senso così differente dal suo significato positivo e familiare e da ciò e esso reca con sé nelle occasioni abituali della vita, da equivalere quasi a un giuoco di parole. Le associazioni derivate dal senso ordinario del termine vi aderiranno a dispeo di tuo quello e possiamo fare; e bené, così com’è stata enunciata dalla maggior parte di coloro e la sostengono, la dorina della necessità sia molto lontana dal fatalismo, è probabile e nei loro sentimenti la maggior parte dei necessitaristi siano più o meno fatalisti. Un fatalista crede, o crede a metà (peré nessuno è fatalista fino in fondo), non soltanto e tuo quello e sta per accadere sarà il risultato infallibile delle cause e lo producono (e questa è la vera dorina necessitaristica), ma oltre a questo crede e sia assolutamente inutile combaere contro quello e sta per accadere; e per quanti sforzi possiamo fare per impedirlo, quello e dovrà accadere accadrà. Ora, in quanto crede e le nostre azioni seguano dalla nostra organizzazione, dalla nostra educazione e dalle nostre circostanze, è probabile e per quanto riguarda le proprie azioni un necessitarista sia più o meno consapevolmente un fatalista; ed è probabile e creda e la sua natura sia tale, o e l’educazione e ha ricevuto e le circostanze e l’hanno accompagnata abbiano foggiato il suo caraere in modo tale, e nulla possa ora impedirgli di sentire o di agire in un modo particolare, o almeno, e per quanti sforzi faccia non potrà impedirsi di sentire o di agire in quel determinato modo. Per usare le parole della sea e ai giorni nostri ha inculcato con la maggior perseveranza, e ha frainteso nella maniera più irragionevole questa grande dorina: il caraere di quell’uomo è formato per lui e non da lui; per questa ragione è perfeamente inutile e desideri e il suo caraere sia stato formato in modo differente; non ha nessun potere di alterarlo. E questo è un grosso errore. In una certa misura l’uomo ha il potere di alterare il proprio caraere. Il fao e in ultima analisi il suo caraere sia stato formato per lui non è incompatibile con il fao e sia stato formato parzialmente da lui, in quanto lui è uno degli agenti intermedi. Il suo

caraere è stato formato dalle sue circostanze (e tra queste è compresa la sua particolare organizzazione) ma il suo desiderio di forgiarlo in modo particolare è una di quelle circostanze, e non si traa affao di una delle circostanze meno importanti. In realtà noi non possiamo voler direamente essere differenti da quello e siamo; ma neppure coloro e dovrebbero aver formato il nostro caraere volevano direamente e fossimo quello e siamo. La loro volontà non aveva nessun potere direo, ecceo e sulle loro azioni. Ci hanno fai tali quali ci hanno fai, volendo non già i fini, ma i mezzi necessari: e quando le nostre abitudini non siano inveterate possiamo, volendo in maniera analoga i mezzi necessari, renderci differenti. Se quelli hanno potuto meerci soo l’influenza di certe circostanze, noi possiamo, in maniera analoga, meerci soo l’influenza di circostanze differenti; se lo vogliamo, siamo capaci di fare il nostro proprio caraere esaamente come gli altri sono stati capaci di farlo per noi.

Frontespizio del Sistema di logica in traduzione francese (Parigi, 1866)

Sì, risponde il seguace di Owen2, ma con queste parole: «se lo vogliamo», tu mi concedi il punto essenziale della questione: infai la volontà di alterare il nostro caraere non ci è data dai nostri sforzi, ma da circostanze e non possiamo evitare. O ci viene dalle circostanze esterne o non ci viene affao. Verissimo; se si ferma qui, l’Owenita è in una posizione da cui nessuno potrà sloggiarlo; il nostro caraere è formato da noi tanto quanto è formato per noi; ma il desiderio e c’induce a tentar di formarlo è formato per noi; e come? Non, in generale, dalla nostra organizzazione né, in tuo e per tuo, dall’educazione e abbiamo ricevuto, bensì dalla nostra esperienza: dall’esperienza delle conseguenze spiacevoli del caraere e avevamo prima o da quale aspirazione risvegliatasi accidentalmente. Ma il pensare e non abbiamo nessun potere di alterare il nostro caraere, e il pensare e non useremo il nostro potere a meno e non desideriamo usarlo, sono cose molto differenti, e hanno effei molto differenti sulla mente. Una persona e non desideri cambiare il proprio caraere non può essere la persona e dovrebbe sentirsi paralizzato o scoraggiato dal pensiero di non essere in grado di farlo. L’effeo deprimente della dorina fatalistica si può sentire soltanto quando c’è un desiderio di fare quello e la dorina rappresenta come impossibile. Se non proviamo nessun desiderio nostro proprio di formare il nostro caraere, non ha la minima importanza e cosa noi crediamo e lo formi; ha però una grande importanza e nulla e nessuno c’impedisca di provare un desiderio di quel genere facendoci pensare e l’impresa sarà impossibile; ed è estremamente importante e, se lo desideriamo, sappiamo e l’opera non è stata compiuta in maniera così irrevocabile e sarà impossibile alterarla. E in realtà, se esaminiamo la questione da vicino, troveremo e questo sentimento — il sentimento, cioè, della nostra capacità di modificare il nostro caraere se lo vogliamo — è proprio il sentimento di libertà morale del quale siamo consapevoli. Si sente moralmente libera la persona e si rende conto e le sue abitudini e le sue tentazioni non sono i suoi padroni, ma e si rende conto di essere il loro padrone; e ane quando cede ad abitudini e a tentazioni sa e potrebbe resistere; e se desiderasse di sbarazzarsene completamente non sarebbe necessario, per questo, e provasse un desiderio più forte di quello e sa di essere in grado di provare. Naturalmente, per rendere completa la nostra consapevolezza della libertà, è necessario e siamo riusciti a fare del nostro caraere tuo quello e abbiamo tentato di farne finora; peré, se l’abbiamo desiderato e non ci

siamo riusciti, in questa misura non abbiamo nessun potere su di esso: non siamo liberi. O, almeno, dobbiamo sentire e il nostro desiderio, pur non essendo abbastanza forte da alterare il nostro caraere, è abbastanza forte da vincerlo quando caraere e desiderio entrino in conflio in un qualsiasi caso particolare della nostra condoa. E pertanto si dice il vero quando si dice e nessuno è completamente libero, se non una persona di provata virtù. L’applicazione di un termine così improprio come il termine «necessità» alla dorina della causa e dell’effeo in materia di caraere umano, mi sembra uno dei casi più notevoli, e si siano verificati in filosofia, di caivo uso dei termini; e le sue conseguenze pratie mi sembrano uno dei casi più lampanti del potere e il linguaggio ha sulle nostre associazioni. In generale, l’argomento non sarà mai capito fin quando non si sarà lasciato cadere quel termine così discutibile. La dorina del libero arbitrio, mantenendo dinnanzi agli oci né più né meno e quella parte della verità e la parola «necessità» sorae alla nostra vista — vale a dire il potere proprio della mente di cooperare alla formazione del suo stesso caraere — ha dato ai suoi sostenitori un sentimento pratico e è più vicino alla verità di quanto non lo sia quello e in generale è esistito (secondo me) nelle menti dei necessitaristi. Forse questi ultimi avranno avuto un senso più forte dell’importanza di quello e gli esseri umani possono fare per formare i caraeri gli uni degli altri; ma io credo e la dorina del libero arbitrio abbia nutrito, nei suoi sostenitori, uno spirito di autoeducazione molto più forte. 4. Oltre all’esistenza di un potere di autoformazione, c’è ancora un fao sul quale è indispensabile riiamare l’aenzione prima e si sia in grado di liberare la dorina della causalità delle azioni umane dalla confusione e dai fraintendimenti e la circondano in molti spiriti. ando si dice e la volontà è determinata dai motivi, «motivo» non significa sempre, o soltanto, l’anticipazione di un piacere o di un dolore. i non starò a cercar di stabilire se sia vero e inizialmente tue le nostre azioni volontarie sono puri e semplici mezzi impiegati consapevolmente allo scopo di procurarci quale piacere o di evitarci quale dolore. È certo, almeno, e araverso l’influenza dell’associazione arriviamo gradatamente al punto di desiderare i mezzi senza pensare al fine: l’azione stessa diventa un oggeo di desiderio, e viene compiuta senza e si faccia riferimento ad alcun motivo al di là dell’azione stessa. Fino a questo punto è ancora possibile obieare, l’azione

essendo diventata piacevole in forza dell’associazione, e noi siamo spinti ad agire dall’anticipazione di un piacere, vale a dire dal piacere dell’azione in sé e per sé, né più né meno di quanto lo eravamo prima. Ma ammesso questo, la cosa non finisce qui. Nella misura in cui la formazione delle nostre abitudini procede e noi ci abituiamo a volere un ao particolare o un particolare insieme di condoe peré sono piacevoli, continuiamo infine a volerli senza alcun riferimento al fao e siano piacevoli. Ane se, a causa di quale cambiamento in noi o nelle nostre circostanze, abbiamo cessato di provare un qualsiasi piacere nell’azione o, forse, abbiamo cessato di anticipare un qualsiasi piacere come conseguenza dell’azione, tuavia continuiamo a desiderare di compiere l’azione e, di conseguenza, la compiamo. In questo modo le abitudini agli eccessi nocivi continuano a essere praticate ane quando tali eccessi abbiano cessato di essere piacevoli; e in questa maniera si dà ane il caso e l’abitudine di voler perseverare sulla strada e ha scelto non abbandoni l’eroe morale neane quando la ricompensa e indubbiamente gli proviene dalla consapevolezza del dovere compiuto non controbilancia affao le sofferenze cui si soopone o i desideri cui, forse, è costreo a rinunciare. Un abito a volere viene comunemente iamato uno scopo; e tra le cause delle nostre volizioni e delle azioni e ne derivano devono essere annoverate, non soltanto le inclinazioni e le avversioni, ma ane gli scopi. Solo quando i nostri scopi sono diventati indipendenti dalle sensazioni di dolore e di piacere da cui sorsero originariamente, si dice e il nostro caraere è stato provato in modo definitivo. «Un caraere, dice Novalis, è una volontà completamente forgiata»; e la volontà, una volta e sia stata così formata, può essere stabile e costante, mentre le receività passive del piacere e del dolore sono grandemente indebolite e sostanzialmente mutate. Con le correzioni e le spiegazioni e abbiamo dato ora, la dorina della causazione delle nostre volizioni da parte dei motivi, e dei motivi da parte degli oggei di desiderio e ci vengono proposti, combinati con le nostre particolari susceibilità al desiderio, si può considerare, spero, sufficientemente consolidata per gli scopi di questo traatoa. a.

Alcune argomentazioni e alcune spiegazioni supplementari a quelle del testo si troveranno in An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy, cap. XXVI. 1. Pelagio (circa 360-circa 431 d. C), filosofo d’origine inglese, autore di numerosissimi scrii quasi tui perduti. Dal 384 al 410 fu a Roma, dove compose, tra l’altro, un Commentario a S. Paolo. Con

l’invasione dei Vandali si recò in Palestina dove fu accusato di eresia (nel 411) ma fu assolto dall’imputazione. Il punto di vista di Pelagio consiste nella svalutazione della grazia ai fini della salvezza (e nella totale dissociazione di libertà umana e grazia divina); non si può dire e il peccato d’Adamo abbia indebolito la libertà originaria dell’uomo e la sua capacità di fare il bene: esso è semplicemente un caivo esempio e agisce a distanza sulla posterità, ma del quale l’uomo — e è essenzialmente buono — può liberarsi con le sue sole forze. Di conseguenza l’uomo non ha bisogno, per la propria salvezza, né dell’aiuto rappresentato dall’incarnazione, né della mediazione rappresentata dai sacramenti. La dorina pelagiana venne condannata come eretica nei concili di Cartagine del 417 e del 418. 2. Robert Owen (1771-1858), filantropo e riformatore inglese. Basandosi sulla teoria e il caraere dell’uomo è formato da circostanze sulle quali l’uomo non ha alcun controllo e e perciò l’unico modo per formare il caraere degli uomini è quello di meerli nelle circostanze adae fin dall’infanzia, Owen fondò la comunità di New Lanark, in cui tentò di realizzare una società giusta fondata sul lavoro e l’educazione dei suoi membri. Incoraggiato dal buon funzionamento della comunità di New Lanark, Owen fondò in séguito altre comunità negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Irlanda. Fu tra i promotori e i leaders del nascente sindacalismo inglese. Dopo il 1834 si dedicò alla diffusione e alla predicazione delle proprie idee di riforma. La sua opera principale è A New View of Society, Or Essay on the Principle and the Formation of Human Character [Una nuova visione della società, ossia: Saggio sul principio e sulla formazione del carattere umano] (1813).

CAPITOLO III. C’È, O PUÒ ESSERCI, UNA SCIENZA DELLA NATURA UMANA 1. È nozione comune, o almeno è implicito in molti modi di dire comuni, e i pensieri, i sentimenti e le azioni degli esseri senzienti non sono oggeo di scienza nel medesimo senso rigoroso in cui sono oggei di scienza gli oggei della natura esterna. esta nozione sembra contenere alcune confusioni di idee e è necessario cominciar con il iarire. In sé e per sé sono adai a diventare oggeo di scienza tui quei fai e seguono l’un l’altro secondo leggi costanti, ane se può darsi e queste leggi non siano ancora state scoperte o, date le nostre risorse auali, non sia neppure possibile scoprirle. Si prenda, per esempio, la classe più familiare dei fenomeni metereologici: quelli della pioggia e del bel tempo. L’indagine scientifica non è ancora riuscita ad accertare l’ordine di antecedenza e di conseguenza di questi fenomeni in modo da essere in grado di predirli con certezza o magari con un alto grado di probabilità, almeno nelle nostre regioni della Terra. Tuavia nessuno dubita e i fenomeni dipendano da leggi e e queste leggi debbano essere leggi derivate e risultano da leggi fondamentali note: quelle del calore, dell’elericità, dell’evaporazione e dei fluidi elastici. Né si può dubitare e, se avessimo una conoscenza direa di tue le circostanze antecedenti potremmo predire, salve le difficoltà proprie del calcolo, lo stato del tempo in qualsiasi istante futuro, ane a partire da queste leggi più generali. Perciò la meteorologia non soltanto possiede in se stessa tui i requisiti naturali per essere una scienza, ma di fao è una scienza; ane se, data la difficoltà di osservare i fai da cui dipendono i fenomeni (difficoltà e è intrinseca alla natura particolare di quei fenomeni) si traa di una scienza estremamente imperfea; e, se fosse perfea, avrebbe probabilmente ben poca utilità in pratica, dal momento e raramente sarebbe possibile procurarsi i dati indispensabili per applicare i suoi princìpi a casi particolari. Si può concepire un caso e ha un caraere intermedio tra la perfezione della scienza e questa sua imperfezione estrema. Può accadere e le cause maggiori — quelle cioè da cui dipende la parte principale dei fenomeni — siano alla portata della misurazione e dell’osservazione, cosicé, se non intervenisse nessun’altra causa, si potrebbe dare una spiegazione completa

non soltanto del fenomeno in generale, ma di tue le variazioni e di tue le modificazioni di cui il fenomeno è susceibile. Ma siccome in molti casi con quelle cause maggiori cooperano o sono in conflio altre cause (e magari molte) e prese separatamente sono insignificanti dal punto di vista dei loro effei, l’effeo presenterà, in conseguenza di questo, una maggiore o minore deviazione da quello e sarebbe il prodoo delle sole cause maggiori. Ora, se queste cause minori non sono accessibili così costantemente, o non sono accessibili affao, a un’osservazione accurata, del corpo principale dell’effeo si può ancora rendere ragione, come prima, e lo si può addiriura predire: ma ci saranno variazioni e modificazioni, per spiegare completamente le quali non avremo la competenza necessaria, e le nostre predizioni a proposito delle quali non si avvereranno completamente, ma soltanto in modo approssimativo. Così accade, per esempio, con la teoria delle maree. Nessuno dubita e la teoria delle maree (o «mareologia» [tidology, da tide, marea], come propone di iamarla il door Whewell) sia davvero una scienza. Di tua quella parte dei fenomeni e dipende dall’arazione del Sole e della Luna abbiamo una comprensione completa, e possiamo predirla con certezza per tue le parti della superficie terrestre, ane per quelle sconosciute; e la parte di gran lunga maggiore dei fenomeni dipende da queste cause. Ma in molti posti, e forse ane in tui, l’altezza e gli orari delle maree sono influenzati da circostanze di natura locale o casuale, quali la configurazione del fondo del mare, la distanza dalle coste, la direzione dei venti e via discorrendo; e siccome una certa parte di queste circostanze o non può essere conosciuta accuratamente, o non può essere prevista con certezza, di solito nei posti noti le maree variano rispeo ai risultati dei calcoli eseguiti in base a princìpi generali, con certe differenze e non siamo in grado di spiegare, mentre può darsi e nei luoghi sconosciuti la variazione da questo risultato sia tale e non siamo in grado né di prevederla né di congeurarla. Nondimeno, non soltanto è certo e queste variazioni dipendono da cause e seguono le loro cause in base a leggi infallibilmente uniformi; non soltanto, perciò, la scienza delle maree è una scienza come la metereologia; ma è ane quello e, almeno fino a questo momento, la metereologia non è: una scienza largamente disponibile per scopi pratici. Si possono enunciare leggi generali delle maree; su queste leggi si possono fondare predizioni e, forse non con accuratezza completa, ma almeno nelle sue linee principali, il risultato corrisponderà alle previsioni.

E questo intende, o dovrebbe intendere, i parla di scienze e non sono scienze esatte. Una volta l’astronomia era una scienza senza peraltro essere una scienza esaa. E non poté diventare una scienza esaa fin quando non si rese ragione, non soltanto del corso generale dei movimenti dei pianeti, ma ane delle loro perturbazioni, e tue queste cose non furono fae risalire alle loro cause. L’astronomia è diventata una scienza esaa peré i fenomeni di cui si occupa sono stati riportati soo leggi e comprendono la totalità delle cause dalle quali i fenomeni medesimi sono influenzati — sia in grande misura, sia soltanto in misura trascurabile, sia in tui i casi, sia soltanto in alcuni — e e aribuiscono a ciascuna di queste cause la parte di effei e realmente le spea. Ma nella teoria delle maree le sole leggi finora accertate con precisione sono le leggi delle cause e influenzano i fenomeni in ogni caso e in misura considerevole, mentre altre cause, e le influenzano soltanto in alcuni casi e, dato e le influenzino, lo fanno soltanto in grado trascurabile, non sono state accertate e non sono state studiate abbastanza da meerci in grado di dedurre la legge completa del fenomeno componendo gli effei delle cause maggiori con gli effei delle cause minori. Pertanto, la scienza delle maree non è ancora una scienza esaa; non per un’incapacità intrinseca di esserlo, ma per la difficoltà di accertare con precisione completa le reali uniformità derivate. Comunque, combinando le leggi esae delle cause maggiori e di quelle cause minori di cui abbiamo una conoscenza sufficiente, con quelle leggi empirie o con quelle generalizzazioni approssimate e riguardano le variazioni miste e si possono oenere con l’osservazione specifica, possiamo enunciare proposizioni generali, e saranno vere nelle loro linee principali e sulle quali, tenendo conto del grado della loro probabile imprecisione, possiamo fondare con sicurezza le nostre aspeative e la nostra condoa. 2. La scienza della natura umana è cosiffaa. È ben lontana dal realizzare il modello di esaezza ora realizzato in astronomia; ma non c’è ragione peré non debba essere una scienza, allo stesso titolo a cui lo è la scienza delle maree al giorno d’oggi, o lo era l’astronomia all’epoca in cui i suoi calcoli erano arrivati soltanto a padroneggiare i fenomeni principali ma non le perturbazioni. I fenomeni di cui s’occupa questa scienza sono i pensieri, i sentimenti e le azioni degli esseri umani; pertanto essa avrebbe raggiunto la perfezione ideale di una scienza se ci meesse in grado di predire, con la stessa certezza

con cui l’astronomia ci mee in grado di predire le posizioni e gli occultamenti dei corpi celesti, il modo in cui un individuo sentirà o agirà per tua la sua vita. È praticamente superfluo dire e non si può far nulla e s’approssimi a tuo questo. Le azioni degli individui non potrebbero essere predee con accuratezza scientifica, non foss’altro peré non possiamo prevedere la totalità delle circostanze in cui verranno a trovarsi questi individui. Ma oltre a questo, neane in una combinazione data di circostanze (presenti), a proposito della maniera in cui gli esseri umani penseranno, sentiranno o agiranno si possono fare asserzioni e siano, nel medesimo tempo, precise e universalmente vere. esto, però, non accade peré i modi di pensare, di sentire e di agire di ogni persona non dipendano da cause; e non possono esserci dubbi e, se i nostri dati a proposito di un qualsiasi individuo potessero essere completi, ane la conoscenza e aualmente abbiamo delle leggi fondamentali da cui sono determinati i fenomeni della mente sarebbe sufficiente a meerci in grado di predire con discreta certezza quale sarà la condoa o quali saranno i sentimenti di quest’individuo nel maggior numero pensabile di circostanze. Però non soltanto le impressioni e le azioni degli esseri umani sono il risultato delle circostanze presenti di questi esseri ma sono il risultato congiunto di quelle circostanze e dei caraeri degli individui; e gli agenti e determinano il caraere dell’uomo sono così numerosi e tra loro così diversificati (nulla e sia accaduto alla persona nel corso della sua vita è infai privo della sua parte d’influenza), e, presi insieme, non sono mai esaamente simili in due casi differenti. indi, ane se la nostra scienza della natura umana fosse teoricamente perfea — vale a dire ane se potessimo calcolare un caraere come possiamo calcolare l’orbita di un pianeta, in base a certi dati di cui disponiamo — tuavia, siccome i dati non ci sono mai dati tui, e non sono neppure esaamente eguali in casi differenti, non potremmo fare predizioni positive né potremmo enunciare proposizioni universali. Siccome, però, come le maree, molti di quegli effei e è più importante rendere riconducibili alla previsione e al controllo da parte degli uomini sono determinati da cause generali in una misura incomparabilmente maggiore di quanto non lo siano da tue le loro cause parziali prese insieme (e infai tali effei dipendono principalmente da quelle circostanze e da quelle qualità e sono comuni a tuo il genere umano o almeno a larghe parti di esso, mentre soltanto in piccola misura dipendono dalle idiosincrasie o dall’organizzazione o dalla storia particolare degli individui) sarà

evidentemente possibile fare predizioni e saranno verificate quasi sempre, e formulare proposizioni generali e saranno quasi sempre vere, sopra tui gli effei di questo genere. E ogni qual volta è sufficiente sapere in qual modo penserà, sentirà e agirà la grande maggioranza della razza umana o di quale nazione, o di quale classe di persone, queste proposizioni saranno equivalenti a proposizioni universali. Per gli scopi della scienza politica e sociale questo è sufficiente. Come abbiamo osservato precedentementea, nelle indagini sociali una generalizzazione approssimativa è equivalente, per la maggior parte degli scopi pratici, a una generalizzazione esaa; quello e è soltanto probabile quando viene asserito di esseri umani scelti indiscriminatamente è infai certo quando venga affermato del caraere e della condoa colleivi delle masse. Non costituisce pertanto un motivo per denigrare la scienza della natura umana il fao e quelle sue proposizioni generali e entrano nei deagli per quel tanto e basta per servire come fondamento per la predizione di fenomeni in concreto siano, per la maggior parte, vere soltanto approssimativamente. Ma allo scopo di dare un caraere genuinamente scientifico a questa disciplina è indispensabile e queste generalizzazioni approssimate, e in se stesse equivarrebbero soltanto alla specie più bassa di leggi empirie, siano connesse deduivamente con le leggi di natura dalle quali risultano; siano risolte nelle proprietà delle cause dalle quali dipendono i fenomeni. In altre parole, si può dire e la scienza della natura umana esiste nella misura in cui le verità approssimate, di cui si compone una conoscenza pratica dell’umanità, possono essere esibite come corollari delle leggi universali di natura sulle quali riposano; con questo si sarebbero mostrati i limiti propri di queste verità approssimate, e noi saremmo messi in grado di dedurne altre per ogni nuovo stato di circostanze, anticipando così l’esperienza specifica. La proposizione e ho enunciato ora costituisce il testo di cui i due capitoli successivi forniranno il commento. a.

Cfr. più sopra, libro III, cap. XXIII.

CAPITOLO IV. LE LEGGI DELLA MENTE 1. Sarebbe estraneo allo scopo di questo traato il considerare e cosa sia la mente e, così pure, e cosa sia la materia; e al suo scopo sarebbe ane estranea qualsiasi altra questione e riguardi le cose in se stesse, in quanto distinte dalle loro manifestazioni sensibili. Come abbiamo fao per tua quanta la nostra ricerca, qui ci terremo alla larga da tue le speculazioni riguardanti la natura propria della mente, e con «leggi della mente» intenderemo le leggi dei fenomeni mentali: dei vari sentimenti o stati di coscienza degli esseri senzienti. Secondo la classificazione e abbiamo uniformemente seguìto, gli stati di coscienza consistono di: pensieri, emozioni, volizioni e sensazioni; queste ultime sono infai stati della mente allo stesso titolo a cui lo sono i tre primi. Si è soliti, però, parlare delle sensazioni come di stati del corpo, non della mente. Ma questa è la confusione comune, e consiste nel dare un solo e medesimo nome sia al fenomeno sia alla causa prossima o alle condizioni del fenomeno. L’antecedente immediato di una sensazione è uno stato del corpo, ma la sensazione stessa è uno stato della mente. Se significa qualcosa, la parola «mente» signifierà una cosa e sente. ale e sia l’opinione e abbiamo a proposito dell’identità fondamentale di, o della fondamentale diversità tra, materia e mente, in ogni caso la distinzione tra fai mentali e fai fisici, tra mondo interno e mondo esterno, rimarrà sempre come fao di classificazione; e in questa classificazione le sensazioni, come tui gli altri sentimenti, devono essere annoverate tra i fenomeni mentali. Il meccanismo secondo il quale si producono, sia nel corpo stesso, sia in quella e si iama natura esterna, è tuo quello e può essere propriamente classificato come fisico. I fenomeni della mente sono pertanto i vari sentimenti della nostra natura: sia quelli iamati impropriamente fisici, sia quelli designati, in modo peculiare, come mentali; e per «leggi della mente «io intendo le leggi secondo le quali questi sentimenti si generano l’uno dall’altro. 2. Tui gli stati della mente sono causati immediatamente o da altri stati della mente o da stati del corpo. ando uno stato della mente è prodoo da

uno stato della mente, iamo «legge della mente» la legge e entra in questo caso. ando uno stato della mente è prodoo direamente da uno stato corporeo la legge è una legge del corpo, e appartiene alla scienza fisica. Per quanto riguarda quegli stati della mente e sono iamati sensazioni, tui sono d’accordo e essi hanno stati del corpo come loro antecedenti immediati. Ogni sensazione ha come sua causa prossima quale affezione di quella parte della nostra struura iamata sistema nervoso, sia e quest’affezione trovi la sua origine nell’azione di quale oggeo esterno, sia e la trovi in quale condizione patologica della stessa organizzazione nervosa. Le leggi di questa parte della nostra natura — le varietà delle nostre sensazioni e le condizioni fisie da cui queste dipendono più da vicino — appartengono manifestamente al dominio della fisiologia. Se il resto dei nostri stati mentali dipenda, in maniera analoga, da condizioni fisie, è una delle vexatae quaestiones della scienza della natura umana. È ancora materia di discussione se i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre volizioni siano generati dall’intervento di un meccanismo materiale; se noi abbiamo organi di pensiero e di emozione nel medesimo senso in cui abbiamo organi di sensazione. Molti eminenti fisiologi sostengono di sì. Sostengono e un pensiero (per esempio) è il risultato di un’azione nervosa tanto quanto lo è una sensazione; e ogni stato della nostra coscienza è invariabilmente preceduto da quale stato particolare del nostro sistema nervoso, e in particolare di quella parte centrale del nostro sistema nervoso iamata «cervello», e lo presuppone. Secondo questa teoria uno stato della mente non è mai realmente prodoo da un altro stato della mente; tui gli stati della mente sono prodoi da stati del corpo. ando un pensiero sembra riiamarne un altro per associazione, non si traa, in realtà, di un pensiero e riiama un altro pensiero. L’associazione non esisteva tra i due pensieri, ma tra i due stati del cervello o dei nervi e hanno preceduto i pensieri. Uno di questi stati riiama l’altro, e ciascuno è accompagnato, nel suo passaggio, da un particolare stato di coscienza, e è il suo conseguente. Secondo questa teoria le uniformità di successione tra stati della mente sarebbero pure e semplici uniformità derivate, risultanti dalle leggi di successione degli stati del corpo e le causano. Non ci sarebbero affao leggi della mente, nel senso in cui io uso quest’espressione, e la scienza della mente sarebbe una pura e semplice branca, sia pure la più alta e la più recondita, della scienza della fisiologia. Di conseguenza, il signor Comte aribuisce esclusivamente

ai fisiologi il dirio a vantare una competenza scientifica sui fenomeni intelleuali e morali; e non soltanto nega il caraere di scienza alla psicologia o filosofia della mente propriamente dea, ma, per la natura imerica dei suoi oggei e delle sue pretese, la relega quasi sullo stesso piano dell’astrologia. Ma dopo e si sia deo tuo quello e si poteva dire, resta incontestabile e tra gli stati della mente esistono uniformità di successione, e e queste uniformità possono essere accertate con l’osservazione e l’esperimento. Inoltre, e ogni stato mentale abbia come suo antecedente immediato e come sua causa prossima uno stato dei nervi, sarà forse estremamente probabile, ma fino ad oggi non si può dire e sia stato provato nel modo conclusivo in cui la stessa cosa si può provare delle sensazioni. E ane se la cosa fosse certa, tuavia ognuno dovrà per forza ammeere e noi ignoriamo completamente le caraeristie di questi stati nervosi: non sappiamo, e per il momento non abbiamo alcun mezzo per sapere, per quali aspei uno di essi differisca da un altro; e il solo modo a nostra disposizione per studiare le loro successioni e le loro coesistenze, consisterà necessariamente nell’osservare le successioni e le coesistenze di cui si suppone e siano i generatori o le cause. Pertanto, le successioni e vigono tra i fenomeni mentali non possono essere dedoe dalle leggi fisiologie della nostra organizzazione nervosa; e per un lungo tempo, se non per sempre, tua la conoscenza reale e potremo averne dovrà necessariamente continuare a essere cercata nello studio direo, compiuto mediante l’osservazione e l’esperimento, delle successioni mentali stesse. Pertanto, dal momento e l’ordine dei nostri fenomeni mentali dev’essere studiato in quei fenomeni e non può essere inferito dalle leggi di fenomeni più generali, una scienza, distinta e separata della mente, non esiste. È però vero e le relazioni di questa scienza con la scienza della fisiologia non dovranno mai essere trascurate o soovalutate. Non si dovrà, per nessuna ragione, dimenticare e può darsi e le leggi della mente siano leggi derivate, e risultano dalle leggi della vita animale e e perciò la loro verità può dipendere, in ultima analisi, da condizioni fisie; e l’influenza e gli stati fisiologici esercitano nell’alterare o nel contrastare le successioni mentali costituisce una delle parti più importanti dello studio della psicologia. Ma d’altra parte, il rifiutare le risorse offerte dall’analisi psicologica, e il costruire la teoria della mente soltanto sopra quei dati e la fisiologia ci fornisce al giorno d’oggi, mi sembra un errore di principio

altreanto grave, e un errore pratico ancora più serio. Per imperfea e sia la scienza della mente, non esito ad affermare e essa si trova in uno stato considerevolmente più progredito di quella parte della fisiologia e le corrisponde; e lo scartare la prima in favore della seconda mi sembra una violazione dei veri canoni della filosofia induiva, violazione e non può non produrre, e e in effei produce, conclusioni erronee in alcuni dipartimenti molto importanti della scienza della natura umana. 3. Dunque, l’oggeo della psicologia è costituito dalle uniformità di successione, dalle leggi — fondamentali o derivate — secondo cui uno stato mentale succede a un altro stato mentale; è causato da, o almeno è determinato a seguire a, un altro stato mentale. Di queste leggi, alcune sono generali, altre più speciali. Le leggi seguenti sono esempi delle leggi più generali. Primo. Ogni qualvolta uno stato di coscienza sia stato eccitato in noi, non importa da quali cause, può essere riprodoo in noi, senza e sia presente nessuna di quelle cause e l’hanno eccitato per la prima volta, un grado inferiore del medesimo stato di coscienza, vale a dire uno stato di coscienza e somiglia al primo ma e ha un’intensità inferiore. Così, se una volta abbiamo visto o abbiamo toccato un oggeo, in séguito possiamo pensare all’oggeo ane se esso sarà assente dalla nostra vista, o se non abbiamo nessuna possibilità di toccarlo. Se siamo stati allegri o tristi di fronte a quale evento, possiamo pensare a, o ricordare, la nostra gioia o il nostro dolore passati, ane se non ha avuto luogo nessun evento di natura tale da suscitare gioia o da suscitare dolore. ando un poeta abbia messo insieme nella propria mente il quadro di un oggeo immaginario, di un Castello d’Indolenza1, di un’Una2, o di un Amleto, in séguito può pensare all’oggeo intelleuale e ha creato senza e per pensarci sia necessario un nuovo ao di combinazione intelleuale. esta legge si esprime, nel linguaggio di Hume, dicendo e ogni impressione mentale ha la sua idea. Secondo. este idee, o stati mentali secondari, vengono eccitate dalle nostre impressioni, o da altre idee, secondo certe leggi e si iamano leggi dell’associazione. La prima di queste leggi dice e idee simili tendono a eccitarsi vicendevolmente. La seconda, e quando due impressioni siano state esperite (o ane pensate) simultaneamente o in successione immediata, allora, tue le volte e ricorre, una di queste impressioni o l’idea corrispondente tende ad eccitare l’idea dell’altra. La terza legge è: Una

maggiore intensità nell’una, o nell’altra, o in entrambe le impressioni, equivale, quanto al far sì e queste impressioni siano eccitabili l’una dall’altra, a una maggiore frequenza di congiunzione. este sono le leggi delle idee, e su di esse non mi diffonderò in questo luogo. Piuosto, rimando il leore ad opere e traino diiaratamente di psicologia, e in particolare alla Analysis of the Phenomena of the Human Mind del signor James Mill. i si trovano copiosamente esemplificate, con mano maestra, le principali leggi dell’associazione e molte delle loro applicazionia. este leggi semplici, o elementari, della mente sono state accertate in base ai metodi ordinari dell’indagine sperimentale; e del resto non le si sarebbe potute accertare in nessun’altra maniera. Ma avendo oenuto in questo modo un certo numero di leggi elementari, è un buon oggeo di ricerca scientifica il determinare fino a qual punto si possano far arrivare queste leggi nella spiegazione dei fenomeni e hanno effeivamente luogo. È ovvio e le leggi complesse del pensiero e del sentimento, non soltanto possono, ma non possono non, essere generate da queste leggi semplici. E occorre osservare e il caso non è sempre un caso di composizione delle cause: non sempre l’effeo di un concorso di cause equivale precisamente alla somma degli effei di quelle cause prese separatamente, e neppure è sempre un effeo della stessa specie cui appartengono quelle cause. Per ritornare alla distinzione e occupa un posto di tanta preminenza nella teoria dell’induzione: quale volta le leggi dei fenomeni della mente sono analoghe alle leggi della meccanica; ma quale volta, ane, sono analoghe alle leggi della imica. Talvolta, quando molte impressioni o molte idee operano insieme nella mente, ha luogo un processo di specie simile a quello della combinazione imica. ando certe impressioni siano state provate congiuntamente così spesso e ciascuna di esse riiami prontamente e istantaneamente l’idea dell’intiero gruppo, queste idee quale volta si confondono e si aggiungono l’una all’altra in modo da formare un corpo unico e appaiono, non come parecie idee, ma come una sola idea, allo stesso modo e si produce la sensazione di bianco quando si presentano all’ocio in rapida successione i see colori del prisma. Ma siccome in quest’ultimo caso è correo il dire e i see colori, quando si seguano rapidamente l’un l’altro, generano il bianco, ma non è correo il dire e i see colori sono effeivamente il bianco, così mi sembra e si possa dire e l’idea complessa formata mescolando tra loro parecie idee semplici, quando realmente appare semplice (vale a dire, quando gli elementi separati

e la compongono non possono essere distinti consapevolmente) risulta, o è generata, dalle idee semplici, e non e consiste di esse. La nostra idea di un’arancia consiste realmente delle idee semplici di un certo colore, di una certa forma, di un certo sapore e di un certo odore, e via enumerando, peré, interrogando la nostra coscienza, possiamo percepire nell’idea tui questi elementi. Ma in un sentimento apparentemente così semplice come la nostra percezione visiva della forma di un oggeo, non possiamo percepire tua quella moltitudine di idee derivate dagli altri sensi senza la quale, come è stato ben accertato, non sarebbe mai esistita nessuna percezione visiva di questo genere. E nella nostra idea di estensione non possiamo scoprire quelle idee elementari di resistenza, derivate dalla nostra struura muscolare, in cui, come è stato mostrato in modo definitivo, si origina l’idea. Perciò, questi sono casi di imica mentale nei quali è appropriato dire e le idee semplici, piuosto e comporre, generano le idee complesse. Per quanto riguarda tui gli altri costituenti della mente, le sue credenze, le sue concezioni più astruse, i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue volizioni, ci sono alcuni (tra cui Hartley e l’autore dell’Analysis) e pensano e tue queste idee vengano generate da idee semplici o sensazioni mediante una imica simile a quella e abbiamo appena esemplificato. esti filosofi sono riusciti a dimostrare una gran parte della loro tesi, ma io sono convinto e non l’abbiano provata tua. Hanno mostrato e esiste una cosa come la imica mentale, e la natura non omogenea di un sentimento A, considerata in relazione a B e a C, non è un argomento decisivo contro il fao e il sentimento sia stato generato da B e da C. Avendo provato questo, procedono a mostrare e, dove si trova A, erano presenti, o sarebbero potuti essere presenti, B e C. E allora, si iedono, peré A non dovrebbe essere stato generato da B e da C? Ma ane se queste prove fossero state portate al grado di completezza più alto di cui sono susceibili; ane se si fosse mostrato (cosa e finora non è stata mostrata in tui i casi) e certi gruppi di idee associate, non soltanto sarebbero potute essere presenti, ma erano effeivamente presenti in tui i casi in cui si è esperito il sentimento mentale più recondito, questo equivarrebbe soltanto al metodo della concordanza, e non potrebbe provare l’esistenza della causazione fin quando questa non fosse stata confermata dalle prove più concludenti del metodo della differenza. Se la questione fosse: se la credenza sia un puro e semplice caso di strea associazione

d’idee, sarebbe necessario esaminare sperimentalmente se sia vero e idee qualsiasi, puré associate tanto streamente quanto è necessario, diano origine alla credenza. Se si deve indagare l’origine dei sentimenti morali, per esempio l’origine del sentimento di riprovazione morale, è necessario confrontare tue le varietà delle azioni o degli stati della mente e siano mai stati oggeo di riprovazione morale, e vedere se in tui questi casi sia possibile mostrare, o sia possibile supporre ragionevolmente, e nella mente e disapprova l’azione o lo stato della mente vengono connessi per associazione con quale classe particolare di idee e generano odio o disgusto. E il metodo impiegato fino a questo punto è il metodo della concordanza. Ma questo non è sufficiente. Supposto e questo punto sia stato provato, dobbiamo ancora tentar di stabilire con il metodo della differenza se questa specie particolare di idee e generano odio o disgusto, quando vengano associate con un’azione e prima era indifferente, faranno sì e l’azione diventi oggeo di disapprovazione morale. Se a questa questione si potrà dare una risposta affermativa, allora si sarà mostrato e è una legge della mente umana e un’associazione di quel tipo particolare è la causa e genera la riprovazione morale. Che tue queste cose stiano veramente così, è stato reso estremamente probabile; ma gli esperimenti non sono stati tentati con quel grado di precisione necessaria a un’induzione completa e assolutamente concludenteb. Non si deve poi dimenticare e, ane se fosse possibile provare tuo quello e sostiene questa teoria dei fenomeni mentali, questo non potrebbe ancora renderci più capaci di risolvere le leggi dei sentimenti più complessi nelle leggi dei sentimenti più semplici. Il generarsi di una classe di fenomeni mentali dall’altra, dovunque lo si possa provare, è un fao estremamente interessante per la imica psicologica, ma non soppianta la necessità di uno studio sperimentale del fenomeno generato più di quanto la conoscenza delle proprietà dell’ossigeno e dello zolfo non ci mea in grado di dedurre, senza osservazioni e senza esperimenti specifici, le proprietà dell’acido solforico. Pertanto, quale e possa essere il risultato finale del tentativo di render conto dell’origine dei nostri giudizi, dei nostri desideri e delle nostre volizioni a partire dai fenomeni mentali più semplici, non sarà meno obbligatorio accertare le sequenze degli stessi fenomeni complessi mediante uno studio speciale condoo in conformità con i canoni dell’induzione. Così, per quanto riguarda la credenza, gli psicologi dovranno sempre indagare quali credenze abbiamo per coscienza direa, e secondo quali leggi una

credenza ne produca un’altra; quali siano le leggi in virtù delle quali la mente riconosce, correamente o scorreamente, e una certa cosa è prova di una cert’altra cosa. Per quanto riguarda il desiderio, dovranno esaminare quali oggei desideriamo naturalmente e in forza di quali cause siamo indoi a desiderare cose e originariamente ci sono indifferenti, o e troviamo addiriura sgradevoli, e così via. Si può osservare e le leggi generali dell’associazione valgono tra questi stati così intricati della mente nel medesimo modo in cui valgono tra quelli più semplici. ando siano diventati abituali, un desiderio, un’emozione, un’idea, appartenenti all’ordine più alto di astrazione, e persino i nostri giudizi e le nostre volizioni, vengono evocati dall’associazione esaamente secondo le stesse leggi dalle quali sono suscitate le nostre idee semplici. 4. Nel corso di quest’indagine sarà naturale e necessario esaminare fino a qual punto il prodursi di uno stato mentale dall’altro sia influenzato da un determinato stato del corpo. L’osservazione più comune è sufficiente a mostrare e menti differenti sono susceibili in gradi molto differenti all’azione delle medesime cause psicologie. Per esempio, l’idea di un dato oggeo desiderabile risveglierà, in menti differenti, desideri i cui gradi d’intensità sono molto differenti. Il medesimo oggeo di meditazione, presentato a menti differenti, susciterà in esse gradi molto differenti di aività intelleuale. este differenze di susceibilità mentale nei differenti individui possono essere, primo, fai originari e fondamentali; secondo, conseguenze della storia mentale precedente di quegli individui, oppure, terzo e ultimo, possono dipendere dalle varietà della loro organizzazione fisica. Che la storia mentale passata degli individui possa svolgere quale parte nel produrre o nel modificare il caraere mentale nel suo complesso, è una conseguenza inevitabile delle leggi della mente; ma e la differenza della struura corporea cooperi an’essa a questa produzione o a questa modificazione, è opinione di tui i fisiologi, opinione peraltro confermata dall’esperienza comune. C’è da deplorare e fino ad oggi quest’esperienza, e nelle sue grandi linee è stata acceata senza la debita analisi, sia stata messa a fondamento di generalizzazioni empirie estremamente dannose per il progresso della conoscenza reale. È certo e le differenze naturali e realmente esistono nelle predisposizioni mentali o nella susceibilità di persone differenti, spesso non vanno del tuo disgiunte da diversità proprie della costituzione organica di

queste persone. Ma non per questo segue e queste differenze organie debbano in ogni caso influenzare, direamente e immediatamente, i fenomeni mentali. Spesso agiscono su di essi araverso il mezzo delle loro cause psicologie. Per esempio, in persone differenti l’idea di un certo piacere particolare può eccitare desideri di forza molto differente ane indipendentemente dagli abiti e dall’educazione di quelle persone; e questo può essere l’effeo dei differenti gradi o delle differenti specie di susceibilità nervosa propri di queste persone; ma, non dobbiamo dimenticarlo, queste differenze organie renderanno la medesima sensazione di piacere più intensa in una di queste persone e non nell’altra, cosicé l’idea di quel piacere sarà ane un sentimento più intenso e, per l’azione delle sole leggi mentali, ecciterà un desiderio più intenso, senza e sia necessario supporre e il desiderio stesso sia direamente influenzato dalla particolarità fisica. Come in questo, così in molti altri casi, quelle differenze nella specie o nell’intensità delle sensazioni fisie e devono necessariamente risultare dalle differenze dell’organizzazione corporea, saranno sufficienti di per se stesse a rendere ragione di molte differenze, non soltanto nel grado, ma addiriura nella specie degli altri fenomeni mentali. E questo è tanto vero e le pure e semplici differenze d’intensità nelle sensazioni in generale produrranno addiriura qualità differenti della mente, differenti tipi di caraere mentale, come è stato ben messo in evidenza nell’abile saggio del signor Martineau sul door Priestley, menzionato in uno dei capitoli precedenti. «Le sensazioni e formano gli elementi di tua la conoscenza vengono recepite o simultaneamente o in successione; quando parecie di esse vengono recepite simultaneamente, come accade con l’odore, il sapore, il colore, la forma, ecc., di un fruo, la loro associazione costituisce la nostra idea di un oggetto; quando vengono recepite in successione, la loro associazione forma l’idea di un evento. Dunque, qualunque cosa favorisca le associazioni di idee sincrone, tenderà a produrre la conoscenza di oggei, la percezione di qualità, mentre qualunque cosa favorisca l’associazione in ordine di successione tenderà a produrre una conoscenza degli eventi, dell’ordine degli accadimenti e della connessione di causa e d’effeo; in altre parole, nel primo caso il risultato sarà una mente aperta alle percezioni, dotata di un sentimento e sa discriminare le proprietà piacevoli delle cose da quelle e arrecano dolore, un senso del grandioso e del bello; nell’altro, il risultato sarà una mente aenta ai movimenti e ai fenomeni, un intelleo

raziocinante e filosofico. Ora, è un principio riconosciuto, e tue le sensazioni esperite mentre è presente una qualsiasi sensazione vivida si associano fortemente con quest’impressione e l’una con l’altra: e non ne segue forse e i sentimenti sincroni di una costituzione sensitiva (cioè di una costituzione e ha impressioni vivide) siano mescolati più intimamente e non in una mente formata in modo differente? Se questo suggerimento ha un qualsiasi fondamento di verità, esso porterà a un’inferenza non priva di importanza: e, quando la natura abbia dotato l’individuo di una grande susceibilità originaria, quest’individuo si distinguerà probabilmente per il suo amore per la storia naturale, per la sua capacità di godere il bello e il grandioso, e per il suo entusiasmo morale. Dove, invece, non c’è e una sensibilità mediocre, è probabile e il risultato sarà l’amore per la scienza, per le verità astrae, accompagnato dalla mancanza di gusto e di entusiasmo». Vediamo, da quest’esempio, e quando delle leggi generali della mente si ha una conoscenza più accurata e, soprauo, quando vengano applicate con maggiore abilità alla spiegazione deagliata delle peculiarità della mente, queste leggi renderanno conto di un numero di queste peculiarità molto maggiore di quanto non si supponga ordinariamente. Sfortunatamente, la reazione dell’ultima generazione e della generazione auale contro la filosofia del secolo dicioesimo ha prodoo una trascuranza quasi generale nei confronti di questo grande dipartimento dell’indagine analitica, il cui progresso recente, di conseguenza, non è stato per nulla proporzionato alle sue promesse primitive. La maggior parte di coloro e speculano sulla natura umana preferiscono assumere dogmaticamente e le differenze e percepiscono o pensano di percepire tra le menti degli esseri umani, siano fai fondamentali, e non sono susceibili di essere spiegati o di essere cambiati, piuosto di prendersi la pena di meersi, facendo uso dei procedimenti di pensiero necessari, nella disposizione adaa a far risalire queste differenze mentali alle cause esterne da cui sono per la maggior parte prodoe e rimovendo le quali cesserebbero d’esistere. La scuola tedesca della speculazione metafisica, e non ha ancora perduto il suo predominio temporaneo sopra il pensiero europeo, tra le molte altre nefaste influenze ha avuto ane questa; e all’estremo opposto della scala psicologica, a nessun autore, antico o moderno e sia, quest’aberrazione dal vero spirito scientifico può essere imputata più di quanto può essere imputata al signor Comte. Comte.

È certo e almeno negli esseri umani le differenze di educazione e di circostanze esterne possono fornire una spiegazione adeguata della parte di gran lunga maggiore del caraere, e e del resto possono in gran parte rendere ragione certe differenze fisie nelle sensazioni prodoe in individui differenti dalla medesima causa esterna o interna. Comunque, ci sono alcuni fai mentali e non sembrano ammeere questi modi di spiegazione. Tali, per prendere il caso più forte, sono i vari istinti degli animali e quella parte della natura umana e corrisponde a questi istinti. Non è ancora stato suggerito nessun modo, neppure ipotetico, e renda possibile il dare una spiegazione soddisfacente o ane soltanto plausibile degli istinti in base alle sole cause psicologie. E ci sono forti ragioni per pensare e gli istinti abbiano una connessione tanto positiva, e addiriura tanto direa e immediata, con le condizioni fisie del cervello e dei nervi quanto ce l’ha una qualsiasi delle nostre sensazioni pure e semplici. Ipotesi, questa, e (forse non è superfluo aggiungere) non entra in conflio in nessun modo con il fao indiscutibile e questi istinti possono essere modificati a piacere, o addiriura possono essere vinti negli esseri umani, e in misura per nulla irrilevante perfino in qualcuno degli animali domestici, da altre influenze mentali o dall’educazione. Fino ad oggi è ancora molto lontano dall’essere accertato se le cause organie esercitino un’influenza direa su qualsiasi altra classe di fenomeni mentali, così come è ben lontana dall’essere accertata la natura precisa delle condizioni organie, perfino nel caso degli istinti. Comunque, la fisiologia del cervello e del sistema nervoso è in istato di progresso così rapido, e continuamente produce risultati così nuovi e interessanti, e se ci fosse davvero una connessione tra le particolarità della mente e una qualsiasi varietà, riconoscibile dai nostri sensi, nella struura dell’apparato cerebrale e nervoso, ormai non è lontano il giorno in cui la natura di questa connessione verrà scoperta. Le ultimissime scoperte di fisiologia del cervello sembrano aver provato e qualsiasi connessione esista, questa avrà un caraere radicalmente differente da quella e esisterebbe secondo Gall e i suoi seguaci, e e quale e sia la teoria e un giorno o l’altro si potrà trovare vera, nel migliore dei casi la frenologia è insostenibile. a.

ando scrissi questo capitolo, il professor Bain non aveva ancora pubblicato neppure la prima parte («e Senses and the Intellect» [«I sensi e l’intelleo»]) del suo profondo Treatise on Mind [Trattato sulla mente]. In questo traato le leggi dell’associazione sono state enunciate in modo più esauriente, ed esemplificate in modo più completo, di quanto non sia stato fao da nessun altro autore

precedente. L’opera, e ora è stata completata dalla pubblicazione di The Emotions and the Will [Le emozioni e la volontà], può finalmente essere citata come l’esposizione analitica dei fenomeni mentali incomparabilmente più completa e sia stata finora composta sulla base di un’induzione legiima. Ancor più recentemente, il signor Bain ed io, in collaborazione, abbiamo aggiunto, a una nuova edizione dell’Analysis, note e hanno lo scopo di adeguare la scienza analitica della mente alle sue acquisizioni più recenti. Molte sorprendenti applicazioni delle leggi dell’associazione alla spiegazione dei fenomeni mentali complessi si possono trovare ane nei Principles of Psychology [Princìpi di psicologia] del signor Spencer. b. Nel caso dei sentimenti morali, il posto dell’esperimento direo è in larga misura occupato dall’esperienza storica, e non siamo in grado di rintracciare, con una tollerabile approssimazione alla certezza, le associazioni particolari da cui sono generati quei sentimenti. Finora questo è stato tentato per il conceo di giustizia, in un’operea dell’autore di questo stesso libro, intitolata Utilitarianism. 1. Titolo d’un’opera del poeta inglese James omson (1700-1748), il cui protagonista, il mago Indolenza, aira nel suo castello i passeggeri e, privandoli delle loro forze, delle loro ambizioni e delle loro mire, li costringe a vivere nella lussuria e nel piacere dei sensi. 2. «Una» è il nome di un personaggio femminile del Faëry Queen [La regina delle fate] di Spenser, e personifica la verità. Il nome si riferisce alla costanza di propositi e all’unità propria della verità.

CAPITOLO V. L’ETOLOGIA, O SCIENZA DELLA FORMAZIONE DEL CARATTERE 1. Le leggi della mente, così come sono state caraerizzate nel capitolo precedente, formano la parte universale o astraa della filosofia della natura umana; e tue le verità dell’esperienza comune e costituiscono una conoscenza pratica dell’umanità, nella misura in cui sono verità, sono necessariamente risultati, o conseguenze, di queste leggi. ando vengano raccolte a posteriori dall’osservazione dei fai della vita, tali massime occupano tra le verità della scienza il posto di quelle verità di cui nella nostra analisi dell’induzione abbiamo parlato così spesso soo il nome di leggi empirie. Come si ricorderà, una legge empirica è un’uniformità di successione o di coesistenza e vale in tui quei casi e rientrano nei limiti della nostra osservazione, ma e non è di natura tale da fornirci la sia pur minima sicurezza e varrà entro questi limiti: e questo sia peré il conseguente non è realmente l’effeo dell’antecedente ma costituisce, insieme con esso, parte di una catena di effei e discendono da cause antecedenti non ancora accertate, sia peré c’è ragione di credere e la sequenza (pur essendo un caso di causazione) potrà essere risolta in sequenze più semplici e, dipendendo perciò da un concorso di pareci agenti naturali, è esposta a una quantità ignota di possibilità di azione contraria. In altre parole, una legge empirica è una generalizzazione di cui, non contenti di trovarla vera, siamo obbligati a iederci peré sia vera sapendo e la sua verità non è assoluta ma dipende da certe condizioni più generali e e su di essa si può fare affidamento soltanto nella misura in cui ci sono ragioni per essere sicuri e queste condizioni sono realizzate. Ora, le osservazioni riguardanti le faccende umane e ricavate dall’esperienza comune sono precisamente di questa natura. Ane se fossero universalmente e rigorosamente vere — cosa e del resto non sono mai — non sarebbero tuavia le leggi fondamentali dell’agire umano: non sono i princìpi della natura umana, ma i risultati di quei princìpi nelle circostanze in cui si è dato il caso e si trovasse l’umanità. ando il Salmista «disse, nella sua inquietudine: tui gli uomini sono bugiardi»1

enunciò quello e in alcune età e in alcuni paesi è il risultato di un’ampia esperienza; ma il mentire non è una legge della natura dell’uomo, ane se è conseguenza delle leggi della natura umana e, quando esistano circostanze tali da ingenerare abitualmente sfiducia e timore, la menzogna sia diffusa quasi universalmente. ando si asserisce e il caraere dell’uomo vecio consiste nell’essere cauto e quello del giovane nell’essere impetuoso, questa, a sua volta, non è altro e una legge empirica. Infai non è a causa della loro giovinezza e i giovani sono impetuosi, né a causa della loro veciezza e i veci sono cauti. I veci sono cauti e i giovani sono impetuosi soprauo (se non soltanto) peré nei loro molti anni di vita i veci hanno generalmente avuto molte esperienze dei diversi e svariati mali della vita; e siccome hanno sofferto molto o hanno visto altri soffrire molto per essersi esposti incautamente a questi mali, hanno acquistato associazioni e favoriscono la circospezione. Al contrario i giovani, sia per la mancanza di esperienze simili sia per la maggior forza delle inclinazioni e li spingono all’azione, s’impegnano in quest’ultima con maggior prontezza. esta, allora, è la spiegazione della legge empirica; queste le condizioni e determinano, in ultima analisi, se la legge è valida o no. Se un vecio non è stato in contao con i pericoli e con le difficoltà più spesso di quanto non vi siano stati i giovani sarà tanto incauto quanto lo sono i giovani; se un giovane non ha inclinazioni più forti di quelle di un vecio sarà probabilmente tanto poco intraprendente quanto il vecio. La legge empirica deriva tua la verità di cui è in possesso dalle leggi causali delle quali è la conseguenza. Se conosciamo queste leggi sappiamo quali sono i limiti della legge derivata; invece, se non abbiamo ancora dato ragione della legge empirica — se la legge empirica riposa soltanto sull’osservazione — quando l’appliiamo molto al di là dei limiti di tempo, di luogo e di circostanza entro i quali abbiamo fao le osservazioni, non abbiamo nessuna sicurezza. Dunque, le verità realmente scientifie non sono queste leggi empirie, ma le leggi causali e le spiegano. ale e possa essere il loro valore nella pratica, le leggi empirie di quei fenomeni e dipendono da cause note e dei quali si può pertanto costruire una teoria generale, non hanno nessun’altra funzione nella scienza se non quella di verificare le conclusioni della teoria. esto dev’essere tanto più vero quando la maggior parte delle leggi empirie equivalga, entro i limiti dell’osservazione, soltanto a generalizzazioni approssimate.

2. Contrariamente, però, a quello e si è supposto quale volta, questa non è sempre una proprietà particolare delle scienze cosiddee morali. Soltanto nelle brane più semplici della scienza le leggi empirie sono rigorosamente vere, e in queste neppure tue le volte. Per esempio, l’astronomia è la più semplice di tue le scienze e spiegano in concreto il corso effeivo degli eventi naturali. Le cause, o le forze, dalle quali dipendono i fenomeni astronomici sono in numero minore di quelle e determinano qualsiasi altro grande fenomeno della natura. Di conseguenza, siccome ciascun effeo risulta dal conflio di poe cause soltanto, ci si può aspeare e tra gli effei esista un alto grado di regolarità e di uniformità; e questo accade realmente: i fenomeni astronomici hanno un ordine fisso e ritornano ciclicamente; ma le proposizioni e dovrebbero esprimere con assoluta certezza tue le posizioni successive di un pianeta fin quando il ciclo non si sia completato, sarebbero di complessità tale da non poter quasi essere padroneggiate e potrebbero essere oenute soltanto dalla teoria. Le generalizzazioni e si possono raccogliere a proposito di questa materia a partire dall’osservazione direa (persino quelle come le leggi di Keplero) sono pure e semplici approssimazioni: a causa delle loro perturbazioni i pianeti non descrivono orbite esaamente elliie. Così, ane in astronomia, nelle leggi empirie non si deve andar a cercare l’esaezza rigorosa; tanto meno, dunque, l’esaezza rigorosa si potrà cercare in oggei d’indagine più complessi. Il medesimo esempio mostra quanto poco si possa inferire, contro l’universalità o persino contro la semplicità delle leggi fondamentali, dall’impossibilità di stabilire leggi degli effei e non siano leggi empirie approssimate. Le leggi di causazione secondo le quali si produce una certa classe di fenomeni possono essere molto poe e molto semplici, e tuavia gli effei stessi possono essere così vari e così complicati e sarà impossibile rintracciare una qualsiasi regolarità e li pervada completamente. Infai i fenomeni in questione possono avere un caraere eminentemente modificabile: a tal punto e ci saranno innumerevoli circostanze capaci di modificare l’effeo ane se può darsi e tue lo modifiino secondo un numero molto basso di leggi. Supponiamo e tuo quello e passa per la mente dell’uomo sia determinato da un piccolo numero di leggi semplici: tuavia, se queste leggi sono tali e non ci sia uno solo dei fai e circondano un essere umano e degli eventi e gli accadono, e non influenzi in quale modo o in quale misura la sua

storia mentale successiva, e se le circostanze dei differenti esseri umani sono a loro volta estremamente differenti, non ci sarà da maravigliarsi e sui particolari della condoa e dei sentimenti degli uomini si possano enunciare ben poe proposizioni e siano vere di tua l’umanità. Ora, senza decidere se le leggi fondamentali della nostra natura mentale siano poe o siano molte, è certo, almeno, e sono del tipo menzionato qui sopra. È certo e i nostri stati mentali e le capacità e le susceibilità della nostra mente vengono modificati, soltanto temporaneamente o ane in maniera permanente, da tuo quello e ci accade nella vita. Considerando, perciò, quanto differiscano queste cause modificanti nel caso di due individui qualsiasi, sarebbe irragionevole aspearsi e le leggi empirie della mente umana, le generalizzazioni e si possono fare a proposito dei sentimenti e delle azioni degli uomini senza fare riferimento alle cause e le determinano, possano essere altro e generalizzazioni approssimate. Costituiscono la saggezza comune della vita di ogni giorno e come tali sono inestimabili specialmente peré, per la maggior parte, devono essere applicate a casi e non sono molto dissimili da quelli da cui sono state trae. Ma quando le massime di questo genere, trae da quello e è vero per gl’Inglesi, vengono applicate ai Francesi, o quando le massime raccolte nell’epoca, presente vengono applicate alle generazioni passate o a quelle future, è probabile e siano molto difeose. A meno e non abbiamo risolto la legge empirica nelle leggi delle cause dalle quali dipende, e a meno e non abbiamo accertato e queste cause si estendono al caso e abbiamo davanti agli oci, non sarà possibile riporre la sia pur minima fiducia nelle nostre inferenze. Infai ogni individuo è circondato da circostanze differenti dalle circostanze dalle quali è circondata ogni altra nazione o ogni altra generazione, e nessuna di queste circostanze è priva di una quale influenza sulla formazione di un tipo differente di caraere. In realtà, c’è ane una certa somiglianza generale; ma le proprietà particolari delle circostanze costituiscono continuamente e costantemente eccezioni ane alle proposizioni e sono vere nella grande maggioranza dei casi. Tuavia, ane se non c’è praticamente nessun modo di sentire o di condursi e sia in senso assoluto comune a tua l’umanità; e ane se le generalizzazioni e asseriscono e una qualsiasi varietà data di condoa o di sentimento si troverà sempre e dovunque (per quanto queste generalizzazioni possano approssimarsi alla verità, in limiti d’osservazione ben determinati), esse non saranno considerate come proposizioni

scientifie da nessuno e abbia una sia pur minima familiarità con la ricerca scientifica; tuavia, tui i modi di sentire e di condursi e si sono incontrati tra l’umanità hanno cause e li producono; e nelle proposizioni e aribuiscono queste cause si troverà la spiegazione delle leggi empirie e il principio limitativo della fiducia e riponiamo in essi. Nelle medesime circostanze gli esseri umani non sentono e non agiscono tui nel medesimo modo; ma è possibile determinare e cosa faccia sì e una certa persona, e si trovi in una certa condizione data, senta e agisca in un certo modo, e e cosa faccia sì e una cert’altra persona senta e agisca in un certo altro modo; ed è possibile determinare come sia stato formato, o come possa venir formato, un qualsiasi modo di condursi compatibile con le leggi generali (fisie e mentali) della natura umana. In altre parole, l’umanità non ha un solo caraere universale, ma esistono leggi universali della formazione del caraere. E siccome la totalità dei fenomeni dell’agire e del sentire umani si produce proprio grazie a queste leggi combinate con i fai propri di ciascun caso particolare, proprio in base a queste leggi deve procedere ogni tentativo razionale di costruire in concreto e per scopi pratici la scienza della natura umana. 3. Dunque, dal momento e le leggi della formazione del caraere sono l’oggeo principale della ricerca scientifica sulla natura umana, rimane da determinare quale sia il metodo d’indagine più adao per accertare tali leggi. E i princìpi logici in base ai quali dev’essere decisa questa questione non potranno non essere quegli stessi e presiedono a ogni altro tentativo di indagare le leggi di fenomeni molto complessi. È infai evidente e sia il caraere di un qualunque essere umano, sia l’aggregato di quelle circostanze dalle quali è stato formato quel caraere, sono fai di un alto ordine di complessità. Ora, abbiamo visto e il metodo deduivo, e prende le mosse da leggi generali e verifica le loro conseguenze per mezzo di esperienze specifie, è il solo e possa essere applicato a tali casi. I fondamenti di questa grande dorina logica sono già stati enunciati in precedenza, e la verità della dorina trarrà ancora un altro sostegno da un breve esame delle particolarità speciali del caso del quale ci stiamo occupando. Le leggi della natura possono essere accertate soltanto in due modi: deduivamente e sperimentalmente, quando soo la denominazione di «ricerca sperimentale» si comprendano tanto l’osservazione quanto

l’esperimento artificiale. Le leggi della formazione del caraere sono susceibili di un’indagine soddisfacente condoa secondo il metodo della sperimentazione? Evidentemente no, peré ane supponendo di avere un potere illimitato di variare l’esperimento (cosa e in astrao è possibile, ane se nessuno ecceuato forse un despota orientale avrebbe questo potere, o, ammesso e ce l’abbia, sarebbe disposto ad esercitarlo) manerebbe una condizione ancor più essenziale: la facoltà di compiere gli esperimenti in modo scientificamente accurato. I casi particolari indispensabili alla prosecuzione di un’indagine direamente sperimentale sulla formazione del caraere sarebbero costituiti da un certo numero di esseri umani, e dovrebbero essere allevati ed educati dall’infanzia fino all’età matura; e per compiere uno qualsiasi di questi esperimenti in modo scientificamente appropriato sarebbe necessario conoscere e registrare ogni sensazione e ogni impressione ricevuta dal giovane allievo, a partire da un periodo e va da molto prima e l’allievo possa parlare, comprese tue le sue nozioni a proposito delle fonti di tue quelle sensazioni e di tue quelle impressioni. Non soltanto è impossibile fare una cosa del genere in modo completo, ma è addiriura impossibile fare quel tanto e ne costituisca un’approssimazione acceabile. Una sola circostanza apparentemente irrilevante, e sfuggisse alla nostra vigilanza, potrebbe aprire la strada a una concatenazione di impressioni e di associazioni sufficienti a viziare l’esperimento, in quanto esibizione autentica degli effei e promanano da certe cause. Nessuno e abbia rifleuto a sufficienza sui problemi dell’educazione ignora questa verità, e iunque non vi abbia rifleuto la troverà illustrata, nel modo più istruivo, negli scrii di Rousseau e di Helvetius2 sopra questo grande argomento. Data quest’impossibilità di studiare la formazione del caraere ricorrendo a esperimenti escogitati allo scopo preciso di iarirla, rimane la risorsa della semplice osservazione. Ma se, persino quando siamo noi stessi a foggiarle, è impossibile accertare le circostanze e influenzano la formazione del nostro caraere in modo da approssimarci alla completezza, tanto più impossibile quest’accertamento sarà quando i casi siano ancor più lontani dalla nostra osservazione e completamente fuori dal nostro controllo. Si consideri la difficoltà e s’incontra nel compiere il primissimo passo: quello e consiste nell’accertare quale sia effeivamente il caraere dell’individuo in ciascun caso particolare sooposto al nostro esame. Non c’è praticamente nessuna persona vivente, su quale parte essenziale del cui caraere non sussistano

differenze d’opinione ane tra i suoi conoscenti più intimi; e una singola azione o una singola condoa, e duri soltanto per un tempo piuosto breve, ci fa avvicinare soltanto di poissimo all’accertamento del caraere di quella persona. Possiamo fare le nostre osservazioni soltanto in modo rozzo ed en masse, non già tentando di accertare in modo completo quale caraere si sia formato in un qualsiasi caso particolare dato, e tanto meno tentando di accertare da quali cause sia stato formato, ma soltanto osservando in quale stato delle circostanze precedenti si sia trovato e certe spiccate qualità, o certe mancanze mentali spiccate, esistono più spesso. A parte il fao e sono pure e semplici generalizzazioni approssimate, queste conclusioni non meritano nessuna fiducia neppure come tali, a meno e i casi particolari non siano sufficientemente numerosi da eliminare, non soltanto la casualità, ma ogni circostanza ben determinata in cui possa darsi e un certo numero di casi si somiglino l’un l’altro. Inoltre, le circostanze e formano il caraere individuale sono così numerose e così svariate e la conseguenza di quale combinazione particolare non sarà quasi mai un caraere ben definito e fortemente segnato, e si trovi sempre quando esiste la combinazione e e non si trovi mai quando la combinazione non esiste. ello e si oiene, persino dopo e si siano fae le osservazioni più estese e più accurate, è semplicemente un risultato comparativo, come, per esempio, e in un certo numero di Francesi presi indiscriminatamente si troverà un numero maggiore di persone dotate di una particolare tendenza e un numero minore di persone dotate della tendenza contraria, di quante non se ne trovino in un numero eguale di Italiani o di Inglesi; ossia: dati cento Francesi e un numero eguale d’Inglesi, scelti da un buon campione e disposti secondo il grado in cui posseggono una particolare caraeristica mentale, si troverà e ciascun numero, 1, 2, 3, ecc., di una delle due serie, possiede una quantità di quella caraeristica maggiore di quella e possiede il numero corrispondente dell’altra serie. Pertanto, dal momento e quanto più piccole sono le differenze tanto maggiore è il numero di casi particolari necessari a eliminare la casualità, non potrà accadere spesso di conoscere un numero sufficiente di casi con l’accuratezza indispensabile per istituire il genere di confronto e abbiamo menzionato qui; comunque, un numero ancor più piccolo di casi non costituirebbe un’induzione vera e propria. Di conseguenza, non c’è praticamente una sola opinione corrente sui caraeri delle nazioni, delle classi o dei tipi di persone, e sia universalmente riconosciuta come indiscutibilea.

E infine, ane se a proposito di queste generalizzazioni potessimo oenere una sicurezza molto più soddisfacente di quella e è effeivamente possibile oenere, queste generalizzazioni sarebbero pur sempre soltanto leggi empirie. Mostrerebbero, bensì, e c’è quale connessione tra il tipo di caraere formato e le circostanze esistenti in quel caso, ma non mostrerebbero quale sia precisamente questa connessione, né a quale delle proprietà particolari di quelle circostanze sia realmente dovuto l’effeo. Pertanto, tali circostanze potrebbero essere acceate soltanto come risultati di causazione, e devono però essere risolti nelle leggi generali delle cause; e fin quando non avremo determinato queste leggi generali non potremo giudicare entro quali limiti le leggi derivate possano servire come basi per fare ipotesi a proposito di casi ancora sconosciuti, o addiriura se si possa fare affidamento su di esse come leggi permanenti negli stessi casi dai quali sono state trae. I Francesi avevano, o si supponeva e avessero, un certo caraere nazionale; ma poi si sbarazzano della loro famiglia reale e della loro aristocrazia, cambiano radicalmente le loro istituzioni, passano araverso tua una serie di eventi straordinari e occupano la maggior parte di un secolo, e alla fine di tuo questo periodo si trova e il loro caraere nazionale è stato sooposto a cambiamenti importanti. Si osserva, o si suppone e esista, tua una lunga lista di differenze mentali e morali tra gli uomini e le donne; ma in quale tempo a venire e, possiamo sperare, non troppo lontano, uomini e donne arriveranno a possedere un’eguale libertà e una posizione sociale egualmente indipendente, e le differenze tra i loro caraeri saranno o eliminate o totalmente alterate. Ma se le differenze e crediamo di osservare tra Francesi e Inglesi o tra uomini e donne possono essere collegate con leggi più generali; se sono tali e possiamo aspearci e siano prodoe dalle differenze nelle forme di governo, nei costumi tradizionali e nelle proprietà fisie particolari delle due nazioni e dalle diversità nell’educazione, nelle occupazioni, nell’indipendenza personale e nei privilegi sociali, e da tue quelle differenze originarie e possono esistere tra i due sessi relativamente alla forza fisica e alla sensibilità nervosa, allora, veramente, la coincidenza tra le due specie di prove ci autorizza a credere di aver ragionato correamente e di aver correamente osservato. Pur non essendo sufficiente come prova, la nostra osservazione è sufficientemente ampia da fungere come verifica. E avendo accertato, non soltanto le leggi empirie, ma le cause delle proprietà particolari, non incontreremo necessariamente nessuna difficoltà nel

giudicare fino a e punto siano permanenti, o da quali circostanze ci si possa aspeare e vengano modificate o annullate. 4. Dunque, dal momento e soltanto dall’osservazione e dall’esperimento è impossibile oenere proposizioni realmente accurate sulla formazione del caraere, siamo per forza spinti a usare quello e, ane se non fosse il metodo d’indagine e è indispensabile usare, sarebbe in ogni caso quello più perfeo; cioè a usare quel metodo e tenta i suoi esperimenti non già sui fai complessi, ma sui fai semplici di cui i fai complessi sono composti e e, dopo avere accertato le leggi di quelle cause la cui composizione dà origine ai fenomeni complessi, considera in séguito se queste leggi non forniranno una spiegazione, e non renderanno ragione, delle generalizzazioni approssimate formulate empiricamente a proposito delle sequenze di quei fenomeni complessi. In breve, le leggi della formazione del caraere sono leggi derivate e risultano dalle leggi generali della mente e possono essere oenute per deduzione da quelle leggi generali, supponendo dato un qualsiasi insieme di circostanze e poi considerando quale sarà, secondo le leggi della mente, l’influenza di queste circostanze sopra la formazione del caraere. Si forma così una scienza alla quale proporrei di dare il nome di «etologia», o scienza del caraere, da ἦϑος, parola greca e corrisponde al termine «caraere», come l’uso qui, più di quanto non vi corrisponda ogni altra parola nella medesima lingua. Dal punto di vista della sua etimologia, questo nome potrebbe forse essere applicato all’intiera scienza della nostra natura mentale e morale; ma se, come è solito e conveniente, per designare la scienza delle leggi elementari della mente impieghiamo il nome «psicologia», «etologia» servirà per designare quella scienza ulteriore e determina la specie di caraere prodoo in conformità con quelle leggi generali da un qualsiasi insieme di circostanze fisie e morali. Secondo questa definizione l’etologia è quella scienza e corrisponde all’ao dell’educazione nel senso più esteso del termine, ivi compresa sia la formazione del caraere nazionale o colleivo, sia la formazione del caraere individuale. È bensì vero e (per quanto completamente possano essere accertate le leggi della formazione del caraere) sarebbe inutile aspearci di poter conoscere le circostanze di un qualsiasi caso dato tanto accuratamente da essere in grado di predire positivamente quale caraere sarà prodoo in quel caso. Ma non dobbiamo dimenticare e spesso un

grado di conoscenza e sia ben lontano dall’avere il potere di far predizioni effeive ha un grande valore pratico. Può darsi e ci sia un grande potere d’influenzare i fenomeni ane dove c’è una conoscenza molto imperfea delle cause dalle quali i fenomeni in questione sono determinati in un qualsiasi caso dato. È sufficiente sapere e certi mezzi hanno una tendenza a produrre un determinato effeo, e e altri hanno una tendenza a impedire e si verifii. ando le circostanze in cui si trovano un individuo o una nazione cadono soo il nostro controllo in una misura non trascurabile, può darsi e la nostra conoscenza delle tendenze ci mea in grado di plasmare quelle circostanze in una maniera e è molto più favorevole al raggiungimento dei fini e ci proponiamo di oenere, di quanto non lo sia la forma e le circostanze assumerebbero senza il nostro intervento. esto è il limite del nostro potere; ma, entro questo limite, tale potere è molto importante. esta scienza dell’etologia può essere iamata la scienza esaa della natura umana; infai, a differenza di quanto accade per le leggi empirie e dipendono da esse, le sue verità non sono generalizzazioni approssimate come le leggi empirie, ma sono leggi vere e proprie. Comunque (come in tui i casi nei quali si ha da fare con fenomeni complessi) ai fini dell’esaezza delle proposizioni, è necessario e queste siano soltanto ipotetie e affermino tendenze e non fai. Non devono asserire e quale cosa accadrà sempre e certamente, ma soltanto e fin quando una data causa potrà operare senza subire contrasti, il suo effeo sarà questo e quest’altro. La proposizione e la forza fisica tende a rendere gli uomini più coraggiosi è una proposizione scientifica; non è una proposizione scientifica la proposizione e la forza fisica li rende sempre coraggiosi. È una proposizione scientifica e l’interesse per un certo lato di una certa questione tende a far pendere il giudizio in suo favore, non lo è la proposizione e tale interesse influenza il giudizio sempre e invariabilmente; e l’esperienza tende a dare saggezza, non e l’effeo dell’esperienza è sempre la saggezza. este proposizioni, e asseriscono soltanto tendenze, non sono meno universalmente vere per il fao e le tendenze possono essere frustrate. 5. Mentre, da un lato, la psicologia è in tuo e per tuo, o almeno principalmente, una scienza d’osservazione e d’esperimento, dall’altro (come ho già fao osservare) l’etologia è completamente deduiva. La psicologia

accerta le leggi semplici della mente in generale; l’etologia rintraccia l’azione di queste leggi in combinazioni complesse di circostanze. L’etologia sta alla psicologia in una relazione molto simile a quella in cui le varie brane della filosofia naturale stanno alla meccanica. I princìpi dell’etologia sono, per parlar propriamente, princìpi medi: gli axiomata media (come li avrebbe iamati Bacone) della scienza della mente, in quanto questa scienza è distinta, per un verso, dalle leggi empirie e risultano dalla semplice osservazione e, per l’altro, dalle generalizzazioni più alte. E questo mi sembra il luogo adao per fare un’osservazione logica e, pur avendo un’applicazione generale, possiede un’importanza tua particolare per l’argomento del quale stiamo traando. Bacone ha acutamente osservato e ciò e costituisce il valore di ogni scienza sono soprauo gli axiomata media. Le generalizzazioni più basse, finé non siano state spiegate dai, e non siano state risolte nei, princìpi medi dei quali sono le conseguenze, hanno solamente l’accuratezza imperfea propria delle leggi empirie; invece le leggi più generali sono troppo generali e comprendono un numero troppo basso di circostanze per dare un’indicazione sufficiente a proposito di quello e accade in quei casi singoli nei quali le circostanze sono quasi sempre immensamente numerose. È impossibile non essere d’accordo con Bacone sull’importanza e in ogni scienza egli aribuisce ai princìpi medi. Ma — ane se nelle sue opere non si trova enunciata una sola proposizione per la quale sia stato fao un maggior spreco d’elogi — io ritengo e Bacone avesse radicalmente torto nella sua dorina del modo in cui si dovrebbe pervenire a questi axiomata media. Bacone enuncia come una regola universale e l’induzione deve procedere dai princìpi più bassi ai princìpi medi, e da questi ai princìpi più alti, senza mai lasciare il minimo spazio alla scoperta di nuovi princìpi per mezzo della deduzione. Sarebbe inconcepibile e un uomo dotato della sua sagacia sia potuto cadere in quest’errore, se ai suoi tempi, tra le scienze e traano dei fenomeni disposti in successione, fosse esistito ane un solo caso di scienza deduiva quali sono, al giorni d’oggi, la meccanica, l’astronomia, l’oica, l’acustica e via discorrendo. In queste scienze è evidente e i princìpi superiori e quelli medi non sono affao derivati dai princìpi inferiori, ma viceversa. In alcune di queste scienze, proprio le generalizzazioni più alte furono quelle e per prime vennero accertate con esaezza scientifica, come, per esempio, accadde in meccanica con le leggi

del movimento. È bensì vero e a tua prima queste leggi generali non godevano di quella riconosciuta universalità di cui godeero dopo essere state impiegate con successo nella spiegazione di molte classi di fenomeni ai quali, in origine, non ci si era accorti e potevano essere applicate (come accadde quando le leggi del movimento vennero impiegate, insieme con altre leggi, per spiegare deduivamente i fenomeni celesti): rimane tuavia il fao e di tue le generalizzazioni accurate della scienza, le proposizioni e in séguito vennero riconosciute come le sue verità più generali erano le prime alle quali si fosse pervenuti. Pertanto contrariamente a quello e ci hanno deo tante volte, il merito maggiore di Bacone non può consistere nell’aver fao saltare all’aria il metodo vizioso, perseguito dagli antii, di volare prima alle generalizzazioni più alte per poi dedurre da esse i princìpi medi, peré questo metodo non era affao vizioso e non è neppure saltato all’aria, ma è il metodo universalmente accreditato della scienza moderna: il metodo al quale la scienza moderna è debitrice dei suoi trionfi più grandi. L’errore della speculazione degli antii non consisteva nel fare per prime le generalizzazioni più ampie, ma nel farle senza l’aiuto o senza la garanzia di metodi induivi rigorosi e nell’applicarle deduivamente senza l’uso indispensabile di quella parte del metodo induivo e va soo il nome di verificazione. Io ritengo e l’ordine nel quale dovrebbero essere accertate le verità e hanno gradi di generalità differenti non possa essere prescrio da regole rigide. Non conosco nessuna massima e possa essere enunciata a proposito di quest’argomento, se non quella e prescrive di oenere per prime quelle verità rispeo alle quali le condizioni di un’induzione vera e propria possono essere realizzate prima, e nel modo più completo. Ora, dovunque i nostri mezzi d’indagine possano raggiungere le cause senza fermarsi alle leggi empirie degli effei, i casi più semplici, essendo quelli in cui è interessato simultaneamente il minor numero di cause, si potranno ricondurre meglio di tui gli altri al processo induivo; e questi sono i casi e portano alla luce leggi della comprensività più ampia. Pertanto, in ogni scienza e abbia raggiunto lo stadio in cui diventi scienza di cause, l’oenere per prime le generalizzazioni più alte, e quindi il dedurre da esse le generalizzazioni più speciali, sarà cosa tanto abituale quanto desiderabile. Né posso scoprire alcun fondamento per la massima baconiana tanto esaltata dagli autori successivi, se non questo: e prima di tentar di spiegare deduivamente una qualsiasi classe di fenomeni è desiderabile essere arrivati fin dove è possibile

arrivare nell’accertamento delle leggi empirie di quei fenomeni, in modo da confrontare i risultati della deduzione, non già con un singolo caso dopo l’altro, ma con proposizioni generali e esprimono i punti di concordanza e si sono trovati tra molti casi. Infai, se Newton fosse stato obbligato a verificare la teoria della gravitazione, non già deducendola dalle leggi di Keplero, ma deducendo tue le osservazioni delle posizioni dei pianeti e erano servite a Keplero per verificare le sue leggi, è probabile e la teoria newtoniana non sarebbe mai emersa dallo stato d’ipotesib. La possibilità di applicare queste osservazioni al caso speciale e stiamo prendendo in considerazione non può essere messa in dubbio. La scienza della formazione del caraere è una scienza di cause. Il suo oggeo è tale e possono essergli rigorosamente applicati quei canoni dell’induzione per mezzo dei quali vengono accertate le leggi della causazione. È pertanto cosa naturale e consigliabile l’accertare per prime le leggi di causazione più semplici, e sono necessariamente le più generali, e poi il dedurre da esse i princìpi medi. In altre parole, l’etologia, scienza deduiva, è un sistema di corollari della psicologia, scienza sperimentale. 6. Di queste due scienze finora soltanto la più antica è stata realmente concepita e studiata come una scienza; l’altra, l’etologia, deve ancor essere creata. Ma a lungo andare la sua creazione è diventata possibile. Le leggi empirie destinate a verificare le sue deduzioni sono state formate in abbondanza da tue le epoe dell’umanità e si sono succedute fino a questo momento, e ora le premesse per la deduzione sono sufficientemente complete. Se si ecceua il grado d’incertezza e tuora esiste sul punto fino al quale differiscono per natura le menti individuali e le circostanze fisie dalle quali può darsi e queste differenze dipendano (considerazioni, queste, e sono d’importanza secondaria quando si stia considerando l’umanità in media, o en masse) io credo e la maggior parte dei giudici competenti saranno d’accordo nel ritenere e persino ai giorni nostri le leggi generali dei diversi elementi e costituiscono la natura umana sono già sufficientemente capite da rendere possibile a un pensatore dotato della competenza necessaria il dedurre da quelle leggi, con una considerevole approssimazione alla certezza, il tipo particolare di caraere e, dato un qualsiasi insieme di circostanze, si formerebbe nell’umanità in generale. Una scienza dell’etologia, fondata sopra le leggi della psicologia, è pertanto possibile, ane se finora è stato fao ben poco per formarla e ane se quel

poco e è stato fao non è stato fao per nulla sistematicamente. Il progresso di questa scienza, importante ma ancora molto imperfea, dipenderà da un duplice processo: in primo luogo, dipenderà dal processo e consiste nel dedurre teoricamente le conseguenze etologie di particolari circostanze di situazione e nel confrontarle con i risultati riconosciuti dell’esperienza comune; in secondo luogo, dipenderà dall’operazione inversa: da un accresciuto studio dei vari tipi di natura umana e si possono trovare nel mondo. esti studi dovranno essere condoi da persone e non soltanto siano capaci di analizzare e di registrare le circostanze in cui questi tipi, ciascuno preso separatamente, predominano, ma e oltre a ciò abbiamo, con le leggi psicologie, una familiarità sufficiente a renderli capaci di spiegare le caraeristie del tipo facendo ricorso alle peculiarità delle circostanze e meendo in conto alle predisposizioni congenite il solo residuo inanalizzato, dove sia provato e un residuo di questo genere esiste. I materiali per la parte sperimentale, o a posteriori, di questo processo vanno continuamente accumulandosi in séguito alle osservazioni compiute dall’umanità. Per quanto riguarda il pensiero, il grande problema dell’etologia è quello di dedurre dalle leggi generali della psicologia i princìpi medi di cui c’è bisogno. L’oggeo da studiare è costituito dall’origine e dalle fonti di tue quelle qualità degli esseri umani e sono interessanti per noi, sia come fai da essere prodoi, sia come fai da essere evitati, sia ancora, semplicemente, come fai da essere compresi; e lo scopo è quello di determinare, a partire dalle leggi generali della mente combinate con la posizione generale della nostra specie nell’universo, quali combinazioni effeive o possibili di circostanze siano capaci di promuovere o di evitare il prodursi di queste qualità. Una scienza e possegga princìpi medi di questa specie, disposti secondo l’ordine, non già delle cause, ma degli effei e è desiderabile produrre o prevenire, sarà debitamente pronta a costituire il fondamento dell’arte corrispondente. E quando l’etologia sarà pronta a fare una cosa del genere, l’educazione pratica consisterà nella pura e semplice trasformazione di questi princìpi in una serie parallela di precei, e nell’adaamento di questi precei alla somma totale delle circostanze individuali e esistono in ciascun caso particolare. È praticamente superfluo tornare a ripetere e, come ogni altra scienza deduiva, la verifica a posteriori deve procedere pari passu con la deduzione a priori. L’inferenza fornita dalla teoria relativamente al tipo di caraere e

si formerà in una qualsiasi circostanza data, dev’essere messa alla prova dall’esperienza specifica di quelle circostanze ogni volta e sia possibile oenerla; e le conclusioni della scienza come un tuo devono soostare a una verificazione perpetua, e a una perpetua correzione, da parte delle osservazioni generali fornite dall’esperienza comune a proposito della natura umana nella nostra età, e, per quanto riguarda i tempi passati, dalla storia. Delle conclusioni della teoria non ci si può fidare a meno e non siano confermate dall’osservazione; né ci si può fidare delle conclusioni trae dall’osservazione a meno e non possano essere affiliate alla teoria, deducendole dalle leggi della natura umana e da una serrata analisi delle circostanze della situazione particolare. L’accordo tra queste due specie di prove prese separatamente — la coincidenza tra i ragionamenti a priori e le esperienze specifie — costituisce l’unico terreno sufficiente per i princìpi d’una scienza così «immersa nelle cose» come l’etologia e e, come l’etologia, traa con fenomeni così complessi e concreti. a.

I casi più favorevoli per fare queste generalizzazioni approssimative sono quelli e potremmo iamare casi colleivi, nei quali, per nostra fortuna, siamo in grado di vedere immediatamente in azione la totalità della classe sulla quale stiamo indagando e, dalle qualità dispiegate dal corpo colleivo, siamo in grado di giudicare quali debbano essere le qualità della maggioranza degli individui e lo compongono. Così, il caraere di una nazione è reso manifesto dai suoi ai in quanto nazione, e non tanto dagli ai del suo governo (peré questi ultimi risentono fortemente dell’influenza di altre cause) ma dalle massime popolari correnti e da altri segni dell’indirizzo generale dell’opinione pubblica; dal caraere delle persone e degli scrii e godono di stima e di ammirazione permanenti; dalle leggi e dalle istituzioni, nella misura in cui sono opera della nazione stessa o sono acceate o sostenute da essa, e via discorrendo. Ma ane qui viene lasciato un ampio margine all’incertezza e al dubbio. este cose possono essere influenzate da molte circostanze: in parte sono determinate dalle qualità distintive della nazione o del corpo di persone in questione, ma in parte sono determinate ane da cause esterne, e influenzerebbero nella medesima maniera qualsiasi altro corpo di persone. Pertanto, allo scopo di rendere l’esperimento realmente completo, dovremmo essere in grado di tentarlo sopra altre nazioni, senza variazioni. Dovremmo cioè essere in grado di determinare in qual modo agirebbero o sentirebbero gl’Inglesi se fossero posti nelle medesime circostanze in cui abbiamo supposto e si trovino i Francesi; dovremmo, in breve, essere in grado di applicare tanto il metodo della differenza quanto il metodo della concordanza. Ora, questi esperimenti non possiamo tentarli, e non possiamo neppure avvicinarci ad essi. b. «A questo, scrive il door Whewell, possiamo aggiungere e la storia dell’argomento rende certi e in quel caso l’ipotesi non sarebbe neppure stata enunciata». Il door Whewell (Philosophy of Discovery, pp. 277-282) difende la regola di Bacone contro le restrizioni precedenti. Ma la sua difesa consiste soltanto nell’asserire e nell’esemplificare una proposizione e io stesso avevo enunciato: e sebbene possa darsi e le generalizzazioni più ampie siano state le più antie, tuavia, al principio esse non vengono mai viste nella loro generalità tu’intiera, ma l’acquistano per gradi, man mano e ci si rende conto e spiegano una classe di fenomeni dopo l’altra. Per esempio, fin quando non se ne dedussero i movimenti dei corpi celesti, non si sapeva e le leggi del movimento valgono ane nelle regioni dei cieli. esto, però, non tocca in

alcun modo il fao e i princìpi medi dell’astronomia — per esempio il principio della forza centrale e la legge dei quadrati inversi — non si sarebbero potuti scoprire se prima non si fossero già conosciute le leggi del movimento, e sono tanto più universali. Stando al sistema baconiano della generalizzazione passo per passo, in nessuna scienza sarebbe stato possibile salire al di là delle leggi empirie, osservazione, questa, e le tavole induive del door Whewell, a cui egli fa ricorso a sostegno della propria argomentazione, dimostrano ampiamente. 1. «Io dicevo nella mia inquietudine: “tui gli uomini sono bugiardi”», Salmo 116, 10, La Sacra Bibbia, vol. II, UTET, Torino, 1964. 2. Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), filosofo illuminista francese, seguace del sensismo e del materialismo: dal principio e l’origine di tue le idee è la sensibilità fisica trae la conseguenza secondo cui l’unico movente delle azioni umane è l’amor proprio e e, come l’universo fisico è sooposto alle leggi del movimento, così l’universo morale è sooposto alle leggi dell’interesse. Di conseguenza la moralità dei popoli dipende dalla legislazione e dal costume, e tui gli uomini possono essere resi virtuosi mediante un’opportuna educazione. este tesi sono esposte e illustrate nell’opera De l’esprit [Dello spirito] (1758).

CAPITOLO VI. CONSIDERAZIONI GENERALI SULLA SCIENZA SOCIALE 1. Subito dopo la scienza dell’uomo in quanto individuo viene la scienza dell’uomo in società: la scienza delle azioni delle masse colleive dell’umanità e dei vari fenomeni e costituiscono la vita associata. Se la formazione del caraere dell’individuo costituisce già un oggeo complesso di studio, l’oggeo di cui ci occuperemo in questo capitolo dev’essere, almeno apparentemente, ancor più complesso, peré il numero delle cause e vi concorrono, esercitando tue una maggiore o minore influenza sull’effeo totale, è maggiore, nella misura in cui una nazione, o la specie in grande, espongono all’azione degli agenti psicologici e fisici una superficie maggiore di quanta non ne esponga un individuo singolo. Se, per opporsi a un diffuso pregiudizio, è stato necessario provare e il più semplice dei due oggei può essere oggeo di scienza, è probabile e ancor più forte sia il pregiudizio contro la possibilità di dare un caraere scientifico allo studio della politica e dei fenomeni della società. Di conseguenza, fino a ieri la concezione d’una scienza politica e sociale è esistita, se mai è esistita, soltanto qua e là, nella mente di quale pensatore isolato e generalmente molto mal preparato a realizzarla; e dire e, di per se stesso, l’argomento ha arao più d’ogni altro l’aenzione generale e fin quasi dai primordi della storia scria ha costituito il tema di discussioni impegnate ed accese. In realtà, fino a poissimo tempo addietro, la politica in quanto ramo della conoscenza si trovava — e fino ad oggi non ha praticamente cessato di trovarsi — in quella condizione e Bacone censurava come lo stato in cui la scienza versa naturalmente quando la sua coltivazione è abbandonata ai praticoni, e non è perseguita come una parte della ricerca speculativa, ma soltanto tenendo presenti le esigenze della pratica quotidiana; in quello stato, perciò, in cui si tendeva ai fructifera experimental, escludendo quasi completamente i lucifera2. Tale era lo stato dell’indagine medica prima e la fisiologia e la storia naturale cominciassero a essere coltivate come parti della conoscenza generale. Le sole questioni e si prendessero in esame erano quale sia la dieta completa, o quale medicina serva a curare una certa malaia, senza e prima si fosse faa una qualsiasi ricerca sistematica sulle

leggi della nutrizione e del funzionamento in istato di salute e in istato di malaia dei diversi organi: leggi, queste, da cui evidentemente non possono non dipendere gli effei d’una dieta o d’un medicamento. E in politica le questioni e impegnavano l’aenzione generale erano simili a queste: l’entrata in vigore di questa o di quest’altra legge, o di questa o di quest’altra forma di governo, arreerà o non arreerà benefici? E se li arreerà, li arreerà universalmente o soltanto per quale comunità particolare? E ci si poneva queste questioni senza e in precedenza si fossero fae ricere sulle condizioni generali e determinano il funzionamento delle misure legislative, o sugli effei prodoi da certe forme di governo. Gli studiosi di politica tentavano dunque di studiare la patologia e la terapeutica del corpo sociale prima ancora di aver geato, nella fisiologia di tale corpo, le fondamenta necessarie a questi studi; tentavano di curare la malaia senza cercar di capire le leggi della salute. E il risultato fu quello e non può non essere in tui i casi nei quali persone ane abili cercano di traare con le complesse questioni d’una scienza prima di averne stabilito le verità più semplici ed elementari. Non c’è da maravigliarsi e la filosofia della società abbia fao un numero tanto esiguo di progressi, quando i fenomeni della società erano stati presi in considerazione così raramente dal punto di vista caraeristico della scienza; e le proposizioni generali sufficientemente precise e certe in essa contenute siano troppo poe, peré i ricercatori vi riconoscano un caraere scientifico. Di conseguenza, è nozione diffusa tra il volgo e tue le pretese a enunciare verità generali riguardanti la politica e la società siano iaciere prive di sostanza, e in tali soggei non sia possibile raggiungere nessun’universalità e nessuna certezza. Ciò e costituisce, in parte, una scusante per la diffusione di questa nozione comune è il fao e in un certo senso particolare essa non è priva di fondamento nella realtà. Una grossa percentuale di coloro e hanno avanzato pretese al caraere di filosofi della politica hanno tentato, non già di accertare sequenze generali, ma di enunciare precei universali. Hanno immaginato una quale forma di governo, o un quale sistema di leggi, e s’adai a tui i fai; pretesa, questa, e ben merita il ridicolo con cui viene traata dai pratici e e non è affao corroborata dall’analogia con l’arte alla quale l’arte della politica, data la natura del suo oggeo, dovrebbe essere alleata più streamente. Oggi nessuno suppone e sia possibile e un solo rimedio curi tui i mali, e

neppure e curi il medesimo male in tue le costituzioni e in tui i tipi di corpo. Neppure alla perfezione d’una scienza è necessario e l’arte corrispondente possegga regole universali; e non è neppure necessario e possegga regole generali. Potrebbe darsi, non soltanto e i fenomeni della società dipendano in tuo e per tuo da cause note, ma ane e il modo in cui tue queste cause agiscono sia riducibile a leggi di considerevole semplicità e e tuavia non esistano neane due casi e ammeano di essere traati esaamente nella medesima maniera. La varietà di circostanze da cui dipendono i risultati in casi differenti potrebbe essere tanto grande e potrebbe ane darsi e l’arte non abbia un solo preceo generale da dare, se si ecceua quello di stare aenti alle circostanze del caso particolare e di adaare le nostre misure agli effei e risultano da queste circostanze, secondo i princìpi della scienza. Ma ane se in una classe tanto complicata di cambiamenti è impossibile enunciare massime pratie di applicazione universale, da questo non segue e i fenomeni non si conformino a leggi universali. 2. Tui i fenomeni della società sono fenomeni della natura umana, generati dall’azione delle circostanze esterne sopra masse di esseri umani: e pertanto se i fenomeni del pensiero, del sentire e dell’agire umani sono soggei a leggi fisse, i fenomeni della società non possono non conformarsi an’essi a leggi fisse, conseguenza delle precedenti. In realtà, ane se la conoscenza e abbiamo di queste leggi fosse così certa e completa com’è in astronomia, non potremmo sperare e esse ci meano in grado di predire la storia della società nello stesso modo in cui possiamo predire quella dei fenomeni celesti, per migliaia di anni a venire. Ma la differenza di certezza non risiede nelle leggi medesime: risiede nei dati ai quali devono essere applicate queste leggi. In astronomia le cause e influenzano il risultato sono poe, e cambiano di poco, e di quel poco secondo leggi note: possiamo accertare quello e sono ora, e quindi determinare quello e saranno in una qualsiasi epoca di un lontano futuro. Pertanto, in astronomia, i dati sono certi tanto quanto sono certe le leggi medesime. Al contrario, le circostanze e influenzano la condizione e il progresso della società sono innumerevoli e cambiano perpetuamente; e bené tue cambino obbedendo a cause, e perciò a leggi, la moltitudine delle cause è tanto grande da sfidare i nostri limitati poteri di calcolo. Per non parlar del fao e l’impossibilità di

applicare numeri precisi a fai di tale genere porrebbe un limite insormontabile alla possibilità di calcolarli in anticipo ane se i poteri dell’intelleo umano fossero ben altrimenti adeguati a questo compito. Ma, come abbiamo osservato prima, una quantità di conoscenza, peraltro completamente insufficiente per far predizioni, potrebbe avere un grandissimo valore per la guida della condoa pratica. La scienza della società avrebbe già raggiunto un altissimo grado di perfezione se ci rendesse capaci — data una qualsiasi condizione degli affari sociali quale per esempio la condizione dell’Europa o di un qualsiasi Paese europeo al momento presente — di capire quali cause l’abbiano resa qual è in tui i suoi particolari e in ciascuno di essi; se tenda a quale cambiamento, e, se vi tende, a quali; quali effei ciascun trao del suo stato auale abbia la probabilità di produrre in futuro, e per mezzo di quali leggi possa essere evitato, modificato, o accelerato uno qualsiasi di questi effei, o se si possa introdurre una classe differente di effei. Non c’è nulla di imerico nella speranza e sia effeivamente possibile accertare leggi generali sufficienti a meerci in grado di rispondere a queste varie questioni per qualsiasi Paese o in qualsiasi epoca delle cui circostanze individuali abbiamo una buona conoscenza direa; e non c’è nulla di imerico nella speranza e le altre parti della conoscenza umana, e quest’impresa presuppone, siano così progredite e i tempi siano ormai maturi peré si possa darle inizio. Tale è l’oggeo della scienza sociale. Peré la natura di quello e io considero il vero metodo della scienza possa essere resa più tangibile mostrando per prima cosa quello e il metodo non è, sarà opportuno caraerizzare brevemente due concezioni radicalmente sbagliate del modo proprio di filosofare sulla società o sul governo; concezioni sbagliate dell’una o dell’altra delle quali sono viime esplicitamente o, più spesso, inconsapevolmente, tui quelli e hanno meditato o hanno ragionato sulla logica della politica, da quando l’idea di traarla secondo regole rigorose e sulla base dei princìpi baconiani è diventata moneta corrente tra i pensatori più progrediti. esti metodi erronei (dato e non concesso e alle tendenze erronee e traggono la loro origine dall’assenza di una qualsiasi concezione sufficientemente distinta di un metodo sia possibile applicare la parola «metodo») possono essere iamati «metodo sperimentale» o «imico» d’indagine e «modo astrao, o geometrico». Cominceremo dal primo.

1. «Esperimenti e danno frui». 2. Esperimenti e «geano luce» su quale problema.

CAPITOLO VII. IL METODO CHIMICO O SPERIMENTALE NELLE SCIENZE SOCIALI 1. Le leggi dei fenomeni della società non sono e non possono essere nient’altro e le leggi delle azioni e delle passioni degli esseri umani, uniti insieme nello stato di società. Però nello stato della società gli uomini sono ancor sempre uomini; le loro azioni e le loro passioni obbediscono alle leggi della natura umana individuale. ando s’uniscono tra di loro, gli uomini non si trasformano in una specie differente di sostanza, dotata di proprietà differenti da quelle originarie, come l’idrogeno e l’ossigeno sono diversi dall’acqua, oppure come l’idrogeno, l’ossigeno, il carbonio e l’azoto sono differenti dai nervi, dai muscoli e dai tendini. Gli esseri umani riuniti in società non hanno altre proprietà se non quelle e sono derivate dalle leggi della natura dell’uomo individuale, e possono essere risolte in esse. Nei fenomeni sociali la legge universale è la composizione delle cause. Ora, il metodo di filosofare e può essere denominato «imico» trascura questo fao e procede come se la natura dell’uomo in quanto individuo non fosse affao implicata dell’operare degli esseri umani in società, o vi fosse implicata soltanto in misura molto piccola. Coloro e ragionano in questo modo obieano a tue le argomentazioni basate sui princìpi della natura umana e riguardanti questioni politie e sociali iamandole con nomi quale «teoria astraa». Per guidare le loro opinioni e la loro condoa costoro pretendono di fare appello, in tui i casi senza eccezione, all’esperienza specifica. Non soltanto questo modo di pensare è diffuso generalmente tra i pratici della politica e tra quella classe molto numerosa di persone e (su un argomento e nessuno per ignorante e sia si ritiene incompetente a discutere) professano di lasciarsi guidare dal senso comune piuosto e dalla scienza, ma è spesso il modo di pensare favorito delle persone e hanno le maggiori pretese all’istruzione; di persone e, avendo una sufficiente familiarità con i libri e le idee correnti da aver sentito dire e Bacone insegnò all’umanità a lasciarsi guidare dall’esperienza e a fondare le proprie conclusioni sui fai anzié sui dogmi della metafisica, traando i fai politici con un metodo tanto direamente sperimentale quanto il

metodo con il quale si traano i fai fisici, ritengono di dimostrarsi veri baconiani e di provare e i loro avversari non sono nient’altro e costruori di sillogismi e Scolastici. Però, siccome la nozione dell’applicabilità dei metodi sperimentali alla filosofia politica non può coesistere con una giusta concezione di questi metodi, la specie di ragionamenti trai dall’esperienza, e costituiscono i frui della teoria imica (e e, specialmente in questo Paese, costituiscono l’elemento principale dell’oratoria parlamentare e tribunizia), sono tali e, da Bacone in poi, non sarebbero mai stati ammessi come validi né nella imica medesima né in nessun’altra parte della scienza sperimentale. Si traa di argomentazioni come queste: e la proibizione dell’importazione di merci dall’estero deve necessariamente condurre al benessere nazionale, peré soo tale proibizione l’Inghilterra è fiorita o peré, in generale, i Paesi e l’hanno adoata hanno goduto di un periodo di benessere; e le nostre leggi o la nostra amministrazione interna, o la nostra costituzione, sono eccellenti per una ragione simile; e tue le eterne argomentazioni trae da esempi storici, da Atene e da Roma, dai roghi di Smithfield o dalla Rivoluzione francese. Non spreerò il mio tempo a tentar di confutare questi modi di ragionare, dai quali nessuna persona e sia dotata della sia pur minima pratica nel valutare le prove potrebbe lasciarsi sedurre; questi modi di ragionare e da un singolo caso non analizzato traggono conclusioni d’applicazione generale, o e fanno arbitrariamente risalire un effeo a questo o quello dei suoi antecedenti, senza tentare il minimo processo di eliminazione o di confronto tra i casi. È una regola di giustizia e di buon senso e di un’opinione errata si debba aaccare non già la forma più assurda, ma quella più ragionevole. Supporremo e il nostro ricercatore abbia familiarità con le vere condizioni dell’indagine sperimentale e sia competente, nel senso e possiede i requisiti adai a realizzare tali condizioni nella misura in cui possono essere realizzate. Dei fai della storia conoscerà tuo quello e può insegnargli l’erudizione pura e semplice, quel tanto e può essere provato per mezzo di testimonianze, senza l’aiuto di una teoria; e se questi semplici fai, raccolti nel modo appropriato, possono soddisfare le condizioni di un’induzione reale, costui avrà le qualifie necessarie ad intraprendere questo compito. Ma e nessun tentativo di questo genere possa avere la sia pur minima probabilità di successo, è già stato mostrato abbondantemente nel capitolo X

del libro IVa. i abbiamo esaminato se l’osservazione e l’esperimento possano trasformare nell’oggeo di un’induzione vera gli effei e dipendono da cause complicate e, basandoci sulle ragioni più convincenti, abbiamo concluso e la cosa non è possibile. Dal momento e, di tui gli effei, nessuno dipende da cause tanto complicate quanto quelle da cui dipendono i fenomeni sociali, possiamo lasciar tranquillamente riposare la nostra tesi su quello e avevano mostrato allora. Ma peré un principio logico, e finora è così poco conosciuto dalla corrente dei pensatori e vanno per la maggiore possa fare l’impressione dovuta, è necessario insistere su di esso più d’una volta; e dal momento e il caso del quale stiamo parlando è quello e, fra tui gli altri, esemplifica questo principio nel modo migliore, sarà conveniente riformulare le ragioni e stanno alla base della massima generale, in modo da renderle applicabili alle caraeristie speciali della classe d’indagini e stiamo ora prendendo in considerazione. 2. La prima difficoltà in cui c’imbaiamo quando tentiamo d’applicare i metodi sperimentali all’accertamento delle leggi dei fenomeni speciali, è e ci mancano i mezzi per fare esperimenti artificiali. Ane se potessimo escogitare esperimenti a nostro piacere, e potessimo tentarli senza limiti, potremmo farlo soltanto in condizioni d’immenso svantaggio, sia per l’impossibilità di accertare e di registrare tui i fai di ciascun caso, sia peré, dal momento e questi fai si trovano in un perpetuo stato di cambiamento, prima e sia passato un tempo sufficiente per accertare il risultato dell’esperienza, quale circostanza piuosto importante avrebbe sempre già cessato di essere la stessa. Ma dal momento e evidentemente non avremo mai il potere di tentarli, è superfluo prendere in considerazione le obiezioni logie e si potrebbero elevare contro la concludenza dei nostri esperimenti. Possiamo soltanto stare a guardare quelli e produce la natura, o e vengono prodoi per altre ragioni. Non possiamo adaare i nostri mezzi logici ai nostri bisogni facendo variare le circostanze secondo e possano riiederlo le esigenze dell’eliminazione. Se i casi spontanei costituiti dagli eventi a noi contemporanei e dalle successioni dei fenomeni registrate dalla storia forniscono una sufficiente variazione delle circostanze, allora sarà possibile un’induzione e prenda le mosse da esperienze specifie; altrimenti no. La questione da risolvere è pertanto se i requisiti dell’induzione riguardanti le cause degli effei politici o le proprietà degli agenti politici, si possano incontrare nella storia (comprendendo soo questo

termine la storia contemporanea). E allo scopo di rendere fisse le nostre concezioni, sarà consigliabile supporre e questa questione venga formulata in riferimento a quale oggeo speciale di ricerca o di controversia politie, quale l’argomento e viene dibauto tanto frequentemente in questo secolo: l’azione esercitata sulla ricezza di una nazione da una legislazione commerciale restriiva e proibizionistica. Supponiamo e questa sia la questione scientifica e si deve indagare in base a esperienze specifie. 3. Allo scopo di applicare a questo caso il più perfeo dei metodi della ricerca sperimentale, vale a dire il metodo della differenza, dobbiamo trovare due casi e coincidano in ogni particolare ecceuato quello e costituisce l’oggeo della nostra ricerca. Se è possibile trovare due nazioni e siano simili dal punto di vista di tui i vantaggi e gli svantaggi naturali; i cui abitanti si somiglino in tue le qualità fisie e morali, innate e acquisite; i cui abiti, i cui usi, le cui opinioni, le cui leggi e le cui istituzioni siano gli stessi in tuo e per tuo, ecceo e una di queste nazioni applica una tariffa più protezionistica, o interferisce di più, per altri aspei, con la libertà dell’industria; se si trova e una di queste nazioni è ricca e l’altra è povera, o e l’una è più ricca dell’altra, il nostro sarà un experimentum crucis: una prova sperimentale vera e propria di quale dei due sistemi sia più favorevole alla ricezza di una nazione. Ma l’ipotesi e si possano incontrare due esempi del genere è manifestamente assurda, e un concorso di circostanze del genere non è possibile neppure in astrao. Due nazioni, e concordassero in tuo e per tuo ecceo e nella loro politica commerciale, concorderebbero ane in quest’ultima. Le differenze legislative non sono differenze intrinsee e fondamentali; non sono proprietà di specie: sono effei di cause preesistenti. Se le due nazioni differiscono in questa parte delle loro istituzioni, la cosa è dovuta a quale differenza nella loro posizione, e quindi nei loro interessi evidenti, oppure in questa o in quest’altra parte delle loro opinioni, dei loro abiti e delle loro tendenze. E questo apre una prospeiva di differenze ulteriori e illimitate, e possono operare sulla prosperità industriale di queste nazioni così come su ogni altra caraeristica della loro condizione in un numero di modi molto maggiore di quanti non se ne possano enumerare o immaginare. C’è dunque una dimostrata impossibilità di oenere, nelle indagini della scienza sociale, le

condizioni indispensabili per la forma più concludente d’indagine basata sull’esperienza specifica. Mancando la risorsa direa, possiamo successivamente tentare, come in altri casi, quella risorsa supplementare e in un passo precedente di questo libro abbiamo iamato il metodo indireo della differenza. Invece di due casi particolari e non differiscono in nient’altro se non nella presenza o nell’assenza di una determinata circostanza, questo metodo mee a confronto due classi di casi e non concordano, rispeivamente, in nient’altro se non nella presenza di una circostanza da un lato e nell’assenza di quella circostanza dall’altro. Per scegliere il caso più vantaggioso e possiamo concepire (ed è un caso fin troppo vantaggioso, peré possa mai trovarsi realizzato) supponiamo di meere a confronto una nazione e esercita una politica commerciale restriiva con due o più nazioni e non concordano in nient’altro se non per il fao di permeere il libero commercio. Ora, non abbiamo bisogno di supporre e l’una o l’altra di queste due ultime nazioni concordi con la prima in tue le sue circostanze: l’una può concordare con essa in alcune delle sue circostanze, mentre l’altra può concordarvi nel rimanente. E si può inferire e se queste nazioni rimango no più povere della nazione e esercita una politica restriiva, questo non può accadere per la mancanza del primo o del secondo insieme di circostanze, ma deve accadere per la mancanza del sistema protezionistico. Se (potremmo dire) la nazione in cui vige il sistema protezionistico fosse prosperata per un certo insieme di cause, la prima delle nazioni liberistie sarebbe prosperata egualmente: se invece la prosperità avesse le sue ragioni nell’altro insieme di cause, allora sarebbe prosperata la seconda; ma nessuna delle due è prosperata: di conseguenza la prosperità è dovuta alle restrizioni. Si ammeerà e questo è un esempio molto favorevole di argomentazione basata su esperienze politie specifie; e, se questo ragionamento dovesse dimostrarsi inconcludente, non sarà facile trovarne un altro e possa essergli preferito. Tuavia, e tale ragionamento sia inconcludente è quasi superfluo farlo vedere. Peré la nazione prospera dovrebbe essere prosperata esclusivamente per una sola causa? La prosperità di una nazione è sempre il risultato colleivo di una grande quantità di circostanze favorevoli; e di queste circostanze, può darsi e la nazione a regime protezionistico ne riunisca in sé un numero maggiore di quante non ne riunisca ciascuna delle altre, ane se poi forse questa nazione avrà in comune tue le circostanze

con l’una o l’altra di queste ultime. Può darsi e la sua prosperità sia dovuta in parte a circostanze e essa ha in comune con l’una di queste nazioni e, in parte, a circostanze e ha in comune con l’altra, mentre queste due nazioni, avendo ciascuna soltanto la metà del numero di circostanze favorevoli, sono rimaste inferiori. Cosicé, l’imitazione più esaa e si possa fare, nella scienza sociale, di un’induzione legiima basata sull’esperienza direa, non può dare altro risultato e non sia una sembianza speciosa di concludenza, sembianza priva di ogni valore reale. 4. Dunque, il metodo della differenza in ciascuna delle sue forme è completamente fuor di questione. Rimane pertanto il metodo della concordanza. Ma già sappiamo bene quanto poco valore abbia questo metodo nei casi e non ammeono la pluralità delle cause; e i fenomeni sociali sono quelli in cui questa pluralità predomina più largamente e mai. Supponiamo e all’osservatore càpiti la più grossa fortuna in cui possa farci imbaere una qualsiasi combinazione concepibile di casi: supponiamo, cioè, e l’osservatore trovi due nazioni e non concordano in nessuna circostanza se non per il fao di avere un sistema protezionistico e di essere entrambe prospere; o e trovi un certo numero di nazioni, tue prospere, e non hanno in comune nessuna circostanza antecedente se non quella e consiste nell’esercitare una politica commerciale restriiva. È superfluo approfondire le considerazioni circa l’impossibilità di accertare storicamente, o ane in base all’osservazione della storia contemporanea, e le cose stanno realmente così: vale a dire e le due nazioni non concordano in nessun’altra circostanza e possa esercitare una quale influenza sul caso in questione. Supponiamo e quest’impossibilità venga superata, e e risulti accertato il fao e le nazioni concordano soltanto nell’avere come antecedente un sistema protezionistico e come conseguente la prosperità industriale. Fino a qual punto tuo questo legiima la presunzione e il sistema protezionistico sia la causa della prosperità? A un grado tanto trascurabile da equivalere praticamente a zero. Che un certo antecedente sia la causa di un effeo dato peré si è trovato e tui gli altri antecedenti possono essere eliminati, sarebbe un’inferenza correa soltanto se l’effeo non potesse avere e una causa. Se invece l’effeo ammee parecie cause, non c’è nulla di più naturale e ciascuna di queste cause possa essere eliminata separatamente. Ora, nel caso dei fenomeni politici, l’ipotesi e esista un’unità della causa non è soltanto lontana dalla verità, ma si trova,

da essa, a una distanza incalcolabile. Le cause di tui i fenomeni sociali ai quali siamo interessati in modo particolare — sicurezza, ricezza, libertà, buon governo, pubblica virtù, intelligenza generale, o i loro opposti — sono infinitamente numerose; e sono infinitamente numerose, in modo speciale, le cause esterne e remote e sono le sole ad essere accessibili all’osservazione direa. Di per se stessa, nessuna causa è sufficiente a produrre l’uno o l’altro di questi fenomeni; invece ci sono innumerevoli cause e hanno una quale influenza su di essi e e possono cooperare sia a produrli sia a impedirli. Pertanto, dal puro e semplice fao e siamo stati capaci di eliminare quale circostanza, non siamo per nulla autorizzati a inferire e questa circostanza non ha contribuito all’effeo nell’uno o nell’altro degli stessi casi dai quali l’abbiamo eliminata. Possiamo concludere e quale volta l’effeo si produce senza questa causa, ma non possiamo concludere e, quando la causa è presente, non vi contribuisce per la sua parte. Si troverà e per il metodo delle variazioni concomitanti valgono obiezioni simili. Se le cause e agiscono sullo stato di una qualsiasi società producessero effei e differiscono l’uno dall’altro per la specie, e se la ricezza di una società dipendesse da una causa, la pace sociale da un’altra; se una terza causa rendesse il popolo virtuoso, una quarta lo rendesse intelligente, allora, pur non essendo in grado di separare le cause l’una dall’altra, potremmo far risalire, a ciascuna di esse, quella proprietà dell’effeo e è cresciuta con il crescere della causa ed è diminuita con il suo diminuire. Ma ogni aributo del corpo sociale è influenzato da cause innumerevoli; e tale è l’azione reciproca degli elementi e coesistono nella società, e qualunque di essi ne influenzi uno qualsiasi dei più importanti, questo stesso elemento, da solo, influenzerà ane gli altri, se non direamente almeno indireamente. Pertanto, siccome gli effei di agenti differenti non sono differenti qualitativamente, e siccome, invece, la quantità di ciascuno è il risultato misto di tui gli agenti, le variazioni dell’aggregato non possono stare in un rapporto uniforme con i risultati di nessuna delle parti e lo compongono. 5. Rimane il metodo dei residui, e, a prima vista, sembra meno estraneo a questa specie d’indagine di quanto non lo siano gli altri tre metodi, peré esige soltanto e prendiamo accuratamente nota delle circostanze di quale Paese, di quale stato o di quale società. In base a questo metodo, tenuto conto dell’effeo di tue le cause le cui tendenze sono note, il residuo

e quelle cause non sono in grado di spiegare può essere plausibilmente fao risalire al resto di quelle circostanze e sappiamo essere esistite in quel caso. alcosa di simile a questo, è il metodo e Coleridgeb diiara di avere seguìto nei suoi saggi politici comparsi sul Morning Post. «Per tui i grandi avvenimenti ho tentato di scoprire, nella storia passata, l’evento e gli somigliasse più da vicino. Dovunque la cosa mi fosse possibile ho fao in modo da consultare gli storici, i memorialisti e gli autori di pamphlets contemporanei a quell’evento. Poi, soraendo nel modo debito i punti di differenza da quelli di somiglianza, secondo e il bilancio fosse favorevole ai primi o agli ultimi ho congeurato e il risultato sarebbe stato il medesimo o sarebbe stato differente. Per esempio, ho seguito questo metodo nella serie di saggi intitolata “A Comparison of France under Napoleon with Rome under the First Caesars”1 e in quelli e seguirono: “On the Probable Final Restoration of the Bourbons”2. Il medesimo disegno, e con il medesimo successo, ho seguìto all’inizio della rivoluzione spagnola, prendendo, come base per il mio confronto, la guerra tra le province unite e Filippo II». Non c’è dubbio e in questa ricerca Coleridge abbia impiegato il metodo dei residui, peré, indubbiamente, «soraendo i punti di differenza da quelli di somiglianza», li soppesò accuratamente e non si accontentò di enumerarli. Indubbiamente, prese in considerazione soltanto quei punti di concordanza e per la loro stessa natura riteneva capaci d’influenzare l’effeo e, tenendo conto di quest’influenza, concluse e il resto del risultato si poteva aribuire ai punti di differenza. ale e possa essere la sua efficacia, questo metodo (come abbiamo fao osservare molto tempo fa) non è un metodo di pura osservazione o di puro esperimento; conclude, non già dal confronto tra casi particolari, ma dal confronto di un caso particolare con il risultato di una deduzione precedente. Applicato ai casi particolari, questo metodo presuppone e le cause da cui è proceduta una parte dell’effeo siano già note; e, dal momento e (come abbiamo mostrato) non possono essere state conosciute in base ad esperienze specifie, queste cause devono essere state apprese per deduzione dai princìpi della natura umana, mentre l’esperienza è stata iamata in causa soltanto come una risorsa supplementare, per individuare le cause e avevano prodoo il residuo inesplicato. Ma se ai princìpi della natura umana si può fare ricorso per fondare quale verità politica, allora ad essi si può fare ricorso per fondarle tue. Se è ammissibile il dire e la prosperità dell’Inghilterra è dovuta al regime proibizionistico peré, dopo

aver sorao tue le altre tendenze e hanno contribuito al suo benessere, rimane una parte di prosperità di cui si deve ancora rendere ragione, allora si dovrà ammeere e è lecito rivolgersi alla medesima fonte per determinare l’effeo del sistema proibizionistico e per esaminare quali ragioni le leggi dei motivi e delle azioni umane ci permeeranno di dare per le sue tendenze. In realtà, l’argomentazione sperimentale non meerà capo a nulla, ecceo e alla verifica di una conclusione traa da quelle leggi generali. Infai possiamo soltanto sorarre l’effeo di una, due, tre o quaro cause, ma non riusciremo mai a sorarre l’effeo di tue le cause ecceuata una; e sarebbe in verità un esempio curioso dei pericoli e si corrono quando si usano troppe cautele se, per evitare di dipendere da un ragionamento a priori per quanto riguarda l’effeo di una causa singola, dovessimo trovarci costrei a dipendere da tanti ragionamenti a priori separati quante sono le cause e agiscono congiuntamente con quella particolare causa, in quale caso dato. Abbiamo ora caraerizzato a sufficienza il grossolano fraintendimento e sta alla base di quel metodo d’indagine dei fenomeni politici e ho iamato il metodo imico. Una discussione così prolungata non sarebbe stata necessaria se la pretesa di decidere autorevolmente a proposito delle dorine politie fosse stata confinata a persone e avessero studiato con competenza uno qualsiasi dei dipartimenti superiori della scienza fisica. Ma siccome, in generale, coloro e ragionano sopra argomenti politici in un modo e loro e un corpo più o meno numeroso di loro ammiratori ritengono soddisfacente, non conoscono nulla affao dei metodi della ricerca fisica se si ecceuano poi precei e continuano a ripetere pappagallescamente imitando Bacone (pur essendo interamente inconsapevoli e la concezione della ricerca scientifica sostenuta da Bacone ha ormai fao il suo tempo e e la scienza è ora progredita passando a uno stadio più elevato) ci sono probabilmente molte persone per cui osservazioni come quelle precedenti possono an cora rivelarsi utili. In un’epoca in cui la stessa imica, quando tenta di traare con le sequenze imie più complesse — quelle dell’organismo animale o ane dell’organismo vegetale — ha trovato e è necessario trasformarsi (o è riuscita a trasformarsi) in una scienza deduiva, non si deve pensare e una persona di abiti scientifici e e si sia tenuta al passo con il progresso generale della conoscenza della natura possa correre il pericolo di applicare i metodi della imica

elementare all’esplorazione delle sequenze dell’ordine più complesso di fenomeni e esista. a.

Cfr. la fine del capitolo. b. Biographia literaria, I, 214. 1. «Confronto tra la Francia soo Napoleone e Roma soo i primi Cesari». 2. «Sulla probabile restaurazione finale dei Borboni».

CAPITOLO VIII. IL METODO GEOMETRICO, O ASTRATTO 1. Come abbiamo deo, il fraintendimento discusso nel capitolo precedente viene commesso soprauo da persone e non sono molto abituate alla ricerca scientifica — da politici pratici e per giustificare la loro pratica preferiscono impiegare i luoghi comuni della filosofia piuosto e guidare la loro condoa pratica alla luce di princìpi filosofici; o da persone dotate di cultura imperfea, e, ignorando l’accurata selezione e l’elaborato confronto di casi particolari necessari per formare una teoria valida, tentano di fondarne una su un piccolo numero di coincidenze delle quali si sono resi conto per caso. Al contrario, il metodo erroneo di cui stiamo ora per traare è proprio degli intellei dediti al pensiero e allo studio. Non sarebbe mai potuto venire in mente se non a persone e avessero quale familiarità con la natura della ricerca scientifica; a persone e, essendo consapevoli dell’impossibilità di fondare su osservazioni casuali o su sperimentazioni diree una teoria vera di sequenze così complesse come quelle dei fenomeni sociali, fanno ricorso alle leggi più semplici e operano immediatamente in quei fenomeni e non sono altro e le leggi della natura degli esseri umani interessate in quei fenomeni. esti pensatori si rendono conto (cosa di cui invece i partigiani della teoria imica o sperimentale non si rendono conto affao) e la scienza della società deve necessariamente essere una scienza deduiva. Ma siccome partono da una considerazione insufficiente della natura specifica dell’argomento — e spesso peré la loro educazione scientifica si è arrestata a uno stadio troppo primitivo e la geometria sta nella loro mente come il tipo di tue le scienze deduive — è alla geometria piuosto e all’astronomia e alla scienza naturale e assimilano inconsapevolmente la scienza deduiva della società. Tra le differenze e sussistono tra la geometria (scienza di fai coesistenti, assolutamente indipendenti dalle leggi della successione dei fenomeni) e quelle scienze fisie della causalità e sono state rese deduive, la differenza seguente è una delle più evidenti: la geometria non lascia il minimo spazio per quel caso e si verifica tanto spesso nella meccanica e nelle sue applicazioni: il caso di forze in conflio tra loro, di

cause e si contrastano, o si modificano, l’una con l’altra. In meccanica si trovano a ogni piè sospinto due o più forze e producono movimento e non quiete; oppure e producono il movimento in una direzione differente da quella in cui l’avrebbero prodoo l’una o l’altra delle forze e lo generano, se avessero agito da sole. È vero e l’effeo delle forze congiunte, quando agiscano simultaneamente, è il medesimo e avrebbe avuto luogo se le forze avessero agito l’una dopo l’altra o a turno; e e proprio in questo consiste la differenza tra le leggi meccanie e le leggi imie. Ma tuavia gli effei, siano prodoi da forze e agiscono in successione siano prodoi da forze e agiscono simultaneamente, si cancellano effeivamente, del tuo o in parte, l’un l’altro. ello e una forza fa, l’altra disfa, del tuo o in parte. In geometria non si trova nessuno stato di cose paragonabile a questo. Nel risultato e segue da un principio geometrico non si trova nulla e entri in conflio con il risultato e segue da un altro principio. ello e è stato provato vero in base a un teorema geometrico, quello e sarebbe vero se non esistesse nessun altro principio geometrico, non può essere alterato e reso falso da quale altro principio geometrico. ello e è stato provato vero una volta è vero in tui i casi, qualunque ipotesi si possa fare relativamente a qualsiasi altro oggeo. Ora, sembrerebbe e una concezione della scienza sociale simile a quest’ultima si sia formata nella mente dei primi tra quelli e hanno tentato di coltivarla con un metodo deduivo. Se ogni movimento risultasse da una sola forza e non da un conflio di forze la meccanica sarebbe una scienza molto simile alla geometria. Sembra e nella teoria geometrica della società si supponga e le cose stiano proprio così per i fenomeni sociali; e ciascuno di tali fenomeni risulti soltanto da una forza, da una singola proprietà della natura umana. Al punto e abbiamo raggiunto ora, non è necessario dire altro per provare o illustrare l’asserzione e questo non è il vero caraere dei fenomeni sociali. Tra questi fenomeni, e di tui i fenomeni sono i più complessi, e (per questa ragione) i più susceibili di essere modificati, non ce n’è uno solo sul quale non esercitino la loro influenza innumerevoli forze, e e non dipenda dalla congiunzione di moltissime cause. Pertanto non è necessario e proviamo e la nozione in parola è un errore; ci basta provare e l’errore è stato effeivamente commesso, e e si è effeivamente accertata l’esistenza di una concezione così sbagliata del modo in cui si producono i fenomeni della società.

2. Una parte numerosa dei teorici e hanno traato i fai sociali secondo leggi geometrie senza ammeere e una legge venga modificata dall’altra, dev’essere per ora lasciata fuori della nostra considerazione, peré in questi pensatori l’errore in questione è complicato da, ed è l’effeo di, un’altra concezione fondamentalmente sbagliata, alla quale abbiamo già rivolto la nostra aenzione e della quale traeremo ancora prima di concludere questo libro. Parlo di coloro e deducono conclusioni di caraere politico non già da leggi di natura, non già da sequenze di fenomeni reali o immaginari, bensì da massime pratie estremamente rigide. Tali, per esempio, sono tui coloro e fondano la loro teoria della politica su quello e si iama il dirio astrao, vale a dire su precei universali: pretesa, questa, di cui abbiamo già messo in evidenza la natura imerica. Tali, in maniera analoga, sono coloro e assumono l’esistenza di un contrao sociale, o di una qualsiasi altra specie di obbligazione originaria, e applicano quest’ipotesi a casi particolari, per pura e semplice interpretazione. Ma l’errore fondamentale di questi aeggiamenti consiste nel tentativo di traare un’arte come una scienza e di riuscire ad oenere un’arte deduiva: e l’irragionevolezza di questo tentativo sarà mostrata in capitolo futuro. Sarà bene trarre la nostra esemplificazione della teoria geometrica da quei pensatori e hanno evitato di commeere ane quest’errore e e, almeno fino a questo punto, hanno un’idea più giusta della natura dell’indagine politica. Possiamo citare, in prima istanza, coloro e assumono come principio della loro filosofia politica e il governo è fondato sul terrore: e la paura e gli uomini hanno l’uno dell’altro è il solo motivo e originariamente indusse gli esseri umani a riunirsi in società e e ancora ve li mantiene. Alcuni dei più antii scienziati della politica, e in particolare Hobbes, assunsero questa proposizione non implicitamente, ma diiaratamente, come il fondamento della loro dorina e tentarono di costruire su di essa una completa filosofia della politica. È vero, peraltro, e Hobbes si rese conto e questa sola massima non era sufficiente a guidarlo araverso tue le sue argomentazioni, cosicé fu costreo a stiraciarla, ricorrendo al duplice sofisma di un contrao originario. Lo iamo duplice sofisma, in primo luogo peré contrabbanda una finzione per un fao e, in secondo luogo, peré assume un principio o preceo pratico come base di una teoria; e questa è una petitio principii, peré (come abbiamo fao notare traando di questa fallacia) ogni regola di condoa, ane se è vincolante

come lo è l’osservanza di una promessa, deve far riposare i propri fondamenti sulla teoria e pertanto la teoria non può riposare su di essa. 3. Trascurerò i casi particolari meno importanti, per arrivare subito all’esempio più notevole e si trovi ai nostri tempi di metodo geometrico in politica, esempio e proviene da persone e sono ben consapevoli della distinzione tra scienza ed arte; e sanno bene e le regole di condoa devono seguire, non precedere, l’accertamento delle leggi di natura e e queste ultime, e non le prime, costituiscono il campo legiimo per l’applicazione del metodo deduivo. Alludo alla filosofia dell’interesse, propria della scuola di Bentham. I pensatori profondi e originali e sono comunemente noti soo quest’etiea, fondarono la loro teoria generale del governo sopra una premessa generalissima: cioè e le azioni degli uomini sono sempre determinate dai loro interessi. In quest’ultima espressione c’è un’ambiguità. Infai, siccome i medesimi filosofi, e specialmente Bentham, diedero il nome di «interesse» a tuo quello e piace a una persona, si può intendere la proposizione come se volesse solamente dire e le azioni degli uomini sono sempre determinate dai loro desideri. Però, in questo senso, essa non convaliderebbe nessuna di quelle conseguenze e ne hanno trao gli scriori dei quali ci stiamo occupando; e perciò si deve intendere e nei ragionamenti politici di questi autori la parola signifii (e questa è ane la spiegazione e loro stessi ne hanno dato in tali occasioni) quello e si iama di solito interesse privato o materiale. Se dunque prendiamo la dorina in questo senso, si presenta in limine un’obiezione e potrebbe essere ritenuta fatale: cioè e una proposizione così indiscriminata è ben lontana dall’essere universalmente vera. Gli esseri umani non sono governati dagli interessi materiali in tue le loro azioni. esta, però, non è affao un’obiezione così definitiva come potrebbe apparire a prima vista, dal momento e in politica quello e soprauo c’interessa è la condoa, non già delle persone individuali, ma o d’una serie di persone (per esempio, d’una serie di re) o d’un corpo o massa di persone, come un’aristocrazia o un’assemblea rappresentativa. E tuo quello e è vero d’una grande maggioranza dell’umanità può essere, senza troppi errori, ritenuto vero d’una successione di persone considerata come un tuo o d’una qualsiasi collezione di persone in cui l’ao della maggioranza diventi l’ao dell’intiero corpo. Pertanto, ane se quale volta la massima viene

espressa in una maniera inutilmente paradossale, le conseguenze e se ne traggono varrebbero egualmente quando l’asserzione fosse limitata nel modo e segue: una qualsiasi successione di persone, o la maggioranza d’un qualsiasi corpo di persone, saranno governate, nel grosso della loro condoa, dai loro interessi personali. Siamo tenuti a concedere a questa scuola di pensatori il beneficio di questa formulazione più ragionevole della loro massima fondamentale; e questa formulazione è ane rigorosamente conforme alle spiegazioni e ne diedero loro stessi, quando lo ritennero indispensabile. La teoria prosegue inferendo in modo del tuo correo e se le azioni degli uomini sono governate soprauo dai loro interessi egoistici, i soli governanti e governeranno secondo l’interesse dei loro governati saranno quelli i cui interessi privati vanno d’accordo con gl’interessi degli altri uomini. E a questa proposizione ne viene aggiunta una terza: e l’interesse egoistico di nessun governante è identico con quello del governato, a meno e non sia reso tale dal fao di dover render conto delle proprie azioni, vale a dire dalla dipendenza dalla volontà del governato. In altre parole (e come risultato del tuo) e il desiderio di mantenere il potere, o il timore di perderlo, e tuo ciò e ne consegue, è il solo motivo sul quale si può fare assegnamento per produrre, da parte dei governanti, un modo di condursi e concordi con l’interesse generale. Abbiamo così un teorema fondamentale della scienza politica, teorema e consiste di tre sillogismi e dipende principalmente da due premesse generali in ciascuna delle quali si considera un certo aspeo come determinato da una sola causa, e non da un concorso di cause. Nell’una premessa, si assume e le azioni della media dei governanti siano dominate solamente dall’interesse personale; nell’altra, e il senso dell’identità dell’interesse dei governanti con l’interesse del governato non sia prodoo, e non possa essere prodoo, da nessun’altra causa e non sia la responsabilità. Nessuna di queste proposizioni è sia pur minimamente vera; l’ultima, poi, è estremamente lontana dalla verità. Non è vero e le azioni, neane quelle della media dei governanti, siano determinate in tuo e per tuo dall’interesse personale dei governanti medesimi, e neppure e siano governate dall’opinione e questi ultimi hanno del loro interesse personale, o e siano in quale modo vicine ad esserlo. Non parlo dell’influenza di un senso del dovere o di sentimenti

filantropici — motivi, peraltro, sui quali non si potrà mai fare un grande affidamento ane se (ecceuati quei Paesi o quei periodi in cui regna una grande decadenza morale) tali motivi influenzano in quale misura quasi tui i governanti, e alcuni anzi, ne influenzano in misura molto grande. Insisto solamente su quello e è vero di tui i governanti: cioè, e indipendentemente dal calcolo personale, il caraere e il corso delle loro azioni è influenzato in larga misura dai sentimenti e dalle sensazioni abituali, dai modi generali di pensare e d’agire e sono in voga in tua la comunità di cui i governanti sono membri, e così pure dai sentimenti, dagli abiti e dai modi di pensare e caraerizzano la classe particolare di quella comunità alla quale essi stessi appartengono. E nessuno comprenderà o sarà in grado di decifrare il loro sistema di condoa, se non terrà conto di tue queste cose. I governanti sono ane molto influenzati dalle massime e dalle tradizioni e gli sono state trasmesse da altri governanti, e li hanno preceduti. Si sa e queste massime e queste tradizioni hanno mantenuto il loro ascendente per lunghi periodi, ane quando si sono opposte agli interessi privati dei governanti nel momento auale. Lascio da parte l’influenza di altre cause meno generali; ane se, perciò, gli interessi privati della classe dei governanti o della classe al governo costituiscono una forza molto potente e è costantemente all’opera ed esercita sulla loro condoa l’influenza più importante, in quello e i governanti fanno c’è ane una larga porzione di cui gli interessi privati non forniscono affao una spiegazione sufficiente; e ane i particolari e rendono il loro governo buono o caivo sono influenzati, in misura tu’altro e irrilevante, dalle circostanze e agiscono su di essi e e non possono essere in alcun modo comprese soo il termine «interesse personale». Se ora ci rivolgiamo all’altra proposizione: e la responsabilità nei confronti dei governati è l’unica causa capace di produrre nei governanti un senso d’identificazione con gli interessi della comunità, questa, come verità universale, sarà ancor meno ammissibile della prima. Non parlo d’una perfea identità d’interessi — identità e del resto è un’impossibile imera e e, sicurissimamente, la responsabilità nei confronti del popolo non conferisce. Parlo di identità nelle cose essenziali: e in tempi e in luoghi differenti le cose essenziali sono differenti. C’è un gran numero di casi in cui quelle cose e sarebbe estremamente utile per l’interesse generale e i governanti facessero, sono ane quelle e i governanti sono pronti a fare spinti dal loro interesse personale più forte, cioè dal consolidamento del

potere. Per esempio, la soppressione dell’anaria e della resistenza alla legge, il completo rafforzamento del potere centrale in uno stato confederato, come quello dell’Europa del Medioevo — rappresenta uno degli interessi più forti del popolo e ane dei governanti, per il semplice fao e sono governanti; e la responsabilità da parte loro potrebbe non rafforzare, ma anzi potrebbe addiriura indebolire in molti modi concepibili, i motivi e li spingono a perseguire questo scopo. Durante la maggior parte del regno della regina Elisabea e di molti altri monari, il senso d’identità tra gl’interessi del sovrano e gl’interessi della maggior parte del popolo era probabilmente più forte di quanto non lo sia di solito in certi governi rappresentativi. Tuo quello e il popolo aveva a cuore l’aveva a cuore ane il monarca. Era Pietro il Grande o erano i rozzi selvaggi e si accinse a civilizzare, ad avere l’inclinazione più sincera verso ciò e costituiva l’interesse reale di quei primitivi? i non mi provo a fondare una teoria del governo, e non sono tenuto a determinare il peso relativo e si dovrebbe assegnare alle circostanze e questa scuola di geometri della politica ha lasciato fuori del suo sistema, e di quelle e invece vi ha fao entrare. Non m’interessa misurare la quantità d’errori e può aver pesato sulle loro conclusioni pratie: m’interessa soltanto mostrare e il loro metodo non era scientifico. Ma osservando e il loro errore non era tanto un errore di sostanza, quanto piuosto un errore di forma, non si fa altro e rendergli giustizia; e questo errore consisteva nel presentare in forma sistematica e come traamento scientifico d’una grande questione filosofica quello e invece sarebbe dovuto passare per quello e era realmente, vale a dire la pura e semplice polemica del momento. Ane se le azioni dei governanti non sono affao determinate in tuo e per tuo dai loro interessi egoistici, è soprauo per assicurarsi contro quegli interessi egoistici e si ritengono necessari i controlli costituzionali; e per questo scopo, in Inghilterra e in tue le altre nazioni dell’Europa moderna, non si può fare assolutamente a meno di tali controlli. È egualmente vero e in queste stesse nazioni, nell’epoca presente, la responsabilità verso i governati è il solo mezzo disponibile in pratica per creare un sentimento d’identità di interessi in quei casi e sopra quei punti nei quali questo sentimento non sia sufficiente. A tuo questo, e alle argomentazioni in favore di misure per la correzione del nostro sistema rappresentativo e su tuo questo si possono fondare, io non ho nulla da obieare. Ma confesso il mio rincrescimento per il fao e

quella parte piccola se pure altamente importante della filosofia politica, di cui c’era bisogno per lo scopo immediato di servire la causa della riforma parlamentare, sia stata sostenuta da pensatori eminenti come se si fosse traato di una teoria completa. Non si deve immaginare e sia possibile (e, di fao, non è vero) e questi filosofi credessero e le poe premesse della loro teoria comprendessero tuo quello e è necessario per spiegare i fenomeni sociali e per determinare la scelta delle forme di governo e delle misure legislative e amministrative. Erano uomini dotati d’intelleo troppo alto e troppo equilibrato e pratico per commeere un errore di questo genere. Avrebbero applicato i loro princìpi, e in effei li applicarono, facendo innumerevoli concessioni. Ma non di concessioni c’era bisogno. Se i fondamenti di una teoria non sono sufficientemente ampi ci sono ben poe possibilità di arrecare nelle sovrastruure di questa teoria le correzioni e vi si devono arrecare. È contrario ai princìpi della filosofia il costruire una scienza partendo da poi degli agenti da cui sono determinati i fenomeni, lasciando il resto alla routine della pratica o alla sagacia delle congeure. O non dovremmo avere nessuna pretesa scientifica, o dovremmo studiare egualmente tui gli agenti determinanti, tentando, nella misura in cui è possibile, di farli rientrare tui entro i confini della scienza. Altrimenti presteremmo senza fallo un’aenzione sproporzionata a quegli agenti di cui la nostra teoria tiene conto, mentre daremo una stima errata del resto, e probabilmente ne soovaluteremo l’importanza. Che le deduzioni procedano dalla totalità, e non soltanto da una parte, delle leggi di natura e sono interessate in un certo caso, sarebbe desiderabile ane se, a confronto con le altre, quelle lasciate da parte fossero così insignificanti da poter essere lasciate fuori della nostra considerazione per la maggior parte dei nostri scopi e nella maggior parte delle occasioni. Ma nella scienza sociale questo è davvero molto lontano dall’esser vero. I fenomeni della società non dipendono, nelle cose essenziali, da questo o da quest’altro agente o da questa o quest’altra legge della natura umana, con solo poe e trascurabili modificazioni provenienti da altre parti, ma sono influenzati dall’insieme complessivo delle qualità della natura umana: e non c’è una sola di queste qualità e li influenzi in misura trascurabile. Non c’è una sola di queste qualità la cui eliminazione, o una qualsiasi grossa alterazione della quale, non modifii in maniera rilevante l’intiero aspeo della società e non àlteri

in misura maggiore o minore le sequenze dei fenomeni sociali nella loro generalità. La teoria e ha costituito l’oggeo di queste osservazioni rappresenta, almeno in questo Paese, il principale esempio contemporaneo di quello e ho caraerizzato come il metodo geometrico di filosofare nel campo delle scienze sociali. Per questa ragione l’analisi e ne abbiamo faa è stata più deagliata di quanto altrimenti non sarebbe stato lecito a un’opera come questa. Avendo ora illustrato a sufficienza i due metodi erronei, passeremo, senza perderci in ulteriori preliminari, a esaminare il metodo vero: vale a dire, il metodo e (in conformità con la pratica delle scienze fisie più complesse) procede bensì deduivamente, ma deducendo da molte premesse originarie e non da una sola o da poissime di tali premesse; il metodo e considera ciascun effeo come quello e realmente è: vale a dire come un risultato composito di molte cause e operano talvolta araverso i medesimi agenti mentali, o le medesime leggi della natura umana, talvolta araverso agenti e leggi differenti.

CAPITOLO IX. IL METODO FISICO, O DEDUTTIVO CONCRETO 1. Dopo quello e si è deo per illustrare la natura dell’indagine sui fenomeni sociali, il caraere generale del metodo proprio di quest’indagine è sufficientemente evidente, e tuo quello e ci rimane da fare è ricapitolarlo, non provarlo. Per quanto complessi siano i fenomeni, tue le loro sequenze e le loro coesistenze risultano dalle leggi degli elementi separati. L’effeo prodoo sui fenomeni sociali da un qualsiasi insieme complesso di circostanze equivale precisamente alla somma degli effei delle circostanze prese singolarmente; e la complessità non sorge dal numero delle leggi medesime — numero e non è notevolmente grande — ma dal numero straordinario, e dalla straordinaria varietà, dei dati o elementi: cioè dal numero e dalla varietà degli agenti e cooperano alla produzione dell’effeo obbedendo a quel piccolo numero di leggi. Pertanto la scienza sociale (e con un conveniente barbarismo è stata iamata «sociologia») è una scienza deduiva; non però secondo il modello della geometria, ma secondo quello delle scienze fisie più complesse. La scienza sociale inferisce la legge di ciascun effeo dalle leggi di causazione dalle quali quell’effeo dipende; ma non, puramente e semplicemente, dalla legge di una sola causa, come accade nel metodo geometrico, bensì prendendo in considerazione tue le cause e influenzano congiuntamente l’effeo e componendo le loro leggi l’una con l’altra. In breve, il suo metodo è il metodo deduivo concreto; il metodo, cioè, di cui l’astronomia fornisce l’esempio più perfeo mentre la filosofia naturale ne fornisce un esempio in certo modo meno perfeo, e il cui impiego, accompagnato da quegli adaamenti e da quelle precauzioni resi necessari dall’oggeo di cui si occupa, sta cominciando a rigenerare la fisiologia. Né si può dubitare e simili adaamenti e simili precauzioni siano indispensabili in sociologia. Nell’applicare a questo studio, e è il più complesso di tui, quel metodo e, come è possibile dimostrare, è il solo metodo capace di geare la luce della scienza ane sopra i fenomeni dotati di un grado di complessità di gran lunga inferiore, dovremmo essere ben consapevoli e la superiore complessità e rende più necessario lo strumento della deduzione è quella stessa e lo rende ane più precario; e

dobbiamo essere preparati ad affrontare, con stratagemmi appropriati, quest’aumento di difficoltà. Le azioni e i sentimenti degli esseri umani riuniti in istato di società sono indubbiamente governati da leggi psicologie ed etologie; quale e sia l’influenza e esercita sopra i fenomeni sociali, ogni causa l’esercita per mezzo di queste leggi. Supponendo dunque e le leggi delle azioni e dei sentimenti umani siano sufficientemente note, non s’incontreranno difficoltà straordinarie nel determinare, a partire da quelle leggi, la natura degli effei sociali e ogni data causa tende a produrre. Ma quando la questione consiste nel comporre insieme parecie tendenze e nel calcolare il risultato composito di molte cause preesistenti, e specialmente quando, nel tentativo di predire e cosa accadrà effeivamente in un dato caso, siamo obbligati a stimare e a comporre l’influenza di tue le cause e esistono in quel caso, ci assumiamo un compito il procedere nel quale supera la portata delle facoltà umane. Se tue le risorse della scienza non sono sufficienti a meerci in grado di calcolare a priori, con precisione completa, l’azione reciproca di tre corpi e gravitino l’uno verso l’altro, lascio giudicare con quale prospeiva di successo ci sforzeremo di calcolare il risultato delle tendenze tra loro in conflio e agiscono in un migliaio di direzioni differenti e promuovono un migliaio di cambiamenti differenti in un dato istante e in una data società: ane se, partendo dalle leggi della natura umana, potremmo, e dovremmo, essere capaci di distinguere in modo sufficientemente correo le tendenze stesse nella misura in cui dipendono da cause accessibili all’osservazione, e di determinare la direzione e ciascuna di esse, agendo da sola, imprimerebbe alla società; e così pure, almeno in modo generale, dovremmo essere in grado di dire con certezza e alcune di queste tendenze sono più potenti delle altre. Ma se da un lato non dobbiamo nasconderci le imperfezioni inevitabili di cui soffre il metodo a priori quando lo si applii a un oggeo di questo genere, d’altro lato non dobbiamo neppure esagerarle. Come abbiamo mostrato in precedenzaa, le medesime obiezioni e valgono per il metodo deduivo in questo suo difficilissimo impiego valgono ane nelle sue applicazioni più facili; e sarebbero addiriura state insormontabili se, come abbiamo spiegato esaurientemente in quell’occasione, non esistesse un rimedio appropriato. esto rimedio è costituito dal processo e, con il nome di verificazione, abbiamo caraerizzato come il terzo costituente

essenziale del metodo deduivo; vale a dire, come quella parte del metodo e consiste nel confrontare una ad una le conclusioni del ragionamento deduivo o con gli stessi fenomeni concreti oppure, quando sia possibile oenerle, con le loro leggi empirie. La ragione della fiducia e riponiamo in una qualsiasi scienza deduiva concreta non risiede nel ragionamento a priori in sé e per sé, sibbene nell’accordo tra i risultati del ragionamento e quelli delle osservazioni a posteriori. Ciascuno di questi due processi, preso separatamente dall’altro, diminuisce in valore man mano e aumenta la complicazione del suo oggeo, e questo accade in progressione così rapida da fare in modo e ben presto il processo perda del tuo il proprio valore; ma la fiducia e possiamo riporre nel concorso delle due specie di prove, non soltanto non diminuisce nella medesima proporzione, ma non è affao necessario e diminuisca. Ne risulta, né più né meno, una perturbazione nell’ordine di precedenza dei due processi, perturbazione e quale volta equivale a un vero e proprio capovolgimento; tanto più e in alcuni casi invece di dedurre le nostre conclusioni facendo ricorso al ragionamento e di verificarle facendo ricorso all’osservazione, cominciamo con l’oenerle provvisoriamente dall’esperienza specifica per poi conneerle in séguito con i princìpi della natura umana facendo uso di ragionamenti a priori, e costituiscono in tal modo una vera e propria verifica. Il solo pensatore e abbia tentato di caraerizzare il metodo della sociologia avvalendosi di una conoscenza competente dei metodi scientifici in generale, il signor Comte, considera quest’ordine inverso come inseparabilmente inerente alla natura della speculazione sociologica. Comte guarda alla scienza sociale come a una scienza e per sua natura consiste di generalizzazioni trae dalla storia e verificate, e non originariamente suggerite, deducendole dalle leggi della natura umana. Sebbene in quest’opinione, di cui tenterò subito di mostrare l’importanza, ci sia una parte di verità, tuavia non posso far a meno di pensare e questa verità sia enunciata in maniera troppo indiscriminata, e e nella ricerca sociologica ci sia uno spazio considerevole sia per il metodo deduivo direo sia per quello inverso. In realtà, come mostreremo nel capitolo successivo, c’è una specie di ricere sociologie alle quali, data la loro prodigiosa complicazione, è assolutamente impossibile applicare il metodo della deduzione direa, mentre, per una felice compensazione, proprio in questi casi siamo in grado di oenere le leggi empirie migliori: a queste indagini, dunque, si adaa

esclusivamente il metodo deduivo inverso. Ma come vedremo subito ci sono ane altri casi in cui dall’osservazione direa è impossibile oenere qualcosa e sia degno del nome di legge empirica; e fortunatamente accade e questi siano proprio i casi nei quali il metodo direo presta di meno il fianco all’obiezione, e indubbiamente non potrà non colpirlo sempre, in una misura o nell’altra. Cominceremo pertanto con il guardare alla scienza sociale come a una scienza di deduzione direa, e con il prendere in considerazione e cosa possiamo oenere in essa, ed entro quali limiti possiamo oenerlo, facendo uso di quel metodo d’indagine. In un capitolo a parte esamineremo poi il processo inverso, e tenteremo di caraerizzarlo. 2. In primo luogo, è evidente e la sociologia, considerata come un sistema di deduzioni a priori, non può essere una scienza di predizioni positive, ma soltanto una scienza di tendenze. Può darsi e applicando le leggi della natura umana alle circostanze di uno stato ben determinato della società, siamo in grado di concludere e, a meno e non venga contrastata, una causa particolare agirà in una certa maniera; ma non potremo mai essere sicuri fino a qual punto, e quanto, la causa agirà in questo modo, o di poter affermare con certezza e non verrà contrastata; raramente, infai, possiamo conoscere ane soltanto approssimativamente tui gli agenti e possono coesistere con la causa, e ancor meno possiamo calcolare il risultato colleivo di tanti elementi tra loro combinati. A questo punto, tuavia, dobbiamo ripetere ancora una volta l’osservazione e ane le conoscenze insufficienti per fare predizioni possono essere estremamente preziose per la guida dell’azione pratica. Per condurre saggiamente gli affari della società, il saper prevedere infallibilmente i risultati di quello e si fa non è più necessario di quanto non lo sia per condurre i propri interessi privati. Dobbiamo cercare i nostri oggei facendo uso di metodi e forse potranno non meere a capo a nulla, e prendere le nostre precauzioni contro pericoli e forse non dovremo mai affrontare. Lo scopo della politica pratica è quello di circondare ogni società con il maggior numero di circostanze caraerizzate da tendenze favorevoli e di eliminare o di contrastare (nella misura in cui la cosa sia possibile) quelle circostanze le cui tendenze sono pericolose. Ane se non abbiamo il potere di prevedere con accuratezza il loro risultato congiunto, la semplice conoscenza delle tendenze sarà sufficiente per darci questo potere in misura considerevole.

Sarebbe però in errore i supponesse e in questo modo possiamo arrivare — sia pure soltanto rispeo alle tendenze — a un gran numero di proposizioni e saranno vere in tue le società, senza eccezioni. Una tale supposizione sarebbe incompatibile con la natura eminentemente modificabile dei fenomeni sociali e con il gran numero e la grande varietà delle circostanze da cui tali fenomeni sono modificati; circostanze e non sono mai le stesse e neppure mai quasi le stesse in due società differenti o in due differenti periodi della medesima società. est’ostacolo non sarebbe così serio se, pur essendo le cause e agiscono sulla società generalmente numerose, quelle e influenzano un certo aspeo qualsiasi della società fossero in numero limitato. In questo caso potremmo infai isolare un particolare fenomeno sociale e indagarne le leggi senza essere disturbati dal resto dei fenomeni. Ma la verità sta all’estremo esaamente opposto. Tuo quello e modifica in misura apprezzabile un elemento qualsiasi dello stato sociale, lo modifica araverso tui gli altri elementi. Il modo in cui si producono tui i fenomeni sociali è un grande caso di commistione di leggi. Non potremo mai comprendere in teoria, o dominare in pratica, la condizione di una società soo un aspeo determinato se non prenderemo in considerazione la sua condizione soo tui gli altri aspei. Non c’è fenomeno sociale e non sia più o meno influenzato da ogni altra parte della condizione in cui si trova la medesima società, e pertanto da tue le cause e stanno influenzando un altro qualsiasi dei fenomeni sociali e avvengono contemporaneamente a quello e stiamo prendendo in esame. In breve, esiste quello e i fisiologi iamano un consensus, simile a quello e esiste tra i vari organi e le varie funzioni della struura fisica dell’uomo e degli animali più perfei, e e costituisce una delle molte analogie e hanno reso di uso universale espressioni come «corpo politico» o «corpo naturale». Da questo consensus segue e ecceo quando due società possono essere eguali in tue le circostanze e le circondano e le influenzano (cosa, questa, e implierebbe e era simile ane la loro storia precedente) nessuna parte dei fenomeni corrisponderà esaamente a un’altra, se non per puro caso; nessuna causa produrrà esaamente i medesimi effei in entrambe. Man mano e il suo effeo si diffonde per la società, ogni causa viene, in un posto o nell’altro, in contao con insiemi differenti di agenti ed esercita in tal modo i propri effei sull’uno o sull’altro fenomeno sociale, modificati in modi differenti. E queste differenze, con la loro reazione, producono una differenza ane in quegli effei e altrimenti

sarebbero stati i medesimi. Di conseguenza non potremo mai affermare con certezza e una causa, e abbia una particolare tendenza in un certo popolo o in una certa età, avrà esaamente la medesima tendenza in un altro popolo o in un’altra età, senza ritornare alle nostre premesse e compiere di nuovo, per la seconda età e per la seconda nazione, quell’analisi dell’insieme totale delle circostanze e l’hanno influenzata, analisi e avevamo già compiuto per la prima. La scienza deduiva della società non enuncerà un teorema e asserisce universalmente l’effeo di una causa; ma insegnerà piuosto come formulare il teorema appropriato alle circostanze di un qualsiasi caso dato. Non ci darà le leggi della società in generale, ma i mezzi per determinare i fenomeni di una qualsiasi società data, a partire dagli elementi o dai dati particolari propri di quella società. Pertanto, tue le proposizioni generali e possono essere formulate dalla scienza deduiva sono ipotetie, nel senso più rigoroso di questa parola. Sono basate su quale insieme ipotetico di circostanze, e diiarano in qual modo una certa causa data opererebbe in quelle circostanze, supponendo e con esse non ne siano combinate altre. Se l’insieme di circostanze di cui s’ipotizza l’esistenza sono state copiate da quelle di una qualsiasi società esistente, le conclusioni saranno vere di quella società puré, e nella misura in cui, gli effei di quelle circostanze non siano modificati da altre circostanze e non sono state prese in considerazione. Se desideriamo avvicinarci maggiormente alla verità concreta possiamo tendervi soltanto tenendo conto, o sforzandoci di tener conto nel nostro calcolo, di un numero maggiore di circostanze individuali. Considerando, dunque, con quale accelerazione s’accresca l’incertezza delle nostre conclusioni a misura e nei nostri calcoli ci sforziamo di tener conto di un numero maggiore di cause concorrenti, è iaro e le combinazioni ipotetie di circostanze sulle quali costruiamo i teoremi generali della scienza non possono essere rese molto complesse senza e, così facendo, si accumulino altreanto rapidamente possibilità d’errore tali e ben presto dovranno necessariamente privare d’ogni valore le nostre conclusioni. Considerato come un mezzo per oenere proposizioni generali, questo modo d’indagine deve pertanto, pena la sua inutilità, essere limitato a quella classe di fai sociali e pur essendo influenzati come gli altri da tui gli agenti sociologici sono, almeno per lo più, soo l’influenza immediata soltanto di poi agenti siffai.

3. Nonostante il consensus universale dei fenomeni sociali, consensus per cui nulla e abbia luogo in una parte qualsiasi delle operazioni della società è privo della sua parte d’influenza su tue le altre porzioni della società stessa, e nonostante l’ascendente preponderante e lo stato generale della civiltà e del progresso sociale in una qualsiasi società data non può non esercitare, per questa ragione, su tui i fenomeni parziali e subordinati, non è men vero e le differenti specie di fai sociali dipendono principalmente, immediatamente e in prima istanza, da specie differenti di cause; e pertanto non solo possono vantaggiosamente essere studiate a parte, ma devono essere studiate a parte proprio come, nel corpo naturale, studiamo separatamente la fisiologia e la patologia di ciascuno degli organi e dei tessuti principali, ane se poi su ciascuno di essi agisce lo stato di tui gli altri, e la costituzione particolare e lo stato generale di salute dell’organismo cooperano con le cause locali nella determinazione dello stato di un qualsiasi organo particolare, e spesso hanno prevalenza su di esse. Su queste considerazioni è fondata l’esistenza di rami e di dipartimenti distinti e separati, seppure non indipendenti, della speculazione sociologica. Per esempio, c’è una grande classe di fenomeni sociali in cui le cause immediatamente determinanti sono principalmente quelle e agiscono araverso il desiderio di ricezza, e in cui la legge psicologica soprauo interessata è quella legge ben nota secondo la quale a un guadagno minore se ne preferisce sempre uno maggiore. Intendo, naturalmente, parlare di quella parte dei fenomeni della società e promanano dalle operazioni industriali e produive dell’umanità, e da quegli ai degli uomini araverso i quali ha luogo la distribuzione dei prodoi di tali operazioni industriali, nella misura in cui questi ai e questi fenomeni non sono effeuati per forza, o modificati da donazioni volontarie. Ragionando a partire da questa sola legge della natura umana e dalle principali circostanze esterne (siano esse universali, siano limitate a stati particolari della società) e agiscono sulla mente umana araverso quella legge, potremo forse essere in grado di spiegare e di predire questa parte dei fenomeni della società nella misura in cui dipendono soltanto da quella classe di circostanze, trascurando l’influenza di qualsiasi altra circostanza propria della società e pertanto senza rintracciare in quale fao o nell’altro dello stato sociale la possibile origine delle circostanze delle quali teniamo effeivamente conto e senza far concessioni al modo in cui una qualsiasi di queste circostanze può interferire con l’effeo delle prime, contrastandolo o modificandolo. Possiamo così

costruire quel dipartimento della scienza e ha ricevuto il nome di economia politica. Il motivo e suggerisce di separare dal resto quest’ultima parte dei fenomeni sociali e di creare un ramo distinto della scienza e se ne occupi è e almeno in prima istanza tali fenomeni dipendono soprattutto da una sola classe di circostanze; e e ane quando interferiscano altre circostanze, l’accertamento dell’effeo dovuto a una sola classe di circostanze è un affare sufficientemente intricato e difficile da render conveniente il mandarlo a termine una volta per tue, per poi sorarre l’effeo delle circostanze modificanti; e questo specialmente peré spesso certe combinazioni fisse della prima classe possono ricorrere insieme con le circostanze, sempre in variazione, dell’ultima. Come ho deo in un’altra occasione, l’economia politica traa solamente di «quei fenomeni dello stato sociale e hanno luogo in conseguenza della ricerca della ricezza. Essa fa interamente astrazione da ogni altro motivo o da ogni altra passione umana, ecceuati quelli e possono essere considerati i princìpi e contrastano perpetuamente il desiderio di ricezza; vale a dire l’avversione per la fatica e il desiderio di godere, nell’aimo presente, di lussi costosi. este cose l’economia politica le fa entrare in certa misura nei suoi calcoli, peré, a differenza di quanto accade con i nostri altri desideri, non si limitano a entrare di tanto in tanto in conflio con la ricerca della ricezza, ma l’accompagnano sempre, come una remora o un impedimento, e di conseguenza sono inseparabilmente mescolati alla considerazione di tale ricerca. L’economia politica considera l’umanità solo in quanto è indaffarata a procurarsi e a consumare ricezze, e tende a mostrare quale sia il corso di azioni in cui, vivendo nello stato di società, l’umanità sarebbe spinta se quel motivo governasse in modo assoluto tue le azioni degli uomini, tranne e nella misura in cui esso trova limitazioni nei due motivi perpetuamente contrari ai quali abbiamo fao cenno più sopra. Mostra l’umanità, soo l’influenza di questo desiderio, accumulare ricezze e impiegare queste ricezze per produrne altre; la mostra mentre sanziona l’istituzione della proprietà mediante un accordo reciproco tra gli uomini; la mostra mentre formula leggi e impediscono agl’individui di usurpare la proprietà altrui con la forza o con la frode; la mostra mentre adoa diversi e svariati stratagemmi per aumentare la produività del lavoro; mentre regola con accordi la divisione del prodoo (e per parte sua la competizione è governata da certe leggi le quali, in ultima

analisi, regolano la divisione del prodoo); la mostra mentre impiega certi espedienti (quali danaro, crediti, ecc.) per facilitarne la distribuzione. Tue queste operazioni, bené molte di esse siano in realtà il risultato di una pluralità di motivi, vengono considerate dall’economia politica come se provenissero soltanto da desiderio di ricezza. La scienza procede poi a indagare le leggi e governano queste diverse operazioni, partendo dal presupposto e — con la sola eccezione costituita dai motivi contrari già specificati — l’uomo è un essere determinato dalla necessità della propria natura a preferire in tui i casi una parte maggiore a una parte minore di ricezza: e questo, non già peré gli studiosi di economia politica siano mai stati tanto scioci da credere e l’umanità sia realmente costituita così, ma peré questo è il modo nel quale la scienza deve necessariamente procedere. Se, araverso le cause, desideriamo acquistare il potere di predire o di controllare l’effeo, quando un effeo dipende da un concorso di cause, queste ultime devono essere studiate una alla volta e le loro leggi devono essere indagate separatamente, dal momento e la legge dell’effeo è composta dalla legge di tue le cause e la determinano. La legge della forza centripeta e quella della forza motrice devono essere state conosciute molto tempo prima e si potessero spiegare i moti della Terra e dei pianeti, o e si potessero predire molti di tali moti. La stessa cosa accade con la condoa dell’uomo in società. Allo scopo di giudicare come l’uomo agirà soo la grande varietà di desideri e di avversioni e operano su di esso dobbiamo sapere come agirebbe soo l’influenza esclusiva di ciascuno di questi desideri e di queste avversioni in particolare. Non c’è forse una sola azione nella vita d’un uomo in cui egli non si trovi soo l’influenza immediata o remota di un impulso e non è il puro e semplice desiderio di ricezza. Per quanto riguarda quelle parti della condoa umana di cui la ricezza non è neppure l’oggeo principale, l’economia politica non pretende di poter loro applicare le proprie conclusioni. Ma ci sono ane certi dipartimenti delle faccende umane in cui l’acquisizione della ricezza costituisce il fine principale e riconosciuto. Soltanto di questi tiene conto l’economia politica. La maniera in cui essa necessariamente procede è quella e consiste nel traare il fine principale e riconosciuto come se fosse il solo fine, e questa, di tue le ipotesi egualmente vere, è la più vicina alla verità. Lo studioso di economia politica cerca quali siano le azioni e sarebbero prodoe da questo desiderio se, all’interno dei dipartimenti in questione, non fosse impedito da nessun altro desiderio. In questo modo s’oiene

un’approssimazione all’ordine reale delle faccende umane in questo campo più esaa di quanto non si potrebbe oenere altrimenti. In séguito quest’approssimazione dovrà essere correa, tenendo nel débito conto gli effei di tui quegli impulsi di tipo differente, di cui si possa mostrare e in quale caso particolare interferiscono con l’effeo. Soltanto in poi tra i casi più degni di nota (come nel caso importante del principio della popolazione) queste correzioni vengono interpolate nelle esposizioni dell’economia politica; in tal modo, per amore dell’utilità pratica ci si allontana alquanto dal rigore dell’ordinamento puramente scientifico. Nella misura in cui sappiamo, o possiamo presumere, e la condoa degli uomini nella ricerca della ricezza è sooposta all’influenza collaterale di una qualsiasi proprietà della nostra natura e non sia il desiderio di oenere la massima quantità di ricezza con la minima fatica e con il minimo sacrificio, le conclusioni dell’economia politica saranno altreanto lontane dal poter essere applicate alla spiegazione o alla predizione di eventi reali, fin quando non vengano modificate tenendo conto esaamente del grado d’influenza esercitata dall’altra causa»b. Da proposizioni generali come quelle e abbiamo indicato più sopra è possibile derivare, in un qualsivoglia stato della società, una guida grande e importante, ane se si trascurano momentaneamente sia l’influenza modificatrice delle cause miste e la teoria non prende in considerazione, sia l’effeo dei mutamenti sociali generali dovuti al progresso. E ane se un errore molto comune degli studiosi di economia politica è consistito nel trarre conclusioni dagli elementi di uno stato della società e di applicarlo ad altri stati in cui molti degli elementi non sono i medesimi, risalendo a ritroso nelle dimostrazioni e introducendo nuove premesse non sarà neppure difficile far in modo e il medesimo corso generale di argomentazioni e è servito per un caso serva ane per gli altri casi. Per esempio, tra gli studiosi inglesi di economia politica era largamente diffuso il costume di discutere le leggi della distribuzione del prodoo dell’industria basandosi su di un’ipotesi e non si trova praticamente mai realizzata fuori dell’Inghilterra e della Scozia, vale a dire sull’ipotesi e tale prodoo sia «distribuito fra tre classi, completamente distinte l’una dall’altra: la classe dei lavoratori, quella dei capitalisti e quella dei proprietari terrieri, e e tue queste classi siano agenti liberi a cui è data, di dirio e di fao, la facoltà d’imporre al loro lavoro, al loro capitale e alla loro proprietà fondiaria, qualsiasi prezzo siano in grado di ricavarne.

Essendo tue adae a una società così costituita, le conclusioni della scienza dovranno essere rivedute ogni volta e verranno applicate ad una società differente. Non possono essere applicate in quei casi in cui i soli capitalisti sono i proprietari terrieri e i lavoratori sono loro proprietà, come accade nelle società siavistie. Non possono essere applicate là dove il proprietario terriero è quasi dappertuo lo stato, come accade in India; non possono essere applicate a quei paesi dove il lavoratore agricolo è generalmente il proprietario sia della terra sia del capitale, come accade frequentemente in Francia, o dov’è proprietario soltanto del capitale, come accade in Irlanda». Ma ane se spesso alla razza auale degli studiosi d’economia politica si può obieare molto giustamente «e tentano di costruire un edificio permanente facendo uso di materiali transitori; e danno come scontata l’immutabilità degli ordinamenti sociali, molti dei quali, invece, sono per loro natura in istato di fluuazione o di progresso, e e enunciano con poissime restrizioni, come se si traasse di verità universali e assolute, proposizioni e forse non possono essere applicate a nessun altro stato della società se non a quello stato particolare in cui si è dato il caso e l’autore si sia trovato a vivere», questo non toglie valore alle loro proposizioni quando le si consideri in riferimento allo stato della società dal quale sono state ricavate. E neppure dal punto di vista della sua applicazione ad altri stati della società «si deve supporre e questa scienza sia così incompleta e così insoddisfacente come si potrebbe supporre e questo provi. Ane se molte delle sue conclusioni sono vere soltanto localmente, il metodo d’indagine di cui s’avvale è applicabile universalmente; e come iunque abbia risolto un certo numero di equazioni algebrie può risolvere senza difficoltà tue le altre equazioni della medesima specie, così, iunque conosca l’economia politica dell’Inghilterra o addiriura ane solo dello Yorkshire, conosce quella di tue le nazioni esistenti o possibili, puré abbia abbastanza buon senso da non aspearsi e da premesse variabili risulti la medesima conclusione». Chiunque si sia impadronito, con il grado di precisione e gli è possibile raggiungere, delle leggi e in regime di libera concorrenza determinano gli affii, i profii e i salari ricevuti, rispeivamente, dai proprietari terrieri, dai capitalisti e dagli operai in uno stato sociale in cui queste tre classi siano completamente saparate, non incontrerà nessuna difficoltà quando si traerà di determinare le leggi, peraltro molto differenti, e regolano la distribuzione del prodoo tra le classi interessate ad esso, là dove l’agricoltura e la proprietà terriera si

trovano in uno qualsiasi degli stati di cui abbiamo parlato nell’estrao precedentemente citatoc. 4. i non mi assumerò il compito di decidere quali altre scienze ipotetie o astrae simili all’economia politica possano essere ritagliate dal corpo generale della scienza sociale; quali altre porzioni dei fenomeni sociali dipendano in prima istanza da una classe particolare di casi, in modo sufficientemente streo e completo da render conveniente la creazione di una scienza preliminare di queste cause: rimando a una parte successiva di quest’indagine la considerazione delle cause e agiscono araverso essi o con essi concorrono. Comunque, tra questi dipartimenti separati ce n’è uno e non può essere passato soo silenzio, dal momento e il suo caraere è più comprensivo e più esigente di quello di uno qualsiasi degli altri rami in cui possono essere suddivise le scienze sociali. Come queste scienze, esso traa direamente con le cause di una sola classe di fai sociali; si traa però di una classe e, immediatamente o alla lontana, esercita sul resto un’influenza preponderante. Alludo a quella e possiamo iamare etologia politica, vale a dire alla teoria delle cause e determinano il tipo di caraere proprio di un popolo o di un’età. Più di tui i rami subordinati della scienza sociale, questo si trova completamente allo stato d’infanzia. Ammesso e vengano capite, le cause del caraere nazionale vengono capite raramente, e l’effeo delle istituzioni e degli ordinamenti sociali sul caraere del popolo costituisce generalmente quella parte dei loro effei e è la meno studiata e la meno compresa. E non c’è da maravigliarsene, se consideriamo lo stato infantile nel quale versa la stessa scienza dell’etologia, da cui si devono trarre le leggi di cui le verità dell’etologia politica non possono essere altro se non risultati ed esemplificazioni. Tuavia, a iunque consideri aentamente la questione, non può non risultare iaro e le leggi del caraere nazionale (o colleivo) costituiscono la classe di gran lunga più importante di leggi sociologie. In primo luogo, il caraere formato da uno stato qualsiasi delle circostanze sociali è di per se stesso il fenomeno più interessante e quello stato della società possa mai presentare. In secondo luogo, si traa ane di un fao e entra in larga misura nella produzione di tui gli altri fenomeni. E, soprauo, il caraere — vale a dire le opinioni, i sentimenti e gli abiti — del popolo, bené sia in gran parte il risultato dello stato della società e lo precede, costituisce

ane, in gran parte, le cause dello stato della società e lo segue; e costituisce il potere e modella, in tuo e per tuo, tue quelle circostanze della società e hanno caraere artificiale: per esempio, le leggi e i costumi; i costumi in modo evidente, le leggi non meno realmente, sia per l’influenza direa del sentimento pubblico sopra i poteri al governo, sia per l’effeo e lo stato delle opinioni e dei sentimenti della nazione ha sulla determinazione della forma del governo e sulla formazione del caraere dei governanti. Come ci si poteva aspeare, la parte più imperfea di quei rami della ricerca sociale e sono stati coltivati come scienze separate è costituita dalla teoria della maniera in cui le conclusioni di questi rami vengono modificate dalle considerazioni etologie. L’omissione non costituisce un loro difeo in quanto scienze astrae o ipotetie, ma vizia le loro applicazioni pratie in quanto brane di una scienza speciale più larga. Per esempio, in economia politica i pensatori inglesi assumono tacitamente leggi della natura umana e sono state trovate vere soltanto per la Gran Bretagna e per gli Stati Uniti. Tra le altre cose si suppone costantemente, come dato di fao generale del commercio, l’esistenza di un’intensa competizione, competizione e invece non si trova in nessun altro Paese del mondo ecceuati questi due. Raramente lo studioso inglese di economia politica ha avuto occasione d’imparare — e raramente hanno avuto occasione d’impararlo i suoi compatrioti in generale — e nel condurre i loro affari e nel vendere le loro merci stando seduti dietro un banco, gli uomini possono benissimo aver di mira la propria comodità o la propria vanità più di quanto non abbiano di mira il guadagno pecuniario. Tuavia i conosca gli abiti del continente europeo sa benessimo quanto, ane in quelle operazioni e hanno come oggeo direo il guadagno pecuniario, il desiderio di guadagnar denaro sia spesso superato da un motivo apparentemente del tuo insignificante. anto più si coltiva la scienza dell’etologia, e quanto meglio si comprendono le diversità dei caraeri individuali e nazionali, tanto minore sarà, probabilmente, il numero di proposizioni su cui sarà ritenuto sicuro l’edificare, come su princìpi universali della natura umana. este considerazioni mostrano e il processo consistente nel dividere la scienza sociale in compartimenti, peré ciascun compartimento possa essere studiato separatamente e peré le sue conclusioni possano in séguito essere corree, per l’uso pratico, dalle modificazioni fornite dagli altri dipartimenti, dev’essere sooposto ad almeno una limitazione importante. Si possono rendere oggeo di rami distinti della scienza, sia pure soltanto

provvisoriamente, quelle sole parti dei fenomeni sociali in cui le diversità di caraere tra nazioni differenti e tra epoe differenti entrano soltanto in misura secondaria come cause influenzati. Al contrario, quei fenomeni con i quali ad ogni piè sospinto sono mescolate le influenze dello stato etologico del popolo (cosicé se non si prendono in considerazione quelle influenze la connessione di effei e di cause non può essere messa in evidenza neppure rozzamente) non potrebbero essere traati vantaggiosamente facendo astrazione dall’etologia, e non potrebbero essere traati indipendentemente dall’etologia senza grande svantaggio; e pertanto non potrebbero essere traati indipendentemente da tue le circostanze e influenzano le qualità di un popolo. Per questa ragione (e così pure per altre ragioni e diventeranno iare in séguito) non può esserci una scienza separata del governo, peré proprio quest’ultimo è il fao e più di tui gli altri è mescolato, sia come causa sia come effeo, con le qualità di quel popolo particolare o di quell’epoca particolare. Tue le questioni e riguardano le tendenze delle forme di governo devono far parte della scienza generale della società, non già di un suo ramo separato. Resta ora da caraerizzare questa scienza generale della società, in quanto distinta dai dipartimenti separati della scienza (ciascuno dei quali asserisce le sue conclusioni soltanto condizionatamente, e in via subordinata al controllo preponderante esercitato dalle leggi della scienza generale). E, come mostreremo subito, soltanto in base al metodo deduivo inverso qui è possibile far qualcosa e abbia un caraere realmente scientifico. Ma prima di abbandonare l’argomento di quelle speculazioni sociologie e procedono per deduzione direa, dobbiamo esaminare in quale relazione esse stiano con quell’elemento indispensabile di tue le scienze deduive: la verificazione per mezzo dell’esperienza specifica, il confronto tra le conclusioni del ragionamento e i risultati dell’osservazione. 5. Abbiamo visto e nella maggior parte delle scienze deduive e, tra le altre, nella stessa etologia e costituisce il fondamento immediato della scienza sociale, si compie un lavoro preliminare di preparazione sui fai osservati, allo scopo di renderli adai a essere confrontati rapidamente e accuratamente (e quale volta ane di essere confrontati, puramente e semplicemente) con le conclusioni della teoria. esto traamento preparatorio consiste nel trovare proposizioni generali e esprimano in modo conciso quello e è comune a grandi classi di casi osservati, e queste

proposizioni generali si iamano le leggi empirie dei fenomeni. Dobbiamo pertanto indagare se un simile processo preparatorio si possa compiere sui fai della scienza sociale: se in storia o in statistica ci siano leggi empirie. In statistica è evidente e quale volta è possibile rintracciare leggi empirie, e e il rintracciarle forma una parte importante di quel sistema di osservazione indirea sul quale dobbiamo spesso fare affidamento per i dati della scienza deduiva. Il processo della scienza consiste nell’inferire gli effei dalle loro cause; ma spesso possiamo osservare le cause soltanto per mezzo dei loro effei. In casi di questo genere la scienza deduiva non è in grado di predire gli effei, peré le mancano i dati necessari; può determinare quali cause siano capaci di produrre un certo effeo dato, ma non è in grado di stabilire con quale frequenza e in quali quantità queste cause esistano. Un esempio pertinente è fornito da un giornale e ho dinanzi ai miei oci proprio in questo momento. Uno dei curatori ufficiali di una bancaroa fornì una diiarazione e mostrava in quanti casi, tra le varie bancaroe sulle quali era stato suo dovere investigare, le perdite fossero state causate da condoe colpevoli di diverse e svariate specie e in quanti casi fossero state causate da sfortuna inevitabile. Il risultato fu e il numero dei fallimenti causati da una condoa colpevole superava di gran lunga quelli e erano stati originati da tue le altre cause messe insieme. Soltanto l’esperienza specifica avrebbe potuto fornire basi sufficienti per una conclusione di questo genere. Pertanto, la raccolta di tali leggi empirie (e non sono mai nulla più e generalizzazioni approssimate) dall’osservazione direa costituisce una parte importante del processo dell’indagine sociologica. Il processo sperimentale non dev’essere considerato, qui, come una strada separata e porta alla verità, ma come un mezzo (e si dà il caso e sia il solo, o il migliore, disponibile) per oenere i dati necessari alla scienza deduiva. ando le cause immediate dei fai sociali non sono aperte all’osservazione direa, la legge empirica degli effei (e in questo caso è tuo quello e possiamo oenere) ci dà la legge empirica ane delle cause. Ma quelle cause immediate dipendono da cause remote. E sulla legge empirica, oenuta mediante questo modo indireo d’osservazione, si può fare affidamento solo in quanto è applicabile a casi non osservati, e fintanto e c’è ragione di pensare e in nessuna delle cause remote dalle quali dipendono le cause immediate abbia avuto luogo quale cambiamento.

Pertanto, nel fare uso ane delle migliori generalizzazioni statistie allo scopo d’inferire (sia pure soltanto in via di congeura) e le medesime leggi empirie varranno in ogni caso nuovo, è necessario avere una buona familiarità con le cause più remote, al fine di poter evitare d’applicar la legge empirica a casi e differiscano in una qualsiasi delle circostanze dalle quali dipende in ultima analisi la verità della legge. E così, ane dove, per trarre inferenze pratie in casi nuovi, possiamo disporre di conclusioni derivate dall’osservazione specifica, è necessario e la scienza deduiva sovrasti l’intiero processo come una sentinella; e ad essa si faccia costantemente riferimento e e si oenga la sua sanzione per ogni inferenza. La stessa cosa è vera di tue le generalizzazioni e possono essere fondate sulla storia. Non soltanto tali generalizzazioni esistono, ma mostreremo subito e la scienza generale della società, e indaga le leggi di successione e di coesistenza dei grandi fai e costituiscono lo stato della società e della civiltà in ogni tempo, non può non procedere in nessun’altra maniera se non compiendo tali generalizzazioni: generalizzazioni e in séguito dovranno essere confermate conneendole con le leggi psicologie ed etologie dalle quali, in realtà, non possono non dipendere. 6. Ma (lasciando questa questione al suo luogo appropriato) in quelle indagini più speciali e formano l’oggeo dei rami separati della scienza sociale, questo duplice processo logico e questa verificazione reciproca non sono possibili: l’esperienza specifica non ci fornisce nulla e equivalga alle leggi empirie. esto è particolarmente vero quando lo scopo è quello di determinare l’effeo di una sola causa sociale tra un gran numero di cause e agiscono simultaneamente; quando si traa, per esempio, di determinare l’effeo delle leggi granarie o quello di un sistema commerciale proibizionistico in generale. Bené in base alla teoria possa essere perfeamente certo quale specie di effei debbano produrre le leggi granarie e in quale direzione generale la loro influenza debba agire sulla prosperità dell’industria, tuavia, di necessità, il loro effeo è tanto nascosto dagli effei simili o contrari di altri agenti e esercitano la loro influenza, e, al massimo, l’esperienza specifica potrà soltanto mostrare e, sulla media di quale grande numero di casi, i casi in cui agivano le leggi granarie hanno manifestato quell’effeo in un grado maggiore e non i casi in cui le leggi granarie non esistevano. Ora, il numero di casi necessario a esaurire l’intiero giro delle combinazioni delle

varie circostanze e hanno esercitato la loro influenza, e quindi a fornire una buona media, non si potrà mai oenere. Non soltanto non possiamo mai venir a sapere, con sufficienti garanzie di autenticità, i risultati di tanti casi particolari, ma è il mondo stesso a non fornirli in numero sufficiente, nei limiti di quel determinato stato della società e della civiltà e queste indagini presuppongono sempre. Siccome, dunque, non abbiamo nessuna generalizzazione empirica con la quale confrontare le conclusioni della teoria, il solo modo di verificazione direa e ci rimanga è quello e consiste nel confrontare queste conclusioni con il risultato di un singolo esperimento, o di un caso singolo. Ma qui la difficoltà è egualmente grande. Infai, allo scopo di verificare una teoria per mezzo d’un esperimento, le circostanze dell’esperimento devono essere esaamente le stesse di quelle contemplate nella teoria. Ma nei fenomeni sociali le circostanze di due casi non sono mai esaamente simili. Se si meessero alla prova le leggi granarie in un altro Paese o in una generazione differente, si farebbe ben poca strada verso la verifica di una conclusione e riguardi l’effeo di queste leggi in questa generazione e in questo Paese. Nella maggior parte dei casi accade pertanto e l’unico caso individuale realmente adao a verificare le previsioni della teoria sia proprio quel caso per cui sono state fae le previsioni: la verifica viene troppo tardi peré possa avere una qualsivoglia utilità per la guida pratica. Comunque, sebbene la verifica direa sia impossibile, c’è una verifica indirea, e ha praticamente il medesimo valore e e può sempre essere mandata ad effeo. La conclusione traa relativamente al caso individuale può essere verificata direamente soltanto in quel caso; ma viene verificata indireamente verificando altre conclusioni, trae, in altri casi individuali, in base alle medesime leggi. L’esperienza e arriva troppo tardi per verificare la proposizione particolare alla quale si riferisce, non arriva troppo tardi per aiutare a verificare se, in generale, la teoria sia sufficiente. Il criterio per decidere il grado al quale la scienza fornisce serie basi per predire (e di conseguenza per traare praticamente con) quello e non è ancora accaduto, è il grado al quale essa ci avrebbe resi capaci di predire quello e è accaduto effeivamente. Prima di poter fare completo affidamento sulla nostra teoria circa l’influenza e una causa particolare esercita sopra un determinato stato di circostanze, dobbiamo essere in grado di spiegare lo stato esistente di tua quella parte dei fenomeni sociali e quella causa ha una tendenza a influenzare, e di renderne conto. Se, per esempio,

applicassimo le nostre speculazioni di economia politica alla previsione o alla direzione dei fenomeni propri di un qualsiasi Paese dovremmo essere in grado di spiegare tui i fai di caraere generale riguardanti il mercato o l’industria relativi allo stato auale di quel Paese; dovremmo essere in grado d’indicare cause sufficienti a rendere conto di tui questi fai e dovremmo provare, o avere buone ragioni per supporre, e queste cause sono realmente esistite. Il fao e non ne siamo capaci è una prova e i fai di cui dovremmo rendere conto non ci sono ancora completamente noti o e, pur conoscendo i fai, non siamo in possesso di una teoria abbastanza perfea da meerci in grado di individuare le loro conseguenze. Allo stato auale delle nostre conoscenze, in nessuno dei due casi abbiamo tua la competenza necessaria a trarre conclusioni di caraere speculativo o di caraere pratico riguardanti quel Paese. In maniera analoga, se pensassimo di giudicare degli effei e avrebbe una qualsiasi istituzione politica (supponendo e possa essere introdoa in un determinato Paese) dovremmo essere in grado di mostrare e lo stato auale del governo pratico di quel Paese e di tue le altre cose e ne dipendono, insieme con il caraere e con le tendenze particolari del popolo e con il loro stato rispeo ai vari elementi del benessere sociale, sono tali quali le istituzioni soo cui questo popolo è vissuto, insieme con le altre circostanze della sua natura e della sua posizione, sono state calcolate per produrre. In breve, per provare e la nostra scienza e la nostra conoscenza del caso particolare ci dànno la competenza necessaria a predire il futuro, dobbiamo mostrare e ci avrebbero resi capaci di predire il presente e il passato. Il fao e esista qualcosa e non avremmo potuto predire costituisce un fenomeno residuo, e dev’essere spiegato facendo ricorso a studi ulteriori; e dobbiamo andar a cercare tra le circostanze del caso particolare fin quando non ne troveremo una e, in base ai princìpi della nostra teoria auale, renda conto dei fenomeni inesplicati; oppure dobbiamo tornare indietro e cercare la spiegazione allargando e migliorando la teoria medesima. a.

Vedi sopra, p. 1113.

b. Essay on some Unsettled Questions of Political Economy,

pp. 137-140. Le citazioni contenute in quest’ultimo capoverso sono trae da un articolo questo libro, e pubblicato, in un periodico, nel 1834. c.

scritto

dall’Autore di

CAPITOLO X. IL METODO DEDUTTIVO INVERSO, O METODO STORICO 1. Ci sono due specie di ricerca sociologica. Nella prima specie la questione proposta è: quale effeo seguirà da una data causa, presupponendo l’esistenza di una certa condizione generale delle circostanze sociali. Per esempio, quale sarà l’effeo dell’imposizione o dell’abrogazione delle leggi granarie, dell’abolizione della monaria o dell’introduzione del suffragio universale nelle condizioni auali della società e della civiltà di un qualsiasi Paese europeo, o soo qualsiasi altra ipotesi data riguardante le circostanze della società in generale e indipendentemente dai cambiamenti e potrebbero aver luogo, o e forse stanno già avendo luogo, in quelle circostanze. Ma c’è ane la seconda indagine, vale a dire: quali siano le leggi e determinano quelle stesse circostanze generali. In quest’ultima indagine la questione non è: quale sarà l’effeo di una data causa in un certo stato della società, ma: quali siano le cause e producono, e i fenomeni e caraerizzano, gli stati della società in generale. Nella risoluzione di questo problema consiste la scienza generale della società, e deve limitare e controllare le conclusioni delle altre specie d’indagine più particolari. 2. Allo scopo di oenere una concezione correa degli obbieivi di questa scienza generale e di distinguerla dai dipartimenti ad essa subordinati della speculazione sociologica, è necessario fissare le idee connesse alla frase «stato della società». ello e iamiamo «stato della società» è lo stato simultaneo di tui i maggiori fai o fenomeni sociali. Tali sono il grado di conoscenza e di cultura intelleuale e morale esistenti nella comunità e in ogni sua classe; lo stato dell’industria, della ricezza e della sua distribuzione; le occupazioni abituali della comunità; la divisione della comunità in classi e le relazioni e queste classi hanno l’una con l’altra; le sue credenze comuni su tui gli argomenti più importanti per l’umanità e il grado di sicurezza con cui tali credenze sono sostenute; i gusti, il caraere e il grado dello sviluppo estetico della comunità; la sua forma di governo e le più importanti tra le sue leggi e i suoi costumi. La condizione di tue queste cose e di tante altre cose e ci verranno in mente con facilità, costituisce lo stato della società o lo stato della civiltà in un certo istante dato.

ando degli stati della società e delle cause e li producono si parla come di un oggeo di scienza, è implicito e esiste una correlazione naturale tra questi differenti elementi; e non ogni varietà di combinazione di questi fai sociali generali è possibile, ma e sono possibili soltanto certe loro combinazioni; in breve, e esistono uniformità di coesistenza tra gli stati dei vari fenomeni sociali. E tale è la verità, e in realtà essa è una conseguenza necessaria dell’influenza esercitata da ciascuno di questi fenomeni su ciascun altro. È un fao implicito nel consensus delle varie parti del corpo sociale. Gli stati della società sono come le differenti costituzioni o le differenti età nella struura fisica; sono condizioni, non già d’un organo o d’un numero limitato di organi, ma dell’organismo tuo intiero. Di conseguenza, le informazioni e possediamo relativamente alle epoe passate e relativamente ai vari stati della società e esistono aualmente nelle differenti regioni della Terra, quando vengano analizzate nel modo dovuto, manifestano effeivamente certe uniformità. Si trova e, quando uno dei trai della società è in uno stato particolare, con questo stato coesisterà sempre, o per lo più, uno stato caraerizzato da certi altri trai, più o meno precisamente definiti. Ma (come abbiamo osservato tanto spesso) le uniformità di coesistenza e vigono tra i fenomeni e sono effei di certe cause, non possono non essere corollari delle leggi di causazione da cui questi fenomeni sono in realtà determinati. La correlazione reciproca tra i differenti elementi di ciascun stato della società è pertanto una legge derivata e risulta dalle leggi e regolano il succedersi di uno stato della società a un altro: infai, la causa prossima di ogni stato della società è lo stato della società e lo precede immediatamente. Pertanto, il problema fondamentale della scienza sociale è quello di trovare le leggi secondo cui un qualsiasi stato della società produce lo stato e gli succede e e ne prende il posto. esto problema apre la grande e dibauta questione del caraere progressivo dell’uomo e della società: idea, questa, e è implicita in ogni giusta concezione dei fenomeni sociali, in quanto oggeo di scienza. 3. Uno dei caraeri, e pur non essendo assolutamente peculiare alle scienze della natura e della società umane è proprio di esse in un grado peculiare, è e tali scienze traano di un oggeo le cui proprietà sono mutevoli. Non intendo mutevoli di giorno in giorno, ma di epoca in epoca;

cosicé, non soltanto variano le qualità degli individui, ma ane le qualità della maggioranza degli individui non sono le stesse da un’epoca all’altra. La causa principale di questa peculiarità è la reazione, estesa e costante, degli effei sopra le loro cause. Le circostanze in cui si trova l’umanità, operando secondo le loro proprie leggi e secondo le leggi della natura umana, formano i caraeri degli esseri umani; ma, a loro volta, gli esseri umani modellano e foggiano le circostanze per se stessi e per quelli e vengono dopo di loro. Da quest’azione reciproca deve necessariamente risultare o un ciclo o un progresso. Ane in astronomia ogni fao è, nel medesimo tempo, effeo e causa; le posizioni successive dei vari corpi celesti producono cambiamenti nella direzione e nell’intensità delle forze e determinano quelle posizioni. Ma nel caso del sistema solare, dopo un certo numero di cambiamenti queste azioni reciproe riportano lo stato primitivo delle circostanze e questo, naturalmente, conduce alla perpetua ricorrenza delle medesime serie di fenomeni, secondo un ordine invariabile. In breve, questi corpi descrivono orbite: ma ci sono (o, in conformità con le leggi dell’astronomia, potrebbero esserci) altri corpi e invece di descrivere un’orbita descrivono una traieoria: un cammino e non ritorna su se stesso. Le faccende umane dovranno pertanto conformarsi all’uno o all’altro di questi tipi di movimento. Uno dei pensatori e tra i primi concepirono la successione degli eventi storici come sooposta a leggi fisse e e tentarono di scoprire queste leggi basandosi su di una visione analitica della storia, Vico, il celebre autore della Scienza nuova, adoò la prima di queste opinioni. Egli concepiva i fenomeni della so cietà umana come percorrenti un’orbita; come fenomeni e araversano periodicamente la medesima serie di cambiamenti. Ane se non mancano circostanze e tendono a dare una certa plausibilità a questo punto di vista, esso tuavia non resisterebbe a un esame accurato; e tui quelli e sono succeduti a Vico in questa specie di speculazioni hanno universalmente adoato, in luogo dell’idea di un’orbita o di un ciclo, l’idea di una traieoria, ossia di un progresso. i le parole «progresso» e «progressività» non devono essere intese come sinonimi di «miglioramento» o di «tendenza al miglioramento». Non è inconcepibile e le leggi della natura umana possano determinare e addiriura necessitare nell’uomo e nella società una serie di cambiamenti e non in ogni caso, o non nel loro complesso, potrebbero essere miglioramenti. Io credo e la tendenza generale sia una tendenza al

miglioramento e e tale continuerà ad essere salvo eccezioni occasionali e temporanee; vale a dire, e sia una tendenza a uno stato di maggiore benessere e di maggiore felicità. esta, però, non è una questione di metodo della scienza sociale, ma un teorema della scienza stessa. Per il nostro scopo è sufficiente e ci sia un cambiamento progressivo tanto nel caraere della razza umana quanto nelle sue circostanze esterne, nella misura in cui queste circostanze possono essere foggiate dalla razza medesima; e in ciascuna età successiva i fenomeni principali della società siano differenti da quello e erano nell’età precedente, e ancora più differenti di quanto non fossero in una qualsiasi altra età anteriore. I periodi e contrassegnano questi cambiamenti successivi nel modo più neo sono gli intervalli di una generazione, intervalli durante i quali è stato educato un nuovo insieme di esseri umani: nel quale un nuovo insieme di esseri umani è uscito di fanciullezza e ha preso possesso della società. Il caraere progressivo proprio della razza umana è il fondamento sul quale è stato edificato, in questi ultimi anni, il metodo di filosofare nelle scienze sociali; metodo di gran lunga superiore sia all’uno sia all’altro dei due modi precedentemente in voga: il metodo imico o sperimentale e il metodo geometrico. esto metodo, e ora è generalmente adoato dai pensatori più progrediti del continente, consiste nel tentar di scoprire, mediante uno studio e un’analisi dei fai generali della storia, quelle e i filosofi in questione iamano le leggi del progresso; secondo questi filosofi, questa legge una volta accertata deve meerci in grado di predire gli eventi futuri proprio come, dati poi termini di una serie algebrica infinita, siamo in grado di cogliere il principio di regolarità nella formazione della serie e di predirne il rimanente per un numero qualsiasi di termini, a nostro piacere. In questi ultimi anni lo scopo principale della speculazione storica in Francia è stato quello di accertare questa legge. Ma pur essendo ben lieto di riconoscere i grandi servigi e questa scuola ha reso alla conoscenza storica non posso fare a meno di ritenere e i suoi seguaci possano essere accusati, per lo più, di un fraintendimento fondamentale del vero metodo della filosofia sociale. Il fraintendimento consiste nel supporre e l’ordine di successione e possiamo tracciare tra gli stati differenti della società e della civiltà e la storia ci presenta possa mai equivalere a una legge naturale; e un fraintendimento sarebbe ane nel caso in cui quest’ordine fosse più rigidamente uniforme di quanto non si sia finora trovato e è. est’ordine non può essere altro e una legge empirica. La successione degli stati della

mente umana e della società umana non può avere una legge indipendente sua propria; tale successione non può non dipendere dalle leggi psicologie ed etologie e governano l’azione delle circostanze sugli uomini e quella degli uomini sulle circostanze. Non è inconcepibile e queste leggi possano essere tali — e tali possano essere le circostanze generali della razza umana — da determinare le trasformazioni successive dell’uomo e della società a seguire un solo ordine, dato e invariabile. Ma ane se le cose stessero così, lo scopo ultimo della scienza non potrebbe essere quello di scoprire una legge empirica. Fin quando questa legge non possa essere messa in connessione con le leggi psicologie ed etologie dalle quali non può non dipendere e, per la coincidenza di deduzioni a priori e di prove storie, non possa essere trasformata, da quella legge empirica e è, in una legge scientifica, su di essa non si potrà fare affidamento per la predizione di eventi futuri; o almeno, non si potrà farvi affidamento se non per quei casi e non siano casi rigorosamente contigui. Tra gli appartenenti alla nuova scuola storica il solo signor Comte ha visto la necessità di conneere in questo modo tue le generalizzazioni trae dalla storia con le leggi della natura umana. 4. Ma mentre è una regola categorica e nella scienza sociale non s’introducano mai generalizzazioni trae dalla storia a meno e non se ne possano individuare ragioni sufficienti nella natura umana, non credo e qualcuno possa negare e prendendo le mosse dai princìpi della natura umana e dalle circostanze generali della posizione in cui si trova la nostra specie, sarebbe stato possibile determinare a priori l’ordine secondo il quale dovrebbe aver luogo lo sviluppo dell’umanità e predire, di conseguenza, i fai generali della storia fino all’epoca presente. Come giustamente osserva l’ultimo autore e abbiamo citato, dopo i primi, poi termini della serie, l’influenza esercitata su ciascuna generazione dalle generazioni e l’hanno preceduta acquista su tue le altre influenze una preponderanza sempre maggiore, finé, a lungo andare, soltanto in misura minima quello e noi siamo e facciamo è il risultato delle circostanze universali della razza umana, o persino delle nostre stesse circostanze individuali, e agiscono araverso le qualità originarie della nostra specie. ello e siamo e facciamo è invece principalmente il risultato delle qualità prodoe in noi dall’intiera storia precedente dell’umanità. Una serie così lunga di azioni e reazioni tra circostanze e uomo, ciascun termine della quale è composto da un numero

sempre maggiore e da una sempre maggiore varietà di parti, non potrebbe in nessun modo essere calcolata dalle facoltà umane a partire dalle leggi elementari e la producono. La pura e semplice lunghezza della serie sarebbe un ostacolo sufficiente, dal momento e un errore ane piccolo in uno qualsiasi dei termini aumenterebbe in rapida progressione a ogni passo successivo. Pertanto, se la serie degli effei in se stessi, esaminata come un tuo, non manifestasse nessuna regolarità, tenteremmo invano di costruire una scienza generale della società. In quel caso dovremmo accontentarci di quell’ordine subordinato di speculazione sociologica di cui abbiamo parlato in precedenza. Dovremmo, in altre parole, accontentarci di tentar di accertare quale sarebbe l’effeo dell’introduzione di una nuova causa in uno stato della società e si suppone sia stabile; conoscenza, questa, sufficiente per le esigenze più comuni della pratica politica quotidiana, ma e probabilmente fallirà in tui i casi nei quali il movimento progressivo della società è un movimento degli elementi e l’influenzano, e perciò tanto più precaria quanto più importante sarà il caso. Ma poié tanto le varietà naturali dell’umanità quanto le diversità originarie delle circostanze locali sono molto meno considerevoli di quanto non lo siano i punti di concordanza, nello sviluppo progressivo della specie e delle sue opere ci sarà naturalmente un certo grado d’uniformità. E con il progredire della società quest’uniformità tende a diventare più grande, non più piccola; infai l’evoluzione di ciascun popolo, e in un primo tempo è determinata esclusivamente dalla natura e dalle circostanze proprie di quel popolo, viene portata gradatamente soo l’influenza (e diventa sempre più forte man mano e la civiltà progredisce) delle altre nazioni della Terra e delle circostanze dalle quali queste ultime sono state influenzate. Di conseguenza, se la si esamina giudiziosamente, la storia fornisce effeivamente le leggi empirie della società. E il problema della sociologia generale è quello di accertare queste leggi e di conneerle con le leggi della natura umana per mezzo di deduzioni e mostrano e proprio quelle erano le leggi derivate e dovevamo naturalmente aspearci come conseguenze di quelle leggi fondamentali. In realtà, ane dopo e la storia abbia suggerito le leggi derivate, è praticamente impossibile dimostrare a priori e quest’ordine è l’unico ordine di successione e di coesistenza in cui, coerentemente con le leggi della natura umana, si sarebbero potuti produrre certi effei. Al massimo,

possiamo congeurare e c’erano forti ragioni a priori per aspearcelo, e e nessun altro ordine di successione o di coesistenza avrebbe avuto eguali probabilità di risultare dalla natura dell’uomo e dalle circostanze generali della sua situazione. Spesso non possiamo fare neppure questo: non possiamo neppure provare e quello e ha avuto effeivamente luogo era probabile a priori; possiamo soltanto mostrare e era possibile. Dove però la conclusione sia stata oenuta originariamente con il metodo della deduzione direa, questo processo — e nel metodo deduivo inverso e stiamo ora caraerizzando è un vero e proprio processo di verifica — è tanto indispensabile quanto (come abbiamo dimostrato) è indispensabile la verifica in base all’esperienza specifica. Le leggi empirie non possono non essere il risultato di poissimi casi, dal momento e sono ben poe le nazioni ad aver mai raggiunto un alto stadio di progresso sociale. Se pertanto ane soltanto uno o due di questi casi ci sono noti in modo insufficiente, o sono stati analizzati nei loro elementi in maniera imperfea — e pertanto non sono stati confrontati adeguatamente con altri casi — nulla è più probabile del fao e invece della legge giusta venga fuori una legge empirica sbagliata. Di conseguenza le generalizzazioni erronee trae dal corso della storia sono cosa di tui i giorni; non soltanto in questo Paese dove non si può ancora dire e la storia venga coltivata come scienza, ma ane in altri Paesi, dove è coltivata come tale e da persone ben versate in essa. L’unico controllo, o l’unico correivo, è costituito dalla verificazione costante per mezzo di leggi psicologie o etologie. A questo possiamo aggiungere e nessuno, se non una persona dotata dell’abilità e della conoscenza necessarie per traare con queste leggi, è capace di preparare i materiali per la generalizzazione storica analizzando i fai storici o addiriura osservando i fenomeni sociali del suo tempo. Nessun altro sarà consapevole dell’importanza relativa di fai differenti né, di conseguenza, saprà quali fai cercare e quali osservare; ancor meno sarà capace di stimare le prove di fai e, come accade con la maggior parte di essi, non possono essere accertati per mezzo dell’osservazione direa, e non possono essere imparati a séguito di testimonianze altrui, ma devono essere inferiti da segni. 5. Le leggi empirie della società sono di due specie: alcune sono uniformità di coesistenza, altre sono uniformità di successione. Secondo e la scienza si occupi di accertare e di verificare la prima o la seconda specie di uniformità, il signor Comte le dà il nome di statica sociale o di dinamica

sociale, conformemente con la distinzione, e si fa in meccanica, tra le condizioni d’equilibrio e le condizioni di movimento, o con quella, e si fa in biologia, tra le leggi dell’organizzazione e le leggi della vita. Il primo ramo della scienza accerta le condizioni di stabilità dell’unione sociale, la seconda accerta le leggi del progresso. La dinamica sociale è la teoria della società considerata in istato di movimento progressivo; mentre la statica sociale è la teoria del consensus, del quale abbiamo già parlato come di ciò e esiste tra le differenti parti dell’organismo sociale; in altre parole, la teoria delle azioni e delle reazioni specifie dei fenomeni sociali simultanei, teoria e, «per quanto è possibile, fa provvisoriamente astrazione, per scopi scientifici, dal movimento e sempre modifica gradatamente la totalità di questi fenomeni. Secondo questo primo punto di vista, le previsioni della sociologia ci meeranno in grado d’inferire, gli uni dagli altri (e subordinatamente all’ulteriore verificazione per mezzo dell’osservazione direa) i vari contrassegni caraeristici di ciascun modo distinto di esistere in società, in una maniera essenzialmente analoga a quella e è ora praticata abitualmente nell’anatomia del corpo fisico. Pertanto, quest’aspeo preliminare della scienza politica presuppone necessariamente e (contrariamente alle abitudini auali dei filosofi) ciascuno dei numerosi elementi dello stato sociale — non essendo più considerato indipendentemente e in assoluto — sia sempre ed esclusivamente preso in considerazione relativamente a tui gli altri elementi, con la totalità dei quali è unito da interdipendenza reciproca. i sarebbe inutile insistere sulla grande e costante utilità di questo ramo della speculazione sociologica. In primo luogo esso costituisce la base indispensabile della teoria del progresso sociale […]. Inoltre può essere impiegato, immediatamente e di per se stesso, per prendere almeno provvisoriamente il posto dell’osservazione direa, e in molti casi non possiamo esercitare su qualcuno degli elementi della società la cui condizione reale può essere comunque giudicata a sufficienza in base alle relazioni e li conneono con altri elementi precedentemente noti. La storia delle scienze può fornirci quale nozione dell’importanza abituale di questa risorsa ausiliaria ricordandoci, per esempio, come gli errori volgari di mera erudizione riguardanti le pretese acquisizioni degli antii Egizi nell’astronomia superiore, furono irrevocabilmente annullati (ancor prima e li condannasse un’erudizione più profonda) dalla sola considerazione della connessione inevitabile tra lo stato generale dell’astronomia e quello della geometria astraa, e evidentemente a quei

tempi si trovava ancora nella propria infanzia. Sarebbe facile citare una grande quantità di casi analoghi, il cui caraere non ammeerebbe discussione. Tuavia, allo scopo di evitare esagerazioni, si dovrà osservare e queste relazioni necessarie tra differenti aspei della società non possono, per la loro stessa natura, essere così semplici e così precise, e i risultati osservati possano aver avuto origine soltanto dall’uno o dall’altro modo di coordinazione reciproca. Una nozione di questo genere, già troppo ristrea nelle scienze della vita, sarebbe in completo disaccordo con la natura ancor più complessa delle speculazioni sociologie. Ma la stima esaa di questi limiti di variazione sia nello stato di salute sia nello stato di malaia, costituisce, almeno tanto quanto lo costituisce nell’anatomia del corpo naturale, un complemento indispensabile a ogni teoria della statica sociologica, complemento senza il quale l’esplorazione indirea di cui abbiamo parlato più sopra condurrebbe spesso in errore. Non è questo il luogo per dimostrare metodicamente l’esistenza di una relazione necessaria fra tui gli aspei possibili dell’organismo sociale; punto, questo, sul quale almeno in linea di principio oggi ci sono poe differenze d’opinione tra i pensatori più profondi. ali e siano gli elementi della società dai quali scegliamo di prendere le mosse, possiamo facilmente riconoscere e essi hanno sempre una connessione più o meno immediata con tui gli altri elementi, ane con quelli e a prima vista appaiono come i più indipendenti da essi. La considerazione dinamica dello sviluppo progressivo dell’umanità fornisce senza dubbio un mezzo ancor più efficace per compiere quest’interessante verifica del consensus dei fenomeni sociali, esibendo la maniera in cui ogni cambiamento in una qualsiasi parte opera immediatamente, o molto speditamente, su tuo il resto. Ma quest’indicazione può essere preceduta, o in ogni caso seguìta, da una conferma di caraere puramente statico; infai, in politica come in meccanica, la comunicazione del movimento da un oggeo all’altro prova l’esistenza di una connessione tra i due oggei. Senza discendere ad analizzare la minuta interdipendenza tra i differenti rami di una qualsiasi scienza o di una qualsiasi arte, non è forse evidente e tra le diverse scienze, e così pure tra la maggior parte delle arti, esiste una connessione tale e, se ci è sufficientemente noto lo stato di una qualsiasi divisione ben marcata tra esse, dalla loro correlazione necessaria possiamo inferire con vera e propria sicurezza scientifica lo stato in cui si trova, simultaneamente, ognuna delle altre? Estendendo ulteriormente questa considerazione

possiamo concepire la relazione necessaria e esiste tra le condizioni delle scienze in generale e quella delle arti in generale, tranne e la dipendenza reciproca è tanto meno intensa quanto più è indirea. La stessa cosa accade quando, invece di prendere in considerazione l’aggregato dei fenomeni sociali in un popolo o nell’altro, lo esaminiamo simultaneamente in differenti nazioni contemporanee tra le quali, specialmente ai nostri tempi, non può essere negata l’esistenza di un’influenza reciproca perpetua (ane se ordinariamente il consensus non può non essere, in questo caso, di un caraere meno deciso e non può non decrescere gradatamente man mano e diminuiscono l’affinità tra i casi e la molteplicità dei punti di contao, fino a sparire quasi completamente in alcuni casi). Così avviene, per esempio, tra l’Europa occidentale e l’Asia orientale, i vari stati generali delle cui società sembrano essere, fino ad oggi, quasi del tuo indipendenti l’uno dall’altro»a. este osservazioni sono seguìte da varie illustrazioni di uno dei princìpi generali più importanti (e, fino a poco tempo fa, più dimenticati) e possono essere considerati come saldamente acquisiti, vale a dire del principio della correlazione necessaria tra la forma di governo e esiste in ogni società e lo stato contemporaneo della sua civiltà; legge naturale, questa, e bolla le infinite discussioni e le innumerevoli teorie e riguardano in astrao le forme di governo con il mario della sterilità e della mancanza di valore per ogni altro proposito e non sia quello d’un traamento preparatorio di materiali e in séguito dovranno essere usati nella costruzione d’una filosofia migliore. Come abbiamo già osservato, uno dei principali risultati della scienza della statica sociale sarebbe l’accertamento dei requisiti necessari a un’unione politica stabile. Ci sono alcune circostanze e, trovandosi in tue le società senza eccezione e trovandosi nel loro grado più alto là dove l’unione sociale è più completa, possono essere considerate (quando le leggi psicologie ed etologie confermino l’indicazione) come condizioni dell’esistenza di quel complesso fenomeno al quale si dà il nome di Stato. Per esempio, nessuna società numerosa è mai stata tenuta assieme senza leggi o senza usanze equivalenti alle leggi; senza tribunali e senza una forza organizzata di quale genere, e renda esecutive le decisioni dei tribunali. Ci sono sempre state autorità pubblie a cui, con maggiore o con minore rigore, e in casi definiti più o meno accuratamente, il resto della comunità obbediva e a cui, stando all’opinione generale, era tenuta a obbedire.

Seguendo questo corso d’indagini, troveremo un certo numero di requisiti e sono stati presenti in ogni società e abbia mantenuto un’esistenza colleiva e alla cessazione dei quali questa società si è fusa con quale altra società, o si è riedificata su quale nuova base in cui ci si conformava alle condizioni cui abbiamo fao cenno. Sebbene, in se stessi, questi risultati oenuti confrontando tra loro forme e stati differenti della società equivalgano soltanto a leggi empirie, si troverà e alcuni di essi, non appena siano stati suggeriti, seguono dalle leggi generali della natura umana con una probabilità così alta e la coincidenza dei due processi eleva questa testimonianza [evidence] al rango di prova, e le generalizzazioni al rango di verità scientifie. esto sembra si possa affermare (per esempio) delle conclusioni alle quali si è giunti nel passo seguente, e è stato estrao, con alcuni cambiamenti, da una critica della filosofia negativa del dicioesimo secolob, passo e mi prendo la libertà di citare (come ho fao in altri casi precedenti) da uno dei miei scrii, semplicemente peré non conosco nessun modo migliore per illustrare la concezione e mi sono formata a proposito della specie di teoremi nei quali dovrebbe consistere la statica sociale. «Il primissimo elemento dell’unione sociale, vale a dire l’obbedienza a un governo di quale genere non è stato trovato così facile da stabilire nel mondo. Tra una razza timida e priva di coraggio, quali sono gli abitanti delle vaste pianure dei paesi tropicali, può darsi e l’obbedienza passiva alligni naturalmente, bené ane qui sia dubbio se sia mai stata trovata presso i popoli tra i quali non sia prevalso, come dorina religiosa, il fatalismo, o, in altre parole, la soommissione alla pressione delle circostanze esterne come a un decreto divino. Ma le difficoltà e s’incontrano nell’indurre una razza coraggiosa e guerriera a soomeere il proprio arbitrium individuale a un arbitro comune sono sempre state così grandi e si ritenne e soltanto un potere soprannaturale fosse adeguato a vincerle: e queste tribù hanno sempre aribuito un’origine divina alla prima istituzione della società civile. Tanto diversamente giudicarono coloro e conobbero i selvaggi per esperienza direa da coloro e avevano familiarità con essi soltanto mentre si trovavano nello stato di civiltà. Nella stessa Europa moderna, dopo la caduta dell’Impero romano, il soggiogare l’anaria feudale e l’assoggeare a un governo tuo quanto il popolo di una qualsiasi nazione europea, riiese tre volte tanti secoli quanti ne sono passati da quel tempo (ane se

a quest’impresa cooperò la Cristianità, nella forma di massima concentrazione raggiunta dalla sua influenza). Ora, se questi filosofi avessero conosciuto la natura umana in qualsiasi altro tipo e non fosse stato quello della loro età e delle classi sociali particolari tra le quali vissero, gli sarebbe venuto in mente e ogni qual volta questa soommissione abituale alla legge e al governo è stata stabilita con fermezza e durevolmente, e tuavia sono stati preservati in quale misura la forza e la virilità del caraere e opposero resistenza al suo affermarsi, sono esistiti certi requisiti; sono risultate soddisfae certe condizioni di cui la seguente può essere considerata quella principale. In primo luogo per tui coloro e erano annoverati tra i ciadini — per tui coloro, cioè, e non fossero siavi soomessi alla forza bruta — era esistito un sistema di educazione e cominciava con l’infanzia e continuava per tua la vita; e qualunque altra cosa questo sistema potesse comprendere, uno dei suoi ingredienti principali e costanti era la disciplina restrittiva. L’addestramento degli esseri umani all’abito, e quindi al potere, di subordinare i loro impulsi e i loro scopi personali a quelli e erano considerati i fini della società; l’addestramento all’abito di aderire, contro tue le tentazioni, alla specie di condoa e questi fini prescrivevano; di controllare in se stessi tui i sentimenti e potessero militare contro questi fini e d’incoraggiare tui quelli e tendessero verso di essi; questo era lo scopo al quale si tentava di far servire tui i motivi esterni sui quali l’autorità e dirigeva il sistema era in grado di esercitare il proprio potere e tue le facoltà o i princìpi interni e la sua conoscenza della natura umana la rendesse capace di risvegliare. L’intiera politica civile e militare delle antie confederazioni costituiva un sistema così fao d’addestramento; nelle nazioni moderne si è tentato di far prendere il suo posto soprauo dall’insegnamento religioso e dovunque, e nella misura in cui, il rigore della disciplina restriiva risultasse rilassato, la tendenza all’anaria, connaturata nell’umanità, riasseriva se stessa; lo stato diventava disorganizzato dall’interno; il mutuo conflio per fini egoistici neutralizzava le energie indispensabili a mantener viva la loa contro le cause naturali del male; e la nazione, dopo un intervallo più o meno lungo di progressivo declino, diventava la siava del dispotismo o la preda di un invasore straniero. Si è trovato e la seconda condizione di una società politica permanente è l’esistenza in una forma o nell’altra del sentimento di fedeltà o di lealtà. esto sentimento può variare per quanto riguarda i suoi oggei e non è

limitato a nessuna forma particolare di governo; ma sia in una democrazia, sia in una monaria, la sua essenza è sempre la medesima: vale a dire, e nella costituzione dello stato c’è qualcosa di stabile, qualcosa di permanente, e non può essere messo in questione; qualcosa e, per accordo generale, ha il dirio di trovarsi dov’è, e di essere al sicuro contro le perturbazioni, qualunque altra cosa possa cambiare. esto sentimento può rivolgersi, come accadde tra gli Ebrei (e nella maggior parte delle confederazioni dell’antiità) a un Dio o a dèi comuni, proteori e guardiani dello stato. Oppure può rivolgersi verso certe persone, e si ritiene siano, per iamata divina o per antica prescrizione o per il riconoscimento generale della loro superiore capacità e della loro dignità superiore, le guide legiime e i guardiani del resto degli uomini. Oppure può essere connesso con le leggi: con le antie libertà o gli antii ordinamenti. O, infine (e questa è l’unica forma in cui è probabile e questo sentimento esisterà d’ora in poi) può rivolgersi ai princìpi della libertà individuale, o ai princìpi dell’eguaglianza politica e sociale, quali si troveranno realizzati in istituzioni e, per ora, non esistono da nessuna parte o esistono soltanto allo stato rudimentale. Ma in tue le società politie e abbiano avuto un’esistenza durevole c’è stato quale punto fisso; qualcosa e il popolo concordava nel ritenere sacro; e naturalmente era legiimo contestare in teoria dovunque fosse riconosciuto il principio della libertà di discussione, ma e nessuno avrebbe mai potuto temere, o sperare, di veder scosso in pratica; in breve: nella stima comune, questo principio era posto al di fuori di ogni discussione, tranne forse e durante quale crisi temporanea. E la necessità di tuo questo si può far vedere facilmente. Fin quando l’umanità non sia grandemente migliorata, uno stato non va mai esente, e non può mai sperare di andar esente per molto tempo, da dissensi interni; infai non esiste e non è mai esistito uno stato della società in cui non ci siano state collisioni tra gli interessi e le passioni immediate di potenti strati della popolazione. Che cosa, allora, rende le nazioni capaci di superare queste tempeste e di passare araverso tempi turbolenti senza e ne risulti indebolita permanentemente la sicurezza di un’esistenza pacifica? Esaamente questo: e per quanto importanti fossero gl’interessi intorno ai quali gli uomini s’accapigliavano, il conflio non toccava il principio fondamentale del sistema di unione sociale e esisteva ai loro tempi, e non minacciava larghe parti della comunità con la prospeiva del sovvertimento di quella parte sulla quale l’umanità aveva basato i suoi calcoli e con la quale s’erano identificate le speranze e i fini

della comunità intiera. Ma quando la messa in questione di questi princìpi fondamentali è, non già il male occasionale o la medicina salutare, ma la condizione abituale del corpo politico, e quando vengono portate alla luce tue le violente animosità e sgorgano da una tale situazione, allora lo stato si trova virtualmente in una situazione di guerra civile e non potrà mai rimanere a lungo al di fuori di tale situazione, in ao e di fao. La terza condizione essenziale della stabilità della società politica è l’esistenza di un principio di coesione, forte e aivo, tra i membri della medesima comunità e del medesimo stato. È praticamente superfluo dire e non intendiamo “nazionalità” nel senso popolare del termine, come insensata antipatia nei confronti degli stranieri; come un’indifferenza nei confronti del benessere generale della razza umana o come un’ingiusta preferenza per i presunti interessi nazionali o come il rifiuto di adoare per il nostro Paese quello e è stato trovato buono per altri. Intendiamo invece il principio di simpatia, non di ostilità; di unione, non di separazione. Intendiamo il sentimento di comunanza d’interessi tra coloro e vivono soo il medesimo governo ed entro i medesimi confini naturali o storici. Intendiamo e una parte della comunità non si consideri estranea rispeo a un’altra sua parte; intendiamo e le varie parti della comunità facciano, della loro connessione, un valore; e sentano d’essere un solo popolo; e sentano e il loro corpo è fuso insieme e e quello e è male per uno qualsiasi dei loro compatrioti è male ane per loro; e non desiderino egoisticamente liberarsi della loro parte d’inconvenienti comuni recidendo questa connessione. Tui sanno quanto forte fosse questo sentimento in quelle antie comunità e raggiunsero una grandezza durevole. anto felicemente Roma, a dispeo di tue le sue tirannie, sia riuscita a consolidare un sentimento di nazionalità comune tra le province del suo impero vasto e diviso apparirà iaro quando ciascuno di quelli e hanno prestato la debita aenzione a questo argomento si prenderà il disturbo di farlo vedere ane agli altri. Nei tempi moderni i Paesi in cui questo sentimento è regnato nel suo grado più forte sono stati i Paesi più potenti: l’Inghilterra, la Francia e, in misura adeguata all’estensione del loro territorio e alle loro risorse, l’Olanda e la Svizzera; invece, dal punto di vista delle sue relazioni con l’Irlanda, l’Inghilterra è uno degli esempi più evidenti delle conseguenze a cui porta l’assenza di tale sentimento. Tui gli Italiani sanno peré l’Italia si trovi soo il giogo straniero; tui i Tedesi sanno e cosa mantenga il dispotismo nell’impero austriacoc; i mali della Spagna

provengono tanto dall’assenza di un sentimento nazionale tra gli Spagnoli, quanto dalla presenza di tale sentimento nelle relazioni con gli stranieri: mentre l’illustrazione più completa di tue è fornita dalle repubblie del Sud America, dove le parti di un solo e medesimo stato aderiscono così poco l’una all’altra e non appena una provincia si ritenga oggeo di torti da parte del governo centrale si proclama nazione separata». 6. Mentre le leggi derivate della statica sociale vengono accertate analizzando stati differenti della società e confrontandoli l’uno con l’altro senza por mente all’ordine della loro successione, la considerazione dell’ordine di successione predomina, al contrario, nello studio della dinamica sociale, il cui scopo è quello di osservare e di spiegare il succedersi delle condizioni della società. esto ramo della scienza sociale verrebbe reso tanto completo quanto è possibile renderlo, se di ognuna delle circostanze principali di ciascuna generazione si rintracciassero le cause nella generazione e l’ha preceduta immediatamente. Ma (specialmente nella storia moderna) il consensus è così completo e nella filiazione di una generazione dall’altra è la totalità a produrre la totalità, e non già una parte a produrre un’altra parte. Pertanto quando si tenti di determinare direamente la filiazione dalle leggi della natura umana si potranno fare ben poi progressi se prima non si saranno accertate le leggi immediate o derivate secondo le quali gli stati sociali si generano l’uno dall’altro man mano e progredisce la società: fin quando, cioè, non si saranno accertati gli axiomata media della sociologia generale. Le leggi empirie e si oengono più prontamente grazie alla generalizzazione dalla storia non sono axiomata media. Non sono esse stesse i «princìpi medi», ma soltanto gl’indizi e portano a stabilire tali princìpi. Consistono di certe tendenze generali e si possono percepire in una società, quali un aumento progressivo di quale elemento sociale o una diminuzione di quale altro, o un cambiamento graduale del caraere generale di certi elementi. Si vede facilmente, per esempio, e man mano e la società progredisce, le qualità mentali tendono sempre più a prevalere sulle qualità fisie, e le masse sugli individui; e inizialmente l’occupazione di tua quella parte dell’umanità e non si trova sooposta a costrizioni interne è costituita, soprauo, dal mestiere delle armi, ma e progressivamente la società si sostanzia sempre più di scopi produivi e lo spirito militare cede gradatamente il passo allo spirito industriale. A queste

verità se ne potrebbero ancora aggiungere molte altre del medesimo genere. E di generalizzazioni di questo tipo i ricercatori ordinari, ane quelli della scuola storica e predomina nel Continente al giorno d’oggi, si ritengono soddisfai. Ma questi risultati, e tui i risultati simili, sono ancora troppo distanti dalle leggi elementari della natura umana dalle quali dipendono — intervengono ancora troppi anelli intermedi e il concorso di cause in corrispondenza di ciascun anello è ancora troppo complicato — per far sì e queste proposizioni possano essere presentate come corollari direi di quei princìpi elementari. Pertanto, nella mente della maggior parte dei ricercatori sono rimaste allo stato di leggi empirie, applicabili soltanto nei limiti dell’osservazione effeiva, senza e esistano mezzi per determinarne i limiti reali e per giudicare se i cambiamenti e hanno avuto luogo fino ad oggi siano destinati a continuare indefinitamente, oppure se siano destinati ad aver termine, oppure ancora se siano addiriura destinati ad essere capovolti. 7. Se vogliamo oenere leggi empirie migliori non dobbiamo accontentarci di prender nota dei cambiamenti progressivi e si manifestano negli elementi separati della società, e in cui non è indicato nulla se si ecceua la relazione e certi frammenti dell’effeo hanno con i frammenti corrispondenti della causa. È necessario combinare il punto di vista statico dei fenomeni sociali con il loro punto di vista dinamico, prendendo in considerazione non soltanto i cambiamenti progressivi dei diversi elementi, ma la condizione simultanea di ciascuno di essi; oenendo così empiricamente la legge della corrispondenza non soltanto tra gli stati simultanei, ma ane tra i cambiamenti simultanei, di questi elementi. È questa legge di corrispondenza e, debitamente verificata a priori, può diventare la vera e propria legge scientifica derivata dello sviluppo dell’umanità e delle faccende umane. Nel difficile processo di osservazione e di confronto necessario a questo proposito, sarebbe evidentemente di grande aiuto se dovesse darsi il caso e quale elemento nell’esistenza complessa dell’uomo in quanto essere sociale acquistasse preminenza sopra tui gli altri, in quanto agente principale del movimento sociale. Infai allora potremmo considerare il progresso di quel solo elemento come la catena centrale, a ciascun anello successivo della quale sono aaccati gli anelli corrispondenti di tue le altre progressioni; questa cosa, da sola, basterebbe a presentare la successione dei

fai in una specie di ordine spontaneo e si avvicina all’ordine reale della loro filiazione molto di più di quanto non gli si possa avvicinare un ordine oenuto da un altro qualsiasi processo puramente e semplicemente empirico. Ora, le prove fornite dalla storia e le prove fornite dalla natura umana vanno d’accordo, in un sorprendente esempio di coincidenza, nel mostrare e esiste in realtà un elemento sociale e predomina nel modo suddeo tra gli agenti del progresso sociale e quasi soveria tui gli altri. È lo stato delle facoltà speculative dell’umanità, compresa la natura delle credenze alle quali l’umanità è giunta, non importa con quale mezzo; credenze e riguardano sia l’umanità sia il mondo da cui l’umanità è circondata. Sarebbe un grande errore, e un errore, peraltro, e è molto probabile e venga commesso, l’asserire e la speculazione, l’aività intelleuale, la ricerca della verità, sono tra le propensioni più potenti della natura umana o occupano un posto predominante nella vita di ogni individuo, salvo quelli decisamente eccezionali. Ma nonostante la relativa debolezza di questo principio a confronto con quella di altri agenti sociologici, la sua influenza è la principale causa determinante del progresso sociale; tue le altre disposizioni della nostra natura e contribuiscono a quel progresso dipendono infai dal principio in parola, per lo meno dal punto di vista dei mezzi con cui compiono la loro parte di lavoro. Così (per prendere prima di tui il caso più ovvio) la forza e spinge verso la maggior parte dei miglioramenti e hanno luogo nelle arti della vita è il desiderio di accrescere il benessere materiale; ma siccome sugli oggei esterni possiamo agire soltanto in proporzione alla conoscenza e ne abbiamo, lo stato della conoscenza in una qualsiasi epoca costituisce il limite del progresso industriale possibile in quel tempo; e il progresso dell’industria non può non seguire il progresso della conoscenza e dipendere da esso. Si può mostrare e la stessa cosa vale per il progresso delle arti belle, ane se non è così ovvia come per il progresso della conoscenza. Inoltre, siccome di per se stesse le propensioni più forti della natura umana, incolta o semi-colta (propensioni e sono quelle puramente egoistie e quelle di caraere simpatetico, e partecipano in massima parte della natura dell’egoismo) tendono, evidentemente, a disunire l’umanità e non ad unirla, a fare degli uomini altreanti rivali, non altreanti confederati, l’esistenza sociale è possibile soltanto grazie a una disciplina di quelle propensioni più forti, disciplina e consiste nel subordinarle a un sistema comune di opinioni. Il

grado di questa subordinazione è la misura della completezza dell’unione sociale, e la natura delle opinioni comuni determina la sua specie. Ma peré l’umanità conformi le proprie azioni a un qualsiasi insieme di opinioni, queste opinioni devono esistere e gli uomini devono credere in esse. E così lo stato delle facoltà speculative, il caraere delle proposizioni a cui l’intelleo assente, determina in maniera essenziale lo stato morale e politico della comunità, proprio come l’abbiamo visto determinarne lo stato fisico. este conclusioni, dedoe dalle leggi della natura umana, concordano in tuo e per tuo con i fai generali della storia. ando non sia stato prodoo da una forza esterna, ogni cambiamento degno d’aenzione nelle condizioni di una qualsiasi parte dell’umanità è stato preceduto da un cambiamento di grandezza proporzionale nello stato della conoscenza umana o delle credenze in voga tra gli uomini. Come accade tra un qualsiasi stato determinato della speculazione e lo stato correlativo di tuo il resto, così è stato quasi sempre lo stato della speculazione a mostrarsi per primo, ane se, indubbiamente, i suoi effei hanno reagito profondamente sulla causa. Ogni considerevole progresso nelle condizioni materiali della civiltà è stato preceduto da un progresso della conoscenza, e quando, o per uno sviluppo graduale o per un conflio improvviso, ha avuto luogo un qualsiasi grande cambiamento sociale, questo cambiamento ha avuto come precursore un grande cambiamento nelle opinioni e nei modi di pensare della società. Il politeismo, il giudaismo, la cristianità, il protestantesimo, la filosofia critica dell’Europa moderna e la sua scienza positiva: ciascuna di queste cose è stata un agente primario nel far sì e la società diventasse quella e è stata in ciascun periodo successivo, mentre la società non era e lo strumento secondario per farle, dal momento e ciascuna di esse (nella misura in cui possiamo trovar cause per la loro esistenza) era principalmente un’emanazione, non già della vita pratica di quel periodo, ma dello stato preesistente delle credenze e del pensiero. Generalmente la debolezza, propria dell’umanità, della propensione alla speculazione, non ha per questo impedito e su larga scala il progresso della speculazione governasse la società stessa; soltanto, ha impedito del tuo, e troppo spesso, il progresso, là dove il cammino intelleuale si è arrestato per mancanza di circostanze sufficientemente favorevoli. esto cumulo di prove ci giustifica a concludere e l’ordine del progresso umano in tui i suoi aspei dipenderà principalmente dall’ordine del progresso delle convinzioni intelleuali dell’umanità; dipenderà, in altre

parole, dalla legge delle trasformazioni successive delle opinioni degli uomini. Resta aperta la questione se questa legge possa essere dapprima determinata in base alla storia, come legge empirica, e se in séguito possa essere convertita in teorema scientifico deducendola a priori dai princìpi della natura umana. Siccome il progresso della conoscenza e i cambiamenti nelle opinioni dell’umanità sono molto lenti e si manifestano in una maniera ben definita soltanto a lunghi intervalli, non possiamo aspearci e l’ordine generale di successione si possa scoprire esaminando una parte men e molto considerevole della durata del progresso sociale. È necessario prendere in considerazione tuo il tempo passato, dalle prime condizioni della razza umana delle quali si sia serbata una traccia, fino ai fenomeni degni di essere ricordati dell’ultima generazione e della generazione presente. 8. Fino ad oggi, l’indagine e ho tentato di caraerizzare in questo modo è stata intrapresa sistematicamente dal solo signor Comte. Fino ad oggi, l’opera di questo signore è il solo esempio noto di studio dei fenomeni sociali e sia stato condoo secondo tale concezione del metodo storico. Senza stare a discutere in questa sede il valore delle sue conclusioni e specialmente delle sue predizioni e delle sue raccomandazioni riguardanti il futuro della società — predizioni e raccomandazioni e mi sembrano di valore molto inferiore a quello delle sue valutazioni del passato — mi limiterò a menzionare una sola, importante gene ralizzazione, e il signor Comte considera come la legge fondamentale del progresso della conoscenza umana. Secondo Comte, la speculazione su ogni oggeo della ricerca degli uomini passa araverso tre stadi successivi; nel primo di questi stadi essa tende a spiegare i fenomeni facendo ricorso ad agenti soprannaturali, nel secondo tende a spiegarli facendo ricorso ad astrazioni metafisie, mentre nel terzo stadio, o stadio finale, si limita ad accertare le leggi di successione e di somiglianza dei fenomeni. Mi sembra e questa generalizzazione possegga quell’alto grado di evidenza scientifica e deriva dal concorso delle indicazioni della storia e delle probabilità trae dalla costituzione della mente umana. Né, partendo dal puro e semplice enunciato di una tale proposizione, sarebbe facile rendersi conto di quale fioo di luce essa gei sull’intiero corso della storia, quando se ne rintraccino le conseguenze, meendo in relazione le condizioni correlative dei fenomeni sociali con ciascuno dei tre stadi dell’intelleo umano e essa distingue e con ciascuna modificazione di questi tre stadid.

Ma qualunque decisione i giudici competenti possano pronunciare sopra i risultati ai quali è pervenuto un pensatore singolo, quello ora caraerizzato è il metodo in base al quale si devono cercare le leggi derivate dell’ordine e del progresso sociale. D’ora in poi, con l’aiuto di questa legge, riusciremo non soltanto a geare il nostro sguardo sul lontano futuro della storia della razza umana, ma ane a determinare quali mezzi artificiali si possano usare, e fino a qual punto li si possa usare, per accelerare il progresso naturale, nella misura in cui tale progresso è apportatore di benefici: per compensare qualsiasi inconveniente o qualsiasi svantaggio a esso intrinseco e per salvaguardarci da quegli incidenti ai quali la nostra specie è esposta a causa dei contraempi e non possono non intralciare la sua marcia in avanti. Tali istruzioni pratie, fondate sulla parte più elevata della sociologia speculativa, formeranno la parte più nobile e benefica dell’arte politica. È sufficientemente evidente e i fondamenti di questa scienza e di quest’arte si cominciano appena appena a geare. Ma le menti superiori stanno rivolgendosi apertamente verso quest’oggeo. Lo scopo dei pensatori realmente scientifici è diventato quello di conneere per mezzo di teorie i fai della storia universale; si riconosce e uno dei requisiti di un sistema generale di dorina sociale, è e esso debba spiegare, nella misura in cui esistono i dati, i fai principali della storia; e si ammee generalmente e una filosofia della storia deve costituire, nel medesimo tempo, la verifica e la forma iniziale della filosofia del progresso della società. Se gli sforzi e si stanno compiendo in questo momento in tue le nazioni più colte, e e si cominciano a compiere persino in Inghilterra (e di solito l’Inghilterra è l’ultima a entrare nel movimento generale dello spirito europeo) per la costruzione di una filosofia della storia, saranno direi e controllati da quei punti di vista sulla natura delle prove sociologie e ho tentato di caraerizzare per quanto brevemente e in modo imperfeo, allora non potranno mancare di dar origine a un sistema di sociologia molto lontano dal caraere vago e congeurale di tui i tentativi precedenti e ben degno di prendere finalmente posto tra le scienze. ando questo tempo sarà venuto, nessuna parte importante delle faccende umane sarà più abbandonata all’empiria e ai tentativi d’indovinare privi di fondamento scientifico. Il cerio della conoscenza umana sarà allora completo e, da quel momento in poi, non potrà e allargarsi sempre più, espandendosi continuamente dal proprio interno.

IV, pp. 325-3291. b. Poi ripubblicato per intiero, come articolo conclusivo del primo volume, in Dissertations and Discussions [Dissertazioni e discussioni]. c. Scrio e pubblicato nel 1840. d. esta grande generalizzazione è stata spesso criticata sfavorevolmente (per esempio dal door Whewell), peré ne è stato frainteso il significato reale. La dorina secondo cui la spiegazione teologica dei fenomeni appartiene soltanto all’infanzia della nostra conoscenza non dovrebbe essere interpretata come se equivalesse all’asserzione e man mano e progrediscono le sue conoscenze l’umanità cesserà necessariamente di credere in ogni specie di teologia. esta era l’opinione del signor Comte, ma quest’interpretazione non è affao implicita nel suo teorema fondamentale. i non è implicito nient’altro se non e in uno stato progredito della conoscenza umana non si riconoscerà nessun Ordinatore del mondo se non quello e governa secondo leggi universali, e non produce affao eventi per speciale interposizione, o li produce soltanto in casi molto speciali. Originariamente, tui gli eventi naturali venivano aribuiti a tali interposizioni. Al giorno d’oggi tue le persone colte rifiutano di dare questa spiegazione a tue le classi di fenomeni le cui leggi siano state accertate completamente, ane se alcuni non sono ancora arrivati al punto di far risalire tui i fenomeni all’idea di legge, ma credono e pioggia e bel tempo, carestia e pestilenza, vioria e sconfia, morte e vita, siano cose e il Creatore non lascia all’azione delle sue leggi generali ma si riserva di decidere con ai espliciti della propria volontà. La teoria del signor Comte costituisce la negazione di questa dorina. Il door Whewell fraintende egualmente la dorina del signor Comte a proposito del secondo stadio della speculazione, o stadio metafisico. Il signor Comte non intendeva dire e le «discussioni a proposito delle idee» siano limitate a uno stadio primitivo dell’indagine e cessino quando la scienza entra nello stadio positivo (Philosophy of Discovery, pp. 226 segg.). In tue le speculazioni del signor Comte si mee l’accento tanto sul processo di iarimento delle nostre concezioni quanto sull’accertamento dei fai. ando il signor Comte parla dello stadio metafisico della speculazione intende lo stadio in cui gli uomini parlavano della «Natura» e di altre astrazioni come se fossero forze aive e producono effei; in cui si diceva e la natura fa questo o vieta quest’altro; in cui si offrivano, come spiegazioni dei fenomeni, l’orrore del vuoto proprio della natura, il fao e la natura non faccia salti; la vis medicatrix della natura; lo stadio in cui le proprietà delle cose erano scambiate, erroneamente, per entità reali e abitassero nelle cose; in cui i fenomeni dei corpi viventi venivano fai risalire a una «forza vitale», in cui, per farla breve, i nomi astrai dei fenomeni venivano erroneamente scambiati per le cause della loro esistenza. In questo senso della parola non si può ragionevolmente negare e la spiegazione metafisica dei fenomeni, insieme con la spiegazione teologica, ceda il passo di fronte al progresso della vera scienza. Che lo stadio finale o positivo, così come è stato concepito dal signor Comte, sia stato egualmente frainteso, e e nonostante alcune espressioni e offrono il fianco a giuste critie il signor Comte non si sia mai sognato di negare la legiimità della ricerca delle cause accessibili alle indagini umane, l’ho già fao vedere in un luogo precedente. 1. La citazione del passo è incompleta. L’omissione maggiore è stata indicata con l’inserzione di puntini tra parentesi quadre. a. Cours de philosophie positive,

CAPITOLO XI. ALTRE DELUCIDAZIONI SULLA SCIENZA DELLA STORIA 1. La dorina e i capitoli precedenti erano destinati a corroborare e a delucidare — la dorina, cioè, e la serie colleiva dei fenomeni sociali o, in altre parole, il corpo della storia — è sooposto a leggi generali e la filosofia è forse in grado di cogliere — è stata familiare per generazioni agli scienziati del Continente e nell’ultimo quarto di secolo è uscita fuori dalla loro ceria ristrea per diventare dominio dei giornali e della discussione politica d’ogni giorno. Ma all’epoca della prima edizione di questo traato, nel nostro Paese era quasi una novità, e gli abiti intelleuali e andavano per la maggiore in fao di argomenti storici erano esaamente l’opposto di quelli necessari a prepararle il terreno. Da allora ha avuto luogo un grosso cambiamento, e è stato promosso in grandissima parte dall’importante lavoro del signor Bule1. Con la sua caraeristica energia, il signor Bule ha geato questo grande principio, insieme con molte sue sorprendenti esemplificazioni, nell’arena della discussione popolare, peré su di esso s’accapigliasse una certa specie di combaenti, alla presenza di una certa specie di speatori e, se gli si fosse lasciata la possibilità di apprenderne l’esistenza dalle speculazioni della scienza pura, non si sarebbero mai accorti dell’esistenza di un principio di questo genere. E di qui sono sorte in considerevole quantità controversie e tendono, non soltanto a rendere il principio rapidamente familiare alla maggioranza degli spiriti colti, ma ane a ripulirlo dalle confusioni e dai fraintendimenti dai quali era solo naturale e fosse offuscato per un certo tempo e e indeboliscono il valore della dorina agli oci di quelli e l’acceano, costituendo la pietra in cui vanno a inciampare molti di quelli e non l’acceano. Tra gl’impedimenti al riconoscimento generale, da parte degli spiriti dediti al pensiero, della soommissione dei fai storici a leggi scientifie, l’impedimento più fondamentale continua ad essere quello basato sopra la dorina del libero arbitrio, o, in altre parole, sopra la negazione e la legge della causazione invariabile sia vera delle volizioni degli uomini. Infai, se questa legge non è vera, il corso della storia è il risultato delle volizioni umane e non può quindi essere oggeo di leggi scientifie, dal momento e le volizioni dalle quali dipende non possono essere previste e non

possono essere ridoe a nessun canone di regolarità, neppure dopo e hanno avuto luogo. Ho discusso questa questione, nella misura in cui il discuterla sembrava adao all’occasione, in un capitolo precedente. Penso perciò e sia sufficiente ripetere e la dorina della causazione delle azioni umane, impropriamente iamata dorina della necessità, non afferma l’esistenza di nessun nexus misterioso e tanto meno di una strapotente fatalità; asserisce soltanto e le azioni degli uomini sono il risultato congiunto delle leggi e delle circostanze generali della natura umana e del caraere particolare degli uomini mentre, a loro volta, questi caraeri sono la conseguenza delle circostanze naturali o artificiali e hanno costituito l’educazione degli uomini: e tra queste circostanze devono essere annoverati gli sforzi consapevoli degli uomini. Chiunque voglia prendersi la briga (se possiamo permeerci l’espressione) di pensare se stesso come parte in causa nella dorina così com’è stata enunciata, vi troverà, io credo, non soltanto un’interpretazione fedele dell’esperienza universale della condoa umana, ma ane una rappresentazione correa del modo in cui egli stesso interpreta spontaneamente, in ogni caso particolare, la propria esperienza di quella condoa. Ma se è vero dell’uomo individuale, questo principio dovrà essere vero dell’uomo colleivo. Se è la legge della vita umana, questa legge dev’essere realizzata nella storia. L’esperienza delle faccende umane, quando si guardi ad essa en masse, non può non andar d’accordo con esso se è vero, o ripugnare ad esso, se è falso. Il sostegno e questa verifica a posteriori fornisce alla legge è quella parte della questione e il signor Bule ha messo in evidenza nel modo più iaro e convincente. Da quando sono stati fai oggei di registrazione e di studio accurati, i fai della statistica hanno fornito conclusioni, alcune delle quali hanno molto sorpreso le persone non abituate a considerare le azioni morali come sooposte a leggi uniformi. egli stessi eventi e appaiono come i più capricciosi e incerti in virtù della loro propria natura e e nessun grado di conoscenza e ci è dato raggiungere ci renderebbe capaci di prevedere per un qualsiasi caso singolo, accadono, quando se ne prenda in considerazione un numero piuosto alto, con un grado di regolarità e s’avvicina alla regolarità matematica. ale ao si potrebbe considerare più dipendente dal caraere individuale e dall’esercizio del libero arbitrio dell’assassinio di un’altra creatura umana? Tuavia, in tui i grandi Paesi si è trovato e il numero d’assassinii in proporzione alla popolazione varia molto poco da un

anno all’altro e e le sue variazioni non si allontanano mai in misura rilevante da una certa media. Cosa ancor più notevole, una simile approssimazione alla costanza esiste nella proporzione di quegli omicidii e vengono commessi annualmente con particolari specie di strumenti. Un’analoga approssimazione all’identità si riscontra, da un anno all’altro, nel numero relativo di nascite legiime ed illegiime. Si è trovato e la stessa cosa è vera dei suicidii, degli incidenti e di tui gli altri fenomeni sociali e vengono registrati in maniera sufficientemente perfea. Uno degli esempi più curiosi e illustrano questo punto è il fao, accertato dai registri degli uffici postali di Londra e di Parigi, e da un anno all’altro il numero di leere impostate senza e il miente si sia ricordato di indirizzarle è quasi il medesimo in proporzione al numero totale di leere impostate. «Anno dopo anno, scrive il signor Bule, la medesima proporzione di scriori di leere dimentica questo semplice ao, cosicé, per ciascun periodo successivo, possiamo effeivamente predire quale sarà il numero di persone tradite dalla loro memoria in quest’avvenimento così poco importante e, come potrebbe sembrare a prima vista, accidentale»a. esto singolare grado di regolarità en masse, combinato con l’estrema irregolarità nei casi singoli e compongono la massa, è una felice verifica a posteriori della legge di causazione, nella sua applicazione alla condoa umana. Assumendo e quella legge sia vera, ogni azione umana — per esempio, ogni omicidio — è il risultato del concorso di due insiemi di cause. Da una parte le circostanze generali in cui si trovano il Paese e i suoi abitanti; le influenze morali, educative, economie e di altro genere e operano sull’intiero popolo e costituiscono quello e iamiamo lo stato della sua civiltà. Dall’altra parte la grande varietà delle influenze speciali e agiscono sull’individuo: il suo temperamento e altre particolarità della sua organizzazione, la sua estrazione, i suoi amici abituali, le tentazioni cui è sooposto, e così via. Se ora supponiamo e la totalità dei casi e si verificano all’interno di un campo sufficientemente grande sia tale da esaurire tue le combinazioni di queste influenze speciali o, in altre parole, sia tale da eliminare l’intervento della casualità, e se tui questi casi si sono verificati entro limiti di tempo così ristrei e nelle influenze generali e costituiscono lo stato della civiltà del Paese non possa aver avuto luogo nessun cambiamento rilevante, allora possiamo essere certi e se le azioni umane sono governate da leggi invariabili, il risultato complessivo sarà qualcosa di simile a una quantità costante. Il numero di omicidii commessi

in questo spazio e in questo tempo sarà dunque l’effeo in parte di cause generali e non sono soggee a variazioni, in parte di cause parziali di cui s’è abbracciato l’intiero giro delle variazioni; di conseguenza tale numero sarà praticamente invariabile. In senso leerale e in senso matematico, invariabile non è; e del resto non potremmo aspearci e lo sia. Infai, il periodo di un anno è troppo breve per abbracciare tutte le possibili combinazioni delle cause parziali, mentre nel medesimo tempo è sufficientemente lungo da rendere probabile e almeno in un certo numero degli anni di ogni serie si saranno introdoe nuove influenze di caraere più o meno generale, quali una polizia più rigorosa o più permissiva, quale perturbazione temporanea dovuta a cause politie o religiose, o quale incidente venuto a conoscenza del grosso pubblico e tale da agire morbosamente sull’immaginazione. Il fao e a dispeo di queste inevitabili imperfezioni dei dati debba esserci un margine così trascurabile di variazioni nei risultati annuali, costituisce una brillante conferma della teoria generale. 2. Le medesime considerazioni e corroborano in modo così sorprendente le prove in favore della dorina secondo cui i fai storici sono effei invariabili di cause, tendono in egual misura a liberare la dorina stessa da diversi e svariati fraintendimenti la cui esistenza è stata messa in luce dalle recenti discussioni. Per esempio, alcune persone sembrano immaginare e la dorina implii, non soltanto e il numero totale degli omicidii commessi in un dato spazio e in un dato tempo sia in tuo e per tuo l’effeo delle circostanze generali della società, ma e lo sia ane ogni omicidio particolare; e l’omicida singolo sia, per così dire, un puro e semplice strumento nelle mani di cause generali; e non abbia nessuna scelta o e, se ce l’ha e sceglie di esercitarla, qualcun altro prenderà necessariamente il suo posto; e se l’uno o l’altro di quelli e hanno effeivamente commesso un omicidio si fosse astenuto dal crimine, per compensare la media avrebbe commesso quale delio extra quale altra persona e altrimenti sarebbe rimasta innocente. Un corollario di questo genere ridurrebbe all’assurdo qualsiasi teoria dalla quale seguisse necessariamente. È però ovvio e ciascun omicidio particolare non dipende soltanto dallo stato generale della società, ma dipende dallo stato generale della società combinato con cause e sono proprie di quel caso in particolare, cause e generalmente sono molto più potenti delle altre; e se

queste cause speciali — e in quanto cause di ogni omicidio particolare hanno un’influenza maggiore di quella esercitata dalle cause generali — non hanno nessun’influenza sul numero degli omicidi in un periodo determinato, questo accade peré il campo dell’osservazione è così esteso da comprendere tue le possibili combinazioni delle cause speciali: tue le varietà di caraere individuale e di tentazioni particolari compatibili con lo stato generale della società. ello e possiamo iamare l’esperimento colleivo separa esaamente l’effeo delle cause generali dall’effeo delle cause speciali e mostra il risultato neo delle prime; ma non diiara nulla affao sulla quantità d’influenza esercitata dalle cause speciali, grandi o piccole e siano, dal momento e la scala dell’esperimento si estende al numero di casi entro il quale gli effei delle cause speciali si compensano l’uno con l’altro, mentre spariscono in quello delle cause generali. Non pretenderò e tui i sostenitori della teoria abbiano sempre mantenuto il loro linguaggio sgombro da questa confusione e non abbiano mostrato alcuna tendenza ad esaltare l’influenza delle cause generali a spese delle cause speciali. Al contrario, sono dell’opinione e l’abbiano fao in misura molto grande e e, così facendo, abbiano intralciato la loro teoria con parecie difficoltà lasciandola esposta ad obiezioni e altrimenti non l’avrebbero colpita necessariamente. Per esempio, alcuni (e tra questi lo stesso signor Bule) hanno inferito, o hanno lasciato supporre di aver inferito, dalla regolarità con cui ricorrono eventi e dipendono dalle qualità morali dell’umanità, e queste ultime sono ben poco susceibili di miglioramento o hanno un’importanza minima nel progresso generale della società a confronto con le cause intelleuali o economie. Ma il trarre quest’inferenza significa dimenticare e le tabelle statistie dalle quali sono state dedoe le medie costanti furono sempre compilate a partire da fai e avevano luogo entro limiti geografici ristrei e in un piccolo numero di anni successivi; cioè a partire da un campo il cui insieme totale era sooposto all’azione delle medesime cause generali e in un periodo di tempo troppo breve peré potesse ammeere molti cambiamenti nel proprio interno. In virtù del grande numero di casi presi in considerazione, sono state eliminate tue le cause morali e non fossero quelle comuni, in generale, al Paese; e nel breve arco di tempo compreso nelle osservazioni, le cause comuni all’intiero Paese non hanno subito variazioni considerevoli. Se ammeiamo l’ipotesi e siano variate, se confrontiamo un’età con un’altra o un Paese con un altro, o addiriura una parte di un certo Paese con

un’altra parte del medesimo Paese, la cui situazione e il cui caraere differiscano relativamente agli elementi morali, vedremo e il numero di crimini e vengono commessi in un anno non sarà più il medesimo, ma sarà largamente differente. E non può non accadere così; infai, nella misura in cui ogni singolo crimine commesso dall’individuo dipende soprauo dalle sue qualità morali, i crimini commessi dall’intiera popolazione del Paese non potranno non dipendere, in egual misura, dalle qualità morali colleive di quel Paese. Per rendere quest’elemento inoperante su larga scala sarebbe necessario supporre e la media morale generale dell’umanità non vari da Paese a Paese o da età ad età; cosa, questa, e non è vera e e, ane se fosse vera, non potrebbe in alcun modo essere provata da nessuna delle statistie esistenti. Per questa ragione non sono meno d’accordo con l’opinione del signor Bule, e l’elemento intelleuale dell’umanità (facendo rientrare soo quest’espressione la natura delle credenze degli uomini, la quantità delle loro conoscenze e lo sviluppo delle loro intelligenze) è la circostanza dotata di maggior peso nella determinazione del loro progresso. Ma sono di quest’opinione, non peré io consideri le condizioni morali o economie dell’umanità come agenti meno potenti, o meno sooposti a variazioni, ma peré tali agenti sono, in larga misura, le conseguenze delle condizioni intelleuali e, in tui i casi, sono limitati da queste condizioni, come del resto abbiamo osservato nel capitolo precedente. I mutamenti di ordine intelleuale sono gli agenti più cospicui della storia, non peré, considerati in se stessi, siano dotati di una forza superiore, ma peré, operano, praticamente, con la forza unita e appartiene a tui e treb. 3. C’è un’altra distinzione, spesso trascurata nella discussione di quest’argomento, e l’osservare la quale è estremamente importante. Spesso la teoria secondo cui il progresso sociale è sooposto a leggi invariabili viene sostenuta insieme con la dorina secondo cui il progresso sociale non può essere influenzato in maniera rilevante dagli sforzi degli individui o dagli ai dei governi. Ma pur essendo spesso sostenute dalle medesime persone, queste opinioni sono due opinioni molto differenti e la loro confusione costituisce l’errore eternamente ricorrente, e consiste nel confondere la causazione con il fatalismo. Dal fao e tuo quello e accade sarà l’effeo di cause e, insieme con il resto, lo saranno ane le volizioni umane, non segue e le volizioni, neane quelle di individui particolari, non

abbiano una grande efficacia in quanto cause. Se un tizio, trovandosi in mare durante una tempesta, dovesse concludere, dal fao e tui gli anni muore per naufragio il medesimo numero di persone, e per lui è inutile tentar di salvare la propria vita, diremmo e è un fatalista e gli ricorderemmo e gli sforzi compiuti dai naufraghi per salvare la propria vita sono così lontani dall’essere inessenziali, e la quantità media di quegli sforzi è una delle cause dalle quali dipende il numero annualmente accertato delle morti dovute a naufragio. Per quanto universali possano essere, le leggi dello sviluppo sociale non possono essere più universali o più rigorose delle leggi degli agenti fisici della natura. Tuavia la volontà umana è in grado di trasformare queste leggi in istrumenti dei suoi disegni, e la misura in cui riesce a trasformarle costituisce la principale differenza tra i selvaggi e i popoli più altamente civilizzati. A causa della loro natura complicata, i fai umani e sociali non sono meno susceibili di modificazione dei fai meccanici e fisici, anzi, lo sono ancor di più. Pertanto, l’azione umana ha su di essi un potere ancor più grande. E di conseguenza coloro e sostengono e l’evoluzione della società dipende esclusivamente, o quasi esclusivamente, da cause generali, fanno sempre rientrare tra queste cause la conoscenza colleiva e lo sviluppo intelleuale della razza. Ma se vi fanno rientrare conoscenze e sviluppo della razza, peré non dovrebbero ane farvi rientrare la conoscenza o lo sviluppo intelleuale di quale potente monarca o di quale grande pensatore o di quella parte della società politica e detiene il potere e agisce araverso il governo della società? Bené su larga scala le differenze di caraere tra gli individui ordinari si neutralizzino l’una con l’altra, gli individui eccezionali e occupano posizioni importanti non si neutralizzano mai l’uno con l’altro, in nessuna epoca. Non ci sono mai stati un altro Temistocle, o un altro Lutero, o un altro Giulio Cesare, dotati di poteri eguali e di disposizioni contrarie, e controbilanciassero esaamente il Temistocle esistente, o il Lutero e il Cesare esistenti, impedendo loro di esercitare un qualsiasi effeo permanente. Inoltre, a quanto sembra, le volizioni di persone eccezionali o le opinioni e gli scopi degli individui e compongono un governo in quale periodo particolare possono essere anelli indispensabili nella catena di cause grazie alla quale persino le cause generali producono i loro effei. E io credo e questa sia l’unica forma sostenibile di questa teoria. In un celebre passo di uno dei suoi primi saggi (e devo aggiungere e si traa di un saggio e non scelse lui stesso di ripubblicare) Lord Macaulay

dà, della dorina dell’assoluta inefficacia dei grandi uomini, quella e io ritengo un’espressione più generalizzata di quella e le è stata data da altri scriori di eguale abilità. Lord Macaulay paragona i grandi uomini a persone e stanno semplicemente a un’altezza maggiore, e di qui ricevono i raggi del Sole un po’ prima di quanto non li riceva il resto della razza umana. «Il Sole illumina le colline mentre sta ancora soo l’orizzonte, e la verità viene scoperta dalle menti superiori un po’ prima di diventare manifesta alle moltitudini. La superiorità di questi uomini non arriva più in là. Sono i primi ad accogliere e a rifleere una luce e, senza il loro aiuto, non potrebbe non essere visibile di lì a poco a quelli e stanno molto al di soo di essi»c. Se si sviluppa questa metafora sino alle sue estreme conseguenze, ne segue e se Newton non fosse mai esistito non soltanto il mondo avrebbe avuto egualmente il sistema newtoniano, ma l’avrebbe avuto altreanto presto; infai, se non ci fosse stata una montagna e ne interceasse i primi raggi, per gli uomini posti in pianura il Sole sarebbe sorto altreanto presto. E così sarebbe, se le verità sorgessero spontaneamente, come il Sole, senza bisogno di nessuno sforzo da parte degli uomini, ma non se le cose stessero altrimenti. Io credo e se Newton non fosse vissuto il mondo avrebbe dovuto aspeare la filosofia newtoniana fin quando non fosse venuto fuori un altro Newton, o il suo equivalente. Nessun uomo ordinario, o nessuna successione di uomini ordinari, avrebbe potuto arrivarci. Non mi spingerò fino al punto di dire e quello e Newton ha fao in una sola vita non avrebbero potuto farlo, un passo alla volta, gli studiosi e vennero dopo di lui, ciascuno dei quali preso singolarmente, gli era inferiore in quanto a genio. Ma ane il più piccolo di quei passi riiedeva un uomo di grande superiorità intelleuale. Gli uomini emimenti non si limitano a guardare la luce e proviene dalla vea della collina; salgono sulla collina e suscitano la luce; e in molti casi, se mai nessuno fosse salito sulla collina la luce non sarebbe potuta sorgere sul piano. La filosofia e la religione possono essere ricondoe in grandissima misura a cause generali; tuavia poi dubitano e se non ci fosse stato nessun Socrate, nessun Platone e nessun Aristotele, non ci sarebbe stata nessuna filosofia per i duemila anni successivi e, con ogni probabilità non ci sarebbe stata neane allora; e se non ci fossero stati un Cristo o un San Paolo, la Cristianità non sarebbe esistita. Il punto in cui, sopra tui, gli uomini eminenti esercitano un’importanza decisiva è. nel determinare la rapidità del movimento. Nella maggior parte degli stati della società è proprio l’esistenza di grandi uomini a decidere

addiriura se ci sarà o non ci sarà progresso. Non è inconcepibile e in certi periodi della loro storia la Grecia o l’Europa cristiana sarebbero potute progredire soltanto grazie a cause generali; ma se Maomeo non fosse esistito l’Arabia avrebbe prodoo Avicenna o Averroè, o i califfi di Bagdad o di Cordova? Comunque, la determinazione del modo e dell’ordine in cui avrà luogo il progresso dell’umanità (ammesso e abbia luogo) dipende dal caraere degli individui in misura molto minore. Da questo punto di vista c’è una sorta di necessità stabilita dalle leggi generali della natura umana, dalla costituzione della mente umana. Certe verità non possono essere scoperte o certe invenzioni non possono essere fae, se prima non sono state fae altre scoperte; secondo la natura del caso, certi miglioramenti sociali possono soltanto seguire, e non precedere, certi altri miglioramenti sociali. Può ben darsi, perciò, e fino a un certo punto l’ordine del progresso umano abbia leggi ben definite, ma per quanto riguarda la sua rapidità, o addiriura il suo aver luogo o il suo non aver luogo, non è assolutamente possibile fare generalizzazioni e si estendano alla specie umana in generale: è soltanto possibile fare generalizzazioni precarie o approssimate, limitate alla piccola porzione di umanità in cui ha avuto luogo qualcosa di simile a un progresso entro quel certo periodo storico, e dedoe dalla speciale situazione e raccolte dalla storia particolare di quella porzione d’umanità. Persino se si guarda alla maniera del progresso, all’ordine di successione degli stati della società, le nostre generalizzazioni devono essere molto flessibili. I limiti della variazione nello sviluppo possibile della vita sociale come della vita animale sono un oggeo di cui si comprende ancora molto poco, e costituiscono uno dei grandi problemi della scienza sociale. In ogni caso, è un fao e, soo l’influenza di circostanze differenti, porzioni differenti dell’umanità si sono sviluppate in maniera più o meno differente e hanno dato luogo a forme più o meno differenti; e una tra queste circostanze determinanti può benissimo essere stata il caraere individuale dei grandi pensatori o dei grandi organizzatori pratici dell’umanità. Chi può dire quanto profondamente l’intiera storia successiva della Cina possa essere stata influenzata dall’individualità di Confucio? E quella di Sparta, e perciò della Grecia, da quella di Licurgo? Sulla natura e i limiti di quello e un grand’uomo può fare per l’umanità in circostanze favorevoli, e così pure sulla natura di quello e un governo può fare per una nazione, sono possibili molte opinioni diverse; e ogni sfumatura delle opinioni sopra questi punti è compatibile con il pieno

riconoscimento e ci sono leggi invariabili dei fenomeni storici. Naturalmente, il grado d’influenza e dev’essere aribuito a questi agenti più speciali fa una gran differenza nella precisione e si può conferire alle leggi generali, relativamente alla fiducia con la quale si possono fondare su di essi le nostre predizioni. Tuo quello e dipende dalle proprietà particolari degl’individui, combinato con gli accidenti connessi con la posizione e questi individui occupano, è necessariamente impossibile da prevedere. Indubbiamente, queste combinazioni casuali non possono essere eliminate, come si fa con tue le altre, prendendo in considerazione un ciclo sufficientemente ampio. Talvolta le proprietà particolari di una grande personalità storica fanno sentire la loro influenza nella storia per parecie migliaia di anni, ma è altamente probabile e alla fine di cinquanta milioni di anni non faranno nessunissima differenza. Però, dal momento e non possiamo oenere una media sulla grande quantità di tempo necessaria a esaurire tue le possibili combinazioni di grandi uomini e di circostanze, quel tanto della legge dell’evoluzione delle faccende umane e dipende da questa media è, e rimarrà, per noi inaccessibile; e nei prossimi mille anni, e per noi hanno un’importanza considerevolmente più grande di quanta non ne abbia tuo il rimanente dei cinquanta milioni di anni, le combinazioni favorevoli e sfavorevoli e si verifieranno saranno, per noi, puramente accidentali. Non possiamo prevedere l’avvento dei grandi uomini. L’epoca di coloro e introducono nel mondo nuove speculazioni e grandi concezioni pratie non può essere fissata in anticipo. ello e la scienza può fare è questo: può rintracciare nella storia passata le cause generali e hanno portato l’umanità a quello stato preliminare e, quando è apparsa la specie giusta di grand’uomo, hanno reso l’umanità accessibile alla sua influenza. Se questo stato continua, l’esperienza rende abbastanza certo e in un periodo più o meno lungo verrà fuori un grand’uomo, puré le circostanze generali del Paese e del suo popolo siano compatibili con l’esistenza di quel grand’uomo (e molto spesso non lo sono); e ane di questo punto la scienza può giudicare solo in una certa misura. Proprio in questa maniera, se si ecceua la rapidità con cui hanno avuto luogo, i risultati del progresso possono essere fino a un certo punto ridoi a regolarità e a legge. E la credenza e vi possano essere ridoi è egualmente compatibile con il fao e s’aribuisca un’efficacia molto grande, o molto piccola, all’influenza di uomini eccezionali, o a quella del governo. E la

stessa cosa si può dire di tui gli altri accidenti e di tue le altre cause di perturbazione. 4. Sarebbe nondimeno un grave errore l’aribuire soltanto un’importanza trascurabile all’azione degli individui eminenti, o dei governi. Dal fao e non possono dare quello e le circostanze generali della società e il corso della sua storia precedente non l’hanno preparata ad accogliere, non si deve concludere e l’influenza degli uni o degli altri sia piccola. Né i pensatori né i governi mandano ad effeo tuo quello e intendono mandare ad effeo, ma in compenso producono spesso risultati importanti e non avevano affao previsto. Raramente i grandi uomini e le grandi azioni vanno sprecati. Emanano mille influenze invisibili, più efficaci delle influenze visibili; e bené, su dieci cose fae con buoni propositi da quelli e sono progrediti rispeo alla loro epoca, nove non producano nessun effeo importante, la decima produrrà effei venti volte maggiori di quanto non si sarebbe potuto sognare, o predire, in base ad essa. Spesso ane gli uomini e per mancanza di circostanze sufficientemente favorevoli non hanno lasciato nessuna traccia sul loro tempo hanno avuto un enorme valore per i posteri. Chi potrebbe sembrare e sia vissuto più inutilmente di qualcuno dei primi eretici? Furono bruciati e massacrati; i loro scrii furono messi al bando; sulla loro memoria furono lanciati anatemi; i loro stessi nomi e la loro stessa esistenza furono lasciati per see od oo secoli all’ombra di manoscrii ammuffiti, mentre forse la loro storia si poteva raccogliere soltanto dalle sentenze in forza delle quali erano stati condannati. Tuavia il ricordo di questi uomini — di uomini e resisteero a certe imposizioni e a certi dogmi della Chiesa proprio nell’età in cui, a quanto si sarebbe preteso in séguito, queste cose ricevevano l’assenso unanime della Cristianità, assenso e costituiva la base della loro autorità — ruppe la catena della tradizione, stabilì una serie di precedenti di resistenza; ispirò coraggio ai riformatori successivi e li munì delle armi di cui avrebbero avuto bisogno poi, quando gli uomini si sarebbero mostrati meglio preparati ad accogliere la loro influenza. A quest’esempio fornito dagli uomini ci sia concesso di aggiungerne un altro, fornito dai governi. Il dominio relativamente illuminato di cui la Spagna godee durante una parte considerevole del dicioesimo secolo non corresse i difei fondamentali del popolo spagnolo; e di conseguenza, pur facendo un gran bene temporaneo, con quel governo svanirono una parte così grande di quei benefici, e ci si può ritenere

autorizzati ad affermare e il governo in questione non esercitò nessun beneficio permanente. esto caso è stato citato per provare quanto poco i governi possano fare per opporsi alle cause e hanno determinato il caraere generale delle nazioni. Mostra quante cose non possano fare; ma non mostra e non possono fare nulla. Si confronti quello e la Spagna era all’inizio di quel mezzo secolo di governo liberale con quello e poi diventò quando quel governo ebbe fine. el periodo lasciò entrare in Ispagna una buona quantità della luce e il pensiero europeo aveva geato sulle classi più colte, e in séguito questa luce non cessò mai di espandersi. Prima di quel tempo, il cambiamento stava avvenendo nella direzione opposta: la cultura, l’illuminismo, l’aività intelleuale e ane quella materiale stavano estinguendosi. Fu cosa da nulla l’aver arrestato questo corso retrogrado e l’averlo convertito in un progresso? ante cose di quelle e Carlo III ed Aranda non poterono fare sono state la conseguenza ultima di quelle e fecero! A quel mezzo secolo la Spagna deve se poté sbarazzarsi dell’Inquisizione, se poté sbarazzarsi dei monaci: a quel mezzo secolo deve se oggi ha Parlamenti e (salvo e in intervalli eccezionali) se ha una libera stampa e possiede il sentimento della libertà e il senso della ciadinanza, se sta costruendo ferrovie e sta acquistando tui gli altri elementi e costituiscono il progresso economico e materiale. Prima di quel periodo in Ispagna non operava un solo elemento e, per quanto a lungo avesse agito, potesse condurre a questi risultati se il Paese avesse continuato a essere governato, così com’era governato, dagli ultimi prìncipi della dinastia austriaca, o se i governanti Borboni fossero stati fin dall’inizio quello e divennero in séguito, sia nella stessa Spagna sia a Napoli. E se un governo può far molto per causare miglioramenti positivi ane quando sembra e abbia fao ben poco, ancor maggiori sono i punti e dipendono da esso quando si trai d’eliminare i mali interni ed esterni e altrimenti arresterebbero completamente il progresso. È bastato un solo consigliere buono, o un solo caivo consigliere, in una sola cià e in un momento di crisi particolare, a modificare l’intiero destino successivo del mondo. È certo — per quanto possa essere certo un giudizio contingente sugli eventi storici — e se non ci fosse stato Temistocle non ci sarebbe stata la vioria di Salamina; e se non ci fosse stata la vioria di Salamina dove sarebbe mai andata a finire tua quanta la nostra civiltà? Ancora: quanto diverso sarebbe stato il risultato se a Cheronea, in luogo di Carite e Lisicle, avessero comandato Epaminonda, o Timoleone, o ane solo Ificrate! Come

è ben deo nei due saggi sullo studio della storiad — e secondo me sono le produzioni più profonde e più filosofie alle quali abbiano dato origine le recenti controversie sopra quest’argomento — la scienza storica non autorizza predizioni assolute, ma soltanto predizioni condizionali. Le cause generali contano molto, ma ane gl’individui «producono grandi cambiamenti nella storia e colorano la sua intiera fisionomia, ane dopo la loro morte… Nessuno può dubitare e ane se Giulio Cesare non fosse mai vissuto, la Repubblica romana sarebbe precipitata in un dispotismo militare «(tuo questo era reso praticamente certo dalle cause generali) «ma è del tuo certo e in quel caso la Gallia non sarebbe mai stata una provincia dell’Impero? Non sarebbe potuto accadere e Varo perdesse le sue tre legioni sulle rive del Rodano? E non sarebbe potuto accadere e il Rodano, e non il Reno, diventasse la frontiera dell’Impero? Tuo questo sarebbe ben potuto accadere se Cesare e Crasso si fossero scambiate le province; ed è assolutamente impossibile dire e in tale eventualità l’intiera scena (come dicono gli avvocati2) della civiltà europea non sarebbe cambiata. Allo stesso modo, la conquista normanna fu opera di un solo uomo, proprio come è opera di un solo uomo la stesura di un articolo di giornale; e conoscendo (come conosciamo) la storia di quell’uomo e della sua famiglia, possiamo predire retrospeivamente, con certezza praticamente infallibile, e nessun’altra persona» (presumo e qui s’intenda: nessun’altra persona a quei tempi) «avrebbe potuto compiere l’impresa. Se quell’impresa non fosse stata compiuta ci sono ragioni per suppore e la nostra storia e il nostro caraere nazionale sarebbero poi stati quelli e sono?» Come osserva molto giustamente il medesimo autore, tuo il corso della storia Greca (come è stato iarito dal signor Grote)3 è una sola serie di esempi di quanto spesso gli eventi e costituirono il centro di gravità dell’intiero destino delle civiltà successive, siano dipesi, nel bene e nel male, dal caraere di un solo individuo. Si deve comunque aggiungere e la Grecia fornisce a questo proposito l’esempio più estremo e si possa trovare nella storia e costituisce un esemplare molto esagerato della tendenza generale. È accaduto soltanto quella volta, e probabilmente non accadrà mai più, e le fortune dell’umanità siano dipese dal fao e si fosse mantenuto in esistenza un certo ordine di cose in una sola cià o in un solo Paese di poco più grande dello Yorkshire, e e poteva essere salvato o mandato in rovina da un centinaio di cause, ben piccole se confrontate con le tendenze generali delle faccende umane. Né gli accidenti ordinari, né il caraere degli

individui, potranno mai avere un’importanza così vitale come quella e ebbero allora. anto più a lungo la nostra specie dura e quanto più civile diventa, tanto più — come osserva Comte — l’influenza delle generazioni passate sopra la generazione presente e dell’umanità en masse sopra ciascuno degli individui e ne fanno parte, prevale sopra altre forze. E bené il corso delle vicende umane non cessi mai di essere susceibile d’alterazioni e possono aver luogo sia in maniera accidentale, sia peré sono provocate da qualità personali, la preponderanza sempre crescente e l’azione colleiva della specie acquista sopra le cause minori fa costantemente in modo e l’evoluzione generale della specie s’allontani sempre di meno da un cammino certo e precostituito. Pertanto la scienza della storia sta diventando ogni giorno più possibile: non soltanto peré la si studia sempre meglio, ma peré, in ogni generazione, diventa sempre più adaa ad essere studiata. a.

BUCKLE, History of Civilisation, I, p. 30. b. Un amico intimo del signor Bule mi ha assicurato e egli non avrebbe negato il proprio assenso a queste osservazioni, e e mai egli intese affermare o implicare e l’umanità non progredisce sia nelle sue qualità morali sia nelle sue qualità intelleuali. «Nel traare questo problema, Bule si servì dell’artificio al quale fanno ricorso gli studiosi d’economia politica, e lasciano fuori della loro considerazione i sentimenti di generosità e di benevolenza e fondano la loro scienza sulla proposizione e l’umanità è messa in moto unicamente dalla propensione al guadagno» non peré le cose stiano effeivamente così, ma peré è necessario cominciar con il traare l’influenza principale come se fosse l’unica, per poi fare le debite correzioni in séguito. «Il signor Bule desiderava fare astrazione dall’intelleo come elemento determinante e dinamico del progresso, eliminando l’insieme di condizioni più dipendenti e traando quelle più aive come se fossero una variabile del tuo indipendente». Il medesimo amico del signor Bule afferma e quando usava espressioni e gli sembrava esagerassero l’influenza delle cause generali a spese delle cause speciali, e specialmente a spese dell’influenza delle menti individuali, in realtà il signor Bule non intendeva far niente più e affermare enfaticamente e gli uomini più grandi non possono dar luogo a grandi cambiamenti nelle faccende umane se le circostanze proprie dell’età non hanno preparato in misura considerevole la mentalità generale per tali cambiamenti; e naturalmente nessuno pensa di negare questa verità. E negli scrii del signor Bule si trovano certamente passi in cui egli parla, in termini tanto forti quanto si potrebbe desiderare, dell’influenza esercitata dai grandi intellei singoli. c. «Essay on Dryden», in Miscellaneous Writings, I, 186. d. In «Cornhill Magazine», giugno-luglio 1861. 1. Henry omas Bule (1821-1862), storico inglese, autore di una History of Civilization in England (2 voll., 1857-1861) e ebbe larghissima fortuna in Inghilterra e sul Continente. 2. Il termine venue, e traduciamo qui con «scena» è termine legale e significa il luogo dove è avvenuto un certo fao, e quindi indica la competenza territoriale di una corte o di un tribunale. 3. George Grote (1794-1871), uno dei massimi studiosi inglesi di storia antica, autore di una monumentale History of Greece [Storia della Grecia] in 12 volumi (1846-1856), e di un libro: Plato and

the others Companions of Sokrates [Platone e gli altri compagni di Socrate]

(3 voll., 1865), e ebbero molta fortuna in Inghilterra e sul Continente, oltre a svariati saggi di argomento storico e filosofico. Grote fu legato per tua la vita a J. Mill, ed era il proprietario della casa in reeneedle Street in cui si riunivano due volte la seimana, dalle 8,30 alle 10, J. S. Mill e i suoi amici, per leggere e commentare le opere di Hartley, James Mill e di altri autori di economia e di psicologia — discussioni da cui sorse il primo nucleo della Logic di Mill.

CAPITOLO XII. LA LOGICA DELLA PRATICA O ARTE, COMPRESE L’ETICA E LA POLITICA 1. Nei capitoli precedenti ci siamo sforzati di caraerizzare lo stato auale di quelle, tra i rami della conoscenza dea morale, e sono scienze nel solo senso proprio del termine, vale a dire nel senso di indagini sul corso della natura. Tuavia, con il termine «conoscenza morale» e ane (sia pure impropriamente) con quello di «scienza morale» si è soliti comprendere un’indagine i cui risultati non s’esprimono al modo indicativo, sibbene al modo imperativo, o con perifrasi e equivalgono al modo imperativo: con questi termini si è soliti cioè esprimere quella e è iamata la scienza dei doveri: l’etica pratica o la moralità. Ora, il modo imperativo è caraeristico dell’arte in quanto distinta dalla scienza. Tuo quello e parla per regole o precei, e non per asserzioni sopra dati di fao, è arte, e, per parlar propriamente, l’etica o moralità, è quella parte dell’arte e corrisponde alle scienze della natura e della società umanea. Pertanto, il metodo dell’etica non può essere altro metodo e quello dell’arte o della pratica in generale, e la parte non ancora completa del compito e ci proponiamo di assolvere nel Libro conclusivo, è quella di caraerizzare il metodo generale dell’arte in quanto distinto dal metodo della scienza. 2. In tui i rami delle faccende pratie ci sono casi in cui gl’individui sono tenuti a conformare la loro pratica a una regola prestabilita, mentre ce ne sono altri in cui fa parte del compito di ciascuno il trovare o il costruire la regola in base alla quale dovranno governare la loro condoa. Per esempio, il primo caso è quello di un giudice vincolato da un preciso codice di leggi scrie. Il giudice non è iamato a determinare quale corso sarebbe in sé il più consigliabile nel caso particolare e ha per le mani, ma soltanto soo quale regola di legge esso cada; e cosa la legislatura abbia ordinato di fare in quella specie di casi, e pertanto dobbiamo e cosa presumere e abbia inteso in quel caso singolo. i il metodo non può non essere, completamente ed esclusivamente, un metodo deduivo o sillogistico, e

ovviamente il processo è quello e nella nostra analisi del sillogismo abbiamo dimostrato e è ogni ragionamento deduivo: vale a dire l’interpretazione di una formula. Per prendere l’illustrazione del caso opposto dalla medesima classe di oggei dalla quale abbiamo trao la prima, supporremo, in contrapposizione con la situazione del giudice, la situazione del legislatore. Come il giudice ha per sua guida le leggi, così il legislatore è guidato da regole e da massime politie; ma sarebbe un errore manifestato il supporre e il legislatore sia vincolato da queste massime nella medesima maniera in cui il giudice è vincolato dalle leggi, e e non debba fare nient’altro se non argomentare da esse al caso particolare così come il giudice argomenta a partire dalle leggi. Il legislatore è tenuto a prendere in considerazione le ragioni o i fondamenti della massima; il giudice non ha nulla da fare con i fondamenti della legge se non nella misura in cui la considerazione dei fondamenti può gear luce sull’intenzione del legislatore, nei casi in cui le sue parole l’abbiano lasciata in dubbio. Per il giudice la regola, una volta accertata positivamente, è conclusiva; ma il legislatore, o l’altro pratico e procede in base alle regole piuosto e in base alle loro ragioni come facevano gli strateghi tedesi vecio stile e furono bauti da Napoleone o come faceva il medico e preferiva e i suoi pazienti morissero seguendo la regola piuosto di guarire contro di essa, viene giustamente considerato nient’altro e un pedante e uno siavo delle sue formule. Ora, le ragioni di una massima politica o di una qualsiasi altra regola dell’arte non possono essere nient’altro e i teoremi della scienza corrispondente. La relazione nella quale le regole dell’arte stanno con le dorine della scienza può essere caraerizzata nella maniera e segue. L’arte propone a se stessa un fine da raggiungere, definisce il fine e lo porge alla scienza. La scienza lo riceve, lo considera come un fenomeno o come un fao da studiare e, dopo aver indagato le sue cause e le sue condizioni, lo rimanda all’arte insieme con un teorema sulla combinazione di circostanze e avrebbero potuto produrlo. L’arte, poi, esamina queste combinazioni di circostanze, e secondo e l’una o l’altra di esse siano o non siano in potere dell’uomo, diiara e il fine è raggiungibile, oppure e non lo è. Pertanto, l’unica premessa e l’arte fornisce è la premessa maggiore, la quale asserisce e il raggiungimento del fine proposto è desiderabile. Allora la scienza presta all’arte la proposizione (oenuta con una serie di induzioni o

di deduzioni) e compiendo certe azioni si raggiungerà quel fine. Da queste premesse l’arte conclude e il compiere queste azioni è desiderabile e, trovando ane e è possibile, trasforma il teorema in una regola, o preceo. 3. Merita un’aenzione particolare il fao e un teorema, ossia una verità speculativa, non è maturo per essere trasformato in un preceo fin tanto e l’operazione e pertiene alla scienza non sia stata compiuta tua quanta, e non soltanto in parte. Supponiamo di aver completato il processo scientifico fino a un certo punto; supponiamo di avere scoperto e una certa causa particolare produrrà l’effeo desiderato, ma di non aver accertato tue le condizioni negative necessarie, vale a dire tue le circostanze e, se fossero presenti, impedirebbero il prodursi di quell’effeo. Se in questo stato d’imperfezione della teoria scientifica tentiamo di enunciare una regola dell’arte, compiamo quest’operazione prematuramente. Ogni qual volta si presenterà una qualsiasi causa contrastante trascurata dal teorema, la regola sarà in difeo; impiegheremo i mezzi, e il fine non seguirà. In questo caso, nessun’argomentazione dalla, o intorno alla, regola stessa ci sarà d’aiuto per superare la difficoltà; non c’è nulla da fare se non ritornare indietro e completare il processo scientifico e avrebbe dovuto precedere la formazione della regola. Dobbiamo riaprire la nostra ricerca allo scopo d’indagare sul resto delle condizioni da cui dipende l’effeo; e soltanto dopo avere accertato la totalità di queste condizioni saremo pronti a trasformare la legge completa dell’effeo in un processo, nel quale quelle circostanze, o quelle combinazioni di circostanze e la scienza esibisce come condizioni, sono prescrie come mezzo. È vero e, per amore di convenienza, le regole devono essere formulate a partire da quale cosa di meno di questa teoria idealmente perfea; in primo luogo, peré raramente si può dare alla teoria una perfezione ideale, e in secondo luogo, peré, se tue le contingenze contrastanti, frequenti o rare e siano, fossero incluse nelle regole, queste sarebbero troppo ingombranti peré le si possa apprendere e ricordare con le capacità delle quali dispongono le persone comuni, nelle occasioni ordinarie della vita. Le regole dell’arte non tentano di includere più condizioni di quante non sia necessario tener presenti nei casi ordinari, e pertanto sono sempre imperfee. Nelle arti manuali, dove le condizioni riieste non sono numerose e dove generalmente quelle e le regole non specificano sono

aperte all’osservazione comune o vengono rapidamente imparate grazie alla pratica, sulla base delle regole possono agire con sicurezza ane le persone e non conoscono nient’altro e la regola stessa. Ma nelle faccende complicate della vita e, ancor più, nelle vicende degli stati e delle società, non si può fare affidamento sopra le regole senza riportarle costantemente alle leggi scientifie sulle quali sono fondate. Sapere quali siano le contingenze pratie e rendono necessaria una modificazione della regola, o quali siano le eccezioni alla regola, significa sapere quali combinazioni di circostanze interferiranno con le conseguenze di quelle leggi o le contrasteranno del tuo, e questo si può imparare soltanto facendo riferimento ai fondamenti teorici della regola. Pertanto, un pratico e sia dotato di saggezza considererà le regole di condoa soltanto come provvisorie. Essendo state fae per i casi più numerosi, o per quelli e avvengono più ordinariamente, tali regole indicano la maniera in cui sarà meno pericoloso agire, quando non c’è il tempo o non ci sono i mezzi per analizzare le circostanze effeive del caso o quando non possiamo fidarci del nostro giudizio nel valutarle. este regole, tuavia, non ci dispensano affao dal fare quello e è appropriato fare (quando lo permeano le circostanze): vale a dire dal passare araverso il processo scientifico indispensabile per formulare una regola partendo dai dati del caso particolare e ci sta davanti. Nel medesimo tempo la regola può servire, in maniera molto appropriata, ad ammonirci e un certo modo di agire è stato trovato, da noi stessi o dagli altri, ben adao ai casi e accadono più frequentemente, cosicé, se non è adaa al caso e abbiamo per le mani, la ragione per cui non lo è avrà probabilmente la sua origine in quale circostanza insolita. 4. È perciò evidente l’errore di quelli e, trascurando la necessità di fare costantemente riferimento ai princìpi della scienza speculativa, vorrebbero dedurre da presunte massime universali la linea di condoa appropriata ai casi particolari per essere sicuri di raggiungere ane il fine specifico e le regole si propongono. anto ancor più grande, allora, dovrà essere l’errore e consiste nell’enunciare tali rigidi princìpi, non semplicemente come regole universali per il raggiungimento del fine e ci si propone, ma come regole di condoa in generale, senza prendere in considerazione la possibilità, non soltanto e quale causa modificante possa impedire il raggiungimento con i mezzi e la regola prescrive, del fine e ci siamo

proposti, ma e lo stesso successo del nostro tentativo possa entrare in conflio con quale altro fine e fosse, per avventura, più desiderabile. esto è l’errore abituale di molti di quegli speculatori politici e io ho caraerizzato come appartenenti alla scuola geometrica; specialmente in Francia, dove la deduzione in base a regole pratie costituisce la risorsa principale dei giornalisti e degli oratori politici; questo fraintendimento delle funzioni della deduzione ha geato molto discredito, nella stima degli altri Paesi, sopra lo spirito di generalizzazione e caraerizza in maniera così onorevole la mentalità francese. In Francia i luoghi comuni della politica sono massime pratie ampie e grossolane, partendo dalle quali come da premesse ultime gli uomini ragionano giù giù fino alle loro applicazioni particolari: e questo lo iamano essere logici e coerenti. Per esempio, concludono continuamente e una certa misura così e così dev’essere adoata peré si traa di una conseguenza del principio sul quale si fonda la forma di governo: di una conseguenza del principio di legiimità o del principio di sovranità del popolo. A questo si può rispondere e se questi fossero davvero princìpi pratici, dovrebbero riposare sopra fondamenti speculativi; per esempio: la sovranità del popolo dev’essere un fondamento legiimo del governo, peré un governo così costituito tende a produrre effei benefici. Nella misura, però, in cui nessun governo produce tui gli effei benefici possibili, ma tui questi effei sono accompagnati da un numero maggiore o minore d’inconvenienti; e poié di solito questi inconvenienti non possono essere combauti facendo ricorso a mezzi trai dalle stesse cause e li producono, spesso il fao e dal cosiddeo principio generale del governo non segua un certo arrangiamento pratico costituirebbe un motivo di raccomandazione più forte di quello costituito dal fao e ne segua. Soo un governo legiimistico, la presunzione è di gran lunga in favore delle istituzioni e hanno origine nel popolo, e in una democrazia milita in favore delle disposizioni e tendono a controllare l’impeto della volontà popolare. La linea di argomentazioni e in Francia viene tanto comunemente scambiata per filosofia politica tende alla conclusione pratica e dovremmo esercitare i nostri sforzi maggiori allo scopo di aggravare, invece di alleviare, tue le imperfezioni caraeristie del sistema di istituzioni e preferiamo, o soo il quale si dà il caso e viviamo, quali e esse siano.

5. Dunque, nei teoremi della scienza si possono trovare i fondamenti di ogni regola dell’arte. Un’arte, o un corpo di arti, consiste di regole, insieme con quel tanto di proposizioni di natura speculativa e contengono la giustificazione di queste regole. L’arte completa di un qualsiasi oggeo comprende una selezione di quella parte della scienza e è necessaria a mostrare da quali condizioni dipendano gli effei e l’arte tende a produrre. E l’arte in generale consiste delle verità della scienza disposte, invece e nell’ordine più conveniente per il pensiero, nell’ordine più conveniente per la pratica. La scienza raggruppa e ordina le proprie verità in modo da meerci in grado di abbracciare con un solo sguardo quanto più è possibile dell’ordine generale dell’universo. L’arte, pur dovendo assumere le medesime leggi generali, le segue soltanto in quelle loro conseguenze deagliate e hanno portato alla formazione di regole di condoa e mee insieme, prendendole dalle parti tra loro più remote del campo della scienza, le verità e si riferiscono alla produzione delle condizioni differenti ed eterogenee necessarie al prodursi di ciascuno di quegli effei la cui realizzazione è resa indispensabile dalle esigenze della vita praticab. Pertanto, siccome la scienza segue una sola causa nei suoi vari effei, mentre l’arte riconduce un solo effeo alle sue molteplici e differenti cause e alle sue molteplici e differenti condizioni, c’è bisogno di un insieme di verità scientifie intermedie, derivate dalle generalizzazioni più alte della scienza e destinate a servire come generalità, o primi princìpi, nelle varie arti. L’operazione scientifica e mee capo all’enunciazione di questi princìpi intermedi è stata considerata dal signor Comte come uno di quei risultati della filosofia e sono riservati alla posterità. L’unico esempio concreto e Comte indica come effeivamente realizzato, e e può essere considerato come il tipo e si deve imitare in faccende più importanti, è la teoria generale dell’arte della geometria descriiva, così come fu concepita dal signor Monge1. Ma non è difficile comprendere quale debba essere, in generale, la natura di questi princìpi intermedi. Dopo aver enunciato la concezione più comprensiva possibile del fine al quale si deve tendere, vale a dire dell’effeo e si deve produrre, e dopo aver determinato nella medesima maniera comprensiva l’insieme di condizioni dalle quali quell’effeo dipende, non rimane e oenere una visione generale delle risorse di cui possiamo disporre per la realizzazione di quest’insieme di condizioni. E quando il risultato di questa visione generale sia stato incorporato nel minor numero possibile di proposizioni più estese, queste

proposizioni esprimeranno la relazione generale tra i mezzi di cui possiamo disporre e il fine, e costituiranno la teoria scientifica generale, dalla quale i suoi metodi pratici seguiranno come corollari. 6. Ma bené i ragionamenti e conneono il fine o scopo di ogni arte con i suoi mezzi appartengano al dominio della scienza, la definizione del fine stesso appartiene esclusivamente all’arte e costituisce la sua provincia particolare. Ogni arte ha un suo principio primo, o premessa maggiore generale, e non è stato preso a prestito dalla scienza; il principio e diiara a quale oggeo si debba tendere e afferma e si traa di un oggeo desiderabile. L’arte del costruore assume e è desiderabile avere edifici; l’ariteura (in quanto è una delle arti belle) assume e è desiderabile avere edifici belli o imponenti. Le arti dell’igiene e della medicina assumono e sono fini desiderabili, la prima, la conservazione della salute, l’altra, la cura delle malaie. este non sono proposizioni della scienza: le proposizioni scientifie assumono un dato di fao: un’esistenza, una coesistenza, una successione o una somiglianza. Le proposizioni delle quali stiamo parlando ora non asseriscono e una certa cosa è, ma ingiungono, o raccomandano, e qualcosa sia. Costituiscono una classe a parte. Una proposizione, il cui predicato è espresso dalle parole deve, o dovrebbe, essere, è genericamente differente da una proposizione il cui predicato è espresso da è o da sarà. È bensì vero e, nel senso più ampio delle parole, ane queste proposizioni asseriscono e una certa cosa è un dato di fao. Il fao in esse affermato è e la condoa raccomandata suscita nella mente di i parla un sentimento d’approvazione. esto, comunque, non raggiunge il fondo della questione, peré l’approvazione di i parla non è una ragione sufficiente peré debbano approvare ane gli altri, e non dovrebbe essere una ragione conclusiva neppure per i parla. Per gli scopi della pratica tui debbono essere obbligati a giustificare la loro approvazione, e per questo non c’è bisogno di premesse generali e determinino quali siano gli oggei propri dell’approvazione e quale sia l’ordine appropriato di precedenza tra questi oggei. este premesse generali, insieme con le conclusioni principali e se ne possono dedurre formano (o, per meglio dire, potrebbero formare) un corpo di dorina e per parlar propriamente è l’arte della vita nei suoi tre dipartimenti: moralità, saggezza nell’amministrazione degli affari pubblici, o politica, ed estetica: il giusto, il conveniente e il bello o nobile nella condoa

o nelle opere dell’uomo. A quest’arte (e nelle sue linee principali deve sfortunatamente ancor essere creata) sono subordinate tue le altre arti; infai i suoi princìpi sono quelli e devono stabilire se lo scopo speciale di una qualsiasi arte particolare sia degno e desiderabile, e quale sia il posto e esso occupa nella scala delle cose desiderabili. Ogni arte è il risultato congiunto delle leggi di natura e ci sono state rese manifeste dalla scienza, e dai princìpi generali di quella e è stata iamata teleologia o dorina dei finic, princìpi e, prendendo a prestito il linguaggio dei metafisici tedesi, possono essere iamati, e non impropriamente, princìpi della ragion pratica. Un osservatore scientifico, o uno scienziato teorico, puramente e semplicemente in quanto tali, non sono buoni consiglieri per la condoa pratica. La parte svolta dallo scienziato consiste soltanto nel mostrare e certe conseguenze derivano da certe cause e e certi mezzi sono i più efficaci per oenere certi fini. Se i fini in se stessi siano tali da dover essere perseguiti e, ammesso e lo siano, in quali casi e fin dove lo siano, non è affar suo, in quanto cultore di scienza, il decidere; e la scienza da sola non gli darà mai le qualifie necessarie per deciderlo. Nella scienza puramente fisica non si è molto soggei alla tentazione di assumersi questo ulteriore compito; ma coloro e traano della natura e della società umane pretendono invariabilmente di assumerselo; si assumono sempre il compito di dire, non soltanto quello e è, ma ane quello e dovrebbe essere. Peré siamo autorizzati a fare una cosa del genere è indispensabile una dorina completa della teleologia. Una teoria scientifica di quest’argomento, considerato puramente e semplicemente come parte del mondo della natura, per quanto perfea non può in alcun modo servire come sostituto della teleologia. Soo quest’aspeo le varie arti subordinate forniscono una analogia forviante. In esse raramente è possibile scorgere la necessità di giustificare il fine, dal momento e, in generale, nessuno nega e esso sia desiderabile, e soltanto quando si deve decidere la questione della precedenza tra quel fine e quale altro fine si devono iamare in causa i princìpi della teleologia; ma uno scriore di cose morali e politie ha bisogno di questi princìpi a ogni passo. L’esposizione più elaborata e meglio assimilata delle leggi di successione e di coesistenza e vigono tra i fenomeni mentali e sociali, e delle loro relazioni reciproe, in quanto cause ed effei, non sarà di nessun aiuto per l’arte della vita e della società, se i fini ai quali quell’arte deve tendere sono abbandonati ai vaghi suggerimenti

dell’intellectus sibi permissus, o sono dati come scontati senza e li si sia analizzati o li si sia messi in discussione. 7. C’è dunque una philosophia prima, peculiare dell’arte, così come c’è una philosophia prima propria della scienza. Ci sono, non soltanto princìpi primi della conoscenza, ma ane princìpi primi della condoa. Dev’esserci quale modello in base al quale determinare se i fini, o gli oggei di desiderio, siano buoni o caivi, in assoluto o relativamente a qualcos’altro. E quale e sia questo modello, non può essercene e uno solo. Infai, se ci fossero pareci princìpi fondamentali della condoa, la medesima condoa potrebbe essere approvata in base a uno di questi princìpi e condannata in base a un altro; e come arbitro tra di essi ci sarebbe bisogno di quale altro principio più generale. Di conseguenza, quasi tui gli scriori di filosofia morale hanno sentito la necessità, non solo di far risalire a princìpi tue le regole di condoa e tui i giudizi di lode o di biasimo, ma di farli risalire a un principio solo: a quale regola o a quale modello con cui dovevano essere compatibili tue le altre regole di condoa, e da cui tue le altre regole di condoa potessero essere dedoe, come conseguenze ultime. Coloro e hanno fao a meno di assumere tale modello universale, ci sono riusciti soltanto supponendo e un senso morale, o un istinto innato nella nostra costituzione, c’informino sia su quali princìpi di condoa siamo tenuti a osservare, sia, ane, secondo quale ordine questi princìpi debbano essere subordinati l’uno all’altro. La teoria dei fondamenti della moralità è un argomento la cui diffusa traazione sarebbe fuori luogo in un’opera come questa, e e non sarebbe per nulla utile traare di passaggio. Mi accontenterò pertanto di dire e la dorina dei princìpi morali intuitivi, ane se fosse vera, coprirebbe soltanto quella parte della condoa e è propriamente iamata morale. Per il resto della condoa pratica della vita si dovrebbe ancora cercare quale principio o modello generale. E credo e se questo principio fosse scelto correamente si troverebbe e esso serve tanto come principio fondamentale della moralità quanto come principio della saggezza nell’amministrazione delle faccende pubblie, ossia della politica, quanto, ancora, del gusto. Senza tentare, in questo luogo, di giustificare la mia opinione, e neppure di definire la specie di giustificazione e essa ammee, mi limiterò semplicemente a diiarare la mia convinzione e il principio generale al

quale dovrebbero conformarsi tue le regole della pratica, e il criterio in base al quale tali regole dovrebbero essere messe alla prova, è quello della tendenza ad apportare felicità agli uomini o, meglio ancora, a tui gli esseri senzienti: mi limiterò, in altre parole, a diiarare e il principio ultimo della teleologia è la promozione della felicitàd. Non intendo asserire e la promozione della felicità debba essere di per se stessa il motivo di tue le azioni, e nemmeno e debba essere il motivo di tue le regole d’azione. È la giustificazione di tui i fini e dovrebbe controllarli, ma, a sua volta, non è il solo fine. Ci sono molte azioni virtuose, e persino molti modi d’agire virtuosi (ane se i casi sono, a mio parere, meno frequenti di quanto non si supponga di solito) ai quali, in certi casi particolari, si sacrifica la felicità, producendo in tal modo più dolore e piacere. Ma la condoa di cui si può asserire con verità una cosa di questo genere può essere giustificata soltanto peré è possibile mostrare e se si coltivano sentimenti e in certi casi rendono la gente noncurante della felicità, nel mondo esisterà una maggior quantità totale di felicità. Ammeo pienamente e questo è vero; e la coltivazione di un ideale di nobiltà del volere e della condoa debba costituire un fine dei singoli esseri umani; una nobiltà ideale alla quale la ricerca specifica della felicità propria o di quella degli altri (tranne e nella misura in cui è compresa in quell’idea) deve cedere il passo in tui quei casi in cui sorgano conflii. Ma sostengo e la stessa questione: e cosa costituisca questa nobiltà di caraere, deve a sua volta essere decisa facendo riferimento alla felicità, presa come criterio di valore. Lo stesso caraere dovrebbe essere, per l’individuo, un fine preponderante, semplicemente peré l’esistenza di quest’ideale nobiltà di caraere o di una strea approssimazione a questa nobiltà, quale e essa sia, contribuirebbe più di ogni altra cosa a rendere felice la vita degli uomini, sia nel senso relativamente dimesso di piacere e di libertà dal dolore, sia nel significato più alto, secondo il quale rende la vita, non come ora è quasi universalmente, puerile e insignificante, ma quale possono desiderare di viverla esseri umani dotati di facoltà altamente sviluppate. 8. Con queste osservazioni dobbiamo concludere il nostro sguardo sommario sull’applicazione della logica generale della ricerca scientifica ai dipartimenti sociali e morali della scienza. Nonostante l’estrema generalità del metodo e ho enunciato (generalità e, confido, in questo caso non è sinonimo di imprecisione) indulgo nella speranza e queste osservazioni

possano essere di quale utilità per alcuni di coloro ai quali tocerà il compito di portare a uno stato più soddisfacente queste importantissime tra tue le scienze, e possano essergli utili sia peré li sbarazzano delle concezioni erronee dei mezzi grazie ai quali è possibile raggiungere la verità a proposito di oggei tanto complicati, sia peré li aiutano a iarire queste verità. Se questa speranza dovesse realizzarsi, sarà stata promossa in misura più o meno cospicua quella e è probabilmente destinata ad essere la grande conquista intelleuale delle prossime due o tre generazioni di pensatori europei. a.

È quasi superfluo osservare e c’è un altro significato della parola «arte», secondo il quale si può dire e il termine denota la parte o l’aspeo poetici delle cose in generale, distinguendoli dal loro aspeo scientifico. Nel testo la parola sarà usata esclusivamente nel suo significato più antico e, spero, non ancora passato di moda. b. Il professor Bain e altri iamano «scienza pratica» la scelta faa, dalle verità della scienza, per gli scopi di un’arte, e limitano l’uso del nome «arte» alle regole vere e proprie. c. La parola «teleologia» è stata ane impiegata da alcuni autori come nome del tentativo di spiegare i fenomeni dell’universo in base a cause finali; ma tale uso non è conveniente, ed è improprio. d. Per una discussione ed una giustificazione esplicite di questo principio si veda il mio piccolo volumeo intitolato Utilitarianism. 1. Gaspard Monge (1746-1818), matematico francese, inventore della geometria descriiva, cioè del metodo generale di applicazione della geometria alle arti della costruzione. Fu professore di fisica al collegio militare di Mézières, ministro della marina, e più tardi professore di geometria descriiva all’École Polytechnique.

INDICI

INDICE DEI NOMI A Aille. Adamo. Agostino (S.). Albarca de Bolea, v. Aranda. Alcibiade. Alembert, (Le Rond d’) J.-B. Alessandro Magno. Amleto. Anassagora. Anassimene. Annan N. Ansutz R. P. Apié M. Arago D. F. J. Aranda (Albarca de Bolea P. P.), conte di. Arimede. Arfwedson J. A. Aristide. Aristofane. Aristosseno. Aristotele. Arnauld A. Arno N. August E. R. Austin J. Averroè. Avicenna.

B Babbage C. Bacone F. Bailey S. Bain A. Bauhin G. Bell C. Bentham J. Bentley R. Berger F. R. Berkeley G. Berlin I. Bernard C. Berthollet C. L. Berzelius J. J.

Biat M. -F. -X. Biel G. Bladen V. W. Blainville (Ducrotay de) H. M. BOË (Franciscus Silvius de la) F. Bonifacio VIII, papa. Boole G. Borardt R. Borda (de) J. C. Bowen. Boyle R. Brady A. Brahe T. Brandis C. A. Bridgewater (Egerton F. H.), conte. Brion K. Broussais F. J. V. Brown T. Brown-Séquard C. E. Browne T. Bruto, Marco Giunio. Buland W. Bule H. T. Bunsen R. W. Burns J. H. Butler J. Buzzei D.

C Carins J. C. Campbell G. Campolongo A. Candolle (de) A. P. Carite. Carlo I, re d’Inghilterra. Calo III, re di Spagna. Carlyle T. Catone, Marco Porcio. Cesare, Gaio Giulio. Chalmers T. Cicerone, Marco Tullio. Ciro. Clairaut A. C. Clarendon (Hyde E.), conte di. Clawbry (di) G. Clemente VIII, papa. Coleridge S. T. Collini S. Colombo C.

Colonna F. Commodo. Comte A. Condillac (E. Bonnot de). Condorcet (M. -J. -A. -N., Caritat de). Confucio. Conti A. Cooper W. E. Copernico N. Copleston E. Courtney W. L. Cousin V. Cowling M. Cranston M. Crasso, Marco Licinio. Crespi P. Cromwell O. Cuvier G.

D Dalton J. Darwin C. Darwin E. Davy H. Day J. P. Deleyre A. Democrito. De Morgan A. Descartes R. Diderot D. Di Francesco M. Digby K. Dilthey W. C. L. Diogene. Diogene di Apollonia. Diogene Laerzio. Domiziano. Douglas C. Dryer D. P. Duns Scoto G. Durham (Lambton J. G.) J. G., conte.

E Egerton F. H. v. Bridgewater. Egesistrato. Eithal (d’). Eldon J. S. Elisabea I, regina d’Inghilterra.

Ellery J. B. Ene J. F. Enrico IV, re di Francia. Epaminonda. Epicuro. Ermotimo di Clazomene. Erodato. Eore. Euclide. Eulero L.

F Faci G. Falaride. Faraday M. Federico II, re di Danimarca. Federico II, re di Prussia. Federico di Nassau. Ferguson A. Ferrier J. F. Filippo, re di Macedonia. Filippo II, re di Spagna. Filippo il Bello, re di Francia. Fontenelle (Le Bovier de) B. Fothergill J. Fourcroy (de) A.-F. Franklin B. Fresnel A. J. Friedman R. B. Frongia G. Fuller T.

G Galeno. Galilei G. Gall F. J.. Garforth F. W. Garnier H. K. Gay-Lussac L. Gemino. Geoffrey. Geymonat L. Giacomo (S.). Giamblico. Gilbert W. Giovanni (S.). Giuliano l’Apostata. Glauber J. R.

Glossman P. J. Godwin W. Goethe W. J. Govinlo J. Graham T. Gray J. Graziani A. Grote G. Grote J. Grove W. R. Guglielmo I, re d’Inghilterra, il Conquistatore. Guyton de Morveau L. B.

H Hainds J. R. Halevy E. Hall E. W. Hall J. Halliday R. J. Hamburger J. Hamilton M. A. Hamilton W. Hartley D. Hegel G. W. F. Helmholtz (von) H. L. F. Helmont (van) F. M. Helmont (van) J. B. Helvétius C.-A. Hersel J. F. W. Hersel W. Himmerfalb G. Hobbes T. Holba (Dietri d’) P.-H. Hollander S. Hooker R. Howard. Hume D. Huygens C.

I Ificrate. Ippocrate. Ippone di Metaponto.

J Jason R. Jenks E.

Johnson S. Jussieu (de) A. L. Jussieu (de) B.

K Kamm J. Kant I. Kantzer E. M. Kayek F. A. Kennedy G. Keplero J. Kidd J. Kirby W. Kirhoff G. R. Kubitz O. A. Kyrle J.

L Laine M. Lamar (de Monet de), J.-B.-P.-A. Lambert J. H. Laplace P.-S. Lavoisier A. -L. Leibniz G. W. Leonida. Leslie J. Letwin S. R. Licurgo. Liebig (von) J. Lindley D. N. Lindley J. Linneo C. Lisicle. Liré È. Loe J. Loesberg J. Lotze R. H. Lubac J. Luciano di Samosata. Lugo (de) J. Lutero M..

M Mabbo J. D. Macaulay T. B. Maintosh J. Macminn N.

Mac Rae R. F. Magendie F. Malebrane (de) N. Malthus D. Malthus T. R. Mandelbaum M. Mansel. Mansfield W. M. Maomeo. Marco Aurelio Antonino. Marinone N. Martineau J. Maurice F. D. Mazlish M. Mc Closkey H. J. Mc Cosh J. Mc Crimmon J. M. Medea. Mefistofele. Melantone F. Mill J. Mill J. S. Milone di Crotone. Mineka F. E. Minerbi M. Mohs F. Molière, (J. B. Poquelin). Monge G. Montesquieu (C. L. de Secondat, de). Morley J. Mueller J. W. Musacio E.

N Napoleone I, imperatore. Neer (de) N. J. Neff E. Nerone. Nesbi G. L. Newton I. Nicole P. Nielsen K. Nokes J. Novalis (F. L. von Hardenberg).

O Occam G. Oribasio.

Ovidio, Publio Nasone. Owen R.

P Paci A. Pae M. J. Palmerston H. J. Pankhurst R. P. Paolo (S.). Pappe H. O. Parent W. A. Paris J. A. Parkes E. A. Payne Knight R. Peaco G. Peel R. Pelagio. Petit A. Pietro (S.). Pietro il Grande, zar. Pitagora. Platone. Playfair. Plinio il Vecio. Poggi S. Ponzio Pilato. Pope A. Popper K. Porfirio. Posidonio di Rodi. Poen S. C. Powell B. Preller. Priamo. Priestley F.E.L. Priestley J. Prout W.

Q etelet L. A. J.

R Raynal G. T. Rees J. C. Reid T. Restaino F. Rier.

Robbins L. Robinson D. N. Robson J. M. Rousseau J.-J. Russell B. Ryan A.

S Santucci A. Saumaise C. (Claudius Salmasius). Selling F. W. Sneewind J. B. Semmel B. Serse. Smart B. H. Smith A. Socrate. Sofronisco. Sparsho F. E. Spencer H.. Spenser E. Spinoza B. Stephen L. Sterling J. Stewart D. Stillinger J. Streets C. L. Swi J.

T Taine H. A. Talete. Taylor Harriet. Taylor Helen. Temistocle. TEN C. L. Tennant S. Tennysoun A. iel M. omas W. omson D. F. omason J. Timoleone. Tocqueville (de) C. A. H. M. Tolomeo. Tommaso (S.) d’Aquino. Torricelli E. Tournefort (de) J.

Tucidide. Tullo J.

U Urmson J. O.

V Valencia (de) G. Varo intilio. Vasquez G. Vaysset-Batbien R. Venn J. Vesey G. N. A. Vico G. B. Virgilio. Volta A.

W Wakefield E. G. Ward J. Warno M. Watson A. Webb B. Weber M. Wellington (A. Colley Wellesley) duca di. Wells W. C. Werner A. G. Wesley J. Whately R. Whewell W. Whiaker T. Windelband W. Wollaston W. H. Woodhouse R. Woods T. Wordsworth W.

Y Young T.

Z Zuccante G.

INDICI

INDICE DELLE TAVOLE

John Stuart Mill in un dipinto di George Frederic Was Jeremy Bentham in una silhouee di J. Field Frontespizio della Autobiografia di John Stuart Mill John Stuart Mill in un ritrao su dagherrotipo Frontespizio della prima edizione del Sistema di logica Frontespizio del Sistema di logica in traduzione francese