Siamo di nuovo greci. Dopo Colli e dopo Wittgenstein 8867881485, 9788867881482

Qui si discute con Colli e con Wittgenstein. Non li si racconta. E si discute su un aspetto del pensiero di Colli e di W

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Siamo di nuovo greci. Dopo Colli e dopo Wittgenstein
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PHILOSOPHICA 26

PHILOSOPHICA Collana di studi e ricerche filosofiche

COMITATO SCIENTIFICO

Janos Kelemen Full professar o/ philosophy (ELTE, Budapest) and Doctor o/ the Hungarian Academy o/ Sciences

R.P. Willy Okey, cp Recteur de l'Université Saint Augustin de Kinshasa (USAKIN)

doc. PhDr. Jan Pavlik Vedouci katedry filosofie - Vysokd skola ekonomickd v Praze (VSE)

Prof.ssa Maria Chiara Pievatolo Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pisa

Prof. Dr. Josef Quitterer Institut fiir Christliche Philosophie der Universitiit Innsbruck

Prof. Guido Traversa Ambito di Storia e Filosofia dell'Università Europea di Roma

Massimo Pistone

SIAMO DI NUOVO GRECI dopo Colli e dopo Wittgenstein

Copyright© 2018 by IF Press srl IF Press srl - Roma, Italia [email protected] www.if-press.com ISBN 978-88-6788-148-2

La medesim a spietata severità con cu i egli ha guardato al suo passato e al suo presen te va rivolta con tro di lui. Le su e debolezze devono essere scoperte con malvagità, senza indul­ genza, perché così lui ha fatto con gli altri. Quello che non è riuscito a vedere, non do bbiamo perdon arglielo. Ciò significa aver imparato da lui. (Giorgio Colli in Dopo Nietzsche)

Introduzione

Qui si discute con Colli e con Wittgenstein. Non li si rac­ conta. E si discute su un aspetto del pensiero di Colli e di Wittgen­ stein e su un altro ancora. Saltellando. Del resto una trattazione sistematica di un pensiero, che non lo è, sarebbe falsa, non soltanto faticosa. E le critiche ai loro pensieri sono elementi di un omaggio, perché solo i grandi meritano di essere contestati. In questo scritto si rende dunque omaggio a due filosofi tra i maggiori degli ultimi secoli, Colli spesso trattato come un filologo o, peggio, come un mistico visionario orfico. Il se­ condo come un analitico o come un linguista. No, Colli e Wittgenstein sono filosofi ma, soprattutto, sono filosofi greci e sappiamo che, senza i greci, in filosofia non si comincia neppure. E senza Colli e Wittgenstein, in filosofia non si comincia neppure.

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Cosa posso immaginare e cosa no

Posso immaginare qualcosa che non ho mai visto o, addirit­ tura, qualcosa che non esiste. Ma, posso immaginare qualsiasi cosa? Forse no. Ad esempio non riesco ad immaginare un bastone che non abbia una lunghezza. Posso immaginare un bastone che cambi lunghezza conti­ nuamente, in modo che diventi impossibile misurarlo. Ma un bastone senza lunghezza, no. E questo avviene forse perché ho una fantasia limitata o, invece, perché quel bastone senza lunghezza è davvero logi­ camente impossibile? Ma Euclide, nel mondo parallelo della geometria, ha potuto pensare un punto senza dimensioni, una linea senza spesso­ re, una circonferenza, che circonda un cerchio, ma che non aggiunge nulla alle dimensioni di quello. Bastoni non ne esistono, in geometria. Ma un segmento senza lunghezza no, neppure Euclide lo ha pensato. Non lo ha pensato, il segmento senza lunghezza, proprio perché la geometria, quel mondo da lui inventato, serviva per misurare? E cosa altro non riesco ad immaginare? Un oggetto che cambia sempre forma, questo posso pen­ sarlo. Forse non riesco a pensare un oggetto che sia, adesso, asso­ lutamente senza forma. Come sarebbe questo oggetto?

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Inoltre, posso dire che qualcosa non ha fine, che è infinita. Ma alla parola

infi nito, corrisponde davvero un senso, pos­

so spiegarla ad un altro, magari con un disegno o con una formula matematica? Sì, posso farlo, ma qui forse siamo al limite della compren­ sione. Dico (n+ l) e intendo la regola per la formazione della colle­ zione infinita dei numeri naturali. Bene, ma capisco davvero di cosa sto parlando? Posso figurarmi davvero come sia quella cosa infinita? Forse ho scritto una regola e basta. E a quella regola non corrisponde davvero una idea chiara del fatto. La regola qui non indica il fatto, è il fatto. E poi una superficie rossa e verde. In ogni suo punto sarà rossa o sarà verde. Posso immaginare che un punto di quel­ la superficie non sarà né rossa, né verde? N o, forse perché io la ho definita così all'origine?

Io sto men tendo è una contraddizione, se è vera è falsa e se è falsa è vera. Anche qui trovo un limite dell'immaginare. Ho difficoltà ad immaginare un bugiardo veritiero, come un colore rosso, che non è rosso. Qui è apparso il principio

di con traddizion e e, di conseguenza, anche il principio del terzo escluso. Quella cosa è rossa o non rossa. E quella non rossa indica infiniti colori, tutti quelli che non sono rosso. Tertium non datur. Chi ascolta una contraddizione può sospendere il giudizio, potrebbe intenderla come una frase poetica, come l'accenno a qualcosa d'altro, diciamo a qualcosa di un altro mondo.

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L' inimmaginabilità è un criterio dell'insensatezza, come ipotizza Wittgenstein? No. Non è così. L'inimmaginabilità ha un senso: essa indica qualcosa di im­ portante. Le cose inimmaginabili ci possono indicare le ra­ dici, le basi del pensare. Quale ragione mi impedisce quei pensieri? Se non posso pensare qualcosa, non posso in senso logico, allora ho sbattuto la testa contro una regola fondamentale, nel senso che fa da fondamento.

Quando si tratta di logica, "questo non si può im magin are" vuo i dire: non si sa cosa ci si debba im maginare qui. Così Wittgenstein. Ma io so cosa dovrei immaginare, proprio quello che ho detto. Sì, proprio quella descrizione, quella frase. Sono cose che posso dire, ma non posso pensare. Il fatto è che qui si recide anche l'unità del logos, qui parola e pensiero non sono più lo stesso. Possiamo dunque pensare, stando ben saldi su di una nuvo­ la, a sua volta basata sul nulla. Il nostro pensare sa di essere infondato. Ed è meraviglioso che sia così.

lO

La Verità

La Verità, Alètheia per i Greci, non è velata, è il non nasco­ sto, ciò che è luminoso. Così è in Parmenide, in Empedocle ed anche in Eraclito. E possiamo trascurare qui l'affollarsi di essere, esserci, ra­ dura e pastori. Poiché l'individuazione, l'esserci, non è un qualcosa, né lo è l'essere e, quindi, nessun pastore appare. Questa Verità dunque non è velata e non ostante ciò, non si può attingere, non si può conoscere. I nostri occhi non sono adatti. Per Parmenide Alètheia è "ciò che è.

È l'universo, è il

fondo intoccabile ed insondabile. E la Verità non è un giudizio o una descrizione del "ciò che è", dell'Universo. La Verità è l'Universo. Forse per Colli no. Scrive: "La Verità è apparenza che dice ciò che non è apparenza". Sarebbe dunque la Verità, per lui, uno sguardo e forse un giudizio sul "ciò che è". Appartiene al dire. Ma come potrebbe la Verità essere uno sguardo, un giudi­ zio, su qualcosa che è definito intoccabile? In "Dopo Nietzche" Colli corregge Wittgenstein. Non è che "si deve tacere" dell'indicibile, come scrive Witt­ genstein alla fine del Tractatus, ma "non si può parlare" dell'indicibile, dice Colli. Diciamo che Colli taglia via la conclusione della frase. "Si deve tacere" è l'etico. "Non si può parlare" è il teoretico, è vedere la natura incon­ ciliabile di individuo e inconoscibile. 11

Questa correzione di Colli a Wittgenstein segue dalla sua convinzione che l'etico ci nasconda il profondo. Ma quel profondo non è nascosto per sua natura? Diciamo per ipo­ tesi? Se non si può parlare di Alètheia, cosa fa l'artista? Cosa fa il filosofo? "Bello, senza riserve, è l'amore della verità. Esso porta lon­ tano, ed è difficile giungere al termine del cammino. Più dif­ ficile però è la via del ritorno, quando si vuol dire la verità." Amore e strazio in questo scritto di Colli. Le sue poesie, che appaiono ne "La ragione errabonda" a spezzare il fitto e duro dialogo della teoresi, ci accennano ad una via. La via è forse quella dell'arte?

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L'artista

L'artista rompe la necessità. Per necessità, un uomo è ciò che è. Una pianta, un sasso, un martello, una gallina, sono ciò che sono, per necessità. Necessità è ciò per cui la rappresentazione postula l'imme­ diatezza, dice Colli. Necessariamente. Ogni cosa è ciò che è, e non un'altra cosa. L'artista spezza dunque la necessità e così spezza anche il tempo, che su quella necessità si fonda e che è misura di essa. E scioglie la finalità di quell'oggetto, diciamo l'uso che lo definisce. Ed anche il nesso di causalità, nato dai rapporti necessari tra rappresentazioni. E, poiché l'oggetto è tale solo per un soggetto, assieme scio­ glie anche il soggetto, l'individuazione. L'oggetto è tale per un soggetto che tocca, guarda e nomina. Prima, quell'oggetto non era un

oggetto, non era così deno­

minato. Via la necessità, via la causa ed il fine, via il tempo, il sogget­ to e l'oggetto. La

mania domina.

E così l'artista attinge folgoranti bagliori, attimi della verità, del "ciò che è". Coglie per sprazzi la natura di violenza e gioco in Alètheia. Ma vuole raccontare quegli attimi. Per comunicare agli altri uomini, egli torna alla parola, al segno, dunque all'individuazione ed alla menzogna. Qui riposa lo strazio disperato dell'artista. 13

Ma. Ma chi è, cosa è, ciò che attinge? Proprio nulla può attingere, perché il soggetto artista, quel singolare artista, diciamo quell'individuo artista è sciolto, non è più. Qui la difficoltà è evidente e qualche pensatore ha tentato di superarla, con una sorta di attingere universale o metafi­ sico. Una specie di individuo collettivo o, peggio, lo spirito universale, lo spirito assoluto e via così, quello che per He­ gel è il soggetto universale, a suo dire la moderna religione. Ma qui non parliamo di cose serie. Questo individuo collettivo non esiste da nessuna parte , se non come nome, come categoria sorta nel linguaggio, quin­ di sciolta anch'essa, come il dire. No, non si sfugge facilmente a questo groviglio del pensie­ ro. Colli lo sfiora, con il tocco lieve dell'artista che è, e lo lascia lì come enigma. Già, perché l'enigma sarebbe la forma che assume il raccon­ to dell'indicibile, quando lo si vuole dire a tutti. Enigma o aporia? Egli usa il termine "miracoloso" per indicare il modo con cui l'artista percorre quella via. Sembra quasi che, mentre scrive, Colli si renda conto del collo di bottiglia in cui si è ficcato, e ci mostri una via d'u­ scita differente. Ma non cancella la visione del totale abbattimento di ogni astrazione. Tiene le due versioni lì assieme, sotto i nostri occhi, quasi le sovrappone.

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Ora, ci dice, l'artista attinge allo stato nascente delle rappre­ sentazioni, che stanno formando l'individuazione. Diciamo che non spezza e non scioglie tutto, necessità, cau­ salità, finalità, individuazione, per attingere attimi dell'im­ mediato. Egli coglie uno stato nascente dell'individuo, attingendo al passato remoto. Nel tempo. Non scioglie il tempo, ma lo percorre all'indietro. Versione, questa, assai più credibile dell'altra e priva di apo­ rie. Come si spiega il fatto che Colli non cancelli l'altra via, quella della distruzione totale, ma la lasci lì? Forse questa storia indica una incertezza, non di Colli, ma del pensiero, quando esso giunge ai limiti del conoscibile. In quel momento lo sgomento appare furioso e scuote l'in­ tero fragile edificio del sapere e della conoscenza. Colli non si acquieta. Prosegue fino al punto di rottura e lì mostra l'esplosione del logos, quando è giunto al suo acme.

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Pròblema

Ci si interroga dunque su di un pròblema, cioè su di un ostacolo posto dal dio di Delfi sul nostro cammino. Come si supera l'ostacolo? In Grecia si è tentata una via, confrontando opinioni, le

dòxai.

E il confronto avviene con i modi della dialettica razionale, dove l'affermazione del primo che parla viene contraddet­ ta da un altro. Contraddire significa che quel confronto di opinioni si presenta all'origine come antifatico. O è vera la prima opinione oppure è vera la seconda. Ma perché la dialettica discorsiva si presenta all'inizio in modo antifatico? La scelta assoluta tra l'uno o l'altro corno del dilemma, svela la natura vera del ragionare, cioè il suo fondarsi sul prin­ cipio di contraddizione e su quello del terzo escluso, che è conseguenza del primo. Ma qui non si tratta di una scelta, il discorso razionale, il

logos, non potrebbe avere natura differente, può solo svelar­ ci la sua intima natura, cioè quella di un sistema di regole logiche. Il confronto non si esaurisce con queste prime affermazio­ ni, ma si dipana in modi imprevedibili e spesso molto in­ tricati, una vera e propria rete, griphos per i greci, uno dei sinonimi dell'enigma.

E in

quella rete si può rimanere imbrigliati e non uscirne

più. La ragione, insomma, nasce dell'enigma e da quell'enigma può essere anche imprigionata e distrutta. 16

È assai gracile. Per non restare invischiati nella rete, ci si può rifugiare in una qualche forma di ascetismo, e questa sarebbe una resa, oppure ci si può avvicinare al confronto con le parole di chi a quella rete è sfuggito, di chi ha indicato una via. Le grandi anime, come le chiama Colli.

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Shakespeare, Mozart, Beethoven; e Montale?

Sono grandi anime, secondo Colli. Le loro opere rendono iniziati anche coloro che non lo sono, perché provengono da una regione inesplorata, da ciò che crea anche l'individuazione. Sono, quindi, artisti che han­ no avuto attimi di visione della realtà, che è alle spalle della rappresentazione fallace del mondo. Ad una affermazione apodittica, come questa, non è diffici­ le controbattere, è impossibile. Ma si può sempre mettere lì accanto un'altra affermazione, altrettanto apodittica, ma differente, e sfidare l'autore della prima a confutare la nostra. Risulterà allora chiaro che le due affermazioni si trovano sullo stesso piano, un piano religioso, fideistico, che poco ha da spartire con la filosofia. Questo, e non altro, è il motivo per cui dovremmo dare ret­ ta all'invito a non parlare di ciò di cui non si può parlare. Questi sconfinamenti mostrano però un bisogno di poesia. O dicono di un qualche fraintendimento teoretico. Quelle "grandi anime" porgono le loro immagini e suoni come apparenze di qualcosa di nascosto; qui risiede la loro grandezza. Sarebbe davvero bello discuterne con Colli. Chiedere, ad esempio, quali sintomi avvertisse quando una poesia, un racconto, una scultura, una musica travalicavano il mondo della menzogna, per riportare un qualche barlu-

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me del lampeggiamento di ciò che è alle spalle, di ciò che è ignoto oltre il baratro.

Forse un mattino andando in u n 'aria di vetro Forse un m a ttino andando in u n 'aria di vetro, arida, rivolgendom i vedrò compirsi il miracolo : il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con u n terrore di ubriaco. Poi come s 'u no schermo, s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n 'andrò zitto tra gli uomini ch e non si voltano, col m io segreto. Eugenio Montale, in Ossi di Seppia, ci regala la visione fulminea e decisiva del baratro, che è alle spalle di case, al­ beri e colli, l'inganno consueto cui quasi tutti associano la parola realtà o verità. Ad alcuni accade di cadere nel silenzio dopo l' ascolto o la visione di un'opera d'arte. Forse si tratta di questo, di un incantamento che è provoca­ to dall'intendere che quell'artista ha colto la fallace natura del mondo ed ha avvertito l'ineffabile. Se è così, non si può dissentire da Colli, ma se invece si ritie­ ne che, superata l'individuazione, quell'artista ha avuto una visione della Verità e poi ce la viene a raccontare, allora si affaccia sempre la stessa obiezione. Chi ha visto cosa, se l'individuo era sciolto?

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Kierkegaard

È

un filosofo che, per vie differenti, compie un cammino

per qualche verso simile a quello di Colli. Kierkegaard parla del paradosso come limite dell'intelletto, che vuole comprendere ciò che è oltre l'intelletto. Ed indica una via. L'intelletto si trae da parte, si apre, ed il paradosso si dà in dedizione, è il momento che è la pienezza del tempo, così si possono incontrare, nella fede. Qui il paradosso, l'assurdo, e l'intelletto dell'individuo sono in relazione, stabiliscono un inter-esse. Fatto questo, la quiete può prendere il posto dell'angoscia. Nulla in contrario. Se l'intelletto individuale intuisce il paradosso, il paradosso esiste, e Kierkegaard gli attribuisce la natura del Dio. Se io sento un anelito, una necessità assoluta, di superare i miei limiti, vedo come una ferrea conseguenza il pensare che esi­ sta un al di là, che non conosco e che è ciò verso cui tendo. E l'angoscia, originata da questa consapevolezza insoddi­ sfatta, la guardo come un'ulteriore prova, come una eviden­ za della reale esistenza dell'oltre. Ma la nostra ricerca ha una diversa natura, non si quieta con una formula di conciliazione. Ci fa sorgere un dubbio ancora. E se quell'intuizione del paradosso fosse un frain­ tendimento? E se l'angoscia, l'insoddisfazione, fosse il se­ gnale proprio di quel fraintendimento?

problemi che sorgono a causa di u n frain tendimen to delle nostre forme linguistiche hanno il carattere della profondità. '1

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Sono inquietudin i profonde; sono radicate così profondamente in noi, come le forme del nostro lin gua ggio; e il loro significato è tanto grande quan to l'importanza del nostro lingua ggio - Chie­ diamoci: Perché una battu ta di spirito grammaticale ci sembra profonda? (E questa è appunto la profondità filosofica). " La profondità della chiacchiera filosofica. In questo brano Wittgenstein è serio, non sta mettendo in ridicolo nessuna concezione differente dalla sua. Il

no­

stro linguaggio è il nostro pensiero e, dunque, un paradosso grammaticale appare profondo, forse mistico, a chi non ha il coraggio di infrangere il mito, che ha prodotto quel nodo. Insomma, Kierkegaard ha raccontato una angoscia ed il suo acquietamento. Colli, invece, non è ferito dall'angoscia del mistero, dell'ol­ tre, anzi sembra quasi che la convinzione della esistenza reale dell'ineffabile lo renda lieto, doni alla sua vita una se­ renità inaudita. Egli ci racconta un oltre che è bellezza e che in qualche modo traluce in infiniti attimi, in infiniti bagliori delle rap­ presentazioni, dinanzi ai nostri occhi. Siamo allucinazioni di un dio, ma di quel dio sappiamo il nome, sappiamo la storia e le peripezie, i rapporti con gli altri dei, le gelosie, le meschinità. Un parente prossimo. Ma quella familiarità non è comprensione, né possesso di quel mondo. Esso resta inattingibile. E quel mondo, quello vero, assomiglia molto, davvero mol­ to, a quello di Spinoza.

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Baruch Spinoza

Infatti, poiché ci sono molte cose che n o n possiamo compren­ dere affatto con l'im maginazione, ma solo con l'in telletto (come, ad esempio la sostanza, l'eternità e altre cose), chi cer­ casse di sp iegar le con n ozioni che appartengono al genere dei pun telli dell'im maginazione non fareb be altro che darsi da fare per portare la sua im m aginazion e a delirare. Spinoza mette qui in guardia chi tende a confondere le dif­ ferenti espressioni del nostro essere uomini: l'istinto, o in­ tuizione, e l'intelletto, o pensiero razionale. Agli occhi di Spinoza, un logico che dimostra l'etica in mo­ dalità geometrica, non si può che tendere al delirio, se si tenta di fare teoresi con l'istinto. No, ci dice, le attività più alte dell'uomo non possono che essere quelle del pensiero razionale discorsivo ed aggiunge che molti non sanno neppure distinguere gli enti di ragione da quelli reali. Per lui, inoltre, non è l'intelletto la fonte della sostanza, ma la sostanza è la fonte dell'intelletto. Spinoza chiama sostanza l'universo, tutto ciò che è. Sostanza non significa per lui qualcosa di materiale, una massa percepibile, ma è davvero qualcosa di inattingibile, di misterioso. E il nostro intelletto scaturisce da quella sostanza ed in quel­ la sostanza è destinato a tornare, ad estinguersi. Quindi, forse, il nostro intelletto ha nella sua natura, nella sua origine, una scintilla del tutto.

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«

I possessi sempre veraci sono la scienza e l'intuizione, e

non sussiste altro genere di conoscenza superiore alla scien­ za, all'infuori dell'intuizione. Ciò posto, e dato che i princì­ pi primi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d'altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragio­ ne discorsiva, in tal caso i princìpi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l'intuizione, sarà invece l'intuizione ad avere come oggetto i princìpi. Dice Aristotele negli

»

A nalitici secondi.

Spinoza chiude invece la porta alla capacità conoscitiva dell'istinto. Ma c'è chi non dà retta. Forse perché è più co­ raggioso?

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Uomini dal cuore ardito

Uomini dal cuore ardito avanzano n ei meandri e talvolta il cielo è aperto e si traversan o liete pra terie, sicché del tutto è perdu to il senso prim itivo e la n udità degli dei appare come un sogno e fugge al con tatto. La vita con le forme ingannevoli e le vesti colorate, così come gli astri e le comete, nascono quando gli dei si nascondono per la vergogna della bellezza nuda e solo uomini indomiti iniziano a ripercorrere il labirinto vuoto della gioia. Ma appaiono solo fugaci visioni ai loro occhi, sogni. Gli dei non si mostrano. I versi di Colli dicono molto, molto di più della costruzione del sistema della conoscenza, delineata nella sua Filosofia dell'espressione. I vecchi dei sono morti e con essi i loro miti. Abbiamo costruito altri miti, ovviamente, ma questi di oggi sono più subdoli di quelli antichi, poiché oggi siamo incon­ sapevoli di essi. I vecchi dei sono morti e quelli nuovi tiranneggiano e noi, preda di essi, sbeffeggiamo l'antico. Oggi siamo dominati da miti, sesso e alimentazione, storia e tecnica.

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Il primo mito: nello splendido futuro tutti mangeranno ab­ bondantemente e faranno sesso con chiunque desiderino ed ogni differenza sarà così risolta in una comune felicità. Il mito della storia, uno svolgimento dal buio alla luce, con noi in posizione dominante, diciamo al culmine della cono­ scenza e del vivere felice. Questo ci appare come il mito più duro a morire, anche se appaiono continuamente indizi della sua futilità ed incon­ sistenza. La nostra storia, oggi, si chiama storia contemporanea, sin dal 1789. E poi? Come si chiamerà poi? In nessun modo, la storia è finita. E infine il mito della tecnica che tutto risolve e, se non risol­ ve ora, risolverà certamente domani. Ma la tecnica non è che un risultato utile della scienza, che è, invece, invenzione pura ed è, nelle sue ipotesi più alte, una cosmologia metafisica. E proprio la scienza ci dice oggi che materia, energia, atomi, quanti, luce, elettrodinamica, sono rappresentazioni per noi, espressioni di un qualcosa che viene espresso, miste­ rioso e inconoscibile, che è alle spalle, che è nascosto. Perché

la natura ama nascondersi,

appunto come dice il ti­

tolo del testo iniziale di Giorgio Colli, pubblicato nel 1948. Chi cerca la verità, così sembra, può farlo con la filosofia, con la scienza o con l'arte. Va sempre bene, se non si arresta ad un certo punto, per il terrore dell'ignoto.

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Hybris

Le sirene insidiano i naviganti con il loro canto e chi le ascolta è destinato a sfracellarsi contro gli scogli. Ma perché la morte colpisce chi ascolta? Perché è la terribile punizione degli dei per chi ha la presun­ zione, la tracotanza, l'hybris, di voler udire ciò che è riser­ vato alla divinità. I mortali non hanno accesso al sapere divino, pena la morte. Anche Socrate è messo a morte, punito per la sua hybris, che rivela pubblicamente nella orazione difensiva, dove racconta del responso della Pizia di Delfi, "Socrate è il più sapiente degli uomini". Ma questo responso non basta a Socrate, egli tenta di mo­ strare che il dio sbaglia e che, quindi, egli è più sapiente del dio. Colli cita la tracotanza dei greci come uno dei loro principa­ li caratteri, soprattutto nella decadenza. Ma anche Parmenide è tracotante, e non poco, come del resto Zenone, Gorgia, Empedocle e Eraclito. La hybris non è un carattere della decadenza, ma è natura originaria dei greci, tanto che essa è ridicolizzata in tutte le commedie e colpita duramente nelle tragedie, attraverso le quali il popolo è educato a evitarla come la peste. Forse perché chi le scrive, quelle opere, desidera riservare l'orgoglio smisurato al proprio gruppo, al ceto aristocratico.

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Essi si ritengono all'altezza dei miti degli dei, forse anche un po' più in alto, perché quei miti li hanno creati e, una volta escluso il dèmos altrimenti incontrollabile, nulla osta alla loro tracotanza. Nel mito omerico, torniamo alle sirene, solo Odisseo ascol­ ta il canto proibito e sopravvive, perché incatenato all'albe­ ro della nave. Ma Ulisse è sì preda della hybris, ma è un re ed è un re vit­ torioso, non è dèmos. Colli spera di ascoltare qualche nota del canto delle sirene e di uscirne vivo. Forse ci è riuscito. Ma è stato necessario, prima, illogos di Zenone e di Gorgia, che ha fatto piazza pulita degli edifici costruiti dagli uomini.

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La maschera non riesce ad ingannare

So che in questo libro c'è molta tracotanza - ma temo che la maschera non riesca ad inga n nare. La hybris nella scrittura di Colli è evidente, prima di tutti è evidente a lui, come dice in questa frase. Ma quella tracotanza è una maschera, non è la verità del suo pensiero. La maschera indicava, nei riti di Dioniso, il superamento dell'individuazione per congiungersi al dio, al mito, nella mania. La maschera di Colli indica che quelle teorie, quelle com­ plesse costruzioni del logos, che ci propone, non sono dav­ vero cose serie, come confessa anche Platone nella VII let­ tera, parlando dei suoi dialoghi.

Non prendete alla lettera "il sistema "! Non c'è nessun sistem a - eppure questo è u n sistema. Colli indossa una maschera per proporre il suo sistema, con lo scritto. Ma lo scritto è menzogna, non è vita, non consen­ te la dialettica tra interlocutori viventi. Insomma lo scritto non afferra il logos vero. Esso può solo segnare sulla carta le esili trame della ragione astratta, a fini mnemonici. Ma la verità non è lì. La verità è oltre, è alle spalle, è l'ignoto e Colli ci indica que­ sto dicendo che il suo sistema non c'è, come del resto nes­ sun sistema esiste davvero. Eppure anche queste affermazioni sono un sistema.

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Siamo forse qui giunti al limite delle possibilità espressive della ragione, siamo incappati nel paradosso. E oltre a ciò, c'è e non c'è, l'ineffabile. Possiamo dire, con i filosofi classici e con Colli, che l'indici­ bile è la realtà, la verità, che è alle spalle del nostro mondo di colori e movimenti. E si intuisce quella esistenza, anche razionalmente, quando si tenta di esaminare l'universo e si dice che esso è.

È il mi­

stico. Quindi il tutto, il ciò che è, postula il mistero e Parmenide attribuisce al tutto il predicato dell'essere. Ma anche il particolare, il piccolo, gli elementi primi, mini­ mi, delle cose postulano lo stesso mistero. Dice infatti Socrate nel Teetèto:

"Pare anche a me di aver sen tito da talu n i che i prim i, dirò così, elemen ti, di cui siamo composti io, tu e le altre cose in gen ere, non am mettono ragione; a ciascun elemen to, preso in sé stesso, possiamo solo dare u n nome. Predicare di esso altra cosa n o n è possibile, neppure che è, né che non è, perché già questo gli aggiungereb be il predicato dell'essere o del non essere, men tre non gli deve aggiu ngere nulla chi in tende par­ lare di questo o quell'elemen to solo per sé. " Questo "taluni", qui citato, sembra accertato essere stato Antistene, discepolo di Gorgia di Leontini. Dunque gli elementi primi hanno diritto solo al nome, che serve a noi per poterne parlare, ma non possiamo dire nem­ meno che esistono. Non a caso Socrate li chiama "I primi, dirò così, elementi", a sottolineare che sono io a chiamarli elementi, ma che essi sfuggono in una nebbia evanescente. Scompaiono nel nulla. 29

Anche per gli elementi primi, atomi, quanti o altro, siamo alla soglia del mistero, dell'inconoscibile.

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Ma questa gallina è eterna?

Abbiamo detto, dunque, che noi, le galline, gli alberi e le pietre, siamo soltanto momentanee e instabili aggregazioni di un unico campo, l'universo, chiamiamolo

ciò che è.

Intanto, dovremmo renderei conto che la stessa definizione di "ciò che è" è di natura discorsiva, è una nostra attribuzio­ ne di un nome a qualcosa. Non è la natura di quel qualcosa. Il discorso di Antistene sugli elementi primi, diremmo oggi sui quanti, ci dice che possiamo ad essi solo attribuire dei nomi, per indicarli, ma non possiamo dire neppure che esi­ stono, né possiamo dare loro qualità alcuna. Ci sembra che lo stesso discorso si possa applicare anche all'universo. Di esso noi non potremmo dire che è o che non è. Lo chiamiamo "ciò che è" per comodità, per capirci quando ne parliamo. Del resto proprio Niels Bohr, uno dei fondatori della fisica quantistica, ci dice che

gli oggetti quan tistici non esiston o,

esiste solo il nostro sguardo. Non sfioriamo neppure alcun suo aspetto, né, tanto meno, sfioriamo la sua natura. La domanda, che ci viene proposta, suona: Ma "ciò che è", è o no? Sappiamo però che la domanda e le risposte hanno senso soltanto all'interno del nostro mondo linguistico. Sono ne­ cessane per m1z1are a pensare. Ma vediamo cosa succede se a quella domanda rispondia­ mo. 31

Se diciamo di no, non iniziamo neppure. Nihil. Se diciamo di sì, diciamo poi anche che questo "ciò che è" non ha il tempo, non ha lo spazio, non ha senso neppure il ritenere che esso si espanda. E invece ciò che ha tempo, spazio e anche tutte le altre spe­ cificazioni, tutte le qualità, è una rappresentazione, appunto noi, le galline, gli alberi e le pietre. E possiamo affermare che queste rappresentazioni sono effimere, nascono e muoiono, proprio perché sono nello spazio e nel tempo. Ora, c'è chi ritiene che questa affermazione sia una follia, che condurrebbe al nulla. Insomma, se riteniamo che ve­ niamo dal nulla e che tra un po' di tempo non saremo più, staremmo affermando il nichilismo assoluto. Saremmo nella situazione di chi ha risposto di no alla do­ manda iniziale. Diremmo che l'essere non è. Chi afferma questo, afferma che invece quella gallina è eter­ na, è sempre stata lì e sempre sarà lì a razzolare, perché sa­ rebbe come impressa su di una pellicola cinematografica e, quindi, noi vedremmo il suo agire e il suo morire, ma si tratterebbe di una impressione falsa. Basta riavvolgere il na­ stro ed eccola lì di nuovo, la gallina che razzola, ancora viva. La gallina è dunque eterna. Ma è eterna nel tempo? E qui il ragionamento sembra non reggere più all'urto, sem­ bra confinare con un'aporia. Se il tempo misura gli atti, il nascere, il razzolare e il dece­ dere della gallina, registrare quel tempo non modifica la sua natura di rappresentazione. E, se ha quelle qualità, nasce, razzola e muore. Né potrebbe fare altrimenti, anche se riavvolgiamo il nastro e la rivedia­ mo viva.

32

Del resto nell'esempio, il nastro, la pellicola sarebbe l'uni­ verso, ma la pellicola ha un verso che segna il tempo, ed ha lo spazio dei fotogrammi, mentre l'universo non ha tempo e spazio, non ha materia né energia. E la gallina ce li ha. Insomma, ogni cosa che è nello spazio e nel tempo, non può essere l'universo, ha natura differente.

E n on nasce, né fi n isce, n el n u lla. Nasce e fi n isce nell'un iver­ so. Una rappresen tazione che appare e scompare. Ai nostri occhi la gallina sarà un attimo colorato e splenden­ te e si spegnerà. Ma

agli occh i dell'un iverso, quella gallina è forse eterna? No,

agli occhi dell'universo la gallina non è. La gallina esiste solo ai nostri occhi, poiché anche noi siamo nel tempo e nello spazio. E, rincresce dirlo, la gallina morirà. Forse, come spesso è avvenuto, una interpretazione infon­ data di Parmenide, tratta non dal suo poema, ma dalle chio­ se di Platone, Aristotele e Teofrasto, conduce a sostenere tesi assai gracili. Il Parmenide del tutto immobile non è mai esistito. E per Parmenide l'individuo è un insieme di rappresenta­ zioni fugaci, unite dal nòos, non è qualcosa di reale. E, quin­ di, non è neppure eterno.

33

La ragione greca

La dialettica hegeliana è un atto di disonestà, dice Colli, una battuta umoristica, che nasconde i suoi fini. Una disonestà necessaria per tentare di concorrere con la scienza ormai dominante. L'occidente ora domina l'oriente proprio con la scienza, così come l'oriente dominò l'occi­ dente con il cristianesimo. Ma lo strapotere della scienza è solo l'espressione della na­ tura sorgiva della ragione greca, sin dal suo apparire, domi­ natrice. Un umorista della logica si erge contro il più grande pro­ dotto della teoresi greca. Questo tentativo produce acclamazioni ancora oggi, e scon­ quassi. Poiché ogni concetto diviene vero e falso assieme, non ci sono più fili da riannodare. Ma la scienza guarda dall'alto. La filosofia potrebbe andare di nuovo a scandagliare l'origi­ ne di quel potere oggi assoluto. Solo così essa incrinerebbe la vulgata della scienza come verità. No, la scienza ha natura ipotetica, non rassicura sul mistero. Si deve svelare la vera natura della ragione, della dialettica vivente da Parmenide a Socrate, per poter avere l'orgoglio di parlare da pari a pari con la scienza. La folgorante apparizione della ragione, nelle comunità greche del VI e V secolo ac, è un avvenimento che fonda il nostro pensare occidentale.

34

È vero

che allora si pongono le basi teoretiche del funzio­

namento del logos, ma, secondo Colli, si è oggi smarrito il carattere fondamentale di quel discorso. La ragione greca ha funzione allusiva, parla di altro. Allude a qualcosa che sta alle spalle del nostro mondo, ad un ineffabile, inconoscibile, indicibile, che è l'autentico re­ ale e che dà significato al nostro parlare ed al nostro vivere. Abbiamo perduto tutto ciò e, quindi, la ragione è rimasta senza fini, non allude più a nulla, è rimasto un guscio vuoto. Sarebbe stato necessario, una volta smarrita la finalità vera del logos, inventare un fine nuovo, ma ciò non è ancora ac­ caduto. Ci rimangono solo sterili meccanismi, dei quali Colli svela l'inconsistenza, attraverso la suprema alternativa della mo­ dalità. Il postulato di contraddizione, per Colli, è valido unica­ mente se i due termini sono l'uno necessario e l'altro con­ tingente. Solo allora è forte come roccia. Ma il pessimismo di Colli non è assoluto, non è senza spe­ ranza.

È

possibile scoprire di nuovo la ragione di quei sapienti e

di quei filosofi, ripartendo dalla avvertenza che, alle spalle dell'apparenza, sta l'ignoto. E questo si può fare, se si sgom­ bra il campo da costruzioni astratte e false, che sono vecchie di secoli e che ingombrano l'orizzonte, impedendoci di ave­ re uno sguardo limpido sull'universo. Inoltre abbiamo perduto un altro carattere fondante della ragione greca, la stretta relazione tra logos e nòos.

35

Ancora sulla ragione greca

Ognuno di noi esprime due differenti modalità di pensiero. Esprimiamo il pensiero intuitivo e quello discorsivo. Il primo è intuizione, il nòos, quando un baleno ci appare per un attimo e vediamo con chiarezza assoluta qualcosa, che in alcun modo era possibile attingere con un ragiona­ mento deduttivo. Il secondo, quello discorsivo, il logos, è la razionalità astrat­ ta, con le sue regole, la logica, che ci permette di dire e co­ municare catene di ragionamenti, deduzioni, ma anche di scrivere storie. E lo scrivere comunica poi indipendentemente dall'autore, diviene un oggetto slegato, libero, analizzabile anche dopo molto tempo. Noi possiamo leggere oggi l'epopea di Gilgamesh o il poe­ ma sulla natura di Parmenide, dopo migliaia di anni e per­ fino criticare o interpretare quegli scritti. Oggi l'intelletto intuitivo è messo in ombra, nascosto qua­ si con vergogna, per il prevalere ossessivo della razionalità astratta. L'intuizione, senza la quale nessun filosofo può neppure iniziare, è dunque oscurata, negata, messa in ridicolo. Eppure neanche il poeta, l'artista o lo scienziato possono iniziare senza di essa. Strano destino, per una potente e misteriosa qualità di ogni uomo.

36

È

necessario rivendicarla come fulcro del nostro pensare,

come anzi il carattere fondamentale, che ci distingue dalla gallina e dal computer. Il pensiero discorsivo, la ragione astratta, così possente e af­ filata, ha le sue radici proprio nel nòos, anzi neppure esiste­ rebbe senza quello, cioè senza i caratteri della nostra specie naturale. La dialettica, il confronto di opinioni e discorsi tra pari, che fu il motore del pensiero greco, è un intreccio continuo del­ le due forme di pensiero e proprio così quei colloqui diven­ tavano confronto tra uomini, non sterili giustapposizioni di proposizioni astratte ed asfittiche, senza vita. Nòos e logos si esprimevano assieme, l'uno con l'apparire inaspettato del fulmine, l'altro con il paziente costruire ca­ tegorie e sistemi, adoperando la logica, le regole del logos.

37

Logos, logica

Ma che cosa è, dunque, questa benedetta logica che, nel­ le sue diverse forme, tanto ha appassionato ed appassiona? Logica classica, logica formale, logica matematica, logica deontica, fuzzy e via e via, da dove hanno origine, chi le ha inventate? E, se qualcuno le ha inventate, qualcun altro le può modifi­ care o cancellare?

La logica è n el logos, nel discorso, nel pensiero, ed è l'insie­ me delle regole del dire, del pensare. N on c'è nessuno che abbia inventato la logica, l' abbiamo imparata apprendendo ed esprimendo i linguaggi. Ora, possiamo anche distinguere diversi tipi di logica, ma è come dire che esistono modi di parlare signorili o efficaci o scarni ed anche bruschi o volgari o poveri o confusi. Ma essi vivono tutti in quei linguaggi. Colli è un logico vero, stringente ed implacabile. Appare potente la sua lettura e sistematizzazione di poche, ed anche contraddittorie, tracce di logica modale in Aristo­ tele. Necessariamente, o necessario o contingente. Una disgiun­ zione esclusiva. E prima, sempre, l'archè. Inoltre egli si accosta anche ai Megarici, Filone, Diodoro Crono, Eubulide, che partono da Elea e da Socrate. Essi an­ nullano la distinzione tra necessario e contingente, parlan­ do solo di possibile e per Colli si tratta di una colpa grave.

38

Ma essi saltano a piè pari le interpretazioni distorte dei pen­ sieri di Parmenide e di Socrate da parte di Platone, di Ari­ stotete, la fonte poi di Teofrasto, per produrre direttamente la grande logica degli Stoici e del più grande di tutti, Crisip­ po, colui che fonda il sistema assiomatico della logica. Crisippo, secondo Sesto Empirico, stabilisce cinque assio­ mi: p�q, p dunque q p�q, rq dunque rp r (pAq), p dunque rq p v q, p dunque rq p v q, rq dunque p Qui p e q sono proposizioni, � è il "se . . . allora", rè il "non", A è la congiunzione "e", "v" è "oppure" in senso disgiuntivo. Da questo sistema egli deriva ogni ulteriore proposizione della logica. Crisippo sa di costruire lui un sistema, non ritiene di coglie­ re alcuna verità. Dunque questo è un punto molto alto di elaborazione, certamente più alto della sillogistica aristote­ lica, inoltre mal capita dalla scolastica, secondo Colli. Ma la dura e sottile critica di Colli alle tavole di verità del­ la logica formale, che sono una contraddizione in termini, trascura inopinatamente l'approccio di Crisippo e la sua implicazione stretta, che è solo sintattica e dove non hanno luogo i concetti di vero e di falso e quindi non si produce alcuna tavola di verità. Strana mancanza per Colli, un logico di grande livello. Egli afferma, sì, che vero e falso non appartengono alla lo­ gica formale, ma essi sono già dall'inizio nella ragione greca e che, quindi, l'immediatezza e il "toccare e dire" fanno di 39

quella ragione un qualcosa per sua natura integrata con la vita. Ma è proprio questa impostazione

modale,

con il

gen te originato dall'empirico, che appare fragile.

con tin­

La scienza

sarebbe dunque fondata sul contatto empirico e di lì risali­ rebbe di causa in effetto verso gli universali? No, la scienza è nòos, come l'intuizione filosofica o artistica e ciò deriva proprio dal sistema di Colli. Colli ripudia la logica formale come inconsistente, e davve­ ro essa è inconsistente, tautologica, appunto per sua origine e natura. Si tratta solo di regole del dire. Colli cita, a questo proposito, una riflessione di Godei: egli afferma che i paradossi hanno condotto Russel ad una vi­ sione del tutto sintattica della logica. Visione dunque con­ temporanea? No.

È

Crisippo a organizzare in un sistema assiomatico la

logica formale e lo fa nella convinzione che altra logica non vi sia, oltre quella delle regole del discorso. Più volte Colli ritorna sulla critica del concetto di limite matematico. Esso non appartiene ad alcuna serie.

È

fuori

dagli enti matematici. E così sia del punto, elemento senza dimensioni, che non è neppure un elemento. Ha ragione in entrambi i casi. Si rende conto però, proce­ dendo, che limite e punto assomigliano tanto al suo

tatto.

Il

con tatto di

con­

Colli è il fulcro della rappresentazione,

ma non appartiene alla rappresentazione, ne è fuori e ne è, diciamo, la condizione esterna. Nel

con tatto

non esistono

soggetto ed oggetto. Appunto. Quindi la parola cilla, come la parola

limite.

40

con tatto va­

Questa sarebbe la via d'uscita teoretica da un inciampo pos­ sente? Ma qui Colli convince in parte, forse cogliendo, nella definizione del continuo, la sua natura rappresentativa. Il continuo non è una cosa vera, una realtà, ma è un simbolo rappresentativo, uno sguardo simbolico nostro. Una gran­ de conquista, forse riconquista, teoretica. La matematica moderna, infatti, ci dice che il continuo è caratterizzato da due proprietà.

l.

tra due numeri reali ce n'è un terzo

2.

tra due classi A e B, in cui tutti i membri di A sono minori di tutti quelli di B, il punto di separazione tra esse è dato (e con esso il continuo) se si può fornire o il valore massimo di A o quello minimo di B (ipo­ tesi di Dedekind)

Ma questo per Colli non è pensabile, perché il valore massi­ mo di A è compreso in un insieme differente da B e, quindi, non può mai costituire l'anello mancante. Sarebbe dunque il contatto il dove si spezza il continuo, ma non è allora un punto, è un

nulla rappresentativo.

" Non si può domandare se la natura sia con tinua o disconti­ n ua. Tale dom anda non ha senso. Si può con cepire come ap­ paren te ogni discon tin uità, ma anche ogn i con tin uità; questo mostra che non si tra tta di fatti, m a di convenzion i sul modo di rappresen tare i fatti. " Quindi, anche per Wittgenstein, si tratta di rappresentazio­ ni convenzionali. Limite, punto, contatto, sono i fondamenti e non posso­ no che essere infondati, in ogni disciplina, così come nelle scienze e nell'intera conoscenza. Essi sono anche fuori da quelle scienze, di cui sono pilastri, assiomi. Il pensiero

occiden tale sa di essere infondato. 41

Lo mostrano Zenone e Gorgia. Noi facciamo una passeggiata tra le nuvole.

42

Alfred J arry, ad esempio

E questa passeggiata tra le nuvole viene definita, poetica­ mente, da Jarry come 'Patafisica.

La patafisica è la scienza che studia le eccezion i, la scienza delle soluzion i immaginarie, che accorda sim bolicam en te ai lin eam en ti le proprietà degli oggetti descritti per la loro vir­ tualità. La scienza usuale, nota a Jarry, era fondata sulla ricorsività dei fenomeni e Alfred nota che si tratta solo di eccezioni poco eccezionali, non di altro. Jarry gioca, scherza, per scar­ dinare un punto di vista, un paradigma positivista basato sulla induzione. E giunge ad una definizione quasi burlesca, che lascia però intravvedere una intuizione profonda del carattere di rappresentazione del mondo dinanzi ai nostri occhi. Non è questa la verità, sembra dirci questo strano folle au­ tore, essa è altrove, e la scienza ha natura simbolica, non empirica, nelle sue ipotesi. E gli oggetti della scienza hanno, per lui, carattere simboli­ co, come è stato ed è nella vera scienza. La Verità, dice Jarry, è una sola e quindi la formula della menzogna è

oo

-

l=

oo .

Le menzogne sono infinite. Può sembrare che questi riferimenti a J arry siano peregrini e fuori contesto, ma il suo sguardo feroce e giocoso assieme riesce a scardinare edifici di cartapesta, che ingombrano la visuale.

43

Certamente si tratta di un esercizio di ironia, che si mostra come strumento potente, ingiustamente negletto da tanti filosofi. Ma i tre logoi di Gorgia, ad esempio, sono un modello di ironia squassante: l.

nulla esiste

2.

se anche qualcosa esiste non possiamo conoscerla

3.

se anche possiamo conoscerla non possiamo comunicarla agli altri.

Se il primo logos è vero, e Gorgia dimostra che esso è vero, gli altri sono superflui. Ma egli prosegue assieme con gioco e violenza dialettica, per scardinare le false convinzioni dei mortali sulla capacità costruttiva della ragione.

44

Questo tavolo rotondo è quadrato

"Questo tavolo rotondo è quadrato" è una proposizione in­ sensata, nel mondo della ragione discorsiva, poiché cozza contro le regole sintattiche di quel mondo, di quel linguag­ gio. Bene, ma è sempre priva di senso, in qualsiasi mondo, in qualsiasi linguaggio? Il quesito appare futile, quasi eristico, ma esso è invece fo­ riero di aperture clamorose su sguardi differenti, su para­ digmi inaspettati. Il linguista Matteo Giulio Bartoli, neolinguista maestro di Gramsci, risponde a Croce, che considerava la frase con­ traddittoria e quindi priva di senso, inutilizzabile. Si tratta della polemica che divise neologici e neolinguisti. No, non è vero che essa sia sempre insensata, sostenevano i neolinguisti con Gramsci, esistono mondi linguistici, per dirla con Wittgenstein "giochi", nei quali quella proposizio­ ne vale, significa, indica. Se traccio nel linguaggio un confine tra ciò che ha senso e ciò che non lo ha, non so ancora come usare quel confine. Potrebbe indicare, ad esempio, una linea oltre la quale sal­ tellare giocoso. E spesso nel nostro parlare quotidiano è proprio così. Sembra quasi che io, per segnalare un non senso, distingua il discorso dal pensiero. Il non senso non corrisponde a nes­ sun pensiero. Ma discorso e pensiero sono lo stesso.

45

Addirittura ci possono essere contesti nei quali una propo­ sizione insensata può risultare preziosa, per segnalare un groviglio del pensare o altro. Ne parla diffusamente il professor Franco Lo Piparo nel li­ bro, "Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere". Dunque, attraverso Piero Sraffa, questa impostazione rag­ giunge Wittgenstein a Cambridge, in lunghi e ripetuti col­ loqui. Sraffa, insegnante a Cambridge, era un economista amico e visitatore di Gramsci in carcere e nelle cliniche.

È Wittgenstein stesso che ricorda, nella sua prefazione

alle

Ricerche, il peso decisivo dei suoi colloqui con Sraffa per la sua nuova visione del mondo. Giorgio Colli segue un'altra via, parte da premesse diffe­ renti, ma appare come consentire ad una visione, per molti versi, simile a quella del Wittgenstein delle Ricerche filo­ sofiche. Egli delinea il mondo della ragione e ne indica la fragilità, mostra come sia inconsistente la visione illumini­ sta di una ragione costitutiva ed onnipotente, una ragione astratta ed apodittica. E Colli cita, nella forma elevata di Eraclito, la "coincidentia oppositorum", proprio quel tavolo tondo quadrato, che si esprime nel contingente, quindi nel gioco.

tempo è u n fanciu llo che gioca spostando i dadi: il regn o di u n fanciu llo.

Il

Gioco di fanciulli è il mondo, quindi neppure i paradossi possono escludere come insensate alcune proposizioni dei linguaggi.

46

Cosa ha senso ?

Un simbolo è un segno con le regole per il suo uso. Il segno da solo non dice nulla, o forse può dire qualsiasi cosa. Se ad esso, però, applico le regole di uso, diciamo una sintassi, allora sì che dice qualcosa di preciso. Se ho impara­ to a usare le regole. E quel segno enigmatico acquista senso, diviene un simbo­ lo. Se invece produco un segno e lo uso contro le regole sin tat­ tiche, o con altre regole, allora sto creando un non senso, nel linguaggio originario. Nulla vieta che questo segno, che uso seguendo altre regole, acquisti un senso. Ma esso lo acquista, diciamo, in un altro mondo, in un mondo dove dominano regole differenti. In altri giochi linguistici. Ci dice Ludwig: Se io cucino senza seguire le regole della cu­ cina, cucino male. Se gioco a scacchi senza seguire le regole degli scacchi, sto giocando un altro gioco. E questo avviene perché la cucina ha uno scopo esterno, mentre il gioco degli scacchi non lo ha. Ora, i linguaggi umani discorsivi, verbali e scritti, hanno re­ gole, anzi più precisamente sono linguaggi proprio perché hanno quelle regole. N on scopi. Se desidero dare senso a segni in un altro mondo, sarebbe etico dichiarare come è fatto quest'altro mondo, quale sin­ tassi lo caratterizza, anzi lo crea. Tutto ciò appare chiaro sul piano della ragione discorsiva, ma è meno chiaro in altri linguaggi, meno formalizzati. 47

Certo più complessi sono i casi della musica, della poesia, delle immagini e di altri linguaggi e forme di espressione, ma occorre intuizione e sensibilità, per addentrarsi su quelle vie. Invece per la filosofia, che usa linguaggi alfabetici, spesso scritti, l'area del non senso è sufficientemente definita. Quando leggiamo proposizioni filosofiche, che ci appaiono insensate anche ad un più attento, benevolo esame, sareb­ be bene pensare che chi le ha prodotte non abbia chiaro, neppure tra sé e sé, il suo stesso pensiero. Possiamo solo aiutarlo a chiarirsi le idee.

Per nulla le molte parole esprim ono u n savio pensiero. (om is­ sis) Infa tti, degli uomini loquaci scioglierai le lingu e dai di­ scorsi senza fine. Questa frase è di Talete ed è riportata da Diogene Laerzio nelle Vite. Già nel VI secolo ac, quindi, c'era il problema dei chiacchieroni. I veri nemici dei veri filosofi. Quando qualche pensatore esprime proposizioni in cui non si rintraccia alcun senso, si trova però spesso qualcuno che ritiene di interpretarle, adombrando inaudite profondità, insondabili verità iniziatiche. E dichiara, o lascia suppor­ re, che soltanto chi le intende può essere ritenuto degno di merito. E così le parole frullate insieme, a volte perfino gli ossimori, divengono le vette del sapere. E sfugge, spesso, che interpretazione e cosa interpretata stanno insieme, sospese nell'aria. La prosa di Colli è chiara, anche quando descrive passag­ gi difficili ed ha assieme un potente sapore poetico, mostra una passione smodata, totale. E così è, ancor più, per la sua poesia, che indica anche l'in­ tuizione o l'attesa dell'ineffabile. 48

Più forte è la parola

Non è la spada l'arma più forte di Nike - più forte è la parola, il dardo app u n tito della città di Aten a, con cui cercò di irretirmi il giocoliere astu to di Stagira. Aristotele imbriglia con la parola, con la logica, strumenti pericolosi, addirittura mortali. Colli confessa di aver subito il fascino disseccante della ra­ gione discorsiva astratta, che sembra tutto dominare, spie­ gare, ma che invece illanguidisce la vita ed uccide la filoso­ fia. No, i giochi della sottile logica astratta, sillogistica, non sono la via. Vanno certamente conosciuti e scavati fino in fondo, per rivelarne la natura distruttiva, ma non sono essi il fondo fertile. Di più valgono il respiro unico della schiera degli amici, lo sguardo sciolto dai legami, il sorriso del dio che comanda. La vittoria attraverso la parola è cosa misera, ci rivela solo le regole di un gioco crudele, dove possiamo prevalere e poi rimanere vuoti. Colli padroneggia la logica come pochi, ne conosce la po­ tenza, a volte la usa per mostrare le paurose aporie di pen­ satori moderni, come Cartesio o Hegel, ma sa che non sta lì la verità, che egli cerca. Ma allora, dove sta Alètheia? Sta nel sorriso di un dio in­ tangibile, inconoscibile, che sorride alle spalle della vita co­ mune. E che accenna, dà segni a chi scioglie il pensiero dai legami. Qui sta il tormento. 49

Se è inconoscibile, come possiamo anche solo intravederne i bagliori? Forse non esiste una risposta a questo quesito, ma intuire quella presenza dà significato ad ogni ricerca, che altrimenti sarebbe solo gioco inutile e futile. Intuire il baratro ci salva dall'essere superflui. Colli sceglie di non abbandonare l'ascolto dei segni del mi­ stero, che si ripercuotono dinanzi ai nostri occhi. Ma sa che non potrà comprenderli, né tradurli.

50

Espressione

Tutto ciò che ci circonda è dunque espressione di qualcosa d'altro, rappresentazione per noi. In Colli la rappresentazione è l'apparenza vista come auto­ noma, l'espressione è l'apparenza considerata nel suo signi­ ficato metafisica. Risalendo da espresso ad espressione e di nuovo e di nuovo via così, infine il mondo attorno a noi è espressione di che cosa? Del dio Apollo distaccato, crudele, che colpisce da lontano e di Dioniso, che si guarda nello specchio. Un'allucinazione del dio. Per tradurre il mito antico in mito moderno, oltre la espres­ sione prima c'è l'ineffabile, l'inconoscibile, l'universo. Se è l'ineffabile, il non comprensibile, il non descrivibile, per quale motivo ci affanniamo a descriverlo, a costruire frasi su di esso? Chi parla solo di ciò di cui si può parlare, è davvero saggio. E il saggio parla di parole. Ma è davvero saggio se sa che, oltre il suo dire, c'è l'ignoto. Anzi, sa che proprio quell'ignoto, che è violenza e gioco, dà significato a tutto il nostro pensiero, nella scienza, come nella filosofia e nell'arte. E, con logica stringente, Colli ci dice che il risalire nella ca­ tena delle rappresentazioni giunge al massimo di concretez­ za, che confina con l'irrappresentabile, con il mistero. Qui, in questa convinzione, risiede il punto di partenza del­ la filosofia e, forse, anche il punto di arrivo. 51

Non esistono alternative sensate a questa visione. Chi non se ne cura, rimane al di qua della filosofia. Chi abbia tentato di andare oltre, di superare il baratro, ha prodotto sempre parole, ma parole cui non corrisponde al­ cun significato. La questione appare chiaramente a Colli, che la sfiora più volte e ci racconta anche di pensatori e di raccolte pluri­ millenarie di scritti, che hanno tentato l'intentabile. Ed egli stesso è tentato da quella via. Le Upanishad, i commenti colti ed esoterici ai Veda, sono proprio una traccia di quei tentativi. Ma Colli sa che siamo noi a creare quei miti, così importan­ ti, delle religioni e che dinanzi all'inconoscibile, di cui ogni aspetto del mondo è apparenza, la religione fa nascere

un

dio

o più dei, come a dire: "Ecco di fronte a noi quell'ignoto, che ci atterrisce, non dobbiamo ora avere più timore, eccolo". Inoltre noi siamo una specie naturale, anzi proprio su quel­ la radice di fondo, dice Colli, nasce il logos. Una delle più profonde intuizioni di Nietzsche è proprio questa e lì giunge anche la riflessione di Wittgenstein: il lo­ gos come espressione della nostra specie naturale. "Quando un animale scansa nella sua corsa un albero, gi­ randovi attorno, (omissis) quando un infante tende oppor­ tunamente la mano per afferrare qualcosa, nella conoscenza di questi individui si manifestano già le rappresentazioni, espresse dalla causalità e dall'unità, prima che il linguaggio le costituisca come categorie." Quindi, dice qui Colli, la rappresentazione è già presente in un momento prelinguistico, il principio di causa e l'unità dell'oggetto ci sono già, anche nella fiera delle selve e nel bambino infante. 52

Dalla fantasia prelinguistica, la filosofia

Sembra a Colli, dunque, che la filosofia non possa nascere senz'altro dal dominio della ragione, dei linguaggi, ma na­ sca invece dalla fantasia prelinguistica. La rottura con Wittgenstein, ma anche con Socrate, si con­ suma qui? Wittgenstein sarebbe colui che inizia da principi inconsi­ stenti e termina, ovviamente, nella sopravvalutazione del linguaggio. Ingeneroso ed anche piuttosto infondato appare questo sec­ co giudizio di Colli. "Qui ci aiuta pensare che è un comportamento primitivo curare, trattare il luogo dolente dell'altra persona (omissis) Ma che cosa vuol dire, qui, la parola "primitivo,? Certa­ mente che questo modo di comportarsi è prelinguistico: che

su di esso riposa un gioco linguistico, che è il prototipo di un modo di pensare e non il risultato del pensare. (omissis) Il nostro gioco linguistico è un'estensione del comportamen­ to primitivo. (Infatti il nostro

gioco linguistico è comporta­

mento) (Istinto). , Wittgenstein in Zettel, dunque, sembra allinearsi a Colli nel rintracciare l'origine, la base del dire, del pensare, in com­ portamenti istintivi prelinguistici. Socrate sarebbe poi l'uomo della morale e della definizione formale, l'elemento di rottura con i filosofi di Elea ed i sici­ liani, con quelli di Ionia, Efeso ed Abdera. I linguaggi, la razionalità dialettica, sarebbero già lo scadi­ mento dal contatto con l'immediato.

53

Il linguaggio mai potrà essere un arché. Qui egli cammina su di un crinale tra Upanishad, Buddha e pensiero greco. Ma, nel più recente Dopo Nietzsche, riemerge in Colli, come apice, il pensiero greco e si rimette al suo posto il pensiero orientale, come foriero di scadimento dell'uomo, come "risoluzione dettata dalla stanchezza, dal declino, dal­ la rinunzia" alla conoscenza. Come decadenza. Si tratta di una oscillazione, senza dubbio.

È

un po' come se le origini culturali riemergessero e det­

tassero un cammino, correggendo propensioni pericolose, dove ogni aspetto si confonderebbe in un tutto indistinto. In Parmenide l'individuo si forma sotto la spinta maggiore o minore del nòos, l'intelletto intuitivo, diciamo l'istinto, che unifica le

mem bra vagan ti.

Quanto più è presente il nòos, tanto più compiutamente si esprime il principium individuationis. Ed il nòos è proprio l'insieme delle capacità istintuali, pro­ prie della specie, che inducono l'animale ad evitare l'ostaco­ lo o il bambino ad afferrare l'oggetto. Qui si attribuisce al nòos l'instaurarsi del principio di causa o la nascita dell'oggetto integrato. Ci sarebbero dunque, nei comportamenti istintuali prelin­ guistici, elementi caratteristici poi del logos, del pensiero razionale dialettico.

È vero che il logos ha le sue radici proprio lì, nell'istinto, nella specie naturale, quel logos scaturisce direttamente da lì, è una capacità analoga all'abbaiare del cane o all'ululato del lupo. Intelletto discorsivo e intuizione, una continua contamina­ zione, una cosa sola. 54

Pensiero e linguaggio

Ma, soprattutto, sembra a volte che Colli trascuri l'identità di pensiero e linguaggio, cosa di cui Wittgenstein era con­ vinto, caparbiamente. Egli nota, in un passaggio, che la parola logos è la stessa che indica, per i greci, discorso razionale e pensiero. Dunque per loro era la stessa cosa. Il

linguaggio non esprime il pensiero, è il pensiero. È il pen­

siero discorsivo razionale. Ma in un capitoletto dei suoi appunti, poi intitolati "La ra­ gione errabonda", Colli parla di

Parole e pensieri.

L'uomo di fronte a me, dice, emette suoni articolati ed io mi chiedo quei suoni cosa esprimano di interiore. Quell'uo­ mo deve avere qualcosa dentro, che viene espresso con quei suoni sensati, le parole. E le parole si concatenano rispetto ad un fine comunicati­ vo, formando il discorso. E Colli sembra sostenere che tante parole assieme, con un fine, formano un linguaggio. E così non è. Sono solo le regole sintattiche a creare il linguaggio. E, congiungendo domande e risposte, sempre tese a cogliere quell'interno misterioso, a suo dire si forma una ragnatela complessa di parole e discorsi, ormai astrazioni inestricabili e del tutto staccate dalla realtà naturale. Per ciò, alla fine, nulla si scopre sulla interiorità dell'altro e l'interno sembra lo stesso dell'esterno. Qui Colli, seguendo vie diverse, giunge alla stessa conclusio­ ne cui arriva Wittgenstein e cioè che i linguaggi sono fatti 55

pubblici e che quella distinzione dentro-fuori semplicemente non esiste. Anche se penso tra me e me, lo faccio sempre in un linguag­ gio, lo stesso con cui comunico. Stessa conclusione dunque per i due filosofi, ma con un ram­ marico di Colli. Non abbiamo colto quell'interno dell'altro, purtroppo, irretiti dalla rete del logos astratto. C'è, quel dentro, ma non lo cogliamo. Non c'è nessun dentro, secondo il filosofo austriaco.

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Dentro e fuori

Dunque, sembra che per Giorgio Colli dentro e fuori, inte­ riore ed esteriore, siano differenti, ma che quella differenza sia inattingibile. Ma, in un'altra riflessione, il filosofo racconta invece che dentro o fuori dall'individuo, si tratta pur sempre di rap­ presentazioni, che si collegano in modi vari e diversi ma, per loro natura, sono lo stesso. Rappresentazioni fuori, il mondo, rappresentazioni dentro, l'individuo. Due aggregazioni di qualcosa di omogeneo, di indistinguibile. In quest'ultima riflessione la distanza con Wittgenstein si assottiglia: l'austriaco afferma che i linguaggi sono fatti pubblici, che pensare, parlare, tra sé e sé, è lo stesso che par­ lare ad altri. La differenza sta nel considerare i linguaggi come la chiave di volta del conoscere. Oppure nel vedere in essi una espressione incidentale, una rappresentazione di qualcosa che è nascosto e che è l'archè, la realtà prima.

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Idealisti e positivisti, vii razza dannata

Una assoluta povertà, una inadeguatezza teoretica e dedut­ tiva accomuna idealisti e positivisti. L'idealista, nel migliore dei casi, ci dichiara che il soggetto crea l'oggetto, e questo naturalmente non è vero, poiché si potrebbe chiedere: come nasce il soggetto? Da dove arriva? E risposta non c'è, perché si tratta, anche per il soggetto, di un in­ sieme di rappresentazioni. Se lo postuli come reale, giri a vuoto. Nasce prima l'uovo o la gallina? Nei casi peggiori, ad ovviare all'obiezione precedente, si dice che il soggetto non sarebbe un individuo (principium individuationis), ma si tratterebbe di un soggetto universale o, addirittura, di uno spirito universale. Ma da dove nascerebbe questo spirito assoluto? Sarebbe forse l'universo? Il "ciò che è, di Parmenide? In questo caso, in esso non ci sarebbero oggetti né soggetti, sarebbe il tutto. E lì ogni cosa si scioglie. Ma un soggetto o Io universale, distinto dall'universo, sa­ rebbe solo una categoria nata nel linguaggio e non potrebbe creare un bel nulla. Insomma, Parmenide racconta di tre vie: I.

La Verità,

Alètheia, che è l'universo.

Il.

Il logos di Alètheia,

diciamo i ragionamenti di Par­

menide, che hanno qualcosa di verosimile, ma non sono la verità, che è inattingibile. III.

Il logos dei mortali a due teste,

per i quali essere e

non essere sono la stessa cosa e anche no. Per questi solo disprezzo. Ignobili chiacchiere. 58

Appunto. La seconda e la terza via sono

logoi, non Verità.

Ma la versione idealistica più goffa ed infondata è quella che racconta che nell'atto sarebbe la vera realtà. L'Io universale sarebbe atto puro, atto in atto, che non tra­ monta mai nel passato e non teme il futuro. Pensiero pen­ sante, non pensiero pensato. Esso contiene spazio e tem­ po, la natura esterna in quanto pensata (da chi?) e la storia dell'Io, che è dunque sempre storia contemporanea. Ma anche qui, da dove proviene questo atto puro? Esso è l'universo, il "ciò che è" o no? Aut aut. Se l'atto puro è l'universo, esso non avrebbe bisogno di un nome nuovo, tra l'altro ingannevole. Forse sarebbe, quell' atto, prodotto da qualcosa? No, certamente no, e allora per­ ché non chiamarlo universo? Se, invece, l'atto non è l'universo, cosa sarebbe? Un qual­ cosa che produce l'universo o che ne è prodotto? Un vero pasticcio. E la scienza, dice anche lo stesso autore, sarebbe addirittura

dogm atistica poiché pretende di avere la verità, una volta per tutte. È vero l'opposto, la scienza postula la falsificabi­ lità come propria natura. Questa sciocchezza, detta da chi postula come assolutamente vero, una volta per tutte, tutto il bailamme precedente appare davvero un po' impudente. Un vero pasticcio. Ed il soggetto individuale, di fatto inesistente, dovrebbe però tendere ad unire la sua larva a quell'Io universale. Il Brahman. In sintesi, se questo Io universale mi comprende, io non sono ed esiste solo quella entità. Infine, ci chiede Wittgenstein, cosa distingue un bambino, educato da un idealista, da un bambino educato da un rea59

lista? Al comando "Vammi a prendere una sedia", in qua­ li modi differenti reagiranno? Nessuna differenza. Quindi questa diversa impostazione sarà solo un grido

di battaglia,

quando si incontra un esponente della filosofia contraria. Ma, se l'universo è il fondo intangibile, ecco che io sono l'unione di rappresentazioni e vivo dunque nel mondo delle rappresentazioni. E qui tocco, vedo, ragiono. Sono due visioni opposte, la prima conduce all'annulla­ mento del soggetto, la seconda ne vede uno snodo del co­ noscere, un nodo mobile del mondo delle rappresentazioni. Ed i positivisti che dalle cose, dai fatti della natura fanno scaturire la conoscenza, sono ciechi del tutto di fronte all'u­ niverso. Ed usano l'induzione. Ciechi. Come si spiega questa loro fede assoluta nei fatti come mae­ stri del sapere, quando essi sono tali solo perché individuati come tali? E l'albero è albero solo se lo chiamo albero. A queste due posizioni moderne, riecheggianti però l'una Orfeo e l'altra Aristotele, Colli dedica poca attenzione. Ne parla incidentalmente. Inoltre egli non avrebbe mai acco­ stato Aristotele ai positivisti, a motivo dell'ammirazione sconfinata che riservava alla eccellenza logica dello stagirita, cui attribuiva una semi celata origine della logica modale. Ma, in quei suoi accenni a due correnti del pensiero moder­ no, traspare addirittura fastidio. Per Colli la ragione è una delle eccellenze dei greci, ma non si tratta della ragione formale, bensì della ragione viva, le­ gata alla vita che prepotentemente agisce e si rivela, all'im­ mediatezza.

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Possiamo, noi adesso, inventare un mondo diverso, fanta­ stico, nel quale le regole siano tali da superare ogni impos­ sibilità ad immaginare? Sembra di no.

È

naturale pensare

che quelle poche regole, diciamo così, di base, non le abbia create nessuno, né degli dei né degli uomini, ma che sempre erano, sono e saranno. Lo sguardo di Colli va oltre, vede che c'è il baratro, l'imme­ diato, l'ineffabile, l'inconoscibile, che è il reale e che si ri­ percuote nell'apparire delle rappresentazioni del variegato e colorato mondo.

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Filosofo è chi ha il gusto dell'enigma

Questa sintetica definizione di Colli contamina due campi di ricerca, il teoretico e lo psicologico. La definizione è teoretica perché l'enigma è la veste che as­ sume il lampeggiamento del dio; non dice e non nasconde, accenna. E gli accenni hanno la forma dell'enigma. Ma è anche psicologica, poiché dice come è l'animo del filo­ sofo, quale impulso domina la sua vita. Il filosofo è sfidato dal dio a sciogliere l'enigma e si tratta di una sfida dove egli soccombe, perché i due mondi sono e restano di natura differente. Ma accogliere l'invito al combattimento intellettuale è an­ che l' unica via che può condurre a cogliere, in qualche modo, dei bagliori di verità. Ed il primo bagliore è proprio la consapevolezza del bara­ tro, che separa inesorabile gli uomini e l'universo. L'esprimersi attraverso la poesia e l'arte può sembrare un varco per quei lampeggiamenti, ma forse si tratta di un'ul­ tima illusione. Il filosofo sarà un artista di specie raffinata, perché segue sentieri insoliti ma, alla fine del percorso, dovrà ridere del suo stesso sistema. Quindi egli accetta il piano agonistico e combatte con ogni arma, ma infine si acquieta nel sorriso, contemplando i pro­ pri sforzi. Qui troviamo un esempio di questo atteggiamento, dello sguardo di Colli sul mondo e sugli uomini.

"La passion e per l'en igma, in Fermat, è u n diletto personale, 62

u n geloso appartarsi, il suo gusto non è di pavoneggiarsi con i con temporanei o con i posteri per avere risolto enigm i, ed even tualmen te godere malignamen te della loro incapacità a dipanarli, ma consiste soltan to nel gioire in solitudine di u n prezioso tesoro, svela to s i a lu i solo. " Questa notazione di Colli è del 1959 e sta nella sua prefazio­ ne alle Osservazioni su Diofanto di Pierre de Fermat, edito da Bollati Boringhieri.

È palese la sua ammirazione sconfinata per

Fermat, un ge­

nio schivo, ma soprattutto un uomo che ha il gusto dell'e­ nigma, che gioisce nell'intuire vie diverse.

È un uomo

che

gioca nel penetrare l'edificio immobile della matematica, riscoprendo la visione geometrica del numero. Percorre i misteri e non è interessato a gloriarsi dei risultati. Un vero greco. E Colli si eserciterà anche a fantasticare una via di sciogli­ mento di enigmi di Fermat, in forma di esperimento lieto, diciamo come gioco della ragione. Wittgenstein invece si chiede, su Fermat, se non si tratti di sciogliere nodi di un linguaggio, invece di tentare esperi­ menti, che in matematica non esistono. E se scegliessimo invece il teorema di Fermat come assioma? Anche qui ope­ ra il fascino dell'enigma. Forse in queste note di Colli, sulla natura e sulla vita di quel matematico, c'è il suo pensare più puro e sincero. Ma Colli non si ferma qui, a dirci di esempi eccellenti. Torna a sé stesso e si pone un ultimo quesito, ma la risposta "

non c e. Colli si chiede se anche tutto ciò che egli va scrivendo non sia un tentativo di costruire un sistema. Un vizio maledetto. Una confessione, certo, ma ironica. 63

Mi piace sciogliere nodi giocando con enigmi variopinti e arrossire del gioco

Sono versi di una poesia di Giorgio Colli. Arrossisce dunque Colli del suo gioco di sciogliere nodi di enigmi variopinti. Arrossisce come se il dio, di cui il mondo è allucinazione, lo stesse osservando in quella attività e sorridesse dei suoi inu­ tili sforzi titanici. E gli enigmi sono variopinti perché così si presenta ai nostri occhi l'illusione del mondo. Il mutamento del brillante colore è soltanto parole, dice Parmenide. "La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi della scacchiera: reggimento di un fanciullo". Questo frammento di Eraclito il sapiente, tradotto da Colli, dice lo stesso, ma è come se chi parla osservasse dall'alto, come se egli sapesse. Colli sa di non sapere e arrossisce. Tenta ugualmente di dipanare la matassa aggrovigliata, ma sa, questo sì, che si tratta di gioco, cioè una delle due prime realtà, assieme alla violenza.

È come se indicasse, in quei versi, che tutto ciò che egli scri­ ve e divulga in forma razionale discorsiva non è, in fondo, nulla di davvero serio. Quando egli ci racconta di ipotesi sui primi attimi, sui con­ tatti iniziali con l'immediato, sta giocando, con sé stesso e con nm. Il gioco assume la veste dell'enigma e noi non abbiamo le forze per dipanarlo. 64

Eraclito

Un filosofo classico, presocratico, che ha sempre uno sguar­ do dall'alto sul mondo degli uomini. Eraclito ebbe, perfino per i suoi contemporanei, una certa sfuggente aura di mi­ stero. Eraclito è il più nobile degli Efesii, sdegnoso verso i suoi concittadini sciocchi, che non sopportano chi è migliore di loro, come Ermodoro, esiliato dalla città. Si isola fuori della città e lascia i suoi scritti enigmatici in custodia al tempio di Artemide. Ultima sfida del sapiente ai suoi contemporanei e, oggi, an­ che a noi. Colli muore riverso su di un frammento di Eraclito, mentre completa le note al terzo volume della Sapienza greca. Eraclito esercita, con i suoi enigmi, una attrazione potente su Colli, che accetta la sfida di decifrarli. E sembra che Colli sia il filosofo che meglio ha penetrato il mistero di Eraclito. Egli ne dà una interpretazione anomala, come quasi sem­ pre, leggendo i frammenti direttamente e non interpretan­ do le interpretazioni, come tanti fanno. Rifiuta la strada già tracciata, che vede Eraclito come il pen­ satore del movimento, del mutamento, in contrapposizione a Parmenide con il suo tutto immobile e pietrificato. False entrambe. Egli legge, nei frammenti dell'efesio, ripetuti riferimenti a Orfeo, ai riti di Dioniso e al suo specchio, ad Apollo, ma forse riconducibili tutti ad una sapienza più antica. 65

Ma del resto l'Orfismo origina proprio dal pensiero orienta­ le, dai Veda e poi dai Vedànta, Upanishad. Tutte le divinità dell'Orfismo e i miti su di esse originano da lì. E Colli individua, in una nota, anche un preciso rife­ rimento all' Atman. Si può citare, soltanto come esempio, lo specchio di Dioni­ so, in cui il dio vede sé stesso come individualità, Atman, e assieme, vede il mondo, il molteplice, come allucinazione. Noi siamo l'allucinazione del dio.

Atm an e Brahman, Sé e Dio. Essi sono una unica realtà spi­ rituale. Il mondo appare una realtà empirica, molteplice nello spa­ zio e nel tempo, ma tutto ciò è soltanto frutto di un errore. Un continuo mutamento irreale, una illusione, conseguen­ za di uno sguardo miope. Convinzione questa sempre presente nel pensiero di Colli, si può definire un assioma iniziale, assieme al mondo come espressione, rappresentazione per noi. Anzi, si può dire che le due affermazioni sono strettamente legate e sono anche convinzioni dei greci antichi, per i quali l'universo è la vera e sola physis e tempo e spazio non hanno una realtà autentica. Tempo e spazio sono elementi della rappresentazione colorata che chiamiamo realtà e che non lo è. Ma il fascino, che questo pensatore esercita su di lui, è spie­ gabile anche con la sensazione che egli parli come chi ha vi­ sto qualche bagliore, qualche lampeggiamento della Verità. Egli tenta di rappresentare queste visioni attraverso l'enig­ ma.

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E gli scritti di Colli su di essi sono, a loro volta, degli enigmi per nm. Non si può entrare due volte nello stesso fiume, dice Era­ clito, e questa espressione viene spesso interpretata come il simbolo del mutamento, Eraclito sarebbe il filosofo del tutto scorre. Ma qui egli ci dice che non è possibile ritenere reale quel fiume e ci accenna la Verità. Dietro quel fiume c'è altro, l'ignoto, e solo una momenta­ nea rappresentazione per i nostri occhi ci fa ritenere con­ creto quel fiume. La seconda rappresentazione di un fiume sarà necessariamente un'altra, anch'essa non reale, ma dif­ ferente. Giusto.

Guardare il .fiume ch 'è di tempo e acq ua e ricordare che anche il tempo è u n fi u m e, saper che ci perdiamo come il .fiume e che passano i volti come l'acqua. (omissis) È anch e come il .fiume in termin abile che passa e resta e riflette u n o stesso Eraclito in costan te, che è lo stesso e u n altro, com e il .fiume in term inabile. In questi versi Borges guarda il frammento di Eraclito con gli stessi occhi di Colli. Questa coincidenza di sguardo nei due autori è evidente. Ma è anche sorprendente, poiché Borges è un poeta curio­ so di filosofia, mentre Colli è un filosofo, che scrive anche poesie. Forse le due espressioni, filosofia e poesia, non sono poi così distanti.

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Ma la monca interpretazione del frammento eracliteo sul

sole ch e ha la dim ensione di u n piede umano,

da parte di

Colli, suggerisce un nuovo enigma, una sfida. Banalità o enigma? Chissà se Colli non ci abbia voluto lasciare alcuni passi da decrittare da soli .

È probabile.

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Ma Eraclito dice anche

mondo di fro n te a noi - il m edesimo per tu tti i m ondi non lo fece nessu no degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre viven te, che divampa secondo mi­ sure e si spegne secondo m isure. " "Il

Sì, viene ricordato raramente e, quando è citato, si annette a questo frammento una importanza secondaria. Né un dio, né un uomo, fecero il mondo, esso è. Qui Eraclito parla dell'Universo, del "ciò che è", non delle apparenze multicolori e mobili, che ci appaiono come vere e non lo sono. E l'Universo comprende tutti i mondi, infiniti mondi. Questo sguardo di un uomo di Efeso è lo stesso di tutti i filosofi classici fino a Socrate. Ed è anche quello di Colli. Da qui tutto il pensiero filosofi­ co non può che essere libero e assai faticoso. Il rigore nella ricerca è indispensabile, è insito nel tentativo di conoscere. "L'incontro con Giorgio Colli non era di quelli che potesse­ ro lasciare altri spazi : erano in gioco delle scelte fondamen­ tali di vita. Mi risolsi, e un giorno gli dissi semplicemente che avevo deciso di diventare cristiano, una scelta che sa­ pevo significare per lui inequivocabilmente debolezza. Non ho conosciuto nessun uomo interiormente più libero di Giorgio Colli, e riconosco in lui, nella sua fascinosa intel­ ligenza e aristocratica immobilità, uno di quei maestri rari e preziosi che, per chi abbia la fortuna di incontrarli al mo­ mento giusto, diventano un punto di riferimento e aiutano a crescere nella libertà."

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Queste parole di un suo allievo non danno luogo a frainten­ dimenti, per Colli quella scelta era una resa perché, come egli ha scritto, "Il popolo

è quella cosa che crea gli dei".

L'allievo lesse, nello sguardo del maestro, una fugace disil­ lusione. Ma il maestro non commentò, né tentò in alcun modo di dissuaderlo. Ciascuno di noi è padrone e responsabile delle proprie de­ cisioni.

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Il filosofo è solo sul cuor della terra

Il filosofo oggi è solo, non ha interlocutori viventi, ha solo i libri. Dice Colli. Ed allora egli ha la necessità di inventare interlocutori, per poter simulare la dialettica vera, quella dei greci. E diventa così un commediante e un attore con molte par­ ti da recitare. O, anche, è uno che gioca a scacchi da solo, facendo mosse ardite e rispondendo a quelle con sapienza. Ma così non gioca un vero gioco, non partecipa davvero ad una discussione sensata, perché è sempre lui a parlare o a muovere. Tale è la condizione del pensatore, anche se egli vive tra al­ tri uomini vivi, ma chi è interessato ai suoi sottili contorci­ menti linguistici? Altra situazione è quella della scienza, dove la nuova ipotesi del ricercatore, la sua nuova regola per formare proposi­ zioni, una volta formalizzata viene sottoposta alla comunità degli studiosi, in modo da essere sottoposta agli attacchi di tutti per essere falsificata. Anche se in modo indiretto, dunque, la scienza ha una co­ munità, dove le regole sono certe e quando le proposizioni nate da un'ipotesi venissero falsificate, si sarebbe comunque fatto un passo avanti, si sarebbe esclusa una via. Perché per la filosofia non potrebbe avvenire lo stesso? Per­ ché non potrebbe esistere una comunità di uomini pensan­ ti, con regole chiare? Forse perché quelle regole non potrebbero essere se non quelle della logica, le regole del logos, dei linguaggi. E c'è chi

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le contesta, chi sostiene che, ad esempio, il divenire sarebbe la sintesi di essere e nulla, come se l'essere fosse qualcosa di reale e così fosse del nulla. Diventerebbe, questa, una comunità? Certamente no, sa­ rebbe una arena di ciance gettate lì per fare spettacolo, per avere notorietà con il lancio di nuovi inauditi ossimori. La via, l'unica possibile, sarebbe quella di avere colloqui tra pensatori seri, non commedianti, ognuno singolo, che però possano confrontare opinioni, ipotesi, con animo leggero e mente libera, come avviene per la scienza. La speranza è questa.

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Se Einstein professa una fede

Parlando di scienziati Nietzsche scrive:

"Costoro tu ttavia, non appena volessero in tratten ersi sulla loro fede invece che sulle loro conoscenze scien tifiche, passe­ reb bero in m alo m odo i loro confi n i" . E Colli commenta: " Questo, nel nostro tempo, per le pro­ fessioni di fede di Einstein". Dunque, quali sarebbero, secondo Colli, le professioni di fede di Einstein? Einstein sentiva la necessità incombente di una qualche fondazione metafisica del suo pensare scientifico. Anzi que­ sta urgenza era sempre presente nella sua ricerca, fino dalla sua origine e fino alla fine dei suoi giorni. Dichiarava di vedere in Spinoza il suo filosofo di riferimen­ to, ma era disposto ad ammettere una sua filiazione da Par­ menide, quando Popper lo sollecitava in quella direzione, anche se sulla base di una interpretazione inesatta. In ogni caso la sua ricerca cosmologica aveva origine e na­ tura metafisica, sempre. Il sentimento del mistero, l'avvertenza dell'insondabile, erano costantemente davanti ai suoi occhi, erano l'elemen­ to di fondo della sua vita e del suo sentire. Ma per quale strano motivo la filosofia dovrebbe sentirsi minacciata da Galileo o da Einstein, anziché rallegrarsi di una compagnia tanto degna?

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Essi cercano ed i loro arnesi di lavoro sono gli stessi dei fi­ losofi, di quelli veri, che sempre si chiedono il perché del mondo, si chiedono come interpretarlo, come sciogliere gli enigmi che esso pone. Come avvenne per i filosofi classici, essi non sono guidati da dogmi di nessun tipo, si muovono proteggendo gelosa­ mente la loro libertà di indagine, adoperano la logica, il loro intelletto discorsivo. Avvertono il baratro che è alle spalle dell'apparire e ipotizzano una metafisica fondante, coscien­ ti però di non poter fondare un bel nulla davvero, ma di navigare sempre in un mare ignoto, senza stella polare. Gli scienziati veri sono, insomma, nostri fratelli.

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L'occidente e l'oriente

È la ragione che ha prodo tto il più grande strumen to di domi­ nazione sull'uman ità: la scienza. La scienza, con il suo brac­ cio secolare, la tecn ica, ha u n ifica to tu tto il mondo umano (omissis). Le religion i orien tali, che col cristianesim o aveva­ no dominato l'occiden te, son o rimaste indifese e sopraffa tte dalla scienza (om issis). Con tro la scienza e il suo prepo tere, oggi, non c'è altro da fare che ritorn are alla sua origine greca e smascherarla n ella sua duplicità, cioè in q uello che è stato il suo raggiungim en to teoretico e nella posteriore falsificazione pratico-pedagogica di Platone e Aristo tele, che ha gettato il primo sem e, poi rinato, co n u n 'u lteriore degenerazione, nella ragion e moderna. In questo brano lucido e duro, Colli indica una dicotomia nella scienza: da un lato la sua origine teoretica, dall'altro le degenerazioni indotte da Platone e Aristotele. Un orfico tormentato e un empirista, aggiungiamo noi. L'origine della scienza è nell'affermarsi prepotente della ra­ gione greca e nell'avvertenza dell'ignoto. Smascherare le falsificazioni successive è indispensabile per ricondurla alla sua vera natura. Fin qui Colli. Ma, se siamo invece convinti che l' origine teoretica del­ la scienza sia la frattura tra parole e cose, tra frasi e fatti, tra linguaggi e mondi, allora smascherare le falsificazioni significa tornare a quella avvertenza sorgiva e distruggere la strana convinzione, oggi dominante, che la scienza dica cose certe, che sveli la vera natura delle cose.

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Questo mito disastroso conduce al rinsecchirsi delle sue ra­ dici, alla morte dell'invenzione e all'abbandono dell'ignoto. I greci amavano contestare i loro maestri e i maestri ne gioivano. Nell'oriente il maestro era solo venerato, le sue dottrine ripetute e trasmesse sempre uguali, producendo l'immobilità. Ma qui da noi si

po teva, si doveva contestare

il maestro, proprio perché si sapeva che il procedere della nostra conoscenza era un viaggio nel mistero, anche per il sapiente caposcuola. Non si fa scienza se non si ha la sfacciataggine di gridare che il re è nudo, senza timore alcuno di essere messi da parte o ridicolizzati. La scienza è spudorata e, perciò, produce ipotesi sempre ar­ dite.

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La scienza

E la scienza, adesso, ci racconta che l'universo non è mate­ ria, non è energia, ma è ciò che sta alle spalle di materia ed energia. E di ciò non si può parlare. Il pensiero filosofico aveva penetrato questa visione già nel VI e V secolo ac e quando Colli ci racconta che il Mondo è rappresentazione, non sta producendo una visuale idealisti­ ca, quella sciocchezza in cui il soggetto crea l'oggetto. O altre amenità simili. Egli offre una descrizione assolutamente realistica di come davvero stanno le cose, descrizione che la scienza oggi rie­ cheggia. Il nostro mondo di colori, movimenti, passioni e tormenti è soltanto un pallido riflesso, una rappresentazione, di ciò che è nascosto, di cui tutto il visibile è maschera. E la rappresentazione è ricordo. Siamo figli delle stelle, davvero, dice la scienza, siamo tem­ poranei aggregati di polvere di stelle. La vita, il mondo vicino a noi, è un fugace, variopinto atti­ mo, come del resto lo è anche ciascuno di noi. Neppure lo spazio è più qualcosa di reale, di certo, di stabi­ le, come già sapevano qualche millennio or sono. Lo spazio non è.

È bene che si sia riconquistata questa verità. Ma ora la singolar tenzone tra scienza, filosofia ed arte non appare davvero insensata?

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E se il nostro sguardo, il nostro pensiero, è davvero limpido, la filosofia riprende vita, guida il nostro discorso e guida anche il discorso dello scienziato e dell'artista. Qui non appare comprensibile l'avversione, talora il dileg­ gio, con cui Colli tratta la scienza. Sarebbe dunque essa il risultato del prevalere dell'utile, la stessa cosa della tecnica? Difficile sostenerlo, anche se tanti epigoni di Heidegger o di Hegel lo vanno ripetendo. Questi a:ffabulatori tacciono sul fatto che le nature di scien­ za e di tecnica sono assolutamente diverse ed addirittura estranee l'una all'altra. Vivono in mondi differenti. La scienza è ipotesi, invenzione, creatività, è l'ardito tenta­ tivo di intravedere una via di ricerca nell'universo del caos. Via gracile e provvisoria sempre, per definizione, e mai fi­ nalizzata all'utile. La tecnica è un risultato utile della scoperta scientifica. Essa sì è finalizzata, non la scienza. Ma le teorie di Einstein non sono forse cosmologie, come quelle di Talete e di Parmenide? E le teorie quantistiche non propongono forse una cosmo­ logia per alcuni versi affine all'atomismo di Leucippo e De­ mocrito, con qualche influenza euclidea? La conoscenza parte da intuizioni ed è dunque deduttiva, è costretta ad esserlo se vuole cercare. La conoscenza induttiva non è mai esistita e Colli sembra af­ fermarlo, quando dice che ogni rappresentazione è ricordo di un contatto passato.

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Induzione

Ma qualche cenno alla conoscenza come induzione fa a vol­ te capolino nei suoi scritti. Défaillance o gioco? "Attraverso una serie di oggetti integrati si giunge all'uni­ versale - è il processo chiamato induzione - lasciando cade­ re ogni volta qualcosa (quando nell'oggetto aggregato ogni nesso concorreva a formare il tutto), sinchè si riconosce un oggetto semplice, identicamente ripetuto in ogni termine della serie". Così Colli. Così si forma l'universale, per induzione? Ma come riconoscere che l'oggetto, quell'oggetto semplice, spoglio, è identicamente ripetuto? C'è forse l'idea di quell'oggetto, una qualche forma di idea platonica? Ma Platone aveva già affidato a Parmenide la distruzione della sua stessa teoria, nel dialogo a lui intitolato, con l'ar­ gomento poi detto del terzo uomo.

E Parmenide venerando e terribile si riaffaccia qui dinanzi a Colli, sgretolando questa sua elaborazione, del resto non solo secondaria nella costruzione di tutta la sua filosofia, ma violentemente contraddittoria con essa. L'induzione semplicemente non esiste, non può esistere, proprio a motivo di tutta l'impostazione di Colli.

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Infatti ogni cosa, da noi individuata come distinta dalle al­ tre, sarà di natura assai diversa da come ci appare e, forse, non sarà neppure distinta dalle altre, non sarà neppure una cosa. E inoltre chi conosce cosa? E, se così è, dove si fonda l'induzione? Quando scrisse quelle righe, forse gli mancava un amico che lo trattasse con la durezza che meritava, come grande filosofo.

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La figlia uccide la madre?

La scienza è figlia della filosofia. E poi l'illuminismo ne tessé le lodi, portandola sul trono. Il trionfo della ragione. Ma ecco che questa figlia, tanto amata e stimata, prosegue la sua vita senza curarsi della sua origine. Anzi, guarda alla filosofia con fastidio, come ad una attività Iudica, un diver­ timento, un giochino futile. E allora, dice Colli, la filosofia reagisce o con le trame esan­ gui di Kant o, peggio, con la sofistica deteriore di Hegel, Fichte e compagni, che squassano ogni capacità conoscitiva dell'uomo. Un po' come chi sta perdendo una partita a carte e, allora, getta tutto per aria. Non ci gioco più. Ma anche Colli mostra una inattesa diffidenza verso la scienza, come se non si trattasse di una attività conoscitiva. A volte trapela il disprezzo. E se invece di una figlia, la scienza fosse una sorella, come anche l'arte? Se Alètheia è l'universo, il "ciò che è", lo scienziato indaga per ipotesi i rapporti tra fatti, oggetti, e rappresentazioni, che si formano in quel tutto. Non indaga il tutto, anche se la tentazione è forte. Cerca di comprendere, di trovare una fragile via nel buio del mondo. E poi sottopone quelle ardite ipotesi alla critica ed alle spe­ rimentazioni degli altri scienziati. E ne accetta il verdetto. Una vera dialettica nell'agorà. 81

Anche le ipotesi cosmologiche e cosmogoniche, le più gene­ rali, vengono esaminate e poi contraddette. Tutto ciò ha permesso alla scienza di trovare, in alcune epo­ che, un cammino bello e luminoso, che ha portato ad una visione assai simile a quella dei filosofi classici. Ora anche la scienza sa che l'ignoto, il mistero è la vera na­ tura dell'Universo. Adesso per la scienza il vuoto non esiste più, tutto l'universo è un totale campo elettrodinamico, qualsiasi cosa significhi. E questo campo si acquieta, in attimi di fugaci rappresenta­ zioni. Attimi nostri, occhi nostri. Forse la confusione, che imprigiona tanti, ha la sua origine nella disperazione, nata dalla ricerca della vera essenza delle cose. Si pensa di star esaminando oggetti e ci si comporta come chi volesse trovare la vera essenza del carciofo. Si procede a togliere foglia dopo foglia, per eliminare il superfluo e ci si ritrova, alla fine del procedimento filosofico, senza essenza prima e senza carciofo. Quando invece si guarda il tutto come un unico campo elettrodinamico, dove noi, le galline, gli alberi e le pietre, siamo soltanto momentanee e instabili aggregazioni di quel campo, ebbene quello sguardo è assai simile al nostro, non è un'altra cosa e, soprattutto, non è la tecnica. Come si può dunque guardare l'universo se non attraverso le sue momentanee aggregazioni nel tempo? Ed esaminando quelle aggregazioni, quegli istanti mobili e luminosi, inventiamo delle ipotesi cosmologiche e, addirit­ tura, cosmogoniche. Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo. 82

Misticismo ed esoterismo

Quando la civiltà si sgretola, la filosofia e la scienza precipi­ tano e rarte si illanguidisce, appare r esoterico. Alla fine del III secolo ac, dalla chimica, non più compresa, emerge ralchimia, dall' astronomia rastrologia, dalla fisica la catalogazione dei sassi colorati e degli animali. La com­ pleta decadenza. E inoltre, quando parlano di esoterico, non alludono alla trasmissione del sapere all'interno di una scuola filosofica, ma ad un sapere indicibile, divino, misterico. Di Aristotele conosciamo l'esoterico, ciò che era destinato agli allievi, e non si tratta di nulla di misterico. Un inganno lessicale. Una dura disciplina è necessaria per fare un solo, piccolo passo avanti nella conoscenza. Ma sembra, in alcune epoche, che se ne possa finalmente fare a meno. Anche oggi per molti è il tempo dell'esoterico, del vago, dei misteri che solo pochi conoscono. Ma questi misteri, non appena si definiscono, si rivelano per qualcosa di meno delle parole crociate, dei flatus vocis, ma ba­ sta sussurrarli con aria complice, lasciando intendere ben altro. Una rappresentazione comica, se non fosse per le terribili conseguenze che può provocare. Persino Platone, che dichiara i suoi stessi dialoghi cose non serie, lascia capire che solo a pochi e solo a voce, egli po­ trà rivelare la verità ultima, di cui nessuno davvero ha mai scritto, neppure lui. Ma in realtà Platone sa che Parmenide ha ragione, lo scrive 83

nel dialogo omonimo, ma in lui non è dominante il distacco teoretico, preferisce la fama. E quest' uomo è uno dei miti dei mistici e degli esoterici, per il suo mondo delle idee e per metempsicosi e anamnesi, prese dall'orfismo, forse attraverso Pitagora.

"Platone in quegli an n i si è incon trato coi pitagorici ed ha appreso da loro i « miti italici e siculi » (com e dire di Pitagora e di Empedocle. quest'ultim o menzionato anche nel Meno ne, l'altro dialogo dedicato alla retorica gorgiana). Si tratta proprio dei miti sull'A de rifi u ta ti (dal Socrate stori­ co) n ell'Apologia ; m a ai sapien ti» (certamen te gli stessi) vie­ ne a ttribuito il concetto (reperibile in effetti in un testo cro to­ niate attribuito a Pitagora, il cosiddetto «secondo discorso al Senato ») che l'idea di cosmo, di ordin e, si estende all'u n iverso perché l'un iverso ha leggi sim ili a quelle umane. riavvicinam en to tra i temi politici e i m iti dell'oltretomba diven ta esplicito. " Antonio Capizzi.

Il

E poi i suoi lontani seguaci Plotino, Porfirio e Proclo, veg­ genti orfici senza serietà e senza pudore. Ma qui siamo ormai nella decadenza più assoluta. Proclo non comprende più neppure la differenza tra fatti del mondo ed enti teorici. Il buio. Forse, questi signori possono accampare delle scuse. Ma Platone non ha scuse, è stato allievo del grande Socrate, ha letto di Parmenide, Zenone, Melisso, Gorgia, Empedo­ cle, Eraclito, Leucippo, Democrito e Protagora, più di quan­ to possiamo leggere noi. Non può e non deve essere scusato. Né si deve scusare oggi il Tao della fisica. No, ora basta. Ma queste teorie religiose, da dove originano? 84

Orfeo

Orfeo poeta, musico e mistico, sarebbe databile tra il VII ed il VI secolo ac e sarebbe originario della Tracia. Altre inter­ pretazioni ne fanno un greco missionario in Tracia. La versione più credibile riconduce alla colonizzazione gre­ ca dell'area del Mar Nero, dove i greci vennero a contatto con i miti ed i riti orientali, soprattutto sciiti, medi, persiani, che riecheggiavano quelli dei Veda e forse del quasi con­ temporaneo Buddha. Si tratta dunque di dottrine orientali e si comprende bene perché Diogene Laerzio si scagli contro chi sostiene un' ori­ gine barbara, orientale, della filosofia. Se così fosse, la filoso­ fia greca sarebbe niente altro che una ripetizione di sistemi religiosi nati altrove. E così non è. La frattura con i canoni orientali, che il pensiero greco clas­ sico produce, è inaudito, inaspettato, e totale ed è alla base di tutto il nostro pensiero occidentale. Solo come esempio, si può citare la logica, la convinzione che il nostro pensiero è infondato, la frattura tra parola e cosa, il disprezzo dell'uso dei sensi per conoscere, l'assenza di dualismo tra anima e corpo, tra mente e corpo. Questo dualismo non ha luogo in Parmenide, né in nessun altro esponente della grande filosofia. E sappiamo quali e quanti prodotti avvelenati quel duali­ smo abbia introdotto. Antonio Capizzi, nella sua opera La Repubblica cosmica, del 1982, racconta esattamente, con la sua penetrante capa-

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cità di filologo, che tale frattura è evidente anche tra Socrate e Platone, il primo estraneo ai miti pitagorici di origine or­ fica ed il secondo immerso in essi e loro propalatore. "Anche nel Fedro la presa di distanza è trasparente: Socra­ te (proprio lui, il Socrate storico, data la formula iterativa che introduce il passo) ribadisce il proprio disinteresse per i miti tradizionali , ma poi il Socrate portavoce di Platone costruisce ben due miti, che nuovamente occupano la parte maggiore e centrale del dialogo. Il primo detto a capo coperto per la vergogna, in quanto la tesi che sostiene (che bisogna amare chi non ci ama) non è evidentemente condivisa da Platone ; il secondo, che fa da ritrattazione, palinodia, al primo e che pertanto viene narrato a viso scoperto per indicare che il suo contenuto è pensiero platonico genuino, dedicato ancora una volta (at­ traverso l'immagine del cocchio e dei due cavalli) alla dot­ trina pitagorica dell'oltretomba. Il riavvicinamento del Pedone tra filosofia e poesia è ribadi­ to nel Fedro là dove si dice che Calliope e Urania ascoltano chi filosofa perché onora la musica a loro cara; e il dialogo si conclude sull'asserzione che è meglio «giocare coi discor­ si componendo miti» sulle virtù che scrivere esercitazioni retoriche."

Quindi le ciance dei poeti e dei mistici con tro la ragione (omissis) dim ostrano u na esplorazione insufficien te della vita (om issis) senza con tare che spesso sono analoghe al di­ scorso della volpe che non poteva raggiu ngere l'u va, cioè son o segni di impotenza. Del resto oltre a questo, anche in un altro passo, Colli dice che anche l'estasi di Plotino e di Bhome è solo una rappre­ sentazione, non svela proprio nulla.

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E il logos greco ha radici profonde nella vita, non è la razio­ nalità astratta e dogmatica degli illuministi. Colli sa che esiste il mistico, in un senso analogo a Wittgen­ stein, cioè esiste ciò che non si può comprendere, che è alle spalle del mondo multicolore. E sa anche che, tra mondo e inconoscibile, c'è il baratro, il chorismòs.

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Passato e ricordo

È sempre nel passato che si rintraccia il senso di ogni istante conoscitivo attuale. Ed all'inizio l'accento va posto, dice Colli, sull'oggetto, anzi sugli oggetti come rappresentazioni integrate, non sul sog­ getto, che è un magma evanescente. Ed è a sua volta oggetto per un altro soggetto. Tutta la cultura moderna punta le sue carte sul soggetto, quasi a farne un ché di assoluto, di reale. Addirittura questa grave deviazione teoretica giunge all'i­ dealismo, dove il soggetto crea il mondo. Ed anche se chia­ mo questo soggetto "trascendentale", qualsiasi cosa signifi­ chi, l'assurdo rimane ben visibile e non lo vede solo chi non vuole vederlo. No, ribadisce Colli, soggetto ed oggetto sono entrambi rap­ presentazioni, esistono assieme o non esistono affatto. Qui siamo con lui, anche se un dubbio rimane. Chi è, cosa è, ciò che attinge al passato, al ricordo, se il sog­ getto è evanescente? Come nella sua critica alla volontà di potenza. Egli torna più e più volte su questo nodo, né sembra che lo sciolga. Chiede aiuto allora a Parmenide: "Qualcosa di concatenato è ciò da cui comincio: colà infatti ritornerò di nuovo". La circolarità del conoscere accenna a qualcosa che è oltre, che è il fondo abissale. Ma sembra che il dubbio rimanga ancora.

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Un dubbio corrosivo, che può rischiare di farci ripiombare nelle distorsioni moderne. Forse possiamo pensare che, se soggetto ed oggetto nascono assieme perché un oggetto è tale per un soggetto, essi nasca­ no attimo per attimo da sempre, perché Alètheia, la Verità, l'Universo, li crea da sempre assieme e li muta tumultuo­ samente e li cancella. Attimo per attimo, perché queste reti di rappresentazioni sono comunque nel tempo, anzi sono proprio esse il sorgere e la misura del tempo e dei muta­ menti. Inoltre un soggetto non tocca un solo oggetto, ma innume­ revoli e un oggetto è tale per innumerevoli soggetti, quindi, la nascita sincrona non regge nella forma proposta. La cop­ pia vacilla. In ogni caso ritroviamo qui forse una eco chiara nelle teo­ rie della fisica, dove il tempo esiste solo in rapporto con un dato sistema di riferimento, anzi esso è un elemento di quel sistema. Noi ci limitiamo a guardare o studiare le rappresentazioni, i rapporti tra esse, la trama fitta di ciò che viene ritenuto reale. Ma, non appena ci poniamo una domanda in più, quella trama si mostra gracile. Così un oggetto nero, ad una indagine appena meno che istintiva, risulterà pieno di ogni colore, poiché li ha accetta­ ti, assorbiti tutti, e non ne riflette alcuno. Il nero è luminoso e coloratissimo. E, scoperto questo primo inganno, si può chiedere: Questo colore cosa è? La luce, da cui esso origina, ha frequenze on­ dulatorie diverse e ad ogni frequenza appare un colore.

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Ma allora anche il colore non è un colore.

È una particolare

frequenza di onde elettromagnetiche. E ancora, quella luce cosa è? Onda o corpuscolo? E si può continuare ancora e ancora, a chiedere, a scavare, a fare passi indietro, fino al limite del conoscibile, fino a ipo­ tesi metafisiche fondanti. Tanto fragile è la trama del nostro conoscere, tanto evane­ scente, che ogni tentativo di ricerca dello scienziato, o del pensatore, ci appare come uno sforzo eroico. Ed anche noi siamo qui, oggi, a percorrere le stesse vie già battute nei secoli, cercando di sciogliere gli stessi nodi. Ma non molliamo, non ci acquietiamo in una contempla­ zione apatica del mistero, noi tentiamo e tentiamo ancora, produciamo punti di vista, sistemi assiomatici, confutazio­ ni delle ipotesi. E non esiste gioia più grande del cercare e del conoscere, anche quando sommiamo errore ad errore. Siamo fatti così, una spec1e cunosa. .

.

Anche l'artista ed il filosofo, come lo scienziato, conoscono lo strazio e la gioia della ricerca, fino ai concetti estremi, quelli del continuo e del discreto, dell'infinito e del finito.

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Finito ed infinito

''Alle suddette categorie della quan tità il soggetto aggiu nge la categoria dell'infinità, sperim en tando la n atura aperta del tempo e il ripetersi senza lim iti delle rappresen tazion i m n e­ moniche di co n tatti, sempre n uove n ell'esperienza (omissis). Tale categoria, ch e dal p u n to di vista dell'esperienza si pone come ca tegoria dell'indefinito, vien e in tesa dalla conoscenza umana com e ca tegoria dell'infin ito (omissis). " Qui leggiamo una descrizione sull'origine conoscitiva dell'infinito, la sola dichiarazione autonoma di Colli su que­ sto argomento. Altre sue riflessioni sul tema sono commen­ ti a filosofi classici. E si dice che il concetto di infinito nasce dall'esperienza, sperimentando la natura aperta del tempo ed il ripetersi di rappresentazioni, appunto, nell'esperienza. Insomma se ne fa, in qualche modo, un prodotto di espe­ rienza ed induzione. Ma l'infinito non è il ripetersi di rappresentazioni, una serie di cui non si vede la fine.

L 'infinito è una regola

non è un numero, neppure molto

molto grande. Ad esempio noi diciamo " + l" e questa regola produce la serie dei numeri naturali. Serie potenzialmente infinita perché sempre possiamo ap­ plicare la regola, ma che produce risultati sempre finiti. Cia­ scun risultato è quel risultato. Noi impariamo ad applicare quella regola, veniamo adde­ strati ad applicarla in un certo modo.

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Poi c'è quello che viene chiamato infinito attuale, cioè un infinito che viene trattato come un elemento di una col­ lezione infinita e, quindi, su di esso sarebbe possibile fare operazioni e collegamenti biunivoci con altri infiniti. Ebbe­ ne, neppure questo fantasioso personaggio presenta nulla di misterioso. Insomma non si tratta mai di mistero, né metafisico, né em­ pirico. Sono sempre regole. Una occasione perduta da Colli per ricollegare al suo ap­ proccio filosofico un concetto importante e decisivo. Ma, su questa questione, avrebbe potuto fare anche tesoro del pensiero di Galileo.

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Galileo

Galileo introduce una notazione sull'infinito, che egli mo­ stra essere valida per le figure solide, per le superfici, per le linee. E anche per i numeri naturali. Non sembra questo il luogo per riprodurre tutte le dimo­ strazioni di Galileo, ma esse si trovano in

Discorsi e dimo­ strazion i matem atiche attorno a due n uove scienze, a ttenen­ ti alla m ecca nica e i movim en ti locali, Ludovico Elzeviro, Lei­ da, 1 638, libro davvero mirabile, con la prima affermazione

che la luce ha una velocità finita, il concetto di "quanto" in fisica e la prima apertura sul calcolo infinitesimale. Ci dice dunque Galileo, e lo dimostra per via geometrica, che due figure solide, o due superfici, di uguale dimensione, diminuendo in pari tempo della medesima percentuale, si riducono a figure differenti, ma anch'esse equivalenti. E, quindi, nel primo caso da lui esaminato, una circonferen­ za e un punto sono equivalenti. F

D

G

A

B c

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Dice dunque Galileo: Disegno una semicirconferenza ABF e chiamo C il centro del diametro di base. Traccio quindi la tangente DE alla circonferenza nel punto F, parallela alla base AB. Unisco con segmenti i punti DC, E C, DA ed EB. Se faccio ruotare questa figura attorno all'asse FC, otterrò un cilindro, una semisfera ed un cono. Elimino ora la semisfera ed ottengo che rimanga un cono DE C ed una scodella segnalata da DAF e da FEB. Si dimo­ stra che il volume della scodella equivale al volume del cono. Infatti il volume della scodella si ottiene sottraendo al volu­ me del cilindro il volume della semisfera ed il risultato sarà l'area del cerchio base per l'altezza, diviso per tre. Anche il cono ha lo stesso volume, cioè area del cerchio massimo per l'altezza, diviso per tre. Ora traccio un piano G H, parallelo al cerchio base DE, ad una qualunque altezza interna ad FC. Ottengo così un cono LM C, di volume minore del prece­ dente ed equivalente alla figura segnata da GIA e NHB. An­ che la base del piccolo cono, il cerchio a diametro LM, sarà equivalente alla superficie del nastro circolare G INH. Continuo ora a spostare il piano secante verso AB e sempre, per ogni posizione, otterrò le equivalenze dette qui sopra, tra le parti residue. Alla fine del procedimento avrò, come residuo della figura GIA- NHB, una circonferenza coincidente con la circonfe­ renza AB e un punto, in C, residuo del cono.

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Quindi abbiamo mostrato essere equivalenti una circonfe­ renza ed un punto. Ma la circonferenza ha infiniti punti e sarebbe dunque equi­ valente ad un solo punto? Se il punto è, in geometria, l'indivisibile ed esso risulta delle stesse dimensioni di una circonferenza, che contiene infini­ ti punti, stiamo guardando assieme il minimo ed il massi­ mo, ai limiti della conoscenza.

Ma in realtà qui n o n c'è nessu n a scoperta, n essuna sorpresa. In effetti, il volume dei due elementi alla fine è, in entrambi i casi, uguale a zero. Si tratta di paradossi virtuali, poiché noi seguiamo la disce­ sa del piano secante e ci accorgiamo alla fine che risultano equivalenti elementi che non sembrano esserlo: un punto ed una circonferenza. Una scoperta, però, sembra comunque esserci ed è la natura degli elementi primi della geometria, che indicano un fon­ damento infondato dell'intera disciplina. Giunti all'analisi degli elementi fondamentali, come sempre avviene, si av­ verte che lì si apre un baratro. Forse vaghiamo ancora alla ricerca di una via d'uscita. Ne tentiamo una e poi un'altra.

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Areh è

Inoltre notiamo che Colli indica il mistero, l'indicibile, come ciò dove non appaiono né tempo né spazio, perché questi sono misura delle rappresentazioni, dove operano soggetto ed oggetto. Wittgenstein dice che, se osserviamo la frase

Ogni asta ha

una lu nghezza, possiamo affermare che per essa non hanno luogo tempo e spazio. Infatti non avrebbe alcun senso dire che quella frase vale per le prossime tre ore, oppure che le aste hanno una lunghezza solo a Roma o a Londra. Inoltre appare insensata, non falsa, la negazione di quella frase. Non posso dire che

non ogn i asta ha una lu nghezza.

Alcune sì ed altre no. Ecco delineato un a priori apodittico, che detta regole e non descrive nulla di esperibile, giacché i linguaggi sono una ar­ chè del

n ostro mondo, ma non sono l'indicibile.

Per Colli è

l'indicibile, senza spazio né tempo, che dà senso a tutto il resto e non è confutabile. Archè del

n ostro mondo è invece

la relazione suprema, o gioco o violenza, poi o necessario o contingente. I punti alti del pensiero si sfiorano sempre.

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Il mondo dell'infante

Un'altra via d'uscita potrebbe essere il risalire a come abbia­ mo imparato a vedere, a sentire, a conoscere. Un bambino piccolo naviga, galleggia in un oceano di rap­ presentazioni indistinte. Ma si muove già per aggirare un ostacolo e, quindi, possiede l'istinto, il nòos, che collega quell'ostacolo alla necessità di aggirarlo. Ed è già nell'individuazione, piange per avere cibo. Il suo sguardo non possiede, però, la fitta trama delle astra­ zioni. Ha una maggiore libertà di cogliere l'indistinto.

È questa una via di indagine, di scavo, che

Colli propone.

Quali sono le differenze e le somiglianze tra quel mondo indifferenziato ed il nostro? Somiglianze, non identità. Differenze, non opposizioni. Forse, si chiede, noi possiamo lacerare la fitta rete delle astrazioni, per ritrovare nella memoria, il ricordo di un atti­ mo folgorante di quello stato dell'infanzia. Ma questa lacerazione non è possibile con la ragione discorsiva. La ragione astratta è infatti il fulcro e la creatrice di quella rete di rappresentazioni. Forse l'arte, la poesia è per Colli questa possibile via. Sem­ bra però che le sue poesie riecheggino, in modo potente, le sue elaborazioni teoretiche. Una gabbia difficile da infrangere. Forse, la memoria di quegli attimi può aiutarci. Il ricordo, l'anamnesi. 97

Anamnesi

Torna alla memoria Platone, che racconta l'anamnesi, la trasmigrazione delle anime, il mondo delle idee. Ma egli stesso, dopo queste dichiarazioni apodittiche di sapore orfico, demolisce lui stesso tutta la sua costruzione di cartape­ sta, con l'aiuto di Parmenide, venerando e terribile davvero. E, dopo la distruzione parmenidea dell'intero sistema pla­ tonico, cosa rimane? Rimane la confessione della VII lettera ai Siracusani, con quell'ultimo gradino del sapere, sul quale non si può scrive­ re nulla e nulla è mai stato scritto.

È l'indicibile.

Platone sa che le cose stanno così, ma non riesce a frenare la sua hybris, la sua smania di presentarsi come il sapiente supremo e, quindi, dichiara che solo lui conosce come giun­ gere a quel quinto gradino, ma può farlo solo con i migliori, solo a voce e solo con molto tempo e gradualità. Questa dichiarazione appare a noi con i connotati del gioco e dell'enigma assieme. Non è vera. La distruzione del sistema platonico da parte di Platone è un vertice del pensiero, viene dalla consapevolezza della impossibilità della ragione di costruire qualunque sistema, convinzione anche di Colli e di Wittgenstein. Ogni sistema è una menzogna. La ragione è una grande distruttrice, demolisce sistemi e credenze e, quando ne imposta qualcuno per gioco, lo butta giù subito. Ed il maestro di tutto ciò è sempre, anche oggi, Parmenide.

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Trascendente e trascendentale

Dunque questo ineffabile resta davvero del tutto sconosciu­ to? Diciamo che vogliamo chiamarlo trascendente e questa qualificazione lo renderebbe simile all'Idea platonica, dicia­ mo al noumeno. E, se così è, come si conosce il fenomeno, se è diviso dal noumeno da un baratro? Colli analizza il Parmenide di Platone e ci mostra il tormen­ to del filosofo proprio su questo problema. Ci sarebbe forse, nell'interiorità del soggetto, un trascen­ dentale che richiama il trascendente, diciamo un aspetto della natura dell'uomo che riflette o addirittura ha essenza simile al noumeno? E, forse, perfino nel fenomeno riecheggia quella natura inef­ fabile? E questa presenza del trascendentale induce alcuni a ritene­ re che il pensiero possa attingere il trascendente. Siamo qui vicini alle considerazioni di Kant nella Critica della Ragione Pura, dice Colli. L' a priori della logica trascendentale e lo schematismo tra­ scendentale. Platone, quando giunge ai limiti estremi della sua specula­ zione, viste sbarrate tutte le strade razionali alla soluzione dell'enigma, si arrende e lascia trapelare una fede.

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Solo la fede mistica, unita alla consapevolezza di essere al di sopra degli altri uomini, può sorreggere una credenza, che non resiste in nessuna forma alla logica demolitrice di Zenone e Parmenide, come Platone sa.

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I filosofi classificano nuvole

I filosofi classificano nuvole, secondo le loro forme. Questa dura frase di Wittgenstein descrive la distanza del filosofo austriaco dei pensatori del suo tempo. Ed anche del nostro. Colli avrebbe potuto sottoscrivere, senza alcun dubbio, questa definizione lapidaria. Per entrambi il ritenere tutto ciò che ci appare, come l'unica realtà, è l'inizio della impotenza del pensiero. Questo mondo cangiante, con i suoi continui movimenti e mutamenti, con i suoi brillanti colori, è come un accumulo di nuvole. Ed i filosofi catalogano quelle nuvole, secondo le loro mu­ tevoli forme. L'accusa è, prima di tutti, rivolta ai realisti vecchi e nuovi, agli empiristi, ai positivisti. Sono loro quelli che, apodittica­ mente, dicono essere realtà solo quella che è dinanzi ai loro occhi. Essi vivono nel mito e accusano altri di essere nel mito. Vedono nuvole e le scambiano per qualcosa di concreto, anzi per l'unica cosa concreta,

la realtà.

E da lì procedono, anzi pensano di procedere, a costruire induzioni, categorie, addirittura sistemi di pensiero. Ed i loro prodotti hanno un qualcosa di assolutamente dog­ matico, nascosto nel sottofondo. Infatti ogni altro punto di vista, che metta in dubbio quel paradigma, viene bersagliato con sarcasmo. Il desiderio è che quei dubbiosi vengano spazzati via dalla faccia della ter101

ra, forse da una sollevazione del buon senso popolare. E sono proprio loro, questi realisti ad oltranza, che classifi­ cano nuvole. Questo mondo multicolore non è la realtà, ma è rappresen­ tazione di qualcosa altro, nascosto ai nostri occhi. E quella è la realtà. Del resto, se diciamo che l'universo, tutto ciò che è, è per noi la realtà, esso è contemporaneamente il mistero. Come si potrebbe negare che l'universo è la realtà? In nessun modo. Oppure nihil. E se così è, questi sassi, questi colori, questo nascere e mori­ re, non sono realtà, ma nuvole.

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Causa, ragione

I miei nervi, le rigide ossa, i muscoli, la pelle ed i modi in cui essi si legano, sono cose senza le quali io non potrei cammi­ nare, né potrei stare qui seduto. Ma non sono la causa del mio stare seduto qui, invece di fuggire lontano. Se la decisione fosse solo di quegli organi, starei già lontano e in salvo. No, io resto qui perché penso che la legge debba essere ri­ spettata, anche quando colpisce me stesso, ingiustamente. Nel Pedone, riportato qui a memoria, Socrate opera una distinzione tra la causa, le sue convinzioni, e gli strumenti anatomici, che gli consentono di fare o non fare qualcosa fisicamente. Forse la ragione o il presupposto? Wittgenstein distingue causa da ragione, quando dice che le cause per cui crediamo una proposizione sono irrilevanti ai fini di determinare cosa è ciò a cui crediamo. Ma non sono ir­ rilevanti le ragioni che ci dicono di che proposizione si tratti. Le ragioni sono imparentate con quella frase, sono le quali­ tà di essa, il suo significato. Il suo uso. Colli invece indirizza l'attenzione sulla catena di implicazioni che vede A-7B-7C, che si legge "Se A allora B, se B allora C". Sarebbe la rappresentazione più astratta, A, la ragione di B, la seconda, B, la ragione di C. Sì, e queste ragioni hanno il loro inizio nell'originario cul­ mine dell'astrazione, il principio modale supremo. Dunque il nesso ragione-conseguenza si instaura quando si parte dalle categorie astratte più generali, la disgiunzione assoluta tra necessario e contingente, e di lì si discende nella 103

catena delle deduzioni. Il nesso causa-effetto, invece, si instaura quando si parte dal contatto dell'immediatezza e di lì si risale verso i vertici dell'astratto. Il rapporto causa-effetto indica il passaggio dal più noto al meno noto, e sarebbe, secondo questa gracile teoria di Colli, la base della dimostrazione. Dunque B, che è una espressione di A, ne sarebbe la

causa, mentre A, in quanto rappresentazione, sarebbe la ragione di B, che è sua conseguenza. Ci sono due forme opposte di dipendenza, l'implicazione dal concreto all'astratto (causa-effetto) e il rapporto tra rappre­ sentazioni, dall'astratto al concreto (ragione-conseguenza). Insomma,

ca usa e ragione avrebbero due direzioni opposte,

l'una all'indietro e l'altra in avanti. Causa e ragione che sono entrambe figlie della necessità, sono categorie necessarie. E questa teoria si definisce sulla base della definizione di identità di Leibniz: Ogni cosa è l'insieme di tutti le qualità attribuite o attribuibili ad essa. Colli descrive dunque, nel mondo della logica, la differenza tra causa e ragione.

E in troduce una via dal basso, dal con tatto, che appare del tu tto inconsisten te e fuorvia n te. L 'induzione. Ma nel conoscere irrompe anche il gioco, il contingente, il casuale e questo scombussola anche la sistemazione teo­ retica di Colli. In un universo preda del gioco, trastullo di fanciulli, ogni categoria è sciolta, non c'è causa, né ragione.

Ma, anche se restiamo sul piano della necessità e non lascia­ mo che il gioco en tri in campo a sco m bussolare tutto, qui davan ti a n oi sorge ancora u n 'altra domanda.

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Ma queste relazion i, di causa-effetto e di ragione-conseguen­ za, sono reali? Diciamo meglio: sono esse principi, leggi? No, esse formano per noi uno sguardo sulle apparenze, sono soltanto nostre invenzioni, ipotesi a volte azzardate, che possono essere utili a cercare una via per il conoscere. Costruiamo noi quei nessi, quei rapporti, e li utilizziamo, ma sarebbe nefasto considerarli reali, perché allora avrem­ mo assunto un paradigma ingenuo e inutile. E anche esizia­ le per il conoscere. Insomma, si tratta di principi di fantasia, se il nostro sguar­ do è simile a quello dei greci. Ma forse Colli lo sa e lascia trapelare la scarsa serietà delle sue riflessioni sistematiche. A volte sembra quasi che, per lui, le direzioni di causa e ra­ gione possano anche invertirsi o confondersi, come avviene in alcune sue riscritture e pentimenti. La catena delle espressioni, dove non hanno luogo soggetto ed oggetto, ha natura e direzione opposte alla catena delle rappresentazioni, che indicano un oggetto per un soggetto. "Dare un pensiero sistematico con la convinzione che si tratta di un semplice giuoco", è questa la esplicita indicazio­ ne programmatica di Colli e, quindi, tutta la elaborazione teoretica da lui offerta, con serie ascendenti e discendenti, è solo un gioco. E si vede. Intuisce infatti e lo dice, Colli, che percorrere la via dal bas­ so è possibile soltanto quando si sono già formate le catego­ rie più astratte. E se questo è vero, ed è vero, quella via dal basso non esiste. "Ciò che è necessariamente vero è anche necessariamente falso e tutta questa affermazione è necessariamente falsa" dice Colli.

105

Ma questa aporia, secondo noi, sorge solo se introduciamo il vero e il falso dove non debbono stare, nella logica.

È il rischio del pensare.

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Sì, siamo tutti greci

Chi ha divinato meglio lo spirito dei greci, si chiede Colli: Nietzsche, Holderlin, Goethe, Schopenhauer? Ma per quale motivo a lui è sempre apparso estremamente importante cogliere, scavare, lo spirito greco? Perché in Grecia avvenne, tra il VI ed il V secolo ac, uno scarto inaspettato, inspiegabile e clamoroso, che è stato il fondamento vero di tutto il pensiero occidentale, nella filo­ sofia come nella scienza. E come è vero che in filosofia senza i Greci non si comincia neppure, altrettanto si può dire per la scienza. La scienza ha natura ipotetico deduttiva, non ha per oggetto diretto i fatti e le cose della natura, ma enti teorici, analizzati in modelli logico matematici. Il primo passo, quello inaudito e fondante, fu fatto proprio dai Greci di Sicilia e d'Italia, con la distinzione tra parole e cose, tra frasi e fatti, tra linguaggi e Universo. Colli sembra a volte intuire questa frattura, ma non la espli­ cita, non ne fa il punto teoretico di svolta. Calogero è ancora più lontano dal cogliere il bandolo, quando vede la filosofia classica, lui dice arcaica, fondata su di una solida unità tra parole, cose e pensiero. Unità grezza agli albori del pensiero, dice, poi superata e lasciata lì come traccia dei primi incerti passi della filosofia. Il cammino progressivo del pensiero, il passato come inizio di un cammino luminoso. Siamo qui prigionieri di un mito menzognero, la storia come progresso. 107

La menzogna ci avvolge e ci acceca. E Holderlin ci dice : Terribile è ciò che è nascosto.

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Holderlin

Holderlin passa metà della sua vita chiuso in una stanza, di forma circolare al suo interno, dichiarato clinicamente folle. Schizofrenia catatonica è la diagnosi. Solo fino ai tren­ tasette anni, Holderlin è libero. E, in pochi anni di attività, egli ci mostra una visione del mondo, fondata su quella della Grecia classica. Da qui parte una elaborazione filosofica originale ed ardita, che fonda la sua poesia.

È infatti, secondo lui, la filosofia la base del po­

etare. E la poesia giunge dove la filosofia non può attingere. E intuisce l'ignoto, il tutto, l'originario, l'aorgico, come egli lo chiama. Nei suoi Scritti di estetica, Holderlin parla del significato della tragedia e dice: "L'originario può infatti apparire pro­ priamente solo nella sua debolezza; nella misura in cui il segno in sé stesso, essendo insignificante, viene posto = 0 , al­ lora anche l'originario, il fondo occulto di ogni natura, può rappresentarsi. Se la natura si rappresenta nel suo manife­ starsi più debole, il segno allora, quando essa si rappresenti nel suo darsi più impetuoso, è = 0. " La tragedia greca, quindi, consente il trasparire dell'origi­ nario, proprio perché annulla come insignificante il segno. Quel segno diviene = 0 proprio quando viene rappresentato con il massimo di impetuosità. E la tragedia classica fa questo. Holderlin scrive una di quelle tragedie, l'Iperione, e lì tenta questa via.

109

In Iperione egli mostra il paradosso dei sentimenti, che non hanno la loro fonte nei momenti particolari della vita, ma ne sono essi stessi la fonte. E l'intuizione intellettuale della bellezza fa trasparire l'igno­ to. L'intuizione della bellezza è una premonizione dell'es­ sere, del tutto. E l'uomo segue una traiettoria, sempre da correggere, per avv1cmars1 per appross1mazwm successive .

.

.

.

.

al Ciò che è. E senza mai raggiungerlo. Si possono condividere queste sue considerazioni, o no, ma appare chiara la fondamentale importanza, per lui, di questo anelito a superare la vita quotidiana, per attingere l'ignoto. Holderlin il folle ha penetrato, secondo Colli, il mistero del­ la tragedia, della filosofia e della scultura greca, come nes­ sun altro.

110

Dobbiamo essere inattuali

Se vogliamo ascoltare quello che dice davvero Gorgia, dob­ biamo gettare via un mito potente e pregiudiziale, lo stori­ cismo. Lo storicismo arriva a proporre perfino Descartes come luminoso sviluppo da Parmenide, Gorgia ed Empedocle, i grezzi antichi. La teoresi non ha ieri o domani, è il fondo del pensare e non ha nulla a che vedere con il tempo, il tempo non è un suo elemento. Dobbiamo essere inattuali, se desideriamo avere un collo­ quio con quei potenti pensatori. E sfidarli. Giorgio Colli è stato davvero inattuale e ci ha insegnato ad esserlo. Forse neppure Nietzsche e Schopenhauer lo sono stati com­ pletamente, con il trasparire di aspre polemiche verso i con­ temporanei e, per il secondo, con l'ansia per la notorietà e con il desiderio di essere pubblicamente considerato un maestro. Colli no. Non risulta abbia mai scaldato o brigato per avere onori, né che abbia avuto atteggiamenti di critica verso suoi singoli contemporanei. Etica. Egli li osservava, ci osservava, da lontano, con lo sguardo che colpisce a distanza, lo sguardo di Apollo. E l'impressione chiara è che sia ancora lì ad ascoltarci con un lieve sorriso. Lui che sa. 111

Orfeo, Dioniso, Apollo

Colli corregge Nietzsche sulla distinzione assoluta tra Dio­ niso ed Apollo. Forse sono un solo dio, come accennano anche Eschilo ed Euripide. Apollo non sarebbe, dunque, la razionalità assoluta, l'asetti­ co ordinatore del dire e del pensare, ma sarebbe anche il dio terribile che colpisce da lontano , che getta in campo la sfida crudele dell'enigma , cui nessuno può sopravvivere. La morte di Omero ne è un esempio. Ma i due miti, Apollo e Dioniso , originano da Orfeo. Nell'orfismo Dioniso, figlio di Zeus e di Core, è ucciso, smembrato e mangiucchiato dai Titani. Zeus fulmina i Titani e manda Apollo a salvare Dioniso. Apollo che assembla i pezzi di Dioniso.

È

È dunque lui il nuo­

vo creatore di Dioniso. E Plotino racconta che, per i pitagorici, Apollo è l'Uno, l'i­ neffabile, come dice il suo nome tradotto, che suona "Senza molti", privo della molteplicità. I misteri orfici, complessi di poesia, religione e sapienza, durano quasi mille anni, sono un sostrato dell'intera cultu­ ra della Grecia. E la serie vede Orfeo , Cronos , Fanes, Dioniso , Apollo, fino al neoplatonismo di Plotino e Proclo. Il cristianesimo avrà poi una importante impronta rituale, nata nei misteri bacchici e orfici. L'errore fondamentale di Nietzsche, a nostro parere, fu quello di tentare di resuscitare la classicità greca, in funzio­ ne anti cristiana, nel dionisiaco. 112

Proprio il dionisiaco era stato invece il cavallo di Troia del misticismo anti classico. Se amiamo ed apprezziamo la filosofia classica e desideria­ mo recuperarne la sorgente, ci occorre l'apollineo. Basta leggere gli l onici e Anassagora, Senofane, Parmenide, Eraclito perfino, per vedere con chiarezza che lo scontro ti­ tanico era quello tra filosofi classici e mistici. Siamo sempre lì. Le ciance aggrovigliate e confuse di tanti pensatori moderni si richiamano nascostamente o esplicitamente alla tradizio­ ne orfica ed a Dioniso. Non è un caso che Hegel citi il mistico orfico neoplatoni­ co Proclo, come unico riferimento filosofico, per sostenere il suo tentativo umoristico di distruzione del principio di contraddizione e di quello del terzo escluso.

È di lì che

nascono Heidegger e, ancora oggi, tanti oratori

magniloquenti del nulla. Poteva Colli vedere in questo modo il misticismo anti classico? Forse sì, poiché in diversi passaggi ne trapela la tentazione, ma qualcosa lo frena. Questo qualcosa potrebbe essere il timore che, scegliendo Apollo senza remore, si sarebbe potuti piombare facilmen­ te nelle mani dell'utile, nella tecnica come esito finale e nel mito della ragione astratta onnisciente. Non ci sembra che si tratti di timori condivisibili, sopra tut­ to perché il mito di Apollo è davvero quello descritto da Colli, non la sua caricatura tanto frequentata dai mistici. Tanto è vero che Apollo

=

Civiltà è un'equazione di Colli,

quando ci dice che solo il riconoscere un diverso fuori da noi crea la civiltà. 113

Mai, quel riconoscere, deve essere sottomissione, altrimenti avremmo lo Stato asiatico o moderno. Apollo è il mito di quel riconoscere per coesistere. Sì, davvero Apollo

=

Civiltà.

114

Heidegger, Wittgenstein

Colli li cita assieme. I loro concetti iniziali sono inconsistenti e, inoltre, giungo­ no a sopravvalutare il linguaggio, dice. Ma, proprio dal punto di vista della filosofia di Colli, questo accostamento non ci appare ben fondato. Per Heidegger vale la stessa notazione fatta da Colli sulla inconsistenza dell'assioma logico iniziale di Hegei. Infatti per Heidegger resta stabilito quanto affermato da Hegel sul supposto smantellamento dei principi di contrad­ dizione e del terzo escluso. Su questo punto Colli è addirittura sprezzante, giustamente sprezzante. E tanto basta. Il resto consegue. Ma per quanto riguarda Wittgenstein, sembra quasi che Colli lo osservi con cautela, ma giunga ad accostarlo per certi aspetti ad Heidegger. Qui sembra esserci un errore, perché il Wittgenstein che scrive Sulla certezza è un filosofo assai simile a Colli. Sembra, però, che essi siano diversi in due aspetti: l'etica e l'inconoscibile. Per Colli il sopraggiungere dell'etica in filosofia segna l'i­ nizio della decadenza del pensiero. Prima di Socrate non appaiono discorsi su etica e morale Quindi Socrate, Platone, Upanishad, Buddha. Per Wittgenstein l'etica è fuori dal mondo, di essa non si deve parlare in filosofia. 115

Nella sua conferenza sull'etica, egli dice chiaramente che un'etica assoluta non può darsi. Ma in qualche modo, però, essa misteriosamente guida le nostre azioni. Del resto, anche la vita ed i comportamenti di Colli e di Wittgensten ci sembrano segnati fortemente dall'etica. In­ somma, non sembra che qui le distanze siano avvertibili. Ma anche sull'inconoscibile, Wittgenstein non ne parla se non perché lo denomina, mentre Colli ne parla attraverso il mito. Ma Colli dice che il popolo è ciò che crea gli dei, quindi an­ che i miti, Apollo, Dioniso e via.

Non come il mondo è, è il m istico, m a che esso è. Questa definizione di Wittgenstein nel Tractatus ci mostra il campo della scienza e della conoscenza umana -

come il

mondo è - e poi il mistico - che esso è. Il mistico ha una preponderante presenza nella vita e nel pensiero di Wittgenstein, ma di esso non si deve parlare, perché il parlare, il dire, i linguaggi sono altro, la loro natura è assolutamente differente. Qui Colli avrebbe potuto porre attenzione, ascoltare qual­ che suono familiare. Inoltre, nelle Note sul ramo d'oro e Sulla certezza, Wittgen­ stein ci racconta che noi dai miti siamo addirittura domina­ ti, oggi come ieri, e che essi ci conducono passo dopo passo. Anzi proprio le cose, di cui siamo davvero certi, costituisco­ no la mitologia di base, che segna ogni nostro atto, convin­ zione e comportamento.

116

Sì, Wittgenstein si occupa del linguaggio, così come dei fon­ damenti della psicologia o della matematica o della logica, ma del resto anche Colli se ne occupa, e come. Quasi dall'alto. Forse Colli diffida di chi non è inattuale, ma gli sfugge che Wittgenstein è proprio così, come lui. La differenza risiede nel fatto che Wittgenstein si attiene scrupolosamente al comando di non parlare dell'indicibile, mentre quella tentazione in Colli è incomprimibile. Forse egli vede lì la via per la sapienza. E la prova. Ma anche su questa differenza qualche dubbio rimane. Per­ ché quell'indicibile mistero, che è etico ed estetico, è il vero fondamento

non detto del pensiero di entrambi.

Ed esso traspare in ogni frase scritta dai due filosofi, in ogni loro comportamento, appunto perché l'ineffabile è in ogni parola ed in ogni atto della nostra vita.

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E vennero i commedianti, con il loro ghigno mendace

Non si deve permettere di deridere la cultura; con dizion e per questo è di mettere fuori legge i rappresen ta n ti odiern i della cultura. L 'educazion e deve essere so ttratta all'Un iversità. L'opinione d i Colli sullo stato della cultura e sulla degenera­ zione dei suoi rappresentanti non potrebbe essere più netta e senza appello. Ma questa sua opinione è davvero fondata oppure è l'urlo impotente di un uomo dimenticato dal potere accademico e dai potenti mezzi di comunicazione?

(omissis) gli invincib ili, li si uccide con il silenzio. L 'oblio è il più grande n emico, ma se gli dei si sono mostra ti sul tuo camm ino, l'o blio è sconfitto. La preoccupazione di essere ucciso dal silenzio, che con­ duce all'oblio, interrompendo i rapporti maestro allievi, è attenuato in Colli dalla convinzione che davvero gli dei si sono mostrati sul suo cammino. Li ha visti, toccati, ha ascoltato i loro accenni. A chi ha il tempo e la caparbietà di leggere ciò che ha dav­ vero scritto Colli, i suoi giudizi appaiono fondati e assoluta­ mente conseguenti al suo pensiero. Egli non grida, non cerca l'effetto di una bella frase, non si cura degli effetti mediatici, mai.

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Ha il diritto, se lo è conquistato eticamente, di esprimere il suo sottile disprezzo per ciò che viene prodotto e consuma­ to come cultura. E per i suoi tracotanti rappresentanti.

Quando gli dèi, giu n ti alla vecch iaia, si ritrassero sulle bianche mon tagne, fu l'ora dei folli profeti, vela ti da m aschere tragiche. Sim ilmen te morirono i m iti poeti, la cui bocca era fresca sorgen te, senza onde, e ven nero i comm edian ti, con il loro gh ign o mendace. Qui, in versi duri e netti, Colli grida la tristezza per il pro­ rompente e assordante emergere di tracotanti esponenti della cultura, folli profeti, commedianti dal ghigno menda­ ce. Mai descrizione lirica è apparsa più chiara, si può dire che mai una prosa teoretica di Colli è giunta a mostrare così limpidamente, dinanzi ai nostri occhi, la povertà e l'im­ prontitudine dei tronfi dominatori della cultura. Persone divenute indecenti.

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Persone senza finalità

Cosa si può fare, invece di accettare inerti questo prevalere dei tronfi e poveri dominatori della cultura? Il filosofo non ha finalità. Qui sta la differenza. Questo carattere lo distanzia, con un abisso, dallo stato do­ minus della cultura. Si può pensare, dunque, ad un certo numero di persone non finalistiche, che parlano fra loro e che non concedono il loro sapere allo stato. Si verrebbe così a creare uno spazio, un luogo, dove la dia­ lettica tra uguali educa tutti e dove si elaborano idee innan­ zitutto cosmologiche, ma dove si parla di ragione discor­ siva, di nòos, di istinto, di etica se possibile, di bellezza, di poesia, musica, arte. Una nuova accademia di libertà, dove non esiste utilità, dove si perde tempo. L'alternativa è faticosa e molto lunga nel tempo, ma anche assai incerta negli esiti. Si tratterebbe di una sorta di "studia humanitatis", quelli che hanno prodotto la frattura tra studi umanistici e scien­ tifici? Quindi la matematica, la fisica, la scienza, dove saranno? Dentro quella accademia o no? Qui si nota un pencolamento nel pensiero di Colli. A volte la scienza viene dichiarata finalizzata, volta all'utile e quindi perduta al pensiero, altrove fa capolino l'opinione che essa sia invece speculazione alta, intuizione, fantasia.

120

Senza scienza, senza matematica, senza fisica, quella ac­ cademia sarebbe poca cosa, forse addirittura scadrebbe a sciarade e anagrammi. No, la scienza, come la matematica, sono intuizione misteriosa, sono alleate della filosofia. Sen­ za quel tipo di sguardi, il resto illanguidisce, costretto ad una dimensione sola, ad una cultura letteraria e retorica, allora sì inutile e succuba della scienza. Ed anche l'isolamento, il distacco, sono forieri di alti pen­ sieri o sono regole, che non lasciano filtrare nulla del mera­ viglioso mondo? Forse basterebbe l'assoluta indipendenza personale del filo­ sofo, non il distacco settario.

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Il tempo

Se il tempo è la causa del dolore, allo n taniamoci, ci sono sen tieri a lu i ign oti, ci sono regioni ferm e dell'an ima. Questo principe ossu to dell'ingan no, strozzarlo, ca ncellarlo bisogna, poiché non è vero, poiché il dolore nasce da lui. Il tempo non è vero. Ed è lui l'origine del dolore. Esso lega e misura le rappresentazioni in mutevoli, variegati ed ingannevoli artifici. Ma ci sono sentieri a lui ignoti, dove non può dunque sco­ varci, per colpire con i suoi inganni. Questi versi di Colli sono sì un grido di dolore, ma indicano anche una contraddizione. Altrove egli aveva rivendicato alla sapienza la convinzione che il dolore è la natura della vita e non va cancellato, né fuggito, come vorrebbero Buddha o Freud o Schopenhauer, ma unito alla gioia. Qui invece si è fuori dal tempo. Si cerca una via di fuga verso regioni ferme dell'anima, dove l'angoscia si acquieta e si diviene eterni. Ma cosa sono, dove sono queste regioni? Esse sono nella vita o fuori?

Ma l'abisso ci inghio tte è so tto di noi, anche se cerch iam o d i inerpicarci verso la vita. Cadremo presto nella bellezza che sta in fondo non ancora con templata quella veramente 122

im mobile. Questo brano del 1957 di Colli sembra contenere più della teoresi, esprime il sentimento fondamentale, come egli sen­ tiva la vita. L'abisso contiene la bellezza immobile, mai vista. Ma sap­ piamo che è lì. E che ci attende. Cerchiamo di inerpicarci verso la vita dei suoni e dei colori multiformi, con i suoi inganni, che ci mostra come vere ed importanti cose inesistenti. Ma chi sa non si lascia ingannare, vive e vive con il sorriso e resta sempre un po' distante dalla rappresentazione multi­ colore che gli danza davanti. Questa vita è sì variegata e coinvolgente, ci siamo, ma il filosofo sa, o dovrebbe sapere, che la bellezza non è qui, è nell'abisso. Immobile.

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Come tu appari, Atena

Purché traspaia la perfidia, /com e onda trepida su cio ttoli chiari !della dea dallo sguardo ceruleo:/ a u na crudeltà offu­ scata da veli 1- come tu appari, A tena - /nessun cuore può reggere. In questi versi del 1974, Colli vede Atena come crudeltà of­ fuscata da veli. Dunque la sapienza è davvero una perfidia, anche per chi la ama, quella sapienza. Ma forse quell'amante vede solo i veli, non la ferocia che essi nascondono. E nella stessa poesia, per Colli, la pioggia del mattino, quelle gocce,

gettate come dadi sulla soglia del nulla, sono invece l'intuizione dell'immediato, che fa ansimare la vita, strozza­ ta da troppa pien ezza. Insomma noi cerchiamo la sapienza, ma essa ci può schian­ tare con gelida perfidia. E neppure ci può rasserenare l'abbandonarci all'intuizione del tutto, attraverso immagini vissute come simboli; anzi quelle visioni rompono il nostro respiro e ci strozzano la vita. Arduo è il cammino.

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La morte non esiste

Ma fu ori di noi non esiste la morte, né den tro di noi, poiché essa è soltanto u n 'espression e. Qui Colli ci dice che chi ha conoscenza dell'apparente, sa cioè che il mondo è rappresentazione, è gioioso, ottimista, mentre chi fa prevalere l'istinto pratico realistico sulla co­ noscenza, è necessariamente pessimista. Pessimista perché vede

cose che muoiono ed è convinto che

quella sia la realtà. Il pessimismo porta con sé le religioni. Ed esse distinguono poi, per conseguenza, immanente da trascendente, anima da corpo, pensiero da linguaggio e via così. Del resto anche Freud ed Heidegger vedono la morte come una cosa, una realtà addirittura incombente, che segna e domina la nostra vita e tradiscono così la loro contiguità con le religioni. No, dice Colli, noi abbiamo uno sguardo di letizia sull'esi­ stenza. E ciò proprio poiché cogliamo le rappresentazioni multi­ colori che danzano dinanzi ai nostri occhi e, penetrandole come tali, attingiamo attimi del mistero, che è alle loro spal­ le e di cui esse sono espressione. Non c'è altra via. Altrimenti siamo condannati ad un incubo oscuro e senza speranza.

125

E questo nostro tentativo di penetrare le rappresentazioni, di attingere attimi dell'ignoto, del fondo oscuro dell'imme­ diato, è ciò che distingue davvero il pensiero di Colli da al­ tri, forse da tutti gli altri filosofi moderni. Egli si rifiuta di limitare la sua indagine al mondo così come appare, egli deve tentare di andare oltre, di spezzare gli av­ volgenti legami dell'ovvio, per affrontare l'enigma.

126

Colli,

un

maestro

Un maestro accenna. Come avveniva a Delfi, non dice e non nasconde. Accenna perché, se dicesse completamente, se raccontasse un sistema compiuto, non si potrebbe che concordare con lui. Non perché avrebbe colto la Verità, ma perché avrebbe mentito proprio mostrando il tutto come leggibile, come svelato, come appunto Verità. Ma il maestro deve sapere che nessuno può attingere la Ve­ rità, nessuno può conoscere l'Universo. Esso ci rimane na­ scosto. La natura ama nascondersi. Quando Colli si fa cogliere dal demone del sistema, diviene meno illuminante, quando è spinto cioè a iniziare una co­ struzione completa del mondo e della conoscenza. Del resto proprio lui nega che questo possa farsi, quando ci avverte che la ragione non può costruire sistemi e dichiara estinto il mito della ragione universale. Il logos ha una inarrestabile potenza distruttiva, come mo­ strano Zenone e Gorgia disattendendo il comando di Par­ menide. Ma dopo la distruzione, cosa accade? Qui la risposta è incerta. Forse esplode e fiorisce la vita, libe­ rata dalle catene della necessità. Del resto Wittgenstein pone lo stesso quesito nel suo Trac­ tatus, quando dice che tutta la sua impostazione sembra non edificare nulla, ma distruggere tutto il già edificato. 127

"Da che cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momen to che sem bra solo distruggere tutto ciò che è in teres­ san te, cioè gran de ed importa n te? (Sem bra distruggere, per così dire, tu tti gli edifici, lasciandosi dietro solta n to ro tta m i e calcinacci). Ma via, quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgom briam o il terren o del linguaggio, sul quale sorgevan o " Ebbene è proprio così, ma sul suolo liberato da ignobili ed opprimenti edifici, può ora nascere la libera espressione della vita. Forse è lo stesso sguardo di Colli, il quale ha un piglio simile all'altro grande filosofo del '900. E Colli in Dopo Nietzsche ed in molti brani de La ragione errabonda ci dona puri sprazzi di luce, come nelle lezioni su Gorgia, Zenone e Parmenide o in alcune sue luminose chiose sui frammenti di Eraclito e sugli Orfici. Oggi non abbiamo più l'udito allenato ad ascoltare voci chiare e dure. Si preferisce dare credito a chi esprime suggestioni, ossimo­ ri, giochi di parole, come se, dietro quelle frasi fumose ed evocatrici, si celassero inestimabili tesori di saggezza, attin­ gibili però solo da chi sa interpretarle. Giorgio Colli è un maestro, anche perché non sfugge i pas­ saggi difficili, non consente a sé stesso, ed a noi, di nascon­ derei dietro il chiacchiericcio. E la sua ragione è davvero errabonda, non si acquieta nep­ pure quando sembra aver trovato un bandolo della matassa, anzi proprio allora ha uno scarto divergente e va a rimesco­ lare tutto di nuovo. Sorridendo.

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La filosofia ha un domani

Ma la filosofia ha un domani. Ha un domani perché ha un passato. Può trovare nuove vie, se riparte da alcune convinzioni di fondo di autori nostri, occidentali, del periodo classico, in specie del V e IV secolo ac. Quei pensatori ci suggeriscono che: il nostro pensiero è infondato e che, quindi, siamo liberi nella ricerca e nella formazione di modelli e sistemi assiomatici; non abbiamo ordini superiori cui obbedire pensiero razionale e linguaggio sono la stessa cosa, il logos, e non ci sono dunque dualismi da conciliare; neppure, quindi, tra mente e corpo tra parola e cosa, tra frase e fatto, tra linguaggi e mondo c'è l'abisso, il chorismos la verità è l'universo e che l'universo è il mistero. Dunque che la verità è mistero. Tutto ciò che ci ap­ pare vivo e reale è invece spettacolo, come scrive Colli, in una sintonia inaspettata con Debord. Ma un pensatore moderno manca oggi di interlocutori ed è costretto, quindi, ad inventarseli, ci dice Colli e lo abbiamo prima ricordato. Per fare ciò, deve avere talento artistico e doti di attore au­ tentico, per immedesimarsi nelle voci immaginate, che lo contrastano e lo immergono nella dialettica.

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Si tratta di una verità grande, anche se il suo crudo realismo non ci appare, soffocato da tante, troppe voci non necessa­ rie alla ricerca ed alla conoscenza. Ci può sembrare di essere in numerosa compagnia in ogni istante ed il chiasso ci circonda. Ma è sufficiente porsi una domanda, una sola, che squarci il velo dell'ovvio e del ripetuto, per vedere chiaramente di non conoscere interlocutori viventi. E di essere costretti ad inventarseli. Inventare è una dote minima nel bagaglio di un pensatore. Ma secoli di erudizione e di storia della filosofia pesano come macigni su di noi e non è facile uscire dalla rete. Abbiamo accanto a noi, però, pensatori che ci sostengono e con cui possiamo discutere. Discutere anche duramente, come del resto essi erano duri con sé stessi e con gli altri. Gli Italici, i Siciliani e gli Eleati, gli Abderiti e via via fino ai Megarici, l'inizio è qui. Di qui sempre si riparte e solo in questo modo abbattiamo le pencolanti e soffocanti costruzioni di tanti successivi, in­ sensati, scritti sulla filosofia. Abbiamo dinanzi a noi vie meravigliose per la ricerca della verità.

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Appendice Majorana, probabilità e leggi naturali

Ettore Majorana scrisse un articolo divulgativo, pubblica­ to poi nel 1942, su di una ipotesi di parallelismo tra fisica quantistica e discipline sociali. Quell'articolo è riportato integralmente nel libro di Gior­ gio Agamben "Che cos'è reale? La scomparsa di Majorana" Neri Pozza 2016. Lì Majorana descrive le differenze tra le teorie della fisica classica e le teorie della fisica quantistica e sostiene che il nuovo cardine della meccanica quantistica sarebbe l'intro­ duzione della pro babilità. Ma sarebbe bene, forse, fare tre considerazioni: l.

Sappiam o che non esiste u n solo tipo di pro ba bilità, ne esistono due.

Ho a disposizione un dado a sei facce, ben fatto, nel quale non ci sono imperfezioni tali da determinare un unico ri­ sultato del lancio o da renderlo più probabile. Ho, quindi, un dado non truccato. Diciamo che i discostamenti reali dalla forma geometrica del dado ideale sono irrilevanti per i risultati dei lanci. Ma è meglio se usiamo direttamente il dado ideale. Ad ogni lancio, la probabilità di uscita di un determinato numero è pari ad un sesto.

Questa è la pro babilità a priori. Concettuale, sin tattica.

131

Se, invece, io eseguo trenta tiri e registro, ad esempio, che l'uscita del numero quattro è pari ad un terzo del totale dei lanci, qui mi trovo dinanzi al secondo tipo di probabilità.

Si tratta della pro babilità a posteriori. Empirica. Ed è su questa seconda che si basano tutte le tabelle assicu­ rative, ed anche le probabilità della pioggia di domani, che ci sarà al 60% e non ci sarà al 40%, sulla base degli avve­ nimenti passati, verificati in condizioni generali analoghe. Potremo solo aggiustare le future previsioni simili. Insomma, se ipotizzo che un certo fenomeno si verificherà 8 volte su 10, dopo l'intervento di un fattore esterno, sto proponendo una visione deterministica, poiché la mia pre­ visione è precisa. E se l'evento si verificasse 6 volte su 10, io avrei sbagliato nel formulare quella ipotesi.

È

la verifica empirica che mi

smentisce. Se, invece, sostengo che la probabilità a priori nei lanci del dado è di l su 6, nessun fatto potrà mai smentirmi. Al milio­ nesimo tiro di dado, la probabilità che esca il quattro resta pari ad un sesto, anche se in tutti i 999.999 tiri precedenti fosse uscito sempre il quattro. Non sembra che il tentativo di Jakob Bernoulli, e dei suoi epigoni, di superare questa distinzione concettuale attra­ verso la così detta legge dei grandi numeri, la abbia intacca­ ta in alcun modo, basata, come ci appare, su di una fiducia e non su di una stringente logica dei concetti. Alla enunciazione del solo titolo di questa "legge", il nostro matematico Sandro Bichara sferzava: "Non esistono grandi numeri, esistono solo numeri". E i due tipi di probabilità restano distinti, né viene mai toc­ cata, in alcun modo, la probabilità a priori dell'evento. 132

La confusione tra i due tipi di probabilità induce ad errori concettuali fondamentali, in ogni disciplina scientifica e in attività umane ordinarie. Quando la fisica quantistica dice che i caratteri in un evento, posizione o velocità o traiettoria o altro, non sono determi­ nabili, ma hanno soltanto una probabilità statistica, di cosa stanno parlando? Di quale tipo di probabilità? Sembra che la probabilità nella teoria quantistica sia a priori. Se è così, essa non è confutabile, ha natura di assioma e, perciò, non è neppure inducibile da alcuna osservazione di fenomeni. Né falsificabile da osservazioni empiriche. Ma l'ipotesi quantistica contiene anche elementi determini­ stici. Quando ipotizziamo che gli elettroni siano, in un certo istante, lungo una delle n orbite, ma non sappiamo su quale, se non probabilmente, diciamo che esistono n orbite e che solo lungo quelle sta l'elettrone. Stiamo dicendo, insomma, che le possibili posizioni sono discrete, distinte l'una dall'al­ tra. E che le orbite sono finite, non infinite. Queste ultime ipotesi sono deterministiche ed esse possono essere, quindi, falsificate. Infine, qui si abbandona il paradigma del continuo, base te­ oretica della fisica classica, per tornare a quello atomistico di Leucippo e Democrito. Del resto il

quan to è un minimo

indivisibile e

discreto, come l'antico atomo. Discreto, per­ ché il con tinuo, dimostra Aristotele nel VI libro della Fisica, non può essere fatto di elementi indivisibili. Nihil sub sole novi.

2. Ma, soprattu tto, esistono leggi naturali, cioè leggi cu i la natu ra u b bidisca? Majorana sembra credere di sì. Un genio della fisica aveva una grande illusione.

133

Si rovescia la frittata ritenendo, senza neppure dichiararlo, che il nostro sguardo colga un ordine di un qualche tipo, afferri insomma, in qualche modo, l'essenza del mondo e della natura. Ma il mondo non è conoscibile.

È

conoscibile il nostro

sguardo e su di esso ci esercitiamo, asserendo che esso è determinato o solo probabile. Non è il mondo ad essere de­ terminato o probabile. Il mondo se ne frega. Ma possiamo immaginare il pianeta Mercurio che dice ai suoi satelliti, guardando l 'orologio: "Ragazzi, diamoci una mossa, siamo tre minuti in ritardo sulla tabella della legge di rivoluzione dei pianeti"? Niels Bohr, uno dei fondatori della teoria quantistica, ci dice che non esistono oggetti quantistici, ma solo sguardi quantistici.

"Non esiste alcu n mondo quantistico. C'è solo u na astratta descrizione fisica. È sbaglia to pensare che il compito della fi­ sica sia di scoprire com e è la natura. La fisica riguarda quello che noi possia mo dire a riguardo della natura" Niels Bohr, Essays 1958-1962: Atomic Physics And Human Knowledge (Richard Clay And Company, Ltd., 1963). Quando Colli dice che caso e necessità sono la traduzione, nella realtà spazio temporale, di gioco e violenza, ipotetici elementi dell'universo, ci racconta che i due aspetti sono il riflesso di una unica cosa. Del tutto misteriosa. E, comun­ que, si tratta di parole, cose nostre, non mai della natura reale di quei qualcosa. Wittgenstein anche ci dice che, se tendiamo ad escludere il caso dalla descrizione di un evento, per timore di infrangere il principio di causa-effetto, allora era tempo che qualcuno 134

ce lo infrangesse. Il mondo è, per lui,

ciò di cui è il caso,

come ricorda anche Agamben. Per Wittgenstein non pos­ siamo neppure chiedere se il mondo abbia questa o quella natura. Noi parliamo di parole. Sia Colli che Wittgenstein sanno che possiamo parlare solo di come sono fenomeni particolari, individuati come tali da noi, mai del fatto che il mondo è.

3. Majorana pensava scien tificamen te, non tecn icamen te Enrico Fermi poneva Majorana a fianco di Archimede, di Galilei e di Newton. Un genio assoluto della fisica. Fermi è un premio No bel e riteneva Majorana ad un livello superio­ re al suo. Ma, quando Fermi scrive questo suo giudizio, a cosa si sta riferendo? Forse ad una qualche abilità tecnica, sperimentale, empiri­ ca? Certamente no. Majorana era solito scrivere le idee, che gli si presentavano dinanzi, sui biglietti dell'autobus e li leggeva poi a Fermi, non appena arrivato a via Panisperna. Per poi stracciarli. In questa attività non c'era nulla di sperimentale o di tecni­ co, si trattava di ipotesi scientifiche e cosmologiche. Il laboratorio del Gran Sasso, il più importante del mondo per lo studio dei raggi cosmici, della materia oscura e dei neutrini, ha dimensioni enormi, con centinaia di fisici nu­ cleari impiegati. Una sua divisione, chiamata Cuore, studia i neutrini, cercando di vedere se essi siano o meno particelle

di Majorana. In modo evidente, lì siamo nel regno della tecnica, s i sta cer­ cando cioè, sperimentalmente, se i caratteri di una particella corrispondano ad una idea pura, ad una ipotesi scientifica. 135

Ma allora, quella ipotesi da dove proviene? Non è in alcun modo il risultato di esperimenti, non ha na­ tura empirica. Si tratta di una misteriosa capacità umana, assai simile a quella di inventare storie affascinanti, poesie o di scolpire un 'opera d' arte. E ogni tentativo di spiegarla, quella capacità, risulta vano, si infrange contro una impossibilità assoluta. E sappiamo che la ricerca è impossibile, perché siamo giunti a un fenomeno originario, non derivato da altro, un caratte­ re del nostro essere uomini, cioè una specie naturale. Siamo qui all'origine e incontriamo lo stesso mistero, che ci appare quando giungiamo al quanto o al punto. Non possiamo indagare oltre, perché non c'è un oltre. Siamo al mistero.

13 6

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140

Indice

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

7

Cosa posso immaginare e cosa no . . . . . . . . . . . . . . . .

8

La Verità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

11

L'artista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

13

Pròblema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

16

Shakespeare, Mozart, Beethoven; e Montale? . . . . . .

18

Kierkegaard . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

20

Baruch Spinoza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

22

Uomini dal cuore ardito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

24

Hybris . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

26

La maschera non riesce ad ingannare . . . . . . . . . . . . .

28

M a questa gallina è eterna? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

31

La ragione greca. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

34

Ancora sulla ragione greca. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

36

Logos, logica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

38

Alfred Jarry, a d esempio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

43

Questo tavolo rotondo è quadrato . . . . . . . . . . . . . . . .

45

Cosa ha senso? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

47

Più forte è la parola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

49

Espressione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

51

Dalla fantasia prelinguistica, la filosofia. . . . . . . . . . . .

53

Pensiero e linguaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

55

141

Dentro e fuori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Idealisti e positivisti, vil razza dannata. . . . . . . . . . . . Filosofo è chi ha il gusto dell'enigma . . . . . . . . . . . . .

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57

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62

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69

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71

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73

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75

Mi piace sciogliere nodi giocando con enigmi variopinti e arrossire del gioco . . . . . . . . Eraclito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ma Eraclito dice anche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il filosofo è solo sul cuor della terra . . . . . . . . . . . . . . Se Einstein professa una fede. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'occidente e l'oriente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La scienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

77

Induzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

79

La figlia uccide la madre? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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81

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83

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85

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88

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91

Misticismo ed esoterismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Orfeo

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Passato e ricordo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . F 1n1to . . ed 1n . fin1to . ..............................

Galileo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

93

Archè . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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96

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97

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98

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99

Il mondo dell'infante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Anamnesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Trascendente e trascendentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . I filosofi classificano nuvole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Causa, ragione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sì, siamo tutti greci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

142

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101

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103

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107

Holderlin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 09

Dobbiamo essere inattuali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

111

Orfeo, Dioniso, Apollo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 12

Heidegger, Wittgenstein . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 15

E vennero i commedianti, con il loro ghigno mendace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 18

Persone senza finalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 20

Il tempo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 22

Come tu appari, Atena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 24

La morte non esiste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 25

Colli, un maestro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

127

La filosofia ha un domani. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 29

Appendice. Majorana, probabilità e leggi naturali . . .

131

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 37

143

Finito di stampare nel mese di maggio d a (� I F Press, Roma

20 1 8