Prima e dopo il noir 8893040395, 9788893040396

Un libro che documenta e analizza la vasta produzione cinematografica di genere noir, dalle origini fino agli sviluppi p

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Italian Pages 284 [420] Year 2016

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Prima e dopo il noir
 8893040395, 9788893040396

Table of contents :
Prefazione
Istruzioni per l’uso
Il valore di una classificazione
Il cinema della disperazione: una reazione romantico - espressionista al fallimento borghese - liberale
Il realismo nel cinema della disperazione
Spazio e tempo, tra gangster movie, western e noir
Disagio e cinema della disperazione
Tratti e temi della (tradizionale) poetica noir
Il neo - noir
Dall’Europa all’America e ritorno
Destrutturazioni nell’assurdo
Il cinema della disperazione in Italia. Nella tradizione realista
Dal bianco al nero
La Germania dissociata del primo dopoguerra
Cinema tedesco e inquietudine
Il dottor Mabuse
L’ultima risata
L’angelo azzurro
Strada e anarchia
L’influenza del surrealismo in Francia
Le caratteristiche del cinema d’autore francese degli anni ’30
L’universo fantastico di Jean Vigo
Il porto delle nebbie
Il bandito della Casbah
L’angelo del male
Alba tragica
L’eredità del realismo poetico
Stati Uniti: la verità sulla guerra sociale dei dimenticati
Il compromesso hollywoodiano: sul modello di neutralizzazione della rivolta sociale
La prima generazione di registi europei e le iniziali manifestazioni di inquietudine
Scarface (e gli altri gangster movies)
I neri sociali di Lang: Furia e Sono innocente
Il new deal hollywoodiano
L’intersezione tra cinema della speranza e cinema della disperazione a Hollywood
Il confronto tra la poetica western e quella noir
Il wester-n-oir
La letteratura hard boiled, cinema e caccia alle streghe
PERCORSI NOIR
Il contesto urbano
La città nuda
Cane randagio
La 25a ora
Il fascino irresistibile del grande colpo
Giungla d’asfalto
Rapina a mano armata
Rififi
I senza nome
Milano calibro 9
Le iene
Fargo
Amicizia virile
Lo spione
Asfalto che scotta
Yakuza
L’angelo ubriaco
Grisbi
Il buco
Amanti dannati
La fiamma del peccato
Il postino suona sempre due volte
Seduzione mortale
Ascensore per il patibolo
I diabolici
Blood Simple
Affari di Stato
Il fuorilegge
Mano pericolosa
La conversazione
I tre giorni del Condor
Taxi Driver
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
Un vortice nero
I gangsters
Le catene della colpa
Grattacielo tragico
Il bacio dell’assassino
La signora di Shanghai
Casco d’oro
Eyes Wide Shut
Non è un paese per vecchi
Investigando nel nero
Il mistero del falco
Il grande sonno
L’ombra del passato
Il lungo addio
Chinatown
Blade Runner
Il thriller d’atmosfera noir
Legittima difesa
Il ladro
Sui marciapiedi
Dalla fiaba al reality: una svolta nell’universo noir?
Crediti
Tra i Fogli volanti

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Prefazione Istruzioni per l’uso Il valore di una classificazione Il cinema della disperazione: una reazione romantico espressionista al fallimento borghese - liberale Il realismo nel cinema della disperazione Spazio e tempo, tra gangster movie, western e noir Disagio e cinema della disperazione Tratti e temi della (tradizionale) poetica noir Il neo - noir Dall’Europa all’America e ritorno Destrutturazioni nell’assurdo Il cinema della disperazione in Italia. Nella tradizione realista Dal bianco al nero La Germania dissociata del primo dopoguerra Cinema tedesco e inquietudine Il dottor Mabuse L’ultima risata L’angelo azzurro Strada e anarchia L’influenza del surrealismo in Francia Le caratteristiche del cinema d’autore francese degli anni ’30 L’universo fantastico di Jean Vigo Il porto delle nebbie Il bandito della Casbah

L’angelo del male Alba tragica L’eredità del realismo poetico Stati Uniti: la verità sulla guerra sociale dei dimenticati Il compromesso hollywoodiano: sul modello di neutralizzazione della rivolta sociale La prima generazione di registi europei e le iniziali manifestazioni di inquietudine Scarface (e gli altri gangster movies) I neri sociali di Lang: Furia e Sono innocente Il new deal hollywoodiano L’intersezione tra cinema della speranza e cinema della disperazione a Hollywood Il confronto tra la poetica western e quella noir Il wester-n-oir La letteratura hard boiled, cinema e caccia alle streghe PERCORSI NOIR Il contesto urbano La città nuda Cane randagio La 25a ora Il fascino irresistibile del grande colpo Giungla d’asfalto Rapina a mano armata Rififi I senza nome Milano calibro 9 Le iene Fargo

Amicizia virile Lo spione Asfalto che scotta Yakuza L’angelo ubriaco Grisbi Il buco Amanti dannati La fiamma del peccato Il postino suona sempre due volte Seduzione mortale Ascensore per il patibolo I diabolici Blood Simple Affari di Stato Il fuorilegge Mano pericolosa La conversazione I tre giorni del Condor Taxi Driver Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto Un vortice nero I gangsters Le catene della colpa Grattacielo tragico Il bacio dell’assassino La signora di Shanghai Casco d’oro

Eyes Wide Shut Non è un paese per vecchi Investigando nel nero Il mistero del falco Il grande sonno L’ombra del passato Il lungo addio Chinatown Blade Runner Il thriller d’atmosfera noir Legittima difesa Il ladro Sui marciapiedi Dalla fiaba al reality: una svolta nell’universo noir? Crediti Tra i Fogli volanti

Stefano Sciacca

Prima e dopo il noir

Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti secondo gli standard dell’International Digital Publishing Forum ISBN 9788893041904 Prima edizione digitale: febbraio 2020

Prefazione

di Silvio Alovisio

Nessun altro genere cinematografico può vantare una bibliografia così sterminata come quella che è stata dedicata al noir a partire dalla fine degli anni Quaranta e dai primi anni Cinquanta, ossia dai tempi in cui Nino Frank, Pierre Chartier, Raymond Borde ed ètienne Chaumeton – come ci ricorda puntualmente Stefano Sciacca - coniarono questa fortunatissima categoria critica, poi fecondamente metabolizzata anche in ambito anglo-americano. Per avere una scala di grandezza del fenomeno editoriale può essere sufficiente citare un dato, tanto oggettivo quanto impressionante: se si digitano le parole “film noir” nel campo “title” di Amazon.com, i risultati della ricerca restituiscono i dati di oltre settecento monografie. In questa gigantesca biblioteca virtuale il genere è scientificamente sezionato in tutte le sue possibili declinazioni e nella pluralità quasi illimitata dei suoi temi culturali, sociali, ideologici, narrativi, stilistici, tecnici, filosofici: le donne, la modernità, l’influenza della cultura ebraica, il fatalismo, la città, le fonti letterarie, la musica, la mascolinità, la paranoia, le tecniche di illuminazione, e così via. Sarebbe tuttavia depistante collocare il libro di Sciacca all’interno di questa smisurata, prismatica e anche – va detto – assai diseguale produzione di studi sul genere (ben problematizzata nei suoi diversi modelli teorici e

interpretativi da Massimo Locatelli nel suo eccellente studio Perché noir, pubblicato nel 2011 da Vita & Pensiero). A metterci in allerta rispetto al rischio di tale errore, in realtà, dovrebbe essere il titolo stesso del volume, Prima e dopo il noir , apparente indizio di una scelta che sembrerebbe rimuovere il noir classico americano dal perimetro della ricerca. Ma anche in questo caso occorre fare attenzione ed evitare le semplificazioni: il “prima” e il “dopo” qui non indicano tanto la possibile scelta da parte di Sciacca di soffermarsi solo sulla fase aurorale, quasi archeologica, del genere, per saltare poi direttamente allo studio delle sue numerose filiazioni postume contemporanee. L’autore infatti non intende certo rimuovere dai suoi percorsi intertestuali la golden age del genere, alla quale anzi dedica numerose pagine, non celando le sue predilezioni in materia di registi e di film, con quella competente passione cinefila e con quelle solide aperture culturali già dimostrate nel suo precedente studio su Lang e Hitchcock. Le indicazioni temporali dichiarate nel titolo segnalano piuttosto la volontà di individuare nel cinema noir il sintomo particolare ma potente, l’esito peculiare ed eclatante di un complesso processo storico dai confini cronologici ed espressivi ben più estesi rispetto al genere stesso, capace quindi di esistere, appunto, prima, durante e dopo il noir. Quest’ultimo si profila dunque per l’autore non tanto e non solo come un genere storicamente determinato e socialmente condiviso, con un corpus filmografico circoscrivibile (per esempio i 745 titoli schedati da Michael F. Keaney nella sua utile Film Noir Guide pubblicata nel 2010 da McFarland), profondamente legato - per citare il corposo studio di Venturelli uscito nel 2007 per Einaudi - a un’età (dal 1940-1941 al 1958, anno di Touch of Evil di Orson Welles), e tipico di un cinema nazionale a vocazione globalizzante (Hollywood, ovviamente). Le mappe del noir, nella proposta di Sciacca, fanno parte piuttosto di un atlante culturale molto eterogeneo, talmente stratificatosi nel corso dell’Otto e Novecento al punto da disegnare una cartografia quasi inestricabile se non addirittura contraddittoria, ma resa coerente ed unitaria - in una disseminata pluralità di

riferimenti, di correnti, di esperienze creative - dal suo riferirsi principalmente a un unico forte paradigma: il rapporto con la realtà dell’età moderna. Con questa premessa interpretativa, allora, la cartografia del noir presuppone una filogenesi, le cui origini risalgono alla nascita e all’affermazione dell’egemonia borghese, e alla successiva rivelazione dei limiti di questa egemonia e del suo lascito di promesse disattese, di certezze compromesse e di ipocrisie malcelate. Dopo l’irreparabile frattura aperta dalla rivoluzione francese, la storia culturale dell’Occidente vive due secoli di produttive ma spesso drammatiche tensioni: per ricordarne solo alcune, tra progresso e reazione, scienza e arte, natura e cultura, impressione ed espressione, soggettività e oggettività, logica e sentimento, ragione e follia, individuo e classe, essere umano e ambiente, campagna e città, eroe ed antieroe ecc. Intorno a queste polarità si sono incontrate e scontrate tendenze filosofiche, ideologiche, artistiche e creative divergenti: l’illuminismo e il romanticismo, il naturalismo e il simbolismo, fino all’eversiva esplosione anti-borghese scatenata dalle avanguardie storiche, in particolare dall’espressionismo e dal surrealismo. In questa temperie creativa di schieramenti e attacchi, di reazioni e controreazioni, di ascendenze e discendenze ciò che unisce esperienze così distanti è il condiviso riferirsi al rapporto – spesso inquieto – con la realtà. La rivoluzione realista ottocentesca, artefice – per citare l’autore - di una “elevazione della vita quotidiana e dell’ordinario al livello dell’ideale” è in definitiva per Sciacca la matrice di questo lungo e tormentato processo storico-culturale che trova nel noir un’espressione particolarmente angosciata, disorientata e critica, proprio in ragione delle sue tensioni interne (per esempio tra cinico individualismo e sensibilità ai danni collaterali della modernizzazione, tra documentazione della realtà metropolitana e irruzione soggettiva dell’incubo, tra evidenza fotografica del presente e peso psichico insopprimibile di un passato che non passa).

Appare evidente, allora, il punto di vista fortemente politico, ancora prima che estetico-stilistico, dal quale l’autore – senza nascondere la sua posizione (si vedano i ricorrenti riferimenti allo storico marxista Howard Zinn) - ricostruisce la presenza del noir nella storia del cinema novecentesco. Il noir per Sciacca non può essere solo un’etichetta di genere con i suoi stilemi e la sua precisa riconoscibilità storico-sociale ma non può nemmeno essere visto – attenzione – come una categoria metastorica, quasi astratta: al contrario è una poetica storica diffusa, un campo di forze critiche insieme positive e negative che riverberano dagli incubi weimariani del cinema espressionista alle macerie del cinema neorealista, dalle nebbie socio-esistenziali del realismo poetico francese alla frontiera sempre meno luminosa di certi film western. Il genere noir, insomma, si ridisegna in queste pagine come una sorta di nebulosa ideologica la cui espansione transtestuale si attiva o riattiva nei periodi di crisi (i due dopoguerra, gli anni Settanta ecc.): si tratta comunque di una ideologia non dogmatica, non sistematica, pronta a confrontarsi con modelli culturali molto distanti fra loro (non solo gli Stati Uniti sulla soglia del maccartismo ma anche, appunto, la Francia del fronte popolare, l’Italia sconfitta del secondo dopoguerra, il cupo Giappone metropolitano di Cane randagio), sempre oscillante tra la protesta e la disperazione, tra la resistenza e la sconfitta. Interpretare il noir in chiave ideologica non è un gesto ermeneutico nuovo (si legga per esempio il recente volume di Fabio Vighi, Critical Teory and Film. Rethinking Ideology trough Film Noir , pubblicato da Continuum nel 2012) anche perché ormai – come si è detto in apertura – nulla si può scrivere di interamente originale su questo fenomeno. Persino la scelta di aprirsi al confronto con le avanguardie è già stata fatta, in passato, in particolare per l’espressionismo e per il surrealismo (sul ruolo dei surrealisti nell’invenzione critica – tutta francese - del noir, per esempio, ha scritto pagine documentate e illuminanti James Naremore nel suo fondamentale More Than Night. Film Noir in Its Contexts, pubblicato nel 2008, in seconda edizione ampliata, da University of California Press). Ma l’obiettivo di Sciacca non

è riconoscere filologicamente la texture delle influenze, o la mappatura delle eredità: il suo interesse prioritario è identificare la genesi, lo sviluppo e le conseguenze ultime di un inquieto “comune sentire” che unisce tempi e spazi della creazione artistica in apparenza così lontani. In questa prospettiva, allora, non è rilevante verificare se – per esempio – gli sceneggiatori di Il mistero del falco o di Le catene della colpa siano stati esplicitamente ispirati da Dostoevskij, mentre è interessante il tentativo di identificare le sorprendenti e numerose cogenze tra il romanzo dostoevskiano – considerato da Sciacca come uno dei fari della rivoluzione realista, insieme alla pittura di Courbet - e il cinema noir (la disumanità della metropoli, l’isolamento dell’antieroe rispetto alla sua comunità, la ricorsività dell’incubo, l’empatia – purtroppo non salvifica – dell’amicizia virile, l’oppressione psicologica del passato e del rimorso, l’inefficacia della ribellione, l’inevitabilità della punizione ecc.). E lo stesso vale per i dipinti di Van Gogh, di Munch, di Kirchner, o per i racconti di Hoffmann, di Gogol, di Conrad, per citare solo alcune fondamentali tappe di questo colto e singolare viaggio non solo cinematografico che, ne siamo certi, continuerà a coinvolgere il lettore anche dopo la sua ultima pagina.

Istruzioni per l’uso

Proseguendo con audacia a esplorare il territorio dell’assurdo e della destrutturazione di genere, i fratelli Coen hanno realizzato Ave Cesare! (2016): opera straordinariamente complessa e complicata, pur nella sua breve durata, che sfugge a qualunque definizione. Essa ha assunto i toni della commedia ma strizzato l’occhio al noir, di cui ha sfruttato uno

degli spunti più ricorrenti e il finale beffardo: immaginando un grande colpo criminale, un malloppo che va perduto e la cattura dei suoi autori. È stata l’esasperazione dell’aspetto comico della tipica tragedia noir. Dal momento che il racconto è stato ambientato negli studios cinematografici all’epoca della Hollywood classica, molti episodi del film, iniziati ed esauriti all’interno di un set proprio, simile a una scatola chiusa, a un mondo a sé stante, hanno poi adottato quelle caratteristiche, dette anche stereotipi, che fanno di un genere ciò che esso è – il western, il musical o i film acquatici. Tutto chiaramente allo scopo di ridere e di far ridere sulla nozione stessa di genere: un concetto rigido e tradizionale, nell’età della flessibilità e della sperimentazione. Pertanto – dopo aver visto Ave Cesare! – dedicare una ricerca al noir, vale a dire a un genere, potrebbe sembrare anacronistico, forse addirittura demenziale, proprio come l’opera dei Coen. Ma, all’uscita del film, ahi noi, la fatica era già stata fatta! A onor del vero, durante la trattazione è stato compiuto uno sforzo sincero per evidenziare che lo studio di un determinato fenomeno cinematografico non può prescindere dal confronto con altri, all’apparenza anche molto differenti per sensibilità – si consideri la relazione tra cinema western e cinema noir – o per periodo storico – è il caso del raffronto tra il cinema degli anni ’20 in Germania e quello degli anni ’40 negli Stati Uniti. Inoltre è stata seguita l’evoluzione del movimento, passata attraverso la contaminazione della sua poetica e l’applicazione della sua ideologia a scenari profondamente diversi da quello originario – dando vita al wester – n – oir, al fantanoir, persino alla fiaba noir. E inoltre è stato documentato lo sviluppo estremo della sua tipica struttura narrativa, spinta fino alla destrutturazione, trasformando l’aleatorietà della tradizione in pura assurdità. Eppure, proprio il film dei Coen – con la straordinaria cinefilia e la conoscenza profonda della storia che dimostra e

che, allo stesso tempo, richiede per essere pienamente apprezzato – suggerisce l’importanza di riscoprire i grandi capolavori del passato: si consideri l’episodio del cowboy, che tenta di catturare la luna riflessa nell’acqua, evidente omaggio al vecchio Hobson interpretato da Charles Laughton nel 1954. Ancora più rilevante per godere fino in fondo Ave Cesare! risulta poi sapere degli scandali che sconvolsero Hollywood negli anni ’20 – qui il concepimento di un figlio fuori dal matrimonio e i rapporti di sodomia – che le case di produzione tentarono in tutti i modi di nascondere e di reprimere, giungendo infine all’adozione del codice di autodisciplina, sostituito, nel film, da qualche sonoro ceffone, rifilato a una superstar pericolosamente disobbediente. Per non parlare della piaga del maccartismo, sulla quale gli autori hanno ironizzato architettando un complotto di monodimensionali sceneggiatori comunisti, guidati da un ancor più monodimensionale ballerino russo. Alla luce di queste considerazioni, acquistano preciso valore gli approfondimenti storici svolti nello studio e alternati ai contenuti più propriamente cinematografici, come la lunga digressione dedicata alla crisi sociale che ha diviso la società nordamericana sin dai tempi della Guerra di secessione, venendo nondimeno perlopiù trascurata dalla storiografia ufficiale: senza questa ricostruzione la poetica del cinema noir, attraverso la quale vennero espressi ribellione, sfiducia e rancore, si sarebbe potuta comunque definire, ma sarebbe risultata certamente meno comprensibile. Il cinema ha infatti recepito gli stimoli prodotti dalla storia nell’animo dei suoi autori, così come in quello di qualunque altro artista: nonostante la peculiare e spiccata propensione a diventare una forma d’intrattenimento di massa, anche l’opera cinematografica invero possiede – o, almeno, per molto tempo ha ambito a possedere – le caratteristiche della creazione artistica. È appunto nell’ottica di riaffermare la dignità del cinema a essere considerato un’arte che, in questo lavoro, esso è stato analizzato in continuità con i generi artistici tradizionali: teatro, musica, letteratura e pittura. Perciò, nel

corso della trattazione, i nomi di grandi cineasti sono stati ripetutamente accostati a quelli degli esponenti di altre manifestazioni dell’ingegno e della creatività umana che hanno inequivocabilmente esercitato notevole influenza sulla rivoluzione realista alla quale ha partecipato anche il cinema noir: Schiller, Goya, Füssli, Novalis, Hoffmann, Lord Byron, Shelley, Sand e Chopin; Gogol, Dostoevskij, Van Gogh, Ensor e Munch; Gauguin, de Vlaminck, Rouault e i fauves; Hauptmann, Kollwitz, Kandinsky, Kirchner, Dix e Grosz; Courbet, Millet e la scuola di Barbizon; Balzac, Flaubert, Zola, Verga e gli scapigliati; Baudelaire, Rimbaud e Verlaine; gli impressionisti e Nadar; Shakespeare, Ibsen, Strindberg, Brecht, Gor’kij, Diaghilev, Shaw; Schnitzler, D’Annunzio; i fratelli Mann e Döblin; Panizza e Bulgakov; Breton, Dalì, Matisse; Heartfield, Hausmann, Ernst e il dadaismo; Moravia, Vittorini, Alvaro e Calvino; Poe, Doyle, Christie, Fletcher, Sayer e Van Dine; Hammett, Chandler e Cain; Conrad, London e B. Traven, Hemingway e Fitzgerald, Trumbo e Dos Passos, Steinbeck, Heller; Hopper, O’Keeffe e Bellows; Stieglitz, Riise, Hine e Weegee; Freud, Marx e Gramsci; Mahler, Prokof’ev, Satie e Stravinskij. Solo per citare i riferimenti più significativi.

Il valore di una classificazione

Il termine noir, che oggi identifica un genere cinematografico e letterario distinto dal giallo e dal thriller, ha saputo imporsi nell’immaginario collettivo e resistere nel tempo, pur subendo un progressivo travisamento e dando luogo a più d’una incertezza.

L’autore della fortunata etichetta è noto, così come l’occasione nella quale la coniò: Nino Frank, critico cinematografico italiano (nato a Barletta da genitori svizzeri ed emigrato ancora giovane in Francia), nell’agosto del 1946 pubblicò sulla rivista l’Écran Français un articolo intitolato Un nouveau genre “policier”: l’aventure criminelle, accostando tra loro, in ragione di caratteristiche comuni, alcuni film americani che in un’ottica tradizionale sarebbero stati annoverati nell’ampio genere poliziesco o di inchiesta, ma che all’autore parve più opportuno isolare, in quanto opere di psicologia criminale contraddistinte da particolare durezza e spiccata misoginia. Caratteristiche mutuate dalla nuova tendenza della letteratura criminale nordamericana, inaugurata da Dashiell Hammett, a proposito della cui portata innovativa è celebre l’osservazione dello scrittore e collega Raymond Chandler: «Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per un motivo». Gli scritti di Hammett, infatti, non trattavano di delinquenti raffinati e capricciosi – esteti del crimine, il cui movente, spesso sfuggente, e il cui comportamento, ambiguo e sottile, ne rendevano complessa l’individuazione, dando vita a un’avvincente trama prettamente whodunit – bensì di persone comuni, spesso ignoranti e volgari, la cui spinta verso il delitto traeva origine da stimoli decisamente carnali, dalla passione, dalla fame, da un istinto irrefrenabile. La conseguenza fu che l’attenzione, invece di rivolgersi all’acume investigativo e al metodo dell’inchiesta di un eroe – campione delle migliori virtù – si concentrò sulla figura di un antieroe, sulla natura ambigua e prevalentemente colpevole dell’essere umano, sul contesto in cui egli aveva maturato la risoluzione criminale, determinando un passaggio dall’esercizio di astratta e distaccata logica – tipico del giallo – all’analisi appassionata delle pulsioni individuali e all’osservazione dell’ambiente da cui esse scaturivano, ispirandosi alla psicologia criminale o, più precisamente, alla sociologia del crimine. Ciò produsse inevitabilmente anche conseguenze di carattere stilistico, imponendo in particolare il ricorso a un

crudo realismo, del tutto sconosciuto ai racconti investigativi di fine ’800 e di inizio ’900, come Chandler non mancò di evidenziare nel proprio articolo critico, The Simple Art of Murder (1944). Presto molti altri autori, tra i quali lo stesso Chandler e James Cain, dimostrarono un interesse per il crimine, la violenza e il sesso, analogo a quello di Hammett. Il loro approccio – immediato, spigoloso, disinibito – fu definito hard boiled, ricorrendo a un’espressione culinaria con la quale si indica la cottura dell’uovo sodo, la cui consistenza venne paragonata alla durezza dei personaggi. Per lo più detective solitari, silenziosi, ambigui, violenti e misogini oppure criminali, reietti, emarginati, gravati dal disprezzo e dalla diffidenza del mondo per bene, ma legati tra loro da una particolare concezione della morale. Tutti impegnati ad aggirarsi all’interno di un decadente paesaggio notturno e metropolitano, del quale condividevano il dolore e l’inquietudine, senza però sentire di appartenervi pienamente. Fu proprio la penna di questi autori a fornire lo spunto per alcuni dei film più significativi tra quelli ricondotti dalla critica post frankiana al genere identificato con il termine noir: Il mistero del falco (1941) tratto da Il falcone maltese di Hammett; La chiave di vetro (1942) ispirato all’omonima opera dello stesso scrittore; La fiamma del peccato (1944) e Il postino suona sempre due volte (1946) realizzati guardando alle opere di Cain (ed il primo sceneggiato da Chandler); Il grande sonno (1946), L’ombra del passato (1945) e Il lungo addio (1973), che costituirono adattamenti dei romanzi del medesimo Chandler. Chiarita l’immediata parentela tra la letteratura hard boiled e il cinema noir americano, è opportuno richiamare fin d’ora un altro antecedente – assai più risalente e all’apparenza meno rilevante, ma in effetti oltremodo significativo: il Dostoevskij di Delitto e castigo. Il romanziere russo, infatti, nel presentare l’opera a Michail Katkov per ottenerne la pubblicazione su Il messaggero russo, sostenne: «si tratta del resoconto psicologico di un delitto». Inoltre sottolineò l’attualità della vicenda e la stretta correlazione tra l’impulso criminale e la

crisi di valori che aveva colpito la società a cui appartenevano tanto i personaggi quanto autore e lettori: «l’azione si svolge al giorno d’oggi, in questo stesso anno. […] Nei nostri giornali si possono cogliere molti segni della straordinaria fragilità dei principi morali attuali che induce a terribili delitti». Non è questa la sede per indagare sui rapporti tra Dostoevskij e Hammett, ma vale comunque la pena di rilevare una comune matrice realista, condivisa anche dal cinema nero, alla luce della quale quest’ultimo deve essere considerato un fenomeno artistico che si pone in continuità con l’opera di Courbet, di Van Gogh, di Munch, di Kirchner, di Grosz e di Dix ovvero di Balzac, di Baudelaire, di Zola, di Verga, di Heinrich Mann e di André Breton, solo per citare i riferimenti più significativi del realismo e delle avanguardie nelle quali, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, esso si è evoluto. In considerazione di queste premesse letterarie, la scelta di Frank di ricorrere alla parola noir – letteralmente nero – oggi appare ovvia, quasi scontata: i film ispirati a questi modelli di narrativa criminale risultano infatti estremamente cupi. Nondimeno fu un’intuizione innovativa: creare, attraverso l’accostamento di un colore a un genere cinematografico, un binomio immediatamente auto – esplicativo. Ma si trattò di una felice improvvisazione? Se davvero così fosse stato, stupirebbe la circostanza che, appena pochi mesi dopo la pubblicazione del contributo di Frank, un altro esponente della critica francese, Pierre Chartier, abbia intitolato un articolo, apparso su La Revue du cinéma, «Les américains aussi font des film noirs» – ovvero Anche gli americani fanno film noir. Come sarebbe a dire anche gli americani? Non sarebbero dovuti essere appunto gli americani, stando a Frank, ad aver inaugurato un genere noir? La verità è che l’accostamento colore/opera, al quale ricorse con tanta fortuna Frank, non era affatto un’invenzione, poiché la critica transalpina aveva già definito neri i capisaldi del c.d. realismo poetico. Soltanto che l’utilizzo del termine, compiuto in riferimento a questi ultimi, risultò meno accattivante ed esotico: erano film francesi, anziché stranieri, e

applicare ad un’opera francese una parola francese dovette apparire assai meno chic che ricorrervi in relazione a un prodotto d’importazione! Non solo meno elegante, ma anche meno efficace; una classificazione funziona come un marchio – vale a dire l’associazione tra un simbolo (parola, disegno, forma) e un bene: più questi sono distanti concettualmente, più forte è l’effetto distintivo prodotto dalla combinazione. Per non parlare del fatto che, negli anni trenta, al termine era stato attribuito un significato politico, piuttosto che artistico. I critici, simpatizzanti con la destra, considerarono nere le opere che esprimevano i valori ideologici del Fronte Popolare; ad esempio, in un editoriale apparso sul Petit-journal (8 luglio 1938) si lamentava che «il più prestigioso dei premi del cinema francese, il Prix du Ministère, [fosse stato] attribuito ad un film – certamente ricco di qualità artistiche – ma affatto particolare. Un film noir, un film immorale e demoralizzante, il cui effetto sul pubblico può solo essere dannoso». Si trattava de Il porto delle nebbie (1938) di Marcel Carné. E, ancora, nel 1940 un rappresentante del governo di Vichy sostenne pubblicamente che la sconfitta bellica si doveva proprio a film come quello sceneggiato da Prévert e tratto dall’omonimo romanzo di Pierre Mac Orlan. Lo stesso che sarebbe dovuto essere prodotto dall’UFA (la compagnia che riuniva i principali produttori cinematografici tedeschi), la quale tuttavia all’ultimo rinunciò su richiamo di Goebbels in persona: il gerarca nazista lo ritenne infatti troppo decadent – come si leggeva in una nota apparsa il 13 ottobre 1937 sulla rivista Marianne. Peraltro, anche parte della critica di sinistra, in particolare George Sadoul, su L’Humanité, attaccò Il porto delle nebbie, ricorrendo all’espressione «la politique du chien crevé au fil de l’eau», sottolineando così il disinteresse dimostrato dagli autori del film per la situazione del proprio Paese. Ad ogni modo, appunto la circostanza che il colore nero sia stato accostato tanto alle opere americane degli anni ’40, quanto a quelle francesi del decennio precedente, suggerisce subito il legame tra la stagione del realismo poetico e quella

noir. E l’affinità non fu percepita soltanto da questa parte dell’oceano – con Frank, Chartier e l’opera del 1955 di Raymond Borde e di Étienne Chaumeton, Panorama du film noir – ma anche negli Stati Uniti, dove nel settembre del 1944 Bosley Crowther sostenne sul New York Times che La fiamma del peccato possedeva «un realismo degno della crudezza dei film francesi del passato». Comunque, seppure la componente realista – documentaristica costituisca una significativa intersezione, non mancano differenze profonde e evidenti tra il noir francese degli anni ’30 e quello americano degli anni ’40 e ’50. Chartier sottolineò acutamente che nei film americani del secondo dopoguerra – e, diremo noi, in quelli successivi ad opera degli epigoni francesi, su tutti Melville – è irrinunciabile la circostanza che «le azioni dei personaggi sembrano sempre condizionate da un’attrazione ossessiva e fatale verso il crimine». Una considerazione estremamente rilevante, utile a delineare una netta distinzione: nei film vicini all’ideologia del Fronte popolare i protagonisti sono i rappresentanti di un’umanità che avvertiva su di sé l’incerto senso di predestinazione alla sconfitta, alla quale tentava disperatamente di reagire, attraverso l’evasione, l’amore e il sogno; nel noir statunitense, invece, i personaggi sono creature ambigue, sostenute da una propria, particolarissima morale e animate da un’aspirazione sincera al riscatto sociale, ma travolte dalla cupidigia e corrotte da una sfrenata ambizione criminale. Dal confronto tra i tipi tratteggiati, sembrerebbe che il conflitto mondiale avesse ribaltato la prospettiva sull’uomo: da vittima innocente del destino, a peggior nemico di se stesso. Dunque, la portata innovativa della classificazione di Nino Frank va ridimensionata, sebbene al critico italofrancese debba essere riconosciuto quanto meno un merito: aver cioè individuato un gruppo relativamente omogeneo di opere americane degli anni ’40, dotate ciascuna di caratteristiche innovative rispetto alla tradizione cinematografica hollywoodiana e, in un certo senso, mondiale.

Tuttavia anche nella selezione dei film, che Frank considerò i primi noir, si avverte debolezza sistematica. Uno degli elementi distintivi individuati dall’autore era, come si è detto, la misoginia – espressa attraverso l’elaborazione di dark ladies (o femmes fatales), donne tentatrici, capaci di risvegliare nell’uomo le più pericolose passioni, fino a determinarne la rovina. Sul modello dei personaggi interpretati da Louise Brooks, ne Il vaso di Pandora (1929) di Georg Wilhelm Pabst, e da Marlene Dietrich, ne L’angelo azzurro (1930) di von Sternberg, e, ancora prima, da Pina Menichelli ne Il fuoco (1915) di Pastrone; figure ispirate alle opere di Tarchetti e di D’Annunzio, di Wedekind e di Mann e già, più indietro nel tempo, alle donne vampiro della narrativa hoffmanniana. Ebbene, questa caratteristica ricorre certamente sia ne Il mistero del falco sia ne L’ombra del passato, ma non si può affatto riscontrare in Vertigine (1944), che pure Frank accosta a essi. La protagonista del film di Preminger non ha nulla della dark lady; piuttosto vive la sfortuna di essere l’oggetto dell’ossessione, morbosa e fatale, di uno spregiudicato esteta: ella dunque è preda, non predatrice. Neppure, del resto, convince il confronto tra i film, nei quali occupa rilievo preminente l’analisi criminologica, con Quarto potere (1941), in cui essa è del tutto assente: il capolavoro di Welles riflette sul tema della tirannia, altro e distinto caposaldo della campagna letteraria e cinematografica antiborghese – e al riguardo si considerino ancora una volta le straordinarie analogie tra le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, Il professor Unrat di Mann e alcune tra le più significative opere del cinema espressionista tedesco, come L’ultima risata (1924) di Murnau e L’angelo azzurro di von Sternberg. Da tutte le considerazioni svolte, emerge la necessità di affrontare il genere noir – quale si è imposto nella classificazione cinematografica, dalla seconda metà degli anni ’40 in poi – tenendo ben presenti gli antecedenti culturali dai quali esso discende, tentando soprattutto di individuare i soli

aspetti davvero caratterizzanti dei film che vi si possono ricondurre.

Il cinema della disperazione: una reazione romantico espressionista al fallimento borghese - liberale

Il cinema della disperazione presenta due tratti fondamentali: inquietudine e rottura. In tutte le sue declinazioni, infatti, si manifestò una reazione allo sgomento provocato da una crisi di valori e di certezze; quella che segnò l’inizio del secolo scorso; quella che scatenò una seconda guerra mondiale a pochi anni dalla conclusione della prima; quella che ha segnato e continua a turbare l’età contemporanea. Simili stravolgimenti sono frequenti nella storia della civiltà occidentale: un esempio paradigmatico è l’appesantimento delle forme architettoniche a cavallo dell’anno mille, sotto la minaccia di un fosco presagio: come noto, l’interpretazione più cupa della frase attribuita dalla tradizione a Gesù – «mille e non più mille» – e suffragata dal versetto dell’Apocalisse – «dopo mille anni Satana sarà sciolto» – era penetrata così a fondo nell’ideologia dominante di una generazione piegata da guerre, carestie e morbi, che ne condizionò inevitabilmente anche lo stile, reso grave, pesante, opprimente. Ma, senza volgere lo sguardo tanto lontano nel tempo, vale la pena di considerare due movimenti intellettuali più recenti e, soprattutto, più rilevanti; parenti l’uno dell’altro e, entrambi, con il cinema disperato.

Il primo è il romanticismo, attraverso cui si espressero sia il disorientamento provocato dal crollo dell’ordine che per secoli si era conservato saldo e inattaccabile ma che, improvvisamente, era stato sovvertito dalla Rivoluzione francese, sia la reazione al rigore logico del pensiero illuministico che quei moti rivoluzionari aveva ispirato e legittimato. Fu il trionfo del soggettivismo, in risposta all’universalismo illuminista; dell’istinto irrazionale sul culto della ragione; del sentimento religioso sul laicismo. Oltre all’interesse per la componente intima dell’individuo, che si ammise – anzi, si rivendicò persino – di non poter comprendere e conoscere a pieno, il romanticismo rivolse l’attenzione alla relazione empatica tra l’essere umano e l’ambiente: non solo quello naturale, pervaso da misteriose e sfuggenti forze ancestrali, ma anche quello urbano, che incominciava a essere studiato e descritto. Soprattutto, però, il romanticismo reagì alla luminosità rivoluzionaria riscoprendo il fascino dell’oscurità, del notturno, del sogno e dell’incubo, del deviante e del patologico, della follia e della sconfitta. Finì, in tal modo, per delineare la figura di un antieroe che reca in sé una condanna al tormento e alla rovina. Tuttavia, arte e cultura erano ormai in mano alla borghesia, che aveva conquistato un potere a cui, nonostante la Restaurazione, non avrebbe più rinunciato. E alla cupezza romantica si contrappose presto nuova luce, mentre l’ideologia rivoluzionaria evolse, sia pure secondo una certa coerenza, in un pensiero conservatore, che giustificasse l’egemonia borghese nei confronti delle rivendicazioni proletarie e del nascente movimento socialista. La causa del progresso borghese e del capitalismo si pose al centro della riflessione positivista, che elaborò le teorie dell’evoluzionismo e del determinismo per esaltare un nuovo modello sociale. Il culto della meccanica e della scienza indussero gli artisti a credere di poter misurare ogni aspetto della realtà: un atteggiamento che mantenne – esasperandola persino – la fiducia nella ragione, rivendicando per l’intellettuale un profetico ruolo di iniziatore alla verità. Una

verità però che bastava osservare. Senza necessità alcuna di interpretarla. Una verità fatta di regole e di eccezioni, sicché l’attenzione che il romanticismo dimostrò verso il negativo e l’aberrante venne conservata, ma a sostegno della tesi borghese, mentre l’interesse per i derelitti, i reietti, i miserabili acquistò un fondamento scientifico e una pretesa funzione di prevenzione criminale. In questo modo comunque proseguì, sia pure condotta attraverso lenti diverse, l’indagine che l’avvento della borghesia al potere aveva inaugurato: un’indagine che non era più rivolta all’ideale rinascimentale, ma al reale dell’età moderna. Un merito innegabile, offuscato però da un approccio sterile, privo della passione e dello slancio romantici: il naturalismo di Zola e il verismo di Verga, in letteratura, come l’impressionismo, nell’arte figurativa, si limitarono a un’attività di mera descrizione, un’oggettivazione estrema, alla quale reagirono sdegnosamente le avanguardie di inizio ’900, il cui avvento era stato preparato dall’insofferenza individuale di artisti come Van Gogh, Gauguin e Munch, attratti dal dolore esistenziale e delusi dal sanguinoso insuccesso delle ultime rivoluzioni unitarie. Ancora una volta, la reazione intellettuale fu ispirata dal senso di inquietudine e dall’aspirazione alla rottura. Una rottura comunque soltanto parziale: minimo comun denominatore sarebbe rimasto, dall’illuminismo fino al cinema neo – noir, il realismo; ovvero la rappresentazione del reale e lo studio del quotidiano. D’altra parte, fu proprio l’abbandono dell’artificio accademico e dello spazio chiuso dello studio per passare all’osservazione dal vivo, en plein air, uno dei tratti caratteristici dell’impressionismo, agevolato in questo dall’invenzione tecnica del tubetto per il trasporto dei colori (soltanto una delle innumerevoli conquiste dello sviluppo industriale). E l’autenticità degli esterni sarebbe divenuta una costante della raffigurazione realista, nel solco della quale si è collocato anche il cinema della disperazione, che rivendicò

orgogliosamente la propria vocazione a scendere nelle strade della metropoli, in mezzo alla gente comune. Gli impressionisti, dopo tutto, si erano proposti al mercato rivolgendo al pensiero borghese – benpensante una sfacciata provocazione: trasportare il nudo fuori dalla pudica intimità dell’atelier, per esporlo nei campi in fiore. Ciò dimostra che quel movimento, pur esprimendo taluni valori borghesi, colse e deprecò l’ipocrisia di un ceto che, conquistato il potere, sembrò parzialmente rinnegare lo spirito di rinnovazione sulla spinta del quale aveva rovesciato l’antico regime. Le nuove possibilità offerte ai pittori impressionisti, comunque, comportarono il prezzo dell’impossibilità di impegnarsi in una lavorazione prolungata, per ridursi alla fissazione di un’impressione fugace, suscitata dall’osservazione dell’ambiente; non solo naturale ma anche – coerentemente all’esperienza letteraria naturalista – urbano. Una conquista significativa nel campo delle arti figurative, ispirata dalla straordinaria rivoluzione realista e sociale di Courbet, che utilizzò persone comuni anziché modelli più di cent’anni prima di Visconti e di Rossellini. Tuttavia, gli impressionisti si limitarono a lasciarsi, appunto, impressionare (sia pure, in questo, finendo per dare ampio spazio alla percezione soggettiva) e a documentare la propria risposta percettiva agli stimoli esterni, assecondando una curiosità scientifica e oggettiva tipica del positivismo: trionfarono, di conseguenza, lo studio della luce e quello del colore. Impegnati nella loro analisi della superficie, non si spinsero all’indagine dello spirito, celato dietro quell’apparenza impressionante. Una circostanza che turbò profondamente la sensibilità, affamata di verità, di sentimento e di umanitarismo dei già citati Van Gogh e Munch, ma anche di de Vlaminck e di Rouault; questi artisti, partendo dalla conquista del naturalismo e dell’impressionismo, responsabili di aver posto la vita reale al centro dell’interesse artistico e, più in generale, intellettuale, si ripromisero di scoprire l’intima natura di ogni creatura o oggetto e di darle espressione, concedendosi qualunque esasperazione e ogni genere di

deformazione dell’aspetto estetico necessarie allo scopo. Esemplare, in proposito, l’aspirazione di Van Gogh: «il mio grande desiderio è di imparare a fare delle deformazioni o inesattezze o mutamenti del vero; il mio desiderio è che vengano fuori, se si vuole, anche delle bugie, ma delle bugie che siano più vere della verità letterale». Parole che meritano di essere confrontate con quelle di Dostoevskij, impegnato «in pieno realismo, a trovare l’uomo nell’uomo». Entrambi ambirono a cogliere l’autentica natura dell’essere umano, quella nascosta dalle apparenze esteriori. La stessa che sarebbe diventata un assillo per tutta la carriera di Lang. Insomma, le avanguardie avrebbero riscoperto la passione romantica per lo scabroso, il turpe, il deviante, l’inquieto, trasfigurando la realtà – che i naturalisti e gli impressionisti avevano osservato con distacco – per giungere alla verità e valorizzando la relazione tra l’individuo e lo spazio esterno, inevitabilmente condizionata dalla manifestazione dell’io interiore che, a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, sarebbe divenuto oggetto di sempre più numerosi e rigorosi studi medici. Allo stesso tempo, pur perseguendo apertamente una rottura ideologica rispetto all’interesse prevalentemente scientifico dei movimenti artistici legati alla concezione positivista, la nuova sensibilità intellettuale ne condivise l’attenzione per le passioni e le fatiche quotidiane, impegnandosi nel racconto della drammatica lotta per la vita. Un debito ammesso dallo scrittore e teorico dell’espressionismo Kasimir Edschmid, in Über den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung (1919): «Dopo il romanticismo ci fu un ristagno, lo spirito borghese iniziò la sua parabola che ora si sta concludendo. L’ondata del naturalismo, abbattendosi sugli epigoni esausti, mise a nudo la realtà senza belletti, né maschere, né foglie di fico: però non giunse a coglierne l’essenza, non intese il messaggio riposto negli oggetti sensibili; lavorò su notizie esterne, sull’apparenza, insomma. […] L’azione del naturalismo non va giudicata in sé, ma per il risveglio a cui diede luogo, perché restituì vita alle cose: abitazioni, malattie, uomini, miseria, fabbriche […] Esso si permeò profondamente

di socialità: gridò fame, prostitute, epidemie, operai. Il sopraggiunto impressionismo ebbe la sintesi per sua aspirazione e entro certi limiti la realizzò. […] Tuttavia non si conseguirono spesso che degli effetti descrittivi: l’essenza degli oggetti, il loro ultimo significato, non erano raggiunti. […] L’artista espressionista trasfigura tutto lo spazio. Egli non guarda: vede; non racconta: vive; non riproduce: ricrea; non trova: cerca. Al concatenarsi dei fatti – fabbriche, case, malattie, prostitute, gridi e fame – subentra il loro trasfigurarsi. I fatti acquistano importanza solo nel momento in cui la mano dell’artista, che si tende attraverso di essi, chiudendosi, fa presa su ciò che a essi sta dietro: l’artista vede l’umano nelle prostitute e il divino nelle fabbriche». L’inquietudine e l’umanitarismo sarebbero state caratteristiche anche del cinema della disperazione, nelle sue varie e numerose manifestazioni, accomunate dal medesimo intento di rottura rispetto alle produzioni precedenti, accusate di esser cieche di fronte al dolore della gente, asservite alle esigenze di regime oppure, più semplicemente, troppo disimpegnate, artificiose o convenzionali. Ognuno dei movimenti del cinema nero dimostra di aver assimilato l’evoluzione realista ottocentesca filtrata attraverso la revisione compiuta dalle avanguardie: in Germania si parla addirittura di cinema espressionista, in Francia e in Italia il realismo è poetico o nuovo. La stagione inquieta ma straordinaria del cinema espressionista tedesco, dedicata alla figura del tiranno (in reazione al constatato insuccesso del modello repubblicano) e alla decadenza borghese, testimonia il lacerante conflitto interiore della Germania dalla quale in breve sarebbe scaturito, per poi diffondersi ben al di là dei confini nazionali, un male perverso e spaventoso. Lo stesso clima di impotente attesa, di fronte alla tragedia incombente, emerse a distanza di un decennio anche da La regola del gioco (1939) di Renoir, lugubre epitaffio dei valori borghesi nella patria della borghesia trionfante. Ritratto di una élite vittima del caos generato dalla debolezza e dalla viziosità della propria morale

corrotta, La regola del gioco condivideva con alcuni dei maggiori capolavori tedeschi proprio l’impietoso accanimento nei riguardi della borghesia benpensante; collocandosi in continuità con l’atteggiamento critico che dominò il cinema francese d’autore degli anni ’30 – come dimostrano, per esempio, Boudu salvato dalle acque (1932) dello stesso Renoir e Lo strano dramma del dottor Molyneux (1937) di Carné, vicende in cui autori e personaggi condividono lo stesso gusto per lo scandalo e il sovvertimento delle convenzioni. Quel medesimo piacere perverso che provavano l’uomo del sottosuolo e il giocatore dei romanzi di Dostoevskij, ma anche Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e gli scapigliati, Paul Gauguin, i fauves e i surrealisti – il cui piglio polemico e dissacrante caratterizzò alcuni dei capolavori di Buñuel, dai quali emerse un ritratto impietoso dell’ipocrisia e, soprattutto, della impotenza borghesi; quest’ultimo aspetto essendo molto simile alla inazione tipica di certi protagonisti dostoevskiani, a cominciare da quello de Il sosia. La stessa inazione che era sta magistralmente colta e descritta da Flaubert ne L’educazione sentimentale. Un approccio intellettuale, insomma, certamente condizionato dalla crescente consapevolezza dei movimenti socialisti – è nota la vicinanza di alcuni grandi cineasti dell’epoca all’ideologia del Fronte Popolare – ma anche dalla radicata insofferenza degli intellettuali transalpini nei confronti delle istituzioni e delle convenzioni borghesi.

Il realismo nel cinema della disperazione

È indubbio comunque che oltre all’aspetto antiborghese – caratteristico della reazione romantico/avanguardista alla rivoluzione della modernità – nel cinema della prima metà del secolo scorso affiorò anche uno spiccato interesse per la condizione dei lavoratori e più in generale di quei ceti che la

tradizione accademica aveva considerato estranei all’arte fino all’avvento del realismo. Circostanza che delinea un’ulteriore intersezione con l’attivismo socialista di Courbet, della scuola di Barbizon, delle avanguardie pittoriche. Si considerino alcune scene corali di Metropolis (1927) di Lang – soprattutto quelle dedicate alla meccanica marcia dei lavoratori di ritorno nelle viscere della città – e si confrontino con La ronda dei carcerati di Van Gogh e i Lavoratori che tornano a casa di Munch, per sperimentare la medesima impressione di tedio e di disumanizzazione – e, quindi, entrambi con l’antecedente rappresentato dalle descrizioni della Londra operaia e notturna nelle Note invernali su impressioni estive di Dostoevskij: un fiume di disperati che si muove in preda a un’inguaribile febbre, corpi privi di un’anima, voci vuote, abbandonate dallo spirito. Ci si accorge inoltre che il regista austriaco non era dotato soltanto di vera e propria preveggenza – giacché nella greve musicalità di quelle riprese riuscì ad anticipare gli orrori dei campi di internamento e l’alienazione prodotta dalla massificazione e dalla globalizzazione moderne – ma anche della più volte rivendicata sensibilità verso i mali sociali: il film infatti si concentra sul dilaniante conflitto tra capitale e manodopera che aveva caratterizzato la storia recente della Germania, ancora sconvolta dalla tragica esperienza della rivoluzione spartachista. Nello stesso periodo, in Unione Sovietica il primo lungometraggio di Ėjzenštejn, Sciopero! (1925), oltre a testimoniare la precoce maturità stilistica e narrativa dell’autore – con l’esperimento del montaggio delle attrazioni, volto a rendere appunto l’idea del caos rivoluzionario – costituì un monumento voluto dal Proletkult agli ideali di un’altra rivoluzione; altrettanto cruenta ma vittoriosa. Persino negli Stati Uniti, patria della catena di montaggio, emerse sincera compassione nei confronti della classe operaia: ora grazie all’impulso di cineasti di scuola e sensibilità europee, come nel caso di Chaplin autore di Tempi moderni (1936), ora invece per mano dei padri stessi del cinema nordamericano,

quale certamente fu Ford, regista di Furore (1940). Senza dimenticare alcune opere del cinema di Capra e di Sturges. È soprattutto in Francia, comunque, che l’interesse del cinema si rivolse alla condizione esistenziale degli individui più umili ed emarginati, tanto da farne una delle caratteristiche di un’intera stagione cinematografica, breve ma intensa, ispirata all’eredità letteraria di Balzac e di Zola. Tuttavia, le tematiche scientifiche del realismo letterario vennero arricchite, ad opera del realismo cinematografico, di questioni sociali e all’oggettività della scuola naturalista fu preferito un atteggiamento narrativo improntato a coinvolgimento e a partecipazione: non bastava più osservare la realtà dall’esterno, poiché nel frattempo erano detonate le avanguardie di inizio ’900; con la loro rivoluzionaria ambizione di indagare la realtà penetrandola, per dare finalmente espressione al suo senso intimo. Si legga l’attacco contro l’imparzialità degli impressionisti – il cui cammino coincise, almeno inizialmente, con quello di Zola – svolto da Hermann Bahr, nel saggio Espressionismo: «Ed ecco urlare la disperazione: l’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre, chiama il soccorso, invoca lo spirito: è l’espressionismo. Mai è avvenuto che un’epoca si riflettesse con tanta limpida chiarezza, come l’era del predominio borghese si è riflessa nell’impressionismo. L’impressionismo è il distacco dell’uomo dallo spirito; l’impressionista è l’uomo degradato a grammofono del mondo esterno. Si è rimproverato agli impressionisti di non portare a termine i loro quadri. In realtà, essi non portano a termine qualcosa di più, l’atto del vedere. […] L’orecchio è muto, la bocca è sorda – dice Goethe – ma l’occhio sente e parla. L’occhio dell’impressionista sente soltanto, non parla; accoglie la domanda, non risponde». Anche il cinema realista raccolse evidentemente le nuove istanze espressioniste e le sue inequivocabili ascendenze romantiche, venendo in Francia come in Italia e persino negli Stati Uniti profondamente influenzato da un’inquietudine tipicamente germanica. Un’inquietudine che, nella prima metà

dell’ottocento, era stata la reazione all’eccessivo rigore razionale dell’illuminismo e che, un secolo più tardi, fu la risposta alla delusione provocata dal fallimento del pensiero positivista e del modello liberale. Sul realismo cinematografico francese, oltre al rimpianto del passato, incombeva la minaccia del futuro – con un nuovo terrificante conflitto mondiale alle porte. E, quando la guerra in effetti scoppiò, portando alla fulminea occupazione nazista, il senso romantico di predestinazione alla tragedia si impose pienamente, ispirando una poetica improntata alla malinconia – termine dalla cui etimologia affiora l’inscindibile legame tra il colore nero e un particolare stato emotivo e il cui ricorso suggerisce ulteriori analogie lungo l’itinerario artistico di evidente continuità tra il cinema realista e taluni precedenti pittorici e scultorei. Come dimostra il confronto tra l’amarezza espressiva di Jean Gabin e le variazioni sul tema della Melanconia di Munch o Il pensatore di Rodin. Come i capolavori dell’espressionismo tedesco, anche il realismo poetico francese costituì non soltanto l’approdo di una riflessione artistica avviata mezzo secolo prima, ma altresì un modello per il cinema d’autore d’epoca successiva, definendo i canoni di un genere: su tutti, il profilo dell’antieroe, il ruolo del fato e il particolare andamento narrativo a gobba di cammello. Elementi che sarebbero stati mutuati dalla seconda generazione di autori disperati – Louis Malle, Jacques Becker e Jean-Pierre Melville. Proprio guardando alla significativa esperienza francese – ma anche alle sperimentazioni della nuova oggettività tedesca di Piel Jutzi – nacque il neorealismo italiano, del quale Ossessione (1943) di Luchino Visconti fu una delle prime e più rappresentative manifestazioni. In seguito, grandi registi come De Sica (a proposito del quale Orson Welles rimproverò André Bazin: «dovreste vergognarvi di non amare De Sica; magari potessimo riparlarne tra duecento anni!») e Rossellini elaborarono più compiutamente le caratteristiche del movimento, la cui influenza seguitò a dispiegarsi sul cinema nazionale anche oltre il termine convenzionalmente attribuito

alla stagione neorealista, svelando insospettabili tracce di sé persino nella nascente commedia all’italiana. Nel frattempo, negli Stati Uniti si sarebbe assistito alla nascita del genere noir, i cui albori vengono fatti risalire al 1941: l’anno in cui John Huston diresse Il mistero del falco, mentre il Paese entrava in guerra. La sensibilità e l’estetica neri si imposero definitivamente nell’immediato dopoguerra, dando pieno sfogo alla crisi di identità provocata dal conflitto, nella mente di coloro che lo avevano vissuto. Apparentemente si verificò una manifestazione a scoppio ritardato della disillusione che aveva colpito l’Europa già un paio di decenni prima. In realtà, anche oltre oceano il cinema aveva testimoniato ben prima del 1941 l’affioramento di inequivocabili segnali di insofferenza, benché il New Deal di Roosevelt fosse riuscito a diffondere e a far infine prevalere l’ottimismo e la speranza, stroncando sul nascere isolati esperimenti realisti simili, per estetica e spirito, ai capolavori tedeschi e francesi. Un’affinità che non stupisce dal momento che impulso determinante all’elaborazione di un linguaggio proto – noir aveva dato proprio l’avvento a Hollywood di autori di formazione culturale europea, come von Stroheim e von Sternberg, importatori del gusto decadentista a loro congenito. La matrice europea venne però contaminata dal fenomeno americano della criminalità organizzata, con la conseguenza che tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 l’antieroe assunse i tratti del gangster: un modello per molti protagonisti del successivo cinema nero, che da quei film avrebbe mutuato anche la violenza, il cinismo e l’atmosfera torbida e morbosa. Questo breve movimento fu inaugurato da Le notti di Chicago (1927) di von Sternberg, opera esemplare nonostante l’atipica redenzione finale. Seguirono Piccolo Cesare (1930), Nemico pubblico (1931) e Scarface (1932) a consacrare un vero e proprio genere. Quindi, l’intervento deciso della censura, attraverso l’applicazione del severissimo e puritano – ai limiti del fondamentalismo – Codice di autoregolamentazione Hays, entrato in vigore nel 1934. Lo

stesso con il quale dovettero fare i conti gli autori del periodo noir, costretti a concludere la storia dell’antieroe con una beffa finale, che sarebbe diventata subito un topos del genere. A cavallo tra queste differenti declinazioni di cinema della disperazione, Hollywood realizzò altresì opere improntate alla più contagiosa fiducia nella ripresa, nella legalità e nella struttura sociale: su tutte, si possono citare L’eterna illusione (1938) e Mr. Smith va a Washington (1939), film nei quali Frank Capra esaltò i principi fondanti della società americana – democrazia e solidarietà – nonché Un colpo di fortuna (1940) e I dimenticati (1941) di Preston Sturges – il quale, sia pure nel suo personalissimo e graffiante stile, volle condividere un identico messaggio di speranza. Fu comunque, più in generale, il trionfo delle commedie: quelle sofisticate di George Cukor e di Ernest Lubitsch, quintessenza di leggerezza e raffinatezza, e quelle scatenate di W.S. Van Dyke, che avvitavano insieme l’azione e l’amore, il giallo e il rosa; senza mai però ammettere alcuna sfumatura nera. Una scuola alla quale si ispirarono anche Billy Wilder e George Stevens, i quali in seguito avrebbero compiuto un riuscito passaggio da questo genere a quello noir, contribuendo così a confermare l’esistenza di alcune intersezioni tra di essi. Insomma, si trattò di una stagione durante la quale il cinema americano seppe ridere delle peggiori sventure: il gangsterismo e il proibizionismo – oggetto di continui richiami ironici nel corso de L’uomo ombra (1934) e dei successivi capitoli della serie; il crollo della borsa, la crisi finanziaria e gli eccessi di un’irresponsabile upper class – un esempio su tutti: L’impareggiabile Godfrey (1936); persino la guerra e la paura di tanti giovani di non fare più ritorno a casa – come dimostra il sofisticato antimilitarismo di Evviva il nostro eroe (1944). In considerazione di tanta solarità, potrebbe sorprendere la repentinità della svolta noir che seguì – senza peraltro interrompere affatto la produzione delle commedie.

Tuttavia, evitando di isolare un genere dall’altro, per tentare al contrario di considerarli in continuità tra loro, emergeranno caratteristiche comuni, la più rilevante delle quali attiene certamente ai dialoghi: rispetto ad essi le commedie degli anni ’30 compirono l’evidente sforzo di adeguare il linguaggio cinematografico a quello antiletterario sviluppato dalla scuola degli scrittori hard boiled, secondo uno stile condiviso poi anche del cinema nero. Grazie a queste prime sperimentazioni si attuò un passaggio fondamentale per migliorare l’efficacia ritmica del racconto filmico: divenne ricorrente la soluzione degli overlapping dialogues (dialoghi sovrapposti) attraverso cui dar vita a un groviglio incomprensibile di battute al solo scopo di ingenerare nello spettatore un’impressione di frenesia, di confusione e di caos – ponendosi quindi un obiettivo analogo a quello che aveva spinto il cinema muto tedesco a ricercare fino all’eccesso la deformazione scenografica e a quello che in seguito avrebbe suggerito agli sceneggiatori di noir di ricorrere alla destrutturazione temporale della narrazione mediante il flashback. La rilevanza attribuita all’effetto complessivo delle battute a raffica, piuttosto che al senso preciso di ciascuna di esse, testimonia altresì la crescente importanza assunta dal concetto di musicalità nella creazione dell’opera cinematografica: non soltanto con riguardo all’armonia dell’aspetto visivo, attraverso l’organizzazione delle riprese in sala di montaggio – riferendosi alla quale Hitchcock, non casualmente, parlava di orchestrazione – ma anche con l’attenzione rivolta all’interazione dialettica tra componente visiva e componente sonora. Basterebbe soffermarsi sul forsennato inizio di Palm Beach Story (1942) per convincersene. Ma, soprattutto, la scelta di dialoghi antiletterari valse a completare la svolta realista intrapresa anche dal cinema, coinvolgendo oltre all’elemento visivo anche quello sonoro – lessicale; la scelta, propria del neorealismo italiano, di ricorrere addirittura al dialetto costituì appunto un’ulteriore

riprova della volontà di avvicinare l’opera cinematografica alla gente comune.

Spazio e tempo, tra gangster movie, western e noir

In Europa crebbe rapidamente l’attenzione del cinema per la città: lo dimostrano i capolavori del documentario Rien que les heures (1926) di Cavalcanti, Berlino, Sinfonia di una grande città (1927) di Ruttmann, L’uomo con la macchina da presa (1929) di Vertov, A proposito di Nizza (1930) di Vigo e di Kaufman, nonché l’attenzione per il contesto urbano che era emerso dal ciclo tedesco di storie della strada, su tutte Die Straße (1923) di Grune e Polizeibericht Überfall (1928) di Metzner – ma si consideri anche Phantom (1922) di Murnau. Il modello erano stati certamente i romanzi di psicologia criminale costruiti attorno a una grande piazza urbana, come Delitto e castigo di Dostoevskij e Berlin, Alexanderplatz di Döblin. Attraverso queste opere la metropoli veniva tratteggiata perlopiù come un labirinto inestricabile, una prigione di cemento e di ciminiere, nella quale la vita risultava inevitabilmente frenetica e malsana. Si trattava peraltro di una concezione da tempo diffusa presso artisti ed intellettuali, come dimostrano le terrificanti descrizioni dei quartieri operai di Londra contenute nelle Note invernali su impressioni estive di Dostoevskij, le rappresentazioni del proletariato urbano per mano di Munch e di Rouault, l’insofferenza di Baudelaire e degli scapigliati milanesi, i ritmi disumani della città sotterranea nel capolavoro di Lang, Metropolis. Negli Stati Uniti, al contrario, venivano esaltati gli spazi aperti ed incontaminati della frontiera occidentale, attraverso i quali l’essere umano, pur impegnato in una pericolosa odissea, riusciva a scoprire e concedere la parte migliore di sé. John

Ford, dopo aver forgiato l’archetipo western, Ombre rosse (1939), affidò al racconto on the road, Furore (1940), il messaggio rooseveltiano: «siamo vivi. Siamo il popolo, la gente, che sopravvive a tutto. Nessuno può distruggerci. Nessuno può fermarci. Noi andiamo sempre avanti»! Un popolo forte, tenace, capace di superare con successo le difficoltà che la natura e il destino lo costringono ad affrontare: l’esatto opposto dell’umanità rassegnata e sconfitta sotto i colpi del caos, che caratterizzò l’espressionismo di Weimar o il realismo poetico francese, incatenati alle strade labirintiche, claustrofobiche e sporche delle città; proprio come i romanzi urbani di Oskar Panizza, Dal diario di un cane, e di Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz – dal quale Piel Jutzi trasse l’omonimo film del 1931 – e come le gelide e taglienti stilizzazioni di Kirchner o gli spietati scorci della Nuova oggettività. Ma Ford credeva nel progresso: lo dimostra Il cavallo d’acciaio (1924), da cui emerge una visione della macchina agli antipodi del terrore espresso dall’ideologia romantica, dalla rivolta luddista – alla quale prese parte Lord Byron – alla poesia scapigliata e al Frankenstein di Mary Shelley, fino a Homunculus (1916), a Il Golem (1920) e a Metropolis (1927). Il regista americano credeva anche nella solidarietà e nella conseguente possibilità di fondare la società sull’effettivo valore morale di ciascun individuo, al di là del suo incarico formale (sceriffo o fuorilegge), come emerge inequivocabilmente da I tre furfanti (1926), che ribalta il tradizionale giudizio buoni/cattivi. Insomma, egli credeva nel futuro. In cui la città non avrebbe determinato l’effetto di isolamento, alienazione e disumanizzazione che avevano prodotto le metropoli europee. Tuttavia, quelle che Ford osservava – dal promontorio della Monument Valley che ne avrebbe preso il nome – erano terre appena conquistate, sulle quali non si era ancora imposta la civiltà borghese, con le sue sostanziali ingiustizie e la sua dilagante ipocrisia, tanto che il riferimento letterario dominante nella poetica di Ford fu Shakespeare, espressione di un’altra epoca, lontana nel tempo.

Con la conseguenza che i western di Ford risultano collocati in una dimensione utopica, tra la nostalgia della virtù cavalleresca e la cruda fatica di una conquista ancora da completare. Decisamente più legata ai mali contemporanei, la stagione del gangster movie rappresentò, a dispetto della brevità, un modello per il successivo cinema noir; almeno quanto il progressismo di Ford ne sarebbe risultato un negativo. Di certo esiste un innegabile legame a tre, che unisce western, gangster e noir. Nel gangster movie – come nel western – l’azione prevalse sull’atmosfera, mentre nel noir venne dato ampio risalto all’analisi introspettiva, con particolare riguardo alle pulsioni criminali. Una conseguenza di ciò fu che agli spazi scenografici risultasse attribuito un ruolo diverso: se quelli di gangster movie (e del western) dovettero essere ampi, per valorizzare il dinamismo e l’ambizione della conquista – ora della frontiera, ora della metropoli – quelli noir furono invece perlopiù claustrofobici e contorti, sfondo interattivo delle tormentate passioni dei protagonisti. Come già era stato nei film tedeschi e nei loro modelli letterari e artistici: si consideri l’uso dell’insolito termine kamorka – letteralmente stanzetta – per indicare un luogo angusto e opprimente, nel quale le ossessioni dei protagonisti (de Il giocatore e di Delitto e castigo) vengono amplificate, esasperate. Gli stessi spazi claustrofobici, silenziosi o allucinati che Vincent Van Gogh abitò e dipinse. E si pensi ancora agli ambienti descritti ne L’ammazzatoio di Zola – non soltanto la distilleria, ma anche le varie abitazioni di Gervaise, che diventano sempre più strette e squallide, mano a mano che la donna precipita incontro all’inevitabile rovina finale. Allo stesso tempo, però, fu proprio il gangster movie a definire la cornice notturna e metropolitana entro cui si sarebbero svolte le storie noir; all’opposto, l’ambientazione western rimase la natura selvaggia, indomita, a tratti ostile. Insidiosa fu anche la giungla d’asfalto, satura di tentazioni e di inganni impossibili da evitare, tanto che divenne ricorrente

l’immagine di una finestra attraverso cui si insinuano, violando il silenzio dell’intimità, le luci e i rumori di strade che non dormono mai, sempre a caccia di nuove prede. Perché è appunto nel caos delle strade che si perde l’uomo moderno – come evidenziarono alcuni film tedeschi incentrati su questo particolare tema. Tornando alla relazione tra gangster movie e noir, nonché alle intersezioni con il western, vale la pena di citare il caso di Una pallottola per Roy (1941), film di Raoul Walsh che realizzò il passaggio da un genere all’altro, attingendo a caratteristiche di entrambi. La brutalità, la violenza, il dinamismo sono tipici del cinema gangster, la caratterizzazione del protagonista, solitario e incapace di adattarsi al cinismo di una società che non ne riconosce principi e valori, anticipa l’avvento di molti personaggi neri, analogamente destinati alla sconfitta. L’ambientazione in ampi spazi aperti e la sfida finale tra le montagne rocciose richiamano invece le tipiche scenografie di frontiera. Così come sapore western possiede anche la figura femminile, alla quale viene attribuito un ruolo di generosa redentrice, anziché di spietata corruttrice. Del resto, lo stesso Walsh realizzò il remake di Una pallottola per Roy, ambientandolo appunto nel far west: Gli amanti della città sepolta (1949). In epoca più recente, spazi scenografici altrettanto ampi, desertici e aspri sono stati sfruttati dai fratelli Coen in due neo – noir: Fargo (1996) e Non è un paese per vecchi (2007), nei quali è proprio la selvaggia vastità dello sfondo della vicenda a sottolineare la solitudine dei personaggi. E la solitudine è una caratteristica assai rilevante; un’autentica costante. Si consideri infatti la malinconia che affligge Roy, quel disagio dovuto all’incapacità di adeguarsi alla propria epoca: certo, si tratta della delusione romantica che aveva colpito molti intellettuali europei e si era, di conseguenza, manifestata nelle loro opere, contagiandone i protagonisti – nel 1886, deluso dalla Parigi del tempo, Van Gogh rimpianse il fervore che nel 1848 animava la capitale

francese; il Lucien delle Illusioni perdute di Balzac, scoprendo il reale funzionamento del mercato editoriale, comprese all’istante che la poesia era stata gettata nel fango – ma è anche la condanna di Napoleone Wilson, controverso antieroe di Distretto 13, le brigate della morte (1976) di Carpenter. Un’opera estremamente rilevante, giacché il regista si ispirò a Un dollaro d’onore (1959) di Hawks, reinterpretando in chiave moderna alcuni dei temi condivisi da western e noir. L’insofferenza che questi personaggi avvertono nei confronti della comunità ne determina l’isolamento, una condizione che viene evidenziata proprio dal contesto urbano – affollato ma indifferente, smisurato eppure soffocante – in cui vengono costretti. La stessa situazione vissuta dall’uomo del sottosuolo di Dostoevskij che amava ripetere «loro sono tutti, mentre io sono solo». La medesima che affligge i personaggi più significativi del realismo poetico francese: un disertore accompagnato da un cane randagio, un bandito condannato all’esilio, un macchinista affetto dalla tara dell’alcolismo. Tutto ciò non sorprende, considerata la comune matrice ideologica delle opere citate: inquietudine e rottura. Decisamente più curiosa è invece l’analogia tra questi antieroi e i protagonisti – al contrario molto eroici – di alcuni capisaldi del genere western, come Mezzogiorno di fuoco (1952), Quel treno per Yuma (1957), Un dollaro d’onore (1959) e il gemello di quest’ultimo, El Dorado (1966). In tutti questi film, sebbene gli effetti suspense siano ben diversi tra loro, ricorre la circostanza che un personaggio o un gruppo di personaggi si trovano in una situazione di totale isolamento. Il prezzo da pagare per conservare il proprio onore (emblematico in tal senso il titolo italiano assegnato al primo dei due film di Hawks in commento), per resistere alla prepotenza e alla violenza, per assicurare il rispetto della legge, indispensabile apripista della civiltà. Anche i reietti noir sarebbero andati incontro alla rovina pur di tenere fede a quel particolare codice d’onore, il solo in grado di distinguerli dall’ipocrisia della società che li aveva relegati ai propri margini.

Insomma, un’identica condizione esistenziale di partenza, sviluppata però in maniera opposta, in ragione di un’opposta concezione del futuro: gli eroi del west, di fronte a una società ancora da edificare, riuscirono a superare l’ostacolo rappresentato dall’isolamento e a stabilire un ordine; gli antieroi del noir, al cospetto di una realtà degenerata e ormai immutabile, vennero travolti dal caos – si consideri questo passaggio di Berlin, Alexanderplatz: «il mondo è di ferro, non si può più far niente, viene addosso come un rullo, niente da fare, il rullo arriva, corre, è un carro armato, un diavolo con le corna e gli occhi fiammeggianti, ti fanno a pezzi con le loro catene e con i denti». Il confronto tra i due generi, accennato con riguardo alla visione del futuro, induce a conclusioni simili in riferimento altresì all’idea del passato – turbolento, oscuro, opprimente. Se i protagonisti dei film neri furono spesso inseguiti da colpe remote, che come spettri tornavano a tormentarli, ciò non è meno vero per i personaggi del cinema di frontiera: anch’essi tutt’altro che trasparenti, incarnando l’archetipo del pistolero fuorilegge, dannato da una fama che conferisce loro un profilo decisamente ambiguo. Mentre i primi però non riuscirono a liberarsi dall’ossessione di un vissuto dal quale erano stati irrimediabilmente segnati, i secondi furono in grado di ottenere un pieno riscatto. Significative differenze, dunque, ma anche insospettabili punti di contatto; quelli sui quali si è fondato il processo di rivisitazione dei canoni western, attraverso una contaminazione noir, che ha dato alla luce opere spurie, veri e propri wester – n – oir. Dopo Alba fatale (1943), la prima sperimentazione di questo tipo – non sorprendentemente realizzata da un autore già impegnato durante la stagione del gangster movie, William Wellman, fu un regista di sensibilità europea a inaugurare questo percorso, creando un esemplare wester – n – oir: Fritz Lang, in Rancho Notorius (1952), evocò un clima morboso, perverso e tossico, attribuendo all’anarchia della frontiera la stessa capacità di stimolare le passioni più oscure e malvagie

che nella poetica noir possedeva la giungla d’asfalto. In seguito sarebbero stati prodotti numerosi altri film di ambientazione western ma di sapore noir, come Wichita (1955) dell’europeo Tourneur e gli americanissimi Johnny Guitar (1954) e Quaranta pistole (1957); fino ai più recenti La sparatoria (1967) e Gli spietati (1992).

Disagio e cinema della disperazione

Un’altra costante del cinema della disperazione è il disagio che esso esprime – in quanto forma d’arte inquieta e di rottura, di chiara ascendenza romantica, decadentista, espressionista. La straordinaria rivoluzione del realismo aveva elevato la vita quotidiana e l’ordinario al livello dell’ideale – epico o tragico – che, dalla Poetica di Aristotele in poi, era stato considerato l’unico oggetto degno di una rappresentazione che non aspirasse solamente a far ridere, ma altresì a edificare. Nonostante un rapporto controverso, si può sostenere che il realismo abbia dato espressione artistica alla visione pratica dell’esistenza caratteristica della borghesia. L’intraprendente ceto commerciale che si era proposto, con successo, di rovesciare l’antico regime e di stabilire una nuova società, una nuova realtà; la propria. Riuscita nell’intento, dovette apparire non solo ammissibile, ma persino opportuno rappresentare quella nuova realtà – in tutta la sua straordinaria e innovativa complessità – invece di cercare più virtuose alternative astratte. Da rivoluzionaria, la borghesia era diventata ben presto conservatrice. Le teorie scientifiche impegnate a dimostrare che quella nuova realtà – la società organizzata secondo il modello borghese – rappresentava non solo la migliore evoluzione possibile, ma persino l’unica evoluzione possibile, ne

intensificarono lo studio analitico, contagiando anche le altre forme di sapere umano, tra cui, appunto, l’arte. Ma proprio in seno alla rivoluzione realista si verificò la rottura tra la classe dominante dedicata all’impresa commerciale – che considerò anche l’arte come tale – e gli intellettuali e gli artisti che videro traditi quei principi egualitari attorno ai quali si erano trovati tutti riuniti ai giorni delle barricate. La delusione conseguente alla repressione della Primavera dei popoli, dapprima, e al fallimento delle ultime rivoluzioni unitarie, poi – con Courbet, padre del realismo e tra i massimi sostenitori dei principi repubblicani dell’89, cacciato da Parigi in seguito alla disfatta della Comune – portò persino il più fiducioso degli intellettuali a comprendere che la spietata logica dei privilegi dell’ancien régime era stata sostituita da quella, altrettanto spietata, dell’utile e del profitto sui quali era stata fondata la moderna società capitalista. Appunto quella delusione scatenò le prime forme di ribellione individuale che furono di ispirazione all’elaborazione delle avanguardie: numerose, differenti, talvolta persino confliggenti, tutte quante sarebbero state animate dalla stessa profonda avversione nei confronti della mentalità compiaciuta e ottusa della borghesia, delle sue ipocrite convenzioni, del nuovo ordine apparentemente immutabile, del Palazzo di cristallo dostoevskiano, della città – ghetto di Metropolis. In precedenza era stato lo sconcerto per il crollo di un sistema – il quale, buono o cattivo, aveva comunque resistito per secoli, assicurando all’artista una posizione privilegiata in ragione dei suoi meriti intellettuali – a provocare la dolorosa reazione romantica all’eccesso dei lumi, cogliendo la frantumazione dei valori culturali da cui era inevitabilmente dipesa la frantumazione dell’identità individuale – da qui l’insistenza per il tema del doppio, l’interesse per lo studio della psiche e l’interpretazione del sogno, la rappresentazione della realtà in termini soggettivi e persino patologici, anziché oggettivi e piani.

Molto dopo, sarebbe stata la prima guerra mondiale incombente a indurre i decadentisti a chiudersi in sé, isolandosi da una società destinata a distruggersi con le proprie stesse mani. In seguito, questa regressione risvegliò anche nell’arte l’interesse per la natura interiore dell’uomo e per l’esperienza onirica – tanto nella declinazione del sogno surrealista quanto in quella dell’incubo espressionista. Mentre l’indagine psichica delle nevrosi e dell’isteria – mali moderni che sembravano essersi diffusi come una pestilenza, contagiando non solo l’individuo ma anche lo Stato – ispirò una nuova punizione per quei personaggi che avessero peccato di hybris, tentando inutilmente di vincere il senso di impotenza al quale era stato ridotto l’essere umano: non più la morte, comunque liberatoria, bensì la prigionia della pazzia. Del resto, allora, il modello liberale – il Palazzo di cristallo – rischiava davvero di andare definitivamente in frantumi: le metropoli caotiche e disumane, sempre più sature di inquinamento e di delinquenza; la fragile economia mondiale in ginocchio, dopo la grande crisi del ’29; l’insostenibile tensione politica e ideologica, tra rivoluzioni socialiste e ascesa delle dittature. In un clima simile, il cinema condivise l’insofferenza e la disperazione già manifestate dalle altre forme d’arte: la folle inquietudine del cinema espressionista tedesco, la cruda violenza dei gangster movies americani, l’impotente rassegnazione del realismo poetico francese. Seguì, quindi, la tragedia della seconda guerra mondiale, dalle cui ceneri sorsero il noir americano, il neorealismo italiano e alcune pellicole del principale cineasta giapponese dell’epoca, Akira Kurosawa: nonostante le innegabili differenze di carattere stilistico e produttivo – non solo tra un movimento e l’altro, ma, all’interno di ciascuno, da autore ad autore – l’intersezione principale fu rappresentata dal senso opprimente della difficoltà di tornare alla normalità, di vincere la paura del passato, di ritrovare fiducia nel futuro, di credere nel potere politico e nelle istituzioni amministrative.

Solitudine e desolazione, infatti, contraddistinsero i film dei vinti come quelli dei vincitori. La generazione di artisti occidentali che ha vissuto nella seconda metà del XX secolo ha beneficiato di una pace e di un benessere del tutto sconosciuti a chi li aveva preceduti un cinquantennio prima. Tuttavia, anche dopo il tramonto della stagione del noir classico, non sono mancate crisi ideologiche, politiche, economiche e sociali tali da stimolare nuove manifestazioni di disperazione nel cinema: è il caso dei neo – noir. Perciò, pur a fronte di una tecnica narrativa necessariamente mutata – ma non necessariamente evoluta! – e di un mutamento altresì nei gusti del pubblico e degli stessi artisti, molti film prodotti tra gli anni ’70 e ’80 manifestarono lo stesso disagio di quelli realizzati tra gli anni ’30 e ’40; lo stesso si è ripetuto ancora, a cavallo dell’inizio del nuovo millennio. In tutti questi casi è possibile riscontrare alcuni aspetti strutturali, estetici e ideologici ricorrenti nel cinema sin dai tempi di Weimar e, nell’arte più in generale, già da molto prima, allorché, alla fedele, impassibile, distaccata rappresentazione della realtà, si sostituirono le prime forme di revisione critica di quella medesima realtà, attraverso delle deformazioni che fossero più vere della verità letterale.

Tratti e temi della (tradizionale) poetica noir

È innegabile la difficoltà – ma, forse, sarebbe più corretto dire l’assoluta impossibilità – di definire compiutamente un genere, individuandone cioè in maniera esaustiva caratteristiche imprescindibili, sempre ricorrenti; di certo, lo sforzo rischia spesso di risultare un esercizio sterile, dall’esito incerto, talvolta persino ingannevole.

Nondimeno, giacché nell’immaginario collettivo il termine noir ha saputo imporsi al punto di essere entrato nell’uso comune – e, il più delle volte, di essere impiegato in maniera del tutto inopportuna – vale la pena di tentare di chiarirne il significato; cercando, in particolare, di raggruppare tra loro opere che presentano alcuni significativi aspetti comuni, di forma e di contenuto. Quando si parla di cinema noir si fa riferimento a un numero di film prodotti negli Stati Uniti durante il periodo del cinema americano classico; più precisamente, si tratta di quelli realizzati a partire dal 1941 e quindi in numero crescente – secondo una specifica classificazione, la RKO avrebbe prodotto addirittura 42 noir nel solo 1950 – sino alla fine degli anni ’50. La maggior parte di essi furono ripresi in bianco e nero – sia perché il colore non era ancora disponibile o comunque accessibile per la realizzazione di produzioni minori, sia perché, pur risultando utilizzabile, non sarebbe stato adatto alla rappresentazione di una realtà lacerata da contrasti netti e distanze incolmabili quanto il giorno e la notte. Non si può negare, in tal senso, la rilevanza del modello di estetica rappresentato dal Precisionismo, di cui furono i più significativi esponenti i pittori George Ault, Louis Lozowick e Charles Sheeler e il fotografo Paul Strand. La fotografia mutuò molti tratti estetici della tradizione espressionista tedesca, non solo per via dell’influenza diretta esercitata da direttori di formazione e di provenienza europee, ma anche e soprattutto in ragione della spiccata attitudine di quelle tecniche a esprimere le suggestioni che le produzioni nordamericane si ripromettevano di suscitare nel pubblico: incertezza, ambiguità, straniamento. Il chiaroscuro, l’attribuzione di un valore simbolico alle ombre, la deformazione delle immagini permettevano infatti di rendere indefinito il confine tra coscienza e allucinazione, veglia e incubo, inducendo lo spettatore ad aderire alla tormentata prospettiva interiore del protagonista e condividerne, di conseguenza, l’agonia. Altrettanto importante – nel solco della

tradizione espressionista – fu la relazione tra l’individuo (o meglio la sua coscienza) e lo spazio circostante. A differenza di quanto accadeva nei film tedeschi, nel noir americano non si assistette a un’esasperata metamorfosi della scenografia; del resto, questa possedeva già una propria identità autonoma, un’anima inquieta, attraversata dall’incessante frenesia metropolitana. Infatti, anziché della ricostruzione di ambienti reali, gli autori noir si avvalsero perlopiù dei luoghi stessi del racconto, esterni autentici, nei quali gli attori venivano confusi tra la gente comune: la rappresentazione si spostò fuori dai teatri di posa, agevolata dai progressi tecnici e motivata dal bisogno ideologico di cogliere la cronaca della vita reale in divenire – oltre che da quello economico di evitare le enormi spese di allestimenti eccessivamente impegnativi. La stessa parabola intrapresa, quasi cent’anni prima, dalla pittura impressionista. Appunto come nei dipinti e nei romanzi realisti, la metropoli, simbolo per eccellenza della Modernità, divenne lo sfondo ideale anche per le storie noir: un grembo rovente, simile a un girone infernale, in cui la vita è assolutamente insopportabile e non si arresta mai. Un circo impazzito – per utilizzare una delle numerose metafore elaborate dall’immaginario cinematografico di Weimar – in cui l’uomo rischia di perdersi, tra tentazioni, vizi e delinquenza, per non ritrovarsi più. Motivo di alienazione e di dolore – lo spleen baudelairiano – l’intrico della città è luogo di disgregazione, di disordine, di solitudine. Anche in questo caso, i riferimenti culturali sono innumerevoli: gli affreschi urbani di Zola e di Dostoevskij, gli scorci allucinati di Van Gogh e di Munch, i pandemoni di Ensor, la ferina pittura fauvista di De Vlaminck e di Rouault, i costumi picassiani per Diaghilev, in occasione di Parade, e l’ossessione tedesca di inizio secolo, dalla Lubecca di Mann, all’immaginaria città deforme degli scenografi di Wiene – allestita guardando alla Berlino stilizzata di Kirchner – dalla metropoli americanizzante che terrorizzava Grosz, alla

PragerStraße di Dresda ritratta da Dix, sino ai ghetti sotterranei di Lang. La straordinaria complessità strutturale, che la rendeva simile a un insuperabile labirinto, fece della Città il regno del caos fisico e, soprattutto, ideologico nel quale la coscienza individuale moderna si era frantumata e infine dissolta. Era calato il buio: perciò la predilezione romantica per la notte, fonte di ispirazione dei notturni musicali di Field e Chopin e di quelli letterari di Novalis e di Hoffmann. Perciò, ancora, la dialettica tra il giorno – durante il quale la coscienza borghese si compiace della calma apparente che ha saputo diffondere – e la notte – quando gli istinti sedati dalle più ipocrite convenzioni si risvegliano violenti e incontenibili; come testimoniò la cronaca londinese delle Note invernali su impressioni estive. Perciò, infine, il ricorrere dell’incubo, manifestazione di un inconscio inquieto, spaventato, in conflitto con se stesso: dal dipinto di Füssli a La donna del ritratto e a Dietro la porta chiusa di Lang, passando per l’Orco insabbia di Hoffmann, Il sosia di Dostoevskij, le pitture nere di Goya – autore anche dell’acquaforte intitolata Il sonno della ragione genera mostri – gli studi interpretativi di Freud e, molto prima, quelli di simbologia onirica di G.H. Schubert, le numerose e straordinarie sequenze di visioni e allucinazioni dei film espressionisti. Il cinema noir metabolizzò tutti questi modelli e fece dei suoi protagonisti creature notturne, costrette ad aggirarsi in mezzo a un’umanità dolente. Le medesime vicende nere sembrano veri e propri incubi a occhi aperti; comunque, è un fatto che anche Hollywood si cimentò nella creazione di autentiche scene oniriche: si consideri, al riguardo, un’opera d’avanguardia rispetto al movimento propriamente inteso, Lo sconosciuto del terzo piano (1940), ma anche uno dei capisaldi del genere, L’ombra del passato (1944). Attinente alla sfera psichica, almeno quanto il motivo dell’incubo, è il tema dell’inclinazione criminale, l’irresistibile impulso che assale i personaggi. Essi sono attratti dal delitto o si sentono costretti a commetterlo quasi fossero dei

sonnambuli o degli automi; non a caso due figure care alla tradizione da cui il noir ha ripetutamente attinto: si pensi alla creatura del Frankenstein della Shelley, in seguito riemersa nel film di Otto Rippert, Homunculus (1916), e nel romanzo di Bulgakov, Cuore di cane, tutte opere attraverso cui erano state espresse la paura nei confronti della civiltà delle macchine e quella per i regimi totalitari, entrambi responsabili del medesimo fenomeno di disumanizzazione che venne indagato anche dagli autori del cinema nero americano. Irresistibile impulso che non esclude affatto una volontà colpevole: la concezione noir del carattere umano postulava infatti una lotta costante tra innocenza e colpa. Una visione che distingue il noir dal thriller – per il cui funzionamento è preferibile l’idea di un innocente ingiustamente reputato colpevole. Nel film nero, al contrario, non possono esistere personaggi assolutamente innocenti. Ciò non toglie però che al delitto l’individuo è spinto dal contesto nel quale è suo malgrado costretto a vivere e a cui, nonostante un ricorrente desiderio di evasione, non può sottrarsi. Ecco che nuovamente manifesta tutta la sua rilevanza, quasi di autonomo personaggio, la metropoli, attraente e pericolosa quanto una sirena omerica: le sue luci e i suoi rumori sono un richiamo al quale non c’era scampo. Nel film espressionista Die Straße (1923), il borghese, esasperato dalla monotonia della propria esistenza priva di slanci, veniva raggiunto dalle tentazioni della strada fin dentro il salotto di casa sua; analogamente, nei noir americani non fu infrequente il ricorso all’immagine della finestra sulla città: una ferita aperta, attraverso cui il vizio e la corruzione infettano e avvelenano anche lo spazio più intimo e più sacro. Appunto in considerazione del suo effetto pestilenziale, l’atmosfera urbana venne contrapposta all’ideale di purezza rappresentato dagli spazi incontaminati della natura selvaggia: scenari da far west ai quali i disgraziati protagonisti aspirano ardentemente, senza mai riuscire a raggiungerli e iniziarvi una nuova vita. Soltanto un’illusione, in ogni caso; almeno nella

evoluzione del pensiero neo – noir secondo il quale il male di vivere dilagherebbe ovunque. Imprigionato suo malgrado nella città, il protagonista noir era comunque condannato alla solitudine almeno quanto il Fiammiferaio di Dix, circondato da una moltitudine che sembra fuggire proprio da lui, tanto da sparire dall’inquadratura prima ancora che questa possa mostrarne i volti. Fu così anche nei film in esame, popolati da una massa indistinta e indistinguibile – una marea alla Verga o alla Ensor – in mezzo alla quale qualunque individuo si sentirebbe smarrito. Solitudine e smarrimento furono, del resto, altri due tratti del tipo umano concepito dalla poetica nera: entrambi manifestarono la delusione nei confronti del sistema sociale occidentale che aveva causato due conflitti mondiali a breve distanza l’uno dall’altro. Un sistema nel quale risultava ostacolata fino all’impossibilità qualunque relazione interpersonale disinteressata. La solitudine quale condizione esistenziale insuperabile, dunque. Benché nel cinema noir non siano mancati esempi di solidarietà fondati sulla condivisione di una certa morale, alquanto particolare, persino incomprensibile. Il più delle volte tale da non fare dei protagonisti noir persone per bene, ma sufficiente comunque a distinguerli dal resto della società. La quale non era meno riprovevole di loro, ma soltanto più ipocrita: una società che si difendeva dietro istituzioni senza volto né anima, simulacri di civiltà, svuotati della compassione e della capacità d’ascolto necessarie a farne un solido riferimento. Ecco dunque la critica alle istituzioni – al Palazzo di cristallo – che era stata tanto sviluppata dalla tradizione artistica europea ottocentesca; un’accusa irriverente e spietata, rivolta, in particolare, nei confronti della Giustizia, che venne spesso ridicolizzata e rappresentata come una vera e propria farsa kafkiana. Molti dei più autorevoli cineasti, che in quegli anni diressero ad Hollywood, non mancarono di mettere alla berlina un sistema imperfetto e niente affatto impegnato a

migliorarsi: Lang, in Furia (1936) e in Sono innocente (1937), Welles, ne La signora di Shanghai (1947) – oltreché ovviamente nella trasposizione cinematografica de Il processo di Kafka – Hitchcock, ne Il ladro (1956). Tra i motivi di divisione, oltre all’avidità – estremamente significativo al riguardo è uno dei capolavori del primo cinema disperato, Rapacità (1924) di von Stroheim, le cui ambientazioni sono piuttosto da western ma le cui conclusioni sono assolutamente noir – ricorse spesso la figura della femmina predatrice; la già più volte citata dark lady, sintesi di fascino e di crudeltà, incarnazione della città: similmente seducente, altrettanto letale. In tal modo si delineò un’ulteriore differenza con il thriller: mentre infatti i protagonisti (prevalentemente maschili) di questo genere di storie superavano gli ostacoli disseminati sul proprio percorso narrativo anche grazie all’indispensabile contributo di un’esponente dell’opposto sesso – e, in tal senso, si consideri il ripetersi della situazione nella cinematografia del maestro Hitchcock – la rovina di quelli dei film neri si dovette appunto a donne spietate e prive di scrupoli. Della donna non ci si può fidare giacché ella, in continuazione, cambia improvvisamente espressione. Ne Il giocatore di Dostoevskij, mademoiselle Blanche (nomen omen!) – descritta come la classica donna vampiro che riduce alla sottomissione gli uomini e li consuma, succhiandone non già il sangue ma il denaro – passava con spaventosa repentinità da un candore ingenuo, quasi infantile, ad atteggiamenti maliziosamente seducenti: «mademoiselle Blanche in persona fece un passo verso di me con un sorriso ammaliante, mi afferrò entrambe le mani e le strinse forte. Che il diavolo mi porti! Quel viso diabolico aveva la capacità di mutare in un secondo! In quell’istante assunse un’espressione così supplice, così dolce, con un sorriso infantile, e persino birichina; sul finire della frase ammiccò maliziosa, senza che nessun altro se ne accorgesse; cos’è, voleva abbattermi d’un colpo? E non le riuscì male, anche se la cosa fu troppo volgare, davvero terribile». Il romanziere russo descrisse una metamorfosi che anticipava la mimica ambigua di molte

interpreti noir, come Mary Astor ne Il mistero del falco (1942) o Barbara Stanwyck ne La fiamma del peccato (1944). Se la relazione tra uomo e donna fu, nella maggior parte dei casi, improntata all’inganno e persino alla sopraffazione reciproca, i legami virili ricevettero spesso un opposto tratteggio, pur non godendo certo di miglior sorte: anche una poetica fortemente solipsistica, come quella noir, ammise infatti episodi di amicizia, fondata sul sentimento di solidarietà che avvicinava tra loro i disperati, capaci di riconoscere e apprezzare nell’altro il rispetto di valori condivisi. Lealtà, senso dell’onore, orgoglio e dedizione al mestiere – sia pure quello criminale: insomma, un codice morale che non coincideva con la legge, ma che possedeva un proprio pregio, specie in confronto alla dissolutezza e alla falsità di perbenisti e benpensanti o alla crudele indifferenza di altri miserabili. Un’empatia già tratteggiata da Dostoevskij all’inizio di Delitto e castigo, durante l’incontro tra Raskol’nikov e Marmeladov, allorché il secondo ammetteva di aver percepito immediatamente, con un solo sguardo, la particolare sensibilità del primo – «vedo sul vostro volto i segni d’una sofferenza. L’ho sentito appena siete entrato, per questo mi sono rivolto a voi» – e di avergli aperto il proprio cuore appunto per questa ragione, noncurante dello scherno e degli insulti da parte degli altri disgraziati presenti nella bettola dove si trovavano. Ancora più rilevante è la considerazione che, durante quel primo dialogo, Marmeladov svolse in riferimento alla nuova società, retta dalle «nuove idee», secondo le quali «la pietà, oggigiorno, è proibita persino dalla scienza»: questa è la logica della modernità, governata dal principio dell’utile, e gli antieroi noir, uomini fuori tempo, si riconoscono proprio per la loro pietà. Simili manifestazioni di amicizia virile, oltre a ricorrere in altre declinazioni di cinema disperato – come il realismo poetico francese e il neorealismo italiano – costituirono l’ennesima intersezione del noir con il western e il neo – western: basta pensare a Un dollaro d’onore (1959) e a

Distretto 13 (1976); a Ombre rosse (1939) e a Strade di fuoco (1984). Esiste però ancora una volta una sostanziale differenza: se nel western l’unione faceva la forza, nel noir la solitudine restò un ostacolo insuperabile, una condizione esistenziale lacerante, opprimente, soffocante e, allo stesso tempo, indispensabile. L’autore di Delitto e castigo lo rappresentò, ancora una volta, in maniera esemplare: all’inizio, «Raskol’nikov non era abituato a stare tra la gente e evitava di frequentare compagnie […]. Eppure adesso, improvvisamente, si sentì attratto dalle persone. Era un’impressione per lui nuova, avvertiva come un bisogno di esseri umani. Era così stanco di quel mese passato tutto chiuso in se stesso, in quello stato d’angosciosa e cupa agitazione, che almeno per un attimo gli era venuta voglia di prendere una boccata d’aria in un altro mondo, qualunque esso fosse, e, sebbene quella bettola fosse davvero putrida, adesso ci rimaneva volentieri». Eppure, se «prima, per un attimo, aveva provato il desiderio di avere qualche contatto con gli uomini, ora, invece, appena quell’individuo gli aveva rivolto la parola, sentì subito quella famigliare sensazione di fastidio, d’irritazione e di repulsione verso chiunque volesse interessarsi o anche solo entrare in contatto con lui». Inoltre, pur quando si fossero risolti a unirsi tra loro, i protagonisti non riuscirono mai a sovvertire il volere del destino; anzi questo li avrebbe comunque condannati a dividersi, per poi abbattersi su ciascuno di loro secondo una sorte differente. Ogni personaggio seguiva in effetti un percorso autonomo, pur essendo tutti caratterizzati da un identico confronto impari con il tempo e con il fato: tra attese esasperanti o corse disperate, l’impressione complessiva di solitudine ne risultava addirittura aumentata. Mentre il western ebbe sempre un andamento lineare, il noir si caratterizzò per la deformazione cronologica, realizzata soprattutto attraverso spericolati salti all’indietro (flashback): questi risultavano funzionali ad accrescere – a livello di struttura narrativa – la sensazione del

caos incombente e a sottolineare – sul piano ideologico – il peso del passato, che tornava immancabilmente a pretendere il conto anche delle colpe più remote. Nonostante la convergenza in uno stesso punto, provenendo da direzioni diverse, ciascun personaggio restava quindi ancorato al suo vissuto assolutamente individuale. Anche in questo caso, l’antecedente Dostoevskij si rivela assolutamente rilevante. In Delitto e castigo, infatti, l’autore mise a dura prova il già precario equilibrio del protagonista: dapprima, lo aveva costretto a un incubo terrificante – altro topos del cinema nero – al risveglio dal quale egli aveva provato una tale ripugnanza di sé e del proprio proposito criminale da decidere di desistervi; subito dopo, però, lo aveva fatto imbattere, per volere di un destino beffardo, in una scoperta che improvvisamente non soltanto risvegliò in lui quel proposito, ma addirittura lo rese definitivo. Il caso, dunque, aveva sottoposto Raskol’nikov a una nuova tentazione criminale ed egli non seppe resistergli, poiché «sentiva che non aveva più libertà di pensiero né volontà e che tutto improvvisamente si era definitivamente deciso». Ma ciò che più colpì il giovane fu il ricordo di un episodio passato, diverso eppure straordinariamente simile a quello appena vissuto: ascoltare due sconosciuti, seduti poco distanti da lui in una locanda, conversare sia pure soltanto in teoria dell’assassinio della donna che anche lui, pur avendola conosciuta quello stesso giorno, già avrebbe desiderato uccidere; già allora l’omicidio gli era stato suggerito in una maniera così sorprendente e inaspettata da costringerlo a credere di non potersi sottrarre alla via che il fato aveva evidentemente previsto per lui: «certo erano sempre i soliti discorsi da giovani, idee sentite tante volte. Ma perché proprio adesso gli era capitato di sentire quella conversazione e quelle idee, proprio ora che nella sua testa si erano affacciati esattamente quegli stessi pensieri? E perché, proprio adesso che aveva maturato un embrione di quell’idea, venendo via dalla casa della vecchia, gli era capitato di ascoltare un discorso proprio su quella vecchia? Quelle coincidenze gli parvero sempre strane. Quella conversazione insulsa, da

trattoria, aveva avuto su di lui un effetto straordinario nel determinare il seguito della cosa: come se vi fosse stata davvero qualche forma di predeterminazione, un segno». Alle disorientanti accelerazioni impresse dai flashback, si contrappose talvolta la dilatazione temporale finalizzata a creare attese esasperanti, metafora metafisica dell’impotenza e della rassegnazione umane di fronte ad una catastrofe preannunciata, ma inevitabile. Paradigmatici, in tal senso, I gangsters (1946), Morirai a mezzanotte (1947) e Due ore ancora (1949), ma anche i francesi Ascensore per il patibolo (1957) e Vite vendute (1953). Nel caso di molti film del realismo poetico, poi, si potrebbe addirittura sostenere che l’oggetto dell’intero racconto è appunto una attesa, alla quale non si sa resistere, sebbene se ne intuisca già assai distintamente l’esito. Il bandito della Casbah (1937) come I gangsters, dunque. Ma non solo. Invero, è interessante notare al riguardo che anche il cinema western conobbe alcuni esempi di snervante attesa, tra i quali Mezzogiorno di fuoco (1952) primeggia senza dubbio. Questo rilievo permette pertanto di individuare un altro elemento in comune tra il cinema della disperazione e il suo opposto: anche nel capolavoro di Zinnemann, invero, l’attesa ebbe la funzione di definire in toni sempre più marcati il senso di solitudine provato dal protagonista, mano a mano che la resa dei conti finale si avvicinava lentamente. Identici presupposti, sviluppati però ancora una volta in direzione antitetica – come constatarono sulla propria pelle i personaggi interpretati da Jean Gabin e da Burt Lancaster, a differenza di quello di Gary Cooper! L’elemento che caratterizza più d’ogni altro il cinema nero è infatti la sconfitta. Anzi, il noir è proprio il genere della sconfitta, che spesso assunse le forme derisorie e crudeli di vera beffa, attraverso la quale si manifestò un perverso sadismo che incontrava evidentemente il favore del pubblico. Un antecedente significativo di questo aspetto è certamente il finale de L’angelo azzurro di von Sternberg, durante il quale il

borghese pagò la sua deplorevole debolezza morale, subendo la peggiore umiliazione possibile: egli, un tempo stimato professore, fu costretto a esibirsi come pagliaccio di fronte agli ex studenti, il rispetto dei quali costituiva il fondamento della sua particolare forma di tirannia. Del resto, già Dostoevskij aveva solleticato un gusto altrettanto sadico ne Il giocatore – uno dei più noir tra i suoi romanzi – costringendo il protagonista a subire un’analoga umiliazione a causa del suo ossessivo desiderio nei confronti di una donna capricciosa e indifferente, la quale pretese da lui – invece della vita che egli le offriva – la dignità che avrebbe certamente compromesso obbedendo all’ordine di rendersi ridicolo di fronte a un barone e a una baronessa tedeschi. Non meno sadica fu la sorte di molti antieroi del realismo poetico e del noir, i quali vedevano sfumare improvvisamente il sogno di riscatto per il quale avevano tanto a lungo faticato e penato: proprio il carattere improvviso della svolta tragica conferiva al racconto noir il tipico andamento a gobba di cammello per effetto del quale, nel momento in cui sembrava potersi finalmente concretizzare l’obiettivo che i personaggi inseguivano, si frapponeva un ostacolo del tutto imprevisto. Nel caso del realismo poetico, questa poetica della sconfitta dipese dall’ideologia romantico – decadente che lo ispirò. Nel caso del cinema noir, invece, assunse rilievo anche la funzione educativa perseguita dalla Motion Picture Association of America che allo scopo si dotò di linee guida alla produzione, il codice Hays. Poiché i protagonisti noir manifestavano un istinto alla disobbedienza e rappresentavano, perciò, una minaccia per l’ordine sociale – assumendo sempre e comunque un atteggiamento dissacrante nei confronti di quel Palazzo di cristallo verso il quale già l’uomo del sottosuolo smaniava dal desiderio di rivolgere la linguaccia – non sarebbe stato ammissibile alcun lieto fine alla loro storia; ad ogni delitto il suo castigo, almeno in una tradizione consolidata da Dostoevskij in poi, fino alla sorprendente novità rappresentata da Lo sciacallo (2014). Così, tutte le volte in cui non si assistette a una punizione piena, fu perché piena non era neppure la colpa, ma il protagonista, invece di porsi

deliberatamente in contrasto con l’ordinamento sociale, era stato piuttosto coinvolto suo malgrado da altri in qualche torbida disavventura. D’altra parte, il noir è raccontato attraverso una prospettiva colpevole (sulla base della convinzione che ogni individuo sia sempre, almeno in parte, colpevole), a differenza di quanto accade nel thriller il cui espediente più ricorrente risulta appunto quello dell’innocente ingiustamente accusato, da cui deriva, al contrario, l’andamento sinusoidale che, tra le montagne russe di innumerevoli imprevisti, conduce sino al sospiro di sollievo finale – tanto per ricorrere ad alcune metafore hitchcockiane! Emerge così un ulteriore elemento noir, il delitto, a proposito del quale si rende opportuno svolgere diverse considerazioni. Innanzitutto, non c’è vicenda noir che non sia incentrata attorno al malaffare, né protagonista noir che non ne sia attratto. Se è vero che anche il whodunit scaturisce sempre dalla commissione di un crimine, che assume rilevanza centrale, è altrettanto vero che nel noir se ne conosce già l’autore. Esiste dunque una differenza significativa: nel racconto nero non si tratta di seguire, dalla prospettiva esterna e perlopiù distaccata di chi investiga, il percorso logico che permette l’identificazione e la punizione del colpevole, ma di approfondire, adottando il punto di vista di quest’ultimo, i presupposti sociali e psicologici della sua azione, secondo l’impostazione consacrata da Dostoevskij in Delitto e castigo, da cui il cinema americano degli anni ’40 e ’50 ha innegabilmente tratto innumerevoli spunti. A partire dalla dialettica tra l’impegno umano – ad esempio nella meticolosa pianificazione di ogni dettaglio del piano criminale – e l’intervento del caso – che ora agevola, ora invece complica la realizzazione di quel medesimo piano. Inoltre, era stato proprio il romanziere russo a delineare il rapporto tormentato e controverso che il colpevole vive con se stesso e con il proprio proposito, la cui genesi risultava strettamente legata alle condizioni di degrado, di miseria, di necessità e di

disperazione estreme che caratterizzavano la vita nei quartieri più poveri delle grandi città industriali. Fu ancora Delitto e castigo a sottolineare il contrasto tra alcuni moti di solidarietà del protagonista/assassino nei confronti di altri reietti, umiliati e offesi come lui – benché egli, come detto, restasse solitario fino alla selvatichezza e si compiacesse per il proprio incorreggibile istinto alla disobbedienza – e l’arrogante indifferenza di certi funzionari della polizia – in confronto ai quali si distingueva l’umanità del commissario Fomič, predecessore del von Wenk di Fritz Lang. Nell’ottica di questa tradizione il delitto non si riduceva a un esercizio intellettuale, a una strategia di potere, a un capriccio della passione, ma costituiva un’autentica necessità, poiché il destino e la società ponevano i personaggi di fronte a un’alternativa spietata, come quella considerata da Raskol’nikov in Delitto e castigo: «da tempo provava tutta quell’angoscia, che era cresciuta in lui, si era accumulata e negli ultimi tempi si era concentrata e aveva preso la forma d’una questione terribile, selvaggia e fantastica, che gli assillava il cuore e la mente e che assolutamente doveva essere risolta. […] Adesso era chiaro che non ci si poteva più abbattere, soffrire passivamente, ripetersi che si trattava di questioni irrisolvibili, bisognava assolutamente fare qualcosa, subito, più in fretta possibile. Bisognava decidersi, qualsiasi cosa fosse, oppure … ‘Oppure rinunciare del tutto a vivere!’ esclamò di colpo, sconvolto. ‘Accettare sottomessi il proprio destino, così com’è una volta per tutte, soffocare in sé ogni cosa, rinunciando a ogni diritto ad agire, a vivere e ad amare!’». Insomma, quella posta dalla società moderna all’individuo era una questione di vita o di morte. E, allora, passare all’azione, anche la più spregiudicata, diventava un’esigenza disperata, accelerata dall’insopportabile impressione della inevitabilità; la stessa patita dal protagonista de Il giocatore: «un folle pensiero mi balenò nella testa. […] Sì, a volte il pensiero più folle, il pensiero apparentemente più impossibile ti si radica in capo con tanta forza che si finisce per prenderlo

per qualcosa di realizzabile. Non basta: se l’idea va a unirsi a un desiderio forte, appassionato, allora può anche darsi che la si prenda alla fine per qualcosa di fatale, di ineluttabile, di predestinato, per qualcosa che ormai non può più non essere e non accadere». La sopravvivenza a qualunque costo, mediante ogni genere d’espediente, persino il delitto, sfidando la sorte e l’autorità: questo era il prezzo della Modernità, che molti artisti ottocenteschi avevano sperimentato di persona. Perciò, nella spirito di Dostoevskij e di Van Gogh, un altro aspetto caratteristico del genere noir divenne il particolare atteggiamento dell’autore nei confronti dei propri antieroi e della loro disperazione: un atteggiamento privo di qualunque ipocrisia borghese, che non portò mai a porsi come studioso di una contagiosa devianza da neutralizzare e, tanto meno, a ergersi a giudice. Mai si avverte la sensazione che un autore di neri condanni moralmente il proprio protagonista e lo allontani da sé; al contrario, egli lo compatisce, lo assiste fino alla fine, ne comprende la tragedia interiore – proiezione individuale della tragedia collettiva provocata dalla frantumazione della coscienza nell’Uomo moderno. Il protagonista noir, del resto, si riprometteva di compiere con riferimento a se stesso la medesima operazione che l’intellettuale si era ripromesso di compiere rispetto all’umanità alla quale si accostava in qualità di creatore: «trovare l’uomo in me stesso» rivendica il giocatore di Dostoevskij. Significava, in altre parole, riscoprire persino tra i bassifondi urbani, le sirene delle fabbriche e le prostitute di cui parlava Edschmid, una dignità che il moralismo dei benpensanti – con tutte le sue ipocrisie – aveva dileggiato, umiliato, soffocato. Autore e personaggi erano stati spesso accomunati dalla stessa condizione di necessità economica e dalla condivisione delle medesime passioni; ancora una volta il riferimento all’esperienza di Dostoevskij è estremamente pertinente: come i personaggi de Il giocatore – la cui atmosfera è dominata dalla cupidigia, dall’ambiguità e dalla

stessa morbosa ossessione che avrebbe caratterizzato i principali capolavori del cinema noir – anche il romanziere era divorato dalla mania del gioco, attraverso il quale sperava di risolvere il dissesto finanziario che l’aveva costretto a fuggire dalla Russia pur di sottrarsi ai creditori, e non nascondeva affatto di preferire l’eredità di una lontana parente ad una vita votata al sacrificio, all’idolo tedesco. Anzi, egli considerava addirittura «ridicola l’opinione comune, da tutti riconosciuta, che sia stupido e assurdo attendersi qualche cosa dal gioco. E perché il gioco dovrebbe essere peggio di un qualsiasi altro modo di far denaro, per esempio del commercio?». Dal gioco d’azzardo al delitto il passo fu breve, giacché la riprovazione degli artisti rispetto alle attività lecite del ceto borghese era almeno pari a quella della borghesia nei confronti dei crimini commessi dagli appartenenti alle classi più povere. Nella esternazione del giocatore era manifestato il disagio di tutti gli intellettuali che, costretti dal crollo del mecenatismo cortigiano e dalla conseguente mercificazione delle loro opere, a diventare essi stessi commercianti – e talvolta persino imprenditori, come Balzac o il medesimo Dostoevskij – non avevano avuto pari fortuna rispetto a banchieri, industriali, gioiellieri e commercianti. Un disagio che essi cercarono di esorcizzare rivendicando quanto meno l’onestà intellettuale di prendere in considerazione qualunque mezzo di sopravvivenza, nella giungla d’asfalto delle metropoli moderne. Il gusto per lo scandalo, il dileggio delle convenzioni, la disobbedienza, l’indignazione, il rancore e il desiderio di rivalsa furono pertanto sentimenti che gli intellettuali, specie quelli d’avanguardia, condividevano con il «canagliume da roulette», divorato da «un plebeo desiderio di vincere», a differenza dell’ipocrita impassibilità del gentleman, il quale «non deve mai interessarsi della propria vincita» e per il quale «i soldi devono essere a tal punto al di sotto della sua condizione, quasi da non meritare che ci si preoccupi di loro». Lo stesso gentleman, ancora, che può permettersi – con l’atteggiamento tipico del positivismo – «persino di esaminare,

per esempio anche con l’occhialino, tutto questo canagliume: ma non altrimenti che prendendo tutta questa folla e tutta questa sporcizia per un divertimento sui generis, come se si trattasse di una rappresentazione organizzata per il suo svago». Gli autori noir, al contrario, non considerarono affatto il dramma della vita come un semplice spettacolo e si preoccuparono di fare della propria arte una testimonianza: in questo risiede la differenza tra l’intellettuale e il gentleman, tra l’antieroe e l’eroe; la stessa insomma che, in qualche misura, ricorre tra noir e giallo.

Il neo - noir

Il percorso sin qui sviluppato dimostra che la corrente artistica, culturale e ideologica che ha ispirato il noir classico recepì un disagio profondo, un tormento che aveva inquietato l’uomo all’indomani del crollo dell’antico regime, mano a mano che progressivamente veniva a definirsi la società moderna, con tutte le sue ipocrisie e le sue contraddizioni. La seconda guerra mondiale, del resto, fu l’apice della crisi del modello liberale che si era imposto nel corso del secolo precedente. Nell’arco di questo lungo e intenso periodo, gli intellettuali e gli artisti più sensibili espressero attraverso le proprie opere un atteggiamento di critica, di polemica, di rottura. Un atteggiamento che seguitò a riemergere nella produzione cinematografica, sia pure con meno frequenza e minore insistenza, anche dopo la conclusione della stagione del noir classico; continuarono infatti a essere realizzati film attingendo ad alcuni dei topoi della tradizione realista, rivisitata dall’impegno civile delle avanguardie; la stessa tradizione che già aveva profondamente caratterizzato il cinema nero hollywoodiano.

L’individuazione di questi neo – noir e la loro analisi, nell’ambito del periodo storico durante il quale sono stati concepiti, rafforza la percezione di uno stretto legame tra il cinema della disperazione, che anch’essi hanno contribuito a declinare, e una particolare e sofferente percezione della realtà dovuta al verificarsi di eventi specifici o a una somma di essi, tali da scuotere le coscienze e minare dalle fondamenta la relazione di fiducia tra l’individuo e la società alla quale egli appartiene. Molti dei capolavori in questione corrisposero infatti a un grido, più o meno sommesso, levato contro nuove tragedie e calamità, scandali sconcertanti o conflitti brutali, confluendo nel medesimo coro di indignazione e di dolore lanciato nella prima metà del secolo attraverso opere come le poesie di Brecht, le litografie di Käthe Kollwitz, Guernica di Picasso. Nulla di diverso, in fondo, a parte la circostanza che l’epicentro di quella revisione critica si era definitivamente spostato dalla vecchia Europa agli Stati Uniti, instancabile e insuperato mercato di forme di comunicazione alternative, mode e tendenze artistiche innovative. Perciò furono soprattutto drammi americani la fonte di ispirazione del nuovo cinema in nero: il Watergate che aveva provocato diffidenza e risentimento nei confronti delle istituzioni – un disagio evidente ne La conversazione (1974) e ne I tre giorni del Condor (1975); la controversa guerra in Vietnam – il cui orrore satura l’atmosfera di Taxi driver (1976). Mentre la Vienna del decadente Doppio sogno di Schnitzler sarebbe divenuta la New York di Eyes Wide Shut (1999): anche in questo caso, cambiò lo scenario ma restarono immutati gli spunti, perché la polemica verso l’ipocrisia del matrimonio, una delle istituzioni fondanti della morale borghese, aveva ispirato già Giulia o la nuova Eloisa di Rousseau, Casa di bambola di Ibsen, Sposi di Strindberg. Nel corso degli anni ’70, la figura solitaria e crepuscolare dell’investigatore privato, di hammettiana memoria, si trovò costretta a sopravvivere in mezzo a nuovi mali sociali: in Chinatown (1974) di Polanski e ne Il lungo addio (1973) di

Altman, uffici di pubblici funzionari corrotti e ricche ville di stravaganti artisti arricchiti sostituirono le squallide e degradate periferie della tradizione; mentre passioni criminali e disagio restarono immutati. Talvolta l’antieroe noir venne persino scaraventato in un futuro ostile e disumano, secondo la logica immaginaria di una fantascienza impietosa che esasperò i peggiori difetti della società contemporanea, incapace di imparare dagli errori del passato. È il caso di Blade Runner (1982). Una spinta irrefrenabile verso i generi della disperazione indusse a riscoprire il gangster movie: la trilogia de Il padrino (1972) (1974) (1990), Crocevia della morte (1990) e Casinò (1995) ne furono i risultati migliori. E, ancora, ad affrontare le domande poste da una criminalità impazzita e da un caos paragonabile a quello della vecchia frontiera selvaggia, nei wester – n – oir urbani di Carpenter, Distretto 13, brigate della morte (1976) e 1997, fuga da New York (1981); ancora una volta la contaminazione tra stili e ambientazioni fu impiegata per lanciare l’allarme: lo stesso può dirsi nel caso della fantascienza muscolare di Cameron, alcune sequenze del cui leggendario Terminator (1984) vennero riprese all’interno di un locale allusivamente chiamato Technoir. Quello sguardo inquieto sul futuro della civiltà americana avrebbe trovato terribili conferme all’inizio del millennio successivo, aperto all’insegna della paura provocata dalla minaccia del male più perfido e insidioso: il terrorismo. Per la prima volta dai tempi di Pearl Harbour, gli Stati Uniti avevano riportato una ferita talmente profonda da revocarne in dubbio qualunque certezza, risvegliando fantasmi e ombre degne della tradizione figurativa espressionista. Tutta questa angoscia è stata colta dallo scurissimo La 25a ora (2002) del regista afroamericano Spike Lee, il quale, all’indomani dell’attentato al World Trade Center di New York, è stato il primo a riprendere i luoghi della tragedia, riportando il noir a casa; nella città nuda. In quel momento, anzi, più nuda che mai.

Dall’Europa all’America e ritorno

Mentre negli Stati Uniti veniva definito il noir – non senza l’impulso decisivo di autori di formazione, cultura e sensibilità europea, come von Stroheim, von Sternberg, Lang, Siodmak, Wilder, Fuller, Ulmer – e, in seguito, ne erano sviluppate le diverse evoluzioni, alle quali si è accennato, temi e stilemi del nero si diffondevano anche altrove, nello stesso periodo. Tra gli alleati come presso i nemici: in Giappone, Akira Kurosawa realizzò due film dalla poetica noir, L’angelo ubriaco (1948) e Cane randagio (1949), che facevano di Tokyo la protagonista indiscussa della vicenda, almeno quanto New York lo era stata per Dassin. In Italia, nel frattempo, il neorealismo compiva esperimenti paragonabili a quelli nordamericani e tuttavia assolutamente autonomi: basta confrontare Ossessione (1943) di Visconti con Il postino suona sempre due volte (1946) di Garnett per apprezzare in un sol colpo analogie e differenze. Con la Germania, culla del cinema più inquieto, fuori gioco a causa della sconfitta e della spartizione tra i vincitori, fu in Francia che vennero prodotte le opere di maggiore interesse per il percorso intrapreso. Quelle, per così dire, più puramente noir. A H.G. Clouzot si dovettero Il corvo (1943) e Legittima difesa (1947), mentre nel più recente Vite vendute (1953) rivisse piuttosto un gusto realista poetico. Jules Dassin, costretto all’esilio dalla caccia alle streghe condotta da McCarthy, scelse la Francia per realizzarvi lo straordinario Rififi (1955); Grisbi (1954), Casco d’oro (1954) e Il buco (1960) furono il contributo molto personale di Jacques Becker all’euro – noir; Ascensore per il patibolo (1957) di Louis Malle e Asfalto che scotta (1960) di Claude Sautet rappresentano poi altri mirabili esempi di noir alla francese. Ancor più interessante, però, fu il trattamento che il modello nordamericano ricevette in seguito. Dapprima si

assistette a una rilettura dei topoi del noir classico ad opera di quei cineasti – critici, prima ancora che artisti – che avrebbero dato vita alla corrente Nouvelle Vague: rifiutando artificiosità e rigore accademico, acclamarono i modelli dei bmovies statunitensi, che avevano osato scendere per le strade, tra la gente, senza preoccuparsi dello scetticismo dei benpensanti e dell’avversione della censura. Fino all’ultimo respiro (1960) di Godard o Tirate sul pianista (1960) e La sposa in nero (1968) di Truffaut non nascondevano affatto questa simpatia. La rivisitazione in esame avrebbe comunque risentito delle istanze rivoluzionarie che caratterizzarono la seconda metà degli anni ’60 e ciò, in particolare, determinò una certa debolezza nel risultato finale: a differenza di quanto avveniva nei noir classici – e, ancor prima, nei capolavori del realismo poetico – l’insofferenza della Nouvelle Vague era più artistica che esistenziale; talvolta persino troppo artificiosa. Sempre solo teorica. Benché non si possa mettere in discussione l’appassionata adesione dei suoi autori ai movimenti intellettuali e studenteschi che si ripromettevano, in qualche misura, di proseguire la battaglia ideologica e le rivendicazioni socialiste che avevano contraddistinto l’evoluzione del realismo. Un discorso totalmente a sé merita invece l’opera di Jean Pierre Melville, regista che si accostò al modello americano con atteggiamento manierista ma sincera e personale sensibilità, tanto da realizzare alcuni autentici noir: Lo spione (1962) e Frank Costello faccia d’angelo (1967), su tutti. Melville comunque non si limitò ad imitare, sia pure in maniera sublime, ma innovò parzialmente il genere, portando al cinema quella fusione letteraria tra noir e poliziesco che in Francia è divenuta nota come polar: Tutte le ore feriscono … l’ultima uccide (1966) e I senza nome (1970) ne sono un mirabile esempio.

Destrutturazioni nell’assurdo

Oltre alla naturale evoluzione neo – noir, la poetica nera degli anni ’40 venne rielaborata anche ad opera di un diverso e singolarissimo fenomeno cinematografico, consistito nella riorganizzazione – o meglio nella disorganizzazione – dei capisaldi della tradizione e nell’architettura di un universo surreale, riconoscibile almeno quanto un dipinto di Dalí; altrettanto fluido e metamorfico. L’esasperazione del disordine che lo caratterizzò – anche a livello strutturale – divenne, sul piano ideologico, la metafora dell’assoluta carenza di punti di riferimento a disposizione dell’Uomo moderno. Cineasti come Tarantino e i fratelli Coen si sono dedicati a questa rappresentazione del paradossale, facendone la propria cifra stilistica: è a loro che si devono autentiche destrutturazioni nell’assurdo, ottenute mediante lo stravolgimento dell’ordine logico della narrazione e la scomposizione del tempo; ma anche attraverso la moltiplicazione delle prospettive narrative e la prevalenza, anzi la prevaricazione del più improbabile fortuito. Per ottenere l’impressione del caos e, soprattutto, imporla allo spettatore, le opere del genere ricorsero al solito flashback, ma si distinsero anche per l’alternanza dei punti di vista, corrispondenti a personaggi diversi: la conseguenza fu che di certi sviluppi venne proposta addirittura più d’una versione, circostanza che contribuiva a suggerire un’ulteriore riflessione sulla relatività dell’esperienza sensibile. Si è trattato, anche in questo caso, di valorizzare soluzioni già sperimentate: in Rapina a mano armata (1955) Kubrick aveva smontato e ricostruito l’esecuzione della rapina, dando luogo ad alcune ripetizioni; De Palma aveva da tempo studiato lo stravolgimento degli angoli di ripresa; Buñuel, infine, si era già dedicato alla ripetitività ne L’angelo sterminatore (1962) e ne Il fascino discreto della borghesia (1972), approdando in

quest’ultimo estremo lavoro a realizzare una struttura ad incastro, spingendosi a ricorrere al sogno nel sogno. Risultano inoltre evidenti le affinità con le teorie di avanguardia letterarie sostenute dal critico formalista russo Viktor Šklovskij – e, in particolare, con quella dello straniamento – nel saggio L’arte come artificio del 1917. Infatti, già allora era stata compresa, con riferimento alla letteratura, la possibilità dell’autore di «sottrarre l’oggetto [della rappresentazione] all’automatismo della percezione», mostrando aspetti insoliti o imprevisti, nella descrizione della realtà o nello sviluppo fenomenologico, ovvero adottando prospettive bizzarre, come quella degli animali parlanti: il gatto Murr di Hoffmann, il cavallo Cholstomér di Tolstòj, il cane bassotto di Oskar Panizza o quello randagio di Bulgakov. Mentre Brecht concepì la «recitazione straniante», chiedendo agli attori di adottare una prospettiva esterna rispetto a quella dei propri personaggi. Un secolo prima, proprio nelle Considerazioni filosofiche del Gatto Murr, Hoffmann aveva inoltre sperimentato la tecnica della riproposizione del medesimo episodio – si consideri quello relativo alla fuga del maestro Kreisler – presentato ora in maniera identica, ora invece alterata, ora addirittura stravolta. L’effetto finale, ulteriormente complicato dal pluralismo dei punti di vista in cui è articolata la narrazione, corrispondeva, sul piano ideologico, alla concezione romantica dell’esistenza, inevitabilmente enigmatica e sfuggente. Del resto, la frantumazione della coscienza nell’Uomo moderno aveva definitivamente precluso una percezione puramente oggettiva, che abbracciasse l’intero orizzonte della realtà: una descrizione puntuale e minuta di persone, cose e fatti sarebbe risultata del tutto irrealistica, non corrispondente alla effettiva esperienza umana. Anche nel racconto notturno, L’uomo di sabbia, l’autore tedesco fece ricorso ad analoghe tecniche: il sogno di Nataniele, oggetto di analisi da parte di Freud nel saggio Il perturbante, alternò la prospettiva infantile e quella adulta alla

descrizione di tipo oggettivo degli elementi onirici. Persino nella narrazione dei momenti di veglia, alla percezione oggettiva della realtà subentra all’improvviso, spaventosamente, quella soggettiva alterata e disturbata. Proprio ciò che avrebbe caratterizzato anche il cinema espressionista tedesco, proteso a cogliere e a mostrare attraverso diverse tecniche visive – su tutte la deformazione scenografica – il turbamento interiore dei personaggi. Un altro antecedente letterario significativo è il romanzo sperimentale moderno, una delle cui peculiarità principali è il time shift, l’alterazione cronologica; cioè una ricostruzione degli eventi che procede avanti e indietro, simile a un pendolo, sovvertendo la linearità della cronologia convenzionale. È quanto avrebbe fatto Conrad nel suo Lord Jim, definendo quel particolare procedimento narrativo in termini di chronological muddlement, un’espressione che suggerisce una parentela con la pulp fiction. Infatti, il genere della destrutturazione nell’assurdo è caratterizzato da un confezionamento innovativo e originale, adeguato alle esigenze di un pubblico nuovo, diverso da quello degli anni ’20 o ’40. Ne derivò uno stile che si può definire appunto pulp. Ma cos’è il pulp? Tra gli altri significati, il termine indica anche una «materia informe» o una «pubblicazione dal contenuto sconveniente»; il cinema in esame corrispose certamente a entrambi i significati. Fu individuato da un montaggio tale da imprimere un ritmo incalzante, anzi frenetico alla narrazione, dal compiaciuto sadismo e dall’insistenza nel mostrare immagini di violenza gratuita o sesso esplicito, dall’utilizzo di espressioni gergali, spesso volgari, evoluzione estrema della sperimentazione letteraria hard boiled alla quale avevano già attinto sia il noir classico sia, ancor prima, la screwball comedy. Un magma informe, insomma; pulp come muddle, letteralmente «confusione, pasticcio, scompiglio».

Eppure, sarebbe riduttivo considerare l’influenza di Conrad sul cinema della disperazione – nel più ampio percorso di ricostruzione dell’evoluzione culturale alla quale anche quest’ultimo appartiene – solo dal punto di vista tecnico. La sua giungla, quella di Cuore di tenebra, si animava come il Moloch di Lang e come la città di Dassin; fu, in un certo senso, il modello della giungla d’asfalto, l’infernale e metamorfico scenario della presa di coscienza degli orrori dell’età moderna. Conrad, del resto, era rimasto a propria volta folgorato dal mito della disobbedienza di Rimbaud, del cui Il battello ebbro Cuore di tenebra costituisce una prosa: analoga la discesa fluviale, analogo l’approdo. La scoperta sconcertante degli abomini prodotti dalla insaziabile brama di potere e di ricchezza della società industriale occidentale, del colonialismo di una civiltà disposta a travolgere tutto e tutti lungo la strada verso la propria definitiva affermazione; la globalizzazione. Insomma, la stessa scoperta che destò l’indignazione di Gauguin nei confronti della «società governata dall’oro» e «della lotta europea per il denaro» al punto da ergersi in difesa degli spazi selvaggi dei Māori, di fronte all’arrogante pretesa dei missionari di imporre le convenzioni culturali e morali dell’Occidente. Spazi simili a quelli di Non è un paese per vecchi (2007): ben altro rispetto alla frontiera, vergine e selvaggia, immune dall’astuta e infida corruzione che aveva avvelenato la spietata e irrequieta metropoli. Se dunque anche questo cinema più recente si trova in continuità con una riflessione iniziata ben prima della sperimentazione cinematografica stessa, è comunque innegabile che il successo dei film pulp attesta un mutamento incessante nei gusti dello spettatore, sempre più attratto dalla contemplazione di una realtà che in passato non veniva mostrata, poiché considerata offensiva, scabrosa, persino proibita.

Il pulp divenne così il trionfo della libertà di espressione – ai limiti (anzi oltre) del politicamente corretto, delle ipocrisie censorie e, talvolta, pure del buon gusto. E risulta, in questo senso, un altro legittimo figlio della rivoluzione realista intrapresa da Courbet. Fu proprio assecondando questa libertà, che i suoi autori si spinsero attraverso la soglia dell’assurdo e connotarono i propri film con l’attenzione solenne verso aspetti del tutto marginali dell’esistenza umana; anche questa era una delle tecniche dello straniamento. Al contempo, i concitati dialoghi sul nulla diventavano il termometro di una società sempre più disumanizzata, incapace di riflettere sulla propria autentica natura e sul senso intimo dell’esistenza, perché distratta da mode e capricci, futili e totalmente inconsistenti. Resta la cura della componente letteraria nella sua versione più colloquiale, quale comune denominatore rispetto alle altre manifestazioni del cinema della disperazione: non solo il noir classico, ma anche il neorealismo italiano, con il suo tipico impiego del dialetto. Un utilizzo ispirato alla tradizione letteraria verista di Verga e condivisa dall’epica linguistica del Berlin, Alexanderplatz di Döblin, autentico monumento al caratteristico modo di parlare dei berlinesi e, più in generale, alla reale polifonia della capitale tedesca. Quanto alla struttura – anzi, la de struttura – appare chiara la vocazione sperimentale e avanguardista di questo genere di film; un’intenzione riconosciuta e ripagata dalla critica: Pulp fiction ottenne la Palma d’oro a Cannes e l’Oscar per la migliore sceneggiatura nel 1994; Fargo vinse l’Oscar per la miglior sceneggiatura l’anno seguente, mentre nel 2007 lo stesso premio venne attribuito a Non è un paese per vecchi. I premi non corrispondono affatto al merito delle opere – basta pensare che Hitchcock ne vinse uno solo e ricordare le immortali parole di Baudelaire: «in un premio ufficiale c’è qualcosa che ferisce l’uomo e l’umanità» – nondimeno essi attestano che, attraverso un consolidato riconoscimento, la sperimentazione era divenuta infine genere.

Film manifesto della destrutturazione nell’assurdo, Pulp fiction (1994) di Quentin Tarantino, recava già nel titolo tanto l’ambizione di innovare, quanto il legame alla tradizione noir. L’espressione pulp fiction, infatti, potrebbe quasi sovrapporsi a quella hard boiled, dal momento che alcuni dei capisaldi della corrente letteraria vennero pubblicati a puntate su riviste come Black Mask, definite appunto pulp magazines, per via della particolare carta di cui erano composte, più spessa, ruvida e ingiallita di quella ordinaria, ma soprattutto più economica, poiché ricavata dagli scarti del materiale impiegato nella produzione di quest’ultima. Un dato storico che conferma il carattere di serie B che ha accomunato, sia in campo editoriale sia in campo cinematografico, la produzione di opere di gusto noir. Quanto ai contenuti delle riviste pulp degli anni ’30 e ‘40, anche ciò che non poteva essere qualificato come hard boiled, presentava comunque tratti di durezza, violenza e oscenità affini a quelli che caratterizzavano le detective stories. È curioso constatare al riguardo che ricorrevano, in particolare, ibridi nati dalla fusione di più generi – come i c.d. weird western, nei quali i pistoleri fronteggiavano mostri e alieni – e racconti western puri, ad ulteriore riprova dell’ambiguo rapporto che portò questo genere e il noir a viaggiare parallelamente. La caratteristica immediatamente percepibile della messa in scena è il contrasto, che si manterrà costante, tra forma e contenuto: il trattamento dei momenti che precedono una rapina in pieno giorno presso un affollato caffè non evidenzia affatto l’eccezionalità della situazione e tantomeno sottolinea l’adrenalina e la tensione che sarebbe lecito immaginare provino i malviventi appena prima di entrare in azione; nessun crescendo di suspense, perseguito attraverso la continua modulazione delle riprese e un montaggio sempre più frenetico pur di scandire il conto alla rovescia verso il momento fatale. Tutto al contrario: il ritmo narrativo (la forma) non varia minimamente in funzione dello sviluppo (il contenuto). Del resto, anche dall’atteggiamento dei personaggi

non proviene alcun segnale drammatico: stanno per intraprendere un pericoloso crimine e si perdono a conversare con calma olimpica circa questioni metasociali! In altre parole, l’atmosfera che Tarantino delineò attraverso questa messa in scena – calata all’interno di una scenografia luminosa e rassicurante, distantissima dalle spaventose deformazioni espressioniste o dai bui viottoli noir – e con i suoi dialoghi – che sembrerebbero tratti da una tranquilla, sia pure colorita disquisizione da salotto – è concettualmente incompatibile con la tragicità dell’evento che si accingeva a suggerire. Pertanto, sebbene Pulp fiction nella migliore tradizione noir si presentasse come un film sul delitto (il contenuto), era altresì evidente che esso avesse inaspettatamente deciso di assumere i toni della satira (la forma): una formula inconsueta, ripetuta subito dopo allorché due sicari, sul punto di compiere un’esecuzione a sangue freddo, impegnavano il tempo a dibattere di cibo e di sesso; come se dirimere le divergenze su simili questioni fosse stato più urgente che affrontare i rimorsi della coscienza. Giacché né la rapina, né l’esecuzione vennero minimamente suggerite nel corso delle riprese che le precedettero, il loro verificarsi costituì uno sviluppo improbabile, quasi impossibile, di sicuro assurdo. Un contrasto efficacissimo per ironizzare sulla disumanizzazione e sulla indifferenza nei confronti della violenza che hanno contagiato la società moderna. L’assurdità dell’andamento non possedette solamente valore metaforico, ma assolse anche a una precisa funzione drammatica: le aspettative dello spettatore sarebbero state continuamente disattese e di conseguenza ne sarebbe risultata esaltata l’imprevedibilità del racconto che in effetti rappresenta una costante del film. Tarantino si divertì a ideare le più improbabili situazioni attraverso cui suscitare un’impressione quasi insopportabile di urgenza, mentre i suoi personaggi continuavano a perdersi in chiacchiere e ad agire come se non avvertissero minimamente il peso del destino profilato all’orizzonte.

La caratteristica più evidente della destrutturazione tarantiniana fu quella che travolse la linearità cronologica dello sviluppo: gli eventi vennero rimescolati senza alcuna logica apparente; un paio di episodi furono persino interrotti a metà e solo in seguito conclusi e il film si aprì e si concluse nello stesso luogo e nel medesimo momento. Tarantino disegnò così un cerchio, simbolo di perfezione e di finitezza solamente apparente, già utilizzato dalla satira surrealista per mettere alla berlina l’inconcludenza borghese e adottato dall’espressionismo tedesco, sotto forma di spirale, come simbolo di disordine e perdizione. Ma anche la destrutturazione cronologica andò oltre alla mera valenza allegorica, ambendo a dimostrare una tesi artistica, quella cioè che è possibile intrattenere e avvincere il pubblico moderno anche infischiandosene delle teorie aristoteliche della rappresentazione: era il trionfo della forma espressiva rispetto al contenuto.

Il cinema della disperazione in Italia. Nella tradizione realista

Risulta a questo punto opportuno svolgere qualche considerazione anche rispetto all’esperienza italiana e, in particolare, al movimento neorealista, un’introduzione al quale non può iniziare se non, ancora una volta, dal nome stesso. Il termine neorealismo fu inizialmente impiegato dalla critica letteraria, [Arnaldo Bocelli nel 1931] dopo la pubblicazione de Gli indifferenti di Alberto Moravia, a spese dello stesso autore, il quale di certo non avrebbe potuto trovare alla vigilia del decennio fascista un editore disposto a investire nel suo progetto. Perché il romanzo di Moravia, come avrebbe ammesso anche lo scrittore dopo il crollo del regime,

possedeva una «certa quantità di pessimismo», esprimendo «una critica abbastanza acerba di una data società», quella borghese che con passività – e sì, persino con indifferenza – aveva accettato l’ascesa del totalitarismo. Il romanzo di Moravia costituì un passaggio cruciale nell’evoluzione del panorama culturale italiano: esso recepì alcuni dei modelli dell’ottocentesco processo di revisione critica della società borghese, adeguandone il pensiero alla realtà del nostro Paese. Elaborando quello che sarebbe divenuto uno schema ricorrente della sua poetica – vale a dire il confronto tra una collettività priva di autocoscienza e un individuo consapevole eppure incapace di ribellarsi al modello che gli veniva imposto da questa – immaginò una coscienza franta in due opposti, espressi dai protagonisti della vicenda, fratello e sorella. Alla incapacità di adeguamento di Michele, divorato da un desiderio di ribellione destinato a rimanere insoddisfatto, si contrapponeva la resa di Carla, la rinuncia a qualunque forma di resistenza – «la vita era quel che era, meglio accettarla che giudicarla» avrebbe detto lei – atteggiamenti entrambi destinati a soccombere rispetto alle macchinazioni di Leo, incarnazione della imperturbabile morale borghese, protesa a raggiungere ad ogni costo e con qualunque mezzo il profitto, guidata dalla spietata logica dell’utile, sotto gli occhi di una madre che perlopiù «sorrideva stupidamente». All’interno di questo intreccio, Moravia fece confluire molti dei capisaldi della tradizionale polemica antiborghese, a cominciare proprio dalla frantumazione della coscienza dell’Uomo moderno espressa dal fenomeno dissociativo de Il sosia dostoevskiano. Una delle due coscienze – quella di Michele, antieroe destinato a restare insoddisfatto – è caratterizzata dall’impotenza: la sua incapacità di tradurre il proposito di rivolta in azione richiamava il Flaubert de L’educazione sentimentale. Ma ancora più evidente era l’analogia con l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, poiché i ripetuti tentativi di affrontare Leo, mediante un insulto inefficace, uno schiaffo mancato, il lancio inesatto di un

posacenere e il colpo di una rivoltella scarica, corrispondevano ai disperati ma goffi sforzi del personaggio russo di soddisfare un insopportabile desiderio di rivalsa nei confronti dell’ufficialetto che lo aveva trattato con sdegnosa indifferenza – «per quanto io mi preparassi, per quanto cercassi di confermarmi nella risoluzione presa, tanto che, ecco, questa volta sembrava proprio che ci saremmo scontrati, ebbene all’ultimo momento io tornavo a cedergli il passo e lui se ne andava senza neppure accorgersi di me». E siccome il gesto di ribellione non si perfezionava, veniva ossessivamente ripetuto; esattamente come sarebbe capitato nei capolavori di Buñuel, in cui il regista spagnolo mise alla berlina con sadico sarcasmo l’incapacità borghese di appagare i propri appetiti: Estasi di un delitto (1955) Il fascino discreto della borghesia (1972). Non solo, ma alla realizzazione del proposito si venne a sovrapporre, fino a prevalere, il gusto per la fantasticheria: un vero e proprio bovarismo, condiviso anche dall’uomo del sottosuolo, il quale parlando della propria rivincita sosteneva «quest’idea temeraria a poco a poco mi dominò talmente da togliermi la pace. Ci pensavo continuamente, con passione, e cominciai a recarmi più spesso sul Nevskij proprio allo scopo di immaginarmi più chiaramente come sarebbero andate le cose il giorno che avessi agito». Quanto all’altra metà di quella coscienza divisa, il pragmatismo di Carla di riparare la propria situazione accettando un decoroso matrimonio borghese, per nascondere sotto un’apparenza di decenza la «sudicia avventura» nella quale era precipitata, condusse a un lieto fine solo apparente, del cui carattere consolatorio Moravia si prese gioco come Murnau aveva fatto nell’epilogo de L’ultima risata (1924). Proprio mentre il cinema di regime si impegnava a diffondere entusiastica fiducia nelle istituzioni fondamentali della società borghese – alimentando quel sorriso stupido che sembra essere la sola caratteristica comune a tutti i personaggi de Gli indifferenti – lo scrittore ne evidenziò l’ipocrisia, nel solco della già richiamata tradizione che, attraverso Ibsen e Strindberg, aveva portato anche a La moglie ideale di Marco

Praga. Il sacrificio della ragazza era lucido, ma necessario: solo con un matrimonio conveniente ella avrebbe potuto assicurare un avvenire anche alla madre e al fratello – esattamente come la sorella di Raskol’nikov si riprometteva di fare in Delitto e castigo. Ma in tutto questo Moravia non colse nulla di eroico, al contrario. Del resto, il romanzo non si limitò ad attaccare le convenzioni matrimoniali, ma realizzò un catalogo dei più ricorrenti luoghi comuni nel modo di pensare e di conversare della borghesia mondana; un vero e proprio sciocchezzaio flaubertiano adattato alla società fascista italiana. La fotografia della realtà borghese venne condotta dallo scrittore con atteggiamento saggistico perseguendo una fedeltà al vero che dovette apparire repellente allo stesso autore, il quale tuttavia svolse in tale maniera un esame di coscienza che lo avrebbe condotto alla piena consapevolezza: «essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso, Gli indifferenti furono un modo per farmi rendere conto di questa mia condizione». E, in effetti, il realismo di Moravia è appunto un realismo psicologico, come lo erano stati anche quelli di Flaubert e di Dostoevskij. È interessante comunque notare che l’espressione neorealismo sia stata utilizzata per la prima volta proprio con riguardo a Gli indifferenti, sebbene il romanzo – pur ponendo le premesse per l’avvento del fenomeno cinematografico che, in seguito, avrebbe reso celebre nel mondo quel medesimo termine – non avesse anticipato alcuno dei tratti tipici dei film degli anni ’40. Se non, ovviamente, l’avversione per le apparenze borghesi che erano state celebrate dalla stagione dei telefoni bianchi. A cominciare dall’atteggiamento dello stesso artista: Moravia, infatti, precisò che il suo intento originario non era affatto «né di criticare una società né manifestare idee e sentimenti pessimisti. […] La questione importante, al tempo che componevo quel mio primo romanzo, era di fondere la tecnica del romanzo con quella del teatro, questione – come si

vede – del tutto letteraria». Al contrario, i registi del movimento neorealista ebbero un approccio ispirato all’ideale gramsciano dell’intellettuale organico, preferendo – piuttosto che occuparsi di mere e astratte questioni di forma – «mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore», confondendo la propria voce e il proprio occhio con quelli dei loro personaggi, rappresentanti di un’umanità che doveva essere raccontata al mondo e sostenuta a livello ideologico e politico con tutte le forze di cui il cinema disponeva. Anche a costo di scontrarsi con il potere democristiano che sarebbe in breve salito al governo. Ma questa considerazione deve essere letta alla luce della giusta definizione che Calvino diede del neorealismo in termini di «atmosfera legata agli anni ’40», un’esperienza cioè che appena un decennio prima, in pieno fascismo, non sarebbe stata in alcun modo sperimentabile. Risulta inoltre significativo, peraltro, che nel 1933 gli intellettuali fascisti della rivista L’universale adottarono un Manifesto realista, invocando il contributo della cultura italiana alla «rivoluzione fascista», anche attraverso manifestazioni di dissenso e di polemica nei confronti dell’evoluzione borghese e capitalistica che il partito aveva intrapreso tradendo le aspettative generate dal «primo fascismo», movimento rivoluzionario fondato sulla valorizzazione della cultura popolare e sul perseguimento di obiettivi sociali. Ancora una volta, quindi, delusione e inquietudine rispetto all’ideologia egemone – sentimenti manifestati in particolare dai così detti fascisti di sinistra, la cui base sociale erano soprattutto i reduci della prima guerra mondiale che avevano intravvisto nelle origini rivoluzionarie del fascismo il riscatto dalla grave condizione di miseria e di iniquità in cui era sprofondato il Paese – si ripromisero di adottare la forma espressiva del realismo, confermandone la vocazione alla denuncia e alla polemica.

Proprio partendo da questa posizione, Elio Vittorini – il quale aveva collaborato con Il Bargello, settimanale della federazione fascista di Firenze – aveva sviluppato il romanzo pubblicato a episodi tra il ’33 e il ’34 Il garofano rosso, in seguito vietato dalla censura, e quindi Conversazioni in Sicilia, traendo ispirazione quanto a temi e ambientazione da Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro. Le loro opere, insieme a Fontamara di Ignazio Silone, diedero primario rilievo alla questione meridionale nella letteratura indipendente degli anni ’30, rispetto alla quale La terra trema (1948) di Visconti si sarebbe posta in continuità. Una letteratura riscoperta e presa a modello proprio dalla critica di sinistra del dopoguerra – come dimostra la definizione di Fontamara data da Luigi Russo su l’Italia socialista del 10 giugno 1948: «il poema epico – drammatico della plebe meridionale»; un romanzo ispirato a I Malavoglia di Verga, soprattutto per la coralità del racconto, svolto attraverso una prospettiva interna al mondo rappresentato, adottando ogni volta il punto di vista di un personaggio diverso, ma arricchito già, dieci anni prima del capolavoro viscontiano, di una precisa rivendicazione politica. Scritto in esilio a Davos, allo scopo di testimoniare le reali condizioni del popolo italiano, il romanzo di Silone venne apprezzato in Germania dove però non fu pubblicato a causa dell’avvento del nazismo; quindi venne stampato a Zurigo e qui tradotto in diverse lingue, mentre la pubblicazione in italiano fu realizzata dall’autore, a proprie spese, presso una tipografia di emigrati italiani a Parigi. La diffusione e, in un certo senso, il clamore di quest’opera autenticamente neorealista non furono comunque tali da eguagliare quelli di alcuni successivi omologhi cinematografici. E, infatti, il termine neorealismo si è legato più strettamente al cinema che non alla letteratura, proprio perché furono i film neorealisti a destare maggiore interesse, soprattutto a livello internazionale. In ambito cinematografico, il termine prese a essere utilizzato dal momento dell’uscita di Ossessione (1943), film

di Visconti ispirato al romanzo Il postino suona sempre due volte dello scrittore hard boiled James Cain. Se la comune radice letteraria suggerisce immediatamente una parentela con il coevo noir americano, l’espressione neorealismo impone di considerare le opere dei cineasti italiani in stretto rapporto con quelle dei colleghi francesi realizzate prima dell’occupazione nazista. Non solo, ma – allargando lo sguardo alle altre forme artistiche – esso suggerisce altresì di valutare i film in questione alla luce dell’evoluzione stessa del movimento realista. E, d’altra parte, il vissuto di Visconti si presta a una comparazione con quello di Courbet, alla scoperta di impensabili analogie a distanza di un secolo l’uno dall’altro. Nel 1848, infatti, Gustave Courbet concepì Funerale a Ornans, uno dei capolavori del realismo pittorico. Il dipinto venne esposto al Salon del 1851 ma successivamente fu rifiutato dalla giuria della Prima Esposizione Universale del 1855. In segno di protesta, Courbet allestì a proprie spese, poco distante dalla sede della manifestazione accademica, un Pavillon du Réalisme, dove esibì quarantaquattro creazioni. Per l’occasione, realizzò insieme al critico Jules – Antoine Castagnary un catalogo delle proprie opere, nel quale rivendicava un innovativo credo artistico: «Sapere per potere, questa fu sempre la mia idea. Essere capace di rappresentare i costumi, le idee, l’aspetto della mia epoca […]». Qualche anno più tardi, nel 1861, quando ormai lo scandalo legato alla sua rivoluzionaria poetica si era tramutato in diffusa ammirazione, Courbet, attraverso una lettera pubblicata dal Courrier du Dimanche, puntualizzò che «la pittura è un’arte essenzialmente concreta e che può consistere soltanto nella rappresentazione delle cose reali ed esistenti». Inoltre, ribadì ulteriormente che essa consiste nell’applicazione delle «facoltà personali [dell’artista] alle idee dell’epoca in cui vive». Professando la totale immersione dell’intellettuale nella realtà del suo tempo, Courbet manifestò una concezione che sarebbe stata espressa anche dall’amico, poeta e critico Charles Baudelaire, il quale vi si dedicò nella raccolta di brevi saggi

intitolata Il pittore della vita moderna, sostenendo che la bellezza non può essere circoscritta entro canoni classici e immutabili – quelli definiti da Winckelmann – ma deve essere cercata e scoperta anche nell’inarrestabile mutamento della sensibilità e della moda, ed esortando di conseguenza l’artista a eternare l’istante in cui essa gli si manifesta. Ma fu soprattutto l’attenzione per le «cose reali ed esistenti», persino quelle ordinarie, mediocri o squallide, l’aspetto più significativo e al tempo stesso maggiormente sconcertante della rivoluzione intrapresa da Courbet: una rottura decisa rispetto all’eroismo romantico di Eugène Delacroix e alla purezza neoclassica di Jean-AugusteDominique Ingres, ma perfettamente in linea con una tradizione figurativa che, da Caravaggio in avanti, si era sviluppata all’insegna della naturalezza, nel rifiuto dell’idealizzazione. Secondo un sentire che era stato condiviso dal romanticismo letterario di Wordsworth, il cui interesse ricadde programmaticamente sulla vita quotidiana degli umili, e di Hugo, che considerò il grottesco e il deforme tratti distintivi dell’arte moderna. Incidentalmente è curioso constatare che si trattò della medesima contaminazione che avrebbero condiviso anche i grandi rivoluzionari della musica d’arte a cavallo tra la seconda metà del XIX secolo e la prima del XX, vale a dire Gustav Mahler e Igor Stravinskij. Lo ha sottolineato Massimo Mila in uno scritto del 1982, intitolato Petrushka primo amore: «di Petrushka, il non plus ultra del moderno ci pareva quel passo del primo quadro dove flauto e clarinetto, imitando il suono di un organetto sopra il rintocco tintinnante del triangolo, intonavano la melodia sgangherata di una canzonaccia da strada […]. Ne facevamo il manifesto di una nuova poetica: la Musica doveva essere tirata giù dal suo Parnaso e scendere in strada a conversare con gli uomini, a divertirli, a giocare con noi tra i baracconi e le giostre di carnevale. Non sapevamo allora che la rengaine parigina di Petrushka non era il primo caso di assunzione di materiali vili nella musica d’arte […]. Non sapevamo che Mahler aveva

inzeppato le nobili tele delle sue Sinfonie di canzoni popolari e di ballabili da strapazzo, di jodel, di segnali da caserma, di campanacci delle mucche e marce funebri di terz’ordine per funerali di pompieri». È evidente, dunque, che la rivoluzione di Funerale a Ornans non fu priva di modelli né di epigoni e si pose, di conseguenza, come un passaggio cruciale nell’evoluzione dell’arte in direzione realista. Come i romanzi campestri di George Sand e i dipinti agricoli di Jean-François Millet e Jules Breton, a lui coevi, Courbet si ispirò all’ambientazione della pittura contadina dei fratelli Le Nain, che due secoli prima avevano svelato, senza l’ipocrisia dell’arte di Corte, la monotonia della vita nella provincia francese. Scelse un episodio di vita quotidiana, attingendo a quella Commedia umana catalogata da Balzac e, successivamente, studiata a fondo da Zola, ponendo la propria poetica figurativa in linea con le aspirazioni della letteratura naturalista francese. Di Zola – e in particolare de L’ammazzatoio – anticipò la cupezza nei toni narrativi, traendo a propria volta spunto dalla tavolozza di Velázquez e di Rembrandt. Adottò un andamento allungato e una struttura priva di tensione – a differenza delle composizioni dense di significato di Delacroix – perseguendo deliberatamente l’impressione dell’incompletezza: i quattro margini interrompono bruscamente la rappresentazione, con la conseguenza che sembra di vedere una fotografia scattata senza alcun preavviso. Courbet cioè teorizzò nell’arte figurativa naturalezza e spontaneità, guardando alle sperimentazioni di Frans Hals in materia di fisiognomica e, ciò che più conta, indicando una strada che sarebbe stata imboccata non soltanto dagli impressionisti – si pensi al dipinto di Degas, Bureau de coton à la Nouvelle Orléans – ma anche da Nadar, impegnato a affrancare la fotografia da pesanti allestimenti e estenuanti tempi di posa, paragonabili a quelli della tradizionale pittura di ritratto. La mancanza di un disegno unitario della messa in scena, legata all’assenza di un particolare intento celebrativo o

narrativo, stridette ancor di più a confronto con la spiccata caratterizzazione di ciascun personaggio. Un’attenzione scandalosa, dal momento che nessuno di loro possedeva qualità eccezionali: un puntiglio fine a se stesso, attesa l’insussistenza di un messaggio trascendente la mera rappresentazione di un episodio del tutto irrilevante. Una decisione provocatoria e rivoluzionaria, nel contesto romantico in cui Courbet operava, ma perfettamente coerente con le conquiste ottenute, prima di lui, da Caravaggio e, in seguito, dagli impressionisti. Se un dipinto privo di un disegno morale era già di per se stesso provocatorio, perfino oltraggiosa dovette risultare per gli accademici la negazione del disegno anche sul piano tecnico, inteso cioè quale strumento di definizione esatta – quanto irrealistica – delle forme. L’ennesima scelta rivoluzionaria attuata da Courbet in Funerale a Ornans e destinata a influenzare ogni successiva tendenza realista: non c’è linea di contorno a porre su piani distinti i personaggi e il paesaggio, la cui reciproca interazione è espressa ricorrendo a colori naturali, non ridotti a riempire preesistenti lineamenti ma esaltati a viva sostanza. Anche in ciò è evidente l’influenza della depurazione dell’arte da ogni elemento ideale e innaturale intrapresa già da Caravaggio. L’opera di Courbet, tuttavia, non può essere pienamente compresa senza tener conto della sua particolare educazione, fondata sulle memorie dirette della Rivoluzione dell’89 vissuta dai nonni, uno giacobino, l’altro babuvista, e della sua adesione alle idee repubblicane. Nondimeno, pur essendo uno dei più politicizzati artisti del secolo, non fu narratore di vicende politiche né si dedicò a tematiche esplicitamente militanti: non per questo, però, risultò meno rivoluzionario e scomodo agli occhi dei benpensanti. L’insofferenza e la ribellione artistica di Courbet – che a livello politico avrebbe comunque preso attivamente parte alla stagione della Comune di Parigi – si esplicarono più nelle scelte formali che in quelle contenutistiche. In Funerale a Ornans si trattò della decisione di ritrarre persone vere anziché modelli, tanto che fu possibile distinguere il sindaco del paese e sua figlia, il vicepretore, il parroco, il becchino, le sorelle e la madre del pittore, nonché il

medesimo Courbet. E, soprattutto, quella di ricorrere a canoni stilistici (come le dimensioni a grandezza naturale) tradizionalmente riservati ai temi religiosi e storici. Insomma, il socialismo di Courbet si manifestò appunto nell’attribuzione alla vita contadina di provincia, priva di qualunque tensione drammatica, la stessa dignità dei soggetti prediletti dall’Accademia, facili alla idealizzazione. Cent’anni dopo il concepimento di Funerale a Ornans, Luchino Visconti diresse La terra trema (1948), adattamento cinematografico del romanzo di Verga, I Malavoglia. Si trattò di uno dei più arditi esperimenti del movimento neorealista italiano, inaugurato dallo stesso regista con Ossessione (1943). Prima ancora della sua uscita, il film sollevò molte critiche proprio per la crudezza della rappresentazione, dalla quale rischiava di trasparire un’immagine ingiuriosa della Sicilia e dei suoi abitanti. Un articolo apparso sul numero del 4 maggio 1948 del Giornale dell’isola riportò la protesta della Associazione “Pro Catania”: «Il comunista Luchino Visconti odia probabilmente la spiccatamente anticomunista Sicilia, ma non piace affatto ai siciliani, i quali esigono che chi ne ha competenza proceda agli accertamenti del caso e prenda, eventualmente, provvedimenti adatti ad evitare l’ignobile speculazione». Lo stesso giorno, su La Sicilia, un altro articolo sottolineò che, alla luce della eccessiva insistenza su condizioni di miseria e squallore della vita dei pescatori, «il realismo, artisticamente parlando, ci guadagna; la verità ci scapita». Un secolo prima erano state contrapposte bellezza classica e modernità, in seguito entrarono in conflitto verità e realismo: due termini che, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare superficialmente, non coincidono affatto, come dimostrò proprio l’arte realista, la quale, abbandonando i dogmatismi religiosi e storici per aprirsi alla contemporaneità, costrinse gli artisti a confrontarsi con una materia informe, non ancora solidificata dal tempo. Il realismo consiste appunto nell’osservazione del reale, alla scoperta della verità, del senso. Una scoperta che passa attraverso l’interpretazione

personale. Sicché, mentre il reale può essere studiato e misurato, la Verità resta inarrivabile o – sarebbe meglio dire – relativa anziché assoluta. Nondimeno essa ha esercitato un richiamo sempre più irresistibile attirando gli artisti dalla mera osservazione dei fenomeni naturali e umani alla ricerca del loro significato, dello spirito, dell’intima natura. E il realismo si è arricchito di più esplicite sfumature ideologiche e politiche. Insomma, dopo la prima rivoluzione – quella che ha sancito l’imposizione del reale sull’ideale – è occorsa una seconda rivoluzione che, rimanendo nel solco realista scavato dalla precedente, ha perseguito la verità. È stata questa l’aspirazione delle avanguardie a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, in un periodo storico ed intellettuale straordinariamente drammatico, nel corso del quale con la fotografia giungeva a compimento il processo di autentica riproduzione dell’apparenza reale, mentre con la psicanalisi venivano spalancate le porte allo studio di quanto è nascosto dietro tale apparenza (dando finalmente attuazione a spunti suggeriti sin dai preromantici). La tragedia della guerra e le rivoluzioni proletarie posero interrogativi irrisolti, che produssero opposte reazioni: ora una fuga verso l’astrattismo ora una nuova oggettività. In entrambi i casi scoprire la Verità divenne l’aspirazione dell’arte spontanea. In una comunicazione della casa di produzione AR. TE. AS. Film all’Ufficio Centrale per la Cinematografia, del 7 novembre 1947, erano stati spiegati in questi termini intenzioni e metodo del progetto de La terra trema: «il regista e i suoi collaboratori si propongono di far conoscere attraverso il film, che ha un carattere squisitamente documentario, gli aspetti più salienti e caratteristici della vita e dei costumi della regione siciliana e, a tal fine, quasi tutte le riprese del film saranno realizzate nelle città e nelle zone più tipiche dell’isola. […] Queste sono le linee direttive del film che, come ben si comprende, si affida totalmente alla verità e alla efficacia delle immagini della vita di tutti i giorni, quale si svolge nell’Isola, senza l’imposizione di schemi narrativi arbitrari o retorici». E,

ancora, il subentrato produttore D’Angelo replicò così alle polemiche sul film, in una lettera pubblicata su La Sicilia, del 13 maggio 1948: «il popolo siciliano è troppo intelligente per non rendersi conto che in ogni rappresentazione le scene di eroica sublimità grandeggiano se hanno accanto scene in cui è illustrata la miseria e la meschinità degli uomini. È da questo insieme che il quadro risulta armonico, vero, efficace, convincente e commovente. Proprio per raggiungere questo “tono” di autenticità, sono stati aboliti dal film gli attori professionisti, le ricostruzioni architettoniche in teatro di posa e il parlato letterario, ma si è invece voluto espressamente realizzare tutto il film in ambienti “veri” tanto per gli esterni come per gli interni, con attori scelti tra gli abitanti del luogo, e si è voluto che il loro linguaggio fosse il classico dialetto siciliano con la bellezza caratteristica delle sue cadenze e della sua musica». Nonostante le rassicurazioni e, soprattutto, la vittoria del Premio Internazionale alla IX Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, le polemiche continuarono, già dalla prima proiezione al Lido. Francesco Rosi, allora aiuto regista, ricordò in argomento: «erano i momenti in cui i governanti democristiani si scagliavano contro il cinema italiano perché, anziché lavare i panni sporchi in casa, li portava fuori, alla luce del sole e all’estero. Il film provocò un putiferio. Urla, fischi, proteste d’ogni genere e insulti personali a Visconti». D’altra parte, l’onorevole Andreotti, allora Sottosegretario di Stato, avrebbe scritto su Libertà, a proposito del più neorealista dei film di Vittorio De Sica, Umberto D. (1952): «se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio al suo Paese». In Francia, poco più di dieci anni prima, la medesima sorte era toccata ad uno dei manifesti del realismo poetico: Il porto delle nebbie (1938). Un editoriale apparso su Le Petit journal in data 8 luglio 1938 lamentò che «il più prestigioso dei premi

del cinema francese, il Prix du Ministère, [fosse stato] attribuito ad un film – certamente ricco di qualità artistiche – ma affatto particolare. Un film noir, un film immorale e demoralizzante, il cui effetto sul pubblico può essere solo dannoso». Da queste considerazioni emergono sconcertanti analogie tra l’esperienza di Visconti e quella di Courbet, con riferimento sia alle intenzioni degli artisti, sia alle reazioni suscitate dalle loro opere: il ricorso a persone vere, anziché ad attori o modelli professionisti; l’attenzione rivolta ad episodi di vita quotidiana contemporanea senza alcuna idealizzazione; l’intenzione di rottura rispetto all’arte ufficiale; il desiderio, anzi l’esigenza personale dell’artista di realizzare quella specifica opera, pure in mancanza di una vera e propria committenza. Tutte queste caratteristiche, già analizzate in Funerale a Ornans, ricorrono ne La terra trema per realizzare la quale anche Visconti mediò tra modelli del passato, come Verga (al quale si ispirò non solo per lo spunto narrativo ma anche per il linguaggio anti – letterario) e come Jean Renoir, del quale fu assistente ai tempi della stagione realista poetica francese, e una concezione individuale di modernità: rispetto al distacco de I Malavoglia, la rilettura in chiave progressista della lotta per la vita, condotta non più soltanto contro il Fato, ma altresì contro i soprusi dei potenti, determinò ne La terra trema maggiore partecipazione dell’autore alle disavventure degli sfortunati protagonisti e soprattutto la sovrapposizione rispetto ai fatti narrati di un commento curato dallo stesso regista che vi affidò la propria polemica politica. Mettendo in pratica i principi teorizzati da Gramsci nei Quaderni del carcere, Visconti intrecciò la propria voce con quelle dei personaggi, sentendosi pienamente coinvolto al loro fianco nella lotta per la vita. Quel pessimismo che aveva impedito a Verga di abbracciare gli ideali del giovane socialismo, si era ormai definitivamente tramutato in appassionato attivismo, anche sull’esempio degli intellettuali tedeschi del Novembergruppe.

Anche Visconti, proprio come Courbet, avvertiva un’urgenza personale di completare il progetto, al punto che non esitò, finiti i finanziamenti del Partito comunista nel quale militava, a ricorrere a risorse personali e, infine, a rivolgersi persino a un produttore filocattolico. In entrambi i casi, però, gli sforzi degli artisti non furono ricambiati e le loro opere non soltanto suscitarono l’accanita condanna dei benpensanti, ma incorsero anche nell’insuccesso: Funerale a Ornans non fu mai venduto; l’Episodio del mare de La terra trema restò l’unico di una trilogia incompiuta.

Dal bianco al nero

Un altro aspetto del cinema della disperazione italiano che suggerisce un’intersezione con quello noir è la genesi del neorealismo; esso manifestò la consueta intenzione di rottura e di discontinuità rispetto al clima euforico e anestetizzato della produzione di regime che lo precedette ma, allo stesso tempo, mutuò proprio da quest’ultimo alcune caratteristiche. Il così detto dei cinema dei telefoni bianchi era stata l’unica forma di cinema alternativo a quello di propaganda che il regime fascista ammettesse, in quanto le vicende che raccontava e il trattamento che vi dedicava erano disimpegnati e solari, funzionali a esaltare le virtù del buon cittadino e suggerire benessere diffuso presso la popolazione. Si trattò perlopiù di storie d’amore a lieto fine, del tutto scevre di riferimenti alla tragedia politica che il Paese aveva vissuto; perciò la critica del dopoguerra, confrontando questi film con quelli del decennio successivo, all’opposto pervasi da un profondo impegno sociale e da un’orgogliosa vocazione alla denuncia, vi avrebbe colto soltanto l’implicita accondiscendenza verso lo stereotipo della borghesia conformista, sul cui consenso si fondava il potere fascista. Un’illusoria e ipocrita fuga dalla realtà volta all’ostentazione

di un modello di ricchezza e di obbedienza, simboleggiato dai telefoni bianchi che gli scenografi inserivano nelle case borghesi per distinguerle dagli ambienti più popolari in cui erano presenti i tradizionali apparecchi di colore nero. La sintesi polemica espressa da questa definizione denigratoria risulta assolutamente capziosa e incapace di cogliere gli innegabili meriti di alcune di quelle pellicole, alla realizzazione delle quali contribuirono scrittori dello spessore di Soldati e di Zavattini: autori che in seguito sarebbero stati impegnati anche nel periodo neorealista; che piaccia o meno, questo affonda le proprie radici appunto nella commedia del periodo fascista e, per rendersene conto, è sufficiente considerare i più rappresentativi film di quegli anni. Gli uomini, che mascalzoni… (1932) anticipò – non soltanto dal punto di vista musicale, con la colonna sonora di Bixio e la sua celeberrima Parlami d’amore – le atmosfere de L’Atalante (1934) di Vigo e, in continuità con Aurora (1927) di Murnau, propose per la prima volta in Italia un’interazione significativa tra la relazione dei due innamorati e il contesto metropolitano in cui si svolgevano le loro vicissitudini amorose. Una scelta coraggiosa e innovativa per il panorama nazionale, che suggerì a Raffaello Matarazzo un’interessante considerazione: «dire che questo genere appartenga all’intimismo non è esatto; esso riscontra piuttosto nel realismo […]. Notevole pregio di questo film è l’aver svolto la fragile trama in un mondo in continuo contrasto con la semplicità della profumiera e del meccanico. Basti dire che la stessa Fiera di Milano, con tutti i suoi significati ed anche gli aspetti grandiosi, Camerini l’ha fatta diventare il più naturale degli sfondi alle tenere peripezie di Mariuccia e Bruno». La vastità frenetica della metropoli – ripresa attraverso numerose sequenze di taglio documentarista – venne posta in antitesi drammatica rispetto ai piccoli problemi di cuore dei protagonisti. Il film di Camerini, che lanciò nel cinema l’esordiente Vittorio De Sica, proveniente dal teatro, fu antesignano del neorealismo poiché si era interessato a una storia comune di gente comune, in reazione all’«epicismo ufficiale», offrendo una risposta concreta all’esigenza del pubblico di identificarsi con personaggi veri.

È indubbio che questa soluzione rispondeva altresì al desiderio di pubblicizzare in maniera compiaciuta, sia pure autoironica, la fiorente attività industriale e la laboriosità della Nazione: come dimostrano le riprese della Fiera brulicante, presso la quale uno straordinario De Sica decanta attraverso un improbabile megafono le infinite qualità di una pompa idraulica! Quale che fosse l’intento principale, di certo venne realizzata una direzione esemplare degli attori all’interno di un contesto scenografico insidioso, poiché ricavato direttamente dai reali spazi esterni di Milano; a proposito dei quali Filippo Sacchi scrisse in una recensione sul Corriere: «è la prima volta che vediamo Milano sullo schermo. Ebbene, chi poteva supporre che fosse tanto fotogenica?». La miopia che portò a etichettare frettolosamente il cinema dei telefoni bianchi emerge ancor più chiaramente dall’analisi di un’altra pellicola di Camerini, interpretata da De Sica e sceneggiata – tra gli altri – dall’esordiente Zavattini, il quale avrebbe successivamente composto con l’attore e regista un formidabile duo del movimento neorealista, sulle orme della coppia costituita da Carné e Prévert. Il film in questione è Darò un milione (1935), commedia degli equivoci articolata sull’espediente dello scambio di persona, nel corso della quale gli autori operarono una satira pungente e anticonformista dei vizi della borghesia. Il racconto fu ambientato in Francia ma, a differenza della comune tendenza a ricorrere all’escamotage ungherese – utilizzato per accentuare il carattere d’evasione del film – la scelta fu imposta da ragioni di prudenza, per evitare cioè problemi con la censura che avrebbe potuto non apprezzare il piglio polemico. Giacché il racconto, dietro al pretesto della solita storia d’amore, attaccava duramente l’ipocrisia e l’avidità borghesi, anticipando gag paragonabili a quelle de L’impareggiabile Godfrey (1936) e seguendo un intento dissacrante che, sia pure con toni meno corrosivi, ricorda i francesi Boudou salvato dalle acque (1932) e Lo strano dramma del dottor Molyneux (1937). La delicatezza e l’ironia delle battute infatti non devono trarre in inganno: nella

sostanza, la critica si spinse al livello del più anarcoide Vigo, svelando anche nella commedia italiana degli anni ’30 quell’atteggiamento di denuncia che sarebbe diventato una caratteristica fondamentale del neorealismo. Darò un milione, in effetti, offriva molti spunti d’avanguardia: il sapore surreale della visualizzazione dei pensieri del cane calcolatore – che inseguiva una corsa di ciclisti osservandone le divise di gara numerate – e il gusto per le piccole cose della vita che ispira il montaggio finale – capace di esprimere il contagioso entusiasmo dei mendicanti, ai quali veniva offerto un giro sulla giostra. Nonostante indubbi meriti, il cinema dei telefoni bianchi fu condannato dai critici della rivista Cinema, secondo i quali l’eccessivo disimpegno, motivato perlopiù da ragioni commerciali o censorie, aveva finito per non rendere onore alla cultura italiana e, in particolare, all’esperienza della letteratura verista, corrispettivo nazionale del naturalismo francese al quale si era ispirato il cinema realista poetico. E fu appunto un autore che aveva vissuto in prima persona la partecipazione degli intellettuali transalpini all’ideologia del Fronte Popolare, che si era confrontato con il genio ribelle di Jean Cocteau, che aveva assistito Jean Renoir, al quale era stato presentato da Coco Chanel – con la quale intratteneva una relazione – ad avviare una nuova stagione della cinematografia italiana. A dispetto delle origini aristocratiche, della formazione borghese, della frequentazione degli ambienti più esclusivi, Luchino Visconti, dopo una fugace parentesi hollywoodiana, tornò in Italia nel 1939 ed entrò in contatto con la rivista Cinema, quindi con il Partito Comunista, allora ancora considerato illegale, prendendo attivamente parte al movimento della Resistenza. Nella sua figura, una sensibilità straordinaria mediò l’incontro folgorante tra nobiltà e miseria messo in scena da Verso la vita (1936) – film diretto da Renoir, a cui aveva partecipato lo stesso Visconti, trasponendo il dramma teatrale Bassifondi di Maksim Gor’kij, padre del realismo socialista e «massimo scrittore proletario del mondo»; lo stesso dal quale anche Kurosawa avrebbe tratto I

bassifondi (1957), confermando di aver rivolto la propria attenzione a diversi modelli di cinema della disperazione, cogliendo quell’intersezione di affinità che suscitarono il suo interesse. Anzi, l’attività di resistente di Visconti, il quale fece della propria villa un rifugio per gli antifascisti, ricordò quella di Pelageja Nilovna Vlasova, che nel romanzo di Gor’kij diventava la madre di tutti i compagni del figlio, arrestato a causa del proprio credo socialista. Prima di realizzare Ossessione, Visconti aveva già curato l’adattamento cinematografico della novella verghiana L’amante di Gramigna, subendo però la censura del partito fascista che negò il nulla osta necessario alla sua realizzazione. Era il primo segnale dell’attenzione che in seguito sarebbe stata rivolta alla letteratura realista ottocentesca. Estremamente significativa risulta anche la scelta di ricorrere, nella realizzazione del film d’esordio, al modello hard boiled: infatti, nell’opera di Visconti proprio come in quella di Kurosawa venne valorizzata la comune matrice delle differenti manifestazioni del realismo. E tra queste, indubbiamente, rientrarono anche i capolavori cinematografici francesi degli anni ’30 e quelli italiani del decennio successivo, legati dalla simile ispirazione letteraria e dalla relazione di amicizia e di condivisione artistica intrattenuta da alcuni dei rispettivi esponenti. Nondimeno i due movimenti – complessivamente considerati – presentavano anche caratteristiche differenti: mentre il realismo poetico aveva subito il presagio della guerra incombente, finendo schiacciato da un insopportabile senso di oppressione e di predestinazione alla sconfitta, il neorealismo affrontò l’esito del conflitto ormai passato. La guerra era stata lo spartiacque tra la cupa discesa e una difficile risalita. Per questo l’atteggiamento del cinema neorealista nei confronti dell’avvenire risultò aperto – si considerino al riguardo i finali di molti dei suoi capolavori – a differenza di quanto accadeva nelle opere del realismo poetico, troncate dalla verificazione di una insuperabile tragedia.

Tuttavia, guardare con rinnovato impegno al futuro non significava omettere uno sguardo sulle catastrofiche condizioni presenti; al contrario, la ricostruzione neorealista si fondò proprio sulla documentazione storica. E dunque, mentre il realismo poetico francese aveva espresso perlopiù le emozioni dell’inconscio collettivo di fronte alla contemplazione dell’abisso – influenzato ora dal surrealismo, ora dall’espressionismo tedesco – il cinema italiano si propose invece come lo strumento principale per prendere coscienza della realtà. Una realtà, del resto, fin troppo tangibile: devastazione, miseria, povertà e fame; il degrado, materiale e psicologico, del Paese non poteva più essere taciuto o nascosto, ma venne finalmente testimoniato nella sua crudezza. Ecco spiegate molte caratteristiche del genere: la scelta di ricorrere a riprese quasi esclusivamente in esterni per mostrare le ferite più evidenti della guerra; la scrittura di molti interpreti non professionisti, prediligendo un vero uomo a un buon attore; il ricorso al dialetto – secondo le regole del verismo letterario – perché così si esprimeva effettivamente la gente; l’attenzione al ceto che più di tutti soffriva il peso della storia, quello popolare. Fu l’avvento di una nuova poetica audiovisiva che segnò una rivoluzione culturale, anzi una decompressione culturale, dopo anni di censura e di indottrinamento. Come si è detto, alla stregua di ogni altro sviluppo dotato di una certa drammaticità, anche il fenomeno neorealista venne accolto in maniera contrastante, suscitando più di uno scontento. Una delle prime opere a presentare tratti stilistici e tematici neorealisti, Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini, essendo stata realizzata ancora sotto il tallone di un regime sufficientemente saldo, aveva subito una dura avversione da parte della censura; tuttavia, il critico Umberto Barbaro salutò con entusiasmo il nuovo corso intrapreso dal cinema italiano, parlando di un soggetto «difficile ed intelligente, soprattutto per l’assunto di mostrare un’umanità […] nella quale i rapporti sono concretamente basati su interessi reali, sentimentali o

materiali». Egli si spinse persino oltre, auspicando che si trattasse solo del punto di inizio per l’evoluzione del cinema nazionale: «[…] certo il film italiano raggiungerà il suo massimo di artisticità quando saprà esprimere le ansie e le aspettative, le gioie e i dolori di questa umanità». Aspettative che sarebbero state soddisfatte poco dopo da Ossessione (1943). Anche il capolavoro di Visconti dovette affrontare l’ostilità delle autorità politiche ed ecclesiastiche, scandalizzate dall’atmosfera torbida, dal clima deprimente, dal tratteggio crudo e disincantato: nonostante l’iniziale permesso di distribuire l’opera – in considerazione del fatto che essa non attaccava direttamente il regime – poco dopo la diffusione nelle sale, il governo ordinò il sequestro e la distruzione di tutte le copie in circolazione. Ma l’autore, con un gesto alla Murnau, riuscì a trarne in salvo un esemplare. In effetti, pur mancando un’accusa aperta al regime fascista, dal film emergeva un critica spietata nei confronti del sistema piccolo borghese sul quale si era fondato il consenso del governo e che aveva costituito l’oggetto della celebrazione del cinema dei telefoni bianchi. E i toni della narrazione risultavano assolutamente scandalosi per via della sfacciata ricostruzione che venne compiuta delle pulsioni interiori dei personaggi, della violenza delle passioni, dell’istintiva conflittualità nei rapporti. Se la messa in scena e lo svelamento delle realtà taciute anticiparono lo stile neorealista, l’andamento del racconto, con il fallimento finale del tentativo di riscatto, ricordavano ancora lo spietato fatalismo del cinema francese. Mentre l’impressione che a strozzare le aspirazioni a una nuova vita fossero le colpe del vissuto suggellò il legame con il noir hollywoodiano. Affrontò la questione borghese, con sensibilità neorealista, anche I bambini ci guardano (1944), di Vittorio De Sica, nel quale lo straordinario autore adottò la prospettiva dei bambini, sola fonte di speranza per il Paese che si avviava alla ricostruzione postbellica – una variante prospettica ricorrente nel cinema neorealista, che ne concretizzava la tensione verso

l’avvenire. La purezza del loro sguardo, ancora libero dall’ipocrisia degli adulti, incorporava la sensibilità – spesso dolorosa – per la realtà che l’occhio della macchina da presa aveva cominciato a documentare senza veli. Lo stesso avvenne in Roma città aperta (1945), Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948). Il bambino, dalla cui prospettiva del tutto innovativa vennero raccontate la vicenda e, più in generale, l’Italia, non solo assisteva alla relazione clandestina della madre con un altro uomo, con il quale ella fuggiva abbandonandolo, ma, affidato dal padre ora qui, ora là ad altre figure femminili, scopriva ipocrisia e sotterfugi della borghesia perbenista. Anzi, proprio la particolare ricettività della sua età gli permise di cogliere la polifonia di quell’umanità indifferente: le chiacchiere oscene delle sartine, l’autocommiserazione della nonna – che si lamenta di non aver abbastanza donne di servizio mentre viene trasportata come un nobile romano sulla lettiga – le trame maliziose del gruppo di dandy di Alassio e i pettegolezzi insistenti e indiscreti della gente. E l’attacco al mondo borghese si sviluppò pienamente nella circostanza che alla fine il piccolo protagonista scelse di legarsi all’umile governante Agnese, suggerendo la decisione di aprirsi a un nuovo mondo, un modello alternativo a quello della tradizionale famiglia fascista. Tipico del neorealismo fu dunque lo smascheramento delle falsità quotidiane, condotto attraverso la descrizione minuta, quasi documentaristica, delle dinamiche sociali e famigliari, senza alcun timore di mostrare pulsioni e atteggiamenti. Una soluzione che appena qualche anno prima sarebbe stata stroncata dalla censura. Anche perché, dall’incursione in qualità di regista all’interno di quei salotti che De Sica aveva abitato come attore del cinema di regime, emerse un affresco amaro e sconfortante: il ritratto di una società sorda, troppo impegnata dalle astuzie e dai sotterfugi – attraverso cui gli adulti si ingannano reciprocamente – per prendersi cura dei propri figli, del loro futuro. E, allo stesso tempo, il film realizzò una severa denuncia dell’infanzia rubata.

Eppure, il maggior merito degli autori fu la capacità di suscitare un’impressione tanto sgradevole ricorrendo a un tono, all’opposto, estremamente leggero, quasi ingenuo – e in questo è evidente il retaggio dell’esperienza di De Sica come interprete della commedia disimpegnata ma anche l’apporto dello sceneggiatore Cesare Zavattini, per certi versi il solo teorico della poetica neorealista, il quale aveva elaborato la convinzione che fosse necessario svelare la dimensione del fantastico all’interno del quotidiano, specie adottando la prospettiva fanciullesca nella quale la fantasia media la percezione oggettiva, imponendone una propria revisione. E infatti contribuì la scelta di aderire al punto di vista del bambino, circostanza che permetteva di non mettere completamente a fuoco gli aspetti più crudeli della vita di relazione, accennati nel corso di riprese durante le quali egli non è in scena o suggeriti, viceversa, da ciò che accade fuori campo. Non solo, ma non mancano neppure momenti di autentica comicità: la caduta del vaso di fiori che interrompe bruscamente l’appuntamento galeotto nel cuore della notte, la sequenza della fotografia e quella della bocciofila al mare, i camei del collega di lavoro gigione, al quale tutti fanno il verso. È doveroso poi notare che invece di ricorrere a una scenografia desolata, De Sica esaltò un’Italia solare, ariosa, verdeggiante – attraverso cui sembrava esprimersi un desiderio collettivo di tornare alla vita e certamente si manifestò l’entusiasmo del regista di cimentarsi per la prima volta a girare in esterni. Questa cornice, però, finì per accentuare lo squallore umano della vicenda in primo piano. E infatti, per cautelarsi da possibili rimproveri censori, il regista decise di girare due finali alternativi del film. Una considerazione particolare – in ragione della sua eccezionalità nell’ambito del movimento neorealista – merita la terrificante sequenza onirica, mediante la quale l’autore indagò con straordinaria efficacia la mente turbata del bambino: proprio come accadeva nei noir americani e come

ancor prima era stato nei film dell’espressionismo tedesco, l’espediente dell’incubo permise di rappresentare la spontanea manifestazione del disagio e del disorientamento sofferti dal giovane protagonista. Del resto, nel perimetro del realismo era rientrata, grazie ad autori come Dostoevskij e Van Gogh, anche la realtà psicologica; alla scoperta dell’«uomo nell’uomo». La rassegna, pur sommaria, del cinema realista italiano non può prescindere dalla citazione di Roma città aperta (1945), il capolavoro di Rossellini dedicato al tema della Resistenza. Il regista inquadrò il fenomeno in una prospettiva umana piuttosto che storica, realizzando una celebrazione accorata e commovente dell’orgoglio e della dignità che caratterizzarono l’eroismo quotidiano degli occupati. Qualità esaltate dal contrasto tra la tenacia dei protagonisti e la sconsolante scenografia urbana sullo sfondo della quale essi agivano: la conseguenza fu che l’aspirazione verso una vita nuova e migliore prevalse nettamente sul senso di arrendevolezza che suggerirebbe il contesto del racconto. La caratteristica essenziale di Roma città aperta fu certamente la dimensione popolare, sincera, spontanea, volenterosa dell’umanità al centro del film; e del film medesimo. Ciò determinò una netta rottura rispetto alla recente esperienza cinematografica italiana, ancora legata al mondo borghese – del quale pure aveva cominciato a evidenziare i difetti, anziché esaltarne le virtù. Tipica del tratteggio polare era la commistione di comico e tragico: la crudeltà di certi episodi risultò sopportabile proprio grazie agli sfoghi di ironia verace concessi allo spettatore da Amidei – un altro degli sceneggiatori che si erano formati con il cinema dei telefoni bianchi. Popolare era anche l’atteggiamento di Rossellini che non assunse i toni intransigenti e categorici di una certa retorica intellettuale, ma guardò nell’animo dei personaggi, spingendosi oltre la loro appartenenza all’uno piuttosto che all’altro schieramento – lo dimostra lo sfogo attribuito a un ufficiale tedesco, stanco degli orrori che il proprio popolo ha disseminato in giro per l’Europa. Grazie a un simile approccio,

libero da condizionamenti e da pregiudizi, il regista ritrasse un fronte comune, composto da preti, bambini, donne, disertori, partigiani, poliziotti e intellettuali, che si ritrovarono uniti in difesa dei principi della libertà, della giustizia e della solidarietà: è «la coralità» alla quale faceva riferimento lo stesso cineasta, considerandola un tratto essenziale della propria opera. Mentre lo squallore e la volgarità, pur venendo minuziosamente descritti e mostrati apertamente, senza l’ipocrisia del pudore borghese tipico della tradizione fascista, assunsero una consistenza eterea, una purezza poetica degna del realismo francese. Un ruolo fondamentale è attribuito sin dal titolo alla città: contorta, denudata, ferita e sventrata, nondimeno Roma resse, tenne duro, continuò la lotta, offrendo rifugio alla Resistenza, con le terrazze, i tetti, i sotterranei e i vicoli, attraverso i quali si sviluppava l’azione. L’interazione drammatica tra spazi urbani e personaggi pervase il film di straordinario dinamismo. A cominciare dalla fuga iniziale, ispirata alla personale esperienza di partigiano vissuta da Amidei; tuttavia, essa raggiunse il proprio apice al termine del passaggio più celebre: quello dedicato al rastrellamento. Mentre nel corso della prima parte aveva costretto insieme, nella stessa stanzetta, tragedia e ironia (con la finta veglia funebre), Rossellini sfogò la tensione, così accumulata, subito dopo attraverso il dinamismo della corsa disperata di Anna Magnani all’inseguimento dell’innamorato arrestato dai tedeschi. L’intensità dell’azione venne esaltata proprio dall’ampiezza del viale che ella percorreva all’impazzata, sfidando la minaccia dei fucili spianati. Pochi istanti che sembrano, però interminabili. Si sa che la Magnani cadde a terra troppo presto rispetto a quando avrebbe dovuto e che Rossellini riuscì a recuperare la situazione e ad aumentarne addirittura il pathos, semplicemente montando tra loro riprese frontali e laterali, relative al medesimo tratto di percorrenza. Quella scena avrebbe legato per sempre, nell’immaginario nazionale e internazionale, la capitale alla figura della popolana: si realizzò così il massimo tributo all’orgoglio e alla

libertà della cittadinanza romana; quasi che il personaggio interpretato dalla Magnani incarnasse l’anima fiera e irriducibile di Roma. La centralità della sora Pina emergeva inoltre per la circostanza che proprio dal confronto rispetto alla sua semplice ma sincera onestà venne evidenziato il tratteggio noir degli altri due caratteri femminili: la fatale aristocratica nazista e l’inconsistente ballerina del varietà, legate tra loro dalla droga – solo un altro dei mali sociali svelati dal nascente neorealismo. Una funzione simbolica fu evidentemente attribuita anche ad altri personaggi: il coraggio dei bambini, per esempio, permise di svolgere la denuncia dell’infanzia rubata; la riflessione circa la complessità della vita, in bilico perenne tra commedia e tragedia, venne invece sviluppata attraverso la caratterizzazione del prete laico, disposto a sacrificarsi per quella causa di libertà che la Chiesa non ebbe mai la forza di sostenere. Emergeva così un altro aspetto fondamentale dell’opera di Rossellini: la chiara distinzione tra individuo e gruppo di appartenenza; alla fiducia riposta nell’eroismo quotidiano e insospettabile degli uomini, si contrappose la diffidenza verso le istituzioni. Anche questo atteggiamento disegna un’ulteriore intersezione con il cinema noir nella cui poetica la responsabilità di ciascun personaggio sembra dipendere dalle imperdonabili carenze del sistema sociale dal quale egli proviene. La polemica nei confronti del potere pubblico fu evocata dal titolo stesso del film, riferito all’incapacità delle autorità di salvare la città e i suoi abitanti dalla furia dell’occupazione nazista. Dopo il grande impegno civile profuso in Roma città aperta – il regista amava parlare in proposito di «un cinematografo che fosse socialmente utile» – Rossellini tornò ad affrontare la tragedia dell’Italia occupata in Paisà (1946), un’opera nella quale esasperò alcuni tratti tipici del cinema neorealista: l’uso del dialetto (e quello della madrelingua quando a parlare sono gli stranieri), le riprese in esterni autentici (con molte sequenze di taglio puramente

documentaristico) e il ricorso ad attori non professionisti (già in Roma città aperta erano stati impiegati come comparse alcuni soldati tedeschi fatti prigionieri al momento della liberazione). Una ricerca totale della realtà, anche nei suoi aspetti linguistici e visivi, che sarebbe stata in seguito tentata soltanto da Visconti ne La terra trema (1948). Grazie alla sua audacia, Paisà potrebbe essere considerato non solo il manifesto del neorealismo ma del cinema, quale forma di comunicazione alternativa a quella lessicale: non esistono ostacoli linguistici che non possano essere superati attraverso sguardi e gesti, ispirati dal senso di solidarietà che in determinate circostanze unisce gli esseri umani, a qualunque cultura essi appartengano. Non stupisce dunque che, sebbene l’interesse prevalente di Rossellini sembrasse rivolto alla Storia e alla politica, la critica abbia sottolineato «l’umanismo» e «l’umanitarismo» di un esperimento fondato su un linguaggio puramente visivo, che finì per essere al contempo mezzo e fine dell’opera. Nello stesso anno in cui Rossellini dirigeva Paisà, Vittorio De Sica realizzò Sciuscià (1946), tornando ad affrontare il tema dell’infanzia rubata che, in questo film, si combinò con quelli tipicamente noir della solitudine e della disobbedienza. Anzi, Sciuscià potrebbe funzionare come prequel di molti noir, i cui protagonisti erano spesso inseguiti dai fantasmi di una gioventù tormentata: si consideri il sicario solitario de Il fuorilegge (1942), segnato dalle violenze subite da bambino – il polso rotto, causa della deformazione fisica, corrispondeva in realtà a insanabili ferite interiori. Poiché i protagonisti del film di De Sica erano orfani e, in quanto tali, soggetti affidati alla cura dello Stato, la denuncia di De Sica si rivolse ancor più apertamente all’intera comunità, animato da un’intenzione di rimprovero paragonabile a quella delle litografie della Kollwitz o a quella della scena finale di M, il mostro di Dusseldorf (1931).

Infatti, al centro della polemica di Sciuscià si collocarono alcune questioni istituzionali, come il corretto funzionamento del sistema giudiziario e di quello carcerario, bersagli ricorrenti del cinema della disperazione: si confrontino certi passaggi del film di De Sica con Il buco (1960) di Becker; ma anche la sequenza del processo farsa con quelle corrispondenti de La signora di Shanghai (1947) di Welles e de Il ladro (1956) di Hitchcock. Se si vuole, anche lo spunto dell’amicizia virile – unica forma di temporanea solidarietà del nero americano – ricorre nel film italiano – sebbene qui sarebbe più esatto definirla puerile. Anche nel caso del rapporto tra i protagonisti di Sciuscià il destino irruppe, infrangendolo impietosamente e costringendo i due ad una condizione di solitudine che la società, anziché ridurre, esasperava. Persino in un’opera così cupa e amara, De Sica e Zavattini – adottando l’inconfondibile stile «surrealista fiabesco» – mantennero perlopiù leggera la narrazione, confermando ineguagliata capacità di filtrare le peggiori realtà e di svolgere i più accaniti rimproveri attraverso le lenti della speranza: si pensi alla sequenza in controluce dai tratti spiccatamente fantastici, quasi onirici, durante la quale è rappresentato il sogno divenuto realtà, mentre i due bambini, dopo aver finalmente acquistato con i sudati risparmi il cavallo Bersagliere, percorrono al trotto le vie del centro di Roma. Le digressioni surrealiste non impedirono comunque di ottenere un effetto complessivo estremamente realistico e di realizzare un perfetto equilibrio nell’alternanza tra comico e tragico, ottenuto anche per merito del contributo alla sceneggiatura di Sergio Amidei – che affiancò Zavattini – anch’egli formato durante la stagione dei telefoni bianchi. Infine, De Sica indagò la particolare relazione che si instaura tra le peripezie individuali e la vita urbana, attribuendo alla città il ruolo di personaggio autonomo: l’occasione fu la realizzazione di uno dei maggiori capolavori neorealisti, Ladri di biciclette (1948), film nel quale il ritratto del disagio sociale raggiunse il proprio apice grazie appunto

all’ampiezza dello sguardo degli autori. Essi confusero il dramma del protagonista con quello di Roma, e abbassarono la prospettiva narrativa all’interno del mondo narrato. Non si trattava più di raccontare la realtà, bensì di lasciare che fosse la realtà stessa a raccontare se stessa, secondo il credo zavattiniano che aprì la strada addirittura al reality show contemporaneo: le azioni sceniche di attori non professionisti non dovevano essere subordinate all’esigenza della macchina da presa; piuttosto essa doveva adeguarsi ai loro movimenti, seguendoli attraverso lo svolgimento quasi spontaneo della loro esistenza. È la teoria del pedinamento di Zavattini, che considerava giunto il momento «per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa» lasciando che l’uomo comune – in questo caso scelto tra gli operai della fabbrica Breda – raccontasse se stesso. Un approccio narrativo, già proprio del documentario metropolitano d’avanguardia, che nello stesso periodo fu sperimentato dai noir di taglio documentaristico come La città nuda (1948) e Cane randagio (1949) e che, successivamente, avrebbero condiviso alcuni film della Nouvelle Vague. L’intenzione era chiaramente quella di intrecciare l’esistenza del personaggio con quella della città che inevitabilmente ne condizionava comportamento, scelte, stato d’animo. È quanto già avevano sperimentato i grandi romanzi criminali urbani, come Delitto e castigo e Berlin Alexanderplatz; Raskol’nikov considerò piazza Sennaja quasi complice del proprio delitto, poiché era stato passando attraverso di lei che il suo proposito era stato rafforzato: «in seguito, quando ripensò a quel periodo […] lo colpiva sempre, in modo quasi superstizioso, una circostanza che in realtà non era molto strana, ma che gli appariva sempre come un segno premonitore del suo destino. Ovvero, non poté mai capire né spiegarsi come mai egli, stanco, sfinito, che avrebbe certamente fatto meglio a rientrare a casa passando per il tragitto più rapido e diretto invece passò per la piazza Sennaja, che non era affatto di strada. Non aveva allungato di molto, ma era chiaramente un percorso più lungo e inutile. Certo, altre decine di volte gli era capitato di tornare a casa senza prestare attenzione alla strada da cui passava. Ma

per quale ragione, si chiedeva sempre, per quale ragione un incontro così importante per lui, così decisivo e, al tempo stesso, così casuale, era avvenuto proprio sulla piazza Sennaja per la quale non doveva neanche passare». Per sottolineare visivamente l’ininterrotta relazione tra il protagonista e l’ambiente sociale, De Sica, coadiuvato dal montatore di fiducia, Eraldo Da Roma, conferì alla successione delle immagini un effetto a fisarmonica, passando spesso dal più piccolo al più grande, dal particolare al generale; in termini cinematografici, alternando il primo piano al campo medio e viceversa. Ciò avveniva fin dall’inizio, quando dalla massa di disoccupati che si accalcano nei nuovi quartieri popolari venne separato il protagonista; un passaggio che si ripete con effetto opposto poco dopo, allorché la sua biancheria fu confusa tra quella degli altri, sugli scaffali del banco dei pegni. Questo reiterato contrasto assunse uno specifico significato narrativo: padre e figlio, infatti, furono costantemente in bilico tra la tragedia individuale e quella collettiva, che viaggiavano su binari talora paralleli – si considerino le scene corali in bicicletta – ma più sovente contrapposti. Sicché si generava un conflitto dal quale scaturì il senso di solitudine alla quale, nella poetica del cinema disperato, parrebbe condannato ciascun individuo: ciò era evidente soprattutto nel drammatico confronto tra il protagonista e il ladro, rappresentanti entrambi di un’umanità avvilita e sconfitta. Eppure, a margine del conflitto, gli autori ritagliarono uno spazio rilevante anche per isolate manifestazioni di solidarietà – altro aspetto ricorrente nel cinema nero: ciò emerse non solo nella liberazione finale del padre, a fronte delle lacrime di disperazione del figlio, ma anche in precedenza durante le occasioni di incontro con altri reietti. Del resto, l’effetto a fisarmonica era appunto finalizzato a dimostrare che la disavventura dell’attacchino era soltanto una delle innumerevoli storie di degrado e di lotta che occorrevano quotidianamente nella metropoli.

Una storia di degrado e di lotta affrontata, però, con il consueto garbo poetico e meraviglioso, che contraddistinse i lavori della coppia De Sica/Zavattini, maestri nell’alternare tragico e comico, come emergeva, in particolare, dal doppio incontro con la santona. La presenza quasi irrinunciabile di un bambino – simbolo dello sguardo proteso al futuro, che nel fiducioso epilogo si riconcilia con la generazione precedente, imboccando la via di un nuovo e condiviso avvenire – contribuì ancora una volta ad accentuare il dramma del racconto: ingenuità, vulnerabilità, capacità di sorridere e di piangere senza alcuna inibizione accelerano lo scarto emozionale che contraddistinse il movimento a pendolo del film. La desolazione poteva trasformarsi in speranza in un solo istante e viceversa, poiché è propria della fanciullezza la capacità, anche nella difficoltà, di gioire delle cose più semplici, quelle che De Sica considerava «il meraviglioso nella piccola cronaca», come un piatto di mozzarella in carrozza. Tra conflitto e solidarietà, disperazione e ironia, la narrazione venne condotta mantenendo una costante tensione tra opposti, ottenuta peraltro valorizzando il linguaggio puramente cinematografico; l’esempio più notevole di questa abilità si riscontra nell’episodio che segna una definitiva presa di coscienza da parte del protagonista a proposito di ciò a cui attribuire maggior valore nella vita: egli si è spinto nella ricerca della bici rubata fino al punto di coinvolgere il figlio in gravi pericoli e, improvvisamente, teme di aver perduto il bambino; il trauma che vive fu evocato dal dirompente contrasto visivo tra il primo piano sull’espressione allarmata del padre (che segna una contrazione) e il campo lungo impiegato per raccontare il ritrovamento del figlio (che realizza la distensione). La sagoma del bambino si distingue a malapena in cima a un’ampia gradinata; una nuova scala di valori, in cima alla quale l’uomo ora colloca il figlio. Il linguaggio della macchina da presa risulta estremamente efficace anche in un altro passaggio: quello relativo alla travagliata e sofferta genesi della risoluzione criminale

nell’animo del protagonista. Alle riprese soggettive dell’uomo, dalla cui espressione trapela l’impulso a rubare una bicicletta con cui sostituire la propria, vennero sapientemente alternate riprese oggettive dedicate agli stimoli esterni che dapprima suscitano e, quindi, rafforzano il progetto delittuoso. De Sica applicò la lezione dell’espressionismo tedesco in tema di reciproca influenza tra lo spazio interiore e quello esteriore, svolgendo quell’analisi di psicologia criminale che dapprima Dostoevskij e Döblin, poi Hammett e compagni avevano compiuto in campo letterario e che anche il noir avrebbe affrontato. La critica tradizionale è solita individuare il capitolo conclusivo della stagione neorealista nell’opera dello stesso De Sica, Umberto D (1952). A prescindere dal futile tentativo di individuarne con esattezza la data del decesso – sicché l’approccio neorealista continuò per molto ancora a dispiegare la propria influenza – è indubbio che il film in questione, dotato delle principali caratteristiche del genere, svelò la piena maturità visiva di questo regista che fu il più attivo e il più ispirato esponente del movimento. Egli vi applicò una sintassi cinematografica degna dell’epoca del muto: l’impulso autodistruttivo, suggerito attraverso lo slancio dello sguardo e della mente verso il vuoto – in cui il movimento della macchina da presa si caricò di un significato emotivo come era accaduto ne L’ultima risata di Murnau; la rassegnazione, evocata dal passaggio in successione della figura del protagonista e, quindi, della sua ombra, giù per le scale della casa che egli è costretto a lasciare per sempre – altra trovata estetica degna dell’espressionismo tedesco. La prevalenza di scene non dialogate, comunque, non si spiegava unicamente alla luce dell’intenzione di De Sica di privilegiare il linguaggio per immagini, ma servì a enfatizzare l’indifferenza che la società dimostrava di fronte alla disperazione del protagonista, condannato a un’incolmabile solitudine; e le rare battute risultavano brevi e distaccate.

A rafforzare l’impressione di abbandono concorse la penuria di appendici comiche, ridotte a pochi episodi, tra cui spicca quello dell’elemosina sfumata a causa di un imperdonabile sbaglio nel modo di protendere la mano verso i passanti. La mancanza di ironia non equivale, però, a mancanza di leggerezza. Questa fu garantita ancora una volta grazie all’interpretazione dell’attore non professionista – il professore universitario Carlo Battisti – che conservava intatta la propria dignità senza mai scivolare nell’autocommiserazione o eccedere nel melodramma; determinante poi risultò il contrasto, ricco di poesia, tra la desolazione della vicenda umana e la bellezza della scenografia naturale, come già era accaduto ne I bambini ci guardano. Nel 1952, comunque, la sperimentazione che aveva elaborato e consolidato canoni stilistici e abitudini produttive innovativi e particolari andava esaurendosi, anche a causa dell’avversione da parte delle forze di governo – la democrazia cristiana – che intesero attenuare i rischi polemici insiti in una riflessione tanto appuntita. Tuttavia, la sensibilità neorealista seguitò a esercitare la propria influenza, finendo per contaminare persino la nascente commedia all’italiana: si è parlato in proposito di «neorealismo rosa». Già Guardie e ladri (1951) di Monicelli dimostrava un’inconfondibile impronta neorealista nella rappresentazione dell’ambiente e nel tratteggio dell’umanità che lo popolava, attraverso riprese in autentici esterni e la descrizione priva di qualunque ipocrisia della povertà e della miseria che afflissero l’Italia postbellica. Nel 1954 De Sica, nell’opera in sei episodi dal carattere prevalentemente comico, L’oro di Napoli (1954), inserì numerose sequenze di gusto documentaristico – come quelle de Il funeralino, all’epoca eliminate dalla distribuzione perché considerate eccessivamente deprimenti – oppure a scene improntate a un piglio spiccatamente polemico – era il caso di alcuni passaggi di Personaggi in busta chiusa.

Lo stesso si può sostenere con riferimento al film al quale viene fatto risalire l’esordio della commedia all’italiana – o, dall’opposta prospettiva, il colpo di grazia al neorealismo – Pane, amore e fantasia (1953) di Comencini. Agli equivoci amorosi e alla gigioneria di De Sica, tornato alle spensierate origini interpretative, si alternava la rappresentazione dell’Italia popolare e della povertà aspra che all’epoca fascista non sarebbe mai stata ammessa, ma che fu sdoganata da alcune manifestazioni letterarie degli anni ’30 e, quindi, dalle pellicole del dopoguerra. Il titolo del film derivò proprio dalla battuta di un pover’uomo al quale De Sica, maresciallo dei carabinieri, domanda con che cosa riesca a farcire il proprio panino: «fantasia»! Il sottile e spesso incerto confine tra generi diversi – si tenga presente il tema ricorrente dell’intersezione tra il cinema della disperazione e quello della speranza – è confermato dalla ricorrenza con cui gli autori legati a uno di loro si avventuravano attraverso gli altri. Come il già citato caso di Wilder e Stevens, così anche il padre commedia italiana, Luigi Comencini, diresse A cavallo della tigre (1961): un documentar – penitenziario che richiamava le atmosfere de Il buco (1960) di Becker e il noir classico americano, nonostante il riscatto finale del protagonista, paragonabile all’epilogo consolatorio de Le notti di Chicago (1927). Anche nel cinema italiano, comunque, vennero realizzati film che si rifacevano dichiaratamente al modello noir: su tutti, La città si difende (1951) di Germi – dedicato al ricorrente spunto del grande colpo sfumato, il cui incipit anticipa quello di Rapina a mano armata (1955). Questo debito di ispirazione fu persino più palese nei film di Ferdinando Di Leo, che guardando al noir classico e al poliziesco, appena rinverdito dalla mano di Don Siegel, diresse Milano calibro 9 (1972) e La mala ordina (1972): oltre a gettare le basi del poliziottesco, le sue opere ebbero il merito di importare definitivamente gli stilemi elaborati trent’anni prima negli Stati Uniti. Ancora più interessante, però, risulta un’altra pellicola di Germi, Un maledetto imbroglio (1959), in cui dalle

ambientazioni popolari, tipiche della cinematografia dell’epoca e generalmente seguite anche dallo stesso autore, l’attenzione tornò a spostarsi sulla piccola borghesia, nei confronti della quale venne svolta la critica più pungente. Ibridi nei quali vennero coniugati l’impegno sociale neorealista e l’ossessione criminale noir furono due film di Lattuada, Il bandito (1946) e Senza pietà (1948). Anche quest’autore, in seguito, si sarebbe cimentato con i toni leggeri della commedia e avrebbe rivolto la propria attenzione alla piccola borghesia per compierne, però, un’amara denuncia di vizi e di ipocrisie. Pasolini, al proprio esordio, scelse per Accattone (1961) l’ambientazione metropolitana della periferia romana e ricorse a un tratto verista nella rappresentazione della disperazione popolare. Pietrangeli nei suoi rosa in nero, Adua e le compagne (1960) e Io la conoscevo bene (1965), applicò evidentemente gli insegnamenti appresi dalla lezione neorealista. Come accadde negli Stati Uniti, dove lo scandalo del Watergate e la tragedia della guerra in Vietnam stimolarono una sensibilità neo – noir, anche in Italia l’inquietudine provocata dai tumultuosi anni della contestazione si manifestò nei film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri e Io ho paura (1977) di Damiano Damiani: in essi rivisse la denuncia sociale e trapelò l’attenzione verso temi scomodi come quelli che l’esperienza neorealista per prima aveva affrontato apertamente.

La Germania dissociata del primo dopoguerra

La prima guerra mondiale, oltre ad aver decretato il fallimento del modello di società liberale che si era imposto

nel corso dell’età moderna, traumatizzò un’intera generazione e dilaniò l’Europa. A risentire del peso materiale e morale del conflitto fu soprattutto la giovane e ancora fragile Germania, vinta e avvilita. La neonata repubblica venne gettata nel caos: da una parte, la nobiltà e l’alta borghesia, i cui valori cavallereschi erano stati definitivamente spazzati via, stentavano a ritrovare la forza e l’integrità morale necessari a governare il paese, incapaci di gestire la propria stessa esistenza, perlopiù dissipata tra il gioco, l’alcol, la droga e lo spiritismo; dall’altra, il popolo, catapultato nella miseria, non riusciva a riconoscersi nelle vecchie istituzioni ormai delegittimate e anelava, non senza orrore, all’avvento di un condottiero risoluto, capace di ridestare l’orgoglio dello stato tedesco. In mezzo, la piccola borghesia e il ceto impiegatizio, ambiziosi di imporsi a scapito delle caste feudali e pronti a sfruttare la rabbia degli strati più poveri della società, pur provando nei loro confronti malcelato disprezzo: una contraddizione lacerante, ricomposta unicamente da un atteggiamento assolutista, dalla tendenza al solipsismo, dalla dispotica pretesa di imporre al mondo intero la propria concezione culturale, economica, politica e, più in generale, esistenziale; in una parola, dalla tirannia – autentica deformazione borghese, della quale dapprima Dostoevskij e quindi Heinrich Mann avevano descritto accuratamente la fenomenologia psicologica. Fu in questo clima che il cinema tedesco diede alla luce i capolavori del c.d. espressionismo; uno stile e un gusto che si rende opportuno cercare di definire andando alla ricerca della loro origine. La prima manifestazione dell’approccio espressionista può essere facilmente riconosciuta nelle parole di Van Gogh che, in una lettera al fratello, scrisse: «non conosco migliore definizione della parola arte di questa: l’arte è l’uomo aggiunto alla natura; la natura, la realtà, la verità ma con un significato, con una concezione, con un carattere che l’artista fa uscire fuori e ai quali dà espressione». L’oggetto dell’arte, dunque, non doveva ridursi all’aspetto esteriore della realtà, bensì dare

espressione al suo intimo carattere, una verità dotata di un significato, che l’artista aveva il compito di «far uscire fuori». Per quanto riguarda invece il ricorso al termine «espressionismo», esso viene attribuito al pittore Max Pechstein, che lo utilizzò durante una seduta della giuria della Secessione di Berlino del 1898 allo scopo di riassumere le caratteristiche di una propria tela. Fu in Germania che l’Espressionismo divenne un movimento, passando attraverso esperienze diverse e talora apparentemente contrastanti, fino alla enucleazione di una poetica specifica – ben riassunta dal pensiero dello scrittore Hermann Bahr: «anche l’arte urla nelle tenebre, chiama il soccorso, invoca lo spirito: è l’espressionismo. Mai è avvenuto che un’epoca si riflettesse con tanta limpida chiarezza, come l’era del predominio borghese si è riflessa nell’impressionismo. L’impressionismo è il distacco dell’uomo dallo spirito; l’impressionista è l’uomo degradato a grammofono del mondo esterno. Si è rimproverato agli impressionisti di non portare a termine i loro quadri. In realtà, essi non portano a termine qualcosa di più, l’atto del vedere. […] Giacché l’uomo dell’età borghese non è che orecchio. Non ha bocca; è incapace di parlare del mondo, di esprimere la legge del mondo. Ed ecco l’espressionista riaprire all’uomo la bocca: fin troppo ha ascoltato tacendo, l’uomo: ora, vuole che lo spirito risponda». Nella definizione di un’arte che si proponeva di osservare la realtà attraverso gli occhi dello spirito, risultavano evidenti il rifiuto del distacco impressionista, l’ispirazione dello slancio di Van Gogh e l’esigenza, già avvertita da quest’ultimo, di svelare la verità nascosta dietro l’apparenza dell’oggetto. Il tentativo di dare espressione alla coscienza e alle emozioni umane era già stato un assillo di molti romantici, tra i quali è necessario citare il pittore svizzero tedesco Johann Heinrich Füssli e lo scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann, entrambi attirati dalla rappresentazione dell’incubo durante il quale l’inconscio manifesta il suo tormento.

A cavallo tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800, proprio durante il passaggio dall’antico regime all’età moderna, i romantici avvertirono il peso di un’incertezza che cento anni dopo – quando l’unità rivoluzionaria era andata ormai in frantumi – tornò a ossessionare anche gli esponenti delle avanguardie. Hoffmann era stato sconcertato dalle teorie di Fichte, giungendo ad ammettere che non esistesse una realtà univoca, perfettamente definita – quella cioè che, nell’ottica della creazione letteraria, apparirebbe a un narratore esterno ad essa, impegnato a raccontarla in termini strettamente oggettivi – ma tante differenti realtà alternative quante erano le prospettive attraverso cui il mondo veniva rappresentato. E tanto più malata o turbata fosse stata la mente di un personaggio, tanto più assurda e fantastica sarebbe risultata la realtà filtrata attraverso la sua alterata percezione: ecco che tra le fonti di ricerca e di ispirazione del realismo patologico sviluppato dall’autore romantico assunsero grande rilievo il mesmerismo, lo studio del sonno e del sonnambulismo, la teoria del magnetismo. Un patrimonio di ricerche e di conoscenze che un secolo più tardi sarebbe stato arricchito dalle scoperte psichiatriche e psicanalitiche, le quali ebbero indubbia influenza sulle opere espressioniste. La figura del deviante e il tema della pazzia, già centrali nella poetica romantica, avrebbero esercitato ancor maggior suggestione sull’immaginario collettivo durante il regime, feudale e militarista, di Guglielmo II presso il quale il culto della forza era stato imposto a una borghesia tradizionalmente accondiscendente verso il potere autoritario e a un proletariato remissivo e rassegnato. Un sistema che tendeva a castrare ogni forma di autonomia intellettuale sin dalla formazione studentesca – come denunciò Mann ne Il professor Unrat: «a riempire di frasi un certo numero di pagine su argomenti della cui esistenza si poteva benissimo dubitare (come la fedeltà al dovere, i benefici dell’istruzione o la passione per il servizio militare) si era allenati da anni grazie al tema di tedesco» – e che tacciava di follia qualunque espressione artistica e politica

non allineata all’ideologia delle forze di governo – esemplare, in proposito, il caso di Oskar Panizza, autore della controversa satira, antireligiosa e antiistituzionale, Il concilio d’amore, in seguito alla pubblicazione della quale fu oggetto di una persecuzione sistematica da parte delle autorità imperiali, fino all’internamento in un ricovero per disturbati psichici, sebbene perfettamente sano dal punto di vista clinico. Allo stesso tempo e quasi per reazione opposta, la mentalità del piccolo borghese – con le intime contraddizioni tra convenienza e istinto, con il desiderio insaziabile di imporsi superato solamente dalla naturale incapacità di impegnarsi in una decisione e metterla in pratica, con il culto del denaro, che Dostoevskij definiva la patologia dell’«idolo tedesco» e per il quale il borghese occidentale sarebbe stato disposto a sottoporre se stesso e i famigliari a qualunque sacrificio materiale e morale – suggerì a molti intellettuali l’idea che la pazzia fosse la tara propria di un intero ceto. E il disprezzo antiborghese, che spesso determinò un’insanabile frattura tra artisti e società, contribuì ad avvicinare molti di loro alle rivendicazioni socialdemocratiche e a elaborare il proprio stile guardando alla tradizione realista ottocentesca. Infatti, anche la rivoluzione espressionista tedesca affonda le proprie radici nel naturalismo, le cui manifestazioni più prossime e più elevate erano state il dramma di Hauptmann, I tessitori, e le litografie giovanili di Khäte Kollwitz, ispirate appunto alle tematiche sociali affrontate dal primo. Queste opere testimoniano l’influenza dell’ideologia socialista che nell’ultimo ventennio dell’Ottocento aveva scosso la Germania, attraverso la premonizione – documentata dal drammaturgo – di «una grandiosa catastrofe sociale universale che avrebbe dovuto aver luogo al più tardi verso il 1900 e rigenerare il mondo! I circoli socialisti e i giovani intellettuali vicini alle loro idee speravano nella realizzazione del futuro stato socialista, stato sociale e quindi ideale». Del resto, la stessa Kollwitz nelle proprie memorie sostenne che «l’artista è un figlio della sua epoca, specialmente se il periodo del suo sviluppo coincide con l’epoca del primo socialismo».

All’inizio del XX secolo, comunque, le rivendicazioni politiche furono perlopiù fiaccate e l’insofferenza degli intellettuali nei confronti del soffocante autoritarismo confluì allora nell’elaborazione di un’arte dedicata alla spontaneità delle passioni e allo studio della dimensione spirituale, inalienabile e insopprimibile persino ad opera del potere più intrusivo. Ma una sacca di opposizione attiva resisteva ancora, come dimostrarono gli scritti di Heinrich Mann: tanto ne Il professor Unrat, quanto ne Il suddito, egli sferrò un attacco violentissimo alla società del tempo e alla deplorevole debolezza del ceto borghese. E, per tutta reazione, suscitò l’irritazione di numerosi esponenti della piccola borghesia – a Lubecca e non solo – nonché la disapprovazione di altri intellettuali, tra i quali il fratello minore dello stesso autore; inizialmente, spiazzato dalla novità formale e concettuale de Il professor Unrat, Thomas deprecò l’«empio stile espressionista» elaborato da Heinrich, non condividendone né la scelta di ricorrere a una prosa pungente, di taglio quasi giornalistico, né tantomeno quella di utilizzarla per sbeffeggiare le convenzioni sociali e le istituzioni tradizionali. In effetti il romanzo di Heinrich Mann destò un tale scandalo proprio perché si pose all’avanguardia, anticipando l’estetica e le atmosfere, metamorfiche e inquiete, che un ventennio più tardi il cinema espressionista avrebbe definitivamente adottato e imposto – esasperando la relazione empatica tra lo spazio interiore e quello esteriore, operando la deformazione della realtà legata alla percezione patologica della prospettiva assunta, immaginando una concezione fauvista del colore. Un romanzo d’avanguardia e, dunque, necessariamente sperimentale; almeno quanto i romanzi psicologici di Dostoevskij, altro riferimento imprescindibile nella letteratura espressionista, che tuttavia la critica più tradizionalista ebbe modo di attaccare violentemente – si consideri, ad esempio, la polemica di Belìnskij a proposito dell’atmosfera fantastica de Il sosia: «Il fantastico, ai nostri giorni, può trovare il suo posto soltanto nei manicomi, non in

letteratura, e di esso devono occuparsi i medici, non i poeti». Evidentemente l’alfiere della scuola naturale non colse l’intenzione critica sottesa alla scelta di considerare il protagonista piccolo borghese vittima della propria stessa follia e di descrivere il mondo allucinato visto dai suoi occhi. Nonostante la scandalosa vocazione a sperimentare, anche l’espressionismo discese dal naturalismo ottocentesco, nei confronti del quale, anzi, uno dei suoi maggiori teorici, Kasimir Edschmid, in una conferenza del 1917 riconobbe un ben preciso debito: «l’azione del naturalismo non va giudicata in sé, ma per il risveglio a cui diede luogo, perché restituì vita alle cose: abitazioni, malattie, uomini, miseria, fabbriche […] Esso si permeò profondamente di socialità: gridò fame, prostitute, epidemie, operai. […] L’artista espressionista trasfigura tutto lo spazio. Egli non guarda: vede; non racconta: vive; non riproduce: ricrea; non trova: cerca. Al concatenarsi dei fatti – fabbriche, case, malattie, prostitute, gridi e fame – subentra il loro trasfigurarsi. I fatti acquistano importanza solo nel momento in cui la mano dell’artista, che si tende attraverso di loro, chiudendosi, fa presa su ciò che a essi sta dietro: l’artista vede l’umano nelle prostitute e il divino nelle fabbriche». «Tirare l’uomo fuori dall’uomo» e dal mondo era ciò che aveva già impegnato Van Gogh e Munch – proprio dalle polemiche suscitate da una sua esposizione berlinese del 1892 scaturì la Secessione – e che in quegli stessi anni interessava anche a Vlaminck e a Rouault. Infatti, mentre i fauves venivano ufficialmente riconosciuti dalla critica al Salon del 1905, Kirchner fondava il primo gruppo espressionista del Ponte, immagine simbolo di una specifica missione: «attirare a sé tutti gli elementi rivoluzionari e in fermento». Emergeva da questo manifesto programmatico, con il quale Kirchner invitò Nolde a unirsi al gruppo nel 1906, l’insofferenza per qualunque regola accademica e, più in generale, per la sottomissione della forma al contenuto. Di Kirchner furono significativi soprattutto i soggetti metropolitani. Con questo linguaggio, secco e vibrante, declinato attraverso una fitta

sequenza di scatti, paragonabili alle scariche nervose corrispondenti all’emozione dell’ispirazione, egli colse prima di Grosz l’alienazione dell’esistenza urbana: le sue figure la conducevano con movimenti meccanici e rigidi, simili a moderni burattini automatizzati. Un’umanità che si avviava alla follia autodistruttiva della prima guerra mondiale, proprio come Kirchner si avviava alla follia del suicidio. Masochismo, isteria, dissociazione, pazzia, fino alle soglie dell’autolesionismo e oltre: dopo i protagonisti disturbati di Dostoevskij, sarebbero stati la letteratura e il cinema tedeschi a rappresentare, con insistenza ed efficacia sempre maggiori, personaggi travolti dall’alienazione, per i quali il gusto romantico della fantasticheria si era trasformato in un’evasione senza ritorno dalla realtà – e in proposito è significativo confrontare il finale de Il sosia, durante il quale Goljàdkin si sentì addosso lo sguardo demoniaco di un medico dall’inconfondibile accento tedesco, con quello del Gabinetto del dottor Caligari, che appunto sullo sguardo ambiguo e luciferino dello psichiatra fondò la propria fortuna. Ma il tema della pazzia avrebbe colpito molti altri protagonisti della stagione espressionista e sarebbe stata una delle modifiche introdotte da Thomas Mann al suo Faust rispetto a quelli di Marlowe e di Goethe. Anche certi artisti intrapresero una propria fuga dalla realtà, imboccando la via ancora inesplorata dell’astrattismo: Kandinsky, che a Monaco di Baviera nel 1911 avrebbe fondato insieme a Franz Marc il gruppo del Cavaliere azzurro, sul proprio diario annotò che «quanto più questo mondo diventa spaventoso (come è appunto il mondo d’oggi) tanto più l’arte diventa astratta, mentre un mondo felice crea un’arte realistica». Al ritorno dalla guerra, anche agli occhi di Dix, di Grosz e degli altri esponenti della corrente verista della Nuova oggettività il mondo dovette apparire tutt’altro che felice. Eppure essi imboccarono una strada differente rispetto a quella di Kandinsky.

Ciò che nelle opere prebelliche di Heinrich Mann era stato presagio di catastrofe, nei loro dipinti fu tragedia concreta, ancora in atto: Mann aveva descritto le cause del delirio bellico, essi ne constatarono le conseguenze. E lo spettacolo fu talmente tremendo che la coscienza imponeva all’artista di rappresentarlo quanto più fedelmente, lasciando che il soggetto parlasse da sé. Solo così, in tempi tanto difficili, l’arte poteva essere utile all’uomo. E la polemica nei confronti del gruppo del Cavaliere azzurro – l’ennesima frattura della coscienza moderna – fu rovente: «l’anima doveva mettersi in gara. Questo fu il punto di partenza di molti espressionisti. Si trattava di signori molto onorabili, un po’ troppo meditativi. Kandinsky scriveva musica e proiettava sulla tela la musica della sua anima. Paul Klee eseguiva all’uncinetto, a un tavolino da lavoro Biedermeier, fragili lavori da fanciulla. Nella così detta arte pura, soltanto i sentimenti del pittore rimasero oggetto di rappresentazione; ne conseguì che il vero pittore fu costretto a dipingere la propria vita interiore. E da qui ebbe inizio la calamità. Il risultato fu che si formarono settantasette tendenze artistiche. Tutti pretesero di dipingere la vera anima» – commentò con acre sarcasmo, lo stesso che animava le sue raffigurazioni di satira politica, George Grosz nel 1925. Ed egli biasimò anche le sempre più diffuse tendenze di tecnica applicata all’arte: «vi furono anche alcuni gruppi che riconobbero errato tutto ciò, perché l’anima è, invero, un modello un po’ fluttuante; e con ardore infuocato si gettarono ad altri problemi. Simultaneità, movimento, ritmo! E questo non era naturalmente che un ancor più inutile idealismo. E tuttavia proprio qui si invengono gli inizi delle nuove conoscenze. Quando si parlava di dinamica, subito si riconosceva che negli aridi disegni degli ingegneri la dinamica trovava la propria espressione più immediata. Il cerchio e la linea toglievano di mezzo l’anima e la speculazione metafisica. Entrarono allora in scena i costruttivisti. Essi guardavano nel loro tempo con maggior chiarezza, non si rifugiavano nella metafisica. Essi volevano la realtà, volevano lavorare per esigenze attuali. Purtroppo nella pratica i costruttivisti commettono un errore. Dimenticano che c’è un

solo tipo di costruttivista: l’ingegnere, l’architetto, il fabbro, il falegname; in breve, il tecnico. I più onesti fra loro mettono quindi da parte la così detta arte e incominciano a occuparsi delle vere basi del costruttivismo: le cognizioni tecniche. Ma tentano anche di salvare ancora la bella parola arte e invece la compromettono. I mobili del Bauhaus di Weimar sono probabilmente costruiti in modo egregio. Però ci si siede più volentieri su sedie fabbricate da falegnami del tutto anonimi, perché sono comode, che su quelle disegnate dai costruttori del Bauhaus, la cui tecnica romanticamente si compiace di se stessa». Al rifiuto dell’astrattismo e del costruttivismo – entrambi, per un verso o per l’altro, eccessivamente disimpegnati – gli esponenti della Nuova oggettività contrapposero l’impegno politico dell’intellettuale, la cui sensibilità non poteva restare indifferente di fronte alla vergogna vissuta da un Paese in ginocchio, a cui tuttavia, la stagione della Repubblica di Weimar, pur tra molte contraddizioni, offriva un’insperata opportunità di rifondazione. L’artista avrebbe dovuto schierarsi politicamente e mettere la propria opera al servizio delle forze rivoluzionarie: contribuire insomma a demolire la vecchia arretrata società, ancora di stampo militar – feudale, per fondare una nuova Germania democratica. Il Novembergruppe – il cui nome derivò dalla rivoluzione del novembre 1918 – riunì intellettuali d’avanguardia, orientati politicamente a sinistra: Brecht aveva già composto le prime poesie, Heinrich Mann proseguiva la requisitoria antiborghese, il fratello Thomas stava ultimando La montagna incantata, sconvolgente ritratto di una civiltà, quella di inizio secolo, che cresceva nel grembo un’inarrestabile spinta autodistruttiva. Tra loro ci fu anche Alfred Döblin, autore di Berlin Alexanderplatz, spietato affresco del disagio proletario e ardito esperimento formale, nel quale alla narrazione tradizionale vennero accostati il ricorso ad articoli di giornale, le citazioni tratte da testi di canzoni o di discorsi pubblici e persino l’onomatopeica allo scopo di riprodurre i suoni tipici della città – una struttura composita ed eterogenea ispirata al

dadaismo e, in particolare, al fotomontaggio di Heartfield, di Hausmann e di Ernst, ma in proposito si considerino altresì le arditissime sperimentazioni sonore di Erik Satie nel balletto Parade. Oltre alla letteratura, anche l’arte figurativa si impegnò nella battaglia politica e nella sperimentazione stilistica, proponendosi di ottenere l’effetto, già perseguito dai fauves, di scandalizzare i benpensanti: Otto Dix, reduce dagli orrori del fronte, nei primi anni ’20 compì un’appassionata campagna antimilitarista, dedicandosi in particolare agli invalidi di guerra, ora raffigurandoli mentre giocano a carte, ora mentre sfilano (trascinandosi) per le vie della città: scenette di cronaca quotidiana, di un’umanità assolutamente ordinaria se non fosse che i protagonisti di umano non hanno più nulla. L’originalità di questi dipinti risiedette nel particolare gusto per la deformità e per il grottesco e nell’intuizione – autenticamente geniale – che anche gli individui ormai, proprio come certa nuova arte di ascendenza dadaista, sarebbero stati un collage di materiali diversi, utilizzati per rattoppare in maniera artificiale le non più rimarginabili ferite della carne. Ma se, di regola, i suoi reduci facevano gruppo a sé, ne Il venditore di fiammiferi a ripugnare ancor più dell’aspetto del mutilato è la fuga degli altri personaggi, in abiti tipicamente borghesi, di fronte alle implorazioni dell’ambulante cieco. Dix mise in evidenza un’insanabile frattura sociale, una cicatrice spirituale ben più profonda di quelle fisiche. Una frattura che si allargava sempre più, come evidenziò il Trittico della metropoli, nel quale la scena della sfrenatezza irresponsabile e allucinata della borghesia è fiancheggiata da immagini di degrado, materiale e morale. Tra i suoi dipinti più impietosi, è opportuno citare il Ritratto della giornalista Sylvia von Harden, rappresentata, secondo l’estetica della Nuova oggettività, senza alcuna idealizzazione – il monocolo, come gli occhiali, era diventato un simbolo dell’imperfezione umana – ma in maniera aspra, ambigua, spigolosa: Dix in persona lo definì «non il ritratto di una persona, ma di un’epoca» – lo stesso obiettivo che ambì a

realizzare anche Lang con l’antiepico dottor Mabuse. Un’epoca, quella a cui si riferiva il pittore, che sarebbe stata presto dominata dalla minaccia di una nuova e più spaventosa forma di autoritarismo: quella nazista. E anche contro di essa Dix si scagliò realizzando I sette peccati capitali e collocando, tra streghe, demoni e mostri, la caricatura di Hitler – appena salito al potere – sotto forma di nano. Il tema della mutilazione, fisica e spirituale, fu caro anche a George Grosz, come dimostra Giorno grigio, opera che colse in maniera essenziale ma vividissima la spaccatura che caratterizzava la Germania di allora, facendo immediatamente emergere l’indifferenza di un funzionario dell’Ufficio aiuti alle vittime di guerra, che non si accorge della presenza dell’invalido: tra la cieca burocrazia amministrativa – della quale, ancora una volta, gli occhiali costituivano un significativo attributo – e la vita reale, combattuta da lavoratori e approfittatori, si ergeva un muro invalicabile. Oltre alla miopia, Grosz intuì anche la debolezza della piccola borghesia, che in Eclissi di sole rappresentò priva di testa, attorno al tavolo presieduto da un alto rappresentante dell’esercito, il quale nonostante l’aspetto tracotante e violento si lasciava indottrinare dal subdolo esponente della grande finanza: il sole appariva eclissato da una moneta, giacché il mondo aveva preso a ruotare attorno al denaro, con buona pace delle masse popolari, ammansite come un asino al quale fossero stati applicati i paraocchi. Dello stesso anno è l’ancor più significativo I pilastri della società, intitolato sarcasticamente così con l’intenzione di citare uno dei maestri della polemica antiborghese ottocentesca, il drammaturgo Henrik Ibsen, autore dell’omonimo dramma. Insieme ai rappresentanti delle principali istituzioni amministrative e ideologiche – i soldati, il prete, il giornalista e il borghese – Grosz ritrasse in primo piano la nuova classe politica, attribuendole segni di riconoscimento inequivocabili: la svastica appuntata sulla cravatta, il boccale di birra, in riferimento alle birrerie bavaresi presso le quali ebbe inizialmente sede il partito fondato da Hitler, e, soprattutto,

l’ossessione guerresca che minacciava di tramutarsi da pensiero in azione. Il suo impegno politico era emerso fin dai tempi de Il funerale, dipinto dedicato allo psichiatra e scrittore Oskar Panizza. Nel cogliere le laceranti contraddizioni di una società assai più malata dell’intellettuale che essa, non riuscendo ad accettare o a zittire, finiva per annientare, Grosz realizzò un affresco grottesco, calando, nello stesso scenario infernale del coevo Metropolis, una farsa paragonabile a quella allestita da Ensor per l’Ingresso di Cristo a Bruxelles. Nella rappresentazione, volutamente provocatoria, l’artista aveva già applicato «quello stile incisivo, quel disegno a punta di coltello» di cui aveva bisogno la sua polemica. Un’estetica pungente messa al servizio del credo politico che lo portò a collaborare con Brecht, illustrandone la ballata I tre soldati, e che un decennio prima lo aveva indotto, proprio come la Kollwitz e molti altri, a sostenere l’insurrezione spartachista, a proposito del cui tragico insuccesso, Grosz annotò nella propria autobiografia: «le misure prese da Noske erano una chiara indicazione della parte in cui egli si trovava e, cioè, quella della reazione contro i lavoratori poveri e disoccupati. La violenza imperava; Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg vennero assassinati. Chi era al potere non mosse neppure un dito. Ebert, l’ex sellaio, allora presidente della repubblica, era impegnato a farsi tagliare i baffi a dovere, in modo da sembrare il rappresentante di strati larghissimi. Invece di portare il cappello dei democratici del 1848, portava la tuba. Doveva recitare una parte. Meissner, il consigliere privato, maestro di cerimonia della repubblica, vigilava a che Ebert facesse tutto secondo l’etichetta di corte e nulla che rivelasse il fatto ben noto che una volta era appartenuto al proletariato». Un sarcasmo acre, da cui trapelò la spaccatura che aveva diviso il Paese, determinando nell’inconscio collettivo la medesima frantumazione vissuta da molte coscienze individuali e dando vita a due Germanie, separate da disprezzo, diffidenza e risentimento reciproci.

Non stupisce che scienza e arte condividessero l’interesse per il funzionamento della mente umana, che mai come allora era stata scossa dagli eventi ai quali aveva dovuto assistere: le emozioni, per quanto inquiete e spesso laceranti, erano ciò che ancora distingueva l’uomo dall’automa, nonostante la frenesia sempre più meccanica dell’esistenza; tuttavia il conflitto interiore, generato dal controverso rapporto tra la sfera dell’intimità e quella della vita di relazione, aveva provocato un diffuso fenomeno dissociativo dal quale tutto un popolo rischiò di essere travolto.

Cinema tedesco e inquietudine

È appunto soltanto tenendo conto del complesso panorama culturale, del tormentato passaggio storico, delle trasformazioni istituzionali in atto che si può indagare temi ed estetica del cinema espressionista, che seppe cogliere ed esprimere tutta l’inquietudine provocata da quella drammatica metamorfosi. Considerato il primo film d’autore nella storia del cinema, Lo studente di Praga (1913) di Stella Rye, tratto dall’omonimo racconto di Hans Heino Ewers, rivelò indubbie ambizioni d’avanguardia, intraprendendo la pericolosa via della sperimentazione formale; ma dal punto di vista contenutistico sviluppò, intrecciandoli tra loro, gli spunti tipicamente romantici del doppio e del patto demoniaco. L’ombra di Chamisso, nel racconto la Storia straordinaria di Peter Schlemihl, corrisponde alla sagoma riflessa nello specchio di Ewers: entrambe proiezioni dell’individuo sul mondo; entrambe mercanteggiate con un personaggio mefistofelico, chiaramente ispirato a quello di Lucifero nel mito faustiano – e, secondo una tradizione tedesca risalente a Schiller e a Hoffmann, chiamato con un nome italiano.

L’antieroe Schlemihl, prima ancora di essere privato di una parte di sé, viveva la privazione dell’approvazione sociale, che si illudeva di conquistare grazie a quanto ricavato dalla vendita della propria ombra. L’aspetto del disagio relazionale chiama in causa il personaggio di Goliàdkin de Il sosia, impegnato per tutta la durata della sua terribile disavventura a ricercare il favore degli altri, specie quello dei propri superiori. Ma, a differenza dell’omologo tedesco di inizio secolo, il protagonista di Dostoevskij non subì lo sdoppiamento sotto l’influsso magico di un fantastico meneur: la causa della dissociazione sembrava risiedere piuttosto nella natura, ambigua, contraddittoria e ossessiva, di piccolo borghese. Del resto, la sua parabola autodistruttiva poteva essere paragonata a quella della Russia, divisa dal dibattito tra slavofili e filoccidentali, nel quale era stato coinvolto lo stesso Dostoevskij. Un doppio espressionista ancor più rilevante rispetto a quello di Rye fu la Maria di Lang in Metropolis: simbolo di armonia e, allo stesso tempo, di odio, questo personaggio testimoniò l’incertezza di anni durante i quali la propaganda politica relativizzava ogni messaggio, confondendo le masse ed eccitandone gli istinti. Bene e male dietro il medesimo volto e suggestione collettiva sarebbero stati temi ricorrenti nella poetica langhiana, anche al di là dell’oceano – come dimostrò Furia, anticipando inquietudine e diffidenza noir. Sebbene in seguito Lang avrebbe inquadrato quasi sempre all’interno dell’animo umano la lacerante coesistenza tra la spinta alla virtù e quella verso il vizio, la Maria negativa di Metropolis era in realtà un automa, sia pure costruito e programmato da un diabolico uomo di scienza. Il regista austriaco rielaborò dunque un altro caposaldo del romanticismo, il timore nei confronti delle macchine: la sua tuttavia non era più soltanto paura per le conseguenze di una cieca fede nella scienza, ma la critica a una società disumanizzata i cui individui, ridotti a burattini, non riuscivano a distinguere le persone dai robot.

La caratterizzazione dello spregiudicato agitatore con gli attributi dello scienziato fu un topos del cinema espressionista: Mabuse e Caligari erano entrambi medici; l’ipnosi e il sonnambulismo, con cui costringevano altri individui ad agire contro la propria volontà, la variante psicanalitica rispetto all’attività meccanica dell’inventore di Metropolis. La ricorrenza e il carisma di questi terribili e spietati personaggi – anche nella declinazione hoffmaniana del Nosferatu di Murnau, che proprio come l’uomo di sabbia era «un mostro odioso e spettrale che ovunque vada porta con sé dolori, angosce, eterna rovina» – suggerì a Kracauer la celebre tesi secondo cui il cinema tedesco dell’epoca realizzò una vera e propria parata di tiranni: lo storico evidenziò che «il problema dell’autorità assoluta era una preoccupazione costante della psiche collettiva», attratta dal «fascino magico che irradia dal potere». Una forma di isteria collettiva della quale, secondo l’autore, era «molto sintomatico il fatto che in quel periodo la fantasia tedesca, da qualunque punto partisse, finisse sempre per gravitare verso personaggi del genere, quasi spinta irresistibilmente da odio – amore». Ciò si doveva a quel clima di caos e anarchia nel quale era precipitata la Germania post rivoluzionaria, come sottolineava nel proprio programma la stessa Decla – Bioscop, casa di produzione de Il dottor Mabuse: «l’umanità, calpestata e offesa dalla guerra e dalla rivoluzione, si vendica di anni di angoscia abbandonandosi all’incontinenza e arrendendosi attivamente o passivamente al delitto». «Il caos, cioè, genera tiranni come Mabuse, che dal canto loro speculano sul caos», concluse Kracauer, secondo il quale quel genere di personaggi ebbe «origine nella mentalità del ceto medio», atterrito dalla rivoluzione socialista almeno quanto lo era stato dalla guerra. Dunque, è lecito domandarsi se lo stereotipo del tiranno che genera disordine e ne trae vantaggio fosse il frutto di una «fantasia sollecitata dal timore del bolscevismo» o se invece il ricorso «a queste spaventose visioni valesse a esorcizzare brame che intuivano in se stessi e che ora minacciavano di dominarli»; e lo studioso conclude constatando la «strana

coincidenza che poco più di dieci anni dopo la Germania nazista mettesse in pratica proprio quella combinazione di tortura fisica e mentale che lo schermo tedesco aveva dipinto». E, in effetti, il terrore diffuso dal totalitarismo concretizzò il presagio langhiano: «pur somigliando a Caligari, Mabuse lo supera in quanto muta continuamente identità. Lang disse una volta che la sua intenzione era di rappresentare la società intera, con Mabuse presente ovunque, ma in nessun luogo riconoscibile. Il film riesce a fare di Mabuse una onnipresente minaccia che non si può localizzare, rispecchiando così la società sotto un regime tirannico; quel genere di società in cui si teme di tutti perché chiunque può essere orecchio o braccio del tiranno». Oltre alla premonizione della deriva nazista – la tirannia stricto sensu – il periodo espressionista recuperò la riflessione svolta da Dostoevskij e da Mann a proposito di un’altra forma di dispotismo: quella particolare deformazione intellettuale, tipica della piccola borghesia. L’uomo del sottosuolo, infatti, ammise: «una volta ebbi anche un amico. Ma io ero già un despota in fondo all’anima e volevo esercitare un dominio illimitato sulla sua; volevo ispirargli il disprezzo verso l’ambiente che lo circondava e ed esigevo da lui un’altera e definitiva rottura con quell’ambiente». Mentre il professor Unrat non tollerò l’insensibilità del pubblico nei confronti della canzonettista di cui si è invaghito: «che cosa spaventosa! Poteva rinchiudere gli allievi nello sgabuzzino, costringerli a scrivere dissertazioni su cose che non esistono, obbligarli a fare quello che voleva lui, torturare i loro cervelli, se qualcuno osava pensare qualcosa, ricordargli: «lei non può pensare!». Ma non poteva costringerli a trovare bello quello che era bello in base alla sua valutazione e al suo imperio. La pulsione dispotica di Unrat cozzava qui contro il limite estremo dell’umana capacità di sottomissione … Questo non riusciva a tollerarlo. Si sentiva mancare l’aria, cercava una via d’uscita da quella situazione di impotenza, avvertiva la torturante bramosia di spaccare uno di quei crani e risistemarvi, con dita adunche, il senso del bello».

Entrambi, pur non ponendosi l’obiettivo di conquista del potere assoluto di Mabuse, avvertivano la stessa esigenza di manipolare l’altrui libertà di determinarsi, imponendo al mondo la propria concezione dell’esistenza, rovesciando se necessario l’ordine esistente; infatti, come Mabuse si sarebbe considerato «uno Stato nello Stato», anche l’Uomo del sottosuolo si propose la disgregazione della sua comunità (pretendendo dall’amico una definitiva rottura con quell’ambiente) al solo scopo di soddisfare la propria perversione: «lo spaventavo con la mia amicizia appassionata, lo inducevo alle lacrime, gli facevo venire le convulsioni; era un’anima ingenua, che si abbandonava, ma non appena egli mi si abbandonò del tutto, io lo presi immediatamente in odio e lo respinsi, proprio come se egli mi fosse servito soltanto perché potessi trionfare su di lui, perché potessi sottometterlo». Insofferente alla propria condizione ma troppo incerto, timoroso e debole per riuscire concretamente a modificarla, il piccolo borghese si affannava instancabilmente a cercare una via per imporre la propria volontà e raggiungere i suoi obiettivi meschini, cambiando in continuazione atteggiamento e cadendo perfino in contraddizione – ecco come il professor Unrat passò dall’essere un convinto conservatore al diventare un appassionato rivoluzionario, divorato dalla gelosia: «lui, Unrat, era povero e misconosciuto. L’importanza del lavoro che portava avanti da un ventennio veniva ignorata. Passava inosservato, persino deriso, fra quella gente di basso livello. Ma era consapevole di appartenere al novero di coloro che comandano. Nessun banchiere e nessun monarca era investito di potere più di Unrat o più interessato di lui al mantenimento dell’ordine esistente. Si infervorava per tutte le autorità; nel segreto del suo studiolo infieriva contro gli operai, i quali, se avessero raggiunto i loro obiettivi, avrebbero probabilmente ottenuto anche per Unrat uno stipendio meno misero. Con aria fosca metteva in guardia i giovani supplenti contro l’insana smania dello spirito moderno di voler scuotere la società dalle fondamenta. Lui voleva che queste fondamenta fossero salde: una Chiesa influente, una sciabola poderosa, una stretta obbedienza e dei rigidi costumi morali. Il che non gli impediva

di essere un incallito miscredente capace della massima indulgenza verso se stesso. […] E la domenica seguente si recò con Kiepert alle elezioni politiche nel Kohlmarkt, dove aveva sede il quartier generale dei socialdemocratici. Quel gesto esprimeva una sua decisione repentina. Unrat aveva scoperto che bisognava fiaccare la potenza della casta alla quale apparteneva Lohmann». Il ritratto svolto dai due autori identifica dunque quell’ampio ceto impiegatizio pronto ad aggrapparsi all’illusione dell’affermazione e del riscatto che considerava dovuti: un pericoloso e inquieto magma umano, vulnerabile alla suggestione, al fascino esercitato dalla ricchezza e dal potere, privo di scrupoli e di principi morali; insomma, la preda ideale per qualunque abile e spregiudicato manipolatore. Senza un’accurata comprensione della psicologia tirannica della piccola borghesia tedesca, sarebbe infatti difficile spiegarsi l’avvento del totalitarismo, di cui i grandi meneurs erano presagio. Un altro aspetto che caratterizzò il cinema espressionista – e che ritornò anche nelle opere del realismo poetico e nei noir americani – è l’antimilitarismo: gli intellettuali, reduci dalla tragedia della prima guerra mondiale, provavano orrore e disprezzo nei confronti della guerra. Come il Mann de La montagna incantata, il Brecht de La leggenda del soldato morto, la Kollwitz delle litografie sui figli strappati alle madri e il Dix delle illustrazioni della morte in trincea, anche Carl Mayer, sceneggiatore insieme a Hans Janowitz de Il gabinetto del dottor Caligari (1920), dopo essersi entusiasticamente arruolato nell’esercito imperiale, era rimasto traumatizzato dall’esperienza del fronte, arrivando a sviluppare, oltre a un credo pacifista, anche un’avversione radicale verso l’autoritarismo che aveva portato alla catastrofe bellica. Mayer del resto fu uno dei principali interpreti della stagione espressionista, che contaminò con il suo anarchismo dissacrante e la sceneggiatura originaria di Caligari avrebbe effettivamente dovuto comunicare un messaggio di inequivocabile condanna della tirannia e della insana

spietatezza dimostrata dall’autorità militare, che aveva mandato al macello una generazione intera di tedeschi, fatti agire come sonnambuli. Tuttavia essa subì, ad opera del produttore, Erich Pommer, del regista originariamente designato, Fritz Lang, e del suo successore, Robert Wiene, un radicale ribaltamento di prospettiva – introducendo l’espediente dell’incubo che lo stesso Lang avrebbe riproposto oltre oceano con La donna del ritratto (1944) – per effetto del quale non risultò folle l’autorità, bensì la sua vittima. Questa significativa trasformazione rischiò di stemperare l’intento polemico, anzi sovversivo, del film e di indebolirne la denuncia; in realtà, però, suscitò inquietudine e incertezza tali da scuotere ancora più profondamente la coscienza dello spettatore: trasportando il racconto dalla dimensione oggettiva della realtà a quella soggettiva della percezione e raccogliendo l’eredità di Rye e di Wegener sul tema dell’Io dissociato, la soluzione finale costringeva il pubblico a un esame della propria coscienza turbata. Per raggiungere lo scopo, scienza e arte si incontrarono nella elaborazione di una scenografia artefatta e distorta, attraverso cui attribuire forma visiva ai disturbi psichici dell’allucinato protagonista, la cui mente aveva assunto la struttura di un labirinto inestricabile, un regno del caos. Opera dei pittori Walter Reimann e Walter Röhrig, essa risentì dell’influenza dei paesaggi urbani di Kirchner, ma anche dell’allestimento scenografico curato dal futurista Prampolini per il film di Bragaglia, Thaïs (1917). Osservando quello scenario, la cui ambizione fu rappresentare il travaglio interiore del disgraziato personaggio, tornano alla mente le parole di Van Gogh: «il mio grande desiderio è di imparare a fare delle deformazioni o inesattezze o mutamenti del vero; il mio desiderio è che vengano fuori, se si vuole, anche delle bugie, ma delle bugie che siano più vere della verità letterale». I progenitori dell’espressionismo, letterario e figurativo, avevano già valorizzato ed esasperato la relazione empatica tra

individuo e ambiente circostante, nel quale, a seconda della predisposizione psicologica, l’uomo coglieva segnali differenti ma sempre molto intensi. L’analisi psicologica del protagonista di Delitto e castigo aveva indotto Dostoevskij ad associare la vista di un tramonto all’impressione, pur effimera, della fine di un tormento: «sentì di essersi scrollato di dosso quel terribile peso che l’opprimeva da tanto tempo e si sentì improvvisamente il cuore più leggero. «Signore!» disse «mostrami la mia strada e io abbandonerò questo terribile sogno». Attraversando il ponte guardò sereno la Neva, il sole rosso e lucente che tramontava nel cielo luminoso. Anche se era stanco non sentiva nemmeno la stanchezza. Era come se una pustola, che gli aveva infettato il cuore, finalmente si fosse rotta. Libertà, libertà!». All’opposto Munch, raccontando l’esperienza personale che ispirò il suo celebre urlo, ricordò che fu appunto un tramonto il motivo scatenante di un’insostenibile inquietudine: «camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero – azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». Il gusto espressionista per la deformazione scenografica sarebbe stato successivamente condiviso da molte altre produzioni, tra le quali merita di essere citata quella de Il gabinetto delle figure di cera (1924) di Paul Leni: l’ambientazione onirica del terzo episodio, che raccontava la fuga di due giovani da Jack lo squartatore, superò persino, per visionarietà e per efficacia, quella di Caligari. Lo sfondo dell’incubo fu, proprio come nel film di Wiene, una fiera – simbolo di disordine, ricorrente nel cinema tedesco dell’epoca. Leni non conferì solamente un significato allegorico allo spazio, ma gli attribuì anche un ruolo attivo nell’interazione con i personaggi; in seguito, l’animazione e il metamorfismo

scenografico ricorsero più volte, svelando il turbamento dei personaggi proiettato sulla realtà circostante. Lang fu uno dei registi maggiormente interessati a sfruttare questa peculiare potenzialità del mezzo cinematografico: memorabile la trasformazione del gigantesco macchinario di Metropolis in tremendo e insaziabile Moloch. Oltre alla concezione luddista – romantica delle macchine mostro, furono d’ispirazione anche alcuni passaggi della letteratura di Zola, che l’austriaco conosceva bene – lo dimostrano i rifacimenti dei film di Renoir tratti dalle opere del romanziere: La strada scarlatta e La bestia umana. Zola infatti aveva assegnato grotteschi tratti animaleschi e proporzioni gigantesche a oggetti inanimanti ma mortiferi, come l’alambicco de L’ammazzatoio che «con i suoi recipienti di forme strane, con le sue lunghe serpentine, aveva un aspetto cupo; non ne usciva uno sbuffo: si sentiva appena il respiro interno, come un russare sotterraneo. […] L’alambicco, sordamente, senza una fiamma, senza alcuna gaiezza nei riflessi stinti del suo rame, continuava a lasciar colare il suo sudore, l’alcol, come una sorgente lenta e perenne, che alla fine dovesse allagare la stanza, spandersi sui boulevards esterni, inondare l’immenso buco di Parigi». Mentre la miniera di Germinal, proprio come il macchinario di Metropolis, sembrò un mostro divoratore di carne umana: «ecco di nuovo le gabbie che senza sosta emergevano e si rituffavano, inabissando carichi di operai; eccolo di nuovo lì il mostro occupato a divorare la sua razione di carne umana con la disinvoltura del gigante famelico che del boccone che inghiotte neanche si accorge». Ma Lang riuscì a dotare di spessore narrativo anche lo spazio vuoto: nelle riprese iniziali di M, il mostro di Dusseldorf, la voce preoccupata di una madre, intenta a cercare invano la figlia, si persero attraverso gli ambienti che la bambina, uccisa dal maniaco, non avrebbe più abitato. Una soluzione paragonabile a quella della sedia abbandonata che Van Gogh aveva inserito in diversi dipinti, attribuendole il compito di testimoniare un’assenza.

La sensibilità espressionista per l’interiorità non poteva infatti omettere lo studio della relazione tra l’uomo e lo spazio più intimo: quello dell’abitazione. Van Gogh dipinse la propria camera di Arles e gli ambienti del ricovero di St. Rémy presso cui fu internato; allo stesso tempo collocò in uno scenario familiare e appunto intimo il suo vecchio sofferente – in una posa che spesso avrebbero assunto nel momento della massima disperazione i personaggi di Dostoevskij, con la testa abbandonata tra le mani. Proprio il romanziere russo attribuì alla stanzetta di Raskol’nikov un carattere odioso e ostile giacché, in qualche misura, essa era responsabile, con la sua angustia, di averne esasperato le emozioni fino a indurlo a commettere il delitto: «iniziò a camminare, quasi a correre; voleva tornare indietro, tornare a casa, ma casa sua gli era diventata insopportabile: proprio là, in quel buco, in quell’orribile armadio, era maturato tutto quello». E Munch realizzò numerosi dipinti dedicati alla violazione degli ambienti interni, noncurante della presenza di parenti e di amici, da parte della Malattia e della Morte. Anche il cinema espressionista tedesco affrontò il tema: ne Il dottor Mabuse, Lang costrinse il conte Told a vivere gli incubi e le allucinazioni peggiori proprio in casa propria, al punto che, pur trattandosi di una reggia, al personaggio dovette sembrare sempre più soffocante, fino ad avviarsi alla pazzia; in Die Straße, poi, il protagonista piccolo borghese avvertì la necessità di fuggire proprio dalla sua abitazione e dalla vita monotona che essa rappresentava, venendo tentato dagli irresistibili richiami anarchici della strada. Il film di Grune introdusse così uno spunto che sarebbe stato mutuato anche da molti film noir: vizio e peccato, che caratterizzavano la disordinata vita metropolitana, avrebbero trovato comunque un modo per spingersi fino al più riparato ambiente interno. Un’idea che ispirò la ricorrente immagine delle intermittenti luci urbane che filtrano attraverso una finestra aperta. E quella della finestra aperta fu una soluzione impiegata anche da Murnau ne L’ultima risata: neppure in camera propria il

protagonista avvilito poteva sottrarsi allo scherno dei vicini di casa, giacché si insinuava l’eco delle loro impietose risate. Un’altra componente caratteristica della messa in scena espressionista furono le ombre che si allungavano su quella scenografia e sui personaggi che la popolavano: anzi, l’utilizzo simbolico dell’ombra – per suggerire il turbamento interiore o, ancor più spesso, il presagio di un imminente pericolo – sarebbe divenuta una delle più riconoscibili eredità lasciate al cinema noir dagli autori tedeschi emigrati a Hollywood. Murnau, Lang e Dreyer furono maestri nel creare un mondo spettrale, gravato dall’angoscia che incombeva all’epoca sull’Europa prossima alla tragedia, sebbene anche in questo caso l’ispirazione della soluzione estetica vada rinvenuta nella tradizione – già Hoffmann, infatti, aveva suggerito la paura di Nataniele, immaginandolo sovrastato dall’oscurità: «oscuri presentimenti di un atroce destino che mi minaccia stendono su di me un’ombra di nuvole nere». Anche Heinrich Mann, nel romanzo espressionista Il professor Unrat, dipinse una terrificante camminata notturna, animata da ombre spaventose: «arcate, guglie e fontane proiettavano in quella notte gotica le loro umbratili sagome orlate di arabeschi. Unrat fu preso da una misteriosa agitazione».

Il dottor Mabuse

Il dottor Mabuse (1922) è un’opera eccezionalmente ambiziosa, accuratissima e straordinariamente visionaria. Si può definire un’epica al contrario giacché a livello ideologico non espresse i valori di una civiltà, bensì i suoi vizi, mentre dal punto di vista strutturale possedette una lunghezza e una varietà narrativa – sostanziata attraverso continue digressioni e costanti variazioni di tono – paragonabili a quelle dei grandi

poemi omerici. Il film, d’altra parte, aspirava dichiaratamente a rappresentare la società dell’epoca: lo testimoniano i titoli originali delle due parti di cui si compone, i quali contennero le locuzioni «il ritratto dei tempi» e «uomini d’epoca». Un obiettivo che gli autori perseguirono innestando una trama di fantasia – ispirata al popolarissimo romanzo d’appendice di Norbert Jacques e adattata da Lang, non accreditato, insieme alla compagna di allora, la sceneggiatrice Thea von Harbou – sulla ricostruzione, più esatta possibile, della Germania dell’immediato primo dopoguerra. La circostanza che il genere predominante fosse il thriller criminale, in uno con l’attenzione dedicata al contesto sociale e istituzionale che favoriva la commissione dei delitti narrati, suggerisce immediatamente un legame con i generi americani, gangster movie e noir. Al centro dello sviluppo si pose la sfida tra il procuratore von Wenk, servitore dello Stato e delle sue leggi, e il dottor Mabuse, il quale si considerava uno Stato nello Stato e tramava per la distruzione di quest’ultimo e l’edificazione di un nuovo potere. Il primo simboleggiò i valori tradizionali della cultura nobiliare prussiana – senso del dovere, rigore, disciplina e determinazione incondizionata – mentre il suo antagonista fu la personificazione delle nuove istanze della piccola borghesia, accecata dal rancore e inebriata dalla sete di potere che resero possibile l’avvento del nazismo. Lo scontro fatale venne ambientato tra le rovine di una Nazione che, negli anni incerti e tumultuosi della Repubblica di Weimar, annaspava faticosamente alla ricerca di un’identità, combattuta tra le alternative rappresentate dai due protagonisti: la tragedia delle due Germanie. Emerse infatti una società divisa, predestinata a un nuovo tracollo, annoiata dalla vita, traumatizzata dagli orrori della guerra, piegata dalla durezza della sconfitta, vinta dalla fame e dalla miseria, dedita ai vizi peggiori – il gioco d’azzardo, la cocaina, gli alcolici – fino all’autodistruzione. Lo stesso Lang ricordò che «non si può vivere in un paese che ha perso la guerra senza esserne influenzato […].

All’epoca, quando feci Dr. Mabuse der spieler, c’era questo grande manifesto sparso per tutta Berlino: uno scheletro che ballava con una donna che diceva: Berlino, stai ballando con la morte». L’attacco del regista austriaco non risparmiò alcuna classe sociale, mettendo a nudo gli aspetti più deleteri di ciascuna. L’aristocrazia era lasciva e fragile – come il personaggio della contessa ammise ripetutamente: «noi ci annoiamo molto, abbiamo bisogno di emozioni forti per sopportare la vita»; «temo che non ci sia niente al mondo che mi interessi durevolmente»; «ho bisogno del respiro forte delle cose proibite». La ricca borghesia appariva priva di forza d’animo e cadeva come un inerme burattino nelle macchinazioni del potente manipolatore Mabuse. Gli intellettuali oziosi, anziché ergersi a mente e coscienza della società, si dedicavano all’occultismo, per sfuggire alla realtà della loro esistenza, intrecciando le mani in circolo – figura geometrica che nella simbologia espressionista rappresentò il caos. Il popolo, infine, ingenuo e violento, si dimostrava troppo facile alla suggestione, assetato di sangue e pronto a obbedire a chiunque predicasse a pugni stretti la via dell’eversione, insorgendo contro le autorità senza alcuna effettiva consapevolezza di ciò che stava facendo. A riprova della mancanza di un potere forte al governo e, più in generale, di un’ideologia dominante, ciò che venne maggiormente apprezzato dalla critica tedesca di allora fu proprio il crudo realismo che, con riguardo alle successive manifestazioni del cinema della disperazione in giro per il mondo, venne aspramente osteggiato dalla censura di regime. Il Vorwarts del 30 aprile 1922 commentò: «Il cinema come archivio della sua epoca; questa è la novità. I riflessi di un’epoca, eternati nella celluloide, conservati per i posteri in immagini in movimento che comunicheranno il ritmo del nostro tempo con un’immediatezza che nessun libro potrebbe avere. Il regista, Fritz Lang, ritrae questo panorama della nostra epoca con grande impegno e forte capacità di osservazione». Anche il Die Welt am Montag del 1 maggio

1922 dimostrava analogo entusiasmo: «questo film è un documento del nostro tempo, un ottimo ritratto dell’alta società con la sua passione per il gioco e per il ballo, il suo isterismo e la sua decadenza, il suo espressionismo e i suoi occultismi». Lang, tuttavia, non si limitò a fotografare la realtà, ma ne esasperò i tratti cercando di svelarne l’autentica terrificante natura. E per accorgersene basta analizzare una delle sequenze iniziali, dedicata all’attività finanziaria della borsa. Si tratta della prima grande messa in scena corale, ambientata in un’enorme sala dominata da un orologio a ventiquattro ore, che suggeriva come la brama d’affari non si arrestasse mai. La attraversavano decine di comparse mirabilmente coordinate e ogni movimento recitativo e di ripresa risultava funzionale a trasmettere l’insostenibile angoscia che caratterizzava l’attività speculativa: l’addetto alla lavagna, sulla quale veniva costantemente aggiornato l’andamento dei titoli, era sottoposto alla stessa pressione dell’operaio di Metropolis, dalla cui ininterrotta attività dipendeva il funzionamento di un’intera città. All’improvviso, però, tutto il dinamismo s’interruppe bruscamente e il tumulto di passioni si tramutò in natura morta: Mabuse aveva provocato un crollo tale da paralizzare la borsa e sul salone, rimasto vuoto, calò il silenzio. Attraverso questo contrasto, evidenziato dalla scelta di un motivo musicale beffardo quanto l’espressione disegnata sul volto del grande genio criminale, Lang sottolineò la crudeltà del mercato: quando questo si chiudeva, per qualcuno maturava il guadagno, ma per la maggior parte sopravveniva la rovina. Sembrerebbe quasi una premonizione della grande crisi del 1929, che piegò in due la Germania portando il prezzo di un chilo di patate a un milione di marchi. E come stupirsi? Oltre all’innegabile capacità di inquadrare fedelmente un’epoca, un popolo e i suoi costumi viziosi, Lang dimostrò anche la straordinaria abilità di presagire l’imminente tragedia. La figura di Mabuse fu infatti un trattato di cultura nazista: la bramosia per il potere e il comando, l’aspirazione a sovvertire

le regole della convivenza sociale, la considerazione degli uomini alla stregua di semplici marionette, con il cui destino era lecito giocare. Mabuse si considerava «uno Stato, nello Stato, con cui [era] sempre stato in guerra»; si riteneva al di sopra delle leggi, terrene e divine, verso cui non nascose un vivo disprezzo – «il mondo saprà chi sono io … Mabuse! Diventerò un gigante, un titano che calpesta le leggi e Dio come foglie secche!» – mantenne il comando incutendo il timore tra i suoi stessi seguaci, dei quali non esitava a sbarazzarsi non appena avessero esaurito la loro utilità. Nel mettere in atto i propri diabolici piani, egli non concesse alcuno spazio al rispetto delle regole dell’antica cavalleria, ma ricorse ai più subdoli inganni – su tutti gli innumerevoli travestimenti – facendosi beffa di una società ancora legata, sia pure nella disperazione della sconfitta, a vecchie regole d’ingaggio e totalmente disorientata dai nuovi metodi di delinquenza. Questo tratteggio dell’avventuriero privo di scrupoli riscosse un impensabile favore: in effetti, egli incarnava un despota violento, che allora il Paese temette e odiò ma che, allo stesso tempo, segretamente ammirò e desiderò; quel tiranno al quale, come sostenne lo storico Kracauer, la Germania dell’epoca era legata da un legame controverso e contraddittorio. La mano di Mabuse, che usciva dall’ombra per ghermire la collana della vittima al gioco e tornare fulminea nell’oscurità, non venne percepita come la terribile minaccia che in effetti era, bensì come la promessa dell’atteso riscatto di un’intera Nazione, avvilita per le condizioni imposte dal trattato di pace. E nel titanismo dello spregiudicato Mabuse – specialmente se raffrontato con la rassegnata inerzia aristocratica e alto borghese – era impossibile non cogliere lo sfogo della necessità tipicamente tedesca di compiere gesta eroiche. Alcune battute del grande criminale, infatti, sembrerebbero essere state scritte da Schiller che, nella seconda scena del primo atto de I masnadieri, fece proclamare solennemente al protagonista: «dovrei stringere il mio corpo in un busto e vincolare la mia volontà tra le leggi. La legge ha fatto scadere a incesso di lumaca ciò che sarebbe

stato volo d’aquila. La legalità non ha mai prodotto un grand’uomo, ma la libertà cova e fa schiudere i colossi e i grandi eventi. […] Ah, se il genio di Arminio ardesse ancora tra le ceneri! Immagina un esercito di ragazzi in gamba come me e la Germania diventerebbe una repubblica in confronto alla quale Sparta e Roma sarebbero conventi di monachelle». Mabuse, dunque, si iscrisse al novero dei film espressionisti incentrati sulla figura di un mostro che diffondeva il caos per generare un nuovo ordine del terrore ma, a differenza degli altri, non si collocò in una dimensione senza tempo, calandosi invece tra i suoi contemporanei: anzi, grazie agli ingegnosi travestimenti, egli era ovunque; un male irriconoscibile e inarrestabile; un vero e proprio contagio. La modernità di tale figura criminale costituì l’aspetto più apprezzato del film: se il Bildzeitung si limitò a definire Mabuse «un criminale geniale», il Kinematograph del 7 maggio 1922 sottolineò appunto trattarsi di «una figura ideale della nostra epoca. Non è come il grande gangster del passato con i suoi metodi duri; non a caso è uno studioso che ha messo tutta la forza intellettuale della sua preparazione accademica nell’esecuzione dei suoi progetti giganteschi». Ciò che più sembrò interessare a Lang, tuttavia – anticipando la critica sociale tipica del cinema della disperazione – fu rappresentare l’incapacità di reagire alla minaccia dimostrata dalla comunità, che subiva passivamente la destabilizzazione perpetrata da Mabuse. Oltre alla polemica analisi dei difetti della società, il film di Lang introdusse anche altre caratteristiche in seguito mutuate dal genere noir, alla cui definizione lo stesso regista austriaco avrebbe contribuito durante il suo periodo americano. Un aspetto è la dialettica tra giorno e notte: a ciascuna metà della giornata corrispose una diversa metà dell’uomo – i primi due atti dell’opera, infatti, vennero rispettivamente dedicati a «lui e la sua giornata» e a «lui e la sua notte». Dal raffronto tra i due, emerge chiaramente che Lang consacrò la

notte quale teatro ideale per lo sfogo delle pulsioni più malvagie e più perverse. Ancora più significativa fu l’attenzione rivolta all’ambiente che aveva favorito la diffusione del crimine: la condizione di miseria, lo stato di caos, la crisi delle istituzioni tradizionali e la sfiducia nei confronti delle autorità pubbliche. Come già aveva fatto Dostoevskij in Delitto e castigo, anche Lang si pose alla ricerca di tipo realistico delle origini dei mali sociali. Sembrano ispirati al capolavoro del romanziere russo anche l’ostinazione e il metodo con cui Mabuse pianificava ed eseguiva i propri delitti: lo stesso avrebbero fatto in seguito molti protagonisti del cinema noir, impegnati con tutte le forze a ideare e a programmare fin nei minimi dettagli un grande colpo da mettere a segno. Colpo che tuttavia non riuscirà mai, come pure non riuscì a Mabuse la conquista del potere. In proposito, è molto interessante il ruolo che Lang attribuì al rappresentante dell’ordine e della morale, il procuratore von Wenk – anch’egli rassomigliante, per sensibilità e maniere, al commissario Nikodim Fomič: puro, incorruttibile, instancabile e determinato a neutralizzare il male a costo della propria stessa vita, egli sì sembrò impersonare un ideale di giustizia che nulla aveva a che fare con gli anni del film, tanto da non riscuotere il favore della critica e del pubblico. Questo personaggio solitario, sorretto dal senso del dovere e dell’etica, non avrebbe avuto eguali nelle opere noir, la sconfitta finale dei cui antieroi si dovette sempre al volere del fato – e della censura – e mai alla virtù di un eroe come lui; un eroe da vecchio west. Se, quanto a poetica, il film di Lang riuscì ad anticipare il gusto noir, gli aspetti tecnici e soprattutto produttivi della sua opera differirono moltissimo da quelli che avrebbero limitato i c.d. B – movies americani, realizzati talvolta con veri e propri mezzi di fortuna; all’opposto mentre il primo capitolo della saga mabusiana impressiona appunto per il carattere colossale (3496 metri di pellicola), conferito dall’inusuale durata (poco più di 270 minuti), dal numero sorprendente di ambienti (30

differenti set), di personaggi e di comparse, dall’imponenza delle scenografie. Il carattere artefatto di queste ultime – pur non coincidendo con la tendenza che si sarebbe imposta, sia per ragioni ideologiche, sia per ragioni produttive, nel cinema realista di ricorrere ad ambienti autentici – non impedì alla ricostruzione di evocare immediatamente l’atmosfera effimera, ma profondamente desolante e allucinata, della belle epoque: lo specchio di una società aggrappata al ricordo dei fasti di un grande impero, eppure affacciata sull’orlo del baratro. Così, alla ricchezza sfarzosa dei salotti, alla ricercatezza delle luminose sale da gioco, all’austerità composta ed elegante degli atri d’albergo, alla stravaganza delle dimore di famiglie benestanti, si contrappose in maniera stridente la dissolutezza delle persone che vi abitavano, lo squallore e l’illiceità delle attività che vi si svolgevano, l’inquietudine degli sguardi e dei sussurri che li riempivano. Lang seppe trattare gli scenari come se fossero la coscienza esteriore dei personaggi, le cui emozioni vennero espresse manifestamente appunto attraverso l’interazione con lo spazio circostante. È il caso delle scenografie animate, la cui fantastica metamorfosi corrispondeva all’alterazione, percettiva o emotiva, del personaggio del quale si assume la prospettiva. La fotografia e, in particolare, i giochi di luce orchestrati da Carl Hoffman rimarcarono la funzione rivelatrice delle ombre, come quella del profilo di Mabuse che sovrastava Carozza, divenendo un nefasto presagio della tragica morte di costei per mano dell’uomo. Si trattò di una delle prime e più riuscite applicazioni di un linguaggio visivo che sarebbe stato impiegato anche da altri grandi cineasti: si consideri la scena in cui l’ombra dello zar Ivan si allunga ambiziosamente sul mappamondo, nel film di Ėjzenštejn; ma anche la soluzione grafica adottata da Lucas – il cui debito artistico nei confronti di Lang è evidente nell’intera saga di Guerre stellari – per lanciare il primo episodio della seconda trilogia di Star Wars, ricorrendo a un’immagine in cui il giovane Anakin Skywalker

proiettò la sagoma di Darth Vader, nel quale infine si sarebbe trasformato. Oltre all’ombra presagio, il film di Lang adottò anche la formula estetica dell’ombra emozione: il primo piano di Carozza, costretta alla prigionia per amore di Mabuse – al quale tuttavia ella era indifferente – venne incorniciato dal riflesso delle grate, allo scopo di sottolineare che l’angoscia interiore fu per la donna più insopportabile della privazione della libertà.

L’ultima risata

L’ultima risata (1924) è un film diretto da Friedrich Wilhelm Murnau, sceneggiato da Carl Mayer e fotografato da Karl Freund. Si tratta di una delle opere più significative sul tema della mentalità piccolo borghese, ossessionata dall’idea del prestigio: Mayer affrancò dalla dimensione fantastica di Caligari la polemica contro l’autoritarismo, mettendo alla berlina non senza amaro e pungente sarcasmo l’aspetto ordinario e quotidiano della sua inconsistenza. L’autoritarismo – per uno dei più importanti autori del cinema espressionista tedesco – si fondava su attributi puramente formali, come la divisa gallonata dell’usciere di un albergo di lusso; ben poca cosa agli occhi dei ricchi ospiti della struttura, ma estremamente importante per gli abitanti dei quartieri più poveri. Del resto, come ricordava Gogol a proposito di un personaggio influente nel racconto Il cappotto, «il personaggio influente era diventato da poco personaggio influente e fino a quel momento era un personaggio non influente. D’altronde, il suo posto anche adesso non era ritenuto influente, paragonato ad altri ancora più influenti. Ma si trova sempre una cerchia di persone per le quali è già influente ciò che non lo è agli occhi

degli altri». Ecco che, allargando la cerchia, Mayer estese la sua impietosa critica all’intera società, contagiata ormai dalla logica borghese, come gli operai francesi delle Note invernali di Dostoevskij, «proprietari nell’anima» il cui «ideale sta nel divenire proprietari e nell’accumulare la maggior quantità di cose possibile». Nel film di Murnau, questa smania trovò soddisfazione nella lucente divisa, oggetto del desiderio del protagonista e motivo visivo del racconto: la sua immagine tornava incessantemente, concorrendo a imporre nella mente del pubblico l’attaccamento morboso e soffocante dell’usciere nei confronti dell’indumento che lo definiva agli occhi del mondo e senza il quale egli risultava quasi privo di una legittimazione ad esistere. Kracauer, in proposito, sostenne che L’ultima risata apparterebbe a quella serie di film sceneggiati da Mayer che furono i «primi a valersi del mondo degli oggetti, fino ad allora esplorato soltanto nelle comiche, per dar risalto all’azione drammatica». Di certo, questo geniale sceneggiatore seppe coniugare il simbolo con la cronaca quotidiana – caratteristica del realismo. In ciò non è negabile l’influenza del già citato Gogol che costellò di elementi fantastici e simbolici un mondo fin troppo reale, svolgendo un’analisi altrettanto corrosiva dei costumi dell’ambiente impiegatizio. Il protagonista de Il cappotto, Akakij Akàkievič, era un «eterno consigliere titolare» e «nella divisione non lo tenevano in alcuna considerazione. I custodi non solo non si alzavano quando passava, ma non gli rivolgevano neppure uno sguardo […]. I capi lo trattavano in una maniera freddamente dispotica. […] I giovani impiegati lo deridevano e lo beffeggiavano, per quanto poteva l’arguzia burocratica». Ma, non appena sfoggiò un nuovo cappotto, per farsi confezionare il quale aveva dovuto sopportare privazioni incredibili applicate a un’esistenza già estremamente ingrata, tutti «cominciarono a felicitarsi, a congratularsi». Del resto quell’abito era stato per lui un conforto, oltre che un obiettivo da raggiungere a ogni costo: «imparò perfettamente a digiunare la sera, ma in compenso si alimentava spiritualmente, con l’idea del futuro cappotto, sempre fissa nel pensiero. Da allora la sua stessa

esistenza parve farsi in qualche modo più completa, quasi fosse sposato, quasi un’altra persona vivesse con lui, come se non fosse solo e una piacevole compagna di vita avesse acconsentito a percorrere insieme a lui il cammino terreno e questa compagna non era altro che il cappotto stesso […]. Egli diventò un po’ più vivace, persino più duro di carattere, come uno che avesse ormai scelto e fissato uno scopo». La follia del consigliere titolare era la stessa dell’usciere e tutti gli altri piccoli borghesi che vissero nell’illusione di assaporare un assaggio di prestigio attraverso un’uniforme. Gogol, come Mayer, al di là della virata fantastica del racconto e dell’esasperazione tipica del suo stile – che a lunghe e apparentemente superflue descrizioni contrapponeva improvvisi e spiazzanti sviluppi drammatici – ridicolizzò la rigidità dell’ottusa mentalità borghese e affrontò molti spunti che sarebbero diventati capisaldi della poetica noir: l’insensibilità, la superficialità e l’artificiosità nelle relazioni sociali che condannano ciascun individuo alla solitudine; la sfiducia nei confronti della polizia; l’arroganza dei superiori che con gusto dispotico maltrattavano i sottoposti al solo fine di riaffermare con loro e di convincere se stessi della propria autorità. Noir fu anche l’andamento del racconto gogoliano, proprio a gobba di cammello: il protagonista, attraverso indicibili sforzi, riusciva a raggiungere il proprio traguardo, ma il furto del cappotto e l’insensibilità del personaggio influente ne provocavano la morte. Una parabola simile fu impressa da Mayer alle vicende del protagonista de L’ultima risata, lo sfortunato usciere d’albergo interpretato da Emil Jannings: inizialmente carismatico per merito della divisa indossata, egli subì un inesorabile tracollo non appena ne fu svestito; dall’incapacità di accettare la sconfitta, passando per la brama di riscatto, egli finì nell’autocommiserazione, proprio come era capitato alla Germania del primo dopoguerra di cui egli impersonò la mentalità. Indagare il tormento interiore dell’usciere significava dunque cercare di spiegare il disordine nel quale era precipitato il Paese; di grande interesse, al riguardo, fu

soprattutto la rappresentazione dell’inconscio nel corso di una sequenza onirica: sotto l’effetto dell’alcol, i propositi di rivalsa assumono addirittura i tratti della megalomania che lo porta a immaginare di sconfiggere le proprie naturali debolezze e a dimostrarsi nuovamente degno della divisa. Ma, dopo tante pene, il film di Murnau virò improvvisamente in un rocambolesco lieto fine: proprio come nel racconto di Gogol – in cui lo spettro del consigliere titolare rubava il cappotto del personaggio influente, concretizzando una rivincita beffarda sia pur postuma – anche la sceneggiatura di Mayer attribuì al protagonista l’ultima risata, realizzando una sorta di caricatura dell’happy end all’americana, che si stava imponendo nel cinema internazionale. Una nuova moda, consolatoria e filoborghese, sbeffeggiando la quale l’anarchico sceneggiatore perpetrò la propria vendetta dopo gli stravolgimenti imposti al suo Caligari. Appunto per sottolineare l’aspetto farsesco del finale, Murnau ricorse a una delle solamente due didascalie alle quali ricorse. La quasi totale mancanza di parole dimostra ancora oggi che il film – oltre a possedere innumerevoli spunti di interesse storico e culturale – costituì uno dei massimi esempi di avanguardia cinematografica, elaborando un linguaggio puramente visivo dotato di straordinaria efficacia narrativa. Mai l’autore avvertì l’esigenza di spiegare lo sviluppo della storia attraverso il proprio intervento didascalico, se non appunto per separare la realtà dalla speranza – alla quale si riferivano le ultime riprese. E per chiarire il ruolo svolto dal destino nella determinazione di tutte le vicende umane, secondo una logica alla quale, all’inizio del racconto, venne ricondotta anche la storia dell’usciere. Ma il concetto fu espresso anche attraverso il ricorso a una metafora visiva: una porta girevole ruotava vorticosamente, simile ai rovesci della sorte – così, dall’enunciazione teorico letteraria all’attuazione pratico visiva, il raccordo era stato garantito attraverso un rapido movimento della macchina da presa, che spinse il pubblico tra le circonvoluzioni della porta.

Anche oltre, Murnau sfruttò la possibilità di eseguire finalmente riprese in movimento, non solo per saldare elementi distinti della scenografia tracciando attraverso essa percorsi logici dotati di un particolare significato, ma anche allo scopo di cogliere, sfruttando la continuità dell’azione in progressione, il processo psichico che la determinava. Nella drammatica sequenza, durante la quale Jannings compiva il furto della livrea sequestrata, ciò che più interessava al regista non era il risultato finale di quel gesto disperato, quanto la risoluzione del conflitto interiore che lo precedette; Murnau suggerì come sul timore iniziale di essere scoperto prevalesse, a poco a poco, la bramosia di riacquistare l’indumento: ciò che egli provava poté essere mostrato soltanto documentando senza interruzioni l’indecisione con cui l’uomo si aggirava per i corridoi bui dell’albergo e seguendo i movimenti istintivi, quasi animaleschi, che lo guidarono fino all’oggetto della sua ossessione. Insomma, Murnau realizzò una delle prime spiegazioni visive dell’impulso criminale. Il movimento della macchina da presa fu necessario anche per raccontare il momento d’angoscia in cui l’usciere, spogliato della divisa, fece ritorno nel proprio quartiere. Qui era sempre stato l’aspetto conferitogli dall’indumento a procurargli deferenza e ammirazione generali, ma la condizione in cui era stato costretto a presentarsi – senza uniforme – suscitò pettegolezzi e derisione, ai quali Murnau conferì una dimensione visivamente percepibile, seguendo il suono della voce da una finestra all’altra. L’usciere, che in precedenza avanzava a testa alta e con passo deciso, procedette questa volta lento, incerto, avvilito: la continuità della ripresa evidenziò l’evoluzione di quel doloroso processo interiore, espresso ed esasperato dalle movenze di Jannings. Un altro significativo scorrimento della macchina da presa si apprezza nel finale, quando Murnau ricorse alla piano sequenza per svelare lentamente l’identità di colui che, con il favore della fortuna, era diventato l’ospite più ricco dell’albergo: si tratta dell’usciere, piccolo – borghese, che solo uno sviluppo improvviso e completamente estraneo al suo

dominio aveva potuto riscattare dalla condizione di abbrutimento, in cui era sprofondato a causa dell’incapacità di affrontare la frustrazione, provocata dalla perdita della divisa. Invero, fu lo sguardo del regista – corrispondente al volere del destino – ad andargli incontro e non viceversa, a riprova che non era stata la sua iniziativa a permettergli di rovesciare la propria condizione. Ma le innovazioni tecniche non permisero solamente spostamenti lenti della macchina da presa, ma anche movimenti brevi e rapidissimi – come le carrellate in avvicinamento – che Murnau trasformò in veri e propri affondi nello stato d’animo dei personaggi, cogliendone il dramma e comunicandolo al pubblico. Gli autori de L’ultima risata non sperimentarono soltanto, ma consolidarono anche i canoni dello stile espressionista, ricorrendo, ad esempio, alla deformazione soggettiva della realtà per svelare l’emozione del personaggio di cui veniva assunta la prospettiva: si consideri la manipolazione delle immagini della lettera che informa l’usciere del provvedimento volto a privarlo della divisa. Ancora più interessante fu l’utilizzo della sovrapposizione durante le riprese del ritorno a casa del protagonista ormai orfano dell’uniforme: le bocche che ridevano impietosamente parrebbero addirittura abbattersi sull’uomo, costretto ad arrancare sotto il peso dello scherno patito.

L’angelo azzurro

L’angelo azzurro (1930) di Josef von Sternberg fu tratto dal romanzo di Heinrich Mann, Il professor Unrat, vetta della letteratura espressionista, che definì la nozione del tiranno piccolo borghese, tratteggiando una mentalità diffusa che

aveva reso porosa e turbolenta la società tedesca di inizio secolo. Una mentalità che presentava innumerevoli punti di tangenza con quella delineata da Dostoevksij più di cinquant’anni prima; la stessa che le successive manifestazioni del cinema della disperazione avrebbero ancora considerato, più o meno esplicitamente, uno degli aspetti più deleteri del tipo occidentale moderno. Del resto, la scelta di assumere la prospettiva popolare implicò il definitivo ripudio di quella borghese che, pur non venendo mostrata, riversava tutto il peso dei suoi meschini pregiudizi sulle spalle dei protagonisti: perlopiù emarginati e reietti, essi erano appunto il prodotto dell’indifferenza e della disumanità di un modello sociale fondato sull’ipocrisia, sulla debolezza, sull’ambizione, sul risentimento e sul solipsismo di Unrat. Mann lo presentò che, «attraverso gli occhialini, lanciava un’occhiata biliosa che gli allievi definivano infida, ma che era timorosa e vendicativa: lo sguardo di un tiranno dalla coscienza poco tranquilla, il quale sotto le pieghe di ogni mantello sospetta la presenza di un pugnale». Da questo atteggiamento trapelava quella paura inspiegabile che pervadeva già il reazionario borghese francese descritto da Dostoevskij nelle Note invernali su impressioni estive: «prima, ai tempi, per esempio, di Luigi Filippo, il borghese non aveva paura, benché anche allora avesse il potere. Sì, ma allora egli combatteva ancora, presentiva di avere dei nemici, e difatti se li levò di torno una volta per tutte, sulle barricate di giugno, col fucile e la baionetta. Ma la lotta ebbe termine e il borghese all’improvviso vide che era solo sulla terra, che non esisteva nulla meglio di lui, che egli era l’ideale e che ora gli restava non, come un tempo, da convincere il mondo intero che egli era appunto l’ideale, ma semplicemente da mettersi in posa, tranquillo e maestoso, davanti al mondo come estrema bellezza e massima tra tutte le possibili perfezioni umane. […] Da allora, il borghese prospera e per la sua prosperità paga tremendamente caro e ha paura di tutto, proprio per il fatto che

tutto ha raggiunto. Quando si è raggiunto tutto, diventa infatti molto pesante il pensiero di poter perdere tutto». Per l’annotatore russo la conseguenza di questa deformazione mentale fu la tendenza del ceto egemone di ignorare, minimizzare o addirittura negare l’esistenza dei problemi sociali fino alla negazione del principio di fratellanza, destinato a restare soltanto enunciato: «nella natura francese e, in generale, in quella occidentale di fratellanza non se n’è riscontrata; si è riscontrato invece il principio personale, il principio dello starsene per conto proprio, dell’autoconservazione intensiva, dell’autosufficienza, dell’autodeterminazione del proprio Io personale, della contrapposizione di questo Io alla natura tutta e a tutta la restante umanità in quanto singolo principio autonomo». Mann attribuì a Unrat identiche pulsioni: uno Stato nello Stato con cui è sempre stato in lotta – per citare Mabuse – ostile nei confronti degli esponenti della sua stessa classe sociale. «Quelli là si riunivano tra amici e avevano una vita normale e ordinata: lui invece si sentiva in una certa misura problematico e per così dire reietto». Il borghese tedesco dunque si rintanava, come uno dei più celebri protagonisti dostoevskiani, nel sottosuolo e da lì tramava, divorato dall’invidia: «gli era giunta voce che quel Richter stava per combinare un ricco matrimonio, impalmando la discendente di una famiglia distinta, una di quelle famiglie alle quali solitamente i semplici professori non innalzano lo sguardo. E Unrat, lì nell’oscurità, sogghignò tra sé e sé. «Be’, un tizio davvero ambizioso … si direbbe!» fu il suo commento. E, alzando il colletto del suo cappotto inzaccherato, rise di quel giovane di belle speranze, come un vagabondo beffardo che, nascosto in un angolo buio, con aria minacciosa osserva in incognito il bel mondo e porta nel proprio spirito, come una bomba, la sua estinzione». Insomma, l’enorme merito di Mann e di Dostoevskij fu di testimoniare i meccanismi dell’inconscio collettivo che avevano portato all’affermazione di un tessuto sociale disgregato, ben lontano dall’ideale proclamato sulle barricate

della rivoluzione. Dimostrarono che i rapporti orizzontali – e non soltanto quindi le relazioni verticali tra potere e cittadini – erano governati dall’esigenza di sopraffazione, una terribile realtà, regolata dal principio dell’utile, da cui sarebbero rapidamente discesi il degrado urbano, la delinquenza dilagante, la corruzione istituzionale, la condizione di miseria e di povertà del proletariato, le guerre, la colonizzazione e la globalizzazione. Insomma, quel panorama, la cui contemplazione attraverso l’occhio della macchina da presa, ispirò in seguito le varie manifestazioni del cinema disperato. Il romanzo di Mann comunque anticipò anche in maniera inequivocabile alcuni tratti del cinema noir: introdusse la figura di un personaggio femminile conturbante, irresistibile, corruttivo. Per lui la canzonettista Rosa era come «un urlo» e il suo fascino possedeva l’aspetto di un dipinto fauvista: un’esplosione di colori letteralmente ferina, degna di una belva predatrice – «Unrat fu costretto a guardarla; ma lei lo sgomentò con tutta quella profusione di colori». Egli la introdusse al lettore attraverso un numero musicale – altro topos dei film neri – durante il quale la donna assumeva un’espressione di ingenuità paragonabile a quella di mademoiselle Blanche de Il giocatore o del personaggio di Mary Astor ne Il mistero del falco: «perché io sono piccola, piccola e innocente» erano le parole a cui il pubblico non riusciva davvero a resistere. È vero comunque che Rosa non fu una vera femme fatale, del tutto priva di scrupoli e di amore; al contrario, ella comprese che la devozione di Unrat le offriva un riscatto esistenziale di cui ella era grata: «Dio le era testimone […]. Ne aveva abbastanza di quelle storie e si sarebbe accontentata di potersene stare un po’ in pace insieme al suo vecchio e ridicolo Unrat che si dava tanta pena per lei come, in vita sua, nessuno aveva mai fatto». Molto più noir sarebbe stata invece la caratterizzazione di Lola ne L’angelo azzurro: interpretata da Marlene Dietrich – che proprio grazie a quel ruolo si impose all’attenzione del pubblico internazionale assetato di divismo quanto mai – la ballerina assunse i tratti di una spregiudicata e astutissima cacciatrice,

che attirava letteralmente nella propria rete il professore. Ella divenne un tutt’uno con la ridondante scenografia del locale in cui si esibiva e il piccolo borghese, inizialmente spaesato, ne restò conturbato al punto da incagliarsi dopo aver mosso i primi passi al suo interno.

Il carattere figurativo proprio dell’arte cinematografica consentì a von Sternberg di esaltare l’attrattiva del numero musicale, durante il quale la donna spudorata, anziché nasconderlo, ostentava il proprio fascino e il successo della rappresentazione, presso il pubblico tedesco e non solo, testimoniò che si era ormai diffuso un impensabile voyerismo. Appunto nel personaggio della Dietrich, Krakauer riconobbe «il torbido avvento dei tempi nuovi», nei quali proliferava il cinema d’educazione sessuale – connotato in realtà da una matrice prevalentemente pornografica – per rispondere, nell’immediato dopoguerra, a pruriti del pubblico maschile troppo a lungo repressi in trincea. E nel film assunse infatti significativa rilevanza l’oggetto della cartolina – sulla quale era impressa un’immagine particolarmente scandalosa di Lola: la sua ricorrenza nel racconto non suggerì soltanto l’ossessione del protagonista, ma quella di un popolo intero, ipocritamente diviso tra bigottismo e perversione. Von Sternberg, d’altra parte, proseguì la denuncia dei vizi borghesi della Germania weimariana, della quale il professore e la sua deplorevole debolezza d’animo erano espressione. In proposito, meritano di essere segnalate sia l’andatura di Emil Jannings – che, percorrendo di notte il labirinto delle vie cittadine simile al dedalo della coscienza interiore, si avvicinava inquieto al locale de L’angelo azzurro, ora spinto dall’attrazione, ora invece trattenuto dal senso di colpa – sia la sequenza onirica, durante la quale veniva svelata l’intima e inconscia doppiezza del professore. Nell’ottica dell’adeguamento alla polemica sociale propria del cinema espressionista, va considerata poi anche un’altra importante novità introdotta dagli autori del film: la violenza. Essa aleggiò per tutto il racconto, contagiandone tutti i personaggi, in un clima di isterismo collettivo. Ma, in particolare, si segnala quella con cui i giovani liceali si accanirono sullo studente modello, il diverso – nel corso di una memorabile ripresa di ombre espressioniste. Essi impersonarono il presagio della gioventù hitleriana: «il torbido

avvento dei tempi nuovi», per ripetere l’espressione di Kracauer. Nel romanzo di Mann, al contrario, i ragazzi erano tutti, sia pure ciascuno in maniera diversa, le vittime dell’ottusa severità imperiale, responsabile di castrarne slanci e passioni. Uno di loro in particolare, Lohmann, incarnò la figura dell’intellettuale romantico, tanto temuto quanto odiato dal tiranno borghese a causa della sua indipendenza di pensiero: «scriveva poesie alla Heine e amava una signora trentenne. Assorbito dal desiderio di acquisire una cultura letteraria, non poteva riservare troppa attenzione alla scuola. […] dimostrava più anni di quelli che aveva per il fatto che era stato toccato dallo spirito. Che impressione poteva fare a Lohmann quel pagliaccio di legno lassù sulla cattedra, quel babbeo ossessionato da un’idea fissa? Se Unrat gli rivolgeva una domanda, lui si staccava con flemma dalle proprie letture che nulla avevano a che vedere con la lezione che si stava svolgendo in classe e, corrugando con disappunto la fronte larga e pallida, scrutava – di sotto le palpebre abbassate con aria sdegnosa – il meschino accanimento dell’interrogante, la polvere che ne ricopriva la faccia, la forfora sul colletto della giacca. Unrat odiava Lohmann in un certo senso più degli altri, per via della sua irriducibile indocilità […]. Quanto a Lohmann, pur mettendocela tutta, non poteva ricambiare l’odio di quel povero vecchio se non con un fievole disprezzo, al quale si aggiungeva una lieve commiserazione mista a disgusto». È interessante notare anche la differente parabola intrapresa dal piccolo borghese: nel film egli fece la fine di ogni altro tiranno, cioè, passando dal delirio dell’onnipotenza a un’insopportabile frustrazione, impazzì; nel romanzo, invece, venne arrestato dopo aver tentato di commettere un reato, spinto dalla delusione per aver visto infranto il proprio sogno di riscatto. In questo senso, si può dire che la versione di Mann di inizio ’900 era stata più noir di quella di von Sternberg: il protagonista si era illuso veramente di poter raggiungere la felicità più pura e sincera e la disobbedienza

alla quale si concesse era il frutto della disperazione. Viceversa, la fine del professore de L’angelo azzurro sembrò essere il naturale, logico e inevitabile decorso della sua innata follia, in un mondo abitato soltanto da altri folli, violenti e indifferenti. Il finale del film, con il disperato tentativo del professore di rivedere per un’ultima volta la cattedra che aveva abbandonato, intraprendendo una vita costellata di umiliazioni e derisione, presentava un uomo degradato a buffone della sorte – vestito infatti da pagliaccio, con l’espressione amara e rassegnata dei personaggi circensi raffigurati da Rouault. E il sadismo con cui von Sternberg mise in scena la sua disfatta finale, tra la noncuranza degli altri personaggi – come il clown muto – soddisfò evidentemente il desiderio inconscio del pubblico di osservare compiaciuto il massacro di una creatura ormai impotente: lo spettatore tedesco era dunque egli stesso un piccolo tiranno che, come la Polina de Il giocatore, aveva provato un morboso piacere imponendo al suo sventurato innamorato di umiliarsi di fronte a lei.

Strada e anarchia

Il cinema espressionista proseguì l’analisi della vita urbana già avviata da realisti e impressionisti: guardando allo spleen di Baudelaire e all’impressione di alienazione delle vedute cittadine di Kirchkner, al disordine delle vie metropolitane di Ensor e di Grosz, alla relazione tra delitto e piazza istituita da Dostoevskij e da Döblin, alcuni film tedeschi ebbero il merito di introdurre sullo schermo una poetica della strada che sarebbe stata mutuata anche dal neorealismo e dal noir. Della città, del suo traffico, della sua vita frenetica e inarrestabile, i

capolavori espressionisti evidenziarono soprattutto gli stimoli anarcoidi sulla suggestionabile mente del piccolo – borghese. Teatro delle illusioni e selva di tranelli, la strada delle opere tedesche presentava molte analogie con la descrizione – invero espressionista – che Gogol diede della Prospettiva Nevskij: «più strani di tutto sono i fatti che accadono sulla Prospettiva Nevskij. Oh, non fidatevi della Prospettiva Nevskij! Quando ci passo, mi avvolgo sempre più stretto nel mantello e mi sforzo di non guardare gli oggetti che mi vengono incontro. Tutto è inganno, tutto è sogno, tutto è differente da quel che appare! […] Essa mente a ogni ora, questa Prospettiva Nevskij, ma più di tutto quando come una pasta spessa la notte la invade facendo risaltare i muri bianchi e giallastri delle case, quando tutta la città si trasforma in tuono e lampo, miriadi di carrozze si precipitano dai ponti, i postiglioni gridano balzando sui cavalli, quando il demonio stesso accende le lampade solo per mostrare ogni cosa sotto un aspetto non vero». Die Straße (1923) di Karl Grune fu appunto uno di quei film. Il racconto si apriva nel salotto di una coppia borghese, dove l’uomo attendeva rassegnato che la moglie portasse a termine il monotono rituale dell’apparecchiatura, in vista della cena. Improvvisamente, le ombre della strada irrompevano attraverso la finestra, allungandosi sul soffitto della stanza, ed esercitavano sull’uomo un’irresistibile attrazione: le tentazioni provenienti dall’esterno avevano violato il rifugio dell’intimità. Egli corse ad affacciarsi e al suo sguardo incredulo apparve ogni sorta d’intrattenimento, lo scenario di una vera e propria fiera – scelta niente affatto casuale: un macabro fatto di cronaca legato appunto a una fiera di passaggio in città aveva ispirato gli sceneggiatori de Il gabinetto del dottor Caligari, che impiegarono quella stessa ambientazione nel film che per primo aveva affrontato il conflitto tra autorità e anarchia. Anche nell’opera di Grune, in effetti, abbondarono i riferimenti simbolici al caos – su tutti la spirale. E, ancora più

rilevante, fu la rappresentazione del confronto tra disordine e comando; nella relativa sequenza, il regista condensò alcune delle immagini più rappresentative del cinema espressionista: un bambino che sfugge al controllo, un tutore cieco incapace di prendersene cura, il traffico impazzito che corre tutto attorno, rischiando di travolgerlo. A questo punto, intervenne un gendarme che con un solo perentorio gesto della mano – sinistramente simile a quello che sarebbe divenuto il saluto nazista – paralizzò il vortice, ristabilendo l’ordine e traendo in salvo il bambino: un altro vivido ritratto della Germania divisa, inadeguata a proteggere i propri figli e ossessionata dall’idea di un’autorità forte alla quale abbandonarsi pur di vincere il disordine prossimo a sopraffarla. Il borghese era attirato dal caos: per lui, l’anarchia costituiva la sola alternativa all’insopportabile tedio della vita domestica. Questo spiega il fenomeno di deformazione nella percezione della realtà di cui è vittima: quando fu la moglie ad affacciarsi alla finestra, il suo sguardo non colse alcuna delle manifestazioni di forza, di vitalità e di esuberanza partorite dall’immaginazione dell’insoddisfatto e annoiato compagno. La fuga dell’uomo fu quella di «un’anima inquieta ed errabonda» – come sosteneva Kracauer – il cui sogno, seguendo la parabola a gobba di cammello, si tramuterà presto in incubo, finendo per essere coinvolto in un omicidio, esserne ingiustamente accusato e venir rilasciato solamente all’alba. Fin dalla prima ripresa ambientata in strada, lo slancio del borghese venne frenato dalla vista – anzi, dalla visione – di una donna che gli apparve sotto le sembianze della Morte. Una sensazione che dovette davvero contagiare chi camminava per le vie delle città tedesche, se solo si considera lo slogan al quale fece riferimento Fritz Lang: Berlino, tu danzi con la morte! Eppure il richiamo della città, tutta luci e movimento, era comunque troppo forte e il borghese imboccò un percorso attraverso la metropoli notturna e i suoi locali viziosi, arredati secondo lo stile degli anni dell’inflazione. Un percorso pieno di insidie e di tranelli.

A guidarne i passi era l’istinto sessuale, normalmente represso dall’ipocrisia e dal pudore del ceto d’appartenenza; adescato da una giovane di malaffare, egli la seguiva inebetito, ipnotizzato da ciò che aveva visto – circostanza enfatizzata dalla rilevanza attribuita a livello scenografico all’immagine ricorrente dell’occhio. Il protagonista, tuttavia, non sarebbe riuscito a soddisfare la propria libido, a riprova dell’impotenza di un’intera classe sociale – impotenza e inazione che da Flaubert in poi aveva rappresentato uno dei limiti tradizionalmente attribuiti al borghese. Al contrario, l’essersi lasciato travolgere dall’impulso alla disobbedienza e all’evasione rischiò di sconvolgerne l’esistenza, inducendolo alla fine della notte a preferire il remissivo ritorno dalla moglie. La sua odissea si concluse così dove era iniziata – con l’immagine della zuppiera, simbolo di quella quotidianità da cui aveva tentato di fuggire – e il messaggio autoritario del racconto, volto a dimostrare la necessità per la borghesia di accettare disciplina e regole, fu accentuato proprio dalla struttura ad anello del racconto. La stessa che Lang avrebbe adottato per La donna del ritratto (1944), altro film incentrato sui pericoli connessi alla debolezza borghese nei confronti di un inconfessato desiderio di trasgressione. Nel film hollywoodiano, però, la lezione appresa dal protagonista costituì un insperato lieto fine; in Die Straße, invece, la passeggiata all’alba, particolarmente desolante se confrontata con la vitalità che aveva caratterizzato il primo impatto con la vita notturna della città, rappresentò soltanto un’altra declinazione della sconfitta finale, alla quale risultarono condannati i personaggi del cinema espressionista – come la società di cui erano espressione. Oltre all’ambientazione notturna metropolitana e all’interesse per l’impulso alla disobbedienza, venne anticipato anche un altro aspetto che sarebbe stato poi mutuato dal cinema nero: il tratteggio evidentemente misogino del personaggio femminile dell’adescatrice.

Ai medesimi spunti Ernö Metzner dedicò il più breve ma non meno significativo Polizeibericht Überfall (1928). L’opera, chiaramente influenzata dall’estetica espressionista, che caratterizzò in particolar modo la stilizzazione delle didascalie e l’inquietante sequenza onirica, svolse l’ennesimo attacco nei confronti della borghesia viziosa e impotente: il timoroso protagonista, dopo aver trovato per strada una moneta scintillante, cedette alla tentazione del gioco, arricchendosi rapidamente. Questa combinazione di debolezza e di fortuna lo portò a innescare un pericoloso effetto domino: dapprima, dovette evitare l’attentato di un delinquente che aveva assistito alla sua vincita ai dadi. L’intenzione criminale dell’assalitore e dei suoi compagni venne suggerita non solo dedicando attenzione a un oggetto specifico, il manganello, ma anche attraverso la metafora visiva dell’uovo, sul quale è stato dipinto il volto di un uomo, frantumato con un colpo secco da uno dei cospiratori. In seguito, nel tentativo di scampare al pericolo, egli si imbatté in una donna che sostava lungo la strada. Lusingandolo, ella lo invitava a seguirla nel proprio appartamento, dove li attendeva però un complice dell’adescatrice. Nella stanza, il protagonista scopriva abbandonato sul pavimento un tarocco che il compare della donna, nella fretta di nascondersi, aveva lasciato cadere: sopra vi era impressa l’immagine della morte. Colto dal terrore, il pavido borghese tentò la fuga. Ma ormai era tardi e, sfruttando anche l’indifferenza degli altri abitanti dello stabile, i due malviventi lo percossero e lo derubarono. Quando, infine, lo rigettarono in strada, il primo aggressore che lo aveva instancabilmente atteso, gli assestò il colpo finale sulla testa. Il protagonista perse i sensi e sprofondò in un sonno inquieto, animato dalla visione deformata degli eventi appena vissuti. Al suo risveglio in ospedale, le autorità – impersonate dalle ricorrenti figure del medico e del gendarme – lo interrogarono sull’identità dei responsabili dell’attentato. Il borghese, ancora intontito, chiuse gli occhi nel tentativo di concentrarsi ma la sola immagine che sopravvenne alla sua mente fu quella della moneta raccolta per strada – il cui aspetto totemico ricordava

quello della moneta che aveva eclissato il sole nel dipinto di Grosz. Metzner, dunque, evidenziò i pericoli legati alla strada, indiscussa protagonista sin dalla prima inquadratura, mise alla berlina la debolezza dell’avido e timoroso animo borghese, attribuì un ruolo beffardo e decisivo alla sorte nell’indirizzare la parabola del protagonista – inizialmente ascendente – verso una ripida e inarrestabile caduta. Inoltre, si allineò a Die Straße contribuendo a elaborare ulteriormente il profilo della adescatrice – una predatrice urbana che, in combutta con un complice maschile, ricorreva alle proprie armi di seduzione per far cadere in trappola il borghese, in fuga dalla realtà.

L’influenza del surrealismo in Francia

Come l’espressionismo aveva esercitato grande influenza sul cinema tedesco degli anni ’20, così il surrealismo ebbe un impatto decisivo nella definizione di quello francese degli anni ’30. Un cinema impegnato a cercare di spiegare il disagio dell’uomo moderno e a tentare di ricomporre la frattura tra realtà e sogno. Partendo dall’accanita polemica nei confronti di un presente dominato dalla mentalità borghese per immaginare un futuro improntato a una diversa concezione sociale. Al riguardo, il principale teorico del movimento, André Breton sostenne: «nello stato di crisi attuale del mondo borghese, di giorno in giorno più cosciente della propria rovina, io credo che l’arte d’oggi debba giustificarsi come conseguenza logica dell’arte di ieri e al tempo stesso sottomettersi, il più spesso possibile, a un’attività di interpretazione che faccia esplodere nella società borghese il suo dissidio».

Anzi, egli fu ancora più netto, professando l’aspirazione rivoluzionaria del surrealismo – «l’arte autentica d’oggi è legata all’attività sociale rivoluzionaria: essa tende alla confusione e alla distruzione della società capitalistica» – e la necessaria militanza dell’artista: «il poeta del futuro supererà l’idea deprimente dell’irreparabile divorzio tra l’azione e il sogno». La rivista ufficiale del movimento venne ribattezzata Le surréalism au service de la révolution e Breton attinse ripetutamente al pensiero di politici e intellettuali del passato per individuare gli obiettivi che si sarebbe dovuto prefiggere il surrealismo: «Trasformare il mondo, ha detto Marx; Cambiare la vita ha detto Rimbaud; queste due parole d’ordine sono per noi una sola»; e ancora: «Bisogna sognare, ha detto Lenin; Bisogna agire, ha detto Goethe. Il surrealismo non ha mai voluto altra cosa». Fino a giungere a una definizione del credo artistico surrealista rivolto ad esprimere «il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale». Facile rendersi conto di quale morale si trattasse; il poeta Paul Éluard osservò che «i poeti degni di questo nome, come i proletari, rifiutano di essere sfruttati. La poesia vera è inclusa in tutto ciò che non si conforma a questa morale, a una morale che, per mantenere il suo ordine, il suo prestigio, non sa far altro che costruire banche, caserme, prigioni, chiese e postriboli». La morale contro cui si scagliò era quella che aveva impedito l’aggregazione sociale al solo scopo di mantenere saldo il primato borghese, anche a costo di divisioni e ingiustizie; perciò sarebbe stato compito dell’artista indagare la sofferenza di coloro che l’ordinamento presente aveva mortificato e isolato, alla riscoperta di un nuovo ordinamento sociale fondato su opposte premesse: «è venuto il tempo in cui i poeti hanno il diritto e il dovere di affermare di essere profondamente affondati nella vita degli altri uomini, nella vita comune. C’è una parola che non ho mai inteso senza una grande emozione […] questa parola è: fraternizzazione». Un

termine che richiama alla memoria le considerazioni di Dostoevskij sul tema della fratellanza irrealizzata. Questa aspirazione del surrealismo poté certamente trovare iniziale conforto nel successo politico del Fronte popolare, ma, in seguito, comprese di essere destinata a restare insoddisfatta a causa della minaccia nazista e dello scoppio della guerra, il cui mortifero e opprimente presagio aleggiò sul capo dei protagonisti del realismo poetico. Il cinema francese infatti raccontò storie di rivolta; una rivolta conclusa però sempre e comunque in sconfitta. E Picasso ne colse – esprimendo appassionata adesione alla disperata resistenza del Fronte Popolare spagnolo – la terribile tragedia, attraverso il celeberrimo dipinto dedicato ai bombardamenti su Guernica. È facile pertanto comprendere l’attenzione che il realismo poetico riservò a reietti, diseredati, miserabili: non allo scopo, proprio della letteratura naturalista, di studiarli dal punto di vista scientifico – approfittando della rozza spontaneità delle loro pulsioni – quanto piuttosto per eleggerli a campioni di un’umanità vinta nel suo complesso. Questa funzione simbolica giustifica la staticità caratteriale dei personaggi, che restavano per tutto il racconto fedeli a se stessi. E, d’altra parte, neppure il più ostinato tentativo di adattarsi alle difficoltà della vita sarebbe risultato utile a evitar loro un tragico epilogo, fatalmente condizionato dall’indifferenza della società, dall’inarrestabilità degli eventi, nella visione estrema di una generazione di artisti inquieti, costretti a vivere anni tragici e a raccontare una società lacerata dai conflitti e dalle contraddizioni: il dramma dei loro film risiede proprio nel tormentato confronto tra i personaggi, agitati da sentimenti forti, istintivi, irresistibili, perlopiù autodistruttivi, e l’ambiente che li circonda e li stritola insensibile, impassibile. Il realismo, con cui fu compiuta la descrizione di un’esistenza priva di poesia, evidenziò quella di cui erano viceversa saturi i protagonisti, i cui sogni acquistavano maggiore consistenza proprio nel momento in cui s’infrangevano contro lo sfavorevole corso della Storia.

Allo stesso tempo, il surrealismo comprese l’aspetto poetico della loro intima semplicità: il bocciolo da cui fiorì il cinema realista francese furono proprio le surreali epifanie, musicali e visive, de L’Atalante (1934); père Jules – interpretato da uno degli attori simbolo di quella straordinaria stagione, Michel Simon – sebbene esteriormente paragonabile ai personaggi ferini de I Rougon Macquart, era in grado di suonare un disco con la forza dell’immaginazione, sfregandolo soltanto con un dito. La poesia risiedeva nella componente fantastica di una narrazione prevalentemente legata alla cronaca quotidiana: se il naturalismo letterario non possedeva nulla di poetico, il realismo cinematografico al contrario si resse appunto sulla dialettica tra documentario e romanticismo, realizzando una sorta di poesia della pratica, sul modello concepito dallo sventurato Lautréamont, poeta caro ai surrealisti: «la poesia deve avere per scopo la verità pratica». Perciò non stupisce affatto che il medesimo regista che aveva ripreso di nascosto – senza alcuna alterazione o finzione – la vita scorrere attraverso le assolate vie di Nizza, immaginò il fantastico travaglio sentimentale dell’operaio innamorato de L’Atalante, in uno dei più significativi manifesti del surrealismo cinematografico. Vigo aveva dato consistenza al suo sogno; un tema caro al surrealismo: Matisse lo avrebbe ritratto un anno dopo, Dalì lo rappresentò con dipinti e scenografie, Buñuel lo celebrò ne Il fascino discreto della borghesia (1972). Del resto, già negli anni ’30, il sogno si addiceva a raccontare l’aspirazione di felicità francese, almeno quanto l’incubo era servito a svelare lo shock tedesco. Ma ciò non significò che l’esito delle diverse esperienze oniriche – e cinematografiche – non finisse per essere lo stesso: tanto le storie tedesche quanto quelle francesi seguirono la parabola della disfatta, coerentemente a una visione dell’esistenza umana ormai opposta rispetto a quella positivista, ricolma di fiducia nel progresso e nell’avvenire.

Sia sul piano estetico, sia su quello ideologico, esercitò poi indubbio fascino lo scandaloso modello di arte a tutto tondo offerto dall’eclettico Jean Cocteau, il quale – pur senza rinunciare a elaborare uno stile autonomo – si era accostato alle avanguardie pittoriche impegnate a realizzare la scomposizione della struttura apparente di ogni cosa per coglierne l’invisibile interiorità. Egli allestì, insieme al geniale impresario russo Diaghilev, al ballerino e coreografo Léonide Massine, a Picasso e a Satie, il balletto Parade, che il poeta Apollinaire definì «une sorte de surréalisme» ben prima che il movimento surrealista acquisisse autonoma consistenza. Improntata a un forte realismo – evidente tanto nella scelta del soggetto, quanto in quella della scenografia, per non parlare del ricorso a rumori effettivamente ricorrenti nella vita quotidiana – ma anche a una netta cesura con lo stile accademico – come dimostrarono il riferimento alle movenze dei film muti americani, i limitatissimi spazi assegnati alla danse d’école, la contaminazione della musica classica con quella jazz – la sceneggiatura di Cocteau risentiva della sua particolare idea di poesia: la via attraverso cui mostrare gli aspetti «irreali» dell’esistenza. Un’esistenza in bilico tra magia – quella del circo, nel quale realtà oggettiva e percezione soggettiva dialogano fino a confondersi – e materica concretezza – espressa attraverso i costumi cubisti che Picasso elaborò sviluppando il drammatico spunto della vita metropolitana. In seguito, Cocteau definitì «poésie cinématographique» il proprio lavoro di regista, finalizzato a mettere appunto in scena quanto di poetico può cogliersi nella realtà. E l’incipit del suo film d’esordio, Il sangue di un poeta (1930), presentava l’opera come «documento realista di avvenimenti irreali». Ciò accadeva nello stesso anno in cui Buñuel, con il contributo di Salvador Dalì, diresse L’âge d’or (1930), considerato, in uno con il precedente Un chien andalou (1929), un manifesto del surrealismo cinematografico.

Se la visione surrealista offrì un’ispirazione ideologica, sul piano della tecnica rappresentativa risultò estremamente utile la sperimentazione condotta dai registi francesi degli anni ’20. Essi, specialmente attraverso la ripresa soggettiva, si erano impegnati a far aderire il punto di vista del pubblico a quello di uno specifico personaggio, del quale si voleva che fosse assunta la prospettiva emozionale: non si ricercava la mera sovrapposizione, piuttosto un’autentica compassione – nel senso letterale del termine. Abel Gance, in Napoleone (1927), realizzò uno screen split che raggruppava insieme ben dodici inquadrature per suggerire la capacità di Bonaparte di tenere contemporaneamente sott’occhio più situazioni; Marcel L’Herbier, ne L’inhumaine (1924), aveva rappresentato la condizione percettiva del passeggero di un’automobile in corsa, dividendo lo schermo in due parti su ciascuna delle quali aveva fatto scorrere le immagini relative agli opposti lati della strada. Si trattò di esercizi volti soprattutto a raccogliere la sfida tecnica lanciata dal cinema, attraverso cui era divenuto possibile scomporre la prospettiva visiva e spiegare il movimento. Un interesse condiviso con un’altra avanguardia figurativa di inizio secolo, quella futurista: non fu un caso che in Italia il film di L’Herbier fosse stato titolato appunto Futurismo. Questi antecedenti indicarono al realismo poetico la tecnica narrativa da applicare per realizzare la sintesi tra realtà e poesia di ispirazione surrealista. Il documentarismo sensoriale veniva così messo – sulle orme di Van Gogh – al servizio dell’approfondimento psicologico, di cui si occuparono scrittori e poeti che, abituati da sempre a svelare l’intimità dell’animo umano, furono immediatamente attratti da un mezzo espressivo in grado di conferire forma visiva e sonora alle loro suggestioni letterarie.

Le caratteristiche del cinema d’autore francese degli anni ’30

Oltre all’insofferenza già dimostrata dalla letteratura, dal teatro e dalle arti figurative tradizionali, il cinema francese – come prima quello tedesco – condivise con le altre forme artistiche anche i riferimenti ottocenteschi: in particolare, i romanzi di Zola. Van Gogh, arrivato da poco a Parigi, aveva sostenuto che si trattava dei «migliori trattati sull’epoca attuale», specialmente Germinal – nel quale dovette rivedere il mondo disumano dei minatori belgi del Borinage presso i quali si era a lungo trattenuto come pastore; Käthe Kollwitz aveva rappresentato una scena tratta da quella stessa opera e Lang si era ispirato alla spaventosa trasformazione dell’insaziabile miniera. Jean Renoir, invece, diresse un adattamento cinematografico de La bestia umana, realizzando uno dei massimi capolavori del realismo poetico francese: era passato tuttavia quasi un secolo dalla stesura dei romanzi naturalisti e questi erano stati riletti con la sensibilità delle avanguardie. Renoir, punto d’approdo di una lunga revisione critica, dimostrò verso il proletariato ferroviario la compassione introdotta dai dipinti di Van Gogh, di Rouault e di Kollwitz – un aspetto assente nel testo originario. Nel suo cinema, del resto, confluirono anche l’impegno antimilitarista che aveva caratterizzato i dipinti di Dix e di Grosz, la poesia di Brecht e la letteratura di Thomas Mann: La grande illusione (1937) e La regola del gioco (1939) dimostrarono con quanta sensibilità il cineasta avesse ritratto gli orrori di una guerra che aveva coinvolto in un’unica grande tragedia tutte le classi sociali – «mescolate come i batteri» – e presagito l’isterismo che preluse a un nuovo tremendo conflitto. E, ancora, da molte pellicole di Renoir emerse l’acre polemica antiborghese che aveva caratterizzato la tragedia moderna dell’artista: è il caso del dissacrante Boudu salvato dalle acque (1932). Ma un atteggiamento analogo caratterizzò anche Zero in condotta (1933) del genio, anarchico e surrealista, Jean Vigo, e i principali film realizzati dalla coppia

Marcel Carné – Jacques Prévert, a cominciare dall’assurdo Lo strano dramma del dottor Molyneux (1937). Ne Il porto delle nebbie (1938), il duo di autori compendiò invece tutti i tratti essenziali del realismo poetico: l’impegno antimilitaristico – attribuendo il ruolo di protagonista a un disertore; la celebrazione della solidarietà – o, per utilizzare il termine di Éluard, della «fraternizzazione» – pur nell’amara constatazione della sua concreta inefficacia; l’accusa nei confronti delle ipocrisie, del perbenismo, dell’inconsistenza morale della borghesia; l’aspirazione alla redenzione e all’amore, destinata però a un’ineluttabile sconfitta finale, inflitta da un destino avverso e impietoso. La narrazione, pur nel realismo della rappresentazione, si spinse oltre il semplice documentario, ponendosi alla ricerca del senso nascosto della vita – un senso doloroso, come dimostrò la singolare sensibilità del pittore che, superando l’apparenza esteriore, scopriva dentro ogni creatura un segnale di morte. In altre parole, se in Germania i prodromi del genere noir furono la conseguenza del trauma provocato dalla prima guerra mondiale, in Francia essi manifestarono l’angoscia legata al presagio dello scoppio della seconda. L’espressionismo tedesco concentrò l’attenzione su psicosi, nevrosi, ossessioni e dissociazioni della personalità, costretto a fare i conti con le ferite, profonde e spesso invisibili, lasciate dal conflitto. Il cinema nero francese, invece, elaborò una dialettica tra l’aspirazione umana alla felicità e il disegno capriccioso della sorte: l’umanità si avviava verso una nuova catastrofe, impotente di fronte all’inarrestabile corso degli eventi. Caratteristici del realismo poetico furono anche l’ambientazione urbana e l’interesse per il disagio proletario: due aspetti che erano già stati affrontati a Hollywood sul finire del decennio precedente e, soprattutto, si sarebbero imposti con il cinema noir – al riguardo si confronti Alba tragica (1939), in cui Carné e Prévert svolsero una rappresentazione realista dell’abbrutimento della classe operaia e delle

disumane condizioni lavorative, con I dannati dell’oceano (1928) di von Sternberg. Tanto nell’esperienza tedesca quanto in quella francese, la tragedia collettiva venne riportata a una dimensione individuale attraverso il comune ricorso a figure di personaggi destinati alla sconfitta. Tuttavia, mentre nel cinema tedesco il protagonista era espressione dell’ideologia borghese e, proprio in quanto tale, veniva fatto oggetto di accanimento e di sadismo da parte degli autori, animati dal desiderio di denunciare i vizi e le mancanze della classe sociale che consideravano responsabile del degrado economico e etico in cui era precipitata la Nazione ai tempi della Repubblica di Weimar, il cinema nero francese dimostrò sincera compassione nei confronti del proprio antieroe, di estrazione popolare e operaia. Senza arrestarsi alla realtà esteriormente apprezzabile, nelle cui dinamiche prevalevano violenza e crudeltà, esso ricercò la poesia intimamente nascosta nei gesti di tenerezza e di solidarietà che univano tra loro i diseredati, gli emarginati, i reietti, distinguendoli dall’aridità e dall’ipocrisia borghesi. Se il movimento letterario naturalista aveva prediletto l’osservazione dei ceti più poveri poiché ritenne che sulle aberrazioni comportamentali dei loro componenti risultasse maggiormente evidente l’influenza dei fattori determinanti l’azione umana – in particolare, ereditarietà e ambiente sociale – l’interesse cinematografico verso gli esponenti di un’umanità sofferente risentì anche della vittoria elettorale del Fronte Popolare, avvenuta nel 1936 e dell’influenza culturale sovietica. Anche quelli sogni infranti: a cominciare dagli ideali della rivoluzione russa traditi da Stalin, passando per l’insurrezione spartachista tedesca, repressa nel sangue, fino alla caduta del governo del Fronte popolare spagnolo, in seguito al colpo di stato franchista che provocò la guerra civile. In Francia, Léon Blum, salito al potere nel ’36, subì violentissimi attacchi personali da parte dell’opposizione di destra – la quale nei suoi confronti non esitò a ricorrere a una meschina strategia antisemita – e la crisi finanziaria, le lotte

intestine al Fronte, persino il suicidio di un ministro lo indussero alle dimissioni già nel ‘37. Instabilità e disordine interni acuirono l’inquietudine che la minaccia nazista, dall’esterno, diffondeva ormai da anni: di fronte a incertezze e tormenti simili, dovettero risultare spontanee sia la rottura rispetto alla produzione cinematografica degli anni ’20 – dedicata, perlopiù, alla trasposizione di grandi classici – sia, in tutta risposta, l’analisi della tragedia contemporanea. Ancora una volta, l’osservazione della propria epoca indusse l’intellettuale deluso a ricorrere ai canoni estetici del realismo. Forti dell’esperienza critica maturata dalle avanguardie, gli autori cinematografici francesi non si limitarono a constatare la crisi, ma provarono a coglierne l’intimo senso; essa appariva loro il risultato dell’interazione di due distinti fattori: da una parte, le invidie, i rancori e le divisioni, che impediscono agli uomini di fare fronte comune; dall’altra, la crudeltà e l’ineluttabilità del fato avverso, al quale nessun proposito di solidarietà, di unione e di amore potrebbe opporsi con successo. Come detto, i protagonisti dei film neri francesi furono tutti immancabilmente condannati al fallimento, a prescindere dalle loro indubbie qualità morali. Giacché anche al personaggio più umile vennero riconosciute lealtà, coraggio, dignità e, più in generale, il favore del narratore che, lungi dal tenersi a distanza scientifica, parteggiava per gli antieroi dei quali raccontava le peripezie. Travagli che scaturivano certamente dalla miseria e dal degrado dell’ambiente in cui erano calati storie e personaggi: il contesto metropolitano e industriale, il periodo storico, saturo di contraddizioni e di malvagità, persino le tare ereditarie concepite dal pensiero positivista influivano sulla vita dei protagonisti, ai quali non era concesso nulla più di un assaggio effimero e sfuggente di felicità, se non soltanto di serenità. Tuttavia, non erano i fattori umani la ragione della disfatta, bensì l’intervento di una forza sovrumana, di un volere inintelligibile e arbitrario che si abbatteva su ciascun individuo, senza alcuna distinzione di ceto. In queste opere non esistettero vincitori né vinti, ma solo sconfitti: lo dimostra la conclusione alla quale approdò Renoir ne La grande illusione, circa il potere del destino di mescolare

tra loro le esistenze di ognuno, scompaginando le rigide gerarchie sociali e condannando l’intera umanità alla disperata lotta per la sopravvivenza, di verghiana memoria.

L’universo fantastico di Jean Vigo

L’Atalante (1934) di Jean Vigo è una straordinaria storia d’amour fou, capace di affascinare e ispirare non soltanto gli autori del realismo poetico, ma anche quelli della Nouvelle Vague. Vigo riuscì ad armonizzare perfettamente momenti bassi – nei quali compì un affresco di vita quotidiana con taglio quasi documentaristico – e momenti alti – durante i quali esaltò la drammaticità dei più potenti sentimenti umani. Lo stesso avrebbero fatto mezzo decennio più tardi Duvivier, Carné e Renoir. Ma egli studiò anche il male di vivere in una dimensione più intima – mentre i realisti furono perlopiù interessati al carattere collettivo della tragedia esistenziale – ponendo attenzione per capricci e isterie che avrebbero interessato Godard e Truffaut. Per il giovane, geniale e sventurato autore la disperazione non scaturiva esclusivamente dall’osservazione dello sconfortante contesto storico sociale nel quale visse, ma altresì dal dolore dell’esperienza personale: le difficoltà dell’infanzia – segnata dalla morte in carcere del padre – la sofferenza per la malattia e lo spettro di una morte prematura che effettivamente sopraggiungerà stroncando un’eccezionale carriera. L’Atalante anticipò il ricorso a riprese realizzate prevalentemente in esterni autentici, che sarebbe diventato ricorrente nel cinema noir; dovendosi però accontentare di mezzi tecnici ed economici persino inferiori rispetto a quelli di

cui avrebbero disposto i B – movies, risultarono determinanti la fotografia di Boris Kaufman, già coautore del documentario A proposito di Nizza (1930), e il montaggio che Vigo non riuscì a curare in prima persona, ma che fu nondimeno eseguito attenendosi fedelmente alle sue istruzioni. In questo capolavoro si alternarono con mirabile equilibrio verità e sogno, volgarità e purezza; Truffaut, al riguardo, ebbe a osservare che nel film «si trovano, riconciliate, due grandi tendenze del cinema, il realismo e l’estetismo. Ci sono stati nella storia del cinema dei grandi realisti come Rossellini e dei grandi esteti come Ejzenštejn, ma pochi cineasti hanno provato a fondere le due tendenze quasi fossero contraddittorie». E il riferimento all’estetismo fu quanto mai pertinente: non solo per l’importanza già evidenziata del montaggio di scuola sovietica – Kaufman, fratello minore di Dziga Vertov, aveva già elaborato una sintassi puramente visiva nel documentario dedicato da Vigo a Nizza, senza bisogno di alcuna didascalia – ma anche per il significato della struttura narrativa. In particolare di quella parte del racconto che seguiva la separazione dei due innamorati: dopo essersi allontanati fino a punti estremi, costretti da una forza centrifuga, essi convergevano nuovamente, sulla spinta di un’inesplicabile casualità centripeta. Venne in tal modo sottolineata l’incidenza del destino sulle umane cose – concezione che si sarebbe imposta nelle pellicole del realismo poetico – ma nell’opera di Vigo, anarchico anche nelle conclusioni che trasse sull’ineluttabilità dell’esistenza, la sorte tese la mano all’individuo armato di fede e di speranza. E da un’ordinaria vicenda di quotidianità coniugale, egli seppe far emergere l’aspetto straordinario – «il meraviglioso nella piccola cronaca», per usare un’espressione cara a De Sica e Zavattini: la centralità dell’immaginazione e la ricorrenza delle manifestazioni dell’inconscio, sotto forma di sogno e di visione, si dovettero all’influenza esercitata sul giovane regista dal movimento surrealista, così aspramente polemico nei confronti della società borghese che anche Vigo disprezzava. Nondimeno, egli dosò la follia per non pregiudicare la logicità

del racconto ed evocò ripetutamente la condizione di instabilità a cui è condannato l’essere umano, sempre in bilico tra reale e fantastico, frustrazione e realizzazione. Il suo è un film di speranza; quella speranza alla quale ormai morente rivolgeva anch’egli un ultimo appello. Gran parte della critica ha inteso leggere il film – di cui tanto il contenuto quanto la forma furono eccentrici e anticonvenzionali – alla luce del pensiero politico del regista: Vigo, la cui fiducia negli ideali della rivoluzione russa erano stati amaramente delusi dalla loro attuazione pratica, avrebbe inteso raccontare la tragedia prodotta dalla disgregazione e dal tradimento. Questa analisi, fondata esclusivamente sulla frustrazione ideologica del regista, spiegherebbe la fuga della moglie – irresistibilmente attratta dalla tentazione di riscattare, tra le luci di una città che si sarebbe presto rivelata una giungla d’asfalto, il tedio della relazione coniugale a bordo della chiatta – e la dissoluzione della promessa matrimoniale. Ma non giungerebbe ad abbracciare la successiva riconciliazione: il lieto fine dimostrò al contrario l’attaccamento alla vita di un artista che, pur sapendo di doverla abbandonare tanto presto, aveva desiderato ugualmente cogliere la possibilità di scoprirvi ancora un assaggio di felicità. Una felicità irrazionale, ma non per questo meno dolce. Per esprimere la propria urgenza di libertà e di spensieratezza, Vigo ricorse all’archetipo dei personaggi – simbolo, che sarebbero proliferati nel realismo poetico: papà Jules incarnò la figura del buon selvaggio, tanto cara alla tradizione culturale e artistica francese, durante e dopo la Rivoluzione, e il regista ne celebrò l’ingenuità, caratteristica necessaria a preservarlo dal contagio della ragione borghese, causa di insoddisfazione quando non di pazzia. L’andamento a fisarmonica impresso da Vigo – consistente prima nell’estensione dell’allontanamento e, quindi, nella compressione coincidente con la riconciliazione degli sposi – conferì straordinaria musicalità alla struttura narrativa. E la musica fu effettivamente un elemento del film degno di particolare attenzione: il produttore del film, nel tentativo di

attribuire un carattere commerciale al prodotto finale, pretese di inserirvi la popolare canzone Le chaland qui passe, versione francese della celeberrima Parlami d’amore Mariù che Bixio aveva composto per Gli uomini che mascalzoni… (1932); nondimeno, al momento dell’uscita il film, allora intitolato come il motivo musicale, fu un fiasco. Vigo però colse l’aspetto poetico anche nell’imposizione della Gaumont, trasformando per sempre il momento della riproduzione immaginaria del disco in un manifesto di libertà creativa e soprattutto di irriducibile fiducia nel sogno. In precedenza Vigo aveva diretto Zero in condotta (1933), immortale grido di ribellione nei confronti di un’istituzione scolastica opprimente, autoritaria e ottusa come quella guglielmina de Il professor Unrat; ipocrita come la mentalità borghese della quale era espressione – il censore arrivava persino ad approfittare della confusione dell’intervallo per rubare la cioccolata di alcuni scolari, rimasta incustodita. La rivolta di questo geniale e sfortunato regista fu innanzitutto stilistica: il realismo si trasformava improvvisamente in poesia grazie all’inarrestabile irruzione della fantasia, tra giochi di prestigio, numeri da circo, disegni che si animano da soli. Componente fantastica e polemica antiborghese quindi conferirono a Zero in condotta la sua scandalosa audacia surrealista. Ma, il capolavoro di Vigo anticipò altresì la riflessione che il neorealismo avrebbe compiutamente sviluppato circa il tema dell’infanzia rubata. Uno spunto caro anche a Prévert, che in quegli anni vi stava dedicando alcuni dei suoi più celebri componimenti – ne Il somaro il piccolo protagonista «malgrado le minacce del maestro, tra le urla dei ragazzi prodigio, con gessi di tutti i colori, sulla lavagna dell’infelicità disegna il volto della felicità». Una scena che si direbbe tratta dal repertorio di Zero in condotta. L’avvento di un nuovo istitutore, che invece reprimere assecondasse, anzi stimolasse addirittura la già incontenibile

gioia e l’esuberante bisogno di vita dei ragazzi, era appunto la rivoluzione auspicata dall’anarchico autore. Egli dimostrò che il disordine e il metamorfismo provocato dalla fantasia dei giovani possedeva paradossalmente quella forza aggregante che l’ordine imposto dagli adulti, assolutamente arbitrario e autoreferenziale, intendeva fiaccare, spinto da paura e pregiudizio. Il ricorso a un nano per interpretare il ruolo del rettore realizzò una satira irriverente, degna dei passaggi più violenti di Seneca – il quale era ricorso alla metafora dei giganti gettati nei pozzi e dei nani innalzati su piedistalli per testimoniare il degrado in cui una valutazione errata della statura morale di ciascun cittadino aveva fatto precipitare Roma. Mentre quello dell’infanzia era un mondo caratterizzato dall’imprevedibilità, dall’improvvisazione, dalla disobbedienza sperimentale, l’universo degli adulti, chiuso e immodificabile come una prigione, si reggeva sulla imitazione acritica. Tutto ciò insomma contro cui Vigo si era battuto finché aveva potuto e contro cui avrebbero reagito anche i principali esponenti del realismo poetico.

Il porto delle nebbie

Capolavoro del realismo poetico, Il porto delle nebbie (1938) di Marcel Carné dimostrò continuità rispetto al coraggioso esperimento di Vigo, mantenendone nell’ambito di una rappresentazione realista la poesia e il simbolismo, in funzione però di un opposto messaggio. Opposto fu anche il ruolo attribuito a Michel Simon che, dopo aver impersonato la spontanea e positiva semplicità di personaggi come papà Jules e Boudu, dovette confrontarsi con i peggiori difetti del tipo borghese, bigotto, ipocrita, prevaricatore.

Il film riunì tre dei più significativi esponenti del cinema francese degli anni ’30 – Carné, Prévert, Gabin. Quest’ultimo divenne il volto più rappresentativo delle emozioni vissute dal Paese negli anni che precedettero il conflitto: dignità e dolore. Renoir osservò che egli riusciva a raggiungere il «culmine della sua espressività quando non era costretto a forzare la voce. Questo attore grandissimo sapeva ottenere i massimi effetti con i mezzi più esigui. Inventai per lui delle scene che potevano essere solo mormorate». Effettivamente, tragedia e poesia che caratterizzarono il realismo del cinema d’autore francese furono sempre sussurrate e Gabin ne divenne il simbolo per la sua capacità di confondersi con i personaggi che interpretava: «è sempre lo stesso, è sempre uguale, sempre Gabin, sempre qualcuno» – avrebbe scritto Prévert. La disobbedienza del disertore de Il porto delle nebbie fu anche quella del rifiuto dell’attore di recitare per gli occupanti nazisti, preferendo arruolarsi nella marina agli ordini di De Gaulle. Che il film racconti una tragedia si intuiva sin dalla sequenza iniziale, caratterizzata da un montaggio spezzato che sacrificò la continuità del racconto per valorizzare la suggestione della sintesi: due estranei si incontravano, per separarsi subito dopo; nulla è mostrato del viaggio ma nei piccoli gesti di solidarietà, che precedono l’addio, si svelava la compassione che univa tra loro gli esseri umani. Alla speranza, si contrappose però subito la rassegnazione di fronte alla separazione, imposta quasi da una irresistibile spinta centrifuga; ed ecco nuovamente la solitudine. L’intersezione con L’Atalante si limitò alla pars destruens, perché nel realismo poetico non vi fu alcun margine di ricostruzione. Il protagonista sembrò irrimediabilmente condannato all’isolamento: già componente di una realtà collettiva come l’esercito, egli aveva scelto la via solitaria della diserzione pur di non costringere i propri principi ad alcun compromesso ideologico. Giunto nella nebbiosa città portuale di Le Havre, il protagonista si imbatteva in un’altra creatura ribelle e

randagia: un cane dotato della sua stessa indomita selvatichezza. Nonostante l’affinità elettiva delle loro nature, anche questo improvviso sodalizio sarebbe stato destinato a concludersi, determinando l’ennesimo, inevitabile ritorno alla solitudine. L’incontro con gli altri personaggi sviluppava la dialettica tra conflitto e solidarietà, che conferì al film la sua potente drammaticità: da una parte, i borghesi pronti a sbranarsi l’un l’altro e naturalmente inclini a disgregare ogni forma di comunione; dall’altra, poveri, umili e reietti professavano appassionatamente un credo di mutuo soccorso. Animati tuttavia da una concezione talvolta opposta dell’esistenza: c’era l’ottimismo della lancetta di un barometro, inchiodata sul simbolo del bel tempo, e c’era la «pittura un po’ nera» che coglieva soltanto il male di vivere e la costante minaccia del destino. C’era, infine, il pragmatismo di un’esistenza vissuta al solo scopo di realizzare un piccolo sogno e trarne un immenso e duraturo senso di realizzazione – il consueto «meraviglioso nella piccola cronaca». E poi ci fu una storia d’amore. Un amore disgraziato nel quale trovava concretizzazione l’idea della poesia sporcata dalla realtà. La parabola amorosa assunse l’andamento nero a gobba cammello: quando esso sembrava poter finalmente trionfare sull’inquietudine, che ciascun individuo recava in sé nel disperato e insoddisfatto tentativo di scoprire qualcuno a cui appartenere, un elemento esterno, assurdo e casuale, irrompeva determinando l’improvvisa svolta tragica. Sopraffatto nel confronto con il destino, l’antieroe poetico svelava vizi e limiti ben evidenti – e la sua tendenza alla disobbedienza preludeva all’ossessione criminale dei protagonisti noir – per riscattarli con altrettante eccezionali qualità morali, che pure non poterono giovargli, ma sembrarono al contrario contribuire alla sua rovina: la bontà era allo stesso tempo forza e debolezza; l’onestà si trasformava in accanimento, la pacatezza degenerava in collera, la passione si tramutava in gelosia.

Gabin, con la sua schiettezza espressiva, portò in scena un personaggio schietto a propria volta, irresistibile appunto per la sua onestà. Mentre il borghese di Michel Simon ripugnava, nonostante le maniere affettate, proprio perché l’ambiguità del suo volto non poteva piacere. Oltre alle relazioni tra i personaggi, assunsero grande rilevanza anche l’estetica del contesto scenografico: invero l’ambientazione si collocò idealmente a cavallo tra l’espressionismo tedesco – che influenzò la fotografia di Eugen Schufftan, ispirando i giochi di luce durante le sequenze ambientate alla fiera, nel corso delle quali un’ombra passava dal viso di Gabin a quello della Morgan seguendo l’alternanza delle loro battute, fino al bacio che li unì in un medesimo fascio luminoso – e il noir americano classico che in seguito ne avrebbe condiviso la dimensione metropolitana e il taglio quasi documentaristico. La Le Havre di Carné fu un personaggio della storia, almeno quanto lo sarebbero state la Roma di Rossellini, la New York di Dassin e la Tokyo di Kurosawa: essa abbracciò il pittore suicida con le sue acque brumose e vegliò sul tragico amore tra Jean e Nelly, con le malinconiche luci del suo del luna park. Quanto all’epifania poetica durante la cronaca della quotidianità, l’amore si manifestò a Jean mentre era impegnato a mangiare un rosicato pezzo di formaggio, mentre la speranza di avvenire non sbocciò di fronte all’illustrazione di una terra esotica ma ai faticosi preparativi di carico di una nave mercantile.

Il bandito della Casbah

Il protagonista di Pépé le Moko (1936) – film di Duvivier, ribattezzato in Italia Il bandito della Casbah – fu un altro

antieroe poetico impersonato da Jean Gabin. Attraverso il tema dell’esilio, la storia affrontò la consueta tragedia dell’incolmabile distanza tra l’uomo e l’oggetto del proprio desiderio: anche Pépé combatté una rivolta solitaria avverso le condizioni che il destino gli aveva imposto; anche in questo caso l’esito finale dei suoi sforzi risultò essere la sconfitta. Su questa struttura conforme alla poetica del movimento, l’opera di Duvivier innestò alcuni elementi atipici: l’estrazione popolare del protagonista venne soltanto accennata – attraverso i ricordi, ormai lontani ma ancora rimpianti, della giovinezza parigina; l’ambientazione metropolitana fu sacrificata in favore di uno scenario esotico e misterioso; la disobbedienza del personaggio non si limitò al disprezzo della morale borghese, ma si spinse alla delinquenza. Anzi, Pépé era il re dei malviventi e la Casbah il suo regno. Questa celebrità non significò affatto che anche lui e la sua banda non fossero creature relegate ai margini di una società ipocrita e spietata – simboleggiata da ricchi e annoiati turisti parigini – che le osservava come fiere in gabbia, le studiava come un esperimento scientifico, ne rideva come avrebbe fatto trovandosi di fronte a uno spettacolo allestito per il proprio diletto. Già il confronto tra il tipo del gentiluomo e il canagliume, tratteggiato da Dostoevskij ne Il giocatore, aveva avuto lo scopo di attirare le simpatie del lettore sull’onestà intellettuale di tutti gli appartenenti alla seconda categoria; lo stesso accadde nel racconto di Duvivier e, ancora, si sarebbe ripetuto in numerosi film noir o neo – noir, come Casco d’oro (1954). Braccati con metodi sottili e subdoli – che conferivano alla polizia e ai suoi informatori un’ambiguità sinistra, degna della polemica antiistituzionale che avrebbe caratterizzato la cupa visione sociale espressa dal cinema nero – i reietti possedettero, nonostante il senso di impotenza e la frustrazione per la condanna inflitta loro dal destino, un’umanità sincera e

la capacità di provare nobili sentimenti: amicizia, amore, attaccamento e nostalgia per la patria. Nel microcosmo della Casbah, essi si erano dotati di leggi alternative a quelle convenzionali: un vero e proprio codice morale, fondato su solidarietà, lealtà, onore. Questo ribaltamento della prospettiva fu possibile appunto grazie alla Casbah; anzi, soltanto grazie alla Casbah – ambientazione lontana e quasi fantastica, quindi, poetica – essa assurse a personaggio autonomo, paragonabile alla madre di Gor’kij che aveva accolto nel proprio grembo i ribelli, emarginati e perseguitati. La fotografia di Fossard e di Kruger conferì ad essa un preciso carattere – ancora una volta metamorfico: la prospettiva, non solo visuale, venne stravolta ma, allo stesso tempo, fu evocata l’impressione di asfissia che costrinse Pépé a tentare la fuga disperata da colei che gli aveva offerto riparo e protezione. Anche l’opera di Duvivier, dunque, si soffermò sullo spunto della disgregazione, indotta dalla aspirazione alla felicità, destinata a restare insoddisfatta. La regia dimostrò la propria abilità nell’orchestrazione delle riprese dedicate al primo incontro tra il famigerato Pépé e la seducente turista francese – variazione sul tema della donna irresistibile, foriera di sventure. Duvivier concepì un crescendo emozionale, ottenuto grazie al serrato montaggio di inquadrature sempre più strette, durante il quale non trascurò di suggerire allo spettatore qualche dubbio – senza chiarire se l’interesse del ladro fosse rivolto alla giovane donna o ai preziosi gioielli che ella indossa – e, soprattutto, di adombrare una minaccia incombente – cogliendo lo sguardo, astuto e infido, dell’ispettore locale che, come un gatto con il topo, pregustava il momento in cui avrebbe potuto approfittare della debolezza di Pépé e tendergli una trappola. In quella successione di sguardi e di primissimi piani, si poteva cogliere distintamente la presenza del destino che, con capriccioso sadismo, aveva costretto le vite dei tre personaggi a incrociarsi, proprio allora e in quel luogo sperduto, creando i presupposti di un’ineluttabile tragedia. Questa non scaturì semplicemente dall’amore di un uomo per una donna, ma da

una passione se possibile ancora più dirompente e lacerante: la nostalgia dell’esule per la terra natia, il rimpianto dell’uomo maturo per la spensieratezza giovanile; si trattava dell’insofferenza umana nei confronti della condizione di prigionia esistenziale alla quale ciascun individuo si sentiva costretto, un male di vivere contro cui non c’era cura.

L’angelo del male

Un altro memorabile antieroe poetico interpretato da Jean Gabin fu il protagonista de L’angelo del male (1938), film sceneggiato e diretto da Renoir traendo spunto da un romanzo di Zola, del quale nella versione francese aveva mutuato anche il titolo, La Bête Humaine. Ambientazione urbana – Le Havre esibì ancora una volta il suo carattere industriale – centralità della classe proletaria, ossessione per la felicità, frustrazione e tragedia finale. Temi affrontati attraverso la consueta dialettica tra cronaca quotidiana e manifestazione poetica. Il taglio quasi documentaristico del film emerse già in apertura – nella straordinaria e celeberrima sequenza dedicata all’arrivo del treno in stazione; nel corso del racconto, poi, Renoir si soffermò ripetutamente sulla rappresentazione della vita dei ferrovieri, sull’organizzazione degli spazi che condividevano, delle loro abitudini nel trascorrere il tempo libero e nello svolgimento del lavoro: in questo modo, egli non solo conferì all’opera l’impressione del realismo, ma sottolineò la monotonia, la meccanicità e l’alienazione che contraddistinguevano la loro esistenza. Si delineava così una realtà opprimente ed esasperante, dalla quale il protagonista avrebbe tentato, secondo la logica tradizionale, la ribellione e la fuga.

Per lui, in particolare, il destino aveva previsto anche un’ulteriore afflizione: una tara ereditaria gli impediva di controllare impulsi e passione. Mentre nel romanzo sperimentale di Zola il motivo della tara espresse una concezione positivista del genere umano, nel film di Renoir affiorò chiaramente il pessimismo esistenziale che era stato esteso a qualunque creatura, impegnata in una lotta impari contro il destino avverso. E la negazione del libero arbitrio – legata al concetto stesso di malattia – collocava l’opera di Renoir in continuità con gli altri capolavori del realismo poetico, tutti ugualmente caratterizzati dal ruolo dispotico e prevaricatore svolto dal fato. Oltre alla figura dell’antieroe, L’angelo del male ripropose anche il contraddittorio profilo del piccolo borghese che già aveva popolato letteratura e cinema espressionisti: il vice capostazione – disposto a tutto pur di conservare la sua piccola porzione di autorità, simile a quella del personaggio influente di Gogol – non esitava a manovrare la moglie, spingendola tra le braccia di un laido ma potente industriale; salvo poi scandalizzarsi, scoprendo il modo in cui la donna ne aveva conquistato il favore, e risolversi dunque a uccidere il rivale per vendicare il proprio orgoglio ferito. Ciò che più spaventava del suo tratteggio fu la repentinità del passaggio dall’istintivo e feroce risentimento alla fredda e distaccata pianificazione dell’assassinio. Anche gli altri due componenti di questo primo triangolo amoroso erano degni di interesse. L’anziano tutore della moglie del capostazione apparteneva a più elevato livello della gerarchia borghese rispetto al marito di lei; ciò tuttavia non gli impedì di intrattenere con la ragazza una di quelle torbide relazioni tanto frequenti tra un attempato e rispettabile signore e una giovane donna bisognosa di protezione. Si trattava infatti di un personaggio paragonabile a quello di Zabel de Il porto delle nebbie. Severine, invece, fu certamente quanto di più prossimo al tipo della dark lady noir il realismo poetico riuscì a elaborare: la sua ambiguità di fronte alle domande incalzanti del marito –

che invece di indurla alla vergogna o allo spavento le suscitavano il desiderio di eccitare ancor di più i sospetti dell’uomo – assunse tratti persino perversi nella ripresa durante la quale, costretta a dubitare di essere la figlia illegittima del vecchio protettore, di cui era anche amante, si guardava riflessa nello specchio. In quel momento ella non soltanto prese coscienza della sua abiezione, ma forse si convinse della capacità di diventare meneur a propria volta e del diritto, conferitole dalla sua tragica storia, di agire come tale. In seguito, infatti, non avrebbe esitato a sfruttare le sue armi seduttive per indurre Jacques a uccidere il marito, del quale desiderava disperatamente liberarsi: conturbante e felina Simone Simon – elevata da Tourneur a predatrice ne Il bacio della pantera (1942) – si domandò, appunto, se Jacques fosse un uomo facile da manipolare, trovando risposta nello sguardo che i due si scambiarono durante l’inchiesta della polizia. Successivamente ella non mostrò alcuna esitazione, alcun umano cedimento nel proporre all’amante l’omicidio del marito: Renoir pose i loro volti su piani diversi, sottolineando il turbamento di lui in primo piano e l’impassibilità di lei alle sue spalle. Del resto, come molte protagoniste noir, anche Séverine avrebbe ammesso la propria incapacità di amare. Risucchiato in un meccanismo morboso e spietato, il protagonista, specie in confronto con gli altri personaggi, risultò la vittima impotente della macchinazione del destino. Animato da un commovente desiderio di evadere dal grigiore della propria esistenza, quest’uomo condannato alla solitudine – che si prendeva cura della sua locomotiva come di una compagna di vita – subì l’inganno di Séverine senza riuscire ad avvedersi in tempo della rovina a cui sarebbe andato incontro. Rispetto al violento personaggio zoliano – legato alla locomotiva da un rapporto assai più inquietante, dietro alla cui perversione si celavano la sua incapacità assoluta di amare una donna in carne e ossa e il rapporto controverso dell’uomo moderno con l’avvento delle macchine – Jacques de L’angelo

del male era piuttosto un’anima inquieta e malinconica, al quale l’autore rivolse la propria compassione: Renoir si sarebbe detto addirittura presente, in un angolo della scena, durante la sua tormentata camminata notturna. Mentre si aggirava al buio, avvolto in un lungo impermeabile scuro sotto il temporale incessante, il regista non ne mostrò mai il volto; finché, al momento dell’incontro clandestino con la donna amata, la fantastica epifania dell’amore lo portò a essere improvvisamente illuminato da un raggio di luna – il cielo si era finalmente rasserenato e volgendo ad esso lo sguardo Jacques si abbandonò addirittura a un’espressione di speranza. La tenerezza pacata del protagonista, del resto, venne ulteriormente accentuata da tutto ciò che accadeva attorno a lui; Renoir denunciò indifferenza e pregiudizi della società – che si manifestarono pienamente durante l’inchiesta, con l’individuazione del colpevole ideale nel personaggio di Cabuche, interpretato dallo stesso regista: un derelitto, emarginato da tutti a causa di errori di gioventù, su cui avrebbe per sempre continuato a pesare l’ombra del dubbio. La solitudine veniva perciò esasperata, anziché corretta, dalle istituzioni di cui L’angelo del male evidenziò, come avrebbero fatto in seguito i film noir, arroganza e disumanità. Fritz Lang realizzò una propria versione del racconto di Zola, allontanandosi però ancor di più dal modello di partenza. Ne La bestia umana (1954) vennero definitivamente omessi l’atmosfera ossessiva del romanzo e quella tragico poetica del film francese. Furono ugualmente abbandonati sia il compiaciuto accanimento dello scrittore scienziato nello svelare gli aspetti patologici più turpi e morbosi della mente depravata di un esponente di quella creatura moderna che fu il proletariato urbano sia l’attenzione di tipo documentaristico per la quotidianità dei macchinisti che il neonato cinema permetteva finalmente di rappresentare in maniera fedele facendone condividere allo spettatore il disagio di classe. Al contrario, fu il trionfo di una morale consolatoria e alquanto puritana, che il realismo poetico non avrebbe potuto

in alcun modo concepire e tollerare e che, invece, corrispose alla politica comunicativa di Hollywood. Per questo, si trattò di un film non solo poco nero, ma anche molto poco langhiano – dovendosi piuttosto provare a confrontare con lo stile naturalista di Zola capolavori di crudo realismo come M, il mostro di Dusseldorf o Furia. E l’insolito distacco di Lang si percepiva sin dalla sequenza iniziale: mentre quelle di Renoir erano riprese soggettive dalla prospettiva del macchinista Jacques, alla quale il regista intese far immediatamente aderire lo sguardo dello spettatore – così da costringere quest’ultimo a condividere l’irresistibile corsa del protagonista verso la rovina – il regista austriaco adottò una ripresa oggettiva attraverso cui induceva a riflettere sul simbolismo dei binari ferroviari – ricorrendo a una metafora già impiegata da Hitchcock all’inizio di Delitto per delitto (1951) – e sul rischio che due esistenze, una improntata al bene e l’altra al male, si intersecassero determinando la rovina della prima ad opera della seconda. Mentre nel film di Renoir la risoluzione omicida del marito di Séverine fu determinata dalla frustrazione del tiranno piccolo borghese che non poteva ammettere di scoprirsi offeso nell’onore, il marito di Vicky agiva accecato dalla gelosia. Ma la differenza principale e più evidente, tra l’antecedente di Renoir e il rifacimento di Lang, risiedette nel finale: alla tragedia inevitabile, che caratterizzò tutti i principali film del realismo poetico, l’opera hollywoodiana contrappose un lieto fine, da cui l’incorruttibile volontà del protagonista veniva degnamente ricompensata, in conformità alla concezione anglosassone dell’esistenza umana governata dal principio della giustizia poetica. Evidentemente si trattava di forme assolutamente opposte di poesia!

Alba tragica

Quarto capolavoro in cui Jean Gabin vestì i panni dell’antieroe poetico fu Alba tragica (1939), parto della rinnovata collaborazione tra l’attore francese e la coppia formata da Carné e da Prévert. Nel film si ritrovarono ancora una volta tutte le caratteristiche del movimento: l’attenzione solidale per le difficili condizioni di vita della classe operaia; la condanna alla solitudine e la debolezza umana di fronte alle prevaricazioni del destino; la disgregazione del tessuto sociale e l’incolmabilità delle distanze che aveva ostacolato la realizzazione e il successo di un fronte popolare compatto; l’inutile sforzo di solidarietà tra disperati che non salva il protagonista dalla tragedia finale. Insomma, esso rappresentò un summa della poesia prévertiana: sia sul piano formale, adottando uno stile più vicino possibile al linguaggio comune, sia a livello ideologico, elaborando l’idea che l’amore fosse l’unica speranza per raggiungere la redenzione – un amore tuttavia necessariamente spontaneo, impossibile da incatenare come invece pretenderebbe di fare il tipo del tiranno piccolo borghese: «sono andato al mercato dei ferri vecchi e ho comprato delle catene, pesanti catene per te, amore mio; e sono andato al mercato degli schiavi e ti ho cercata, ma non ti ho trovata, amore mio». In ogni caso, tanto nelle poesie quanto nelle sceneggiature di Prévert, all’esaltazione dell’amore si contrappose sempre un’appassionata polemica, attraverso cui veniva espressa la protesta del cittadino comune, l’uomo della strada che popolava tutte le sue creazioni, incontrato sulla banchina lungo la Senna, nei bistrò, in qualche squallida pensione o su una panchina per strada. E il bersaglio di questi attacchi, spesso violenti e antiletterari, furono l’ottusità borghese, l’indifferenza istituzionale, la violenza del militarismo e l’ipocrisia della

religione – a riprova del suo incontro con il movimento surrealista. Se nella poetica, dunque, Alba tragica costituì la consacrazione del realismo francese di ispirazione surrealista, la struttura narrativa, viceversa, anticipò la tecnica dello straniamento noir: l’inizio del racconto in medias res e, quindi, una serie di flashback iniziati e conclusi ricorrendo alla dissolvenza. Mentre nelle pellicole statunitensi i salti all’indietro sarebbero serviti a evidenziare la rilevanza delle colpe passate, che inesorabili tornavano a infliggere il relativo castigo nel presente compromettendo il futuro, nel film di Carné essi svolsero un ruolo totalmente differente, ripercorrendo una successione di illusioni e di speranze, la cui frustrazione aveva determinato un senso di insopportabile oppressione; per la terza volta in quattro film, il personaggio interpretato da Jean Gabin – «sempre uguale, sempre qualcuno» – si sarebbe tolto la vita piuttosto che essere costretto a subirne oltre le beffe. Particolarmente rilevante fu la scenografia urbana che si dovette imporre al pubblico francese per la famigliarità dei suoi scorci – la celebre affiche di A.M. Cassandre per la Dubonnet a tutta facciata sul palazzo abitato dal protagonista. Di questa ambientazione venne posta in rilevo soprattutto la dolente anima industriale, simboleggiata dalle ciminiere perennemente fumanti e dai ventri fuligginosi e malsani delle officine – simili alla miniera di Germinal, alla fabbrica sotterranea di Metropolis (1927), alla stiva de I dannati dell’oceano (1928).

L’eredità del realismo poetico La poetica amara di un amore indispensabile ma infelice e il senso di predestinazione alla tragedia che avevano

caratterizzato il realismo poetico degli anni ’30 avrebbero esercitato evidente influenza anche su opere successive, realizzate da autori che ne furono affascinati, anzi scossi. Tra loro ci fu senza dubbio Visconti, che, dopo aver assistito Renoir alla regia ed essere entrato in contatto con diversi esponenti del cinema francese dell’epoca, ne mutuò le cupe atmosfere per applicarle a una trama hard boiled – la vicenda venne tratta da Il postino suona sempre due volte, romanzo di Cain che sarebbe stato trasposto anche a Hollywood da Tay Garnett – e all’ambientazione inconfondibilmente padana di Ossessione (1943). L’intreccio criminale anticipò il gusto noir per le perverse complicazioni del male, mentre l’attenta riflessione sulle contraddizioni sociali del nostro Paese manifestò la nascente urgenza di un cinema che non avesse paura di svelare la realtà nascosta dal regime. La messa in scena, infine, dimostrò un debito nei confronti dell’espressionismo tedesco, confermando che alla lezione estetica ebbe modo di attingere ogni successiva esperienza di film nero. Le analogie più evidenti erano quelle con L’angelo del male. Al di là delle analogie tra singole inquadrature – il ritrovamento del cadavere di Bragana e quello di Jacques Lantier risultavano costruiti con riprese equivalenti – Visconti ricorse di continuo alla tecnica della piano sequenza tanto cara a Renoir. Mentre quest’ultimo ambiva dichiaratamente a ottenere una rappresentazione più avvolgente, offrendo allo spettatore un punto di osservazione illimitato e stimolandone, quindi, il coinvolgimento, il regista italiano si propose di valorizzarne la potenziale suspense, sfruttando la lentezza con cui il movimento progressivo e ininterrotto della macchina da presa svelava gli elementi in scena. Renoir aveva aperto e chiuso il proprio film con le riprese del treno in arrivo o in partenza: la vita e il film erano

concepiti alla stregua di un viaggio – lo stesso, peraltro, accadeva ne Il porto delle nebbie. Analogamente Visconti incorniciò la storia di Ossessione tra la fermata di un camion presso una stazione di servizio e una tragica fuga in automobile. Questa concezione della vita – viaggio suggerirebbe un accostamento a quello che sarebbe poi diventato un classico del cinema noir americano Detour (1945), del regista, ceco di nascita e austro-tedesco per formazione, Edgar G. Ulmer. Ma le analogie con i film neri non si arrestavano soltanto alla comune ispirazione letteraria o al motivo del viaggio: fu soprattutto l’attrazione ossessiva esercitata sui protagonisti dal peccato e dal delitto l’aspetto comune più rilevante. Lo spunto è quello degli amanti assassini – un classico del genere nero, già abbozzato in verità proprio da Renoir ne L’angelo del male. Nel film francese, tuttavia, la coppia non concretizzava il delitto – anche se questo non bastò a salvarli dalla tragedia – mentre in Ossessione e negli omologhi noir, La fiamma del peccato (1944) su tutti, questa era appunto la punizione per la loro colpa. Il delitto ricevette un approfondimento psicologico insistito, ricorrendo alle soluzioni che il cinema espressionista aveva elaborato a questo specifico scopo: il ricorso al contrasto cromatico – si consideri, in proposito, la sequenza dello sfogo di Giovanna che, di nero vestita, venne schiacciata contro una nuda e squallida parete bianca allo scopo di sottolinearne l’insofferenza – o quello alle silhouette – come fu nel caso della ripresa dedicata ai due amanti assassini all’uscita del commissariato per suggerire che si trattava ormai di semplici ombre destinate presto a dissolversi. Al contrario, lo sviluppo del tema amoroso fu estremamente sintetico e neppure sarebbe potuto essere altrimenti: un amour fou dotato del valore simbolico che già gli aveva attribuito il cinema francese di ispirazione surrealista – la ricerca, attraverso una relazione di coppia, della soluzione per superare la dolorosa condizione di solitudine. I due

protagonisti scoprivano, l’uno nello sguardo dell’altra, il medesimo assillo di riscatto e comprendevano di essersi cercati reciprocamente per tutta la vita. Se il profilo sentimentale era risultato piuttosto sbrigativo, quello passionale scandalizzò per l’accuratezza con cui era stato affrontato: non solo Visconti svelò pulsioni erotiche parlare delle quali, all’epoca, era sconveniente, ma per provvedervi adottò la prospettiva di un personaggio femminile e, addirittura, quella di un omosessuale – entrambi infiammati da Massimo Girotti. Il realismo dunque si manifestò anche nella carnalità, quella che caratterizzava molte sequenze chiave: quella repellente durante cui l’insofferenza fisica di Giovanna nei confronti del marito veniva esasperata dalla richiesta dell’uomo di detergerne il grasso busto tutto sudato; quella di gusto necrofilo che mostrava il cadavere della protagonista, riverso a terra con le calze strappate e le gambe in vista – un’immagine orrenda e, allo stesso tempo, irresistibile da cui Visconti era partito per immaginare a ritroso l’intero sviluppo del film. Ma il realismo emergeva anche dalla cronaca della vita quotidiana, della quale vennero esasperati il degrado, il tedio, l’ipocrisia, suggerendo un’atmosfera soffocante, satura di tensione. In questo panorama, piatto e disorientante – al quale la sterminata pianura padana fu uno sfondo degno quanto lo sarebbero state le gelide distese del North Dakota in Fargo – l’incontro dei due amanti non poteva rimanere privo di conseguenze: il primo piano dell’uomo, che appariva improvvisamente allo sguardo della donna, interruppe le lunghe e lontane riprese con cui si era aperto il film, generando nell’ordine narrativo una frattura che non sarebbe più stata ricomposta. Una frattura aggravata dalla presenza del marito di Giovanna, un ostacolo per la relazione clandestina e una presenza costante nei loro pensieri inquieti – come dimostrava l’organizzazione della sequenza durante la quale i due amanti vennero ripresi insieme, riflessi sullo specchio dell’anta di un armadio, che, aprendosi lentamente, svelava al pubblico gli abiti del marito.

Infine, il realismo pretese estrema crudezza anche nella caratterizzazione dei personaggi, che Visconti presentò come creature ignoranti, volgari, persino animalesche: canottiere lise, scarpe bucate, povere sottovesti; fatica, sudore e scarsa igiene. Ossessione, alla stregua di un documentario sociale, non nascose il degrado materiale, morale e intellettuale dei personaggi – indugiando senza pietà sulle difficoltà di apporre una firma o ricorrendo con insistenza al dialetto per suggerire la condizione di un’Italia ancora divisa, ignorante e paesana. Del resto, le espressioni gergali e quelle dialettali sarebbero diventate una caratteristica quasi irrinunciabile del neorealismo; tuttavia non si trattò di una novità assoluta. Già Dostoevskij accentuò la parlata tedesca del medico nel finale de Il sosia, mentre Mann confuse il professor Unrat con gli incomprensibili modi di dire dei rozzi marinai. Ma ci sarebbe da scommettere che Visconti trasse ispirazione ancora una volta da Renoir, il quale ne La cagna (1931), suo primo film sonoro, aveva attribuito un ruolo assai rilevante alla canzone popolare, intonata per le vie di Montmartre. Un altro regista che dimostrò di condividere l’amara poetica dei film d’autore francesi degli anni ’30 fu Henry George Clouzot. Il suo Vite vendute (1953) avrebbe reso un chiaro omaggio ai capolavori di Carné, di Renoir e, soprattutto, di Duvivier. Appunto come ne Il bandito della Casbah, anche il film di Clouzot sfruttò il contrasto tra un’ambientazione esotica e l’insofferenza causata dall’esilio, per raccontare un disperato e tragico tentativo dell’essere umano di ribellarsi di fronte allo spietato disegno di un destino capriccioso e beffardo. Relegato nella solitudine, il protagonista custodiva gelosamente un biglietto del metrò di Parigi, unico ricordo tangibile di un passato felice che non sarebbe tornato ma il cui pensiero avrebbe continuato a ossessionarlo. La fuga e il ritorno alla felicità erano un’idea fissa, assillante, inevitabile: per imporla al pubblico, il regista ricorse a una dissociazione logica tra dialoghi e immagini – collocando una serie di battute, ragionevolmente pronunciate una di seguito all’altra, in

contesti scenografici differenti e discontinui; evidentemente il personaggio non faceva altro che parlare sempre della sua aspirazione, tutto il giorno, ovunque. Attorno al protagonista, si dimenava – con il medesimo vano sforzo degli scarafaggi intrappolati della sconcertante inquadratura inaugurale del film, dotata di un evidente significato allegorico – un’umanità vinta e avvilita. In questo microcosmo fece improvvisamente irruzione il personaggio interpretato da Charles Vanel, scaraventato suo malgrado all’inferno, provenendo dal mondo civile; il mondo borghese. Furono appunto la sua tirannia – consistente nell’arroganza, nell’incapacità di adattamento e, infine, nella frustrazione del despota che si scopre impotente – lo spunto per la consueta polemica antiborghese, condotta da Clouzot (non soltanto in quest’opera) con un accanimento degno dei più corrosivi surrealisti. La parte finale del film fu dominata quanto nessun’altra opera nera dalla suspense: ancora una volta, ritornava il tema del viaggio destinato a una tragica interruzione. I camion, carichi di nitroglicerina, dovevano percorrere ad alta velocità una strada dissestata: ancora una metafora dell’esistenza umana, perennemente in bilico. Per esaltare la tensione del momento, Clouzot scompose la guida in tutte le componenti essenziali: uno sguardo al tachimetro, un piede sull’acceleratore, un colpo di frizione, il movimento del cambio, di nuovo il piede sul pedale, un’altra marcia che scala, il tachimetro che si impenna, una goccia di sudore sul volto del pilota, una leggera pressione sul freno. La tensione raggiungeva livelli emozionali elevatissimi, grazie al montaggio sempre più frenetico e alla particolare prospettiva assunta: anziché raccontare il percorso da un punto di osservazione esterno ai veicoli, la soluzione del regista francese costrinse lo spettatore all’interno dell’abitacolo. Inoltre raccontò la lotta tra uomo e destino ricorrendo a una frenetica e inquieta successione di brevi riprese soggettive, anziché un’unica ampia inquadratura oggettiva: il pubblico veniva pertanto gettato nel cuore del confronto e invitato a

coglierne ogni sfumatura. Tutto ciò grazie alla progressiva modulazione dell’ampiezza dell’inquadratura: quanto più essa veniva ristretta, tanto lo sguardo sarebbe stato vicino all’azione; quindi, al pericolo. Ma se il maestro della suspense avrebbe concluso una tortura simile concedendo un sospiro di sollievo – un lieto fine – Clouzot approfittò del pathos raggiunto per rendere ancora più sconcertante la fine del protagonista. Hitchcock – al quale pare che inizialmente fosse stata offerta la regia del film – disapprovò questa soluzione: «secondo me il camion doveva uscire di strada, sbalzare l’uomo fuori dal sedile e, mentre lui rotolava giù dal pendio, saltare in aria con violenza. Poi avrei concluso il film tornando sull’uomo che assiste alla scena». Nelle sue parole è racchiusa tutta la differenza tra genere thriller e genere nero. Il primo, in quanto puro intrattenimento, può permettersi di non fare i conti con la realtà; il secondo invece, per via della vocazione a documentare, non può prescindere dall’ammissione che nella impari lotta tra l’essere umano e la sorte è quasi sempre la seconda a prevalere. Ben prima di Vite vendute, H.G. Clouzot aveva già realizzato un film nero, Il corvo (1943). Girato durante l’occupazione nazista e prodotto da una compagnia tedesca, l’opera attirò su di sé l’ostilità della critica francese soprattutto in considerazione del ritratto avvilente della società transalpina che aveva svolto proprio nel momento in cui, all’opposto, si avvertiva un disperato bisogno dell’amor di patria. Era innegabile che questo grande cineasta avesse voluto ricercare e trasmettere la sensazione di un clima ossessivo, di un’atmosfera viziosa e torbida – senza risparmiare gli accenni all’adulterio e alla pratica dell’aborto finalizzata a cancellarne le conseguenze – ciò, tuttavia, non implicò affatto l’intento di accanirsi sul Paese in ginocchio; nondimeno, a fine guerra, i suoi connazionali arrivarono ad accusare Clouzot di collaborazionismo e a interdirlo dalla regia. Il loro giudizio, inevitabilmente condizionato dal rancore nei confronti della vergogna di Vichy, non andò oltre l’apparenza – imposta dalla

necessità di evitare la scure della censura nazista – apprezzando la risolutezza con cui il regista aveva voluto condannare la pratica, ripugnante ma frequente, della delazione anonima: l’uccisione del corvo, per mano di una madre rimasta orfana del figlio spinto al suicidio da un’accusa del genere, simboleggiò l’aspirazione di Clouzot di veder ristabiliti in Francia patriottismo e solidarietà, a fronte della tragedia della disgregazione e dell’insopportabile solitudine provata da ogni francese, costretto a temere non solo il nemico ma persino il proprio vicino di casa. Neanche avesse presagito il rischio che correva di essere frainteso, l’autore assegnò a Pierre Larquey, straordinario interprete del personaggio del corvo, un potente monologo sulla relatività dei concetti di bene e di male – della quale i nazisti volevano convincere gli altri e se stessi. Era, anzi, questo uno dei momenti più significativi del film – sia sul piano ideologico sia su quello visivo – valorizzato dalla straordinaria trovata dei giochi di luce che disegnano un movimento a pendolo sulla superficie di un mappamondo: bene e male, giustizia e ingiustizia, pietà e crudeltà, apparvero separati da un confine incerto e perennemente mutevole, paragonabile al dondolio del lampadario che, con il proprio moto, allungava sul mondo ombre sinistre. Ma l’autore prese inequivocabilmente le distanze da un siffatto modo di pensare, proprio non solo dei nazisti ma di qualunque altro tiranno, a cominciare dal tipo del piccolo borghese ipocrita: dopo una dissolvenza, la lampada tornò ad essere ripresa immobile; il narratore aveva abbandonato la facile suggestione della tesi della relatività dei concetti di bene e di male, per aderire a una visione più impegnativa dell’esistenza nella quale persino l’omicidio, al pari della resistenza armata e della guerra civile, poteva trovare una giustificazione in vista di un obiettivo più grande da realizzare nel futuro: «non si può sacrificare l’avvenire al presente». A differenza di quanto era accaduto nei capolavori del realismo poetico, Clouzot oltre ad accanirsi contro l’ipocrisia borghese – e le istituzioni che la esprimevano – non risparmiò

nessun membro della comunità, neppure i bambini, che invece nella concezione prevertiana avevano identificato la purezza incontaminata. All’interno di questo universo, un protagonista solitario e inquieto – degno di un investigatore hard boiled – conduceva un’inchiesta destinata a svelare le perversioni della società e a scatenare l’isteria collettiva. Questa sarebbe definitivamente esplosa nel corso di una sequenza dominata dall’estetica espressionista: una suora rischiava di essere linciata, inseguita da una folla inferocita; follia e angoscia vennero efficacemente rappresentate attraverso la deformazione della scenografia – viuzze contorte, prospettive sbilenche, specchi infranti, come la coscienza dell’uomo moderno.

Stati Uniti: la verità sulla guerra sociale dei dimenticati

Se le tracce lasciate da fenomeni rivoluzionari, episodi di ribellione e di lotta di classe occorsi negli Stati Uniti sono meno eclatanti rispetto a quelle relative a quanto era accaduto altrove, la ragione risiede nella riluttanza della storiografia ufficiale nordamericana a trattarne e non, invece, nella improbabile circostanza che una crisi sociale non si fosse mai verificata. Tuttavia, la rilettura della storia dalla prospettiva del popolo compiuta da Howard Zinn nel celebre studio, Storia del popolo americano, costituisce un riferimento indispensabile per comprendere la reale situazione del Paese nel corso del cinquantennio che precedette le prime manifestazioni di inquietudine nella produzione hollywoodiana. Riflettere sul genere noir prescindendo dai gravi problemi con cui la società statunitense si stava confrontando da quasi un secolo equivarrebbe ad avere la

pretesa di comprendere il cinema espressionista tedesco e il realismo poetico francese senza tenere conto della delusione degli artisti europei ottocenteschi, di fronte alle promesse non mantenute dalle rivoluzioni unitarie, e dell’impegno politico delle avanguardie di inizio ’900. Anche gli Stati Uniti avevano avuto la loro Rivoluzione – la guerra di indipendenza – iniziata con la proclamazione di una solenne promessa, che sarebbe costata un altissimo prezzo di vite umane: quella che la Dichiarazione di indipendenza rivolse a tutti gli uomini, considerandoli «dotati di certi inalienabili diritti» e precisando «che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità». Tuttavia, si trattò di una promessa non mantenuta; come dimostra il fatto che nel corso del secolo successivo alla promulgazione della Dichiarazione, numerosi gruppi, organizzazioni e movimenti, differenti tra loro e in momenti diversi, avvertirono la necessità di adottare una propria alternativa dichiarazione di indipendenza, allo scopo non soltanto di riaffermare il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità ma anche di esprimere il proposito di ottenerne e garantirne l’effettivo esercizio da parte di ciascun cittadino, senza distinzioni di ceto, di razza, di sesso. Così nel 1829 il direttore del Workingman’s Advocate, George Henry Evans, stilò la Dichiarazione di indipendenza dei lavoratori denunciando che «le leggi hanno privato nove decimi dei membri del corpo politico che non sono ricchi, dell’uguaglianza dei mezzi per godere di vita, libertà e ricerca della felicità». Nel 1834, un’associazione dei mestieri di Boston, alluse alla Dichiarazione d’indipendenza, sottolineando che «le leggi che tendono a elevare una particolare classe al di sopra degli altri cittadini, concedendo privilegi speciali, siano contrarie a quei principi basilari e li mettano in discussione». Sebbene il presidente Andrew Jackson, eletto nel 1828, avesse sostenuto di parlare a nome dei «membri umili della società: i coltivatori, gli artigiani, i giornalieri» – inaugurando quella forma di comunicazione istituzionale che avrebbe

caratterizzato l’età moderna e a proposito della quale Zinn osservò: «era la nuova politica dell’ambiguità: parlare a nome delle classi inferiori e medie per ottenere il loro appoggio in un’epoca di crescita tumultuosa e di possibili disordini» – nel 1835 le prime forme di sindacato venivano giudicate dai tribunali alla stregua di cospirazioni illegali. La risposta fu la diffusione tra gli operai che incominciavano ad affollare gli slum, le malsane periferie urbane, di volantini intitolati «i ricchi contro i poveri» nei quali si definivano le corti uno «strumento dell’aristocrazia contro il popolo» attraverso cui era stato «stabilito il precedente per cui i lavoratori non hanno alcun diritto di regolare il prezzo del lavoro; cioè, in altri termini, i ricchi sono gli unici giudici dei bisogni del povero». La protesta che ne seguì portò a una Dichiarazione di indipendenza dai partiti politici esistenti e alla fondazione del Partito per l’uguaglianza dei diritti – un tentativo di fare breccia nel tradizionale sistema bipartitico, in cui però non credevano neppure gli stessi oratori del movimento, tanto che uno di loro, Seth Luther, si affrettò a precisare: «prima tenteremo con le urne; se questo non servirà a realizzare il nostro scopo, la nostra prossima e ultima risorsa saranno le pallottole». Da allora in poi, crebbero il malcontento, il numero degli scioperi e quello delle vittime degli scontri. Zinn sostenne che «non esiste un elenco completo delle manifestazioni, delle sommosse, delle azioni organizzate o meno, violente o non violente, che ebbero luogo a metà del XIX secolo, mentre il paese cresceva, le città diventavano affollate, le condizioni di lavoro erano cattive, la qualità degli alloggi intollerabile, e l’economia era in mano a banchieri, speculatori, proprietari terrieri e immobiliari, grandi mercanti», ma precisò che «le vicende della lotta di classe ottocentesca di solito non trovano molto spazio nei manuali di storia degli Stati Uniti; questa lotta è generalmente messa in ombra dalla finzione di un intenso conflitto tra i due partiti politici principali, che invece rappresentavano entrambi le classi dominanti della nazione». Il sistema bipartito servì appunto a imbrigliare all’interno di una dialettica convenzionale le spinte più estreme: a

Philadelphia durante lo sciopero dei tessitori si creò una frattura, tra immigrati irlandesi cattolici e i protestanti americani di nascita, con la conseguenza che «i politici della classe media riuscirono rapidamente a condurre ciascun gruppo all’interno di un partito politico (gli americani di nascita nel Partito repubblicano, gli irlandesi nel Partito democratico); in questo modo la politica di partito e la religione presero il posto del conflitto di classe». In seguito, secondo Zinn, «le élite industriali e politiche del Nord e del Sud presero in mano le redini del paese e gestirono la più imponente crescita economica della storia umana. Lo fecero con l’aiuto, ma anche con il sacrificio, della manodopera nera, bianca, cinese, degli immigrati europei, delle lavoratrici, remunerando in maniera diversa le forze lavoro a seconda del colore della pelle, del sesso, dell’origine nazionale, della classe sociale, in modo tale da creare livelli distinti di oppressione: un terrazzamento sofisticato per dare stabilità alla piramide della ricchezza». Fu proprio la frammentazione della classe operaia, secondo lo storico David Montgomery, a far sorgere tra i suoi colleghi «l’illusione di una società priva di conflitti di classe», mentre in realtà, negli Stati Uniti nel corso dell’ottocento, essa «era tra le più feroci che il mondo industriale avesse conosciuto». Si tenga inoltre conto del fatto che alcune tra le più illustri università erano state fondate da esponenti della classe superiore, dai quali avevano preso il nome – Stanford, Duke, Cornell, Johns Hopkins, Vanderbilt – e quasi tutte sopravvivevano grazie alle donazioni elargite da facoltosi ex alunni: era pertanto inevitabile che la storiografia ufficiale, elaborata nelle loro aule, risentisse dell’influenza esercitata dagli interessi della grande industria, delle banche, del potere governativo. Il sistema educativo tra fine ottocento e inizio novecento sarebbe divenuto un efficace strumento di controllo e indottrinamento: il testo fondamentale per la preparazione dei maestri era intitolato Classroom Management; il suo autore,

William Bagley, si compiaceva all’idea che «chi studia correttamente la teoria pedagogica potrà vedere all’opera nella routine meccanica dell’aula scolastica le forze educative che trasformeranno lentamente il bambino dal piccolo selvaggio che era in una creatura ordinata, ligia alla legge, adatta a vivere in una società civile». L’insegnamento della storia fu introdotto per coltivare il patriottismo e, allo scopo, vennero altresì previsti «i giuramenti di fedeltà, l’abilitazione e il requisito della cittadinanza per controllare la qualità pedagogica, ma anche politica, dei docenti. Inoltre il controllo dei libri di testo fu affidato ai funzionari scolastici. Alcuni testi erano vietati per legge in singoli stati». E, nel complesso, si tentò in tutti i modi di imporre la teoria secondo cui le disuguaglianze economiche corrispondevano a capacità differenti: «nell’era moderna per ottenere il controllo non bastano la forza e la legge. È necessario che una popolazione pericolosamente concentrata nelle città e nelle fabbriche, la cui vita offre innumerevoli motivi di ribellione impari che le cose sono giuste così come sono. Le scuole, le chiese, la letteratura popolare insegnavano che essere ricco è un segno di superiorità ed essere povero la prova di un fallimento personale». Queste parole di Zinn delineavano un ritratto dell’istituzione scolastica nordamericana non dissimile da quello svolto da Mann ne Il professor Unrat o da Vigo in Zero in condotta, con riferimento ai loro rispettivi paesi. Ma se la «gigantesca organizzazione della conoscenza e dell’istruzione in funzione dell’ortodossia e dell’obbedienza», finalizzata a reprimere fin dalla più giovane età ogni velleità di indipendenza e di autonomia di pensiero, poteva già di per se stessa suggerire l’idea dell’infanzia negata, ancora più sconcertanti risultano le cronache relative al lavoro minorile, che ad inizio ’900 coinvolgeva quasi trecentomila bambini tra i dieci e i quindici anni, impiegati in miniere, stabilimenti tessili e fabbriche. L’operaia e sindacalista, Mary Harris Jones – nota anche come Mother Jones – organizzò nel 1903 un corteo di soli

bambini, durante il quale i giovani partecipanti esibivano striscioni su cui era scritto «vogliamo il tempo per giocare». La donna riferì anche che, prima della marcia, vi era stato uno sciopero di settantacinquemila operai tessili, diecimila dei quali erano appunto bambini; «ogni giorno al quartier generale del sindacato arrivavano bambini piccoli, con una mano mozzata, chi senza un pollice, alcuni con le dita tranciate alle nocche. Erano esserini curvi, con le spalle cadenti e il corpo magro». Testimonianze come la sua restituirono l’immagine di un universo che sembrava tratto da un romanzo di Dickens. Analogamente la descrizione delle condizioni del lavoro svolto nelle miniere e nelle lavanderie rassomigliava a quella che già Zola aveva compiuto in Germinal e ne L’ammazzatoio. Di comunismo negli Stati Uniti non sarebbe stato corretto parlare fino al secondo decennio del XX secolo, allorché venne fondato a Chicago il Communist Party of the United States of America; nondimeno nel 1844 sull’Awl, un giornale militante fondato dagli operai calzaturieri di Lynn, città industriale del Massachusetts dove sarebbe stato organizzato lo sciopero più imponente nella storia degli Stati Uniti prima della Guerra civile, venne stampato un editoriale che riportava le seguenti considerazioni: «la divisione della società in una classe produttrice e una improduttiva e la realtà della distribuzione ineguale del valore tra le due ci rivelano un’altra distinzione, quella tra capitale e lavoro […] capitale e lavoro sono contrapposti». Il manifesto del partito comunista, redatto da Marx e da Engels, sarebbe stato pubblicato solo quattro anni più tardi. La crisi era in atto; i giornali, terrorizzati, ricorsero a titoli del genere «è iniziato il conflitto tra capitale e lavoro». Ben presto, però, un altro conflitto distolse l’attenzione collettiva dai disordini di Lynn: «la coscienza di classe fu travolta durante la Guerra civile, nel nord e nel sud, dall’unità militare e politica. Tale unità era alimentata dai discorsi retorici e imposta con le armi». Zinn osservò ripetutamente il ricorso alla guerra e al patriottismo da parte della élite del Paese, allo scopo di distrarre la ribellione proletaria e orientare il

risentimento, la rabbia e la violenza delle masse verso un nemico esterno. L’opinione pubblica americana dimostrò – all’epoca della guerra civile come pure in occasione dei conflitti successivi – di essere piuttosto facile alla suggestione di una guerra giusta e di una missione di civiltà assegnata dalla provvidenza agli Stati Uniti d’America; tutte aspettative destinate a venire deluse. «In teoria» – proseguì Zinn a proposito della guerra civile – «si trattava di una guerra per la libertà, ma i lavoratori che osavano scioperare erano attaccati dai soldati, gli indiani venivano massacrati in Colorado dall’esercito statunitense e i coraggiosi che criticavano la politica di Lincoln venivano incarcerati senza processo». Perciò, a dispetto di quanto riferisce la storiografia tradizionale, «nel Nord e nel Sud vi erano ugualmente segni di un dissenso che smentiva l’unità: la rabbia dei poveri contro i ricchi, la rivolta contro le forze politiche ed economiche dominanti. Nel nord la guerra provocò un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Gli imprenditori ottenevano profitti incredibili mentre i salari venivano mantenuti bassi e durante la guerra scoppiarono scioperi in tutto il paese. Il titolo di prima pagina della Fincher’s Trade Review del 21 novembre 1863, La rivoluzione a New York, era certamente un’esagerazione, ma l’elenco delle iniziative dei lavoratori riportato dal periodico documenta la portata dei risentimenti sotterranei dei poveri all’epoca della guerra». Lo stato di guerra acuì, anche sul piano giuridico, il già profondo divario tra una piccola élite di privilegiati e la maggior parte della popolazione in condizioni di miseria: «la legge del 1863 sulla coscrizione permetteva ai ricchi di evitare il servizio militare versando trecento dollari o pagando un sostituto. Quando nel luglio 1863 cominciò il reclutamento, a New York il principale centro di arruolamento fu devastato da una folla di dimostranti, poi, per tre giorni, masse di lavoratori bianchi invasero le strade, distruggendo edifici, fabbriche, linee tranviarie, case private. […] Il quarto giorno truppe dell’Unione, di ritorno dalla battaglia di Gettysburg, entrarono

in città e posero fine ai tumulti. Per numero di vittime fu il più grave episodio di violenza interna della storia americana. […] Anche nel Sud, sotto l’unità apparente della Confederazione bianca, scoppiarono conflitti. La maggior parte dei bianchi – i due terzi – non possedeva schiavi. L’élite dei piantatori era costituita da poche migliaia di famiglie. […] Dietro il famoso grido di battaglia ribelle e lo spirito leggendario dell’esercito confederato, c’era in realtà una grande riluttanza a combattere. Anche la legge sulla coscrizione della Confederazione garantiva ai ricchi la possibilità di evitare il servizio e forse i soldati confederati cominciarono a sospettare che combattevano per i privilegi di una élite della quale non avrebbero mai fatto parte». Zinn evidenziò ulteriormente che «in mezzo al frastuono assordante della guerra, il Congresso approvò e Lincoln firmò una serie di leggi che diedero ai grandi interessi industriali ciò che prima della secessione non avevano potuto ottenere a causa dell’opposizione del Sud agrario», come «il dazio Morrill, che rendeva le merci straniere più costose, permetteva agli industriali americani di aumentare i prezzi, e costringeva i consumatori a pagare di più». Non sorprende, dunque, se a guerra ormai terminata, nel 1876 in occasione del centenario della Dichiarazione di indipendenza, il Partito dei lavoratori dell’Illinois, emanò una propria Dichiarazione di indipendenza nella quale si denunciò che «il sistema attuale ha permesso ai capitalisti di creare leggi nel proprio interesse, opprimendo e danneggiando i lavoratori. Ha trasformato il nome stesso di democrazia, per cui i nostri avi combatterono e morirono, in una beffa e in un fantasma, conferendo alla proprietà una rappresentanza sproporzionata e un’eccessiva capacità di controllo sulle leggi. […] Di conseguenza noi, rappresentanti dei lavoratori di Chicago, riuniti in assemblea, annunciamo solennemente e dichiariamo che siamo sciolti da ogni vincolo di fedeltà ai partiti politici esistenti in questo paese e che in quanto produttori liberi e indipendenti opereremo allo scopo di acquisire il pieno potere di stabilire leggi nostre, amministrare la nostra produzione e

governarci». Il malcontento dilagò per tutti gli Stati Uniti sull’impulso dello sciopero dei ferrovieri di Baltimora, come riferiva il Republican di St. Louis: «vi erano scioperi quasi ogni ora. Il grande stato della Pennsylvania era in tumulto; il New Jersey era paralizzato dalla paura; New York stava raccogliendo un esercito della milizia; l’Ohio era scosso dal lago Erie al fiume Ohio; l’Indiana tremava con il fiato sospeso. L’Illinois e specialmente la sua grande metropoli, Chicago, sembravano sull’orlo di un vortice di confusione e disordine. St. Louis aveva già provato l’effetto delle scosse premonitrici della rivolta». I grandi scioperi ferroviari del 1877 avevano riscosso un’adesione mai sperimentata prima di allora e provocato sincera apprensione nel potere politico ed economico del Paese: benché alla fine il movimento operaio non si fosse dimostrato abbastanza unito da riuscire a ottenere soddisfazione per tutte le rivendicazioni avanzate, al culmine della protesta oltre metà delle merci in viaggio era stata bloccata. Tuttavia, le condizioni di lavoro non migliorarono come dimostravano le stime della Commissione per il commercio interstatale secondo le quali nel 1889 sarebbero stati addirittura ventiduemila i casi di morte o infortunio sul lavoro nel settore ferroviario. Zinn ricostruì la «storia entusiasmante di scaltrezza finanziaria» con cui le due principali aziende ferroviarie del Paese, la Union Pacific e la Central Pacific, si erano sviluppate sul territorio fino ad arrivare a congiungersi nello Utah: «entrambe le ferrovie scelsero percorsi più lunghi e tortuosi del necessario per ottenere sussidi dalle città che toccavano». Attorno alla crescita della ferrovia erano gravitati gli interessi dei più spregiudicati e potenti uomini della finanza statunitense: J.P. Morgan, John D. Rockefeller e Andrew Carnegie. Le concentrazioni e i monopoli divennero lo strumento per la costituzione di veri e propri imperi, spartiti tra pochi privilegiati – Morgan fu consigliere d’amministrazione di quarantotto società, mentre Rockefeller di trentasette.

In quegli anni gli interessi economici trovarono sostegno nel potere politico, qualunque fosse il partito al governo. Il presidente democratico Grover Cleveland venne eletto nel 1884, suscitando il timore dei grandi industriali, a causa dell’impressione diffusa nel Paese che si sarebbe opposto al potere dei monopoli, e, invece, li rassicurò prontamente: «nessun danno sarà arrecato ad alcun interesse economico dalla politica del governo finché io sarò presidente […]. Il passaggio dell’esecutivo da un partito all’altro non deve causare turbamenti di rilievo». Anzi, sotto la sua amministrazione vennero compiute scelte che esasperarono le diseguaglianze economiche tra le classi, come ricostruì Zinn: «nel 1887, quando il Tesoro poteva contare su una notevole eccedenza, Cleveland oppose il veto a una proposta di legge per lo stanziamento straordinario di centomila dollari in soccorso dei coltivatori texani, per aiutarli a comprare le sementi in un periodo di siccità. Affermò: «gli aiuti federali in casi del genere incoraggiano ad attendersi cure paterne da parte dello Stato e indeboliscono la robustezza del carattere nazionale». Nello stesso anno, tuttavia, Cleveland utilizzò l’oro che aveva in eccedenza per liquidare i ricchi detentori di obbligazioni pagandole ciascuna ventotto dollari in più rispetto al loro valore di cento: un regalo da quarantacinque milioni di dollari». Inoltre, benché la legge sul commercio interstatale dovesse ufficialmente servire a regolamentare le ferrovie nell’interesse dei consumatori, il segretario alla giustizia del governo Cleveland, assicurò i funzionari delle compagnie ferroviarie che la commissione preposta a provvedere soddisfaceva «la richiesta popolare di una supervisione statale sulle ferrovie, la quale tuttavia sarà in realtà quasi solo nominale», precisando: «saggezza vuole che la commissione non sia smantellata, ma utilizzata». Nel 1883 si era tenuto a Pittsburgh un congresso anarchico durante il quale fu predisposto un manifesto che recitava: «tutte le leggi sono rivolte contro i lavoratori. I lavoratori non possono quindi attendersi aiuto da nessun partito capitalistico

nella lotta contro il sistema. Devono realizzare la propria liberazione con le loro mani». Il manifesto incitava anche alla ribellione, ricorrendo a una delle esortazioni del Manifesto del Partito Comunista, in seguito adottato dall’Unione sovietica all’interno del proprio emblema: «proletari di tutti i paesi unitevi! Non avete nulla da perdere fuorché le vostre catene. E avete un mondo da guadagnare». Durante una manifestazione a Chicago, due anni dopo, la Centrale sindacale aveva adottato una risoluzione estrema sotto la guida dei leader anarchici dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Albert Parsons e August Spies: «stabiliamo di lanciare un urgente appello alla classe salariata affinché si armi per opporre ai suoi sfruttatori il solo argomento efficace, la violenza». La stampa cittadina reagì con orrore e preoccupazione; il Chicago Mail esortò la giustizia a prendere provvedimenti nei confronti dei due anarchici: «teneteli d’occhio. Considerateli personalmente responsabili di qualsiasi disordine. Puniteli in modo esemplare se si verificano guai». E i guai, in effetti, non tardarono ad occorrere. Appena quattro giorni dopo durante un raduno presso Haymarket Square scoppiò una bomba che ferì numerosi poliziotti e ne uccise sette. Benché non fossero neppure presenti alla manifestazione, Parsons e Spies furono arrestati insieme ad altri esponenti del movimento di protesta. Il Chicago Journal, allora, non esitò a sostenere: «la giustizia dovrebbe occuparsi senza indugio degli anarchici arrestati». Così fu. In breve si giunse a una condanna a morte all’esito di un processo con cui l’élite del paese intese punire in maniera esemplare gli oppositori del sistema dal momento che, come notò Zinn, «le prove contro gli anarchici erano le loro idee, consistevano soltanto in ciò che avevano scritto». In tutto il mondo sfilarono cortei di protesta – in Francia, in Olanda, in Russia, in Italia, in Spagna e in Inghilterra – ma non servì a nulla: Parsons e Spies furono impiccati, diventando un simbolo della rivolta popolare come in seguito sarebbe stato per Luxemburg e Liebknecht.

Per tutta reazione, anziché fiaccarsi la protesta crebbe: nel 1886 vennero indetti millequattrocento scioperi che coinvolsero cinquecentomila lavoratori. Questa straordinaria partecipazione indusse John Commons a cogliere «i segni di un grande movimento della classe degli operai non specializzati, che finalmente si ribellava. […] Il movimento aveva sotto ogni punto di vista l’aspetto della guerra sociale. In ogni sciopero importante si manifestava l’odio feroce dei lavoratori per il capitale». Un risentimento consapevole, alimentato anche da una letteratura del dissenso che, nonostante gli ostacoli posti dal sistema, riuscì a diffondersi presso una popolazione più istruita e ricettiva. Nel 1879 Henry George, operaio di umili origini e pubblicista autodidatta, aveva pubblicato Progress and Poverty, un trattato di economia in cui svelava la disuguaglianza prodotta dal sistema capitalista, auspicando una tassazione adeguata della terra, concentrata nelle mani di pochi potenti, per ridistribuire la ricchezza in maniera più equa ed efficiente. Nel 1894 Henry Demarest Lloyd avrebbe pubblicato Wealth against Commonwealth, opera in cui sottolineò i pericoli legati ai grandi monopoli come quello della Standard Oil. Non solo la saggistica, ma anche la narrativa contribuì a sensibilizzare l’opinione pubblica: nel 1888 Edward Bellamy, avvocato e giornalista, pubblicò un romanzo fantascientifico utopistico, intitolato Guardando indietro 2000 – 1887, nel quale immaginava di risvegliarsi improvvisamente nell’anno 2000 scoprendo un mondo migliore, governato dalla pace, dalla fratellanza, dalla uguaglianza. Adottando un linguaggio semplice e uno stile coinvolgente, il libro di Bellamy diffuse presso i lettori la passione per l’alternativa socialista tanto che si organizzarono in tutto il Paese numerosi gruppi allo scopo di porre le basi per la realizzazione di quel sogno. Mentre Eugene Debs, fondatore del Sindacato dei ferrovieri americani, ammise di averne tratto ispirazione per la definizione del proprio obiettivo, «unificare i dipendenti delle ferrovie ed eliminare l’aristocrazia operaia, organizzandoli in

modo che tutti siano su un piede di uguaglianza». Anche Hamlin Garland, in A spoil of Office, immaginò un’alternativa possibile al sistema vigente, attraverso la prospettiva di sognatrice della sua eroina: «vedo un giorno in cui l’agricoltore non sarà più uno che fatica soltanto e sua moglie non sarà più una schiava, ma uomini e donne, felici, andranno cantando a svolgere i propri piacevoli compiti sui loro poderi fertili». Era evidente che, per ricorrere alle parole di Zinn, «il movimento populista compì un tentativo serio di creare una cultura nuova e indipendente», favorendo la diffusione di un pensiero socialista. In seguito a uno sciopero dei ferrovieri Chicago, iniziato nel giugno del 1894 – durante il quale furono uccise tredici persone, gravemente ferite cinquantatré e arrestate settecento – Debs venne processato per aver violato un’ingiunzione che proibiva qualunque attività rivolta a favorire il prolungamento dello sciopero. In carcere studiò il socialismo arrivando a concludere: «ricevetti il battesimo del socialismo nel clamore del conflitto. […] nel bagliore di ogni baionetta, nel luccichio di ogni fucile si rivelava la lotta di classe». Alla tradizionale dialettica tra repubblicani e democratici – nella quale trovavano posto solamente gli interessi della medesima élite – egli contrappose un’alternativa differente, scrivendo sul Railway Times: «il punto è questo: o il socialismo o il capitalismo. Sono per il socialismo perché sono per l’umanità. Da troppo tempo subiamo la maledizione del regno dell’oro. Il denaro non è una base accettabile su cui fondare la civiltà. È giunto il momento di rigenerare la società: siamo alla vigilia di un mutamento universale». Era la fine del XIX secolo, un periodo nel quale anche in Europa Hauptmann aveva colto i segnali del rinnovamento auspicando «una grandiosa catastrofe sociale universale, che avrebbe dovuto aver luogo al più tardi verso il 1900 e rigenerare il mondo! I circoli socialisti e i giovani intellettuali vicini alle loro idee speravano nella realizzazione del futuro stato socialista, stato sociale e quindi ideale».

Nella repulsione di Debs, nei confronti di un sistema sociale fondato sulla ricchezza, si coglieva facilmente lo stesso dolore espresso Rimbaud: «vi sono distruzioni necessarie. Questa stessa società: vi passeranno sopra le scuri, le zappe, i rulli livellatori. Si raderanno al suolo le fortune, saranno abbattuti gli orgogli individuali. Un uomo non potrà più dire Io sono potente perché sono più ricco». Ma anche l’indignazione di Gauguin per la civiltà occidentale «criminale, male organizzata e governata dall’oro». La diffusione dei principi del socialismo passò inoltre attraverso le parole di alcuni grandi oratori del movimento, in grado di incendiare l’animo della gente, restituendo anche ai più disperati l’entusiasmo necessario a ribellarsi. Nel 1890, durante un congresso del Partito del popolo, Mary Ellen Lease gridò alla folla: «Wall Street è padrona del paese. Questo non è più un governo del popolo, fatto dal popolo per il popolo, ma un governo fatto da Wall Street per Wall Street. […] La gente è con le spalle al muro; stiano attenti i seguaci del denaro che finora ci hanno braccato». Due anni più tardi, Ignatius Donnelly, nel corso di un’altra manifestazione organizzata dal partito populista, considerò: «ci riuniamo al centro di una nazione ridotta sull’orlo della rovina morale, politica e materiale. La corruzione domina le urne, i parlamenti statali, il Congresso e raggiunge persino l’ermellino del giudice. I giornali sono finanziati o imbavagliati; l’opinione pubblica è messa a tacere; gli affari vanno in malora, le nostre case sono coperte di ipoteche, i lavoratori sono in miseria e la terra è concentrata nelle mani dei capitalisti». Tra il 1892 e il 1893 si verificò una nuova grave depressione che provocò diversi scioperi e manifestazioni di protesta. In quell’occasione si distinsero altre due figure centrali nel movimento del dissenso che intraprese la strada della guerra sociale: Alexander Berkman e Emma Goldman erano due anarchici, legati sentimentalmente e ideologicamente. Entrambi sperimentarono il carcere per via della propria attività di attivisti ed elaborarono una visione amara della società alla quale appartennero, come dimostrano

le rispettive autobiografie – Un anarchico in prigione e Vivendo la mia vita. Tuttavia, nonostante la passione, l’ardore e l’intensità della lotta il partito populista non riuscì a realizzare quel radicale rovesciamento istituzionale che si era riproposto. Al contrario, fu neutralizzato proprio dal sistema che intendeva combattere: «il populismo annegò nel mare della politica del grande partito. La priorità della vittoria elettorale spinse il populismo a scendere a patti con i grandi partiti in una città dopo l’altra. […] L’impegno elettorale portò ai vertici del movimento i mediatori politici, non certo gli estremisti. Alcuni di questi ultimi si resero conto di ciò che stava accadendo e sottolinearono che la fusione con i democratici nel tentativo di vincere avrebbe provocato la perdita di ciò che era più necessario, un movimento politico indipendente» – fu l’analisi di Zinn. Come se non bastasse, pur di frenare la spinta sovversiva proveniente dal basso, il potere che rappresentava l’élite finanziaria, industriale e terriera ricorse allo strumento della guerra, consapevole che «il patriottismo poteva servire ad affogare il risentimento di classe in un’alluvione di slogan sull’unità nazionale». Così Zinn spiegava la decisione degli Stati Uniti di dichiarare guerra alla Spagna nel 1898. Theodore Roosevelt, che nel 1906 sarebbe stato insignito con il Nobel per la pace – avendo contribuito, nella carica di Presidente degli Stati Uniti d’America, alla conclusione della guerra russo giapponese – nel 1897 scriveva in realtà ad un amico: «in confidenza accoglierei bene quasi qualunque guerra, perché penso che questo paese ne abbia bisogno». Qualche anno prima, parlando alla scuola per ufficiali di marina aveva sostenuto: «tutte le grandi razze dominanti sono state razze di guerrieri. Nessun trionfo di pace raggiunge davvero la grandezza del trionfo supremo dato dalla guerra». La propaganda dell’espansione, alimentata dai militari, dalla stampa istituzionale, dagli intellettuali compiacenti con il governo, si mise in moto diffondendo in breve un terribile contagio. Un editoriale del Washington Post riferiva: «sembra

che sia nata in noi una nuova consapevolezza, la coscienza di essere forti, e che con essa sorga un nuovo appetito, l’impazienza di dimostrare la nostra forza. Il popolo ha il sapore dell’impero in bocca, come nella giungla si ha quello del sangue». La guerra ispano americana venne presentata sotto forma di un soccorso portato dagli Stati Uniti ai ribelli cubani insorti contro l’occupazione spagnola, con la conseguenza che «molti americani, ritenendo che lo scopo dell’intervento fosse l’indipendenza cubana, sostennero l’idea». Perciò la storiografia ufficiale si è limitata a constare che il presidente McKinley aveva assunto la risoluzione bellica sulla spinta dell’opinione pubblica. In verità, i leader dei sindacati e del movimento socialista compresero che lo scopo della guerra era incanalare verso l’esterno il dissenso interno, mettendo così al riparo gli interessi della élite che ne sarebbero risultati anzi avvantaggiati anche sul piano economico. Il mensile della Associazione internazionale dei macchinisti, pur condannando l’affondamento della corazzata Maine che aveva causato la dichiarazione di guerra, rilevò tuttavia che «le migliaia di vite utili che sono sacrificate ogni anno al Moloch dell’avidità, il tributo di sangue pagato dai lavoratori al capitalismo, non provocano grida che chiedono vendetta e riparazione». Un’immagine biblica che sarebbe stata portata sullo schermo, molti anni dopo, da Fritz Lang. Il principale giornale socialista, Appeal to Reason, comprese fin da subito che la guerra era «uno dei metodi preferiti dai governanti per evitare che il popolo ripari i torti che subisce all’interno» mentre il Voice of Labor constatava amaramente: «è terribile pensare che i poveri lavoratori di questo paese debbano essere mandati a uccidere e a ferire i poveri lavoratori della Spagna soltanto perché un pugno di capi potrebbe incitarli a farlo». Anche Emma Goldman che – al pari di molti altri anarchici, aveva simpatizzato con la ribellione degli indipendentisti cubani contro l’oppressione spagnola – dovette ricredersi alla fine del conflitto: «come

bruciavano di indignazione i nostri cuori contro gli atroci spagnoli! Ma quando il fumo si disperse, i morti furono sepolti e il costo della guerra andò a pesare sul popolo con l’aumento del prezzo delle merci e degli affitti – cioè quando ci passò la sbornia patriottica – d’improvviso ci rendemmo conto che la causa della guerra ispano americana era il prezzo dello zucchero, che le vite, il sangue e il denaro del popolo americano erano stati utilizzati per proteggere gli interessi dei capitalisti». In seguito alla vittoria militare, gli Stati Uniti non annetterono Cuba ma non si dissero disposti a lasciar partire le truppe dall’isola finché la Costituente cubana non avesse incorporato nella nuova costituzione l’emendamento Platt che attribuiva loro «il diritto di intervenire per la difesa dell’indipendenza cubana e la conservazione di un governo atto a proteggere la vita, proprietà e la libertà individuale». Chiaramente riservando agli stessi Stati Uniti l’arbitrio di stabilire in quali condizioni questo intervento si fosse reso effettivamente necessario. Si levò un coro di dissensi provenienti non più soltanto dalle frange estremiste dei movimenti proletari; durante un raduno della Lega antimperialista americana, l’ex senatore degli Stati Uniti ed ex governatore dello stato del Massachusetts, George Boutwell, constatò con vergogna: «incuranti della promessa di libertà e di sovranità che abbiamo fatto a Cuba, stiamo imponendo sull’isola una situazione di vassallaggio coloniale». La stessa Lega antimperialista si sarebbe opposta in prima linea all’annessione delle Filippine che seguì i trattati di pace con la Spagna, non condividendo una scelta che al presidente McKinley pareva essere stata ispirata dalla provvidenza nell’ambito della missione terrena affidata agli Stati Uniti d’America: «non mi vergogno di ammettere che più di una volta mi sono inginocchiato e ho pregato Dio Onnipotente di illuminarmi e guidarmi. E una notte, a tarda ora, mi venne questo pensiero, non so come: che non ci rimaneva altro da fare che prenderle tutte, educare i filippini ed elevarli,

civilizzarli, cristianizzarli e, per grazia di Dio, fare del nostro meglio a loro favore, perché sono uomini come noi e Cristo è morto anche per loro. Poi mi coricai, mi addormentai e dormii sereno». A questa retorica rispose acutamente Mark Twain, scrivendo sul New York Herald: «vi presento la maestosa matrona che ha nome Cristianità, mentre rientra con gli abiti in disordine, infangata e disonorata da scorrerie piratesche nelle Filippine con l’animo colmo di meschinità le tasche rigonfie di quattrini, la bocca piena di pie ipocrisie». Una parte della letteratura di inizio ’900 proseguì la diffusione degli ideali socialisti: Jack London ne Il tallone di ferro realizzò – all’opposto di quanto avevano fatto Bellamy e Garland – una distopia, immaginando l’ascesa di un totalitarismo brutale e autoritario che all’epoca dovette sembrare una deriva tutt’altro che irrealizzabile della recente politica del governo degli Stati Uniti, repressivo nei confronti dei dissidenti interni e aggressivo all’esterno. Il romanziere – iscritto al Partito socialista, proveniente dagli slum di San Francisco, arrestato per vagabondaggio, reduce da anni vissuti all’insegna dell’avventura e della sregolatezza – constatò l’aspetto più controverso dell’età moderna, l’infelicità, deducendone il fallimento del sistema borghese capitalistico che si era imposto: «di fronte al fatto che l’uomo moderno è più infelice dell’uomo delle caverne, mentre la sua capacità di produrre è mille volte maggiore di quella del cavernicolo, si può giungere a una sola conclusione: che la classe capitalista ha amministrato male, ha amministrato in maniera criminale ed egoista». Ma rispetto alla cieca rabbia dei luddisti, che avevano preferito demolire le macchine – espressione di quel sistema da cancellare in toto – London suggeriva una soluzione più matura: «non distruggiamo quelle macchine meravigliose, che producono con efficienza a basso costo. Assumiamone il controllo. Approfittiamo dell’efficienza e del basso costo. Facciamole funzionare per noi. Questo, signori, è il socialismo». Negli stessi anni Upton Sinclair elaborò un romanzo documentario, La giungla, nel quale descrisse crudamente la

condizione di lavoro nell’industria delle carni di Chicago: l’autore coniugò lo stile realista con la spiccata polemica nei confronti della mancanza di leggi adeguate, ma anche con la speranza di un’alternativa socialista. La sua tecnica narrativa era stata ispirata da Il popolo degli abissi, romanzo – inchiesta, che London aveva scritto confondendosi tra i miserabili abitanti dell’Est End di Londra, per poterne descrivere le reali condizioni di vita. Del resto, in quegli anni si stava imponendo il giornalismo investigativo che avrebbe alimentato il malcontento generale, svelando corruzione e malaffare. L’avversione della élite nei confronti dell’eccessiva indipendenza dei mezzi di informazione fu riassunta nella definizione che diede il presidente Theodore Roosevelt a questo nuovo tipo di reporter – muckraker, letteralmente spalatore di letame – sostenendo che esso sarebbe stato prezioso per la società solamente nella misura in cui fosse in grado di capire quando doveva smettere di spalare. Le inchieste ebbero comunque grande risonanza e quello stesso sistema capitalistico che premiava il successo commerciale non poté impedirne la diffusione: le rivelazioni di Ida Tarbell sulla Standard Oil Company e sul suo presidente Rockefeller e le denunce di Lincoln Steffens a proposito della malamministrazione di St. Louis fecero il giro del Paese. Insieme, Tarbell e Steffens avrebbero poi fondato la testata radicale The American Magazine. La rivista Cosmopolitan svolse un’inchiesta sugli scandali del Senato e pubblicò diversi editoriali di denuncia delle condizioni dei lavoratori, sostenendo la causa del movimento operaio. Tra questi Zinn segnalò un testo del poeta Edwin Markham – il cui più celebre componimento, L’uomo con la zappa, era ispirato all’omologo dipinto di Millet – che evidenziava l’inaccettabile assurdità dello stato di disuguaglianza tra proletari e borghesi: «in locali senz’aria, madri e padri cuciono giorno e notte. […] E i bambini sono allontanati dai loro giochi per venire a faticare accanto agli adulti. Non è forse crudele la civiltà che permette che piccoli cuori e piccole spalle si tendano sotto queste responsabilità

adulte, mentre nella stessa città un cagnaccio domestico viene ornato, viziato e portato a prendere aria nei viali sul grembo di velluto di un’elegante dama?». Un contributo fondamentale al dissenso arrivò anche dalla diffusione del pensiero di autori del passato – Pauline Newman, una delle partecipanti dello sciopero femminile presso la Triangle Shirtwaist Company, ricordava in proposito: «cercavamo di istruirci. Invitavo le ragazze nel mio alloggio e a turno leggevamo poesie in inglese per migliorare la nostra comprensione della lingua. Una delle nostre preferite era Mask of Anarchy di Percy Bysshe Shelley». Si trattava di un componimento a sfondo politico, realizzato dal lirico romantico, amico di Lord Byron e marito della romanziera Mary Godwin Shelley, per esortare il popolo a ribellarsi in seguito alla sanguinosa repressione da parte della cavalleria di un pacifico comizio indetto a Manchester nel 1819 per chiedere al Parlamento britannico una riforma elettorale: «levatevi come leoni dopo il riposo in numero invincibile! […] Siete molti e loro sono pochi!». Shelley era stato influenzato dai genitori della sposa: la scrittrice protofemminista Mary Wollstonecraft e il filosofo anarchico William Godwin, il cui pensiero sarebbe stato apprezzato anche da Marx. Questi riferimenti – Millet, i romantici inglesi, Hauptman e Rimbaud – dimostrano la continuità culturale tra Europa e Stati Uniti rafforzando la convinzione a proposito della necessità di inquadrare anche il cinema noir nell’ambito di una cornice storica internazionale. Lo sciopero del 1909 delle lavoratrici della Triangle Shirtwaist Company non procurò i miglioramenti auspicati; nel marzo del 1911 divampò un incendio all’undicesimo piano dello stabilimento che, a causa dell’inosservanza delle più elementari norme sulla sicurezza, provocò 146 morti. Il New York Wild riferì alcune scene raccapriccianti della tragedia: «uomini, donne, bambini e bambine urlanti si affollavano sui molti davanzali e si lanciavano giù, in strada. Saltavano con gli abiti in fiamme. Nell’istante della morte si formavano tristi

sodalizi: bambine che si gettavano nel vuoto tenendosi abbracciate». Una delle cause del fallimento delle rivendicazioni operaie era la frammentazione sindacale, dovuta principalmente alla discriminazione per ragioni di sesso e di razza operata dalla Federazione americana del lavoro, la principale organizzazione sindacale del Paese. Appunto per far fronte a questa nel 1905 durante un congresso di socialisti, anarchici e sindacalisti radicali era stata fondata l’organizzazione dei Lavoratori industriali del mondo che aspirava – come disse uno dei suoi principali teorici, Big Bill Haywood – a «confederare i lavoratori di questo paese in un movimento di classe che avrà come scopo l’emancipazione della classe operaia dalla schiavitù del capitalismo». Li animava la consapevolezza che tra la classe operaia e quella imprenditoriale «la lotta dovrà proseguire finché tutti i lavoratori non saranno uniti in campo politico oltre che industriale e non prenderanno e terranno ciò che producono con il loro lavoro, attraverso un’organizzazione economica della classe operaia senza affiliazioni ad alcun partito politico». La forza e l’influenza del movimento crebbe rapidamente, in un clima internazionale pieno di fermento – Zinn al riguardo ricordava che «all’epoca in Spagna, in Italia e in Francia si stava affermando l’anarcosindacalismo: i lavoratori avrebbero preso il potere non impadronendosi dell’apparato statale con un’insurrezione armata, ma arrestando il sistema economico mediante uno sciopero generale e poi assumendone il controllo per utilizzarlo a beneficio di tutti». Si sarebbe trattato di «un’azione diretta» cioè, secondo i Lavoratori industriali del mondo, «condotta direttamente dai lavoratori, dagli operai per gli operai, senza l’infido aiuto di dirigenti sindacali ciarlatani e politici truffaldini». La soluzione prospettata dall’anarcosindacalismo a livello internazionale e recepita dai leader del movimento americano – Joseph Ettor disse: «se i lavoratori del mondo vogliono

vincere non devono far altro che incrociare le braccia e il mondo si fermerà. Gli operai, con le mani in tasca, sono più potenti di tutti i beni dei capitalisti» – era estremamente allarmante per l’élite industriale del Paese. Lang avrebbe dimostrato in Metropolis quale collasso sarebbe potuto discendere da una simile condotta della classe operaia. Per questo i Lavoratori industriali del mondo vennero ostacoli e perseguiti in tutte le maniere, legittime o meno: arresti arbitrari, processi sommari, pestaggi e persino l’omicidio – come nel caso di Frank Little, ucciso da alcuni poliziotti privati ai quali gli imprenditori erano soliti ricorrere per stroncare scioperi e proteste. Nondimeno, secondo la ricostruzione di Zinn, «al cambio del secolo le lotte sindacali si moltiplicarono: negli anni Novanta dell’Ottocento gli scioperi erano circa mille all’anno; nel 1904 se ne fecero in un anno quattromila. I magistrati e le forze armate prendevano ogni volta le parti dei ricchi. Fu a quell’epoca che centinaia di migliaia di americani cominciarono a pensare al socialismo». La stampa parlava di «marea montante del socialismo». Perciò il governo decise di varare una serie di riforme che indussero la storiografia ufficiale a parlare di era del progresso. In effetti, però, le insopportabili condizioni di vita alle quali era costretta la maggior parte della popolazione non migliorarono: le riforme venivano spesso concertate con banchieri e industriali che il presidente Roosevelt confortò di persona, assicurando di voler «essere molto conservatore, ma nell’interesse delle aziende e soprattutto del paese». Inoltre, siccome il sistema produttivo viveva un momento di eccezionale ricchezza e prosperità, una parte del benessere poté essere ridistribuita a vantaggio di un numero di lavoratori sufficiente a formare quello che Zinn definì «uno scudo protettivo tra gli strati più bassi della popolazione e i vertici della società». Neppure queste misure furono sufficienti ad arrestare o attenuare lo scontro sindacale, che raggiunse il culmine della sua tragicità nel massacro di Ludlow dell’aprile 1914. I

lavoratori della Colorado Fuel & Iron Company, di proprietà della famiglia Rockefeller, smisero di lavorare e si accamparono fuori dalla fabbrica, impedendo l’accesso ai crumiri e ai lavoratori che i dirigenti provavano far arrivare da altre zone del paese. I poliziotti privati, assunti dai Rockefeller tra quelli dell’agenzia investigativa Baldwin – Felts, spararono sulla folla con fucili e mitragliatrici; ma anche questo non bastò. Il governatore dello Stato convocò la Guardia nazionale, i cui stipendi furono pagati dagli stessi Rockefeller. Prima dell’alba, due compagnie fecero fuoco su una tendopoli degli operai, noncuranti della presenza di donne e bambini; al calar della sera, dopo un giorno di combattimenti e agguati, irruppero appiccando il fuoco alle tende. Morirono undici bambini e due donne. Da tutto il Colorado accorsero operai in armi, mentre alcuni soldati si rifiutarono di partire per il luogo dello scontro, dichiarando che «non avrebbero preso parte una sparatoria contro donne e bambini». Mentre in tutti gli Stati Uniti si tennero manifestazioni di protesta. Alla fine, il presidente Wilson inviò le truppe federali che misero fine allo sciopero: il bilancio fu di sessantasei morti, tra uomini, donne e bambini e nessuna incriminazione per alcun membro della milizia o della polizia privata. Ma l’eco di quanto era accaduto aveva scosso il Paese e il New York Times, espressione degli interessi della élite industriale, aveva condannato gli errori di valutazione commessi dall’esecutivo: «qualcuno ha sbagliato. Ora che le armi più letali della civiltà sono nelle mani di quei barbari, non si può dire quanto durerà la guerra nel Colorado se non sarà soffocata con la forza». E così, messo alle strette, il governo – al quale era stato rivolto dalla stampa l’invito a «prendere misure forti» – approfittò dell’occasione che gli offriva lo scenario europeo, dove appena pochi mesi dopo sarebbe scoppiata la Prima guerra mondiale. Una carneficina senza precedenti – durante la quale persero la vita trenta milioni di persone, uccisi sul campo di battaglia o morti per la fame e per le malattie procurate dalla guerra – giustificata unicamente dall’ambizione

espansionistica delle nazioni in conflitto. Zinn considerò: «i discorsi dei socialisti sulla guerra imperialista oggi sembrano addirittura ovvi. I paesi capitalistici avanzati d’Europa combattevano per i confini, le colonie, le sfere di influenza; si contendevano l’Alsazia – Lorena, i Balcani, l’Africa, il Medio Oriente». Quanto agli Stati Uniti, il loro coinvolgimento nel conflitto, fu dapprima legato alla circostanza che «con la Prima guerra mondiale l’Inghilterra divenne un mercato sempre più importante per i prodotti e i prestiti americani. […] Quando poi gli Stati Uniti entrarono in guerra, i ricchi presero il controllo dell’economia in modo ancora più diretto». Secondo Du Bois, primo nero a laurearsi all’Università di Harvard e leader dell’Associazione nazionale per l’avanzamento della popolazione di colore, si trattò di una guerra imperiale, come spiegò nell’articolo intitolato Le radici africane della guerra. I governi europei fecero leva sul senso di patriottismo e sul nazionalismo e una generazione intera di giovani partì per il fronte esaltata dal desiderio di vivere un’eroica avventura. In verità, andarono a morire a centinaia di migliaia a ogni assalto di trincea, mentre la popolazione delle città inglesi e tedesche, lontane dai campi di battaglia, riceveva dispacci ufficiali che si guardavano bene dal riportare la reale portata della tragedia, limitandosi ad annunciare «nulla di nuovo sul fronte occidentale». Negli Stati Uniti, poi, la propaganda bellica poteva proseguire indisturbata la sua strategia di riavvicinamento tra le classi e di attenuazione del conflitto: «il capitalismo americano aveva bisogno di rivalità internazionali – e di guerre periodiche – per creare una comunità di interessi artificiale tra ricchi e poveri, il quale si manifestava in momenti sporadici» – questa è la teoria proposta da Zinn. Essa trova piena conferma anche nelle parole di altri intellettuali, che si sarebbero espressi all’esito di un conflitto ben più popolare, quale fu la Seconda guerra mondiale. Nell’introduzione preparata da Hemingway nel 1948 per il romanzo Addio alle armi, che aveva pubblicato nel 1929 e ambientato all’epoca della Prima guerra mondiale, lo scrittore americano osservò: «è ragionata convinzione dell’autore di

questo libro che le guerre vengono combattute dalla miglior gente che c’è in un paese o, diciamo, da una media dei suoi abitanti; le dirigono, invece, le hanno provocate e iniziate rivalità economiche precise e un certo numero di porci che ne approfittano. Sono convinto che tutta questa genia pronta ad approfittare della guerra dopo aver contribuito alla sua nascita, dovrebbe venir fucilata il giorno stesso che essa incomincia a farlo, da rappresentanti legali della brava gente candidata a combattere». E nel 1962 Edmund Wilson, nel suo trattato intitolato Patriotic Gore, sostenne: «abbiamo visto, nelle nostre guerre più recenti, come un’opinione pubblica divisa e discorde possa essere trasformata da un giorno all’altro in una qualsiasi unanimità nazionale, un flusso di energia obbediente che porterà i giovani alla distruzione e che travolgerà qualsiasi tentativo di frenarlo». Di ciò i vertici del Partito socialista americano erano perfettamente consapevoli già durante il conflitto: il giorno dopo la dichiarazione di guerra pronunciata dal Congresso, definirono quella decisione «un crimine contro il popolo degli Stati Uniti». Poiché gli americani erano riluttanti ad arruolarsi, il Congresso approvò a grande maggioranza la leva. Nell’estate del 1917, uno dei leader del partito, Charles Schenck, diffuse un volantino nel quale sosteneva che la coscrizione era «un atto mostruoso contro l’umanità, nell’interesse dei finanzieri di Wall Street». Il 1 luglio i militanti di sinistra organizzarono a Boston un corteo contro la guerra e il loro slogan era: «se è una guerra popolare, perché la coscrizione? Vogliamo la pace». In un editoriale apparso sul periodico socialista, The Masses, Max Eastman si ribellò apertamente alla legge sulla coscrizione: «per quali motivi state inviando in Europa noi e i nostri figli? Per parte mia non riconosco a un governo il diritto di coscrivermi per una guerra nel cui scopo non credo». E Eugene Debs tenne un discorso pubblico, fuori da un carcere dove erano stati rinchiusi alcuni socialisti colpevoli di essersi opposti alla leva: «è sempre stata la classe padronale a dichiarare le guerre; la classe subordinata ha sempre combattuto le battaglie». Per evitare simili forme di

protesta e dissenso – che stavano portando un’ampia fetta dell’opinione pubblica a schierarsi dalla parte dei socialisti, tanto che la stampa conservatrice scriveva «se ci fossero le elezioni ora, il Midwest sarebbe sommerso da una marea socialista» – il Congresso approvò lo Espionage Act. Si trattò di un provvedimento contro lo spionaggio che prevedeva però, sacrificando il diritto alla libertà di espressione, di condannare a vent’anni di carcere «chiunque, mentre gli Stati Uniti sono in guerra, provochi o tenti di provocare l’insubordinazione, l’infedeltà, l’ammutinamento o il rifiuto del servizio nelle forze militari o navali degli Stati Uniti oppure ostacoli volontariamente il servizio di reclutamento e arruolamento». Debs fu tra i novecento americani arrestati; durante il processo rifiutò di difendersi, ma rivolse alla giuria il pensiero di cui sarebbe stato sempre un convinto sostenitore: «sono stato di accusato di aver ostacolato la guerra. Lo ammetto. Signori, io aborrisco la guerra. Mi opporrei alla guerra anche da solo. Simpatizzo con la gente che soffre e lotta, dovunque. Non fa alcuna differenza sotto quale bandiera sia nata o dove viva». Debs fu condannato e incarcerato e il presidente Wilson gli rifiutò la grazia. La stampa fece quadrato attorno al governo, suggerendo alla cittadinanza di ricorrere alla delazione: «è dovere di ogni buon cittadino segnalare alle autorità competenti qualsiasi prova di sedizione che giunga alla sua attenzione». Venne istituita la Società americana di difesa che organizzava ronde «per porre fine ai discorsi di piazza sediziosi» e il dipartimento di Giustizia patrocinò la Lega americana di protezione che intercettava la corrispondenza personale e si introduceva in abitazioni e uffici privati, arrivando a segnalare tre milioni di casi di slealtà. La repressione del dissenso coinvolse anche artisti e intellettuali: Robert Goldstein scrisse e produsse un film intitolato The Spirit of ’76, nel quale mostrava le atrocità compiute dagli inglesi contro i coloni – venne arrestato e condannato perché la sua opera aveva messo «in discussione la buona fede della Gran Bretagna, nostra alleata» – mentre la Columbia University licenziò lo psicologo McKeen Cattell per essersi dichiarato contrario alla guerra e aver denunciato il controllo

esercitato sui docenti dal consiglio di amministrazione dell’istituto. Ma l’Espionage Act servì al governo soprattutto per liberarsi degli oppositori radicali: gli anarchici Emma Goldman e Alexander Berkman furono condannati alla prigione per essersi opposti alla leva e, quindi nel 1919, deportati in Russia; centouno esponenti dei Lavoratori industriali del mondo furono arrestati e processati – poiché, tra le altre forme di protesta, il giornale ufficiale del sindacato, l’Industrial Worker, aveva scritto alla vigilia della dichiarazione di guerra: «capitalisti d’America, combatteremo contro di voi, non per voi!». Il risentimento proseguì tuttavia anche nel decennio successivo, dominato dalla misteriosa morte del tipografo anarchico Andrea Salsedo e dall’esecuzione di altri due anarchici suoi amici, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Un clima di ostilità e di diffidenza nei confronti del governo – direttamente responsabile per la morte di cinquantamila soldati americani e indirettamente per quella di altri cinquecentomila, causata dall’epidemia di spagnola trasmessa dai reduci di ritorno dall’Europa – si impose alla fine del conflitto e venne colto da molte opere degli anni ’30, come il testo teatrale di Irwin Shaw, Seppellite i morti, il romanzo di John Dos Passos, 1919 e il testo dello sceneggiatore Donald Trumbo, intitolato E Johnny prese il fucile – era il 1938, ma l’idea di un soldato che, avendo perso gambe, braccia e tutti i sensi aveva definitivamente perso l’identità di essere umano, era la stessa espressa dai dipinti sui reduci realizzati da Otto Dix e George Grosz nell’immediato dopoguerra. Hemingway avrebbe invece reso impotente a causa di una ferita di guerra il protagonista del suo romanzo d’esordio, Fiesta – rimarcando così che l’eroismo estremo, quello bellico, aveva provocato in realtà il sacrificio totale della virilità. Le cicatrici lasciate dalla guerra furono anche e soprattutto morali e, nel vano tentativo di rimarginarle, l’alta borghesia si diede alla sfrenatezza di un’esistenza ormai priva di qualunque

valore morale. Fitzgerald, Hemingway ed Eliot, che assistevano a quel fenomeno di isteria collettiva – nel quale anche una parte delle classi inferiori era stata trascinata, da un sistema produttivo e culturale che cominciava ad alimentare consumismo e moda – manifestarono una visione dolorosa e pessimistica del mondo, denunciando l’aridità, l’ipocrisia, la cupidigia dell’alta società. Nei loro romanzi veniva descritta un’umanità annoiata e apatica, svuotata di sentimento e di passione autentici, schiava della ricchezza e della bellezza esteriore. Gertrude Stein, definendo il concetto di generazione perduta, lo ricollegò direttamente al trauma provocato dal conflitto. Alcuni tra i principali autori americani preferirono emigrare in Europa, fuggendo da una realtà che li aveva sconcertati. Fitzgerald ne era stato inizialmente conturbato: pur provenendo da una famiglia della middle class aveva frequentato le scuole più esclusive durante una giovinezza spesa tra feste, ricevimenti, avventure. Nondimeno, alla Newman School soffrì per il fatto di sentirsi «il più povero in una scuola di ricchi», a Princeton non ottenne la carica di presidente del prestigioso Triangle Club e Zelda Sayre ruppe il fidanzamento dopo l’iniziale insuccesso editoriale, in conseguenza del quale sembrò che il giovane aspirante scrittore non avesse alcuna prospettiva di fare fortuna. Egli visse insomma in prima persona la disillusione che aveva raccontato nel romanzo d’esordio, Di qua dal Paradiso, affresco di «una nuova generazione che lanciava le antiche grida, destinata a finir per uscire in quello sporco tumulto grigio per seguire l’amore e l’orgoglio; una nuova generazione dedita più della prima alla paura della povertà e all’adorazione del successo; cresciuta per accorgersi che tutti gli dei erano morti, tutte le guerre combattute, tutte le fedi umane scosse. Non c’era Dio nel suo cuore, lo sapeva, le sue idee erano ancora in tumulto, c’era sempre il dolore del ricordo; il rimpianto per la gioventù … perduta […]». Il libro ottenne la medesima entusiastica accoglienza che avrebbe ricevuto, due

anni più tardi, Il dottor Mabuse di Lang: ritratti di un degrado morale che invece di suscitare repulsione attraeva coloro che ne erano stati contagiati e travolti. Anche nelle opere successive – il romanzo Belli e dannati e il racconto Il diamante grosso come l’Hotel Ritz – Fitzgerald mantenne lo stesso rapporto, ambiguo e contraddittorio, nei confronti dell’upper class e di ciò che essa rappresentava ai suoi occhi, manifestando il desiderio inconscio di appartenervi e il disprezzo risentito a causa della consapevolezza che ciò non sarebbe mai stato possibile. Se le illusioni perdute in Di qua dal Paradiso erano simili a quelle già provate dai personaggi di Balzac, il conflitto interiore dell’autore de Il grande Gatsby fu lo stesso del Goljàdkin dostoevskiano che, pur tenendo a precisare in continuazione di non essere falso e ipocrita come i suoi superiori borghesi, impazziva per essersi visto ripetutamente negare l’accesso alla festa organizzata da uno di loro. Insomma, la necessità, avvertita da Fitzgerald in prima persona, di raggiungere il successo e la ricchezza – in quanto nella concezione sociale americana «essere poveri costituiva la riprova di una sconfitta personale» – fu soltanto un’altra declinazione della tragedia moderna dell’artista. Opera manifesto della generazione perduta, Il grande Gatsby, con il finale tragico, l’ossessione del passato – «così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato» – e il tentativo, predestinato al fallimento, di riscattarlo tramite l’amore, anticipò anche alcuni dei motivi di intersezione tra il cinema realista poetico e quello noir. Era l’alba dei ruggenti anni ’20, considerati l’età del progresso ma, allo stesso tempo, epoca contrassegnata dalle più esasperate contraddizioni. Mentre la parte più ristretta, ricca e potente della società si dava ai vizi e all’ozio negli speakeasy del proibizionismo – proprio come gli omologhi tedeschi dell’epoca di Weimar ritratti da Lang – gli operai seguitavano a protestare, a fare la fame, a morire.

Nel 1919 uno sciopero generale aveva coinvolto centomila persone e paralizzato per cinque giorni la città di Seattle, suscitando l’allarme delle istituzioni – il sindaco della città aveva avvertito: «lo sciopero generale, così come è stato messo in pratica a Seattle, è l’arma della rivoluzione ed è tanto più pericoloso quanto più è pacifico. Per riuscire deve sospendere tutto, fermare l’intero flusso della vita di una comunità. In altri termini, arresta il funzionamento dello stato». Una preoccupazione ancora più comprensibile alla luce dell’ondata di rivolte postbelliche che stava travolgendo buona parte del mondo, detronizzando zar e imperatori. Zinn mise in evidenza che «c’era qualcosa di vero nell’immagine tradizionale degli anni venti come epoca di prosperità e gaiezza: l’età del jazz, gli anni ruggenti. La disoccupazione scese da quattro milioni e duecentosettantamila nel 1921 a poco più di due milioni nel 1927. Il livello generale dei salari si elevò. Le famiglie che guadagnavano più di duemila dollari l’anno – il 40 per cento – potevano permettersi alcune novità: l’automobile, la radio, il frigorifero. Milioni di persone non se la passavano male e potevano ignorare gli altri, i fittavoli rurali bianchi e neri, le famiglie immigrate nelle grandi città, senza lavoro o con redditi troppo scarsi per coprire persino le necessità basilari. La prosperità era concentrata in poche mani. Un decimo dell’uno per cento più ricco della popolazione aveva entrate pari a quelle totali del quarantadue per cento delle famiglie della fascia inferiore».

Oltre a questa macroscopica contraddizione legata alla distribuzione delle risorse – ulteriormente esasperata da riforme legislative come il Piano Mellon che, pur prevedendo l’applicazione generalizzata della riduzione nelle imposte sul reddito, diminuiva l’aliquota applicata ai più ricchi dal 50 al 25 per cento e quella dei più poveri dal 4 al 3 per cento – fa impressione constatare che, a fronte dello sviluppo industriale, rimasero critiche le condizioni della sicurezza sul lavoro: «ogni anno, nel corso di quel decennio, venticinquemila lavoratori morivano sul lavoro e centomila rimanevano invalidi per sempre». Mentre tra i ceti medi si diffondevano nuovi beni di consumo – suscitando un falso senso di prosperità, impietosamente ridicolizzato da Sinclair Lewis nel suo romanzo Babbitt – «a New York due milioni di persone vivevano in caseggiati che avrebbero dovuto essere demoliti». Condizioni di pericolo e di miseria che La Guardia, dopo aver visitato le circoscrizioni più disagiate della città, commentò confessando di non essere «preparato alle cose che ho visto. Sembrava quasi incredibile che simili situazioni di povertà potessero esistere davvero». La radio portò la musica jazz in tutte le case del Paese, definendo la colonna sonora per la spensieratezza e il benessere apparenti di quegli anni; tra i suoi principali interpreti figuravano moltissimi musicisti di colore. Nondimeno, l’integrazione razziale era ben lontana dall’essere stata ottenuta: «il Ku Klux Klan tornò in auge in quel decennio e si diffuse anche nel Nord. Nel 1924 contava quattro milioni e mezzo di aderenti. L’Associazione nazionale per l’avanzamento della popolazione di colore appariva impotente di fronte alla violenza collettiva e all’odio razziale, che si manifestava dappertutto». Il tema era stato affrontato anche sullo schermo, in maniera altrettanto controversa: in Nascita di una nazione (1915) David Wark Griffith aveva apertamente celebrato il Ku Klux Klan, unico baluardo del Sud a seguito della liberazione dei neri operata dal Nord; appena un anno dopo, però, spinto

principalmente da ragioni di opportunità, realizzò Intolerance, con il quale intendeva dimostrare che l’intolleranza aveva rappresentato la peggiore minaccia della civiltà nel corso della sua storia. L’episodio dedicato dal film di Griffith all’America contemporanea si riferiva al bigottismo delle società di temperanza – esistenti fin dalla fine del XVIII secolo, ma straordinariamente cresciute per numero, popolarità e peso politico durante e dopo la Prima guerra mondiale. Gruppi come il Prohibition Party o la New York Society for the Suppression of Vice avevano incoraggiato il governo ad adottare provvedimenti legislativi ispirati a un severo puritanesimo pur di frenare il degrado morale provocato dagli eccessi euforici legati alla fine della guerra: illudendosi che sarebbero stati sufficienti l’abolizione del gioco d’azzardo, la censura di qualunque riferimento sessuale esplicito nelle comunicazioni pubbliche e private e il divieto di produrre e commercializzare sostanze alcoliche, per frenare la delinquenza e le inefficienze di un sistema istituzionale, sociale e produttivo che avrebbe avuto invece bisogno di riforme radicali. Come dimostrò la crisi del ’29. Anche i grandi industriali si convinsero a sostenere queste campagne morali: John D. Rockefeller ed Henry Ford aderirono alla Anti-Saloon League, contribuendo con la propria ricchezza ad aumentarne l’influenza. Il cinema degli anni ’20 fu altrettanto contraddittorio: Ford cominciava a costruire il mito della frontiera, definendo i principi morali che avevano reso grandi gli Stati Uniti, mentre artisti di sensibilità europea ne colsero gli aspetti peggiori (cupidigia, violenza, bigottismo). Mentre il gangster movie testimoniò senza ipocrisie il principale effetto della politica proibizionista, vale a dire una forma di illegalità ben peggiore di quella che essa era rivolta a risolvere: l’affermazione della criminalità organizzata. La scelta tuttavia di affrontare la lotta tra la società e il gangster che la minacciava dalla prospettiva di quest’ultimo,

con il quale veniva inevitabilmente a coincidere il punto di vista del pubblico – anticipando quella immedesimazione tra spettatore e antieroe che avrebbe caratterizzato anche il realismo poetico francese e appunto il noir americano – racconta il fascino esercitato sull’opinione pubblica da simili figure. Forse ciò si dovette in parte al nuovo stile sensazionalistico dell’informazione, che tendeva a enfatizzarne le imprese criminali, ma anche all’idea che la ricchezza fosse un obiettivo da raggiungere con qualunque mezzo, pur di superare una condizione sociale che veniva considerata di ostacolo alla realizzazione delle ambizioni che il sistema capitalistico e consumista alimentava in ogni cittadino americano. Non fu comunque Al Capone il responsabile del crollo della borsa ma, stando all’analisi condotta da John Galbraith ne Il grande crollo, la speculazione sfrenata di una «economia fondamentalmente instabile», provocata anche della «cattiva distribuzione del reddito» – con il cinque per cento della popolazione che guadagnava il 30 per cento dei redditi complessivi. Secondo Zinn, «il crollo lasciò l’economia tramortita, a malapena capace di muoversi. Chiusero più di cinquemila banche, seguite da un enorme numero di imprese, che non potevano più ottenere denaro. […] La produzione industriale scese del cinquanta per cento e nel 1933 i senza lavoro erano forse quindici milioni ovvero un terzo della forza lavoro. […] C’erano milioni di tonnellate di alimenti giacenti, ma non era redditizio trasportarli e venderli. I magazzini erano pieni di indumenti che la gente non poteva permettersi. C’erano moltissime case, ma rimanevano vuote, perché la gente non poteva pagarne l’affitto, era stata sfrattata e ora viveva in baracche, nelle cosiddette Hoovervilles che si formavano rapidamente nelle discariche». La miopia del governo era tutta in una frase pronunciata poco prima del crollo da Herbert Hoover, il presidente in onore del quale erano state ribattezzate le baraccopoli della

depressione: «in America siamo oggi più vicini che mai nella storia di qualsiasi paese al trionfo definitivo sulla povertà». La crisi naturalmente inasprì ulteriormente malcontento e protesta: gli agricoltori dell’Oklahoma dovettero abbandonare le loro fattorie, messe all’asta, a causa delle difficoltà economiche, aggravate dalla siccità. Si mossero in massa verso la California, dando vita a una migrazione che neppure gli storici più indulgenti poterono glorificare come avevano fatto con la conquista del far west. John Steinbeck, nel suo celebre Furore, avrebbe colto al contrario non soltanto la disperazione del fenomeno, ma anche l’allarme sociale che questo provocò: «e nuove ondate erano già in cammino, nuove ondate di sfrattati e di senzatetto, duri, decisi e pericolosi» «gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili maturano i frutti del furore e s’avvicina l’epoca della vendemmia». Un’altra categoria pronta a dare battaglia al governo erano i reduci della Prima guerra mondiale: disoccupati e affamati, essi si erano sentiti traditi, avendo ricevuto in cambio delle pene patite al fronte titoli che sarebbero maturati soltanto molto tempo dopo rispetto al momento della loro emissione. La Bonus Army – l’esercito dei titoli di stato gratuiti – marciò su Washington, chiedendo al Congresso di liquidarli ora che la necessità lo imponeva. Il presidente Hoover, invece di venire loro incontro, ordinò alla milizia di scacciarli, affidando al generale MacArthur il compito di provvedervi, se il caso, con la forza. Anche questa impopolare decisione, nel quadro generale delle condizioni di crisi del Paese, procurò a Franklin D. Roosevelt una vittoria schiacciante su Hoover alle elezioni del 1932. Nella primavera dell’anno successivo, il suo governo diede avvio al programma legislativo di riforme fondato sulla collaborazione tra esecutivo e cittadinanza, nel tentativo di far sentire maggiormente coinvolta la popolazione e, soprattutto, placarne il violento spirito sovversivo. Dappertutto si assisteva a episodi di autotutela o a iniziative di ribellione organizzate dal basso: scioperi e

occupazioni avvenivano senza alcun controllo da parte dei leader sindacali, ma su diretta iniziativa dei lavoratori – inducendo la stampa a constatare con preoccupazione: «il rischio più grave di queste situazioni è che sfuggano completamente di mano ai capi». Come riporta Zinn, «la gente disperata non aspettava che il governo la aiutasse, ma si tutelava da sola agendo direttamente; in tutto il paese si organizzò spontaneamente per fermare gli sfratti. Quando si spargeva la voce che qualcuno stava per essere sfrattato, una folla accorreva sul posto; la polizia portava fuori i mobili, li depositava in strada e la gente li riportava in casa». Nella zona carbonifera della Pennsylvania «squadre di minatori disoccupati scavarono piccole miniere all’interno delle proprietà aziendali: ne estraevano il carbone, lo trasportavano in città e lo vendevano a un prezzo inferiore rispetto a quello commerciale. Quando si tentò di perseguirli legalmente, le giurie locali si rifiutarono di condannarli e i carceri non vollero rinchiuderli». Per questo il governo Roosevelt operò un riconoscimento giuridico dei sindacati, considerati «più controllabili, meno destabilizzanti degli scioperi selvaggi e delle occupazioni di fabbriche decise dalla base» – il New York Times applaudì questa iniziativa considerando che «i sindacati contrastano le occupazioni non autorizzate». Il risultato sperato fu conseguito; secondo Cloward e Piven, autori di uno studio dedicato ai movimenti dei poveri, «gli operai delle fabbriche esercitarono la loro massima influenza e riuscirono a strappare al governo le concessioni più consistenti durante la Grande depressione, prima che fossero inquadrati nei sindacati. Alla radice del loro potere non c’era l’organizzazione, ma lo scompiglio». E Zinn giunse alla conclusione che «gli anni trenta e quaranta fecero emergere più chiaramente che in passato il dilemma dei lavoratori statunitensi. Il sistema rispondeva alla loro ribellione con nuove forme di controllo: controllo interno, da parte delle loro stesse organizzazioni; controllo esterno, con le leggi e il ricorso alla forza». Allo stesso tempo, ammise che «questi

nuovi controlli erano accompagnati da nuove concessioni. Certo, queste non risolvevano i problemi di fondo e per molti non risolvevano proprio nulla, ma aiutarono un numero di persone sufficiente per creare un’atmosfera di progresso e avanzamento, per ricostruire un po’ di fiducia nel sistema vigente». E tanto bastò alla storiografia ufficiale per considerare gli anni del New Deal un passaggio cruciale della storia americana. In verità, Zinn precisò che «quando il New Deal finì, il capitalismo era ancora intatto e i ricchi mantenevano il controllo della ricchezza del paese, oltre che delle sue leggi, dei tribunali, della polizia, dei giornali, delle chiese e delle università. Era stato aiutato un numero sufficiente di persone a fare di Roosevelt un eroe agli occhi di milioni di americani; ma il sistema che aveva prodotto la depressione e la crisi – il sistema dello spreco, della disuguaglianza, del profitto anteposto ai bisogni umani – rimaneva in piedi». A cavallo tra gli anni ’30 e gli anni ’40, in piena crisi, Hollywood affrontò molti dei problemi che affliggevano la società americana ricorrendo alla comicità e all’ironia. Ad eccezione di alcuni spietati film di denuncia – come i langhiani Furia e Sono innocente – le opere di Capra, di Van Dyke e di Sturges riflettevano sulle peggiori difficoltà, dimostrando grande fiducia nell’avvenire, nella tempra morale del Paese, nella sua sostanziale unità. Proprio come Roosevelt aveva invitato ciascun cittadino a fare. Una scelta, quella del cinema – che era ormai diventata la più popolare e, quindi, più influente forma di intrattenimento – certamente legata agli incentivi provenienti dai finanziamenti varati nell’ambito appunto delle riforme del New Deal. Il governo federale infatti si impegnò a dare lavoro a migliaia di artisti, istituendo il Federal Theatre Project, il Federal Writers Project e il Federal Art Project, alimentando il contagioso entusiasmo che si percepiva nei film di allora. Peraltro, oltre ad incoraggiare le arti – tra cui il cinema – si provvedeva anche a regolarlo in maniera estremamente puntuale e rigorosa: nel 1934 venne applicato il Production

Code, noto anche come Codice Hays, dal nome del Presidente della Motion Picture Producers and Distributors of America, Will H. Hays che lo adottò nel 1930 – sebbene lo avessero redatto altri, come il giornalista cattolico Jospeh Breen e Padre Daniel Lord. Il codice era stato adottato da Hays, su pressione di associazioni religiose come la Lega Nazionale per la Decenza, nell’ambito degli sforzi per riabilitare l’immagine del mondo del cinema, profondamente scosso dallo scandalo dell’uccisione, in seguito a violenza sessuale, dell’attrice Virginia Rappe commessa dall’attore comico Roscoe Fatty Arbuckle, occorsa nel 1921. Hays, in persona, stilò inoltre una lista di interpreti che, per via del loro stile di vita, non erano adatti a comparire sullo schermo. Il popolarissimo settimanale Liberty sostenne che Breen, nominato capo dell’ufficio preposto a verificare l’applicazione del codice di autocensura da parte delle case di produzione cinematografiche, esercitasse «più influenza sull’opinione pubblica mondiale di quanta non ne abbiano esercitata Hitler, Mussolini e Stalin». Tutto ciò non toglie che il New Deal, nell’immaginario collettivo – su impulso della storiografia convenzionale e grazie al contributo della produzione artistica – si sia imposto come un momento di ritrovata serenità e di spontanea fiducia; tuttavia in termini di effettiva ripresa economica e, soprattutto, di reale attenuazione della lotta di classe, secondo Zinn, la svolta giunse solo con la Seconda guerra mondiale: «il New Deal era riuscito soltanto a ridurre i disoccupati da tredici a nove milioni, ma fu la guerra a dare lavoro quasi a tutti ed ebbe anche un altro effetto: il patriottismo e la spinta all’unità fra tutte le classi contro i nemici d’oltreoceano rendevano più difficile indirizzare la rabbia contro le grandi aziende». Nondimeno, anche durante il conflitto «i lavoratori avevano comunque motivi di scontento – i controlli del tempo di guerra erano assai più rigorosi sui salari che non sui prezzi – sufficienti per spingerli a indire molti scioperi selvaggi: vi furono più scioperi nel 1944 che in qualsiasi altro anno precedente della storia statunitense». Anzi, nel complesso,

Zinn concluse che «malgrado un’atmosfera di patriottismo e di dedizione totale alla vittoria, molti lavoratori americani entrarono in sciopero, frustrati dal congelamento dei salari a fronte di un aumento vertiginoso dei profitti aziendali. Durante la guerra vi furono quattordicimila scioperi ai quali parteciparono sei milioni e settecentosettantamila lavoratori, più che in qualsiasi lasso di tempo paragonabile». Soprattutto la guerra lasciò in una generazione intera l’orrore e lo sconcerto. Chi tornava dal fronte aveva assistito a un incubo ad occhi aperti che non sarebbe mai stato possibile dimenticare; chi era rimasto aveva atteso invano di riabbracciare genitori, mariti e figli morti chissà dove. Allo smarrimento individuale, si sommavano le perplessità che un poco alla volta l’opinione pubblica aveva cominciato a manifestare, anche sulla spinta di considerazioni come quella del poeta Archibald MacLeish, allora vicesegretario di Stato: «la pace che faremo, la pace che a quanto pare stiamo preparando, sarà una pace del petrolio, una pace della marina mercantile, una pace, in breve, senza scopo morale né interesse umano». Secondo Zinn, «in sordina, dietro i titoli sulle battaglie e sui bombardamenti, i diplomatici e gli uomini d’affari americani lavoravano per assicurarsi che a guerra finita la potenza economica del loro paese non fosse seconda a nessuna al mondo. L’impresa statunitense sarebbe penetrata in aree che fino ad allora erano state dominate dall’Inghilterra. Gli Stati Uniti intendevano spingere da parte l’Inghilterra e prendere il suo posto». Questa intenzione trapelò chiaramente dalle parole che Arvell Harriman, ambasciatore in Russia, aveva pronunciato all’inizio del 1944, considerando in termini politici gli aiuti di cui molti Paesi avrebbero avuto bisogno una volta cessata la guerra: «l’assistenza economica rappresenta una delle armi più efficaci a nostra disposizione per influenzare gli avvenimenti politici europei nella direzione da noi auspicata». Un altro aspetto controverso della guerra furono i sistematici bombardamenti di obiettivi civili e l’atteggiamento

da parte della autorità americane nei riguardi di questa strategia militare. Gli attacchi sferrati dai nazifascisti sulle città spagnole durante la guerra civile e, quindi, su quelle olandesi e inglesi all’inizio della seconda guerra mondiale erano stati definiti da Roosevelt «una barbarie disumana che ha sconvolto la coscienza dell’umanità». Tuttavia essi furono ben poca cosa rispetto alla strategia posta in essere dagli alleati per fiaccare il morale della popolazione tedesca: nella sola Dresda, all’inizio del 1945, morirono più di centomila persone, bruciate vive dalle fiamme che si sprigionarono per le vie della città, in seguito al calore tremendo generato dalle bombe. La stessa strategia fu seguita nei confronti delle città giapponesi, che culminò con il ricorso alla bomba atomica: un’incursione notturna su Tokyo provocò ottantamila morti. Quindi, ad Hiroshima furono più di centomila le vittime, tra coloro che decedettero sul colpo e quelli uccisi dagli effetti delle radiazioni. A Nagasaki, tre giorni dopo, la seconda atomica comportò il decesso di altri cinquantamila civili. «Queste atrocità furono giustificate sostenendo che avrebbero favorito una rapida conclusione della guerra, rendendo superflua un’invasione del Giappone. L’invasione sarebbe costata un numero enorme di vite. […] Le stime non erano realistiche e parvero comparire dal nulla per giustificare bombardamenti che, man mano che gli effetti divenivano noti, suscitavano orrore in un numero crescente di persone». Inoltre l’indagine sui bombardamenti strategici compiuta dal Dipartimento della Guerra concluse che «certamente il Giappone si sarebbe arreso anche se non si fossero sganciate le bombe atomiche, anche se la Russia non fosse entrata in guerra e anche se non si fosse progettata né contemplata alcuna invasione». La stessa indagine documentava che, nonostante il goffo tentativo di Truman di far apparire Hiroshima un obiettivo militare, le città «furono scelte come bersagli per le attività e la popolazione che vi erano concentrate». Inoltre, un’annotazione sul diario del Segretario alla Marina, James Forrestal, si riferiva alla circostanza che il Segretario di Stato, James Byrnes, era «particolarmente ansioso di risolvere la questione giapponese prima che

arrivassero i russi»: infatti, se il Giappone si fosse arreso agli Stati Uniti, a occuparlo nel dopoguerra sarebbero stati gli americani. La rivalità con l’Unione Sovietica si profilava già all’orizzonte e avrebbe presto portato i vincitori a tenere una condotta, internazionale e nazionale, non dissimile da quella che avevano posto in essere i vinti. Se Wolfgang Schivelbusch svelò parallelismi tra la politica del New Deal di Roosevelt e le equivalenti strategie ammnistrative di Hitler e di Mussolini tra il 1933 e il 1939, Zinn sollevò una questione inquietante: «le potenze fasciste erano distrutte; ma si poteva dire altrettanto del fascismo come idea e come realtà? I suoi elementi essenziali – il militarismo, il razzismo, l’imperialismo – erano scomparsi? O furono assorbiti dall’organismo già contaminato dei vincitori? I vincitori erano l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Entrambi si misero all’opera, sotto la copertura uno del socialismo, l’altro della democrazia, per costruire i propri imperi, che assunsero la forma di sfere di influenza. Procedettero a spartirsi e a contendersi il dominio del mondo, a costruire apparati militari molto più grandi di quelli dei vecchi stati fascisti, a dominare il destino di un numero di paesi maggiore di quello su cui erano riusciti a mettere le mani Hitler, Mussolini e il Giappone. Si impegnarono anche nel controllo della propria popolazione, ciascuno con la sua tecnica, per salvaguardare la solidità del potere». Ad esempio, Eleanor Roosevelt, attivista dei diritti civili, definì la caccia alle streghe intrapresa dal senatore Joseph McCarthy «una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo paese abbia mai avuto». Per questo è lecito revocare in dubbio l’ideale di una guerra combattuta nell’interesse dei più deboli, che invece aveva riscosso tanto entusiasmo e sostegno tra gli americani, all’indomani della dichiarazione di guerra. Se, come scrisse Zinn, «l’impegno in difesa di paesi inermi corrispondeva all’idea degli Stati Uniti propagandata dai manuali di storia delle scuole superiori ma non all’operato

reale dell’America nel mondo», si trattò dell’ennesima promessa non rispettata, di un’altra illusione perduta. È appunto alla luce degli inganni, delle menzogne, degli interessi reali, tenuti nascosti, dei conflitti di classe dimenticati dalla storiografia ufficiale, che devono essere apprezzate le caratteristiche del cinema noir: inquietudine e malinconia, diffidenza e cinismo, rabbia e senso di colpa. E una diffusa avversione nei confronti dell’autorità, confermata anche da alcuni capolavori della letteratura postbellica, come Comma 22 di Joseph Heller, contraddistinto da una forma di chronological muddlement, il disordine nella disposizione degli eventi raccontati che rispecchiava il caos mentale provocato dal trauma bellico nella mente del protagonista – narratore. Il romanzo raccontava dalla prospettiva dei soldati semplici, della carne da cannone, non soltanto gli orrori della guerra ma l’assurdità della burocrazia militare e l’impietosa ambizione dei superiori. Ne Il nudo e il morto di Norman Mailer, poi, un soldato semplice sosteneva polemicamente: «l’unica cosa che non va in questo esercito è che non ha mai perso una guerra». Quindi, passava a lamentarsi del fatto che la battaglia incombente sembrava combattuta al solo scopo di far guadagnare una promozione al loro generale e, quando un altro soldato ribatteva che quest’ultimo era una brava persona, egli ribatté: «non esistono al mondo ufficiali buoni».

Il compromesso hollywoodiano: sul modello di neutralizzazione della rivolta sociale

La lunga digressione storica, dedicata alla nascita e all’evoluzione del movimento di protesta e di ribellione nordamericano che la storiografia tradizionale ha in prevalenza ignorato o sottodimensionato, si è resa necessaria per dimostrare l’esistenza di una coscienza del dissenso

profondamente radicata anche negli Stati Uniti. Una coscienza che, rafforzata dal crescente contributo di artisti provenienti dall’estero, avrebbe ripetutamente ispirato il cinema americano. Essa tuttavia fu contrastata, sia sul piano politico sia su quello culturale, da un potere forte che rappresentava gli interessi di una potente élite, fermamente decisa a non ammettere alcuna erosione dei suoi privilegi e a non tollerare minacce alla sua morale. A differenza di quanto era accaduto in Germania, durante i tormentati anni di Weimar, in Francia, nel corso del breve e instabile governo del Fronte Popolare, e in Italia, all’epoca della controversa transizione dal fascismo alla Democrazia Cristiana, su Hollywood vigilò sempre un’autorità attenta, severa, spesso inflessibile. Eppure, affiorò anche oltreoceano un cinema di denuncia e di rottura, aiutato – proprio come era capitato al giornalismo scandalistico – dalle regole di quello stesso sistema capitalistico che ne avrebbe voluto un’immediata e definitiva soppressione: l’industria del film non poteva permettersi di realizzare soltanto film che educassero il pubblico senza scendere a compromessi con i gusti dello spettatore medio, soddisfare i quali significava realizzare profitti sufficienti a sostenere la produzione. Emergeva così l’allarmante simpatia del pubblico per storie di disubbidienza, adulterio, illegalità, violenza. Dopo i primi tentativi di procedere in maniera sistematica alla repressione di questa pericolosa poetica, la società dei produttori e dei distributori comprese che sarebbe stato più semplice e persino proficuo incanalarle – secondo la medesima logica con cui il modello bipartitico e quello sindacale avevano neutralizzato l’estremismo delle spinte dal basso. Fu a questo sistema di concessione vigilata che si dovette l’elaborazione del paradigma hollywoodiano della sconfitta: il numero di film che adottavano la prospettiva criminale crebbe enormemente, insieme con il livello di immoralità e perversione, che evidentemente solleticavano le più inconfessate curiosità del pubblico; tuttavia come nel cinema

del New Deal si era imposto l’happy ending, così nel cinema noir non sarebbe stato ammissibile un finale diverso dalla punizione di tutti quei personaggi attraverso i quali erano state sfogate le peggiori pulsioni. Del resto, questo andamento narrativo – certamente soddisfacente per le lobby che pretendevano il trionfo della moralità – risultava altresì assonante alla visione nichilista dell’esistenza umana degli artisti di sensibilità europea, provenienti da una realtà in cui la tragedia finale non era stata imposta da un’ipocrita logica puritana, ma dalla dolorosa constatazione della lotta per la vita, ampiamente studiata dall’arte realista ottocentesca e dalle avanguardie di inizio ’900.

La prima generazione di registi europei e le iniziali manifestazioni di inquietudine

I primi esempi di cinema d’autore ispirato a una poetica della disperazione che si siano avuti a Hollywood furono il frutto della sensibilità individuale di autori provenienti dall’Europa: questi portarono con loro l’inquietudine provocata dalla diretta esperienza della guerra, dei moti rivoluzionari, dell’instabilità politica, e il disprezzo nei confronti della mentalità piccolo borghese che veniva considerata la principale causa di simili tragedie. Queste esperienze, per quanto isolate e sporadiche, esercitarono una significativa influenza sul successivo cinema noir e, allo stesso tempo, rappresentarono un precedente allarmante, tenuto conto del quale, una ventina d’anni dopo, il senatore McCarthy si dovette convincere che i numerosi registi europei, riparati negli Stati Uniti dopo l’avvento di Hitler al potere, a causa delle loro idee socialiste, potessero rappresentare una seria minaccia per il pubblico americano.

Il primo cineasta di questa generazione fu l’eccentrico Erich von Stroheim: nato a Vienna nel 1885 da un modesto cappellaio ebreo, egli costituì la prova vivente della tragedia moderna patita dall’artista. Ancora giovane, venne talmente affascinato dallo stile di vita degli aristocratici e degli ufficiali militari che, giunto ad Hollywood, si presentò come il Conte Erich Oswald Hans Carl Maria Stroheim di Nordenwald – e, grazie al portamento sofisticato, acquistato durante il servizio nella guardia imperiale, egli venne scritturato in numerosi film nella parte di malvagio aristocratico tedesco. Eppure, von Stroheim dovette sentirsi fuori posto e in Femmine folli (1921), il capolavoro che gli avrebbe procurato fama mondiale come regista, mise alla berlina l’ipocrisia e il vizio del ceto che tanto ammirava, calando se stesso nel ruolo dell’impostore. Il film – a parte il gigantismo e le infinite stravaganze che caratterizzarono tutte le sue produzioni, attirandogli l’ostilità dei produttori per cui lavorò – merita considerazione soprattutto in ragione dell’atmosfera soffocante e decadente, dello stile realista, addirittura scandaloso, dello spietato ritratto dell’ossessione per il denaro. L’opera di von Stroheim, naturalmente incentrata sull’attore – regista, ruotava attorno alla figura del conte Sergius Karamzin, un individuo affascinante ed enigmatico, divorato da una morbosa cupidigia. La perversione morale dell’uomo venne arricchita di una sfumatura erotica – sfacciatamente esibita nella sequenza in cui il conte spia, con uno specchio, la compagna di stanza intenta a cambiarsi – ma, soprattutto, si sfogava attraverso un’arte della seduzione finalizzata alla soddisfazione di un proposito criminale. Questo personaggio finì, così, per essere l’antecedente maschile del profilo della dark lady, tipico del successivo cinema noir, mentre l’universo femminile del racconto di von Stroheim risultò assolutamente inconsistente – secondo una concezione radicalmente misogina. Il titolo del film, invero, corrispondeva a quello di un trattato sulla psicologia della

seduzione, che il regista attribuì, mosso dal suo inguaribile narcisismo, a un proprio omonimo. Sebbene la coppia di ricchi americani, ennesime vittime del conte, venne rappresentata in maniera tale da farli apparire patetici sprovveduti, il vero obiettivo della critica fu la società europea: dalla rappresentazione realista dello squallido mondo del falsario italiano Ventucci, alla denuncia del tracollo dei valori cavallereschi del ceto nobiliare. L’onore aristocratico, da cui von Stroheim era stato affascinato in gioventù, non possedeva più alcuna autentica consistenza: si trattava solo di un’altra delle tante ipocrisie che affliggevano una realtà sociale stravolta dall’affermazione dei valori borghesi, in primis il culto del denaro. E il regista, con amara perfidia, condannò la spregevole mancanza di decoro del conte che, travolto dalla propria stessa perversione sessuale, aveva insidiato una ragazza mentalmente minorata: la fogna, in cui ne sarebbe stato gettato il cadavere, possedeva un valore dispregiativo equivalente al significato letterale del cognome del professore disonorato di Mann – Unrat, spazzatura. Il successivo film di von Stroheim, Rapacità (1924), affrontò nuovamente il tema dell’ossessione per la ricchezza, questa volta, però, ponendolo in relazione alla mentalità del tipo americano – quello che viveva il proprio sogno di affermazione sociale attraverso il duro lavoro e il superamento dei propri limiti, in un Paese generoso verso qualunque uomo di buona volontà. Ma il regista austriaco intese dimostrare che la volontà e il senso morale non sono sufficientemente forti per resistere alla tentazione di un improvviso e straordinario arricchimento. Von Stroheim sembrava dolersi non tanto dei conflitti tra gli uomini, quanto della loro causa: ciò che divideva gli uomini, allora come oggi, non erano orgoglio e onore, ai quali ogni personaggio di Rapacità sembrò disposto a rinunciare, bensì l’avidità. L’amico poteva tollerare che gli venisse portata via la fidanzata, ma non anche la sua dote, costituita da una vincita alla lotteria; ma quella inaspettata fortuna, invece di

costituire un vantaggio per la coppia, significò la sua rovina, trasformando la passione amorosa – evocata, con ampio anticipo rispetto a Michael Powell e ad Alfred Hitchcock, attraverso l’immagine di un treno sfrecciante – dapprima in distacco e, poi, in reciproco sospetto. La donna si legava al denaro assai più di quanto non avesse fatto con il marito, arrivando persino ad accarezzare le monete d’oro. L’avarizia ricevette dal regista la consistenza di personaggio materializzandosi nell’inquietante immagine di due braccia scheletriche ed interminabili allungate a ghermire un mucchio di denaro – una soluzione visiva affine a quella già adottata da Lang ne Il dottor Mabuse (1922). I conflitti, che caratterizzavano una società individualista e avida, vennero messi in scena da von Stroheim sfruttando la profondità di campo: grazie a essa, gli fu possibile riprendere, all’interno della medesima inquadratura, due individui ponendoli però a un’incolmabile distanza l’uno dall’altro e accentuando il senso di solitudine provato da ciascuno di loro. Nello scenario impiegato dal regista austriaco – la California della febbre dell’oro – si intravvide già la rilettura del mito della frontiera in chiave noir: gli spazi sconfinati del deserto non simboleggiavano illimitate speranze, ma insopportabile solitudine, secondo la stessa logica applicata dai fratelli Coen in Non è un paese per vecchi (2007). Nel tratteggio di McTeague, il protagonista della storia, dotato di forza e di sensibilità quasi animalesche e vittima di una tara ereditaria che lo aveva reso incline a una violenta collera, risultò evidente l’influenza delle teorie deterministiche del naturalismo francese, al quale si era ispirato Frank Norris, scrittore realista statunitense, dal cui romanzo von Stroheim trasse il film. A dispetto della sua brutalità – evidenziata nella ripresa del volto trasfigurato, in avvicinamento all’obiettivo, mentre chino sulla fidanzata dell’amico, approfittava del suo stato di incoscienza per obbedire all’istinto di baciarla – egli veniva ripetutamente paragonato a un canarino in ragione della sua

ingenuità. Mentre il suo rivale possedeva l’ambigua malizia di un predatore felino: von Stroheim ricorse al montaggio incrociato per istituire un nesso logico tra le intenzioni del gatto, che tende l’agguato ai passerotti, e quelle dell’uomo, che si recava in visita agli sposi – attribuendo nuovamente a un personaggio maschile l’astuzia che la poetica noir avrebbe riservato alle femmes fatales. Di gusto noir fu anche l’idea che un’inaspettata ricchezza, eccitando i vizi e le perversioni peggiori degli uomini, semini violenza, morte e tragedia: nel quadro della sterminata filmografia dedicata al tema, il confronto meno immediato è quello con Polizeibericht Überfall (1928), nel corso del quale analogamente il protagonista si sarebbe letteralmente imbattuto nella moneta da cui poi dipesero tutte le sue disavventure. Lo stesso spunto, nel 1923, aveva ispirato il breve racconto di Dashiell Hammett, Incubo verde che il biografo dello scrittore, Richard Layman, definì la storia «di un lavoratore incapace del mondo del crimine che per caso entra in possesso di duecentocinquantamila dollari rubati, finendo poi per soccombere sotto il peso della sua nuova ricchezza». Per evidenziare che l’apparenza della fortuna può nascondere la peggiore delle insidie, von Stroheim ricorse ripetutamente ad antinomie come quella matrimonio – funerale (costruita, ancora una volta, sulla profondità di campo), disseminando la prima parte del racconto di indizi e premonizioni in vista della svolta narrativa. Altro capolavoro realizzato a Hollywood da un maestro europeo fu Aurora (1927); Murnau, che durante gli anni dell’espressionismo aveva rappresentato l’inquietudine e il decadentismo della società tedesca, esordiva negli Stati Uniti, caratterizzando l’inizio del film con un’estetica che sarebbe stata poi mutuata dal cinema noir. La prima parte della storia riguardava infatti il tentato omicidio di una donna di campagna da parte del marito, dietro la spinta di una spietata amante cittadina.

Murnau raccontò l’adulterio evidenziandone la perversione attraverso la scenografia della palude nebbiosa e notturna, in cui avveniva l’incontro clandestino tra gli amanti; rappresentò l’influenza esercitata dal fascino della dark lady sul suo succube attraverso la deformazione e l’animazione dei caratteri delle didascalie, corrispondenti al turbamento che aveva scosso la facoltà dell’uomo di determinare liberamente le proprie azioni; attribuì alla malvagità della donna di città la capacità di prevalere sull’impulsività del campagnolo. Queste riprese d’apertura risultavano dunque incentrate sul collasso morale dell’uomo, che la regia evocò visivamente architettando numerose riprese in grado di distorcere lo spazio fisico e di rappresentare quindi quello metafisico. Lo sviluppo della vicenda venne affidato a una complessa trama di flashback e flashforward, che realizzò una delle prime prove di chronological muddlement applicate al cinema americano, attribuendo rilevanza narrativa ai processi mentali del ricordo e del desiderio – la cui dimensione immateriale si manifestò nelle sovrimpressioni, nel metamorfismo scenografico, nel montaggio accelerato. L’atmosfera inquietante e morbosa, che saturava l’incipit dell’opera, venne riscattata dall’impensata distensione operata nella seconda parte del film, durante la quale i due sposi riuscivano a riconciliarsi. Il passaggio da un registro all’altro corrispose a quello tra notte e giorno, sorto il quale sulla concezione stessa della metropoli veniva gettata nuova luce: invece di sconcertarli allontanandoli ancora di più, la frenesia delle strade cittadine ispirava nella coppia il desiderio di tornare a vivere. Insieme. Ulteriore esempio di cinema realista hollywoodiano diretto da un cineasta europeo, I dannati dell’oceano (1928) dell’austriaco Joseph von Sternberg segnò in effetti l’esordio assoluto di un regista che in patria avrebbe trovato poco spazio. I critici Kevin Brownlow, in The Parade’s Gone by (1968), e William K. Everson, in American Silent Film (1978),

sottolinearono l’aspetto più rilevante della produzione: il realismo che l’autore volle a tutti i costi realizzare nella elaborazione dei personaggi e del contesto sociale in cui questi vennero calati. Se, nelle intenzioni, I dannati dell’oceano doveva essere un documentario, l’innegabile carattere autoriale emerse dalle soluzioni estetiche attraverso cui von Sternberg valorizzò le potenzialità simboliche del linguaggio cinematografico – si consideri la sequenza del tentato suicidio, suggerito soltanto, mostrando i movimenti dell’acqua, prodotti dalla caduta del corpo e scanditi al ritmo della musica. L’aspetto visivo del film coniugò dunque realismo e poesia, prima ancora che il cinema d’autore francese elaborasse il suo stile peculiare. Del resto, anche lo sviluppo drammatico anticipava quello de L’Atalante di Vigo; articolato come Aurora sulla dialettica tra notte e giorno, esso scaturiva dall’incontro tra il fuochista di una nave a vapore – le condizioni di lavoro sulla quale vennero rappresentate con verosimile crudezza – e una giovane e disperata prostituta, spinta al suicidio da un’ingiusta accusa d’omicidio: seguivano, nell’arco delle ventiquattro ore, il salvataggio, il matrimonio in stato d’ebbrezza, la decisione dell’uomo di scappare, quindi, infine, il ripensamento. Insomma, la stessa contrapposizione tra libertà e responsabilità messa in scena dall’anarchico cineasta francese. Sullo sfondo i bassifondi portuali di New York, l’esistenza dolorosa dei loro frequentatori, l’impressione diffusa di degrado e di abbandono: una delle prime e più fedeli testimonianze di quella realtà dimenticata dalla storiografia ufficiale, proprio alla vigilia della Grande Depressione. Un ritratto realista, sul quale tuttavia la fotografia di Harold Rosson diffonde un’impressione di sogno. Mentre lo stile narrativo di von Sternberg conferì al racconto straordinaria leggerezza, anticipando quella combinazione di commedia e di tragedia che avrebbe caratterizzato buona parte del migliore cinema neorealista italiano. Si tenga presente, al riguardo, che lo stesso regista confessò, nel corso di un’intervista concessa a Kevin

Brownlow, di aver ricercato «un’illusione di realtà, piuttosto che la realtà stessa». Paragonabile a quello de L’Atalante fu anche il lieto fine elaborato da von Sternberg per il melodramma della coppia: una soluzione che conferì al racconto una parabola opposta rispetto alla tipica gobba di cammello del cinema disperato. Essa non fu apprezzata dalla critica – una recensione apparsa sul numero di novembre del 1928 di Motion picture magazine considerò che «l’unico difetto» del film fosse «un finale debole che si sarebbe potuto evitare», mentre sull’edizione di Photoplay dello stesso mese si leggeva che per apprezzare l’opera sarebbe stato necessario ignorare «un finale privo di valore artistico, aggiunto esclusivamente per ragioni commerciali». Queste censure non tennero evidentemente conto della circostanza che, proprio come era stato fatto da Murnau in Aurora, anche von Sternberg, attraverso una delle prime didascalie, presentò la propria storia alla stregua di una favola dei tempi andati: il sordido locale del porto che faceva da sfondo agli eventi narrati ormai non esisteva più; lo aveva spazzato via il progresso che, nella concezione romantica del regista, non avrebbe mai più ammesso il verificarsi di analoghe avventure. Se I dannati dell’oceano possedette alcuni dei tratti estetici e ideologici della tradizione europea alla quale si sarebbe ispirato anche il cinema noir, il film che von Sternberg aveva diretto l’anno prima, Le notti di Chicago (1927), aveva definito un modello imprescindibile per il gangster movie. La partecipazione di Howard Hawks alla sceneggiatura – sia pure senza esserne accreditato – al fianco di Ben Hecht (premiato con l’Oscar) segnò appunto il passaggio di testimone: qualche anno dopo, infatti, il regista americano avrebbe realizzato Scarface (1932). Le notti di Chicago, comunque, presentava al pubblico americano molti elementi che sarebbero stati mutuati dal cinema nero: l’ambientazione notturna metropolitana – valorizzata dalla fotografia di B. Glennon, maestro del

chiaroscuro; le due tradizionali declinazioni dei rapporti maschili, vale a dire l’amicizia virile e la rivalità tra capibanda – generando un intreccio di rapporti che sarebbe stato ripetuto da film come Grisbi (1954); il ferreo e non convenzionale codice etico del fuorilegge e la solitudine alla quale questi si condannava pur di rispettarlo – si consideri tra l’altro l’influenza esercitata su Yakuza (1975); il fascino irresistibile e pericoloso esercitato dal personaggio femminile – causa, insieme al denaro, dell’odio e della violenza che dividono gli uomini; l’impressione di sfiducia nei confronti del destino e del futuro – sebbene anche in questo film non fossero mancati inserti comici, affidati prevalentemente alla figura di Larry Semon, noto caratterista del genere burlesco. Nel complesso, l’opera si proponeva di svelare una realtà nascosta – il titolo originale del film era Underworld – elaborando una poetica adatta a raccontarne le ossessioni, le perversioni e l’inquietudine. Nel farlo, von Sternberg pose la massima attenzione alla dettagliata elaborazione dei personaggi – manifestata ad esempio attraverso la rilevanza attribuita ai vezzi dei due gangster, il fiore all’occhiello e la moneta piegata, e della protagonista femminile, preceduta sulla scena dalla caduta delle piume dei suoi vestiti – e dimostrò eccezionale abilità nell’isolare dalla narrazione principale brevi digressioni documentarie – come quella relativa alla disperazione del barista che, non visto, si riduceva a raccattare una banconota finita nella sputacchiera, soluzione che Hawks avrebbe riproposto anche in Un dollaro d’onore (1959). Inoltre gli autori concepirono alcune memorabili sequenze: tra queste si segnalano quella dedicata all’iniziale rapina alla banca, risultato di una sintesi travolgente e di un montaggio orchestrato allo scopo di sconcertare il pubblico, turbando improvvisamente la quiete notturna; quella relativa al ballo dei malavitosi, che al contrario appassisce lentamente, passando da straordinaria vitalità a una lentezza quasi spettrale.

Scarface (e gli altri gangster movies)

Qualche anno dopo Le notti di Chicago, Howard Hawks – che aveva affiancato Ben Hecht nella stesura della sceneggiatura del film di von Sternberg – diresse un film caratterizzato dalla medesima ambientazione (la notte metropolitana, dominata dalle scorribande della criminalità organizzata) ma pervaso da un’atmosfera assai più cupa e più violenta, definendo i canoni del gangster movie, breve ma significativa parentesi del cinema statunitense che avrebbe ispirato la poetica noir. Nel passaggio da Le notti di Chicago a Scarface (1932), attraverso la persona di Hawks, si compì l’americanizzazione della sensibilità realista europea: il regista, originario dell’Indiana, fu insieme a Ford il più completo e influente esponente della Hollywood classica, contribuendo in maniera assolutamente personale a definire i principali generi del cinema statunitense – il western e la commedia. La sceneggiatura di Ben Hecht rappresentò un ulteriore elemento di continuità rispetto alla prima sperimentazione condotta da von Sternberg alla scoperta dell’oscuro mondo della malavita. Questo straordinario autore ottenne un’eccellente sintesi di parole e di immagini – accordando spazio preminente a queste ultime, secondo quella concezione di cinema puramente visivo che gli sarebbe valsa il grande apprezzamento di Hitchcock – senza sacrificare, in favore del principale spunto narrativo, la profondità dell’analisi sociale; questa, anzi, costituì uno dei principali obiettivi che gli autori si prefiggevano di raggiungere. Lo dimostra la presenza di numerose e significative (ancorché brevi) digressioni aneddotiche, che nell’insieme resero l’idea di una società multiforme e contraddittoria: il tratteggio della modesta famiglia italoamericana da cui proveniva il protagonista; la descrizione dell’attività nella redazione di un grande giornale presso cui si creano notizie; le diverse reazioni all’ondata di criminalità – come l’accusa che il capo della polizia rivolse

alla stampa, responsabile di esaltare le gesta dei gangster, o la riunione dei benpensanti, convinti che bastasse non parlare più della malavita perché questa scomparisse da sola. Attraverso questa dialettica, venne riproposta la tensione che aveva caratterizzato la storia recente del Paese, diviso tra le inchieste della stampa scandalistica – che pur di ottenere alti profitti non esitava ad assecondare e persino sollecitare la morbosità dell’opinione pubblica – e l’ottusa miopia delle società di temperanza. Sul piano dell’estetica, Hawks fece tesoro dell’esperienza maturata ai tempi del cinema muto e mutuò molti aspetti della scuola europea – in particolare quella tedesca, come attestava la funzione narrativa delle ombre – conferendo valore artistico alle soluzioni imposte dalla necessità di aggirare il veto posto dalla censura nei confronti della rappresentazione esplicita della violenza. Egli ricorse pertanto allo strumento del simbolo: era il caso della sagoma di una croce che appariva sempre sulla scena poco prima di qualunque omicidio – sotto forma di ombra oppure come segno di matita, riprodotta sulla targhetta applicata alla porta di un appartamento o nel motivo decorativo di un magazzino. Fu proprio questa sensibilità da muto a ispirare poi alcune astute metafore visive, come quella per cui la caduta di un birillo da bowling presagiva l’assassinio di un capobanda, e la costruzione di una messa in scena che non aveva alcun bisogno di affidare alle battute di dialogo il messaggio degli autori – si consideri, in proposito, il ruolo assegnato all’insegna luminosa di un’agenzia di viaggio, recante la scritta «IL MONDO È TUO», sullo sfondo della morte del protagonista, punito appunto per la sua spregiudicata ambizione. Come gli altri grandi registi impegnati nel passaggio dal cinema muto a quello sonoro – Lang in M, il mostro di Dusseldorf (1931) e Hitchcock in Omicidio (1930) – anche Hawks assegnò al suono un importante ruolo descrittivo, facendo del fischiettio una caratteristica ricorrente della presenza del protagonista in scena – attribuendogli un vezzo riconoscibile come quelli dei gangster di Le notti di Chicago e

facilitando, per suo tramite, il processo di familiarizzazione del pubblico nei confronti di Tony Camonte. Questo personaggio, predestinato alla sconfitta materiale e incapace del benché minimo riscatto morale, troppo ostinatamente legato al suo credo – «fallo per primo, fallo da te e continua a farlo!» – per intraprendere la parabola evolutiva che aveva invece contraddistinto la particolare esistenza cinematografica di Bull Weed ne Le notti di Chicago, fornì al cinema noir un modello di antieroe; allo stesso tempo, l’andamento della vicenda – che seguiva l’ascesa e la rovina del terribile criminale – sarebbe stato lo stesso dei capolavori più autenticamente neri: mentre nel finale romantico del film di von Sternberg si assisteva alla redenzione del protagonista che finiva così per essere il principale oggetto del racconto, Scarface non ammise alcuna concessione al sentimentalismo, concentrandosi sulla spietata natura del delitto. E sulle reazioni che il crimine procurava nella società. Prima dell’uscita di Scarface – realizzato nel 1930, ma bloccato per due anni dalla censura – William Wellman diresse Nemico pubblico (1931), il cui controverso protagonista venne interpretato da James Cagney. Se Hawks avrebbe dimostrato, nel corso della propria carriera, pari abilità nel raccontare l’immorale violenza gangster e l’incrollabile etica western, Wellman per parte sua avrebbe avuto il merito di compiere una delle prime revisioni critiche del mito della frontiera, realizzando il wester – n – oir Alba fatale (1943). Fin dalle prime sequenze di Nemico pubblico, emergeva l’aspirazione al realismo: una dichiarazione d’intenti, fortemente voluta dai produttori della compagnia Warner, chiariva che l’opera non si proponeva affatto di esaltare le gesta dei criminali, bensì di ritrarre un allarmante male sociale. Documentario d’informazione nelle intenzioni, il gangster movie – che come ogni altra creatura di Hollywood rispondeva a precise esigenze commerciali – rispondeva a una precisa e inquietante domanda da parte del pubblico, offrendo una

spettacolarizzazione romanzata delle notizie di cronaca che caratterizzarono i turbolenti anni del proibizionismo. La condanna finale del protagonista, suo malgrado sconfitto come quello di Scarface, non valeva certo a nascondere o ad attenuare l’interesse morboso dello spettatore nei confronti dell’avventuroso ed esaltante stile di vita dei celebri malavitosi. Perciò il fenomeno del gangster movie rappresentò una tappa significativa lungo il percorso di disobbedienza intrapreso dal cinema: mentre in Francia i capolavori del realismo poetico venivano considerati avvilenti, tanto dalla critica di destra che da quella di sinistra, negli Stati Uniti le case di produzione, pur affrettandosi a prendere le distanze dalla dilagante criminalità che stava affliggendo il Paese, non esitarono a impegnarsi affinché i film sull’argomento riscuotessero grande popolarità, dando fama agli attori che interpretavano i violenti gangster. Benché una discussa sentenza della Corte Suprema avesse escluso che il diritto alla libertà di espressione, sancito dal primo emendamento, potesse sic et simpliciter trovare applicazione anche nel cinema, era evidente la strategia già posta in essere dalle produzioni dell’epoca: non esitare a sfruttare per profitto neppure le più inquietanti curiosità del pubblico, ma presentare i film che vi erano dedicati come opere di denuncia. Di certo, allo scopo di aggirare i divieti della censura governativa che si stava facendo sempre più sospettosa e inflessibile – al punto da indurre l’Associazione dei produttori e dei distributori ad adottare nel 1930 il codice di autoregolamentazione che dal 1934 trovò piena e definitiva applicazione, stroncando il genere gangster – risultò prezioso il ricorso costante a quello che sarebbe divenuto un topos anche del genere noir: la finale disfatta del protagonista. Quanto all’estetica di Nemico pubblico, Wellman dimostrò di saper mettere a frutto la lezione europea, alla quale si ispirava il cinema hollywoodiano dell’epoca, come emergeva chiaramente dalla sequenza del primo colpo alla pellicceria, quando il protagonista era appena un ragazzo: in particolare, l’uso del chiaroscuro, quello delle ombre e l’angolazione

distorta della ripresa tradivano l’influenza dell’espressionismo tedesco. La cifra autoriale del regista si manifestò soprattutto attraverso la grande varietà delle inquadrature, il ritmo serratissimo del montaggio, la capacità di suggerire la violenza, anziché mostrarla esplicitamente, ricorrendo al simbolismo – il gatto nero che attraversa la strada di un uomo destinato a essere subito dopo ucciso. L’analisi psicologica del protagonista – che maturava un crescente sentimento di rancore e risentimento verso il mondo intero – fece la sua comparsa all’interno della fiction criminale: per svolgerla, Wellman ricorse agli espedienti propri del cinema muto – valorizzando la gestualità e la mimica facciale di Cagney. Caratteristico del gangster movie – un fenomeno cinematografico improntato al realismo – fu il taglio documentaristico di molte sequenze, alle quali, tuttavia, l’intervento autoriale conferiva sempre un significato ulteriore rispetto a quello della mera cronaca. Si soffermi l’attenzione sulla sequenza durante la quale Wellman rappresentò l’isteria collettiva nel fare scorte di alcool: all’impressione di dinamismo, ottenuta attraverso il montaggio e i movimenti della folla in fermento, venne contrapposta la fissità del primo piano conclusivo, sul quale tutti i rumori di fondo vennero sfumati, per lasciare che fosse l’immagine a parlare da sé. La forza drammatica della componente visiva raggiunse il proprio apice nelle riprese finali: una porta si apriva, spalancando di fronte all’obiettivo una voragine nera; ed ecco spuntare fuori il cadavere del protagonista, che precipitava addosso al pubblico con un impatto improvviso e travolgente. La violenza non poteva essere mostrata: veniva allora esercitata, sul piano estetico, attraverso simili espedienti – autentici pugni assestati dalla macchina da presa allo stomaco dello spettatore. In questo film si assistette anche alla rappresentazione, rigorosa ed essenziale, di un complicato furto di liquore: il

realismo emergeva dall’accurata pianificazione che i criminali avevano compiuto e che rendeva superfluo qualunque dialogo durante l’esecuzione del piano. Esattamente ciò che avrebbe contraddistinto le equivalenti sequenze in silenzio di Rapina a mano armata (1955), di Rififi (1955) e de I senza nome (1970). Il nemico pubblico rispettava un proprio codice etico, che lo distingueva dal resto della malavita: il senso dell’amicizia, la profonda lealtà, l’attaccamento alla madre sono aspetti attraverso i quali il personaggio acquistava complessità. Anzi, egli veniva addirittura umanizzato, favorendo un’ambigua identificazione tra il pubblico e l’antieroe criminale. Piccolo Cesare (1930), tra i più celebri gangster movie, era stato il primo in ordine cronologico ma il meno significativo sotto il profilo creativo e visivo. Il film lanciò Edward G. Robinson – interprete ideale del piccolo ma brutale malavitoso – e, soprattutto, avviò la carriera hollywoodiana di William Burnett, autore dell’omonimo romanzo. Oltre ad aver collaborato con Hecht alla sceneggiatura di Scarface, Burnett sceneggiò Una pallottola per Roy (1941), contribuendo dunque al passaggio dal gangster movie al noir, nel quale avrebbe lasciato una traccia significativa, sceneggiando Il fuorilegge (1942) di Tuttle e fornendo il soggetto dal quale Huston trasse Giungla d’asfalto (1950). Attraverso numerosi racconti e romanzi, Burnett, che adottò uno stile ispirato a quello di Hammett, introdusse, in antitesi alla corruzione della città – dalla quale, giunto a Chicago, era stato sconcertato in prima persona: «era gigantesca, brulicante, sporca, fracassona, freneticamente viva» – l’illusione di un’alternativa di vita, sana e virtuosa, possibile soltanto nella quiete idilliaca della campagna. Era appunto a questa che aspiravano molti dei suoi antieroi, perlopiù reietti che, essendo rimasti coinvolti nel delitto quasi per caso, non riuscivano più a redimersi, anche a causa dell’indifferenza, per non dire dell’ostilità di autorità e istituzioni. Lo stesso scrittore, in una prefazione al romanzo realizzata nel 1957, confidava di aver ricercato «l’immagine del mondo visto con gli occhi di un gangster. Tutti i sentimenti

convenzionali, i desideri e le speranze andavano rigorosamente esclusi. E inoltre il libro andava scritto in uno stile adatto all’argomento, e cioè nell’idioma del gangster di Chicago. Buttai a mare tutto quello che era noto fino a quel momento come letteratura. Dichiarai la guerra agli aggettivi. Abolii le descrizioni. Cercai di raccontare la storia soltanto per mezzo della narrazione e del dialogo, in modo che fosse l’azione a parlare. Bocciai anche la psicologia e cercai con tutte le mie forze di eliminare me stesso e le mie opinioni». Il distacco narrativo, votato alla ricerca dell’oggettività, e l’utilizzo di un linguaggio coerente all’umanità raccontata gli erano stati suggeriti da Verga che Burnett conosceva bene e apprezzava per la sua maestria in fatto di realismo. Si trattò, insomma, dell’ennesima declinazione del realismo. Analogo distacco dimostrò la regia di Mervyn LeRoy, il quale poco dopo avrebbe diretto Io sono un evaso (1932) film in cui compendiò molti spunti del cinema nero: la difficoltà del ritorno dal fronte (all’epoca quello della Prima guerra mondiale) e del reinserimento sociale; la denuncia della violenza del sistema carcerario; l’idea del passato sempre in agguato d’ostacolo alla piena riabilitazione; lo spietato ricatto da parte di una predatrice femminile senza scrupoli. Un altro aspetto di Piccolo Cesare che suscita curiosità è una certa analogia con Il dottor Mabuse di Lang – che, tra gli innumerevoli generi ai quali potrebbe essere ricondotto, annovera anche il gangster movie, se solo non fosse del tutto inopportuno parlarne con riferimento alla realtà europea: in primo luogo, Cesare Rico ambiva al potere molto più che alla ricchezza – sostenendo che «il denaro è importante, ma non è tutto. No, devi essere qualcuno» – e svelando un’estasi patologica nella contemplazione dei simboli di potere indossati da uno dei capi dell’organizzazione malavitosa, dimostrando un attaccamento maniacale agli oggetti in cui considerava manifestata la propria autorità e provando sincero compiacimento ad essere fotografato dai giornalisti; in secondo luogo, nel finale del film – naturalmente caratterizzato dalla consueta parabola a gobba di cammello –

Cesare si ritrovava senza via d’uscita e, per la frustrazione, impazziva al cospetto di alcuni anziani senzatetto. Al gangster movie è stato ricondotto dalla critica anche un film realizzato quasi una ventina di anni più tardi: La furia umana (1949), diretto da Raoul Walsh e interpretato da James Cagney, sarebbe stato infatti «il canto del cigno» del genere; si è trattato però di una valutazione troppo frettolosa. Invero, pur avendo recuperato senza dubbio alcuni tratti della tradizione, quest’opera rappresentò un ibrido originale, anzi unico, nel quale conversero anche altre esperienze del cinema della disperazione: realismo poetico, noir e documentar – penitenziario. L’errore in cui è caduta la critica tradizionale si deve alla presenza di alcuni topoi del gangster movie: la violenza gratuita e sadica; la rivalità autodistruttiva tra malavitosi; l’ambizione megalomane del protagonista. Ma sempre nello stesso film si ritrovavano anche ulteriori elementi che gli conferirono il suo carattere spurio; e fu proprio nella rappresentazione di questi che Walsh diede maggiore prova delle sue abilità visive, come nel caso della tara genetica che affligge il protagonista, sulla scia degli sventurati personaggi di Zola: appunto alla patologia era dedicata l’intensa sequenza durante la quale il pandemonio dell’officina del penitenziario, reso visivamente attraverso una catena di riprese dei macchinari in azione, montate sempre più freneticamente, si faceva addirittura insopportabile nella testa di Cagney. Il peso attribuito alla figura della madre del delinquente – alla quale quest’ultimo era legato morbosamente, proprio come il protagonista di Nemico pubblico – costituiva una novità per il gangster movie: se è vero che spesso la rovina dei personaggi maschili era dovuta proprio alla passione per una donna, che rimaneva sullo sfondo della narrazione, nel caso de La furia umana, la negatività che contraddistingue la madre aveva certamente risentito della misoginia diffusa nel cinema hollywoodiano dal noir. La donna, interpretata da una

straordinaria Margaret Wycherly, fu al centro di una delle sequenze meglio orchestrate del film, quella del pedinamento in automobile, durante il quale ella riusciva a far perdere le proprie tracce a ben tre diverse vetture della polizia, nonostante i disperati tentativi dei loro passeggeri di coordinare i propri spostamenti, seguiti dal regista attraverso un perfetto montaggio incrociato. La lunga parentesi ambientata all’interno del carcere costituiva una novità rispetto ai classici del gangster movie e attingeva piuttosto al modello offerto da Io sono un evaso (1932) di Mervyn LeRoy e da Sono innocente (1938) di Lang, anticipando allo stesso tempo le atmosfere di film come Il buco (1960) di Becker.

I neri sociali di Lang: Furia e Sono innocente

Dopo aver contribuito a definire i canoni stilistici del cinema espressionista tedesco che tanto avrebbe influenzato Hollywood, Lang, fuggito negli Stati Uniti in seguito a un incontro con Goebbels, colse lo stato di isteria collettiva che affliggeva la società americana non meno di quella tedesca. L’interesse per i «mali sociali» e la convinzione che qualunque individuo potesse essere tanto vittima quanto carnefice caratterizzarono il suo film di esordio a stelle e strisce, Furia (1936). L’opera fu strutturata in due parti antitetiche, dal confronto tra le quali emergevano chiaramente la relatività della giustizia, la mutevolezza dell’essere umano, la tenuità del confine tra colpa e innocenza. Se il tema della doppiezza apparteneva già all’esperienza personale di Lang – maturato in seguito al suicidio della moglie che lo aveva scoperto tra le braccia di un’altra donna – tipicamente americano fu invece il fenomeno dal quale egli

trasse lo spunto della storia: i linciaggi che, specialmente in provincia, si verificavano con allarmante frequenza, manifestando la tendenza da vecchia frontiera a ottenere con la forza giustizia sommaria. Simili deteriori comportamenti, messi in pratica da una folla inferocita e incontrollata, svelavano violenza, rabbia, mancanza di rispetto nei confronti dell’autorità, della legge, dell’ordine e scarsa fiducia nelle istituzioni preposte a mantenerlo: insomma, gli istinti alla ribellione e alla disobbedienza che il governo insisteva da decenni a reprimere con la forza e che la storiografia ufficiale si rifiutava di annotare, ma che procuravano allarme in una parte sempre più consistente dell’opinione pubblica. Nella definizione realista della cornice sociale, entro la quale si sarebbe svolta in seguito la tragedia individuale, prevalsero le scene corali e l’impressione di disordine che Lang riuscì a procurare in esse testimoniava meglio di qualunque manuale di storia il clima di tensione che il regista proveniente dall’Europa aveva trovato. Del resto, anche Hitchcock, che considerava L’ombra del sospetto (1943) uno dei propri migliori film, aveva insistito sul tema del doppio e lo aveva sviluppato in parallelo a quello dell’ipocrisia della provincia statunitense, bigotta e benpensante. Nella seconda parte del racconto, Lang abbandonava l’organismo collettivo per dedicarsi al conflitto interiore vissuto dal protagonista. Reduce dalla terribile esperienza del linciaggio dal quale era stato minacciato mentre si trovava rinchiuso in prigione per un delitto che non aveva commesso, egli preferiva fingersi morto, rinunciando a riprendersi la propria vita, pur di ottenere vendetta sui suoi assalitori. Il ribaltamento del rapporto tra innocente e colpevoli dimostrava la teoria langhiana sulla natura umana: ciascun uomo, in determinate circostanze stabilite dal caso, poteva trasformarsi in un mostro. Si trattava della premessa antropologica che avrebbe aperto la strada del noir, i cui protagonisti, a differenza di quelli del gangster movie, erano

spesso delinquenti di basso profilo, dei disgraziati avviati al crimine dall’accanimento di una sorta avversa. A fronte della trasformazione dei ruoli – resa credibile dall’interpretazione di Spencer Tracy, abilissimo a diventare progressivamente più sadico e perverso – il trait d’union restava il desiderio di farsi giustizia da sé; un aspetto che Lang aveva già affrontato in M, il mostro di Dusseldorf (1931), per denunciare l’incapacità delle istituzioni di provvedere a mantenere la pace sociale. Oltre alla continuità tematica, Lang realizzò un legame visivo tra le due parti del film disseminando la prima di elementi apparentemente superflui che assunsero importanza riapparendo nella seconda: così, la cucitura del cappotto, apparsa all’inizio del racconto, sarebbe risultata determinante per lo sviluppo della trama e la passione del protagonista per le noccioline lo avrebbe tradito ben due volte. Ma la sensibilità estetica gli permise di costruire metafore per immagini – associando alcune donne di provincia intente a scambiarsi pettegolezzi con le galline impegnate a chiocciare – di attribuire particolare rilevanza a dettagli normalmente privi di significato – la data sul calendario, corrispondente al numero degli assalitori del protagonista. Un simbolo visivo ricorrente nella filmografia di Lang è quello della vetrina di negozio: contemplandola, i personaggi provavano sempre l’effimera impressione di benessere che caratterizzava la società del consumismo, eppure le fondamenta di quest’ultima erano, secondo il cineasta, tanto deboli quanto quella sensazione era ingannevole. Ma la migliore espressione dell’estetica langhiana, di matrice espressionista, furono le suggestive riprese della camminata solitaria nel cuore della notte, lungo le vie solitarie della città – un’atmosfera che avrebbe caratterizzato il noir: Tracy si aggirava inquieto, avvertendo addosso i fantasmi di coloro sui quali sta per prendersi la sua feroce rivincita. Lang fece coincidere la macchina da presa con l’angoscia del protagonista: lo seguiva, lo incalzava, non lo abbandonava mai

e, quando l’uomo in preda al panico accelerava, essa ne teneva il passo, sovrastandolo. Movimenti e angolazioni che evocarono l’impossibilità del protagonista di sfuggire al drammatico confronto con la propria coscienza. Il secondo film americano di Lang, Sono innocente (1938), fu altrettanto cupo e ugualmente critico nei confronti della società statunitense, nella quale risultava impossibile un efficace reinserimento dopo l’esperienza carceraria. Lang affrontò dunque una trama che presentava diversi spunti che avrebbero caratterizzato la poetica noir: istituzioni indifferenti, ipocrisia dei benpensanti, peso soffocante del passato. Come in Furia – l’episodio allora era stato quello nel negozio del barbiere – anche in Sono innocente il regista austriaco trovò spazio per inserti comici: si pensi all’iniziale furto della mela da parte del poliziotto di ronda. Ma il registro del racconto fu prevalentemente teso, serrato, saturo ora di suspense ora di malinconia – così, al momento della scarcerazione, la cauta speranza di avvenire del protagonista venne immediatamente turbata dalla malvagità di un altro detenuto, che gli ricordava con un ghigno beffardo: «tu sarai sempre dei nostri». L’universo langhiano fu, ancora una volta, caratterizzato dalla tensione tra poli opposti – solidarietà e insensibilità, lealtà e disonestà – e dalla divisione: i due protagonisti risultavano spesso divisi da barriere fisiche che corrispondevano all’invisibile avversione del destino nei confronti del loro sofferto amore. La maniera in cui le autorità vigilavano sull’osservanza dei limiti posti da quelle barriere non aveva niente di umano: il ricorso a un’angolazione di scuola espressionista – con la macchina da presa posta sulla torre di sorveglianza che dominava l’area di ricreazione dei carcerati – suggeriva l’idea di un guardiano impassibile, sotto il peso del cui sguardo coloro che vi erano sottoposti apparivano schiacciati. A fianco della rappresentazione della prigionia fisica, Lang evocò l’impressione di una prigionia mentale: più volte il

regista ricorse alle ombre per imprigionare i primi piani del protagonista e portarne fuori la tormentata interiorità. Nel processo di elaborazione del genere noir, Sono innocente costituì una tappa importante perché definì la condanna a un finale tragico, anche nel caso di un personaggio dal profilo ben diverso rispetto a quelli dei nemici pubblici del gangster movie.

Il new deal hollywoodiano

Una serie di scandali, occorsi nei primi anni venti, scosse Hollywood, compromettendone l’immagine presso l’opinione pubblica: il processo per omicidio a carico di Roscoe Fatty Arbuckle, star dello schermo; l’indagine sull’assassinio del regista William Desmond Taylor e le conseguenti rivelazioni sul suo stile di vita; la morte per overdose di alcuni popolari attori come Wallace Reid e Olive Thomas. La stampa scandalistica diede particolare risalto all’ondata di depravazione che sembrava essersi abbattuta sul mondo del cinema, diffondendo l’immagine di una città del peccato. Fu allora che l’Associazione dei produttori e dei distributori, su pressione delle società di temperanza che minacciarono un boicottaggio delle pellicole considerate immorali, stabilì una serie di canoni che ciascuno degli associati si sarebbe impegnato a rispettare, mentre i contratti degli interpreti introdussero clausole morali, la cui infrazione attraverso comportamenti sconvenienti, come l’abuso di alcol e di droghe, avrebbe determinato la risoluzione del rapporto di lavoro. Nel frattempo il Paese – che durante i ruggenti anni venti aveva seguito perlopiù con divertimento e curiosità morbosi le cronache sensazionalistiche degli scandali hollywoodiani – si trovava a fronteggiare la crisi e a fare i conti con le

conseguenze di un tenore di vita spregiudicato e di un consumismo sfrenato, ispirati a quegli stessi eccessi che avevano reso celebri molti divi del cinema. Se nei primi quattro anni in seguito al crollo della borsa il codice di autoregolamentazione, pur essendo entrato in vigore, non venne applicato – dando luogo al fenomeno del gangster movie, attraverso cui lo schermo proiettava l’inquietudine, lo smarrimento, il rancore del pubblico – dal 1934 l’istituzione di un organo amministrativo che ne garantisse il rispetto determinò una svolta. Questa coincise storicamente con l’elezione di Franklin Roosevelt e con l’adozione, a partire dal 1933, di una strategia di riforme finalizzate a favorire la ripresa: anche Hollywood dunque conobbe il suo New Deal e, anziché assecondare il gusto sadico dello spettatore, si tentò di esorcizzarne le paure attraverso la comicità. Ma, come sempre è accaduto nella storia del cinema americano, persino i più virtuosi propositi dovevano scendere a compromessi con le aspirazioni di guadagno: perciò alla languida commedia sofisticata si affiancò, avendo presto il sopravvento, un genere comico d’azione, all’insegna della imprevedibilità. Adottando un termine del gergo sportivo, molto popolare presso il pubblico maschile – al quale si rivolgeva questa forma di intrattenimento – le commedie in questione furono definite screwball e paragonate a un particolare tipo di lancio della palla da baseball, estremamente spiazzante e difficile da prevedere per il battitore. A dispetto dell’introduzione di un tono opposto rispetto a quello perverso e soffocante del gangster movie, anche le commedie degli anni trenta vennero ambientate nel clima di eccessi che aveva caratterizzato il decennio precedente e non mancarono i riferimenti al proibizionismo e alle sue innumerevoli infrazioni – screwy, termine che oggi identifica soltanto un carattere bizzarro, all’epoca si riferiva anche allo stato di ebbrezza. A questo tipo di commedia, interessata a intercettare i gusti del più vasto pubblico, si dovettero anche le prime

trasposizioni cinematografiche dei protagonisti della fiction investigativa che tanto andava di moda sui pulp magazines e che, qualche anno più tardi, sarebbe stata l’ispirazione letteraria del film noir. Si impose così sullo schermo, soprattutto grazie a W. S. Van Dyke, lo stereotipo del detective privato scaltro, malizioso, eccentrico, disobbediente, gran bevitore e fumatore incallito. Tuttavia di questo personaggio non vennero ancora messi in risalto la tormentata interiorità, l’etica vacillante, l’ossessione per il denaro, i modi brutali e la misoginia, bensì l’ironia, la disinvoltura, il fascino con le donne, il coraggio spesso incosciente, il senso della giustizia. L’aspetto più rilevante nelle commedie in questione fu, però, senz’altro l’attenzione che esse prestarono ad alcuni diffusi mali sociali, come la corruzione, le condizioni di degrado dei ceti più poveri, le speculazioni bancarie, lo spregiudicato sensazionalismo dei mezzi di informazione, l’irresponsabilità di una viziosa e inconsistente upper class, a fronte dei quali vennero celebrate la semplicità d’animo, la dignità, l’onore, la rettitudine e la solidarietà di esponenti degli strati inferiori della popolazione, dei quali venivano ricercati il gradimento e il sostegno. In questa spericolata dialettica di contrasti, si passava in continuazione da palazzi signorili a degradate hoovervilles, dal ritratto di avidi industriali a quello della povera gente generosa e solidale, dalla corruzione dei politici più anziani all’idealismo di una nuova generazione: un costante confronto tra ciò che non era andato bene, a causa dell’egoismo di qualcuno, e ciò che sarebbe potuto migliorare grazie all’impegno di tutti. Fu questa una stagione di cinema durante la quale si impose definitivamente l’happy ending, in evidente antitesi al finale tragico che aveva caratterizzato i gangster movies e che avrebbe contraddistinto anche il film noir. Il lieto fine caratterizzò anche un altro genere che a partire dagli anni trenta venne definito, raggiungendo nel corso del

decennio successivo le vette della sua poetica: l’avventura di ambientazione western, nel corso della quale si assisteva al riscatto di personaggi che la società aveva frettolosamente etichettato come indesiderabili e a un completo ribaltamento del convenzionale giudizio di valori, per effetto del quale si dimostrava l’esistenza della virtù in fondo all’animo più insospettabile e la sua mancanza, viceversa, in coloro dai quali la comunità si sarebbe aspettata di essere ispirata e guidata. Straordinari interpreti di queste due anime tipicamente americane del cinema anni trenta, Frank Capra (nato in Italia) e John Ford (affezionato alle proprie origini irlandesi) si dedicarono alla celebrazione dell’indomito spirito statunitense rispettivamente attraverso la commedia e l’avventura western, mentre Howard Hawks riuscì ad apporre una firma indelebile su entrambi i generi. Analogamente, alcuni attori divennero il volto di riferimento di uno dei due – si pensi a William Powell, raffinato attore comico, e a John Wayne, assurto a simbolo della lotta lungo la selvaggia frontiera; altri invece, come James Stewart e Gary Cooper, si rivelarono più versatili. All’interno di questo straordinario panorama artistico, merita una menzione particolare Preston Sturges: sceneggiatore geniale e abile regista, coniugò come nessun altro ironia e denuncia, realizzando un’aspra polemica sociale. Certo, nella sua filmografia non mancarono film votati esclusivamente al puro divertimento; tuttavia anche alla scelta di far ridere egli aveva sotteso un impegno artistico – morale, l’esposizione del quale fu affidata al film sul cinema, I dimenticati (1947), nel quale il protagonista, un regista cinematografico campione di incassi grazie alle slapstick comedies – seguendo un esperimento simile a quello compiuto da London per scrivere Il popolo degli abissi e una filosofia del pedinamento degna del neorealismo italiano – si riprometteva di raccontare con taglio documentaristico l’esistenza degradata di tutti coloro che erano stati travolti dalla Grande Depressione, i dimenticati, appunto – come venivano chiamati subito dopo la crisi del 1929 e ai quali il

titolo italiano, insolitamente felice, faceva riferimento: quelli cioè che la storiografia ufficiale aveva relegato ai margini del proprio interesse. Attraverso una parabola da incubo, che lo aveva costretto a sperimentare in prima persona le privazioni di quella umanità nascosta nell’ombra, l’alter ego di Sturges comprendeva finalmente il valore che può assumere una risata nella dolorosa lotta per la vita.

L’intersezione tra cinema della speranza e cinema della disperazione a Hollywood

Come Boudu salvato dalle acque (1932) e Darò un milione (1935) avevano già manifestato, sia pure attraverso il ricorso all’ironia, il disprezzo per la mentalità piccolo borghese che sarebbe diventato un tratto ricorrente della poetica di Renoir e di Zavattini, allo stesso modo le commedie d’azione americane, a cavallo tra gli anni ’30 e ’40, ridevano di alcuni vizi dell’élite e del malfunzionamento istituzionale che il cinema noir non avrebbe affrontato esplicitamente – con l’eccezione di Otto Preminger – ma considerato piuttosto impliciti nella propria rappresentazione di una società in crisi di identità. In Accadde una notte (1934) l’avventura on the road di una capricciosa miliardaria si intrecciava con quella di uno spiantato giornalista in cerca di scoop – la stampa scandalistica sarebbe stata una costante nell’universo di Capra – mentre, sullo sfondo del viaggio e, soprattutto, dell’evoluzione dei due protagonisti, venivano ritratti gli Stati Uniti della Grande Depressione: alle condizioni di miseria e di difficoltà, il cinema di Capra rispondeva celebrando la compassione che caratterizzava la scena corale a bordo della corriera, mentre il grande successo di pubblico e la pioggia di Oscar non permise ai produttori di dubitare neppure un istante sulla fortuna che avrebbe avuto quella nuova forma di commedia, capace di

unire. Ma questo film fu particolarmente importante anche nella elaborazione di un linguaggio e di un’estetica adatti a comunicare con lo spettatore comune di estrazione popolare: linguaggio colloquiale, scorci familiari, come quello della fila per la doccia, ammiccamenti maliziosi, con la scena dell’autostop che primeggiava su tutti, e momenti di spensierata condivisione, per esempio la cantatina sul torpedone. Alla commedia sofisticata, spesso troppo, fuori dal tempo e dallo spazio reali – era il caso di opere come Amami stanotte (1932) di Mamoulian o Scrivimi fermo posta (1940) di Lubitsch, rispettivamente ambientate in Francia e in Ungheria – il cinema americano affiancò un nuovo genere che desse ampio spazio alla cronaca quotidiana, alle mode e ai costumi nazionali, finendo per influenzarli a propria volta: in proposito, pare che la scandalosa scena in cui Clark Gable era rimasto a torso nudo, dopo aver svestito la camicia, provocò un vero crollo nella vendita di magliette intime. In È arrivata la felicità (1936), un giovane di paese si trasferiva in città per amministrare un’imprevista eredità: tra il clamore della notizia – che i giornali vogliono cinicamente sfruttare – e l’indignazione della famiglia, egli avrebbe deciso di sfruttare la nuova ricchezza per condividerla con i più bisognosi, dalle cui condizioni era rimasto profondamente turbato. Dopo aver rischiato di essere considerato pazzo – non secondo i canoni della scienza medica, ma quelli della mentalità capitalistica, accecata dalla logica del profitto – il protagonista trovava l’amore e la gratitudine popolare. Dietro a buoni sentimenti e risate bonarie, Capra lanciò un’accusa ai monopolisti, nelle cui poche mani era concentrata la maggior parte delle risorse del paese, e dimostrò di aderire alla politica assistenziale varata da Roosevelt per placare i sempre più allarmanti fenomeni di ribellione. Nel film Un colpo di fortuna (1940), Preston Sturges immaginò una situazione simile: il giovane impiegato di un grande impresa, al quale nessuno dei dirigenti sembrava disposto a dar ascolto, venne preso sul serio soltanto quando sembrò, a causa dello scherzo ordito dai

colleghi, che avesse vinto un premio a un concorso pubblicitario e ogni sua proposta venne accolta con la stessa superficialità con cui prima veniva respinta. Durante l’illusione di un’insperata fortuna, il protagonista, al quale i negozianti erano disposti a far credito, acquistò doni per tutti gli abitanti del suo umile quartiere, desideroso di condividere con ciascuno di loro la propria felicità – memorabile la reazione della gente al tentativo dei commercianti di recuperare la merce, una volta scoperta la verità. Alla fine, tutto si sarebbe aggiustato e il tradizionale concetto di sfortuna imposto dalla superstizione, allora dilagante, venne relativizzato: il passaggio di un gatto nero porta sfortuna soltanto se dopo si verifica una disgrazia! Al di là dell’esortazione a essere fiduciosi nel futuro, Sturges condannò l’ottusa mentalità degli esponenti di una élite privilegiata e capricciosa, sensibile soltanto al fascino del denaro e a quello del successo e applaudì la generosità del giovane sognatore che aveva celebrato il Natale a luglio – al quale si riferiva il titolo originale del film. Il cinema americano aveva così abbandonato, sia pure temporaneamente, anche l’idea che una ricchezza improvvisa potesse rappresentare soltanto una minacciosa ossessione dentro cui rischiare di essere risucchiati senza scampo – come aveva suggerito von Stroheim in Rapacità e come avrebbe sostenuto anche la poetica noir – per immaginare al contrario che essa offrisse un concreto strumento di assistenza e di solidarietà, invitando la classe dirigente a maggiore filantropia e a una più equa ridistribuzione delle risorse. Ne L’eterna illusione (1938), Capra affrontò polemicamente il tema della speculazione edilizia e finanziaria, qui compiuta da un arrogante banchiere, al quale si opponeva l’ostinazione di un anziano sognatore, fermamente intenzionato a non abbandonare la vecchia casa che il suo nemico vorrebbe radere al suolo per erigere nuove costruzioni. Il loro contrasto – nel quale si rifletteva la dialettica tra progresso e tradizione – sarebbe stato ricomposto grazie alla storia d’amore che legava i rispettivi figli. Epicentro del

racconto fu proprio la casa, all’interno della quale una regia davvero abile nella gestione del traffico sulla scena realizzò molte sequenze corali, coordinando perfettamente tra loro tutti gli interpreti entro uno spazio ristretto. Simbolo del sentimentalismo del sognatore – opposto alla cinica grettezza del banchiere – la casa assurgeva a simbolo di una realtà sociale alternativa, costruita sull’entusiasmo e la libertà di pensiero, libera dalla soffocante logica dell’utile che aveva inaridito l’umanità fuori di essa. Una riflessione analoga caratterizzò anche La vita è meravigliosa (1946), nel quale Capra raccontava la parabola del volenteroso direttore di una società d’assistenza finanziaria, deciso a lottare con lo spietato banchiere del paese, per impedirgli di ottenere il monopolio del mercato dei prestiti: sacrificando l’ambizione personale e il sogno giovanile di girare il mondo, egli sembrava infine soccombere, sotto i colpi assestati dal suo acerrimo e scorretto avversario e da un destino quanto mai beffardo. Eppure, seguendo un’imprevedibile parabola – che si snodava attraverso l’incursione in una dimensione temporale fantastica, ispirata a Il canto di Natale di Dickens – il lieto fine ricorreva immancabile, grazie alla solidarietà che gli dimostrarono coloro per i quali il protagonista si era sempre battuto e sacrificato. In Mr. Smith va a Washington (1939), Capra affrontò la piaga della corruzione politica, contrapponendo al malcostume recente gli immortali principi stabiliti dai padri costituenti: in questa dialettica tra presente e passato, il regista non si accontentò di rivolgere un malinconico sguardo al futuro, ma, attraverso la figura di un giovane idealista interpretato da James Stewart, espresse la propria fiducia nei confronti di una nuova classe politica, più onesta e disinteressata. Al di là dell’ironia raffinata e del consueto lieto fine, Capra rivolse una critica severa nei confronti degli accordi tra le forze di governo e i rappresentanti del mondo industriale e finanziario. Erano stati appunto gli scandali legati a simili abusi ad aver sollecitato sempre più frequenti iniziative dal basso, assunte in maniera spontanea da masse inferocite. Allo stesso tempo, il regista celebrò gli ideali democratici, esaltando i monumenti di

Washington ad essi dedicati: la scenografia cittadina esercitava allora sul protagonista un’ispirazione salvifica, infondendogli coraggio e rafforzandone il senso civico – tutto l’opposto dell’influenza corruttiva attribuita alla giungla d’asfalto dalla poetica noir. Un anno più tardi, ne Il grande McGinty (1940), Sturges smascherò il racket di voti e la condivisione di interessi economici che portava gli uomini politici a legarsi alla malavita. Questo tema da gangster movie venne affrontato con la consueta ironia, sviluppando la parabola del protagonista in maniera assolutamente originale: benché la sua sorprendente vita politica subisse proprio sul più bello una beffa da noir, la sua evoluzione interiore seguiva un andamento opposto. E, alla fine, egli si ritrovava a condividere la latitanza con un impiegato di banca che aveva commesso una pazzia durante i giorni della crisi: quest’ultimo era stato punito dalla sorte per essere stato disonesto una sola volta nell’arco di tutta la vita; il protagonista, al contrario, aveva pagato un unico fatale gesto d’onestà. La mancanza di un happy ending convenzionale, veniva dunque riscattata mediante l’evoluzione interiore del personaggio, secondo la logica di riscatto morale che caratterizzava il cinema comico e quello d’azione dell’epoca; nondimeno, Sturges decretava l’insuccesso sociale del suo personaggio, rimarcando l’esistenza di regole non scritte, violare le quali in nome dell’etica poteva comportare gravi conseguenze. Egli denunciava così un sistema corrotto e malato, che neppure la redenzione del più incallito criminale poteva rovesciare. In Arriva John Doe (1941), Capra condannò il sensazionalismo al quale la stampa ricorreva per manipolare l’opinione pubblica, non esitando a inventare di sana pianta notizie che potessero attirarne l’attenzione, suscitarne l’allarme, stimolarne il consenso: un vagabondo, coinvolto suo malgrado in questo complotto, smascherava infine gli avidi dirigenti che avevano approfittato della sua ingenuità, riconciliandosi con il popolo onesto, dal quale anch’egli proveniva. Quest’opera riproponeva dunque la contrapposizione tra la malizia dei potenti e la purezza degli sfruttati, le masse di «bravi vicini» – così si chiamavano i

membri dei club John Doe, organizzati in giro per il Paese in segno di solidarietà nei confronti del protagonista. Il lieto fine alla Capra continuò dunque a essere caratterizzato dal trionfo del sentimento collettivo anziché dal successo materiale individuale: in altre parole, il regista aveva offerto una soluzione credibile della crisi sociale, attraverso la soddisfazione di aspirazioni – alla felicità, all’armonia, alla libertà – alternative rispetto a quella al profitto che dominava la società capitalista. I suoi personaggi non raggiunsero mai la ricchezza, ma riuscirono a mettere in pratica il diritto fondamentale «alla ricerca della felicità» sancito dalla Dichiarazione di indipendenza – che, per più di un secolo, la maggior parte degli americani aveva considerato una promessa infranta, incapace di concreta attuazione. Per la poetica noir, invece, il riscatto dall’emarginazione e dalla sofferenza sarebbe stato realizzabile soltanto nel rispetto della logica materialista che aveva causato quella condizione di partenza: quale che fosse l’obiettivo ultimo dei protagonisti, la sua realizzazione passava necessariamente dall’arricchimento e così il legittimo desiderio di felicità degenerava in ossessiva cupidigia. Resta la condivisione delle ragioni che procuravano l’infelicità dei personaggi, sia della commedia sia del noir: l’ingiustizia sociale, la corruzione istituzionale, il degrado diffuso tra le masse dei dimenticati, la mancanza di scrupoli del potere finanziario. Tra le commedie degli anni ’30 meritano una particolare considerazione quelle che introdussero sullo schermo la figura dell’investigatore privato anticonvenzionale – mutuandolo dalla diffusa letteratura hard boiled – che sarebbe stata protagonista, in seguito, di numerosi film noir. Il regista che portò al successo la commedia investigativa fu W.S. Van Dyke, il quale nel 1934 aveva trasposto sullo schermo il romanzo di Dashiell Hammett, L’uomo ombra, inaugurando una fortunata serie. Il protagonista, l’investigatore Nick Charles, venne interpretato da William Powell che, grazie all’eleganza, alla

malizia e alla disinvoltura che ne contraddistinsero la recitazione, impersonò alla perfezione un profilo di detective sornione opposto rispetto a quelli compassati di Sherlock Holmes e di Hercule Poirot. Nel film di Van Dyke, tuttavia, rilevava soprattutto l’impietoso ritratto della mentalità borghese durante gli anni del proibizionismo: Nick Charles, entrato nell’alta società dopo il matrimonio con una ricca ereditiera, si ritrovava a indagare attraverso un’umanità viziosa, dissoluta, avida, ipocrita e isterica, spiccando in mezzo a essa non soltanto per acume, ma anche per generosità, disinteresse e bontà d’animo – caratteristiche che gli investigatori noir non avrebbero proprio condiviso. Oltre a risolvere un omicidio nei panni di un avvocato newyorkese ne La maschera di mezzanotte (1935), William Powell avrebbe interpretato nel 1936 la commedia di Gregory La Cava, L’impareggiabile Godfrey, nel quale il regista compì un analogo affresco della upper class statunitense: dedita agli sprechi, agli eccessi, alle più deleterie forme di evasione, una ricca famiglia rischiava il tracollo economico, mentre il maggiordomo – che una forma insana di filantropia aveva portato a scovare nel mezzo di una hooverville – farà fortuna, contribuendo ad aggiustare le cose. Il film di La Cava, a dispetto dell’eccezionale leggerezza del tono e di numerosi passaggi slapstick, degni di una comicità da cinema muto, ritraeva in maniera complessa le contraddizioni della sua epoca: le conseguenze della crisi del ’29, il rischio di un nuovo collasso dovuto a eccessi e stravaganze, l’ipocrisia borghese – introducendo un personaggio ricorrente nelle commedie del tempo, quello del protégé, uomo privo di sostanze che veniva accolto sotto la protezione di una facoltosa signora. Nel 1939, W.S. Van Dyke, noto per realizzare film a basso costo in tempi record – caratteristica produttiva che avrebbe riguardato anche il cinema noir – diresse, in appena dodici giorni, la commedia investigativa Questo mondo è meraviglioso. Una perfetta miscela giallo rosa, retta sui bisticci della coppia Colbert – Stewart, ricca di sentimento e di raffinata ironia, nel corso della quale il romanticismo di una

scrittrice di poesie d’amore e l’incanto della natura trasformavano un cinico e avido investigatore di città in un uomo migliore, realizzando un’evoluzione del personaggio assolutamente inconcepibile in un’ottica noir. Nondimeno, il ritratto iniziale del protagonista corrispondeva totalmente a quello degli omologhi hard boiled a ulteriore conferma della matrice letteraria comune a due forme tanto differenti di cinema. La stessa impressione si avrebbe confrontando La rivincita del falco (1942) e L’ombra del passato (1945), entrambi tratti dal romanzo di Chandler, Addio mia amata. Oltre alla sostituzione del celebre Philip Marlow con il personaggio de Il Falco, creato da Michael Arlen – e già interpretato dallo stesso attore, George Sanders, in due precedenti opere dirette da Gay Lawrence – tra la piccola giallo commedia diretta da Irving Reis e il capolavoro noir di Edward Dmytryk si ravvisavano differenze profonde, a partire proprio dalla caratterizzazione dell’investigatore, essendo l’uno amabile, raffinato, danaroso e intellettuale, l’altro invece scostante, cinico, perennemente in bolletta. Mentre il primo indagava per il gusto di indagare, accompagnato da un fidato assistente, il secondo, come ogni creatura noir, era animato dal desiderio di un guadagno, di «qualcosa di tangibile», che non avrebbe avuto alcuna intenzione di spartire con altri. È interessante tuttavia notare che, nonostante una maggiore semplificazione estetica e strutturale – con la mancanza dei flashback ingannevoli, che viceversa avrebbero conferito alla versione di Dmytryk un impianto labirintico, con l’assenza del monologo, dovuta alla circostanza che il protagonista non agiva da solo, e con il ricorso alla prospettiva di un narratore onnisciente – questa commedia d’azione compì comunque uno studio delle ombre e alcune variazioni degli angoli di ripresa, attraverso le quali essa anticipò quel gusto per l’esasperazione e la distorsione visive che si sarebbero imposte nel cinema noir – si consideri al riguardo il primo piano del temibile e gigantesco Moose Malloy, inquadrato e illuminato in maniera tale da apparire ancora più imponente e minaccioso.

Il confronto tra la poetica western e quella noir

La commedia degli anni ’30 tentò di coinvolgere il pubblico ricorrendo all’estetica della coralità e, pur compiendo una severa requisitoria contro i vizi e gli eccessi che avevano avvelenato il sistema sociale nel corso del decennio precedente, partiva dal presupposto dell’esistenza di quel sistema, nel quale dimostrava di continuare a riporre fiducia: in molti film di Capra, i gesti di solidarietà esprimevano la consapevolezza dell’appartenenza a un medesimo tessuto sociale, mentre il processo giudiziario, caratterizzato dal connotato della pubblicità, offriva un’occasione di catarsi collettiva e ristabiliva un ordine fondato sui principi dei padri costituenti. Il noir avrebbe invece considerato definitivamente compromesso il corretto funzionamento del sistema sociale e avrebbe adottato un’estetica della solitudine, senza riporre più alcuna aspettativa nelle istituzioni pubbliche. Il western, ambientato in terre ed epoche che non avevano ancora visto la definitiva affermazione della civiltà e dell’organizzazione sociale, mosse da analoghe premesse: disordine, disaggregazione e solitudine. Perciò tanto la poetica noir quanto già in precedenza quella western non fecero mai riferimento a una morale collettiva – quella ispirata alla legge – ma a una morale individuale. Di certo, il padre del cinema western classico fu John Ford, autore propenso a interrogarsi sul concetto di progresso, ad affrontare il tema della redenzione e a esprimere sempre un giudizio di tipo sostanziale sui personaggi dei propri film, prescindendo da qualunque pregiudizio o convenzione: a partire dal capolavoro muto, I tre furfanti (1926), egli operò un

radicale ribaltamento delle aspettative legate al ruolo di sceriffo e a quello di fuorilegge. Il caos e l’anarchia della frontiera risultavano congeniali alla sua poetica: da una parte, la lenta avanzata del progresso – identificato a far data da Il cavallo d’acciaio (1924) con l’estensione della rete ferroviaria – equivaleva all’affermazione della civiltà; dall’altra, però, la lentezza di questo procedimento, foriera di disordine e d’incertezza, costituiva uno stimolo per ogni uomo ad assecondare la propria naturale inclinazione, anziché sentirsi vincolato a principi di convivenza la cui applicazione risultava ancora instabile e arbitraria. Dalla tensione tra la spinta verso il progresso e la fuga anarcoide scaturiva l’opportunità del riscatto per una memorabile parata di reietti, simili quanto a marginalità agli antieroi del cinema noir – prostitute, ricercati, ubriaconi. Il messaggio fordiano convergeva così con quelli di Capra e, soprattutto, di Roosevelt, finendo per costituire un’esortazione rivolta a tutti i dimenticati a non darsi per vinti nella difficoltà e a ribaltare, con la propria probità, la diffidenza dimostrata nei loro confronti dalla privilegiata élite di notabili e di benpensanti: insomma, un’altra tesi attraverso cui stemperare la disobbedienza radicale, sollecitando il senso civico dello spettatore. E per coinvolgere un pubblico sempre più vasto, Ford – seguito poi da Hawks – compì un esperimento analogo a quello che avrebbero realizzato anche le commedie investigative: al registro prevalentemente avventuroso alternò momenti di ironia e passaggi melodrammatici, raggiungendo un’impressione di armoniosa complessità. Al raggiungimento dello scopo, contribuirono altresì i riferimenti alla tradizione popolare – i titoli di testa di Ombre rosse (1939) riferivano, ad esempio, che l’accompagnamento musicale del film sarebbe consistito in american folk songs: canzoni popolari, per incontrare i gusti del popolo. Molti dei suoi film raccontarono il cruciale passaggio dalla condizione di isolamento a quella di condivisione: fondandosi

su una solidarietà spontanea e appassionata, gradualmente si costituiva un nucleo comunitario; l’embrione mediante cui riuscire concretamente nella conquista del lontano occidente. A questo microcosmo organizzato, il regista contrappose una folla indistinta e indomabile, feroce e violenta, bigotta e indifferente – memorabili in proposito le sequenze, ricche di aneddoti, dedicate alla partenza della corsa all’oro ne I tre furfanti: quella che si aggirava attraverso i roventi paesaggi desertici, dominati dal John Ford Point, era la stessa inquietante umanità che si sarebbe riversata lungo le buie strade della metropoli noir e che, ancora prima, si accalcava nella notte londinese delle Note invernali di Dostoevskij. Per mettere in scena le sue parabole di redenzione, Ford ricorse spesso allo spunto narrativo del viaggio – facendo coincidere lo spostamento fisico con l’evoluzione caratteriale: Ombre rosse (1939), anzi, si impose immediatamente come modello, non solo estetico, di racconto in perenne progressione. Il viaggio equivaleva alla lotta e al sacrificio e comportava una lezione di vita: «bisogna campare, qualunque cosa succeda», unendo le forze, mettendo da parte ogni egoismo, resistendo alle ripetute insidie. Se è innegabile che l’ideologia del riscatto fordiano fu di ispirazione per alcuni capolavori di Hawks, come Un dollaro d’onore (1959) ed El Dorado (1966), è altrettanto evidente che in essi il processo evolutivo (vissuto rispettivamente dai personaggi di Dean Martin e di Robert Mitchum) sarebbe avvenuto, al contrario, nella staticità dell’assedio: eppure, a fronte di uno sviluppo diverso, restò costante il premio raggiunto dai protagonisti western, la dignità; la stessa alla quale ambirono, invano, anche i personaggi del realismo poetico, del noir e del neorealismo. Ciò dimostra che partendo da premesse coincidenti – la condizione di isolamento, il degrado morale, la disgregazione sociale, l’avversità da fronteggiare – la poetica western e quella noir giungevano a conclusioni opposte, continuando a viaggiare su binari paralleli – condividendo il medesimo contesto storico di riferimento, saturo di contraddizioni e di

tensioni, ma sviluppandone una diversa interpretazione – finché non si verificò quell’incrocio particolarissimo per iniziativa di registi come Wellman e Lang. Dal punto di vista stilistico, comunque, i due generi risentirono di influenze comuni: Toland, che aveva curato la fotografia di Ombre rosse, contribuì anche al successo di Quarto potere (1941) conferendo al capolavoro di Welles quell’aspetto tormentato che indusse Frank a includerlo tra i noir. Un chiaro scuro altrettanto marcato caratterizzò anche la fotografia di Joseph MacDonald in Sfida infernale (1946). Fu appunto in questo film, in bilico tra epica e tragedia, che Ford introdusse il numero musicale, malinconico ed esotico – come esso si stava imponendo nel cinema noir – e attribuì alla figura femminile, che ne era l’interprete, l’aura di una sirena ammaliatrice, una visione capace di evocare, con voce suadente, irresistibili suggestioni, cariche di fascino ma anche di sinistri presagi shakespeariani. Che fosse l’ammirazione di Welles per l’autore di Ombre rosse, la condivisione dell’amore per Shakespeare o il sapore noir di quel particolare passaggio di Sfida infernale, sta di fatto che un anno più tardi, ne La signora di Shanghai (1947), le riprese di Rita Hayworth, spietata dark lady intenta a cantare Please Don’t Kiss Me al chiaro di luna, adottarono uno stile e ricrearono un’atmosfera straordinariamente simili a quelli della sequenza diretta da Ford. Questo film riuscì comunque a fondere l’anima romantica della tradizione lirica europea con il multiculturalismo del folclore statunitense, di cui la canzone Oh My Darling Clementine – citata nel titolo originale del film – è un chiaro esempio: formalizzata definitivamente nella seconda metà dell’800 dai pionieri della frontiera, essa era arrivata dalla Spagna e aveva subito una rivisitazione ad opera dei minatori messicani impegnati nella corsa all’oro. Proteso verso il progresso ma aggrappato al passato – e l’ossessione per il passato, dal quale scaturiva l’ineluttabile condanna all’autodistruzione, fu il tratto più noir del

complesso personaggio di Doc Hollyday – Ford celebrò l’amicizia virile, tra uomini votati a cause diverse, eppure uniti dalla condivisione degli stessi valori morali: «anime grandi [che] d’istinto s’incontrano e di rispetto e d’amicizia infiammansi». Lo stesso si potrebbe sostenere con riguardo ai protagonisti dei western di Hawks, il quale, a partire da Il fiume rosso (1948), introdusse nel cinema western classico il legame intergenerazionale tra maestro e allievo e il senso di compiacimento che entrambi provavano nello svolgere fino in fondo e con il massimo dell’impegno il proprio dovere – aspetti, tutti, che contribuirono ad arricchire l’intersezione tra il film western e quello noir. Ma nella relazione tra esponenti di generazioni diverse, portatori di una concezione spesso differente della storia, si manifestò anche la tragedia moderna che aveva colpito l’Europa nel passaggio dall’antico regime alla società borghese, influendo sull’arte realista ottocentesca e sul suo sviluppo, fino all’avvento del cinema nero europeo. Quella trasformazione, che aveva terrorizzato la sensibilità degli intellettuali, colti dal panico all’idea che disgregazione e disordine si sarebbero infine imposti – circostanza in parte verificatasi e colta dall’espressionismo tedesco e dal realismo poetico francese – venne considerata invece dagli autori del western americano come uno snodo necessario, per quanto conflittuale e violento, per la definitiva affermazione della civiltà. Del resto, agli occhi dei cineasti statunitensi, impegnati a evocare l’epos della conquista di terre selvagge, non apparivano le rovine di Füssli, bensì un edificio che doveva ancora essere edificato. E, ne L’uomo che uccise Liberty Valance (1962), Ford tradì un atteggiamento positivista, facendo dei codici di legge un simbolo del progresso; allo stesso tempo, però, egli dimostrava un amaro attaccamento alle virtù tradizionali che avrebbero dovuto far posto ad esso. Ne risultò il più complesso tra i racconti di Ford, retto dal flashback – strumento narrativo straniante, tipico del noir – e iniziato sotto forma di inchiesta,

secondo il modello di Quarto potere o de I gangsters (1946). Nella relazione tra i due protagonisti maschili, divisi dall’amore per la stessa donna e, soprattutto, da una differente visione della giustizia, affiorava nondimeno la consueta condivisione dei fondamentali principi etici: essa avrebbe indotto uno dei due a compiere un sacrificio individuale in favore della collettività, per la quale era inevitabile evolvere attraverso la cultura e la civiltà impersonate dall’altro. L’ottimismo dei western di Ford, anche a fronte di tempi durissimi, potrebbe prestare il fianco all’accusa di aver scelto deliberatamente il film in costume per sottrarsi al confronto con i mali sociali della situazione contemporanea: un’impressione potenzialmente rafforzata dall’ostinazione con cui il regista continuò a ricorrere al bianco e nero pure molto dopo l’avvento del colore – ennesimo punto di tangenza con l’ideologia cinematografica di alcuni maestri del noir; basta pensare alla controversia legale che, in Francia, portò alla condanna dei responsabili della diffusione di una versione colorizzata di Giungla d’asfalto, in quanto lesiva del diritto d’autore alla conservazione dell’opera sotto la forma prescelta dal suo regista. Leggere i western di Ford alla luce delle incertezze legate al clima politico e alle tensioni sociali non è tuttavia un esercizio privo di senso – a differenza di quanto è capitato con riguardo ad altri capolavori del genere: come nel caso della pretesa di cogliere nella tensione di Mezzogiorno di fuoco (1952) e nel suo epilogo polemico una denuncia al clima di terrore provocata dalla caccia alle streghe del maccartismo. Al contrario, lo stesso Ford suggerì un adattamento dei principi della sua poetica western alle difficoltà prodotte dalla Grande depressione: un anno dopo Ombre rosse, egli tornò sullo spunto del viaggio verso ovest in Furore (1940), adattamento cinematografico dell’omonimo capolavoro letterario di John Steinbeck. In quello che a tutti gli effetti fu un western contemporaneo, il regista che meglio di chiunque altro aveva esaltato il senso di libertà che promanava dalla scenografia

naturale nordamericana, contrappose all’ampiezza dello spazio i vincoli, gli ostacoli e le barriere realizzate dall’uomo per l’uomo – paradigmatico l’accostamento della ripresa di uno sconfinato ranch a quella della folla accalcata alle sue porte, con i volti schiacciati contro le cancellate dell’ingresso. All’interno della dialettica tra la libertà dello stato di natura e i limiti artificiali imposti dalla società civile, gli uomini si riconoscevano e si riunivano sulla base non soltanto dei legami di sangue, ma anche delle affinità morali e della solidarietà. A quest’ultima, Ford contrappose l’avidità – esattamente come aveva fatto Dostoevskij nelle sue riflessioni sul borghese francese: quel sentimento logorante e distruttivo che aveva sconvolto le coscienze nell’età moderna. Lo stesso che avrebbe portato alla disfatta i protagonisti di von Stroheim, del gangster movie e del cinema noir. Lo stesso, ancora, che sarebbe affiorato ripetutamente anche nel western classico – si consideri, per esempio, Lo sperone nudo (1953), film realizzato da Anthony Mann, regista impegnato anche nella realizzazione di film noir. Coerentemente alla poetica che aveva elaborato ne I tre furfanti e in Ombre rosse, Ford applicò il suo messaggio di fiducia anche allo sviluppo di una vicenda di ambientazione contemporanea, premiando la fiducia che i suoi personaggi riposero nell’avvenire ed esaltandone la dignità del sacrificio. Il wester-n-oir

Il cinema western classico fu scolpito dai suoi padri in forme assolute e attribuendo a ciascun personaggio un ruolo stereotipato: ad ogni eroe la sua virtù e ad ogni virtù il suo eroe. Il noir, intanto, si incamminava su una strada ben più tortuosa: adottando la prospettiva di colpevoli, fatalmente destinati alla sconfitta, si era ritrovato in bilico tra le necessità

imposte dal codice deontologico – che non avrebbero mai permesso di giustificare il crimine – e una concezione antipositivista dei fenomeni sociali, per cui il catalogo dei comportamenti contenuti nei manuali di criminologia non poteva esaurire il numero delle condotte umane né si poteva avere la realistica pretesa di far aderire l’etica individuale con quella dei testi sacri o dei codici giuridici. Perciò emersero caratteri meno rigidi: non esistevano eroi tutti d’un pezzo, né virtù incrollabili, ma ogni uomo esisteva in perenne tensione tra bene e male. Una concezione che l’ondata di cineasti in fuga dall’Europa, dove avevano abbandonato parenti e amici rimasti fedeli ai propri governi, impose a Hollywood. Dunque non stupisce che la prima erosione del mito del far west, appena pochi anni dopo la sua celebrazione attraverso Ombre rosse, sia avvenuta ricorrendo allo spunto del linciaggio, che Lang aveva affrontato in Furia. Wellman, uno dei reduci del gangster movie, applicò i concetti langhiani della relatività della giustizia e della doppiezza umana al contesto della frontiera, in un angolo sperduto della quale i pregiudizi verso i forestieri e l’esasperazione, procurata dalla delinquenza incontrollata, erano prevalse sulla ragione e sulla pietà. Soprattutto, Wellman fu il primo a revocare in dubbio la convinzione di Ford e dei suoi epigoni secondo la quale sull’anarchia del far west si sarebbero infine affermati, secondo una logica di selezione quasi darwiniana, l’etica e l’ordine. Il suo capolavoro, Alba fatale (1943), invece di raccontare il trionfo della virtù, sviluppò una tragedia cupissima – che la ricostruzione in studio, decisa dalla Fox per risparmiare su un progetto verso il quale diffidava, e la fotografia di Arthur C. Miller, di chiara impronta espressionista, contribuirono a rendere ancora più inquietante. Di fronte alla storia che avanza impassibile, sovvertendo ognuno di quei principi stabiliti nella Dichiarazione di indipendenza e così spesso traditi, anche il protagonista si dimostrava incerto e disorientato: a differenza dello sceriffo di Mezzogiorno di fuoco, che avrebbe preferito affrontare

l’isolamento piuttosto che cedere alla paura, il cowboy interpretato da Fonda si sarebbe indignato troppo tardi per la violenza collettiva alla quale aveva preso parte insieme a fanatici, poco di buono e donne pronte a tutto pur di affermarsi all’interno di un universo tradizionalmente maschile. Di questa umanità Wellman sottolineò le terribili contraddizioni: una morale priva di onore e una giustizia non ispirata dal senso della pietà – esasperate dalla presenza dell’ubriacone forcaiolo e nel rapporto tra padre e figlio. L’atmosfera satura di perversione e di ossessione – che il destino, secondo una logica noir, portò al definitivo tracollo – venne raccontata ricorrendo a un’estetica anticonvenzionale: pur trattandosi di un film di ambientazione western, Wellman non ricercò il dinamismo, ma una narrazione statica, di taglio teatrale e abbondò in primi piani, piuttosto che in campi lunghi o lunghissimi, solitamente utilizzati per evidenziare l’interazione tra uomo e ambiente. L’oggetto del suo interesse, infatti, erano le relazioni all’interno della comunità e le reazioni dei personaggi, smascherate attraverso la tecnica sguardo – reazione. Perciò l’accusa, rivolta da una parte della critica al regista, di eccessivo rigor artis dimostrò di non comprendere che si trattò di una scelta deliberata, confermata da uno studio millimetrico del posizionamento di ciascun interprete di fronte all’obiettivo, fino a ottenere una successione di immagini dotata della stessa icasticità dei complessi scultorei dell’età classica. Una statua, ma viva e dolente: Alba fatale, infatti, sfruttò tutta la drammaticità del linguaggio cinematografico – vale a dire quella conferita dai movimenti della macchina da presa e dal montaggio – per scandire l’incedere lento ma ineluttabile della tragedia, fino al suo tristissimo epilogo. A proseguire il percorso intrapreso da Wellman fu, non troppo sorprendentemente, quel regista austriaco alla cui opera d’esordio quest’ultimo si era ispirato: solo Fritz Lang avrebbe potuto accostarsi al western con altrettanta diffidenza e con l’intenzione di svolgere un’indagine antropologica più sottile e penetrante di quella alla quale era abituato il genere.

Applicando il tema del doppio, da cui fu sempre ossessionato, e l’idea di un capobanda donna a un universo monodimensionale e maschilista, Lang scosse definitivamente le fondamenta del western classico, aprendo in esse una breccia che, nel giro di pochi anni, sarebbe stata allargata da altre opere di gusto e sensibilità analoghi. Era il 1952, in piena stagione noir, quando uscì Rancho Notorious, ambientazione western e anima noir. La struttura – la forma interna – era articolata infatti sul flashback e il mito di Ambra Altar Keane, interpretata dalla inarrivabile Dietrich, venne ricostruito secondo lo schema dell’inchiesta, destinata per definizione a risentire della relatività che condiziona i ricordi e i giudizi dei soggetti interpellati. Se è vero che l’aspetto esteriore riproponeva le ambientazioni del far west, è altrettanto evidente che, anche a livello estetico, l’opera di Lang presentò tratti anticonvenzionali: dovendo fare i conti con le ristrettezze di budget che lo afflissero durante tutta la sua produzione americana, il regista estremizzò un concetto con il quale sarebbe dovuto scendere comunque a patti e insieme a Wiard Ihnen concepì una scenografia volutamente antinaturalistica, sottolineando la distanza rispetto al modello fordiano dei grandi spazi liberi ed esasperando l’impressione di soffocamento che ambiva a suscitare. Aderendo alla prospettiva soggettiva del protagonista, il pubblico doveva infatti venir risucchiato nell’ossessione per la vendetta che divorava progressivamente l’uomo, a caccia degli assassini della moglie, e condividerne la parabola autodistruttiva che lo trasformava da mite coltivatore in spietato pistolero. Per ritmarne i passaggi, Lang ricorse alle strofe di una ballata – la cui valenza narrativa costituiva un omaggio alle vecchie didascalie nel cinema muto – che si concludevano tutte con le parole hate, murder and revenge, vale a dire i motivi del film: odio, omicidio e vendetta. Ma il testo era importante anche per le sue allusioni al fato che, come la ruota della roulette, determinava la sorte degli uomini: «ascolta la Ruota del Fato

mentre gira e rigira, con un mormorio, sussurra l’antica storia di odio, assassinio e vendetta». Lang conferì così al tema musicale del film western una funzione ulteriore rispetto a quella che gli aveva assegnato Ford – interessato prevalentemente ad accentuare il carattere folcloristico dell’epica della frontiera – e questa soluzione riscosse un grande successo, venendo in seguito riproposta da Dimitri Tiomkin in Mezzogiorno di fuoco di Zinnemann e nei classici di Hawks Un dollaro d’onore ed El Dorado, durante i quali è legittimo spingersi a sostenere che le sue partiture contribuirono alla direzione del ritmo narrativo. L’attribuzione di un preciso significato, rilevante nella comprensione complessiva dell’opera, era chiaramente ispirata al ruolo che il motivo musicale aveva nel cinema nero, fin da L’angelo azzurro (1930), e che lo rendeva spesso una cosa sola con l’interprete femminile – come nel caso di Rita Hayworth nel già citato La signora di Shanghai e in Gilda (1946). Tipicamente noir erano anche i personaggi e il modo in cui il regista austriaco li tratteggiò: il protagonista era ambiguo e ricorreva alla menzogna; il suo antagonista non poteva riscattarsi dal passato a cui era incatenato; la figura femminile – ispirata al tipo della donna fatale, irresistibile e astutissima – manovrava lucidamente le controparti maschili. Tuttavia fu proprio nel profilo della Dietrich che il passaggio da un genere all’altro non venne completato, giacché, come sottolineò la critica cinematografica Lotte Eisner, nei noir puri «una simile donna avrebbe rovinato gli uomini, qui invece salva il suo vecchio amante facendogli da scudo con il proprio corpo». Dunque Lang aveva realizzato un film originalissimo, in cui i personaggi maschili si trasformarono da eroi western in antieroi noir, mentre la dark lady trovò nel finale un riscatto morale degno del sacrificio dei tre furfanti di Ford. Ancora più conforme al modello della femme fatale fu la caratterizzazione della protagonista di Quaranta pistole (1957), film diretto da Samuel Fuller che si era distinto, tra

l’altro, anche nella regia un insolito racconto ispirato ad atmosfere noir, Mano pericolosa (1953). Barbara Stanwyck, leggendaria amante spietata de La fiamma del peccato (1944), riuscì a conferire fascino e mistero degni del tragico epilogo che Fuller aveva immaginato per lei: la produzione, però, impose uno stonato lieto fine incapace di armonizzarsi in maniera credibile con il clima morboso della prima parte del racconto, dominato da una violenza, spesso gratuita, degna del gangster movie e dalla tensione provocata dall’abilità registica di alternare attese logoranti e repentini stravolgimenti. Altro cineasta dedito al noir, Nicholas Ray diresse un western atipico quanto quelli di Lang e di Fuller, incentrandolo lui pure, in particolare, sulla androginia della protagonista femminile, a proposito della quale un personaggio sosteneva: «mai vista una donna più uomo di lei». Il film in questione è Johnny Guitar (1957), nel quale Ray propose un insolito confronto tra la locandiera Vienna e la sua rivale, non meno determinata e aggressiva – che non riusciva ad ammettere di provare un sentimento d’amore poiché ciò «la fa sentire donna. E questo la fa impazzire di rabbia». Caratteristica essenziale del film fu l’eccesso, non solo cromatico – ottenuto grazie al Tru – Color, procedimento caratteristico della casa di produzione Republic Company, che Ray sfruttò in funzione narrativa – ma anche sentimentale. Si trattò, anzi, di un melodramma esasperato, costruito su due triangoli amorosi tangenti e sul continuo scambio di ruoli – in particolare, nel passaggio da quello prevalentemente passivo, che la tradizione western attribuiva alla donna, a uno di assoluto primo piano, solitamente riservato ai personaggi maschili. Ribaltando in maniera straniante i più radicati cliché, Ray ricercò l’ambiguità tipica del noir, spesso costruito sul doppio gioco e sulla capacità della donna fatale di assumere espressioni diverse. Quanto al protagonista maschile, dal cui soprannome venne tratto il titolo del film – inducendo forse ad attribuirgli un peso maggiore di quello che in realtà non aveva – egli fu

interpretato da Sterling Hayden, uno degli attori simbolo del film noir. Johnny Guitar, suonatore e pistolero secondo un tipico connubio western, era in verità un personaggio d’ascendenza nera, perseguitato da un passato misterioso e segnato da un destino capriccioso. Se nella poetica di Ford e di Hawks, di Mann e di Boetticher era l’affinità morale ad avvicinare due individui, nel film di Ray, Johnny e Vienna sembrarono condividere soprattutto il loro dolore, scaturito nel caso di entrambi dalla predestinazione alla sconfitta e dal pregiudizio della comunità di cui sono vittime. La condizione di reietto, costretto ai margini della società, era del resto un elemento comune a noir e western, i quali tuttavia affrontarono questo spunto in maniera differente. Il trattamento che Ray vi riservò si ispirava alla malinconia che aveva caratterizzato Sono innocente (1938) e Alba fatale (1943): la protagonista era la vittima innocente di un’ingiusta persecuzione per colpe che non aveva – perciò, in una sequenza fortemente drammatica, durante la quale il contrasto cromatico raggiunse eccezionale forza espressionista, il regista la vestì di bianco, simile a una colomba in mezzo a un branco di carnefici in nero. Nel corso di questo cieco accanimento, i suoi accusatori non esitarono a estorcere con sadismo la confessione di un giovane fuorilegge pur di procurarsi delle prove contro di lei e anche in questa soluzione la critica ha colto la ribellione artistica di Ray nei confronti dei metodi con cui il maccartismo perseguì i filocomunisti di Hollywood. Che questo fosse l’intento del regista di Johnny Guitar o quello di Zinnemann, è indubbio che i due adottarono soluzioni diverse per esprimere la propria indignazione nei confronti della caccia alle streghe che rischiò di soffocare il cinema americano: il primo adottò i toni cupi del wester – n – oir per raccontare il travaglio di tormentati antieroi, mentre il secondo celebrò l’ostinata caparbietà di un eroe degno della tradizione epica del western classico – insomma due opposti atteggiamenti di fronte alla medesima crisi.

Dopo questa prima contaminazione ad opera di registi appartenuti alla generazione hollywoodiana classica – per effetto della quale è avvenuta una progressiva sconsacrazione del genere – in epoca più recente, il western ha cessato persino di identificare un genere, vale a dire un insieme di caratteristiche corrispondenti a una poetica precisa, per assumere piuttosto la funzione di mera ambientazione, nulla più che lo sfondo per lo svolgimento di una narrazione impegnata in riflessioni talvolta molto distanti da quelle che avevano contraddistinto l’archetipo fordiano. Il processo di progressiva astrazione rispetto ai principi ideologici sui quali si fondava il modello classico raggiunse uno dei punti estremi ne La sparatoria (1967), film diretto da Monte Hellman. L’intelaiatura dell’opera era quella tradizionale: lo scenario del deserto e il tema della vendetta. Nondimeno, a dispetto dell’estetica, si trattò di un racconto di rara cupezza, saturato dall’ossessione e dall’odio, senza alcuno spazio residuo per il senso della pietà. Per tutta la durata dell’opera incombeva sullo spettatore l’impressione del pericolo imminente, evocato dall’utilizzo di angolazioni di riprese irregolari finalizzate a limitare lo sguardo, suscitando incertezza e sospetto – in linea con la tecnica dello straniamento che il cinema nero aveva da tempo definito. All’interno della cornice western, Hellman realizzò un thriller – il mistero, infatti, si dissipava pressoché immediatamente – nel corso del quale la tensione scaturiva dagli improvvisi schiaffi assestati dalla macchina da presa, come nel caso del rapido stacco con cui lo sguardo di Nicholson si materializzava all’orizzonte, mentre l’evoluzione della trama seguiva un percorso prevedibile e ineluttabile, secondo una rigorosa logica noir. Propria del noir e coerente con le sperimentazioni intraprese da Lang, da Fuller e da Ray fu anche la centralità assegnata al personaggio femminile: una dark lady spietata e disumana, sinistramente imparentata con l’algida e impassibile protagonista de La sposa in nero (1968) di Truffaut.

Il suo sguardo glaciale possedeva il fascino magnetico con cui ella riusciva a incatenare al proprio volere le controparti maschili ridotte a burattini privi di volontà propria, svuotati di sentimento: invero, ciò che rese La sparatoria un esempio di wester – n – oir ineguagliato quanto a perversione e straniamento fu appunto la disumanizzazione dei personaggi coinvolti, ridotti a spettri e ombre, impegnati ad aggirarsi senza alcuna consapevolezza attraverso il deserto, che assunse evidente funzione metaforica. Hellman era riuscito a mettere in scena l’immagine abissale del vuoto esistenziale: una condizione nella quale era sprofondata la coscienza umana di fronte alla contemplazione dell’incertezza, quella che il regista sostenne di aver provato alla notizia dell’uccisione di Kennedy rimasta irrisolta. Questa agonia esistenzialista produsse un andamento narrativo snervante ottenuto attraverso un montaggio a giri ridotti, curato dallo stesso regista e improvvisamente attraversato da qualche brusco fendente, per effetto del quale venne realizzata una perfetta corrispondenza con il ritmo sincopato dello snervante accompagnamento musicale – al quale, dunque, venne attribuita nuovamente funzione metanarrativa. L’impressione che Hellman abbia condotto un’indagine esistenziale dagli esiti sconcertanti venne ulteriormente rafforzata dal particolare – svelato con un ralenti di grande effetto – dell’identità tra l’uomo inseguito e quello che guida gli inseguitori: una trovata che conferì all’intreccio aspetto circolare, richiamando la concezione della vita umana, come scaturigine dal nulla e ritorno al nulla stesso, propria del pensiero esistenzialista. L’astrazione di Hellman, fortemente contrastante con la concretezza polverosa e materica del western classico, fu replicata, sia pure a un diverso scopo, anche da Eastwood ne Lo straniero senza nome (1973); tuttavia all’attore e regista si dovette un altro wester – n – oir, ben più significativo. Gli spietati (1992) è un film nel quale i valori etici non vennero soltanto alterati, ma furono espunti del tutto: si completava

quel processo per cui il genere, allorché veniva affrontato con piglio autoriale, finiva per essere totalmente svuotato della sua poetica tradizionale e per scoprirsi incapace di conservare il ruolo alternativo al cinema nero che Ford ed epigoni gli avevano assegnato durante la stagione classica hollywoodiana. Eastwood sostituì quelli che erano stati i principi dai quali scaturiva una narrazione di tipo evolutivo – lo stimolo dell’onore, l’impegno e la gratificazione per il lavoro ben fatto, l’intervento di una giustizia poetica – con elementi di ancoraggio a un’immutabile realtà di dolore e di violenza – la rassegnata disperazione, la mancanza di principi di riferimento, la missione priva di motivazioni ideali – svolgendo così, all’interno della cornice offerta dall’ambientazione della selvaggia frontiera, una riflessione amara e impietosa sulla gratuità della violenza umana. Compiendo una realistica revisione critica della Storia, egli realizzò una strage di innocenti – la prostituta sfregiata, il cowboy compassionevole, l’unico sicario che non ha sparato neppure un colpo: alla fine, non resiste il meno colpevole, ma solamente il più fortunato. Giacché «i meriti non c’entrano in queste storie». Così Eastwood portò alle estreme conseguenze la revisione avviata da Wellman e da Lang sulla complessità del carattere umano, abbandonando la rassicurante concezione monodimensionale che nel cinema fordiano soltanto Doc Hollyday aveva superficialmente intaccato, ritraendo un universo in cui non esisteva più alcuna innocenza. E ogni tentativo di evolvere e di riscattarsi – centrale nel cinema western classico, fondato proprio sul ribaltamento delle prospettive di partenza – era, nell’ottica de Gli spietati, destinato a fallire frustrato dalla debolezza della natura umana e dall’avversione del destino. Per sostenere questa tesi, il regista ricorse a uno scenario oscuro e violento, esplorato in controluce, durante riprese notturne e insidiose o all’interno di ambienti scuri e soffocanti, mentre i panorami diurni furono intorpiditi appiattendone i colori fino a raggiungere

l’impressione di una monocromia che richiamasse una concezione dolorosa e alienata dell’esistenza. I personaggi risultavano così inghiottiti dall’ombra, attraversati da un’oscurità che assumeva il significato del dilagante e spaventoso vuoto etico, nel quale tutti, fuorilegge e sceriffo in egual modo, assecondavano i peggiori istinti. In questo modo Eastwood recuperava uno dei temi della tradizione – l’irrilevanza delle etichette sociali – al solo scopo però di rovesciarlo totalmente: nella sua visione non era il fuorilegge a dimostrare di possedere una propria virtù, ma l’uomo di legge a ostentare assoluta mancanza di scrupoli e di umana compassione. Al dilagare di una violenza incontrollata, prodotta dalla convergenza sullo stesso luogo di pistoleri predestinati a darsi la caccia a vicenda per affermare la propria supremazia, assistevano due sguardi opposti: quello inorridito della prostituta sfregiata e quello perversamente compiaciuto del biografo. In un mondo dominato da ferocia e sopraffazione, Eastwood ammetteva che restasse libera almeno la scelta di approvare o condannare la deriva alla quale l’umanità si era avviata. Nell’ambito di questo discorso, merita poi particolare rilievo un’altra opera dall’ambientazione western ma dalla poetica noir, Il tesoro della Sierra Madre (1948), film diretto e sceneggiato da John Huston, uno dei padri del cinema nero, partendo dall’omonimo romanzo del misteriosissimo B. Traven – autore la cui identità non è stato ancora possibile accertare in maniera definitiva. Al riguardo, la ricostruzione dotata di maggior credito, proposta dallo scrittore e politico Erich Mühsam, identificò in lui un tedesco di nome Ret Marut, che aveva collaborato dal 1917 al 1921 alla pubblicazione di una rivista anarchica, Der Ziegelbrenner. Di costui, in Germania, si perse ogni traccia dopo la caduta della Repubblica Sovietica di Monaco di Baviera alla cui breve esperienza avrebbe preso parte; nel 1923 fu arrestato a Londra, per non essersi sottoposto alla registrazione come straniero; espulso dall’Inghilterra nel 1924, partì alla volta del Messico,

mentre la prima pubblicazione a nome di B. Traven, avvenuta sul quotidiano berlinese Vorwärts, risale al 1925. Di fatto, chiunque fosse B. Traven – al quale, negli anni Sessanta, era intestata una casella di fermo posta in Messico – è indubbio il suo interesse per la condizione di reietti, disperati e ribelli, testimoniato da opere come La nave della morte e La ribellione degli impiccati, nelle quali veniva svolta una feroce polemica nei confronti del sistema capitalistico e dello sfruttamento dei lavoratori. Uno spunto che ispirava anche la figura del disonesto e violento datore di lavoro de Il tesoro della Sierra Madre. Huston seppe adeguare l’inquietudine del romanzo alla poetica noir, che lui stesso aveva contribuito a definire, realizzando un capolavoro saturo di ambiguità e di ossessione, Il mistero del falco (1941). Allo stesso tempo, il regista americano ne valorizzò l’esotismo e l’illimitatezza spaziale, dimostrando la naturale inclinazione umana a lasciar prevalere gli istinti primordiali sulla morale, conformemente a una visione che Tourneur e Welles avevano già espresso un anno prima, rispettivamente ne Le catene della colpa e ne La signora di Shanghai. Oltre agli scenari selvaggi delle alture messicane, anche l’inziale inquadramento del racconto procedeva d’altra parte secondo la concezione che si era imposta nel classico film western, presentando l’aggregazione spontanea di personaggi emarginati che, nel tentativo riscattare un’esistenza vissuta in una terra straniera e ostile, bruciata dal sole – sotto il peso di un malessere paragonabile a quello provato dall’esule bandito della casbah algerina – a campare di espedienti e a lottare di continuo contro la miseria, decidevano di unire le forze in un’audace impresa, degna dei pionieri nordamericani. Tuttavia, il regista si premurò di sottolineare come la stretta di mano, che certificava la condivisione di principi e valori morali tra i due giovani – in precedenza i due, dopo la resa dei conti con l’uomo che li aveva imbrogliati, non avevano rubato, ma preso soltanto ciò che spettava loro – fosse avvenuta proprio sotto lo sguardo dell’anziano cercatore d’oro,

ben consapevole della forza disgregante che l’ossessione della ricchezza avrebbe scatenato sul trio. Anche in seguito, questo personaggio avrebbe assistito in silenzio – ripreso in primo piano – ai vari passaggi della degenerazione del rapporto tra i suoi compagni di avventura. Già in questa prima parte, comunque, Huston ricorse a una rappresentazione fortemente realista, caratterizzata dal taglio documentaristico delle riprese all’interno dei dormitori e dalla ripetitività dell’episodio delle elemosina, che egli stesso interpretò. Inoltre, fu significativo che la spedizione alla ricerca dell’oro fosse stata resa possibile da un’improvvisa vincita alla lotteria, una fortuna del tutto inattesa. Ma si sarebbe trattato di un’autentica benedizione? Oppure, an cora una volta, il destino stava tramando con sadica ironia? La seconda parte del film assunse toni ben più cupi, nonostante la luminosità della scenografia naturale – della quale comunque la straordinaria fotografia in bianco e nero, irrinunciabile per Huston, esaltò l’ambiguità chiaroscurale. Diffidenza e avidità li avrebbero presto avvelenati – si confronti l’espressione trasfigurata di Bogart, al momento della divisione dell’oro, con quella pressoché identica che lo stesso attore aveva interpretato in attesa di scoprire se la statua in suo possesso corrispondesse davvero al leggendario falcone maltese – e condannati alla solitudine, imprimendo al racconto una tragica svolta destinata a risolversi in beffa finale. Che avrebbe coinvolto sia chi era ormai irrimediabilmente contagiato dai più terribili complessi, sia coloro che avevano tentato di restare fedeli a principi della lealtà e dell’umanità: in questo senso, la disfatta generale andò persino oltre la logica retributiva tipica del noir. Sebbene per i secondi il futuro avrebbe potuto riservare ancora un’opportunità di riscatto. Agendo sullo sfondo della loro lenta ma inesorabile rovina, i banditi messicani che infestavano le alture costituivano una variazione al tema della minaccia perennemente incombente sull’uomo, suscitando uno stato di paura isterica, che cresceva

con l’aumentare della ricchezza accumulata – giacché, come i borghesi parigini delle Note invernali di Dostoevskij, «quando si è raggiunto tutto, diventa molto pesante il pensiero di poter perdere tutto». Anche loro, alla fine sarebbero stati travolti dalla maledizione dell’oro, così miserabili da non accorgersi neppure della fortuna in cui si erano imbattuti e che avrebbero letteralmente gettato al vento. Tutto ciò rendeva la Sierra Madre, lungi dall’essere un paesaggio capace di suscitare nell’uomo la serenità bucolica favoleggiata da tanti antieroi noir, idealmente in fuga dalla metropoli, proprio come quest’ultima: un inferno, in cui temere costantemente di essere sopraffatti, dai predatori come dalla fatica. Il commento musicale del racconto, composto da Max Steiner, assecondò le variazioni di tono del film – contribuendo a renderle più evidenti ma, allo stesso tempo, anche più sconcertanti – e svolse una precisa funzione espressionista, esasperando le emozioni provate dai personaggi, sempre più soggetti a repentini e incontrollati sbalzi d’umore: dalla gratitudine all’odio, dalla solidarietà alla diffidenza, dall’istinto omicida alla compassione per una vedova. Il film riscosse un grande successo di pubblico e di critica, aggiudicandosi l’Oscar per la migliore regia, per la migliore sceneggiatura non originale e per il migliore attore non protagonista – a Walter Huston, padre del regista, che interpretò la figura dell’anziano. Questa venne caratterizzata da quella contraddittorietà tipica di una concezione langhiana dell’uomo: assillato dalla febbre dell’oro, egli non esitava tuttavia a definire «sporca» la «bella civiltà» capitalistica, nella quale ogni rapporto veniva regolato dall’interesse economico.

La letteratura hard boiled, cinema e caccia alle streghe

Accanto alla elaborazione di canoni stilistici improntati alla più o meno consapevole neutralizzazione dei fenomeni di crescente insofferenza, alcune forme di intrattenimento continuarono ad assecondare l’interesse del pubblico americano per figure solitarie, ciniche, irriverenti e aggressive – sul cui modello sarebbero stati definiti molti antieroi del cinema noir – dimostrando con la loro popolarità il perdurante sentimento di simpatia nei confronti dell’inquietudine che, sia pure sotterranea e silenziosa, covava sotto l’apparenza dell’ordine sociale. E allargava la frattura tra l’élite al governo e le masse popolari che la Seconda guerra mondiale, a dispetto del patriottismo della propaganda bellica, avrebbe contribuito a esasperare, acuendo miseria, fame e paura: l’esordio della stagione del noir coincise infatti con il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nel conflitto e crebbe in cupezza al momento del ritorno dal fronte, quando i reduci dovettero fare finalmente i conti con l’incubo della guerra, con i rimorsi legati all’uso spregiudicato dell’atomica e, soprattutto, con l’insicurezza del futuro. Infatti, come sostenne Zinn ricostruendo il clima dell’epoca, «l’opinione pubblica americana era stanca della guerra, ma l’amministrazione Truman si adoperò per creare un’atmosfera di crisi e di guerra fredda. Certo, la rivalità con l’Unione Sovietica era reale […]. L’amministrazione Truman, tuttavia, presentò l’Unione Sovietica non solo come una rivale, ma anche come una minaccia immediata. Assunse una serie di iniziative, all’estero e all’interno, per instaurare un clima di paura e di isteria nei confronti del comunismo». Oltre allo scopo economico, era evidente anche l’intenzione di stroncare la sinistra che «aveva acquistato un’influenza notevole nei tempi duri degli anni trenta e durante la guerra contro il fascismo. […] Se perciò, dopo la Seconda guerra mondiale, l’establishment voleva rafforzare il capitalismo all’interno del paese e costruire un consenso a sostegno dell’impero americano, doveva indebolire e isolare la sinistra». Nel 1947 venne quindi avviato un programma di indagini per individuare qualsiasi infiltrazione di persone inaffidabili che coinvolse sei milioni di dipendenti

pubblici mentre il senatore Joseph McCarthy scatenò sul mondo della cultura e dell’arte la caccia alle streghe che avrebbe coinvolto, tra gli altri, anche Dashiell Hammett. Il clima di panico che ne scaturì provocò quel sentimento di diffidenza che aleggiava in tutti i film noir, la cui poetica era appunto improntata al sospetto e al pericolo imminente, dai quali derivava l’impressione di solitudine e abbandono. Ma sarebbe un errore ritenere che si trattasse di una novità: l’angoscia era diffusa da tempo e già all’esito della Prima guerra mondiale, il più impopolare conflitto che gli Stati Uniti avessero combattuto sino ad allora, il cittadino americano avvertiva la mancanza di riferimenti – come evidenziò Richard Layman nella sua biografia di Hammett, sostenendo che la narrativa hard boiled «rifletteva l’ambivalenza morale dell’America del dopoguerra, mettendo in luce il bisogno di codici di comportamento individuali in un’epoca in cui le istituzioni civili e religiose vacillavano». Emerge così l’importanza della letteratura criminale degli anni venti: essa definì l’anima tormentata e dolente che avrebbe contagiato il cinema noir, determinando il passaggio di testimone dai racconti diffusi sulle riviste come black mask ai B movies. Un ruolo decisivo fu assolto proprio da Hammett, il quale iniziò il processo evolutivo in direzione del realismo, abbandonando eccessi e artifici che caratterizzavano tanto la narrativa investigativa della cosiddetta Golden Age, quanto lo stile hard boiled degli albori – come evidenziò Richard Layman: «mentre i detective della Golden Age (Sherlock Holmes di Conan Doyle, lord Peter Wimsey di Dorothy Sayer e Philo Vance di S.S. Van Dine) erano persone dotte con metodi altamente sofisticati di accostarsi ai crimini – spesso simili a puzzle intricati più di quanto non siano i crimini reali – Race Williams e i tanti protagonisti del cosiddetto hard boiled creati a sua immagine erano supereroi di un’altra specie, che agivano in un mondo altrettanto inverosimile di violenza estrema. Il grande merito di Hammett in quanto scrittore fu quello di rendere verosimile il poliziesco. Per lui

hard boiled non significava impassibilità di fronte al sangue. Il termine piuttosto esprimeva lo spietato realismo dei suoi personaggi, che accettavano senza eccessive emozioni la realtà del mondo del crimine, come fanno gli investigatori reali, che un po’ hanno fatto il callo a quel mondo e un po’ continuano a esserne spaventati». Fu appunto il realismo a informare il profilo di personaggi pluridimensionali, come sarebbero stati quelli elaborati in seguito anche dal cinema noir: basterebbe prendere in considerazione la dedizione con cui i criminali svolgevano la propria attività o con cui i detective privati si mettevano sulle loro tracce, per rendersi conto che si trattava di una caratteristica comune ai protagonisti del western classico – un eroismo insomma rivolto a uno scopo antieroico; l’ambizione e l’avidità che li divoravano richiamavano invece la perversione di quelli elaborati dal genere gangster e conferirono loro il coraggio e la determinazione degni di un eroe – sia pure votato a un’esistenza antieroica. Lo stereotipo noir risulta dunque modellato attingendo ai generi della tradizione cinematografica – oltre che letteraria – nordamericana, la quale risentì a propria volta dell’influenza del romanticismo europeo, importato a Hollywood da autori come von Stroheim, von Sternberg e Lang. Di quest’ultimo, in particolare, il cinema noir condivise il tema della doppiezza, facendo convivere nello stesso animo caratteristiche eroiche e inclinazioni antieroiche; la realistica coesistenza di coraggio e di paura – o, meglio, di attaccamento alla vita e di totale abbandono alla rassegnazione – della quale parlava Layman riferendosi allo sguardo di Hammett. Queste figure tormentate, intente ad aggirarsi per la città col favore della notte, vennero collocate all’interno di un universo anticonvenzionale, i cui principi ispiratori non coincidevano quasi mai con quelli della legge e della morale comune, espressione della mentalità borghese che la letteratura criminale, prima, e il cinema noir, poi, non attaccarono apertamente quanto altri generi affini, ma che considerarono in maniera implicita responsabile del degrado dilagante che

aveva prodotto l’ondata di disobbedienza e di delitti. Di fronte alle regole di una società spietata e ipocrita, gli antieroi comprendevano di trovarsi «fuori tempo», avvertendo l’impossibilità di superare la condizione di isolamento nella quale benpensanti e moralisti li avevano relegati. In un altro scenario, quello della frontiera selvaggia in un’epoca lontana, forse avrebbero potuto ottenere il loro riscatto – proprio come il personaggio di Napoleone Wilson in Distretto 13, le brigate della morte (1976) – ma, sopraffatti dal progresso e rinchiusi nei labirinti d’asfalto delle grandi città, non avevano più alcuno scampo. Una concezione così amara corrispondeva ai sentimenti provati da una generazione che aveva vissuto due conflitti mondiali a poca distanza l’uno dall’altro, si era sentita ripetutamente ingannata o delusa dal proprio governo e non aveva visto risolvere i numerosi problemi di disuguaglianza, di povertà, di insicurezza: ora che un pubblico sempre più vasto chiedeva di essere intrattenuto, i racconti criminali non potevano più orientarsi allo svago per gentlemen che era stato inaugurato da Edgar Allan Poe con I delitti della Rue Morgue, e venne successivamente sviluppato da Conan Doyle, da Agatha Christie, da J.S. Fletcher, da Dorothy Sayers e, in America, da S.S. Van Dine. Al contrario divennero sempre più popolari i «racconti di giorno», che la rivista Black Mask invitava a leggere appunto alla luce solare «perché chi ha i nervi fragili non deve leggerli di notte»: la cruda rappresentazione della verità aveva preso il posto della sofisticata finzione intellettuale; il noir avrebbe in breve sopravanzato il whodunit.

PERCORSI NOIR Il contesto urbano

Il realismo si ripropose di collocare i protagonisti delle sue rappresentazioni all’interno del loro ambiente di vita quotidiana, senza idealizzazioni e ipocrisie: per l’arte fu una rivoluzione, almeno quanto per la produzione, per i commerci e per i trasporti lo era stata quella industriale. Mano a mano che quest’ultima stravolgeva abitudini e ritmi, trasformava il paesaggio, determinava l’abbandono dei campi in favore delle fabbriche urbane, gli intellettuali, sconcertati e traumatizzati da tanti improvvisi cambiamenti, si interrogarono sul significato e sugli effettivi benefici del progresso. La città moderna divenne il centro dell’interesse e dell’indagine artistica, attirata dal fascino magnetico, atterrita dal degrado disumano. Per le sue strade rumorose, correva un traffico impazzito e si imponevano nuovi modelli relazionali, sempre più improntati alla superficialità e alla fretta. Il tempo, nella grande metropoli, non era mai abbastanza per dedicarsi ad altro che agli affari e agli scambi, alla ricerca continua di un modo, più o meno lecito, per accumulare ricchezza – l’unico metro per misurare l’altezza della propria posizione sulla scala gerarchica della società borghese. Dai romanzi dei naturalisti francesi, passando per Dostoevskij, Baudelaire e gli scapigliati, fino ai dipinti di Van Gogh e di Munch, di Kirchner e di Grosz, dalla seconda metà dell’ottocento in poi, gli artisti non riuscirono più a interrompere la relazione di amore e odio che intrattenevano con la città, salvo tentare fughe disperate come quelle di Gauguin, di Rimbaud e di Conrad. Pazzia, isteria, nevrosi vennero spesso associate alla vita urbana e gli incubi che ne scaturivano trovavano spiegazione nella maledizione legata alla città – come nel caso dei racconti pietroburghesi di Gogol.

Questa coincidenza tra il disordine mentale e quello contestuale si impose al cinema grazie a Il gabinetto del dottor Caligari (1920) i cui scenografi si ispirarono alla tensione dei paesaggi cittadini di Kirchner, attraversati da fendenti affilati, spigolosi, pungenti.

Il cinema espressionista dell’epoca di Weimar elaborò una concezione del rapporto intercorrente tra lo spazio interiore e quello esteriore fondato sul continuo e reciproco scambio di stimoli: l’ambiente circostante, impressionando i sensi dell’individuo, provocava in lui reazioni che influivano sulla sua successiva percezione della realtà circostante che, di conseguenza, risultava trasfigurata di fronte al suo sguardo. Il cinema noir – sotto l’influenza dei registi, degli sceneggiatori, degli scenografi e dei fotografi provenienti dall’Europa – recepì sia l’interesse per la rappresentazione delle manifestazioni psichiche, mettendo ripetutamente in scena incubi, visioni e alterazioni percettive d’altro genere, sia la relazione spazio – mente, proiettando sulla scenografia segnali relativi allo stato soggettivo del personaggio e approfondendo l’influenza ambientale esercitata dal contesto di vita. Al riguardo, assunse indubbio rilievo anche lo studio criminologico, più o meno scientifico, sotteso alla diffusa letteratura hard boiled: racconti e romanzi non si erano limitati a raffigurare un panorama di dilagante violenza e di caos morale, ma si erano spinti a trovarne la spiegazione nelle particolari condizioni della vita cittadina. Nulla di nuovo, in verità: già Dostoevskij, padre del romanzo criminale – psicologico, aveva intrecciato la vicenda di Raskol’nikov con quella dei degradati paraggi di piazza Sennaja; lo stesso avrebbe fatto più tardi Döblin in Berlin Alexanderplatz. Un’altra fonte di ispirazione del cinema nero furono certamente i documentari che durante gli anni del muto erano stati realizzati per le vie delle città – opere come Berlin, die Sinfonie der Groβstadt (1927), L’uomo con la macchina da presa (1929) e À propos de Nice (1930), oltre a dimostrare le potenzialità del linguaggio cinematografico di coniugare esigenze di veridicità con aspirazioni artistiche, fornirono uno spunto tecnico e logico, aprendo la strada all’idea della macchina da presa calata in mezzo alla gente, alla ricerca del massimo realismo, durante il pedinamento discreto, quasi investigativo, dei suoi obiettivi narrativi.

Ma non meno rilevanti furono anche modelli americani, come l’attenzione dedicata al contesto urbano dal fotografo pittorialista Alfred Stieglitz e da sua moglie, la pittrice Georgia O’Keeffe; come le opere di Edward Hopper, che si concentrò sul tema della solitudine della vita metropolitana – se ne potrebbe confrontare il dipinto noir I nottambuli con Il caffè di notte di Van Gogh – e quelle di George Bellows e degli altri seguaci della Ashcan School, attratti dall’oscurità e dalla violenza dei quartieri proletari e degli incontri di boxe; come, ancora, la sconcertante fotografia muckraker di impegno sociale di Jacob Riis, di Lewis Hine e di Weegee – quest’ultimo fu il primo newyorkese autorizzato a equipaggiare la propria automobile privata con lo stesso sistema radio utilizzato dalla polizia, circostanza che gli permetteva di giungere sul luogo di un crimine o di un incidente contemporaneamente alle forze dell’ordine, se non addirittura di precederle: un vero e proprio nightcrawler, proprio come il personaggio di Jake Gillenhaal nel neo – noir Lo sciacallo.

La città nuda

La città nuda (1948) di Jules Dassin non è un noir: il film raccontava le indagini condotte da una coppia di ispettori di polizia, accompagnandoli nell’arco delle loro ricerche fino al raggiungimento del loro scopo. Veniva perciò celebrato – attraverso un andamento narrativo da thriller, organizzato attraverso l’alternanza di problemi e soluzioni – il successo delle forze dell’ordine sulla malavita. Eppure quest’opera assunse notevole importanza nella ricostruzione del contesto cittadino in cui sarebbero stati ambientati i grandi classici del noir, anche in ragione

dell’approccio documentaristico che Dassin adottò ottenendo un risultato dotato di straordinario realismo. Residuava comunque spazio per la finzione ed esso venne colmato attingendo al repertorio del genere: la notte complice del delitto; l’ambizione autodistruttiva; la scoperta di realtà sconcertanti all’esito dell’inchiesta; l’inarrestabile contagio della perversione. Soprattutto, l’attribuzione alla città di personalità propria, sostenendo che possedesse la vocazione a essere il teatro della degenerazione morale dei suoi abitanti, troppo deboli per resistere alle tentazioni a cui erano esposti: la combinazione di luci e di suoni, i traffici continui, la ricchezza di distrazioni e di opportunità le conferivano il fascino irresistibile di una dark lady, capace di esercitare un’attrazione fatale per i più ambiziosi. E Dassin denudò quella femmina seducente e mortale, per svelarne l’anima scura e inquieta. Là, in mezzo alla strada, sull’asfalto rovente, egli passò in rassegna l’umanità che ribolliva nel calderone metropolitano: i bambini raccolti attorno all’idrante o impegnati a saltare la corda; gli operai sui grattacieli in costruzione; gli automobilisti esausti in coda sulle sopraelevate; fiumi di gente sgorganti dalle rampe degli accessi alla metropolitana. E poi i palazzi slanciati in stile neoclassico, gli enormi caseggiati di periferia, le villette a schiera dei quartieri residenziali; panni stesi nei cortili e scale antincendio: in una parola New York. Un gigante in grado di schiacciare sotto il proprio peso gli animi più deboli e incerti; un galoppo instancabile e sfrenato, indifferente verso chi restava indietro o crollava per il troppo sforzo. Una vera giungla, dove il più debole soccombeva e solo il più forte riusciva a sopravvivere. Gli interpreti del film vennero invitati a mettere in scena la loro storia – appena «una delle tante» – proprio nel grembo di quella creatura pulsante, che avrebbe intanto raccontato la propria, attraverso la folla brulicante composta non di comparse bensì dei cittadini newyorkesi, dei quali il prologo riconobbe il fondamentale seppur inconsapevole contributo. Le affinità con l’esperimento compiuto dal neorealismo

italiano sono evidenti e innegabili, facilmente spiegabili alla luce della comune matrice realista. Il taglio documentaristico non venne applicato unicamente alle riprese dedicate al funzionamento della città, ma anche a quelle relative alle dinamiche delle indagini di polizia – nel corso di sequenze che possedevano accuratezza equivalente a quella con cui Lang aveva trattato l’argomento in M, il mostro di Dusseldorf (1931) e che Mann avrebbe impiegato in Egli camminava nella notte (1948) – confermando il crescente interesse del pubblico verso la cronaca nera d’inchiesta. Al di là delle riprese ispirate al puro documentario, la narrazione si mantenne comunque sempre oggettiva e distaccata: non esisteva un vero protagonista del quale approfondire le emozioni interiori, ma una comunità di individui all’interno della quale Dassin indagò le relazioni reciproche – dirigendo con sicurezza molte riprese corali che, nell’insieme, conferirono eccezionale dinamismo al racconto. Nella caccia ai delinquenti da parte delle guardie, a rilevare maggiormente fu la tensione che l’inseguimento sprigionava attraverso la città, il cui skyline, alla stregua di un sipario, apriva e chiudeva l’opera. Il ricorso alla fotografia in controluce le attribuì un’aria crepuscolare e crudele – particolarmente evidente durante la scena in cui i genitori della vittima, giunti dalla campagna per riconoscere il cadavere della figlia, esprimevano l’intenzione di fuggire quanto prima da New York: ai loro occhi era stata proprio la città a condurre la giovane alla morte.

Cane randagio

L’opera di Jules Dassin venne affiancata ad appena un anno di distanza da quella di un grande cineasta: Akira

Kurosawa che diresse Cane randagio (1949). La comparazione di questi due film – e delle due metropoli in essi rappresentate – rivelava che a dispetto del conflitto appena concluso, vincitori e vinti condividevano una simile angoscia, portata a galla in entrambe le narrazioni attraverso l’espediente tipicamente noir dell’inchiesta. Nel film di Kurosawa, oltre alla rappresentazione del contesto urbano, ebbe carattere noir anche la trama investigativa: come in molti classici hollywoodiani del genere, la ricerca materiale diventava indagine esistenziale e il protagonista, mano a mano che ne veniva coinvolto, scopriva quanto buio e spaventoso fosse l’abisso nel quale la società era sprofondata, sotto il peso del degrado morale che dilagava attraverso le strade della sua città. Del resto, l’incidente che aveva innescato la ricerca – il furto della pistola subito dal protagonista, un agente di polizia – determinò un coinvolgimento personale degno di quello dell’attacchino in Ladri di biciclette (1948), vale a dire un’altra opera in cui la vicenda individuale si era intrecciata, spesso confliggendo, con quella collettiva: anche in Cane randagio, il poliziotto risentì della diffidenza e dell’ostilità di molti esponenti di quella comunità all’interno della quale tentava faticosamente di riscattare la propria colpa. Da questa un fato beffardo aveva fatto discendere una serie di conseguenze tragiche, la cui responsabilità gravava sulle spalle del protagonista, avvilito e amareggiato quanto alcuni reietti del cinema nero. Kurosawa, che venne spesso accostato a Ford – per la capacità di celebrare l’epica e l’eroismo dei samurai, come il regista americano aveva fatto rispetto ai pionieri del west – operò in questo noir il ribaltamento di prospettiva tipico del western, trasformando l’uomo della legge in un cane randagio, costretto a scendere nella strada e a confondersi in mezzo all’umanità a cui avrebbe dovuto dare la caccia; svestito dell’autorità conferita dalla sua arma, egli si ritrovò a vivere un allucinante incontro con la realtà del disagio, scoprendo che tutti quanti, poliziotti o criminali, erano stati vinti dalla Storia.

Kurosawa affrontò lo spunto noir in maniera estremamente personale, facendo cogliere al giovane e sfortunato protagonista l’occasione per raggiungere la definitiva maturazione: in questo senso, il suo film possedeva anche le caratteristiche del racconto di formazione – il cui genere elettivo è il thriller. L’abbondanza di passaggi articolati sul ricorso alla tecnica sguardo – reazione assicurava l’adesione alla prospettiva soggettiva del personaggio, nella cui condizione di particolare coinvolgimento emotivo qualunque sviluppo procurava un accumulo di suspense e permetteva di isolare le sue reazioni, distinguendole da quelle di coloro che lo circondavano, mettendo così in risalto la solitudine procurata dal senso di colpa. Una condizione che venne lenita da qualche insperato gesto di solidarietà e, soprattutto, dall’interazione con gli esponenti di un’altra generazione: trovava così applicazione il topos del legame virile, nella declinazione maestro – allievo, cara in particolare alla tradizione orientale, in un’ottica di reciproco completamento. Rispetto alle caratteristiche del thriller, però, Cane randagio presentava due significative differenze: la critica sociale – attraverso cui la tragedia acquistava una dimensione collettiva – e la mancanza di un antagonista monodimensionale. Il ladro di pistole non era meno sventurato del protagonista e di lui non sarebbe stato possibile affermare con certezza che si trattasse di un animo malvagio; al contrario, anch’egli era vittima di un ambiente disgregato, della fame e della disperazione. Affiorava così il tema della doppiezza del carattere umano, inesorabilmente condizionato dalla debolezza della carne: secondo la lezione langhiana qualunque individuo si sarebbe potuto trasformare in un criminale, specie se costretto dalla necessità – e, in tal senso, Kurosawa aveva fatto del suo malvivente, per usare l’immagine di Chandler, colui che «ha un motivo per commettere» il delitto. Per fornire una spiegazione sociale al suo impulso, il regista raccontò con l’oggettivo distacco proprio del documentario la vita della popolazione di Tokyo, sui mezzi di

trasporto, per le strade dei quartieri popolari, allo stadio da baseball, negli alberghi e nei locali notturni, suscitando l’impressione della fatica, del dolore e della sopraffazione, esasperati dall’insopportabile umidità. Una condizione di insofferenza condivisa anche dal protagonista, i cui passi si trascinavano sempre più stancamente, mentre l’immagine dei suoi occhi si sovrapponeva alle riprese delle caotiche vie cittadine. La relazione empatica istituita da Kurosawa non coinvolse unicamente l’ambiente urbano, ma si estese altresì a quello naturale e, sulle orme di Munch, cielo e animo si specchiarono l’uno nell’altro.

La 25a ora

La città nuda – vale a dire New York – venne nuovamente indagata attraverso un’opera a tinte scurissime realizzata all’inizio del nuovo millennio dal regista afroamericano Spike Lee, La 25a ora (2002). Raccontando l’ultimo giorno di libertà di un uomo condannato al carcere – seguendo un andamento narrativo tipicamente noir, organizzato sulla successione di flashbacks e l’inizio in medias res – il film ne confrontò la lenta agonia, sull’orlo del baratro, con la condizione della metropoli, ferita e traumatizzata all’indomani dell’attentato terroristico al World Trade Center. Anzi, Lee affrontò in maniera esplicita la correlazione tra il senso di straniamento suscitato dalla contemplazione del caos urbano e il cedimento individuale di fronte alla tentazione criminale, nel corso di una suggestiva sequenza che vide il

protagonista impegnato in un esame di coscienza di fronte allo specchio. Documentarista, oltre che regista – primo afroamericano ad aver ricevuto un Oscar alla carriera – Lee passò ai raggi X il disgregato tessuto sociale di New York: scosso dalla follia dell’estremismo religioso e culturale, egli immaginò che anche le diverse comunità etniche della città volessero nella difficoltà isolarsi nella diffidenza verso il diverso. Lo sfogo corrispondeva però al turbamento del protagonista, che nella difficoltà si sentiva abbandonato dalla sua amatissima città. Alla quale il film – il primo che abbia potuto mostrare le rovine delle Torri gemelle, simili a un cratere inquieto, pronto a risucchiare un’umanità ormai irrimediabilmente corrotta e perduta – costituì uno spassionato omaggio da parte di uno dei suoi più celebri cittadini. A parte questo suggestivo passaggio, l’intero racconto era dominato dal sospetto, soffocante e insopportabile, che grava sulla schiena del protagonista: qualcuno lo ha incastrato. Ma che sia stata la fidanzata portoricana o i malviventi russi per cui lavorava; che sia stato uno dei suoi amici di infanzia, l’esaurito e megalomane broker o il frustrato professore di letteratura; che sia stato il padre assente e alcolizzato o persino l’intera città, violenta e indifferente, sembrò essere del tutto irrilevante. Forse non si sarebbe mai scoperto, così come mai si saprà tutta la verità sull’attacco dell’undici settembre: quel che contava era piuttosto sovrapporre lo stato di angosciosa incertezza provato dal protagonista con l’isteria nella quale era sprofondata la città, rafforzando il parallelismo tra tragedia individuale e tragedia collettiva tipica del cinema della disperazione. Del noir, del resto, ricorrevano molti stereotipi: il crimine, la ricerca, l’atmosfera perversa e ossessiva, la polemica contro le istituzioni, il senso della solitudine – accentuato dalla trovata di matrice autoriale di separare in due ogni gesto d’affetto e d’amicizia – la struttura narrativa straniante.

Straniante fu anche il finale del film, a cavallo tra sogno e visione: Lee lasciò aperta la strada a due opposte alternative, quella del carcere e quella della fuga lontano dalla città, alla ricerca di una nuova vita, al riparo dalle colpe del passato. Sarà stato davvero possibile? E, soprattutto, come sopportare la lontananza da New York, verso cui il protagonista poteva aver sfogato la propria rabbia ma alla quale restava incatenato da un amore intossicante?

Il fascino irresistibile del grande colpo

Il racconto noir è sempre incentrato sul crimine e, anche quando non lo commette in prima persona, il protagonista ne resta comunque suo malgrado coinvolto o ne subisce impotente l’attrazione ossessiva. Le ragioni, di carattere individuale e collettivo, da cui scaturisce la pulsione che lo determina costituiscono uno degli interessi primari della narrazione. Questa viene condotta alla stregua della pura cronaca, secondo uno stile improntato alla verosimiglianza, quasi quello del rapporto redatto da un detective privato, nel quale il crimine, indagato a trecentosessanta gradi, è raccontato tanto nella fase dell’esecuzione quanto in quella preparatoria, tenendo sempre conto delle emozioni e della tensione provate dai suoi autori: un approfondimento psicologico realistico, già compiuto da Dostoevskij all’inizio di Delitto e castigo – «sapeva persino quanti passi c’erano dal portone di casa sua: esattamente settecentotrenta. Una volta li aveva contati uno ad uno […]. Ora stava persino andando a fare una prova della sua impresa e, passo dopo passo, la sua agitazione cresceva sempre più».

La dedizione verso l’attività criminale, alla quale già si è fatto cenno e che consiste perlopiù nel compiacimento di fronte a un lavoro accuratamente eseguito e nell’aspirazione al perfezionamento – porta spesso i protagonisti a tentare un’impresa che pochi avrebbero il fegato di affrontare. Chiaramente, nell’universo alla rovescia del noir, si tratta dell’impresa degna di un antieroe, un’impresa criminale. Soggiacendo alla stessa logica di ribaltamento delle aspettative, nonostante l’impegno, la fatica, la determinazione le speranze di riuscita sono condannate a venire frustrate da una svolta imprevista o da una debolezza irresistibile. Il profilo antieroico del personaggio noir ha un’indubbia connotazione romantica e, di conseguenza, reca in sé la predestinazione alla sofferenza e alla sconfitta. Di ciò egli riceve spesso dei segnali premonitori, che non riconosce o che comunque ignora, dovendo completare una parabola alla quale sembra non potersi e non volersi sottrarre – talvolta per tener fede a un impegno, spesso per la disperazione dovuta alla mancanza di alternative dignitose. La società non è disposta a offrirgliene e il suo gesto di disobbedienza mette alla berlina l’incapacità delle istituzioni di rispondere adeguatamente al disagio delle gente comune: una crisi che la storiografia ufficiale ha sovente omesso di raccontare. Ecco che, pur condannando i ribelli alla disfatta finale – oltretutto beffarda, il racconto noir, documentando con atteggiamento realista il contesto sociale in cui essi vivono, svolge un’acre polemica verso il modello borghese di riferimento, rispetto al quale, anzi, il criminale noir si distingue per onestà intellettuale, senza avere l’ipocrita pretesa di essere qualcosa di diverso da ciò che in effetti è. Proprio le peculiarità che lo isolano dalla generalità degli altri individui lo inducono a incontrarsi con i propri simili: nascono così sodalizi fondati non solamente sulla necessità o sull’opportunità, bensì sulla condivisione di uno speciale codice di vita. È l’ennesima analogia con le dinamiche virili tipiche del genere western; ma anche in questo caso si assiste ad un funzionamento inverso, dal momento che l’unione non

basta per garantire il successo degli sforzi ma è destinata a disgregarsi prima di aver potuto produrre i propri frutti. Questa idea del fallimento collettivo corrispondeva anch’essa al clima di sospetto e diffidenza reciproci che le tensioni mai risolte e la caccia alle streghe provocarono in un tessuto sociale sempre più disgregato, fino al punto di produrre quella frantumazione delle coscienze che gli intellettuali europei avevano sperimentato già molto tempo prima.

Giungla d’asfalto

Capolavoro di John Huston – uno dei padri del genere – Giungla d’asfalto (1950) sintetizzò alcuni dei principali temi del cinema noir. Il titolo si riferiva alla città, protagonista visiva già delle prime riprese, suggerendo una spaventosa antitesi tra natura e artificio – richiamando così l’avversione romantica per le macchine, per la scienza da laboratorio, per il progresso – e l’idea del caos dilagante che aveva imposto la dura legge del più forte. La vicenda, infatti, si apriva con un episodio di sopraffazione: un testimone preferiva non riconoscere il malvivente pur di evitare ritorsioni. Poco dopo, Huston – posizionando la macchina da presa al bancone di un bar – invitava lo spettatore a sedersi a fianco di quello stesso criminale che aveva incusso tanta paura nel pavido cittadino: il pubblico venne così costretto a simpatizzare con un uomo che sapeva già essere una canaglia; è c’è da credere, tuttavia, che entro la fine del film lo avrebbe fatto con piacere. La dichiarata, anzi sfacciata, disobbedienza lo rendeva paradossalmente assai più onesto dei poliziotti o dei ricchi borghesi, corrotti e ipocriti; la lealtà verso gli amici – tra cui il barista storpio – rivelava un’umanità assai più profonda

di quella del resto della società, dalla gente comune che emarginava spietatamente il diverso agli impassibili vertici istituzionali; la determinazione nel non tradire i compagni lo distingueva dai complici che, per avidità o per codardia, avrebbero ceduto; il suo sogno era in fondo quello di molti: riuscire ad abbandonare la città, luogo insalubre dove «ci si insudicia», per raggiungere la campagna e il miraggio di un nuovo inizio, il riscatto tanto sospirato – coerente con la dicotomia città – campagna elaborata da Burnett, autore del romanzo dal quale fu tratto il film. Il suo fallimento finale, dunque, finiva per essere quello del sistema sociale di cui Huston, nella sua polemica, non risparmiò alcun componente; al contrario, nella rappresentazione di un ambiente degradato e prossimo al collasso, egli evidenziò la diffusa spietatezza di una lotta – quella tra criminali e polizia – senza quartiere: significativa, al riguardo, la contrapposizione visiva tra la violenza con cui gli investigatori irrompevano all’interno dell’abitazione di un ricercato e la rassegnata staticità con cui i parenti ne stavano vegliando il cadavere. L’oscurità era calata sulla civiltà e la notte si impose come scenario noir: quando i predatori si aggirano per la giungla in cerca di una preda. Ma chi è la preda e chi il predatore? Il dubbio e il sospetto erano perennemente in agguato, magnificati dal ricorso al bianco e nero – al quale Huston, pur potendo, decise di non rinunciare per una precisa scelta non solamente estetica – e dall’utilizzo espressionista delle ombre. In questo contesto, spiccavano allora i rari episodi di solidarietà e di compassione: nel noir non era infrequente il significativo legame tra l’essere umano e il gatto, creatura solitaria e notturna, vittima del pregiudizio e della diffidenza collettiva – condannato perciò a una condizione di emarginazione che il barista condivideva a causa della propria tara fisica, presagio di ispirazione naturalista dell’innata predestinazione al dolore e alla sconfitta. Quanto al grande colpo, Giungla d’asfalto ne delineò un modello che in seguito sarebbe stato rispettato da tutti gli altri

noir dedicati a questo spunto: la meticolosa pianificazione; l’esecuzione compiuta con snervante attenzione ma fatalmente turbata da uno sfortunato imprevisto; il tentativo di fuga degli autori, destinato a essere frustrato dalle debolezze del carattere di ciascuno di loro.

Rapina a mano armata

Sterling Hayden fu un grande interprete di personaggi noir; forse perché anche la sua esistenza era stata avventurosa e sregolata come quella di molti di loro: dapprima mozzo di nave, fino a diventare capitano, poi l’attività di modello, quindi, durante gli anni di guerra il lavoro di intelligence e quello di paracadutista sul fronte jugoslavo, che gli valse la stella d’argento. Un eroico self made man americano, che tuttavia sarebbe stato ricordato per la capacità di interpretare un’umanità cinica e disillusa, sconfitta e rassegnata. È questa la contraddizione che il cinema noir colse e documentò meglio di qualunque manuale di storia. Al ritorno dall’Europa – dove aveva avuto modo di avvicinarsi alle idee comuniste dei partigiani croati al fianco dei quali si era battuto contro i nazisti – si unì brevemente al Partito comunista degli Stati Uniti d’America, ma, sotto la pressione del maccartismo, pur essendo tra le star hollywoodiane che si erano apertamente opposte alla delazione tra colleghi, denunciò alcuni simpatizzanti comunisti, vivendo un sincero travaglio interiore – ammesso nella propria autobiografia, intitolata Vagabondo: «non avete la più pallida idea del disprezzo che ho avuto per me stesso» – e condannandosi a venir emarginato e guardato con sospetto dalla maggior parte della comunità di Hollywood.

Hayden, che aveva interpretato il ruolo del protagonista in Giungla d’asfalto, recitò anche in un altro capolavoro dedicato allo spunto del sensazionale colpo criminale: Rapina a mano armata (1956) di Kubrick. La regia condusse lo spettatore attraverso le varie fasi della rapina, iniziando con un sopraluogo dell’ippodromo dove questa si sarebbe dovuta consumare: le prime riprese di taglio documentaristico erano appunto finalizzate a presentare lo scenario della vicenda, il quale possedeva un chiaro valore simbolico – l’esistenza umana non era infatti, secondo la poetica noir, tanto diversa da una scommessa contro il destino. Non stupisca poi che, nella prospettiva alla rovescia propria del genere, il ferro di cavallo, invece di portare fortuna come tradizionalmente si immagina, fosse la causa proprio di uno di quegli imprevisti che determinarono la disfatta di tanti personaggi noir. Questo per quanto riguarda il dove; con riferimento al quando, Kubrick compì la scelta di iniziare il racconto in medias res, provocando straniamento nello spettatore attraverso la successiva struttura a flashback e mediante la riproposizione dello stesso episodio da prospettive diverse – anticipando dunque la destrutturazione di Tarantino e le variazioni di De Palma; soprattutto suggerendo che sul presente della vicenda pesa sempre il passato, lungo una successione di situazioni tutte ineluttabilmente protese verso l’immancabile disfatta finale: anche la consecuzione narrativa dunque richiamò una concezione fatalista dell’esistenza umana. La coralità, che caratterizzò i film dedicati alla realizzazione di colpi criminali tali da imporre ai delinquenti di unire le forze – senza tuttavia riuscire mai a vincere la condizione di solitudine e di impotenza alla quale era condannato ciascuno di loro – permise di passare in rassegna alcuni degli stereotipi del genere: il poliziotto corrotto pieno di debiti; l’ex detenuto incapace di riabilitarsi; l’anziano alcolizzato in cerca di stimoli; l’uomo disperato appassionatamente dedito alla moglie malata; un insignificante

impiegato tenuto in scacco da un’affascinante donna senza scrupoli, che se lo trascina dietro come un cane al guinzaglio. La loro riunione venne turbata da sinistri giochi di luce, mentre il buio minacciava di inghiottirli: avvolti da un fumo quasi infernale, parvero collocati nella dimensione metafisica dell’inconsistenza. Sospesi nel vuoto erano già fantasmi. E avrebbero incontrato la morte in conseguenza della sanguinosa sparatoria con una banda rivale – simile per brutalità e per violenza a quelle del gangster movie – avvertita da un traditore. La rappresentazione del grande colpo offrì qui l’occasione per una straordinaria prova registica e il montaggio non svolse soltanto una funzione meccanica – la scomposizione cronologica era funzionale a una ricostruzione che valorizzasse la sincronia dei diversi momenti del piano – ma comunicò anche il senso della sinergia: l’azione coordinata di ciascun complice era necessaria alla riuscita del progetto comune. Tuttavia questo sforzo collettivo – paragonabile, nella logica rovesciata del noir, a quello sociale – era destinato a infrangersi contro i capricci del caso, risolvendosi nell’insuccesso finale, che in Rapina a mano armata si manifestò sotto forma di vera e propria beffa.

Rififi

I temi del sofisticato piano criminale e del tradimento che ne determina l’insuccesso si erano già intrecciati tra loro nel film di Jules Dassin, Rififi (1955): estetica, poetica e motivi del noir americano stavano approdando in Europa – l’anno prima Becker aveva diretto Jean Gabin in Grisbi e la presenza

di questo grande interprete confermava la continuità spirituale rispetto al realismo poetico. La regia di Dassin denudò anche Parigi, notturna, nebbiosa e inquietante quanto mai attraverso numerose riprese documentaristiche arricchite da una fotografia d’ispirazione espressionista. Ma la tecnica documentaristica rivestì un ruolo ancor più importante nella sequenza del furto con scasso alla gioielleria: ogni passaggio del piano venne mostrato con chiarezza analitica grazie a una perfetta organizzazione degli attori impegnati sulla scena. Simili agli ingranaggi di un meccanismo perfettamente calibrato, essi agivano all’unisono tra loro e con gli strumenti del mestiere – come suggerì l’accostamento delle inquadrature dedicate alla loro espressione con le riprese del perforatore in azione. L’essere umano lasciava il posto all’attrezzo, mentre la parola era stata sostituita dai rumori metallici che scandirono lo sviluppo della lunga e tesissima scena silenziosa dedicata all’esecuzione del colpo. Perfettamente riuscito, senza alcun imprevisto; ma la vita, nella logica noir, è come una partita a carte – quella sulla quale insistevano le riprese iniziali del film appunto allo scopo di sottolineare la centralità della componente aleatoria nell’esistenza umana. Debolezza di fronte alle tentazioni – qui rappresentate dal fascino femminile, esibito durante il numero musicale – rivalità tra criminali, tradimento e ricatto frustrarono l’iniziale successo. A fronte della disgregazione e dello scompiglio che seguirono, il legame virile che univa un giovane delinquente al suo anziano maestro e amico resistette fino alla fine, fondato sulla lealtà e sulla condivisione di principi etici comuni. Gli stessi che inducevano anche il traditore ad ammettere le proprie colpe e persino ad accettare la relativa punizione – suggerita attraverso il lento allontanamento della macchina da presa, equivalente alla vita che lo avrebbe presto abbandonato. Come l’ambientazione, europea era anche l’opera letteraria dalla quale fu tratto il film, il romanzo omonimo di August Le

Breton – autore anche dei dialoghi – pubblicato nel 1953 con immediato successo di pubblico: in esso lo scrittore francese aveva messo a frutto la propria esperienza personale, raggiungendo un alto livello di realismo. Cresciuto in orfanotrofio, egli aveva attraversato un’adolescenza turbolenta, all’insegna delle fughe e della disobbedienza, per poi passare a frequentare i piccoli criminali dei quali descrisse fedelmente l’universo. La famigliarità con il delitto emergeva soprattutto nel passaggio del racconto dedicato alle operazioni di scasso. A una rappresentazione così verosimile, Dassin alternò anche passaggi in cui la narrazione era condotta attraverso simboli e suggestioni – era il caso della scena del rapimento del figlio del protagonista da parte della banda rivale: il palloncino sfuggito dalla mano del bimbo, evidentemente ispirato a M, il mostro di Dusseldorf, rappresentò che anche la fortuna aveva infine abbandonato i personaggi.

I senza nome

Un omaggio alla sequenza silenziosa di Rififi fu inserito da Jean Pierre Melville ne I senza nome (1970), realizzando una successione di riprese durante le quali i personaggi evitavano accuratamente di parlare per non fornire al sistema di sicurezza della gioielleria che stavano svaligiando alcun elemento con cui identificarli. Perciò la polizia, visionando i filmati, doveva ammettere di trovarsi al cospetto di uomini senza voce e senza volto: uomini senza nome. Uomini dotati, tuttavia, di un vissuto profondamente noir: su tutti la figura del tiratore scelto, solitario, malinconico, rassegnato, della quale Yves Montand colse tormento e fragilità.

Le analogie tra l’antecedente di Dassin e l’opera di questo sensibilissimo interprete della poetica noir furono molte: la stessa ambientazione parigina, la medesima ambizione criminale, un’identica varietà di rapporti virili – amicizia e rivalità. Nel corso della narrazione, Melville riuscì a mantenere un clima di costante inquietudine, svelando improvvisamente una minaccia o manifestando il pericolo attraverso una prospettiva non convenzionale – come lo specchietto retrovisore di un’automobile in corsa. La stessa adesione della macchina da presa allo sguardo dei protagonisti, in comprensibile stato di tensione durante la pianificazione e l’esecuzione del delitto, costringeva lo spettatore a compatirne le emozioni, come nel caso della ricognizione dei locali della gioielleria compiuta dal tiratore che avrebbe dovuto occuparsi di disattivarne con un colpo l’allarme. Anche grazie alla cura per simili dettagli, il colpo sarebbe riuscito perfettamente – come già era accaduto in Rififi; ciò tuttavia non significò che i protagonisti ne avrebbero potuto godere. Essi infatti si scontrarono con la resistenza opposta dal fato, l’ostilità di un malvivente rivale per questioni di donne, la determinazione di un implacabile ispettore di polizia. L’importanza del caso nella concezione noir di Melville emergeva già dal titolo originale del film, Le cercle rouge, che si riferiva a una massima buddhista sulla predestinazione: lo stesso fortuito incontro tra i due criminali, che inizialmente era stato un colpo di fortuna, avrebbe in seguito prodotto risultati tragici nell’esistenza di entrambi. Anime errabonde e ribelli, la sorte li aveva portati a imbattersi l’uno nell’altro, convergendo nello stesso luogo – uno scenario solitario e desolante – quasi attratti da un’invisibile e sadica forza distruttrice. Oltre alla serie di sviluppi del tutto accidentali, per effetto della quale si disegnava la consueta parabola a gobba di cammello del racconto noir, nell’opera di Melville – che alcuni critici hanno ricondotto al genere polar, quello cioè che fonde elementi di poliziesco e di noir – un ruolo assai rilevante venne attribuito anche all’investigatore. Dotato di sincera

compassione – trovandosi in treno insieme a un prigioniero in arresto, rinunciava a fumare e a leggere con la luce accesa per non disturbare il compagno di viaggio – e profonda conoscenza dell’animo umano – era appunto lui a esprimere durante l’incontro con un superiore l’idea langhiana della naturale inclinazione alla disobbedienza comune a ciascun individuo – egli svolse il suo compito con la stessa dedizione che i criminali mettevano nella propria attività, adeguandosi a tutti i loro comportamenti, nessuno escluso, neppure il ricatto. Ma, nonostante l’importanza attribuita a questo personaggio, non c’è dubbio che il protagonista fosse uno dei malviventi – interpretato da Alain Delon; la conferma proviene dal trattamento musicale del racconto che, nel corso dello sviluppo, aveva sottolineato i passaggi più significativi della vicenda, come quello dell’incontro tra i due predestinati: nel finale, infatti, l’accompagnamento si interruppe bruscamente al momento della morte del delinquente in fuga, benché la narrazione per immagini proseguisse ancora.

Milano calibro 9

Sebbene, tra quelli al qui qua dell’Atlantico, il cinema francese sia stato certamente il più prolifico di film ispirati alla poetica noir elaborata negli Stati Uniti, anche quello italiano diede alla luce alcune opere del genere: tra loro Milano calibro 9 (1972), di Fernando Di Leo, merita particolare considerazione. Soprattutto per la ricorrenza di tutti gli elementi che caratterizzano i principali esempi di racconto incentrato sulla realizzazione di un sensazionale delitto: la complicata e imprevedibile trama di tradimenti; l’inevitabile fallimento del colpo, a dispetto della perfida astuzia con cui

era stato pianificato; l’attenzione per il cinismo e per il metodo con cui questo veniva messo in pratica. Lungo questo itinerario che ripercorreva la tradizione inaugurata da Giungla d’asfalto, emerse però il profilo di un delinquente parzialmente innovativo: perfettamente adattato al resto del mondo, egli si era alleggerito degli scrupoli e dei principi che nel film di Huston lo distinguevano ancora dall’ipocrisia e dalla slealtà diffusi nella società – qui identificati nella figura ambigua del commissario capo, evidentemente colluso con i vertici del crimine, il cui tratteggio risentì tuttavia eccessivamente del desiderio degli autori di polemizzare sui problemi legati all’immigrazione dal meridione e, più in generale, sulla questione sociale che caratterizzarono quella pagina della storia del nostro paese. L’importanza dello scenario urbano nell’atmosfera complessiva venne evidenziata dal titolo del film: squallido e degradato come l’esistenza dei malviventi, il labirinto delle vie di Milano – teatro delle riprese dedicate agli scambi di pacchi da parte dei corrieri della droga – risultava inestricabile quanto l’intreccio narrativo. Il realismo della rappresentazione indusse gli autori a fare ricorso del dialetto, secondo il modello neorealista, e a non risparmiare spettacoli di efferata violenza, sconosciuti al cinema americano sotto il codice Hays ma recentemente portati sempre più spesso sullo schermo ad opera del regista Don Siegel, a cui in Italia si sarebbe ispirato anche il nascente genere poliziottesco. La componente straniante – che caratterizzò molti noir sotto forma di deformazione cronologica – assunse l’aspetto della presenza sempre più inquietante di un misterioso sicario vestito di rosa: costui era ripreso in maniera da destare sospetti continui e sempre più assillanti nell’animo dello spettatore.

Le iene

Milano calibro 9 fu il prodotto di un cinema di serie B, come del resto B movies furono anche i classici del noir americano. Particolarmente appassionato di queste opere, appartenenti ai tesori sommersi del mondo cinematografico, Quentin Tarantino diresse la propria personale rivisitazione dello spunto del piano criminale andato in fumo: si tratta del suo film d’esordio, Le iene (1992). Il racconto – aperto in medias res e, quindi, sviluppato attraverso una destrutturazione cronologica organizzata su flashback – iniziava con il dialogo tra otto individui apparentemente innocui e rispettabili. Il loro confronto verteva sull’autentico significato del testo di una canzone pop e sulla consuetudine di lasciare la mancia alle cameriere: se lungo la filmografia langhiana comparvero molte vetrine di fronte alle quali i personaggi si arrestavano in inebetita contemplazione, in quella di Tarantino si sarebbe ripetuta la scena all’interno della tavola calda, vera icona della cultura popolare americana. Quella che il regista rilesse attraverso dialoghi alluvionali, spesso assurdi, quasi sempre sboccati: in una parola, antiletterari; ecco l’evoluzione del cinema realista, nato ai tempi del muto, ma lentamente soggiogato dalla componente sonoro – verbale, che già durante la stagione neorealista aveva rivestito notevole importanza. Il carattere caricaturale non riguardava solo le battute recitate dai personaggi ma anche la loro interpretazione: di fronte alla raffigurazione della violenza, del sadismo, del dolore, i personaggi mantennero un paradossale distacco, prova evidente della disumanizzazione che aveva contagiato la società occidentale. Era appunto questa schizofrenia tra lo sviluppo drammatico e l’attività recitativa a rendere le scene più truculente e macabre tollerabili, anzi persino ridicole: nessuno sembra prendere sul serio la violenza dilagante. Non i personaggi in scena, non lo spettatore che li guarda. Non si può dunque negare che anche i primi film di Tarantino, al di là del tentativo esasperato di elaborare un cifra autoriale dalla

quale poteva talvolta dipendere un’estremizzazione narrativa, condivisero l’anima polemica e ribelle propria dell’arte realista e, soprattutto, delle avanguardie – è indubbio, del resto, che il regista abbia adottato nelle sue prime opere un linguaggio e uno stile d’avanguardia, ricercando cioè forme di comunicazione nuove, alternative agli stereotipi e alle maniere convenzionali. Restava comunque legato ai capisaldi del cinema noir: tradimenti, diffidenza, avidità ed egoismo divisero il gruppo di malviventi, facendo degenerare la situazione in carneficina senza neppure la necessità di un intervento di un fattore esterno ad esso (benché non si potesse ignorare la rilevanza dell’imprevisto costituito dal poliziotto sotto copertura). Nella visione di Tarantino – che portò al limite la concezione noir – la società era degradata a un branco di iene, pronte a sbranarsi reciprocamente e per valori come onore e lealtà non fu più possibile trovar posto. L’esasperazione finisce così per coinvolgere la nozione stessa di essere umano; come i protagonisti del film di Melville si trattava di individui senza nome – individuati attraverso un colore – ma, a differenza di quelli, essi non possedevano neppure una completa personalità. Ciò non ammetteva di considerarli persone, ma semplici personaggi, ciascuno corrispondente soltanto alla filosofia spiccia che teorizzava sin dall’iniziale sequenza all’interno della tavola calda. La destrutturazione fu pertanto ancora più estrema di quella già sperimentata in Blood Simple (1984) dai fratelli Coen, in quanto si spinse a coinvolgere persino i personaggi attraverso la scomposizione dell’uomo moderno in una serie di caratteristiche, a ciascuna delle quali venne poi assegnata una maschera, un volto o, se si preferisce, un colore. Di conseguenza mancarono la tradizionale figura del protagonista e, soprattutto, l’idea stessa di una storia: al contrario Le iene presentava tanti comprimari, impegnati a incrociarsi lungo una serie di episodi autonomi, accostati l’uno all’altro in ordine assolutamente casuale – in maniera da

imporre al pubblico, anche a livello strutturale, l’impressione del disordine imperante: non si assisteva a uno sviluppo, a un’evoluzione. Al contrario, ogni personaggio restava fedele al proprio carattere monodimensionale. Tutti quanti; con la sola eccezione, forse, del poliziotto infiltrato. L’esperimento più interessante del film, sperimentale nel complesso, riguardò proprio il processo mentale vissuto da questo personaggio, costretto a imparare a memoria una storia credibile per potersi infiltrare tra i malviventi: mentre il racconto orale proseguiva senza interruzioni, a livello visivo, Tarantino alternò le scenografie sul cui sfondo la voce continuava a parlare. Alla fine, l’uomo aveva persuaso persino se stesso di aver vissuto realmente ognuna delle esperienze delle quali aveva dovuto memorizzare persino i minimi dettagli e l’ultimo scenario della recitazione fu appunto la sua immaginazione. Dunque, nel solco della tradizione inaugurata da Caligari e proseguita anche dal cinema noir, l’opera d’esordio di Tarantino si era spinta addirittura a indagare esplicitamente l’inconscio turbato della modernità.

Fargo

Meno eccessivo, ma altrettanto proteso all’elaborazione di una struttura narrativa d’avanguardia, Fargo (1995), film dei fratelli Coen, era a propria volta incentrato sugli imprevedibili sviluppi di un piano criminale degenerato in tragedia. Il ruolo svolto dal destino – nell’intrecciare beffardamente tra loro l’esistenza dei personaggi, suscitandone reazioni del tutto inattese e soprattutto allontanandoli sempre più l’uno dall’altro – risultava assolutamente marginale rispetto alla rilevanza attribuita dagli autori alla disumanità del loro mondo: indifferenza, grettezza, prevaricazione. Quella di

Fargo era una società sull’orlo della crisi di nervi, schiacciata sotto l’insopportabile peso della solitudine, di cui gli sterminati spazi naturali costituirono un’efficace simbolo visivo. I Coen, conformemente a una concezione espressionista di sinergia tra personaggio e scenografia, realizzarono diverse riprese nelle quali l’uomo si ritrovava solo, al cospetto di paesaggi paralizzati dal gelo e della propria coscienza, ugualmente addormentata. Per accentuare il senso dell’alienazione di cui la maggior parte degli individui era vittima, il film adottò un’estetica esasperata, spesso di ispirazione horror – sebbene come era capitato ne Le iene la truculenza sfoci addirittura in una caricatura demenziale, e tratteggiò i dialoghi e la cronaca quotidiana con uno stile iperrealistico, attraverso cui si specchiava la realtà contemporanea travolta dall’eccesso, dal consumismo e dalla confusione che questi avevano provocato. Tuttavia Fargo non si spinse a disintegrare la dimensione umana di ciascun personaggio, ma colse all’interno di un mondo morente una residua scintilla di vita: si spiega così la decisione anticonvenzionale di attribuire a un personaggio femminile – oltretutto in attesa di un bambino – il tradizionale compito noir dell’inchiesta, criminale ed esistenziale. Unica figura dotata di consistenza morale, pur riuscendo a ricostruire la contorta trama sulla quale indaga, ella non poté capacitarsi del comportamento delle controparti maschili. I dubbi, l’incredulità, lo sconcerto espressi dalla donna, si spostavano così sul pubblico lasciandolo turbato, nonostante la ricomposizione finale di un ordine accettabile. Accettabile soltanto grazie alla presenza di un protagonista – la poliziotta, appunto – che riusciva, a differenza dei personaggi tipicamente noir, a raggiungere il proprio scopo. Ma l’idea dell’inconcludenza si impose nondimeno allo sguardo del pubblico: il malloppo, per cui era stato versato tanto sangue, era andato perduto, proprio come quelli di Rapina a mano armata o di Grisbi. Tutto nel film dei Coen fu studiato per trasmettere la sensazione dell’imprevisto incombente, della minaccia dietro

l’angolo: a cominciare dall’andamento narrativo articolato sull’alternanza di lunghe attese, bruscamente interrotte da una svolta inaspettata – quanto meno nella mente del personaggio di cui lo spettatore aveva momentaneamente assunto la prospettiva. Anche i passaggi da una scena all’altra vennero trattati con una tecnica – quella della dissolvenza in chiusura – evidentemente finalizzata a suscitare il sospetto di un tragico sviluppo: da un lato, la dissolvenza suggeriva che la scena appena conclusa avesse ancora qualcosa da raccontare, qualcosa che tuttavia non era stato svelato fino in fondo in maniera nitida; dall’altro, essa induceva a ipotizzare che in quella successiva si sarebbe potuta riscontrare la conseguenza dell’incompiutezza della precedente, istituendo così il rigoroso legame tra causa ed effetto – colpa e punizione – proprio del noir.

Amicizia virile

Nel racconto noir la tragedia individuale dei protagonisti si sovrappone a quella collettiva. Le difficoltà comuni inducono talvolta i personaggi a unire le forze, senza però che ciò produca alcun significativo vantaggio: ciascun individuo è troppo solipsistico per poter davvero compatire il prossimo e l’egoismo finisce per riprodurre quella disgregazione che, a livello generale, ha colpito l’intera società moderna. Si assiste di conseguenza a una lotta disperata, al termine della quale escono tutti sconfitti. La solitudine, provocata dall’avversità o anche soltanto dall’incapacità di comunicare, è la condizione ricorrente del tipo noir. Essa aveva del resto caratterizzato anche le precedenti manifestazioni di cinema realista – in particolare il realismo poetico francese – nei cui principali capolavori si assistette alla frantumazione di qualunque legame fosse stato faticosamente stretto nel corso della narrazione.

Nella poetica noir, in mancanza di qualunque fiducia nei confronti dell’amore – la cui ingannevole impressione comporta perlopiù fatali distrazioni, ricorrono soprattutto rapporti virili, nella forma dell’amicizia o dell’insegnamento. Non mancano neppure manifestazioni di solidarietà, attraverso cui i reietti manifestano una sensibilità assai più spiccata rispetto a quella delle istituzioni e della classe dirigente, insensibile e ipocrita. Attraverso l’attenzione prestata a queste dinamiche relazionali, emerge quella complessità caratteriale che risponde alla concezione langhiana della natura umana, in perenne tensione tra bene e male, avidità e generosità, interesse e sacrificio. Senza negare che si tratta di colpevoli, il narratore noir evidenzia che i suoi personaggi conservano ancora un pungolo morale e un’inclinazione all’affetto, che li spingono ad avvicinarsi ad altre creature; specie a coloro con i quali intravvedono un’affinità. Ford ricorse alle parole di Shakespeare – «anime grandi d’istinto s’incontrano e di rispetto e d’amicizia infiammansi» – per esprimere la natura del sentimento che avrebbe decretato il successo di tante disperate imprese del cinema western: da Ombre rosse (1939) a Sfida infernale (1946) fino a L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). E lo stesso accadde nei classici di Hawks, Un dollaro d’onore (1959) ed El Dorado (1967). Quest’ultimo aveva già affrontato lo spunto del sacrificio compiuto in nome dell’amicizia partecipando all’ideazione de Le notti di Chicago (1927) nel finale del quale il protagonista proprio in virtù della sua decisione assurgeva alla dimensione di eroe. Nel racconto noir, però, la predestinazione alla sconfitta minaccia di travolgere anche l’unione più salda e il legame tra gli esseri umani si riduce alla mera condivisione di un’esistenza crudele e dolorosa. Il messaggio di speranza e di fiducia che il cinema americano degli anni trenta aveva opposto alla grave crisi sociale, sostenendo la politica di riforme inaugurata da Roosevelt, ricevette dunque una drastica rilettura al ritorno dal fronte e sotto la minaccia della delazione

durante la caccia alle streghe maccartista: l’uomo, celato dietro l’artista, avvertiva di essere solo di fronte alla tragedia moderna della Storia e del Progresso.

Lo spione

Lo spione (1962) è uno dei capolavori neri di Jean Pierre Melville e, nel suo sviluppo drammatico, la relazione che si instaura tra i due criminali al centro della vicenda assunse particolare rilievo. Tanto che si potrebbe arrivare a sostenere che si trattò della storia di una tragica amicizia virile. Alla sincerità del sentimento si alternava l’insopportabile dubbio del tradimento inducendo, in un attimo di debolezza, uno dei due a innescare un processo mortale che non sarebbe più stato possibile arrestare. Sullo sfondo, il regista francese delineò un mondo pieno di dolore e di insidie – magnificato dal bianco e nero della fotografia di Nicolas Hayer, abile a ricorrere alle ombre in funzione espressionista, suggerendo l’esistenza di una forza superiore, una regia in grado di dirigere l’esistenza degli individui ridotti, nella migliore tradizione, a mere pedine. A fronte dell’interesse prestato nello studio del rapporto d’amicizia, il racconto iniziò con l’immagine di una figura solitaria attraverso un desolante panorama urbano: costringendola a passare sotto una galleria, Melville evocò l’impressione che su di lei pesasse l’altrettanto artificiale sovrastruttura sociale; quella che gli uomini avevano edificato sulle proprie teste e dalla quale erano infine stati schiacciati. Di fronte a un’esistenza condannata alla sconfitta, il regista colse la rassegnazione con cui l’uomo affrontava la morte, considerandola quasi una liberazione, mentre l’ombra del suo assassino disegnata sul muro finiva per assumere il valore simbolico della predestinazione.

Oltre che ai giochi di luce, Melville assegnò una precisa funzione simbolica anche ad altri elementi scenici: lo specchio e il cappello su tutti. Fin dall’iniziale camminata di uno dei due protagonisti l’immagine frantumata del suo volto riflesso nello specchio rotto individuava la fine alla quale lo avrebbe inesorabilmente condotto la traiettoria che aveva intrapreso con la propria decisione di spingersi al regolamento di conti che, del resto, nella sua logica risultava assolutamente inevitabile. Nel finale, sarebbe stato invece il volto dell’amico a riflettersi nello specchio, determinando l’ideale ricongiungimento dei due: la circostanza che la loro comune parabola fosse stata iscritta all’interno di questo particolare oggetto non stupisce, considerando il significato di doppiezza attribuito a questo oggetto. Nulla era come sembrava all’apparenza, i cui riflessi erano stati particolarmente ingannevoli: lo specchio perciò nel film di Melville simboleggiò anche l’inganno scenico mentre il personaggio interpretato da Jean Paul Belmondo – che non si separava mai dal proprio cappello, il doulos del titolo originale che, nel gergo comune, significava confidente della polizia – assunse il ruolo di meneur finendo però per essere travolto dalla propria stessa sfuggente messa in scena. Piccolo tiranno ispirato alla tradizione espressionista – ma anche a quella più recente inaugurata da Welles e da Mankiewicz – egli, animato dal proprio sincero affetto, ebbe la pretesa eroica di risolvere da solo l’intrico nel quale era rimasto coinvolto l’amico. Una pretesa che Melville estremizzò con una memorabile trovata: era tale la mania di controllo dei dettagli scenici da parte di questo personaggio, che egli, pur essendo ferito a morte, recuperò la forza per scaricare la donna con cui sarebbe dovuto uscire a cena, aggiustarsi i capelli e stramazzare al suolo. Finalmente a capo scoperto: il cappello, al quale il titolo originale aveva attribuito peculiare rilievo, aveva pesato fino alla fine sulla sua testa, proprio come il sospetto dell’inganno.

Asfalto che scotta

Asfalto che scotta (1960) fu una storia di amicizia, onore e riconoscenza. Tuttavia sempre una storia noir. Ma un noir melodrammatico in cui all’azione, ambientata per le vie delle grandi metropoli, si alternava l’approfondimento psicologico, esaltato dalla interazione tra l’uomo e la scenografia naturale – si segnala la ripresa in controluce della silhouette del protagonista che fronteggia il mare con lo sguardo perso all’orizzonte; un adattamento cinematografico della serie di raffigurazioni dedicate da Munch al tema della Malinconia. Lo spunto drammatico era la fuga di un ricercato, dall’Italia verso la Francia, in compagnia della moglie, dei figli e di un complice. Una sparatoria lungo il tragitto lo lasciava solo con i figli, dei quali prendersi cura evitando però allo stesso tempo di farsi catturare. Gli amici di Parigi esitavano a soccorrerlo, timorosi di compromettersi, e ingaggiavano un giovane estraneo. Che accettò l’incarico per rispetto nei confronti del complice rimasto ucciso. Si delinearono immediatamente due opposte reazioni di fronte al pericolo – la stessa impasse che aveva caratterizzato anche i classici del western, come Mezzogiorno di fuoco: la codardia dei supposti amici e il senso dell’onore dell’inatteso soccorritore. L’amicizia che sarebbe nata tra costui e il protagonista si fondò appunto sulla loro condivisione del senso dell’onore e su una comune sensibilità. La complessità dei loro caratteri – specie di quello del protagonista, spietato assassino ma premuroso e amorevole padre – era il presupposto sul quale si sviluppava un insolito racconto di formazione e di confronto generazionale. Ma a differenza di quanto sarebbe accaduto in un thriller, nel film di Sautet prevaleva una soffocante atmosfera noir, dominata dalla crescente impressione della sconfitta e dell’abbandono: l’opera letteraria dal quale esso fu tratto era

un romanzo dello scrittore José Giovanni – pseudonimo di José Damiani, collaborazionista del governo di Vichy che, all’esito della guerra, aveva vissuto un’esperienza dostoevskiana: la condanna a morte, poi commutata in quella ai lavori forzati – e risentiva dell’interesse del suo autore per il tema della solitudine, alla quale il protagonista si avviava consapevolmente pur di tener fede al proprio codice morale. Fondato su ideali e principi ormai al tramonto – sebbene faticosamente mantenuto in vita dal rappresentante della nuova generazione – condivisi paradossalmente anche dal commissario che, lungi dal risentire dell’ambiguità che la poetica noir era solita riferire alle autorità ufficiali, si accostava ai criminali come uno di loro, animato nei confronti del proprio lavoro dalla medesima schietta sincerità. Egli finiva per costituire un alter ego del protagonista malvivente, condannato proprio come lui a restare solo o a differenziarsi da tutti gli altri personaggi in scena. Perciò Asfalto che scotta propose una netta dicotomia tra la nobiltà d’animo dei vecchi tempi e lo spregevole doppiogioco che si era fatto strada nella mentalità protesa esclusivamente al tornaconto e all’interesse personali.

Yakuza

Anche nel capolavoro neonoir di Sidney Pollack, Yakuza (1975), il tema dell’amicizia virile svolse un ruolo fondamentale per lo sviluppo drammatico; circostanza ben percepibile al momento del loro primo incontro sulla scena: l’intensità dello sguardo che si scambiano, amplificato dal montaggio e dal ricorso a primi piani di diversa ampiezza, corrispose a quella del loro controverso rapporto. Sulla distanza culturale e sulla rivalità per amore, prevalevano l’adesione al medesimo codice di comportamento e il

reciproco rispetto che ne discendeva. Entrambi del resto condividevano l’incapacità di adattarsi alle trasformazioni prodotte dal progresso: uomini fuori tempo, come sarebbe stato Napoleone Wilson e come erano molti criminali noir della vecchia scuola, si ritrovavano fianco a fianco nella lotta per mantenere fede ai propri ideali e per ottenere vendetta. A loro si sarebbe unito anche un giovane che, inizialmente incaricato di uccidere il protagonista, era rimasto affascinato dalla scoperta del vero significato dell’obbligazione che legava i due: ciò che in apparenza era soltanto un dovere, sottendeva invece una riconoscenza destinata a perdurare ben oltre il momento dell’adempimento e del conseguente scioglimento del vincolo. Una nozione della responsabilità lontanissima da quella che si era imposta in una società dominata dalla logica commerciale fondata sulla computazione di debiti e crediti. A dispetto di quanto accadeva solitamente nei noir, i protagonisti di Yakuza non erano criminali (l’americano era comunque un detective privato ormai ritirato dall’attività), raggiungevano il proprio scopo e conservavano persino salva la vita. Ma a quale prezzo? La morte della fanciulla, che entrambi consideravano una figlia; per essa avrebbero ottenuto giustizia all’esito di un cruento scontro finale – ispirato, come altri aspetti del film, alla tradizione western – ma ciò non sarebbe stato sufficiente a guarire la ferita aperta nel loro animo, per quanto disilluso e rassegnato esso potesse già essere. Imponendo questo terribile tributo, Pollack si spinse fuori del perimetro retributivo tipico del noir, entro cui a ogni delitto corrispondeva l’adeguato castigo e viceversa: l’uccisione della ragazza – incarnazione della gioia di vivere, della purezza e dell’innocenza – costituiva una sconvolgente barbarie, rispondente alla spietata e disonorevole logica occidentale che si era allungata sinistramente sulla virtuosa tradizione orientale. Il lontano Giappone, con i costumi e i rituali secolari, conservava ancora agli occhi del regista il fascino di un antico e incontaminato regime, minacciato dal sopraggiungere della

modernità – le origini della tragedia coincidevano con l’occupazione americana in seguito alla Seconda guerra mondiale: anche Yakuza, perciò, a modo proprio fu una storia del dopoguerra. E il passato tornava a tormentare i protagonisti per la resa dei conti ancora in sospeso. Dietro la compostezza della messa in scena, lo straordinario equilibrio cromatico – i colori rappresentarono una significativa novità rispetto al bianco e nero che aveva caratterizzato tanto i noir dell’età classica quanto quelli di seconda generazione – la rassicurante compostezza interpretativa di Robert Mitchum e di Ken Takakura, si poteva percepire una tensione sul punto d’esplodere. La straordinaria fotografia di Kozo Okazaki insinuava di continuo il dubbio che il pericolo potesse celarsi in qualunque angolo della scenografia, direzionando la luce in maniera da creare inquietanti effetti di chiaro scuro, da esaltare la funzione espressionista dei colori, da mantenere nell’ombra ampie aree della scena. Di questo capolavoro assoluto – sorretto da una sceneggiatura molto efficace, a propria volta tratta da una storia di Leonard Schrader che conosceva bene il Giappone per avervi vissuto a lungo – va sottolineata la carneficina finale, un’autentica danza di morte, durante la quale gli sguardi ferivano almeno quanto le lame. Pollack sottolineò ogni movimento della coreografia e ne soppesò tensione e fatica, attraverso stacchi e pause, compiendo ripetute incursioni nella battaglia e alternandole a quelle nella mente tormentata ma implacabile del samurai.

L’angelo ubriaco

Lo scenario orientale caratterizzò anche L’angelo ubriaco (1948), diretto dal grande cineasta giapponese Akira Kurosawa, che trattò di un’amicizia virile e del confronto tra generazioni diverse, analizzandoli alla luce di una concezione dell’esistenza umana come un’esperienza irrimediabilmente segnata dagli errori del passato. Nella lotta per la sopravvivenza, i personaggi tentavano ugualmente di elevarsi dalla condizione in cui erano precipitati e alla tradizionale aspirazione di riscatto, morale e materiale, Kurosawa accostò il desiderio di guarire dalla tisi: malattia cagionata dalle pessime condizioni igieniche della città, all’indomani della guerra, essa divenne il corrispettivo del degrado ambientale e dello stile di vita corrotto. All’amicizia vera e propria, perlopiù tra criminali, il regista sostituì il controverso rapporto tra un medico ubriaco e un malvivente ammalato, mentre conservò la rivalità autodistruttiva tra gangster, appartenenti a generazioni diverse e, in quanto tali, portatori di diversi codici comportamentali. Il più anziano, che, manifestandosi dapprima come un’ombra sinistra, avrebbe fatto irruzione nella vicenda solo dopo essere uscito di galera, nel momento in cui il protagonista si era finalmente deciso a curarsi, rappresentava il colpevole passato del Giappone – una visione superata, anzi sconfitta dalla Storia, improntata alla violenza, ai soprusi a forme altisonanti votate, però, solo al perseguimento di una meschina utilità – al quale nondimeno il protagonista non sarebbe potuto sfuggire. La sua sorte infatti era già stata stabilita, come emergeva chiaramente dalla sequenza onirica, simile all’incubo realizzato da Dreyer in Vampyr (1932), durante la quale il suo inconscio lo immaginò inseguito dal proprio spettro. Analogamente al protagonista, che il trucco trasformò progressivamente in un cadavere ambulante mano a mano che la malattia peggiorava, anche l’ambiente si stava degradando senza sosta: la città era stata trasformata in un malsano acquitrino, una palude infernale nella quale l’essere umano era esposto alle peggiori malattie; mentre una rosa gettata nella

pozza di rifiuti tossici avrebbe presagito che il protagonista stava abbandonando la vita – e, di conseguenza, anche la propria autorità di gangster, manifestata appunto nella deferenza del fioraio che gli permetteva di ornare ogni giorno l’occhiello della giacca, senza pagare. Kurosawa, tuttavia, pur tenendo fede alle regole elaborate dalla poetica noir – in particolare, quella della tragedia finale – volle indicare ai ragazzi giapponesi un modello di virtù, persino all’interno di questo scenario morente: il medico ubriaco che sarebbe infine riuscito a mettere in pratica i propri sforzi, guarendo una giovane paziente; strappando cioè il futuro al caos del presente, avendo raggiunto la piena consapevolezza che «la ragione è il miglior medicamento» e rievocando così le parole di Goya a proposito dei mostri generati dal sonno della ragione; lo stesso silenzio delle coscienze che aveva provocato i disastri della guerra appena conclusa e il disordine ormai dilagato sull’umanità. Tuttavia anche il medico ricevette da Kurosawa un tratteggio complesso: non si trattava di un eroe monodimensionale, privo di macchie e di ombre, bensì di un carattere tormentato sul quale ancora gravava, sotto forma di vizio del bere, un passato di sregolatezze: perciò egli riusciva a riconoscersi nel giovane delinquente, del quale tentò di guarire non soltanto il fisico ma anche l’anima. Questo personaggio, dunque, rappresentava la possibilità di evolvere attraverso gli errori, imparando a riconoscerne l’insegnamento prezioso – «c’è sempre un motivo, quando si va fuori strada» – e, ricorrendo appunto alla sua prospettiva, il regista mise in evidenza la fragilità del criminale, nascosta dietro una tracotante spavalderia: occorreva infatti un animo sensibile per constatare che «il suo cuore è solo più di ogni altro» e «benché vada avanti con il petto in fuori, nell’intimità egli vacilla». In questo modo, Kurosawa rifletteva sul coraggio e sull’onore autentici – concetti estremamente cari alla tradizione nipponica –compiendo la riflessione sulla reale natura del crimine che egli si era riproposto di condurre in profondità: «volevo tratteggiare queste figure degli yakuza con

un’intensità ancora maggiore di quella raggiunta da Yamamoto; prendere un bisturi e dissezionarne il sistema». Se, infatti, il suo co – sceneggiatore Keinosuke Uekusa, provenendo dall’ambiente della malavita, provava simpatia verso i delinquenti, Kurosawa, invece, dimostrò sincera e commovente compassione.

Grisbi

Nel film di Jacques Becker, Grisbi (1954), il rapporto di amicizia tra due anziani criminali e il confronto con un rivale più giovane offrì lo spunto per un’insolita riflessione sulla vecchiaia. Dopo l’esperienza del realismo poetico, Gabin si misurò con le atmosfere noir, contribuendo in maniera determinante a evocare la malinconica atmosfera del crepuscolo che distinse quest’opera all’interno di un genere del quale nondimeno possedeva alcune delle principali caratteristiche: la pianificazione e l’esecuzione di un sensazionale colpo; il fallimento provocato dall’avidità maschile e dal tradimento femminile; amicizia, vendetta e tragedia. Eppure, rispetto alla incrollabile determinazione degli antieroi della tradizione, la coppia di protagonisti di Grisbi viveva l’inquieta incertezza legata al passaggio del tempo e il desiderio di uscire dal giro della malavita, di cui vennero messi in risalto tanto il fascino dei locali notturni, quanto il senso di isolamento rispetto al mondo civile, per trascorrere nella serenità gli ultimi anni della propria movimentata esistenza: come i personaggi di El Dorado (1966) – da molti considerato il canto del cigno del western classico – anche loro avvertirono l’impressione di aver fatto il proprio tempo, di fronte all’avanzata di un nuovo tipo di criminale, spregiudicato

e privo d’onore, che non rispettava il codice morale della vecchia scuola. La malinconia legata all’invecchiamento – si consideri la ripresa in cui uno dei due si osservava riflesso nello specchio o quella in cui l’altro è costretto a inforcare gli occhiali per comporre un numero telefonico – assunse straordinaria rilevanza in questo noir introspettivo, assai meno interessato alla cronaca del piano criminale, che qui, invece di essere oggetto di una minuziosa anatomia cinematografica, veniva appena accennato. Benché fossero aumentati rimpianti e acciacchi, le debolezze dell’animo virile non si erano attenuate: sarebbe stata appunto l’incontrollabile passione di uno dei due per le donne a determinare, secondo le regole della tradizione noir, la tragedia finale. Il personaggio interpretato da Jeanne Moreau – che in carriera avrebbe vestito diverse volte i panni della femme fatale – possedeva uno spessore caratteriale che la distingueva da tutte le altre inconsistenti apparizioni femminili del film, ridotte a simbolo di pericolosa seduttività nel numero musicale in cui compaiono vestite da sirene. Ad essere invece effettivamente maturato, nel personaggio di Jean Gabin, fu il distacco: egli, scaltrito dall’esperienza, non cedeva più alle lusinghe delle donne, non si sorprendeva affatto dei colpi bassi da parte degli altri gangster, non si scomponeva neppure di fronte alle beffe della malasorte. Il suo tipico profilo caratteriale si era evoluto, passando dalla reazione disperata e violenta nei confronti del destino, tipica del realismo poetico, alla stanca e rassegnata accettazione della condizione d’impotenza che caratterizzava l’essere umano nella logica noir. Di quest’uomo, al quale era sufficiente il volto dell’attore francese per attribuire straordinario carisma, Becker svelò l’umanità attraverso la cronaca quotidiana, secondo le regole del cinema realista: l’apparecchiatura della tavola, il paté sui crostini di pane, il lavaggio dei denti prima di coricarsi; la passione per un motivo musicale che scandiva la sua esistenza cinematografica attraverso il doloroso lamento di un’armonica

a bocca. Vista attraverso il suo sguardo stanco e nostalgico la frenesia dei locali notturni, tutti alcol e paillettes, risultava quasi stonata rispetto alla posatezza della sua intimità.

Il buco

Nell’ultima opera della propria carriera, Il buco (1960), Becker tornò a confrontarsi con le atmosfere noir e con il tema dell’amicizia virile, realizzando l’archetipo dei racconti di ambientazione carceraria. Descrivendo con attenzione documentaristica la vita all’interno della prigione e con appassionato sentimento il rapporto di solidarietà instaurato tra i detenuti, il film raccontò un tentativo di evasione, al quale i protagonisti si dedicavano con dedizione e accanimento equivalenti a quelli che, al di là delle mura di cinta, avrebbero impiegato per eseguire il consueto piano criminale. Più che le doti professionali – come la perseveranza e il rigore – l’autore si ripromise di celebrarne quelle umane: la lealtà e la compassione; erano appunto queste qualità caratteriali a distinguerli dall’ipocrisia e dal sadismo del sistema di cui si trovavano prigionieri – si tenga presente, al riguardo, l’inquietante primo piano di un secondino che, con sguardo compiaciuto, osservava un ragno impegnato a mangiare un mosca, rimasta intrappolata nella rete. Aggirandosi entro spazi scomodi e angusti, in mezzo a numerosi personaggi, nessuno dei quali interpretato da un divo del cinema, la vera protagonista del film fu la macchina da presa: adottando un linguaggio complesso, essa passava dalle riprese di gruppo, in campo medio – cogliendo così il sovraffollamento della cella – alle inquadrature individuali, in

primo piano – attraverso le quali evidenziare sguardi e reazioni. Per esasperare il senso di claustrofobia, provocato dalla morsa della prigionia, il regista ricorse alla piano sequenza, ora muovendosi con esasperante lentezza da un capo all’altro dell’ambiente, per misurarlo palmo a palmo, ora, invece, lasciandosi trainare dai passi dei reclusi, per cogliere l’alienazione provocata dalla monotonia del tragitto. Il clima snervante dell’esistenza carceraria venne scandito dalla monotonia dei rumori e dai lugubri rintocchi della campana dell’istituto – mentre Becker aveva deliberatamente espunto dalla messa in scena qualunque accompagnamento musicale, che sarebbe risultato contrario alla vocazione realista della rappresentazione. Nella seconda parte del racconto la regia, attraverso un montaggio più drammatico, tentò di suggerire la sensazione di tensione costante alla quale venivano sottoposti i nervi dei protagonisti durante i preparativi rivolti alla fuga: persino al minimo movimento dei detenuti, corrispondeva una reazione contraria – più o meno consapevole – della realtà circostante, così da provocare in continuazione l’impressione di un’imminente collisione. Era il caso della scena dedicata all’esplorazione dei sotterranei o di quella durante la quale i carcerati tenevano d’occhio le guardie attraverso un rudimentale periscopio. Nonostante l’intento celebrativo nei confronti dell’umanità dei reclusi – opposta, come detto, all’insensibilità dell’istituzione e dei suoi rappresentanti – il fallimento del progetto di fuga, sinonimo della ribellione individuale a un sistema sociale insopportabile, venne provocato proprio dal tradimento di uno di loro: l’esaltazione dell’ideale di lealtà si scontrava con la constatazione di una prassi ispirata all’egoismo, giungendo alla massima tipicamente noir della necessità, per ogni uomo lungimirante, di tenersi alla larga dalle donne e dagli amici.

Amanti dannati

La componente misogina, che caratterizza – sia pure in misura variabile – ogni racconto noir, ispira soprattutto quelle trame originate dallo spunto della coppia di amanti. L’adulterio, in età moderna, fu un tema ricorrente della narrativa letteraria e teatrale, la quale, interessata a svolgere una polemica antiborghese, si accanì nei confronti dell’ipocrisia del matrimonio. Anche al cinema il rapporto adultero ricevette diverse trattazioni e, già ben prima dell’elaborazione della poetica noir, le commedie americane degli anni ’30 affrontarono con estrema disinvoltura gli equivoci legati a complicati intrecci sentimentali, perlopiù illegittimi. Tuttavia, nei film neri questo tipo di relazione finì per sovrapporsi alla complicità nel delitto, mentre la donna, invece di limitarsi al ruolo di seduttrice fedifraga, assunse quello di meneur della coppia, determinando la rovina propria e dell’amante. Fu il noir, infatti, ad attribuire definitivamente alla figura femminile il ruolo di epicentro drammatico che negli altri generi della Hollywood classica ella non aveva mai rivestito – in questo ispirato dalla tradizione romantico europea della donna vampiro, che a inizio novecento decadentismo ed espressionismo avevano ulteriormente rinvigorito. Non si trattò, quindi, di una conquista della quale la critica cinematografica femminista, come quella di Laura Mulvey, potesse essere soddisfatta: il maggior rilievo assegnato alla donna rispetto alla controparte maschile – oltre a costituire un’ulteriore declinazione del ribaltamento degli stereotipi che caratterizzò, sotto ogni aspetto, l’universo al contrario del noir – corrispose all’idea che ella fosse ben più astuta e soprattutto assai più spietata di qualunque uomo.

Se per costui era una questione di debolezza, di fronte al richiamo seduttivo della donna, nel caso di lei si trattava sempre o quasi di distaccata premeditazione, di un abilissimo artificio, altamente impressionante, assolutamente irresistibile, ma svuotato d’emozione, privo di passione, del tutto disumano. Una relazione fondata su simili premesse risultava destinata a un tragico epilogo, risentendo della stessa predestinazione alla disgregazione che aveva contagiato qualunque esperienza della vita umana. Nel racconto noir, però, non sembra neppure concepibile un tipo alternativo di relazione tra uomo e donna e ciò comporta un’altra significativa differenza rispetto al thriller. Basta considerare che nella poetica di Alfred Hitchcock, maestro della narrativa di questo genere, si impose un inevitabile parallelismo tra la vicenda suspense e la vicenda sentimentale: nei suoi capolavori, il superamento delle prove poste dalla prima era legato al rafforzamento del legame al centro della seconda. L’autore inglese – che, meglio di qualunque altro interprete di cinema o di forme d’arte differenti, definì i canoni del thriller, facendovi immancabilmente rientrare il lieto fine – aveva dunque immaginato la perfetta coincidenza tra trionfo della verità e trionfo dell’amore, considerando indispensabile per il raggiungimento di entrambi la perfetta sinergia uomo – donna secondo una logica evidentemente ispirata alla reciproca soddisfazione cui dovrebbe tendere il rapporto sessuale. La relazione, perversa, morbosa e autodistruttiva, che lega gli amanti noir, oltre a risultare inevitabilmente opposta a quella degli innamorati del thriller hitchcockiano, ha natura diversa anche rispetto all’amor folle surrealista, non coincidendo neppure con la più tragica deriva di quest’ultimo elaborata dal realismo poetico: in quelle opere, neppure il sentimento più nobile e più sincero valse a riscattare l’individuo dal dolore esistenziale al quale era stato condannato dal destino, ma almeno costituì la riprova di una

sensibilità che nelle coppie di dannati noir era stata totalmente prosciugata.

La fiamma del peccato

Vero e proprio manifesto del cinema noir, La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder – regista che passava con estrema disinvoltura dalla commedia sofisticata al thriller giudiziario – costituisce la massima espressione dello spunto degli amanti criminali. Al cuore del dramma, come sempre, si delineava il delitto; la sua origine era stata l’incontro degli amanti; il suo esito portò alla rovina di entrambi, allontanati l’uno dall’altra da inganni e sospetti reciproci. Una trama puramente noir, raccontata partendo dalla fine e risalendo, attraverso il flashback, al recente passato di cui, nell’epilogo ambientato nel presente, il protagonista aveva dovuto finalmente affrontare le tragiche conseguenze. Il film presentava anche una spiccata componente suspense – magistralmente distillata da Wilder nel corso dello sviluppo: essa scaturiva dall’inchiesta di un funzionario delle assicurazioni, impegnato a smontare inesorabilmente il piano ordito da un più giovane collega e dalla sua spregiudicata amante. A tradirli sarebbe stata la loro ambizione sfrenata, da cui erano stati spinti a cercare di intascare la doppia indennità prevista in casi eccezionali dalla polizza sulla vita del marito di lei – quel premio al quale si riferiva il titolo originale del film, suggerendo di attribuire ad esso una rilevanza particolare. Più indovinato parrebbe allora quello della versione italiana, che evidenziò al contrario l’irresistibile tentazione della coppia verso il proibito: volgarizzazione

dell’hybris classica e del titanismo espressionista, la macchinazione del delitto da parte degli adulteri era in effetti la causa ultima della loro autodistruzione. La narrazione procedeva nella prospettiva del protagonista maschile – in considerazione dell’obiettivo di rivolgersi prevalentemente a un pubblico di uomini, dopo che la rivoluzione hard boiled aveva radicalmente trasformato la narrativa poliziesca che, secondo il biografo di Hammett, Richard Layman «a cavallo tra XIX e XX secolo era incline al melodramma, risultando quindi un genere particolarmente adatto alle donne» – interessandosi in particolare alla sua inesorabile rovina, provocata da un momento di debolezza durante cui egli era stato abbandonato dalla ragione. La sua inconsistenza morale e caratteriale impedì che riuscisse a reagire attivamente e, quando finalmente riacquistò il senno, sarebbe stato troppo tardi: lo dimostrava efficacemente il movimento della macchina da presa che, avanzando lentamente in direzione del suo volto, compiva un incursione nei suoi pensieri, svelando un’espressione di sincero orrore, esasperata dall’eccessiva vicinanza dell’obiettivo. Quel movimento incontro al primo piano dell’uomo esprimeva appunto il ritorno in lui delle facoltà razionali, che lo avevano lasciato al momento dell’incontro con la donna per cui aveva perso la testa: in quel caso, la macchina da presa aveva seguito un’opposta traiettoria, allontanandosi dal viso del protagonista. Egli stesso, alla fine della tragedia – posta però all’inizio del film – avrebbe dovuto riconoscere il fallimento dovuto alla propria mancanza di carattere: «ho ucciso per denaro e per una donna. E non ho avuto il denaro e non ho avuto la donna!». Una frase capace di sintetizzare la poetica noir; non casualmente elaborata dal genio di Raymond Chandler, autore dei dialoghi del film di Wilder, basato su un romanzo del collega James Cain. A manovrarlo come una marionetta incapace di autodeterminarsi – e il pensiero corre subito al sonnambulo del dottor Caligari – era stato il fascino magnetico di un’esemplare dark lady, interpretata da Barbara Stanwyck che in seguito, ne

Lo strano amore di Martha Ivers (1946), avrebbe modulato l’improvviso passaggio, da un’espressione di innocente candore a una luciferina e inquietante perversione, degno delle metamorfosi di mademoiselle Blanche, raccontate da Dostoevskij ne Il giocatore. Non stupisce pertanto che Wilder abbia deciso di suggerire – anziché mostrare – l’omicidio del marito proprio attraverso il primo piano del volto della donna sul quale si dipinse, invece del pentimento, una compiaciuta e perversa eccitazione. Tutta la messa in scena del film, d’altra parte, era rivolta a evocare la sgradevole impressione della perversione che univa gli amanti nella loro follia: dalla cupa fotografia di Seitz – abile a sfruttare i giochi di luce e ad animare la scena di ombre inquietanti e opprimenti, attraverso cui venne esaltata una Los Angeles inconsueta, umida e tetra – al tema musicale di Ròzsa che, risuonando di continuo, contribuì a rappresentare il turbamento mentale del protagonista mano a mano che egli veniva risucchiato in un vortice senza scampo – svolgendo quindi lo stesso ruolo drammatico/narrativo del disco in Rififi o del leitmotiv de I gangster, che Tiomkin aveva definitivamente assegnato alla musica nel genere western.

Il postino suona sempre due volte

Ben prima di scrivere La morte paga doppio, James Cain, uno dei maggiori interpreti dello stile hard boiled, aveva pubblicato Il postino suona sempre due volte, da cui nel 1943 Luchino Visconti avrebbe tratto Ossessione. Si trattava di un romanzo dalla prosa cruda, tipica degli epigoni di Hammett, e dall’atmosfera satura della malinconia legata allo scenario della Grande depressione; opera spuria e insofferente, proprio come il suo autore, a qualunque rigorosa collocazione critica,

esso – affrontando apertamente aspetti come l’adulterio, la passione sfrenata, l’esistenza sregolata del vagabondaggio – anticipò il realismo sporco di Charles Bukowski e, pur raccontando un amore sincero – non poté fare a meno di associarlo all’inganno, al tradimento, all’omicidio. Cain, dunque, dimostrò una particolare e insistita predilezione per lo spunto degli amanti assassini – che il cinema noir americano ripropose, partendo da questo suo romanzo, nel 1946, attraverso l’omonimo film diretto da Tay Garnett – ma costruì la tensione drammatica del racconto sulla contrapposizione, insolita per il cinema nero, tra peccato e purezza, giungendo nel finale ad applicare tanto il castigo quanto la redenzione. Anche la trasposizione cinematografica di Garnett adottò questa inconsueta dialettica tra perversione e pentimento e l’epilogo del film risultò eccezionalmente consolatorio. Nonostante questo, l’evoluzione del rapporto della coppia seguì la consueta parabola a gobba di cammello, passando attraverso l’unione fondata sull’adulterio e sul crimine; degenerando in allontanamento a causa di sospetti e diffidenza reciproci; concludendosi in tragedia per l’intervento del destino, spietato e beffardo. Lungo questo percorso, tuttavia, affiorò un sentimento d’amore che sarebbe stato sconosciuto ai noir puri, benché neppure la sua genuinità valse a salvare i due dalla punizione legata alle loro colpe – un presagio della quale fu certamente l’eco della voce del marito ucciso, che continuò a risuonare anche dopo il colpo mortale, facendo rabbrividire la donna, il cui volto era stato ripreso durante l’esecuzione, secondo la stessa logica di narrazione per suggestione adottata da Wilder ne La fiamma del peccato. Oltre a non stravolgere la peculiare componente sentimentale, Garnett mutuò dal romanzo di Cain anche il realismo sporco, rappresentando la violenza della passione amorosa: così, il primo incontro di sguardi tra i due venne incorniciato dalle riprese di un fuoco divampante, mentre i dialoghi vennero improntati ad allusioni inequivocabili.

Seduzione mortale

Seduzione mortale (1952) fu un film di Otto Preminger dedicato al tema degli amanti dannati, nel quale il regista austriaco trattò un motivo narrativo tipicamente noir con i toni del melodramma, confermando la propria tendenza all’originalità espressiva. La violenza dirompente del sentimento d’amore – qui epurato dalla tradizionale connotazione adulterina – sarebbe infatti risultata predominante rispetto a qualunque altro sentimento e, in particolare, alla cupidigia: l’ossessione, patologia che caratterizzava i personaggi noir, in quest’opera non possedette carattere criminale, bensì passionale. Anche il tratteggio della seduttiva patricida, alla cui straordinaria abilità di mentire e di ingannare mantenendo l’impressione di purezza si riferiva il titolo originario, Angel face, subì un’evoluzione del tutto sconosciuta alla classica dark lady: dopo l’ambiguità, degna di mademoiselle Blanche – nella modulazione delle espressioni di cui era capace – e l’assoluta insensibilità – manifestata nella ripresa in cui simulava la caduta della matrigna giù da un burrone, facendo rotolare di sotto un pacchetto di sigarette vuoto – emersero progressivamente rimorso, pentimento, dolore e sconcerto provocati dalla morte del padre che ella non aveva alcuna intenzione di causare. Punita dal destino, ella venne ripresa da Preminger mentre vagava come uno spettro attraverso le sale della grande villa, mentre le ombre che ne assediano la figura esprimevano il tormento della sua coscienza, prigioniera del senso di colpa. Nella sua insulsaggine, la controparte maschile corrispose al profilo dell’uomo incapace di resistere alle passioni e di

determinare la propria sorte, lasciandosi guidare dalla donna verso la rovina. Tuttavia egli, pur risultando moralmente inconsistente, non si era macchiato di alcuna colpa e la sua sconfitta finale non rispose alla logica retributiva, alla quale si ispirava la poetica noir, ma all’applicazione del concetto premingeriano della sensualità autodistruttiva, normalmente riferito a seducenti ma fragili figure femminili, interpretate dalla musa ispiratrice del regista, Gene Tierney – si considerino, in proposito, le protagoniste di Vertigine (1944) o de Il segreto di una donna (1949). Anche da questo punto di vista, Seduzione mortale compì uno sconcertante e originalissimo ribaltamento di prospettive, attribuendo al protagonista maschile l’inusuale ruolo di oggetto dello sguardo, vittima del desiderio ossessivo che la donna provava nei suoi confronti. Accanto all’approfondimento della tragedia individuale, trovò posto anche la polemica nei confronti della relatività della giustizia – alla quale Preminger avrebbe dedicato il monumentale Anatomia di un omicidio (1959), demolendo con un’unica ripresa finale più di due ore di dissertazioni giuridiche: nelle sequenze del processo subito dai due amanti, il regista valorizzò l’aspetto morboso e spettacolare del procedimento, con la trovata del matrimonio combinato al solo scopo di impressionare favorevolmente la giuria. L’epilogo, sconcertante, di Seduzione mortale – nel quale venne applicata comunque la concezione noir dell’amore, come sentimento che non può portare alla salvezza – ispirò, per sua stessa ammissione, Truffaut nella ideazione del finale di Jules e Jim (1962). Lo stesso regista francese avrebbe realizzato un racconto dalle atmosfere noir, La sposa in nero (1968), che si caratterizzò in particolare proprio per la centralità assegnata alla figura femminile – disposta all’autodistruzione pur di appagare la propria ossessione, in questo caso di vendetta – e si allineò alla originale sperimentazione compiuta dal collega austriaco, il quale aveva elaborato una protagonista altrettanto folle nella sua ostinazione.

Ascensore per il patibolo

Film d’esordio di Louis Malle, Ascensore per il patibolo (1957) non fu soltanto una delle numerose opere francesi ispirate al noir americano, bensì l’apripista di un movimento cinematografico vero e proprio, la Nouvelle Vague, che avrebbe recepito l’insofferenza esistenziale, legata alla spietatezza della guerra d’Algeria ed espressa, in seguito, attraverso le rivendicazioni studentesche degli anni ’60. Malle gettò le basi – formali e ideologiche – sulle quali Godard, Truffaut, Chabrol e la nuova gioventù del cinema francese tentarono di rappresentare l’universo dei loro coetanei che, per le strade delle città francesi, aspiravano a cambiare il mondo, impegnando se stessi nell’amore e nella ribellione. Si trattò di un’avanguardia stilistica, il rigetto del distaccato manierismo moralizzante che aveva paralizzato il cinema istituzionale: con mezzi di fortuna e spirito rivoluzionario, i registi della nuova ondata si posero sulle orme del neorealismo italiano e dei B movies noir – attirati dal richiamo di un’esperienza cinematografica diversa da quella dell’accademia nazionale ma, al tempo stesso, dolente e sovversiva quanto il realismo poetico, che aveva rappresentato la migliore espressione del film d’autore francese – e scesero per le vie, in mezzo alla gente, con l’obiettivo di redigere una cronaca del quotidiano e celebrare il fervore culturale in atto. Sui Cahiers du Cinéma Godard, al riguardo, aveva parlato dello «splendore del vero», suggerendo di sfruttare l’avvento del registratore portatile – alla stregua di quanto avevano fatto gli impressionisti con il tubetto per il trasporto dei colori – e riprendere in ambienti autentici interpreti scelti tra le persone comuni. Si delineò così l’idea di un’attività estremamente personale, della quale il regista rivendicava la piena proprietà morale, identificando nel film l’espressione della propria

intimità: attraverso essa, egli compiva un’attività creativa volta a generare una nuova e autonoma realtà, rifiutandosi di soggiacere a qualunque costrizione formale o etica. Il cinema divenne esso stesso – al di là della storia che raccontava – uno strumento di ribellione. Fino all’ultimo respiro (1960) di Godard – opera di impianto e di atmosfera vagamente noir, dichiaratamente ispirata al cinema statunitense – si impose agli occhi della critica internazionale come manifesto della Nouvelle Vague. Questo termine, però, era già stato utilizzato nel 1958 dal critico Pierre Billard, che, a propria volta, si era ispirato alla definizione data dal sociologo Giroud alla nuova generazione, avvertita come un’inarrestabile forza sopraggiungente. Ascensore per il patibolo ebbe il merito di accordare uno sviluppo tipicamente noir – caratterizzato dalla consueta gobba di cammello – alla sensibilità dei nuovi cineasti francesi. Si considerino le numerose sincopi dell’andamento visivo – narrativo, al quale corrispose sul piano sonoro la musica spezzata di Miles Davis: si trattava dell’elaborazione di un nuovo espediente straniante, estremizzato da Chris Marker nel cortometraggio La jetée (1962) – una successione di immagini statiche raccordate tra loro dalla narrazione della voce over. Il tema del confronto generazionale – tipico di noir e western, ma estremamente attuale nello scenario artistico e cinematografico francese degli anni ’60 – venne affrontato non solo attraverso l’adozione di soluzioni registiche di rottura, ma anche attraverso la digressione che aveva per oggetto la fuga (non a caso) di due giovani parigini e il loro drammatico incontro – scontro con una coppia di più anziani turisti tedeschi. Quanto alla storia degli amanti, destinati alla disgregazione e divisi dal dubbio, essa risultava simbiotica con l’esistenza altrettanto inquieta della città: dalla camminata notturna attraverso una Parigi nera e umida – un modello per la polemica che Truffaut avrebbe svolto in Effetto notte (1973) nei confronti delle finzioni scenografiche del «cinema di papà» – alla contaminazione degli spazi interni agli uffici della

vittima con il circostante contesto metropolitano – attraverso grandi vetrate che proiettavano Montmartre direttamente nelle stanze. Le riprese puramente interne risultarono allora addirittura interiori: l’ascensore – claustrofobica, buia e priva di vie di fuga – diventava la sede materiale di un esame di coscienza a cui era impossibile sottrarsi; la stanza di reclusione in cui si svolge l’interrogatorio – immersa in un buio metafisico – sembrava piena del senso di vuoto che minacciava di travolgere l’accusato. Se la fotografia dell’abilissimo Henry Decae conferì alla messa in scena l’aspetto tipicamente noir, dominato dal contrasto tra bianco e nero – tra bene e male – con netta prevalenza del secondo, assolutamente originale fu l’accompagnamento musicale curato dal jazzista Miles Davis, i cui improvvisi squilli esprimevano quella volontà di rottura concettuale rispetto al vecchio cinema, artificioso e ipocrita, melodioso come un innaturale ritornello. Quanto al finale, Malle giocò sul cliché dell’immancabile beffa tragica – generalmente manifestata attraverso una svolta imprevista e repentina, foriera di sconcerto – elaborando invece una soluzione attraverso cui il destino infieriva con sadica lentezza: la protagonista era costretta ad assistere impotente allo sviluppo delle fotografie che l’avrebbero compromessa insieme all’amante. In una sola sequenza il regista francese condensò il senso di predestinazione e la frustrazione che caratterizzavano generalmente dall’inizio alla fine il film noir, durante la cui evoluzione i personaggi subivano, senza potervisi in alcun modo opporre, la progressiva manifestazione dei disegni della sorte.

I diabolici

Il motivo narrativo degli amanti assassini era stato trattato anche da un altro cineasta francese, il geniale Henry George Clouzot, ne I diabolici (1954): opera venata di nero, nella quale tuttavia prevalevano tratti thriller e, soprattutto, intenzioni horror. Inoltre lo stereotipo noir subì un rovesciamento di prospettiva: il componente maschile della coppia, invece di risultare totalmente asservito alla controparte femminile, esercitava il ruolo dominante; vittima del diabolico duo non sarebbe stato poi il solito marito, tratteggiato con superficialità come un individuo assente, violento o ripugnante, bensì una giovane e indifesa moglie, innamorata e compassionevole. Ne risultò estremamente attenuata la componente misogina – salvo la riviviscenza nel finale, allorché Simone Signoret svelava la propria crudeltà. Ciò che più importa è evidenziare le differenze introdotte dagli sceneggiatori rispetto all’originario e omonimo romanzo di Pierre Boileau e Thomas Narcejac dal quale era stato tratto il soggetto. Questi avevano scritto un racconto ispirato alla narrativa nordamericana – in particolare a La morte paga doppio di Cain – ma avevano attribuito il movente, oltre che all’avidità umana, anche alla noia dell’esistenza borghese – nel solco della tradizionale polemica realista. Propriamente noir era la rilevanza attribuita alla donna seduttrice e l’assunzione della prospettiva soggettiva del colpevole, del quale veniva in tal modo approfondito il dramma interiore – con la conseguenza che anche l’inspiegabile sparizione del cadavere assumeva rilievo soprattutto in considerazione degli effetti che avrebbe prodotto sulla psiche sempre più provata del protagonista: guardando alle atmosfere di Hoffmann e di Poe, i romanzieri cominciarono a popolare la mente dell’uomo di fantasmi, visioni e allucinazioni, ricorrendo a deformazioni di ispirazione espressionista che servivano a manifestarne la dissociazione dalla realtà e il graduale delirio, in cui affioravano ricordi d’infanzia e senso di impotenza. Emergevano così spunti che avevano esplicato la propria

rilevanza ben al di là del puro perimetro noir: il peso attribuito al passato, il ribaltamento dei ruoli di carnefice e di vittima, la coesistenza di innocenza e di colpevolezza – spunti fondamentali, per esempio, nella poetica langhiana. A fronte di un’opera – quella letteraria, tanto complessa e articolata, il film di Clouzot risultò improntato a maggiore monotonia adottando un registro puramente horror – evidente nella sequenza durante la quale l’uomo, creduto morto dalla moglie, le appariva nel cuore della notte, allo scopo di farne scoppiare il cuore malandato; in precedenza, il regista aveva attinto a vari cliché del genere della paura: il sinistro cigolio delle porte, l’inquietante ticchettio dei tasti di una macchina da scrivere – soluzione impiegata anche da Kubrick in Shining (1980) – luci inspiegabilmente intermittenti, bagliori filtrati attraverso le fessure, ombre scivolate lungo le pareti, un’irriconoscibile mano guantata su per le scale. E, ancora, l’inspiegabile apparizione dell’uomo all’interno di una fotografia scattata dopo la sua morte e l’intestazione di una camera d’albergo ad un individuo che nessuno ha mai visto entrarvi o uscirne – idea che Hitchcock avrebbe applicato in Intrigo internazionale (1959). Citare Hitchcock, parlando di Clouzot, non è mai fuori luogo: il maestro inglese avrebbe dovuto acquistare i diritti relativi appunto a I diabolici e rifiutò la direzione di Vite vendute (1953), mentre diresse La donna che visse due volte (1958), traendo il soggetto dall’omonimo romanzo di Boileau e Narcejac. Anche la sequenza dedicata al ritorno dalla casa di campagna, nella quale era stato consumato il delitto, con gli innumerevoli imprevisti e l’immagine di un cassone – sarcofago sul punto di venire ripetutamente aperto, richiamò nel film di Clouzot i motivi di suspense che Hitchcock aveva immaginato per Nodo alla gola (1948). Eppure il regista deviò dalla concezione hitchcockiana, secondo cui l’elemento chiave della suspense consisteva nello scarto conoscitivo tra lo spettatore e i personaggi, costringendo

il pubblico a una visuale limitata, con la conseguenza che invece dell’angoscia se ne stimolava piuttosto la paura. In tutto ciò, l’atmosfera noir restava chiaramente sullo sfondo, come la nota di un profumo meno immediata ma più persistente: alla fine, infatti, nella mente dello spettatore, sconvolta da tensione e spavento, si sarebbero imposti il cinismo degli amanti, l’ipocrisia e l’inconsistenza della mentalità borghese, la falsità delle convenzioni sociali. Anche il commissario – la cui presenza fornì l’occasione per lo svolgimento dell’inchiesta, tipico passaggio noir – agiva spinto dalla noia dovuta al pensionamento piuttosto che da una sincera compassione nei confronti della donna. Anzi, persino quando avrebbe potuto fermare il complotto, ritardò il proprio ingresso sulla scena allo scopo di cogliere in flagrante gli amanti, senza neppure preoccuparsi dei rischi corsi dalla malata di cuore, che anch’egli parrebbe dunque sfruttare come tutti gli altri, facendone la propria esca. Ulteriore elemento di originalità del film fu l’ambientazione: non la metropoli frenetica, irresistibile e contagiosa, bensì la provincia sonnolenta e chiusa: nella visione di Clouzot malvagità e disumanità avevano avvelenato l’intera Francia, arrivando fino a Niort, paesino natale dello stesso regista.

Blood Simple

Al loro esordio, i fratelli Joel e Ethan Coen realizzarono Blood Simple (1984), un thriller chiaramente ispirato alle atmosfere del noir classico – la conoscenza profonda della cui poetica e dei classici che l’avevano definita emergeva attraverso alcune significative citazioni.

La funzione drammatica attribuita alla scenografia era immediatamente evidente: le prime riprese alternavano tra loro ampie vedute panoramiche, la cui anima crepuscolare e inquieta si accordava al preambolo recitato dalla voce over. La sequenza successiva – secondo la logica straniante adottata dai maestri della destrutturazione – realizzava una netta frattura estetica: l’ambiente buio e angusto dell’abitacolo di un’auto, la sagoma indistinguibile di due individui, un parabrezza sul quale si abbatteva un nubifragio, impedendo allo spettatore di vedere attraverso il vetro – presagendo la stessa mancanza di chiarezza che ne I diabolici aveva suggerito la ripresa d’apertura, dedicata alle acque torbide che ristagnavano all’interno della piscina. La dialettica estetica, instaurata tra questi due passaggi, corrisponde a quella tra la solitudine – menzionata dal narratore – e la complicità che aveva spinto la coppia a intraprendere un viaggio di cui, a causa della pioggia, non era impossibile vedere chiaramente lo sviluppo. Gli amanti sarebbero stati divisi dalle incomprensioni reciproche e dal crudele intervento del destino e ciò li avrebbe costretti a ritrovarsi soli – come gli autori avevano avvertito sarebbe accaduto, sin dall’introduzione della vicenda. Conformemente a questa visione dell’esistenza, i Coen svilupparono la propria trama assumendo, di volta in volta, la peculiare prospettiva di ciascun personaggio – omettendo di ricorrere a una narrazione oggettiva e, di conseguenza, limitando la visuale dello spettatore, al quale nondimeno vennero fornite, per effetto del montaggio incrociato, più informazioni di quante ne possedessero i protagonisti individualmente considerati: anche gli amanti, come già era accaduto in Ascensore per il patibolo, non avrebbero praticamente mai agito in coppia, venendo invece fatalmente costretti a fronteggiare un profondo senso di solitudine. Questa struttura valse a rappresentare un universo dominato dal solipsismo: ogni essere era portatore di interessi e di emozioni proprie, dalle quali scaturiva una differente visione della vicenda e, soprattutto, un’incolmabile distanza

psicologica. Fu appunto la limitatezza dello sguardo umano – incapace di accedere alla piena comprensione del disegno del fato, nella sua interezza – a scatenare la lotta mortale tra gli amanti e l’investigatore, che finiva per essere ucciso venendo addirittura scambiato per un altro personaggio. Nell’ambito di questa riflessione sull’ingannevolezza delle apparenze, i Coen svolsero anche una considerazione relativa alla manipolazione del materiale filmico, giungendo a considerare la relatività dell’esistenza umana in termini cinematografici: infatti, a innescare la tragedia fu la manipolazione della fotografia compiuta dal ricattatore, un’attività materialmente corrispondente a quella svolta dal cineasta. Ma al regista di questa messa in scena – naturalmente motivata dall’avidità corrosiva che caratterizza tutti i personaggi noir – la rappresentazione sarebbe sfuggita di mano, proprio come ai menuers di Welles e di Mankiewicz. Quanto all’appassionata cinefilia degli autori, si considerino l’accendino dimenticato dall’assassino sul luogo del delitto – tributo a Delitto per delitto (1951) di Hitchcock – o al foro nella porta in seguito al colpo di pistola – omaggio a Il prigioniero del terrore (1944) di Lang. Il riferimento a questi due maestri – specie il primo di loro – non era affatto casuale: Blood Simple fondeva infatti gli spunti tipicamente noir del tradimento e dell’inganno con quelli thriller dell’innocente creduto ingiustamente colpevole e della donna perseguitata da un misterioso e sadico aguzzino. Questo complesso intreccio venne affrontato dai fratelli Coen con macabra ironia ed eccesso di truculenza, ai limiti del ridicolo, che avrebbero caratterizzato l’estetica di molti dei loro successivi film. Ancor più distintiva fu la destrutturazione operata dagli autori, alterando la percezione del tempo e del reale – sfruttando, ad esempio, secondo una sensibilità depalmiana la registrazione impressa nella segreteria telefonica – oppure riproducendo l’esperienza onirica, con la conseguenza del disorientamento dello spettatore e di un notevole accrescimento del senso di angoscia che egli era costretto a provare.

Affari di Stato

Un aspetto caratteristico del racconto noir è la diffidenza diffusa nei confronti delle istituzioni pubbliche, del potere politico, delle autorità amministrative e, più in generale, dell’élite borghese, ipocrita e benpensante. Se è vero che anche nel western di prima generazione lo sceriffo poteva essere disonesto e sadico e il banchiere pavido e corrotto, è altrettanto evidente che la ragione di questa critica nei confronti dei maggiorenti della comunità aveva il solo scopo di mettere in evidenza la forza di carattere e il codice morale degli emarginati: in ogni caso, resisteva un prototipo umano dotato delle migliori virtù, nel cuore del quale il bene prevaleva sul male. Nel noir, invece, oltre alla sfiducia verso il sistema sociale – caratteristico del realismo, specie dopo la revisione dell’arte operata dalle avanguardie di inizio ’900 – si impose anche quella nei confronti della natura umana, debole e corruttibile. Tuttavia, alcuni film – pur riproducendo una greve atmosfera autenticamente noir, soprattutto per il clima di avversione nei confronti del governo – adottando una visione ispirata al cinema western, compirono quel particolare ribaltamento di giudizio per effetto del quale gli antieroi provavano di possedere quei valori, su tutti il senso della lealtà, anche verso la patria – che invece difettavano in coloro che avrebbero dovuto vegliare sulla loro stessa conservazione. Era il caso dei controversi protagonisti de Il fuorilegge (1942) e di Mano pericolosa (1953), figure solitarie, ribelli, insofferenti al rispetto dell’autorità e della morale comune, ma dotati di sensibilità e umanità assolutamente uniche. I noir di seconda generazione, invece, risentirono della crisi di fiducia nei confronti del governo che si stava

diffondendo rapidamente in tutti gli Stati Uniti – Zinn evidenziò che «nei primi anni settanta il sistema sembrava aver perso il controllo della situazione: non poteva più contare sulla fedeltà degli americani. Già nel 1970, secondo il Centro per le ricerche d’opinione dell’Università del Michigan, la «fiducia nel governo» era «bassa in tutti i settori della popolazione». […] Il Centro aveva posto questa domanda: «il governo è dominato da grandi potentati che badano solo ai propri interessi?». Nel 1972 i sì erano saliti al 53 per cento. […] Senza dubbio questo stato d’animo nazionale di ostilità verso il governo e il mondo dei grandi affari derivava in gran parte dalla guerra del Vietnam, con i suoi cinquantottomila caduti americani, la vergogna morale, lo smascheramento delle menzogne e delle atrocità del governo. A questo si aggiunse la disgrazia politica dell’amministrazione Nixon, travolta da scandali che furono riuniti sotto un’unica etichetta, Watergate, e portarono alle storiche dimissioni di Richard Nixon dalla presidenza – fatto senza precedenti in America – nell’agosto del 1974». Perciò venne abbandonato il tradizionale profilo dell’antieroe per concentrarsi invece sul concetto dell’anti – società, rappresentando il conflitto tra un individuo piuttosto ordinario e il sistema di controllo pubblico, ambiguo, sleale, contrario ai principi democratici e libertari: si tenga conto che la vicenda del Watergate era iniziata durante la campagna presidenziale del 1972, allorché cinque scassinatori dotati di equipaggiamento per intercettazioni telefoniche erano stati colti in flagrante mentre si introducevano negli uffici del Comitato nazionale democratico ed erano stati agevolmente collegati al candidato repubblicano, Richard Nixon, che concorreva per essere rieletto. Non stupisce, dunque, che La conversazione (1974) si fosse concentrato proprio sulla polemica legata alle intercettazioni, attribuendo a questa pratica governativa, particolarmente subdola e insidiosa, conseguenze sconvolgenti e un effetto dirompente sull’esistenza di tutti coloro che ne vennero coinvolti, consistente in particolare in una definitiva erosione della fiducia verso la società.

La relazione tra gli scassinatori del Watergate e la CIA portò, a partire dal 1975, alla istituzione di commissioni di Camera e di Senato incaricate di indagare sull’operato dell’FBI e della stessa CIA. Come documentò Zinn, «l’inchiesta sulla CIA rivelò che l’agenzia era andata ben oltre la sua missione di raccogliere informazioni e conduceva operazioni segrete d’ogni genere»; in particolare emersero «attività della CIA che miravano a influenzare in modo occulto l’opinione degli americani» attraverso il finanziamento e la promozione di libri e articoli accademici mediante i quali diffondere in tutto il Paese i messaggi subliminali graditi all’intelligence. Simili rivelazioni alimentarono un sentimento di diffidenza rivolto non più soltanto al potere politico, ma anche all’amministrazione della sicurezza nazionale che si era ripetutamente prestata a iniziative illecite contro oppositori politici del governo e attivisti del movimento contro la guerra: indubbiamente, I tre giorni del Condor (1975), colse questo profondo disagio e trasse spunto dalle incredibili scoperte fatte dalle commissioni d’inchiesta. Chiaramente il trattamento riservato dai neonoir al tema della corruzione non poteva essere paragonato, nonostante l’intersezione tematica, a quello che Capra aveva adottato in Mr. Smith va a Washington una trentina d’anni prima. Anche perché, pur a fronte delle dimissioni di Nixon – accolte dal New York Times con l’esclamazione d’entusiasmo «il sistema funziona» – fu presto chiaro ai più che, come aveva scritto Claude Julien, direttore di Le Monde Diplomatique, «l’eliminazione di Richard Nixon lascia intatti tutti i meccanismi e i falsi valori che hanno permesso lo scandalo del Watergate». Del resto, come osservò Zinn, «negli articoli che avevano riferito la speranza di Wall Street che Nixon si dimettesse, erano state citate le parole di un finanziere: «avremo lo stesso gioco con giocatori diversi». […] La consegna era: liberiamoci di Nixon, manteniamo il sistema. […] Uno dei primi atti di Ford fu la concessione del perdono incondizionato a Nixon, che salvò l’ex presidente da possibili

procedimenti penali e gli permise di ritirarsi in California con una cospicua pensione. La trasmissione televisiva delle audizioni della commissione del Senato sul Watergate cessò improvvisamente quando si giunse al tema dei rapporti con le grandi aziende». Taxi Driver (1976), condensò il disagio della guerra – ispirazione del noir classico – con quello prodotto dalla lacerazione del rapporto tra cittadino e governo che, negli anni settanta, aveva raggiunto un livello senza precedenti. Il protagonista, interpretato da De Niro, fu un ibrido: né antieroe né uomo comune. Ma il frutto degenerato di un sistema sociale sull’orlo del collasso. Disgregato e corrotto, esso avrebbe finito per mettere a tacere lo scandalo attraverso una paradossale manipolazione delle informazioni da dare in pasto all’opinione pubblica, pur di conservare l’illusione di un sostegno sempre meno convinto.

Il fuorilegge

Il fuorilegge (1942) di Frank Tuttle fu realizzato e ambientato durante la seconda guerra mondiale, applicando su un intreccio da spy story un trattamento estetico e ideologico noir: sull’azione prevalse l’atmosfera, alla gioia del lieto fine collettivo si contrappose l’inevitabile tragedia individuale. Più che mai l’antieroe – redento attraverso il sacrificio – espresse, ma allo stesso tempo contrastò, i vizi diffusi a ogni livello della società. L’evoluzione del protagonista – degna di un thriller, piuttosto che di un noir – conferì a quest’opera il suo carattere assolutamente peculiare: sicario inquieto – condizionato da un doloroso passato, di cui recava cicatrici equivalenti alle tare

congenite del naturalismo – e solitario (perciò l’affinità con i gatti randagi), grazie alla compassione e alla solidarietà che gli mostrò una ragazza incontrata durante il tentativo di vendicarsi degli uomini che lo avevano incastrato, si sarebbe moralmente riscattato riuscendo a godere un breve ma meritato assaggio di felicità, scoprendosi finalmente in pace con se stesso e con il mondo dal quale si era sempre sentito rifiutato. Nonostante la centralità del personaggio maschile – in ragione della funzione drammatica attribuita alla sua maturazione – merita di essere considerato anche il trattamento della controparte femminile: per la prima volta si assistette al numero musicale allo scopo di introdurre la protagonista, un espediente che avrebbe caratterizzato molti noir. Tuttavia, ella non possedeva alcuno dei tratti che si sarebbero imposti nella caratterizzazione della dark lady: al contrario, fu appunto per suo tramite che l’antieroe si purificò, riconciliandosi con il mondo, mentre il ruolo disgregante della donna noir avrebbe avvelenato l’animo dello sventurato che l’avesse incontrata, allontanandolo definitivamente dalla comunità. Mentre, dunque, a livello concettuale il film di Tuttle non aveva adottato la poetica noir – in effetti ancora in via di definizione – l’estetica della messa in scena anticipò il gusto che si sarebbe presto imposto nei B movies del cinema nero: dall’immagine della finestra socchiusa, attraverso cui i miasmi della metropoli penetravano lo spazio interiore, alla straordinaria sequenza notturna ambientata dentro una fabbrica, durante la quale John Seitz – già autore della fotografia de La fiamma del peccato – evocò sospetti e timori del ricercato, agli occhi del quale ogni angolo buio nascondeva una minaccia e ogni ombra ricordava la sagoma di un poliziotto in agguato. La sceneggiatura – alla quale collaborò anche Burnett – era ispirata al romanzo Una pistola in vendita di Graham Greene, il quale considerava compito dello scrittore «suscitare nel lettore la simpatia verso quei personaggi che ufficialmente non hanno diritto alla simpatia», inducendolo a indagare l’umanità

di figure complesse e controverse, spesso mettendole a confronto con il contesto circostante. Del resto la condizione del protagonista del racconto trasposto da Tuttle era appunto quella di un uomo che vestiva contemporaneamente i panni della preda e del predatore. Mentre nel libro di Greene la guerra appariva soltanto come una lontana minaccia, al momento delle riprese essa era già diventata realtà e alla produzione dovette sembrare che la propaganda patriottica sarebbe stata sostenuta da una trama in cui una cantante accettava di diventare un agente segreto e un criminale compisse un estremo sacrificio per il bene del Paese. Tuttavia il clima di sospetto, di dubbio, di paura che il film costruì si reggeva sul presupposto che il nemico potesse nascondersi nelle pieghe di una società ormai priva di valori e di ideali, in cui quasi ogni individuo sarebbe stato disposto a vendere se stesso e la propria fedeltà al migliore offerente.

Mano pericolosa

In Mano pericolosa (1953) Samuel Fuller, uno dei ribelli hollywoodiani, immaginò che un criminale comune venisse suo malgrado coinvolto in un intrigo di spie, riuscendo a risolverlo senza dover scendere a compromessi con le odiate forze dell’ordine. Il film fu ispirato a un crudo realismo – il regista aveva avuto un trascorso come giornalista di cronaca nera – che determinò diversi problemi di applicazione del codice Hays. Non solo, a causa dell’avversione e dei sospetti manifestati nei confronti delle autorità investigative incontrò l’opposizione di Hoover, direttore dell’FBI, in conseguenza della quale i produttori preferirono espungere dai trailer pubblicitari le battute antipatriottiche pronunciate dal

protagonista e le allusioni alla brutalità di poliziotti e agenti federali. In piena guerra fredda, era cambiato il nemico, ma restò immutata la minaccia – il MacGuffin della formula chimica – e soprattutto il clima di diffidenza, sospetto, isteria: anche il cinema nordamericano avrebbe vissuto la sua crisi, tra persecuzioni, delazioni, ribellioni più o meno eclatanti e un’insofferenza diffusa, ripetutamente sul punto di esplodere. Il protagonista impersonò nuovamente la figura del reietto, combattuto tra cinismo e patriottismo e la soluzione finale – in cui egli trionfava dopo aver sgominato il complotto a modo suo – pur riscattandolo agli occhi del pubblico non era valso, in verità, a riconciliarlo con il mondo: l’anticonformista Fuller, scomodo spirito indipendente, tanto in contrasto con l’establishment quanto in contraddizione con se stesso, sembrava proprio averne fatto il suo alter ego. Il suo film alternò, con disinvoltura quasi straniante, l’amarezza e lo humor neri, ma non necessariamente noir: alla predestinazione, il regista contrappose l’autodeterminazione del protagonista; la misoginia venne riscattata dal ruolo del personaggio femminile, ispirazione invece che dannazione per la controparte maschile; alla regola dell’amicizia virile, Fuller introdusse un’eccezione attraverso l’intenso e commovente rapporto tra il protagonista e la materna informatrice. Anche la vicenda narrata in Mano pericolosa, comunque, scaturiva dall’intervento del caso, che sembrò guidare – nel corso della ripresa iniziale, i passi del borseggiatore attraverso la relazione visiva istituita dalla macchina da presa tra i federali e la ragazza che trasportava, a propria insaputa, i segreti militari: il suo ingresso sulla scena, facendosi faticosamente largo tra la folla, costituiva una frattura nell’ordine positivo dell’inquadratura d’apertura. Noir erano anche l’estetica – si consideri il valore attribuito alla fotografia e all’illuminazione nella ripresa della chiatta su cui viaggiano le salme destinate alla fossa comune – e l’ambientazione – le strade affollate o la zona portuale.

La New York di Fuller era una giungla selvaggia, in mezzo alla quale disperazione e fame inducevano ogni individuo a lottare senza guardare in faccia nessuno, ma con l’approvazione di tutti: si trattava della legge della sopravvivenza a cui non sarebbe stato possibile sottrarsi. Sensibilissima interprete di questa visione disillusa dell’esistenza, l’informatrice fu un personaggio puramente noir all’interno di un universo spurio: condannata alla morte dalla propria incorruttibile morale, solidale nei confronti del borsaiolo che in precedenza aveva consegnato alla polizia, nel rispetto di regole che anche il protagonista riconosce e accetta; spaventata, ma allo stesso tempo rassegnata, di fronte alla morte, quasi che la fine avesse rappresentato una sospirata liberazione. Appunto la scena dedicata all’omicidio dell’anziana donna offrì a Fuller l’occasione per mettere in pratica uno di quegli esperimenti sonori che hanno caratterizzato l’opera dei più ispirati cineasti: in particolare il regista sfruttò la drammaticità del contrasto tra la melodiosità dell’accompagnamento musicale e la violenza insopportabile dell’uccisione a sangue freddo.

La conversazione

Ne La conversazione (1974) di Coppola, lo straniamento noir, che in passato era stato procurato attraverso le deformazioni visive – chiaroscuro, ombre, inquadrature irregolari – fu ottenuto soprattutto mediante cesure sonore, alle quali corrispose un particolare montaggio, volutamente frenetico e confuso. Solo nel finale il protagonista avrebbe ricomposto l’ordine esatto dei frammenti in cui era stata

scomposta la sequenza iniziale, approdando a una sconcertante scoperta. Nell’anno in cui Nixon diede le dimissioni dalla presidenza, investito dallo scandalo del Watergate – da cui era emersa la sua intenzione di spiare i rivali politici intercettandone le telefonate – il film poté finalmente dare sfogo all’inquietudine collettiva che si era diffusa dopo la divulgazione della notizia. Un clima di sospetto e di diffidenza che Coppola, autore della sceneggiatura, aveva in verità già presagito qualche anno prima, nel 1968 al momento dell’ideazione dell’opera, dimostrando di possedere la medesima preveggenza di Lang per la concretizzazione dei peggiori mali sociali La manipolazione del sonoro – di cui fu artefice Walter Murch – e la sovrapposizione all’obiettivo della macchina da presa di un mascherino a forma di mirino conferirono al racconto un’estetica da spy story immediatamente percepibile. Ma il regista non ambiva a suscitare un sentimento di eccitazione, all’idea di trovarsi al cospetto di un intrigo internazionale, bensì evidenziare l’aspetto morboso e prevaricatore del controllo esercitato sui cittadini: un uomo, all’interno di un furgone equipaggiato per le intercettazioni, attraverso gli speciali vetri del veicolo osservava, senza essere visto, due donne intente a specchiarsi e ad aggiustarsi il trucco; in silenzio, egli non smetteva di guardarle e, in quel momento, sembrò proprio che stesse abusando di loro, sia pure senza neanche sfiorarle. Investigatore solitario – sul modello del detective privato hard boiled – il protagonista conduceva un’esistenza alienante, dedicata a spiare quella altrui, e le riprese del rientro a casa, all’interno di un appartamento avvolto dall’ombra e infettato dall’esterno attraverso la solita finestra socchiusa, rafforzarono un’impressione già suscitata dal distacco durante il dialogo con i colleghi: cinico, diffidente, misantropo, questo strumento umano di controllo aveva perso la propria personalità.

Il monologo telefonico offrì a Gene Hackman l’occasione per un esercizio di freddezza e di sarcasmo eccezionali. Allo stesso tempo, però, egli possedeva una propria personale etica professionale che, se da una parte lo induceva a mantenere le distanze dal mondo circostante, dall’altra gli imponeva di comprendere fino in fondo il disegno in cui era stato coinvolto: la scoperta di un intrigo ben più complesso del previsto ne avrebbe messo a rischio la vita – come del resto sarebbe accaduto a molti altri protagonisti noir. La sua inchiesta privata divenne allora, secondo la tradizione, anche un’indagine interiore: dalla sua coscienza, improvvisamente risvegliata, cominciarono a sgorgare dubbi e paure, sempre più assillanti, addirittura insopportabili – e dalla ripresa dello spegnimento dei macchinari utilizzati per spiare, si passava all’inquadratura del confessionale di una chiesa. Il suo turbamento avrebbe assunto addirittura il carattere della patologia, come emerse dall’inquietante sequenza ambientata nella stanza d’albergo e caratterizzata da distorsioni di ispirazione espressionista, attraverso le quali Coppola rappresentò allucinazione e paranoia. Così il film adottò una messa in scena particolarmente greve e monotona, nella quale luce artificiale e luce naturale vennero filtrate e manipolate, mentre la fotografia in controluce accrebbe l’impressione di solitudine vissuta dal protagonista, circondato perlopiù di macchinari, strumenti, supporti di registrazione. L’esistenza umana, veicolata attraverso la tecnologia, era degradata a semplice artificio e nel film si percepì quell’orrore romantico nei confronti della macchina e la paura che questa potesse essere definitivamente sfuggita al controllo. Del resto, la manipolazione del materiale registrato possedeva valore ambivalente: se aveva determinato la tragedia, permise altresì la scoperta dell’atroce verità. Questa assoluta relatività induceva a un’amara riflessione sulla mancanza di riferimenti certi e oggettivi che aveva provocato la crisi di identità dell’uomo moderno ma che, allo stesso tempo, costituiva l’essenza dell’inganno cinematografico.

I tre giorni del Condor

I tre giorni del Condor (1975) venne realizzato da Pollack nell’anno in cui alcune commissioni governative iniziarono a investigare sui servizi segreti: il protagonista – uno studioso assegnato ad un’agenzia di ricerca – avrebbe compiuto, secondo il classico espediente noir, una propria inchiesta personale, arrivando a scoprire una sconcertante verità e rischiando la vita per aver decifrato codici e appreso informazioni che sarebbero dovuti restare riservati. Per il ruolo dell’uomo comune schiacciato dal sistema, venne scelto Robert Redford a proposito del quale Pollack, suo grande amico, parlò di un «principe biondo in apparenza, che possedeva tuttavia un’interiorità molto più cupa. Era chiaramente una metafora dell’America». Egli dunque disponeva della complessità interpretativa necessaria a esprimere il disorientamento vissuto da una parte della società all’indomani degli scandali degli anni ’70. Dopo l’iniziale paura, prese infatti il sopravvento il desiderio di ribellarsi, svelando al mondo le macchinazioni del potere politico e dei grandi interessi economici. Ma il finale, alquanto ambiguo, non permise di stabilire quale esito avrebbe avuto il suo progetto. Zinn, del resto, ha documentato l’atteggiamento tenuto dai mezzi di informazione nei confronti dei risultati raccolti dalle commissioni d’inchiesta: «la Commissione Church, istituita dal Senato, sottopose ciò che aveva scoperto alla CIA, chiedendo se c’erano dati che l’agenzia preferiva espungere. La Commissione Pike, alla Camera, non si accordò in questo senso con la CIA, ma quando presentò il suo rapporto finale, la Camera, che aveva autorizzato le sue indagini, votò per mantenerne segreti i risultati. Quando il contenuto del rapporto trapelò […] i giornali più importanti

del paese non lo pubblicarono, né allora né mai. […] Fu un altro esempio di collaborazione tra i mass media e il governo in casi che riguardavano la sicurezza nazionale». Nella condizione tipica del thriller di un uomo costretto a lottare da solo contro impreviste avversità, l’impiegato, inesperto di armi e di camuffamenti, si ritrovava a fronteggiare un universo di sospetti e di dubbi. Pollack adottò una gran varietà di angoli e di prospettive attraverso le quali rappresentò l’infinità di minacce percepite dal protagonista ad ogni sguardo dato intorno a sé. Ripreso da dietro le sbarre di una scala di servizio o nello stretto di una stradina laterale, egli appariva un uomo imprigionato, mentre la corsa forsennata attraverso le ampie e affollate avenues – con le sirene della polizia a risuonare in sottofondo – assumeva l’aspetto di una fuga disperata. Il montaggio, poi, scomponendone e ricomponendone visioni e ragionamenti – che si facevano sempre più confusi, aggrovigliati e inestricabili – esprimeva l’incredulità e il disorientamento dai quali il protagonista rischiava di restare travolto. Ma il Condor – questo il nome in codice assegnato al ricercatore dall’agenzia – non si ritrovò alle prese con pericoli solamente immaginari: egli dovette ripetutamente scampare ad attentati mortali – e, durante uno di questi, il regista si concesse una citazione hitchcockiana, attribuendo al suo personaggio la prontezza di opporsi a un killer travestito da postino ricorrendo al flash di una macchina fotografica a portata di mano. Tra i suoi antagonisti spiccava per carisma e per fascino il sicario interpretato da Max Von Sydow: mercenario spietato e infallibile, costui possedeva tuttavia alcune doti eccezionali, come rigore, disciplina, lealtà e, nonostante il distacco che doveva imporsi, nel solo momento di intimità che si concesse dimostrò compassione nei confronti dell’uomo al quale aveva smesso di dare la caccia.

Ad aiutare il protagonista una donna malinconica – della quale, nel breve arco narrativo del film, tutto ciò che si poteva sapere venne comunicato da dettagli visivi, come le decadenti fotografie appese alle pareti del suo appartamento: nonostante l’iniziale riluttanza, ella avrebbe ritrovato interesse nella vita proprio grazie al brivido dell’avventura e alla complicità instaurata con uno sconosciuto in difficoltà. Uomo e donna uniti, solidali, protesi alla ricerca di giustizia e verità; insomma, esattamente l’opposto delle coppie di amanti diabolici, condannati all’autodistruzione. Tuttavia, lo spirito noir dell’opera si manifestò nel loro addio, durante un passaggio notturno e malinconico, ambientato, secondo un cliché d’altri tempi, presso la stazione. Oltre alla solitudine, l’altra ineludibile legge dell’universo noir alla quale Pollack si ispirò fu certamente la casualità – come dimostrò la sequenza dell’assalto iniziale, studiata dal regista con la precisione di un congegno ad orologeria: ai preparativi del commando di sicari sul punto di irrompere nell’agenzia, per ucciderne tutti i dipendenti, vennero alternati i movimenti del protagonista, illogici, irregolari, apparentemente insignificanti, in maniera da dimostrare come ciascuno di loro finisse, nel complesso disegno del destino, per risultare decisivo a salvargli la vita.

Taxi Driver

Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese fu un allucinato viaggio notturno attraverso l’inquietudine di New York e dei suoi abitanti. De Niro sarebbe stato superlativo nel provare, comunicare – e sì, persino suscitare – fastidio, nella sua interpretazione di uno di loro: l’uomo medio che aspirava a raggiungere uno

scopo nella vita, che tentava disperatamente di avvicinarsi al prossimo ed entrarvi in contatto – secondo una particolare variante all’espediente della ricerca. Ma, conformemente alla poetica noir, anche lo sforzo più sincero e appassionato era destinato a fallire, frustrato dall’indifferenza del mondo esterno. Nel raccontare la serie di insuccessi ai quali andava incontro il protagonista, Scorsese adottò sadica ironia – inducendo l’impacciato tassista a scegliere lo spettacolo di un cinema a luci rosse per il primo appuntamento con la ragazza corteggiata. Ma, piuttosto che mettere alla berlina il disagio ai limiti del disadattamento del personaggio, il regista volle indagarne ragioni e conseguenze, in considerazione altresì della condizione di reduce del Vietnam: il distacco con cui lo trattavano tutti finiva per avvelenarne l’animo, impedendogli di reinserirsi nella società, allontanandolo al contrario da essa ancora di più, fino a farlo sprofondare nel sottosuolo, condannato a un’esistenza anonima, vuota, insopportabile. De Niro viveva una condizione che era stata sperimentata da molti altri personaggi della tradizione noir, sullo schermo, ma che subiva anche un gran numero di suoi coetanei, al ritorno dallo scenario di battaglia – anche questo neonoir, dunque, era un racconto del dopoguerra. In proposito, vale la pena di sottolineare che il senso di soffocante solitudine e l’impressione di perenne ostilità, dai quali il protagonista si sentiva oppresso, vennero efficacemente rappresentati riprendendo De Niro perlopiù solo sulla scena, mentre, nelle poche inquadrature che lo affiancavano ad altri personaggi, egli venne sempre contrapposto o tenuto comunque a distanza da loro. Portato all’esasperazione, oltre la soglia della pazzia, egli decise di trasformarsi in un angelo purificatore, avvertendo il dovere morale di riportare giustizia, facendo scontare alla società parte del dolore e della sofferenza che questa aveva provocato ai reietti come lui. A sancire il primo passo verso la follia fu la scena in cui il protagonista, intento a scegliere un’arma da acquistare, ne

puntava la canna sulla strada, spostandola con fredda lentezza, fino a incontrare un bersaglio umano. In seguito la metamorfosi sarebbe stata ancora più evidente: i monologhi interiori, ai quali il protagonista si abbandonava con sempre maggiore frequenza, diventarono ogni volta più deliranti; intanto la trasformazione in rabbioso guerrigliero si sviluppava con rigore ossessivo, attraverso l’esercizio fisico, l’allenamento della mira, la familiarizzazione con l’arsenale allestito. La missione era diventata un pensiero fisso, che lo assillava anche durante i momenti di svago. Il montaggio della sequenza nella quale De Niro, ormai in pieno delirio, parlava da solo, armato fino ai denti persino nel letto, ne rappresentò la dissociazione mentale: la voluta ripetizione delle inquadrature dell’uomo intento a specchiarsi corrispondeva a una doppia personalità. Questo processo degenerativo venne certamente esasperato e accelerato dal contesto urbano, ripreso perlopiù di notte e scomposto in numerosi e minuscoli dettagli: semafori, insegne, tombini. Questa frammentazione produceva, anche visivamente, l’impressione della monotonia legata alla ripetitività dell’attività del tassista notturno: indipendentemente dalle vie che egli avrebbe percorso e dai quartieri che avrebbe attraversato, mostrate così, a pezzi, tutte le strade sarebbero sembrate uguali, assolutamente indistinguibili l’una dall’altra. Al contrario, l’umanità nella quale si imbatteva la macchina da presa, durante il reportage alla scoperta dell’anima oscura di New York, era variegata quanto sconcertante: più significativo di tutti fu l’incontro con il marito tradito, interpretato dal regista, che meditava l’assassinio della moglie – un’ombra predestinata alla morte. Disumanizzati e svuotati – come personaggi di un quadro di Grosz – i colleghi di De Niro si ritrovavano nel cuore della notte in una squallida tavola calda, per elaborare assurde teorie: manifesto del caos intellettuale e culturale, in cui era sprofondato l’uomo moderno, e primo passo verso la definizione dello stile di destrutturazione nell’assurdo.

Accanto alla polemica sociale, condotta con toni crudi – tipica dell’arte realista – il film di Scorsese valorizzò il capriccioso arbitrio del fato, capace di rovesciare in continuazione le sorti del racconto, dimostrando allo stesso tempo la relatività del concetto di eroe sul quale il cinema noir si è da sempre interrogato, specchiandosi nel suo opposto, il western: la medesima società che aveva isolato il protagonista, pur essendo egli animato dalle migliori intenzioni di integrarsi, finì per esaltarne il coraggio non appena costui si era abbandonato alla violenza più sfrenata e primordiale. E al lieto fine individuale, corrispose una tragedia collettiva, sottesa alle conclusioni tratte dal regista nella propria valutazione del sistema di valori che governava la società americana degli anni ’70, tenuta sotto controllo attraverso la sofisticata e sottile manipolazione dell’opinione pubblica – e la scena in cui De Niro, esasperato, distrusse la televisione, non sopportandone oltre l’inganno, assunse il significato del rifiuto dei messaggi demagogici e delle false speranze che essa diffondeva ininterrottamente nelle case dei cittadini.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Anche l’Italia, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, conobbe una profonda crisi, vedendo disgregarsi violentemente il tessuto sociale, nell’ambito di un’accanita e sanguinosa lotta di classe. Dalle manifestazioni studentesche, alla formazione delle brigate rosse e, quindi, agli anni di piombo, il nostro Paese si ritrovò sul baratro della guerra civile. Non stupisce, dunque, che il cinema italiano abbia dato alla luce diverse opere ispirate alla poetica noir: tra queste, merita particolare considerazione il film di Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970).

Il film venne costruito attorno alla figura di un piccolo borghese autoritario – l’ennesimo meneur al quale la situazione sarebbe sfuggita di mano, procurandogli frustrazione e follia – attraverso la cui figura gli autori svolsero un’accesa polemica nei confronti della società italiana dell’epoca, sulla scia della riflessione intellettuale sulle prevaricazioni del sistema e sulla persecuzione della lotta operaia: il motto del nuovo capo dell’ufficio politico della polizia era appunto «repressione è civiltà». Eppure il corto circuito drammatico, per effetto del quale il racconto acquistò autentico spessore, risiedette nella contraddittorietà emotiva del protagonista – evidentemente affetto da turbe psichiche, tra loro oltretutto confliggenti: megalomania e impotenza – specchio di quella del potere che egli rappresentava: volontà di potenza, ma terrore della propria debolezza; aspirazione all’impunità, ma devozione all’utopico ideale di imparzialità della giustizia. Si delineava così quel terribile e insanabile dissidio interiore che sarebbe culminato nella sequenza finale del metaprocesso: il protagonista, fronteggiato da una giuria di 13 colleghi, sul modello americano più volte richiamato, ne subiva, a dispetto di tutte le prove avverse, l’assoluzione motivata dal pubblico interesse di evitare uno scandalo. Si trattò in effetti di una condanna a subire il complesso di colpa, senza la possibilità di espiarne la pena: una condizione nella quale l’uomo sarebbe stato inevitabilmente isolato all’interno di un mondo regolato dalla mancanza di scrupoli e di rimorsi. Il meta – processo raggiungeva toni paradossali, kafkiani – non sorprenda, quindi, la citazione finale dell’autore ceco – poiché, nonostante le prove schiaccianti che presenta a proprio carico, il protagonista non riusciva a vincere la propria condizione di «cittadino al di sopra d’ogni sospetto», attributo indelebile di un’autorità autoreferenziale come quella denunciata dal film, restando di conseguenza vittima di quella terribile dissociazione che costituiva la «malattia professionale di chi esercita troppo a lungo il potere». E alla fine egli fu persino costretto a confessare la propria innocenza – un

tragicomico ossimoro – e a riprendere l’esercizio della propria funzione di oppressore. Petri elaborò dunque un contrappasso perfetto: il senso di colpa era appunto lo strumento al quale l’investigatore era solito ricorrere pur di far crollare l’indagato e costringerlo, sotto il peso del tormento, a crollare. Ma ciascuna di queste considerazioni attiene al finale, per giungere al quale il regista aveva messo ripetutamente in mostra il sadismo dell’autorità nell’esercizio abusivo delle sue prerogative – un’impressione amplificata grazie ai toni esasperati dell’interpretazione di Gian Maria Volonté, ai limiti della caricatura. Non solo, ma anche l’orchestrazione del materiale visivo fu concepita in funzione di questo risultato – si consideri, ad esempio, lo stato di soggezione al quale egli costringeva il pavido collaboratore, facendogli trovare il fascicolo relativo a un cugino sindacalista e adombrandone il trasferimento: la relazione di forza che il protagonista imponeva al proprio subalterno venne rappresentata attraverso inquadrature diverse, che accentuavano l’atteggiamento supplichevole nei confronti del superiore, ricorrendo, in particolare, alla sintassi langhiana, con inquadrature dall’alto verso il basso del soggetto più debole, schiacciato dal peso dell’autorità, e inquadrature dal basso verso l’alto del più forte che, su quella stessa autorità si era innalzato. Nella logica causa – effetto che ispirò il montaggio del film, risultava perfettamente coerente che questa scena fosse seguita da quella, surreale, in cui lo stesso subalterno mostrava al superiore le fotografie delle impronte digitali di quest’ultimo, rilevate sul luogo del delitto, affrettandosi a trovare ogni sorta di giustificazione per quel sospetto ritrovamento. Il protagonista aveva dunque raggiunto il proprio scopo: indurre con il terrore il collaboratore all’accondiscendenza; proprio allora, però, si manifestavano i primi effetti del conflitto interiore, giacché egli non resse il peso delle

fotografie sulla sua coscienza – e per consentire allo spettatore di condividerne la condizione soggettiva, intimamente sconvolta, Petri ricorse alla soluzione espressionista della deformazione, attribuendo a esse dimensioni gigantesche e disponendole in maniera tale da risultare soffocanti. Ancora più significativa sarebbe stata, in seguito, la contrapposizione tra la confessione estorta allo studente comunista e la decisione di quest’ultimo di non denunciare l’investigatore – che il giovane sa essere un assassino – poiché egli ritenne coerente che a guidare la polizia fosse un criminale: il protagonista, abituato a tenere in scacco le proprie vittime, subiva in tal modo quel drammatico ribaltamento di ruolo, da carnefice a vittima, che aveva caratterizzato l’approfondimento psicologico condotto anche da molti film americani soprattutto sotto l’impulso di Fritz Lang e del suo esordio hollywoodiano. A dispetto di un’ambientazione estremamente circostanziata e persino datata – rispetto alla quale, tuttavia, l’esasperazione della riflessione politica costituì un vantaggio, permettendo al racconto di non risultare anacronistico – è indubbia la filiazione dal noir americano, da cui mutuò l’insistito ricorso al flashback – per stravolgere lo sviluppo oggettivo degli eventi e chiarire l’indagine interiore del protagonista – il taglio documentaristico con cui vennero meticolosamente seguite le indagini e la caratterizzazione di una capricciosa e morbosa dark lady, che attirò a sé l’uomo, lo conturbò, ne istigò la perversione e ne derise la debolezza.

Un vortice nero

Uno spunto ricorrente di molti noir è il coinvolgimento del protagonista in una situazione inaspettatamente pericolosa che, nel corso della trama a inchiesta, assume contorni sempre meno definiti, più ambigui e inquietanti: sotto il peso di sospetti e minacce, il protagonista rischia allora di venire risucchiato da un vortice nero, senza via d’uscita. Un incubo a occhi aperti – e il riferimento a romanticismo ed espressionismo è evidente – travolgente e inarrestabile, che scaturisce dalle cause più varie: talvolta sono i fantasmi di un torbido passato, le catene della colpa; talaltra si tratta della debolezza maschile di fronte a tentazioni come il richiamo di una donna seducente, il miraggio di un facile guadagno, la prospettiva di trasgredire a un’esistenza poco appagante; addirittura un gesto di altruismo, nella perversa logica alla rovescia del noir, può innescare la tragedia. Per non parlare del solito intervento del destino. Furono molti i film che adottarono una poetica noir, sviluppando questo motivo: anche Il mistero del falco (1941), considerato unanimemente il capostipite del genere, raccontò la disavventura di un investigatore privato travolto da un complesso intrigo, stregato dal fascino di una spietata dark lady e tradito dalla propria avidità. In tutti questi casi, il protagonista, pur non essendo un criminale, si ritrova a dover lottare per la propria sopravvivenza, contro le sopraffazioni dei personaggi che lo circondano o gli scherzi sadici del caso, all’interno di uno scenario dominato dalle pulsioni più perverse e dal delitto che incombe su ogni vicenda noir. Ma, soprattutto, è costretto a fare i conti con la condizione di solitudine condivisa da ciascun essere umano.

I gangsters

Capolavoro assoluto di Robert Siodmak, I gangsters (1946), tratto dal breve racconto di Hemingway, narrò appunto l’attesa di un uomo rassegnato all’idea di dover morire, condannato da un passato di delitti, inganni e tradimenti. Disperazione e debolezza, infatti, lo avevano trascinato all’interno di un gorgo senza via di scampo, frustrandone infine, secondo la logica noir, il tentativo di redenzione. Il film possedeva un’atmosfera nera straordinariamente suggestiva, ottenuta attraverso gli esperimenti condotti da Edwood Bredell sulla luce e sulla fotografia: un’estetica ispirata al chiaroscurale contrasto tra apparenza e realtà, coerente con il tema del doppio gioco. La sceneggiatura – alla quale collaborò, non accreditato, anche John Huston – ripercorreva il passato del protagonista, essendo l’inizio del racconto collocato in medias res, e adottava l’espediente dell’inchiesta, qui condotta da uno scaltro agente d’assicurazioni, incuriosito dall’atteggiamento remissivo dell’uomo di fronte ai sicari incaricati della sua esecuzione. Invece di un unico flashback oggettivo, il racconto saldava i ricordi di tutti coloro che lo avevano conosciuto, potendo dunque contribuire all’indagine esistenziale – vera e propria anatomia della concezione noir della vita umana. Questa struttura, ispirata a quella di Quarto potere (1941), suggerì allo stesso tempo la relatività della Storia – mettendo in dubbio lo stesso concetto positivista della conoscenza – e la rilevanza del passato al fine di riuscire a dare una spiegazione alla tragedia presente. Tra i numerosi episodi del passato rievocati durante il racconto, la ricostruzione di un’ardita rapina, alla quale aveva partecipato anche il protagonista, offrì a Siodmak l’occasione per un interessante esperimento cinematografico, anch’esso di gusto wellesiano: per apprenderne lo svolgimento, infatti, l’agente non si basava sul racconto orale di un testimone, bensì sulla lettura di un vecchio articolo di giornale – svolta da una voce over, che accompagnava lo sviluppo visivo dell’azione

corrispondente, durante la quale si assistette a una memorabile e interminabile piano sequenza. Attraverso la giustapposizione di tutti i frammenti di memoria, gli autori delinearono – applicando all’episodio tratto da Hemingway i principali tratti della poetica noir – l’archetipo del piccolo criminale, rimasto schiacciato, a causa di necessità e debolezza, tra personaggi ben più spietati di lui.

A questa figura crepuscolare e dolente, il film contrappose quella dell’agente, determinato e virtuoso, capace di raggiungere il proprio scopo e imporre alla vicenda un lieto fine. La sua storia, ambientata nel presente, si intersecava di continuo con quella tragica del protagonista, ormai passata, conferendo al racconto la sua peculiare e straniante doppiezza. Lo stesso effetto venne ricercato e ottenuto anche a livello estetico, mettendo in pratica la lezione espressionista: l’illuminazione della messa in scena deformava lo spazio, amplificava e contraeva le dimensioni, alterava la profondità, conferendo alla scenografia una magica forza vitale. Bredell disegnò ombre cariche di significati e di simboli, mediante le quali il realismo della rappresentazione veniva coperto da un velo di insicurezza – lo dimostrava efficacemente la sequenza iniziale, dedicata all’arrivo dei due sicari nella piccola e tranquilla provincia, preceduti dal riflesso delle loro sagome, che, disegnandosi sulla strada notturna, fendeva di netto la quiete della cittadina; in seguito, presso la tavola calda, le luci, soffuse e rarefatte, creano attorno ai malviventi e ai loro ostaggi un’atmosfera surreale, satura di tensione, di orrore, di allarme. Ulteriore aspetto straniante fu l’irregolarità delle inquadrature, volta a svelare appunto la mancanza di linearità e di chiarezza, suscitando l’impressione di una minaccia costantemente in agguato – o anche solo quella di un’imminente svolta, come nel caso dell’astuto stratagemma al quale ricorse l’agente per indurre la dark lady a un passo falso. La macchina da presa gettò così uno sguardo penetrante nella relazione tra i personaggi, indagandone l’intima natura anziché limitarsi a rappresentarne l’apparenza esteriore – ciò era particolarmente evidente nella scena in cui il protagonista e l’uomo che ha giurato di ucciderlo si incontrano casualmente dopo tanto tempo: indagando le reazioni dei due, alla vista l’uno dell’altro, e alternandole attraverso un montaggio incrociato, Siodmak allestì un crescendo che raggiunse l’apice al momento del ritorno al trattamento oggettivo, allorché i personaggi si sarebbero ritrovati addirittura fianco a fianco.

Il tema musicale, composto da Miklos Rozsa, alternava momenti di travolgente e conturbante passione a passaggi più malinconici; tuttavia, l’elemento più significativo della partitura fu l’accordo ripetuto ogni volta in cui i perfidi sicari comparivano sulla scena. Dopo la geniale trovata del fischio adottata da Lang in M, il mostro di Dusseldorf, si trattò di un nuovo straordinario leitmotiv attribuito agli assassini – sebbene già Welles avesse sperimentato una soluzione analoga in Terrore sul Mar Nero (1943), facendo suonare un disco rotto prima di ogni omicidio.

Le catene della colpa

Le catene della colpa (1947) fu il film nel quale Jacques Tourneur applicò la propria personale concezione di maledizione al genere noir: la passione provata dal protagonista maschile, un classico investigatore hard boiled, nei confronti di un’irresistibile femme fatale assunse i tratti della vera e propria dannazione, rispetto alla quale non ci sarebbe stato scampo. Ancora una volta, pertanto, il tentativo di redimersi, trasferendosi nella sonnolenta provincia e modificando identità, lavoro, stile di vita, sarebbe stato frustrato dall’improvviso ritorno del passato – il titolo originale era appunto Out of the Past: il momento della resa dei conti, per i vertici di un perverso triangolo amoroso, era finalmente giunto. E li avrebbe condotti inesorabilmente alla rovina. L’inizio del racconto proiettava lo spettatore all’apice della parabola noir, appena prima che lo stato di placida e ingannevole quiete venisse improvvisamente turbato, presso l’officina gestita dall’uomo: una scelta significativa – nel film di Siodmak si trattava di una stazione di servizio – volta a

sottolineare come il progresso e la modernizzazione, di cui le macchine furono un simbolo sin dalla loro comparsa, pur proiettandosi verso il futuro, impedivano di liberarsi del passato. La frenesia del moto ininterrotto del traffico avrebbe inevitabilmente costretto a incrociare di nuovo sguardi che si sarebbe preferito dimenticare per sempre: per questo, il protagonista comprendeva, con la stessa rassegnazione del personaggio immaginato da Hemingway, la propria incapacità di riprendere a fuggire, preferendo affrontare il rivale e la donna a causa della quale questi lo odiava – accecato da un’ossessione morbosa, degna di un tiranno della tradizione romantico espressionista. Ma nulla era ciò che sembrava e nonostante il sincero desiderio di lasciarsi alle spalle il passato una volta per tutte, egli sarebbe stato infine costretto a pagare gli errori commessi per debolezza. Questa aveva assunto i connotati della travolgente passione, che Tourneur declinò nell’inusuale forma del sortilegio, evocando le suggestioni magiche che ne avevano reso immensi i precedenti film: Il bacio della pantera (1942) e Ho camminato con uno zombie (1943). Di quest’ultimo, in particolare, riprodusse l’atmosfera esotica, attribuendo ai selvaggi scenari di Acapulco, anziché alla solita scenografia metropolitana, la responsabilità per la perdizione del protagonista, colto da un’improvvisa febbre d’amore, una pulsione folle e irresistibile. A travolgerlo non furono dunque le luci ipnotiche della città, ma i bagliori lunari e la tensione prodotta dal vento oceanico denso di profumi, mentre il presagio della tragedia imminente non si manifestò nel traffico urbano fuori controllo bensì nell’elettricità di cui era satura l’aria prima dello scoppio di un tifone tropicale. Appunto questo esotismo – paragonabile a quello de La signora di Shanghai – costituì l’aspetto più significativo di un film per il resto adagiato su uno sviluppo piuttosto convenzionale, sebbene sottilmente congegnato; si trattò comunque di questione di non poco conto, poiché estendere il contagio – che nella poetica noir era perlopiù ancorato alla

realtà artificiale della metropoli – anche alla natura incontaminata, significava intendere che neppure la fuga lontano dalla civiltà, tentata da Gauguin, Rimbaud e Conrad, sarebbe valsa a tenere l’uomo indenne dal vizio, dalla perversione e dalla debolezza che ne avvelenavano l’animo, così come vano era risultato il tentativo di ricominciare dalla provincia dopo aver abbandonato la grande città.

Grattacielo tragico

Il regista americano Henry Hathaway divenne presto noto per aver spesso applicato lo stile documentaristico a storie di fantasia, dimostrando in tal modo una sensibilità profondamente realista. Nella sua filmografia spicca, in particolare, un film intitolato Grattacielo tragico (1946), il cui protagonista sarebbe stato coinvolto suo malgrado in uno spietato intrigo rischiando di restarne inesorabilmente schiacciato. Il suo profilo, tuttavia, non si allineava a quello dei personaggi noir rappresentati da Siodmak e da Tourneur; piuttosto, egli rispecchiava un modello di investigatore privato puramente hard boiled, tutto d’un pezzo, dotato di metodi poco ortodossi e inseguito da un passato compromettente: un uomo solitario e inquieto, ma niente affatto ambiguo e tantomeno rassegnato. Queste sottili ma significative differenze giustificarono l’epilogo del film, nel quale moralità e determinazione del protagonista sarebbero state ricompensate: trovò quindi applicazione la stessa logica retributiva che, nella poetica noir, induceva a punire i personaggi per le loro colpe – una circostanza che fece di quest’opera l’eccezione a conferma della regola.

Eccezionale fu anche il ruolo attribuito alla controparte femminile, un’intraprendente segretaria disposta a correre qualunque pericolo pur di aiutare l’uomo di cui si era sinceramente innamorata. La sinergia tra i due, indispensabile ai fini della consueta inchiesta, ricordava la concezione hitchcockiana e, più in generale, thriller delle dinamiche di coppia. Tuttavia, a impedire di considerare il film di Hathaway un mero esercizio di suspense fu lo sguardo che questo maestro del documentario gettò sulla società e sui suoi peggiori difetti, sviluppando una spirale di inganni e di tradimenti, smascherando sotterfugi e doppi giochi, indagando ossessioni incontrollabili e mettendo impietosamente a confronto le sfarzose feste dei collezionisti d’arte con lo squallore dell’esistenza dei reietti stipati nei sottoscala. Certamente noir fu il crepuscolare personaggio interpretato dal sofisticato Clifton Webb, che si ripeté in un ruolo simile a quello già assegnatogli da Preminger nella realizzazione di Vertigine (1944) – film dal quale Hathaway mutuò anche l’idea di un amore morboso, ossessivo, malato, provato inizialmente nei confronti di un ritratto e, quindi, per una donna rassomigliante ad esso. Uno spunto di notevole interesse che, oltre a rimandare alla memoria alcuni capolavori del decadentismo letterario, alluse alla disumanizzazione dell’uomo e dei suoi sentimenti e all’incapacità di distinguere l’anima dalla materia – ciò che capitava agli operai di Metropolis ingannati dalle sembianze della Maria robotica. Quanto all’estetica della messa in scena, si segnalano alcune soluzioni degne di particolare interesse: quella relativa alla morte del vecchio socio, raccontata solo attraverso le ombre riflesse sulla parete; quella del ritrovamento del suo cadavere, in cui la lunghezza dell’attesa corrispose a quella del filo dell’aspirapolvere; quella della scenografia astratta, sullo sfondo della quale il protagonista realizzò il guaio in cui era finito – l’angolo scuro a cui faceva riferimento il titolo originale del film.

In generale gli autori conferirono al film il tipico aspetto noir, facendo ampio uso del chiaroscuro e delle ombre – queste anzi spesso impiegate al posto degli attori – riproponendo l’immagine degli spazi interni contaminati attraverso la finestra aperta, calando la rappresentazione per le strade della metropoli, durante alcune straordinarie sequenze esterne nel corso delle quali il documentarismo di Hathaway si espresse al meglio.

Il bacio dell’assassino

Ne Il bacio dell’assassino (1955) Kubrick raccontò le terribili conseguenze che un pugile dovette affrontare per essere intervenuto, mosso dalla compassione, in soccorso dell’inerme vicina di casa che era stata brutalmente aggredita dal sadico compagno. Questi si sarebbe rivelato un gelosissimo e spregiudicato malavitoso, disposto persino a uccidere pur di vendicarsi. Il regista trattò un intreccio thriller – all’esito del quale, passando attraverso il superamento di una serie di ostacoli e la sinergia tra l’uomo e la donna, si assisteva a un lieto fine – con un gusto tipicamente noir: sul racconto degli eventi, aperto con la scena appena precedente quella finale e condotto innestando un flashback dentro l’altro, prevalsero l’atmosfera malinconica, l’ambientazione cupa, il senso della sconfitta e il rimpianto per i sogni infranti. Lo scenario della storia fu una New York notturna e inquieta, della quale Kubrick svelò la malinconia, gli eccessi – evidenti nelle vetrine kitsch – lo squallore di ambienti degradati e marginali come quelli dei night e delle palestre pugilistiche. Nell’iniziale presentazione della città, condotta seguendo i due protagonisti durante la loro uscita serale e

incrociandone fin dall’inizio i destini, il regista costrinse i personaggi al silenzio per lasciar parlare i rumori della strada e sottolineare come, anche in mezzo alla folla, l’individuo si sentisse perlopiù solo e isolato. Appunto questa condizione di emarginazione e di rassegnato malessere, condivisa da entrambi, avrebbe avvicinato il pugile e la ballerina, anime tristi ed errabonde, che già si conoscevano prima ancora di parlarsi – il cineasta, infatti, istituì tra loro prima di tutto una relazione visiva, mostrando l’uomo incantato a osservare la vicina attraverso la finestra di casa e costei attenta durante la trasmissione del suo incontro di boxe alla televisione. Entrambi conducevano per inerzia un’esistenza insoddisfacente, obbligati a fare i conti con l’amaro ricordo del passato – straordinaria per complessità la messa in scena di quello relativo alla danza classica – e la nostalgia di ciò che avevano dovuto abbandonare – simboleggiata nel caso del pugile dalle fotografie della casa di campagna lasciata per trasferirsi in città in cerca di fortuna: ne derivava un turbamento profondo, che si manifestò anche durante il sonno – straordinarie le brevi sequenze oniriche individuate attraverso il ricorso al negativo dei fotogrammi secondo la tecnica adottata da Murnau in Nosferatu. Quanto alla figura dell’antagonista, costui possedeva un profilo autenticamente noir: ossessivo, perverso, morboso – una natura affine a quella dei tiranni espressionisti, destinata all’autodistruzione come presagiva visivamente il passaggio in cui, in preda all’ira, egli mandava in frantumi uno specchio e la propria immagine in esso riflessa. Straordinaria la sequenza del duello, ambientata all’interno di un laboratorio di manichini, la cui presenza confondeva – ennesimo espediente straniante, puramente visivo – l’andamento del confronto e finiva per simboleggiare l’indifferenza del mondo circostante di fronte alla violenza dell’episodio – essendo costante, per tutto il film, l’impressione che i tre personaggi conducano un’esistenza autonoma rispetto a quella della città che continua a scorrere senza neppure accorgersi della loro tragedia.

Infine, Kubrick riconobbe al destino un ruolo determinante, beffardo e spietato allo stesso tempo, nello scambio di persona che avrebbe determinato l’uccisione dell’uomo sbagliato, ripresa attraverso straordinari giochi d’ombra, realizzati in controluce e chiaramente ispirati al modello espressionista.

La signora di Shanghai

La signora di Shanghai (1947) fu scritto e diretto da Orson Welles, il quale interpretò altresì il ruolo del protagonista, un avventuriero idealista e ribelle che rischiò di finire stritolato nelle diaboliche macchinazioni di un ingranaggio disumano e spietato. Una parte, insomma, che si addiceva perfettamente a chi, per l’establishment hollywoodiano, governato da regole analoghe, rappresentò una spina nel fianco, proprio a causa dell’anticonformismo e di un incorreggibile gusto per la disobbedienza. Accanto a lui, recitò anche Rita Hayworth – dark lady platinata e irresistibile – dalla quale il regista si era da poco separato dopo una turbolenta relazione; una situazione paradossale: mentre sul set era lui a tiranneggiarla e a infierire persino, nel racconto il personaggio maschile restava talmente conturbato dal fascino che ella diffondeva attorno a sé da mettere a repentaglio la vita stessa pur di tener fede al ruolo di «sciocco cavaliere errante». Nonostante i riferimenti autobiografici e il coinvolgimento personale – o, forse, proprio grazie a essi – ciò che Welles ottenne fu un noir straordinario, caratterizzato da un intrigo quasi inestricabile e, soprattutto, un’atmosfera assolutamente unica, ottenuta diffondendo una tensione strisciante e minacciosa, su uno sviluppo melodrammatico, pieno di

intrighi, inganni, baci appassionati, perennemente in bilico tra lirica e tragedia. «Poeta», «privo di senso pratico», il protagonista risultava così legato alla purezza dei propri principi – etici, politici, sentimentali – da non rendersi conto che il conflitto nel quale era stato coinvolto possedeva una dimensione assai più volgare: una lotta tra squali, eccitati dal gusto del sangue – straordinaria immagine, evocata sullo sfondo di un tramonto infuocato – spinti ai limiti dell’abbrutimento e dell’autodistruzione da gelosia, rancore e cupidigia. Una battaglia ben diversa da quella per la democrazia, che egli aveva combattuto in Spagna contro i franchisti. Totalmente spiazzato dalla scoperta dei peggiori istinti umani – e soprattutto dalla constatazione che erano appunto questi a governare le relazioni individuali – egli finì per fare il gioco dei componenti dello strano triangolo, nel quale era rimasto invischiato: nulla era come sembrava, proprio come in una rappresentazione teatrale – quella alla quale il protagonista avrebbe assistito nel quartiere cinese – o all’interno di un processo farsa – durante il quale la stessa persona poteva assumere la parte di interrogante e quella di interrogato. Attraverso queste immagini, Welles insistette sul tema del doppio, anzi del molteplice, raggiungendone la massima espressione visiva nel corso della meravigliosa sequenza finale, in cui la resa dei conti si consumò in un corridoio di specchi, che alteravano ogni prospettiva, ingannando la vista – quella del protagonista e quella dello spettatore. Lo straniamento definitivo, al quale egli era arrivato dopo una camminata allucinata, attraverso le coreografie del luna park, variazione dell’espediente onirico tipicamente noir e retaggio della fiera espressionista di Caligari. Paradossalmente, però, solo allora, tra inquadrature sbilenche e immagini deformi, l’autore concesse al pubblico una spiegazione del sofisticato intreccio. Questo era stato intorbidito attraverso l’accuratissima caratterizzazione di profili tipicamente noir: la figura della

dark lady possedeva una straordinaria complessità apparente, fatta di fragilità e di malinconia – sublimate nella scena del canto notturno, in mezzo al mare, in cui ella si trasformò davvero in sirena, inquieta, irresistibile e fatale. In seguito, durante la sequenza dell’acquario, la donna sarebbe stata ripetutamente paragonata ai predatori marini, nelle cui spire il malcapitato avventuriero si era lasciato attirare per legarsi a lei con un bacio. Ma come intuirne la natura letale e spietata, se ella si fece ripetutamente trovare in una condizione di soggezione – suggerita visivamente attraverso prospettive disallineate? Anche i personaggi maschili che, insieme a lei, componevano un ambiguo triangolo – dentro cui l’ingenuo marinaio finì per perdersi – non erano ciò che sembravano. Non a caso Welles li immaginò avvocati penalisti: la massima espressione di ipocrisia e di relatività morale che egli riuscisse a concepire. Nel caso di uno dei due, alla malvagità e alla corruzione interiori corrisposero, secondo una logica shakespeariana, la malformazione fisica e un’intelligenza luciferina. La perversione morale del socio, invece, emergeva applicando alla sua prospettiva soggettiva inquadrature a forma di lente di cannocchiale, evidenziandone l’inclinazione a spiare senza essere visto, a tramare di nascosto. Welles, tuttavia, ambientò inganni e doppi giochi in uno scenario anticonvenzionale: uno yacht di lusso che veleggiava attraverso paesaggi esotici. Nel film furono espunti i classici riferimenti alla miseria, al degrado e alla corruzione della metropoli – realtà collettiva – per svolgere una denuncia individuale, giungendo a sostenere che la rovina dell’uomo non dipendeva tanto dal contesto sociale quanto dalla propria natura depravata – conformemente alla convinzione personale di Welles, molto più interessato alla tragedia interiore che a quella collettiva. Oltre a possedere un significato autonomo, simile a quello evocato da Tourneur ne Le catene della colpa, l’ambientazione assolata e rassicurante – opposta al cliché della città buia e minacciosa – valse anche a rafforzare l’impressione dell’incapacità del protagonista di avvedersi in

tempo di quanto stava accadendo proprio sotto i suoi occhi e rafforzando così l’idea che al mondo esistessero solo due tipi di uomini: quelli particolarmente malvagi e quelli particolarmente ingenui. Nonostante questa concezione individuale della tragedia, Welles non risparmiò attacchi nei confronti delle istituzioni e della giustizia, in particolare, identificata nel patetico giudice, ossessionato dal solitario a scacchi, e amministrata durante un processo che possedeva i tratti esasperati della soap opera durante il quale spettatori palpitanti si divertivano come pazzi. E il grande regista sfogò, anche fisicamente, l’antipatia nella sequenza della colluttazione all’interno dell’ufficio del giudice, che veniva distrutto, con sadica precisione, pezzo a pezzo.

Casco d’oro

Con Casco d’oro (1954) Becker realizzò un raro esempio di noir in costume, ispirandosi a un episodio di cronaca della belle époque, quando la prostituta Amelie Helie fu contesa tra i capi di due organizzazioni criminali rivali. L’ambientazione – Parigi a fine ’800, ricostruita dal direttore della fotografia, Robert Le Febvre, e dai costumisti ispirandosi alle illustrazioni di una rivista dell’epoca, Le Petit Journal – determinò il contesto della vicenda, ma non il genere di racconto, giacché il regista compì una rilettura dei fatti storici chiaramente ispirata alla contemporanea poetica del noir. Il suo protagonista – un uomo dal passato tormentato e colpevole, impegnato a costruirsi una nuova vita all’insegna dell’onestà – si allineava a quelli di Siodmack e di Tourneur, trovandosi solo e rassegnato di fronte alle avversità del destino: una significativa variazione rispetto al malavitoso capo banda della vicenda storica.

Il suo contendente era un individuo, spietato e infido, che non esitava a vendere i propri uomini al suo «socio», un ufficiale di polizia corrotto. Il contrasto tra i due permise a Becker di sviluppare il confronto tra i principi della lealtà e dell’onore, appartenenti a una mentalità ancien régime, e la logica dell’utile egoistico, proprio della modernità incalzante. Nell’ottica noir, comunque, nessuno dei due sarebbe sopravvissuto al destino, che avrebbe fatto pagare ad entrambi le colpe presenti e quelle passate. Simone Signoret interpretò invece una donna bella e fatale, per la cui chioma bionda – il casco d’oro del titolo – qualunque uomo sarebbe stato disposto a qualunque pazzia, oltrepassando il limite dell’autodistruzione. Perciò la relazione tra uomo e donna generò un tragico epilogo noir: l’uomo venne ghigliottinato all’alba, a causa dei delitti che aveva commesso per l’amante, mentre costei, restata sveglia tutta la notte, assistette impotente all’esecuzione dalla finestra di una squallida pensione. Se fu convenzionale il senso del finale, estremamente originale fu il trattamento. La donna, ripresa dall’alto, era sopraffatta dalle scale dell’albergo, la cui spirale evocava il caos; quindi, dopo aver dilatato la snervante attesa – vissuta nella prospettiva di lei – Becker affrontò l’esecuzione della pena di morte con gelida rapidità, evitando di mostrarne l’esito. Sarebbe riduttivo credere che questa elisione fosse stata determinata soltanto dal timore della censura: piuttosto essa equivalse, nel linguaggio cinematografico, al vuoto lasciato nel cuore della donna dalla morte dell’uomo.

Eyes Wide Shut

Nell’ultimo film della propria carriera, Kubrick tornò alle atmosfere con cui aveva iniziato – Il bacio dell’assassino fu appena il suo secondo lungometraggio, seguito subito dopo da Rapina a mano armata – dirigendo Eyes Wide Shut (1999). Egli rilesse il Doppio sogno di Arthur Schnitzler – violenta polemica contro il matrimonio borghese compiuta durante gli anni inquieti del decadentismo viennese – per esasperarne se possibile le conclusioni alla vigilia del nuovo millennio. La disgregazione sociale dell’età moderna si era inarrestabilmente spinta sino a coinvolgere anche gli organismi fondamentali per il suo funzionamento: la famiglia e la coppia. Dal caos che ne era scaturito si originò una crisi senza via d’uscita, un’esperienza allucinata e onirica durante la quale ogni certezza veniva travolta da terribili sospetti e lo sguardo oggettivo sulla realtà subiva la deformazione del tormento interiore. Perciò, pur seguendo – specie nella seconda metà del racconto – uno sviluppo di genere thriller, l’opera possedeva l’ambizione tipicamente noir di rappresentare il disagio esistenziale dell’uomo moderno di fronte al crollo del castello di ipocrisie e di illusioni dentro cui aveva trovato rifugio, riscoprendo lo stesso interesse per l’io interiore che aveva caratterizzato il cinema tedesco coevo al romanzo trasposto. Il benestante medico newyorkese viveva la medesima crisi di identità dei borghesucci tedeschi a cavallo tra le due guerre, divorato dal dubbio e dalla paura. E, allo stesso tempo, eccitato dalla novità e dalla trasgressione. In questo senso, la sua spaventosa notte – in giro per le strade di New York, sulle quali regnavano disordine e perversione – ricordò quella in cui si era perduto il protagonista di Die Straße (1923). Un’esperienza terrificante che lo avrebbe portato ad aprire gli occhi – anzi a spalancarli, destandosi dal sonno della coscienza al quale sembrava far riferimento il titolo del film – sulla propria dimensione individuale. Kubrick mise impietosamente alla berlina l’esigenza di evasione della società bene, rispetto alla quale le prostitute si imponevano come un modello di virtù morale: ricchi e belli, i

protagonisti sfogavano insaziabili appetiti e pulsioni incontrollabili con la droga, mentre i misteriosi maggiorenti in maschera si abbandonavano dapprima ai baccanali, quindi, si solleticavano con la minaccia e (forse) persino con l’omicidio. Attorno a loro un universo bizzarro e disumanizzato, nel quale gli istinti più selvaggi prendevano definitivamente il sopravvento su quelli della civiltà, come la compassione e il pudore – si consideri il tentativo di seduzione, da parte della donna intenta a vegliare il cadavere del padre, o l’accordo raggiunto dal venditore di maschere sulle prestazioni sessuali della figlia minorenne nei confronti di alcuni stravaganti ed equivoci estranei. Il regista delineò allora un viaggio alla scoperta dell’animo che, partendo dalla superficie, si insinuava fino all’intimità. Perciò attuò una graduale attenuazione della luminosità scenografica e il passaggio dalla sfera sociale a quella privata, andando dall’estetica rassicurante dell’affollata festa iniziale, all’ingresso conclusivo nella stanza da letto, avvolta dalla penombra. Durante le riprese d’apertura, dedicate al ricevimento, Kubrick separò la coppia e pose entrambi i coniugi di fronte ad analoghe tentazioni sessuali. Mentre ciascuno dei due era ignaro di quanto stesse facendo l’altro, lo spettatore poteva seguirne contemporaneamente gli atteggiamenti, attraverso il montaggio incrociato; con questa tecnica il regista assecondò il desiderio di dominio e il voyeurismo del pubblico, aspetti centrali del film – consistente nella riproduzione di ciò che appariva all’osservazione ostinata e morbosa, che il protagonista compiva tenendosi in disparte, nascosto come Peeping Tom. In altre parole, egli finì per sovrapporre considerazioni esistenziali e considerazioni cinematografiche, come aveva fatto anche Michael Powell ne L’occhio che uccide (1960), il cui titolo originale si riferiva appunto al personaggio del guardone della leggenda di Lady Godiva. La cinefilia si elevava così a critica cinematografica.

La scena corale era popolata da figure disumane e vacue: il nobile ungherese, le modelle, l’attendente del padrone di casa risultavano tutti troppo coerenti con il personaggio assegnato per aver la pretesa di essere autentiche persone. Nell’insieme, essi suscitavano l’impressione di un allestimento di carta pesta, simile a quello messo in scena da Welles in Rapporto confidenziale (1955). Disumanamente meccanici, del resto, sarebbe stati – nelle sequenze successive – i gesti annoiati dei protagonisti, ripresi ancora una volta separatamente nel corso delle loro rispettive giornate. La stessa insofferenza, il medesimo tedio ne avrebbe caratterizzato anche i rari momenti di intimità famigliare, durante i quali dominava una spaventosa impressione di distacco. Era a questo punto che si inseriva la scena dell’assunzione di stupefacenti, in seguito alla quale uomo e donna avevano il solo confronto sincero dall’inizio del racconto. Ben presto questo sfociò nella violenta brutalità della confessione, caratterizzata da un sadismo degno delle relazioni all’interno del terzetto di squali de La signora di Shanghai. Stimoli irresistibili tornarono a galla dal profondo dell’anima, in una maniera tanto inaspettata che l’uomo non poteva resistervi – come era capitato improvvisamente a Munch nel momento in cui elaborò il suo terribile urlo di spavento. Scatenato dall’idea del tradimento della moglie – che ritorna ossessivamente ad assillare la mente dell’uomo – l’istinto del protagonista, a lungo represso, si abbandonava con crescente insistenza alla trasgressione, costringendolo a gettare la maschera di ipocrisie, che Cruise aveva fino ad allora reso in maniera impeccabile. E, ritrovarla al proprio posto, sul cuscino del letto, avrebbe avuto per lui lo stesso significato di remissiva accettazione che la zuppiera aveva avuto nel caso del protagonista di Die Straße. Nel corso della celebre sequenza dell’orgia, nella grande casa padronale immersa nel cuore della campagna, lungi dal ridursi a una compiaciuta e gratuita rappresentazione erotica, Kubrick raggiunse una straordinaria immagine di

disumanizzazione: uomini senza volto, indistinguibili l’uno dall’altro; voci metalliche e monotone; movimenti faticosi e meccanici.

Non è un paese per vecchi

Il film dei fratelli Coen, Non è un paese per vecchi (2007), appartiene al nuovo genere della destrutturazione, conformemente alle regole del quale la narrazione della vicenda è stata svolta alternando le prospettive di personaggi diversi. Uno di loro, un cowboy abituato a vivere d’espedienti, ritrovandosi per volere del destino sul luogo di un delitto e imbattendosi in una valigetta piena di denaro, abbandonata di fianco al cadavere di un uomo, non riusciva a resistere alla tentazione di impossessarsene. Tuttavia, nella paradossale esasperazione della poetica noir compiuta dagli autori, non sarebbe stato tradito dall’avidità, bensì da un gesto di compassione: un sentimento per il quale non c’era più spazio; un sentimento di cui il personaggio sapeva che si sarebbe pentito prima ancora di attuarlo; un sentimento che però non riuscì a frenare, dando evidentemente corso al proprio destino autodistruttivo – e il tema della predestinazione sarebbe tornato in seguito durante l’assurdo episodio del lancio della monetina all’interno di una stazione di servizio, dal momento che affidare la vita di un uomo al volere del caso costituiva infatti parte integrante della particolarissima etica professionale del sadico sicario che si sarebbe messo a caccia del bottino. Sulle tracce dei due, infine, ecco muoversi anche uno sceriffo, incarnazione della morale western, che gli era stata tramandata di generazione in generazione: il confronto tra la chiarezza del passato e il caos del presente, proposto dalla

voce over durante le riprese iniziali del film, suggeriva appunto l’incolmabile distanza tra la logica della vecchia frontiera e l’irrazionalità della follia contemporanea. Si era imposto un nuovo mondo, incompatibile con i valori della tradizione e inadatto agli schemi elaborati dai generi del cinema classico. Una realtà nella quale i concetti del bene e del male si erano totalmente confusi, mescolandosi tra loro, perciò, alla mancanza di riferimenti d’ogni tipo, sarebbe corrisposta, sul piano narrativo, l’assenza di un protagonista – di una visione univoca – sostituita dalla frantumazione del racconto. Dunque, l’opera dei Coen ha rappresentato il punto di arrivo di un cinema che, forte delle esperienze del passato – a ciascuna delle quali ha attinto – tentava coraggiosamente di fonderle in una nuova concezione espressiva spuria, un cinema destrutturato e assurdo, sorretto però da una ferrea logica esistenziale. La stessa apparente contraddizione caratterizzava altresì il personaggio del sicario: pur obbedendo a stimoli evidentemente patologici, egli era convinto di rispettare un preciso codice comportamentale – rispondendo unicamente alla propria coscienza, come già avevano fatto eroi western e antieroi noir. Egli era insomma il manifesto del nuovo cinema nero e incarnava una delle sue più significative caratteristiche: una violenza efferata e brutale, espressa con modalità talmente assurde – si consideri il suo strampalato strumento di morte – da risultare ridicola e mostrata con quel macabro compiacimento che rispondeva ai nuovi gusti del pubblico, abituato dalla televisione e da internet a sopportare, anzi a ricercare, la rappresentazione di ciò che un tempo veniva comunemente ritenuto proibito, sconveniente, raccapricciante. Rientrava in questa nuova impostazione estetica anche la drammatica rapidità dei cambi di ritmo ripetutamente impressi dai Coen allo sviluppo visivo del racconto – si consideri ad esempio l’iniziale aggressione del poliziotto da parte del sicario: dall’ampia inquadratura, in cui il pericolo poteva

essere colto appena, in secondo piano rispetto all’azione, all’improvvisa successione di inquadrature strettissime attraverso le quali lo spettatore subiva la frenesia della lotta. Oltre a suscitare una nuova forma di straniamento – conforme anch’essa all’evoluzione del pubblico – queste improvvise svolte visive assumevano il significato, nel linguaggio cinematografico, dell’assoluta imprevedibilità del destino. Sarebbe stato il caso dell’incidente stradale capitato al sicario – che procedeva lentamente e nel rispetto del semaforo – attraverso il quale è stata compiuta un’esasperazione dell’epilogo di Vite vendute (1953). La centralità riconosciuta alla televisione nella definizione di questa realtà contraddittoria ed eccessiva è stata rappresentata in maniera straordinariamente originale e, allo stesso tempo, efficace riflettendo sullo schermo della medesima televisione dapprima il volto del sicario, quindi quello dello sceriffo: la sola cornice entro cui potevano coesistere due figure tanto distanti ed estreme.

Investigando nel nero

Nel racconto noir assume spesso grande importanza l’inchiesta che, lungi dal ridursi all’esercizio logico tipico della narrativa whodunit, possiede una dimensione esistenziale. L’idea stessa della ricerca – indipendentemente dal suo oggetto – sottintende il bisogno di superare l’irrequietezza provocata dalla mancanza di riferimenti certi e dall’ambiguità delle condizioni di partenza della vicenda narrata: nel thriller il protagonista riesce a ristabilire l’ordine turbato; nel noir invece egli soccombe al disordine.

Mentre la poetica del thriller, dunque, presuppone la possibilità dell’essere umano di determinare la propria sorte, attraverso un processo evolutivo, quella noir desume la disperazione dell’individuo appunto dalla sua incapacità di controllare l’esistenza a cui è stato condannato. L’esempio più estremo di questa condizione di assoluta impotenza fu certamente Due ore ancora (1949), uno dei più inquietanti noir del genere. Inoltre, sebbene in teoria l’indagine dovrebbe costituire un meritorio tentativo di andare oltre i limiti cognitivi e comportare una maturazione, i personaggi noir si impegnano perlopiù in vista di un’utilità esclusivamente materiale, senza perseguire alcuna crescita interiore, ma agendo anzi con cinismo e con distacco. È il caso, in particolare, dei detective privati: figure solitarie, disilluse, avide, ispirate ai protagonisti della letteratura hard boiled il cui padre, Dashiell Hammett, era stato investigatore a propria volta. Nella biografia di questo duro, autore di personaggi altrettanto duri, Richard Layman delineò il modello di detective che il vicedirettore dell’ufficio di Baltimora della ditta investigativa Pinkerton, James Wright, aveva condiviso con Hammett: «Wright gli trasmise un codice del detective, cioè una miscela di norme specifiche della Pinkerton, etica professionale e regole di autotutela: insegnamenti che Hammett abbracciò entusiasticamente, aderendovi per il resto della sua vita con devozione quasi religiosa. […] Il codice era pragmatico e non scritto; essenzialmente era costruito su tre pilastri: anonimato, moralità e oggettività. Un buon detective deve essere anonimo perché, meno si sa di lui, meno probabilità si avranno di avere informazioni personali da usare contro di lui. […] Un agente investigativo normalmente teneva la bocca chiusa e non parlava del suo lavoro. […] La moralità di un investigatore privato è basata su un personale senso del bene e del male che solo in parte coincide con le leggi civili o religiose. Dal momento che il detective è impegnato a scovare e a fronteggiare criminali, che di certo non conducono una vita ispirata al fair play, egli di solito si accorge che, per avere successo, anche lui deve ignorare le regole convenzionali del

comportamento. Dovrà dunque camuffarsi, fingere di essere diverso da quello che è, mentire, imbrogliare, rubare o ricattare, se tutto questo è necessario per prendere il suo uomo. E, se è bravo, sarà tanto abile da non farsi scoprire né dalla polizia né dal suo sovraintendente. È assunto da un cliente e, dal momento in cui ne accetta i soldi, gli deve una certa lealtà. La quale però non potrà mai soppiantare l’etica personale del detective. La caratteristica essenziale che un investigatore deve maturare per non essere sopraffatto dal suo lavoro è l’obiettività: la distanza emotiva nei confronti delle persone con cui ha a che fare». Dalle raccomandazioni di Wright, che Hammett costrinse anche i suoi protagonisti a seguire, emerge chiaramente come l’investigatore ideale, quello cioè che vi si fosse attenuto fedelmente, sarebbe risultato destinato a condurre un’esistenza nell’ombra, ai margini della società, diffidando di tutti, adeguando il proprio stile di vita a quello dei criminali e improntandolo a una certa ambiguità, potendo finire per trovarsi spesso in conflitto con la polizia o con la giustizia e maturando la tendenza all’indipendenza, ai limiti della disobbedienza. Soprattutto egli si sarebbe dovuto educare al distacco e alla solitudine, non potendo permettersi di instaurare alcun legame sentimentale. Questo complesso profilo faceva della figura del detective privato un riferimento ideale per quei racconti noir che, pur non spingendosi ad assumere la prospettiva di un criminale, avrebbero comunque rappresentato la realtà attraverso gli occhi di un individuo altrettanto problematico, che ben conosceva il dolore legato alle peggiori contraddizioni sociali – storicamente, infatti, gli investigatori della Pinkerton non si erano limitati a pedinare coniugi fedifraghi o a ritrovare oggetti smarriti, ma erano stati spesso incaricati dagli industriali di difendere gli stabilimenti durante gli scioperi, aiutare nuovi operai a introdursi sul posto di lavoro superando i picchettatori, reprimere le manifestazioni di protesta. E, nel momento in cui lo facevano soltanto per denaro, non si schieravano ideologicamente da nessuna parte – pur condividendo di certo molte delle difficoltà patite dai lavoratori. Così finivano per sperimentare anche a livello

individuale la tragedia collettiva. Un conflitto che, all’esito della propria inchiesta, non avrebbero risolto, ma soltanto tentato di mettere da parte e di dimenticare. Fu il caso de Il mistero del falco (1941), prima vera applicazione della poetica noir e modello di riferimento per tutti i film incentrati sulla figura dell’avido e cinico detective privato: egli sarebbe riuscito a sottrarsi alla trappola nella quale era stato fatto cadere, ma al risveglio dall’incubo vissuto avrebbe provato solitudine e tormento persino maggiori rispetto a quelli che lo avevano caratterizzato fin dall’inizio. Inoltre, pur riuscendo a dimostrare alle autorità la propria estraneità ai delitti per i quali era sospettato, allo spettatore il suo atteggiamento complessivo sarebbe apparso quantomeno ambiguo e moralmente discutibile. Quando, viceversa, il protagonista riusciva a interiorizzare la ricerca esteriore, arrivando a mitigare inquietudine e sofferenza attraverso un sentimento prossimo all’amore – che pure, rispetto alla centralità assunta nel tipico sviluppo hitchcockiano, restava marginale – il cinismo e il distacco tipici del suo sguardo permettevano al narratore, che ne assumeva la prospettiva, di far emergere ciascuno di quei sordidi dettagli che la sua particolare sensibilità era abituata a cogliere, senza lasciarsi sconcertare o coinvolgere, ma annotandoli con crudo realismo, come avrebbe fatto redigendo un ordinario rapporto di servizio. L’insensibilità, che gli investigatori privati dovevano aver necessariamente sviluppato per sopravvivere all’interno di un mondo ingannevole e spietato, rendeva questi personaggi l’espressione ideale dell’incolmabile vuoto esistenziale attribuito dalla poetica noir ai propri personaggi.

Il mistero del falco

Il mistero del falco, capolavoro dell’esordiente John Huston – che lo sceneggiò a partire dal romanzo di Hammett e lo diresse – costituisce il primo film nel quale venne applicata la poetica noir: Lo sconosciuto del terzo piano (1940), infatti, che parte della critica considera ispirato alla medesima sensibilità, era stato in verità una variazione, per quanto cupa e inquieta, del classico spunto thriller dell’innocente creduto ingiustamente colpevole che riesce a dimostrare la propria estraneità con l’aiuto dell’innamorata. Il capolavoro di Huston, viceversa, raccontò la solitudine alla quale era condannato il protagonista e l’inconsistenza dei sogni umani – ingannevoli, beffardi, irraggiungibili. Se ne Lo sconosciuto del terzo piano il regista lettone, Boris Ingster, aveva inserito una straordinaria sequenza onirica – nella quale l’incubo si sovrappose alla disavventura giudiziaria del protagonista, fino a coincidervi – Il mistero del falco fu per tutta la sua estensione narrativa intriso di un’atmosfera da incubo, viziata e intossicante: i movimenti e il posizionamento della macchina da presa, l’utilizzo drammatico dell’illuminazione, la valenza espressionista attribuita alle ombre, animavano lo spazio, destando la percezione tangibile dei sentimenti ossessivi ed esasperati di cui questo era pregno. Concorse all’impressione complessiva della messa in scena anche la musica da brividi del compositore Adolph Deutsch, che interagì con le immagini, insinuandosi persino sotto i dialoghi e caricando le une e gli altri di sfumature particolari e inquietanti. Isolando certi passaggi del racconto, le note alterarono la percezione oggettiva di numerosi episodi, conferendo a essi quella propensione all’improvvisa metamorfosi – di matrice soggettiva – che nel cinema espressionista era stata resa facendo prevalentemente leva sull’aspetto visivo. Anche la fotografia di Arthur Edeson, che negli anni ’30 si era cimentato con i classici della paura di James Whale, contribuì a suscitare la suggestione di un’allucinazione, in cui ogni emozione si sarebbe detta distorta, ora amplificata ora

rarefatta, aumentando il senso di incertezza, di sospetto e di angoscia che costituisce un elemento imprescindibile dell’estetica noir, votata allo straniamento. Ad avvalorare infine questa dimensione onirica, la battuta recitata da Humphrey Bogart a proposito del misterioso e inafferrabile falcone maltese, per il quale tante vite erano state sacrificate: «è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni» – frase tratta da La tempesta di Shakespeare e pronunciata da Prospero nell’ambito di una riflessione sulla relazione tra vita e teatro: «siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita». Nella logica del cinema noir, dunque, l’esistenza dell’uomo era ridotta a una breve e fuggevole esperienza, contraddistinta dalle paure e dalle debolezze più radicate – quelle che l’inconscio rivela appunto nel corso di un terrificante incubo. Nel ruolo di Sam Spade – archetipo dell’investigatore privato – Bogart interpretò perfettamente la solitudine, la diffidenza, il cinismo e l’egoismo che avrebbero caratterizzato per sempre la figura del detective noir. Nonostante il riscatto finale, in cui il rispetto di una particolare etica professionale – peraltro mai coincidente con la legge e la morale comune – ebbe il sopravvento sulla debolezza di fronte alle passioni, il suo tratteggio fu improntato a una certa ambiguità: essa emergeva nel sorprendente bacio con la vedova del socio oppure nel momento in cui sembrò che avesse messo le mani sul falcone maltese e, ancora, durante l’ispezione dell’oggetto. Consapevole del proprio irresistibile fascino, Mary Astor lo trapassò ripetutamente con lo sguardo inintelligibile che, appunto come mademoiselle Blanche ne Il giocatore, ella sapeva modulare a seconda delle necessità, attraverso una complessa gamma emozionale. La coppia formata da Peter Lorre e da Sidney Greenstreet – che avrebbe dato vita a un lungo sodalizio – rispose alla

necessità di elaborare memorabili personaggi di contorno, come il criminale sofisticato e pauroso, nel quale convissero il senso del comico e quello del tragico, e l’istrionico e flemmatico inglese, la cui presenza di spirto dovette corrispondere alla presenza scenica, che Huston garantì, esaltandone le forme di fronte all’obiettivo. Infine, Elisha Cook Jr. – il quale, per via dell’aspetto, si sarebbe imposto come caratterista noir – vestì i panni di un ometto insignificante, ridicolizzato e tradito dagli altri personaggi: su di lui si abbatteva lo spietato caos di una realtà nella quale il più debole era inesorabilmente condannato a subire la sopraffazione del più forte. Quanto al contesto spazio temporale della vicenda, il repentino passaggio, in apertura del film, dall’inquadratura della statua del falcone maltese – collocata in uno spazio astratto, volto a chiarirne il valore simbolico – a quella, in campo lunghissimo, della baia di San Francisco ebbe la funzione di comunicare che, pur trattandosi di una storia contemporanea, ambientata sulle strade della metropoli, il dramma sarebbe scaturito da una forza antica e misteriosa, capace di esercitare ancora il proprio terribile potere sull’animo umano. Huston comunque valorizzò in maniera straordinaria l’idea che il contesto urbano, vizioso e malsano, esercitasse un assillo terribile sulla coscienza individuale, riuscendo a penetrare persino nello spazio più intimo e riservato: fu il caso della ripresa ambientata presso l’appartamento del protagonista, svegliato nel cuore della notte dalla notizia della morte del socio. L’osmosi tra ambiente esterno e quello interno avveniva attraverso una finestra socchiusa, a partire dalla quale il regista delineò l’impressione della contaminazione sull’inquadratura delle tende, mosse dall’aria irrespirabile della città, e sui riflessi dei lampioni, che violavano la penombra della stanza, producendo un inquietante chiaroscuro – insomma, come la quiete del sonno era stata disturbata dall’irruzione di una cattiva notizia, così la sfera di intimità della camera da letto era turbata da elementi provenienti

dall’esterno. A rendere ancora più angosciante l’atmosfera creata dalle immagini, contribuì il trattamento sonoro: la musica di sottofondo, dotata di un ritmo vario, incostante, allusivo, e il ticchettio dell’orologio, che rompeva il profondo silenzio notturno. Benché fosse all’esordio come regista, Huston si distinse immediatamente nella direzione della macchina da presa, aggiungendo sfumature narrative e raggiungendo eccezionale pathos, proprio mediante trovate dotate di un originale impatto visivo: si consideri il primo incontro tra l’investigatore privato e la dark lady, ripreso alle spalle dell’uomo per mostrarlo saltare letteralmente sulla sedia non appena si rese conto della bellezza di lei; in seguito, l’omicidio del socio venne mostrato da un’inquadratura frontale del detective, all’interno della quale irruppe improvvisamente, in primo piano, una mano guantata, impegnata a stringere una pistola – se è vero che Huston avrebbe potuto includere l’assassino nella ripresa oppure, al contrario, tenerlo completamente fuori campo, è altrettanto evidente che sia in un caso sia nell’altro sarebbe stato mostrato troppo o troppo poco; per non parlare del fatto che la soluzione adottata, sfruttando l’inattesa apparizione del pericolo, avrebbe costretto lo spettatore a condividere lo spavento della vittima, colta impreparato. Altre soluzioni estetiche e narrative furono invece tratte dal modello espressionista: così, nel confronto tra l’investigatore privato e i poliziotti, che piombavano in casa sua nel cuore della notte, ciascun angolo di inquadratura assunse un preciso significato e, mentre il peso dei sospetti manifestati dal più diffidente dei due si concretizzò in un ingombrante primo piano, magnificato dai bagliori di una lampada, il sostegno dimostrato dal collega emerse grazie alla ripresa, di ispirazione langhiana, dall’alto verso il basso – suggerendo immediatamente che egli non aveva intenzione di sovrastarlo con un’accusa. In un passaggio successivo, poi, Huston fece seguire all’inquadratura di un personaggio, intento a guardarsi intorno, una sequenza di primi piani dei visi di coloro che lo circondavano, allo scopo di far percepire

allo spettatore l’impressione che il primo aveva avuto, sentendosi gli occhi degli altri addosso, stretto in trappola. Altre volte, invece, il regista aveva compiuto un’improvvisa incursione nei pensieri dei personaggi – sottolineandone le reazioni agli stimoli esterni – con lo strumento della carrellata in avvicinamento, secondo una tecnica narrativa sperimentata da Murnau già ai tempi de L’ultima risata (1924). Estremamente significativi, infine, furono la già citata manipolazione della luce, per effetto della quale vennero definiti spazi profondi, avvolgenti, saturi di tensione, e l’impiego delle ombre, dotate, talora, di una funzione estetica, talaltra, invece, di un significato simbolico.

Il grande sonno

Grazie a Il mistero del falco, Bogart divenne un’icona noir. In seguito il suo mito sarebbe stato accresciuto dall’interpretazione del cinico Marlowe in un film che si impose subito come classico, Il grande sonno (1946) di Howard Hawks. Dopo aver contribuito a definire il gangster movie e la screwball comedy, questo eclettico regista si dedicò anche al noir, prima di intraprendere la via del western. Proprio la propensione alla sperimentazione – che lo avrebbe indotto a cimentarsi in tutti questi generi e in altri ancora – e una cifra autoriale, sempre estremamente marcata e ben riconoscibile, determinarono un risultato finale molto originale. Il grande sonno fu di certo un’opera spuria, nel corso della quale trovarono spazio anche spunti comici e momenti romantici; tuttavia, nel complesso, prevalse un’impressione di falsità e di turpitudine: nulla era ciò che sembrava e, tra

inganni, tradimenti e doppi giochi, il protagonista avrebbe ripetutamente rischiato la vita. Per riuscire a venire a capo di un sofisticato complotto – che il destino complicò a dismisura attraverso una concatenazione di inattesi sviluppi – egli ebbe infine bisogno dell’aiuto della controparte femminile che, a dispetto dei modi scostanti e dell’indubbio fascino, esercitato in particolare durante l’esibizione del numero musicale, non possedeva la spietatezza e la pericolosità della dark lady. Nella loro relazione si manifestò la turbolenta complicità che Hawks aveva già applicato alle coppie delle commedie e che, nell’ambito di un film improntato all’azione, ricordava piuttosto i thriller hitchcockiani. Oltre al rapporto uomo – donna, anche la collaborazione, che legava Marlowe all’amico commissario, rendeva il protagonista assai meno abbandonato di quanto non sarebbe capitato a un autentico antieroe noir costretto a fare i conti con un insuperabile senso di solitudine. Persino la messa in scena non possedeva i tratti caratteristici del cinema noir, come la tradizionale scenografia metropolitana o un’estetica dominata dal chiaroscuro oppure, ancora, il ricorso alle ombre in funzione drammatica. Alla luce di tutto ciò sarebbe più corretto definire questo film un thriller, sebbene gran parte della critica abbia preteso di ricondurlo al genere noir, indotta dallo spunto letterario – l’omonimo romanzo di Raymond Chandler – e dal contributo che prestò alla sceneggiatura William Faulkner, scrittore noto per la capacità di conferire alle proprie opere notevole spessore psicologico e per la tendenza ad alternare prospettive narrative diverse e a svolgere spericolati salti temporali, alterando l’ordine cronologico della vicenda: caratteristiche in effetti anche del cinema noir, che, tuttavia, nella sceneggiatura in questione non vennero pienamente sviluppate.

L’ombra del passato

Molto più autenticamente noir, cupo e violento tanto nell’estetica quanto nell’ideologia, era stato un precedente film dedicato alla figura del detective Marlowe: si trattava de L’ombra del passato (1945), diretto da Edward Dmytryk e sceneggiato da John Paxton a partire dal romanzo di Raymond Chandler, Addio mia amata (1940). Questo regista – che sarebbe stato tra le vittime del maccartismo, venendo persino incarcerato per un breve periodo – riuscì a rendere vividissima l’impressione dell’inquietudine dalla quale il protagonista sarebbe stato costantemente assillato, nonostante i tentativi di esorcizzarla con atteggiamento distaccato, cinico e dissacrante. Il disagio e la solitudine che egli viveva furono magistralmente evocati durante la sequenza in cui l’investigatore si ritrovava nel proprio ufficio a osservare fuori dalla finestra le luci della città ormai immersa nel buio della notte e ad ascoltare il rumore del traffico: spettatore di un mondo al quale sentiva di non appartenere. In effetti, nonostante vizi e debolezze, il codice etico che egli seguiva lo elevava rispetto all’umanità circostante, permettendogli di evitare le numerose trappole poste lungo il suo cammino e ripagandolo con un lieto fine. Ciò, tuttavia – pur costituendo una significativa eccezione alle regole del genere – non sarebbe valso, di per se stesso, a rendere meno perversa la vicenda considerata nel suo complesso: anche la presenza, del tutto marginale, di una figura femminile positiva, non poteva riscattare la spiccata misoginia espressa attraverso la caratterizzazione di una spietata dark lady, perfettamente rispondente ai canoni della tradizione. Decisamente meno convenzionale, invece, fu il tratteggio della sua controparte maschile: colto e raffinato uomo di scienza, capace di sottomettere le proprie vittime manipolandone la resistenza mentale – del resto tenue quanto i loro principi morali – questo personaggio ricordava quello del dottor Mabuse. E il riferimento al cinema espressionista fu altrettanto evidente nell’estetica del film, articolata sul chiaroscuro e sulla

funzione narrativa delle ombre, nonché nelle inquietanti deformazioni che caratterizzarono la sequenza onirica – straordinaria incursione nella mente del protagonista, sconvolta dal siero che gli era stato somministrato e già in precedenza messa ripetutamente a dura prova dalla costante minaccia di insidie e pericoli. Appunto l’inserto dell’incubo, oltre alla citata caratterizzazione di un terribile ipnotizzatore, dimostravano l’interesse di Dmytryk per la dimensione soggettiva della narrazione: questa fu condotta assumendo la prospettiva dell’investigatore e consistette nella ricostruzione del ricordo, svolta nel corso di un lungo flashback, dopo un inizio in medias res. La coincidenza tra narratore e personaggio emerse – oltre che per via degli interventi della voce over – anche attraverso la soluzione della macchia scura che si diffondeva sullo schermo ogni volta in cui il protagonista perdeva i sensi. L’atmosfera allucinata e talvolta spaventosa del racconto venne esaltata dalla straordinaria partitura di Roy Webb, in alcuni passaggi della quale affiorò una sottile ma percepibilissima inclinazione horror, che del resto ispirò anche numerose soluzioni visive, specie in occasione delle diverse apparizioni del gigantesco Malloy – su tutte quella dei riflessi del suo viso inquietante sulle finestre dell’ufficio di Marlowe: i neon della strada, illuminandosi a intermittenza, diedero l’impressione che si trattasse soltanto di un inganno della mente, uno sfumato incubo a occhi aperti. Come, d’altra parte, era intenzione degli autori che risultasse l’intera messa in scena.

Il lungo addio

Il personaggio di Marlowe fu protagonista anche de Il lungo addio (1973) di Robert Altman, che dell’investigatore accentuò aspetti meno evidenti nelle precedenti versioni: la trasandatezza e il disordine, esistenziali prima ancora che materiali, e le ossessioni legate alla solitudine della vita in un mondo disumano, in cui la sola compagnia fidata era quella di un gatto. La caratterizzazione avvenne attraverso gesti rituali – già ne Il grande sonno, Bogart si strofinava in continuazione l’orecchio: Elliott Gould, da parte sua, accendeva compulsivamente fiammiferi e parlava perlopiù da solo, anche in presenza di altri personaggi, ripetendo in particolare la battuta «per me va bene», manifesto di un’assoluta indifferenza rispetto all’agire altrui. Del resto, anche in ragione di queste caratteristiche, egli si distingueva nettamente dagli altri personaggi, aggirandosi su una malridotta auto d’epoca, in mezzo alle sgargianti decappottabili di lusso parcheggiate tra le ville di Malibu: dotato di una morale fondata sulla lealtà, ma isolato e ingannato proprio a causa di ciò, Marlowe sarebbe giunto – in un finale che Altman e la sceneggiatrice Leigh Brackett, già coinvolta ne Il grande sonno di Hawks, modificarono drasticamente rispetto all’omonimo romanzo di Chandler – a uccidere l’amico che l’aveva tradito. Che in questo gesto inatteso si volesse vedere l’intenzione di consumare una spietata vendetta – dalla quale si sarebbe dovuto dedurre che l’eroe era stato infine travolto dal crepuscolo noir – oppure, al contrario, il virtuoso tentativo di ristabilire un ordine in assenza di una giustizia istituzionale in grado di occuparsene – secondo la tradizione del genere western per cui l’etica individuale si imponeva sulle mancanze collettive – restava una decisione che avrebbe per sempre sconvolto l’esistenza del protagonista, condannandolo a convivere con i rimorsi e a dover ammettere la sconfitta del proprio codice di principi. Ambientato nell’alta società californiana contemporanea, dedita a uno stile di vita sregolato, morboso, vuoto e

autodistruttivo – sul modello della generazione perduta, ma anche dei viziosi borghesi, annoiati e impotenti, de Il dottor Mabuse – la coppia formata da Altman e dalla Brackett declinò un’impietosa denuncia della élite statunitense, guardando con nostalgia ai valori del dopoguerra. Il personaggio interpretato da Gould, che ricordava chiaramente i predecessori in bianco e nero, avrebbe rifiutato l’ipocrisia e la falsità dei personaggi moderni tra i quali era stato suo malgrado scaraventato – uomo fuori tempo, come la maggior parte degli antieroi noir. Così, lo sparo finale costituì la logica applicazione della concezione retributiva alla quale la sua mentalità da antico regime noir doveva assolutamente adeguarsi. Il dislocamento temporale che rendeva il racconto sospeso in una dimensione indefinita, venne evocato attraverso un’estetica appassita, deboli contrasti cromatici e una luce particolarmente rarefatta – un risultato ottenuto esponendo parzialmente il negativo. Il risultato complessivo fu la rappresentazione di un mondo svuotato di vita, prosciugato di passioni, in cui ogni emozione sembrava anestetizzata e l’esistenza individuale rispondeva a uno sviluppo predeterminato. La relatività morale espressa dall’amico traditore – i cui sofismi ricordavano quelli di un altro meneur proiettato alla logica moderna dell’utile e altrettanto privo di scrupoli, Henry Lime, protagonista de Il terzo uomo (1949) – produsse un effetto spiazzante sul detective, che pur nel suo disilluso cinismo credeva ancora in un pugno di valori. Lo stesso smarrimento esprimeva il personaggio dello scrittore suicida, incapace di sopportare oltre l’inquietudine provocata in lui dall’insignificanza dell’eccentrica umanità che ne affollava le feste, eccessive e bizzarre quanto quelle de Il grande Gatsby.

Chinatown

Roman Polanski conobbe da vicino paure e perversioni terribili – l’orrore dell’olocausto e la follia del satanismo – e studiò, in qualità di narratore, nevrosi, ossessioni, patologie che seppe rappresentare in maniera tanto efficace quanto inquietante. L’attenzione che dimostrò per le più oscure profondità dell’animo umano, tra le quali si aggirò alla scoperta delle peggiori derive psichiche, manifestava una sensibilità in linea, per molti aspetti, con la visione dell’esistenza elaborata dalla poetica noir. Nondimeno, il visionario regista polacco si cimentò in un solo esercizio effettivamente riconducibile a questo genere cinematografico: Chinatown (1974), la cui sceneggiatura di Robert Towne – ispirata alla California Water War, la lotta per i diritti sull’acqua e sui terreni nella California meridionale nel corso del primo ventennio del XX secolo – incontrò il gusto di Polanski per lo spunto drammatico del complotto. Molti personaggi polanskiani, infatti, erano o sarebbero stati ossessionati dal sospetto, solo talvolta fondato, di essere le vittime di un complotto; una sensazione esasperante, dalla quale scaturiva un greve clima di dubbio e di incertezza equivalente alla soffocante sensazione di minaccia perenne che incombeva su molti classici noir. Pur ponendosi, dunque, in linea con la tradizione, Chinatown contaminò, in maniera assolutamente originale, alcuni tipici temi noir con una denuncia istituzionale profondamente condizionata dagli scandali che negli anni ’70 avevano investito la pubblica amministrazione statunitense. La ricerca svolta dal protagonista, il tradizionale investigatore privato all’apparenza cinico e indifferente, costituì ancora una volta l’espediente attraverso cui gli autori poterono sostenere la tesi secondo la quale un’indagine che approfondisse la natura degli organismi individuali e collettivi non avrebbe potuto portare a galla altro che corruzione e depravazione: non stupisce dunque che questo neo – noir abbia suggerito un sinistro parallelismo tra la degenerazione dei rapporti pubblici e quella dei rapporti privati, confrontando tra

loro la violazione della fiducia pubblica, perpetrata attraverso tangenti e falsificazioni, e la violenza sessuale subita da una figlia per mano del padre. L’ostinazione e la determinazione con cui il protagonista avrebbe proseguito l’indagine ben oltre rispetto all’incarico ricevuto – dimostrando così di non rispondere soltanto a stimoli di tipo economico, ma anche a quelli di carattere etico – non sarebbero risultate comunque sufficienti a impedire il compimento di una tragedia che il destino aveva organizzato da tempo: si verificava così, nel caos del quartiere cinese, emblematico del disordine morale ormai dilagante, la sconfitta dei principi morali della tradizione, di fronte alla inarrestabile perversione della modernità. Seguendo l’investigatore attraverso le sconcertanti scoperte a cui lo conduceva la ricerca, la macchina da presa costrinse il pubblico a condividerne turbamenti, sospetti, intuizioni: sottolineando i dettagli preziosi che la sua esperienza gli permetteva di cogliere, come iniziali stampate sulla carta da lettere e mani tremanti nell’atto di accendere una sigaretta, oppure ricorrendo insistentemente alla tecnica dello sguardo reazione. La narrazione, del resto, venne perlopiù condotta nella prospettiva soggettiva del detective, come dimostrava la lunga sequenza del pedinamento: se l’investigatore osservava da lontano il proprio uomo con un cannocchiale, il relativo mascherino veniva sovrapposto all’obiettivo della macchina da presa; se, per non farsi notare, guardava ciò che stava accadendo attraverso lo specchietto laterale della propria automobile, anche lo spettatore avrebbe avuto una visuale altrettanto limitata; se, pur continuando a controllare l’oggetto della propria indagine, il protagonista era costretto a spostarsi in maniera da non essere scoperto, le riprese sarebbero state in movimento. La cura dei particolari fu particolarmente evidente anche nella caratterizzazione del suo personaggio – si consideri l’abitudine di ticchettare con il fondo di una sigaretta sull’astuccio da cui l’aveva estratta: simili dettagli, sfruttati

anche da molti altri film incentrati sulla figura del solitario investigatore privato, servirono perlopiù a isolare i protagonisti rispetto ai personaggi circostanti, accentuandone la solitudine. Quanto all’estetica noir, Polanski ottenne un particolare effetto straniante rallentando il ritmo visivo del racconto – mantenendo uniformità nel montaggio e nell’orchestrazione delle riprese, al limite della monotonia – per poi imprimere una svolta drammatica improvvisa, nella maggior parte dei casi davvero insospettabile, e optò, insieme al fotografo John Alonzo, per un frequente utilizzo del controluce e un inasprimento dei contrasti cromatici ogni volta in cui intese sottolineare inquietudine e tormento interiori, proiettandoli, secondo un’impostazione espressionista, sulla scenografia. Un contributo essenziale alla resa complessiva provenne dal sottofondo musicale, dominato dal malinconico pianto della tromba. La funzione narrativa della partitura aumentò nella seconda parte del film, durante la quale la vena nera del racconto affiorò manifestamente; allo stesso tempo, l’ambientazione solare e luminosa lasciò il posto a riprese notturne e buie, suggerendo che dietro un’apparenza rassicurante si celava una turpe verità.

Blade Runner

La sperimentazione che ha interessato la poetica noir si è spinta fino ad applicarne ideologia ed estetica in opere di ambientazione fantascientifica. Ridley Scott, che con Alien (1979) si era imposto come assoluto riferimento per qualunque messa in scena di tipo fantascientifico, fece del protagonista di Blade Runner (1982)

un investigatore solitario e inquieto quanto i detective privati del noir classico di ispirazione hard boiled – in ciò apportando una significativa modifica al romanzo di Philip Dick dal quale Hampton Fancher e David Webb Peoples trassero la sceneggiatura del film. Ai suoi occhi si manifestò una società disgregata, in crisi di identità, nella quale era impossibile riconoscere gli esseri umani dai replicanti, ai quali l’agente della squadra speciale blade runner doveva dare la caccia. L’atmosfera, claustrofobica e opprimente, della vicenda si impose visivamente attraverso l’eccezionale ricostruzione scenografica della Los Angeles del futuro, buia, umida e caotica – improntata al modello della Metropolis di Lang: l’oscurità del sottosuolo, nel quale erano relegati gli indistinguibili operai del film espressionista, fu estesa da Scott a tutto l’ambiente urbano, inghiottito da una notte perenne, squarciata dai bagliori dei neon, simili a profonde ferite. Su questo mondo dolente – a cui il blues elettronico di Vangelis sembrò conferire una voce per lamentarsi – cadeva incessante una pioggia acida, provocata da un inquinamento atmosferico, non inferiore a quello morale, mentre i rari raggi di sole, ripresi in controluce, riducevano gli esseri umani a semplici ombre, creature crepuscolari dal destino fatalmente segnato. Alla giungla d’asfalto si era definitivamente sostituito un inferno che, partendo dal sottosuolo, raggiungeva la cima del più alto dei grattacieli tra gli sputi di fuoco di mostruose ciminiere: perciò l’unica soluzione rimasta al protagonista, per iniziare una nuova vita, fu la fuga. In questo scenario collettivo, gli autori calarono la tragedia individuale dell’investigatore tormentato dal dubbio, reso inquieto dall’incertezza, avvelenato dal sospetto e, soprattutto, intimamente spaventato dalla mancanza di riferimenti: i suoi predecessori avevano dovuto imparare a diffidare di chiunque; egli sarebbe giunto persino a dubitare di se stesso e del proprio passato.

Appunto il passato, questa entità perennemente incombente sui protagonisti del cinema noir classico, simile a una condanna da cui era impossibile affrancarsi, assunse invece in Blade Runner tutt’altro significato, arrivando a coincidere con il concetto stesso di esistenza: un bene sacro, un patrimonio di esperienze e di emozioni senza le quali l’essere umano smette di essere tale. Per i personaggi del film di Scott esso si identificava nella fotografia, oggetto tangibile che i replicanti veneravano per la capacità di imprigionare il tempo, il cui rapidissimo scorrere costituiva la loro peggiore paura. In questo modo venne compiuto un drastico ribaltamento della visione noir; lo stesso valse per il tratteggio della figura femminile: a differenza delle dark ladies tradizionali, la replicante che inizialmente non sapeva di essere tale – nonostante l’aura di ambiguità legata a questa condizione d’incertezza esistenziale – si sarebbe dimostrata inerme, anzi indifesa, nel rapporto con la controparte maschile che, senza volerlo, l’aveva trascinata in un’insanabile e lacerante crisi d’identità. La sua nostalgia, destinata a diventare addirittura venerazione per il passato, la rese un personaggio romantico in conflitto con l’umanità moderna che la circondava. Quest’ultima venne esplorata nel corso della ricerca dell’investigatore che, ancora una volta, assunse una dimensione interiore, provocando il collasso del fragile sistema di riferimenti al quale egli si era aggrappato. Confrontandosi con i replicanti – che inseguiva in maniera spietata e instancabile, benché essi non gli avessero nuociuto in alcun modo – e nell’ostinato tentativo di costringersi all’indifferenza, il protagonista rischiò di subire un’irreversibile processo di disumanizzazione; mentre scopriva la straordinaria sensibilità di coloro ai quali dava la caccia. Così, quando la missione fu finalmente conclusa, tutto ciò che restava fu un incolmabile senso di vuoto e un’impressione di desolazione, che lo avrebbero indotto a rinnegare l’abietta società in cui viveva e le leggi inique che anch’egli aveva contribuito a imporre, per scegliere invece il

breve ma intenso amore che soltanto una replicante avrebbe potuto concedergli. La straordinaria sensibilità di queste creature artificiali, il cui assillo fu scoprire il senso della propria esistenza – una preoccupazione che pareva aver ormai del tutto abbandonato l’essere umano – emergeva dal monologo recitato da uno di loro. Pare che lo stesso attore, Rutger Hauer, abbia fornito un contributo fondamentale alla sua elaborazione, raggiungendo un momento di straordinaria poesia con la frase conclusiva: «e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire». Allo scopo di attribuire ancora maggiore efficacia alla loro denuncia della dilagante disumanizzazione – svolta valorizzando, a contrario, le emozioni provate dai replicanti – gli autori insistettero sul simbolismo legato all’occhio, giacché quest’organo, nella cultura classica occidentale, veniva considerato lo specchio dell’anima: creati in laboratorio, eppure evoluti al punto di essere diventati unici, non replicabili, questi fuggitivi in cerca del loro creatore rivendicarono appunto il diritto a condividere con costui emozioni, speranze, paure e a veder infine riconosciuta dignità ai propri sentimenti. In breve a dimostrare di possedere anch’essi un’anima.

Il thriller d’atmosfera noir

Dall’analisi di molte delle opere affrontate è emersa la difficoltà di individuare un perimetro rigido entro cui definire con assoluta certezza le coordinate del film noir: esistono infatti una poetica, una sensibilità, un’atmosfera e i profili di talune figure piuttosto ricorrenti. Tuttavia, ciascun autore applicò in maniera personale e in misura differente gli stereotipi del genere.

Sembrerebbe pertanto più semplice stabilire cosa non sia noir – nell’ambito delle opere che sviluppano lo spunto drammatico legato alla verificazione di un crimine: l’interesse per una vicenda di carattere esclusivamente individuale, senza alcuna considerazione per la realtà collettiva; la netta distinzione tra bene e male, giusto e ingiusto, puro e corrotto; un finale consolatorio, attraverso il quale venga ristabilito un ideale di perfezione e sia dissipata ogni ombra di ambiguità; una concezione del rapporto tra uomo e donna di reciproca collaborazione, all’insegna dell’amore, della generosità, del sacrificio e del completamento; infine, l’idea che l’essere umano possa ergersi ad artefice della propria fortuna, invece di essere in balia del destino. In realtà, anche i film che presentano una o più di queste caratteristiche – le quali, nell’insieme, delineano il genere thriller – possono ricevere un trattamento di tipo noir. Anzi, è una dote degli autori più completi e più coraggiosi saper creare capolavori unici e originali, in virtù della combinazione di toni differenti, attingendo a poetiche distanti tra loro, senza turbare l’armonia del risultato complessivo. Fu il caso di Clouzot e di Hitchcock, spesso associati l’uno all’altro, lungo carriere che in più di un’occasione e per motivi diversi si incrociarono. Entrambi affrontarono un tipico espediente del thriller – quello dell’innocente ingiustamente accusato che, infine, riesce a dimostrare la propria innocenza – realizzando due opere chiaramente caratterizzate da malinconia, inquietudine e disagio chiaramente degni della tradizione realista e del cinema noir in particolare. Si trattò, nel caso del primo regista, di Legittima difesa (1947), un thriller dalle atmosfere torbide e morbose; nel caso del secondo, de Il ladro (1956), in cui l’immancabile lieto fine mascherava un’amarezza e soprattutto una sfiducia mai, né in precedenza né in seguito, manifestate dal maestro inglese. Creazioni spurie furono anche alcuni film di Preminger, del quale la vita artistica, prima ancora che le opere, costituì un atto di polemica nei confronti dell’ottuso e ipocrita rigore

nell’applicazione delle regole di Hollywood: a renderlo celebre, non furono soltanto le sue pellicole, ma anche l’essersi reso indipendente dalle grandi case di produzione e l’aver voluto collaborare con sceneggiatori e attori perseguitati durante gli anni del maccartismo. Pur essendo dei thriller – nel corso dei quali si assisteva a un’articolata evoluzione interiore dei protagonisti, addirittura a una redenzione morale, e soprattutto veniva valorizzata la funzione edificante del legame tra uomo e donna – in essi venne svolto, sia pure a margine della vicenda individuale, il ritratto della natura ambigua, perversa, oziosa e corrotta dell’élite statunitense. L’accanimento con cui il regista austriaco si scagliò contro i ritrovi mondani della upper class fu paragonabile a quello con cui il cinema tedesco aveva ridicolizzato i borghesi dell’epoca di Weimar e a quello nel quale gli esponenti del realismo poetico francese avevano applicato l’ideologia surrealista. Si consideri, al riguardo, l’ambiente sociale che fece da sfondo alle macchinazioni dello spietato ipnotizzatore Corvel ne Il segreto di una donna (1949), rivisitazione del modello espressionista de Il dottor Mabuse, o le ossessioni e gli isterismi dei facoltosi frequentatori della protagonista in Vertigine (1944). Mentre nei due film appena citati la componente thriller fu comunque nettamente prevalente rispetto a quella noir, Sui marciapiedi (1950) manifestò un carattere assai più ambiguo, sovvertendo il classico espediente dell’innocente creduto ingiustamente colpevole, con quello del colpevole creduto ingiustamente innocente e portando di conseguenza lo spettatore a simpatizzare per un antieroe.

Legittima difesa

Con Legittima difesa (1947) Clouzot affrontò il classico spunto del cinema thriller – quello dell’innocente ingiustamente accusato – prestando molta maggiore attenzione all’atmosfera in cui era avvolta la vicenda e alla cornice sociale entro cui agivano i personaggi, piuttosto che alla vicenda stessa. La relazione tra la tragedia individuale e quella collettiva e il realismo della messa in scena – evidente sin dalla ripresa d’apertura ambientata lungo la strada, seguendo i movimenti di comparse del tutto irrilevanti – erano caratteristiche del cinema disperato. Dello sventurato accusato, poi, vennero messe alla berlina le debolezze tipicamente borghesi, dalle quali era dipeso il suo coinvolgimento nell’inchiesta della polizia. Anche l’ambiente investigativo venne rappresentato con attenzione documentaristica sia negli aspetti pratici e organizzativi, sia nella sua dolente e talvolta degradata componente umana. Bernard Blier parlò di «populismo in senso buono» per riferirsi alla benevola e compassionevole partecipazione che Clouzot dimostrava nei confronti delle difficoltà e della miseria patite dalla gente comune, mentre Louis Jouvet paragonava il cineasta francese a Dickens, in ragione della comune capacità di comprendere e di rappresentare le ferite e le contraddizioni della comunità contemporanea, con atteggiamento filantropico. Per comprendere la vocazione sociale del film si considerino le numerose riprese dedicate alle reazioni del pubblico durante l’esibizione della cantante: del numero musicale – un topos del cinema noir – il regista non mise in evidenza il fascino emanato dalla diva, bensì la spensieratezza procurata alla gente. Del resto, mentre di borghesi e benpensanti – qui impersonati dalla vittima, uomo viscido e perverso – vennero messe in luce ipocrisia, vizio e immoralità, degli ambienti popolari fu esaltata la solidarietà, benché tutti nel dopoguerra faticassero a sopravvivere. Attraverso il consueto espediente dell’inchiesta, Clouzot ritrasse l’ambiente del varietà e i quartieri popolari, affidando

la propria visione della vita all’ispettore interpretato dal superlativo Jouvet: distaccato e algido come un detective hard boiled, allo scopo di non affezionarsi ai «clienti», nella vita privata esprimeva sincera pietà verso un’umanità dolente e tormentata, della quale riusciva a cogliere anche i pregi. La denuncia di metodi ai limiti delle sevizie, venne contemperata dall’ammissione dello stesso ispettore che il suo era un incarico ripugnante, «uno schifo di lavoro», nello svolgimento del quale egli non provava alcun compiacimento.

Il ladro

Anche Il ladro (1956) di Hitchcock fu un film sviluppato sul motivo dello scambio di persona, che, del resto, nella filmografia di questo regista tornò in numerosi thriller. Tuttavia a distinguere quest’opera da tutte le altre furono i toni soffocanti e la greve atmosfera affatto inusuali nella poetica del maestro inglese. Anche il protagonista della vicenda – tratta da un vero episodio di cronaca – non aveva alcuna delle caratteristiche degli altri personaggi hitchcockiani, perlopiù scapoli affascinanti, carismatici, atletici, a modo loro intriganti: al contrario, si tratta di un uomo qualunque, la cui esistenza sarebbe risultata assolutamente insignificante se non fosse stato per la tragedia nella quale fu coinvolto. Al riguardo, il titolo originale, The Wrong Man, dimostrava che il tema dell’innocente ingiustamente accusato non sarebbe stato il mero spunto narrativo per la solita avventura – in perfetto equilibrio tra suspense e ironia – bensì di una riflessione amara sulla relatività della giustizia, tra gli assilli noir per eccellenza.

Anche della successione di coincidenze, che avrebbe determinato lo scambio di persona, Hitchcock non approfondì la spiegazione ma lasciò prevalere l’impressione di un inintelligibile fatalismo; allo sesso modo, alla reazione ostinata dei suoi innocenti, che di regola compivano qualunque sforzo per discolparsi – nella convinzione che questa possibilità fosse a loro disposizione – il protagonista de Il ladro, interpretato da Henry Fonda non nuovo a simili ruoli, accettò con muta rassegnazione l’incubo al quale veniva costretto. Dalla spettacolarizzazione si era passati alla cronaca e anche la messa in scena ne risentì: in pieno stile neorealista, vennero utilizzati alcuni degli ambienti interni dove si erano effettivamente svolti i fatti trasposti nel film e recitarono, nella parte di se stessi, alcuni dei testimoni coinvolti nella realtà. Inoltre, pur avendo già utilizzato il colore e preparandosi ad attribuirgli una funzione espressionista ne La donna che visse due volte (1958), per questa storia il regista scelse di adottare il bianco e nero della tradizione noir – si consideri la ripresa manifesto all’inizio del film, nella quale Hitchcock realizzò uno straordinario gioco di luci e ombre. In effetti, al realismo della ricostruzione, si contrappose la capacità della fotografia di Robert Burks di creare le sensazioni dell’incubo e dell’allucinazione, come nel caso delle ombre che incombevano sulla moglie del protagonista, nel momento in cui ella realizzò che non sarebbe stato possibile trovare alcun testimone in grado di discolpare il marito. A suscitare questa impressione straniante concorse anche la musica di Bernard Hermann, che, come il regista, stravolse le proprie abitudini: gli squilli concitati dell’azione, dell’avventura e della passione furono sostituiti con pesanti e cupe percussioni, corrispondenti agli inesorabili colpi inflitti dal fato, mentre la varietà delle sue tipiche composizioni venne abbandonata in favore della monotonia, attraverso la quale scandire la lenta ma inevitabile rovina del protagonista. Uno dei passaggi, in cui questa soffocante angoscia raggiunse il proprio climax, fu la scena dedicata alla descrizione analitica dello spazio fisico e metafisico della

cella: alternando inquadrature di tipo diverso, Hitchcock, oltre a mostrare l’aspetto esteriore dell’ambiente, riuscì soprattutto a trasmetterne la percezione soggettiva del protagonista mentre i suoi piedi misuravano nervosamente l’area: i pugni si strinsero suggerendo che lo sgomento si era trasformato in rabbia, eppure l’espressione del volto tradiva rassegnazione; un cortocircuito emotivo, un disorientamento rappresentato dall’improvviso movimento della macchina da presa che girò su stessa come un’allucinante spirale. Un’altra suggestiva incursione nella psiche individuale si verificò durante l’attacco isterico della moglie, che ormai impazzita per il trauma aggredì il marito: l’immagine dello specchio infranto in seguito a questo eccesso rappresentò con vera efficacia la disgregazione mentale della donna. Oltre al valore visivo, questa scena assunse un particolare rilievo anche a livello ideologico, testimoniando che Hitchcock aveva dovuto revocare in dubbio l’incrollabile fiducia nella saldezza del rapporto tra uomo e donna di fronte agli ostacoli del percorso narrativo. In linea con la poetica noir, Il ladro svolse un’attenta e polemica riflessione sul malfunzionamento nell’amministrazione della giustizia: la disumanizzazione del sistema carcerario venne esaltata attraverso le riprese dei detenuti durante un trasferimento – passi meccanici e ritmati, anonimi piedi, mani ammanettate; ma nessun volto – mentre la sequenza del processo dovette accentuare, attraverso la dissociazione di immagini e parole, lo sconforto e l’impotenza provati dal protagonista che, durante la discussione in aula, coglieva attraverso il senso della vista il totale disinteresse di tutti i presenti – le risate del pubblico ministero, gli scarabocchi dell’assistente dell’avvocato, la distrazione dei giurati e persino dei suoi stessi parenti. Nonostante la prova alla quale l’innocente venne sottoposto, egli conservò la fiducia, anzi la fede, nella ricomposizione dell’ordine: proprio allo sguardo rivolto dall’uomo all’immagine del Cristo – e ripresa in avvicinamento, quasi a suggerirne l’intervento – Hitchcock

fece seguire la sovrapposizione tra il primo piano del protagonista e quello del criminale, con il quale era stato scambiato e che presto sarebbe stato catturato: le sue preghiere erano state accolte.

Sui marciapiedi

Realizzando Sui marciapiedi (1950), Preminger si concentrò sulla complessità dell’animo umano, cogliendo in essa le radici dell’inquietudine del protagonista, ma anche il presupposto per il suo riscatto esistenziale. Si trattava di un poliziotto violento, la cui ostilità nei confronti dei criminali – ai limiti dell’ossessione – nascondeva in verità il tentativo di esorcizzare la vergogna per essere nato da un padre malavitoso. Trovandosi sospeso tra la rispettabilità e l’illegalità, «mezzo poliziotto e mezzo assassino», egli incarnò il concetto langhiano, poi mutuato dalla poetica noir, dell’ambivalenza che caratterizzerebbe la natura di ciascun essere umano. Data questa premessa di partenza, egli avrebbe compiuto un’evoluzione interiore caratteristica del thriller – come, ispirato al thriller, furono anche il contributo svolto dalla controparte femminile e il rapporto d’amore – seguendo, tuttavia, la consueta parabola a gobba di cammello del noir: per tutto l’arco del racconto, egli si era impegnato a evitare un’accusa per omicidio; quando alla fine sembrava che ci fosse effettivamente riuscito, venne smascherato. Nondimeno, a determinarne la sconfitta non fu l’arbitrio del destino, bensì quello della propria coscienza, sotto l’impulso del senso di colpa. Autenticamente noir fu l’ambientazione notturna e metropolitana, che compariva già sullo sfondo dei titoli di testa – accompagnata dallo stesso tema musicale che la Fox aveva utilizzato nella produzione di Grattacielo tragico (1946).

Preminger rappresentò i diversi volti di New York – ora affollata, rumorosa e piena di vita lungo Broadway, ora umida, desolata, quasi spettrale, nei pressi del ponte di Brooklyn – mentre gli spazi interni e gli ambienti privati costituivano una cosa sola con la strada i cui riflessi filtravano attraverso ampie finestre prive di tende, manifestando un’osmosi dalla vita sociale a quella privata, sulla quale si fondava la simbiosi tra l’individuo e la città. L’importanza del conflitto interiore vissuto dal protagonista era tale, che il regista si impegnò per costringere lo spettatore a condividerne il tormento, immedesimandosi nella sua tragedia: subito dopo l’omicidio, il lento movimento di camera incontro al volto del poliziotto equivalse all’invito, rivolto da Preminger al pubblico, a immaginarsi nei panni dell’assassino; quindi, irruppe improvvisamente l’inquadratura di un telefono e, mentre egli era ancora pensieroso sul da farsi, l’apparecchio squillò inaspettatamente. Costringendo tutti, personaggio e spettatore, a un sussulto. Il regista era riuscito, attraverso il linguaggio visivo della macchina da presa, a far aderire la prospettiva del racconto a quella soggettiva del protagonista, del quale sarebbe stato più semplice indagare emozioni e passioni: in linea con la poetica noir – ma anche con l’esperimento di psicologia criminale svolto, molto prima, da Dostoevskij attraverso Delitto e castigo – il pubblico avrebbe conosciuto l’intimità di un animo colpevole.

Dalla fiaba al reality: una svolta nell’universo noir?

La poetica noir, al pari dell’inquietudine che esprime, risulta insofferente a restare confinata entro un perimetro storico, temporale e scenografico rigido: di conseguenza si è manifestata anche in epoche diverse da quella dei B movies

americani – interessando produzioni di primo livello – e attraverso ambientazioni molto più varie della metropoli notturna, ripresa in bianco e nero – risalendo fino alla vecchia frontiera, per spingersi poi addirittura alle città di un futuro fantascientifico. Non stupisce, dunque, che essa sia stata applicata anche a un racconto dotato della struttura e dell’estetica tipiche di una fiaba. Si trattò di un capolavoro senza tempo, La morte corre sul fiume (1955), unica ma indimenticabile regia di Charles Laughton: una vicenda incentrata sul delitto, sulla malvagità e sulla perversione, attraverso la quale, tuttavia, il regista inglese espresse la speranza che il peccato, da cui era stata avvelenata la natura umana, potesse essere infine emendato dalla virtù che la coscienza dell’uomo moderno ancora conservava. Lo scontro tra amore e odio, bene e male trovò in questo film una soluzione visiva davvero efficace: le due mani dello stesso uomo, in lotta tra loro – la perfetta rappresentazione del tema della doppiezza che assillava Lang, convinto che in ciascun individuo si scatenasse un conflitto interiore. La semplicità di questa trovata visiva ricordava le forme espressive più elementari e, in effetti, anche il resto della messa in scena venne ideato ricorrendo a toni e simboli adatti persino a un bambino – ciò fu particolarmente evidente nella rappresentazione della morte e della violenza: il ritrovamento del primo cadavere, del quale si intravvedevano soltanto le gambe, fu simile a quello della malvagia strega di Oz, schiacciata dalla casa di Dorothy; mentre l’avvistamento del secondo, sul fondo del fiume, possedeva dolce ed eterea poesia, quasi che la donna uccisa, i cui lunghi capelli si confondevano tra le alghe, fosse tornata ad appartenere alla natura; infine, il ferimento del perfido predicatore, preso a schioppettate, venne montato e interpretato per ricordare l’immagine del lupo cattivo, messo in fuga dall’ultimo dei tre porcellini. Il film, del resto, accostò ripetutamente i personaggi umani e le creature del mondo animale – come il gufo, spietato

predatore notturno, i leprotti e le rane, vittime indifese e predestinate; allo stesso modo, l’improvvisa ripresa di una ragnatela, montata durante la serafica e rassicurante risalita notturna del fiume, costituì un evidente presagio di una nuova minaccia. Ma l’aspetto più fiabesco fu la ricerca insistita del meraviglioso in ogni espressione della natura, una sorta di vero e proprio panteismo romantico, ispirato dal quale il regista inglese scoprì in ciascun elemento un soffio di vita e, soprattutto, un’anima benevola. Eppure sotto quest’ingenua apparenza di purezza, il polifonico film di Laughton celava una spietata e amara denuncia sociale, condotta in un’ottica puramente noir, mettendo alla berlina gli inganni e i doppi giochi degli adulti, l’ipocrisia e il perbenismo dei benpensanti, la ferocia e l’irresponsabilità della folla, il bigottismo ottuso dell’America rurale e la misoginia, uno degli aspetti più tipici del genere: il predicatore – del quale gli eccessi d’ira e gli improvvisi e irresistibili impulsi lasciavano trapelare l’impotenza sessuale – era ossessivamente convinto che, per portare a termine la missione di purificazione del mondo che si era attribuito, avrebbe dovuto uccidere tutte le donne della terra. Lo stesso regista peraltro manifestò altrettanta ostilità: i personaggi femminili della storia risultavano così deboli, sciocchi e viziosi che egli, nel raccontare la morte della madre dei bambini, sembrò quasi togliersi una soddisfazione. Del sacrificio compiuto dal folle predicatore sull’altare del tempio della propria fede, Laughton mise infatti in evidenza la passività, la remissività e, in definitiva, l’inconsistenza della vittima – il gioco di ombre, di evidente matrice espressionista, disegnò sulla scenografia la sagoma di un luogo di culto, mentre la posizione della donna, distesa supina a recitare una preghiera, lasciava intendere che non si trattasse di una tragedia improvvisa, ma di un rituale ben pianificato. In questo scenario di follia femminile, l’anziana allevatrice di orfanelli spiccò per bontà, per castità e per determinazione, al punto da assumere una connotazione astratta, incarnando il

bene assoluto, quanto il predicatore incarnava il male. La sua fede – votata alla salvezza altrui, prima ancora che alla propria – e la sua umanità si imposero quale unica alternativa alla corruzione, all’egoismo e alla disumanizzazione che «il falso profeta» – dal quale all’inizio del film la voce dell’anziana suggeriva ai bambini di guardarsi bene – simboleggiava. In mezzo a questi due opposti principi, il film situava una folla ignorante, feroce, indistinta; due sequenze corali, in particolare, descrivevano questo allarmante fenomeno di isterismo collettivo: la pira notturna, finalizzata alla catarsi di gruppo, assunse in realtà le sembianze di un rito satanico, mentre nella sete di sangue del linciaggio si scatenarono l’ignoranza e l’odio dilaganti nell’America rurale, che già Lang aveva denunciato nel suo proto noir, Furia (1936). Artista straordinario, che aveva lavorato appunto anche con Lang, Stanley Cortez fotografò questo universo, a tratti metafisico, ispirandosi chiaramente al cinema espressionista – memorabile la prima apparizione del predicatore nella vita dei bambini: un’ombra inquietante che si allungava come una lugubre minaccia sulle loro figure indifese. Oltre all’estetica chiaroscurale, furono proprio queste improvvise epifanie – sottolineate, come altri inattesi sviluppi, dal montaggio di Robert Golden che, in stile horror, alternò lunghe riprese e ampie inquadrature a rapidissimi stacchi e primi piani terrificanti – a conferire al film un’atmosfera da racconto della paura, come del resto sono numerose fiabe. Questa considerazione permette di compiere incidentalmente un accenno alla significativa intersezione estetica tra i film horror e quelli noir: si consideri il caso del direttore della fotografia Nicholas Musuraca, che passò da Lo sconosciuto del terzo piano a Il bacio della pantera, approdando a Le catene della colpa e a Gardenia blu, attraverso La scala a chiocciola; ma si pensi anche ai suoi colleghi Elwood Bredell e John Alton. Comune alla messa in scena horror e a quella noir fu, del resto, proprio lo stile espressionista che esercitò notevole influenza su Hollywood – persino Walt Disney alterò la scenografia in funzione dello stato emotivo interiore della protagonista,

durante la fuga di Biancaneve attraverso la foresta animata, nel capolavoro del 1937. Il compositore Walter Schumann, dal canto suo, si occupò di attribuire al perfido pastore un leitmotiv musicale, rispondendo all’esigenza di elaborare un linguaggio complesso, come è quello cinematografico, ma dalla sintassi elementare e immediatamente intuibile, nella logica fiabesca che ispirò ogni componente del film – guardando forse all’esperimento compiuto da Prokof’ev per avvicinare i bambini alla musica: la composizione di Pierino e il lupo, «una favola in musica», nella quale a ciascun personaggio corrispondevano uno strumento e un motivo caratteristico. L’importanza dei bambini non risiedette naturalmente soltanto nel fatto che i due piccoli protagonisti fornirono la prospettiva attraverso cui Laughton poté condurre la narrazione nel peculiare stile fantastico – fiabesco, ma coincise con la valenza simbolica che essi possedevano: nella loro salvezza finale si manifestò la speranza di un futuro migliore, fondata su quella giustizia poetica che aveva determinato la sconfitta del predicatore, capace di ingannare l’animo corrotto degli adulti ma non quello immacolato dei bambini. La medesima giustizia che punì impietosamente gli antieroi noir, facendo scontare loro ogni peccato, fosse esso presente o passato. In questo senso, quindi, il film di Laughton nella sua unicità, storica e artistica, costituì un’applicazione fiabesca della logica retributiva radicata nella poetica noir. Ma, sessant’anni più tardi, persino quello che sembrava un baluardo incrollabile è stato abbattuto. Lo sciacallo (2014) è un neo – noir scritto e diretto da Dan Gilroy, il quale si è spinto a innovare in maniera dirompente il genere a cui, con evidente cognizione di causa, si era ispirato. Tipici del noir sono risultati l’ambientazione notturno metropolitana – della quale le prime riprese costituivano un vivido manifesto, autentiche nature morte – e l’assunzione della prospettiva di un antieroe, definito dal titolo originale una creatura abituata a strisciare nelle tenebre.

Assolutamente rivoluzionario, però, è stato l’epilogo della vicenda: se il noir classico fu il genere della sconfitta per eccellenza – in un’ottica retributiva, che rispondeva allo stesso tempo a esigenze autocensorie e a una particolare visione dell’esistenza umana, segnata dai capricci del destino – Lo sciacallo al contrario ha raccontato una tipica storia di successo dell’età contemporanea, portando al limite estremo, addirittura al paradosso, la polemica sulla logica utilitarista della modernità. Le premesse di partenza erano le stesse dei capolavori del passato incentrati sui criminali in cerca di riscatto: disperazione, disadattamento, alienazione, solitudine rimanevano ostacoli insuperabili e costringevano i reietti, che vi si scontravano, a imboccare la strada senza ritorno del sottosuolo, vivendo un rapporto controverso con il mondo circostante e sfogando frustrazione e inquietudine attraverso la disobbedienza, la ribellione, persino il crimine. Identico era anche lo sviluppo della parte iniziale del racconto, dedicata agli sforzi compiuti dal protagonista, con rigore, con impegno, con sacrificio, per raggiungere quel riscatto sociale. Diverso invece è risultato l’esito: nella tradizione noir, la beffa del fato – nonostante la simpatia suscitata nel pubblico dagli antieroi, nelle cui difficoltà l’uomo comune riconosceva le proprie, e l’ammirazione sincera per qualità morali che li distinguevano da tutto il resto della società – rispondeva comunque a un’esigenza di giustizia (poetica) alternativa a quella umana (giudiziaria), spesso fallace e corrotta. Lo sciacallo, invece, ha celebrato il raggiungimento dello scopo da parte del protagonista, indipendentemente dai mezzi utilizzati per riuscirci. In altre parole, era stata scardinata la logica retributiva che la poetica classica aveva imposto come un topos caratteristico del genere. Questo, comunque, non ha impedito che, nel complesso, l’impressione suscitata dalla parabola dello sciacallo risultasse identica a quella evocata dai capolavori ai quali questa si è rifatta: se nei noir lo spettatore, in virtù della già citata

simpatia, compativa l’impossibilità degli antieroi di migliorare la propria abietta condizione, umana e sociale, deducendone l’inadeguatezza delle istituzioni e della élite egemone di garantire a tutti un’esistenza ispirata alla ricerca della felicità garantita dalla lettera della Dichiarazione di indipendenza, in questo esperimento esasperato, nel quale la logica già perversa del noir veniva ulteriormente estremizzata, il pubblico ha assistito all’inefficacia della legge e delle regole di convivenza civile a opporsi – senza forse neppure accorgersene – all’ascesa di un individuo che incarnava i difetti peggiori del sistema, ma che, sfruttandoli a proprio beneficio, veniva premiato da quello stesso sistema. Restava perciò immutata, nell’oggetto e dei toni, la polemica antiborghese nei confronti di una mentalità ottusa e perbenista, ma sostanzialmente miope. Il protagonista, impegnato ad aggirarsi per le vie della metropoli nel cuore della notte, in cerca di spargimenti di sangue da riprendere e da mandare in onda per stimolare l’audience televisiva – sempre più sensibile alla spettacolarizzazione del dolore – manifestava la disumana insensibilità, l’irrefrenabile speculazione, la totale mancanza di scrupoli che caratterizzano i mezzi di informazione moderni. Il successo della sua strategia implicava un’allarmante constatazione: in quanto ladruncolo di strada, all’inizio del racconto, il protagonista era apparso solo e indesiderato; in quanto reporter senza scrupoli e senza pietà, egli sarebbe riuscito ad affermarsi tra i propri simili: poiché molti di coloro che incontrava gli erano, a tutti gli effetti, simili – a cominciare dalla direttrice del telegiornale che lo sciacallo riforniva di video crudi e truculenti; ella condivideva con il protagonista l’eccitazione di fronte agli spettacoli di violenza, di cui sembrò cogliere esclusivamente il potenziale commerciale, giungendo a paragonare il proprio tg a «una donna che urla correndo per la strada con la gola squarciata» – un’immagine efficacissima, che richiama alla mente la forza evocativa de L’urlo di Munch. In seguito, Gilroy avrebbe

svelato l’eccitazione, addirittura l’estasi, provocata nell’animo dei giornalisti intenti a osservare compiaciuti le immagini che hanno ripreso o montato: un’ossessione patologica, paragonabile a quella del protagonista malato de L’occhio che uccide (1960). Calare la vicenda nel mondo della notizia in presa diretta offriva peraltro al regista l’opportunità di partecipare alla critica svolta da alcuni neo – noir sulla manipolazione della realtà, con la conseguenza che, ancora una volta, la riflessione sul concetto di relatività, radicato nella poetica noir, ha finito per sovrapporsi a quella sulle potenzialità del cinema di rappresentare una verità (inevitabilmente) relativa, già ampiamente sviluppata da De Palma. Allo stesso tempo, il film ha denunciato lo spregevole sensazionalismo al quale sono votati i mezzi di informazione, il cui scopo risultava suscitare il panico pur di aumentare ascolti e vendite, persino a rischio della sicurezza pubblica – esattamente come avevano già tentato di fare i giornalisti senza scrupoli di Quando la città dorme (1956) sbattendo in prima pagina l’assassino del rossetto e ripromettendosi di far provare un brivido a qualunque donna nel momento del trucco. Del resto, come lo sciacallo avrebbe insegnato al suo tirocinante, «la paura si alimenta vestendo di verità delle false evidenze». Con quel thriller, nel corso del quale lasciò ripetutamente affiorare la propria caratteristica vena polemica, antiborghese e profondamente noir, Lang volle dimostrare che chi dava la caccia al mostro non era migliore di lui; ne Lo sciacallo, la stampa e il mostro finiscono per lavorare insieme, specchiandosi l’uno nell’altro – la strategia del protagonista era infatti quella di osservare e imitare qualunque gesto avesse notato negli altri. Mentre il predicatore de La morte corre sul fiume aveva la pretesa dei tiranni espressionisti di imporre alla comunità il suo particolare modello di fede, lo sciacallo, al contrario, ha compreso la necessità di adeguarsi al mondo, nascondersi nelle sue pieghe più nascoste e più inquietanti. E così, in un contesto

disumano, proprio la sua totale mancanza di umanità gli ha permesso di sintonizzarsi sulle frequenze del modello di successo elaborato dalla società moderna. Eccellente interprete di questa figura, estremamente ambigua e sfuggente – vero e proprio loner noir – Jake Gyllenhaal ha ottenuto la massima espressività nella ripresa, chiaramente ispirata alla tradizione romantico espressionista, nel corso della quale egli, sentendosi sottoposto a uno stress insopportabile, infrangeva lo specchio in cui si vedeva riflesso. Un esame di coscienza che aveva portato alle estreme conseguenze il processo di dissociazione della sua personalità. Una crisi lacerante che riduceva in frantumi non solo lo specchio, ma l’animo stesso del personaggio. Contrariamente alle aspettative, però, questo episodio – che in uno psicothriller di ispirazione polanskiana avrebbe determinato il sopravvento del disturbo mentale e in un noir avrebbe preannunciato l’immancabile tracollo finale – rafforzò la determinazione del protagonista, che da quel momento non avrebbe più esitato a ricorrere a estremi rimedi pur di raggiungere il suo obiettivo. La definitiva affermazione del reporter – che costituisce una svolta sconcertante per la poetica noir – ricorda il finale paradossale di Taxi Driver, durante il quale l’antieroe veniva improvvisamente trasformato in eroe. In entrambi i racconti, i protagonisti vivevano un’esistenza allucinata, solitaria e marginale, attraversando nel cuore della notte strade che rigurgitavano violenza, odio, dolore, e, spinti dal loro solipsismo a osservarsi nello specchio, crollavano alla vista di se stessi. Tuttavia, mentre il personaggio interpretato da De Niro sarebbe stato soggetto lui pure all’arbitrio del destino – il quale disapplicando la propria giustizia poetica ne premiò, anziché punire, l’isteria – il caparbio personaggio di Gillenhaall, alla cui ostinazione il film costituiva comunque un omaggio, si sarebbe infine trovato esattamente nella posizione che aveva programmato di raggiungere. Quanto al percorso seguito per riuscirci, il racconto – durante l’intero arco del quale non ne veniva mai abbandonata

la prospettiva – lo ha seguito ovunque nei suoi spostamenti, in giro per tutta la città, fin dentro alla sua abitazione. Conformemente ai principi espressionisti, per cui lo spazio esteriore e quello interiore avrebbero comunicato influenzandosi vicendevolmente, le riprese della casa – sarebbe più opportuno dire della tana – dello sciacallo acquistavano grande rilievo, benché la narrazione si svolgesse prevalentemente per la strada. Si trattava di un ambiente soffocante, la cui atmosfera, satura di perversione e di ossessione, veniva esasperata attraverso il ricorso al controluce o all’illuminazione diretta, che ne lasciava la maggior parte immersa in una sinistra oscurità. D’altra parte, la strana creatura che vi abitava prediligeva il buio in quanto animale notturno – anche il predicatore de La morte corre sul fiume era stato accostato dal titolo originale del film alla notte, momento ideale per la caccia; perciò di giorno il protagonista inforcava perlopiù un paio di occhiali da sole, quasi non riuscisse proprio a sopportare la luce diurna, sgradevole nella pesante manipolazione della fotografia. Oltre a suggerire un parallelismo con alcuni mostri della tradizione espressionista – quei vampiri già identificati da Murnau, per via della loro abilità a corrompere l’anima delle vittime, con la pestilenza, che nel film di Gilroy ha assunto invece i connotati della cosiddetta viralità dell’informazione – questa predilezione per l’oscurità corrispondeva, sul piano comportamentale, a sotterfugi e inganni: quelli con cui lo sciacallo avrebbe colto di sorpresa tutti coloro che avevano commesso l’errore di fidarsi di lui, nuova terrificante forma di meneur, vincente.

Crediti

Stefano Sciacca Prima e dopo il noir

Una realizzazione Falsopiano/Fogli volanti secondo gli standard dell’International Digital Publishing Forum

ISBN 9788893041904

Progetto grafico: Studio MalaMente/Daniele Allegri

Tra i Fogli volanti

Jack London, Autobiografia alcoolica Robert Louis Stevenson, Il Club dei suicidi Edgar Wallace, La maledizione del libro onnipotente Ambrose Bierce, Dizionario del Diavolo Ambrose Bierce, Il Club dei parenticidi Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Cinque inchieste Robert Louis Stevenson, La cassa sbagliata Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Quattro inchieste Filippo Tommaso Marinetti, Novelle colle labbra tinte Augusto De Angelis, La prima inchiesta. Il banchiere assassinato Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Il do tragico Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Le sette picche doppiate Ethel Lina White, La scala a chiocciola

Ethel Lina White, scompare Ezio D’Errico, Qualcuno ha bussato alla porta Ezio D’Errico, La famiglia Morel Franco Enna, Brivido all’italiana. Preludio alla tomba Franco Enna, Il Commissario Sartori. Il caso di Marina Solaris Franco Enna, Il Commissario Sartori. La bambola di gomma Alessandro Varaldo, Il Commissario Bonichi. Il sette bello