Humanismus? Goethe e dopo

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Humanismus? Goethe e dopo

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REMO BODEI, MASSIMO CACCIARI, CESARE CASES, UMBERTO CURI, BIAGIO DE GIOVANNI, HORST ALBERT GLASER, HANS HQLLER, WOLFGANG KAEMPFER, GERT MATTENKLOTT, THOMAS METSCHER, GIANGIORGIO PASQUALOTTO, JEAN-MICHEL REY, LUIGI RUGGIU

HUMANISMUS? GOETHE E DOPO a cura di UMBERTO CURI

ARSENALE EDITRICE

INDICE

Umberto Curi Presentazione ........................................................ p.

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Cesare Cases II futuro dell'uomo nel Faust II dì Goethe ..................... p.

11

Remo Badei Aì confini dell'umanità. Sviluppi e limiti delle facoltà umane in Goethe ................ p.

19

Gert Mattenklott Goethe e la barbarie culturale ...................................... p.

33

Massimo Cacciari Goethe alchimista dei colori . .. .. . . .. . . .. . .. . .. . . . . . .. . .. ... .. . .. . p.

43

Giangiorgio Pasqua/otto · Goethe e Nietzsche: Mensch e Obermensch .................... p.

57

Thomas Metscher Goethe e il significato attuale dell'idea di umanesimo ........ p. 71 Biagio De Giovanni Su Hegel. Humanitas e destino tra Francoforte e Jena (1799-1802} ... p.

97

Luigi Ruggiu La produzione dell'individuo universale in Marx ............ p. 125 HansHoller Riflessioni sull'umanesimo austriaco dopo Goethe. Grillparzer e Stifter . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . . . .. .. . . . . .. . . .. . .. p. 15 9 Wolfgang Kaempfer L'impronta dell'esperienza contemporanea in Heidegger e Jiinger .............................................. p. 175

Rorst Albert Glaser Sade e la rivoluzione ................................................ p. 187 Jean-Michel Rey Bataille, la morte e il sacrificio ................................... p. 199

UMBERTO CURI

PRESENTAZIONE

«Non un avvenimento tedesco, ma europeo: un grandioso tentativo per superare il XVIII secolo con un ritorno alla natura, con un spingersi in alto, alla neutralità del Rinascimento, una specie di autosuperamento da parte di questo secolo ... Prese in aiuto la storia, le scienze naturali, l'arte antica, pure Spinoza, e soprattutto l'attività pratica... Quel che lui voleva era totalità; combattè la scissione tra ragione, sensibilità, sentimento, volontà ( ... ); si impose una disciplina per la totalità, creò se stesso». Il giudizio appena riportato si riferisce a Wòlfgang Goethe e potrà apparire forse un po' troppo enfatico agli stessi estimatori del poeta tedesco; ma questa impressione può addirittura tramutarsi in stupore, se si pensa che la citazione è tratta dall'opera di un filosofo certamente non sospettabile di indulgenze nei confronti della cultura del proprio paese, e anzi incline al costante esercizio della redargutio philosophiarum. È, infatti, nelle pagine del Crepuscolo degli ìdoli che Nietzsche riconosce a Goethe di «non essersi distaccato dalla vita», preferendo «mettervisi dentro>>, e di «aver preso tutto quanto era possibile sopra di sè, addosso a sè, in sè», riuscendo con ciò a restare un «realista convinto», pur «nel cuore di un'epoca non realistica». Non è questa la sede per approfondire il rapporto GoetheNietzsche, quale emerge dai brani appena citati oltre che da innumerevoli altri passi degli scritti nietzschiani; più importante è, nei limiti di questa presentazione, sottolineare il persistere dell'influenza goethiana nella cultura filosofica dell'Ottocento, anche in autori apparentemente molto lontani dal poeta di Francoforte: ancora molti decenni dopo il periodo del Romanticismo, la Teoria dei colori, ad esempio, ha continuato a rappresentare un riferimento d'obbligo non solo in campo letterario e artistico, ma anche dal punto di vista delle scienze e delle filosofie ostili al diffondersi del positivismo. Non vi è dubbio, d'altra parte, che, più ancora che per singoli contributi in settori determinati della

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UMBERTO CURI

cultura o dell'indagine filosofica, l'importanza della figura di Goethe è in larga misura legata a quella visìone del rapporto fra l'uomo e la natura «i nostri fratelli nel bosco e nel campo» che va sotto il nome di «umanesimo». I saggi raccolti nel presente volume si propongono di analizzare appunto, al di fuori di schemi precostituiti e muovendo da prospettive critiche diverse, il tema dell'umanesimo, quale risulta dalla produzione goethiana, e di inseguire gli sviluppi della problematica «umanistica» in alcune figure del pensiero contemporaneo: Hegel e Marx, Nietzsche e Heidegger, Sade e Bataille, Stifter e Grillparzer. Il centro speculativo da cui si ìrradìa l'indagine a più voci condotta in questo testo resta, comunque, la visione dell'«umano» elaborata da Goethe non soltanto nei suoi scritti più caratterizzati in senso filosofico, ma anche nelle sue opere letterarie e poetiche; si può anzi osservare che proprìo da queste ultime sembrano provenire le suggestioni più significative, soprattutto per quanto riguarda il rapporto fra natura e uomo e fra questi e Dio. D'altra parte, la inolteplidtà degli strumenti impiegati nell'interrogazione dei testi goethiani, e le differenze, talora molto accentuate, intercorrenti fra l'interpretazione degli autori che hanno collaborato a questa ricerca, restituiscono un'immagine molto ricca e sorprendentemente frastagliata della tematica umanistica e del modo in cui essa ricompare nella cultura mitteleuropea, nei centocinquant'anni che ci separano dalla morte di Goethe. Mi pare, anzi, che una fra le novità di maggiore rilievo emergenti dalle pagine che seguono sia costituita dalla scomposizione di talune genealogie speculative accettate spesso in forma acritica e il ritrovamento di connessioni o rimandi inattesi: oltre a Nietzsche, al quale sì è già accennato, anche figùre come quelle di Bataille e Sade, di Marx e in una certa misura dello stesso Heidegger, appaiono assai più vicine al poeta tedesco, almeno nel senso della comunanza di problemi, di quanto non si sarebbe indotti a pensare limitandosi alle identità più note e riconosciute. Assecondando lo «stile» programmaticamente innovativo, e talora anche arrischiato, felicemente collaudato in questo testo, è possibile indicare almeno uno spunto di ricerca, pertinente al tema generale del quale ci stiamo occupando, sul quale risulterebbe probabilmente proficuo ritornare in modo analitico. Mi riferisco all'inno - e al coevo frammento drammatico - dedicati da Goethe a Prometeo, in un periodo in cui la stessa problematica umanistica non ha ancora assunto forma compiuta né una confi-

PRESENTAZIONE

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gurazione definitiva. Mentre, infatti, l'importanza dell'inno (scritto presumibilmente nel 1774, ma pubblicato solo nel 1785 nel volume di F. H. Jacobi, Lettere sulla dottrina dì Spinoza) è stata già ampiamente riconosciuta, per quanto riguarda del famoso Spinoza-Streit, non altrettanta attenzione è stata fin qui riservata all'intonazione «umanistica» del componimento, soprattutto se esso viene letto in rapporto all'inno sui «Limiti dell'uomo», redatto nel 1781. Basti ricordare, solo per esplicitare una possibile chiave di lettura, quanto ha scritto Giuliano Baioni a commento di questi due inni, e dell'intima connessione fra essi riconoscibile, a dispetto dell'intento polemico con cui il secondo sembra richiamare il primo; al contrario, «superando i limiti dell'umano, Goethe compie un'operazione analoga a quella dì Kant che, con la sua Critica, estende la critica della ragione alla ragione stessa»; allo stesso modo, «la volontà di porre i limiti dell'umano significava anche porre i limiti del divino». In questa prospettiva, l'invettiva blasfema del Prometeo si salda coerentemente, piuttosto che semplicemente contrapporsi, al monito contenuto nei Grenzen der Menscheit: la dignità dell'uomo, la forza che si sprigiona allorché si superi ogni visione dicotomica del rapporto fra Verselbstung e Entselbstigung, recuperandone al contrario la complementarietà, come sistole e diastole di una religiosità cosmica, non consiste nell'esaltazione sturmeriana del potere demiurgico dell'uomo, nella pretesa assolutezza della sua libertà, ma piuttosto nel riconoscimento e nella determinazione dei limiti dell'uomo, nella comprensione che «un piccolo anello chiude la nostra vita» (I limiti dell'uomo, 37-38). È vero, infatti, che «tutti dobbiamo compiere il cerchio della nostra esistenza» (Il divino, 34-36), perché padroni dell'uomo sono «il tempo onnipotente e l'eterno destino» (Prometeo, 44-45), quel destino che agisce sull'animo dell'uomo come «il vento sull'onda» (Canto degli spiriti sulle acque, 28-29); ma è vero, altresì, che «l'uomo soltanto può l'impossibile: egli distingue, giudica e sceglie» (// divino, 39-40). Nella sia pur esile linea concettuale che ricongiunge gli inni goethiani del periodo weimeriano, affiora il risoluto superamento della giovanile identificazione irrazionalistica di cuore e natura e la prefigurazione di un umanesimo elaborato, non già rinnegando, ma massimamente valorizzando i caratteri, e i limiti, della Humanitat. Un piccolo anello chiude la nostra vita; tempo e destino sono padroni dell'uomo: e tuttavia, distinguendo, giudicando e scegliendo, l'uomo «all'istante può dare durata» (Il divino, 41-42).

UMBERTO CURI

Lo spunto per la redazione dei saggi compresi nel presente volume è stato offerto dal Convegno internazionale di studio - significativamente intitolato «Humanismus? Goethe e dopo» svoltosi a Venezia due anni or sono, per iniziativa dell'Istituto Gramsci Veneto e del Goethe-Institut. Tutti i contributi qui di seguito riportati sono stati rielaborati e finalizzati alla stampa dai singoli autori, ai quali rivolgo un caloroso ringraziamento per la cura e la tempestività con cui hanno provveduto al lavoro di revisione. Mi sia consentito, infine, un ringraziamento particolare al prof. Wolfgang Kaempfer, Direttore del Goethe-Institut di Trieste, senza la cui collaborazione né il Convegno né questo volume sarebbero stati possibili.

Venezia, settembre 1984

(nota: Le citazioni di Goethe sono tratte da W. GOETHE, Inni, pref. trad. e commento dì G. Baìoni, Torino 1967).

CESARE CASES

IL FUTURO DELL'UOMO NEL FAUST II DI GOETHE

È noto che l'accoglienza di Faust. Ein Fragment del 1790 fu diversa tra i letterati e tra i filosofi: fredda tra i primi, entusiastica tra i secondi. Nel 1806 Luden racconta a Goethe che egli e i suoi compagni di studi a Iena pensavano: «In dieser Tragodìe, wenn sie einst vollendet erscheine, werde der Geìst der ganzen Weltgeschichte dargestellt sein; sie werde ein wahres Abbild des Lebens der Menschheit sein, Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft umfassend. In Faust sei die Menschheit idealisiert; er sei der Reprasentant der Menschheit» 1 • Dato che questa rìevocazione ha luogo prima della pubblicazione della prima parte del Faust, non è possibile che sia stata influenzata a posteriori dal poema. Eppure, ben poco nel Fragment giustificava le ipotesi degli studenti discepoli di Fichte e di Schelling. Erano un wishful thinking estrapolato dalle dottrina dei loro maestri? Forse. In realtà il Fragment conteneva in gran parte materiale delF Urfaust, cioè i due drammi: quello dell'aspirazione alla conoscenza totale e quello dell'amore. Nessuno dì questi due drammi aveva una dimensione propriamente storica, e anche quella metafisica era presupposta ma non sviluppata, perché mancava la scena del patto. Gli unici versi in cui c'è qualcosa di simile a un'identificazione dì Faust con l'umanità sono quelli che iniziavano l'ultima parte (la sola allora esistente, aggiunta nel Fragment prima della scena dello studente) appunto della scena del patto: Und was der ganzen Menschheit zugeteìlt ist Will ìch in meinem ìnnern Selbst genieBen, Mit meinem Geist das Hochst' und Tìefste greifen, 1hr Wohl und Weh auf meinen Busen haufen, Und so mein Selbst zu ihrem Selbst erweitern, Und, wie sie selbst, am End' auch ìch zerscheitern2 •

Anche l'identificazione di questi versi riguarda l'estensione delle esperienze: Faust vuole concentrare in sé quelle dell'umani-

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CESARE CASES

tà e Mefistofele gli risponde irridendo alle sue pretese, poiché «dieses Ganze/ ist nur fur einen Gott gernacht» 3 • Dunque se Faust «rappresenta» l'umanità è solo nel senso dello «Streben» contrapposto al «GenuB» mefistofelico, come si vedrà poi nel Prologo in cielo. Ma questo «Streben» sembra ancora attuarsi nella vita individuale, non nella dimensione storica: la totalità cui esso aspira è sincronica e Mefistofele invita ironicamente Faust a collezionare le opposte qualità dei diversi animali e popoli. In realtà solo nel secondo Faust il protagonista diventa almeno apparentemente quello che Luden e i suoi compagni auspicavano che diventasse: 4 • Ciò che lo inquieta più profondamente è la sopravvivenza feticistica e magica dei miti pagani nelle elucubrazioni della superstizione e del misticismo. Tali forme le ha designate come «facenti parte dell'essere dell'uoJQo» 5 e da sempre anche «come a Roma oltre ai romani c'era anche un mondo di statue, così oltre a questo mondo reale c'è un altro mondo deH'ìllusione quasi molto più potente, in cui vive la maggior parte degli uomini6 ». Demonìaca è la costante attualità di questo secondo mondo di immaginazione religiosa ed estetica, perché essa stessa in molteplice maniera produce di nuovo realtà. Innanzitutto è una forza produttiva dell'arte. Nel «Globe» francese del 1827 Goethe trova la raccomandazione, nella ricerca di materiale letterario, di occuparsi anche di mitologìa e di poesia popolare. Subito mette in campo contro il fenomeno dei demoni e delle streghe che si poté sviluppare soltanto in epoche tristi e paurose da una forza d'immaginazione confusa e che poté · trovare il suo nutrimento nel lievito della natura umana», la mitologìa dell'antichità classica, che egli celebra come «l'incarnazione dell'umanità valorosa più pura»7 • Di sol.ito tali rifiuti del caotico e inquietante, di ciò che è terribile e suscita paura vengono interpretati come l'ultima parola di Goethe e come il compimento del suo classicismo, a torto però, perfino nel passo citato. Infatti non appena sono stati doverosamente tracciati i confini, le frasi seguenti contengono già il loro superamento. Il poeta deve riservarsi il diritto di libera scelta del suo materiale e subito dopo, più concretamente: Delacroix proprio sulla base della sua «maniera selvaggia», della sua veemenza, della violenza e rozzezza di composizioni e colorito avrebbe creato delle mustrazioni al suo dramma Faust (cui nessuno avrebbe potuto pensare)8. Soltanto dopo la morte di Goethe i contemporanei vennero a sapere che la clausola di riserva per la rappresentazione poetica della subcultura del bizzarro era assolutamente intesa anche pro domo sua, cosa di cui la pubblicazione del II Faust dalle opere postume non poteva lasciare dubbio. Che qui si tratti di qualcosa di più che una licenza poetica per la rappresentazione del brutto lo mostra il nesso nascosto in cui

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GERT MATTENKLOTT

il passo citato sta con la concezione, che Goethe stesso annovera tra le cose «più gravi», che egli aveva da comunicare. Sotto questo titolo nel 1820 una giustificazione dell'errore di estremo sapore gesuita. Ci sarebbero molte cose eccellenti, nate da false premesse, perché l'errore sarebbe una forza motrice ugualmente buona come la verità. Decisivo sarebbe tuttavia quello che è prodotto, non l'intenzione o la convinzione con cui viene prodotto qualcosa. La nota si chiude così: «anche il distruggere però non è senza conseguenze felici» 9 • Estremamente serie lo sono queste considerazioni, comunque, a causa del loro contenuto, in assoluto inoltre perché di importanza che va al di là dell'arte. Il loro tema è la produttività dell'abbaglio e della distruzione, il motivo: la debolezza del positivo. A che cosa serve dire la verità, se viene detta senza forza? Rimane sempre verità, ma inerte. C'è bisogno del diavolo, affinché Faust si svincoli dal Medioevo. ~,,~~·•n della resistenza di cui il bene ha bisogno per imporsi contro le forze del male servono anche al suo proprio sviluppo e articolazione. Così il vortice del negativo può solo diventare potente: «Il mondo si sfascia come un pesce marcio, non vogliamo imbalsamarlo» si dice negli Epigrammi mansueti1°. Al marcio è legata la speranza del miglioramento. 0

Che il meramente positivo sia noioso, ce lo vuol far credere già da molto - compiacendosi de1la sollecitazione nervosa il satanismo letterario. Ma qui non si tratta di questo, ma di una intima mancanza di energia. Si può non dubitare della notevole moralità, ma essa da sola non muove il positivo. Il fariseismo è una sorta di pigrizia nel regno dello spirito. Viene a mancare allora lo spirito elettrico, che tende all'azione produttiva. La sua tensione viene dal negativo. Di per sé, da solo, il positivo non offre nessun incentivo. Ciò che gli manca, perfino nella piena consapevolezza della propria verità e giusizia, è quella mescolanza e impurità contro cui deve difendersi. La verità pura è solitaria. Nel suo accoppiarsi al falso viene sminuita in quanto verità, ma in cambio acquisisce un diritto sul vivente. Nell'economia metafisica di questo rapporto il ridimensionamento produce un rafforzamento dell'intensità. Il selvaggio e caotico, il nauseante e fantastico sono, completandosi a vicenda, contemporaneamente, una condizione di cultura e una premessa del suo essere viva.

GOETHE E LA BARBARIE CULTURALE

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Dall'inizio della sua autonomia intellettuale l'interpretazione goethìana della vita culturale è fisiognomica. Per noi ciò significa: la cultura è qualcosa di composito. C'è un dentro e un fuori, un centro e una periferia, un sopra e un sotto, e c'è l'illusorio: la composizione in sé contraddittoria, testa d'uomo e coda di drago, volto leggiadro con corpo di pesce. Gli ambienti del Faust sono popolati corrispondentemente, così come il loro rapporto reciproco è complementare. Ne risulta che il regno mefistofelico del negativo non è l'altro, lo sconosciuto per eccellenza, nei cui confronti il mondo umano, si debba chiudere, ma il suo sempre attuale sostrato. «Possiamo pur conoscere il mondo come vogliamo, esso conserverà sempre una parte chiara e una oscura» 11 • Ragionevolmente non si può pretendere come sì insegna - di fondare e definire esclusivamente la cultura. Sarebbe assurdo, perché la realtà del Barbarico si può negare, ma non per questo sì può eliminare. E inoltre sarebbe anche però fatale: «La superstizione fa parte dell'essere dell'uomo e fugge, quando si pensa di reprimerla del tutto, negli angoli e interstizi più strani, da dove improvvisamente esce fuori di nuovo quando in un certo senso crede di essere sicura 12 ». Manifestandosi inaspettatamente, ciò che è rozzo e atavico non trova nessuna resistenza e allora dispiega la sua forza distruttiva. Come si riesce a dominare queste forze costituisce per Goethe un problema difficile, perché esse non si possono localizzare certamente; la superstizione sembra essere radicata più fortemente negli strati popolari che in quelli più elevati; il rozzo, barbarico si afferma più prepotentemente se non trova ostacoli di natura culturale. Ma tali limitazioni sono inattendibili. Composito è infatti non solo l'ambiente culturale. Il rapporto di vero e falso, di razionale e assurdo viene rinnovato continuamente dalla interiorità di ogni individuo ed esattamente al di là di prevenzioni storiche di epoche non illuminate o di stigmatizzazioni sociali. Il terrore arriva fino al singolo, nel suo intimo, come lo dice la seguente considerazione delle Massime e Riflessioni: «L'uomo è posto come reale nel mezzo di un mondo reale e dotato di organi tali, cosicché possa riconoscere e produrre il reale e con esso il possibile. Tutti gli uomini sani hanno la convinzione del loro esistere e di una realtà intorno a loro. Inoltre neLcervello c'è una macchia cava, cioè un posto, dove non si specchia nessun oggetto, così come nell'occhio stesso c'è una macchietta che non vede. Se l'uomo presta attenzione a que-

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GERT MATTENKLOTT

sto posto, se ci pensa a fondo, cade allora in una malattia dello spirito, presagisce cose di un altro mondo che a dire il vero sono non cose, non hanno né figura né limiti, ma impauriscono solo come incubi notturni e perseguitano chi non se ne libera più che se fossero spiritì» 13 • Come Goethe intese e praticò di volta in volta questo liberarsi, ha determinato la complessità del suo umanesimo e la sua corrispondenza alla realtà. Dal punto di vista biografico e pratico questo è facilmente deducibile dal suo rapporto con la generazione dei giovani romantici, ai quali proprio sembra riferirsi l'osservazione citata: rapporto con Hoelderlin, Kleist, Hoffmann e Brentano, gli Schlegel e Byron. Non voglio qui rappresentare quel rapporto, ma invece indugiare ancora presso quella figura teoretica, in cui Goethe abbraccia il trattamento della «macchia cava». Del cervellQ e delle «non cose» in essa celate. La macchia cava è un simbolo del non umanizzabile e tuttavia umano, di ciò che si sottrae alla parola e ad ogni ragione e tuttavia senza ombra di tlubbio partecipa e condiziona insieme la vita. La figura però, che Goethe descrive per poterla trattare, che descrive continuamente nei contesti più svariati, come se volesse imprimersela per bene - la si potrebbe definire come una conversione sempre rinnovata. Deve dimostrare deferenza a ciò che è incomprensibile e perfino a ciò che non comprende nulla, senza cadere in sua balia. Mi sembra che appartenga ai geroglifici delle opere goethiane, la cui interpretazione per il presente può essere più produttiva di quanto non lo sarebbero prestiti in buona fede dal suo umanesimo classìco. · Notevole è anzitutto il fatto che l'umanità con questa figura non viene intesa come un bastione, che potrebbe venire rafforzato con valori stabili, ma viene intesa nella sua forma di evento e di azione: come umanizzarsi, liberarsi dalle non cose. Nella teoria culturale a questo dovrebbe corrispondere una perdita di sostanza. Ciò riguarda anche l'altro aspetto, la barbarie culturale. Nemmeno essa, alla stregua della sua controparte colta, è qualcosa di stabile, per cui non si può nemmeno delimitare secondo il modello dei parchi naturali che, come isole della preistoria e della storia naturale, sono vecchie quanto la storia stessa della civiltà. La loro quantità di umanità realizzata è instabile, perché le figure nelle quali l'umano vuole guadagnare appoggio possono essere sempre considerate come stazionarie.

GOETHE E LA BARBARIE CULTURALE

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Nei confronti della vita. sono infatti già qualcosa di morto, la cui funzione produttiva è sì importante come la pelle per il corpo, e che però devono, per esigenze di vita stessa, di nuovo venir abbandonate e respinte. - Di nuovo tutto è valido - si può applicare anche per l'altro aspetto. È ozioso voler definire le «non cose» e lasciar vagare la fantasia nei riguardi di quelle già dotate di una denominazione ben determinata, come attualmente succede con vacanze-safari, esercizi per sopravvivere e moda-sado - . Poiché si tratta di energie, non di determinati contenuti - energicamente agisce attraverso il suo vortice anche il vuoto della «macchia cava» nel cervello - tutti i tentativi di addomesticamento sboccano soltanto «in una barbarie» industriale e voluttuaria e nel corrispondente affare artistico. La dinamizzazione della svolta dal negativo che non tollera alcun raffinato una svolta per sempre, ma tollera chiarificazione solo come processo, significa inoltre che la memoria culturale può avere funzione umanizzante soltanto ad una condizione molto limitativa. In questo ambito infatti non c'è possesso: piuttosto il ricordato garantisce solo in quanto si intesse nell'attività di vita presente. Ciò che altrimenti può venir chiamata cultura, è in realtà un arsenale di requisiti per diversi scopi rappresentativi che variano. Il vecchio Goethe l'ha constatato molto asciuttamente in un discorso con il cancelliere Mtiller: «Non stabilisco nessun ricordo nel nostro senso ... In qualunque cosa grande, bella, importante noi ci imbattiamo, non dobbiamo ricordarcene partendo dal di fuori, per così dire conquistarla. Piuttosto essa deve concrescere già dall'inizio nel nostro intimo, diventare una con noi, generare un nuovo e migliore io in noi e, formandolo eternamente, continuare a vivere in noi e creare. Non c'è niente di passato, che si possa ridesìderare, c'è solo un eternamente nuovo, che si configura dagli elementi stessi del passato». La cultura della memoria, dell'eredità e del ricordare, del conservare e rivitalizzare mantiene dei suoi beni solo ciarpame. Soltanto con accordamento e trasformazione con adeguamento il passato è annullabile. I buchi del terreno culturale non si possono coprire e chiudere con belle cose, come anche i prodotti di per sé non hanno valore se non vengono rinnovati produttivamente. In tal maniera, in opposizione alla reizzazione filistea, la comprensione della cultura umana sì sposta dai prodotti al produrre, dal possesso all'aspetto esteriore.

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GERT MAITENKLOTT

Oggi il potenziale critico di questa concezione non è per niente esaurito. Invece di porre pretenziosamente la domanda, che cosa Goethe abbia ancora da dire, mi sembra più adeguata l'altra: come possiamo continuare a vivere di fronte al criticismo radicale come esso si manifesta nel rifiuto della cultura borghese della memoria. Che cosa sono alla fine tutte le mostre sui Medici, sugli Staufen, sui Tut-Ench-Amum, sulla Prussia se non impotenti tentativi di cercare di acquisire il grande, bello e importante, mentre d'altra parte procede l'inaridimento del paesaggio culturale. Infatti anche in rapporto feticistico con la tradizione culturale è importante non solo come contrappunto verso l'atavismo e la mancanza di cultura - ne é in verità il loro stesso sintomo. Anche le figure della superstizione si trasformano. Così i feticci di una volta ritornano oggi nei rituali esorcistici della odierna politica culturale pubblica. I Cagliostro del 18° sec. stanno oggi nelle autorità culturali. La barbarie culturale perciò non si trova alla periferia o al di fuori della nostra cultura, e nemmeno sotto il suo selciato, dove solo l'incorreggibile romanticheria dei discepoli di Poona e di altre sette può cercarla. All'ombra del potere e da esso protetta e sovvenzionata questa barbarie si allarga nel centro stesso, una «macchia cava» dell'assurdo che diventa sempre più grande e profonda quando sparisce l'energia per il cambiamento. Se questa ha, al giorno d'oggi, una possibilità di crescere, allora latrova per lo più nelle microculture delle grandi metropoli. (Trad. di Carla Galvan)

NOTE

1. GOETHE: Siimtliche Werke, Propylaen-Ausgabe, Bd. 4, p. 126 (lettera del 12.6.1781). 2. GOETHE: Tag- und Jahreshefte, 1805. In: GrojJherzog Wilhelm Ernst Ausgabe (WEA), Leip:rig 1910, voi. V, p. 452. 3. EDGAR WIND: Art and anarchy (1963). In: E.W.: Kunst und Anarchie. Frankfurt a.M. 1979, p. 10. 4. GOETHE: Maximen umi Reflexionen. In: dtv.-Gesamtausgabe (Text der Artemìs-Ausg.) Bd. 21, p. 21. 5. Ivi, p. 60. 6. Ivi, p. 32. 7. GOETHE: Aus dem Franzosischen des Globe. Bemerkung des Obersetzers. In: WEA XIII, p. 276. 8. Ivi, p. 277. 9. GOETHE: Maximen und Ref/exionen, a.a.O., p. 22. 10. GOETHE: Zahme Xenien V. 11. GOETHE: Maximen und Reflexionen, a.a.O., p. 32. 12. lvi., p. 60. 13. Ivi., p. 29. 14. GOETHE: Gespriiche mit d. Kanzler Mìì.ller.

MASSIMO CACCIAR!

GOETHE ALCHIMISTA DEI COLORI

R.D. Gray ha già dimostrato, ormai trent'anni fa, la continuità e l'importanza, per il complesso della sua opera, delle «frequentazioni» alchemiche di Goethe. Esse non sono mai, beninteso, «pure» - ma la iconologia alchemica lo soccorre continuamente nel dare forza figurativa, vis imaginativa, ai motivi e alle idee che gli provengono dalla tradizione neo-platonica, rivissuta attraverso Bruno e Spinoza, da Boehme, dal pietismo settecentesco. (La sua scienza, la sua esperienza scientifica non appaiono mai disgiungibili da tali motivi) il suo metodo, cioè, non va, come tanti «illuminati» interpreti continuano a spiegare, dall'alchimia alla scienza, ma dall'entusiasmo alchemico degli anni giovanili, dall'apprendistato alchemico del giovane che cerca di distillare la panacea, il Liquor silicum, la Terra Vergine - ed è da questa ingenua alchimica pratica che Herder lo distoglierà per sempre all'Brsuchende Mensch degli anni dei grandi studi di botanica, anatomia, mineralogia, fisiognomica, ottica, all'uomo instancabilmente sulle tracce di Atalanta Jugiens - di quell'unità, o simpatia cosmica, di quell'essere della natura, la cui intellettuale intuizione sola potrebbe salvare dall'analisi, dalle vivisezioni che opera l'intelletto produttivo-impositivo, per dirla con Heidegger, della moderna téchne. Non vogliamo, dunque, illustrare la presenza in Goethe di questa tradizione. È già stato fatto benissimo. È evidente come nel Faust stesso il principio mefistofelico stia nella più totale opposizione a quello alchemico. È la magia nera o della mano sinistra che scaglia «nel roteante rombo degli eventi», che condanna - come dirà Baader - al «verme divoratore», al «fuoco distruttore» del tempo falso della ruota di Issione. Chi afferma «tutto ciò che nasce merita di morire» - chi nega ogni possibile persistere chi condanna l'esistere a mera vanità e apparenza (la triplice negazione di Mefistofele: ciò che è stato, non è - ciò che sarà, non è - e il presente non è che l'incrociarsi delle due precedenti nega-

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MASSIMO CACCIAR!

zioni), non è l'akhìmìsta, ma il suo nemico mortale: il mago che analizza-dissolve la natura come mero Bestand, che concepisce qualsiasi altro come ente puramente calcolabile-manipolabile. Il Mago che, scinde, de-cide, l'operari, la téchne, da qualsiasi valore soteriologico - e, in uno, scinde, de-cide, la cosa da qualsiasi significato o virtù cosmologici. Queste considerazioni portano già in medias res. Nell'opposizione al nihilismo mefistofelìco, colto secondo questa accezione radicale, si gioca il significato dell'Humanismus goethiano - gigantesco e davvero para-dossale tentativo di mediare, attraverso un Andenken rigenerante le «incompiute albe» del Rinascimento, dal Cusano al Bruno, forma simbolica e costruzione analitico-sperimentale, visione organico-vivente del Weltall e il soggetto, la soggettività calcolante-disponente, della moderna scienza della natura. Noi seguiremo tale problema soltanto nel campo della teoria dei colorì - campo, però, come vedremo per alcuni esempi, del tutto affine agli altri in cui si esercita il Goethe «scienziato», e di straordinario rilievo per la spiegazione della tesi appena esposta. «Pollai morphai tòn daimoniom> ripéte Goethe - il Goethe classico tragico, che Nietzsche per primo riconobbe - epperò «per quanto in molteplici forme tu ti nasconda doch, Allerliebste, erkenn ich dich». Allgegenwi:irtige è chiamata: è l'Uno che si divide nei molti restando sempre presso se stesso , custodendosi in sé - è l'Uno che si versa, trabocca nei molti eppure, pm s1 dona più appare ricco, colmo. Herrlich dice Goethe lungo tutta la sua opera - questa Presenza inesauribile, la sua Gloria, cui l'uomo partecipa essenzialmente, poiché la Presenza neppure sarebbe senza l'occhio che la coglie, se non si raccogliesse, cioè, in quel vaso d'elezione che è l'uomo. (Goethe declinò, più tardi, nei termini della terza Critica questa idea di partecipazione, sotto anche l'influsso schilleriano, ma la sua origine è del tutto estranea alla forma kantiana del giudizio riflettente). Ma vedere questo Uno-molti, questa Vita-morte, questa Simpatia-differenza, avviene al culmine della forza dell'occhio - allorché lo sguardo rivolto all'apparenza/a tutt'uno (non si supera! non si trascende né si sublima»!) mit den Augen des Geistes. L'eidos, l'idea, è veramente visibile {si ricordi il famosissimo dialogo con Schiller), poiché a noi è dato riconoscere che la natura «hat weder Kern/ Noch Schale». Felice veramente è per Goethe colui che vede ma vede veramente colui che sa guardare l'esistenza con gli occhi dello spirito. Così Goethe vede la forma elementare, la Gestalt

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della pianta, J'unità del vivente attraverso le sue metamorfosi {l'ox intermaxillare) - l'originarietà del rosso granito. E il colore - anzi, nei colori, «la dea più bella»: Iride. L'insensatezza di un paragone tra la Farbenlehre e l'ottica newtoniana come se si trattasse di opere dello stesso «genere» o della stessa disciplina, è ormai un topo della letteratura crìtìca. Wittgensteìn nelle sue Osservazioni sui colori non solo stabilisce come i problemi che avevano stimolato Goethe fossero diversi da quelli di Newton - e quindi irrisolvibili a priori con gli strumenti newtoniani - ma anche e di conseguenza, come Goethe avesse ragione a non trovare le proprie interrogazioni soddisfatte dalle risposte del suo grande avversario. Se la domanda goethiana è di natura - come afferma Wittgenstein fenomenologico-psicologica, allora - e solo allora - «il bianco non è un colore composto», poiché non possiamo conferire nessun senso fenomenologico-psicologico a questa proposizione. E nessun esperimento potrà «né concordare», né contraddire il tipo di analisi del colore che Goethe richiede. Ma le cose non stanno così semplicemente. O, meglio, starebbero esattamente come le pone Wittgenstein, se l'analisi richiesta da Goethe fosse esclusivamente di carattere fenomenologico-psicologico. Allora i due «campi» potrebbero convivere pacificamente, e la disputa tra Newton e Goethe essere relegata alla storia dei fraintendimenti e degli equivoci. Ma l'accanimento con cui Goethe, per tutta la vita, insistette sull'{(equivoco.», accanimento che risulterebbe rafforzato. se allargassimo l'indagine all'intera Naturphilosophie che gli è contemporanea - e, naturalmente, a Schopenhauer ci mette sull'avviso che la sua resistenza ad accettare quella comoda divisione dei ruoli doveva avere radici ben profonde. Egli vede come Heller ha spiegato nel metodo stesso della moderna scienza della natura la volontà di liquidare la dignità della domanda ontologica intorno al «che cosa», l'eliminazione di queU'«occhìo» dello spirito che solo può cogliere il principio interiore dell'organizzazione delle forme viventi, l'isolamento - l'ab-solutizzazione - dell'esperienza dalla pienezza dell'uomo {dignitas hominis) per arrivare «a conoscere la natura esclusivamente attraverso strumenti artificiali». In ciò consiste, a mio avviso, la ragione fondamentale della polemica contro Newton - essa riguarda la natura dell'esperimento. L'esperimento goethiano vuol essere «mediatore» tra soggetto e oggetto (così si titola un saggio del '92, rivisto da Goethe nel 1823), quello newtoniano, invece, afferma Goethe, costruisce per i fenomeni «una tenebrosa camera di tortura empirico-meccanico-

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zioni), non è l'alchimista, ma il suo nemico mortale: il mago che analizza-dissolve ia natura come mero Be.stand, che concepisce qualsiasi altro come ente puramente calcolabile-manipolabile. Il Mago che, scinde, de-cide, l'operati, la téchne, da qualsiasi valore soteriologico - e, in uno, scinde, de-cide, la cosa da qualsiasi significato o virtù cosmologici. Queste considerazioni portano già in medias res. Nell'opposizione al nihilismo mefistofelico, colto secondo questa accezione radicale, si gioca il significato dell'Humanismus goethìano - gigantesco e davvero para-dossale tentativo di mediare, attraverso un Andenken rigenerante le «incompiute albe» del Rinascimento, dal Cusano al Bruno, forma simbolica e costruzione analitico-sperimentale, visione organico-vivente del Weltall e il soggetto, la soggettività calcolante-disponente, della moderna scienza della natura. Noi seguiremo tale problema soltanto nel campo della teoria dei colori campo, però, come vedremo per alcuni esempi, del tutto affine agli altri in cui si esercita il Goethe «scienziato», e di straordinario rilievo per la spiegazione della tesi appena esposta. «Pollai morphai ton daimonion» ripéte Goethe - il Goethe classico tragico, che Nietzsche per primo riconobbe - epperò «per quanto in molteplici forme tu ti nasconda doch, Allerliebste, erkenn ich dich». Allgegenwltrtige è chiamata: è l'Uno che si divide nei molti restando sempre presso se stesso , custodendosi in sé - è l'Uno che si versa, trabocca nei molti - eppure, più si dona più appare ricco, colmo. Herrlich dice Goethe - lungo tutta la sua opera - questa Presenza inesauribile, la sua Gloria, cui l'uomo partecipa essenzialmente, poiché la Presenza neppure sarebbe senza l'occhio che la coglie, se non si raccogliesse, cioè, in quel vaso d'elezione che è l'uomo. (Goethe declinò, più tardi, nei termini della terza Critica questa idea di partecipazione, sotto anche l'influsso schilleriano, ma la sua origine è del tutto estranea alla forma kantiana del giudizio riflettente). Ma vedere questo Uno-molti, questa Vita-morte, questa Simpatia-differenza, avviene al culmine della forza dell'occhio allorché lo sguardo rivolto all'apparenza/a tutt'uno (non si supera! non si trascende né si sublima»!) mit den Augen des Geistes. L'eidos, l'idea, è veramente visibile (si ricordi il famosissimo dialogo con Schiller), poiché a noi è dato riconoscere che la natura «hat weder Kern/ Noch Schale». Felice veramente è per Goethe colui che vede ma vede veramente colui che sa guardare l'esistenza con gli occhi dello spirito. Così Goethe vede la forma elementare, la Gestalt

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della pianta, l'unità del vivente attraverso le sue metamorfosi (l'ox intermaxillare) - l'originarietà del rosso granito. E il colore - anzi, nei colori, «la dea più bella»: Iride. L'insensatezza di un paragone tra la Farbenlehre e l'ottica newtoniana come se si trattasse di opere dello stesso «genere>) o della stessa disciplina, è ormai un topo della letteratura critica. Wittgenstein nelle sue Ossgrvazioni sui colori non solo stabilisce come i problemi che avevano stimolato Goethe fossero diversi da quelli di Newton - e quindi irrisolvibili a priori con gli strumenti newtoniani ma anche e di conseguenza, come Goethe avesse ragione a non trovare le proprie interrogazioni soddisfatte dalle risposte del suo grande avversario. Se la domanda goethiana è di natura - come afferma Wittgensteìn - fenomenologico-psicologica, allora - e solo allora - «il bianco non è un colore composto», poiché non possiamo conferire nessun senso fenomenologico-psicologico a questa proposizione. E nessun esperimento potrà «né concordare», né contraddire il tipo di analisi del colore che Goethe richiede. Ma le cose non stanno così semplicemente. O, meglio, starebbero esattamente come le pone Wittgenstein, se l'analisi richiesta da Goethe fosse esclusivamente di carattere fenomenologico-psicologico. Allora i due «campi» potrebbero convivere pacificamente, e la disputa tra Newton e Goethe essere relegata alla storia dei fraintendimenti e degli equivoci. Ma l'accanimento con cui Goethe, per tutta la vita, insistette sull' «equivoco», accanimento che risulterebbe rafforzato se allargassimo l'indagine all'intera Naturphilosophie che gli è contemporanea - e, naturalmente, a Schopenhauer - ci mette sull'avviso che la sua resistenza ad accettare quella comoda divisione dei ruoli doveva avere radici ben profonde. Egli vede - come Heller ha spiegato - nel metodo stesso della moderna scienza della natura la volontà di liquidare la dignità della domanda ontologica intorno al «che cosa», l'eliminazione di quell'«occhio» dello spirito che solo può cogliere il principio interiore dell'organizzazione delle forme viventi, l'isolamento - l'ab-solutizzazione - dell'esperienza dalla pienezza dell'uomo (dignitas hominis) per arrivare «a conoscere la natura esclusivamente attraverso strumenti artificiali». In ciò consiste, a mio avviso, la ragione fondamentale della polemica contro Newton - essa riguarda la natura dell'esperimento. L'esperimento goethiano vuol essere «mediatore» tra soggetto e oggetto (così si titola un saggio del '92, rivisto da Goethe nel 1823), quello newtoniano, invece, afferma Goethe, costruisce per i fenomeni «una tenebrosa camera di tortura empirico-meccanico-

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dogmatica». Da un lato, l'esperimento come ponte (o arcobaleno) che congiunge (Omnia coniungo è i1 motto della Sophia nel suo opporsi al Solve diabolico) il soggetto nella sua pienezza di mathein e pathein alla realtà come vita, come physis; dall'altro, l'esperimento come provocazione, affinché la natura corrisponda al nostro bisogno, si disponga come mathémata. Ciò che appare un «equivoco», è in realtà una differenza abissale e intransitabile - la cui formulazione rimanda con prepotenza al centro stesso della questione della tecnica e del concetto di umanesimo. Gli «esperimenti» della Farbenlehre hanno natura simbolica: sposano l'analisi sulla percezione e psicologia dei colori alla ricerca .della sua idea, del suo Urphanomen. Vogliono far giungere alla visione di tale idea - manifestarla. Tale manifestazione non ha nulla a che fare con la «tortura» provocante newtoniana, poiché, in questo caso, si tratterebbe di disvelare ciò che è il proprio del colore, il proprio del suo linguaggio. Questo tipo di «esperimento» è alchemico nella sua stessa essenza - riflette esattamente la poiesìs alchemica come disvelamento dell'idea della natura, manifestazione del suo oro, pro-duzione del suo stesso principio immortale, pro-duzione che «salva», rende immortale, lo stesso soggetto che la opera. In questo senso, vi è un evidente parailelismo tra l'opera sulle piante e quella sui colori - che Gray ha sottolineato -: la metamorfosi rivela un télos; la trasformazione è anche «purificazione», è anche «geistige Leiten> cui l'uomo partecipa ek-statìcamente. Ascesa al Fiore, alla Rosa ascesa al Rosso, alla Porpora. «Ur-phanomen della Farbenlehre è la tensione, il «gioco» di Luce e Tenebre. Perché si dia colore, perché qualcosa appaia iµ genere è necessario questo contrasto. Apparizione e Entzweien divisione, differenza - sono per Goethe sinonimi. I colori sono «le passioni della luce» nel suo contrasto con le Tenebre. Lungi dall'esserne composta, la Luce li manifesta attraverso questo contrasto. La luminologia goethiana deriva espressamente da fonti neo-platoniche, rivissute in ambito umanistico, da Cusano a Ficino a Bruno - dalla kabbala cristiana ed ebraica. In Cusano, le creature sono resplendentia (ri-suonano) del resplendere-relucere dell'Archetipo, che irradia in assoluta sovranità. In Dio, dice il Cusano, elucescunt le cose. Noi non potremmo neppure sopportare la piena Luce divina - la Luce che promanerebbe dal Sole iperuranio che I' Alberti disegna al centro del triangolo culminante la facciata di S. Maria Novella. Quella Luce - dice la Kabbala - per noi è eguale a completa oscurità. Ma c'è dato co-

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gliere l'irradiarsi di quella Fonte, intenderne l'unicità e attraverso tale intendimento speculare la Verità. Dall'inquietudine proteica che afferra di fronte alla molteplicità delle manifestazioni, la luminologia ficiniana riconduce così alla speculazione della loro Madre uniforme - del Sol invictus, che si mantiene colmo, in sé, in tutte le «figure» cui dà luce. Così scrive Bruno negli Eroici furori: «Però a nessuno p8:fe possibile de vedere il sole, l'universale Apolline e luce absoluta per specie suprema ed eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l'universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell'opacità della materia, cioè quella in quanto splende nelle tenebre» {c.n.). Non si potrebbe dire con maggiore precisione l'Ur-phanomen goethìano della Farbenlehre. La completezza e totalità di quella Fonte re-luce nel sistema dei colori: il loro movimento si compone in un tutto ordinato (Lux-Lex, spiegavano i kabbalisti), secondo definiti rapporti di affinità e complementarietà: di simpatia. II simbolismo del colore richiama l'opus alchemicum ancor più direttamente della metafisica della luce che, in qualche modo, lo racchiude. Dalla parte della luce (serie attiva), il primo colore a emergere è il giallo, cui corrisponde, dalla parte dell'oscuro (serie passiva) il blu, che Goethe chiama «ein reizendes Nichts», un Nulla che attrae, che affascina, che evoca lontananze, provenendo dall'Abisso delle Tenebre. Fissando intensamente il giallo, si finirà col vedere un colore strettamente connesso al blu, il viola e fissando intensamente il blu, un colore affine al giallo, l'arancio. L'occhio l'occhio «sonnenhaft» cantato da Goethe, sulla scia di Plotino, all'inizio dell'opera - ristabilisce cosi l'armonia dei contrari, armonizza le due scale. Verso il Colore che ne rappresenta il télos: il rosso cui tendono arancio e viola, e che fin dall'inizio era «desiderato» dalla stessa combinazione di giallo e blue, il verde. Il Verde è il desiderio del Rosso. Ma il Rosso è culmine, zenith dell'opera, cui si giunge per divisione e combinazione, attraverso metamorfosi e trasmutazioni. Dalla Nigredo - chaos, abyssus, e però .anche morte, dissoluzione dell'esistenza profana - all' Albedo, che balena allorché la Luce cade sulle Tenebre e dà così inizio al «gioco» della manifestazione, dell'Erscheinung - alla Citrinìtas e, finalmente, alla vittoriosa Rubedo della forma che sta, centrata in se stessa, solare. In svariatissimi modi, poi, i testi alchemici compongono questi colori con i quattro elementi. Anche Leonardo lo faceva (e dopo aver anch'egli escluso la rappresentabilità della luce piena, in quanto essa confonderebbe, «caotica-

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mente», le forme). Se il geroglifico dei quattro elementi è la stella di David, allo stesso modo Goethe rappresenta quello dei suoi sei colori. La punta verso il basso della stella è il Verde, quella rivolta verso l'alto è il Rosso fuoco. Questo simbolismo del colore ritorna di continuo nell'iconologia alchemica, dove la stessa Iride è spesso rappresentata come simbolo delle varie fasi dell'opus che si succedono alla Nigredo. In quella vera summa dell'iconologia alchemica che è il Codice PaL 1066, della BibL apostolica del Vaticano, del XV secolo, alla figura dell'Iride succede quella della bianca Venere nuda tutta fiorita di rose purpuree, simbolo dell'avvenuta fissazione. Porta] nel suo classico Des couleurs symboliques (1837} mostra anch.e le strettissime analogie tra il simbolismo alchemico e quello religioso (che si mantiene vivissimo soprattutto nell'ambito dell'ortodossia, mentre in Occidente celebra con Simone Menni nella Cappella spagnola di S. Maria del Fiore e con Giotto la sua ultima grande stagione): il bianco raggio di Sophia attraversa i colori, pro-duce, anzi, i colori della Manifestazione (il verde della speranza e dell'azione - la Teologia pratica nel Menni; l'azzurro del cielo e della contemplazione, cui si accompagna il giallo, primo riflesso della luce nella materia per rifiorire-rinascere nel rosso dell'Amore divino. Il mago cristiano vedeva in ciò la conciliazione tra l'Eros che muove ricerca-speranza e Agape. Ciò che rende, dunque, inassimilabile la Farbenlehre a un trattato fenomenologico-psicologico sul colore è, dopo, il suo simbolismo - e questo rivela un carattere essenzialmente ermetico-alchemico. Analogamente si dovrebbe dire per la geologia-mineralogia goethiana: l'«inclinazione appassionata» di Goethe per il rosso granito, la roccia dell'obelisco, ovvero del raggio simboìeggiante la ierogamia di Cielo e Terra, la roccia «dal bagliore policromo del fuoco», deriva dalla nostalgia per la solidissima petra o Petra genetrix dell'alchimia, «essenza dì tutte le essenze», cioè quintessenza, immortale principio della coagulazione o signatura o forma. Florenskij, l'autore de Le porte regali, pur tra i massimi interpreti contemporanei di questa problematica, affermava che la lezione goethìana sarebbe stata ripresa da Hegel nella sua Estetica e, in particolare, da Schopenhauer. In realtà, la dichiarata venerazione di questi autori per la figura di Goethe, ormai assunta in Olimpo allorché essi pubblicano le loro prime opere, non deve ingannare. La de-cisione dalla tradizione simbolica, che ancora Goethe riflette, è in essi ormai completa. In Hegel la trattazione del colore rientra nell'analisi delle particolari determina-

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tezze della pittura, e allorché parla di «magia» cromatica lo fa in termini di semplice immagine. Per Schopenhauer il distacco è ancora più netto e ciò, non vaghissime disamine psicologiche, spiega la distanza che Goethe mantiene nel loro rapporto e dì cui tanto si dispiace il giovane «devotissimo servitore di Sua Eccellenza». Interpretando la Farbenlehre come la base di una piramide di cui Uber das Sehen und die Farben costituirebbe il vertice, come introduzione alla sua opera la cui verità - scriveva al sessantacinquenne Goethe il ventottenne Scbopenhauer - sarà necessariamente prima o poi «riconosciuta da tutti e insegnata ai fanciulli nelle scuole», Schopenhauer la collocava nell'ambito dei problemi aperti dal formalismo kantiano - come un'opera ricca, sì, di motivi fenomenologico-psicologici, ma ancora priva di un punto di vista unificante, di un «concetto comune» («una esposizione sistematica dei fatti: tuttavia non va oltre questi»). Goethe sarebbe ancora prigioniero di una concezione immediata dell'esperienza, che l' «allievo» di Kant crede aver definitivamente superato nella· sua teoria scientifica della soggettività del colore. Nei Parerga, ancora, si insisterà sul fatto che Goethe rimarrebbe costretto in una considerazione oggettiva del colore, e i problemi di ordine simbolico che abbiamo appena indicato non sono trattati che come divagazioni «estetiche». Wìttgenstein - sotto questo profilo è del tutto sulla linea di Schopenhauer. Anche per lui Goethe è relegato essenzialmente all'ambito della fenomenologia del Gefiihl del colore, ad un ambito psicologico anche per lui non si tratta, perciò, in Goethe, di una autentica Lehre o teoria vera e propria del colore. Naturalmente, Wittgensteìn non sviluppa queste critiche in direzione del formalismo kantiano, ma piuttosto, si direbbe, di una teoria linguistica del colore: un tentativo di metter ordine nelle proposizioni in cui «occorrono» ì nomi dei colori. «Le relazioni tra i colori» vengono così a dipendere «dalle relazioni logiche, dalla sintassi della loro pensabilità» (A. Gargani). Ecco, in un campo apparentemente secondario, lo stacco epocale. Ciò che si chiude, già tra Goethe e Schopenhauer, è l'occhio «sonnenhaft», l'occhio solare della tradizione plotiniana, ciò che si oscura definitivamente è la Luce che si inabissa {versenkt sich) nel dolore, ma per trasfigurare col suo bacio ogni «perla» di pianto (Hochbild). Ciò che si chiude è la considerazione luminologica del colore. Goethe ne era assolutamente consapevole, nella sua «polemica» con Schopenhauer. «Come! - gli scrive - la Luce dovrebbe esserci solo in quanto lei la vede? No!

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Lei non ci sarebbe se non ci fosse la Luce!». Qui, come è evidente, la differenza va ben oltre anche la considerazione o meno della natura simbolica del colore, riguarda la concezione stessa del1'essere. L'essere, per Goethe, si dà nena presenza e, in quanto presenza, si determina tramite il tempo. L'essere non è fondamento, fissato in un luogo totalmente altro rispetto all'esistenza, ma Concedere-Donare. L'uomo è l'esistere ek-statico che costantemente riceve-accoglie la donazione recata dal darsi dell'essere. Un arco sembra tendersi tra luminologia goethiana e pensare heideggeriano. La citazione goethiana appena offerta, può essere immediatamente tradotta in questo pensare: «non la disvelatezza dipende dal dire (non la Luce dipende dalla visione), ma ogni dire fruisce già dell'ambito della disvelatezza. Solo dove essa già domina, è possibile che qualcosa diventi dicibile, mostrabile, percettibile». Ma, se tracciamo quest'arco, non possiamo oltre igno, rame la fonte simbolica, o mitico-cosmologica. La concezione dell'essere come presenza, epifania, Parusia - ciò che fonda il goethiano poter-vedere l'idea (scriveva Goethe a Jacobi: «se tu dici che in Dio si può soltanto credere, ip invece ti dico che dò gran valore al guardare») ciò che appella l'uomo, lo «pro-voca», giustamente, a lasciare che l'essere gli si avvicini come presenza, a parteciparne dunque: a connettersi ad esso, rendendo così dike all' adikia (secondo l'interpretazione del detto di Anassimandro, pregno di orfica sophia) ebbene, questo pensare (che è in Heidegger come pensiero dell'Ereignis il momento decisivo dove è in gioco la possibilità stessa di una Verwindung dell'umanesimo impositivo calcolante-manipolante) si volge, già in Goethe, con grande e disincantata Klarheit, in una sorta di rammemorante preghiera di quel «fondamento» proprio del simbolismo cosmologico, che è sì Geheimnis ma sempre anche offenbare - disvelamento che non è «alienazione» ma sempre anche mantenersi presso di sé, nel custodirsi in-producibile di ogni essenza su questa terra. Gioco, non ulteriormente deducibile, di segreto e manifestazione, Verborgenheit-Oeheimnis e parusia, aletheia e lethe -

physis. L'arco che Heidegger intende tracciare verso il Greco, anzi: l' «origine» greca, non sarebbe neppure concepibile senza la mediazione, la solidissima petra del pilastro mediano di Goethe. Ma Goethe è Dichtung - è ancora la forza immaginativa di Hochbild, di Wiederfinden, Metamorfosi delle piante è anche la visione del coro delle forme nella poesia omonima, del «mutevole ordine perenne» che in-forma la metamorfosi del vivente. Goe-

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the già sa che «conciliazione» tra visione ed idea, che pienezza della visione non può più incontrarsi «nel centro» non irradia più per ogni occhio e per ogni linguaggio - ma soltanto è possibile nella rammemorante preghiera della Dichtung. Questo tratto di matura, profonda rinuncia è soprattutto evidente proprio nella pagina più ermetica di Goethe - alla quale Benn ha dedicato il più bel saggio mai apparso_ su Goethe e le scienze naturali il discorso tenuto il 24 febbraio del 1784 per la riapertura della miniera di Ihnenau. Per l'ultima volta «la razza umana rivolge verso la terra uno sguardo antico, un antico pensiero( ... ) la tensione dell'intuizione contrapposta» al frantumare dell'analisi, la grandezza contrapposta alla dimostrazione. «Si congiungono due manifestazioni epocali»: due epoche stanno per un attimo su sottilissima striscia di terra: lì, di fronte al pozzo di Ilmenau, Goethe trova il miracolo dell'accento dì chi sa che la decisione è già presa, il destino già segnato, eppure può ancora dire, figurare, mythein, la religio tra la terra, i suoi dei, gli uomini. Quella religìo di cui Le affinità elettive mostreranno il dramma, il Trauerspiel!, della dissoluzione. Ascoltiamo questa voce che sembra venire dalle profondità stesse della miniera, da lontananze del blu più intenso». Antica, lodevole usanza voleva che i minatori dì questo luogo celebrassero questo giorno. Insieme si recavano alla Messa con ferma speranza e buoni desideri( ... )» - oggi il costume si rinnova, poiché, dopo tanti anni, di nuovo la nostra miniera è stata strappata alle tenebre. La piccola apertura che oggi praticheremo sulla superficie della terra, ncin va guardata con occhi indifferenti. Essa dovrà diventare la porta attraverso cui scenderemo ad incontrare i nascosti tesori della terra, per riportarne i doni alla luce del giorno (andas Tageslicht). Ciascuno farà la sua parte, sarà nota nel tutto che si stringe tra gli uomini, e tra gli uomini e il dio «che ha creato le montagne» e vi ha nascosto il «zweiduetige Metall, che più spesso conduce al male che al bene», e ci ha concesso dì portarlo alla luce. Qui parla certamente, come dice Benn, il pastore - qui risuona, forse per l'ultima volta, la voce dei luoghi sacri, dell'epos, «la voce della fonte e della tomba». Ma risuona anche la voce del mago difronte alla realtà vivente, del De re metallica di Agricola, la voce di chi vede in quella «piccola apertura» la ferita e dunque vi sta difronte come a celebrare un sacrificio di riconciliazione. Ma in quel finale «Allora andiamo, se così vi piace» - nel «pianissimo» stesso che domina questa pagina decisiva, che pure dovrebbe essere una pagina di festa - già risuona

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l'addio. Non vi si distingue l'annuncio dell'imminente incontro con gli dei sotterranei dal tono del commiato. Musica sospesa più grande non è mai stata composta. Il Goethe di Ilmenau è dunque nella Lichtung, alla luce del Geviert, del Quartetto che misura l'ad-propriarsi reciproco dì cielo e terra, umano e divino (egli sta, infatti, «sull'eterno e più vetusto» altare della terra, sotto il cielo e muove incontro agli dei quello della Messa e quello della miniera, così come poteva ancora stare il vignaiuolo degli affreschi ferraresi, «guardato» dagli dei iperuranii e «scortato» dai segni del Cielo visibile) •· ma questa luce si confonde con quella della rinuncia e della rassegnazione. O meglio: la voce del Quartetto qui già risuona, quasi rilkianamente, nell'interno del Goethe. È facile immaginare come già fosse inudibile quanto invisibili erano per Schopenhauer stesso i suoi colori. Essa si è ritirata, va ritirandosi. L'esperienza dubita di possedere la forza della visione - l'idea diviene tendenza inesauribile, aspirazione, Sehnsucht .. Fantasia, fede, illusioni e 9; il terzo, infine, è visto come il prototipo dell'uomo attivo nel senso che «assume su di sé il dolore volontario della veridicità e questo dolore gli serve per uccidere la sua volontà personale e per preparare quel completo rovesciamento e quella completa conversione del suo essere, nel cui raggiungimento sta il senso vero e proprio della vita» 10 • L'uomo di Schopenhauer, quindi, a confronto con quello di Goethe, appare a Nietzsche più vicino a Mefistofele che a Faust: in esso distruzione e salvazione si legano strettamente, in quanto l'opera di negazione che esso esplica è fatta in nome di un ideale superiore di vita che funziona come principio di redenzione. La sua è una «vita eroica» ma, in quanto non è condotta sulla base di un ideale antropocentrico, essa è anche una vita tra-

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gica: «L'uomo eroico disprezza il suo star bene o male, le sue

virtù e i suoi vizi e in generale il misurare le cose su se stesso, non spera da sé più niente e vuol vedere in tutte le cose sino a questo fondo privo di speranza» 11 • In questo «eroismo» l'uomo di Schopenhauer non si confonde con quello di Goethe che «odia qualsiasi violenza, qualsiasi salto» e «qualsiasi azione», ma non si confonde nemmeno_con quello di Rousseau che a Nietzsche appare come un semplice distruttore che misura il mondo, la vita e la storia sui propri bisogni: ciò che per Nietzsche sembra distinguere l'uomo di Schopenhauer dagli altri due non è tanto il dislocarsi lontano sia da un atteggiamento puramente contemplativo, che da uno attivo-distruttivo, quanto il porsi in una prospettiva che non è né antropocentrica, né antropologica: esso abbandona la presunzione di potersi porre come centro, legge, misura di tutte le cose, al punto di esser «pronto sempre a sacrificare se stesso come prima vittima della verità conosciuta, penetrato fin nel profondo dalla consapevolezza dei dolori che necessariamente derivano dalla sua veridicità» 12 • Quindi il titanismo emerge ancora nelle considerazioni nietzscheane attorno al tema dell'uomo, ma con un'importante connotazione in più: la rinuncia a quell'antropocentrismo che, almeno dall'umanesimo in poi, ha costituito la struttura portante di gran parte della tradizione filosofica occidentale 13 • Questa dimensione antiantropocentrica emerge appieno da un passo del cap. 111 di Umano, troppo umano: «Riguardo a tutto ciò che è fuori di noi, non è permesso concludere che qualcosa sarà così e così, dovrà necessariamente avvenire così e così; ciò che a un dipresso è sicuro, calcolabile, siamo noi: l'uomo è la regola, la natura è la mancanza di regola - questa proposizione contiene la convinzione base che domina nelle prime rozze civiltà, creatrici di religiosità. Noi uomìni di oggi sentiamo nel modo completamente opposto: quanto più oggi l'uomo si sente interiormente ricco, quanto più polifonico è il suo soggetto, tanto più potentemente agisce su di lui la simmetria della natura; noi tutti riconosciamo con Goethe nella natura il grande mezzo di acquietamento dell'anima moderna, ascoltiamo il battito del pendolo del più grande orologio con una nostalgia di pace, di familiare raccoglimento e di silenzio, come potessimo assorbire dentro di noi questa simmetria e solo così giungere al godimento di noi stessi» 14 • Come aveva già fatto notare Lòwith 15 , Nietzsche vede in Goethe un «sincero pagano»; ciò può anche significare una interpretazione tesa a riconquistare l'equilibrio tra uomo e natura inne-

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stando la prospettiva antropologica in quella cosmologica e cercando di farne coincidere le coordinate: ma per un nuovo umanesimo pagano è anche necessario riscoprire e coltivare un tipo di uomo poli/onico, che sia cioè in grado di ascoltare le diverse e spesso contrastanti voci della natura al punto da porvisi in relazione non privilegiando mai una sola «voce» e, quindi, al punto da bloccare ogni utilizzazione parziale, ogni manipolazione univoca di essa. Ma «polifonico» è nel contempo quel soggetto che accoglie e tien conto dell'armonia naturale in quanto è già in se stesso una potenziale armonia, una disposizione equilibrata delle proprie facoltà. Non è casuale che Nietzsche torni ad usare l'immagine della polifonìa - sempre ricordando Goethe - anche parlando di un nuovo tipo di soggettività richiesto da una visione non umanistica dell'uomo: «Ci sono uomini a cui è talmente consono un continuo riposare in se stessi e un armonioso ordinarsi di tutte le lòro facoltà, che ad essi ripugna ogni attività indirizzata ad un fine. Essi somigliano ad una musica che consista di soli accordi armonici tenuti a lungo, senza che si manifesti mai neanche solo la tendenza a un moviment9 melodico articolato. Ogni moto proveniente dall'esterno serve solo a ridare subito alla barca il suo nuovo equilibrio sul lago dell'armoniosa consonanza. (...) Quanto raramente ci si imbatte in un uomo che sappia vivere in un modo così veramente lieto e pacifico con se stesso anche nell'avversità, e parli a se stesso come Goethe: «Il bene è la profonda calma in cui vivo e cresco contro il mondo, acquistando ciò che esso non mi può togliere né col fuoco né con la spada» 16 • Se la dimensione polifonica che Nietzsche predilige è chiara, è altrettanto chiaro che essa non costituisce affatto la base per una nuova teoria complessiva dell'uomo, per una nuova dottrina antropologica, per un nuovo umanesimo: Nietzsche, infatti - mostrando in questo di riprendere implicitamente le osservazioni sui caratteri elaborate da Schopenhauer -, non disegna un nuovo ideale umano, né tantomeno, lo prescrive come doveressere, ma constata semplicemente l'esistenza di individui dotati di un'interiore struttura polifonica e capaci di un rapporto armonico con la natura 17 • Lo stesso Goethe è assunto da Nietzsche non come modello per un nuovo tipo di uomo, né le sue osservazioni sull'uomo e sulla natura vengono assunte come elementi per una nuova filosofia dell'uomo: la sua personalità e le sue opere vengono colte da Nietzsche soltanto come esempi eccezionali apprezzabili come tali soltanto da pochi uomini eccezionali: «Solo per pochi egli ha vissuto e vive ancora: per i più egli non è

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altro che una fanfara della vanità che si suona dì tanto in tanto dì là della frontiera tedesca» 18 • Tuttavia l'eccezionalità di Goethe non consiste per Nietzsche in una genialità consapevole di sé che si vuole proporre a modelìo degli uomini in genere: «Prima che qualsiasi altro, si dovrebbe parlare di "genio" per quegli uomini, quali Platone, Spinoza e Goethe, in cui lo spirito appare soltanto lievemente annodato al car_attere e al temperamento, come un essere alato che con facilità può separarsi da quelli e innalzarsi, quindi, molto al di sopra di essi» 19 • Il genio, dunque, non è più una variante del titanismo prometeico com'era stato per gran parte dell'iconografia e della mitografia romantica: esso rimanda ad una condizione spirituale in cui i connotati psicologici individuali non si sforzano dì produrre ìn tutti i modi e a tutti i costi significati universali o di porsi essi stessi come valori universali, ma lasciano che l'universale si dispieghi, costruendo, al massimo, le condizioni perché ciò possa avvenire20 • La conferma di questa progressiva rinuncia ad interpretare la figura del genio come modello di un'umanità più grande che, però, soffre per la presenza in se stesso dell'annuncio di questa nuova umanità, si ha nell'importante cap. 370 de La gaia scienza dedicato al problema di cogliere in che cosa consista il «Romanticismo». Lo schema che Nietzsche propone è in sintesi questo: i motivi fondamentali della creazione artistica e filosofica sono da ricercarsi in due diverse tendenze: una dovuta al desiderio di eternizzare, di essere; l'altra dovuta a quello di «distruzione, di mutamento, d'innovazione, d'avvenire, dì divenire». Ma ciascuna di queste due tendenze, nota Nietzsche, porta in sé una duplicità: il desiderio di divenire può essere l'espressione dì una forza sovrabbondante, «gravida d'avvenire» (Dionisiaco), ma «può anche essere l'odio dellà creatura mal riuscita, indigente, fallita, che distrugge, deve distruggere perché quel che sussiste, anzi ogni sussistere, ogni essere stesso rimescola il suo sdegno e aizza la sua ferocia». Parimenti, il desiderio di eternizzare può essere visto in due modi: o come espressione di «gratitudine e cli amore», oppure come espressione di una «volontà tirannica dì un uomo straziato dal dolore, in lotta, martoriato, che vorrebbe imprimere in quel che è più legato alla sua persona, alla sua singolarità, in quel che è più intimo in lui, nella caratteristica idiosincrasia del suo dolore, il sigillo di una legge vincolante e di una forza coattiva, e che prende, per così dire, vendetta di tutte le cose, incidendo, incastrando a viva forza, marchiando a fuoco in esse la sua immagine, l'immagine della sua tortura» 21 • Quest'ultimo è per Nietzsche

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il tipico atteggiamento del pessimismo romantico, di cui sono stati grandi esempi ed interpreti Schopenhauer e W agner, Il primo modo della volontà di eternizzare sarebbe invece rappresentato da Rubens, Hafis e Goethe, autori di «un'arte che diffonde un omerico chiarore di luce e di gloria su tutte le cose». Non è difficile vedere nella differenza tra questi due modi della volontà di eternizzare la stessa differenza, già delineata da Nietzsche tra, da un lato, i geni che sanno separarsi dai loro turbamenti spirituali per lasciar posto, grazie a questa separazione, a significati e valori di carattere universale; e, dall'altro, quelli che risultano incapaci di operare questa separazione mettendosi, magari solo per un momento, in disparte, e che invece si dedicano a «marchiare a fuoco» ogni cosa con il sigillo della loro sofferenza e con l'immagine della loro volontà di redenzione. Non è tuttavia soltanto questa analogia tra il contenuto dei due passi di Aurora e La gaia scienza messi ora a confronto che risulta importante ai fini della comprensione del tema «uomo>> in Nietzsche e in Goethe: ciò che appare ancor più decisivo a tal fine è la presenza del concetto di >) tutto questo corrisponde per molti aspetti ail'antiumanesimo pratico della società imperialistica. Alla sindrome dell'antiumanesimo apologetìco appartiene tutta la problematica della cosiddetta «crisi di senso» dell'attuale società civile, appartiene la perdita della sensibilità estetica così come molteplici forme dì disperazione e rassegnazione tipiche dell'eccessivo soggettivismo. L'antiumanesimo apologetico persegue una strategia ideologica chiaramente riconoscibile (almeno esso funziona in questo modo): esso reagisce al complesso della crisi di senso, conduce questa in una direzione, ché neutralizza il potenziale critico-ribelle della delusione e lo· trasforma in un cemento del sistema dominante. Vorrei formulare come tesi: la mo1to discussa crisi di senso della società tardo-borghese - essa si manifesta in molteplici forme: in disperazione e rassegnazione, disorienti:unento e fuga nella droga, in nuove religioni e nel sessualismo, in estetismo e ripiegamento nell'esistenza puramente privata possiede una razionalità economica, politica e ideologica chiaramente riconoscibile. Perdita della storia e revoca della tradizione umanistico-democratico-illuministica propria dell'eredità tanto storico-umana quanto borghese possono valere a questo proposito quale nucleo di questa crisi di senso all'interno del settore ideologico-cultùrale. Il motivo per questa revoca è, portato in una formula, questo: le rappresentazioni e i valori incarnati nelle tradizioni culturali le idee di libertà e uguaglianza, i sogni di fraternità e felicità, l'aspirazione a una conformazione razionale e umana della vita sociale, questi contenuti centrali anche proprio dell'arte, della letteratura e della filosofia borghesi classiche - stanno in contraddizione inconciliabile con la prassi dell'attuale società imperialistica. Tradimento della tradizione e smarrimento della storia si producono - dal punto di vista della classe dominante perciò «sensatamente» - dallo sviluppo storico degli ultimi 150 anni. Poiché, con l'entrata della classe operaia quale nuovo soggetto storico

GOETHE E IL SIGN1FICATO ATTUALE DELL'IDEA DI UMANESIMO

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nel corso del XIX secolo, la borghesia è caduta sempre più in una crisi di legittimazione ideologica. Essa venne gradatamente costretta a sgombrare posizioni che aveva conquistato nella sua fase rivoluzionaria, sì, a demolire i pilastri decìsivi, che aveva eretto nella sua lotta secolare contro la nobiltà feudale. Alle colonne portanti della visione borghese rivoluzionaria del mondo appartiene l'umanesimo e, quale parte di questo, il pensiero storico, che si impresse in egual misura Ìn letteratura e filosofia. Esso serviva alla legittimazione dell'esigenza della borghesia di essere il soggetto del processo storico. Con la salita del proletariato questa pretesa non è più mantenibile. La borghesia si vede sempre più impossibilitata a citare la storia come !'«istanza», che possa fondare la sua pretesa a un dominio politico così come a un'egemonia culturale e ideologica. Le forze progressive nel senso storico-mondiale del nostro tempo: i paesi socialisti, il movimento operaio nei paesi capitalistici, i movimenti di liberazione del terzo mondo sono oggi i legittimi eredi delle tradizioni umanistiche della storia dell'umanità, anche di quelle dell'epoca borghese. Queste forze soltanto rappresentano anche se spesso in modo incerto, unilaterale e discontinuo - la coscienza della continuità storica: non dalla pietà verso il passato, bensì dal riconoscimento che coscienza storica e memoria culturale sono indispensabìli per la cosciente costruzione del futuro. La coscienza del passato è condizione per la costruzione del futuro. La formazione di un senso storico - e di ciò fa parte essenziale l'appropriazione dell'eredità culturale della storia dell'umanità-, è la condizione necessaria perché «il popolo prenda in mano il suo stesso destino» (August Bebel). La concezione di Heinrìch Mann, scritta nel 1936, possiede anche oggi la massima attualità: «Il residuo capitalistico della borghesia si mantiene a fatica con mezzi che vanno contro le sue proprie fondamenta e costituiscono uno scoperto tradimento della sua origine spirituale. A esso non appartiene più una letteratura, il legame di questa classe con la tradizione nazionale, così come con quella europea, è interrotto ( ... ). Si assiste al processo per cui una classe più nazionalmente si presenta e più seccamente si separa - non solo dagli interessi della nazione, ma anche dal suo patrimonio spirituale, che questa classe stessa aveva accumulato». La conclusione di Heinrich Mann: «La rivoluzione, in cui siamo, ha un obiettivo, il nuovo umanesimo. Il nuovo umanesimo sarà socialista». «Democrazia» e «umanesimo» valgono per lui in questa situa-

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zione quali concetti rivoluzionari di lotta. Cosi egli assume col concetto di «democrazia rivoluzionaria» la forma politica di una fondamentale ristrutturazione della società civile, che ha come obiettivo il socialismo. Il programma politico, proprio di Heinrich Mann, di una «democrazia rivoluzionaria» venne formulato considerando l'alleanza della borghesia dei monopoli con Mussolini e con Hitler, la liquidazione totale dell'eredità culturale~spirituale della classe borghese, che. si compiva tenendosi per mano con smembramento dello Stato democratico borghese ad opera delle forze di questa alleanza. Il programma di Heinrich Mann non ha neanche oggi perduto nulla in validità faccio presente solo l'esperienza cilena. Con Heinrich Mann reclamiamo perciò anche oggi i concetti di democrazia e di umanesimo per le forze che lottano dalla parte della classe operaia per un futuro più umano: per l'insieme delle forze del lavoro, della scienza e della cultura. Questo significa però per la questione della: determinazione deUa funzione delle tradizioni letterarie mondiali (come dell'eredità culturale nel suo complesso), che la funzione progressiva delle stesse tradizioni letterarie abbisogna dì un punto politico di cristallizzazione, e ciò nel senso di una condizione della sua possibilità. Questo punto politico della cristallizzazione deIIa funzione progressiva della letteratura non si può determinare nel quadro di riflessioni tattiche a breve scadenza, bensì soltanto nel quadro di una concezione strategica complessiva del movimento dei processi sociali (e dei processi culturali all'interno di quelli sociali nel loro complesso) del presente; un movimento che spinge continuamente la società tardo-capitalistica alla democrazia rivoluzionaria e perciò al punto del suo «capovolgimento» in una società socialista, un movimento che finora può venir ostacolato solo dall'intervento dìretto della classe dominante cioè dall'impiego dell'apparato repressivo dello Stato e del «rilevamento>>, a que~ sto collegato, della democrazia pluralistica quale forma storica del dominio borghese e del passaggio nella forma nascostamente o apertamente terroristica del dominio della borghesia dei monopoli. Una più esatta analisi politica dì questi processi non può venir compiuta in questa sede. Le seguenti indicazioni devono bastare a dare la direzione in cui si dovrebbe consegnare la determinazione precisa dell'orizzonte politico, davanti al quale dovrebbero porsi oggi le questioni sullu ricezione e sulla funzione deU'eredità

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GOETHE E IL SIGNIFICATO ATTUALE DELL'IDEA DI UMANESIMO

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letteraria. Come parola d'ordine siano menzionate: l'incremento del potenziale antimonopolistico e potenzialmente socialista in ogni stato e classe della popolazione (con l'eccezione della borghesia stessa dei monopoli), lo sviluppo di un fronte delle più larghe alleanze nella lotta contro la borghesia dei monopoli (perciò il risorgimento della tradizione del fronte popolare), la via razionale («democratico-borghese»} al socialismo con lo stadio intermedio della democrru:Ja antimonopolistica (nella cui concezione continua a vivere l'idea, propria di Heinrich Mann, della «democrazia rivoluzionaria»). Solo da questo contesto umanesimo e democrazia possono venir fondati e usati quali concetti di lotta. La mia concezione è questa: il materialismo dialettico (marxismo), quale forma più sviluppata dell'umanesimo filosofico, è, in forza del suo fondamentale carattere di classe cioè proprio grazie al suo carattere quale forma determinata d'ideologia (nel senso di una coscienza socialmente interessata e classisticamente orientata), l'unica potenza ideologica (weltanschaunliche) del presente che possa evocare le disposizioni alla resistenza contro le potenze della barbarie e che sia in grado di sfidare la violenta potenza ideologica del sistema dominante e di superare l'antiumanesimo apologetico quale espressione ideologica universale di questo sistema nell'epoca della sua crisi permanente. L'umanesimo marxistico si sa legato fraternamente all'eredità culturale dei popoli - di ogni razza e di ogni parte della terra. Esso è pienamente cosciente della sua origine da questa eredità, in particolare però della sua origine dalla tradizione umanistica della cultura europea. Profonda è la sorgente del passato. Le forze creatrici attinte nel più profondo da essa sono anche quelle che sono capaci di addentrarsi al massimo nel futuro. Il marxismo trae la sua forza da questa sorgente ed esso solo è capace di spalancare la porta a un futuro più umano. L'umanità sta oggi in un'ora fatale della storia della sua specie. Essa si vede posta davanti all'alternativa di un annullamento globale o dì una breccia nel regno della libertà reale - del suicidio dell'umanità o della costruzione di un ordinamento di pace mondiale. Quale strada percorreremo, non lo sappiamo. Sappiamo solo: niente è predeterminato, e: noi percorreremo la strada, nessuno la percorre per noi, la strada verso il tramonto o la strada verso la felicità; noi: posti sulla «strada a doppia direzione (Wechselweg) dall'Orco alla Luce» (Goethe, Anni di pellegrinaggio). Ma possiamo esserne sicuri: se non mobilitiamo ancora impre-

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viste forze nuove di resistenza contro ìl potere della barbarie, non riusciremo a lungo andare a impedire il tramonto universale, la catastrofe globale, che avvenga per motivi militari o motivi ecologici. La disposizione spirituale alla resistenza è la condizione per la resistenza pratica, che dobbiamo impiegare per la sopravvivenza. Grandi prestazioni vengono richiese, e solo con le forze della tradizione umanistica l'umanità potrà impiegare la disposizione, nècessaria per la vita, sì, oggi necessaria per la sopravvivenza, alla resistenza. La questione dell'umanesimo è così immessa nella questione fatale dell'umanità.

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THOMAS METSCHER

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NOTE 1. Cfr. Oirnus 1982, 184. 2. Una motivazione più approfondita e sistematica del concetto umanistico marxista è discussa in Metscher 1982a. Dello stesso autore, vedi anche i seguenti lavori preìiminari: 1978, 1980a, 1980b, 1980c.' 3. Per il concetto ideologico da me interpretato, cfr. Metscher/Steigerwald 1982, 4. Per la critica de!l'antiumanesimo teorico della scuola di Althusser, sì veda Metscher 1980b, 1980c.

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SU HEGEL. HUMANITAS E DESTINO TRA FRANCOFORTE E JENA (1799-1802)

1. L'esito della parola «destino». In quegli scritti jenesi nei quali la parola «destino», che aveva deciso il càrattere e i temi degli anni di Francoforte, incomincia a disperdersi entro l'orizzonte di concetti che fa da preludio alla Fenomenologia, essa compare ancora, come in un atto di estrema e determinatissima presenza, in un significato aspro ed asciutto: come termine di una lotta, e del riconoscimento di sè. Sempre più lontano da ogni cieca fatalità, esso si genera tragicamente in un mondo di azioni contrapposte. La scena nella quale è così riproposto il destino, nel saggio sul «diritto naturale» del 1802, è quella della tragedia classica; il riferimento specifico è alle Eumenìdi dì Eschilo. La tragedia è, per Hegel, il luogo dove più chiaro è il riconoscimento del destino, perché in essa la certezza e la riconciliazione nascono dall'opposizione. Le due potenze che si contendono, da punti opposti, la vita dì Oreste, hanno, ognuna, nell'altra, il proprio destino. Lo scindersi dell'assoluto (del divino) in due figure contrapposte costituisce due piani densi e necessari, ciascuno di essi in movimento contro quella dimensione del destino che l'altra blocca e rinchiude in sè stessa. Questo movimento che nell'orizzonte della necessità non ha però nessuna tendenza alla risoluzione automatica, come sarebbe se la realtà dell'assoluto si attuasse in un mondo di «pace perpetua» e scorresse verso le cose senza opposizione («la commedia divina», scrive Hegel, «è senza destino e senza vera e propria lotta, poichè in essa Passoluta fiducia e certezza della realtà dell'assoluto è· senza opposizione»)1. La risoluzione di quel movimento è invece nella forza e nella lotta. La parola «destino» specifica il suo significato in un mondo dominato dalla guerra; asciuga in questo orizzonte la sua complessità, e determina il senso della sua appartenenza al mondo attraverso l'occhio della forza, della lotta «pern o «contro» un destino. Per affermare il proprio destino si combatte, è necessaria «virtù militare»2 • Il mondo tranquillo dell'illusoria ideologia illuministi-

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ca ha interrotto definitivamente il suo corso. La guerra smuove le determinatezze «e il consolidarsi delle stesse», «come l'agitarsi dei venti preserva dalla putredine cui una calma duratura ridurrebbe i laghi, una pace duratura .o addirittura eterna condurrebbe i popoli»3 • «Pace eterna», ewige Friede, rinnova letteralmente l'aspra ironia verso il celebre saggio kantiano che cadeva singolarmente in un mondo storicò in cui perfino la «Rivoluzione» si era tradotta in guerra civile. Lotta e guerra conducono l'azione sulla frontiera estrema della vita e della morte. Se il destino implica lotta, se l'azione si definisce come lotta «per» o «contro» un destino (non contro le contingenze, non contro le determinatezze), la scena di questo scontro rappresenta la sostanza tragica dell'assoluto. Ma va ben compreso che il piano della rappresentazione è, per Hegel, il piano stesso della vita; non si isola da essa in un luogo esemplare che riproduca davanti all'occhio del vivente una vicenda che serva solo come devozione per l'anima4, ma è la scena stessa del continuo sdoppiamento della vita. È la vita ad essere in se stessa «tragica», in quanto compenetrata e sdoppiata dalla presenza dell'assoluto. L'assoluto è ricongiunto immediatamente alla «virtù militare per mezzo della quale esso si libera dalla morte dell'altro contendente» 5 e in questa liberazione dà la vita, e solo perciò riesce a dominare e soggiogare il destino della morte. L'assenza di destino, sotto questo aspetto, sarebbe l'assenza di resistenza, di oggettività. La commedia è senza destino perché in essa il movimento dell'assoluto è senza opposizione. Un soggetto si libra di là dal mondo, e il suo movimento non incontra resistenza alcuna. È un mondo senza forza, senza contrasto o rapporto. Le due parti costitutive del mondo, l'eticità e la natura, le potenze dell'assoluto, si muovono in modo che «ciascuna si occupi semplicemente di sè»6 , in modo che il soggetto sia un'ombra inconsistente e l'assoluto una lontana illusione. Tutt'altra la scena della tragedia; è, appunto, la scena stessa della vita. Perciò in essa domina il destino: perché il destino ancora al mondo e aU'essere, trattiene l'essere con «forza» e lo conduce al compimento della propria «natura». «La tragedia consiste in ciò che la natura etica da sè separa e a sè oppone, affincM non le si intrecci, la sua (parte) inorganica, come un destino e, attraverso il riconoscimento di questo nella lotta, si riconcilia con l'essenza divina come unità di entrambe» 7 • Il destino è prima nella separazione, poi nell'unità. Ma il «poi» dell'unità raggiunta è affatto interno al carattere originario delle due nature che hanno bisogno di riconoscere questa unità, e possono far0

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lo solo attraverso l'estremo della lotta per la vita. Il destino così ferma e trattiene l'azione a questo interesse estremo, fa passare attraverso ad esso l'oggettiva consistenza della vita. Esso dà essere alla vita immettendola in un sistema di resistenza e di forze. L'unità è faticoso compito da raggiungere, ma è necessaria perché il destino fa parte della vita. In questa immagine ultima con la quale è esposto il destino, alle soglie della Fenomenologia, in questa sua determinazione attraverso la forza e la lotta, c'è anche il suo piegarsi alla «natura» profonda della vita, il suo realizzare l'unità delle potenze opposte, l'eticità e la sensibilità, che la filosofia del criticismo aveva disgiunto sottraendo il soggetto alla resistenza del mondo. Nella sua parabola conclusiva il destino sempre più si mostra come quella parola-chiave che fornisce a Hegel la piena consapevolezza che quello di Kant è un vecchio testo, muto per il presente. Il movimento del destino ricostituisce la potenza della dimensione «naturale», non immobilizza affatto la vita verso un potere estraneo bensì lega la vita stessa al senso di un compimento consegnato nel duro metallo della realtà, in modo tale che «il rigido metallo diventa fluido» 8 • «Il vero e assoluto rapporto consiste in ciò che l'una (zona dell'eticità) seriamente appare nell'altra, ciascuna è in una vivente relazione con l'altra, e l'una costituisce per l'altra il più serio destino» 9 • 2. Plastica e critica. È il titolo di un paragrafo del saggio dedicato da Thomas Mann a Goethe e Tol.~toi. «Plastica è il modo di contemplar le cose e di riprodurle obiettivamente, naturalmente; critica è invece l'atteggiamento analitico-moralistico rispetto alla vita e alla natura. In altre parole: la critica è l'intelligenza, mentre la disposizione plastica appartiene a coloro che sono più direttamente figlioli della natura e di Dio» 10 • «Io sono un plastico», dice di sè stesso Goethe. «Se la filosofia eleva, rende sicuro e trasforma in una profonda e tranquilla contemplazione quel sentimento originario che ci dice noi essere una sola cosa con la natura, sia essa allora la mia benvenuta». Mann sviluppa a questo proposito il classico riferimento a Spinoza. Georg Simmel aveva analizzato, nel 1906, la «plasticità» della visione goethiana nel contrasto con il criticismo di Kant 11 • Goethe, secondo Sìmmel, è lontano dal senso kantiano di una superiorità della natura dell'anima umana sulla natura delle cose. «Il principio di vita della natura è identico a quello dell'anima umana, ambedue son fatti che hanno diritti uguali, scaturenti dall'unità

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dell'essere che sviluppa l'uguaglianza del principio creativo nella molteplicità delle forme» 12 • Il tentativo di svincolare il soggetto morale dal legame che indissolubilmente lo stringe alla natura, questo movimento dalla plastica verso la «critica», doveva risultare estraneo a chi, come Goethe, non aveva della dignità umana il senso di una emancipazione nella spiritualità, nel distacco dal tempo. Nel principio della vita, come scrive Simmel, convergono insieme per Goethe natura e spirito, il principio dell'io e quello degli oggetti 13 • La soggettività è trattenuta dalla sua natura profonda; la sua problematicità, la sua difficoltà, la sua oscurità e insieme il suo farsi tempo e mondo nell'armonia e nella chiarezza, hanno la loro costituzione nella forza dell'origine, nella liberazione spìnoziana da cause prime e da finalità ultime e nell'esprimersi di questo «tutto» come un'unica potenza unificata con il tempo. Nel quadro di questo principio distintivo di Mann, anche Hegel appartiene alla classe dei pensatori plastici. Il .compimento del destino nella idea di forza poteva spingere la riflessione verso una conclusione differente. Si poteva cioè immaginare che la forza assorbisse il destino, nello sforzo inquieto e supremo di liberarsi dalla resistenza del mondo, che la forza, insomma, fosse la negazione immediata del destino. Ma la forza non è affatto in Hegel questa inquieta potenza. Non è affatto l'immediata espansione dell'estrema soggettività. Essa anzi è tale perché rompe la prospettiva di un io che si libra «al di sopra di ogni natura» e tende alla ricostituzione di quella originaria potenza naturale che le filosofie della riflessione avevano negato nell'ipertrofia della coscienza. «Lotta» significa rompere la pace con sè stessi, rifiutare ogni distacco dal tempo. Nell'epigramma Entschluss, composto da Hegel nei primi mesi della permanenza jenese, è scritto così: Audace, il figlio degli dei s'affiderà alla lotta per la perfezione. Rompi la pace con te, con le opere del mondo. Aspira, tenta tu più dell'oggi e dell'ieri: non sarai allora qualcosa di meglio del tempo, ma sarai il tuo tempo nel modo migliore14 •

Il commento di Rosenzweig a questo epigramma, coglie la direzione effettiva del pensiero di Hegel: «la stella che egli ora indica è il 'tempo'. 'Essere nel modo migliore il proprio tempo, unirsi al tempo', questa è la nuova parola magica» 15 • L'unifica-

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zione con il tempo restituisce ìl senso della «plasticità» hegeliana, se il tempo è, letteralmente, l'oggetto della «critica» trascendentale che libera da esso la costituzione dell'idea 16 • «I figli degli dei» secondo Hegel, s'affidano alla lotta e al tempo per il compimento della loro natura, alla lotta e al tempo perché essi incontrano «opposti» e disarmonie e oscurità. «Figlioli della natura e di Dio» sono, per Thomas Mann, che certo non conosce il testo di Hegel, coloro ai quali appartiene la disposizione «plastica». «Figliolo del mondo» chiamò Goethe sè stesso. Nessuno fra loro si dichiara «figlio dello spirito», dell'intelligenza separata. Il commento di Mann è pertinente al nostro discorso: «Si forma l'impressione che sia un grande errore credere che la problematicità appartenga solo ai figli dello spirito e che il regno della natu~ ra sia soltanto un regno dì armonia e di chiarezza ... In quella parola 'figliolo del mondo' e nell'esistenza che vi corrisponde è insita una difficoltà, una problematicità, al cui confronto la forma di esistenza 'profetica' non è altro che luce, semplicità e dirittura» 17. «Figlio degli dei», per Hegel, significa anche 23. L'unità della vita è in un singolare rapporto con il fatto tragico della scissione. Il «fatto» dell'unità della vita è per Hegel l'unica garanzia che la scissione sarà superata; ma l'itinerario per questo ritorno alla necessità originaria del «fatto» non può essere restituito alla semplicità di movimento della coscienza, totalità dìstinta dal mondo e dunque sempre identica a se stessa. La coscienza è piuttosto compresa nella completezza e nella dissimmetria della vita entro la quale si muovono potenze divise, ognuna comprensiva di un principio di vita. La vita, infinita come il destino, non conosce «recinti di virtù» 24 , ma forze e principi contrapposti, connessioni e riconoscimenti, potenze personificate, dense di essere e di significato. Senza voler racchiudere in un solo pensiero un complicato problema di storiografia, la predizione di Adamas al ragazzo Hyperion nel romanzo di Holderlin secondo la quale } fra gruppi umani giunti a diversi livelli di coscienza e che incontrano in modo diverso l'aspra dimensione del destino. 83. HEGEL, Libertà e destino cit., p. l l. 84. Ivi, pp. 9-10. 85. LOWITH, Senso e significato della storia cit., p. 93. 86. GOETHE, Teoria della natura, a c. di M. Montinarì, Torìno, 1958, p. 137. 87. HEGEL, Fede e sapere cit., p. 237. 88. Ivi, pp 237-238. 89. Ivi, pp. 238. 90. F. SCHLEGEL, Philosophie des Lebens, Wien, 1828. 91. HEGEL, Fede e sapere cit., pp. 158-159.

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92. T. MANN, op. cìt., p. 41. 93. HEGEL, Fede e sapere cit., p. 239. 94. Ivi. 95. Ivi, p. 240. 96. ((Mediante l'assoluta soggettività della ragione e la sua opposizione nei confronti della realtà, il mondo è ormai assolutamente opposto alla ragione ... » (lvi, p. 241). 97. Ivi, p. 124. 98. HEGEL, Libertà e destino cit., p. 10. 99. HEGEL, La scienza defla logica, a c. di A. Moni, Bari, 1925, voi. III, p. 232. 100. HEGEL, Frammento di sistema cit., pp. 473 ss. 101. HEGEL, Fede e sapere cit., pp. 235-236. 102. HEGEL, Differenza cit., p. 56. 103. Ivi, p. 34. l04. Ivi, p. 17. 105. Ivi, p. 56. 106. Su questa forma del telos, cfr. S. NATOLI, ré>..os, qxo1ras,é'o;(awv, Tre figure della storicità, in «Il Centauro», 1982, 5, pp. 3 ss. 107. LOWITH, Da Hegel a Nietzsche cìt., pp. 24 ss . .108. Ivi, pp. 24-25. 109. Ivi, p. 29. 110. lvi, p. 35. 111. GOETHE, Teoria della natura cìt., pp. 61-62. 112. HEOEL, Differenza cìt., p. 60. 113. lvi, pp. 65-66. 114. Ivi, p. 37. 115. Ivi, p. 15: «Quanto più la cultura si diffonde, quanto più variamente si sviluppano le manifestazioni della vita, a cui può intrecciarsi la scissione, tanto più grande diviene la potenza della scissione, tanto più si consolida e si consacra la sua acclimatazione, tanto più divengono estranei all'intero della cultura e privi di significato gli sforzi della vita per rinascere all'armonia». 116. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, Firenze, 1960, voi. II, in particolare pp. 127-131. 117. «L'unica opera ed operazione della libertà universale è perciò la morte, e più propriamente una morte che non ha alcun interno ambito né riempimento; infatti, ciò che viene negato è il punto, privo di riempimento, del Sé assolutamente libero; questa morte è dunque la più fredda e più piatta morte senz'altro significato che quello di tagliare una testa di cavolo o di prendere un sorso d'acqua» (Ivi, p. 130). 118. LOWITH, Da Hege/ a Nietzsche cìt., p. 42. 119. HEGEL, Fede e sapere cit., pp. 240-241. 120. HEGEL, Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale cit., p. 52. . 121. lvi, p. 54. 122. Tutto il discorso sul destino tende a piegare verso quello della mediazione. Si può dire che mediazione, a partire dalle opere successive alla Fenomenologia dello spirito, sostituisca destino svolgendo l'analoga funzione di costruzione dell'idea di «oggettìvità».

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l - La questione dell'umanesimo in Marx

Può apparire del tutto fuori moda e quindi in qualche modo anche fuori luogo, riprendere come tema di ricerca il problema dell'umanesimo di Marx. E questo in due sensi: in quanto quel tema sembra irrimediabilmente datato, legato com'è all'innesto delle tematiche kantiane e neokantiane .nel tronco del marxismo, alla scoperta dei Manoscritti del '44 e quindi alle tematiche del giovane Marx, alle questioni dell'alienazione, del feticismo e della reificazione con le loro ascendenze hegeliane, alla riscoperta del giovane Lukacs di Storia e coscienza di classe1 : insomma al prevalere di una stagione di studi contrassegnata in Italia dalle ricerche dellavolpiane sull'umanesimo positivo e sulla emancipazione marxista2 • Ma v'è una seconda ragione che contribuisce al, l'espunzione di quell'interesse tematico: si tratta del prevalere dell'interpretazione strutturalista di Marx da parte del filone marxista francese, particolarmente di L. Althusser3 , e del suo tentativo di mostrare.l'estraneità teorica di quel tema nel Marx maturo e insieme la valenza essenzialmente ideologica della que~ stione sia nel giovane Marx come nella successiva ripresa da parte del marxismo. La frattura epistemologica tra il Marx giovane e il Marx maturo, fatta valere in senso diacronico da parte di Althusser, contrassegna in senso sincronico la scissione tra il Marx filosofo e il Marx scienziato, tra il Marx caratterizzato dall'influsso hegeliano e il Marx della critica scientifica dell'economia politica. La falda umanistica si salda strettamente con quella filosofica dell'alienazione e del feticismo, condannate ed espunte anch'esse in nome della scienza. L'hegelismo ed in generale la filosofia sopravvivono in Marx solamente come inessenziali «civetterie», Il precedente «umanesimo» si dissolve per lasciare posto ad un «antiumanesimo» programmatico che anticipa lo strutturalismo.

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Com'è noto, Althusser contesta ogni valore teorico al binomio «umanesimo socialista», giacché esiste fra i due termini repugnanza reciproca, rappresentando il primo di questi l'ideologia, il secondo, la scienza. Tale umanesimo avrebbe, in questa interpretazione, la propria genesi nell'umanismo «razionalista liberale, più vicino a Kant e a Fichte che ad Hegel», successivamente trasformato da Marx nell'umanismo comunitario di derivazione feuerbachìana4 • In questo umanismo si mostra che l'irragionevole alienazione della ragione costituisce la stessa realizzazione della storia dell'uomo. L'uomo è prima di tutto Gemeinwesen, essere comunitario, un essere che non sì adempie teoricamente (scienza) e non si realizza praticamente (politica) se non in rapporti umani universali, tanto con gli uomini quanto con i suoi oggetti (la natura esterna umanizzata dal lavoro). Qui la storia è concepita come l'alienarsi e l'estrinsecarsi della ragione nell'irragionevole, dell'uomo vero nell'uomo alienato. «Nei prodotti alienati del suo lavoro (merci, Stato, Religione) l'uomo, senza saperlo, realizza l'essenza dell'uomo. Questa perdita dell'uomo che realizza la storia e l'u'omo, suppone un'essenza preesistente definita. Al termine della storia, quest'uomo, divenuto oggettività disumanata, non avrà che da riprendere possesso, come soggetto, della propria essenza alienata nella proprietà, nella religione, e nello Stato, per diventare uomo totale, uomo vero» 5 • Questa citazione mette in evidenza alcuni dei nodi essenziali che costituiscono l'oggetto di questo saggio. Questi temi, tuttavia, fanno parte per Althusser della fase giovanile-ideologica di Marx, il quale, dopo il 1845, romperà definitivamente con la teoria che fonda la storia e la politica sopra l'essenza dell'uomo. La rottura con l'antropologia e con l'umanismo filosofici fa quindi tutt'uno con la scoperta scientifica di Marx. L'umanismo di Marx implicava due postulati complementari espressi nella sesta Tesi su Feurbach, e cioè: a) esiste un'essenza universale dell'uomo; b) quest'essenza è attributo dei «singoli individui» che ne sono i soggetti reali. Quindi: empirismo del soggetto e i_nsieme idealismo dell'essenza e viceversa. Il rifiuto dell'umanismo trascina con sé le categorie filosofiche di soggetto, empirismo, essenza ideale. Il materialismo di Marx escluderebbe l'empirismo del soggetto (e il suo rovescio: il soggetto trascendentale) e l'idealismo del concetto (e il suo rovescio: l'empirismo del concetto). La scoperta marxiana è insita nella

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teoria stessa del materialismo storico: in questo la vecchia coppia individuo-assenza umana è sostituita con concetti nuovi, come forze di produzione, rapporti di produzione, modo di produzione etc. Si deve pertanto «parlare apertamente di un antiumanesimo teorico di Marx e vedere in questo antiumanesimo teorico la condizione della possibilità assoluta (negativa) della conoscenza (positiva). Non è possibile conoscere qualcosa degli uomini se non alla assoluta condizione di ridurre in polvere il mito filosofico (teorico) dell'uomo». È la struttura che determina i luoghi e le funzioni che sono assunti dagli agenti della produzione. «I veri soggetti (nel senso di soggetti costituenti del processo) non sono dunque questi occupanti e neppure questi funzionari, non sono dunque contrariamente a tutte le apparenze, le «evidenze» del dato dell'antropologia ingenua, gli «individui concreti», gli «uomini reali», bensì la definizione e la distribuzione di questi posti e di queste funzioni. Quindi i veri «soggetti» che definiscono e distribuiscono sono i «rapporti di produzione» (e i rapporti sociali, politici e ideologici). Ma poiché sono dei rapporti non si potrebbero pensare nella categoria di soggetto»6 • Quest'ultima affermazione althusseriana mette in evidenza l'inconciliabilità che esisterebbe tra uomo e soggetto, sicché in nome del soggetto vero (i rapporti di produzione) occorre eliminarè il concetto di uomo 7 • È quindi in nome del vero soggetto che occorre procedere in direzione antiumanistica. È stato osservato 8, contro Althusser, sia la improponibilità filologica della rottura epistemologica fra Marx maturo e Marx giovane, tra filosofia e scienza, come attesta la presenza costante pressoché in tutte le opere, senza distinzione di fasi, di temi umanistici; ma, al di là della filologia, tale tesi viene a produrre nel marxismo una totale infondatezza teorica, nonché una completa irrilevanza dell'intero impianto marxiano. Che ne è del marxismo, senza la teoria dell'emancipazione? e vi può essere emancipazione senza alienazione e senza riferimento all'uomo e all'individuo concreto, in una parola senza umanismo? o questo percorso dall'alienazione all'emancipazione costituisce solamente una grande narrazione, una metafora dì affabulazione; senza alcun contenuto e significato scientifico, come afferma Lyotard9? D'altra parte, l'intreccio di umanesimo e scienza, o althusserianamente, di ideologia e scienza, risulta talmente inestricabile da riapparire puntualmente ogniqualvolta si indaghi il nucleo teorico dei concetti strutturali come di quelli più specificamente

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«scientifici» di Marx. Non è certo un caso, se nel dibattito che coinvolge la teoria del valore lavoro, o categorie di impronta umanistica come quelle di feticismo, alienazione, lavoro, dialettica, questi rinvii riappaiano con «inopportuna» puntualità. E ciò pone un dilemma in qualche modo insolubile: o accogliere il rigore della scienza, sacrificando ad essa l'interesse della teoria; o privilegiare l'interesse (l'ideologia o la filosofia, come si è detto), buttando a mare la scienza. D'altra parte, senza questo intreccio non si costituisce né sta più in piedi la stessa categoria di «critica dell'economia politica», cioè il cuore stesso del tentativo marxiano10. Heidegger 11 riconosce che «Marx, in quanto esperisce l'alienazione, raggiunge una dimensione essenziale della storia», cogliendo la radicalità della «mancanza di patria dell'uomo moderno». La possibilità di un dialogo produttivo col marxismo è, per Heidegger, resa possibile dal riconoscere «l'essenzialità dello storico nell'essere». Il materialismo per Heidegger, consi$te nella riduzione di tutto l'essere a materiale da lavoro, o oggetto, mentre l'uomo si pone in relazione essenziale come soggetto. «L'essenza del materialismo si nasconde nell'essenza della tecnica». Il marxismo «è la soggettività dell'uomo posta al livello della totalità. Esso porta a compimento la sua incondizionata autoaffermazione». L'alienazione diviene destino essenziale insuperabile all'interno della metafisica del soggetto, lungo la quale lo stesso Marx si muove. Heidegger ravvisa nella visione da parte di Marx, dell'alienazione come dimensione essenziale della storia, il terreno sul quale è possibile «un dialogo produttivo col marxismo» in vista dell'«oltrepassamento deUa metafisica». Individuato quest'àmbito comune, immediatamente si sottolineano le differenze: il marxismo, infatti, si muoverebbe ancora lungo il versante della metafisica come dispiegarsi della relazione soggetto-oggetto. Il marxismo cioè presuppone e si muove sul terreno della tecnica, senza essere tuttavia in grado di pensare l'essenza stessa della tecnica12 • In questo senso, acquista significato l'affermazione marxiana secondo la quale «la soppressione dell'autoestraneazione percorre la stessa strada dell'autoestraneazione» 13 • Manca quindi in Marx non solo una fondazione dell'attività pratica disalienante, ma soprattutto il suo presupposto essenziale: l'oltrepassamento della metafisica del soggetto. Marx sa che l'alienazione non viene realmente superata; e ciò nonostante deve essere percorso il cammino della prassi rivoluzionaria. «Marx ro-

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vescia metafisicamente la metafisica, rimane dunque nell'ambito della separazione sensibilità-soprasensibile. Marx non supera la rappresentazione della soggettività; anzi la porta all'eccesso» 15 • Il testo heideggerìano riapre dunque il problema della interpretazione del marxismo, a partire dalla ripresa della questione dell'umanismo. Interpretazione che si sviluppa tuttavia entro due diverse direzioni: o alla ricerca dell' «altro spazio» che Marx aprirebbe, come reputa K. Axelos; oppure come definitiva presa d'atto che nell'ambito dì Marx e del marxismo, nessun altro spazio, al di fuori di quello costituito dalla metafisica del rapporto soggetto-oggetto è possibile; pertanto la dis-alienazione marxiana costituisce l'estrema propaggine della storia dell'alienazione, come pensa Ruggenini 16 • Per Axelos, «Marx e Heìdegger, ma non Heidegger come Marx, tendono alla stessa cosa: ad aprirci alla tecnica, alla tecnica come destino (Geschick) e non come processo inevitabile e «fato» {Schiecksal)>>. Il problema è allora quello di aprirsi autenticamene all'essenza della tecnica. È in questo senso, e solo in questo, che, heideggerianamente, si può pensare l'essenza dell'umanismo. L'arco delle interpretazioni viene così a proporre, in sede storico-filologica, come in sede teoretica, il problema di ripensare alla tesi della «produzione dell'individuo universale», che nella riflessione marziana, senza interruzione e frattura, riveste ruolo centrale e dominante. Il tema non può essere eluso o tolto senza insieme gettare nella totale insignificanza lo stesso Marx e il marxismo. Questa questione si intreccia ma non si esaurisce nel problema del soggetto. L'essenza dell'uomo non è data una volta per tutte, ma deve essere prodotta. Qual è il senso di questa «produzione» e come essa si rapporta al problema generale della produzione (tecnica) e della produzione della storia?

2 - L'individuo Si è finora prestata scarsa o nulla attenzione al ruolo decisivo che la considerazione dell'individuo assume nel Marx maturo, dai Grundrisse fino al Capitale e alle Glosse a Wagner, probabilmente per l'accento polemico contro la visione borghese dell'individuo isolato posto da Marx, con la parallela affermazione del nesso di necessità che, nella produzione, stringe l'individuo alla società 17 ; inoltre, il ricorrente parallelo tra lingua e produzione e

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l'accentuazione del loro carattere eminentemente sociale 18 , sembra costringere ad una interpretazione strutturalista in cui la stessa considerazione dell'individuo scompare. Infine, in questa lettura, può avere giocato un peso non secondario il tentativo di distinguere Marx dall'antropologismo di stampo feuerbachiano e insieme la sottolineatura dell'effetto della rottura epistemologica del Marx maturo rispetto alla fase degli scritti giovanili 19 • Eppure non v'è niente di più falso e deviante, solo che si presti attenzione alla cura posta da Marx nell'individuazione e nella caratterizzazione del ruolo e del significato che l'individuo riveste nei diversi modi di produzione. Ciascun. modo di produzione e forma dei rapporti sociali corrispondenti -, infatti, non solamente è caratterizzato dal livello assunto in esso dallo sviluppo delle forze produttive, ma anche dal particolare significato che in esso riveste l'individua.20 • Certo, l'individuo non è mai considerato da Marx come un dato originario e naturale, né tantomeno come un 4ato assoluto, totalmente isolato che, in senso logico e in senso storico, solo successivamente viene a costruire i rapporti sociali. Ma il fatto che l'individuo non si di'a se non nella e per la società, e che quindi sia sempre costituito come individuo sociale, cioè come uomo che riveste particolari funzioni e determinazioni sociali, non priva affatto di consistenza e di significato la figura stessa dell'individuo. Sussiste quindi un rapporto di reciproca corrispondenza tra la forma della società e la forma dell'individuo. Alla società fondata sui nessi immediati e naturali corrisponde una forma di individualità vicino al gregarismo; a relazioni naturali nelle quali l'individuo scompare nel gruppo, corrisponde la sostanzialità naturale della società e la valenza accidentale e fenomenica dello stesso individuo 21 • Lo sviluppo dell'individuo, ovvero il suo affermarsi come individuo caratterizzato da specifica determinatezza e autonomia, procede parallelamente al progredire delle forze produttive e all'intensificarsi dei rapporti sociali. Sicché tanto più ampia ed estesa risulta la costruzione dei nessi sociali, tanto più vasta e profonda consegue l'affermazione dell'individuo che, per costruirsi come tale, si serve degli stessi rapporti sociali sviluppati come mezzo per la propria autonoma affermazione. Il passaggio dalle relazioni naturali, al nesso di dipendenza personale fino a giungere ai rapporti di dipendenza materiali propri del modo di produzione capitalistico, costituisce neJlo stesso tempo il processo nel corso del quale l'individuo si determina nel

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punto massimo del suo sviluppo e della sua ricchezza, con il massimo dell'intensificazione dì qualità e bisogni, di stacco dalla necessità naturale e dì avvicinamento alla libertà. L'individuo è il risultato di una costruzione sociale e la storia costituisce un processo orientato che dovrà concludersi con la costruzione dell'individuo sociale. «Gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono anche assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia»22 (Grundrisse, p. 79}. Con questa affermazione si rovescia la tesi borghese che pone l'individuo all'origine della storia, mentre nel contempo sì chiarisce perché proprio nell'epoca borghese si sia potuto produrre questa costruzione ideologica: «1' epoca che crea questo modo di vedere, il modo di vedere del singolo isolato, è proprio quella dei rapporti sociali (generali per questo modo di vedere) finora più sviluppati>> (Grundrisse, p. 6). La crescita dell'individuo autonomo è punto finale non momento iniziale del processo storico; sta quindi nel futuro non nel passato. È risultato non premessa dello sviluppo sociale. 3 - La produzione dell'uomo sociale In modo tutto sommato superficiale si è voluta leggere la posizione marxiana come l'antitesi speculare di quella borghese, sicché alla assolutizzazione dell'individualismo corrisponde in Marx l'assolutizzazione del collettivismo e la corrispondente negazione dell'individuo nella sua autonomia, a favore invece dell'affermazione di un rapporto di dipendenza e di subordinazione dell'individuo alla società. In questa prospettiva, la concezione marxiana viene immediatamente appiattita su quella hegeliana della finitezza e della negatività dell'individuo23 • Quello che invece non si vuole affatto vedere, è che proprio nel modo di produzione capitalistico «gli individui sono sussunti sotto la produzione sociale, la quale esiste come una fatalità esterna a essi; ma la produzione sociale non è sussunta sotto gli individui e da essi trattata come loro patrimonio comune» (Grundrisse, p. 76). La connessione spontanea, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, cioè il rapporto di dipendenza materiale contrapposto ed estraneo agli individui medesimi, presuppone la loro indipendenza e indifferenza reciproche24 • Il modo di produzione capitalistico è caratterizzato dal fatto

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che esso toglie ogni presupposto che gli sia estraneo, ovvero è esso stesso a porre le condizioni del proprio essere, in un processo di mediazione nel quale i presupposti del proprio divenire «si presentano ora come risultati della sua stessa realizzazione, della sua stessa realtà, come posti da esso, non come condizioni del suo sorgere, ma come risultati della sua esistenza» (Grundrisse, p. 363). «Esso non parte più da presupposti per divenire, ma è presupposto esso stesso e partendo da sé esso crea i presupposti della sua conservazione e della sua stessa crescita» (Ib., p. 364). L'assenza di presupposti, significa il toglimento, in linea di principio, di ogni limitazione, la posizione di una tensione illimitata allo sviluppo. «Qui si manifesta la tendenza universale del capitale, che lo distingue da tutti i precedenti stadi della produzione. Sebbene sia esso stesso limitato per sua natura, il capitale tende allo sviluppo universale delle forze produttive e in tal modo diviene il presupposto di un nuovo modo dì produzione, che non è fondato su uno sviluppo delle forze produttive teso a riprodurre o tutt'al più ad ampliare la situazione determinata, ma nel quale lo sviluppo libero, illimitato, progressivo e universale delle forze produttive costituisce il presupposto stesso della società e quindi della sua riproduzione; nel quale l'unico presupposto è il superamento del punto di partenza» (Grundrisse, p. 438). Questo circolo della produzione che si allarga indefinitamente coinvolgendo in sé circolazione, scambio e consumo, non solo rende disponibile alla producibilità la totalità dell'essere, e quindi pone la totalità dell'essere come oggetto, ma del pari deve produrre il soggetto adeguato ad un tale oggetto25 • La produzione di nuovo consumo procede di pari passo con la produzione di nuovi bisogni e quindi con la scoperta di nuovi valori d'uso. Qui il livello dei bisogni naturali viene soppiantato dalla produzione e dal soddisfacimento di bisogni prodotti dalla stessa società. Il risultato è «la formazione di tutte le qualità dell'uomo sociale e la produzione di esso come uomo per quanto è possibilè ricco .dì bisogni perché ricco di qualità e di relazioni - la sua produzione come prodotto sociale possibilmente totale e universale (giacché per avere un'ampia gamma di godimenti deve esserne capace, ossia colto in alto grado) -, tutto, ciò è condizione della produzione fondata sul capitale» (Grundrisse, p. 312). Pertanto, al livello più alto dello sviluppo delle forze produttive corrisponde la produzione dell'«uomo sociale», cioè dell'individuo universalmente sviluppato.

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Sussiste, come abbiamo avuto modo di dire, una connessione di necessità fra sviluppo delle forze produttive, espansione della ricchezza e costituzione dì una individualità ricca, «che è universale nella produzione quanto lo è nel consumo» (Jb., p. 231). Abbiamo qui a che fare, seppure in un contesto e all'interno di presupposti teorici del tutto nuovi, con la ripresa del tema degli scritti giovanili dell'individuo onnilaterale, dell'individuo universale, che soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo, si realizza come «ente generico» 26 . Con una differenza di fondo: che mentre l'uomo sociale è il prodotto dello sviluppo capitalistico, l'uomo come ente generico si realizza nella negazione della società fondata sul capitale e corrisponde a quello che Marx chiama l' «individuo universalmente sviluppato». Questi si costituisce sulla base e come sviluppo dell'uomo sociale, cioè come risultato e sbocco della tendenza alla universalità, immanente nel modo di produzione capitalistico ma che, proprio nel capitale, trova ancora un limite insuperabile. Sotto questo aspetto, la negazione della negazione, ovvero il superamento degli ostacoli frapposti dal capitale, consente di eliminare i limiti e le barriere che impediscono e limitano il pieno e libero sviluppo delle forze produttive e insieme il pieno e libero affermarsi di una individualità universale27 •

4 - La tendenza della produzione capitalistica Veniamo così ad incontrare il tema della natura complessa e in qualche modo piena di antitesi e di contraddizioni propria dello sviluppo del modo di produzione capitalistico. In esso Marx ravvisa da un lato ciò che egli chiama una «tendenza», un'aspirazione30, cioè l'orientamento oggettivo e positivo del capitale verso lo sviluppo della totalità delle forze produttive e il conseguimento della ricchezza generale; inoltre, il rivolgersi della produzione verso se stessa, cioè il porsi di essa come insieme mezzo e fine immanente, che supera ogni limite e finalità esterna 31 • · Ma, questa espressione immanente della razionalità storica, trova nei rapporti sociali dì produzione sviluppati dal capitale medesimo il limite e l'ostacolo immanente che impedisce questo pieno sviluppo32. La forma sociale in cui si esprime ìl modo di produzione, contraddice e limita la direzione e la forza raggiunta in questo stadio dalla produzione in generale. Riprenderemo successivamente questi punti essenziali: qui basti notare l'emergere, all'interno stesso della produzione capitali-

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stica, di quelle determinazioni necessarie, di essenza, potremmo dire, che costituiranno la base dello sviluppo successivo, quando il capitale stesso verrà negato e superato. Questi elementi essenziali vengono qui espressi con i termini «tendenza» e «aspirazione», cioè con connotazioni di netto stampo teleologico. Inoltre, Marx sottolinea· la tendenza civilizzatrice del capitale, la sua tensione all'unificazione totale del mondo e della produzione sotto la propria forma. Insieme, il capitale svolge un ruolo storico liberando il lavoro dalla sua subordinazione alla naturalità dei bisogni, della produzione, dello scambio e del consumo. Il capitale sviluppa i bisogni, non solo nella loro estensione naturale, ma soprattutto nella creazione di nuovi bisogni fondati socialmente e storicamente; infine, esso si esprime nella costituzione del lavoro eccedente, del pluslavoro, come bisogno universale33. In ciò si manifesta il tentativo, da parte del capitale, di dispiegare e sviluppare completamente le forze produttive, sia quelle dell'oggetto come quelle del soggetto, subordinando la totalità dell'essere alla produzione universale. Si viene così a costituire il sistema della laboriosità generale, incanalata e condotta, mediante una rigida disciplina, verso il massimo del suo sviluppo. «La produzione per la produzione non vuol dire altro che sviluppo delle forze produttive umane, quindi sviluppo della ricchezza della natura umana come fine a sé... Non si comprende che questo sviluppo della capacità della specie uomb, benché si compia dapprima a spese del maggior numero di individui umani e di tutte le classi umane, spezza infine questo antagonismo e coincide con lo sviluppo del singolo individuo, che quindi il più alto sviluppo dell'individualità viene ottenuto attraverso un processo storico nel quale gli individui vengono sacrificati»34 • Il passo risulta particolarmente perspicuo, in quanto si ritrovano in esso, in unità, un plesso di tematiche spesso sparse o scarsamente sistematizzate. Innanzitutto, emerge il processo storico orientato, dove il fine del processo è ricondotto all'uomo stesso e all'individuo. Lo sviluppo si riassume «nel più alto sviluppo dell'individualità». Inoltre. la produzione viene riassunta nell'uomo, sicché esiste un'equivalenza tra il porre «la produzione per la produzione» e il porre la stessa natura umana come fine a sé. (Le ragioni dì questa affermazione sono a questo punto ancora oscure, ma ritorneremo fra poco su questo tema). Infine, compare il tema dell'antagonismo e dei limiti intrinseci allo sviluppo capitalistico.

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Si tratta di una nuova ripresa del tema dei limiti del modo di produzione capitalistico. Innanzitutto, in esso l'oggettivazione si pone come estraneazione totale35 ; lo sviluppo della ricchezza, cioè delle possibilità della stessa natura umana, può avvenire solamente attraverso il lavoro (come già aveva visto l'Hegel della Fenomenologia dello spirito), ma nella società del capitale la ricchezza si determina necessariamente come estraneazione e alienazione. Qui l'estrinsecazione della interiorità umana mediante la prassi attiva si realizza come completo «svuotamento» e impoverimento della ricchezza umana 36 • Si dà sviluppo solo attraverso e mediante l'alienazione, che quindi costituisce momento dialettico necessario 37 • Si produce il massimo di estensione del dominio dei rapporti sociali, ma questi si separano dall'individuo e si contrappongono ad esso nella forma scissa del dominio dei rapporti materiali, cioè del dominio delle astrazioni3 8 • Infine il processo di sviluppo avanza attraverso l'antitesi, anche se, chiarisce Marx, la forma antitetica è effimera39 , cioè non legata intrinsecamente allo sviluppo delle forze produttive ma solo al particolare, determinato, storicamente definito, modo. di produzione capitalistico. Abbiamo in questo modo predisposto il terreno per affrontare il tema ulteriore dell'«individuo universalmente sviluppato», problema che si apre già nella forma capitalistica di produzione ma che solamente nel suo superamento può trovare concreta realizzazione.

5 La ricchezza come sviluppo dell'individuo universale e l'individuo come ricchezza Si è avuto già modo di porre in rilievo lo stretto nesso che, secondo Marx, unisce il capitale, in quanto aspirazione incessante alla forma generale della ricchezza, con la sua capacità di offrire tendenzialmente il massimo sviluppo delle forze produttive, sia del soggetto come dell'oggetto. Esso costringe alla completa estrinsecazione della interiorità umana40 , alla sua oggettivazione mediante la praxis produttiva, cioè alla sua traduzione in ricchezza. Ed è proprio il tema della ricchezza che costituisce il punto di mediazione e di passaggio vers9 la problematica dell'individuo universale. Infatti, «sebbene sia esso stesso limitato per sua natura, il capitale tende allo sviluppo universale delle forze. produttive e in tal modo diviene il presupposto di un nuovo modo di produzione,

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che non è fondato su uno sviluppo delle forze produttive teso a riprodurre e tutt'al più ad ampliare una situazione determinata, ma nel quale lo sviluppo libero, illimitato, progressivo e universale delle forze produttive costituisce il presupposto stesso della società e quindi della sua riproduzione; nel quale l'unico presupposto è il superamento del punto di partenza»41 • Questa tendenza, come s'è visto, trova un limite immanente nella stessa forma del capitale. Il toglimento di questo limite, cioè il superamento stesso del modo dì produzione capitalistico che quindi costituisce pur sempre una «forma di produzione limitata» e che perciò stesso compare come «puro punto di transizione>> -, crea le condizioni per un libero sviluppo della produzione e insieme e perciò stesso della libera individualità. La quale individualità si costituisce come forza produttiva all'interno del nuovo modo di produzione. E, allo stesso modo in cui la forma del modo di produzione inaugurata dal capitale toglie i propri presupposti naturali e quindi pone essa stessa i propri presupposti, eliminando ogni punto di partenza fisso, in quello stesso modo anche l'individuo di questa forma supera i presupposti naturali, pone esso stesso il proprio punto cli partenza attraverso la costruzione dei nuovi bisogni sociali. Quindi, a differenza di quanto avviene per l'individuo nelle forme precapitaliste di produzione, il quale individuo tende puramente e semplicemente a riprodurre se stesso e la società data nelle forme in cui essa è data, 42 qui esso aspira a porsi in uno «sviluppo libero, illimitato, progressivo e universale»43 • Le forme precapitaliste di produzione, al contrario, hanno uno sviluppo limitato in linea di principio e pertanto la crescita della ricchezza diviene causa essenziale del prodursi di antitesi e di contraddizioni e, infine, della dissoluzione della comunità antica. A partire dal modo di produzione capitalistico, al contrario, lo sviluppo della ricchezza costituisce l'immanente essenziale ratio e insieme fine del sistema; qui la contraddizione e infine la dissoluzione del modo di produzione sono legati aì limiti e ai vincoli imposti dai rapporti sociali di produzione allo sviluppo stesso della ricchezza. Prim{l di procedere alla individuazione della nuova figura dell'individuo universale, è opportuno mettere in luce la caratterizzazione marxiana della ricchezza. Infatti, «se la si spoglia della limitata forma borghese, che cos'è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive etc. degli individui, generata nello scambio universale? Cos'è

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se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Cos'è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz'altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su dì un metro già dato. Nella quale l'uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la sua totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire?»44 . La limitata forma borghese della ricchezza, della quale parla Marx, è costituita dal fatto che nel modo di produzione capitàlistico «questa completa estrinsecazione dell'interiorità umana si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come estraniazione totale, e l'eliminazione di tutti gli scopi unilaterali determinati come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo del tutto esterno»45 • Insomma l'estraneazione, l'alienazione e l'impoverimento delle capacità umane, il loro contrapporsi come cose estranee e ostili, il loro peso di dominio esercitato sull'uomo, le catene e la limitazione che l'estrinsecazione del lavoro umano producono in questa forma, non sono necessariamente connesse con il lavoro e l'oggettivazione, ma con la forma che lavoro e oggettivazione rivestono nella società del capitale. Anche in questo caso, la tendenza e l'aspirazione immanente proprie della cosa stessa il lavoro sono limitate e contraddette dalla forma sociale. L'attività che per eccellenza consente la piena realizzazione dell'individuo e della società si tramuta, nella forma borghese, nella sua antitesi negativa. Lo scopo immanente diviene scopo esterno, la ricchezza povertà, lo sviluppo limitazione, l'umanizzazione della natura disumanizzazione dell'uomo, l'espansione delle qualità umane altrettante catene della reificazione universale. La ricchezza del tessuto delle relazioni sociali si presenta come astrazione che domina lo stesso uomo che le ha prodotte46 • Si comprende pertanto l'equazione che Marx pone tra la tensione all'arricchimento propria della forma capitalistica e la spinta dell'individuo all'espansione onnilaterale del proprio essere. Sicché è il capitale che crea le premesse «per lo sviluppo di una individualità ricca che è universale nella produzione, quanto lo è nel consumo, di un'individualità il cui lavoro perciò non si pre-

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senta nemmeno più come lavoro, ma come pieno dispiegarsi dell'attività stessa, di un'attività nella quale la necessità naturale nella sua forma immediata è scomparsa; al bisogno naturale è subentrato un bisogno generato storicamente. Dunque il capitale è produttivo; è cioè un rapporto essenziale per lo sviluppo delle forze produttive sociali». 47

Se riflettiamo con attenzione su questo come sui molti altri passi nei quali Marx delinea la figura dell'individuo universale, soppesando con attenzione i termini introdotti per caratterizzarne la essenza, si può facilmente scorgere il tentativo marxiano di caratterizzare l'humanitas dell'uomo in termini radicalmente diversi non solo da quelli introdotti nella classica definizione dell'uomo come «animale razionale», ma anche da quelli espressi nelle precedenti concezioni, compresa quella hegeliana. La consi-. derazione dell'individuo è infatti strettamente ed essenzialmente connessa con i caratteri della particolarità, della limitatezza, della incompiutezza, della finitezza nonché della potenza negativa (in contrapposizione all'atto) da un lato, mentre, dall'altro lato, il vincolo alla naturalità contrassegna l'orizzonte del vivere e dell'agire, l'oggetto esterno che insieme limita e delimita ma nello stesso tempo costituisce l'ostacolo necessario perché possa dispiegarsi la sua attività sia come praxis sia come poiesis. Si può dire, assumendo la caratterizzazione aristotelica della poiesis, che l'uomo, in quanto animale produttivo, è orientato e insieme vincolato da un fine che è e resta esterno48 • In questo senso, lo sviluppo della humanitas dell'uomo trova una limitazione interna ed una esterna, limiti che contrassegnano in modo radicale e decisivo la sua natura. In questa direzione, più e più volte Marx sottolinea il fatto che la figura della società e delÌ'uomo antico cioè dell'uomo e delle definizioni dell'uomo proprie di tutte le forme precapitaliste di produzione si danno sempre e solo in «una forma compiuta» e all'interno di «una delimitazione data»49 • Non solo la forma della comunità è sempre limitata e determinata, ma è anche tale la forma «dell'individuo nelle qualità qualità limitate e sviluppo limitato delle sue forze produttive - atte a costituire tale comunità»50 • Non a caso, nello stesso passo qui esaminato, riappare la connessione fra individuo limitato e «il limitato livello storico di sviluppo delle forze produttive; cioè sia della ricchezza sia del modo di crearla». Fine della comunità e dell'individuo è la «riproduzione di queste determinate condizioni di produzione e degli individui sia singolarmente sia nelle loro divisioni e relazioni sociali in quanto portatori vi-

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venti di tali condizioni» (Jb. ). Come dirà altrove, questi individui sono ancora un prodotto della natura, non della storia51 • L'uomo sociale delineato da Marx è, al contrario, caratterizzato innanzitutto dalla «universalità» non ideale né astratta ma reale e concreta, in quanto non trova né subisce alcun limite che abbia carattere definitivo, e perciò stesso delimitante e particolarizzante, sia nella produzione come nel consumo, sia nelle relazioni ideali e reali52 come nel suo rapporto con la natura e con l'essere. Qui vengono superati i limiti naturali interni come esterni all'indivìdu9, limiti che delle forme precedenti costituiscono altrettanti presupposti ineliminabili. L'individuo, in questo stadio di sviluppo non si produce in una dimensione determinata a scapito delle altre, «ma produce la totalità» sia delle sue relazioni come delle sue qualità53 • Inoltre, lo stesso lavoro, dice Marx, non si presenta come lavoro, ma come pieno dispiegarsi dell'attività stessa54 ; l'uomo si pone non come dynamis, ma come energheia, non come potenza che richiede per passare all'atto sempre e comunque condizioni e intervento esterno, ma il lavoro esiste come pura attività, come atto in atto, si potrebbe dire, come vita piena e dispiegata in pieno e continuo sviluppo55 • Proprio per questi caratteri, qui l' oggettivazione depone quello che è il suo risultato negativo nella forma borghese, cioè l'alienazione; nell'oggettivarsi l'uomo rimane sempre presso se stesso, ritrova se stesso in ciò che è il risultato della propria oggettivazione. «Dove, conclude Marx, non cerca cli rimanere qual.cosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire»56 • L'uomo nuovo depone l'uomo vecchio nella sua natura. Il mutamento dei rapporti sociali di produzione trasforma l'umanità dell'uomo nella sua radice. Deposte le catene radicali, l'individuo si ricrea dalle radici57 •

6 - Il regno della libertà Con ciò si è giunti al passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Questo regno si trova oltre la sfera della produzione materiale vera e propria la quale resta vincolata alla necessità e alla finalità estema58 • Tale necessità è costituita dalla estraneità della natura ai suoi scopi, dalla necessità «eterna», indipendentemente da tutte le forme della società e da tutti i modi di produzione, del suo ricambio organico con la natura, la quale deve essere piegata e dominata, utilizzata in quanto costretta59 •

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In questo contesto, l'ampliamento dei bisogni viene considerato da Marx come estensione «delle necessità naturali», alle quali una risposta è data dallo sviluppo delle forze produttive. Qui il concetto di bisogno non è ulteriormente definito, né si distingue, come altrove spesso viene fatto, tra bisogni naturali in senso proprio e bisogni sociali, prodotti storicamente; qui non si parla della ricchezza, cioè dell'arricchimento dell'uomo nelle sue qualità e capacità, come «ricchezza di bisogni», cioè come superamento dei bisogni dati e ìntroduzione di bisogni sociali acquisiti. Il bisogno diviene qui espressione dì mancanza, di limitazione, di vincolo e di necessità, e perciò stesso come espansione dell'orizzonte della necessità naturale 60 • In questo stadio, che rimane pur sempre entro il regno della necessità, il massimo della libertà possibile è costituita dal fatto che «l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e "più degne di esse»61 • Questa «regolazione razionale» costituisce un superamento della società basata sullo scambio, dove, fin dall'inizio, l'individuo si muove sotto la «costrizione». Infatti, «il suo prodotto immediato non è un prodotto per lui, bensì diviene tale soltanto nel processo sociale e deve assumere questa forma generale eppure esteriore; che l'individuo ha ormai un'esistenza soltanto in quanto è produttore di valore di scambio, nel che è già implicita l'intera negazione della sua esistenza naturale; che esso è quindi totalmente determinato dalla società ( ... ). Che quindi il presupposto non solo è un presupposto che non risulta affatto dalla volontà, né dalla natura immediata dell'individuo, ma è invece un presupposto storico che pone l'individuo già come determinato dalla società»62 • Qui la relazione tra persone è trasformata in un rapporto sociale tra cose; qui le relazioni create dagli uomini si contrappongono ad essi e li dominano. «Gli individui sono sussunti sotto la produzione sociale, la quale esiste come una fatalità esterna ad essi; ma la produzione sociale non è sussunta sotto gli individui e trattata come loro patrimonio comune»63 • Si tratta allora di ribaltare questa situazione, riportando il rapporto di produzione «sotto il loro comune controllo», passando dalla fase delle relazioni non sapute né volute a quelle in cui il sapere e la volontà

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collettìva regolano l'intero processo, ripartiscono i compiti, costruiscono fin dall'inizio la produzione come sociale, non affidando allo scambio il compito di costruire ex post la loro reciproca connessione. Qui il prodotto assume un carattere comune fin da principio, così come fin dal principio vi sarebbe la partecipazione del singolo al mondo comune dei prodotti64 • La produzione comune viene così a presupporre la comunità come fondamento stesso· della produzione. Il lavoro del singolo è posto sin da principio come lavoro sociale, non come fondato sulla divisione del lavoro determinata dalle relazioni di scambio. In questa società, la libertà si realizza pur sempre in senso negativo, come assenza di costrizione, ovvero come diminuzione della costrizione imposta dalla natura. «Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità» 65 • È questo il regno in cui si realizza l'individuo universale. Alla produzione di questo individuo è finalizzato il processo storico. 7 - La produzione come l'originario

Nella parte che precede, abbiamo tentato di esporre con fedeltà il tracciato marxiano del rapporto che intercorre tra individuo e società, tra individuo e storia, tra individuo e rapporti sociali di produzione. Ovviamente l'individuo, nelle diverse forme che esso assume nei differenti modi di produzione, si presenta sempre come mediato dalle forme totali della società e della produzione. Senza tuttavia con questo scomparire, o costituirsi come puramente negativo. La figura dell'individuo universale che compare come anticipazione del regno della libertà, preparata e resa possibile dal dispiegarsi dei rapporti sociali di produzione e dallo sviluppo delle forze produttive proprie del regno della necessità, costituisce lo sbocco finale dell'intero processo, conclusione in cui si realizza il totale dispiegarsi della pienezza della società e dell'individuo. Una pienezza che coincide non con la realizzazione di una presunta essenza naturale data una volta per tutte da parte dell'uomo, ma con la posizione di una nuova umanità dell'uomo umano: nuova e ricca perché storica e sociale. Ma la chiave di volta di tutto quest'edificio risiede nel rapporto che intercorre tra l'uomo e la produzione; giacché, se è vero che le figure dell'uomo sociale e dell'individuo universale risulta-

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no «prodotte» storicamente, è altrettanto vero dire che le forme di questo come di ogni altro «produrre)) si riconducono infine alla forma economica della produzione. Ma produrre è pro-ducere, cioè condurre all'esistenza qualcosa che prima non era e ora è, secondo la definizione aristotelica della poiesis che sta alla base delJa comprensione occidentale della tecnica66 • Ogni produrre si riconduce infine a lavoro e ogni lavoro si determina come produzione poietica. Se e in quanto il lavoro costituisce la dimensione essenziale dell'uomo, se lo stesso lavoro in quanto espressione del ricambio organico dell'uomo con la natura forma per Marx una condizione naturale eterna67 , che sussiste come sfondo permanente di ogni società e della stessa storia, indipendentemente dalla forma sociale e dai modi di produzione che le società volta a volta assumeranno nel corso dello sviluppo storico, tutto questo allora significherà che le relazioni essenziali dell'uomo, della società, della natura e della storia sono contrassegnate dal rap".' porto poietico, cioè dalla tecnica68 • Nell'analizzare quel rapporto complesso che è il lavoro, nella scomposizione di una realtà complessa nei suoi elementi semplici, cioè originari e perciò stesso non ulteriormente scomponibili e analizzabili - e a partire dai quali si dovrà percorrere la via a ritroso della costruzione del fenomeno complesso - e questa, dirà Marx nella Einleitung è la via della scienza69 -, Marx individua come momenti semplici del lavoro il soggetto, l'oggetto e il mezzo 70. Il carattere decisivo di questa considerazione emerge dal fatto che la totalità delle categorie marxiane sono costruite a partire da questa struttura originaria: così il «modo di produzione» che introduce la determinatezza e la specificità nella storia, risulta ·costituito dal diverso modo in cui tali elementi semplici possono rapportarsi tra loro. E le forme essenziali di questo rapporto, l'unità e la separazione reciproca degli elementi, vengono a costituire le determinazioni essenziali che caratterizzeranno rispettivamente le forme precapitaUstiche di produzione e quelle capitalistiche. E insieme il superamento della società del capitale viene dallo stesso Marx caratterizzata come una ricostituzione, sia pure su basi storicamente e socialmente mutate, della stessa unità originaria éhe caratterizza il rapporto fra questi elementi semplici71 • Senza minimamente pretendere in questa sede di passare in rassegna l'intero delle categorie marxiane, ricorderemo come a questa radice si riconducano i concetti di forma, di merce, di forze produttive, di rapporti sociali di produzione, di feticismo e

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alienazione etc. Si è anche avuto modo di accennare al peso determinante che assume il concetto e la realtà della produzione nella costituzione di categorie quali «ricchezza» e infine in quella stessa di uomo. L'uomo stesso infatti viene ad essere storicamente costituito in forza e come risultato dello sviluppo delle forze produttive. L'uomo stesso è quindi «prodotto», nello stesso modo v'è una produttività del capitale cosi come del modo di produzione che rovescia il capitale. «Individui che producono in società, e quindi produzione socialmente determinata degli individui, costituiscono naturalmente il punto di avvio»: così si apre l' Einleitung. La produzione è quindi sempre produzione di individui sociali. L'accento marxiano, in senso polemico antiborghese, batte sull'aggettivo «sociale», ovvero sulla confutazione della tesi borghese della originarietà dell'individuo «isolato». In questo senso, l'individuo appare «non autonomo>>. Il punto che viceversa a noi preme sottolineare è quello di «produzione di», dove il genitivo, insieme soggettivo e oggettivo, esprime da un lato la relazione di possesso e di appartenenza e nello stesso tempo il soggetto di appartenenza dal quale promana la relazione stessa. Il soggetto produce l'oggetto mediante il mezzo, all'interno di rapporti sociali dati. Ovvero: il soggetto costituisce il fondamento ontologico e grammaticale al quale fa riferimento e da cui dipende la categoria dell'agire72 • In questo senso il soggetto, individuo sociale o isolato non importa, costituisce nella sua determinatezza, un dato originario non ulteriormente analizzabile, cioè un «semplice». Nella medesima originarietà e irriducibilità si determina l'oggetto. Il fatto che i tre termini della relazione si costituiscono originariamente in unità, significa che il soggetto è soggetto di un oggetto, cioè si caratterizza come tale solo nel suo riferimento e in unità con l'oggetto; così come l'oggetto è sempre oggetto di un soggetto, ovvero sussiste solo in riferimento a, in unità con, in vista di... L'unità, invero, non cancella la differenza, la distinzione e la determinatezza dei termini che entrano nella relazione. Tanto è vero che essi sono posti come semplici, cioè come logicamente autosufficienti, come ciascun altro rispetto all'altro, anche se l'uno non esiste senza un riferimento all'altro, nell'unità complessa. Ma i due termini sono in relazione reciproca anche in altro senso: entrambi infatti sono costituiti come tali mediante le categorie di agire e patire. Questo significa che il soggetto in tanto è attivo in quanto è in riferimento ad un oggetto che è passivo. In

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questo preciso senso si deve dire che l'uno non è se non in rapporto all'altro. Essi cioè costituiscono i momenti semplici del lavoro, solo in quanto essi stessi sono costituiti originariamene sulla base e in forza del concetto di lavoro73 • Essi sono momenti semplici «del» lavoro, in quanto entrambi fanno parte, sono propri, si danno solo a partire dal lavoro e come espressioni del lavoro. Nessuno di questi elementi assunto per se solo, né l'insieme di essi, dà come risultato il lavoro. Il lavoro costituisce il complesso che non risulta né può risultare come somma statica dei suoi elementi componenti. Il lavoro è l'originario di cui gli elementi sono parti semplici distinguibili solo logicamente. Ma la distinzione contraddice e nega ciò che intende solo distinguere, qualora essa dimentichi che il terreno costitutivo, cioè l'orizzonte e insieme il fondamento di ciascuno dei due, è appunto il lavoro, la produzione 74 • In questo preciso senso si deve allora dire che la produzione è l'originario. 8 - La produzione dei rapporti sociali: ovvero l'uomo fa la storia Abbiamo a più riprese, nel corso della presente analisi toccato, il problema dell'attribuzione al soggetto sociale della causalità attiva nella produzione dei rapporti sociali, i quali, nella forma borghese appaiono come separati dall'uomo, dotati di esistenza autonoma, contrapposti come cose, indipendenti dal sapere e dal volere ,degli uomini, dotati di vita propria. «Il carattere sociale dell'attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell'individuo alla produzione, qui appare come qualcosa di estraneo, di oggettivo, di fronte agli individui; non corrìe loro rapporto reciproco, bensì come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e che sorgono dallo scontro tra individui indifferenti gli uni agli altri. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, divenuto condizione di esistenza per ogni singolo individuo, la loro connessione reciproca, si presenta loro come estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra persone è trasformata in un rapporto sociale tra cose» 75 • Questo medesimo rapporto stregato appare nella natura sensibilmente sovrasensibile della merce, così come nella tematica del dominio degli uomini da parte delle astrazioni76 • La dialettica di apparenza essenza, che anche nel brano sopra citato compare, sottolinea il ribaltamento - nel rapporto tra

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essenza e apparenza che avviene nei rapporti sociali di tipo capitalistico 77 • L'apparenza concerne la indipendenza e la sostanzializzazione dei nessi, la realtà e l'essenza riconduce questi stessi nessi alla dipendenza e alla derivazione di essi dagli uomini e dai rapporti sociali. È l'uomo che nella produzione produce i rapporti sociali che gli si contrappcngono. «Non si comprende, dice Marx, che questi rapporti sociali determinati sono prodotti degli uomini esattamente come la tela, il lino etc.» 78 • Due questioni essenziali sono chiamate in causa: per un verso il carattere produttivo e causale dell'uomo in relazione ai rapporti sociali; per altro verso il carattere storico delle formazioni sociali e con ciò stesso la natura della storia. Cominciamo da questo secondo aspetto. Marx intende richiamare e rivendicare il carattere storico di ogni formazione sociale, sia del passato come del presente; questo esclude in radice che si dia alcuna formazione sociale e modo di produzione di carattere naturale o eterno, come pretende l'ideologia borghese in relazione al capitalismo 79 • Insomma, se l'attuale forma sociale fosse da «sempre», e seinoltre fosse possibile dìre di essa che sarà «sempre», occorrerebbe attribuire a questi rapporti i caratteri della necessità, ovvero di essi non si potrebbe dire che possono essere diversamente da come essi attualmente sono. E quindi, in forza di questo loro carattere di necessità e di eternità, essi dovrebbero essere per principio sottratti alla possibilità dell'intervento della prassi umana. Ora, l'affermazione non può certamente dipendere dal fatto che, poiché tutte le formazioni del passato sono «storiche», allora anche quelle del presente debbono esserlo. È evidente che il fondamento di una tale tesi sarebbe piuttosto fragile: la necessità dell' asserto, infatti, non può essere fondata in forza di un ragionamento di tipo analogico o di tipo induttivo. Da un fatto, il presunto carattere storico del passato, non si può inferire il carattere storico del futuro. Non v'è infatti, dal punto di vista logico, alcuna contraddizione nel dire, come Marx attribuisce all'ideologia borghese, che «v'è stata una storia, ma ora non c'è più» 80 • D'altra parte non molto dissimile da questa è la tesi hegeliana della identità tra presente e Spirito assoluto. Si tratta allora di dimostrare il carattere necessariamente storico del presente, sia in relazione ai contenuti determinati, come in rapporto alla forma complessiva. Ora, da un punto di vista marxiano, come abbiamo cercato di dimostrare altrove, non è facile superare la forma del presente, come forma totale in cui l'intero processo storico si riassume e si risolve8 1 •

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Fermiamoci per il momento qui, e passiamo all'esame della prima tesi: «questi rapporti sociali sono prodotti degli uomini, esattamente come la tela, ìl lino etc.». La tesi intende porre come unico soggetto produttore l'uomo. Dall'uomo dipende la storia, così come dall'uomo dipendono e derivano i prodotti della tecnica. Non vi sono altri attori che l'uomo; l'unico vero agente è l'uomo, indipendentemente dal fatto, come più volte sottolinea Marx, che egli ne abbia coscienza o meno, che sì proponga o meno ciò in modo esplicito come oggetto del proprio volere. Egli fa la storia senza saperlo e senza volerlo. Se assumiamo l'analogia introdotta da Marx tra produzione della storia e produzione tecnica, dobbiamo immediatamente osservare che il modo della produzione è radicalmente diverso, tanto da far pensare che il termine