Scritti politici e filosofici di un ebreo scettico nella Venezia del Seicento 9788858759080

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Scritti politici e filosofici di un ebreo scettico nella Venezia del Seicento
 9788858759080

Table of contents :
Cover......Page 1
Occhiello......Page 2
Frontespizio......Page 4
Copyright......Page 5
NOTA EDITORIALE - Premessa......Page 6
SAGGIO INTRODUTTIVO......Page 17
OPERE E PENSIERO DI SIMONE LUZZATTO......Page 18
SCRITTI POLITICI E FILOSOFICI DI UN EBREO SCETTICO NELLA VENEZIA DEL SEICENTO......Page 87
DISCORSO CIRCA LO STATO DEGLI HEBREI ET IN PARTICOLAR DIMORANTI NELL’INCLITA CITTÀ DI VENETIA......Page 88
ALLI AMATORI DELLA VERITÀ......Page 89
PREFATIONE DI TUTTA L’OPERA......Page 90
INTRODUTIONE A QUESTO TRATATTO......Page 92
CONSIDERATIONE I......Page 93
CONSIDERATIONE II......Page 95
CONSIDERATIONE III......Page 98
CONSIDERATIONE IV......Page 104
CONSIDERATIONE V......Page 108
CONSIDERATIONE VI......Page 109
CONSIDERATIONE VII......Page 112
CONSIDERATIONE VIII......Page 114
CONSIDERATIONE IX......Page 120
CONSIDERATIONE X......Page 122
CONSIDERATIONE XI......Page 124
CONSIDERATIONE XII......Page 129
CONSIDERATIONE XIII......Page 136
CONSIDERATIONE XIV......Page 142
CONSIDERATIONE XV......Page 149
CONSIDERATIONE XVI......Page 168
CONSIDERATIONE XVII......Page 182
CONSIDERATIONE XVIII......Page 185
SOCRATE OVERO DELL’HUMANO SAPERE......Page 191
SI PROPONE CIO` CHE SI deve deliberare circa Socrate.......Page 481
APPARATI......Page 484
NOTE IL DISCORSO......Page 485
NOTE SOCRATE......Page 513
BIBLIOGRAFIA GENERALE......Page 547
INDICE DEGLI ARGOMENTI......Page 582
INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI......Page 589
INDICE DELLE FONTI......Page 603

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SIMONE

LUZZATTO

SCRITTI POLITICI E FILOSOFICI DI UN EBREO SCETTICO NELLA VENEZIA DEL SEICENTO A cura di Giuseppe Veltri

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Direttore

GIOVANNI REALE

Volume pubblicato con il contributo della Fondazione tedesca per la ricerca

SIMONE LUZZATTO SCRITTI POLITICI E FILOSOFICI DI UN EBREO SCETTICO NELLA VENEZIA DEL SEICENTO Introduzione, note e apparati di Giuseppe Veltri con la collaborazione di Anna Lissa e Paola Ferruta

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-58-75908-0 © 2013 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Realizzazione editoriale: Glauco Tiengo – Milano Prima edizione digitale 2013 da prima edizione Il Pensiero Occidentale Aprile 2013

NOTA EDITORIALE Premessa Nato in un ambiente in cui religione e politica, economia e commercio, lotte di confessioni e di riti erano tutt’altro che elementi sconosciuti, Simone Luzzatto può esser definito come un esempio atipico dell’Ebraismo italiano della Controriforma. Atipico perché il suo pensiero politico è finalizzato a difendere la “Nazione” – come definisce la diaspora veneziana – di cui è membro, inscrivendo al contempo l’Ebraismo nel concetto di storia universale. Scettico sull’eventualità che la ragione possa conseguire risultati attendibili, idées claires et distinctes, e perciò diffidente rispetto a tutto ciò che prospetti una soluzione generale volta ad includere l’Ebraismo come religione all’interno della storia “salvifica” cristiana, il rabbino veneziano delinea i tratti della tradizione e del presente ebraico. Si tratta della confessione di un gruppo omogeneo aperto, collocato all’interno di una struttura politica concepita e realizzata per l’uomo in quanto cittadino. Se nel Discorso, la sua prima opera in italiano a noi nota, egli si dilunga sui pregi e difetti degli Ebrei, è per presentare questo gruppo come parte integrante della città di Venezia, non come elemento disgregante, da espellere dalla società. Il Socrate, poi, fornirà quelle direttive di pensiero scettico volte ad avvalorare tale concezione. L’edizione degli scritti di Simone Luzzatto non ha bisogno di giustificazioni. Certamente non si tratta del primo ebreo che abbia scritto trattati di filosofia in italiano. Tuttavia, e questo elemento merita di essere sottolineato, egli rimane una figura di spicco all’interno di quel ristretto gruppo di ebrei che utilizzarono la lingua di Dante per dialogare con il Cristianesimo dominante. Il Discorso è uno dei libri in lingua volgare più letti del e nel mondo ebraico tra Seicento ed Ottocento. Sarà uno dei testi che indurranno l’intellighenzia ebraica e cristiana a riflettere, non solo nell’Olanda di Manasse ben Israel, ma anche nell’Inghilterra di John Toland, nella Germania di Johann Gottfried Herder e, infine, nell’Italia novecentesca di Riccardo Bachi. Prima pietra posta a fondamento di una nuova costruzione, il

VIII

NOTA

EDITORIALE

Discorso sarà una delle prime opere ad essere tradotte dall’italiano in ebraico nel nuovo Stato d’Israele, nel 1950. Diverso destino ha invece conosciuto il Socrate, uno scritto pubblicato in questa sede per la prima volta dopo l’editio princeps del 1651. Si tratta di un’opera d’indirizzo filosoficoscettico, scritta in italiano e rimasta praticamente sconosciuta ai più. Sin dalla fine dell’Ottocento, il Socrate è menzionato sporadicamente, sovente en passant, per esempio dallo storico ebreo-tedesco Heinrich Graetz. Questo trattato presenta il sapere umano in toto come deteriorato nell’essenza, e dunque manchevole e fuorviante, lasciando trasparire l’anima scettica di Rabbi Simone. Se in questo contesto, il lettore dovesse chiedersi quale validità abbia per l’autore la rivelazione, sarà destinato a perseguire invano la ricerca di una risposta adeguata. L’ambiguità di fondo che contrassegna l’opera del Luzzatto è inerente a un secolo, il Seicento, in cui la conoscenza umana, anche quella filosofica, attraversa una crisi profonda, criticata, anche se indirettamente, dalle scienze esatte e messa in questione, da una parte, dagli attriti scolastici, dall’altra, dalle lotte tra confessioni religiose. L’assioma socratico di “sapere di non sapere” diventa un programma umano e filosofico basato sul principio pragmatico ebraico di vivere “come se”, nel presupposto che tutto avrà una spiegazione, anche l’assenza di una spiegazione. La presente edizione rende accessibile al pubblico solo le opere italiane del rabbino e filosofo veneziano. Sono state omesse le lettere, i responsa ed altre composizioni d’occasione in lingua ebraica, spesso inedite, a cui sarà a breve riservata un’ulteriore edizione con commento e traduzione. Il mio ringraziamento va, prima di tutto, al Professor Giovanni Reale, direttore della collana “Il Pensiero Occidentale”, per il suo invito a pubblicare questo libro presso Bompiani, al Dott. Pierdavide Accendere e al Dott. Glauco Tiengo per l’entusiasmo con cui hanno accolto l’idea di un’edizione moderna delle opere luzzattiane; soprattutto al secondo, per aver seguito passo passo e con cura meticolosa la redazione di questo stesso volume, contribuendo alla sua realizzazione. Una menzione particolare merita il mio team “tedesco” per l’instancabile dedizione nei confronti dell’opera del grande Veneziano. Tengo a menzionare in particolare le mie assistenti e collaboratrici al

NOTA EDITORIALE

IX

Seminario di studi ebraici dell’università di Halle-Wittenberg, Dott.ssa Paola Ferruta e Dott.ssa Anna Lissa. Entrambe hanno attivamente collaborato insieme al curatore tanto all’edizione del Discorso quanto a quella del Socrate. L’alacre ricerca d’archivio della Dr.ssa Ferruta è stata fondamentale per la stesura della “vita” del Nostro. La Dott.ssa Lissa si è occupata del Socrate, a lei il mio grazie per il competente aiuto nell’edizione come nel commento, di non facile attuazione, visto lo stato miserrimo dell’edizione a stampa, realizzata in età avanzata dallo stesso Luzzatto, piena di errori e refusi. La Dott.ssa Michela Torbidoni, che si è unita al team di recente, ha contribuito alla lettura delle bozze e alla stesura degli indici di fonti ed argomenti. Ringrazio il mio assistente di ricerca Lennart Lehmhaus, M.A., che ha curato il riassunto dei testi ebraici, il mio collega Dott. Gianfranco Miletto per la sua valida e competente cooperazione in ogni fase della ricerca. Una menzione particolare merita infine la “Fondazione tedesca per la ricerca” (Deutsche Forschungsgemeinschaft), finanziatrice di un vasto progetto su Simone Luzzatto, il cui primo risultato è la presente edizione. Simone Luzzatto afferma di aver “giudicato convenevole lasciarvi [in questo mondo] alcuna orma, ché se poi in breve … il calpestio d’altrui la deturbi, overo il tempo l’abolisca” non avrebbe avuto importanza, avendo egli il suo “dovere eseguito”. Credo che l’orma luzzattiana sia effettivamente rimasta, visibile o meno, negli archivi di filosofia e storia del pensiero politico e scettico. Il mio desiderio è che quest’orma non venga “deturpata e abolita”, mentre in Europa il “particolare” corre il pericolo di essere assimilato dall’“universale”, rendendo più che mai attuale una concezione della storia secondo cui “li errori, e le falacie sono per l’ordinario li sateliti delle trattationi generali, e la verità sempre compagna, e seguace della particolarità e distintione”. Sperando di avere contribuito a restituire un filosofo ebreo al suo pubblico italiano, e pur sapendo che facile est inventis addere, affido fiduciosamente quest’opera alla benevolenza ermeneutica del lettore prudente. Giuseppe Veltri Halle (Germania), ottobre 2012

NOTA

X

EDITORIALE

Criteri ed abbreviazioni Standardizzazione dell’italiano seicentesco Non potendo disporre dei manoscritti originali nella loro completezza, il presente volume non può esser definito un’edizione storico-critica delle opere italiane di Simone Luzzatto in senso proprio. Si offre dunque un’edizione scientifica fondata sui seguenti testimoni: Discorso: riproduzione digitale della copia a stampa disponibile presso la Biblioteca Angelica di Roma (C. 7.68/1). Socrate: riproduzione digitale della copia a stampa del Collegii S. S. Rosarii, disponibile presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (60. C. 34). Tali testimoni sono serviti da testo-base, tenendo conto dei numerosi emendamenti apportati a mano. Per quanto riguarda il Discorso, sull’esemplare di riferimento si riscontrano numerosi interventi, la cui paternità non può essere attribuita con certezza al Luzzatto. Per quanto riguarda invece il Socrate, è il Nostro, in una nota, a dichiarare di essere autore e stampatore del volume. Queste premesse costituiscono la base della coerenza storica del testo1 consentendo alla presente edizione scientifica di rispettare le norme vigenti per la redazione delle edizioni di opere secentesche. Nella scelta dei criteri editoriali per la presente edizione si è inteso conservare la patina del fraseggio secentesco, senza intervenire in modo invasivo sul testo. Si è invece avuta cura di eliminare quanto avrebbe potuto rendere problematica la comprensione del senso, apportando gli emendamenti che sono apparsi più consoni al testo originale, per permettere al lettore di apprezzare, per quanto è possibile, lo stile di Luzzatto. In particolare sono stati adottati i seguenti criteri editoriali, adattando alle esigenze del caso specifico una lista pubblicata

1 Tale scelta è stata operata anche basandosi sulle preziose indicazioni reperibili in Balduino, Manuale di filologia, Capitolo II “I vari tipi di edizione”, pp. 35-53.

NOTA EDITORIALE

XI

da Fabio di Pietro2, implementandola secondo il bisogno3. * Conversione di tutte le abbreviazioni; il titulus verrà sciolto nelle nasali n/m a seconda dei casi; * Scioglimento delle abbreviazioni quali c. XV e simili; * Eliminazione dei richiami tipografici a piè di pagina; * Emendamento dei numeri ordinali in romani, giustificato dal fatto che il Nostro usa il numero cardinale seguito da punto fermo, cosa che potrebbe dar adito a confusione; quando però non si riferisce ad un numero ordinale, il punto fermo dopo numeri cardinali verrà eliminato; * Uniformazione degli esiti –ij in –ii, mantenendo la semplice –i in tutti gli altri casi; * Sostituzione della nota tironiana & con et davanti a vocale ed e davanti a consonante; * Distinzione tra u e v secondo l’uso moderno; * Introduzione della grafia cq in aqua; * Introduzione delle virgolette doppie “” per il discorso diretto; * Riduzione delle parentesi tonde per gli incisi, quali come dissi, ripigliò egli, ecc.; * Citazioni dell’autore e titoli delle opere menzionate sono rese in corsivo nel Socrate; * Non trovandosi talvolta corrispondenza tra gli errata indicati dall’autore all’inizio del Socrate e il testo originale, si è conservato l’originale. Accenti: * Normalizzazione dell’uso dell’accento acuto e del grave; * Normalizzazione secondo l’uso moderno degli accenti su monosillabi verbali, avverbiali, pronominali, e su varie

2

Anche in Internet: http://web.tiscali.it/ilrospo/filo/segni.htm (11 febbraio 2005). 3 Si consultino anche le direttive pubblicate dal Corpus Reformatorum Italicorum. Avvertenze ai Collaboratori (Firenze, Chicago, Sansoni, The Newberry Library, 1969), spec. pp. 13-14.

XII

NOTA

EDITORIALE

congiunzioni polisillabiche con conseguente eliminazione delle frequenti oscillazioni; * Integrazione dell’accento dove mancante per evidente refuso, come nella terza persona del presente indicativo del verbo essere; * Eliminazione degli accenti sulle preposizioni, sulle forme del verbo avere, sulla o congiunzione oppure vocativa e sui pronomi personali come nel caso di tù; * Eliminazione dell’accento dalla congiunzione e; * Aggiunta dell’accento acuto sul che (ché) qualora esso abbia valore causale; Maiuscole e minuscole: * Normalizzazione secondo l’uso moderno delle maiuscole dopo punto interrogativo e esclamativo; * Riduzione dell’uso delle maiuscole, con la sola conservazione delle personificazioni in parole come Fortuna, Pri(e)ncipe, Fato, Amore, Dio e simili; * Gli aggettivi santo e sacro, in espressioni come Terra Santa, Sacra Scrittura, saranno scritti con la maiuscola, standardizzando l’uso del Nostro; * Uso della minuscola per la parola dèi4; * Si è inoltre introdotto l’uso della maiuscola per la parola Stato qualora essa indichi un’entità politica. Forme divise con e senza apostrofo e delle forme unite: * Ammodernamento di ogn’uno in ognuno; qualc’uno in qualcuno; ben che in benché; poi che in poiché; gia che in giacché; a bastanza in abbastanza; in vano in invano; ne meno in nemmeno; ancor che in ancorché; più tosto in piuttosto; se pure in seppure; non che in nonché; pur troppo in purtroppo; tutta via in tuttavia; o vero in ovvero (preservando tuttavia l’oscillazione ovvero/overo qualora sia presente nel testo originale); già mai in giammai (preser-

4 Infatti alcune volte è in minuscolo, altre in maiuscolo, si veda ad esempio Discorso, 50r. e 49v.; oppure Discorso, 58v.

NOTA EDITORIALE

XIII

vando tuttavia l’oscillazione giammai/giamai qualora sia presente nel testo originale) non dimeno in nondimeno5; a diritura in addirittura; non ostante in nonostante; si come in siccome; acciò che in acciocché (preservando tuttavia l’oscillazione acciocché/accioché qualora sia presente nel testo originale); o pur in oppur; e pure in eppure; se bene in sebbene; qual si voglia in qualsivoglia; anzi che in anziché; oltre modo in oltremodo; altre tanto in altrettanto; per ciò in perciò; così che in cosicché; a pieno in appieno; a punto in appunto; più tosto in piuttosto; in fine in infine; * Separazione di forme unite come nelquale, laquale, conquesta, inquanto e simili; * Unione delle forme separate delle preposizioni articolate quali a gli, de gli, in agli, degli ecc.; Apostrofi: * Riduzione della grafia anc’è in anch’è, e anc’a in anch’a; * Riduzione dell’articolo gl’, e delle relative preposizioni articolate, nonché di ogn’, davanti a vocale diversa da i, rispettivamente in gli e ogni; * Eliminazione dell’apostrofo dopo l’articolo indeterminativo davanti a sostantivi maschili, verbi all’infinito e dopo troncamento, come nelle forme verbali all’infinito; * Aggiunta dell’apostrofo, ove mancante, dopo l’articolo indeterminativo seguito da sostantivi o aggettivi femminili; * Normalizzazione dell’apostrofo in casi tipo del udito, nel affermare ecc. * Inserimento dell’apostrofo dove mancante per evidente errore di stampa come nei casi di apocope postvocalica; * Separazione di uno spazio dopo de’ o comunque dopo apocope e prima dell’apostrofo in casi di aferesi. Si sono inoltre conservate tutte le altre forme di cui non si fa

5 Si veda Socrate, p. 15, dove nella stampa originale la forma viene scritta separata (non dimeno) e congiunta (nondimeno).

XIV

NOTA

EDITORIALE

cenno di modifica, e in particolare: * Le forme culte e i nessi latineggianti, ad esempio peremptorio; * Le oscillazioni grafiche del tipo principe/prencipe, openioni/opinioni; * Le oscillazioni tra scempie e geminate dove è evidente la loro concorrenza di forme (nei rari casi in cui si riterrà utile intervenire, si darà indicazione in nota); * La i con valore diacritico che rende il suono delle c e g palatali davanti alle vocali anteriori, ad esempio in casi come scielta; * La h etimologica in hora, allhora e alhora; * La latina -t (-tio, -tia, -tii, -tie), lasciando al lettore la speculazione riguardo sull’eventuale pronuncia veneziana dell’epoca; * La congiunzione et davanti a vocali, come vuole l’autore nel Discorso ed anche nel Socrate, anche se qui l’autore non fa alcuna differenza6; * La x etimologica, ad esempio nel caso di axioma, lasciando al lettore la speculazione sull’eventuale pronuncia veneziana dell’epoca. La punteggiatura è stata standardizzata secondo l’uso moderno anche per rendere agevole l’approccio del lettore al testo. Gli interventi più consistenti sono stati apportati sul punto e virgola, convertito quasi sistematicamente in punto fermo, oppure in virgola qualora il periodo risultasse monco o ellittico, e raramente in due punti. I due punti presenti nell’originale sono stati invece per lo più soppressi quando sono stati usati solo per separare le parole oppure per evidente refuso. I punti fermi, usati forse da Luzzatto con una certa disinvoltura, sono stati per lo più soppressi, oppure convertiti in virgole. Si è infine lasciato pressoché invariato il sistema delle virgole, non privo di una sua

6 Con questa scelta si intende seguire l’indicazione dello stesso Luzzatto, o del suo compositore. Infatti, nel Discorso viene, di solito ma non sempre, fatta la differenza tra “&” davanti a vocale ed “e” davanti a consonante. Tale differenza sparisce nel Socrate, ovviamente per facilitare la mise en page,

NOTA EDITORIALE

XV

coerenza interna, intervenendo nei rari casi in cui la comprensione del testo poteva risultare compromessa. Nel caso di evidenti errori materiali, refusi, di cancellature o di parti illeggibili, si è intervenuti dando indicazione in nota, oppure tramite l’uso di parentesi quadre [ ] in caso di espunzione e aguzze < > per integrazione congetturale. Nel Discorso, a causa delle ripetute correzioni a mano da parte dell’autore e/o dello stampatore, le cancellature o le parti illegibili, le scritte in sopralinea o aggiunte al margine sono state evidenziate con particolari segni diacritici: ˆ ˆ scritto a margine, ˇ ˇ scritto in sopralinea, […] illeggibile. Si è infine introdotta una paragrafatura, pressoché assente nell’originale, allo scopo di rendere più agevole la lettura, tentando, nei limiti del possibile, di farla coincidere con le unità di senso presenti nel testo stesso e con le sue articolazioni. Nel Socrate tale paragrafatura segue tanto la scansione del discorso diretto quanto quella del discorso indiretto. Tale scelta è stata dettata anche dal desiderio di preservare il ritmo dialogico del testo. Tuttavia il lettore dovrà tener conto che il Socrate consiste in realtà in un lungo discorso diretto, in cui il filosofo ateniese si rivolge al consiglio dei giudici facendo riferimento ad altri dialoghi che, a mo’ di scatola cinese, contengono ulteriori dialoghi. È dunque a volte difficile, se non impossibile, stabilire dove abbiano inizio e fine i vari interventi diretti, dal momento che le voci dei protagonisti sembrano quasi fondersi in un tutt’uno. Un cenno a parte meritano, infine, le citazioni dai classici antichi estremamente frequenti nel Discorso e nel Socrate. La scelta di indicare in nota, in latino secondo l’uso corrente, l’autore e l’opera (con la numerazione dei libri e dei versi) senza dare indicazioni precise in merito all’edizione è dovuta allo stadio attuale della ricerca su Simone Luzzatto. Le fonti di archivio a disposizione del curatore del volume non consentono, per il momento, di stabilire con certezza quali edizioni abbia usato Luzzatto. Il prudente lettore noterà nelle citazioni i frequenti errori del Luzzatto. Se questi errori siano dovuti a edizioni imperfette usate dall’autore, oppure ad errori di trascrizione fatti dallo stesso autore, oppure perfino al fatto che egli potesse citare a memo-

NOTA

XVI

EDITORIALE

ria, non è cosa che il curatore è in grado, allo stadio attuale della ricerca, di affermare con certezza e precisione.

Criteri generali Citazioni di opere antiche e medievali Per ragioni di semplicità e di chiarezza si è voluto evitare ogni forma di abbreviazione anche nel caso di citazioni dalla Bibbia, da testi classici e in generale da opere medievali. Si è scelto di far riferimento al testo biblico della Vulgata dell’edizione clementina (1592) che era probabilmente conosciuta a Luzzatto. Si è notato tuttavia che spesso il Nostro propone una sua personale traduzione della Bibbia in latino facendo notare le differenze tra l’ebraico e la versione corrente latina, probabilmente la Vulgata Clementina a cui si farà riferimento. Questo fatto si verifica spesso nel Discorso, in cui il testo biblico è sovente evocato e talvolta anche nel Socrate, in cui le citazioni bibliche compaiono molto di meno. I testi rabbinici saranno citati secondo i seguenti criteri: * Mishna: Trattato e Mishna: Mishna, Pe’ah 2,6; * Talmud babilonese: Trattato, numero di folio e pagina: Talmud babilonese, Berakhot 33b; * Talmud di Gerusalemme: Trattato, capitolo, halakha, numero di folio e colonna: Talmud di Gerusalemme, Sanhedrin 7,13 (25c); * Midrashim: Midrash Shemot Rabba 23,1; Midrash Tanchuma (ed. Buber) 1,2; * Zohar secondo l’edizione di Margalioth. Opere medievali ebraiche, cristiane o arabe: trascrizione del titolo ed indicazione dell’edizione usata. Le opere di Tommaso d’Aquino sono citate in base alle Edizioni dello Studio Domenicano e secondo i criteri abituali.

Traslitterazione dall’ebraico Per la trascrizione dall’ebraico si è seguito il metodo proposto dalla Encyclopedia Judaica, 1972, con alcune modificazioni

NOTA EDITORIALE

XVII

dovute ad esigenze editoriali: ʩ= y (non si trascrive quando è segno vocalico, per esempio Sifre devarim e non Sifrei devarim) ʠ= ’ (non trascritta all’inizio di parola) ʲ=‘ ʶ = ts ʧ = ch L’ebraico si scrive solo in lettere minuscole corsive, ad eccezione dei titoli dei libri in cui la prima lettera sarà maiuscola (Sifre devarim). L’articolo sarà collegato alla parola tramite il trattino (hamelekh). Le matres lectionis non saranno trascritte. Nomi biblici saranno trascritti secondo l’uso comune, non però quelli rabbinici e medievali, Mosè per il personaggio della Tora e Moshe ben Maimon per l’autore medievale.

Il commento nelle note del Socrate Tenendo conto dello scopo divulgativo di questa edizione del Socrate, la prima dopo quella veneziana del 1651, non sono state apposte numerose note storico-critiche al testo, limitandosi per lo più a glosse di carattere linguistico. Le altre note, in cui s’identificano alcune fonti di Luzzatto, indicano delle potenziali direzioni d’indagine. Il motivo è semplicemente da individuare nello stato della ricerca sul Socrate che è da considerarsi ad uno stadio iniziale rispetto al Discorso. Il progetto condotto dal team dell’università di Halle-Wittenberg prevede una prossima traduzione in inglese dell’opera omnia di Luzzatto e si propone, inoltre, di reperire con accuratezza le fonti dell’autore che saranno illustrate e discusse in un ricco apparato storico-critico. Nella presente edizione del Discorso e del Socrate, si è cercato, in ogni modo, di fornire spiegazioni, anche generali, utili al lettore che non abbia familiarità con la storia della filosofia e con la cultura ebraica. Le notizie su temi generali sono per lo più ricavate da enciclopedie correnti citate nella bibliografia.

SAGGIO INTRODUTTIVO

OPERE E PENSIERO DI SIMONE LUZZATTO 1. Vita Secondo una tradizione riportata da Samuel David Luzzatto (acronimo ShaDaL)1, l’intera famiglia Luzzatto2 sarebbe originaria del Lausitz (in latino Lusatia), nel NordEst della Germania3, un territorio oggi situato tra i Länder di Brandeburgo e della Sassonia. Alla tradizione tedesca si rifaceva senz’altro Simone Luzzatto, rabbino della Scuola Grande Tedesca4 probabilmente fino al termine della sua vita. La “Natione todesca” rappresenta il primo gruppo storico di ebrei fondatori del ghetto nel 1516, molti dei quali provenivano effettivamente dalla Germania ed erano di origine ashkenazita5. Non si sa bene quando gli ascendenti di Simone si siano trasferiti a Venezia. Nella dedica della sua opera Socrate overo dell’humano sapere6 (1651), Luzzatto afferma che i suoi antenati risiedevano nello Stato della Serenissima da due secoli, il che fa risalire alla metà del Quattrocento la data dell’immigrazione. I Luzzatto spiccavano nelle attività di punta della “Natione

1 LUZZATTO, Autobiografia, p. 7. Le notizie sulla famiglia Luzzatto erano state già tradotte e pubblicate a Vienna nel 1847 da BUSCH (1847-1848), “Selbstbiographie”, pp. 95-116. Il manoscritto originale è andato perduto a causa di un’alluvione – come riporta il traduttore Davide Lolli nell’edizione pubblicata nel 1878 a Padova presso Crescini. 2 Il nome della famiglia varia da Luzzatto a Luzzati. Secondo alcuni sarebbe stato proprio il nostro a stabilizzare definitivamente la grafia “Luzzatto”. 3 L’autore premette però “stando alla tradizione”, il che comporta la mancanza di prove documentarie. 4 SHULVASS in Luzzatto, Ma’amar, p. 9. 5 LUZZATTO, Antico cimitero, p. 16; CALIMANI, Storia del ghetto, p. 132. 6 Luzzatto, Socrate, s.p.: “Pertanto io loro humilissimo suddito e servo, nato sotto questo felicissimo cielo, et augustissimo dominio, come furno anco li miei antenati al di sopra di doi secoli”.

XXII

GIUSEPPE VELTRI

todesca”, quella dei banchi, e, dalla fine del Cinquecento, come “mercanti di gran negotio”, venditori di abiti e altra merce anche ai nobili veneziani7. La data di nascita di Simone Luzzatto è tuttora oggetto di discussione. In occasione della pubblicazione del suo responso Mish‘an mayim (“Il supporto dell’acqua”, 1606), egli viene annoverato tra i rabbini di Venezia. Il nipote di Leone Modena, Rabbi Yitschaq min ha-Lewiyim (Rav Isacco Levita) afferma nella sua biografia, Medabber tahpukhot (“L’uomo che dice cose perverse”), che al momento dell’ordinazione Luzzatto aveva 24 anni8. La data di nascita dovrebbe essere di conseguenza anteriore al 1583. A questa conclusione era giunto nel 1878 anche Leone Luzzatto9, il quale rimarcava giustamente che la disputa di Rovigo, all’origine del Mish‘an mayim, era sorta nel 1594. Un rabbino nato nel 1590 (secondo Heinrich Graetz) non avrebbe avuto dunque, secondo Leone, sufficiente autorità per scrivere un responso insieme ai rabbini più rinomati dell’epoca. Tuttavia, anche nel caso in cui Luzzatto fosse nato nel 1583, la questione non può considerarsi chiarita. Infatti la stampa del Mish‘an mayim risalente al 1606 non può, di fatto, essere ritenuta una testimonianza affidabile della data di composizione del responso, considerando inoltre che questa discussione rabbinica risaliva al 1594. È probabile che Simone Luzzatto sia nato prima del 1580, per quanto nel 1882 Leone Luzzatto abbia infine fissato la data di nascita al 1583, senza specificare la fonte di quest’asserzione10. Il testamento, datato 20 giugno 1662, è di recente scoperta (si veda l’Appendice), e, pur non dando indicazioni sulla data di nascita, consente delle precisazioni riguardo la biografia e il nucleo familiare del rabbino veneziano. Luzzatto aveva un CALIMANI, Storia del ghetto, p. 132. Si veda n. 4, SHULVASS in Luzzatto, Ma’amar, p. 9, che fa riferimento all’autobiografia Medabber tahpukhot nell’edizione di BLAU in Ha-tsofe meerets ha-gar 2, p. 183, ripubblicata da CARPI (a cura di), si veda Medabber tahpukhot, p. 104. 9 Nell’appendice 2, stampata nell’Autobiografia, p. 33 e segg. 10 Si veda nota dell’Appendice 2 dell’Autobiografia p. 33. Secondo questa nota Simone Luzzatto sarebbe nato nel 1583 e morto il 6 gennaio 1663. 7 8

INTRODUZIONE

XXIII

fratello che non si chiamava Benedetto (Barukh), come riteneva ShaDaL, bensì Yehuda, come asseriva Leone Luzzatto11. Graziadio (“Gratiadio”, o Nechemya/Nehemia) Luzzatto è menzionato come il marito scomparso della “carissima cognata” Rosa12. Si tratta del cugino di Simone, nipote del celebre erudito Leone (Yehuda) Saraval13, probabilmente da parte di madre. Graziadio era morto ormai da tempo (1619/1620)14, poiché nel 1662 sua moglie Rosa dimorava nella casa di Simone da 70 anni, accudendo i suoi figli e nipoti, come afferma il rabbino: “la quale sempre ha per il corso di anni settanta, in circa, dimorato in mia casa, con dimostrationi di ogni pienezza d’affetto verso di me, e di tutti di casa, et pattientarse verso miei figlioli”15. Secondo Leone Luzzatto, Nechemya sarebbe morto intorno al 162016, ciò comproverebbe la lunga permanenza della cognata presso Simone e i suoi figli. Rosa e Nechemya alloggiavano probabilmente sin dall’inizio del Seicento o anche da prima in un appartamento nella casa di Simone, o contiguo a essa. Particolare degno di nota: fu un lascito di Nechemya Luzzatto a permettere la fondazione della “Scola Luzzatta”, un “collegio o luogo di studio”, cioè la yeshiva dove Simone assurse a fama maggiore dello stesso Nechemya 17.

11 Autobiografia, p. 35. Infatti nella ketubba viene nominato un Nechemya Luzzatto, cugino di Simone da parte di padre, e zio di Gloria (o Ghele), in quanto aveva sposato Rosa, sorella di Uzelina, moglie di Simone. 12 Rosa era infatti sorella di Uzelina, moglie di Simone, e quindi cognata di quest’ultimo. 13 Per rendere onore a Leone Saraval, il medico David de Pomis scrisse (in ebraico) ciò che Virgilio dice a Dante nel canto VIII dell’Inferno: “Benedetta colei che in te s’incinse”. Si veda Soave, “Codice ebraico”, p. 151. 14 Allo stato attuale, le fonti documentarie e manoscritte confermano l’esistenza di un cugino di nome Graziadio Luzzatto. 15 Si veda il testamento di Simone Luzzatto pubblicato nell’Appendice, alla fine di questa introduzione. 16 Leone Luzzatto riporta addirittura tre date, il 1625, 1621 (secondo ShaDaL) e il 1619, cioè una data di poco anteriore al gennaio 1620, secondo un’inscrizione da lui trovata, posta in un piccolo oratorio nel Ghetto Novo, si veda LUZZATTO, Autobiografia, p. 31. Fonti manoscritte recentemente scoperte confermerebbero l’ultima ipotesi. 17 Ibidem, p. 34.

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Simone Luzzatto ebbe dalla moglie Uzelina/Uselina o Teghele un figlio, Isach (Yitschaq), morto in gioventù, e due figlie, Gloria o Ghele, moglie di Renetto (Benedetto) Alperino (o Alfarin), e Diamante o Lipet, moglie di Leone (Yehuda) Saraval. Una copia della ketubba stipulata in occasione delle nozze Alfarin-Luzzatto (1625) menziona, infatti, il nome della moglie di Renetto, Ghele18. Erede universale di Simone Luzzatto fu nominato il nipote (figlio di Yitschaq) Rabbi Moisè Luzzatto. Simone proveniva da una famiglia agiata, suo padre, “domino” Yitschaq, e suo cugino, Nechemya, erano facoltosi. Nel 1625, il padre di Simone elargì alla nipote Ghele la considerevole dote di 3100 ducati, accompagnati da altri 1000 per il corredo19. I lasciti testamentari di Rabbi Simone rendono l’idea del suo patrimonio: 200 ducati a Diamante, “solo” dieci once d’argento lavorato a Gloria, favorita economicamente in passato rispetto alla sorella. All’erede universale Moisè Luzzatto, “beni mobili, cazacod20, credetti21, contanti, effetti, libri etc”. Simone stesso aveva a suo tempo beneficiato di una cospicua eredità familiare, conservandola e incrementandola. La consapevolezza di tale privilegio contraddistingue la profonda religiosità e la dedizione allo studio di Simone Luzzatto, il quale auspicava avvicinarsi all’ideale dell’uomo saggio “et inocente”, che “si fa vero amico di Dio, e siede sopra le stelle nell’eterna gloria”22, malgrado “le richezze terrene nelli agibili del mondo” siano “pure necessarie all’humano sustento e desiderabili”23. Si tratta di un esplicito richiamo al Discorso (67v): “la vera religione è quella ch’implora da Iddio la dovitia di detta pecunia [la moneta della sapienza], né pressume facilmente senza copia di questa conseguir cosa di rilievo”, 18

Nel 1878 questa copia era in possesso di Leone Luzzatto, si veda LUZZATTO, Autobiografia, p. 34. 19 Come riporta Leone Luzzatto in LUZZATTO, Autobiografia, p. 31. 20 Si tratta del diritto di chazaqa ovvero la quasi proprietà d’immobili affittati a un prezzo fisso. 21 Crediti. 22 Si veda il Testamento riportato in Appendice, p. LXXXV-LXXXIX. 23 Ibidem.

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(68r) “essendo la sapientia il mezzo di conseguir le richezze, e non queste il prezzo, et il denaro per acquistar quella”. Nella stesura delle sue ultime volontà, Rabbi Luzzatto, richiamandosi a Proverbi 19,4 non manca di sottolineare come “le ricchezze procurano gran numero d’amici, ma il povero è abbandonato anche dal suo compagno”24. La famiglia Luzzatto era in stretti rapporti con Rabbi Ya‘aqov Heilpron (Heilbronn o Alpron), figlio di Leone, che dedicò alla memoria del dotto cugino di Simone, Nechemya, il Nachalat Ya‘aqov (1622)25, opera in cui sono contenuti alcuni testi di Rabbi Luzzatto. La politica matrimoniale del Luzzatto, sottesa all’acquisizione della parentela, dà rilievo, da una parte, al prestigio culturale di alcuni esponenti delle famiglie prescelte, dall’altra, alla loro disponibilità finanziaria. Gli Alfarin erano, si noti, di origine portoghese, un casato in vista nella comunità veneziana. Se da una parte il matrimonio della figlia di Simone con Benetto Alfarin risponde al lento processo di fusione tra comunità diverse in seno all’“Università degli Hebrei” veneziana nella prima metà del Seicento26, la magnificenza della dote e del corredo di Ghele palesano l’aspirazione a mantenere alto il prestigio economico e culturale dei Luzzatto. La parentela con la famiglia Saraval è, allo stesso modo, degna di nota. La seconda figlia di Simone, Diamante, sposò Leone Saraval, probabilmente imparentato con Rabbi Leone o Lib Saraval, morto nel 1617, e Nechemya Saraval, suo figlio, morto nel 1649, personalità molto note nella comunità veneziana. Nechemya Luzzatto era nipote di Leone Saraval, e questo dimostra che la famiglia Luzzatto era già imparentata con i Saraval27. La medesima attenzione merita la relazione parentale con la famiglia Calimani, “mercanti di gran negotio” di notevole importanza a Venezia. Rabbi Abraham di Calimani, cugino di Isaac (Yitschaq oppure Isach) Luzzatto, il padre di 24

Ibidem, in latino nel testo. Heilbronn, Nachalat Ya‘aqov. 26 CASSANDRO, Intolleranza, p. 199. 27 In un volume di prossima pubblicazione sono previsti alcuni alberi genealogici che permetteranno una migliore comprensione delle relazioni di parentela tra i Luzzatto e altre famiglie veneziane. 25

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Simone, si trovava dalla fine del Cinquecento al vertice della “Natione Todesca” e dell’intera “Università degli Hebrei” insieme a quest’ultimo28. Seguendo una prassi consolidata da almeno tre generazioni, anche Simone sposò una Calimani e consolidò ulteriormente i legami tra le due famiglie. Molti aspetti della biografia di Rabbi Luzzatto non sono tuttora di particolare interesse, in quanto indicano nuove direzioni. Considerando le citazioni dirette e indirette nelle sue opere, si desume che Luzzatto abbia trascorso buona parte della sua vita a leggere i classici del pensiero filosofico e letterario, latino come italiano. Simone stesso afferma di aver letto moltissimo. Il suo amore per Dante è attestato dalle ripetute citazioni, non solo nel Discorso circa il stato degli Hebrei, ma anche nel Socrate. Nella visione luzzattiana del Discorso, l’immaginazione letteraria dantesca sembra perfino atta a rendere accessibile al mondo non ebraico29 il misticismo filosofico dei kabbalisti. Rabbino in un’epoca particolarmente feconda dell’Ebraismo veneziano, Luzzatto ha lasciato dietro di sé un notevole numero di decisioni halakhiche (responsi di natura religiosa e legale) in cui fu coinvolto a partire dal responso sul miqwe di Rovigo (Mish‘an mayim). Se si tiene presente che all’epoca della composizione del responso dato alle stampe nel Mish‘an mayim avrebbe avuto solo 24 anni – secondo l’opinione oggi corrente – la stima di cui già godeva presso i colleghi è da considerarsi ragguardevole30. Giulio Morosini, un ebreo convertito (ex Nachmias), in A’ i dispersi figliuoli d’Israele della presente cattività, introduzione alla sua opera monumentale Via della fede mostrata a’ gli Ebrei, pubblicata a Roma nel 1683 nella “Stamparia della sacra

Si veda CALIMANI, Ghetto di Venezia, p. 132. Si veda Discorso, 83v. Citando sia il Discorso che il Socrate si farà riferimento alle edizioni originali. Il lettore potrà facilmente trovare il numero di pagina originale anche nella presente edizione perché evidenziato in grassetto. 30 Secondo alcuni autori il testo del Mish‘an mayim è rimasto manoscritto, il che non corrisponde a verità (si veda la bibliografia del presente volume). Questa convinzione permane ancora oggi, si veda Saracco, “Simone Luzzatto”. 28 29

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congregatione de Propaganda Fide”, afferma di aver assistito nel Ghetto di Venezia ad una “disfida” dottrinale sulla “profetia di Daniele delle 70 settimane”31, cioè sul celebre passo del libro di Daniele, a cui avrebbe preso parte Simone Luzzatto. Durante la discussione, Luzzatto sarebbe in sostanza giunto a riconoscere la superiorità o “vittoria” dottrinale dei cristiani32 circa la venuta del messia e ciò avrebbe mosso lo stesso Morosini a convertirsi al Cristianesimo, trascinandosi dietro anche il fratello33. Sulla veridicità di questa testimonianza si può certo dubitare, dal momento che serve apparentemente come giustificazione della propria scelta. D’altra parte, nel mondo cristiano il pensiero luzzattiano era altrettanto diffuso e apprezzato, come nel caso del nobile veneziano Loredan che sembra aver molto appreso da Simone Luzzatto, testimoniando, circa venti anni dopo la pubblicazione del Discorso, che “dove habitan 20 Ebrei non habitan che 4 o 8 Cristiani”34. Cecil Roth e Edgardo Morpurgo definiscono “stranamente moderno” lo spirito che animò l’intensa attività intellettuale del Luzzatto come rabbino e come uomo di cultura35. Grazie alla sua “straordinaria liberalità di spirito e franchezza di linguaggio” egli avrebbe realizzato, con Leone Modena e “qualche altro egregio”, una “nuova corrente di idee” nel rabbinato di Venezia36. Aspirazioni opposte avrebbero invece caratterizzato “l’ascetismo e il grande spirito di carità” di Rabbi Shemuel Aboaff37, rappresentante del “rabbinato intransigente, rigidamente ortodosso” della comunità veneziana, incapace, si badi, di “dare impulso al sentimento religioso” all’interno di

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Morosini, Introduzione, II e III. Ibidem. 33 Ibidem, III. 34 Si veda PULLAN, Gli ebrei d’Europa, p. 246, p. 263 e n. 60, secondo cui questa testimonianza proviene dall’Archivio di Stato di Venezia (ASVe), fondo “Cinque Savi alla Mercanzia”, busta 62, fasc. 165. La consultazione archivistica non ha sinora confermato questo ritrovamento. 35 Morpurgo, “Samuel David Luzzatto”, p. 623. 36 Ibidem, pp. 622-623. 37 Anche Aboab o Aboafe. 32

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essa38. Luzzatto è ricordato nei processi dell’Inquisizione come rabbino della “Scola Tedesca” almeno fino al 166139. La morte dovrebbe esser avvenuta in tutti i casi dopo il giugno del 1662, data del suo testamento40. Secondo Johann-Christoph Wolf (Wolfius), che fa riferimento a Unger, il quale a sua volta cita una lettera del Cantarini (Rabbi Yitschaq Chayyim Cohen), Simone sarebbe deceduto nel 166341. Cantarini afferma che la sua pietra tombale è sprofondata nella terra a causa del peso42. Nel cimitero del Lido di Venezia, un grande numero di lapidi è effettivamente sprofondato nel terreno nel corso dei secoli, venendo a formare un vero e proprio strato, quasi un deposito sotterraneo delle medesime.

2. Opere in ebraico La maggior parte della produzione letteraria di Simone Luzzatto in ebraico è il risultato della sua attività di rabbinocapo della comunità ashkenazita di Venezia e di presidente della locale accademia talmudica (rosh Yeshiva). In questa funzione, che ricoprì per più di cinque decenni, Luzzatto fu in contatto con diversi rabbini e studiosi di altre località affermandosi come una grande autorità43. I suoi scritti ebraici, di lunghezza e stile a volte diverso, comprendono risposte giuridico-religiose (responsa)44 e pareri 38

Ibidem.

39 Testimonianza di Abraham Porto in ZORATTINI, Processi, p.117. Il Porto

si riferisce al nostro (“Simone Luzato”) e a Moshe Treves (Moisé Treves) come rabbini della “sinagoga de Todeschi”, all’inizio dell’anno 1661, p 117. 40 Si veda VELTRI, e MILETTO E BARTOLUCCI, “The Last Will”, pp. 125146. 41 WOLFIUS, Bibliotheca III, p. 1150. 42 Leone Luzzatto menziona in merito una lettera spedita da ShadaL “al Blumenfeld di Vienna pubblicata nell’Otsar Nechmad vol. II pag. 129”. LUZZATTO, Autobiografia, p. 35. 43 SHULVASS, in LUZZATTO, Ma’amar, pp. 9-26, riferisce che Luzzatto è stato rabbino dal 1606 e presidente della Yeshiva dalla morte di Leone Modena, nel 1648; si veda anche BLAU, “Venezianische Rabbiner”, pp. 119-126. 44 Per quanto riguarda l’importanza dei responsa per una adeguata

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su diverse questioni riguardanti la legge ebraica (Halakha) e le sue pratiche. Degli scritti pervenutici sono da elencare: 1) lungo testo di carattere halakhico intitolato Mish‘an mayim (“Supporto delle acque”)45, 2) responsa sparsi in diversi manoscritti, rimasti ancora inediti e di prossima pubblicazione, 3) responsa stampati nella miscellanea Nachalat Ya‘aqov (“Eredità di Ya‘aqov”), 4) un’introduzione a un commento biblico dell’Ecclesiaste in Tsafnat pa‘neach (“Rivelatore di enigmi”). Non si può dire con certezza se la scarsità di scritti in ebraico di Luzzatto sia dovuta ai suoi interessi, rivolti a temi diversi (filosofici e letterari) da quelli strettamente di carattere rabbinico, oppure se siano semplicemente andati perduti. Di alcune sue opere che sono menzionate in diversi documenti dai suoi contemporanei e successori non è rimasta traccia alcuna. In un suo famoso responso citato da Yitschaq Lampronti nella sua enciclopedia talmudica Pachad Yitschaq, Luzzatto si espresse in favore dell’uso della gondola nel giorno del riposo sabbatico46. Alcune fonti affermano che Luzzatto avrebbe composto prediche destinate ad essere pubblicate (derashot), scritti contro i Caraiti e commenti biblici e talmudici47. ricostruzione della vita e anche della quotidianità delle comunità ebraiche nel periodo del Rinascimento si veda BONFIL, Jewish Life, p. 149. 45 Il titolo ha probabilmente un doppio senso: “supporto” è da intendersi sia in senso concreto in riferimento alla conduzione delle acque dalla fonte al bacino del bagno sia in senso figurato come sostegno delle proprie tesi. 46 Lampronti, Pachad Yitschaq, vol. 7, Lettera samekh (1749-1887), p. 55b. I suoi colleghi però, anche se tendenzialmente favorevoli, non accettarono questa proposta. 47 Manoscritti di prediche di Luzzatto sono menzionati nell’inventario dei beni di suo nipote ed erede, Moshe Luzzatto in cui si parla di “Prediche fatte dal quondam nono R[abbi] Simon Luzzato” (Archivio di Stato di Venezia, Giudizi di Petizione Inventari b. 382/47, inventario 54). Alcuni studiosi citano anche un libro sui riti ebraici pubblicato da Luzzatto in italiano che fu motivo di irritazione per Leone Modena che a sua volta scrisse un’opera sullo

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Il nome di Luzzatto si trova in diversi documenti: spesso è citato come poseq48 (colui che decide su questioni di legge rabbinica) o maskim49 (colui che concede il nihil obstat) insieme a diversi altri suoi colleghi50. Luzzatto compare anche in qualità di testimone in matrimoni come documentato dalla sua firma apposta nei contratti matrimoniali (ketubbot)51. Inoltre, ci sono state tramandate alcune sue approvazioni, o beneplaciti (haskamot) per la pubblicazione di libri ebraici52. Riservando l’edizione e traduzione di questi scritti ad una pubblicazione posteriore, si danno qui solo alcune notizie sugli scritti ebraici del nostro.

2.1. Mish‘ an mayim (“Sostegno delle acque”) Lo scritto più ampio e anche più noto tra le opere in ebraico di Luzzatto è contenuto in un libro miscellaneo di scritti halakhico-polemici pubblicato nel 1606 a Venezia53. Questa miscellanea, intitolata Mashbit milchamot (“Fine delle guerre”),

stesso tema. Si veda BLAU, “Venezianische Rabbiner”, pp. 123-126. Questo libro però deve essere identificato con la seconda parte del Discorso (si veda l’introduzione al Discorso). Sulla polemica anti-caraita di Luzzatto si veda SHULVASS in Luzzatto, Ma’amar, pp. 14-15, specialmente note 6 e 9. 48 “Colui che decide”: termine tecnico che indica l’autorità rabbinica che ha il compito di decidere su questioni giuridico religiose su aspetti non contemplati dalle autorità precedenti. La sua decisione veniva stimata finale (con ricorso alla radice di psq che significa porre fine alla discussione). 49 “Colui che concede la sua approvazione”: Maskim è un termine rabbinico tecnico che indica il rabbino che ha l’autorità di scrivere lettere di approvazione (haskama) per la pubblicazione di libri ebraici e responsa di altri rabbini. 50 Si veda Ms. Heb. 8° 3663, Jerusalem - The National Library of Israel: Iggeret me-qehillat Venetia le-Ferrara be-davar hachzarat oni (Venice, 1661); Ms. Mich. Add. 67, Bodleian Library, Oxford: She’elot u-teshuvot u-psaqim me-chakhame Italiya be-me’ot ha-16. – 17. Luzzatto appare come poseq anche in Ms. Or. 9630, British Library, London. 51 Tra le ketubbot vi sono il MS. 540, St. John’s College Cambridge, e il MS Roth 801, Brotherton library, Leeds. 52 Si veda Delmedigo, Sefer Elim. 53 SHULVASS in Luzzatto, Ma’amar, p. 13, lo descrive come una “ricerca sulla Halakha di alto livello”.

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è il frutto di un’aspra disputa fra due opposte fazioni di rabbini circa lo stato di purezza rituale di un miqwe (bagno rituale) in Rovigo. Le cause di questo conflitto possono essere sintetizzate in una lotta di potere nella comunità locale. Per circa dieci anni Rav Avtalyon, nella sua funzione di rabbino del luogo, era stato incaricato del controllo dell’unico miqwe della comunità, usato dalle donne per le purificazioni rituali. Il bagno rituale era situato nell’abitazione di Rav Yequtiel, fratello di Rav Avtalyon. Durante una visita Rav Avtalion notò che il fratello aveva eseguito alcuni lavori per l’afflusso dell’acqua dalla fonte al bacino del bagno. A causa di alcune imperfezioni dei lavori, Rav Avtalion dichiarò che ogni donna che avesse fatto uso del miqve, doveva essere considerata nidda (ritualmente impura). Egli ordinò inoltre di usare un altro miqwe che, a suo parere, disponeva di tutti i requisiti richiesti dalla legge rituale. Da ciò nacque un’aspra polemica ricostruibile dai responsi rabbinici pubblicati nel volume Milchamot ha-Shem (“Le guerre del Signore”) nel 160554. Rav Yequtiel, dal canto suo, chiese il sostegno di famosi rabbini ed esperti della Legge che confermarono l’adeguatezza rituale del miqwe della sua abitazione. I loro pareri legali a sostegno di Rav Yequtiel furono raccolti e pubblicati nel succitato volume Mashbit milchamot. Rav Avtalyon insieme al suo sostenitore Rav Yehuda Saltaro Fano non si diede per vinto. Quest’ultimo rispose alle decisioni dei colleghi rabbini, pubblicate in Mashbit milchamot, con un libello intitolato Miqwe Yisrael (1606). Anche Rav Avtalyon pubblicò nel 1607 un responso col titolo Palge mayim (“Rivo d’acqua”)55. Il responso di Luzzatto è l’ultimo dei sette responsa dei rabbini veneziani, inclusi nel Mashbit milchamot. Il testo è ben strutturato: all’inizio Luzzatto presenta un indice degli argomenti di cui intende servirsi a sostegno del suo

54 BLAU (“IX. Kultur - und Sittengeschichtliches”, pp. 127-137) riferisce che Rav Avtalyon pose il problema della purezza già nel 1589. Perciò chiese un parere autorevole (responsum) al suo maestro Rabbi Shmu’el Katzenellenbogen che propose una soluzione. Dieci anni dopo, forse per motivi piuttosto familiari privati, Rav Avtalyon riprese la questione. 55 Si veda BLAU, “IX. Kultur- und Sittengeschichtliches”, pp. 130-133.

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ragionamento. La trattazione vera e propria si suddivide in tre parti. Nella prima lunga parte sono introdotti gli argomenti a sostegno dell’ammissibilità rituale della rete idrica del miqwe di Rovigo. Questa parte è articolata in diversi capitoli. Dapprima Luzzatto discute importanti aspetti halakhici riguardanti la rete idrica in generale e la loro pertinenza al caso specifico in questione. Successivamente, riassume le discussioni e le decisioni riguardanti questa questione basandosi sulle opere di grandi autorità rabbiniche come Rabbi Abraham ben David of Posquières (RaBaD), Nachmanides, Maimonides, Jacob ben Asher (Ba‘al ha-Turim) o Yosef Caro (in Shulchan Arukh). Nella seconda parte l’autore si propone soprattutto di confutare le decisioni contrarie degli altri rabbini, pubblicate nel volume Milchamot ha-Shem. Il terzo capitolo è dedicato ad una sorta di discussione sull’autorità e autorevolezza dei rabbini coinvolti: Rav Avtalyon, l’avversario principale e promotore della diatriba, aveva sostenuto che in quanto autorità rabbinica locale le sue decisioni in materia di Halakha non potevano essere contestate dagli altri suoi colleghi. Luzzatto ribatte che questa lotta per l’autorità, legittimazione e guida halakhica della comunità non inficia le sue conclusioni tecniche riguardo il miqwe di Rovigo.

2.2. Responsa Alcuni brevi scritti di argomento halakhico (responsa) sono inseriti nella collezione di lettere e discussioni scritte da un contemporaneo di Luzzatto: il suo maestro Rabbi Ya‘aqov Heilbronn. I responsa di Luzzatto comprendono circa nove delle 53 pagine in folio (recto-verso) del volume Nachalat Ya‘aqov (“L’eredità di Ya‘aqov”)56. L’opera che contiene uno scambio di pareri giuridici tra Heilbronn e altri rabbini suoi contemporanei, è scritta in uno stile caratteristico di questo genere letterario. All’inizio di ogni responso Luzzatto si rivolge al suo maestro (Rav) Ya‘aqov Heilbronn in diversi modi. Talvolta, egli si sofferma brevemente a lodare e a ribadire il suo rispetto per il

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Stampato a Padova nel 1622/1623 da Crivellari.

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suo maestro, ma più sovente preferisce descrivere le circostanze che lo hanno indotto alla formulazione del responso. Il secondo responso, per esempio, inizia con espressioni di compiacimento per le buone condizioni di salute del suo maestro. In seguito, l’autore dichiara di sentirsi onorato per la richiesta del suo parere, nonostante le sue limitate competenze in materia. In un altro caso, Luzzatto dichiara di avere appreso con piacere che il suo maestro si sia ripreso da una grave malattia. Quindi umilmente afferma di non sentirsi degno e sufficientemente competente per essere chiamato ad esprimere un suo giudizio. La prima parte dei singoli responsa è generalmente seguita da una breve introduzione al tema trattato. L’argomentazione è basata, come voleva l’uso del tempo, su ampie citazioni talmudiche e di scritti di note autorità halakhiche. I responsa riguardano i seguenti temi: 1) Il primo testo (37v-38r) tratta della questione del trasporto di un cadavere nel giorno di Sabato (tiltul ha-met). L’argomentazione di Luzzatto si basa sul principio rabbinico secondo il quale onorare l’uomo è un precetto positivo che sospende ogni altra proibizione della Tora57. La questione della rimozione di un cadavere di Sabato è strettamente correlata con il principio halakhico del muktsa (“posto a parte / separato”). La questione riguarda la disposizione che proibisce di rimuovere alcuni oggetti di Sabato e nei giorni festivi, ma consente la rimozione di altri58. La proibizione può essere parzialmente evitata ponendo sull’oggetto, che è proibito rimuovere di Sabato e nei giorni festivi, un altro la cui rimozione è acconsentita. Nel caso di un defunto, la rimozione del cadavere è lecita, se lo si trasporta ponendovi sopra una pagnotta o un bambino non ancora in grado di camminare. 2) Nel secondo responso (38r-38v) Luzzatto discute il

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Si veda b. Ber. 20b. A riguardo si veda Maimonides, Mishne Tora, Hilkhot Shabbat 24, 1213; per quanto riguarda la questione dello spostare un oggetto di Sabato si veda Talmud babilonese, Shabbat 96b; Shulchan Arukh, Oreach chayyim § 345-348. 58

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problema della convivenza more uxorio senza una formale cerimonia di matrimonio (chuppa/berakha) o il contratto matrimoniale (ketubba). Egli cita i pareri di autorità riconosciute in questo campo, biasimando questo costume. Secondo le decisioni dei rabbini, la vita in comune di un uomo e una donna presume anche relazioni sessuali come in un regolare matrimonio. Di conseguenza bisogna guardare ai trasgressori di tale norma come se avessero avuto un rapporto con una donna ritualmente impura. Anche la comunità risulta contaminata, se non prende provvedimenti in merito. Tuttavia Luzzatto dimostra che questo decreto non ha valore nel caso che la coppia dorma con altri familiari nella stessa stanza, essendo così impossibile avere rapporti intimi. Nondimeno, considerando che la maggior parte della gente è indotta alla trasgressione, Luzzatto approva la proibizione di Rabbi Heilbronn. 3) Il terzo responso (41v-42r) tratta di questioni finanziarie, in particolare di usura, in relazione alla questione degli interessi stipulati al momento del prestito e come tali vietati dalla Tora (ribbit ketsutsa)59. Luzzatto esamina i rapporti fra l’uso comunemente accettato con la legge rabbinica e biblica. 4) Un quarto responso (42v), piuttosto breve, è particolarmente importante per Luzzatto perché riguarda la controversia tra il suo maestro, Ya‘aqov Heilbronn, e altri rabbini che gli avevano rimproverato di mostrare interessi per la Kabbala,60 condannata dalla maggior parte dei rabbini italiani dell’epoca61. Luzzatto difende il suo maestro, rimettendo la

59 STERN, “Ribis”, pp. 46-69; FELDMAN, “The Jewish prohibition”, pp. 239-54. 60 In questo libro si usa la grafia “Kabbala”, “Kabbalisti” e rispettivamente agg. “kabbalistico”, per denominare il fenomeno di letteratura e cultura ebraica denominato qabbala per evitar confusione con l’uso ed abuso dell’italiano “cabala”, nel senso di predire il futuro. Luzzatto usa la scrittura “Cabala”, “cabalistico” e “cabalisti”. 61 Bonfil (Rabbis and Jewish Communities, in particolare alle pagine 278298) analizza la questione dal punto di vista della polemica tra Kabbala e filosofia, laddove l’approccio anti-razionalistico della Kabbala intendeva sostituirsi al razionalismo della filosofia scolastica. Sempre Bonfil (Jewish Life,

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questione ai suoi illustri colleghi del rabbinato di Venezia. 5) L’ultimo responso (43v-44r) tratta di un litigio fra due fratelli Shim‘on e Re’uven, che riguardava interessi economici fra i due fratelli. Shim‘on sembra aver sottratto del denaro alla società che aveva col fratello per avviare un’altra società con un terzo. Il punto fondamentale è la restituzione della somma di denaro. Luzzatto descrive diversi possibili compromessi in materia di società finanziarie e la loro relazione con la legge di eredità.

2.3 Responsa in manoscritti In diversi manoscritti di differenti periodi e origini sono contenuti responsa di Luzzatto che riguardano svariati argomenti di legge civile, familiare, di diritti di successione e rituale. MS Rosenthal 281, Biblioteca Rosenthaliana University Library Amsterdam62 Il manoscritto contiene una serie di responsi di rabbini di Amsterdam e d’Italia per un caso di seconde nozze, in cui un certo Re’uven, rimasto vedovo senza figli, viene accusato dalla nipote di non aver mantenuto gli impegni presi di sposarla. Re’uven, scomunicato, è difeso da Luzzatto che critica la decisione dei responsabili della comunità di impedire le seconde nozze. Sulla base di citazioni bibliche, talmudiche e passi tratti da scritti di Maimonide, Luzzatto dimostra l’inattendibilità della testimonianza della nipote contro Re’uven.

in particolare alla pagina 176) menziona Luzzatto insieme a Leone Modena, sostenendo che egli era “pienamente consapevole” dei rischi che lo studio della Kabbala poteva determinare, ma allo stesso tempo “impotente di fronte alla tendenza generale”, che inclinava verso tale studio. 62 Manoscritto stilato in corsivo sefardita, probabilmente da Benjamin Senior Godines dopo il 1682. Comprende responsa di alcune autorità rabbiniche (Italia e Amsterdam) in ebraico (1r-20r), con una traduzione in portoghese e olandese dell’opinione di Luzzatto con descrizione di un caso parallelo. Il manoscritto era stato ordinato da Matatia Aboab per suo figlio e la sua famiglia; si veda FUKS, Catalogue of the Manuscripts, no. 110, 55-56.

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MS. 164, Klaus Library, Hebrew Union College, Cincinnati Un manoscritto databile al XVII secolo simile o forse copia del precedente63. Ms. Heb. 8°2001, Jewish National and University Library, Jerusalem Il manoscritto è una collezione di responsa di rabbini italiani e di vari paesi dell’area mediterranea64. Il responso di Luzzatto concerne l’uso dei filatteri (tefillin). Ms. Mich. 196, Oxford-Bodleian Library Un manoscritto miscellaneo con testi di argomento enciclopedico, giuridico, filosofico e kabbalistico65. Vi è incluso anche un responso di Luzzatto che riguarda un caso di divorzio. Ms. 1348, Jewish Theological Seminary, New York66 Nel responso di quattro pagine (16a-20a) contenuto in questo manoscritto scritto a Venezia in scrittura rabbinica di tipo italiano, Luzzatto tratta di una lite fra membri di una famiglia per diritti di eredità complicati da un caso di emancipazione e donazione. Introduzione al commento del Qohelet di Shmu’el ha-Kohen di Pisa Non ci sono pervenuti commenti di Luzzatto alla Bibbia o a

63 Testo in scrittura corsiva sefardita con traduzione portoghese e olandese dei responsa. 64 Il manoscritto consiste di 635 pagine, scritto da mani diverse in stile corsivo sefardita: si veda Bernheimer, Catalogue no. 18. 65 Si veda NEUBAUER (a cura di), Catalogue of the Hebrew Manuscripts, del 1886 e la ristampa BEIT-ARIE e MAY (a cura di), Catalogue of the Hebrew Manuscripts, del 1994. 66 Il testo figura nell’elenco della Jerusalem National Library come segue: Yitzhak ben Ephraim Luzzatto, Massekhet derekh erets: parodiya.

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trattati del Talmud. Abbiamo solo un breve testo introduttivo ad un commento all’Ecclesiaste e a Giobbe pubblicato in Tsafnat pa ‘neach, di Samuele ha-Cohen di Pisa nel 165667. A parte le lodi per l’autore dell’opera, Luzzatto si dedica in questo breve scritto ad un tema molto controverso: Giobbe ha davvero intenzionalmente negato la resurrezione dei morti? L’autore analizza in dettaglio l’argomentazione che si trova nel Talmud di Babilonia (Baba Batra 15a-16a) ed in particolare l’accusa di blasfemia rivolta a Giobbe dai saggi della Mishna e del Talmud. Dimostra, poi, che altri passaggi biblici, attribuiti a Davide, si riferiscono alla morte come alla fine ultima. Infine, insiste sul fatto che Giobbe, come altri profeti e come lo stesso Mosè, abbia espresso la sua lagnanza e rimostranza contro Dio in modo aperto. In conclusione, Luzzatto afferma che Dio permette all’intelletto umano di esplorare ed anche criticare la condicio humana e le vie del mondo.

3. Opere in italiano 3.1. Discorso circa il stato degli Hebrei Il Discorso è stato conservato in un unico manoscritto frammentario del XVII secolo ed in una stampa del 1638, le cui copie non sono del tutto identiche. Il MSS Venezia, Biblioteca Marciana, Ms. It. VI 278 (5882) fol. 119. Nel 2010 è venuto alla luce il primo ed unico manoscritto del Discorso, trovato tra le carte dell’archivio della famiglia Contarini68. Com’è noto, nel 1843 Girolamo Contarini lasciò alla Marciana 906 manoscritti e 4.000 libri69. Il manoscritto

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Samuele (Shmu’el) ha-Kohen di Pisa, Tsafnat pa‘neach. Be’ur ketuvim zarim she-be-sefer Qohelet (Venezia, 1656, stampato da Giovanni Martinelli). L’introduzione di Luzzatto si trova ai fol. 2b-4a. L’approvazione è scritta da Leone Modena. 68 Venezia, Biblioteca Marciana, Ms. It. VI 278 (5882) fol. 119. Per quanto riguarda il manoscritto in questione ci si basa sostanzialmente su VELTRI, MILETTO e BARTOLUCCI, “The Last Will”. 69 Secondo la presentazione della Marciana in http://marciana.venezia.

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in questione fa parte di una collezione di diversi frammenti d’opere politiche del Cinquecento e Seicento. Alcune di esse sono state copiate da Marino Sanuto, il giovane (1466-1536)70. Il Discorso è contenuto nei fogli 101-119, inventariato con il titolo “Considerazioni di un ebreo sulla nazione ebraica in Venezia. Inc. “Havendomi proposto nell’animo” fin. “et non vi è dubbio che fra tutti li stati”. L’opera è considerata anonima. Non è sorprendente che la biblioteca e l’archivio dei Contarini contenesse il manoscritto parziale del Discorso, poiché Angelo Contarini fece parte del “collegio criminal” del Senato che nel 1636/1637 si occupò delle indagini sul furto alla Merceria presso S. Marco, perpetrato da ebrei e nobili veneziani ai danni di un negoziante chiamato Brigonzi71. Sembra plausibile che il documento in possesso della famiglia sia un’apologia presentata al Senato per invocare la protezione nei confronti della minoranza ebraica veneziana, che rischiava d’essere espulsa in parte o in toto dalle terre della Serenissima. Questa parte del Discorso è stata, probabilmente, presentata al Senato come petitio, nell’edizione a stampa del 1638 fu aggiunta la seconda parte come “appendice”. È necessario pertanto rimanere cauti nella formulazione di tale ipotesi, perché il manoscritto è mutilo e contiene tre pagine lasciate in bianco (104v-107v). Da alcune varianti e in base alla natura di questo manoscritto si possono tuttavia trarre delle conclusioni utili per la storia e la comprensione del Discorso. Databile al secolo XVII, il manoscritto è introdotto da una sola prefazione generale (“Prefatione di tutta l’opera”) e comprende le prime tre “considerazioni”. La struttura del testo corrisponde

sbn.it/catalogazione.php?sottocat=3 (20.01.2011). Per una lista dei manoscritti e dei libri posseduti dalla famiglia Contarini nel XIX secolo si veda Venezia, Biblioteca Marciana, It. X, 220 6409 e It. XI 324 (7135). Per una descrizione completa del manoscritto in questione si veda MAZZATINTI e ZORZANELLO (1950), Inventari dei manoscritti delle biblioteche, vol. 77.6, pp. 103-104. 70 Fol. 1-32 e 89-100. 71 Per quanto riguarda il furto si veda COZZI, Giustizia contaminata, pp. 34-35; su Angelo Contarini membro del “collegio criminal”, si veda Ibidem, p. 41.

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all’edizione in stampa, tuttavia qui le considerazioni vengono definite ‘appendici o Seconda Parte’. Inoltre, nell’edizione manoscritta mancano del tutto le citazioni dotte di autori latini come Virgilio o Cicerone, di cui è invece ricca l’edizione a stampa. Questo dato è prezioso in quanto deporrebbe a favore di una datazione anteriore al 1638 (data della pubblicazione). Ci sarebbe dunque stata una versione precedente, cui sarebbe seguita quella definitiva, ornata retoricamente e dottamente. Un ulteriore elemento di differenza tra il manoscritto e la stampa è presente nella prima considerazione, laddove Luzzatto enumera cinque benefici apportati dalla “nazione hebrea” alla città di Venezia, mentre il manoscritto ne menziona quattro, omettendo il quinto, in cui si parla espressamente di commercio e di pace fra i popoli (“il comercio, e la reciproca negotiatione, ch’è il fondamento della pace, e quiete fra popoli confinanti, essendo il più delle volte li Prencipi commossi alla guerra dalla inclinatione de popoli, che questi da quelli all’arme indotti”)72. L’omissione potrebbe intendersi come elemento non necessario, anzi nocivo, ad un’apologia volta a risolvere la situazione contingente evitando una probabile espulsione dalla città. Tuttavia un tale elemento sarebbe stato certamente interessante per il pubblico dotto se inserito in un contesto più ampio rispetto a quello della comunità ebraica di Venezia, ben disposta verso la pace per necessità. Un elemento importante che differenzia il manoscritto dall’edizione a stampa del Discorso è il preambolo di Luzzatto circa le intenzioni dello scritto. Nel primo afferma (102r-v): Tralascierò ad altrui l’admirare l’antichità della stirpe, il non mescolato sangue, tanta serie d’anni conservato, la tenacità de ritti et credenza, la tolleranza nelli travagli, la inflessibilità nelle oppressioni, solo aggregarò [102v] al sudetto mio proponimento, come apendice, l’espositione d’alcuni profitti che la natione Hebrea adduce et apporta all’Inclita città di Venetia, ricoverandosi sotto li felici auspicii della Serenissima Repubblica73.

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Discorso, 8v-9r; MSS Marciana 108r. Il grassetto è del curatore per evidenziare le varianti.

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Nella seconda invece (5v): Tralasciarò il considerare a lungo l’antichità della stirpe, il non mescolato sangue per sì lungo tratto di tempo conservato, la tenacità de ritti e credenza, la inflessibilità nelle oppressioni, solo aggiungerò al detto mio proponimento la espositione d’alcuni profitti, che la natione hebrea dimorante nella inclita città di Venetia l’apporta, non havendo in ciò fine di rappresentare ad altrui ambitioso apparato di utili, et emolumenti, ma solo dimostrare non esser detta natione affatto inutil membro del comun popolo di detta città 74.

Se si parte dall’ipotesi della priorità del manoscritto sulla stampa, si può ben opinare che Luzzatto abbia cambiato nel frattempo parere. Nella prima stesura egli fa indirettamente riferimento ad alcuni trattati sui riti degli ebrei che circolavano al suo tempo, tra cui quello di un suo famoso collega nel rabbinato, Leone Modena, pubblicato a Parigi nel 1637. In quella che si potrebbe definire la sua petizione, il Nostro intendeva evidenziare l’aspetto economico, mentre nella versione a stampa si sofferma su elementi della vita ebraica veneziana e non, anche se sapeva che questo avrebbe potuto irritare altre persone, e prima di tutti proprio Leone Modena, che nella prefazione all’edizione italiana dei suoi Riti annota: “Facile est inventis addere” 75. Modena reagisce probabilmente alla pubblicazione del Discorso, tesi avvalorata dal suo accomunare “Riti e Dogmi Hebraici”, elementi del sottotitolo del Discorso. Se la datazione del manoscritto è posteriore alla stampa, non si capisce perché l’autore lasci ad altri quello che aveva composto egli stesso. Il manoscritto potrebbe spiegare l’accenno che troviamo su Luzzatto e la sua attività di rabbino e scrittore in una cronaca del XVII secolo pubblicata da Moses Shulvass nel 1949. In questo documento si dice che Luzzatto avrebbe composto “un libro (sefer) retoricamente elegante in lingua volgare” sulla situazione degli ebrei. Il libro sarebbe stato preso in considerazione dal Senato veneziano che, riconosciuta la sapienza del dotto ebreo, ne accolse l’appello, consentendo agli ebrei veneziani di sottrarsi 74 75

Il grassetto è del curatore per evidenziare le varianti. Citato da RAVID, Economics, p. 17, nota 10.

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all’espulsione. Lo storico Benjamin Ravid, ha utilizzato questo documento per analizzare il Discorso, rilevando l’incongruenza tra questo episodio criminale, il furto alla Merceria, avvenuto il 20 Febbraio 1636 (secondo la nota di Modena), e la data di pubblicazione del Discorso nel 1638. Secondo altri documenti citati da Ravid la sentenza definitiva sul caso sarebbe stata promulgata il 14 maggio del 163776. Il cronista avrà probabilmente associato e confuso la pubblicazione posteriore dello scritto con la petizione manoscritta, scritta in un bel corsivo italiano dell’epoca. In conclusione è difficile stabilire se il manoscritto sia una prima versione del Discorso oppure se il Discorso sia stato usato per comporre il manoscritto, poi presentato al Contarini. La presenza del libro già in stampa non spiegherebbe però la presentazione di un manoscritto apologetico. L’autore avrebbe dovuto presentare tutto il saggio stampato senza limitarsi alla parte riguardante il caso specifico. L’ipotesi della stesura parziale di un’apologia degli ebrei veneziani renderebbe al contempo verosimile la successiva pubblicazione di un libro più ampio, dove Luzzatto avrebbe fatto sfoggio di citazioni dotte, ampliando il contenuto anche per quanto riguarda i riti degli ebrei. Nella stampa del Discorso (30r) si parla però “dell’anno passato 1636”, e ciò attesterebbe che il testo nel suo insieme sia stato composto tra il 1636 ed il 1637, e poi pubblicato nel 163877. Si dovrebbe quindi esser particolarmente propensi a sostenere la tesi della composizione a più riprese o in diversi periodi della prima parte (1-11), mentre la seconda parte del Discorso (12-18) depone a favore di una datazione ben più precisa. In 37r Luzzatto fornisce infatti una nuova data, affermando che gli ebrei sono dispersi nel mondo da 1550 anni (datazione ripetuta anche in 38v). Dal contesto è chiaro che Luzzatto sta parlando della distruzione del Tempio di Gerusalemme. Se si

RAVID, Economics, p. 14, nota 7. L’argomento del Ravid, secondo il quale la pubblicazione sia stata fatta in fretta e furia, visti i molti errori di stampa, notati anche dal Luzzatto, non è cogente. Nel Socrate si verifica lo stesso fenomeno, le correzioni sono molte e la nota del Luzzatto la stessa: il lettore sia benigno. 76 77

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aggiungono quindi i tradizionali 70 anni, data nota a tutti nel Rinascimento, grazie anche a Justus Scaliger, uno dei pochi autori contemporanei espressamente citati dal Nostro, si arriva al 1620-1622 come data di composizione della seconda parte.

La stampa del Discorso del 1638 Il Discorso circa il stato degli Hebrei et in particolare dimoranti nell’inclita Città di Venetia esce alle stampe nel 1638 per i tipi di Giovanni Calleoni, una tipografia veneziana che aveva pubblicato nel 1623 Ha-shirim asher li-Shlomo di Salomone Rossi (ad opera di Pietro e Lorenzo Bragadini) e nel 1627 il Tesoro de preceptos, di Isaac Athias. Contemporaneamente al Discorso l’editore pubblica anche la versione italiana della Historia De Riti Hebraici di Leone Modena da Venetia, e poi dello stesso autore la Raccolta delle voci rabiniche non hebraiche né caldee (Venetia, 1640). Il volume esce in ottavo e consta di 92 pagine (recto e verso). La stampa del volume presenta non pochi errori tipografici, alcuni dei quali sono stati corretti manualmente. Come rileva Benjamin Ravid, le copie del libro non corrispondono le une alle altre e questo fa presupporre più di un’edizione, o forse più di una ristampa78. Le copie usate per la presente edizione sono la ristampa ad opera di Cesare Saletta edita da Arnaldo Forni (qui segnata come “Forni”), senza commento, del 197879 (350 esemplari), pubblicata insieme ad un saggio di Riccardo Bachi80 e principalmente la copia fattaci gentilmente pervenire dalla Bibliotheca Angelica di Roma (qui segnata come “Angelica”). La copia Angelica premette una lista di errata corrige di cui 18 su 27 sono state utilizzate nella correzione manoscritta presente nell’edizione del Saletta, il che significa che quest’ultima è posteriore. Anche l’ordine delle pagine nelle stampe non è lo stesso. L’edizione Forni ha titolo, seconda pagina in bianco, “Agli amatori della verità” (senza numero di pagina), tavola, prefazione all’intera opera (folio 5). L’Angelica ha titolo, RAVID, Economics, pp. 14-5, n. 8. Bologna: Arnaldo Forni, 1976. 80 BACHI, “Dottrina”, pp. 369-378. 78 79

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seconda pagina in bianco, “Agli amatori della Verità” (senza numero di pagina), tavola, errata corrige, seconda pagina in bianco, prefazione all’intera opera (folio 5). Inoltre sono da rilevare le correzioni a mano, presenti nella stampa “Forni”: la parola “proibito” è stata aggiunta tra le righe in 23r/22; 23v/24: “doi” è cancellato nell’Angelica, e “ducati 200” è sostituito con “ducati 400”; 37r/22: “varij” corretto in “varie” in Forni; 60v/18: “Marcia” è cancellata in tutte le stampe citate come cancellato è il “de” di 70v/27; 82v/26: “nodo” in “modo” è corretto a penna nella ristampa del Forni, nell’ Angelica. Nella ristampa di Forni si hanno inoltre le correzioni: 6v/1: “esagerati” per “esageratti”; 7r/ultima riga: “alla” per “alle”; 77r/9: “servendosi” (Forni e Angelica). In tutte le stampe citate, il foglio 59 è numerato erroneamente come 60 (ripetendo la stessa numerazione), ed il numero 72 anche erroneamente 7481. Il capitolo sedicesimo del Discorso è stato ristampato nel 1854 da Giuseppe Antonelli in occasione del matrimonio del figlio Angelo Levi con una damigella della famiglia Mondolfi. Alcune copie di questa edizione rara sono conservate nelle biblioteche di Vienna e di Yale82. Una prima traduzione in latino di parti del Discorso è stata eseguita da Wolf nella sua famosa Biblioteca83. Jacques Basnage tradusse in francese parte del capitolo 1884. La considerazione 13 è stata parzialmente tradotta in ebraico da Isaac Reggio nel 183485. Parte della considerazione quarta e diciottesima sono state tradotte in tedesco da Ismar Elbogen86. Nel 1947 il giornale ebraico-americano Commentary

81 Il richiamo tipografico “maggior“ non corrisponde alla pagina seguente

che avrebbe “huomo”. 82 Copia utilizzata da RAVID, Economics, p. 7, nota 1. 83 Christophori Wolfi Bibliotheca Hebraea, p.1151, qui Wolf annuncia di voler tradurre tutto il Discorso. Nel volume IV, pp. 1115-1135, traduce però solo tre delle “Considerazioni”, mentre nel vol. III, sotto la voce “Levi fil. Gerschem vel Gerson” cita in italiano 22 righe dal Discorso (79r-v) in originale. 84 BASNAGES, Histoire, pp. 2119-2122. 85 Reggio, Iggerot yashar, pp. 64-70. 86 ELBOGEN, Gestalten und Momente, pp. 162-172.

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decise di pubblicare alcuni capitoli dell’opera di un “Jewish Apologist of 17th Century Venice”, tradotti da Felix Giovanelli. Nell’introduzione gli editori notano che l’opera di Luzzatto “rappresenta uno dei primi tentativi, se non il primissimo, di inquadrare l’apologetica ebraica in una dimensione che non fosse teologica”87. La decisione di tradurre Luzzatto in inglese, nacque presumibilmente dalla menzione dell’opera del grande Veneziano ad opera di Yitzhak Fritz Baer, nel suo libro Galut, tradotto in inglese nello stesso anno. Nello stesso anno 1947, alla famosa Hebrew Union College, a Cincinnati, Lester Walter Roubey, sottopose come tesi rabbinica una traduzione inglese del trattato con una breve introduzione, escludendo il voluminoso capitolo quindici88. Nell’introduzione egli si impegna a far recapitar al più presto il capitolo mancante, promessa che probabilmente non mantenne. È degno di nota che nel 1949 nella congregazione dove Roubey fu poi nominato rabbino, venne rimossa dal pulpito della sinagoga la bandiera israeliana, proprio in seguito ad una sua sollecitazione, in quanto sembrava inappropriato esporre la bandiera di un altro stato sovrano89. Nel 1951 veniva pubblicata la prima traduzione completa del Discorso in ebraico ad opera di Dante Lattes.

Struttura Il Discorso è suddiviso in due parti distinte. La prima contiene le “considerazioni” I-X e concerne l’economia, il mercato e la funzione degli ebrei a Venezia. Dopo un’introduzione in cui definisce la comunità ebraica una parte integrante della società veneziana, Luzzatto si dedica nella prima considerazione ad un tema peculiare, essenziale alla dinamica retorica del suo trattato: l’economia mercantile come motore dell’economia veneziana. Nella seconda considerazione rileva la funzione degli stranieri e degli ebrei nel commercio, soprattutto quando la società arriva ad un certo grado di 87

Introduzione degli editori in “Jewish Apologist”, p. 371. Copia della dissertazione consultata grazie all’interessamento della Dott.ssa A. LANG. 89 A riguardo si veda http://www.shaarai.org/classical.html (30.10.2008). 88

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ricchezza e agio. Ciò in genere induce i ricchi ad acquistare beni immobili, ritirarsi nei propri possedimenti (come modalità di preservazione della ricchezza conseguita) e a cercare onori e cariche nella società cittadina. Secondo Luzzatto, quest’aspetto è inerente alla logica della crescita e declino della città come fenomeno naturale90, il che tuttavia comporta un abbandono del commercio, lasciato in mano a stranieri. La reazione a questa logica dei fatti è stata storicamente duplice: quella dell’Inghilterra, che ha proibito dirittamente o indirettamente il commercio gestito da stranieri, l’altra, quella veneziana, che ad essi lo ha concesso (considerazione terza). Se, da un lato, è bene appoggiare l’idea e la politica dell’ingresso degli stranieri nell’economia cittadina, bisogna, d’altra parte, esser coscienti delle conseguenze negative che ciò comporta. Infatti, dopo aver raggiunto il loro scopo, gli stranieri non restano nella città o nelle città dove hanno svolto i loro commerci e i loro scambi, ma tornano alla terra natia portandosi dietro il capitale acquisito. Luzzatto tuttavia non propone gli ebrei come valida alternativa solo per questa ragione, ma anche a causa della loro competenza (considerazione quarta), della mancanza di una terra propria, del loro ossequio e prontezza nell’obbedire (considerazione quinta). Nella considerazione successiva (considerazione sesta), Luzzatto sembra apparentemente cambiar tema introducendo alcune considerazioni sulla politica sociale. La professione mercantile dovrebbe a suo parere esser distinta dalle altre – una specie di divisione della società in caste sociali – per esser efficiente (pragmatismo economico-sociale). Anche le ricchezze non devono esser cumulative nel senso conservatore del termine, ma entrare nel flusso economico ed essere “girevoli” tra i gruppi che compongono la società (considerazione settima). Quest’ultima tesi prima di Luzzatto venne sostenuta nel 1613 già dall’economista calabrese Antonio Serra91. Poste queste premesse, il nostro tratta l’aspetto che gli sta più a cuore e cioè quello dei profitti che la “nazione” ebraica apporta sia al commercio sia da un punto di vista fiscale, in quanto paga 90 91

Su quest’aspetto si veda BACHI, “Simone Luzzatto”, pp. 369-378. Si veda Serra, Breve trattato.

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regolarmente le tasse. E ciò senza ricorrere all’intervento statale, ad esempio, all’erario per la propria difesa (considerazione ottava). Proseguendo nella trattazione dei contributi ebraici, la considerazione nona tratta un aspetto molto delicato come quello del prestito bancario gestito dagli ebrei, come istituzione sociale voluta dal Senato con lo scopo di “soccorrere a bisogni, et urgenze de poveri meschini, con utile solamente de cinque per cento all’anno” (37r). La considerazione decima conclude la prima parte sostenendo che la protezione nei confronti degli ebrei è onorevole per il sovrano ma anche proficua, come si può desumere dalla storia di Giuseppe e del Faraone. Le prime dieci considerazioni hanno una logica interna che a cerchi concentrici va diritta al punto decisivo mettendolo bene in evidenza: solo gli ebrei possono rivestire il compito mercantile all’interno della comunità economica, civile e politica veneziana, per la loro comprovata capacità e per la fedeltà alla costituzione della città. Questo compito è ad essi peculiare, non esistendo nessun altro che possa raggiungere i loro stessi risultati tanto dal punto di vista della qualità quanto da quello della competenza. Nella prospettiva che vede nel Discorso un’apologia volta ad evitare un’espulsione imminente da Venezia (si veda intra), si può notare che il tono è tutt’altro che mite, umile e sottomesso. In realtà, dietro la veste retorica di tractatus, si celano un certo orgoglio e compiacimento per il notevole livello di qualità ed eccellenza raggiunto dagli ebrei veneziani. Dalla discussione sugli interessi bancari traspare anche una certa critica, in quanto Luzzatto cita espressamente l’esempio di altre città dove i tassi d’interesse sono ben più alti del cinque per cento. Solo la volontà del Senato e la pronta ubbidienza della comunità ebraica hanno prodotto una situazione di privilegio scaturita dall’amore per il prossimo e per la pace sociale. Certamente il tono è difensivo, ma allo stesso tempo rappresenta una concreta offensiva nei confronti del Consiglio, un caveat politico che mette in chiaro che per Venezia l’assenza degli ebrei sarebbe una notevole perdita. La considerazione undicesima introduce la seconda parte dell’opera. Luzzatto cerca nella storia, soprattutto nella storia della filosofia, personalità di rilievo, poliedriche nella molteplicità dei caratteri, anche opposti e contrastanti, al loro

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interno. Qui Socrate diviene garante della commistione delle plurime caratteristiche umane, specialmente quando affermava di “non sapere se egli fosse un solo animale, overo una molteplicità di diversi in se stessi anodati, et invilupati” (35v). Lo scopo di questa osservazione di principio è di introdurre un’argumentatio a maiori: se nel mondo individuale si riscopre questa molteplicità, tanto più ciò vale nei confronti di una nazione e specialmente di quella ebraica. Dispersi in tutte le parti del mondo, gli ebrei sono accomunati da ben poco.92 Caratteristica essenziale è, secondo l’autore, la persistenza delle dottrine e della fede, “fermezza e tenacità indicibile nella credenza, et osservatione della loro religione, uniformità di dogmi circa la loro fede per il corso di 1550 anni”93. Ciò che li accomuna è la carità umana e l’ospitalità, la distanza che non diventa una causa di disunione poiché la religione e la comunanza della stirpe li tengono insieme. Tuttavia quest’ultimo elemento non implica che gli ebrei siano immuni da ogni genere di propensione per delitti e trasgressioni. I delitti che essi commettono sono tendenzialmente di due tipi, l’uno curabile come fa il medico con purghe e evacuazioni, l’altro estirpabile con rimedi più decisivi poiché in questo caso si incorre nel rischio della propagazione e contaminazione criminale. Da ciò bisogna distinguere la cospirazione come “fellonia di un popolo, mutatione di religione, invasione di città, solevatione contro alcun ordine, e Stato civile”. Luzzatto affronta qui un tema molto difficile e pericoloso, come quello della pena comminata a causa della religione e della libertà, e, facendo riferimento al martirio, conclude che “tanto più gli stessi supplitii, e pene, sono da delinquenti stimati premii, e gloriose ricompense delle loro operazioni incontrando essi piuttosto festivamente la morte nella vendicatione della libertà, e mutatione de religione spesse volte occorre” (39r). È vero che Dio punì, in seguito all’adorazione del vitello d’oro e l’ammutinamento di Corach, tutto il popolo Su questa considerazione si veda VELTRI, “Dannare l’universale”. A questa data a cui vanno aggiunti i 70-72 anni fino alla distruzione del tempio e l’inizio della dispersione. Dunque, l’anno di composizione risulterebbe essere all’incirca il 1620/1622. 92 93

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(“Iddio voleva castigare l’universale”[39r]), ciò avvenne però per l’inclinazione dei singoli verso questi delitti. La “nazione ebrea” non ha commesso nefandezze tali da meritare in toto una punizione come l’eccidio o l’esilio universale. Le rivolte al tempo di Traiano ad Alessandria e Cipro sono da ricondurre – secondo Luzzatto - alla partecipazione ebraica al potere (“gli Hebrei partecipavano del governo delle città”[39v]). Al tempo di Tito – continua il nostro – gli ebrei “conservavano ancora alcuni semi della loro natia ferocità” [39r]). Luzzatto non mostra di sapere o almeno non dice concretamente quali siano stati i motivi dell’espulsione totale dalla Spagna. Egli ipotizza che la disgrazia è avvenuta forse a causa di 15 o 20 delinquenti che abbiano commesso latrocinio, assassinio o particolare delinquenza, oppure, un motivo interno più segreto come la cospirazione che serpeggiava in tutta la “nazione granatina”, che probabilmente avrebbe meritato l’eccidio più che l’esilio. Luzzatto afferma: “non ha dubbio alcuno che il dannare l’universale per il particolare è contra la norma naturale, et amaestramento della Legge Divina” (40r). Ogni mezzo che la società adopera può spingere all’abuso, come il ferro o come la parola stessa. Non si trova però tra i legislatori nessuno che abbia proibito l’estrazione del ferro o l’uso della parola. Dio stesso si compiaceva di trovare cinque giusti che potessero salvare una città nefanda “tanto è lontano che pochi delinquenti d’una natione siano bastevoli a provocare la publica indignatione contra l’universale di essa” (40r). La logica della considerazione luzzattiana è chiara: i delitti dei singoli devono esser pagati dai singoli e non dalla comunità, anche se questa “criminalità” riguarda la fede e la rivendicazione della libertà di coloro che non vogliono abbandonare la propria tradizione. Qui ci si potrebbe chiedere se Luzzatto si riferisca all’espulsione del 1492, oppure a critiche contro la religione ebraica che avrebbero potuto portare all’espulsione dell’intera comunità da Venezia. In ogni caso è opportuno far notare che il tema affrontato a partire da questa considerazione in poi sarà la religione e la dottrina degli ebrei in generale. Dopo aver descritto l’Ebraismo veneziano come particolarmente competente e versato nel commercio e nell’attività bancaria, Luzzatto presenta la cultura ebraica (i riti), come non “dissonante” dall’universale.

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La considerazione dodicesima affronta il tema degli atteggiamenti critici nei confronti degli ebrei da parte di tre gruppi della società: religiosi zelanti, politici e il “volgo”. Il primo gruppo si appella alla potenziale disunione causata dalla tolleranza di una religione diversa da quella costituita; i politici invece mettono l’accento sulla questione dello scandalo, del cattivo esempio e del pericolo sociale, cioè dei disordini e della disunione disseminati nel popolo a causa della presenza ebraica. Luzzatto si concentra però soprattutto sull’aspetto della calunnia riguardo l’usura e il tradimento imputati agli ebrei di Venezia, perché (falsamente) ritenuti complici dei corsari, accuse che certamente caratterizzavano la propaganda antiebraica veneziana. Proprio per contestare le imputazioni di sete di profitto e di faziosità mosse dai cristiani, nella considerazione tredicesima Luzzatto difende l’Ebraismo richiamandosi alla Legge mosaica affermando “che la Legge antica Mosaica instituì che si dovesse usar carità verso tutto il genere humano” (46r). Anche l’aspetto della guerra viene menzionato con riferimeno alla storia biblica nella considerazione quattordicesima. Infatti, Luzzatto – in questo caso discepolo di Nicola Cusano – afferma che la religione non è motivo di guerra, come dimostra la storia biblica, e aggiunge: “Benché gli Hebrei erano differenti di religione dagl’altri popoli, non gli era lecito mover guerra a lor vicino per semplice causa di quella” (51v)94. Nella considerazione quindicesima l’autore si sofferma apparentemente sulla polemica di Tacito contro le tradizioni ebraiche. Con argomentazioni convincenti, lo storico israeliano Abraham Melamed ha dimostrato che l’autore parla qui di Tacito, ma intende in realtà proporre una sua rielaborazione delle tesi di Machiavelli95. Luzzatto costruisce meticolosamente la propria argomentazione, differenziando il ruolo del rappresentante politico (“senatore romano”), per definizione immerso negli affari interni, e quello dello storico, poiché Tacito in questa veste ha trascurato il dovere morale di andare 94 Contrariamente a ciò che pensava Isaac Abravanel, si veda il suo Perush ‘al nevi’im acharonim, p. 91 e MAIER, Kriegsrecht, p. 403. 95 Si veda MELAMED, “Simone Luzzatto on Tacitus”, pp. 143-170.

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oltre i limiti della propria origine etnico-culturale, formulando e tramandando un giudizio affrettato e superficiale sugli usi e costumi del popolo ebraico. Grazie ad una logica ferrea e ad un’erudizione che non tralascia di menzionare fonti valide e riconoscibili, il Nostro smantella e ribalta persino le accuse che avrebbero potuto maggiormente prestarsi a suffragare le imputazioni di feticismo religioso, barbarie e dissolutezza nella “carnalità”. Per sfatare il mito dell’“impostura del capo asinino consacrato nel penetrale del sacro Tempio di Hierusalem” (58r), Luzzatto precisa che una serie di oggetti “furono per divin precetto posti nel sacrario” (59r), sebbene essi fossero considerati dagli ebrei mere tracce o strumenti dell’intervento divino e certamente non feticci divinizzati. L’accusa di dissolutezza morale praticata e addirittura concessa dalle istituzioni degli ebrei è confutata e smentita evidenziando innanzitutto come ciò “dalla verità assai si dilunga, non v’essendo (59v-60r) stata natione a quelli tempi più ritenuta dalle leggi proprie da comercii carnali quanto gli Hebrei”. Segue un’attenta esposizione dei differenti casi di depravazione e incesto nella storia biblica, paragonati a quelli di altre culture. Tale raffronto, unito a innumerevoli citazioni erudite, consente a Luzzatto di affermare che il commercio carnale fu ben più licenzioso e contrario al buoncostume in Grecia, in Egitto, in Persia e a Roma. D’altra parte, la sete di potere è riconosciuta come reale movente di crimini apparentemente carnali e quest’argomentazione sottilmente politica serve a rendere l’apologia particolarmente raffinata. Allo stesso modo, il “sagace Achitofel”96 (62r) diviene un Cesare Borgia ante litteram. Per difendere il popolo ebraico da un’ulteriore diffamazione riguardante la pretesa ostilità nei confronti degli stranieri, nonché la mancanza di carità verso i propri connazionali, Luzzatto ricorre a Filone e a Flavio Giuseppe, attribuendo accenti universalistici ad alcuni passi dei loro scritti97. Anche la Bibbia ebraica contiene testimonianze sufficienti a smentire tale 96 L’episodio è narrato nel II Samuele secondo la Bibbia ebraica e nel II Re secondo la Vulgata e la versione greca dei Settanta. 97 Si veda Flavius Josephus, Antiquitates Iudaicae III,7; Philo Judaeus, De specialibus legibus I,97.

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accusa. Tacito si era inoltre mostrato sprezzante nei confronti dell’“assurdità” di usi e costumi ebraici, ma, in realtà, essi non prevedono né sacrifici umani, né norme e consuetudini alimentari malsane. La considerazione, rispondendo all’accusa di superstizione rivolta da Tacito agli ebrei, intraprende una lunga disquisizione sulla strumentalizzazione di false credenze popolari, esaminate dal punto di vista religioso, morale e civile. Secondo Luzzatto, “la superstitione con monete false reprobate, et improprie per mercare, et acquistare alcuna cosa, pretende tuttavia d’impossessarsi del tutto” (68r-v). Nel mirino sono, come sempre, da una parte, l’arbitraria strumentalizzazione politica, dall’altra, la hybris dell’uomo pronto ad arrogarsi il merito dei prodigi e la comprensione del loro segreto inconoscibile per la mente umana. Infine Luzzatto argomenta in favore dello zelo, efficienza e intraprendenza degli ebrei, scagionandoli dall’accusa di accidia, spiegando le prescrizioni religiose e le cause naturali che impongono loro periodiche pause, nella fattispecie quella settimanale e il riposo previsto in occasione dell’anno sabbatico. L’ignoranza e il completo fraintendimento da parte di storici di epoche e provenienze diverse riguardo tali norme e pratiche sono dovuti principalmente, secondo l’autore, al fatto che gli ebrei sono “separati totalmente di religione, lingua, cibi, e comercii carnali et in niuna cosa quasi comunicanti” dal mondo circostante (71v). A partire dalla considerazione sedicesima Luzzatto si dedica direttamente ad una presentazione generale degli ebrei come nazione di cultura, dispersa nell’orbe da chi ne ha contrastato invano le dottrine. Così facendo, egli riprende un tema già trattato all’inizio del Discorso, quello della propagazione di una cultura, affermando che due sono le vie per meritare una memoria eterna, scopo d’ogni popolo e cultura (“qualunque popolo e natione che consacrò la sua memoria alla sempiternità…”)98, le armi o le dottrine, o per esprimere il concetto in termini storici, i Romani o i Greci. Gli ebrei furono celebri sia per l’una che per l’altra opzione. Come testimoni vengono chiamati in causa il 98

Si veda (74v): “Le guerre, le vittorie, senza li preconii, et encomii de litterarati, non sono altro che strepiti e rumori, ma le lettere e dottrine riguardano all’eternità”.

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Bellum Iudaicum di Giuseppe Flavio e la Praeparatio evangelica di Eusebio di Cesarea, opere che celebrano non solo il sapere, ma anche il valore militare della nazione ebraica. Dopo la distruzione e il dominio straniero, caddero entrambi in disgrazia. Riferendosi in un primo momento alla Grecia, la cui dottrina è sopravvissuta anche alla sconfitta politica e militare, Luzzatto passa poi a specificare che le difficoltà del Cristianesimo sotto Giuliano imperatore, che proibì la dottrina cristiana, furono ben maggiori che sotto gli imperatori persecutori (citazione indiretta di Lattanzio). Questa considerazione è anche un piccolo trattato sui differenti gruppi che esistono nell’Ebraismo storico ed a lui contemporaneo (rabbini, talmudisti, filosofi, kabbalisti)99. La diciassettesima considerazione s’incentra sulla tolleranza della presenza ebraica nelle città e sulla causa delle espulsioni. A questo punto, viene introdotto un argomento scottante per mezzo di un’idea davvero peculiare: dopo il duello della ragione si ha il costume di passare alle armi, in altre parole, chi non riesce ad opporsi agli ebrei con argomenti, ricorre alla politica spicciola. Luzzatto fa ovviamente riferimento a degli eventi storici a lui contemporanei, e in particolare al fatto che gli ebrei non erano ammessi in molti paesi (Francia, Spagna, Inghilterra) e in non poche città d’Italia. L’argomentazione è, tuttavia, infondata, poiché citare la fatalità “in materia politica è absurdità per la contingenza e diversità d’individuali accidenti” (86r). In altre parole, il fatto storico non testimonia nulla riguardo le diverse motivazioni di accettazione e rifiuto della presenza di comunità ebraiche nei singoli Paesi. La diciottesima considerazione tratta della dispersione degli ebrei e della loro condizione politica sotto i diversi principati e monarchie. Luzzatto enuncia in proposito la dottrina dell’ascesa e declino di principi ed imperi. La fine d’una nazione può implicare la corruzione assoluta oppure la trasformazione. La nazione ebraica, pur dispersa, conserva “l’identità della sua essentialità” (89r). Infatti, la persistenza della nazione è voluta dalla volontà divina. La dispersione ha reso gli ebrei obbedienti ai superiori e immuni alle possibili innovazioni 99

Su questi gruppi si veda VELTRI, Renaissance Philosophy, pp. 31-36.

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di dogmi e riti: “non potendo serpeggiare, et invadere tutto l’universale per la divisione, e distratione delle parti integranti della natione” (89v). Sul numero degli ebrei nel mondo non si sa niente di preciso, e con ciò viene messa in discussione anche la tradizione delle Dieci Tribù. Gli Stati dove vi sono ebrei vengono enumerati, così come le libertà o costrizioni di cui questi ultimi godono o da cui sono afflitti. La Turchia spicca per avere concesso la libertà di possesso di beni stabili. Terra Santa, Germania, Polonia, Lituania, la Chiesa Romana (intende lo Stato Pontificio) vengono menzionate affermando: certa è che la natione romana in alcuni articoli inclina alla romana più che alla loro opinione; tengono gli Hebrei la Scrittura Sacra in molti lochi non esser intellegibile senza il lume delle tradizioni … credono ancor che grande sia il valore delle opere meritorie (90v)100.

Luzzatto conclude ritenendo che la “natione hebraica” tanto divisa e dilaniata, conserva una certa unità di fede ed uniformità. Un’unità dovuta anche alla tolleranza dei sovrani che la proteggono ed in ciò eccelle la Repubblica veneziana. In conclusione, la seconda parte del Discorso prende le mosse dalla possibilità di espulsione della comunità intera per crimini commessi dai singoli, per poi demolire ogni possibile aggancio biblico e cavillo giuridico-politico atto a sostenere quest’argomentazione; spazia poi nel contrastare ogni critica cristiana o strategia politica volta a giustificare l’assenza degli ebrei nelle città europee e la loro estraneità al discorso culturale del tempo. L’eccellenza della cultura ebraica è radicata nell’antichità, ma anche – e qui si materializza un aspetto nuovo e peculiare dell’apologia del Luzzatto – nella struttura intellettuale della comunità ebraica del presente, di cui il Nostro tesse le lodi, in particolare per l’attività dei gruppi e la profondità delle vedute. Il messaggio politico del testo è che la comunità politica può/deve fidarsi degli ebrei perché essi sono devoti e consoni nella loro storia e nel loro presente allo spirito della costituzione veneziana.

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Su questo elemento si veda VELTRI, “... in einigen Glaubenartikeln”.

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Ambientazione storica e politico-letteraria Il Discorso è comunemente considerato un’apologia della comunità ebraica veneziana. La causa immediata che avrebbe spinto Luzzatto a scriverlo, secondo l’opinione corrente tra gli studiosi, sembra di natura prettamente contingente alla situazione degli ebrei a Venezia: nel settembre 1636, un furto clamoroso alla Merceria, a cui avrebbero partecipato anche alcuni ebrei del Ghetto avrebbe potuto portare all’espulsione dell’intera comunità da Venezia. Una parte della refurtiva fu ritrovata proprio nel Ghetto. In questo losco affare furono coinvolti anche dei nobili, il che prolungò il processo, trasformandolo in un affare di Stato. Gli ebrei rischiavano l’espulsione dalla città, pena che per alcuni di essi era stata già comminata. Con l’intento di calmare gli animi e di far luce sull’accaduto, fu nominata una commissione che aveva tre mediatori ebrei: Shmu’el Meldola di Verona, Simone Luzzatto (nominato dall’ “università degli Hebrei” del Ghetto) e Israel Conigliano, amico intimo del ministro Ser Marco Giustiniano. Questo episodio è noto, come si è detto, solo dal 1949 grazie alla pubblicazione di un documento da parte di Moshe A. Shulvass101. Luzzatto viene menzionato come l’autore di “un’opera elegante in vernacolo sugli ebrei. Essa fu presa in considerazione dai ministri che l’accolsero con benevolenza”. È probabile che qui si alluda al Discorso. Tuttavia, resta difficile appurare effettivamente se quest’opera sia già circolata prima della stampa del 1638, oppure se la cronaca suddetta gli attribuisca post eventum un ruolo che ai tempi non gli competeva. Certo è che il Discorso non ignora i motivi che nel corso della storia hanno causato espulsioni come quella degli ebrei dalla penisola iberica (1492), poi estesa al territorio sotto il controllo o l’influenza spagnola. Gli accenni alla natura fallace dell’ebreo, come d’ogni altro individuo nella società civile, sono nell’opera di Luzzatto indici di un problema diffuso nelle comunità ebraiche non solo italiane. Della criminalità del singolo, come pure delle speculazione monetarie, doveva rispondere l’intera comunità. Essa operava

101 Su questo episodio si veda SHULVASS, “Story of the Misfortunes”, pp. 1-21. Si veda anche RAVID, Economics, p. 10 e segg.

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in tal senso, e solo in tal senso, come comunità politica chiusa, uno stato, responsabile d’ogni azione dei membri. Il Discorso va però al di là di una perorazione retorica rivolta all’autorità costituita per impetrarne il favore. Leggendo le considerazioni si ha l’impressione di aver dinnanzi un trattato moderno che, superando il motivo tradizionale della protezione politica degli ebrei, si incunea nel discorso politico dell’utilità dei gruppi all’interno della società. Perciò Luzzatto rifiuta il mondo utopico e un certo comunismo ante litteram dell’uguaglianza dei cittadini, optando per un mondo di caste, come quello dell’India, che siano effettivamente funzionali nel mondo economico e sociale. Questi accenti sono nuovi e pongono l’opera luzzattiana al di sopra d’ogni altro modello politico rinascimentale e barocco soprattutto nel contesto “repubblicano” di Venezia. Sarebbe infatti problematico collocare il trattato di Luzzatto negli scaffali di storia del pensiero politico come un panegirico del governo veneziano, anche perché dopo la vittoria navale (e morale) di Lepanto (1571) il declino della Serenissima era ormai cominciato e sarebbe poi culminato con la presa di Creta nel 1669102. Quando Luzzatto scrisse il Discorso, la Serenissima non era che un pallido riflesso di ciò che era stata in passato. Perciò, sia dal punto di vista storico, sia tenendo presente il topos del mito di Venezia, il trattato non presenta caratteristiche fondamentali tali che consentano di leggerlo e interpretarlo solo come una lode di Venezia in quanto repubblica ideale, di ascendenza biblica e romana. Ciò che manca in esso è proprio l’elemento chiave caratterizzante l’usuale descrizione dei modelli politici dell’epoca, cioè fondare i principi della Repubblica Veneziana nella storia biblica (o in quella grecoromana). È bene esaminare l’opera di un altro celebre veneziano di adozione, per cogliere la differenza tra i due orientamenti politici. In effetti il topos della lode di Venezia era fiorito nella letteratura e nel pensiero cristiano del Quattrocento e 102 Sulla

storia degli ebrei a Venezia si vedano le seguenti opere, attinenti al tema specifico trattato in questa sede: RAVID, Economics; ROTH, The History of the Jews; COZZI, Gli ebrei e Venezia; ARBEL, Trading Nations.

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Cinquecento. Basti ricordare l’umanista Pier Paolo Vergerio (1370 – 1444), probabilmente uno dei primi a creare il mito di Venezia103, la cui grandezza era dovuta, a suo parere, alla posizione geografica della città e alle sue eccellenti istituzioni. Da ricordare è anche la tesi di Giorgio da Trebisonda (1396 – 1472 ca.), che vedeva nella costituzione veneziana la concretizzazione delle leggi di Platone: il Consiglio Maggiore rappresentava l’elemento democratico, il Senato quello aristocratico, mentre il Doge era il monarca104. Non si può inoltre omettere l’umanista Poggio Bracciolini (1380-1459), autore di un trattato dal titolo De laude Venetiarum105, dove, oltre alla posizione geografica, egli loda la coesione civica e le istituzioni della Serenissima. Nell’ambiente ebraico il primo a tessere le lodi di Venezia fu lo statista Yitschaq Abravanel106, padre del filosofo neoplatonico Leone Ebreo. Dopo l’espulsione dalla Spagna e un periodo a Napoli, Abravanel trovò rifugio nella Repubblica di Venezia nel 1503107, dove fece esperienza diretta del governo della Laguna. Con un procedimento esegetico le cui caratteristiche ermeneutiche erano già state messe a punto da Messer Leone nel Nofet tsufim108, Abravanel identifica la composizione del governo della Serenissima con le direttive date a Mosè in Esodo 18. A Mosè stremato dalla fatica di giudicare il popolo nel deserto, il suocero Ietro propone l’istituzione dei giudici: “Sceglierai tra tutto il popolo uomini integri che temono Dio, 103 ROBEY EASTON LAW, “Venetian Myth” pp. 3-59 Per una traduzione inglese con commento e bibliografia si veda WITT, “Pier Paolo Vergerio”, pp. 117-127. 104 Si veda MONFASANI, “George of Trebizond”, pp. 128-134. 105 Testo pubblicato in FUBINI (a cura di), Poggio Bracciolini Opera omnia, vol. II, pp. 925-937. 106 Si veda MELAMED, “The Myth of Venice” pp. 401-413; RAVID, “Between the Myth of Venice”, pp. 151-192. 107 Su Abravanel in generale e sulla sua teoria politica in particolare si veda BAER, “Don Isaac Abravanel”, pp. 241-259; KIMELMAN, “Abravanel”, pp. 195-216; NETANYAHU, Don Isaac Abravanel; STRAUSS, “On Abravanel’s Philosophical Tendency”, pp. 93-129; URBACH, “Die Staatsauffassung”, pp. 257-270; VON MUTIUS, Der Kainiterstammbaum. 108 RABINOWITZ, Judah Messer Leon; BONFIL, “The Book of the Honeycomb’s Flow”, pp. 21-33; LISS, “‘Ars rhetorica’”, pp. 103-124.

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uomini retti che odiano la venalità e li costituirai sopra di loro come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine” (Esodo 19, 21). Abravanel commenta: Tu devi dunque sapere che tutti questi differenti modi di governo, di cui ti ho parlato, possono essere rinvenuti oggi nella grande città di Venezia. Hanno costituito infatti un “Consiglio Maggiore” che è composto di più di mille persone; inoltre un altro consiglio chiamato “Pregadi”109, che consiste di duecento persone. Infine c’è il consiglio dei quaranta, chiamato Quarintia110, ed ancor un consiglio di dieci, chiamato Cosigo dei dien111. Non ho dubbi che si tratti del dettato biblico che parla dei “comandanti dei mille, dei cento, dei cinquanta e dei dieci112.

Abravanel fu talmente influenzato dalla politica veneziana da cambiare alcuni aspetti della sua teoria dello Stato, certamente sviluppata prima di ogni contatto con le istituzioni della Serenissima. La costituzione veneziana sarà considerata da lui con un modello ideale, che lo porterà ad introdurre un elemento democratico. Nel suo commento allo stesso passo dell’Esodo nel 1505 Abravanel aggiunge: “Ietro disse a Mosè di scegliere ed investire i capi secondo la sua volontà propria e selezione. Mosè al contrario disse al popolo che loro stessi avrebbero dovuto eleggersi i loro capi”113. La dimensione democratica della Repubblica Marciana, trascurata nelle lodi del Bracciolini, viene evidenziata dal teorico politico portoghese, in considerazione della sua antipatia nei confronti della monarchia. Il principio monarchico viene rifiutato categoricamente perché si contrappone a quella cesura tra regno spirituale (hanhaga ruchanit) e regno temporale (hanhaga enoshit) da lui propugnata. Il regno temporale è basato su

109 L’edizione usata (si veda nota seguente) contiene un errore di trascrizione: prgchy’’y. Il dalet è stato scambiato per uno chet. 110 Consiglio detto “Quarantia”. 111 “Consiglio dei dieci”. 112 Perush ‘al ha-Tora su Esodo 18, 13, 157a; si veda NETANYAHU, Don Isaac Abravanel, p. 168 e segg. 113 Perush su Esodo 18, 13 (fol. 31, col. 4); si veda NETANYAHU, Don Isaac Abravanel, p. 168 e segg.

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principi demo-aristocratico-monarchici. Questa teoria risale a Polibio e difende una concezione di governo misto (i giudici delle corti locali sono eletti, mentre il consiglio direttivo è aristocratico sulla base della virtù). Secondo Abravanel, il governo spirituale (sacerdoti e profeti) funge da supervisore di quello temporale, il monarca viene limitato dalla consulta aristocratica e quella elettiva. Il motivo del disprezzo per il monarca ha una radice religiosa che risale già al dettato biblico dei libri cosiddetti storici (o dei profeti anteriori). Il re vero e proprio è Dio, il sovrano temporale è voluto dal popolo (che perciò deve anche accettare le conseguenze nefaste di questa modalità di governo), che può peccare in tal senso di idolatria. Nel suo commento alla storia della Torre di Babele, Abravanel sviluppa ulteriormente questo timore di unità molteplice temporale: la torre di Babele è una conseguenza della mania di unità dal basso che vuole scalare fino alla divinità. La punizione è la diaspora delle lingue. Lo stesso tema viene ripreso da David de Pomis nel suo Breve Discorso114. Quest’ultimo dipende da Abravanel nella sua esegesi dell’episodio di Ietro e nel rifiuto della monarchia, come spiega lo statista portoghese nel suo commento ai libri di Samuele. Egli è estremamente accurato nella sua analisi volta a dimostrare la perfetta consonanza della Repubblica Veneziana con le direttive bibliche e la tradizione ebraica. Interessante è, tra l’altro, l’applicazione della profezia di Isaia 27, 1-3115 alla vittoria di Lepanto, identificando il serpente tortuoso con i Turchi, interpretati come simbolo dell’infedeltà, come aveva già fatto Gioacchino da Fiore. De Pomis scrive: Chiama il Turco ‘serpente tortuoso’ per non servar fedeltà secondo che nella dichiaratione de l’Apocalisse espone il Beato Ioachino. La vigna del possente vino è Venetia, perciochè, si come la vigna ha molti ordini de diverse vite, così questa republica tien varii ordini nell’officii del 114 Per il testo del “Breve discorso”, conservato a Modena nella Biblioteca Estense, si veda BARTOLUCCI, “Venezia nel pensiero politico”, pp. 225-247. 115 “In quel giorno visitarà Iddio, con l’arma sua dura e forte, sopra leviadan serpente fuggitivo e sopra leviadan serpente tortuoso, et occiderà la moltitudine qual è nel mare. In quel giorno la vigna del bon vino canterà a lui: ‘Io sono il Signore che salvo quella di notte, e di giorno ho di essa custodia’”.

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magistrato e sono profittevoli nell’aministratione della giustitia, a guisa della buona vite ben coltivata, che produce buon vino. È forsi non per altra cagione, questa provincia fu nomata Vinegia, che per esser paese habile a piantarvi vigne e di ciò ne da anco indicio l’essersi in luogo qui vicino conservato il nome delle Vignole, la onde Venetiae quasi vinetum; et essendo città sì magnifica, s’ha acquistato il nome della provincia, la quale per contener molti luoghi fertili di vino è stata battizzata col nome plurale.

È inutile e superfluo sottolineare qui il vezzo tutto antico-medievale, presente nella tradizione della filologia cristiana di un Isidoro di Siviglia, di fondare teoria e storia su speculazioni etimologiche (come già nella Bibbia). Che il drago (dell’Apocalisse) sia da identificare con i Turchi è un topos che incontriamo nei dipinti del primo Cinquecento di Vittore Carpaccio, della Scuola di San Giorgio degli Schiavoni116. In ogni caso la storia viene ancorata al dettato biblico sia come istituzione che come profezia, in modo consono alla retorica del Nofet tsufim. Questo elemento manca quasi del tutto in Luzzatto. Anzi, se si esaminano le citazioni antiche, è sorprendente notare quanto statisticamente gli autori “profani” siano meglio rappresentati di quelli di origine ebraica. La tradizione ebraica viene senza dubbio difesa dagli attacchi di Tacito (cioè Machiavelli): Luzzatto si sente in dovere di spiegare la tradizione biblica secondo categorie rinascimentali, senza tuttavia considerare le conquiste rinascimentali come già insite nel dettato biblico. Qual è dunque lo scopo del trattato luzzattiano? Esemplificare la vita degli ebrei come paradigma sociale e politico-culturale. Il rabbino scrive infatti un Discorso sullo stato degli ebrei ed in particolare di quelli veneziani. Il sottotitolo è un po’ enigmatico: Et è un’appendice al Trattato dell’opinioni e dogmi degli Hebrei dall’universal non dissonanti, e delli dogmi e riti loro più principali. Si è creduto di veder qui un riferimento ad un libro di Luzzatto sui dogmi ed i riti degli ebrei andato perduto. Luzzatto stesso fa riferimento a questo presunto

116 Ricavo la notizia da Guerrini, “Anticristo”, pp. 87-96, nota 38 con riferimento a Francesco de’ Allegris, La summa gloria di Venetia.

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trattato alla fine del libro: “[…] le qual cose nel trattato delli dogmi, e riti sono discussi e ventilati” (91r). È tuttavia plausibile che l’esistenza di questo trattato sia da mettere in dubbio. Un contemporaneo di Luzzatto, Leone Modena da Venezia, scrive in vernacolo un trattato sui riti degli ebrei117 nel 1617, pubblicato a Parigi nel 1637. Nella seconda edizione, stampata a Venezia nel 1638, Leone spiega i motivi della ristampa118 apportando come terzo argomento: E terzo, perché capitandovi alle mani qualch’altro componimento dove si facesse mentione, o si trattasse, de Riti, e Dogmi Hebraici, siate avvisati, che questo mio uscì stampato il primo mese dell’anno 1637 in Parigi, acciò che non mi si levi la prorogativa del luogo originario, e vi sovvenga quella sentenza Facile est inventis addere; Se ben a questo aggiungere il Decalogo non v’ha posto legge119.

Da questo testo si arguisce 1) che Leone ha inteso la natura sibillina del sottotitolo (“si facesse mentione, o si trattasse, de Riti”), 2) che non esiste altro libro diverso dal Discorso e 3) che essendo stata sua l’idea di scrivere questo trattato, il Discorso di Luzzatto non è altro che minor fatica, dal momento che aggiunge soltanto qualcosa a ciò che è stato già scoperto (citazione del proverbio latino). Leone non fraintende Luzzatto, in quanto ha capito perfettamente che il Discorso altro non è che la presentazione dell’Ebraismo in quanto comunità religiosa al pubblico universale, che ha i propri dogmi e costumi, e che offre il suo contributo economico allo Stato veneziano. La lode di Venezia, considerata un modello di governo basato sulla tolleranza, è certo una captatio benevolentiae, e in quanto tale cerca di associare l’Ebraismo alla dottrina cattolica. Il che non rappresenta tuttavia né la natura, né lo scopo della composizione, che infatti non sono altro che un tentativo di istituzionalizzare l’Ebraismo come gruppo all’interno di una struttura sociale, 117 Riti Hebraici (Venezia 1678, ristampa Bologna 1979); sull’argomento si veda COHEN, “Leone da Modena’s Riti”, pp. 429-473. 118 Il primo a far riferimento a questo testo è RAVID, Economics, p. 17, nota 10. 119 Citato da RAVID, Economics, p. 17, nota 10.

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un’istituzionalizzazione sistematicamente raggiunta attraverso una standardizzazione della storia ebraica, che talvolta, come nel caso dei Caraiti o della cattolicizzazione dell’Ebraismo, lascia il lettore perplesso dal punto di vista storico e teologico. È opportuno inoltre menzionare la concezione della storia del rabbino veneziano. Il concetto di verità storica che Luzzatto esprime è generata dal suo scetticismo: solo la verità interna, non percepita dai sensi, ha la prerogativa di essere tale, vera, e dunque indipendente dal tempo. Si tratta di un concetto approfondito poi nella seconda opera del Veneziano, il Socrate (si veda il paragrafo successivo). L’idea non viene chiarita in tutte le sue sfaccettature e implicazioni, in quanto essa è menzionata nella dedica dell’opera e nella prefazione, alludendo solo al suo nocciolo essenziale. Il rabbino veneziano si serve di un concetto del tutto inusuale, quello della “verità invita”, della verità indipendente dall’attività volitiva, che richiama alla mente la funzione di Minerva invita, dea della guerra e della sapienza. Luzzatto fa probabilmente ricorso ad un’interpretazione plausibilmente aristotelica della percezione della verità (si veda De anima, III, 3), secondo cui l’affezione emotiva dell’immaginazione può anche mentire provenendo dai sensi, ma l’espressione e formulazione del giudizio non può evitare l’alternativa tra vero e falso. La fede filosofica e politica nella verità assoluta, libera dall’arbitrio umano, è enunciata nella prefazione del Discorso, in cui Luzzatto si rivolge al suo lettore con queste parole: Mi son proposto nell’animo formare compendioso, ma verace racconto de suoi ritti principali, et opinioni più comuni dall’universale non dissonanti, e discrepanti, nella quale applicatione ho procurato con ogni mio potere, benché io sia della istessa natione, astenermi da qualunque affetto, e passione che dal vero deviare mi potesse. Così spero incontrare discreto lettore, che vacuo d’ogni anticipato, e preoccupato giuditio non sia per seguire il volgare costume, di solo approbare, e sentir bene de avventurati, e felici, e sempre dannare li abbattutti, et afflitti, ma con retto giuditio sarà per billanciare quello in tal proposito mi ha dettato la mia imperfettione (5r-v).

Uno dei fini principali dell’opera di Luzzatto è dunque di porsi su un piano storico e filosofico che lo scagioni da ogni

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sospetto di faziosità, di ricerca del proprio utile e particolare. Non è un caso che egli si rivolga ai suoi destinatari chiamandoli “amatori della verità”, cercando così di accostarsi al suo uditorio come a coloro che, pur avendo qualche cosa contro l’operato e l’esistenza stessa degli ebrei, ne riconoscano, al di là dell’affezione emotiva, il ruolo attuale e la grandezza almeno passata. Su questo punto richiama espressamente l’attenzione del proprio lettore prudente: E se coroso fragmento d’invecchiata statua, perché da Fidia overo Lisippo fusse stata elaborata appresso il curioso antiquario sarebbe d’alcun prezzo, così non dovrebbe affatto essere abborita la reliquia dell’antico popolo hebreo, benché da travagli difformata, e dalla lunga captività deturpata, poiché per comune consenso degli huomini già una volta esso popolo da Sommo Opefice prese forma di governo, et institutione di vita (6v)120.

Concludendo, non stupisce che la concezione politica propugnata dagli autori ebrei del Rinascimento e del Barocco sia un’eco della situazione politica che essi stessi avevano vissuto. Mentre però Abravanel e De Pomis sono ancora nel mondo apologetico passivo – ripercorrere la gloria ebraica fino al tempo presente, fondandola nella Bibbia – Luzzatto parte dalla situazione presente fondandola poi nella vita del popolo ebraico e nel suo riconoscersi come “nazione” e fede. Egli riconosce la forza economica della pace e della concordia, come motori della società. Vede come caratteristica storica del popolo ebraico nel corso dei secoli l’economia mercantile, e il mercantilismo, facendone un motivo di salvezza politica dal declino della nazione ebraica e della città di Venezia. In questo senso si può parlare di pensiero che nel suo piccolo rivoluziona le categorie del tempo, e soprattutto della comunità ebraica, innestandosi in quel discorso sulla “tolleranza” degli ebrei che avrà una storia del tutto particolare.

120 Si veda Macchiavelli, Discorsi sopra, Proemio B: “Considerando io quanto onore s’attribuisca all’antiquità, e come molte volte (lasciando andare molt’altri esempi) un frammento d’una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo per averlo appresso di sé”.

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La fortuna Wolfius nella sua Bibliotheca (terzo volume, 1727) fu uno dei primi nel mondo cristiano a menzionare Luzzatto, ne ricostruì la sua biografia, ricavandone notizia soprattutto da Unger, ne citò le opere121 e gli oppositori come il Morosini nonché l’episodio della cosiddetta disputa sulla profezia di Daniele122. Il nostro viene citato inoltre da Wolfius a proposito dei Caraiti123 e di Rabbi Levi ben Gershom (Gersonide)124. Il Discorso deve esser andato a ruba, se il Wolfius commenta “liber est rarissimus”125, facendone un riassunto e evidenziandone il successo riscosso in Francia (Basnage), Germania (Schudt) ed Inghilterra (John Toland). Il pensiero di Luzzatto ricompare in ambito ebraico, nell’apologia di Manasse ben Israel126 e nel pensiero politico di Spinoza127, sebbene l’autore non venga espressamente citato. Negli scritti del deista John Toland128 occuperà un posto preminente. Sarà recepito, probabilmente indirettamente, da Moses Mendelssohn nella sua Jerusalem129 e direttamente da

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Wolfius, Bibliotheca III, pp. 1150-1152. Ibidem, pp. 1127-1128. 123 Ibidem, p. 300. 124 Ibidem, p. 646. 125 Ibidem, p. 1151. 126 RAVID, “How Profitable the Nation of the Jews”, pp. 159-180. 127 SEPTIMUS, “Biblical Religion”, pp. 257-283; VELTRI, “La dimensione politico-filosofica”. 128 BARZILAY, “John Toland’s Borrowings”, pp. 75-81. A pagina 77, nota 12, l’autore cita anche Montesquieu, Lettres Persanes XL (seguito poi anche da Altmann, si veda di seguito). Nell’edizione curata da Paul Vernière non è reperibile nessuna citazione diretta o indiretta di Luzzatto. 129 Alexander Altmann menziona il Discorso di Luzzatto nella sua introduzione alla Jerusalem di Moses Mendelssohn, notando: “Es wäre reizvoll, die von Mendelssohn angeführten Argumente für die‚Nützlichkeit’ der Juden mit denen Luzzattos, Manassehs und Tolands im Einzelnen zu vergleichen. Was schon bei einer flüchtigen Gegenüberstellung ins Auge fällt, ist der neue Zugang zur Frage, den Mendelssohn in der populistischen Theorie findet. Diese Lehre, die in seiner Zeit viel Anklang fand, sieht in der Bevölkerungszunahme das wesentliche Gut und den Reichtum des Staates, 122

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Johann Friedrich Herder in Adrastea130. Confluirà poi in una maniera del tutto falsata nell’opera di Werner Sombart131. Nel 1950, dopo la catastrofe del 1933-1945, sarà proprio Luzzatto ad essere uno dei primi autori tradotti in ebraico, nell’appena costituito e proclamato Stato d’Israele. Ciò suggella quasi a mo’ di commento storico una frase scritta da Luzzatto: “s’alcuno ancora desidera indagare quali siano li loro costumi in universale potrebbe dire esser Natione d’animo molto invilito, e fiacco, incapace nel stato presente d’ogni governo politico, occupati ne loro interessi particolari, poco overo niente providi del lor universale” (37v-38r )132. Parlando del pensiero politico ebraico con riferimento esplicito a Luzzatto, è doveroso precisare che si tratta di un autore considerato finora indegno di entrare nell’Olimpo degli scrittori autorevoli presi in considerazione da Michael Walzer133. Luzzatto non si è limitato a comporre un piccolo trattato apologetico in difesa della comunità veneziana, probabilmente per scongiurare un’ennesima espulsione – come affermano i più. L’importanza del Discorso va ben al di là della situazione contingente in cui si trovava la comunità ebraica veneziana. L’elemento chiave del suo intervento nella respublica christiana venetiarum consiste nel fondare lo stato degli ebrei in una realtà politica, senza dare troppo peso all’elemento teologico. In effetti, dal Cinquecento in poi, si parla soprattutto di confessioni religiose certamente in conseguenza della Riforma protestante, ma anche a causa della creazione di stati autonomi che abbandonano concretamente l’idea di un imperium in una christianitas romana. Questo è l’elemento centrale sottolineato

und Mendelssohn macht sich diesen Gesichtspunkt völlig zu Eigen”, in ALTMANN, Introduzione, p. XVIII. 130 HERDER, Werke, vol. 10. 131 SOMBART, Wirtschaftsleben, p. 226. Vedi MENDES-FLOHR, “Modern Capitalism”, pp. 87-107; FRANKEL, Modern Capitalism; ROHRBACHER, “Stereotypvorstellungen”, 235-237; TYRELL, “Zins und Religion”, pp. 189216. 132 Su questo passaggio si veda GUETTA, “Le mythe du politique”, pp. 119-131. 133 WALZER e NOHAM ZOHAR, Jewish Political Tradition.

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esplicitamente dal rabbino di Venezia. Con il suo scritto Luzzatto dà il suo contributo nell’intento di forgiare l’identità politica di un gruppo di “derelitti”, arrischiandosi a presentare l’Ebraismo come confessione, con i suoi riti e dogmi, e gli ebrei come nazione all’interno di uno Stato. Tale “nazione” è particolarmente devota e “utile” e non aspira affatto a sconvolgere l’ordine costituito, anzi, ne è in certo senso garante per intima convinzione.

3.2. Socrate overo dell’humano sapere La stampa del Socrate del 1651 Il Socrate overo dell’humano sapere Esercitio seriogiocoso di Simone Luzzatto hebreo venetiano. Opera nella quale si dimostra quanto sia imbecile l’humano intendimento, mentre non è diretto dalla divina rivelatione esce alle stampe presso il Tomasini134 nel 1651135. L’esemplare di riferimento per la presente edizione è la copia a stampa del Collegii S.S. Rosarii, disponibile presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (60. C. 34). Il volume consta di 316 pagine di testo, cui fanno seguito 7 pagine con una “Tavola delle cose più principali contenute nell’opera”. Il testo non è suddiviso in capitoli né in paragrafi. Tuttavia al lato delle pagine figurano delle note a margine che, in un certo modo, fungono da paragrafi e che, almeno in parte, evidenziano il passaggio da un argomento all’altro e talvolta, nei discorsi diretti e indiretti, indicano il cambio di interlocutore. Talvolta Luzzatto si serve di queste note a margine per precisare i dettagli delle fonti che cita direttamente nel corpo del testo. Infine le diciture di queste note sono usate nella “Tavola delle cose più principali” proprio per andare a formare l’indice degli argomenti con relativi numeri di pagina. A differenza del Discorso, che ha una natura saggistica ed è 134 Probabilmente si tratta di Cristoforo Tomasini, stampatore fiorentino attivo anche a Venezia. 135 Anche Shmuel David Luzzatto, nella prima parte della sua autobiografia, in cui dà alcune notizie storico-letterarie sulla sua famiglia, afferma che il Socrate è stato pubblicato nel 1651 e non nel 1613, come sostengono Wolfius e De Rossi (si veda SHADAL, Autobiografia, “Prima parte”, p. 15).

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suddiviso in considerazioni, il Socrate ha una struttura piuttosto omogenea. Esso è anche rivelatore dei progressi della stampa avvenuti tra il 1638, data di pubblicazione del Discorso, e il 1651. Il sistema di numerazione delle pagine è cambiato: nel Discorso è ancora usato il criterio di paginatura del recto/verso, nel Socrate la numerazione delle pagine è progressiva, come nei libri moderni. Nel presente volume si è voluto presentare al pubblico italiano una nuova edizione del Socrate, che è la prima dopo quella veneziana del 1651. Così facendo si intende, innanzitutto, far conoscere il pensiero filosofico di Simone Luzzatto ad un pubblico più ampio rispetto al passato. In questo paragrafo introduttivo si proporrà innanzitutto un riassunto del Socrate136, tentando di evidenziarne i punti salienti. Successivamente si farà una rapida ricapitolazione dello status quaestionis a riguardo e si indicheranno alcune potenziali direzioni per ulteriori indagini.

Struttura Socrate è il protagonista dell’opera e la tesi centrale che Luzzatto vuole proporre ai suoi lettori è che la ragione umana deve essere guidata dalla rivelazione divina137. Alla dedica di due pagine al “Serenissimo Principe et eccellentissimo Collegio”, ovvero al Doge veneziano Francesco Molino, fa seguito una nota che introduce tre lunghe pagine di errata corrige intitolata “l’autore e stampatore”. Proprio da questa nota sembra possibile arguire che Simone Luzzatto si sia improvvisato anche ‘stampatore’ del volume e per questa ragione egli chiede al

136 Si seguirà innanzitutto la falsariga del sunto proposto dallo stesso Luzzatto nell’introduzione all’opera. Per quanto riguarda altre impostazioni si vedano in particolare RUDERMAN, Jewish Thought, capitolo 5 “Science and Skepticism – Simone Luzzatto on Perceiving the Natural World”, pp. 153184, pp. 164-172 e VITERBO, Socrate nel ghetto, pp. 30-52 (in ebraico) e dello stesso autore “Socrate nel ghetto”, pp. 79-128. 137 David Ruderman (Jewish Thought, 161) ha fatto notare la praticità di questa affermazione, che nell’Italia della Controriforma andava incontro alle necessità della comunità cristiana ed ebraica insieme, in quanto con questa impostazione Luzzatto avrebbe ottenuto l’assenso di entrambe.

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benigno lettore di essere indulgente di fronte ai numerosi refusi tipografici. Il libro vero e proprio ha inizio con una dedica “Al benigno lettore” (pagine 1 e 2) in cui Luzzatto spiega i motivi che lo hanno indotto a scrivere il Socrate: Il fare passaggio per questo mondo senza imprimervi vestigio alcuno, è comunemente stimato vano viaggio et inutile tracorso. […]. Sono stato ancor io dalla natura chiamato a transitare questo sentiero mondano, per il che ho giudicato convenevole lasciarvi alcuna orma, ché se poi in breve, come stimo, il calpestio d’altrui la deturbi, overo il tempo l’abolisca, poco di ciò mi curo, havendo il mio devere eseguito (1).

Secondo Luzzatto è dovere morale di ciascun uomo lasciare un segno del proprio passaggio sulla terra. Benché l’autore affermi con modestia di avere solo fatto il proprio dovere, l’eco del topos letterario inaugurato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso (I, 22,4), che considerava la sua opera un “possesso per l’eternità” (ktema eis aiei), non può sfuggire. Plinio nelle sue Lettere e Orazio nelle sue Odi riprendono questo topos con riferimento specifico all’opera letteraria in quanto orma di sé, che garantisce una vita oltre la morte138. È questa una delle tante prove della profonda conoscenza delle lettere classiche che Luzzatto doveva avere. Infine resta difficile non rievocare qui anche l’affettuoso riconoscimento di Dante a Brunetto Latini che gli aveva insegnato “come l’uom s’etterna”139. Dante era 138 A riguardo si veda Plinius, Epistulae III, 7, 14: “Sed tanto magis hoc, quidquid est temporis futilis et caduci, si non datur factis (nam horum materia in aliena manu), certe studiis proferamus, et, quatenus nobis denegatur diu vivere, relinquamus aliquid, quo nos vixisse testemur!”. [Ma a maggior ragione, questa età breve e caduca dobbiamo prolungare, se non ci è concesso con le azioni (giacché l’occasione di esse è in potere altrui) almeno con gli studi, e, poiché ci è impedito di vivere a lungo, cerchiamo di lasciare qualcosa che attesti che abbiamo vissuto]!. Per quanto riguarda Orazio, si veda Carmen III, 30, 6: “Non omnis moriar” (Non morirò completamente). Si ringrazia il Dott. Gianfranco Miletto per la segnalazione di questi riferimenti. 139 Dante, Inferno, XV, 82-85. Parlando con Brunetto Latini, suo maestro, Dante dice: “ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, / la cara e buona immagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna”.

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infatti uno degli autori preferiti di Luzzatto. Tuttavia bisogna notare, come propone Ruderman, che in realtà il riferimento a questo topos letterario resta una motivazione debole140, o quanto meno generica, anche se ovviamente, nobile. Nella dedica infine l’autore ribadisce l’intento dell’opera: Confuta Socrate il sapere humano, non l’inspirato et infuso da mente superiore, avanzandosi da tale divisamento che riconoscendosi la fiacchezza del natio nostro intendimento, si rendiamo flessibili alli sentimenti et attestationi delle sacrate lettere (Ibidem).

Queste righe sono la ripetizione della versione ‘ufficiale’ già proposta nel titolo del volume. Dopo la dedica Luzzatto riassume in due pagine l’antefatto che dà l’avvio a tutta la vicenda, spiegando il motivo per cui Socrate si trova nuovamente sotto processo (pagine 3 e 4). Solo successivamente, alla pagina 5, si apre il trattato propriamente detto. Prima di entrare nel vivo della questione, vale la pena di segnalare preliminarmente il tema della rappresentazione del processo come rappresentazione teatrale. È da ricordare che già l’aggettivo “serio-giocoso” si riferisce molto probabilmente all’opera musicale del melodramma, fiorita proprio nel XVII secolo, i cui inizi si fanno risalire al poeta fiorentino Ottavio Rinuccini (1560 - 1621). Il Socrate di Luzzatto si autodefinisce un prodotto tra il serio e il giocoso, da intendersi nel senso di rappresentazione dei caratteri molteplici dell’anima umana, un tema che Luzzatto, richiamandosi a Socrate, aveva già prospettato nella Considerazione XI del Discorso. Non è certo questa la sede appropriata per addentrarsi nella questione del rapporto tra musica, teatro e filosofia. Bisogna però sottolineare che il richiamo al teatro rammentava al lettore contemporaneo di Luzzatto anche il motivo del theatrum mundi, inteso come la rappresentazione cosmologica e enciclopedica del mondo, in quanto macrocosmo ed organo del sapere, che era una concezione molto diffusa nel XVI e XVII secolo. Proprio in questo periodo il teatro, oltre all’apporto di Shakespeare, aveva conosciuto l’opera riformatrice anche dal punto di vista 140

Si veda RUDERMAN, Jewish Thought, p. 162.

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tecnico di Lope de Vega e di Calderon de la Barca141. Tale motivo ricorreva frequentemente anche nella cultura filosofica del tempo. Inoltre la metafora theatrum mundi era diffusissima nella letteratura teologica, come dimostrano il caso del teologo probabilista Juan Caramuel142. Non è dunque un caso che tale metafora del teatro del mondo sia evocata molto spesso anche da Luzzatto nel Socrate, la cui vicenda si apre a Delfi, in occasione dei festeggiamenti per l’apertura dell’Accademia riformatrice dell’umano sapere. Durante l’assemblea inaugurale, che si tiene nel tempio di Apollo, viene ritrovata nel “recetacolo per raccogliere le denuntie secrete d’assordi che circa le divolgate dottrine si comettono”(3) una lettera con una doléance e un plaidoyer che la Sapienza rivolge all’assemblea: essa si dichiara prigioniera del principio di autorità e delle sue “due industriose ministre, fama e consuetudine”(6), che l’hanno svilita e inaridita. La Sapienza chiede dunque di essere liberata dai suoi ceppi in modo da poter restituire alle dottrine umane il loro perduto splendore e al genere umano una rinnovata dignità. Pitagora e Aristotele, qui identificati al principio di autorità dello ‘ipse dixit’, pretendono che di tal richiesta non si faccia nulla. Tuttavia l’assemblea decide di procedere: essa delibera di lasciare provvisoriamente in libertà la ragione e di collocare un ‘recetacolo’ presso la porta dell’Accademia dove chiunque possa denunciare dottrine e opinioni errate, fallaci o da correggere “senza incorrere nella desplicentia di loro autori” (10). In seguito a questa decisione Socrate si ritrova accusato di essere “eversore delle dottrine umane” per i suoi “captiosi argomenti, cavilose instantie, simulate ironie, delusorie interrogationi, et inconcludenti induttioni dedotte da legnaioli, selaii, et calzolaii, e simili” (Ibidem) e per essersi pronunciato a favore della “sospensione del giuditio e retentione dell’assenso” (10-11). L’unico ad opporsi all’avvio del processo è Senofonte che, con un certo pragmatismo, volto a sottrarre il maestro al 141 Sulla questione esiste una nutrita bibliografia, a titolo di esempio si rimanda qui a MC GAHA (a cura di), Approaches to the Theater of Calderón, e NITSCH, Barocktheater als Spielraum. 142 Si veda MILETTO, Glauben und Wissen , pp. 134-135.

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giudizio, fa notare che sarebbe meglio non procedere affatto. Egli sostiene che un processo e una condanna andrebbero in ogni caso ad incrementare la fama di Socrate, mentre se si lasciassero cadere le accuse, l’intero affare sprofonderebbe nel silenzio e la posterità non avrebbe notizia né di Socrate né delle sue dottrine, siano esse eversive o meno. L’opinione di Senofonte resta inascoltata e l’imputato viene convocato a comparire davanti al tribunale. Ha così inizio la lunga arringa di Socrate (pagine 13-314), strutturata sotto forma di un monologo in cui egli riporta le sue varie discussioni coi sapienti del suo tempo sul sapere. Dopo quest’arringa si decide che cosa si debba deliberare (pagine 314-316) e, seguendo il suggerimento di Platone, si decide di sospendere il giudizio. Dopo aver preso la parola Socrate spiega ai giudici i motivi che lo hanno indotto a pronunciarsi in favore della sospensione del giudizio: Et hora molto più di prima mi rimane probabile, che niuna opinione si trova appo l’homo di tal ferma esistenza, che al tormento del nostro importuno discorso alla fine non ceda e si pieghi, e che non vi sia oggetto rappresentato all’intelletto, che non prenda quel visaggio et apparenza, che egli li somministra e sugerisce. Onde perciò li apprensibili in tanto essistano, in quanto che dalla nostra mente l’è prestato formalità et apparenza (14).

L’uomo possiede solo opinioni che non possono resistere all’assalto ‘dell’importuno discorso’. Da queste prime pagine traspare immediatamente la padronanza che Luzzatto ha della terminologia filosofica del tempo. È il caso, ad esempio, del termine ‘discorso’ che fa varie volte la sua comparsa nel corso della narrazione, e che in alcuni contesti, come in questo caso, sembra alludere al logos dei filosofi greci. Se gli ‘apprensibili’ esistono solo perché è la mente umana a dar loro ‘formalità et apparenza’, è possibile trarre da tale insegnamento le linee generali di un vero e proprio progetto di stile di vita: Ma che li miei insegnamenti siano tali che tranquillare l’animo humano possino e che dispongano altrui a divenire felice, da ciò probabilmente giudicare si può, che essendo le impetuose perturbationi che agitano et infestano l’animo

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humano nelle false opinioni fondate, e radicate, il proprio e germano rimedio di sedare tali flutuationi è lo sbarbicare da noi questi tali openioni. Né altrimente ciò si può eseguire, se non con lo far sortire evidente, che incerto sia il concetto che tenimo del vero e falso, da cui dipendono le openioni de quali siamo tanto tenaci e partiali (15).

La sospensione del giudizio può portare, secondo Socrate, alla tranquillità interiore e quindi alla felicità. Tale tranquillità dell’animo si contrappone alla vertigine che egli ha provato quando, addentrandosi nello studio della filosofia, ha scoperto che le opinioni riguardo ‘i primi principi dell’universal esser delle cose’ erano molteplici e contrastanti fra di loro: Ma nella filosofia, alquanto in essa internandomi, in difficoltà inestricabili mi conducevo, onde a tal segno divenne la mia mente confusa e turbata, che la vertigine delle irreconciliabili altercationi e contraposte et equilibratte opinioni il lume del discorso di essa mi abbagliò, e quasi affatto spense. Il che tanto più mi turbò, osservando io che circa li primi principii dell’universal esser delle cose, tanto varii e repugnanti ritrovansi li pareri delli più insigni cultori della filosofia (16-17).

Partendo da questi presupposti e soprattutto nell’intento di verificare che cosa sia il sapere e se la sospensione del giudizio sia una giusta posizione, Socrate s’impegna in varie discussioni con numerosi filosofi greci. Sottopone a disamina varie opinioni chiamando in causa Cratilo, Protagora, Anassimene, Senofane, Parmenide, Melisso, Eraclito, Democrito, Talete, Empedocle, Pitagora, Anassagora, Orfeo, Platone, Aristotele, e per finire anche gli ‘affumicati chimici’, ovvero gli alchimisti, riguardo a ciò che compone l’universo. Socrate si dichiara drammaticamente più che mai smarrito, inscenando il dubbio metodico, struttura poi della sua disamina del sapere umano: Presi a sospettare della imbecilità dell’humano sapere. […]. Da quindi parimente cominciai a dubbitare che noi homini non siamo altrimente provisti de organi e facultà sufficienti ad apprendere e riconoscere la verità e che le prime basi e fondamenti, sopra li quali si erge l’edificio della humana sapienza, non siano altrimente fermi e stabili, ma arbitrarii e posti da noi a capricio, come accadere suole ad alcuni giochi et in particolare di scachi, che altro tanto che le dedotioni e consequenze riescono necessarie, le

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prime positioni sono affatto contingenti e volontarie (23).

Da qui la necessità di scandagliare se stesso e di meditare su cosa sia il sapere e quali siano i suoi primi fondamenti. Immediatamente gli oggetti esterni, i sensi e l’intelletto e lo stesso sapere iniziano a contendersi il primato “su quale di essi precedere dovesse nell’esame e discusione da me instituita” (Ibidem). Dopo aver esaminato le varie argomentazioni, Socrate non riesce a decidere a chi spetti la preminenza. Da questa constatazione deriva un lungo dialogo con Gorgia da Leontini, da cui Socrate spera di poter avere qualche lume. Però anche quest’ultimo, incalzato dalle domande del suo oppositore, approda a sua volta alla conclusione che l’unica decisione giusta altro non sia che la sospensione del giudizio: Non mi rimane per hora altro che amichevolmente avisarti, che ritrovandoci noi in tali roversciati meandri, et invilupati laberinti, restandoci smarita la via di proseguire et afferare la verità circa l’esistentia universale delle cose, che per l’avenire da qualunque resoluta assertione affermativa, over negativa ti astenghi, havendo ambe queste bisogno di tali dittioni ‘è non è’, il che tu esequendo, probabilmente stimo presagire, che doppo lunghi contrasti et importune oppositioni, che da malevoli ti saranno intentate, riuscire devi per tal circonspetta modestia, e cautelosa ritrosità, non solamente appregiato da molti di tuoi coetanei e comendato dalla indifinente posterità, ma oltre modo grato alli dèi, che dalli tesori della Sapienza, ad essi solamente riserbati, ti astenesti, e no ardisti porvi profana mano, né con sacrilega lingua osasti vanamente milantarti di possedere la sincera verità, che ad essi è appropriata (62).

La sospensione del giudizio conduce però ad un effetto moralmente non accettabile: quello di abbandonarsi all’ozio, non congeniale alla conditio humana. Di fronte a tale deficienza dell’essere Socrate decide di proseguire la sua indagine filosofica143. Torna dunque ad esaminare il ruolo degli oggetti esterni, dei sensi esterni (in particolare il tatto e la vista), di quelli 143 Gli argomenti addotti da Luzzatto in questo esame dei sensi meriterebbero un esame più approfondito. Si rimanda ad una pubblicazione prossima che si occuperà delle fonti e della struttura dell’argomentazione luzzattiana.

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interni (ovvero di tutto ciò che attiva il sentire come orientato verso l’interno) e dell’intelletto, che si rivelano tutti ‘imperiti’ e incapaci di fondare il sapere su basi sicure. A Socrate non rimane che rivolgersi al fine stesso del sapere: Non ragiono hora di fini accessorii, et adventitii, come sarebbero le ricchezze, honori, autorità, et altri simili, ma parlo di quell’ultimo scopo e bersaglio a cui dirige et incamina lo sapere humano (166-167).

Anche in questo caso, l’indagine non dà risultati irreprensibili, capaci cioè di resistere ad una rigorosa indagine filosofica. Socrate torna ad interrogarsi su che cosa sia il sapere, “come ultima meta” del suo “mentale viaggio” (174). Confutando tutte le quindici ipotesi suggeritegli da vari filosofi, non gli rimane che aderire alla proposta di Cratilo, secondo la quale quasi a mo’ di ritornello scettico e ritornando alle premesse già adombrate prima, il punto di arrivo del sapere umano non può che essere la sospensione del giudizio: Per il che, amico Socrate, lasciamo hormai cotali anfratti e spinosità a quelli che per loro colpa li fu destinato tal faticoso impiego, e noi raccogliendo le vele del nostro discorso terminamo hormai questo nostro mentale viaggio, e nel probabile approdamo, ridotto se non al pari del porto della verità sicuro che solamente ad Iddio è appropriato, almeno esso è tale che vi potemo in esso alquanto ancorare e fermare, difendendoci alquanto dalla tempestosa flutuatione che in questa nostra travagliata vita ci occorre (235-236).

Il “probabile” è il traguardo di un lungo percorso di metodo e critica filosofica che sono a loro volta oggetto di una profonda analisi e riflessione. Esso aveva già fatto la sua prima comparsa nelle opere di Luzzatto, e precisamente durante la redazione del Discorso, in cui è menzionato come criterio metodologico che permea di sé tutto il lavoro: Et in questo Discorso mi son proposto seguir a guisa di nuovo accademico il probabile, et il verisimile, non come matematico l’assoluto demonstrabile, et irrefragabile (30r).

Tralasciando le origini e gli sviluppi del concetto di probabile nello scetticismo, è forse degno di nota che proprio negli anni

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trenta del XVII secolo, il teologo cattolico Juan Caramuel, sopra già menzionato, aveva messo al centro del dibattito il tema del probabile144. È opportuno far notare che Caramuel fosse a sua volta legato ai temi discussi negli sviluppi del teatro spagnolo, da Calderon a Quevedo, i quali avevano trasformato la vita nel gran teatro del mondo. Anche nel mondo cattolico – humus delle speculazioni di Luzzatto – si cominciava a prendere atto del fatto che le fondamenta del sistema tomistico si stavano disgregando – o erano già del tutto messe a repentaglio –, insieme all’impostazione aristotelica che le fondava. Questo comportava che la coscienza filosofica, supportata dalla ragione naturale poiché si rifiutava di prendere partito di fronte all’oscurità dell’essere, fosse obbligata o a rifugiarsi nello scetticismo, o a cercare altre strade. Dal momento che la vita pratica richiedeva necessariamente l’intervento della norma, essa non poteva più scaturire dalla ragione, ma necessariamente dalla volontà. Se l’essere in sé delle cose è inconoscibile e se la norma naturale non è immediatamente accessibile, poiché le circostanze della vita e l’urgenza della storia impongono di fare le proprie scelte, non ci si può affidare che al probabile. Non ci si può affidare quindi che alla propria coscienza, che nella situazione specifica decide quel che più probabilmente ha valore etico. A questo stadio della ricerca145 non si può affermare con certezza se Luzzatto abbia letto Caramuel; di certo le tendenze sono molto simili. Nel Discorso il probabile non si fonda come Luzzatto stesso dichiara, sulle verità assolute e inoppugnabili propugnate dai matematici, che noi chiameremmo assiomatiche. Esso sembra, invece, poggiare più sulla fronesis aristotelica, e cioè sulla capacità di giudicare flessibilmente nella maniera più opportuna. Nel Socrate, invece il contesto cambia, in quanto la discussione è prettamente filosofica e non economico-politica. Il senso del probabile è dunque qui contrapposto, proprio come accadeva nell’impostazione dei teologi probabilisti, per questa ragione sospetti di eresia, al dogmatismo di Aristotele e dei suoi 144 PISSAVINO (a cura di), Le meraviglie del probabile; PASTINE, Juan Caramuel, in particolare alle pagine 1-25. 145 Uno studio molto più dettagliato sulle fonti di Luzzatto apparirà a breve.

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seguaci. Contemporaneamente esso assume dei contorni più ampi, delineati da Cratilo: Altro non stimava che fosse il probabile, che quel subitaneo barlume che ci si appresenta in distinguer il bene dal male, offerendosi alla nostra mente senza che dal vehemente e spermuto discorso sia agitato e depravato, riuscendo egli a tutto il genere humano chiaro e sereno, se da nostri stentati cavilli non fosse oscurato et obtenebrato, accadendo ad esso probabile siccome avviene nell’effusione del vino, che quello che prima esce dal doglio è più sincero, ma ciò che nel profondo del vase si ritrova più fecioso e torbido riesce (236).

Il “subitaneo barlume”, che ha il valore di un’intuizione più che di una logica deduzione, ha la funzione di indurre l’uomo all’umiltà di una visione ridotta, alla maniera dello sguardo monodimensionale di Polifemo: cioè: “Concludo dunque”, diceva Cratilo, “il mio ragionare. Se come occhiuto Argo non potemo riconoscere l’esata verità, contentare si dobbiamo ch’a guisa di monocolo Polifemo scorgere ciò che ad essa tiene alcuna assimiglianza, ché se oltre|modo circa essa saremo curiosi deveniremo alla fine come il cieco Tiresia, affatto di lume e vista, privi e cassi (236-237).

Socrate sembra voler abbandonare la partita e rivolgersi all’indagine “del modo di reggere l’usi della vita, et ordinare li nostri affari” (237), nella speranza di poter ricavare da essi una conoscenza più solida. Prosegue quindi nella discussione soffermandosi sulla definizione della prudenza. Anche in questo caso egli riesce a confutare le nove definizioni che gli vengono proposte. Come avrà già intuito il lettor prudente, Socrate non aveva altro scopo che dimostrare il detto delfico e giunto alla fine del “lungo e travaglioso viaggiare” (255), egli si ritrova “d’ogni sapere privo” (Ibidem). Tuttavia non si rattrista di ciò, in quanto ora si è finalmente liberato dal dubbio. Non gli rimane che decidere se diffondere quanto ha scoperto e sostenere pubblicamente la sospensione del giudizio, oppure rifugiarsi nell’atteggiamento anche tipicamente scettico del silenzio. Dopo un’ultima discussione con Ippia, che gli consiglia di tacere, e con Timone, che lo invita ad esprimersi pubblicamente,

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Socrate decide di seguire il parere di quest’ultimo e di parlare pubblicamente della sospensione del giudizio. Alla fine della lunga e ben argomentata arringa, messa di fronte alla necessità di emanare un verdetto, l’Assemblea non riesce a deliberare. Molti dei suoi membri infatti sono non soltanto favorevoli all’assoluzione ma anche propensi a premiare Socrate per la sua dottrina della sospensione del giudizio. Alcmeone, “di setta pitagorica” (315), si pronuncia in favore della condanna con tono perentorio. Platone al contrario ritiene ragionevole una diversa soluzione: Che l’istesso instituto ch’egli [Socrate] tiene nel giudicare le cose che se li apparano, dobbiamo ancor noi verso di lui praticare. Ratiene egli il suo assenso, e noi sospendaremo circa esso il nostro giuditio, né ad alcuna decisione peremptoria pro nunc diveniamo arrestando la sentenza difinitiva, insin tanto che ci emerga alcuna più evidente instanza che ci conduca ad assolverlo over dannarlo (315316).

Su proposta di Platone, discepolo del Socrate, l’assemblea si dichiara favorevole a sospendere il giudizio. Tale soluzione soddisfa alcuni dei sapienti, ma non il volgo “non essendo seguita l’assolutione” (ibidem).

Status quaestionis della ricerca sul Socrate Quest’opera appartiene alla maturità filosofica di Simone Luzzatto e ha conosciuto fino al presente minor fortuna. Anche se il tema dello scetticismo, trattato dal nostro, appartiene al canone della storia della filosofia nelle università europee e americane, la sua opera non è stata studiata, letta o commentata, che da pochissimi studiosi. L’approccio luzzattiano allo scetticismo antico, medievale e moderno è poliedrico e allo stesso tempo dettagliato. Egli, primo ebreo ad approfondire una tale indagine filosofica, non ha ottenuto l’attenzione del pubblico dotto. Quest’ultimo s’interessava ad altri autori contemporanei, anche marrani146, tralasciando il pensiero ebraico secentesco. 146 Si veda VELTRI, Renaissance Philosophy, pp. 244-245 e MULSOW, “Cartesianism, Skepticism and Conversion to Judaism”.

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Ciò limita anche il raggio d’indagine e la profondità di analisi di questa edizione, che non può compensare tout court secoli di mancata ricerca, ma che si propone di essere, per il momento, un incentivo ed uno stimolo per la comunità accademica. Tra i primi a proporre un breve e sommario riassunto del Socrate vi è Heinrich Graetz147, che nel ricostruire la formazione intellettuale di Luzzatto si sofferma sul suo talento in matematica e sulla sua solida conoscenza della letteratura antica e moderna148, che traspare anche dal Socrate, che Graetz definisce una “parabola”, scritta da Luzzatto nella sua giovinezza149. Nel suo riassunto, Graetz si concentra su un aspetto che, a giusta ragione, egli considera centrale: Socrate nella sua lunga arringa afferma che la ragione e l’autorità dei testi rivelati non possono avere in esclusiva un’assoluta signoria sugli affari umani, ma entrambe devono contribuire a realizzare questo scopo. Secondo la sua interpretazione, l’uomo sarà in grado di raggiungere tutti i suoi obiettivi in questo mondo e in quell’altro solo se la ragione e la rivelazione si completeranno a vicenda. Si tratta della dottrina dell’equilibrio tra fides et ratio. Come giustamente sottolinea Graetz questa dottrina si era imposta quasi come un luogo comune dall’epoca di Maimonide in poi. Egli aveva impostato il problema in questo modo per contrastare la dottrina di Averroè, secondo la quale ragione e fede hanno due distinti campi di investigazione e di illuminazione e vanno tenute separate, proprio come vanno tenute separate le verità di fede dalle verità di ragione. La dottrina dell’equilibrio tra fides et ratio fu assunta e rilanciata da Tommaso d’Aquino e divenne un punto di riferimento fisso per tutta la scolastica successiva. A tal proposito occorre precisare che la scolastica, sebbene dopo la contestazione di Lutero fosse andata incontro ad un periodo di declino, nel seicento conobbe poi una nuova fioritura (per questo fu ribattezzata seconda scolastica), la quale ribadì la Si veda GRAETZ, Geschichte, vol. X, pp. 150-151. Si veda Ibidem. 149 Si veda Ibidem, p. 150. I motivi per cui Graetz sostiene che Luzzatto scrisse il Socrate quando era ancora giovane non sono ben chiari. Forse seguiva le indicazioni di Wolfius e De Rossi, poi emendate da ShaDaL. 147 148

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dottrina dell’equilibrio tra fides et ratio, ma lo fece introducendo anche nuovi elementi. Alcuni suoi rappresentanti ritennero che la ragione naturale dovesse per l’appunto aprirsi al riconoscimento di quelle, usando la terminologia di Caramuel, furono chiamate ‘le meraviglie del probabile’. Questo attesta un mutamento significativo degli orientamenti speculativi che merita di essere messo in evidenza e che costituisce uno degli elementi della situazione culturale con la quale Luzzatto si confronta. L’altro elemento è quello opportunamente messo in evidenza da Graetz, e cioè la diffusione della Kabbala lurianica che affascinava e catturava sempre nuovi seguaci, e alla luce della quale il concetto di equilibrio tra fides et ratio diventava un concetto audace che sfiorava l’eresia. Aver tenuto ferma questa dottrina da parte di Luzzato dimostra, secondo il celebre storico, che egli non si lasciò incantare dalle dottrine kabbalistiche ma, pur essendo un uomo di fede, fu in grado di rimanere sobrio ed equilibrato150. In definitiva Graetz interpreta il Socrate alla luce delle inquietudini che travagliavano l’Ebraismo dell’epoca e in particolare alla luce della contrapposizione tra Kabbala e filosofia razionalista151, sottolineando il fatto che Luzzatto si sia schierato con quest’ultima. Per quanto riguarda il pubblico italiano, a cui il nostro intendeva innanzitutto rivolgersi, bisogna aspettare alcuni ricambi generazionali prima che il Socrate venga letto. D’altra parte si può certamente convenire con Shmuel David Luzzatto che sostiene che Simone Luzzatto era “meno conosciuto forse di quanto meritasse”152, ma che affiancava “a grande dottrina rabbinica molta classica erudizione ed un profondo sapere in politica e in filosofia”153. Egli propone a sua volta un riassunto del Socrate, ma non lo discute approfonditamente. Si limita a menzionare en passant la questione dello scetticismo che traspare dall’opera con malcelato imbarazzo e con un tono d’indulgente giustificazione154. Conclude infine osservando che 150

Si veda Ibidem, pp. 150-151. A riguardo si veda la pagina precedente. 152 LUZZATTO, Autobiografia, pp. 13-14. 153 Ibidem, p. 14. 154 Vale la pena di riportare di seguito le righe di ShaDaL: “Era il secolo 151

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l’opera è scritta “in uno stile facile ma non pertanto con molta erudizione e filosofia”155. Quest’ultima osservazione non corrisponde certo a verità, almeno secondo i criteri moderni di valutazione letteraria. Al lettore contemporaneo lo stile di Luzzatto non può che risultare ampolloso in quanto è costruito secondo un periodare latineggiante, che segue le regole della sintassi e della punteggiatura del XVII secolo. Tuttavia non si può fare a meno di notare che allo stesso tempo l’autore si serve di un italiano vivo che si caratterizza anche per una ricchezza lessicale che spazia dalla terminologia aulica di natura legale, ai latinismi, per poi essere vivacizzato da parole tratte dal lessico del dialetto veneziano e da altre di origine spagnola (rimane da chiarire se si possa parlare di caratteristiche della lingua parlata all’epoca a Venezia, oppure di un lessico introdotto nella Serenissima da quegli ebrei sefarditi in fuga dalla Spagna). Tuttavia, da questo punto di vista, il testo di Luzzatto sembra rappresentare un’argomentazione che suggerisce almeno di sfumare la tesi secondo cui proprio nel XVII secolo si consolidava una situazione di “diglossia perfetta” tra il toscano e la parlata dialettale156. I tre contributi più recenti sul Socrate e sullo status quaestionis che lo concerne sono quelli di David Ruderman, di Ariel Viterbo157 e del curatore di questo volume. In questa sede si rievocheranno dunque le fasi salienti del dibattito. Ruderman discute accuratamente i riferimenti scientifici presenti nell’opera per poi soffermarsi sull’influenza di Montaigne e del pensiero di Cartesio. L’autorità di Aristotile era scossa: la Scolastica che si era tanto adoperata a conciliare la filosofia colla teologia era caduta in dispregio; i sistemi degli antichi filosofi greci tornarono in voga, e le più salutari credenze minacciarono di smarrirsi. Il nostro Simeone Luzzatto, filosofo molto erudito e nello stesso tempo uomo religioso, credette giovevole alla fede e insieme utile per la società il porre in piena luce l’incertezza delle umane speculazioni, non già per condurre gli uomini allo scetticismo, ma per umiliare la temerità dei falsi filosofi, e porgere ai credenti le armi contro i loro attacchi”. (Autobiografia, p. 16). 155 Ibidem, p. 15. 156 A riguardo si veda MARCATO, “Il Veneto”, in particolare p. 320. 157 RUDERMAN, Scientific Thought, pp. 154-156.

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scettico del XVII secolo. Egli pone in particolare un problema: perché Luzzatto nel titolo dell’opera afferma che la rivelazione deve guidare la ragione umana e poi nel testo non fa alcun riferimento a tale rivelazione? Forse, ipotizza Ruderman, egli aveva un’attitudine ambivalente nei confronti della religione: da un lato un ossequio formale per i riti e dall’altro un rifiuto dei concetti che erano alla base di essa medesima Si può qui affermare che questo punto è veramente importante perché è in questo modo che in ambiente libertino, dallo Charron del De la sagesse in poi fino ad altri pensatori di stesso indirizzo (La Mothe le Vayer, Gabriel Naudet, Pierre Gassendi e Guy Patin) descritti nel libertinage érudit158, fu letto il rapporto fides et ratio di Montaigne. Questi avrebbe enunciato il suo ossequio al primato della fides per poi dedicarsi esclusivamente all’analisi della ratio, giungendo, su questo terreno ad uno scetticismo interrogativo e positivo. Un’impostazione che indirettamente concludeva alla difesa delle prerogative della ragione proprio come sembra esser presentato nel Socrate. Per questo giustamente Ruderman ritiene che Luzzatto potrebbe essere considerato un ‘anticipatore’ del pensiero di Spinoza159. Con questa ipotesi l’erudito storico statunitense tenta di abbozzare una risposta agli interrogativi fondamentali che il Socrate pone agli studiosi: i motivi per cui Luzzatto avrebbe scritto l’opera, il pubblico a cui egli intendeva rivolgersi e quanti fossero coloro che l’avevano effettivamente letto. In definitiva un’opera dagli intenti più laici che religiosi. In una simile direzione interpretativa si muove anche Ariel Viterbo, che sostiene la tesi dello ‘scetticismo mascherato’ di Luzzatto. Il Socrate sarebbe un’autobiografia intellettuale in cui Socrate e Luzzatto si identificano. Proprio come il filosofo greco, il Rabbino veneziano sarebbe stato uno scettico riguardo alla possibilità dell’uomo di raggiungere una conoscenza solida. Di conseguenza avrebbe deciso di diffondere il suo scetticismo attraverso un mascheramento, frutto, sostiene Viterbo, della sua paura nei confronti delle autorità religiose ebraiche del Si veda PINTARD, Le libertinage érudit. Su Spinoza e Luzzatto si veda SEPTIMUS, “Biblical Religion”, pp. 25783 e VELTRI, “La dimensione politico-filosofica”, pp. 81-90. 158 159

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tempo che avrebbero potuto espellerlo dalla comunità se avessero compreso che egli metteva in dubbio la veridicità della rivelazione divina. Questa paura è da considerare infondata se si tiene conto che Luzzatto, pur lasciando ogni opzione aperta, appartiene alla corrente scettica religiosa, che come Francisco Sanchez, pur rifiutando le scienze umane, non attacca i fondamenti della fede religiosa. Di espulsione di un rabbino capo – sospetto giustamente o meno d’eresia – non ne abbiamo notizia, almeno nel periodo moderno. Anche qui è d’uopo un sano scetticismo. Se nel testo Luzzatto non fa specificamente riferimento né alla rivelazione né all’Ebraismo, è perché intende concentrarsi, proprio come hanno fatto Sanchez e Montaigne, sulla conoscenza umana. È per questo che egli lascia intenzionalmente da parte la questione della conoscenza divina160. Il vero intento di Luzzatto è quello di studiare e analizzare le possibilità del sapere umano per mettere in evidenza come esso si muova entro confini strettamente limitati e come siano giustificati rispetto alla sua possibilità di attingere inconcusse verità metafisiche tra verità e dubbio. Difficile dire fino a che punto egli potesse essere consapevole del fatto che un tale metodo poteva, se applicato alla rivelazione, come successivamente avrebbe fatto Spinoza, portare a conseguenze distruttive. In fondo quest’orientamento è presente nella impostazione stessa del filosofo ateniese, che non avendo lasciato alcunché di iscritto, appartiene alla tradizione orale, tramandata da Aristofane, Platone, Senofonte e Aristotele. Il Socrate di cui parliamo appartiene dunque a quella tipologia di figure antiche che danno origine a movimenti di pensiero e di cultura e che però vivono in un’aurea mitica, che in certo qual modo diventa anche fondamento della loro dottrina161. Pur tenendo presente che Luzzatto delinea i tratti di una

Si veda VELTRI, “Principles of Skeptical”, pp. 15-36. 161 Si veda GIANNANTONI, “Les perspectives de la recherche sur Socrate”, 160

pp. 1-19 e in particolare p. 3. Il parallelo tra Socrate e Gesù di Nazareth, per quanto sia suggestivo, è decisamente forzato, anche se la Chiesa primitiva ne ha fatto uso. Per un primo approccio alla questione si veda, HATTERSLEY, Socrates and Jesus, HECHT, Doubt: A History.

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figura che è di per se stessa sfuggente, si potrebbero elencare alcune delle possibili direzioni che la ricerca sul Socrate potrebbe prendere proprio a partire dalla tradizione sull’illustre filosofo162. È il caso di sottolineare che alcune osservazioni di Gabriele Giannantoni in merito alla prospettiva di ricerca su Socrate sono particolarmente ricche di spunti. Secondo l’erudito filologo si dovrebbe vedere nell’attitudine di Socrate, che sa di non sapere, l’inizio della filosofia greca intesa come una volontà di ricerca continua e quindi che si realizza attraverso il dialogo163. Il dialogo fatto di domanda e risposta, affermazione e confutazione potrebbe diventare un trait d’union con l’Ebraismo, portando così ad un esame della figura di Socrate nella tradizione ebraica, anche se di recente Daniel Boyarin ha attaccato questo locus communis della ricerca definendo il dialogo greco e rabbinico come monologo164. Il confronto tra letteratura rabbinica e socratica sarebbe possibile anche per la questione del processo165. La questione dello scetticismo, alla base del dialogo e del processo “giusto” o “ingiusto” sarà discussa altrove166. Ritornando al nostro, bisogna notare che è Daniel Gerber ad evidenziare alcuni parallelismi tra la figura di Socrate “ebraico”, tratteggiata da Yehuda ha-Levi nel Kuzari, e quella di Simone Luzzatto, evidenziandone l’attitudine 162 Per quanto riguarda questa questione non si può non tener conto dei contributi di Gabriele Giannantoni: Socratis et socraticorum reliquiae; Socrate. Tutte le testimonianze; “Les perspectives de la recherche sur Socrate”; BERTI, “Socrate nelle fonti antiche”, pp. 1-9. In inglese si possono vedere: REEVE, The Trials of Socrates e MORRISON, The Cambridge Companion to Socrates. 163 Si veda GIANNANTONI, “Les perspectives de la recherche sur Socrate”, in particolare alle pagine 14-16. 164 Si veda BOYARIN, Socrates and the Fat Rabbis. 165 A riguardo si vedano per cominciare: GRUENWALD, “Intolerance and Martyrdom”, 585-611; SKARSAUNE, “Judaism and Hellenism”, pp. 7-29; SHAVIT, Athens in Jerusalem, I parte capitolo 5 “Japhet in the Tents of Shem”, in particolare alle pagine 136-142. Vale la pena precisare che Shavit discute per lo più la figura di Socrate nella Haskala (Illuminismo ebraico), ma cita Luzzatto (alla pagina 136) annoverandolo tra i primi, nel periodo precedente alla Haskala, ad aver fatto riferimento al filosofo. 166 Il curatore del presente volume sta preparando un libro sullo scetticismo ebraico che si spera sia consegnato alle stampe nel 2014 (titolo provvisorio: Outlines of Jewish Skepticism).

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prettamente scettica che entrambi condividono167. Il sapere di non sapere, quasi massima universale dello scetticismo classico, ed il cosiddetto “Socratismo” dovranno essere valutati nel contesto della tradizione classica, medievale, rinascimentale e secentesca168. Particolare attenzione merita inoltre tradizione ebraica, che sarà l’oggetto di una prossima pubblicazione. In conclusione un’analisi letteraria del testo, auspicata del resto anche da Ruderman169, potrebbe dare grandi contributi alla ricerca, cosa che esula dall’intento del presente volume. Si può comunque affermare che da una lettura attenta del Socrate sembra che Luzzatto non stia qui presentando la sua personale versione del ‘classico’ processo all’illustre filosofo170. È un nuovo processo, i cui scopi rimangono da chiarire, un processo che presuppone quello classico precedente. Infatti il Socrate luzzattiano afferma: Sempre mi dimostrai indiferente, inalterabile, e non curante, a segno tale che già con il mio costante e libero ragionare, ma qual si conveniva al decoro filosofico, la cicuta affrapai da mani delli mali affetti giudici (15).

Luzzatto non sta facendo un esercizio retorico attraverso il quale intende dare prova delle sue conoscenze di filosofia e letteratura classica. Ha uno scopo ben preciso che trascende una “fantasia filosofica” che gli viene attribuita171. Il Socrate dell’illustre rabbino è il prodotto del clima di dubbio che circolava nel ‘600, frutto di analisi filosofiche ma anche di una 167 Si veda DANZIG, “Socrates in Hellenistic”, pp. 143-158 e in particolare alle pagine 149-157. È inoltre da segnalare la pubblicazione nel 1652 del Socrate chrétien di J. L. Guez De Balzac. 168 Su questo punto si possono vedere LOJACONO, “Socrate e l’honnête homme”, pp. 103-146 e BELGIOIOSO, “I «Filosofi Pezzenti» e gli Honnêtes Hommes”, pp. 147-172 . 169 David Ruderman (Jewish Thought, p. 172) ha giustamente sottolineato che il Socrate merita un attento ed esaustivo esame delle fonti, della struttura tanto dal punto di vista letterario quanto da quello intellettuale e politico. 170 Questa ipotesi è stata avanzata dagli studiosi che si sono confrontati col Socrate. Lo stesso Rudermann nel suo ultimo saggio (Early Modern Jewry, p. 39) torna a ribadire che il Socrate è “un’originalissima ricostruzione” del processo al filosofo. 171 Si veda SHAVIT, Athens in Jerusalem, p. 136.

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situazione politico-sociale che volgeva ad un cambiamento radicale. Senza entrare nei dettagli di una discussione ancora agli inizi, si può ben affermare che senza il Socrate secentesco non si può capire il fenomeno dell’illuminismo francese e tedesco, e che il legame tra Venezia e Berlino non è solo un richiamo senza contenuto, ma si basa su una rete fitta di legami, testi e discussioni172. Ritornando al frontespizio del libro si può notare che l’autore si firma ‘ebreo veneziano’ affermando tanto la sua appartenenza tanto alla nazione ebraica quanto alla Repubblica veneziana, al cui Doge, del resto, l’intero volume è dedicato. Se nel Discorso Luzzatto si era spinto al di là dell’apologetica e aveva dato un’interpretazione attiva e creativa del ruolo che gli ebrei potevano svolgere nella Serenissima, nel Socrate già a partire dal frontespizio egli sta forse cercando di delineare i rapporti che dovrebbero intercorrere non solo tra gli ebrei e Venezia, ma anche tra gli ebrei, e per estensione, tutta la cultura classica ed europea del tempo, che trova una sintesi nella figura di Socrate. Si potrebbe forse suggerire che Luzzatto, giunto ormai ad una veneranda età e all’apice della carriera, stia tentando di dare voce ad un progetto di politica culturale che riguarda tanto la cultura europea quanto gli Ebrei che vivevano in Europa. Già alcuni suoi colleghi precedenti e contemporanei avevano proposto un concetto di scuola e di accademia che implementasse lo studio del latino173. Seguendo la linea di uno sviluppo puramente ideale di “Simone Luzzatto hebreo veneziano”, si può affermare che egli si arroga il diritto di scrivere un’opera così imponente come il Socrate per sostenere non solo che gli ebrei possono avere un ruolo attivo nel caso ristretto dell’economia veneziana, ma che essi possono rivestire tale ruolo, magari da pari a pari, nella costruzione della cultura moderna le cui fondamenta si stavano gettando proprio negli anni in cui egli viveva. L’uso della lingua italiana e la sua conoscenza del latino così come la sua cultura fondata sui classici e sui moderni avrebbero rappresentato un 172 Si veda BARZILAY, “The Italian and Berlin Haskalah”; si veda anche SHEAR, “‘The Italian and Berlin Haskalah’ Isaac Barzilay Revisited”. 173 Si veda MILETTO, “The teaching program”, pp. 127–148.

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futuro paradigma dell’istruzione ebraica. Per ovvi motivi un tale programma non è poi stato attuato. La vita e l’opera di Luzzatto rimangono un esempio del notevole potenziale della cultura ebraica in Italia, un esempio che ha avuto fortuna paragonabile nell’Europa del Nord. L’esempio culturale veneziano sarà evocato a Berlino quando si formeranno i primi salotti letterari e si parlerà del ruolo politico dell’Ebraismo all’interno della cultura del tempo. In virtù di questa comune sensibilità, anche in Prussia nel XVIII secolo, l’ebreo filosofo Moses Mendelssohn verrà chiamato “ein deutscher Sokrates”.

Appendice Archivio di Stato di Venezia, Notarile, Testamenti, Notaio Giorgio Stefani, b. 884/132 cc.nn.174 Al nome de Dio l’anno 1662 adì 20 giugno in Venetia. Testamento di me Rabbi Simon Luzzatto quondam Isach Non può affermarsi vero servo di Dio chi non ha nel corso di suoi giorni sudato per l’aquisto delle virtù per le quali non è benefficio del nostro prossimo: chi più intende, più alla conoscenza della divina grandezza si porta. Dice il savio che l’huomo sapiente signoreggia sopra alle stelle, perciò aditarei che chi è tale sta segreato da vitii si conserva nel stato dell’innocenza et inocente si fa vero amico di Dio, et siede sopra le stelle nell’eterna gloria; et se bene le richezze terrene nelli agibili del mondo sono pure necessarie all’humano sustento e desiderabili, perché come dice il doppo Iddio sapientissimo de sapiente divitiae addunt amicos multos a paupere autem et ei quos habet, seppassantur175, ad ogni modo 174 Il testamento è chiuso da due sigilli in ceralacca rossa con lo stemma della famiglia Luzzatto raffigurante un gallo volto a sinistra che tiene una spiga di grano con sopra una mezzaluna e una stella. Testamento allografo. Si veda VELTRI, MILETTO e BARTOLUCCI, “The Last Will”, pp. 125-146, da cui il testo è stato ripreso con alcune correzioni necessarie. 175 Proverbia 19, 4 (Vulgata): “Divitiæ addunt amicos plurimos; a paupere autem et hi quos habuit separantur”.

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io ho sempre più procurato l’aquisto di quelle che di queste, et perché io devo pur conformarmi al divin volere, et in breve tempo render i suoi diritti alla terra alla quale mi è stato prestato questo corpo, voglio anco hora per all’hora che da quello si separarà il mio spiritto che da sua Divina Maestà ho ricevuto protistarmi176, di riconsegnarlo nelle sue santissime mani come177 lo prego a riceverlo e non guardando a miei transegressi donarli per sua misericordia, la requia de beatti nel cielo. Prima però di passare ad altra vita non volendo lasciare innordenato le cose mie, ho pregato persona mia confidente scriver la mia presente volontà non potendo io farlo in riguardo della quantità di giorni che aggravano la mia destra e la rendono innabile a così lunga scrittura, con la quale voglio, et ordino che subbito seguito la mia morte dall’infrascritto mio nepoto et herrede Moisè sia tenuto per un anno continuo aceso una lampida overo cesendello178 d’oglio nella nostra scola Luzzatta, et per il medesmo tempo farmi dire il Cadis179 in rimedio dell’anima mia da persona che parerà ad esso mio nepoto sufficente. Lascio per raggion di legato alla mia ammatissima figliola Diamante relitta del quondam Rabbi Leon Saraval ducati doicento, da esser da detto mio nepote comprati in [cassa] al suo nome per una volta tanto et ne goda lei l’utile in memoria dell’amore che sempre li ho portato, pregandola conservare detto capitale, goderne li pro180, non venderli o estraserli181 se non in caso di gran urgenza, che così io desidero per ben suo e di suoi figlioli, potendo di essi liberamente disponere, in sua vita, et doppo la sua morte se si atroverano, non esser da lei vivendo stati disposti come li parerà, e morendo senza 176

Dal latino “protestor”, attestare pubblicamente. Testo originale non perfettamente leggibile. 178 Cesendello, “tipo di lampada ad olio devozionale veneziana”, si veda il Dizionario del dialetto veneziano. 179 In ebraico Qaddish, la preghiera per i defunti. 180 Proventi, profitti. 181 Forma dialettale veneta equivalente all’italiano moderno “estraniarli”. Si veda la forma “estrazer” (tirar fuori, esportare), Dizionario del dialetto veneziano. 177

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testamento, vadino in suoi figlioli maschi cioè Simon et Bondi182 e morendo uno vadi nell’altro e morendo ambi due vadino in Rosa loro sorella potendo poi essa lasciarli a chi meglio ad essa piacerà. A Gloria mia altra ammatissima figliola consorte del signor Benetto Alfarino lascio in segno d’amore onze dieci d’argento lavorato che l’agoda183 in memoria mia contentandossi di questo segno d’amore poiché ha havuto in dote molte centenaia di ducati di più che ha havuto Diamante sua sorella. A dona Rosa mia carissima cognata relitta del quondam Gratiadio Luzzatto, la quale sempre ha per il corso di anni settanta, in circa, dimorato in mia casa, con dimostrationi di ogni pienezza d’affetto verso di me, et di tutti di casa et < in> patientarse verso miei figlioli, lascio che siano dati li alimenti alla propria tavola di mio nipote Moisè durante la sua vita, et il comodo di una camera, e quanto altro le farà bisogno per suo vestire, pregandola a gradir questa mia gratta volontà verso di lei, pregando detto mio nepote che la riconosca come madre. Nel resto di cadauno di miei beni mobili, cazacod184, credetti185, contanti, effetti, libri et ogni altra cosa niuna eccettuata, niente esclusa, lascio, voglio, et ordino che sii oniversal herrede mio nepote Moisé Luzzatto, figliolo che fu de domino Isach mio diletissimo figliolo de’ quali ne sia libero et assoluto patrone, dichiarando però espressamente che non intendo, né voglio in modo alcuno immaginabile che li miei beni né li pro di essi, overo intrate, siano mai sottoposti a pagamento alcuno, a qual si sia debbito che detto mio nepote havesse nanti186 la mia morte contrato con chi si sia, tale sendo la mia volontà che quanto le lascio non possi esser mai a tali debbitti soggetti, né sottoposti a qual si sia molestia immaginabile, e se per causa di detti debbitti che havesse contratti nanti il mio morire compreso anco la dotta di sua consorte, poiché per quella essa ha beni 182

Corrisponde all’ebraico Yom Tov. La goda. 184 Si tratta del diritto di Chazaqa, vale a dire l’affitto di immobili ad un prezzo fisso. 185 Crediti. 186 Innanzi. 183

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sottoposti e donde pagarli, e si venissero essi miei beni che li lascio molestati, dichiaro herrede mio all’hora non più il detto mio nepote, ma Simon mio pronepoto suo figliolo o altri maschi che havesse detto nepoto Moisè egualmente morendo, che Dio guardi, l’uno vadi nell’altro, e così all’infenito, e mancando, che Dio non voglia mai, li maschii, vada nelle femene che nascessero del detto mio nepote Moisè durante la loro vita, et doppo di essi il tutto vadi al più parente della linea mascolina, et poi nella linea feminil, et sia obligato esso Moisè difender la detta mia herredità da tali molestie, non volendo in tal caso che egli habbia altro nome né interesse che di comissario e solo retore del tutto, senza però obligo alcuno di render conto immaginabile nella sua aministratione in sua vita, potendo però doppo la sua morte testare, et conditionare come più parerà meglio a detto mio nipote al quale in loco di padre do la mia beneditione pregandoli dal [Signor] Iddio ogni bene e colmo delli più preggiabili felicità nella sua gratia santa. Amen Io Simon Luzzatto affermo [Verbale di ricezione] [1672 [8] zugno. Si dà copia del presente testamento per esser chiamato ad inscriptione pubblica Anzolo Zon Cancelliere Ducale] Anno ab incarnatione domini nostri Hiesù Christi millesimo sexcentesimo sexagesimo secundo indictione quintadecima die vero dominico vigesimo quinto mense Iunii Rivo Alti. Io Rabbi Simon Luzzato ebreo quondam Isach sano Dio lodato di mente e corpo, ma inoltrato nell’ettà, stando in casa mia in Ghetto Novo presso ad una tavola della mia camera, ho fatto venir a me messer Zorzi Steffani nodaro veneto e presenti li soscritti testimonii gl’ho presentato la presente mia cedula testamentaria scritta da persona mia confidente di mio ordine che, per esser tale, fatti venir dal notaro li testimonii m’è stata da esso letta da solo a solo e l’ho soscritta al meglio ho potuto, il che fatto, richiamati li stessi testimonii ho laudato quella in tutte le sue parti et dechiaro che per error si è portato il fin di

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essa nella faciata ultima che però niente importa, et l’ho pregato venendo il caso di mia morte l’appra, compisca, et robbori colle solite clausule come si osserva et li havendo [pres]entato [testè] quella dal qual not[aro] accordatimi187 li quattro Hospitali [et] altri luochi pii della Città, ho risposto che lasso un ducato per uno alli quattro Hospitali, né altro voglio ordinar. Preterea et cetera si quis et cetera signum et cetera. Io Fransisco Rizzo conda188 Bortolo sanser189 di Geto fui testimonio ale cose sudete pregato et giurato. Io Piero Fanzago del signor Bovolo in contrà di San Geremia fui testimonio alle cose sudette pregatto e giurato.

187 Ricordatimi. Il notaio aveva l’obbligo di ricordare al testatore eventuali

elargizioni ai luoghi pii e ai quattro Ospedali Grandi. 188 Quondam. 189 Sensale.

SCRITTI POLITICI E FILOSOFICI DI UN EBREO SCETTICO NELLA VENEZIA DEL SEICENTO

di Simone Luzzatto rabbino hebreo

DISCORSO CIRCA LO STATO DEGLI

HEBREI ET IN PARTICOLAR DIMORANTI NELL’INCLITA CITTÀ DI VENETIA di Simone Luzzatto rabbino hebreo

Et è un’appendice al trattato dell’openioni e dogmi degli Hebrei dall’universal non dissonanti, e de riti loro più principali

In Venetia, MDCXXXVIII Appresso Gioanne Calleoni Con licenza de’ Superiori

ALLI AMATORI DELLA VERITÀ [3r] Non ho giudicato convenevole, che maggior patrocinio dovesse ottenir abbozzato ritratto di quello non ha potuto giamai per lungo tratto di tempo conseguire il suo originario. Priva di spetiale protettore, vaga e dispersa è la natione hebrea, e parimente senza particolare appoggio a cui sia raccomandato, il presente discorso alla luce del mondo ho avventurato, ardisco negletto, et inadobbato di ornata dicitura inviarlo alla vostra nobil presenza essendo conscio quanto è gradita la semplicità alli cultori dell’invita verità1, alla quale anco l’istessa nudità l’arrecca sommo diletto2 e piacere. Non pretendo da voi [3v] indebito favore, et estorto applauso, conoscendo quanto n’è indegno et immeritevole, ma sì bene candido e retto giuditio per cui egli vi ragiona. E se lice paragonare le cose minime et oscure alle grandi et illustri, ne concepisco speme d’alcun prospero avvenimento, ché s’il pargoletto Moise che riuscì poi celebre legislatore, esposto dalla genetrice alla corrente del fiume Nilo, avvenendosi nella figliola del nemico e tiranno re Faraone, compassionando il fanciulesco vagito, estrahendolo dall’eminente sommersione, liberalmente lo fece educare nella casa regia, chi sa che non affatto dissimile successo sia per occorrere a questo recente parto e derelita prole, tuttavia sotto il benignissimo e clementissimo cielo venetiano nata, ch’incontrandosi in alcun di quelli nobilissimi eroi de quali l’inclita3 città tanto n’abbonda, prencipi non solo per nascita, ma molto più per l’ornamento de regie virtù, sia benignamente raccolta e ricovrata, e forsi4 con favorevole protettione da rigorose censure de più severi, et austeri giudici, se non propugnata, almeno escusata5.

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PREFATIONE DI TUTTA L’OPERA [5r] La natione hebrea altro tanto che nelli secoli passati fu celebre, e preclara per humane prosperità, e divini favori, hor’è conosciuta sì per l’incontro de sciagure, come per la continuata, e constante tolleranza in esse, fra quali non è la minore, il mancamento di quelle dotrine, et eruditioni, che le sarebbono state necessarie per esporre, e manifestare se stessa al sincero giuditio de più prudenti, con recidere, e troncarli quelli freggi d’infamia, e mendacità, che la conditione de tempi, e la irrisione de più volgari le ha intessuto. Per il che con quel minimo di talento mi ha concesso la Divina Maestà, mi son proposto nell’animo6 formare compendioso ma verace racconto7 de suoi ritti principali, et opinioni più comuni dall’universale non dissonanti, e discrepanti, nella quale applicatione ho procurato con ogni mio potere, benché io sia della istessa natione, astenermi da qualunque affetto, e passione che dal vero deviare mi potesse8. Così spero incontrare discreto lettore, che vacuo d’ogni anticipato, e preoccupato giuditio non sia per seguire il volgare costume, di solo approbare, e sentir bene [5v] de avventurati, e felici, e sempre dannare li abbattutti, et afflitti, ma con retto giuditio sarà per billanciare quello in tal proposito mi ha dettato la mia imperfetione. Tralasciarò il considerare a lungo9 l’antichità della stirpe, il non mescolato sangue per sì lungo tratto di tempo conservato, la tenacità de ritti e credenza, la inflessibilità10 nelle oppressioni, solo aggiungerò al detto mio proponimento11 la espositione d’alcuni profitti, che la natione hebrea dimorante nella inclita città di Venetia12 l’apporta, non havendo in ciò fine di rappresentare ad altrui ambitioso apparato di utili, et emolumenti13, ma solo dimostrare non esser detta natione affatto inutil membro del comun popolo di detta città. Onde restarano li men versati delli affari del mondo in parte raguagliati quali siano li veri motivi, et impulsi, che dispongono Republica prudentissima, e giustissima a concedere, et admettere alla natione sicuro domicilio, e stanza in sì nobile emporio, et illustre città, e con paterna protettione dall’altrui insulti diffenderla, ché per tal avviso spero si renderanno li

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sudetti verso lei non solo men contumaci14, ma di più ancor alquanto placidi, et amicabili. E se conforme la conditione dell’humana fragilità si sonno15 trovati nella natione alcuni facinorosi, e scelerati16, non perciò deve restare oscurato, e [6r] de|nigrato il candido affetto17, che l’universale delli Hebrei tiene verso il suo Clementissimo Prencipe, né anco devesi temere, e dubitare, che li sia perciò irritata, e fulminata18 contra la publica indignatione, poiché ancor ben coltivato terreno insieme con la messe ben spesso produce herbe inutili, e nocive, né per tal causa l’avveduto agricoltore abbandona l’immoderato, e lusuriante suolo, ma estirpando le mal nate piante, continua il suo faticoso lavoro in curare le buone, e perseverare19 le giovevoli. E chi ha peritia delli humani avvenimenti abbastanza è informato, che la qualità del male molto più che del bene è sensibile, essendo quello un deviamento, e disregolamento dell’ordine, e norma consueta, che d’ognuno si conosce, e questo un continuato progresso conforme alla serie delle cose di già constituita, ch’appena da più saggi si osserva. L’infermità cagionata dall’intemperie, et alteratione subito assalitoci ci perturba, il bene della sanità con il discorso20 solo si comprende, e con paragone21 del suo contrario. Coloro che navigano a seconda22, e perciò con gran celerità viaggiano non s’accorgono del loro veloce moto, ma occorrendoli poca restia23, e lieve impedimento, subito si rissentono24 dall’aggitatione, e squasso. Così d’alcuni, li delitti de pochi di questa [6v] natione sono esageratti, com’intolerabili sciagure, et insopportabili calamità, ma li ordinari comodi, e proffitti, che da lei ne derrivano, come cose insensibili, et ignote sonno trapassatte, e trascuratte, per il che non restarà aggravato il prudente lettore se alquanto in questa parte mi dilatarò come la meno pratticata, et osservata. E se coroso25 fragmento d’invecchiata statua, perché da Fidia overo Lisippo fusse stata elaborata appresso il curioso antiquario sarebbe d’alcun prezzo26, così non dovrebbe affatto essere abborita la reliquia dell’antico popolo hebreo, benché da travagli difformata, e dalla lunga captività deturpata, poiché per comune consenso degli huomini già una volta esso popolo da Sommo Opefice prese forma di governo, et institutione di vita27.

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INTRODUTIONE A QUESTO TRATATTO [7r] Che li Hebrei arrecano alcun considerabile emolumento all’inclita città di Venetia, e che parimente si possono connumerare fra le portioni integranti del comun popolo di lei, stimarei non fusse propositione sì temeraria, e disonante, che offender potesse il delicato sentimento delli animi ancor scropolosissimi. Mentre si trova che li Stoici fra gli antichi filosofi famosi, ardirono affermare il Sole, la Luna, e l’altre stelle, pascersi, e nutrirsi da vapor di questo nostro basso globo terreno28, così Democrito29, e Leucippo osarno dire, che il mondo così grande, et ornato, havesse per elementi, che lo compongono particelli indivisibili, et insensibili, e sebbene fu opinione dannata, ciò li avvenne più per il casuale accoppiamento di quelli corpicelli asserto da quelli filosofi, che per l’absurdità della costrutione30. Così sia lecito, e permesso alla natione hebrea paragonarsi alli atomi di Democrito in presumersi particella di sì numerosa populatione, et ad una tenue, e terrestre esalatione, che concorre a prestare tributo, et alimento alla sublimità del publico erario. Li regni sono simili alla [7v] Via Latea celeste, che apparisce a nostri occhi per un concorso di minutissime stelle ognuna di loro per se stessa a noi invisibile, che però unite formano un gran tratto di luce, e fulgore31, così li gran imperii rissultano dalle minutie di diverse populationi. E non si può parimente negare, che l’affluenza di datii concorenti al publico, solevare in gran parte li suditti, e privati da imposte, et agravi. Il mare mentre è gonfio d’acque non riceve in sé li fiumi che a lui corrono, ma egualmente con lui restano accresciuti, ma diminuito, ch’egli è, li maggiori sgorgando in lui le proprie acque scemano, e li minori affatto s’inaridiscono. Così il nostro stomaco quando patisce indigenza di cibo, con dolore, e travaglio degli altri membri si nutrisce di humori a loro apropriati32, come per il contrario con la copia del nutrimento non solo rilascia il depredare, ma ne diffonde ad altrui del proprio. Nell’istesso modo la moltiplicità di datii33, e vetture34 non solo libera il popolo dalla vessatione d’imposti, e contributioni, che

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a suplire all’urgenze, e bisogni del Prencipe sarebbe obligato, ma ne suchia ancor lui per l’abbondantia del publico danaro non picciol utile, e l’esperienza civile insegna che le città, che fioriscono di copioso negotio il loro popolo è in gran parte allegerito da estraordinari [8r] agravii, et esorbitanti tributi. Li Romani così politici, e moderati, tuttavia insino sopra li escrementi humani imposero gravezze, il che trapassò anch’a quelli d’animali brutti appellata la tansa35 del grisargiro36, et anco le operationi vituperose, et obscene concorsero ad arrichire il loro errario, onde le meretrici, et al[t]ri infami, comunicavano al publico portione del loro ignominioso guadagno, oltre la tansa capitale alla più vil classe del popolo imposta dall’istessi Romani37. Tutte maniere d’estrationi, et estorsioni abboritte dalla magnanimità, e grandezza venetiana38, havendo per costume di solo tansare l’industria delli huomini, e non le loro vite, castigare li vitii, e non da loro proffitare, il che è avvenuto principalmente per il moderato suo governo, ma in parte aiutato dalla copia di emolumenti, che apporta seco il traffico mercantile, e la maritima negotiatione.

CONSIDERATIONE I Dell’utile della negotiatione Il consortio humano altro non è che un accoppiamento di reciproci nostri bisogni, overo piaceri, e vicendevole contrattatione di abbondantie, e penurie, e quello che li morali [8v] appellano superfluità, lussi, e vani oggetti della nostra avidità, li politici che considerano tutta la massa della humanità, asseriscono essere fondamenti de negotii, elementi de commercii, oppugnatori dell’avaritia, agguagliatori del stato humano, tenace nodo, e glutine delli estremi del mondo, l’uno con l’altro. Li pretiosi metalli, e gioie sono superflue, li aromati, e spetiarie non bisognose alla vita cinica, e solitaria, non già alla civile, e politica, non solo necessarii per li emolumenti sopradetti, ma anco che con il transporto de peregrine merci si adducono li costumi, le arti, le dottrine, e l’istessa humanità. La Grecia maestra delle dottrine, hebbe per pedagoghi dell’alfabetto, li mercanti tirii39, ove che prima l’ignoranza, e la barbarie, il tutto

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offuscavano, et occupavano. Ma per venire al particolare trattato propostomi dico, che fra40 li giovamenti, et utili, che la natione hebrea apporta alla città di Venetia, principalissimo è il profitto, che dall’essercitio mercantile ne rissulta, professione quasi di lei propria. Dal qual essercitio ne derrivano alla città cinque41 importanti benefitii42: Primo, l’accrescimento de publici datii d’entrata, et uscita. Secondo, il transporto di diverse mercantie da paesi remoti, non solo per necessità delli huomini, ma per ornamento della vita civile. Terzo, [9r] sommini|strando materie in gran copia a lavoranti, et artigiani come, lana, seta, gottoni43, e simili, circa le quali si trattiene l’industria d’operarii mantenendosi in pace, e quiete senza alcuna tumultuaria comotione per penuria del vitto. Quarto, il smaltimento di tante manifatture fabricate, et elaborate nella città con quali si sostengono tante migliara di persone. Quinto, il comercio, e la reciproca negotiatione, ch’è il fondamento della pace, e quiete fra popoli confinanti44, essendo il più delle volte li Prencipi commossi alla guerra dalla inclinatione de popoli, che questi da quelli all’arme indotti. L’Egitto e la Sorìa45 giamai si armò contra l’Italia, ma bensì la costa di Barbaria46 sempre li fu in aperta guerra, overo nido infame di corsali47 armati in danno dell’Italia, per non vi essere giamai stat’alcuno comercio, e rilevante negotiatione fra essi popoli, onde Virgilio dell’istessi popoli disse nullus amor populis, nec federa sunt48, il che in ogni secolo fu sempre eseguito. Al qual trafico vi concorrono li Hebrei con industria delle persone, et impiego di loro haveri, onde nel tempo presente con gran floridezza, e frequenza parte del negotio appresso la natione si trova. Ma perché giamai non fu sì indubitata evidentia ch’alla solertia humana mancasse apritura d’oppugnarla, cosí vi sono alcuni, ch’insurgano [9v] con dire non essere altrimente li Hebrei introduttori, et apportatori delle mercantie, e contratationi, ma piuttosto di quell’occupatori, e che anticamente, anzi mentre che la città fioriva di affari, erano maneggiati li negotii da proprii cittadini, e li Hebrei in progresso di tempo se ne sono fatti d’essi traffici in gran parte

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arbitri, e padroni, con gran danno de cittadini, e dell’istessa città, soggiungendo non essere li Hebrei quelli, ch’adducano le mercantie, ma il mirabile sito della città, la commodità del porto di mare, vicinanza di fiumi navigabili, aprossimatione della Germania, libertà del vivere, sicurezza delle facoltà, copia e perfettione dell’arti essere li veri atrattivi e condutteri di merci e negotii, e senza l’industre vigilanza delli Hebrei il tutto capitarebbe necessariamente in mano de proprii cittadini. Né si può con alcuna raggione sostenere che li Hebrei come sempre esteri siano aguagliati nell’essercitio mercantile, fra tutte le professioni honorevole, e proffittevole, alli cittadini annessi alla città per possesso de beni stabili, et altre prerogative particulari. Questa è quella spetiosa ragione, che da men volgari viene aggitata contra la natione, la cui fallacia agevolmente si renderà manifesta quando da più alto principio si prenderà a considerare il corso dell’humani [10r] af|fari, e come il cangiamento dell’applicationi, et impieghi di cittadini dipendano dal mutato, e variato stato, e conditione delle città.

CONSIDERATIONE II Che gran parte del trafico, è in mano di forestieri Altro tanto che l’essercitio mercantile è comendabile per se stesso, utile per chi il maneggia, e profficuo alla città ove si tratta, e tuttavolta faticoso, e di molto pericolo, dovendosi non poche volte arrisichiare le persone, e le facoltà a precipitii49 di lunghi viaggi, travagliose navigatione, e dubbiose affidattioni, onde qualunque mercante ha per scopo, e meta de suoi traffici con la cessatione de negotii, il riposo. E doppo haver ammassato ricchezze convenevoli procura di godere l’acquistato in quiete, e tranquilità, investendole in beni stabili, et entrate cittadinesche lontane dall’insulti della fortuna, e questo non solo attenta per se medesimo, ma molto più per suoi figliuoli, e successori, dubitando che come pochi pratici, et esprimentati, disperdano il già da lui acquistato con istento, e travaglio, ché perciò di più incarica li proprii beni di varii impedimenti come di fideicommissi50, primegeniture, e simili conditioni51, et in questo modo travia li suoi posteri52 [10v] dall’impiego del

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negotiare. Dal che procede, che le città divenute grandi, e potenti per il traffico de proprii cittadini, per cause dell’investite di beni stabili, fabriche di sontuosi edifitii, acquisti di pretiosi supeletili, et occupationi urbane, alla fine la negotiatione perviene in mano di forastieri, e stranieri, spinti nelle città dalla strettezza del vivere nelli loro patrii lochi, overo allettati dall’avvidità del guadagno. Si potrebbono addure in ciò molti esempii, ma sufficiente a dovere è la sola città di Venetia, divenuta celebratissimo emporio di tutt’il mondo per il traffico de suoi cittadini, che non solo terminava la loro navigatione nel Levante infino agli ultimi recessi della palude Meotide53, ma scorrendo tutto il Mediteraneo occidentale, uscendo fuori dal stretto della parte meridionale54 trovorono li Etiopii negri, e verso settentrione55 penetrorono infino gli ultimi porti della Moscovia e Tartaria56, di modo che furono commendati per li primi venturieri che lasciassero speranza a posteri per il discoprimento di nuove regioni, e paesi, come nelli viaggi, e navigationi del Mosto57, Quirini58, Barbaro59, e Marco Polo, patricii di essa città si legge60. Ma dopo, che la Serenissima Republica con felice successo dilatò il suo dominio in terra ferma, surse nell’animo di [11r] quegl’industri, et indeffessi solcatori del mare il prudentissimo pensiero di sollevarsi dalle noie, et inviluppi di lontane contrattationi, e pericoli di viaggi, et impiegorono le loro cure nel possesso di beni stabili, coltivationi di terreni, et altr’occupationi della vita civile, non volendo più esporsi a scherzi della fortuna61, come lasciò scritto Cicerone trattando della mercatura: atque etiam si satiata questu, et contenta potius, ut sepe ex alto in portu, ex ipso portu in agros possessioneque contulerit videtur iure optime posse laudari62,

sogiongendo: omnium rerum ex quibus aliquid acquiritur nihil est agricoltura melius, et homine libero dignius63.

Onde cessando in loro per tal causa la negotiatione subintrorono e ve s’intrusero li forastieri, et esteri di varii lochi,

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e patrie, in corso di tempo si ritrovorono quasi tutti li traffichi di Ponente, e l’istessa navigatione in potere de Genovesi, Francesi, Inglesi, Fiaminghi, et altri, che prima il tutto era in mano de Venetiani64. E che ciò sia vero, oltre l’evidentia del fatto che lo comproba, si convince65 ciò ancora, per esser concesso a qualunque estero il negotiar in Ponente, non così il trafficar in Levante, ch’è permesso a cittadini, et altri privileggiati solamente, e così se vogliamo considerare il [11v] traffico che si fa dalla parte di Levante in quel tratto di terra ferma, ch’è dalli lidi della Dalmatia sino a Costantinopoli, tutta la contratatione capitò in mano de Turchi overo Greci a loro soggetti. E che sia occorso ciò per volontaria rinontia, et arbitraria alienatione d’essi cittadini, e che non li fu da altrui occupata, si può convincere con due ragioni, che con gran apparenza lo dimostrano. L’una che non essendo giamai avvenuta nella città di Venetia così il Signore Iddio la preserva alcun’invasione di sacco”, overo altro flagello, che apportassero anichilatione, overo considerabile diminuitione di havere, e ricchezze di cittadini, et essendo li Venetiani tenacissimi de loro primi costumi, et instituti non può essere, che la cessatione del negotio in essi, da altra cagione possi derrivare, e rissultare che da spontanea loro deliberatione, havendo ritrovato essi altri impieghi più proficui, e sicuri in che si possino esercitare. Seconda ragione, ch’essendo proveduto dalla publica prudenza un accrescimento di datio al forastiero che traffica in Ponente di tre per cento nell’entrata, et altrotanto d’uscita più di quello che contribuisce il Venetiano, non è da dubitare, che se il cittadino fosse inclinato alla negotiatione, in breve tempo stancarebbe, et escluderebbe il forastiero dal negotio, havendo [12r] vantaggio di sei per cento nel smaltimento delle sue merci sopra di lui. Ma perché esso cittadino si ha già procacciato altri proffitti più sicuri, e guadagni più facili, non consente di lasciarsi lusingare da qualsivoglia avvantaggio di partito per inviluparsi di nuovo in fastidii, e dubbietà di negotii, et in tal maniera è capitato affatto il traffico di Ponente, e della stessa Italia in potere di stranieri. Onde in tale stato di cose non si deve questionare, e porre in paragone qual sia più giovevole alla città, et al publico l’essere

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manegiata la negotiatione66 di Ponente, e della terra ferma di Turchia dalli Hebrei, overo da proprii cittadini, ma bene si deve discorrere, e ponderare se più commodo risultarebbe essend’il traffico nelle mani d’esteri, overo appresso delli Hebrei paragonando questi solamente insieme, e credo che formando la controversia in tale modo per molte ragioni, e consequenze agevolmente si potrà concludere a favore delli Hebrei.

CONSIDERATIONE III Si discorre per qual causa le città desistono d’arichire, e delle provisioni in tal proposito67 [12v] Aviene alle gran città, e popolationi quell’istesso che occorre a nostri corpi, che da picciol principio, e quasi insensibile trahendo origine, per mezzo della continua nutritione, si riducono a grandezza riguardevole, ma dopo arrivati a certo termine prescrittoli dalla natura dessistono di più crescere, et augumentarsi, conservandosi per certo corso di tempo in eguale stato. Così le città doppo esser giunte a segno limitato di popolatione, e ricchezze pongono meta68 a loro progressi perseverando nell’istesso stato che si ritrovano, overo da esso declinando. La cagione di ciò in quanto alle ricchezze, a mio credere è, che dopo l’essersi fatti oppulenti, li proprii cittadini, et habitanti, per mezzo della contrattatione, depongono come habbiamo detto li primi spirti, né procurano maggior augumento, ma solo hanno mira di fermare, e conservare li loro haveri. Subintrano poi in loro vece li forastieri nell’animo de quali insurge ancora l’istesso desiderio di quiete e riposo, e dopo l’essere satolli de guadagni, li conducono nelle loro patrie, et a questi [13r] pa|rimente succedano altri esteri con l’istesso talento, di modo che sempre continua il transporto del danaro ammassato dalla città, senz’alcun augumento di ricchezze in essa, ma piuttosto ne segue evidente detrimento, simile al mare che vi concorrono tutti li fiumi con sì grande tributo d’acque, eppure sempre persevera nell’istessa quantità senz’alcun accrescimento, diffondendo insensibilmente l’acque ricevute all’istessi principii, et origine di fiumi. Così l’influsso d’esteri da

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diverse reggioni, non altera, et arricchisce le città, perché con il continuo reflusso viene transmesso il danaro acquistato alli lochi ove quelli forastieri derrivarono. Per provedimento di tale inconveniente, doi sono li modi da praticarsi. L’uno, con impedire il traffico a forastieri direttamente, overo obliquamente, con agravare le loro mercantie69 di maggior imposto di datio di quello si fa a cittadini, e con proibire, alcune loro mercantie, e manifatture, e per altre vie disturbative del loro negotio. Secondo modo, con procurare d’incorporare, et inestare alla città detti forastieri, ch’a guisa degli altri cittadini si stabiliscono in essa. Circa l’uno, e l’altro modo è bisogno di esata circonspetione, et accurata advertenza. [13v] La prima maniera fu osservata, e maneggiata da due regine d’Inghilterra, Maria70, et Elisabetta71, l’una la tentò, e l’altra con facilità la pose in essecutione. Eransi molto avanti a’ tempi nostri collegate et accordate insieme molte città nella parte settentrionale, che possedevano porto di mare, overo vicinanza di fiumi navigabili, a dar opera in comune alla navigatione di quei mari, in modo ch’era tutta da loro maneggiata, onde n’acquistorono appresso le città settentrionali amplissimi privileggi, e prerogative, e quasi totale esentione di datio. E questa fu la Compagnia Anassatica72 celebratissima per tutta Europa. Assalì in pensiero alla Regina Maria d’accrescergli l’agravio de datii, che d’uno per cento, che pagavano, per l’avvenire dovessero contribuire infino alli vinti73, con alteratione d’altri loro privileggi, difficultandoli per tal via la navigatione. L’istesso continuò di fare la Regina Elisabetta che li successe, ma con maggior pertinacia d’animo, e ferma risolutione. Fu da volgari nel principio improbato74 questo tentativo come quello ch’in apparenza impediva, e sbandava la navigatione dal Regno d’Inghilterra trovandosi tutta in potere di detta compagnia75. Ma l’esperienza, che seguì al fatto insegnò qual fosse stato il giuditio, e la virile prudenza di dette regine, [14r] ch’osservan|d’esse che tutto il guadagno, ch’era importantissimo, che si estraheva dal transporto delle mercantie nel loro regno, devolveva e si riduceva appresso detta compagnia al regno aliena et estera, e li loro isolani benché dispostissimi all’essercitio marinaresco infracidirsi nell’otio, ignari et inesperti della navigatione.

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Perciò tentorono di sturbare la negotiatione anassatica, onde hanno posto in necessità alli loro proprii vassalli d’impiegarsi nella navigatione. Dal che ne rissultò com’al presente si scorge innestimabile benefitio, ché sono arrivati all’ultimo segno di reputatione nella professione marinaresca76. Ma altrotanto ch’ad esse regine prosperò il loro attentato, conviene ad altri in praticare tal esempio esser molto cauti, et avveduti, poiché il sito dell’isola posta dalla natura per il dominio de mari occidentali, e settentrionali, e l’absoluta padronia, e dominio, che essercitavano dette regine in tutti li porti, e ridotti del regno, facilitorono anzi aprirono la strada a sì felice avvenimento. Il che non così facilmente succederebbe qui in Italia, essendo li suoi porti posseduti da diversi prencipi, e potentati, onde difficultando, et escludendo uno di essi il concorso d’esteri, immediate sarebbero ricevuti dagli altri con amplissimi privileggi, et esentioni, oltre che non si ritrova disposto il popolo d’una sola [14v] città maritima in Italia per poter supplire al mancamento della navigatione forestiera. Dal che ne rissultarebbe a quella città quasi una totale anichilatione del negotio, il che non è avvenuto nel Regno d’Inghilterra per le moltiplicità delle città, e popolationi disposte a tal essercitio, rassembrando tutta quell’isola quasi una sola, e continuata città maritima. Secondo modo d’evitare il predetto disordine vi si rimedia con l’ammassare, et unire li forastieri con li cittadini fermandoli in alcuna maniera nella città, il che non manca ancor di gran difficultà per porlo in essecutione. Primieramente s’oppone a ciò l’instinto naturale, e l’affetto indelebile ch’ognuno tiene alla sua patria, e desiderio di terminare la vita ove n’hebbe il principio; Vi si aggiunge che molti trafficanti forastieri nelle loro città sono partecipi del governo, come Genovesi, Fiaminghi, Alemani di città franche, et in alcuna a parte li Fiorentini, che perciò, non permutarebbero il domicilio della loro città in altra habitatione, oltre ch’acquistando la semplice cittadinanza, ove trafficano, conviene rinontiare qualunque altra ch’in altro locho godessero, e l’esperienza ci mostra, ritrovarsi nella città molti esteri77 oppulentissimi, che per la lunghezza del loro stantiarvi potrebbero [15r] impetrarla con suoi privileggi, ma per la causa

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antedetta non la procurano né l’attentano. Seconda cagione ch’impedisce il fermare l’esteri nella città è la penuria di terreni per poterne fare nuovi acquisti essend’il tutto già occupato da proprii cittadini in tanto numero moltiplicati, la quale angustia si accresce per esser ingombrato per lungo tratto il circuito della città di amplissime lagune, e paludosi terreni inhabili alla coltivatione. Et augument’ancora la difficultà ch’essendo li terreni posseduti quasi tutti da gente civile, sono per il più incaricati di conditioni, e varii impedimenti, ch’insospetiscono li nuovi acquistatori di comperarsi un litiggio invece di terreno. Terza, che li mercanti hanno per costume dopo haver raddunato ricchezze non contentarsi del loro semplice possesso, ma son’assaliti da pensieri di conseguire prerogative, e dignità straordinarie, et insieme con terreni procurare titoli, dominii, et iurisditioni per rendere più illustre la loro conditione per inanzi ignota, ché non in ogni loco gli può riuscire tal’ attentato, et altri non si compiacciono di fare acquisti se non in lochi populari conforme alla loro conditione, e qualità non essendoli grato ancor, il confinare con loro maggiori. Per queste cagioni, e simili si rende difficile il fare allignare, et arrestare li negotianti stranieri [15v] nel|la città, et insieme con loro stabilirvi li loro haveri, e facoltà. Ma al sopradetto inconveniente pare che mirabilmente sovenga, e rimedia il traffico maneggiato dagli Hebrei, non havendo essi propria patria alla quale aspirano di transportare li loro haveri ammassati nella città, nemmeno in alcun loco, hanno facoltà et habilità di acquistare beni stabili, e se l’havessero, non complirebbe78 a’ loro interessi il farlo, per non impegnare, et incarcerare li loro haveri mentre che le persone sono soggette a tante varietà, stantiando in ogni loco con salvi condotti, et indulti de principi. E tanto meno aspirano a dignità, titoli e dominii, per il ch’ove una volta sono con benignità ricevuti fanno ferma risolutione di non più partirsi, oltre che non havendo l’hebreo abitante in Venetia alcun’arte propria, altro che il negotio79, l’è difficoltoso il partirsi, non havendo speranza di sostentarsi con alcuna professione, et arte essercitabile in ogni città, ma, le negotiatione, e traffico in ogni loco sonno variabili, e conviene per introdurli, et aviarli, lunga osservatione, e concorso d’amici.

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Et ancor non vi è dubbio che fra tutti li stati80, e lochi del mondo si compiace la natione hebrea del soavissimo governo della Serenissima Republica, per la forma del regimento stabile, e non variabile per la mutabilità de pensieri d’un [16r] sol Principe, et instigatione di consiglieri, et anco per essere la Republica per suo instinto spetiale amatrice di pace con suoi vicini, conoscendo bene la natione in tempo di guerra essere la primiera esposta all’estorsione de soldati amici, preda de nemici, et all’impositioni, e gravezze de prencipi. La frequenza del negotio, il porto del mare, la copia81 di tutte le cose appartenenti al vito82 sommamente li complisce83. Il popolo minuto esserli amico, e praticabile sopra modo gli agrada, ma più di tutto li tien fermi, et annessi alla città, e suo Stato l’esemplare giustitia somministrata in loro diffesa contro qualsivoglia ordine di persone che li offendesse sì nella vita che nella robba, con osservarli puntualmente tutto quello che nelle loro condotte, e privileggi gli è promesso. Onde si può arditamente concludere che tralasciato, e cessato il negotio dell’Occidente nelli proprii cittadini, che più giovevole agl’interessi del Prencipe, e degl’istessi cittadini, è, suposto ancorché gli Hebrei non augumentassero il negotio mercantile, il ritrovarsi il traffico in potere della natione hebrea stabilite nella città le persone, e fermate le facoltà, ch’in mano di forastieri, che sempre sono a lei per le cause antedette esteri, et alieni, oltre che li Hebrei non transferendosi fuori della città, n’havendo alcuna stanza spetiale, non è [16v] pericolo ancora ch’apportino altrove le professioni più nobili, e profficue per ornare le loro patrie. Di più anch’è degno di reflessione, che ritrovandosi la navigatione di Ponente in mano di forestieri, ne rissulta alla città disavantaggio di grande consequenza, essendo l’Italia in tale maniera situata che capitando alla sua volta vascelli da ponente, prima scaleggiano a Genova, la quale da pochi anni si ampliò assai di traffico maritimo, dopo successivamente aprodano a Livorno, Cività Vecchia, Napoli, Messina, Raguggi84, Ancona, e finalmente a Venetia, se gli è bisogno d’alcun smaltimento per le reliquie, e rissidui delle loro mercantie com’ultimo porto della Cristianità. Né il disgravio del novo imposto dell’uva passa85 evitò, e rimediò affatto tal pregiuditio, e capitando le mercantie

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particolarmente a Livorno, e Genova, si distribuiscono per tutta Lombardia, Piemonte, e regioni alpine che li confinano, e parimente per la Romagna, e Marca d’Ancona, e massime quando in detti porti abbondano, e che a Venetia scarseggiano. Ma il negotio destinato per gli Hebrei d’Italia da loro compagni, et amici, da Livorno in poi, non può capitare se non nella città, non havendo per ancora gli Hebrei tentato di porre nelli detti lochi stanza, e domicilio, e Livorno stesso dopo alcune eccessive perdite ch’occorse [17r] gli anni passati nella contrattatione di formenti86 fu da Hebrei in gran parte abbandonato. Né si deve stimare lieve la negotiatione de detti Hebrei poiché molti di loro che si ritrovano in altri paesi rimettono gran parte de loro haveri in mano delli abitanti della città non potendosi transferire con le loro persone per varie cause, bastandoli d’haver posto le loro facoltà in loco sicuro. E questo è detto in quanto alla contrattatione di Ponente. E non vale il dire che senza il traffico degli Hebrei a tutti li modi capitarebbero a Venetia l’istesse mercantie, e nell’istessa quantità per il necessario smaltimento nelle provincie circonvicine, ch’in quanto all’Italia di già si ha mostrato non esser ciò necessario. Ma di più dico esser cosa indubitabile che l’abbondanza delle mercantie cagiona il consumo, e massime di quelle che servono per delitie87, e non sono necessarie al nostro vitto, essendo verissimo il detto di Salomone nell’Ecclesiaste ubi sunt opes multe, multi et qui comedent eas88. E se il pane, et il vino, in tempo di carestia se ne consuma con riservata parsimonia, tanto meno le superflue, che solamente al lusso degli huomini servano. Il zuccaro sì grande conditura de cibi, e tanto grato al gusto in tempo di penuria non si adopera per mità89, come si può ciò comprobare dal tempo che li zuccari venivano in gran copia da Spagna90, ch’hora solo d’Alessandria di Egitto [17v] alla città provengono, e vi si osservarà differenza considerabile. E così delle spetiarie, et altre delicatezze humane, che sono lo sforzo delle mercantie che da parti lontane prevengono, e la penuria di alcune merci causa la loro disuetudine. La carestia di zambelotti91 già pochi anni introdusse nella città l’uso di drappi fiaminghi nella copia ch’hora si vede, onde l’abbondanza di mercantie addotte da Hebrei causa ancora il smaltimento e consumo, d’onde ne prevengono li emolumenti

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di datii al Prencipe. In quanto poi al negotio di Levante circa la scala di Spalatro92 ove vi concorrono tutte le mercantie non solo d’Europa, ma dall’Asia per via di terra, non è dubbio che non capitando in mano degli Hebrei sarebbono manegiate da Turchi, e come tuttavia in gran parte si essercita. Onde non è di porre alcuna difficultà esser più convenevole ritrovarsi il traffico appresso gli Hebrei che de Turchi, fra l’altre ragioni, in particolare v’è questa, per li disavantaggi ch’hanno li sudditi negotiando con Turchi. Il negotio di Morea della seta93 sarebbe tutto de Greci sudditi al Turcho, ch’havendo ivi amplissime possessioni accadarebbe l’istesso ch’a forastieri di Ponente habbiamo di già evidentemente mostrato. Il traffico delle Smire94 si conserva tuttavia in gran parte in mano de cittadini. [18r] La contrattatione di Sorìa, non è al proposito per gli Hebrei per una grave imposta sopra le loro mercantie da Turchi instituita. La scala95 d’Alessandria per le straordinarie gravezze e spese, non è troppo frequentata dagli Hebrei se non da quelli che personalmente vi si transferiscono, et è traffico di ventura, e non di sicurezza di mantenervi sopra, li dispendii domesticii, di modo che né anco li cittadini, che traffico in Levante non ricevono dalla contrattatione degli Hebrei danno di momento considerabile.

CONSIDERATIONE IV Che gli Hebrei siano idonei sopra modo al negotio Reclama il comune degli huomini che la natura li habbi incaricati, e vessati d’urgentie, e necessità96 in gran copia più che agli altri animali privi di ragione. Ma contra dovere si lamenta, perché l’indigenza, et il bisogno sono li veri stimuli, et impulsivi all’inventioni, e ritrovamenti dell’arti più degne, et eccellenti, che tanto nobilitano il genere humano. Ove l’esperienza dimostra che li meridionali per la clemenza del loro cielo, e fertilità di terreni si trovano quasi privi d’ogni industria, ma li settentrionali dal rigore del clima, e sterilità del suolo spronati con la [18v] navigatio|ne, et essercitio dell’arti, sono divenuti celebri e famosi. Et alcuna volta mi arreccò meraviglia che li Romani conforme alla loro falsa superstitione di errigere

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altari, e deificare gl’inventori delle giovevoli professioni, e che insino la Fortuna, stimata pure da loro cieca e temeraria, trovò in Roma particolare adoratione97, et apritura di molti sontuosi tempii, al bisogno primo stimulatore e sferzatore all’imprese degne, e proffittevoli inventioni, non li fosse giamai da essi instituito culto, né verso di lui osservato alcun rito religioso. Nela scola del disaggio sotto la rigorosa disciplina di esso bisogno, sono eruditi, et instruiti li Hebrei più che ogni altra natione, essendo privi di beni stabili, senz’essercitio delle arti mecaniche, lontani da proffitti del foro, e d’altri impieghi urbani, carichi di famiglia essendoli anco per loro riti proibito il celibato, onde li conviene con industre diligenza, et accurata vigilanza aprirsi la via al proprio mantenimento, e sovenimento. Per il che si osserva che ove sono dimorati gli Hebrei vi fiorì il traffico et il negotio, come Livorno ne può fare attestatione. E la città di Venetia giamai porrà in oblio la memoria del primo inventore della scala di Spalatro98, che fu hebreo di natione, che con suoi raccordi transportò il negotio di gran [19r] parte di Levante in la città, giudicata hora detta scala il più fermo, e solido fondamento di traffico ch’habbia la città, prevalendo tale inviamento99 agli altri, quanto molto più stabile, e meno esposta all’ingiurie della fortuna è la terra che il mare. Ma quello è notabile, circa li capitali d’altri Hebrei, che sotto dominii alieni si ricoverono, che come ho accenato nella precedente consideratione, che in gran somma si rimmettono alli Hebrei della città li padroni de quali si sodisfano d’ogni poco d’utile, et emolumento che ne traggono, poiché non li ricapitano a Venetia per vantaggio di utili che più in questa piazza, ch’in altra ne sperano, ma solamente per evitare quelli pericoli che ritenendoli appresso di loro agevolmente li potrebbero occorrere. Ma quelli che hanno altr’impieghi oltre al mercantare, per ogni lieve diminuitione di guadagno nel traffico, si distolgono da esso, e si essercitano in altre occupationi di maggior proffitto. Ma discendendo ancora in tale proposito al particolare è cosa notoria appresso li negotianti, che in tre modi si atraeno li traffici in una città, e massime maritima: l’uno, per causa della propria navigatione, ché coloro, che sono possessori di vascelli, sono parimenti arbitri delle mercantie, [19v] come si scorge nelli

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Fiamenghi, secondo, con transferirsi personalmente in diverse piazze, ch’in tal maniera si contrahe amistà e corrispondenza, terzo, mandando li proprii capitali in diversi lochi, e così s’invita, et alletta altrui di reciprocamente rimmettere, e rimandare alla città le loro proprie facoltà. In quanto alla navigatione de proprii vascelli gli Hebrei ne sono quasi affatto privi, benché in Amstradamo, Retrodamo, et Amburgo vi ne sono alcuni partecipi di vascelli. Circa al viaggiare, e formare nuove pratiche, l’hebreo ad alcun altro non cede, non havendo occasione di trattenersi nella propria patria per coltivare terreni, over altri esercitii urbani che l’impediscono. Vi si aggiunge l’essere molti in famiglia non admettendo il celibato, onde compartendosi alcun’alle cure domestice, gli altri facilmente s’impiegano nelle peligrinationi di lunghi viaggi, onde introducono nuovi negotii da paesi stranieri, e remoti, nelle città ove hanno posto nel principio il loro domicilio. Nel mandare poi il loro capitale per il mondo, l’hebreo più ch’ogni altro può ciò praticare non solo per cagione dell’ urgente bisogno che lo stimula di tentare per ogni mezo il favore della fortuna, ma per havere le sue facoltà non investite in beni stabili, ma in danari contanti, e mercantie, che perciò sono allestite, e disposte [20r] di esser traghettate, e rimmesse ove più gli agrada, e li piace. Et è degno d’osservatione di quanto utile apporta quest’ultimo modo praticato in tutto quel tratto di terra ferma che giace tra Dalmatia e Costantinopoli, et altri lochi del dominio turchesco, ove non vi fa ressidenza alcun consolo veneto come nell’altre scale di Levante, che vi dimorano publici rappresentanti, ché non complirebbe alli Venetiani di mandare li loro capitali in mano de Turchi, overo Greci sudditi d’essi Turchi, né anco alli loro proprii corrispondenti per quelli pericoli, e pregiuditii, ch’in tali lochi facilmente li potrebbe occorrere, non havendo ivi alcun protetore che li diffenda dall’insulti di quelle genti. Ma gli Hebrei o spinti dalla necessità del vivere, overo havendo altri Hebrei, anzi la maggior portione della loro natione suddita al Turcho, arditamente vi capitano con le persone, e vi rimmettono le loro facoltà, et haveri. E non è dubbio che le peregrinationi, et il transferirsi delle persone, è l’atrativo de trafichi, e benché non si può negare che la temperie dell’aria, e

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situationi de paesi, siano gran dispositioni a comertii e negotii, tuttavia il volontario concorso, et alettamento degli huomini n’è efficacissima cagione. Il primo huomo dal qual trasse origine tutta la posterità del suo genere, fu formato nella temperata regione [20v] orien|tale100, e nelle delitie del Paradiso. Nondimeno la sua progenie si partì da quel sito, come attesta la Scrittura. Cum proficisserentur de Oriente invenurunt campum in terra Sennear, et habitaverunt in eo101, si alontanorono da quella regione havendo in essa recevuta prima l’espulsione dal paradiso e poi il diluvio ch’annichilò quasi affatto tutti gli viventi, tanto più sono risentitti gli huomini dall’offese, che memori de benefitii. Et è cosa certa come disse quell’oratore appresso Tucidide gli huomini produre le fortune, e non queste quelli102. Voglio dire al nostro proposito, che gli huomini guidono li commercii ove gli agrada, e ne sono affatto arbitri. In quante maniere flutuò, e fu aggitato il negotio, e transporto delle spetiarie, hora in Alessandria d’Egitto, hora in Damiata103, hora in Damasco, et altre volte in Aleppo, capitando esse poi al Mare Caspio, e da indi infino alla Moscovia, et altre volte alla Tanna104, e per diverse vie capitavano poi a Venetia, ove si compartivano alle regioni occidentali dell’Europa. Al tempo presente si è ridotto tal trafico appresso Portughesi, Flamenghi, et Inglesi, così il comercio del danaro d’Europa alcun tempo capitò a Bisenzone di Borgogna105, a Lione di Francia, e da indi in Anversa, et hoggidì Amstradamo in quelle regioni settentrionali per il concorso de mercanti, è divvenuta celeberimo emporio [21r] d’|Europa a nostri tempi. Le lane spagnuole capitavano prima a Venetia, che a Genova, e Livorno, benché tanto vicini sono alla Spagna, hoggi da quelli lochi si conducono alla città. Hieri si può dire il giro del danaro d’Italia, e fuori di lei si faceva a Piacenza, hora gran parte ridotto a Verona, è poco tempo che Tripoli era la principal scala di Sorìa, hora a penna106 vi capita nel corso anuale una Tartanella107, et il tutto è divoluto ad Aleppo, et Alessandretta108, Raguggi, e Narenta109, furno scale delle caravane turchesche per l’Italia, hora si è ridotto a Spalatro. Livorno fu picciol, et ignobil borgo, ma dall’industria delli Gran Duchi divvene famoso mercato dell’Italia, ancorché alla

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transmissione delle merci sia incommodo, non havendo vicinità di fiume navigabile, né ampla pianura da potervi condure e comunicare le mercantie, ma fra alpestri gioghi de montagne, è circuito il suo territorio, et è vicino ad altri porti più di lui sicuri, et opportuni, nulla di meno, quelli prudentissimi prencipi aggevolorono le difficultà, e spianorono l’impedimenti. Et è cosa certa, che la maggior atratione del negotio, è la libertà del vivere, e sicurezza della possessione de proprii beni, come esatamente, e [21v] puntualmente conferisce, et osserva il dominio venetiano a suoi habitanti, e trafficanti, et è il vero stimolo alla natione a capitarvi essendo per la sua debolezza diffidentissima. Dalle cose accenate in questa consideratione, si può concludere essere proprii delli Hebrei alcuni negotii e traffichi annessi e congiunti alle loro persone, e havere da essi necessaria dependenza per loro industrie, inventioni, corrispondenze, e pratiche, che senza la loro coassistenza nella città affatto si perderebbono, o ch’altrove capitarebbono.

CONSIDERATIONE V Dell’ossequio, e prontezza dell’hebreo nell’obedire Il governo tirranico ambisce l’oppressione de proprii sudditti, il reggio et aristocratico desidera la pronta ubidienza. Ma nel forastiero l’uno e li altri si contentano d’un piacevole ossequio sì per esser lui mobile, e volatile come per havere chi lo protegge e diffende dall’altrui insulti. Ma gli Hebrei sott’ogni conditione di governo, e regimento sono sempre ossequenti, ubbidienti, e soggetti, e l’esperienza dimostra, ch’occorrendo sovente alcuna difficoltà con negotiatori per nuove impositioni, prohibitioni de navigationi, e transporti d’alcune merci, et altre emergentie simili, [22r] l’|altre nationi estere soggette ad altri prencipi riccorrendo a loro ministri, e rapresentanti avviene ben spesso, che li affari meri mercantili sono da essi rafigurati come publici, e di Stato. Ma la natione hebrea dispersa, e disseminata per il mondo, priva d’alcun capo di protetione, con pronta flessibilità si dispone sempre in conformità de publici comandi, onde si

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pratica bene spesso ch’essendo imposti agravii particolari alla natione non si sente da essi spirare, et esprimere un semplice ramarico.

CONSIDERATIONE VI Che la professione mercantile dev’esser distinta dall’altre La massa degli huomini mentre non fosse stata dalla prudente diligenza di legislatori, e formatori di governi civili, distinta in varii ordini, e differenti classi rassembrarebbe maggior diformità che l’antico, e decantato cahos all’imaginatione de poeti giamai rappresentasse. Socrate110, e Platone, nelle loro machinate republiche posero tal distribuitione, come principale elemento delle loro politie111, e l’istesso osservò il moderno inventore della Utopia112, et il simile ancora eseguirono tutti li praticanti, come parimente Aristotile nel primo della Politica113, ch’impiegò ogni suo [22v] spi|rito in riordinare, e corregere le divisioni fatte da quelli doi gran maestri dell’humanità. D’Indiani narra Diodoro114, che la loro politia sopra tutte l’altre fiorì per esser divisi in certe classi diverse di cittadini, in tale distintione invigilorono115 li Romani, havendola per fondamento del loro governo politico. Ma la Republica Venetiana, la meglio ordinata di qualunque altra si conserva appresso la nostra memoria, con ogni puntualità sempre procurò, et osservò non solo nel triplicato ordine spettante al publico governo di comun popolo, cittadinanza, e nobilità di far apparire, e mantenire ferma un’esata distintione d’ordini, ma ancora con indicibile industria ha diviso, e separato tutte l’arti della città ben meno che mediocri, non admettendo ch’alcuna di loro si confonda con l’altra, dalla qual distintione ne rissulta tre considerabili giovamenti. Primo, che per tal maniera si mantengono l’arti nelle loro perfettioni, anzi sempre con magior progresso migliorano, essendo ognuno attento, et occupato nella sua propria, poiché l’ultimo apice della perfetione di qualsivoglia arte, è inacessibile, ché perciò li antichi Egitii decretarono, che li figliuoli succedessero a padri nell’essercitio dell’istessa professione, non essendoli concesso ad altra trapassare.

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[23r] Secondo giovamento, che per questo divieto si conserva certa concordia fra il popolo, non occupando l’uno il mestiero dell’altro, e per consequenza si evita l’invidia, et il livore, che facilmente fra loro potrebbe occorrere, il che non avviene vivendo ognuno sopra la propria arte, e professione. Terzo, che trovandosi il popolo diviso in più minute parti molto più agevolmente è ossequente a suoi maggiori nel ricevere loro comandi, et è meno abile alle conspirationi tumultarie, e come in altro loco si dirà, dalli quali tre profitti si comprende quanto sia giovevole nelle populationi certa distintione, ch’il tutto ridonde a perfettione, unione, et ubidienza. Al proposito degli Hebrei, si può dire ch’essercitandosi nel traffico, e negotiatione, riesce molto decente esser distinta la loro professione da tutte l’altre, come importante, e di gran conseguenza, essend’essi separati dalli artegiani, essendoli [prohibito] per publico decreto impiegarsi in alcun’arte operaria, distinti da cittadini essendoli vietato il poter possedere beni stabili, e convertire in essi li loro capitali, onde li conviene necessariamente per sostentarsi con loro famiglie, impiegar se stessi, e loro haveri nel traffico, e [23v] negotiatione per poco o molto guadagno che dalla contrattatione ne rissultasse. Onde ne derriva al publico grandissimo emolumento de datii, che in sette viaggi, che si fanno in meno de anni cinque, ascendono a somma eguale all’istesso capitale, et alle volte molto più se vogliamo includervi il datio acessorio, et obliquo che nella consideratione VIII116 son per dire, et anco calculare il datio che apporta il guadagno che frutta l’istesso capitale nel progresso di detto tempo, che convertendo il proprio havere in beni stabili senza alcuna proportione sarebbe di minor utile al publico. Ma forsi dirà alcuno ch’investendo overo fabricando un palazzo benché dal stabile ne rissulta al Prencipe minimo guadagno, tuttavia il danaro con il quale si merca, e si fabrica tal stabile non si disperde, ma capitando in altrui resta di nuovo disposto alla negotiatione, e di più avanza il Prencipe l’annuale agravio posto sopra il stabile. Al che si risponde ch’in quanto alle fabriche, et edefitii di case, ducati dieci milla non può fruttare il stabile con qual’è fabricato in progresso d’anni diece al padrone d’esso, più che ducati ˆ4ˆ mille a ragione di quatro per cento all’anno, et al Prencipe ducati ˆ2ˆ [4]00.

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In quanto poi al danaro speso, è vero che realmente non si perde, tuttavia si minuccia117, e tritula in sì picciol parte, e si difonde in persone [24r] lon|tanissime dalla contrattatione maritima, ch’in progresso di molti anni non si unisce a far più corpo di negotio come fiume abbondantissimo di acque, diviso in molti rami perde l’uso della navigatione, e s’inaridisce. Oltra che le materie degli edefitii si mercano per il più da persone di terra ferma non applicate alla negotiatione, e traffico maritimo, et in buona parte sì questi come li operarii sono esteri, e forastieri. In quanto poi all’investita di terreni se sono inculti v’è l’istessa difficultà che negli edefitii. Ma se sono fruttiferi e coltivati, quelli che li vendono giamai ciò fanno per curiosità di negotio, et applicatione di traffico, ma per urgenti necessità, oltra ch’in buona parte sono gente mediteranea distratta dalla contrattatione. E siccome per occasione dell’edefitii di case, palazzi, e coltura di terreni il danaro amassato si diffonde in benefitio d’alcuni, così ancora per via del traffico, con magiore distributione, si impiega a proffitto d’assai numero de persone. L’impiego della fabrica d’un edefitio, finito che sia cessa per molto tempo il guadagno alli artefici et edeficatori. Ma li emolumenti che rissultano ad altrui per il traffico, continua in sin tanto che si mantiene il capitale, arreccando trattenimento, e guadagno ad ogni sorte de arteggiano, sensali, scrittori, notaii, causidici, padroni [24v] di fondachi. E quello importa più che mantiene li vascelli, e la peritia di naviganti, e marinari cosa di tanto ornamento, et utile ne’ tempi di pace e così necessaria in occasione di guerra, dal che si conclude, ch’il mantenire la professione mercantile distinta, non è meno utile al Prencipe, di quell’è al privato, et a niuno nocivo, e danevole. E credo che nel corpo civile rassembra l’hebreo quella parte del piede, che calpesta la terra la quale essendo inferiore a tutti gli altri membri a niun di loro è di agravio, ma li sostiene ancora, e ciò dico ch’essendo all’hebreo interdetto qualunque professione, eccetto il mercantare, non apporta alcun danno a qualunque stato di persona, né ad artiggiani, né a forestieri né di molto aggravio all’istessi mercanti, cittadini, che per il più negotiano nel Levante come nella consideratione III118 ho dimostrato, ma sostiene numero grande de artisti, e professori

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che sovengano al bisogno degli Hebrei sì per servitio de loro proprie persone, come anco per il traffico, e negotiatione essendo agl’istessi Hebrei proibito qualunque tal essercitio.

CONSIDERATIONE VII Che le facultà devono esser terminate, e girative [25r] Incombe ad ottimo, e provido politico procurare, che li beni, e ricchezze della città con giusta proportione geometrica conforme alle regole della giustitia distributiva siano divise, e compartite in fra li suoi cittadini in modo ch’alcuno delli membri della città con atrahere a sé la maggior parte de guadagni non restano gli altri esausti, e meschini, monstro non men difforme nello stato civile, di quello avvenirebbe nel corpo dell’animale, onde Aristotile nel V della Politica: maxime vero lege, ita providere conandum est, ut nemini sit excessiva potentia, neque amicorum, neque pecuniarum119. Oltra che l’esorbitante opulenza dell’uno, e disperata povertà, et indigenza degli altri, minacciarebbono tumulti, e spirarebbono seditioni, anzi molte volte incontrandosi, e copulandosi insieme queste due estremità, sono il sconcerto del stato civile. Onde Salomone ne Proverbii, capitolo 22: Dives, et Pauper, inter se occurrunt utriusque operator est Dominus120, quasi volesse dire, ch’il ricco opulente, et il povero indigente, molte volte insieme s’incontrano, e combinano a guisa ch’il secco s’unisce con l’umido, e l’appetisce, et insieme si conglutina, il che [25v] tutto rissulta dalla Divina Providenza, che vuole alterare il stato degli huomini. Né in alcun altro modo più agevolmente può accadere tal incongruità, e sproportione, che per mezo del traffico, e negotiatione, che maneggiate con vigilanza, e prudenza, con l’esser secondate da buona fortuna è agevole arrichire sopra modo, et in eccesso solevare la conditione di qualunque ch’in esse si essercita, e con più d’un esempio si potrebbe rappresentare la verità di tale avvenimento. Ma il volere con rigore ridure li haveri a segno di moderata proportione, fu impresa sin hora desiderata, ma non giamai praticata, e massime l’uguaglianza de beni mobili, e danari

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contanti, e se fu alcuna volta attentata nelli beni stabili riuscì sempre con infelice successo, le leggi di Falea121 circa la divisione de beni, vivono solamente nell’oppugnationi di Aristotile nel secondo della Politica, nel resto poi sepolte nell’oblio. L’egual divisione della Terra Santa fra Hebrei fu senza seditione essequita, ma perché occorse nella loro prima introdutione, e subito per l’inegualità de figliuoli con poco frutto, si rese vana. Fu interdetto a loro re il moltiplicare, et augumentare ricchezze, ma non vi fu posto limite e termine spetiale, come nel Deuteronomio si legge122. Le leggi agrarie furono piuttosto seminarii [26r] de tumulti appresso li Romani, che correttioni de disordini, la ragione è che non si può altrimente arrestare il felice corso de avventurati, se non per vie a loro insensibili, et inosservabili, ch’altrimenti ogni provisione se li rappresenta violente estorsione, et invidioso livore, oltra ch’in tal modo se distorna l’industria degli huomini, e li devia dalli loro cominciati progressi, essendo suspinti da fervente desiderio di estendere all’infinito le loro fortune, non fatturando l’humana avidità, li sognati mondi di Democrito. È ben vero che la Republica123 in alcune professioni particolari ha proveduto a simili disordini, limitando il numero de panni a lanaiuoli, e le quantità de tellari124 a setaiuoli, acciocché a tutti li sia compartito li lavoranti, et operarii, ma circa l’essercitio mercantile in universale non vi è stato giamai deliberato cosa alcuna, essend’impresa per se stessa impossibile, et impraticabile. In quanto agli Hebrei, senza ch’alcuno vi provede, aviene che prosperando alcuni de loro ne traffici, giamai li è possibile di arrivare a segno di ricchezza, che sia estraordinario, e pregiuditiale ad alcuno. Ma all’influsso de loro avventurati progressi, subito succede a pari passo il reflusso de loro scadimenti, e ciò rissulta per non poter essi possedere beni stabili, che sono li tenaci vincoli, che [26v] arrestano, e fermano la volubilità dell’human fortune. Vi si aggiunge il rito d’amogliarsi ognuno di loro, e perciò moltiplicare in famiglia, che gli apporta gravi dispendii, e minuta divisione de loro haveri, oltr’il solito mancamento dell’industria ne figliuoli de ben aggiati cessando il stimolo del bisogno, e vessati dal lusso, ordinario satteliti delle comodità.

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Vi concorre anco le gravezze ordinarie, e straordinarie, imposte alla natione, dalli quali accidenti, ne segue, ch’in brevissimo tempo a guisa di baleno, le loro facoltà spariscono, in maniera tale, che li loro haveri, e facoltà, sono sempre mobili, e girativi, né mai fissi, e permanenti. E la esperienza lo dimostra, per il corso d’anni cento giamai essersi partiti dalla città Hebrei, che fossero opulenti, e ricchi, ma sempre doppo il totale descapito de loro haveri, e facoltà, et a guisa del mare, solito di riggettare a lidi le cose lievi, e ritenersi le sode, e gravi, ha parimente la città per suo costume d’escomiare125 da sé gli abbatutti, e disfatti, et abbracciare gli aggiati, et oppulenti, e si è osservato, che quasi mai alcuna mediocre ricchezza d’Hebrei è trapassata il secondo grado di posterità.[27r]

CONSIDERATIONE VIII Delli profitti, et utili ch’apporta la natione, calculandoli distintamente Li dominii, e regni siccome il nostro esser, si constituiscono da tre parti principali, da spirito, et anima che li regge, che sono li Prencipi, e consiglieri di Stato, che provegono a publici affari, da organi, e membri ch’essercitano gli impulsi, e moti che li sono ordinati dalla parte dominante, quali sono li ministri reggi, e magistrati subordinati, e la soldatesca che eseguiscono li comandi de loro superiori, conforme la graduatione de loro offitii, e fontioni. Vi è poi il sangue, et altri umori a lui congionti, benché conforme la comune opinione sono inanimati, tuttavia scorrendo per tutto il corpo l’alimentano, e nutriscono. Questa portione di noi rassembrano nel Stato politico li mercanti126, artigiani, e qualunque altro, che distratto dal governo politico, e fontioni publiche nella città si ritrovano, li quali tutti con il benefitio del danaro, che si cava dal loro traffico, et industria [27v] mantengono, e nutriscono il reggimento e governo, non meno in tempo di pace, ch’in occasione di guerra, e nella lingua ebraica la parola di (damim)127 è comune al sangue, et al danaro128. In ogni loco del mondo sono li Hebrei solamente portione

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di quel sangue, over dinaro che alimenta il corpo politico. Non hanno autorità di comando come superiori, nemmeno impulso di subordinata potestà come organi e ministri, non havendo con il publico alcuna connessione, ma solo come semplice popolo arrecano utile al Prencipe in ogni tempo, et opportunità, e ritrovandosi in la città numero riguardevole di loro non si può diffinire il giovamento, che straordinariamente al Prencipe potessero apportare, essendo li popoli a guisa di numerosa quantità d’informi marmi, che servono al statuario in molti bisogni, che li può occorrere, conforme all’opportuna richiesta, che però in molta quantità ne tiene appresso di lui apostati. Oltr’anco il decoro che al Prencipe rissulta per la numerosità de suoi sudditi, conforme il detto del savio, Proverbii capitolo XIV in multitudine populi dignitas regis, et in paucitate plebis timor emacritudinis129, così conforme l’hebreo si legge, e Rabbi Levi130 dottissimo così esplica la parola di razon131, cioè con la moltiplicità del popolo ne segue la grandezza, e maestà reggia, e con il mancamento delle gente [28r] vi è il timore della penuria e carestia, cioè il concorso delle genti non adduce mancamento e diffetto del vitto, come li volgari credono che la numerosità del popolo causa la strettezza e penuria, anzi augumentandosi il negotio per il concorso delle genti si accrescono li guadagni, et a proportione li dispendii, e questi poi allettano altrui alla condotta di vitovaglia, et alimenti, et altri sovenimenti de bisogni humani. Ma perché li errori, e le falacie sono per l’ordinario li sateliti delle trattationi generali, e la verità sempre compagna, e seguace della particolarità e distintione, però parmi convenevole discendere all’individuo, et avicinarmi al calculo, che probabilmente si può stimare, che d’utile ne riceve il publico ordinariamente et annualmente dalla natione ricovrante nella città. Senza includervi quelli che dimorano nel resto del Stato, stimo gli Hebrei esser vicino al numero di sei mila in circa, e si può giudicare, che come comun popolo il datio che si cava del loro vitto, come pane, vino, oglio, carne, vestito, et altre cose simili al loro servitio pertinenti, ascende alla summa di ducati 48 mila, computando ducati 8 all’anno per testa. Né vale il dire esser vano detto computo, poiché se gli Hebrei

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non habitassero nella città vi capitarebbero altri tanti abitanti cristiani di maggior profitto al Prencipe che [28v] gli He|brei non sono, e come seguì nell’anno doppo l’ultima peste, ch’in brevissimo tempo si riempì di nuovo la città, e ritornò conforme al pristino132 stato. Non vale ridico tal’ instanza, ch’essendo all’hebreo interdetto l’essercitio di tutte l’arti, e proibitoli il possesso de beni stabili, et impeditoli l’impiego del Foro, vivendo con quell’estraordinarie industrie di sopra accennate, non occupano il loco d’alcuno, e quando loro si partissero non ricapitarebbe nella città alcun altro per trattenersi con tal istento di vita, e prohibitioni sopradette. Et il pieno conforme l’opinione de fisici desidera d’occupare il vacuo, e reintegrarlo, ma ove vi è stato prima pieno a lui congenere, non aspirando a quel vacuo che giamai non fu d’alcun essere reale occupato, come se fuori dalla convessità del cielo si admettesse spatio privo d’alcun corpo. Devesi ancora advertire, ch’oltre il numero de detti Hebrei, non potendo essi esercitare alcun arte mechanica, et operaria come ho detto, nemmeno hanno entratte per il loro vitto, ch’il tutto mercano. Si trattengono per causa loro quantità grande di persone, che si mantengono dell’utile che tragono dal venderli quello li bisogna per il loro alimento, com’anco d’artigiani, che s’impiegano in servitio non solo delle loro persone, ma per supplire anco alla contrattatione di merci smaltite dagli Hebrei in diverse [29r] parti del mondo elaborate da essi artisti, e per non haverne del numero certa scienza, voglio suporre esser al numero di quattro mille. E se benché non v’essendo gli Hebrei, potrebb’esser che ve ne restassero parte di loro, tuttavia mancandoli il guadagno si ridurebbono a tal stretezza di vita, ch’ancor il publico non riceverebbe da loro l’emolumenti ordinarii. Onde conforme il computo sudetto a ragione de ducati otto per uno, ascenderebbe a ducati trenta doi mille. Li datii che direttamente, et effettivamente sono pagati dagli Hebrei d’entrata, e d’uscita, giudico esser in circa ducati settanta milla all’anno, ché non vi essendo gli Hebrei in gran parte si perderebbero negotiando essi del proprio capitale, over di parenti a loro congiuntissimi dell’istessa natione, ch’anteponerebbono gli Hebrei a qualunque altro in qual loco si trovassero in farli capitar la lor facoltà, e

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negotii. Ma di più ancora è d’avvertire il datio ch’obliquamente per causa del traffico degli Hebrei perviene in poter del publico. Estrae l’hebreo un panno di lana fuori della città, e paga il suo datio, ma di più quel smaltimento è cagione dell’introduttione delle lane, oglio ch’a lavorar detto panno si consuma, il guado, indico, grana, cremese che a tingerlo si adopera. Così ancora nell’estrattione del sapone, [29v] non solo si deve advertire al semplice datio dell’uscita, ma dell’entrata dell’oglio, et altri ingredienti, che fanno bisogno alla sua compositione, così li panni di seta, e tutte l’altre mercantie, che si levano dalla città, e così dal datio, che effetivamente pagano dell’entrata, si può giudicare quello dell’uscita, che per l’introdutione de tali mercantie, perviene poi al publico. E giudico che sia in circa doi terzi del primiero, cioè altri ducati 47 mila. Oltra di questo vi sono ancora le gravezze delle provisioni de banchi, e dependenti da essi, et altre spese ordinarie alla summa di ducati otto mila all’anno in circa. La qual tansa come l’altre straordinarie si fanno per estimo di facoltà, havendo advertenza di non incaricar li poveri, e perciò non vi concorre molto numero di famiglie a tali pagamenti rispetto agli abitanti sudetti, tanto che alcuni di loro si ha trovato pagar ducati quatrocento all’anno d’agravio ordinario, et agiuntovi il straordinario, insino alli ducati seicento. L’obligo de aloggi de Prencipi, et ambasciatori spesati dal publico è cosa parimente considerabile, ché quando per tal fontione pagava il publico, si trova haver sborsciato sino a ragione de ducati ottocento al mese, e quest’è delle più travagliose, e noiose cariche, che siano imposte agli Hebrei per la difficultà che si ha nell’essequirla, mutandosi [30r] ogni volta palazzi per tali aloggi. E si potrebbe ancor addurre certe minutie, com’il consumo dal sale, che credo esser il quadruplo di quello adoperano li cristiani per il rito ch’osservano nell’insalare la carne per l’estrattione del sangue a loro prohibito133, che non occorre farne raconto. La somma della rendita annuale sopradetta è ducati doi cento cinque mille. N’io ardisco affermare il computo sudetto, esser incensurabile, et in castigabile. Le materie politiche sono piene d’alterationi, e contingentie, et in questo Discorso mi son

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proposto seguir a guisa di nuovo accademico il probabile, et il verisimile, non come matematico l’assoluto demonstrabile, et irrefragabile. Vi si aggiunge la tansa straordinaria dell’anno passato 1636134 che importò ducati 11.000 che sebbene appariva mediocre, essend’imposta all’universale, quando poi s’applicò al particolare riuscì gravissima, al paragone dell’altri abitanti della città. Vi fu ancora l’imposta del quarto delli affitti, che risultò agli Hebrei molto gagliarda, per esser estimate le case conforme alla strettezza delle loro abitationi, confinati nell’angusto recinto del ghetto, che senz’alcuna esageratione si può giudicare tal estimo esser stato il triplo, che se dette case fossero situate fuori del ghetto stantiate da Christiani, e questo importò [30v] ducati sei milla, ch’aggiungendo questi doi agravii alla somma predetta sono doicento e vinti doi milla, quantità di danaro considerabile, che vi sono delle provincie, che passano sotto titolo di duchea135, che non arrivano a tal termine di rendita. Di più anco in tempo d’armata di mare concorrono gli Hebrei con gli altri artigiani in supplire alli publici bisogni, onde in tal’ occasione nel tempo passato hanno pagato ducati mille, e cinquecento. Ma di più è notabile, che la quantità d’artigiani, e professori che si trattengono nella città per causa degli Hebrei, come più volte ho detto, al tempo di armata concorrono con le loro persone, overo con il danaro in stipendiare huomini, che serviscono in armata conforme l’instituti del Prencipe, che anco questo è profitto rissultante dagli Hebrei. Oltre di ciò si può considerare il dinaro di detti Hebrei di somma considerabile, che si gira nel banco publico esposto al servitio di molti, e del negotio in particolare. Ma di più anco quando fu imposto il depositare danari in Cecca136 con li soliti utili, furono tansati gli Hebrei conforme agli altri. Ma circa ciò merita alcuna rifflessione, ch’essendo rimessi in mano d’Hebrei molti haveri, e facoltà d’amici, e parenti della natione, soggetti a prencipi alieni, come già ho detto in occasione di far depositi in [31r] Cec|ca, si potrebbe pratticar con essi alcun partito di rilevante somma con gli utili ordinarii delli danari altrui capitatoli nelle mani. Il che sarebbe di maggior proffitto, ch’il trattare simili affari con altri stranieri, che attrahendo gli utili annuali alle loro patrie ne privano la città, ma con gli Hebrei

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forsi ne succederebbe diverso avvenimento, ché non havendo propria patria si ridurebbero facilmente ove è posto il loro capitale, e ne cavano utile. Ma quello, che sopra ogni altra cosa è meritevole d’advertenza, et osservatione, che per conservare detta entrata non ocorrere, ch’il Prencipe vi si occupi con li soliti provedimenti, né che v’impieghi spesa, e dispendio alcuno. Il recinto del ghetto non ha bisogno de presidio, che lo custodisca, né cittadella, che lo diffenda, overo raffreni, non armata di mare, che lo costeggi, per evitare li repentini insulti de corsari. Non vi è gelosia de prencipi, che lo soprenda; non timore d’interna seditione, che l’agiti; non pericolo d’inondiatione di mare, overo d’impetuoso fiume, che lo somerga; non necessità di continova ristoratione, et acconcio di muraglie, né provedimento di apparatto di bellici instrumenti; non vi occorre haver cura [31v] per il mancamento di vitto, né vi fa bisogno di regimento per governarlo, né questore, overo camerlingo ch’esiga l’entrate. La natione hebrea è per se stessa sommessa, sogetta, e pieghevole, all’ubbidienza del suo Prencipe, posta nel centro si può dire della città, diligente et industre da per sé in osservare, e corrispondere con gran rigori li diritti, e pagamenti, ch’al publico deve, e vorebbe essere così habile al maneggio dell’armi con il spargimento del proprio sangue, come pronta alla profusione del danaro in servitio della Serenissima Republica, che non meno in quell’attione, ch’in questa si mostrarebbe disposta. E qui m’occorre memorare137 cosa, benché di poco momento, e quasi indegna di farvi sopra riflesso. Ma poiché da ciò si può congieturare il buon talento, che tiene la natione verso il publico servitio, non ho voluto trascurare il narrarla, fu l’anno calamitoso per tutto lo Stato, per il grave flagello della peste138, onde li sudditti ebbero occasione di esprimentare la publica clemenza, et il Prencipe di fare dimostranza della sua singulare munificenza, e pietà, che con vigilanza indiffessa, e larghissimo spargimento di danaro sovenne, e suffragò all’urgenti bisogni del suo popolo. Gli Hebrei non solamente fecero generosa risolutione di non importunare il loro Prencipe già tutto occupato in pietosi uffitii [32r] verso li sudditi christiani, ché senza dubbio ancor loro haverebbono sentito gli effetti della

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publica benignità, tuttavia procurorono da se stessi perservarsi139 con dispendiosi provedimenti, forsi la men lesa, e contaminata parte della città. Ma di più ancora offerirono alcune centenaia de ducati all’illustrissimo Magistrato della Sanità per sovenimento de poveri christiani, e dall’eccellentissimo Senato li fu ancora imposto, che dovessero fare un sborso di ducati dieci mila, per aiuto de poveri per ristorarsi poi nelli datii per l’avenire da loro stessi pagabili, benché in quell’istesso tempo continuarono di fare li soliti pagamenti a banchieri conforme a loro accordi, e conventioni, et ebbero essi Hebrei tal decreto a sommo favore, stimando d’haver incontrato occasione di propalare il loro buon affetto in tempi così travagliosi dimostrando la loro ossequenza, et ottima dispositione in essequire li publici comandi.

CONSIDERATIONE IX Della erettione di tre banchi per la povertà, fatta dagli Hebrei140 Di niuna parte, e membro delle loro città tengono li Prencipi più accurato riguardo, et esata providenza, che del popolo povero, e [32v] me|schino, questo è quello, che continuamente reclama, né giamai si contenta del suo stato. Le ricchezze sono timide, e paurose, la povertà, espedita141, resoluta, e temeraria, onde Lucano nel terzo142 in tal proposito disse: Namque asserit urbes Sola fames, emitur metus cum segne potente Vulgus alunt, nescit plebes ieiuna timero143.

Cioè li principi mercano con l’abbondanza, la riverenza, e l’ubbidienza de popoli, l’affamata plebe è affatto indocile all’ossequio, e non sa ciò che sia timore de dominanti. Onde Augusto egregio domator del popolo trionfator di tutti li popoli, come riferisce Tacito, ubi militem donis, populum annona cunctos dulcedine otii pellexit144, e Salomone ne Proverbii, espose la conditione, e natura delle richezze, e povertà, quando disse, capitolo 10 opulentia divitis urbs fortitudinis eius, terror pauperum egestas eorum145, così consona con il testo hebreo, attribuisce alle richezze solamente la difesa, et il riparo di coloro

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che le possedono, come nel capitolo 18 ancor v’aggiunse esser a guisa di munitissima muraglia146. Ma alla povertà concede anco di più il terrore dell’offender, et invader altrui, non havendo timore di pericolare, e perder alcuna cosa, ché perciò ha bisogno di maggior satisfattione, over più rigoroso freno. Ma la Serenissima Republica, non sol indotta al favorire, [33r] e sufragare la sua povertà da interessi humani, e di Stato, ma mossa da interni stimuli della propria carità, fra gli altri ottimi provedimenti di benignità, et esemplare pietà usata verso li bisognosi, fu ancora instituito, et imposto agli Hebrei, che con l’apritura de tre banchi dovessero soccorrere a bisogni, et urgenze de poveri meschini, con utile solamente de cinque per cento all’anno, cosa cosí insensibile che le spese d’affitti de lochi, fattori, agenti, et altre occorrenze supera di vantaggio a sì picciol interesse. La somma di detto imprestito è senza limitatione, benché non siano in obligo li banchieri di servire più de ducati tre per un sol pegno. Questo commodo è spetiale alla città di Venetia, ché in altri lochi d’Italia si presta dagli Hebrei insin a ragione de deciotto per cento, e credo che li ragionevoli impulsi, ch’hanno mosso l’eccellentissimo Senato ad imporre tal carica agli Hebrei in particolare, furono questi. Primo, che scorgendo il prudentissimo Senato certa dissensione e repugnantia, ch’apporta seco la disparità, e differenza di religione, et il disavantaggio, che ne poteva ricevere l’Hebrei come parte più debole, dal popolo più minuto, ha deliberato, che per mezzo del soministrarli danaro ne suoi bisogni si generasse cert’amistà ovvero almeno tolleranza verso gli Hebrei, e come l’esperienza [33v] mo|stra, il popolo comune essere più piacevole, e trattabile con la natione hebrea, ch’in altro loco del mondo. Secondo, ch’essendo l’hebreo per se stesso il più fiacco, e meno rispetato suddito, ch’abbia il Prencipe, mentre che mancasse del suo dovere con la povertà, può essa per ogni minimo delitto, et inosservanza, senz’alcun riguardo reclamare a magistrati per il suo rifacimento, et operare sicché l’hebreo ne riceva il meritato castigo. Terzo, essendo il nome di usura tanto abborrito, e detestato dalle publiche leggi di Venetia, però non ha consentito che n’anco il poco interesse di cinque per cento sia da cristiani

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esegito147. Quarto, benché il felicissimo regimento della Republica è talmente stabilito, che non deve dubitare d’alcuna alteratione, nondimeno per modo di buon governo, e per dare certo documento, et esemplarità ad altrui, non ha voluto permettere giamai, che la fontione di soccorrere con danari alla povertà sia praticata se non da natione affatto rimessa e soggetta, remota assolutamente da qualunque pensiero seditioso, et ambitioso. E quest’istessa advertenza arrecò la Sacra Scrittura nel caso della carestia occorso nella terra di Egitto a tempo di Iacob patriarca, come nel Genesi, capitolo 41 si legge, ch’havendo Faraone148 re [34r] dell’Egitto, vaticinato per mezzo d’insogni149, che dovesse avvenire nel suo paese estrema penuria de vetovaglie, prepose Iosef, ch’all’hora si trovava schiavo incarcerato, e forastiero, alla destributione de viveri per sufragare il popolo in sì grave calamità 150. Che oltra il pretesto della sufficienza, e prudenza di Iosef vi concorse ancora a mio giuditio un arcano di Stato151 di non lasciare manegiare il popolo in necessità, et indigenza tale, da huomo già conosciuto, e praticato da loro, per sospetto che allettandoli in tale ingruenza non se ne facesse padrone, e signore, ma sì bene da un giovanetto per avanti servo, imprigionato, alieno, e differente di religione, privo d’ogni adherenza, assicurandosi per tal via d’ogni sospetto, e gelosia di stato.

CONSIDERATIONE X Che la protettione usata verso gli Hebrei, è attione honorevole È concetto de savii, che la sapienza, e grandezza d’Iddio non meno si fa conoscere nella minuta formatione di picciol insetto, che nella articolatione, et organizatione di grand’elefante, e li maghi in Egitto poterno formare le rane, ma non giammai produrre li pediculi152. Così la virtù di sovrano Prencipe nel soministrare la giustitia, tanto [34v] ri|luce nell’umil plebe, che nell’insigne, e conspicua nobilità e l’istesso Iddio più volte si compiacque nella Scrittura Sacra, nominarsi padre de pupilli, e giudice di vedove, che intitolarsi oppressore de

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superbi monarchi, e domatore di tiranni. E Malachi profetta, conforme l’hebraico disse et splendebit vobis timentibus nomen meum sol clementiae, et curatio in radiis eius153. È la clementia simile al Sole, che li suoi raggi riscaldano più la regione dell’aria inferiore, e contigua alla Terra, che la superiore a lui vicina, così la clementia d’Iddio più s’esercita in giovar alli depressi e bassi, che alli solevati, e sublimi. Onde Esaia, capitolo 66154 disse, in nome de Iddio, ad quem autem aspiciam nisi ad pauperculum, et contrito spiritu? Et il Salmista ragionando con Iddio li dice, ego autem in clementia aspiciam vultum tuum155, cioè l’omnipotenza, la sapienza, et eternità d’Iddio mirano all’infinito, et immenso di cui sono attributi. Ma la clementia e misericordia hanno relationi, e riguardano alla nostra debolezza e fragilità, e però essendo ritratti corrispondenti alla nostra capacità ci sonno espressivi in parte della divinità. Così a Moise che ricercò da Iddio ostende mihi gloriam tuam156, altro non li fu mostrato che la sua clementia, e misericordia, come nell’Exodo capitolo 33. Ma perché li Prencipi ancor loro sono rappresentanti della Divinità conviene che nelle attioni della clemenza concorrono dovendo li [35r] ritratti dell’istesso originario in fra loro non esser dispari. Ricordomi in questo proposito d’haver inteso da esperimentato e saggio politico ministro di gran Prencipe, che affermava, che capitando lui in città, ove dimorano Hebrei, non sapeva ritrovare conietura più evidente per indagare li veraci, et interni sentimenti del Prencipe, et essentiali, e reali conditioni del governo, che in essaminare, e cautamente osservare le maniere con quali si trattava con gli Hebrei sudditi, ché se il Prencipe al suo proprio, e natio popolo mostra piacevolezza, et essercita incorrotta giustitia, può forsi ciò derrivare piuttosto da fiachezza d’animo, e timore, se con forastieri è humano, chissà ciò non avvenire per servile rispetto che tiene al Prencipe a cui sono vassalli. Ma della giustitia, clemenza, protettione, e diffesa ch’usa verso gli Hebrei non può esserne causa se non una virtù eroica d’animo ingenuo, naturalmente disposto in solevare gli oppressi, e sovvenire gli deboli, essendo gli Hebrei non solo d’animo rimesso, e humile, e sempre avvezzi nelle gravezze, et oppressioni, ché però sono acostumati di non esalare pur un languido lamento, com’ancor parimente, privi

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affatto in qualunque regione del mondo di alcun particolare Prencipe che li sia protettore, e difensore. E di più mi soggiunse detto ministro, che fra molte evidentie della giustitia venetiana, e dell’ottimo suo [35v] Gover|no non essere l’ultima, l’osservatione da lui fatta circa l’indifferente157 equità, e non esorbitante impositione, che verso gli Hebrei era usata di fare. Dal che si può ancora concludere non esser meno honorevole al Prencipe venetiano la protettione che tiene della natione, di quello gli è di profitto l’entrate di sopra accenate, tanto più, che queste l’accrescano solamente tesoro, cosa comune con li privati, ma quella gli apporta gloria, ch’è proprietà individuale di Prencipi, e gran monarchi.

CONSIDERATIONE XI Quanto sia difficile diffinir gli costumi degli Hebrei in universale, e che le delinquenze loro facilmente si possono impedire Socrate quel gran maestro della vita civile, che richiamò, come dicono, la filosofia vagante circa li cieli, al consortio degli huomini, introducendola nelle città, dopo una curiosa indagatione di se stesso penetrando in tutti li più reconditi recessi, et abstrusi repostigli del suo animo, pronunziò non sapere se egli fosse un solo animale, overo una moltiplicità di diversi in se stessi anodati, et invilupati, talmente trovava in se medesimo confuse le virtù, e li vitii, li eccessi, e le moderationi, che conforme la dottrina di Stoici li predetti [36r] ani|mali appellavano158. E se Anasagora, che negava la generatione delle cose naturali, ché perciò introdusse una certa massa confusa, e composta di tutte le cose, che giudicò in qualunque cosa vi fosse annessa e congiunta qualsivoglia altra, opinione stimata absurda, havesse una certa simil tal cosa proposta dell’animo degli huomini, forsi con più aplauso de dotti sarebbe stata ricevuta, perché se con attentione si considerasse li moti dell’animo, v’apparirebbe d’infinite cose un universale mesculio. Il coraggio d’avventurare la vita, sovente scaturisce dal timore che s’ha de volgari sussuri e mormorii, come per il contrario Fabio pusillanimo nell’assalire Annibale, ma intrepido

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disprezzator della saliva della plebe, l’avidità di prolungar la vita, e godere de suoi piaceri, anteponendo le volutà deboli ma durabili alli vehementi e brevi, ci fa divenire temperati, e moderati. Onde Socrate appresso Platone nel Fedone scoprì questo gran arcano della moralità dicendo che li moderati, intemperantia quadam temperantes sint, e così timiditate fortes sint159, e Salamon nell’Eclesiaste capitolo 4 disse, et contemplatus sum omnem laborem, et omnem rectitudinem operum, et ecce ipsa esse invidia hominis de socio suo160 conforme l’hebraico; cioè le virtù volgari sono invidia, garegiamento, et emulatione che tengono gli huomini con loro prossimi confondendosi in tal maniera le virtù con vitii. [36v] Il piacer principal oggetto, e tanto attrativo del nostro animo è sempre mescolato con il dolore suo contrario come dimostra Platone nel Filebo161, la sete e la fame sono li magiori condimenti del nostro gusto, le tragiche rappresentationi ci turbano, e producono in noi indignatione contra li tiranni, tuttavia ne sentiamo un certo occulto prurito, et irritamento di piacere, che molto ci alletta e rapisce; e gli Hebrei proferiscono il piacer con la ditione di ʢʥʰʲʺ che derriva anco dal verbo ʤʰʲ che significa parimento afflittivo dinotando la mistione sopradetta162. L’impetuose agitationi dell’ira furono da Homero comendate piene di giocondità, e dolcezza, così nel fervor dell’amore vi nasce la gelosia, e d’indi l’odio a guisa quello disse Tacito del Monte Libano, mirum dictu tantos inter ardores opacum fidumque nivibus163. Alessandro celebre non meno per le sue vittorie, che per le virtù dell’animo, così pietoso verso Dario, e sue donne164, fu tanto poi dishumanato contra Parmenione165 e Clito166, che li consegnorono nelle mani il dominio del mondo, e così crudele con Calistene suo maestro167. Giulio Cesare feroce, et inhumano in Farsaglia, ma clemente con Marcello, et indulgente con Brutto suo uccisore. Nerone, monstro dell’humanità alle volte si ramaricava di saper scrivere in decretare la morte a delinquenti, che non aborrì essercitarla contra la madre, et il [37r] suo maestro Seneca, era amico della virtù, e delle dottrine, ma l’odiava in altrui, ché perciò Lucano il più spiritoso poeta che giamai fosse perdé la vita168. Nel tempo della crudel proscrittione ordinata dal triumvirato, ove

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la fede, la carità, la gratitudine presero esilio dalli più eminenti e ben composti spiriti della republica, non trovandonsi in padri, figliuoli, fratelli, si ricovrarono fra l’abiettioni de servi, et obscenità de meretrici, in fra l’altre una di loro patì l’ultimi tormenti per non rivelare li suoi poco honesti amici. E Socrate nel sommo del suo sapere vi trovò l’ignoranza perciò giudicato dall’oracolo sapientissimo. La ma[n]suetudine poco irritata diviene indomita superbia, e questa con destrità manegiata si converte in piacevolezza mite, e pieghevole. L’effigie interna del nostro animo è composta di mosaico, ch’in apparenza forma una sol idea et avvicinandoseli dimostra esser compaginata da varii fragmenti di pietruzze vili, e pretiose connesse e commesse insieme. Così l’animo nostro per il più, è composto di differenti, e discrepanti pezzi, che in varii occasioni ognuno di loro fa di sé distinta apparenza, onde il descrivere la natura, e conditione d’un sol huomo è cosa molto ardua e difficile, tanto più il volere tutte le sue attioni ad una sol norma, et idea rifferirle. Da quindi è che tanti autori si trovano [37v] haver scritto della natura de cani, cavalli, e falconi, e con tanta esatezza divisato li loro costumi, e conditioni, e circa l’huomo così pochi n’habbiano trattato, e solo alla sfugitta, chi meglio de tutti ne discoresse fu Theofrasto discepolo d’Aristotile, che risserbò tal impresa all’ultimi anni della sua vita essendo ottogenario, e ne compilò un trattato in modo historiale, et osservativo delli caratteri dell’animo humano, ch’hora si ritrova appresso di noi di lui un fragmento169, il resto dall’ingiuria de tempi abolito. E se così malagevole è il diffinire li costumi interni d’un sol huomo, che sarà poi in volere terminare quelli d’una intiera natione? E massime dell’hebrea, distratta per tutte le parte del mondo, ch’è impossibile il dirne cosa certa, e risoluta, essendo gli Hebrei disseminati per l’universo, et a guisa de fiume che scorre per lungo tratto di paese, che ricevono le sue acque impressione dalla qualità de diversi terreni ove passono, così gli Hebrei dall’altre nationi ove dimorano acquistano diversi costumi, e perciò tanto differenti sono le maniere dell’hebreo venetiano dal constantinopolitano, e questo dal damaschino, e cagliarino, e tutti essi da tedeschi, e polachi. Tuttavia s’alcuno ancora desidera indagare quali siano li

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loro costumi in universale potrebbe dire esser natione d’animo molto invilito, e [38r] fiacco, incapace nel stato presente d’ogni governo politico, occupati ne loro interessi particolari, poco overo niente providi del lor universale. La loro parsimonia avvicinarsi all’avaritia, admiratori molto dell’antichità, poco osservatori del corso presente delle cose, molti d’essi rozi de costumi, poco applicati alle dottrine, e cognitioni delle lingue, nell’osservare la loro Legge, secondo il parer d’altrui, in alcune cose eccedendo il limite accostarsi alla scrupolosità. Alli quali mancamenti si contrapongono altre qualità degne d’alcuna osservatione, fermezza e tenacità indicibile nella credenza, et osservatione della loro religione, uniformità di dogmi circa la loro fede per il corso di 1550170 anni, che sono dispersi per il mondo, costanza mirabile, se non nell’incontrare li pericoli almeno nel sopportare le calamità, cognitione singolare della Sacra Scrittura, et sua interpretatione, humana carità, et hospitalità verso qualunque della loro natione, benché estero, e forastiero. L’hebreo persiano si condole, e compatisce del travaglio dell’italiano, la distanza del loco non cagiona in fra essi disunione, essendovi l’uniformità della religione, circa li vitii carnali astinenza grande, assignati, e pontuali circa il conservare la stirpe loro impermista171, et incontaminata, destrità in molti de loro in trattare qualunque [38v] difficul|toso affare, soggettione, et ossequio verso qual si sia fuori della loro religione. Li loro errori, e delinquenze quasi sempre hanno più del vile, et abietto, che dell’atroce e grande. Per la qual cosa occorrendo, come spesso suole avvenire in qualunque natione, che alcuno di loro commette alcun delitto, e transgredisce gli editti del Prencipe, molto agevole è il rimedio, e medicamento. Li vitii dell’animo sono simili all’infermità del nostro corpo, che in due generi si dividono, alcune de loro benché gravissime, e pernitiose siano, nulla di meno il solo medico con sue ordinarie purghe, et evacuationi è bastevole a superarle, e vincerle. Ma altre ve ne sono de più maligna qualità, ch’essendo contagiose e comunicative conviene all’istesso Prencipe, che vi s’impiega con le sequestrattioni, e transporti accompagnandovi anco il terrore degli ultimi suplitii, così ancora nell’attioni scelerate, ve ne sono alcune benché neffande, havendo per oggetto solamente il proprio piacere, e

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privato utile non hanno punto del diffusivo, e comunicativo, anzi che172 ristrette in pochi colpevoli non consentiscono essi, né complisce alli loro proprii interressi e proffitti, che le loro facinorose attioni si comunicano con l’altri, onde scoperte che sono, li magistrati ordinarii con li soliti castighi, e pene, di esilii, prigioni, galere [39r] muti|lationi de membri, e l’istessa morte, sono bastevoli di corregere, et espugnare simili scelleratezze. E di tali qualità sono state l’enormità commesse in ogni tempo da alcuni della natione sempre spinti da avidità de robba, o simili abbiettioni, ma vi si ritrova alcune spetii di esecrande attioni, che tengono del contagioso, e si estendano e penetrano in tutta una natione, anzi che non è possibile il ridurre tale sceleratezze all’atto pratico se non con il mezzo d’una totale conspiratione come la felonia d’un popolo, mutatione di religione, invasione de città, solevatione contra alcun ordine, e stato civile. Quali eccessi tanto più son spaventevoli, e terribili quanto che l’istessi suplitii, e pene, sono da delinquenti stimati premii, e gloriose ricompense delle loro operationi incontrando essi piùttosto festivamente la morte, che con horrore fugendola, come nella vendicatione della libertà, e mutatione de religione spesse volte occorre. Nel caso dell’adoratione del vitello173 benché non tutti effettivamente avevano commesso quella sceleragine, e così ancora nell’amutinamento di Corach174 contra Moisè, tuttavia Iddio voleva castigare l’universale, e ciò avveniva per la dispositione, ché a tali eccessi tutti essi erano proclivi, e pronti, il che in altri peccati giamai non occorse, sempre destinguendo Iddio [39v] le delinquenze, et errori di cadauno del popolo. Nelli quali casi sopradetti non sono sufficienti li ordinarii rimedii, da magistrati subordinati soministrati, ma conviene ch’il supremo Prencipe v’intravenga con l’eminenza della propria maestà e suprema autorità, e che procura l’esterminatione del male, con il totale eccidio, overo almeno con l’universale esilio. Le prave operationi degli Hebrei non furono giamai di simile perniciosa natura, non solo nella città di Venetia, ma n’anco in alcun altro loco per il corso d’anni 1550 in circa175. Ben è vero che nelle memorie delli historici antichi si lege certa commotione della natione hebrea che seguì a tempo di Traiano in Alessandria, e poco dopo in Cipro176, ma questo fu allhora,

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che gli Hebrei partecipavano del governo delle città, e vicini alli tempi della captività seguita per Tito, onde conservavano ancora alcuni temi della loro natia ferocità. Né si può persuadere che il re di Spagna capitasse a nostri giorni a quella rigorosa, e totale espulsione de granatini177 popolo così numeroso, e ripieno di agricultori, et altri artisti per cagione d’alcun latrocinio, assassinio, o particolare delinquenza commessa da 15 o 20 d’essi, e che perciò devinisse a risolutione tanto dannevole a suoi regni, et admiranda appresso il mondo. Ma certamente l’interni motivi di sì severo decreto fu [40r] al|cuna secreta conspiratione da lui scoperta, che serpeggiava in tutta detta natione granatina, che piuttosto forsi meritava eccidio, che esilio, e non ha dubbio alcuno che il dannare l’universale per il particolare è contra la norma naturale, et amaestramento della Legge Divina178. Non si trova cosa in questo mondo di sì eccellente perfettione, che non le sia annesso, et ingiunta sovvente per il pravo abuso alcun male: il ferro sopra modo bisognoso, che soministrata materia a tanti varii instrumenti alla vita humana necessarii, molte volte è mezzo d’uccisioni e stragi; il favellare che tanto nobilita il nostro genere, ben spesso è cagione de sciagure e ruine, né perciò vi fu alcuno così scrupoloso legislatore, che prohibì la escavatione, et estratione del ferro dalle minere, e divietò il ragionare all’huomo. In quanto poi alli documenti della Sacra Scrittura troviamo ch’essendo transcorsi li delitti degli habitatori de Pentapoli179 al sommo apice delle sceleratezze, et enormità, si compiaceva Iddio che l’innocenza de dieci180 huomini potesse reparare alli flagelli, che tanta numerosità di popolo meritava, tanto è lontano che pochi delinquenti d’una natione siano bastevoli a provocare la publica indignatione contra l’universale di essa.

CONSIDERATIONE XII L’oppositioni fatte contra gli Hebrei da tre generi de persone e loro risolutioni [40v] La natione hebrea da tre generi de persone è aggitata, et oppugnata, da zelanti della propria religione, da politici e

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statisti, da comuni e volgari. Reclamano li zelanti che sia in dispreggio della propria religione il permettere in un Stato quelli che non prestano assenso alla comunamente approbata. A quali facilmente si risponde che doverebbero in ciò moderare il zelo della loro pia mente vedendo, et osservando che il sommo capo della christiana religione nella città della sua propria residenza admette gli Hebrei, che già sono scorsi più de 800 anni, che in detta città v’hanno ferma stanza, e stabile domicilio, e con somma giustitia, e carità governati, e retti, per il che non deve alcuno in materia di religione pretendere de saperne più ch’il capo d’essa. Dicono li politici, che non conviene in un’istessa città tolerare diversità di religione sì per il scandalo, e mal esempio, che dalli uni all’altri può derrivare, come per li dissensioni, disunioni, odii, che fra li habitanti d’essa città può avvenire. In quanto alla prima instanza se li risponde, che [41r] non può succedere scandalo, e mal esempio per esser così poco comunicanti insieme gli Hebrei con Christiani, e tanto differenti de riti, et anco per la varietà delle lingue, che li loro libri sono composti. Vi s’aggiunge la prohibitione, così all’uni come all’altri del convivere insieme, et in particolare l’osservanza degli Hebrei circa il gustare molti cibi, che non li sono leciti conforme a loro riti, come anco li comercii carnali181, che oltre al divieto delle loro leggi, da editti del Principe parimente interdetti, e li transgressori severissimamente castigati. V’è ancora, che la impotenza, e soggettione degli Hebrei cagiona, che da qualunque fuori della loro religione si trova, sono scansati, e sfugiti, e di rado alla loro credenza si convertono. In quanto poi alla discordia, e disensione, se li dice non esser gli Hebrei con li Christiani contrarii, come il nero al bianco182, ch’essendo ambi loro sotto il genere del colore non si compatiscono183, ma diversi a guisa del dolce et il rosso184, ch’essendo affatto distratti185, e non comunicanti, salvo che sotto il genere generalissimo della qualità, insieme nell’istesso soggetto si compostono, e si ritrovano. In tal maniera parimente sono divisi, et astratti186 [41v] gli Hebrei da Christiani, che di rado per occasione di religione vengono a gara e tenzone insieme, tanto più essendo l’Hebreo per la conditione de tempi, e precipuo suo instituto alieno d’ogni pensiero di propagare,

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e dilatare la sua religione occupato solamente in superare le sue urgentie e necessità. E non aspira di migliorare in niuna guisa la sua conditione in universale, il che attentando è sicuro, essendo ciò riferto a magistrati, conseguir nell’ultimo supplitio. Altra oppugnatione adducono li politici contra la natione, et è l’essercitio dell’usura delitto non solo dannato dalle leggi divine, ma prohibito universalmente dalle civili, come esterminatore delle facoltà, et eversore delle famiglie, onde il poeta Hinc usura vorax avidumque in temporare fenus187, al che si ridice, che l’usura essercitata dagli Hebrei è piuttosto tollerata dalle loro leggi ch’espressamente admessa e concessa, e come più oltra si dirà. Ma di più ancora si può affermare con gran probabilità, che rarissimi siano quelli che con l’usura si mantengono, la ragione di ciò è ch’essendo li dispendii domestici degli Hebrei grandissimi, non è persuasibile, che sostentar si possono con un impiego non concesso, né permesso dalle leggi del Prencipe. Oltra di ciò parimente non è in potestà [42r] dell’hebreo in alcun tempo astringer il christiano alla scossione della sua robba, et una fiata che ha impiegato il suo capitale non può più sviluparlo, ma deve aspettare la volontà, e comodità d’esso christiano di volerlo dispegnare. E se li Monti di Pietà188 come di Padoa, Vicenza, e Verona ch’hanno li centenaia di migliaia di ducati impiegati in servitio de bisognosi non potessero in capo d’un anno far vender li pegni, in breve tempo restarebbero esausti de danari, con li loro capitali imbrogliati, et invilupati. Onde non è persuasibile189 che gli Hebrei rispetto a questi di mediocri haveri, e di tenui facoltà potessero lungo tempo durare, e reggersi in sì svantaggiosi partitti, tanto più havendo attitudine di potere legittimamente negotiare, esponessero le loro facoltà a soggettione tale, e si può credere esser questo, se pur è, piuttosto trattenimento de pupilli e vedove, che di trafficanti. Ma di più m’affronto con li sopradetti huomini esprimentati nelli affari del mondo con rappresentarli quel celebre detto di Tacito circa l’esilio de matematici giudiciarii dalla città di Roma, Quod in civitate nostra, et vetabitur semper et retenebitur190, così doverebbero giudicare della usura, peccato continuamente dannato, ma in ogni tempo e loco essercitato, concorrendovi due stimoli maggiori, ch’habbia la nostra fragilità, la necessità del mutuario, [42v] che contribuisce

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l’usura, e l’avidità insatiabile del mutuante, che la riceve. E quando non fusse commessa dall’hebreo tal transgressione, non vi mancarebbeno forsi altri, che con maggior estorsione dell’indigente, e bisogno, essercitassero tal prava professione, riducendosi a minor numero gli usurarii, e ch’in tal proposito per infamiare la natione l’appellò sentina, cloaca d’ogni lordo negotio, con l’improperio, e calunnia significò fors’il bisogno, e l’urgenza, essendo alla nave la sentina, et al sontuoso palazzo la cloaca di somma necessità. E questo non dico già per difesa di tal attione, ma solo per dimostrare, che tale enormità, come alcune altre non sono proprietà essentiali degli Hebrei, come molti presumano asserire, ma piuttosto accidenti seguaci alla strettezza del vivere, e conditioni de tempi. Alli volgari, che agevolmente li vien sugerito, e persuaso qualunque calunnia, e maledicenza finta, e machinata in odio della natione, se sono capaci d’alcuna eruditione si potrebbono admonire alla lettura de antichi dottori, et historici, che trattarono d’avvenimenti de primieri Christiani, come Tacito fra gentili, e Tertuliano fra Christiani nell’Apologetico, ché osservarebbero quante false imputationi furono attribuite a [43r] quell’innocente gente; e si potrebbe congieturare, che l’istesso hora può avvenire agli Hebrei da huomini alla natione poco amici. Il primo narra, che havendo lo spietato Nerone fatto accendere la città di Roma mosso d’ambitione di rifarla in miglior maniera, per scaricarsi poi dall’odio conceputoli191 contra dal popolo, calonniò l’innocenti Christiani di quel tempo, che da essi fosse stato tal misfatto commesso, e li sentenziò, che invogliendoli nel bitumne, e zolfo fossero accesi, e posti la notte nelle publiche strade della disfatta città, acciocché servissero al popolo romano per fanali, e lucerne192. Il secondo acremente diffende li suoi dall’improperio dell’infanticidio apposto a Christiani con tanta mendacità, che del sangue d’innocenti fanciulli, si servissero nel celebrare loro cerimonie, impostura tanto incredibile, et aliena d’ogni probabilità193. Il ch’anco appresso gli Hebrei più d’una volta suscitò tragici avvenimenti, e massime ne paesi oltramontani, che tuttavia l’istesse diffese usate dal predetto eloquentissimo dottore potevano servire ancora alla nostra infelice natione,

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e massime per l’astinenza rigorosa dall’assagiare il sangue d’animali brutti194, tanto più l’humano, et in uso religioso. [43v] Il creder a publici rumori, e volgari strepiti, è un avventurare la propria fede a turba di temerarii, e poco accurati testimonii, l’istessa verità per diffendersi dall’insulti del tempo, et acquistar corpo, e vigore si prevale molte volte dell’appendici della volgar fama, a guisa di quelle donne, che per apparire più maestose si aggiungono a piedi smisurati additamenti, et alcuni altri per condire, et insaporire i loro ragionamenti come di gustevole aromato, vi mescolano la bugia. La verità è per se stessa rozza, e poco agradevole, la falsità admiranda, e dilettevole, quella è soggetta all’avvenimento delle cose, questa libera e vagante; quella è produtta dall’attione dell’oggetto che l’imprime nella nostra mente, questa tutta dipende dall’arbitrio humano, e come parto nostro se li porta amoroso affetto, ma questo se dice delle bugie voluntarie, e da chi le produce conosciute per tali. Altre ve ne sono di apparenza più monstruosa, che occupata la mente da torbida passione e fosca ignoranza accopiandosi con la volontà partoriscono sozza e diforme progenie, et è da Platone nell’Ippia minore195, dannata con molto magior rigore, che la prima, vessando, et infettando ambe le più nobili facoltà del nostro animo. E tali bugie, e mendacità si dovrebbono sfugire, almeno dall’aplauso degli huomini prudenti, ch’ascoltandoli con [44r] di|letto se li presta alimento di durabile vita. E non è dubbio, che la natione hebrea fra l’altre calamità è sottoposta alle calunnie, et infamie più che qual si sia altro per l’impunità di calunniatori, e mescolandosi ben spesso il vero con il falso, perciò riescono più perniciose l’invettive, che contra essa si fanno, e di più accurato ingegno ha bisogno per separare, e dividere il finto dal reale. E se la natura priva d’alcun affetto riggetta alle parti più deboli del nostro corpo l’humori corrotti, tanto più si può suporre che gli huomini agitatti da perturbationi, e passioni, s’inducano in caricare alla più fiacca, et imbecile, l’improperii, e calunnie. Ma di più se li dice, che mentre adossano agli Hebrei delitti gravissimi, et intollerabili, e come di cose notorie ne affermano, non meno ingiuriano gli Hebrei, di quello censurano l’accurata providenza del loro Prencipe, pretendendo essi con

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occhi di notola prevalere alla lincea vista del loro Prencipe, che giamai tralascia d’inquirire, indagare, e meditare le più occulte, et abstruse attioni de suoi sudditti, et in che maniera si può sostenere, ch’essi a cui non appartiene il sapere li misfatti degli Hebrei, tuttavia ne sono tanti raguagliati, e che il publico a cui incombe tal provisione con tanta connivenza n’è si mal avvisato? E massime che per la strettezza delle loro stanze, e cohabitationi è [44v] im|possibile, che attione facinorosa non sia dal vicino scoperta, et osservata, e per consequenza agevolmente a magistrati rivelata, alletatto dal premio o stimulato dall’odio, et emulatione, passioni che ingombrano l’animo degli Hebrei al par di qual si sia altro. Onde doverebbono li calunniatori rissegnare196 la loro curiosità nella grave, e fondata providenza del publico governo, e supporre per massima indubitabile, che quello, che non è advertito e castigato dal Prencipe, dopo sì strepitose reclamationi, essere senza dubbio vana menzogna, e temeraria falsità. Ma fra tutte le calunnie a mio credere, è improbabile il dire, che gli Hebrei di Venetia avvisano alli corsali di Barbaria, la partenza di vascelli dalla città, partecipando con essi della preda. Il che per più ragioni si convince esser vana machinatione: qual commertio, e fede possono havere gli Hebrei con corsali? Che gli prencipi, e monarchi potentissimi, non hanno potuto stabilire giamai con essi loro alcun patto, e conventione? E se pur ne contrassero furono tante volte delusi? In che maniera può arrivare gli avvisi ad essi corsali non v’essendo alcun passaggio ordinario da Venetia in Barbaria? Quattro sono li nidi de corsali, nel lido d’Africa over Barbaria, Tripoli, Tunisi, Biserta197, et Algieri. Con Tripoli non v’è alcuna [45r] communican|za addiritura se non per mezzo di Zante198 e Morea199 over per via di Malta, viaggio di quasi un mese, convien prima capitar gli avvisi in detti doi lochi per via di mare, over di terra, insino a Malta, e da indi transferirli in Tripoli, quanto sia dubbioso il viaggio maritimo ognuno lo sa, conviene poi allestire gli vascelli di corso, e di nuovo navigar alla volta degli vascelli mercantili, e saper il loco ove incontrarli. Per inviar avvisi a Tunisi convien prima capitare a Livorno, over Malta, e d’indi per via di mare a Tunisi, ove s’incontra nell’istessa difficoltà ch’è di Tripoli. Biserta non arma se non galere, e fa una

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sola espeditione all’anno nel tempo dell’estate, et ha costume depredare terre, e non prender vascelli se non per accidentale incursione, non potendo trattenersi sopra il mare in aspettarli, sì per il disaggio del gran numero de gente, che conducono, come per esser le fuste200, overo galere non disposte a regersi contra la furia del mare. Algieri oltra gl’impedimenti sopradetti di Tunisi e Tripoli, v’è ancora la lontananza dal Levante, che di rado fortificano in questi nostri mari, essercitando il loro corso nel stretto overo fuori d’esso nella parte occidentale. Ma non so parimente come gli corsali si dispongono a partecipare con gli Hebrei de loro [45v] svaligiamenti, e bottini, essendo da se stessi abbastanza informati del viaggio de vascelli, e del tempo che si partiscono da Venetia. Qual è quel imperito marinaro, che non sia raguagliato da se stesso, che li venti maestrali soliti a spirare nell’estate, conducono gli vascelli dall’Italia alla parte meridionale, et in Levante? quanti schiavi cristiani, et ancor rinegatti, pratici pedotti201, periti nocchieri tengono, che l’informano di tutta la navigatione venetiana, e che li conducono in qualsivoglia sito, e porto, che desiderano, senza premiare, e partecipare con gli Hebrei de loro guadagni, e profitti. Come anco è incredibile, ch’essendo molti vascelli in gran parte carichi d’haveri d’Hebrei, che esponessero le facoltà de loro amici, e parenti in mano de corsali barbari, et infedeli, per rihaverli da loro, ponendoli in pericolo così manifesto, e certissima perdita, anzi che gl’istessi Hebrei ne sarebbono delatori, et accusatori per evitar li proprii danni. Nemmeno vale il dire, che gli Hebrei s’inducano a commettere simil delitto, per la speranza, che hanno di mercare quelli svaligi a vil prezzo, poiché già è notorio, che nelli predetti lochi di corso vi concorrono con frequenza grande Francesi, Inglesi, e Fiaminghi, rissedendovi ancor loro consoli, e proprii rappresentanti, capitandovi ordinariamente loro vascelli, carichi de [46r] muni|tioni, e merci, oltre anco l’Italiani, Genovesi, e Livornesi, che vi negotiano. Onde ch’arrivandovi alcuna preda, la natione hebrea, meno può sperare l’incontro d’alcuna buona fortuna d’investita, che qualsivoglia altra ch’ivi si ritrova, essendo la più tenue, e meno facoltosa dell’altre. Dall’improbabilità di questa imputatione il prudente lettore

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potrà argomentare la fiacchezza de molte altre a questa infelice natione attribuite, et imposte.

CONSIDERATIONE XIII Che la Legge antica mosaica instituì che si dovesse usar carità verso tutto il genere humano Quelli celebri riformatori dell’antica gentilità, che la providero d’institutti, e leggi, come huomini che furono, così parimente hebbero li loro pensieri, et attentati terminati e limitati. Solone202 si contentò erudire con sue leggi gli Atheniesi, Ligurgo203 Sparta, e Romulo204 il sol recinto del suo angusto asilo si compiacque instituire, del restante del genere humano non si curorono, come se privo quasi d’ogni humanità fosse. Gli haveri degli altri huomini fecero a proprii cittadini, leciti il depredare, concessero occuparli la libertà, et insino permisero ch’alcuni esteri sopra gli altari de [46v] loro falsi dèi per vittime si offeriscono. Ma la Legge d’Iddio promulgata da Moisè per tutta la nostra spetie provide e procurò, e siccome una sol natura da Iddio fu instituita nel mondo che tutte le sue parti con armonioso concerto insieme dovesse unire, e con reciproca simpatia reggesse, così decretò, che tutto il genere humano con unamine amistà insieme corrispondesse, dovendosi qualunque huomo cittadino d’una sola republica reputare, inestando nell’animo humano tale amore, e carità con amaestrarlo, et instruirlo che siccome da un sol Iddio fu creata et ebbe origine la sua spetie, così da un solo padre Adamo fu propagata, e di nuovo da Noè diramata, onde il profeta Malachia, capitolo 2, Nunquid non pater unus omnium nostrum? Nunquid non, Deus unus creavit nos? Quare despicit unusquisque nostrum fratrem suum, violans pactum patrem nostrorum205, usa due motivi a farci concepire questo tenero affetto di amarsi l’un l’altro, et evitare le reciproche ingiurie: prima per esser derivati da un sol padre, e perciò esser tutti consanguigni, egualmente liberi, e partecipi e heredi d’alcuna portione de beni del mondo, secondo, essendo tutti noi creature, e produtioni d’un solo Iddio. E non dice che siamo uniti in un sol culto et adoratione, che sarebbe argomento proprio per indurre buona corrispondenza fra gli Hebrei solamente, ma

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argomenta con [47r] ragione efficacissima e generalissima per la conciliatione di tutti gli huomini. E non è credibile che nel tempo del diluvio fossero proibite le usurpationi, estorsioni, e fraude indifferentemente a tutti, che perciò furono dannati alla somersione, e poiché al popolo hebreo che si incaminava a maggior perfettione che l’altre nationi li fosse stato concesse simili depravationi, et eccessi. E nel Decalogo nell’istesso tenore e generalità fu prohibito l’homicidio, l’adulterio, et il furto, non escludendo alcuno passivamente da tali preceti. E non è dubbio che l’homicidio, e l’adulterio furno preceti universali, e dalla specificatione che usò la Scrittura nel fatto della usura, ch’interdisse, e vietò essercitarla con l’hebreo, ma la tollerò con l’alieno per esser contratto patuito con la volontà et assenso del contrahente e mutuario, si convince indubitatamente, che le frodi, e violentie usate con l’estero senza la sua intelligenza, e volontà siano dalla Legge dannate, e prohibite, non havendo in queste dichiarito alcuna distintione come nella usura. E quando la Scrittura nel Levitico disse, nolite affligere contribules vestros, sed timeas unusquisque Deum suum206 il senso hebreo207 è non ingannate il vostro contrahente conforme la frasa208 della Scrittura, ch’usò la parola di (hamitò)209 che secondo grammatici hebrei significa quello ci è [47v] contro, e dirimpetto, derivando dalla dittione (humat) cioè qualunque contrahente, e stipulante, e nell’Esodo capitolo 22 espressamente prohibisce l’ingannar l’estero210, e di più quando gli Hebrei furono introdoti in Terra Santa, li fu anco limitato precisamente il termine del loro dominio da tutti li lati, non essendoli lecito il trapassarli. Quello non fu osservato d’alcuna gente, e natione, estendendo il loro dominio insin ove che li guidava la loro buona fortuna, e li concedeva adito la propria forza, e violenza, conforme il detto di Euripide, over Cesareo, nam si violandum est ius regnandi gratia, violandum est211, e li Spartani dicevano il confine del lor dominio arrivar insin ove che poteva giunger la punta della lor spada. Li Romani posero meta, e termine al lor imperio orientale l’Eufrate, ma da Parti prima tante volte rimessi, e regittati212. Ma gli Hebrei solo dalle lor leggi, ne proprii limiti, ratenuti e raffrenati, e non è credibile, che li profeti tanto esagerassero

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contro le nationi, che li usurpavano, et opprimevano, quando li fosse stato permesso l’usare simili ationi contro di quelle. Et è cosa certa, et indubitata, ch’appresso gli Hebrei è tenuto maggior peccato il defraudare colui, che fuori della loro religione si trova, che il proprio hebreo, anzi tal delitto è annoverato con gli appellati di profanatione del nome d’Iddio, ch’è l’estremo della [48r] sceleratez|za, ché perciò credono gli Hebrei esser irremissibili, e che a tali transgressori Iddio leva li soccorsi ordinarii, e soliti suffragi, ch’offerisse a penitenti per giustificarli, arreccando questi tali transgressori occasione a popoli di svilire, e calunniare l’hebraica instituitione, e rendere la natione magiormente odiosa a popoli, con quali si dovrebbe fare rimostranza di maggiore esemplarità. Et il sopr’allegato213 Filone214 scrive, che sebbene fu commesso agli Hebrei il dispregiare, et esterminare gli idoli d’antichi gentili, mentre erano vinti e soggiogati, tuttavia quando si trovavano sciolti e liberi, era prohibito agli Hebrei con publica irrisione schernire li detti idoli per non provocare vicendevolmente gli etnici al dispreggio del vero Iddio, in vendetta del ludibrio usato verso gli loro falsi dèi. Ma udiamo le sue proprie parole tradotte dal greco, non permittit effreni lingue petulantia conviciari Deus creditis falsa persuasione aliarum gentium, ne ille irritante prorumpunt in voces nefarias contra Deum optituum Maximum215. Perché nell’istesso modo non sarà prohibito, et interdetto agli Hebrei qualunque si sia attione scelerata di frode, inganno, et estorsione verso qualunque alieno dalla loro religione e massime per non arrecarli occasione di proferire alcuna esecranda biastemmia, et improperio contra la loro Legge, et institutione, con pericolo [48v] d’ingiuriare l’istesso Iddio principale instituitione, si trovano in tal proposito alcuni notabili documenti nella Scrittura. Eliseo benché ricevesse donativi, e regali da Hebrei, come attesta la Scrittura, tuttavia dopo haver rissanato da lebre216 insanabile Naaman generale del re di Damasco che lo vessava, e volendolo l’etnico damaschino presentare un mediocre donativo non volse riceverlo, ma generosamente lo ricusò come nel capitolo de Re si legge217, anzi che218 Ghechazì 219 suo creato per haver seguito, e richiesto clandestinamente da detto Naaman certo regalo, fu perciò

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scacciato da Eliseo, e dannato ad una infettione perpetua di lebre indelebile, con tutta la sua posterità220, per dimostrare a quel gentile e suo re, quanto era distratto da avidi pensieri d’occupare quello d’altrui mentre che rifiutava quello che per premio della sanatione gli era offerto. Così Abram ricusò ritenersi le ricchezze riacquistate dalli quatro re di Soria, e Mesopottamia, che prima depredorono dalli re de Pentapoli, che pure Abram de iure gentium, et belli, le poteva rattenere, nondimeno volse far apparire quale fosse la sua ottima instituitione, et eccellenza di costumi, e magnanimamente rilasciò quel bottino al re di Sodoma, e coleghi, primieri padroni di esso221. E quegli Hebrei dimoranti sotto il dominio di Asuero re di Persia essendoli permesso [49r] per editto regale la vendetta nella vita de nemici, e svaligio della lor robba, eseguirono l’una, e si astenero dall’altro222, li quali esempii devono essere così osservabili da chi professa la Legge hebraica, come il mantenimento de preceti cerimoniali in essa contenuti, che pure con tanta scrupulosità da ognuno di loro sono eseguiti. Si può alli sopradetti esempii aggiungere l’affettuosa oratione, et intercessione de Abram223 verso Iddio per la salvatione di quelli scelerati di Pentapoli, li quali non solamente erano esclusi dalla instituitione religiosa e culto che osservava Abraham, ma erano spogliati affatto d’ogni apparenza d’humanità, e così Iona punito da Iddio, e posto in sì gran pericolo di vita per haver ricusato di riprender, et admonire li Nineviti de loro esecrande enormità224. Da quali ambi avvenimenti habbiamo chiari amaestramenti quanto qualunque persona deve implorare Iddio per la salute di qual si sia altro huomo, come anco procurare con l’admonitione ridurlo a miglior stato, se non di perfetione almeno moderare l’ecesso di suoi vitii. Ma perché circa il giuditio che si fa volgarmente di questa natione occorrono le falacie consuete a farsi nelle consequenze debolmente fondate, e mal intese, cioè usare l’equivocatione de nomi, non destinguere le circonstanze individuali, e di concludere [49v] le propositioni universali dalla indutione di pochi particolari, per il che conviene chiarire, e ventilare questo punto con molta esatezza, dal che saranno rissolute e rese vane molte imputationi et imposture attribuite in questo proposito alla natione.

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Tengo per certo che la principal cagione della illusione procede dall’abbraciare sotto il nome di alieno tutte le nationi egualmente, e credere che appresso gli Hebrei senza alcuna distintione tutte le genti che sono fuori del rito hebraico doversi trattare, e misurare ad un istesso modo. Ma se con diligenza, alcuno s’applicarà a quello che la Scrittura in tal proposito ne ragiona trovarà che con tanta distintione han tratatto, che agevolmente si li potrà levare dall’animo ogni scrupolosa dubbietà. Fece mentione con gran espressione d’alcune nationi esteri confinanti a Terra Santa, con distinguere li modi, e maniere che con esse gli Hebrei si dovessero diportare, ad alcuni ordinò che si li dovesse procacciare l’ultimo eccidio, altri che se dovesse abborire la loro conversatione, non dovendosi in alcun tempo con la loro posterità benché convertita alla religione hebrea mescolarsi senza però effettivamente offenderli, altri che non si dovessero abominare, e che in terzo grado, convertiti che fossero si potessero indifferentemente unire con il popolo, altri poi trapassò senza farne [50r] al|cuna mentione, lasciando il tutto in arbitrio della natione. E non è dubbio ch’essendo la Scrittura aditata da Iddio che scorge nella sua eternità l’infinito avvenire non solo instituì l’Hebraismo circa quelli picciol popoli, e genti spetiali nominati nella Scrittura confinanti a Terra Santa, che in breve et angusto spatio di tempo sapeva dover esser abboliti et estinti, che n’anco il loco della loro antica stanza si era per riconoscere, ma con la specificatione di tali nationi rappresentò la differenza de popoli, la diversità de costumi, e le maniere con quale il popolo verso di loro dovesse osservare225. Gli Cananei226 rassembrano gli idolatri esecrandi sacrificatori d’huomini, e proprii figliuoli, adulteri, incestuosi, ch’insino con bruti si mescolavano, ché perciò li dannò all’ultimo eccidio. Per li Amalechiti227, rappresentò li dishumanati persecutori, che senza alcun ragionevol impulso con odio più che timoniano228 procurano l’esterminio del genere humano, che perciò parimente li sentenziò al totale esterminio con assoluta abolitione della loro memoria, non essendo da Iddio meno abborito l’odio che si porta agli huomini, che l’inosservanza de costumi proprii all’humanità. Per li Moabiti, et Amoniti229, rafigurò l’ingrati non ricordevoli del legame del sangue, né del nodo della beneficenza, che

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havendo avuto la loro stirpe comune [50v] con gli Hebrei, e parimente Lot loro originario padre, ricevé tanti favori, e benefitii da Abram patriarcha, con tutto ciò ricusorono concederli mediocre rinfrescamento, e necessario sovenimento in quel lungho viaggio fatto nel deserto, perciò Iddio proibì di procurarli alcun benefitio, e vietò in sempiterno con loro unirsi in parentato, ma ancora interdisse il dannegiarli, perché effettivamente non ricevé il popolo da essi alcun oltraggio. Gli Edumei230, incorsero nell’istessa ingratitudine, ma perché seguirono l’esempio d’Amoniti, e Moabiti, e per la consanguinità e fratellanza de Esaù appellato (Edom)231 con Iacob, et anco perché gli poteva scusare la gelosia di Stato in lasciarli transitare nel mezzo del loro paese, fu prohibito il molestarli, e che in terzo grado con loro apparentare fosse concesso. Con l’istessa conditione, simili alli Edumiti furono trattati gli Egitii con temperata pena per il stratio che fecero agli Hebrei in quello lungo hospitio che gli prestorono nel loro paese, fu interdetto l’offenderli, e che solo in terzo grado fosse permesso il mescolarsi con loro, e se fu permesso nell’uscir d’Egitto il spogliarli d’alcuni pretiosi supelletili fu per ricompensa della servitù che tanti anni a profitto degli Egittii sopportono. In quanto poi a Palestini232, Damaschini233, et altri confinanti settentrionali, et occidentali non havendo [51r] recevuto gli Hebrei da loro in quel travaglioso viaggio alcuno favore, né offesa, essendo situati in parte, che non li poteva da essi rissultare cosa alcuna, non diede la Scrittura alcun documento come si dovessero praticare e conversare, ma conforme l’occasione, et opportunità corrisponder dovessero a loro buoni overo pravi portamenti. Così in ogni tempo incontrandosi gli Hebrei in conditioni, e costumi di genti simili alli predetti, devonsi con loro usare conforme la regola, e norma sopradetta nella legge instituita. Hor dunque se li fu comesso non oltragiare, abbominare, e nocere gli Egittii per cagione come esprime la Scrittura nel Deuteronomio capitolo 23234 di quell’infelice e tirranico hospitio ch’hebbero nel loro paese, benché avessero tolerata sì calamitosa oppressione in fabricare vastissime moli de piramidi, et erigere altissime muraglie, e di più per lieve

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sospetto di Stato il loro re dannò li loro piccioli fanciullini maschi ad esser sommersi nell’acqua avanti che fossero consapevoli d’alcuna colpa anzi che235 assagiassero la vita236. In che maniera può alcuno sostenere che agli Hebrei sia permesso offendere nocere, et usare estorsione alcuna a quelli popoli, che gli concedono libera stanza, e grata abbitatione, e [51v] che li comunica l’ordinarie comodità indifferentemente come agli altri sudditi, e con tanta ingratitudine ricompensare, e sodisfare a tali, e tanti benefitii? Questa è ragione sì efficace, et argomento tanto concludente, che doverebbe rendere l’animo di qualunque più irritato verso la natione placido, e ben affetto.

CONSIDERATIONE XIV Benché gli Hebrei erano differenti di religione dagli altri popoli, non gli era lecito mover guerra a lor vicino per semplice causa di quella La comunicanza della religione è il maggior vinculo, e più tenace nodo che conserva ristretta la società humana, et insin quell’etnico237 disse, vita humana religione constat238, e Filone hebreo dottissimo, et eloquentissimo lasciò scritto, nam unius Dei cultus est amoris mutuaeque benivolentiae vinculum insolubile239. Non resta perciò che appresso gli Hebrei si tiene, che quelli si trovano fuori dell’osservanza de loro riti, et assenso de loro credenze particolari, non siano però reputati affatto disciolti, e slegatti da qualunque legame de humanità, e reciproca amistà, stimando essi che vi siano diversi gradi di connessione fra gli huomini, come ancora in un’istessa natione l’oblighi di carità sono fra loro [52r] subordi|nati, l’amor di se stesso ottiene il primo loco, dopo v’è la congiuntione del sangue, poi l’amistà fra cittadini, e perciò credono che gli esteri, et alieni della loro religione partecipano con loro della comune humanità, che insieme li congiunge, osservando però li precetti della naturale moralità, et havendo alcuna cognitione d’una causa superiore. E per comprobare ciò ho raccolto alcuni argomenti che probabilmente lo dimostra primieramente. Io non trovo nella Scrittura, che giamai Iddio comandasse agli Hebrei che s’impiegassero, e se affaticassero inserire nell’animo

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de popoli loro circonvicini, le credenze proprie per introdurvi loro riti spetiali, ma sì bene li ordinò e comandò ad amaestrarli in alcune generali credenze come della omnipotenza, sapienza, grandezza, clemenza, e giustitia d’Iddio. Onde Hieremia al capitolo 10 admonì il popolo captivo in Babilonia che in lingua caldea dovesse advertire a quelli gentili sic ergo dicitis eis, dii qui coelos, et terram non fecerunt perituri sunt e terra, et regionibus sub coelo isto, qui facit terram in fortitudine sua praeparat orbem sapientia sua, et prudentia sua extendit coelos240, e quello segue. Onde non li comette, che li debbono narrare li prodigi e miracoli occorsi nell’Egitto, non la liberatione del popolo, né la retirata del mare con la somersione poi seguita, nemmeno il gran apparato e commotione della natura [52v] né la promulgatione della Legge, ma debbano convincere la essistenza d’Iddio, e sua providenza dagli effetti ordinarii della sua omnipresenza dal moto de cieli, dalla produtione degli enti, e dell’unanime corrispondenza di tutte le cose insieme. Et in altro loco dice il Salmista confitemini Domino, et invocate nomen eius, annuntiate inter gentes opera eius241, cioè che si deve narrare, e propalare l’operationi d’Iddio, e gli effetti della sua giustitia, anzi in altro loco in quanto a riti spetiali, nel Salmo 147 Qui annuntiat verbum suum Iacob: iustitias et iuditia sua Israel. Non fecit taliter omni nationi: et iudicia sua non manifestavit242. E così concesse che la carne morticina prohibita agli Hebrei la dassero, et esponessero al pelegrino gentile, come nel Deuteronomio capitolo 14243 e Malachia nel capitolo 1, ab ortu enim solis, usque ad occasum, magnum est nomen meum in gentibus, et in omni loco sacrificatur, et offertur nomini meo oblatio munda quia magnum est nomen meum in gentibus dicit Dominus exercitum244, volendo alludere, ch’in certo modo Iddio in quel tempo restava sodisfatto, et appagato di quella simplicità, et adombrata cognitione che teniva la gentilità d’una principal causa che assistesse al regimento del mondo. E quando Naomi fece regresso alla patria, facendo rissolutione Ruth sua nuora seguitandola di convertirsi alla religione hebrea, non solo non fu dalla suocera corroborata, e confermata in tal pensiero, ma piuttosto persuasa a ritornare nel primo [53r] stato e conditione, cum dixit Neomi, et reversa est cognata tua ad populum suum, et ad Deos suos vade cum ea245.

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Né mai si trova che nel tempo passato fosse somerssa alcuna città de gentili per l’inosservanza de riti hebraici, e particolare incredulità, ma solo per non eseguire li impulsi naturali della ragione, e dell’humanità. Gli Pentapoli furono sovertitti, et arsi per la loro obs[c]enità inhospitalità, et ingiustitia. In occasione del diluvio fa mentione la Scrittura solamente della corrutione carnale et iniqua rapacità, et estorsione. E gli Nineviti gentili246, quando fecero penitenza non si convertirno alla religione hebrea, ma cessorno dall’estorsioni ladroneci, e fraudi, restando gentili come prima, e seppure fu ripreso e castigato alcuna natione per il culto fu per l’iniquo uso agiontovi, come di sacrificare gli huomini, et immolare gli proprii figliuoli. Et Amos pronosticando la ruina, et eccidio di molti popoli, riducendo gli loro peccati al numero ternario, invehisce, e declama contra gli etnici damaschini, aziti247, tirii, idumei, amoniti, e moabiti, de delitti, e transgressioni solamente commesse contra l’humana equità, e buona moralità ma dopo esagerando contra Giudei248 specifica peccati di lesa religione et ommissioni de precetti della Legge. Et Iosuè dopo l’acquisto di Terra Santa pose di nuovo il popolo in libertà, e proprio arbitrio di confermarsi [53v] nell’ave|nire, e mantenersi nella Legge mosaica, overo per non incorrere nelle pene in essa contenute rifiutarla, e liberarsene affatto, senza di ciò portarne alcun castigo, e come in altro loco ne son per trattare. Onde se al popolo hebreo benché aveva di già accettata la Legge, tutta volta Iosuè lo dispensava dalle pene249, tanto più stimano gli Hebrei, essere assoluti250 gli altri popoli, che giamai s’obligarono all’ubbidienza di lei, mentre però ch’osservano quell’a loro appartiene come ho detto, et Ezechiel al capitolo 20 neque cogitatio mentis vestrae fiet dicentium erimus sicut gentes, et sicut cognationes terre, ut colemus ligna, et lapides: ego dicit Dominus Deus, quoniam in manu forti regnabo super vos251, in tal maniera ragionò al popolo, perché molte volte si sono sottoposti volontariamente alla Legge, e stipulata promessa per se stessi e loro posterità, non essendo perciò in loro arbitrio liberarsene. Et in simil senso parlò anco il profeta Amos al capitolo 3 Audite verbum quod locutus est Dominus super vos filii Israel, super omnem cognationem quam eduxi de terra Ægypti, dicens tantuminodo cognovi ex omnibus cognationibus

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terrae. Idcirco visitabo super vos omnes iniquitates vestras252, che conforme gli espositori Rabbi Salomon253, e David Chimchì 254 principalissimi appresso la natione, significa ch’havendo il popolo volontariamente recevuto sopra di sé, e suoi posteri l’osservanza della Legge a tempo di Moisè, et [54r] Io|suè, perciò Iddio, n’era particolar esatore, et accurato riscuotitore delle pene che per le delinquenze sue era debitore, quello che non eseguiva con gli altri popoli gentili, et etnici, essendo con essi connivente et indulgente, perch’è ragionevole conforme la regola de legisti, secundum naturam est commoda cuiuscumque rei cum sequi, quem sequuntur incommoda255. E cosí per il converso Hitro256 gentile essendo venuto a visitar suo genero Moisè nel deserto dopo la liberatione del popolo e miracoli seguiti in Egitto, disse conforme il testo hebraico, Nunc cognovi maiorem esse Dominum omnibus Diis257, confessò la maggioranza, ma non negò assolutamente la essistenza degli altri minori sue machinate deità, conforme alli Romani che si fingevano certa loro gierarchia di maggiori, e minori dèi. Ma il Salmista con più sensata e corretta maniera disse, magnus est Dominus super omnes Deos258, altro è il dire l’imperatore è maggiore di qualunque re, overo che possiede sopra essi superiorità. E Naaman nel convertirsi che fece a Iddio per la rissanatione della sua infettione, procurò dal profeta certa dispensatione che li fusse lecito essendo in compagnia del re inginochiarsi agli idoli, pattegiando una tal transatione in fatto de religione, che non sarebbe stato concesso all’hebreo di già obligato di pontuale osservatione a tutti li riti della Legge. Anzi per sigillare questo proposito voglio [54v] ad|dure un loco del Deuteronomio capitolo 33 che espressamente dimostra ch’Iddio sebbene favorì il popolo hebreo, con tutto ciò nell’istesso tempo della promulgatione della Legge, non odiava gli altri popoli a quali non fu comunicata, ma tuttavia gli amava, ove nell’ultima beneditione di Moisè dopo aver descritto tal legislatione, soggionge conforme l’hebraico, approbato dal Burgensis259, Etiam dilexit populos, omnes sancti eius in manibus tuis, et ipsi appropinquantur pedibus tuis260, legem praecepit nobis Moises, etc. intendendo per populos gli gentili, privi della Legge Mosaica che narrò nel verso antecedente esser stata comunicata all’hebreo. Segue la Scrittura dicendo è ben vero nonostante tal

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amore, che portò a popoli gentili, tuttavia li santi del popolo hebraico gli erano più prossimi e favoriti, usando la metafora delle mani, come il Salmista volendo dinotare la protettione spetiale ch’Iddio haveva della sua anima e spirito, disse in manum tuam deponam spiritum meum261 riferendosi il relativo di (eius) al popolo hebraico nel verso antecedente espresso. E così conforme tal sentimento corrisponde il subsequente con dire legem praecipit nobis Moises, quasi dicesse l’amore e carità d’Iddio si estende universalmente sopra tutti gli huomini, ma il favore della legge fu a quelli tempi concesso solo al popolo hebreo, e questa è la più facile, e meno estorta espositione che giammai da comentatori hebrei sia stata trovata, essendo il [55r] lo|co della Scrittura molto abstruso e recondito. Queste sono ragioni, et argomenti cavati dall’interno della Sacra Scrittura a quali devono cedere qualunque auttorità di rabini, e dottori che in contrario tenissero, che non credo vi sia, e seppure vi fosse haranno trattato di nationi infette de vitii sceleratenze simili a Cananei Amalechiti iniqui con gli huomini, et impii verso Iddio, et ognuno ha parlato in tal proposito conforme alla qualità de suoi tempi, ma non con spirito profetico per l’universale infinito avvenire, ch’è propria cognitione d’Iddio. Ma s’alcuno ricercasse all’hebreo qual fosse la cagione ch’Iddio non si curò di far propagare anticamente la sua religione, et osservanza di riti nella gentilità, risponderebbe che ciò sta involto nelli profondi secreti della Divinità, siccome non si può comprendere n’anco qual sia stato la cagione che già pochi mille anni solamente hebbe principio il mondo e che tanto ritardasse Iddio diffondere la sua benignità alle future creature, com’anco non si può arrivar a sapere perché creò tal numero d’huomini, e tale d’angioli, ma solo in generale si può dire che così compliva all’ornamento del mondo. E se agli arcani di Sua Divina Maestà può giunger alcuna humana ragione si potrebbe ancor replicare conforme agli Hebrei ch’Iddio volendo conservar la religione fra loro, non curò che agli confinanti gentili si dilatasse il [55v] rito hebraico, e la ragione di ciò fu, che siccome l’antiperistasi262 rinforza la virtù alle cose naturali, e l’invigorisce, et il freddo circondando il caldo l’accresce virtù, tanto che li Stoici dissero che l’aere freddo

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ch’assale repentinamente il novello parto riconcentrandoli il calore lo fa divenire vivo, così ancor il soprastar del nemico, et il terrore aguerisce li popoli, e l’infonde spiriti militari, nell’istesso modo la repugnanza della religione de circonvicini rendeva più vivo il popolo fedele, nella propria credenza, e più militante alla difesa de suoi patrii riti. Dal discorso fatto si tiene documento fermo, e certa assertione, che all’hebreo non sia lecito usare alcun atto d’inhumanità, et offensione verso chi sia ch’havesse diverso rito, e credenza, purché quel tale osservasse gli precetti morali, et anche non fusse infetto d’alcun vitio enorme, essendo informato dell’omnipotenza, bontà, scientia, providenza d’una causa superiore che regge, e modera il tutto. Ma s’alcuno di nuovo obietasse circa l’usura prohibita esigerla dall’hebreo, ma non dall’alieno dal quale è concesso e permesso riceverla, rispondo che in ciò non si allontanano gli Hebrei dalla comune opinione, che sia piutosto tolleranza, che concessione, non volendo io addurre che appresso li Romani erano concesse alcune usure, ché non intendo diffendere quello non è approbato dall’[56r] universale, anzi che oltra di ciò dico esser cosa indubitata, che anticamente mentre che gli Hebrei erano meglio agiati, fu da dottori prohibito essercitare l’usura anco con qualsivoglia che era escluso dalla loro religione, come espressamente si legge nella glosa263 esponente il Salmo che principia, Quis ascendet in monte Domini264. E questo divieto hebbe alcuni motivi molti raggionevoli: primo, che non si sa esatamente nella Scrittura quali siano appellati propriamente fratelli, et alieni, essendo sotto il nome di fratelli più d’una volta nominati gli Edumei; secondo, per esser l’usura essercitata con l’hebreo, gravissimo peccato, e credono ch’in tale prava contrattatione vi concorrono nella colpa il mutuante, et il mutuario, il fideiussore, il notaio, e gli testimonii, havendo anco per prohibito il lucro cessante, et il danno emergente, perciò divietarno ch’affatto tal essercitio fosse interdetto d’usarlo con qual si sia persona acciocché per la giocondità265 di tal guadagno non si assuefacessero commetterlo anco con gli Hebrei; terzo, per ovviare gli pretesti, e paliamenti usuratici, che sotto nome, e per mezzo d’alieni si poteva illicitamente essercitare con gli istessi Hebrei; quarto, dicono

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gli istessi dottori266 non esser decente tal professione, essendo l’usurario astratto dal commertio degli huomini, et alieno dal proffitto [56v] della republica. Ma dopo che agli Hebrei fu vietato da prencipi il possesso de beni stabili, l’essercitii d’alcune professioni più principali, et altr’industrie della vita civile, fu da dottori per sovvenire agli urgenti bisogni della natione in procacciarsi il vitto rilasciato il rigore di tale prohibitione, e rimesso il tutto all’antica permissione della Legge mosaica, onde resta satisfatta e svanita a mio credere questa lamentevole declamatione verso la natione. Né posso tralasciare di non comemorare in tal proposito un costume com’imprevaricabile rito con gran rigore osservato dagli Hebrei di giamai non intromettersi, e fraporsi in materia di stato pergiuditiale267 a prencipi sotto li quali ricontano268 altri Hebrei, stimando esser quelli, come loro ostaggi, tanto è grande la corrispondenza di carità fra essi, che dall’uniformità della lor religione procede. E gl’illustrissimi et eccellentissimi Signori Baili269 destinati alla porta del Signore Gran Turcho270, hanno molte volte esprimentato che nelli loro viaggi per il territorio turchesco a guisa de angioli di pace sono dalla natione ricevuti, e conforme s’estende l’estremo delle loro forze regalati271, e nell’istessa città de Costantinopoli li vien prestato dagli Hebrei riverente ossequio, come se sudditi nativi li fossero, il tutto derrivando sì per la soggettione habituata nell’animo degli Hebrei di riverire li [57r] perso|nagi grandi, com’anco per ricompensare in parte gli buoni trattamenti, che sono usati alla loro natione in la città ricovrante, e siccome non hanno per preceto gli Hebrei, come ho detto il dilatare la loro religione, così ancora non hanno alcun pensiero giamai di tentare alcuna novità di solevare in universale il stato della loro gente, credendo essi ch’ogni mutatione segnalata che li sia per occorrere, deve dipendere da causa superiore, e non da humani tentativi272. Nell’esilio di Castiglia, et altri regni a lei adgiacenti a tempi del Re Ferdinando, e Regina Isabella273 si trovarono uniti insieme, vicino al numero di mezzo milione d’anime, che gli esclusi, che non si volsero convertire alla religione christiana, furono trecento mila, come narra Isach Abravanello274 dottissimo autore, che vi si trovò come capo, fra quali vi furno

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huomini di gran spirito, e conseglieri di Stato, come fu l’istesso Abravanello. Ma non si trovò in tanto numero, alcuno che ardì di proponere partito rissoluto per sollevarsi da quel miserabile esilio. Ma si dispersero, e distrassero per tutto il mondo, segno evidente, che gli hodierni instituti degli Hebrei, e loro rimmessi costumi gl’inchinano alla soggettione, et ossequio de loro Prencipi.

CONSIDERATIONE XV Circa alcune oppositioni fatte da Cornello Tacito contra l’antico popolo hebreo, e loro risolutione [57v] Cornelio Tacito275 famoso historico romano, meritò per la sua dottrina, et esperienza delle cose politiche esser annoverato fra primi maestri del governo civile, alla sua eloquenza vivace, e virile più acenante ch’espressiva, solertia nel penetrare gli arcani de prencipi, gravità de sentenze, acrimonia nel censurare le prave attioni, maturità di giuditio circa gli avvenimenti humani, et altre egregie virtù ch’arrecò alle sue Historie, professò inserirvi anco incorrotta verità, spirito et vita de racconti, e narrationi. Tuttavia nel riferire l’origine e costumi degli Hebrei tralignò e si rese diverso di se stesso, per le mendacità che vi mescolò, confermando quell’aurea sentenza del nostro Filone, ch’in ragionare della religione disse imbuta sua cuique optima videtur, et que non ratione, sed affectu di iudicatur a singulis276, e quell’animo ingenuo che non si lasciò infestare d’alcuna passione nel raccontare gli fatti de suoi, nel narrare gli costumi e riti degli Hebrei tanto fu poi sconvolto dall’odio che portava alla loro religione, e per il disprezzo della natione riuscì oltra modo trascurato [58r] nell’inda|gare la vera origine, et avvenimenti. Et io mi son sempre maravigliato, che sì grave autore tant’oltre s’inganasse, poiché a suoi tempi si trovavano tradotti dalli Settanta Vecchi li Libri Sacri277, e già le compositioni di Filone, e Gioseffo278 furono publicate279, et a semplice senatore romano era scusabile, che per l’occupationi dell’uso delle proprie cose gl’impediva la peritia delle straniere, ma ad historico che professa l’instruire altrui, è indecente in qualunque parte non

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esser limato, e ben raguagliato. E giudicando io che questo suo racconto, e giuditio, circa l’origine e riti della natione, prestandoli fede, non poco detrimento potesse apportare a tutti gli credenti della Sacra Scrittura, et esser scoglio di naufragio agli spiriti deboli nella fede, ho stimato esser opera d’alcun pregio esaminare le sue parole, scoprire gli mendacii, e confutare l’imposture in tal proposito da lui finte, over almeno amplificate. Non discorrerò circa quello dice dell’origine degli Hebrei, essendo indegno dopo ch’abbiamo il vero filo e serie280 della Sacra Scrittura il dimorarvi sopra in convincerlo, ma mi dilatarò circa le calunnie, et altr’inadvertenze da lui commesse. Primo improperio fu l’impostura del capo asinino consacrato nel penetrale del sacro Tempio di Hierusalem281, onde dice effigiem animalis quo [58v] mon|strante errorem sitim depulerunt, penetrali sacravere282, cioè che vagando il popolo hebreo nel deserto loco privo d’acque, e perciò infestato dalla sete, incontrandosi in un gregie d’asini selvaggi congieturando perciò Moisè, che vi fosse vicino alcuna fonte, lo seguì tanto che ritrovò l’acque tanto bramate, ristorandosi ’l popolo della sete che pativa283, e per memoria di tanto opportuno avvenimento, consacrò l’effigie overo teschio di quegli animali, onde fu conservato per corso di tempo nel penetrale del Tempio. Il qual mendacio fu già confutato da molti dottori, et in particolare da Tertuliano284, e la Scrittura non havendo fatto mentione di tal caso, reclama esser machinata menzogna. Ma tuttavia molte fiate mi son posto a vaticinare, onde prese origine quest’impostura285, poiché ogni famosa, e receputa bugia tiene alcuna radice unita con la verità, dalla quale a guisa di terreno ne prende origine, et alimento, et anco gli monstruosi, e non vivaci parti tragono principio sovente da parenti non diffetosi286. E siccome l’ombra benché sia mera, e vana privatione, tuttavia li contorni che la configurano dipendono da corpi solidi, e reali, così la bugia d’alcuna cosa subsistente scaturisce, e derriva, e havend’io considerato che l’autore non afferma ch’adorassero gli Hebrei quella forma asinina, com’alcuni l’intesero, et in che maniera poteva egli ciò asserire [59r]287 se lui stesso narra, che gli Hebrei mente sola unamque numen intelligunt288, e quello segue, e nel libro

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secondo dell’Historia, discorrendo del famoso monte Carmelo posto nella Giudea, dice nec simulacrum Dei, aut templum, sic tradidere maiores aram, tantum, et reverentiam289, tanto lontano dunque, ch’adorassero la testa d’un asino in fra tutti gli animali il più sozzo e stupido? Ma quello mi sugerisce il mio pensiero lo dirò congieturando solamente, senz’alcuna contumacia di pertinacemente affermarlo. Ho osservato nella Sacra Scrittura, che molte cose quali furono mezzi, et adminicoli de miracoli, overo di segnalare vittorie per memorie de favori divini, furono consacrati a lochi sacri. Il vaso della manna, la verga d’Aron che fiorì mando[r] le290, furono per divin precetto posti nel sacrario291, e così anco fu conservato per lungo tempo il serpente di rame fatto a tempo di Moisè, che con il riguardar lo rissanava gli amorsicati da venenosi serpi292, che continuò insino al tempo d’Ezechia, onde già per l’abuso del popolo si convertì in abominabile idolatria293, e le 12 pietre, che furno cavate dall’alveo del Giordano per memoria della mirabile divisione delle sue acque, Giosuè294 4295. Nell’istesso modo parimente la spada con la quale fu reciso il capo di Golia dal garzonetto David fu posta nel sacrario appresso gli habiti sacerdotali del maggior sacerdote, e fu poi da sacerdoti concessa [59v] all’istesso David, perciò anco furono da Saul rigorosamente trucidati296. Così ancora potrebbe essere ch’havendo Sanson gagliardissimo huomo, et egregio capitano degli Hebrei sconfitto mille filistei con una mascella d’asino, e havendo Sansone grandissima sete, orando a Dio, da quella mascella ne scaturì abbondantissima acqua, onde si rihebbe, e ristaurò, come nel libro de Giudici, capitolo 19 si lege297. In comemoratione de sì valorosa attione fu posta l’effigie d’un teschio d’asino, con il scaturimento dell’acqua in alcun loco del Tempio, essendo il tutto avvenuto miracolosamente, e non per semplice forza humana, ché dopo mutandosi la fortuna degli Hebrei, si convertì quel munimento di gloria, in scherno, et irrisione appresso gli popoli stranieri, e diede occasione alla favola calunniando che gli asini mostrarno agli Hebrei il fonte d’acqua. Quest’è quanto ch’io posso congieturare in cosa tanto dubbiosa. Altra calunnia sogionse298 diffamando la natione come dissoluta nella carnalità, proiectissima ad libidinem gens,

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alienarum concubitu abstinet inter se nihil illicitum299, se parla de sbandati e transgressori non è di farsene caso, non essendo ciò difetto della natione, ma piuttosto dell’humana fragilità o conditione de tempi, ma se ei riferisce all’institutione degli Hebrei dalla verità assai si dilunga, non v’essendo [60r] stata natione a quelli tempi più ritenuta dalle leggi proprie da comercii carnali quanto gli Hebrei. Gli Egittii non affatto barbari, anzi maestri de Greci di molte dottrine, tuttavia prendevano le sorelle per mogli, e gli Re tolomei ne furono esemplari al popolo comune300. Gli Persiani ch’hanno goduto il dominio dell’Asia, e la sogettione della Grecia, trapassorono un grado piú oltre di turpitudine, permettendo a figliuoli le proprie madri301. E Crisippo propagatore della stoica disciplina pretendente a lui doversi la riforma del genere humano, tenne tal esecranda attione per indiferente, e con alcune sue induttioni s’affaticò renderla quasi honesta, come appresso Sesto Empirico si legge. Gli Hebrei non solo questi piú vicini gradi di parentella come esecrandi, e nefandi dannorono, ma ancora abborirono in parte gli laterali ineguali, e certo non furono più sciolti, che gli Romani, anzi in alcun caso molto più di loro corretti, et osservanti. Appresso gli Romani era lecito licentiar, e repudiare la moglie, e si poteva rimaritare con altri, e dopo essendo repudiata dal secondo marito gli era lecito ritornare di nuovo al primiero, et a guisa di casa affittarsi, e di giumenta nolegiarsi, introducendo ne’ comercii matrimoniali gli usufruttuarii, e proprietarii302. E gli Lacedemoni instituiti da Ligurgo, riverito dall’oracolo [60v] d’Apo|line, come se fusse stato un dio, concesse ai suoi Spartani il prestar le moglii per conseguirne generosa prole, senza la cerimonia del repudio303. E Catone il magior senatore de suoi tempi, quel vindice della romana libertà, contraposto a Cesare, se non per il possesso del mondo, almeno per l’acquisto della virtù, havendo trionfato dell’humanità, con il suo rivale degli huomini, onde Lucano, Haec duri immota a Catonis, Secta fuit servare modum, finemque teneri Naturam sequi, patriae impendere vitam, Nec sibi sed toto genitum se credere mundo304.

Tuttavia Martia la più conspicua matrona di Roma, sua moglie,

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fu concessa da lui ad Ortensio il più famoso oratore di quel secolo per conseguirne prole, e poi licentiata, di nuovo fece ritorno al primo marito Catone305, e l’istesso Lucano il fa dire: nec dubium longo quaeratur in aevo mutarim primas expulsa an tradita tedas306.

Et in tal maniera fu raccolta dall’indulgente Catone, per altro molto severo, e rigoroso in osservare la disciplina dell’honestà, la qual attione sarebbe stata dannata dalle leggi degli Hebrei come turpe, et infame, essendo tollerato il repudio per cagione d’alcun difetto ritrovato nella donna, e se dopo l’essersi accompagnata con il secondo marito, di nuovo è sciolta per repudio, overo morto, è stimato abominevole, e dettestando il [61r] riaco|piarsi con il primo, come nel Deuteronomio si lege307. Si può anco aggiungere alle dette prohibitione il divieto d’accostarsi a donne menstruate, essendovi incluso anco la propria moglie308. Et ho notato che ritrovandosi nella Sacra Scrittura registrate tante transgressioni d’idolatria e homicidio commesse dal popolo, rarissimi furono gli avvenimenti d’adulterii, et incesti occorsi dopo la promulgatione della Legge. La dissolutione del popolo con le donne madianite, fu ecceso che n’anco l’autore ne farebbe riflesso affermando che con l’aliene ordinariamente osservano astinentia, e fu castigato severamente da Iddio, e punito da Moisè e Fineas, come nel libro de Numeri si lege309. Al tempo de Giudici capitolo 19310 seguiva infame tentativo contra l’honestà d’un certo forastiero che capitò nella colina de Biniamin, che fu poi esequito nella sua concubina, il qual indegno misfatto suscitò tanto furore, et indignatione nel resto del popolo, che conspirando contra il sudetto tribù affatto quasi rimase distrutto, che pur era la 12[ma] parte del popolo, e fu anco con solenne giuramento preso e deliberato di giamai imparentarsi con il residuo di progenie sì preversa311. Amnon figliuolo di David sceleratamente s’invaghì di Tamar sua sorella, e tant’oltre passò l’infame amore che proditoriamente in casa sua propria la violentò, e stuprò, ma non sì tosto ch’esequì l’esecrand’atione gli penetrò nell’animo il pentimento e displicenza del misfatto commesso, [61v] ché

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senz’altro riprensore, et admonitore, non solamente la diformità del peccato se gli fece obrobriosa, ma anco quell’infelici bellezze ch’occasionarono, et accesero in lui così dannato ardore gli divenero odiose, e piene d’horrore, onde cacciata publicamente di casa la sorella312, se gli acrebbe infamia con gli huomini ma diminuì la sua colpa appresso Iddio per la severa condannagione, ch’esequì nella sua conscientia contra le proprie attioni, oltre che d’alcuni espositori hebrei313 è diffeso, che non fosse stata Tamar propriamente sorella, non essendo nata di donna hebrea sposata a David, nel che non voglio alungare. Quarto avvenimento fu l’adulterio di David con Bersabea famoso più per la penitenza di David, esemplare a tutta la posterità, ch’ad altrui scandolosa per il peccato, essendo stato questo commesso una sol volta da David314. Ma infinite furono le sue lacrime retrattationi, esclamationi ad Iddio per il perdono, ché perciò maestro della reconciliatione, e penitenza, fu da fedeli appellato, et egli celebrando se stesso disse docebo iniquos vias tuas, et impii ad te converturtur315. Quinto avvenimento fu l’incesto che commisse Absalon con le concubine di suo padre, che non essendo state sposate si può diminuire il delitto, tuttavia non fu ciò dissolutione di carnalità, né disprezzo delle patrie leggi, n’hebbe in ciò fine [62r] d’in|giuriare il padre, ma solo per rispetto di Stato e desio di regnare. Così consigliato dall’acuto statista di quei tempi Achitofel316, deliberò Absalon d’impossessarsi del regno degli Hebrei in vita del padre David, che ne teniva il dominio, e havendo satelitio di molto popolo seditioso, che seguiva li suoi tentativi, tuttavia dubitava d’incontrare in alcuna perplessità, et irressolutione nel popolo che poteva sospettare, che fra padre, e figliuolo si introducesse alcuna compositione, e reconciliatione, e che gli affetti del sangue potessero prevalere all’interresse di Stato, ché perciò seguita tal concordia, gli coadiutori317 d’Absalon dovessero poi restare odiati, e puniti non meno da David318, che d’Absalon, essendo costume de prencipi con diverso occhio mirare il tradimento319, ch’il traditore. E però fu admonito dal sagace Achitofel per confermare meglio l’animo de suoi seguaci, e levarli ogni sospetto di pace, e concordia, che dovesse commettere attione neffanda, et ignominiosa in disprezzo del padre, che per tal via sarebbero certi, esserre cisa,

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e troncata ogni speranza d’amistà, buona corrispondenza tra padre, e figliuolo. Consiglio preso da molti rettori de popoli, e capitani d’esserciti d’usare attioni crudelissime320 verso gli nemici per fermare l’animo de suoi, e render se stessi confidenti appresso il volgo, e levargli di capo li [62v] pen|sieri de reconciliatione, et accordo come fece Hanone in trucidare un numero de schiavi romani in Cartagine321, e Mitridate per altro sapientissimo re fece andare a fil di spada 80 mila Romani che nell’Asia se ritrovavano322. Così ancora Absalon fondò la sua sceleragine sopra la speme dell’aquisto del regno, ma non spronato da voglia libidinosa. Com’anco Agripina capitò a quell’infame incesto323, e tentò la lusuria del figliuolo spinta non da stimoli di carnalità, ma da veementi impulsi d’ambitione, e desiderio di dominio, e conforme appunto quello dice Svetonio delle dissolutioni d’Augusto adulteria quidem exercuisse ne amici quidem negant, excusantes, non libidine, sed ratione commissa, quo facilius consilia adversariorum per cuiusque mulieres esquireret324. Gli avvenimenti sopra narrati sono rari e pochi, rispetto alle molte dissolutioni, e nefande obscenità de Romani, et incomparabili agli nefandi spori, e doryphori di Nerone, et altri vituperii di quelli secoli, che non si possono leggere senza rossore, e verecundia, dovendosi appellarli piuttosto monstruosità del genere humano che vitii e scorrettioni, onde Iuvenale: O Pater urbis Unde nefas tantum latiis pastoribus, unde Haec tetigit gradive tuos urtica nepotes, Traditur ecce viro clarus genere atque opibus vir325.

Dal che si può giudicare con quanta verità pronunziò Tacito degli Hebrei inter se nihil illicitum326. [63r] Terza censura ragionando degli Hebrei dice, et quia apud ipsos fides obstinata misericordia in pro[m]ptu, sed adversus omnes alios hostile odium327, a mio credere è periodo da per sé disgionto dalle cose antedette, et inferisse328 due querelle della natione. Prima gli oppone un odio hostile, che tiene verso qualunque alieno da essa. La seconda ch’anco la carità usata verso gli suoi proprii, è piuttosto estorta, e con violenza

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spermuta329 da ostinata risolutione, e reciproca conspiratione, ch’originata dalla virtù e bontà morale. Ma quanto questo sia lontano dalla mosaica institutione dalli doi discorsi precedenti si può giudicare, tuttavia gli voglio contraponere l’autorità del nostro Filone non minor di lui d’eruditione, e dottrina, e si può dire quasi a lui coetaneo, havendo vissuto sotto Caio Caligola, e Tacito nato a tempo di Claudio che gli successe. Trattando egli sopra il significato degli sacri vestimenti del maggior sacerdote, dimostrò che furono un tipo, e simulacro de tutto l’universo. Il che ancora espose con gran dottrina Gioseffo nel libro dell’Antichità Giudaiche330, soggiungendo poi il sudetto Filone alcune ragioni sopra ciò, fra gli altre dice, est tertium huius sacrae vestis misterium non praeterve[u]ndum silentio, nam alii sacerdotes, tantum pro familiaribus amicis ciuibusque solent rem divinam facere, at Iudaeorum Pontifex, nam solum pro toto humano genere, verum etiam pro naturae [63v] partibus terra, aqua, aere, igne precatur, et agit gratias, quippe extimat mundum, ut re vera est suam patriam, solitus supplicationibus ei reddere propitium parentem conditoremque suum331. Il simile si trova nel libro d’Esdra capitolo 6 ch’havendo raccontato il decreto di Dario per l’offerte quotidiane, che si dovevano soministrare delle facoltà reggie al sacro altare di Hierusalem, rende la ragione di tal munificenza, offerent oblationes Deo coeli, orentque provitam Regis, et filiorum Regis332. E se fosse vero il detto di Tacito che tanto livore, et inimicitia, vertiscono fra gli Hebrei et altre nationi, che grande semplicità sarebbe stata quella di Dario, arricchire di doni quel Tempio, e prestar conmodità a quella gente, ch’invece di benedire, hanno per costume l’esacrare, e blasfemiare l’altre nationi? E chi ne poteva essere più raguagliato, che l’istesso Dario, sotto il cui dominio per sì lungo tratto di tempo dimorarono gli Hebrei, et Alessandro il Grande non solo con offerte regali, ma con il rispetto, e riverenza dimostrò quanto gli pareva esser giovevole l’havere il Dio adorato dagli Hebrei propitio e favorevole per mezzo degl’imprecationi del magior sacerdote, come narra Gioseffo nel libro d’Antichità333, benché di nascita hebreo sincerissimo, et alieno d’ogni passione. E Hieremia profeta per nome d’Iddio admonì al popolo soggiogato da Caldei,

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che dovesse implorare Iddio per la [64r] sa|lute, e tranquilità della città di Babilonia capo del regno de Caldei, et quaerite pacem civitatis ad quam transmigrare vos feci, et orate pro ea ad Dominum, quia in pace illius, erit pax vobis334. Dalle cose dette si può formare giuditio quanto Tacito si lasciasse transportare da fregolato335 affetto d’animo con l’affermare che la carità degli Hebrei, dimana336, e scaturisce da proterva ostinatione, e che più oltre dagli limiti della natione, non si diffonde, e dilata. Quarta reclamatione dell’istesso, havendo narrato, che si trovò una vite d’oro nel Tempio, e che gli sacerdoti avevano per costume di cingersi con hedera, et essercitarsi con varii instrumenti musicali, fu creduto da principio ch’essi Hebrei adorassero Bacco domatore dell’Oriente. Ma meglio praticandoli si trovò falsissima questa credenza, e rende la ragione di ciò con dire Iudeorum mos absurdus sordidusque337, e non è dubbio che riferisce alle cerimonie del culto divino. Ma non saprei imaginarmi in che cosa era così sconvenevole il loro rito, in quanto a quello ch’apparteniva a sacrifitii, et uccisioni d’animali ne quali consisteva quasi tutte le cerimonie, e fontioni sacre della Legge mosaica. In tutto quell’intervallo che perseverò insino a tempi dell’istesso Tacito, universalmente il culto di tutte le nationi s’esequiva con le vittime et offerte d’animali, anzi ch’insino il porco, e il [64v] cane appresso gli Romani s’osservano sopra gli loro altari, e da barbari, e parte di Greci ancor gl’istessi huomini furono sacrificati a quelli falsi dèi. Il caso d’Agamenone, et Ifigenia diede occasione all’impio Lucretio d’invehire contra la religione argomentando da un’attione superstitiosa, et esecranda che fu l’immolatione della sudetta Ifigenia alla diffamatione della religione in universale, onde nel primo338 conclude con dire tantum religio potuit suadere malorum339. V’aggiunge poi la sordidezza cioè la viltà del culto, ma ancor questo è proferito con l’istessa verità come li primi, poiché gli Hebrei furno sontuosi nell’edificare gli tempii dedicati a Iddio più che qual altra natione. Salomone impiegò nelle montagne ottanta mila huomini nel lapidicidio solamente con tutta quella cura che racconta la Sacra Historia nel primo de Re340, e Herode suo emulo se non in altro che nella grandezza dell’animo, procurò anch’egli nelle fabriche immortalare il suo nome341.

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Le vittime erano numerosissime, come nell’historia di Salomone si lege, gli cantori sopra modo essercitati, e valenti, il che si può giudicare dalla numerosità d’instrumenti, ch’appena hora n’abbiamo in tanta copia. Gli gradi delle fontioni furono talmente distinti ch’in quindici ordini erano divisi, come negli aforismi nel trattato delle contributioni [65r] an|nue si lege detto (Secalim)342 numerosissima era la copia di persone, che s’essercitavano in servigio de sacrifitii e Tempio, poiché tutto un tribù ch’era la terzadecima parte del popolo vi s’impiegava. Et al tempo di Roboam credo era molto più, a proportione del resto della natione, essendo stati da Ieroboam idolatra divisi, e separati dieci Tribù dal culto divino, per il che ove vi s’adoperava tanta quantità di gente non si poteva dire che v’occoresse sordidezza, et abietione. Quinta censura, impone agli Hebrei che s’astengono dal mangiar la carne di porco per esser stati infetti da spetie di lebre solita occorrere a quell’immondo e lordissimo animale, che se non gli fosse stato interdetto la lepre, e il coniglio, e tanti pesci che sono le delicatezze delle mense, haverebbe potuto Tacito con alcun apparenza diffendere la sua calunnia. Ma come statista ch’egli era poteva tali prohibitioni con più sua verecundia applicare a quelle istesse ragioni descritte da Isocrate, lodando Busiride re d’Egitto, multas enim eis varias exercitationes ille constituit, ut qui quaedam ex animalibus apud nos contemptis coli, et honorare lege lata voluerit, non quod eorum vim ignoraverit, sed partim censuit vulgus assuefaciendum esse ad observandum omnia principum edicta partim in rebus [65v] evi|dentibus experire voluit, quomodo erga osculia affecti essent343. Volendo inferire che agli Egitii non solo gli era prohibito il mangiar la carne d’alcuni animali, ma ancor li fu instituito da Busiride l’adorarli, come dèi, onde Iuvenale deridendoli nella Satira 15: Quis nescit volusi Bithynice qualia demens Ægyptus protenta colat? Crocodilon adorat Pars haec, illa pavet saturam serpentibus ibim Effigies sacri nitet aurea cercopitheci344.

V’aggiunge poco poi anco, la loro estrema fatuità in riverire li porri, e le cepole: Porrum et caepe nefas violare, ac frangere morsu.

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75 O sanctas gentes, quibus haec nascuntur in hortis Numina, lanatis animalibus abstinet omnis Mensa, etc345.

E però rende la ragione Isocrate, et esplica il mottivo ch’indusse Busiride ad introdurre tali vanità e pazzie nel popolo, e questo fu che con l’absurdità de tali institutti imposti da lui agli Egitii volse conseguirne due cose sommamente desiderabili agli dominanti: prima domare l’animo de loro sudditi, e ridurli perciò pieghevoli a suoi comandi, la seconda per esprimentarli se in cosa di maggior consequenza sarano contumaci overo obbedienti, et agevoli. Così poteva dire politicamente anco Tacito che tali divieti assuefanno l’animo degli huomini all’ubbidienza rendendolo pieghevole, e flessibile a suoi maggiori, ubbidiente a Iddio, overo [66r] osse|quente a prencipi, a guisa ch’usano far gli maestri de cuoii, che con il casuale stropiciamento, e stiraciamento li rendono ducibili, et abili a loro lavori e manifatture. Ma gli decreti d’Iddio sopravanzano a nostre indagationi, e sono lontane dalle curiosità humane. Sesta diffamatione, narra egli alcuni prodigi occorsi nel principio della guerra di Hierusalem, che non fu dal popolo procurata alcuna espiatione, ma affatto da esso trascurati, evenerunt prodigia, que neque hostiis, neque votis piare fas habet gens superstitioni obnoxia religionibus adversa346. Non ho potuto penetrare quello volesse inferire con il dire che gli antichi Hebrei fossero vessati dalla superstitione, mentre ch’egli stesso affermò prima che Iudaei mente sola unum numen intelligunt, e poco dopo summum illud et aeternum, neque mutabile, neque interiturum347, ma piuttosto li doveva accusare d’impietà, et indevotione per esser tanto trascurati, e rattenuti nel prestar fede a prodigi, che sono gli carratteri divini, che secondo la sua openione significano le minaccie d’Iddio, e che ci admoniscono alla correttione de nostri affari, e revisione d’errori commessi. Anzi doveva avvertire che la Legge mosaica sopra ogni altra cosa hebbe per scopo esterminare la vana superstitione dal mondo, né alcun preceto fu tante volte reiterato nella Scrittura quanto la [66v] prohibi|tione della magia348, la giuditiaria elletiva349 de tempi, la negromantia, e tutte l’altre vane osservationi, et esecrande idolatrie, che sono tutte prole

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della superstitione, non essendo altro essa che un abuso, o per dir meglio un escremento della vera religione, e legittimo culto de Dio. Né Moise hebbe tanto pensiero di cacciar l’impietà dal mondo, come di svelere350 la superstitione, poiché l’ordinata serie delle cose, il concatenato concerto delle cause, et insino l’anatomia d’un vil animaluccio convincono, e confutano l’ateismo. Per il che Elia in quel gran cimento e famosa esperientia della approbata religione, ch’esprimentò nel monte Carmelo, convocò solamente li falsi profeti del Baal, non già gli empii, e miscredenti, come ne Re capitolo 18 usquequo vos claudicatis in duas partes? Si Dominus est Deus sequimini eum, si autem Baal, sequimini eum351, et Esaia quando voleva admonire gl’increduli, li rimetteva alla contemplatione de corsi celesti, e di quelli mirabili corpi, levate in excelsum oculos vestros, et videte quis eduxit in numero militiam corum352. E sebbene l’impietà senza proportione è più detestabile, et odiata da Iddio, e parimente più perniciosa al Stato civile che qualunque altro delitto, come origine e fomite d’ogni atroce sceleratezza, tuttavia non mancano alla superstitione li suoi proprii difetti, e nocumenti, [67r] l’im|pietà essendo conscia della sua propria malvagità, e quanto sia odiosa al comune degli huomini, è perciò ritrosa, e circonspetta, diligentissima, et accuratissima custode di se stessa, e con simulata apparenza procura nel falso vestito di benignità nascondersi, et occultarsi, et in rade occasioni, ma di gran consequenza sibila il suo interno veleno. Nel resto poi tanto è lontana dal comunicarsi e dilatare la sua infettione, quanto che dall’altrui credulità spera di proffittare, et avvanzarsi, conforme quel scelerato detto di Lisandro lacedemonio, pueros tesseris, et viros iuramentis opportere circumvenire353. Et a questi scelerati empii se gli può addattare il detto dell’istesso Tacito, trattando dell’occulta doppiezza di Tiberio, ch’essendo da un senatore discoperto un suo arcano, l’hebbe a male, onde dice, nullam aeque Tiberius ut rebatur ex virtutibus suis, quam dissimulationem diligebat, et aegrius accepit recludi quae premerat354, e perciò disse il Salmista dixit insipiens (overo) impius in corde suo non est Deus355, circonscrive questa sua malvagia diceria nell’angusto recinto del suo cuore, non osando ad altrui propalarlo, essendo pronuntiato

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odioso, e detestando356, e li poeti antichi attribuirono solo a pochi giganti l’impresa di cacciar Giove dal seggio celeste357, cioè a tiranni, non già [67v] al comune del popolo. Ma la superstitione è infermità affatto contagiosa et infestevole. E per la confidenza che presume havere con le cause superiori, sovente è poco circonspetta nell’offender gli huomini, ma siccome anticamente fu tollerabile nel comune del volgo per alcun giovamento che da lei se ne poteva trahere conforme il detto di Curtio, nulla res multitudinem efficacius regit, quam superstitio358, occupando però gli animi de grandi, affatto fu nociva e pernitiosa, abbandonando essi quelli veri e reali mezzi, et adminicoli, che la Maestà Divina favorì gli huomini per conseguire li loro commodi et agi, et evitar le violenze, e l’oppressioni che gli possono occorrere sì per l’altrui malitia, come per temerità della fortuna. Il mondo è simile ad un gran mercato, Iddio dispensa alcune monete per comprare quello ch’in esso v’è esposto e venale, le più correnti sono, la prudenza, e la fortezza, coniate dall’impronto d’Iddio essendo lui l’istessa scienza e potenza, con queste si mercano tutte le cose che possono essere sotto poste all’arbitrio humano. La vera religione è quella ch’implora da Iddio la dovitia di detta pecunia, né pressume facilmente senza copia di questa conseguir cosa di rilievo. E Salomone ne Proverbii capitolo 17 disse quid prodest stulto habere divitias cum sapentiam emere non possit359, cioè prevertisce [68r] il stolto l’ordine del comercio, essendo la sapientia il mezzo di conseguir le richezze, e non queste il prezzo, et il dinaro per acquistar quella, e lui stesso non meno pratico, che teorico, quando si deliberò far acquisto del regno degli Hebrei, dimandò ad Iddio la moneta della sapienza, con la quale poi acquistò qualunque cosa vi fosse di vendibile per mezzo d’essa, et dixit Dominus Salamoni quia postulasti rem haec, cioè la scientia, et non petisti dies multos, etc.360. Sed haec quae non postulasti, dedi tibi divitias, scilicet et gloriam, ut nemo361. Et insino appresso gli Greci passò per adagio, Dii bona laboribus vendunt362, et il Salmista disse expecta Dominum, viriliter age, et fortificabitur animum tuum, et expecta Dominum363, conforme l’hebraico, cioè, conviene primieramente sperare in Dio che ci invigorisca d’animo, e che c’arrecca forze, e di

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nuovo sperare ch’accompagnando il suo suffragio alla nostra virtù e sufficientia faccia riuscire li nostri attentati, et imprese. E ne Proverbi capitolo 11 iusti autem sapientia liberabuntur364, dice che li giusti con la scienza, e prudenza si salvano, che pur doveva dire per merito della giustitia e bene operare, ma fa mentione del sapere per esser l’ultimo mezzo per conseguire la salute, concessoci da Iddio per premio delle buone e giuste opere da noi comesse. Ma la superstitione con monete false reprobate, et improprie per mercare, et acquistare [68v] alcuna cosa, pretende tuttavia d’impossessarsi del tutto. Credevano gli antichi, ma vanamente, che gli efficaci mezzi per conseguire qual si sia cosa, fosse il proferire barbare parole a niuno intelligibili365, percuotersi e dilaniarsi, sacrificar huomini, scelta de tempi, et altre improprietà, et impertinentie, non havendo cura alcuna dell’acquisto della virtù, né implorando per lei al Sommo Datore e Dispensiere, come egregiamente quell’oratore appresso Livio hebbe a dire Dii prohibebunt haec: sed nunquam propter me de caelo descendent, vobis dent mentem, oportet, ut prohibeatis366. Il qual concetto primo di lui fu espresso dalli compagni di Iob trovandolo per quanto ad essi pareva non tollerante nelle sue miserie, qui perdes animam tuam in furore tuo, nunquid propter te derelinquetur terra, et transferentur rupes de loco suo367, volendoli inferire che non era meritevole che per causa sua si dovesse sconcertare l’ordine delle cose, ma ch’egli con la virtù non dovesse abbandonare se stesso, ch’il tutto superarebbe. Né meno fu ridicolo l’antico superstitioso quando si dava a credere che l’apparenze rare, et effetti straordinarii, che scaturiscano dal seno della natura, siano lettere missive da Iddio per significarli gli arcani della sua mente. Nicia Atheniese368 con il suo essercito perì in Sicilia havendo procrastinata la sua partenza per il terrore d’un ecclisse lunare effetto [69r] natu|rale il più regolato di qual si sia, causato dall’interpositione della Terra fra il Sole e la Luna ritrovandosi ambi li pianeti nella linea eclitica369, il qual disastro era per occorrere a Germanico Cesare se non vi fosse stato provisto del suo sapere370. E li Romani tanto prudenti, adunato ch’avessero il Senato per deliberare la propulsione d’Annibale cartaginese dalle muraglie della città, se caso fosse scopiato un tuono, conveniva licentiare immediate

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il Senato, benché questo poteva essere provedimento mero politico, essendo li tuoni preludii di fulmini e saette, ch’essendo la città sottoposta a simili accidenti dubitavano che non colgiessero371 nel Senato con l’eccidio della Republica. Ma chi li potrebbe scusare ove le deliberationi di Stato, gli espeditioni militari dependevano dal volato d’uccelli, e dal loro cibarsi, e dalla vana configuratione delle viscere de animali. E perciò a mio credere ben disse Salomone, honor Dei caelare rem, et honor Regis investigare rem372, che (davar) in questo loco significa piu tosto rem che verbum, significando ch’altro tanto è honorevole e maestoso, che li misteriosi arcani d’Iddio e della vera religione siano reposti occulti e lontani dal contato dell’ignaro volgo, conforme quel virgiliano, procul o procul este profani conclamat vates373, e come disse Salomone nella consacratione del Tempio, Dominus dixit, ut habitaret in nebula374. Così è convenevole [69v] a prencipi, e monarchi d’investigar, e penetrarne l’interno, acciocché con la loro autorità, et esempio possino indrizzare il popolo al vero culto, come anco non si lasciano deludere, et illaqueare375 dalle falaccie, et illusioni della superstitione, inganando prima se stessi, e poi quelli che li sono seguaci, poiché tali giuditii non appartengono alla turba degli huomini. E nella Sacra Scrittura vi è di ciò un chiaro documento in proposito della promulgatione della Legge nel monte Sinai ove ragionando del popolo dice stetitque populus de longe376, come per avanti li fu commesso, ma del legislator dice Moyses autem accessit ad caliginem in qua erat Deus377, così convien proportionatamente al Prencipe osservare rispetto al volgo378. Li prodigii e miracoli sono sregolamenti della natura, il cimento de quali appartiene a chi ha cognitione del corso ordinario degli avvenimenti del mondo, al musico incombe l’advertire la dissonanza per la peritia che tiene dell’armonia e melodia, e la medicina fu diffinita essere non solo scienza de corpi infermi, ma de sani ancora. Onde il Salmista egregiamete disse mirabilia opera tua, et anima mea scit nimis379, parlando egli di se stesso dice, posso affermare io con gran confidenza quali siano li miracoli d’Iddio per esser capace, et adottrinato molto delle cose consuete e naturali, la mia maraviglia non nasce da [70r] sto|lida ignoranza, ma da esata informatione, che tengo delle cose mondane. E se Tacito s’havesse applicato

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alla cognitione de Sacri Libri mosaici, e de profeti sarebbe stato piu ratenuto nel sententiare che la gente hebrea, superstitioni obnoxia religionibus adversa380. Ma se per la parola de superstitione ha voluto riferire un tenace culto, et inviolabile riverenza verso la causa superiore posponendoli qualunque humano interesse, e per religione ci ha voluto significare una regola lesbia381 accomodata e pieghevole ad ogni occorrenza humana, non è dubbio che poco si discostava dalla impietà, appelando la religione superstitione, e l’ateismo culto, e divotione. Ma a tal depravatione era ridotto quell’infelice secolo, che l’adorare, e riverire il supremo nume celeste, era materia di satira, e sogetto d’irrisione, onde Iuvenale alla Satira 14: Quidam sortiti metuentem sabbata patrem, Nil praeter nubes, et coeli numen adorant382,

aggiungendovi egli le nuvole, come fu imposto da Aristofane comico a Socrate sommo filosofo per la riverentia che portava alle cose celeste, e divine. Ma il tutto si poteva tollerare a poeta, che il suo proponimento è il fingere, et a professore di satire, che per instituto ha la maldicenza, ma non a sommo historico, che tiene per scopo la verità, e candidezza. [70v] Settima irrisione fu il calunniare gli Hebrei d’otiosità et accidia per il loro solenizare il giorno settimo, e così il cessare dall’agricoltura parimente ogni settimo anno, septimo die otium placuisse ferunt quid finem laboram tulerunt, dein blandiente inertia septimum annum ignavia datum383, et il sudetto Iuvenale: Sed pater in causa, cui septima quaeque lux fuit Ignava, et partem vitae non attigit ullam384.

Disputando con un gentile non occorre portarli ragioni de quali egli vuole esserne incapace, come de creatione di mondo, e liberatione miracolosa d’Egitto, ma bene dico che politicamente li doveva sovvenire essendo lui sì gran maestro di ragion di Stato molte cause di tali institutti. Prima se li dice che non fu altrimente dedicato il settimo giorno ad un turpe otio, ma sì bene al riposo del corpo, per potere in quel tempo con magiore commodità essercitare

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l’animo del popolo nelle contemplationi, conforme il detto di Scipione Africano referito da Cicerone, sed nunquam minus esse otiosum, quam quum esset in otium385, oltra che essendo sei giorni destinati ad affari proprii e privati, era convenevole ch’il settimo fosse dedicato al publico servitio. Ma di più ancora essendo all’huomo naturale la quiete, et avido di moderati piaceri e recreationi, quando non li fosse stato appartato in breve giro uno giorno per il riposo, in tutto il tempo della sua vita, sarebbonsi mescolati [71r] l’|otio con il negotio, e l’occupationi con li piaceri, et in tal modo divenivano turbati tutti gli offitii della vita civile. E la Scrittura acennò tal ragione con dire, Exodo capitolo 32 sex diebus facietis opus, in die septimo sabbatum est386, e gli Romani istessi con più apparente scandolo, ma però con politica prudenza dedicorono alcuni giorni dell’anno al publico lusso e dissolutione, come li giorni saturnali, e baccanali, havendo fatto de tempi quello ch’in molte città usarono far de lochi, deputandone alcuni di loro a publici prostibuli387, acciocchè il resto della città restasse affatto netta e purgata, riducendosi quasi in lorda cloaca ogni immonditia, e infame obscenità. Et Oratio in tal proposito disse: Quidam notus homo, cum exiret fornice: macte Virtute esto, inquit, sententia dia Catonis. Nam simul ac venas inflavit terra libido: Huc iuvenes aequum est descendere: non alienas Permolere uxores388.

Così ancora conpartirono alcuna portione dell’anno a piaceri e lussi, acciocché parte del corso annuale per l’aspettatione della prossima dissolutione, et altra per la satietà e nausea della passata licentiosa vita restassero affatto purgate e mondificate. Per il che non doveva parere a Tacito educato negl’instituti romani tanto strano che gli Hebrei ogni settimo giorno riposavano, havendo gli altri sei giorni occupati in travagliarsi per li sovenimenti della vita. Ma in proposito del sabbato non posso far di non advertire nel maggior [71v] huomo di potenza, e grandezza che giamai fu al mondo quanto poco informato fosse ancor lui al par di Tacito de riti hebraici. Cesare Augusto scrivendo a Tiberio il governo della sua vita, secondo che riferisce Svetonio, li narra, ne Iudaeus quidem mi Tiberi tam diligenter sabbatis ieiunium

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servat quam ego hodie servavi389. Ma quanto sia falso che gli Hebrei digiunavano il sabbato, si può comprendere che giamai in alcuno de loro rituarii si trova tal osservanza, anzi che nell’Exodo riferisce la Scrittura ch’il giorno sesto cadeva doppia misura di manna per supplire al bisogno del popolo nel settimo, che cessava tal influsso, et una sol volta fu ordinato da Moise il digiunare ch’occorreva alli dieci di settembre in circa, et è certo che le parole d’Augusto non si possono riferire a quel giorno particolare dicendo tam diligenter sabbatis ieiunium servat390, che s’intende per li sabbati ordinarii. Dal che si può giudicare in quanta tenebre appresso l’altre nationi furono sempre involti li riti e costumi degli Hebrei. Il che procedeva per esser separati totalmente di religione, lingua, cibi, e comercii carnali et in niuna cosa quasi comunicanti, onde non solo li sopra nominati, ma tutti quelli che di loro fecero mentione, come, Giustino, Strabone, et Appiano, tanto dal vero si discostarono. In quanto poi alla tassa dell’inertia, et accidia [72r]391 del settimo anno apostogli da Tacito, si mostrò anco in ciò non solo poco pratico de riti hebraici, ma quasi imperito delle cose naturali. È la Giudea regione alquanto meridionale di rade pioggie, né favorita dal Giordano che l’innondi come l’Egitto dal suo Nilo, de suolo alpestre e non ubertoso, di modo ch’affaticandolo continuamente, agevolmente esala la sua virtù, a guisa d’animale, che troppo essercitandosi s’infiachisse, et al fine s’inaninisse. E perciò li fu provisto dal Divino Legislatore ch’ogni settimo anno si cesasse dagli uffitii dell’agricoltura lasciando riposare la terra acciocché ristorandosi, potesse di nuovo con maggior provento corrispondere alli desiderii di lavoratori. E la Scrittura istessa espresse questa ragione, e li nostri agricoltori costumano almeno con il variar le semenze allegerirla alquanto, e moderare le sue fatiche, onde Virgilio nella Georgica conclude: Sic quoque mutatis requiescunt foetibus arva. Nec nulla interea est inaratae gratia terrae392.

Seconda ragione, essendo nel settimo anno comune a tutto il popolo li beni della terra, godeva una certa comunità d’haveri tanto dalla plebe, e gente tenue ambita, e desiderata, e quello ordinariamente non si poteva tollerare nel Stato politico

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per la ragione esplicata da Cicerone. Capitalis omnino oratio [72v] ad aequationem bonorum pertinens, qua peste potest esse maior? Hanc enim ob causam maxime, ut sua tenerentur respublicae civitatesque constitutae sunt, nam etsi duce natura congregabantur homines, tamen spe custodiae rerum suarum urbium praesidia quaerebant393. Dalla Legge mosaica almeno in ogni settimo anno fu concesso al popolo minuto assaggiare questo tanto loro desiderato bene, e così si veniva a temperare con certa armonia la comunità de beni, cosa tanto celebrata da Socrate e Platone politici teorici, con la proprietà e possesso particolare da Aristotele e Cicerone, statisti pratici, oltra modo celebrata. E perciò li loro beni come in certo modo comuni, erano dall’universale diffesi, e come spetiali con accurato riguardo da padroni custoditi, e governati, ché perciò anco fu instituito, che nell’istesso anno non si poteva esigere da alcuno la satisfatione de suoi debiti. Terza ragione fu a mio credere che non essendo in quelli tempi nel popolo hebreo distinta la gente di guerra dal comune del popolo come tante volte s’osserva nella Scrittura, e che gli agricoltori erano il corpo della militia, scelta la migliore che si possa desiderare, conforme il parere di Vegetio394, era convenevole ch’almeno ogni settimo anno cessando dall’agricoltura si adunassero per riconoscersi e disciplinarsi, overo anco dovendo dar opera ad alcuna espeditione militare in tempo a tutti otioso e vacante. [73r] Questi sono motivi, e cause di tali precetti, che ad ogni sincero giuditio ben in estremo politico, doverebbono bastare per diffendere la Legge antica di tanta inertia, et accidia imputatole da Tacito. Dalle cose antedette il cortese lettore s’altro frutto non havesse ricevuto ch’il conoscere la semplice autorità degli huomini grandi non esser il vero cimento della verità li dovrebbe esser grato tal diceria, conoscendo che quelli auttori, che in una materia furono accuratissimi, in altra possono essere transcuratissimi, e ch’alla bugia l’istessa verità gli è pertugiata per potervisi in lei insinuare, e siccome nelle altre nostre applicationi è giovevole il ne quid nimis di Pittaco395, nel prestar fede a scrittori ch’humanamente ci instruiscono, è sopra modo salutare, e proffittevole.

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CONSIDERATIONE XVI Circa l’applicatione de studii, e varie classi di dottori appresso gli Hebrei Qualunque popolo e natione che consacrò la sua memoria alla sempiternità, vi aspirò con il mezzo dell’arme o dottrine. Li Greci s’immortalorono con l’inventione delle scientie, et arti più nobili, onde Oratio: Graiis ingenium dedit ore rotundo Musa loqui, praeter laudem nullius avaris396.

E li Romani con li trionfi, et imperii397. [73v] La natione hebrea mentre che fu protetta dalli favori divini, per l’una e l’altra professione fu celebre appresso tutte le genti a lei coetanee. In quanto al maneggio dell’arme famosi sono li racconti spiegati nella Sacra Scrittura, e narrationi di Gioseffo hebreo, et è sopra modo osservabile ch’insino al tempo che già erano decaduti dalla Gratia Divina, et arrivarono all’orizonte del loro dominio, mostrorono l’ultimo sforzo di valore e generosità, a guisa di lume che vicino all’estinguersi radoppia la luce, et il baleno. Era già soggiogato il genere humano dalla romana potenza, eccetuatone quel poco di lui che l’intrattabilità del cielo, sterilità di terreno, e pericoloso tratto di mare diffendevano da sì molesta oppressione, solamente gli Hebrei portione insensibile rispetto alla moltitudine e numerosità d’altri popoli, presero l’armi per vendicare la loro libertà e diffendere la religione, et esposero le proprie vitte398 a volontarii macelli, onde li valorosi imperatori, Vespesiano, e Tito, benché suffragati dal concorso de tutti gli huomini, sovvente dubitarono della vittoria. Né meno furono gli Hebrei chiari et illustri, per l’essercitio delle lettere e scientie, poiché dal consenso universale gli è attribuito ch’appresso di loro hebbero li natali le più degne dottrine, e come Eusebio egregiamente nel Libro della Preparatione lo [74r] dimostra399. E la Scrittura più volte celebra la natione per la sapienza che per il valore dell’arme, Deuteronomio haec est enim sapientia vestra, et intellectus coram populos, ut audientes universa praecepta haec, dicant en

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populus sapiens, et intelligens400, ma dopo che convenendoli cedere al divino decreto furono soggiogati da Romani, distrutto il Tempio, invasa la città, oppressa la religione, captivato e disperso il popolo, non solamente hanno perduto affatto ogni militar gloria, invilitosi et infiaccatosi affatto d’animo, ma anco quasi s’estinse in loro ogni lume di sapere, e si oscurò qualunque splendore di eruditione, poiché vogliono le virtù essere accompagnate e trattenute dalli agi e comodità della vita. Maggior discapito e crollo fu questo ch’il primo, ché sebbene il decadere dalla reputatione militare cagiona la soggettione e l’obedienza, nulla di meno non ne rissulta però il perdere affatto l’honore e la gloria de popoli benché ad altrui siano ossequenti. Rare sono le città affatto dominanti, infinite le soggette che tuttavia risplende in loro fulgenti raggi di virtù. La Grecia benché sotto posta a Romani mentre che fioriva de dottrine fu celebratissima, tanto che a suo arbitrio formava quelli animi che li dovevano poi dar leggi, e per tal causa si rendeva dubbioso se li Romani soggiogarono li Greci con la violenza et imperio, overo questi quelli401, [74v] poi|ché a loro modo li configuravano, et assestavano con l’infusione delle loro dottrine openioni, et impressioni de costumi. Ma dopo che inondando la barbarie furono privi de scientie, et egregie arti, riuscirono appresso il mondo ignoti e sconosciuti. E con gran giuditio li dottori christiani si stimarono più offesi da edditi402 di Giuliano imperatore403 havendogli impedito, et interdetto l’essercitio delle discipline, che di Nerone, Traiano, Diocletiano, e Massimino, che li perseguitorono con gli flagelli, martirii, et eccidii, conoscendo non esser cosa che più avvilisca l’animo humano, che l’inscitia404 et ignoranza. Le guerre, le vittorie, senza li preconii, et encomii de litterati, non sono altro che strepiti e rumori, ma le lettere e dottrine riguardano all’eternità. In procinto d’incorrere in una totale ignoranza si ritrovorono gli Hebrei nella caduta del loro imperio, e nel progresso d’una così lunga e miserabile dispersione, quando che il stimolo dell’intelligenza della Scrittura gravida de recondite dottrine non l’havesse spronato ad alcuna mediocre applicatione d’intelligenza e curioso sapere. Et è notabile che siccome il zelo della propria religione li ratenne dall’impiego delle discepline humane per sospetto

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che la dissoluta curiosità non li conducesse ad alcuna eronea openione, e prava assertione, così anco l’istesso zelo, et [75r] affetto gli indusse a non abbandonare affatto le scientie per rendersi capaci d’articoli della fede, et espositione della Scrittura. Né saprei determinare se gli Hebrei hanno occasione di lamentarsi della conditione de tempi che gli ha privato per l’incommodi della vita di moltiplicità de libri, e numerosità de auttori, che con l’otio et agio a satietà ne abbondarebbono. Molti incaricano il tempo esser edace405 consumatore del tutto, e massime delle fatiche de litterati, io piuttosto di lui ne reclamarei non come di rapace involatore, ma immoderato agregatore alla pura e sincera antichità. Oppur si potrebbe assimigliarlo al mare ch’alcuni lochi della terra sommerge, et ingiotti, et ad altri con apportargli arenoso e paludoso terreno li rende inavigabili, et inacessibili a vascelli, otturando li porti, et atterrando li reccessi, così il tempo la memoria d’alcune cose affatto consuma et abbolisce, et altre in eccesso ha amplificato, et allargato con fimbrie406, et appendici d’incredibilità e mendacità. E perseverando nell’esempio del mare, a proposito fu detto, che siccome quello le cose gravi sommerge, e le leggieri a galla sostiene, così anco il tempo opprime, et annichila le dottrine sode, e solo ci rapporta, e transmette le di poco momento, e vane. Ma per dire alcuna cosa de litterarie occupationi [75v] degli Hebrei in sì gran corso di tempo che la natione è captiva non essendone estinta affatto ogni scintilla, è da sapere ch’in tre classi principali si riducono li loro studii circa le Sacre Lettere. Prima di rabbini e talmudisti, seconda teologi filosofanti, terza cabalisti, e professori d’arcani407. Rabbini appresso gli Hebrei sono quelli che s’attribuiscono havere le traditioni del modo d’osservare, et essequire li riti contenuti nella Legge, che per gran corso d’anni si confernò vocalmente, dal tempo della legislatione infino l’età d’Antonino imperatore408, ch’allora ne furono composti da un Rabbi Giudà409 celebratissimo huomo de quelli tempi aforismi e trattati. Dicono essi rabbini la Scrittura in molti lochi esser tanto oscura e concisa, ch’è impossibile con humane congietture indovinarne il vero e germano sentimento, ché perciò non è credibile che il prudentissimo Legislatore abbandonasse tanta

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dubbiosa interpretatione all’arbitrio e temerario placido di cadauno, ma ben è ragionevole che rivelasse l’espositione alli più elletti et a lui famigliari, accioché successivamente in ogni tempo la comunicassero alla posterità. Come per esempio la Scrittura instituisce la festività del sabbato, che deve principiare al tramontare del sole nel sesto giorno operativo, né dichiara a qual orizonte della Terra [76r] de|ve cominciarsi, essendo tuttavia infiniti li orizonti, restandoci ignoto per il litterale della Scrittura qual loco deve essere il primo a solennizare tal festa e qual seguire. Di più commette l’osservanza d’alcune feste a giorni limitati del mese410, et a stagione determinata dell’anno non esplicando se ’l mese è computato dal partirsi della luna d’un loco del Zodiaco al suo ritorno a detto loco dalli astrologi circuito periodico appellato, overo da una congiuntione della luna con il sole all’altra successiva oppure d’una apparenza dopo l’haversi la luna svilupata da raggi solari insino alla seconda apparenza dopo l’haversi affatto perduto il lume per la sua congiuntione con il sole, e se in questo terzo modo, ancora v’è da dubitare rispetto a qual clima conviene terminare tal apparenza oltre altre dubbietà ch’in tal proposito occorrono411. Così parimente circa la diffinitione dell’anno non mancano la perplessità, primieramente s’è composto di dodeci lunationi come osservono oggidì li settatori di Mahometto difettoso d’undeci giorni in circa dal circuito solare, oppure se termina con il giro e ritorno del sole all’istesso punto del Zodiaco. Il che non manca ancora delle difficoltà per le varie openioni de astronomi, essendo ineguale appresso loro la misura dell’anno solare di Tolomeo, da quello d’Albetano arabo412, e questo [76v] discorde dal computo copernicano e d’altri moderni per cagione delle precessioni d’equinotii e d’altre varietà. Et anco quando fosse conforme al giro del Sole vi nasce dubbio se vi si deve mescolare il lunare, costituendo il mese intercalare ogni tre anni, come osservono oggidì gli Hebrei overo ogni otto anni come una volta usavano li Romani. E se il giro e periodo nel qual tornavano gli anni all’istesso modo fosse ogni 19 anni come usano hora gli Hebrei componendolo di 12 anni lunari difettosi, e 7 intercalari accresciuti, e sebbene vi resta varietà d’un’hora, tornano a stabilire li giorni festivi, come nel primo

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giro, overo come li Romani, che difenivano tal circuito d’anni diminutti413, et intercalari nel periodo d’anni 24, onde Livio trattando di Numa, libro primo, Deca prima, atque omnium primum ad cursum lunae in duodecim menses describit annum, quem quia tricenos dies singulis mensibus luna non explet, desunt dies solido anno qui solstitiali circumagitur orbe intercalares mensibus interponendo ita dispensavit, ut vigesimoquarto quoque anno ad metam eandem solis, unde orsi essent plenis annorum omnium spatiis dies congruerent414, oltra tanti altri modi e maniere di terminarlo, registrate nel curioso e faticoso libro del dotto Scaligero intitolato De emendatione temporum415. Per il che dicono li rabbini esser ragionevole che Moise con vocale traditione tutte le scrupolosità e dubbietà terminasse. E l’istessa circoncisione rito tanto [77r] so|lenne degli Hebrei non fu giamai dichiarito nella Scrittura circa qual membro e parte del nostro corpo si dovesse esequire, ch’anco l’orecchia fu appellata dalli Profeti incirconcisa: Ieremia 6 Ecce incircumcisae aures eorum, et audire non possunt416, et altrove in molti lochi. Per il che è credibile che fosse rimesso alla tradittione e consuetudine. Di più si può addure a loro favore, ch’esendo la lingua hebraica priva di lettere vocali servendosi in loro vece d’alcuni punti sogiacenti alle consonanti, et essendone stata priva la Scrittura migliara417 d’anni dal tempo di Moise Legislatore insino dopo l’età del dottissimo tradutore della Scrittura, che continuò senza la connessione de punti, come attesta l’istesso tradutore, conviene necessariamente confessare, che per sì gran intervallo di tempo per cagione della traditione si conservasse corretta e castigata la lettura della Sacra Scrittura, e per corroborare questa loro openione dicono che li quaranta giorni che dupplicatamente dimorò Moise nel monte Sinai nel tempo della legislatione non fu solo per elaborare li due tavole del Decalogo, ma per apprendere le sudette traditioni418, a quali ancora dicono doversi riferire le tante reiterate implorationi de profeti, et in particolare del Salmista nel Salmo 119 che fu per l’apprensione, et intelligenza [77v] della Scrittura, cioè delle traditioni interpretative della Legge. Molte altre ragioni sono apportate da detti rabbini, che non voglio in ciò più dimorare. A questi dottori l’universale degli Hebrei in ogni loco e

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tempo hanno prestato assenso pontuale in quello appartiene alla essecutione de riti, e precetti, e massime cerimoniali, ch’essendo osservationi sensibili e patenti, e che non ricevono alteratione per varietà de tempi, con ogni fede credono, che li detti rabbini gli habbiano riferito, e rapportato quello che occulatamente hanno veduto da loro maggiori effertivamente eseguire, reputandogli semplici, e veraci relatori, e narratori dell’antichità. Segue la seconda classe di theologi adottrinati, overo filosofanti che li vogliamo appellare, e furono quelli ch’accompagnando la ragione humana con l’auttorità della Parola Divina, con armonioso concerto hanno procurato d’esporre la Scrittura, fra quali si può annoverare due chiarissimi huomini che fiorirono nella natione nel tempo ch’ancora riteneva alcuna forma di libertà. Il primo de quali fu Filone Alessandrino, che visse innanzi la destruttione de Hierusalem al tempo di Caio Caligola al quale fu destinato dagli Hebrei ambasciatore, e si risserba ancora la relatione della sua legatione, e di lui ne fa Gioseffo nel sesto419 De bello giudaico [78r] honorevole nominanza420, huomo non solo di mirabile eruditione nella lingua greca, ma d’incomparabile dottrina sì humana come divina, nell’esporre la Scrittura inclinò a sensi allegorici accompagnandovi concetti filosofici, naturali, morali, e politici. La sua maniera d’esplicatione fu seguita da Origene dottissimo fra Christiani, e parimente allessandrino, e non è credibile che s’alienasse assolutamente dal senso litterale, et historico, ma ciò fece per allettare, et addolcire gli animi de Greci, a quali indrizzava le sue fatiche, e per tal cagione ancora si è valuto piuttosto della traduttione de Settanta, che del testo hebreo, benché in alcune cose quella traduttione dall’hebraico deviasse421. E ciò fece per assestarsi, e confermarsi all’umore de detti Greci. Le sue opere sono state tradotte dal greco nel latino, né giamai trapassorono ancora nell’hebraico422, e s’egli avesse piuttosto applicato l’animo ad erudire gli Hebrei ch’a convertire li Greci, forsi haverebbe raccolto maggior frutto delle sue fatiche, ch’haverebbe illustrato la natione con maggior applauso, che con Greci non conseguì, ritrovando li suoi di già disposti all’apprensione della sua dottrina. Il secondo auttore fu Gioseffo sacerdote, celebre e

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prudentissimo historico, che nelli libri intitolati (l’)Antichità Giudaica, non pochi lumi apportò a molti lochi della Scrittura, e [78v] pa|rimente li publicò in idioma greca. Dopo questi due preclari huomini non si trovano altri della nostra natione ch’habbiano lasciato loro monumenti in lingua greca, overo latina. Ma poi che passarono le dottrine nella natione araba dopo la declinatione dell’Imperio romano, molti della natione composero libri de varie scientie in lingua araba. Fra li più antichi che si riserba memoria appresso la natione fu Rabbi Saadià423 che visse già ottocent’anni detto l’eccellentissimo424, che ci arrichì d’un dottissimo libro circa gli articoli della fede. E così tutti quegli Hebrei che li seguirono per il corso de 500 anni in circa, se d’alcuna dottrina humana ragionarno, composero li loro libri in lingua araba et agarena425, che quasi tutti per l’ingiuria de tempi e declinatione dell’Imperio arabo si sono smariti. Fra gli huomini dotti di quel tempo si erresse e sublimò Rabbi Moise cordubense spagnolo426, ma per habitatione detto egitio, che fu quasi coetaneo di Averoe comentatore, il quale per eccelenza di dottrina et427 universalità di tutte le scientie, è reputato delli maggiori huomini che giamai fiorì nella natione, fra molti libri che ci lasciò, compose Il Direttore de Dubitanti opera teologica, citata per auttorità più d’una volta da maggiori e più eminenti teologi della Christianità, il qual libro fu tradotto e [79r] stam|pato nella lingua latina, ripieno di somma dottrina nel quale vi sono esposti li piu importanti dogmi della credenza hebraica a quali molti si rapportiamo. Et è notabile che siccome l’Egitto diede esordio alla celebrità della natione hebrea per cagione de protenti e miracoli ch’a favor suo occorsero, così anco produsse et educò li tre piu famosi huomini ch’in la natione fiorirono: Moise profeta sommo legislatore nel principio della loro solevatione, Filone eloquentissimo oratore mentre ancor’erano appresso le nationi in alcuna stima, Rabì Moise ora sopranominato, egregio et eccelentissimo dottore nella loro caduta et oppressione. Seguì alcuni anni dopo al detto Rabì Moise, Maestro Levì428 al pari di qualsivoglia altro scientiato, e dottissimo huomo, questo benché terminasse la sua vita nel giro di trenta doi anni429 in

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circa tuttavia comentò tutte l’opere d’Aristotile, et espose molti d’Averoe arabo in lingua hebraica, parte de quali scritti a mano appresso di me si trovano430. Di più compose un libro insigne et admirabile de moti celesti conforme a suoi principii, nuove osservationi, e proprii calcoli, e con suo inventato sistema maggior volume che l’Almagesto di Tolomeo431, con il quale ha frequenti altercationi, et in fra gli altre novità sostiene il primo mobile esser il cielo inferiore a tutti, il qual libro parimente si trova scritto a mano, ma in alcuna parte mutilato. Compose di più un singolare volume [79v] di teologia naturale detto Bella Domini432, et ancora lasciò un’espositione sopra tutta la Scrittura al paragone di qualsivoglia altra, ripiena d’ogni lume di scientia e dottrina, e non solo fu di profondo sapere, ma di quello che rare volte accade ornatissimo, et eloquentissimo nel suo modo di scrivere433. Dopo questo fu Rabbi Casdai434 d’accuttissimo ingegno, e fu il primo ch’ardì oppugnare la dottrina aristotelica435, come anco riferisce l’illustrissimo signore Giovanni Francesco Pico Mirandola nel libro nominato Esame delle vanità delle Genti436, a questo successe il suo discepolo Rabbi Giosef d’Alba437 che diffinì, e determinò con applauso universale della natione li fondamenti, et articoli della Legge mosaica. Fra questi si può numerare Rabbi Abram Aben Ezrà438 antico espositore della Scrittura, prencipe si può dire degli espositori del senso litterale. Vi furono ancora altri conspicui dottori di questa seconda classe, che per abbreviare non voglio annoverargli439. Alli predetti sono ossequenti gli Hebrei nelle openioni e dogmi pertinenti alli articoli della religione, come anco circa la moralità e modo di conversare, e diportarsi nel consortio humano, e vita civile con qual si sia gente e natione, che si bene li rabbini havessero in tal materia detto alcuna cosa che non si confermasse al stato presente, tengono che non si deve osservare come legge [80r] in|alterabile e sempiterna, supponendo ch’habbiano scritto come conveniva al stato e conditione di quelle genti ne quali erano dispersi, giudicandoli incorrotti rapportatori dell’osservationi cerimoniali, non profetici legislatori della loro posterità, massime in quello appartiene alli affari humani sottoposti a tanta contingentia, e varietà, e che dipendono da una alterabile infinità di circonstantie.

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Et il loro iure civile non è precettivo, et imperativo, havendoci loro stessi instruiti ch’ogni patto, e volontaria constituitione e conventione in materia civile dissolve qualunque loro terminatione. E con tutto che tanto si riportano gli Hebrei alli dottori della seconda classe, non mancono però di ridurre li detti e pronunciati degli antichi in conformità delle dottrine comunemente abbracciate, e benché tengono per fermo che le verità non s’oppongono l’una all’altra, e che la semplice openione delli antichi dottori non si deve opponere all’evidentia440, così la loro auttorità supplisce agli Hebrei, ove che la ragione humana è manchevole e diffetosa di potere con suoi argomenti arrivarvi441. Seguono li cabalistici, terzo ordine de dottori hebrei, la loro dottrina non è altrimente necessaria agli Hebrei d’approbbarla, benché tuttavia da alcuni della natione è con applauso ricevuta, e massime nella parte di Levante [80v] e Polonia. E perché questo nome di cabala ormai è divenuto volgare senza che si sapia la sua etimologia, e ciò che significa, intendo alquanto digredire in tal proposito, tanto più che questa dottrina fu dall’illustrissimo et eccellentissimo Giovanni Pico Mirandolano nelle lettere latine introdotta come nelle sue Conclusioni si può vedere442, e non vi mancarono altri di lui seguaci. Cabala significa propriamente recevimento443, et ha relatione a colui ch’apprende dal maestro, come la parola di traditione a quello ch’insegna et infonde la dottrina. Dicono adunque li cabalistici che siccome alli rabbini li furno consegnate le traditioni per l’osservanza de riti, così ad essi per la misteriosa espositione della Scrittura. Si divide tal dottrina in due principali portioni: l’una si può chiamare quasi pratica, e s’occupa circa certe combinationi stravaganti delle lettere, calcoli de numeri, figure de carratteri hebraici, ch’insino l’apice d’una lettera è considerata da loro con mirabile espositione, e s’applicano principalmente circa li nomi d’Iddio. V’è l’altra parte più teoricale, e scientifica, che considera la dipendenza di questo mondo corporale dal spirituale, incorporale et architipo444. Tengono che vi siano alcuni principii, et origini seminarii de tutte le cose sensibili, che sono come continui fonti, che a guisa de acquidotti e canali derriva in [81r] lo|ro l’influsso della Divina Potenza, et energia destinato

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a questo nostro mondo corporale, e numerano dieci principii fondamentali a tale fontione applicati445, come anco li Pitagorici incontrorono in questo numero decenale, nel terminar li loro principii, ma erano dupplicati per il distinto principio del bene e male, questi in parte s’assomigliano alle idee poste da Platone, ma a mio credere da diversi mottivi furono indotti li cabalistici ad introdurli. Platone seguì l’openione d’Eraclito446, Cratilo, e Protagora ch’asserivano il tutto, che noi sentiamo, et apprendiamo essere in continuo motto, e flusso, anzi che non habbiamo cognitione d’altro che di motto e relatione, apprendendo noi solamente la nostra interna passione, e commotione. Et Eraclito ch’hebbe openione, ch’il tutto fosse composto de fuoco, a mio creder non si riferì solamente al calore qualità sensibile, ma alla continua sua estintione, e ristoratione, ch’in lui visibilimente si osserva simile alla flussibilità, e non interotta successione che comprendiamo nell’esser delle cose misurate dal tempo progressivo e transitorio, dovendo esser congeneri e simili, la misura, et il misurato, come dice Aristotile447, e perciò ambi permanenti, overo successivi. E l’affermare, e dire quello si muove è un transcorso della nostra mente, o per dir meglio della lingua, che suppone [81v] esservi cosa per se stessa subsistente che gli accade e se gli aggionge l’accidente del motto: onde Platone nel Theeteto lasciò scritto per nome delli detti filosofi, principium autem ipsorum ex quo etiam ea quae nunc dicta sunt omnia dependant hoc est quod nimirum totum hoc, et universum motus sit, et aliud praeterea nihil448, non dice in motu sit, e poco dopo, nam et agens esse aliquid, et rursus aliquid patiens de unu firmiter, ut aiunt cogitare non potest449, e segue poi, nihil esse unum ipsum per se ipsum, sed alicui semper fieri, at esse undiquaque eximendum est450. E fu l’openione de detti filosofi di tentare a guisa de giganti oppugnare l’essere delle cose, e mandare in esilio dall’idioma humano il verbo sostantivo dell’esser. E Platone nel dialogo detto Cratilo, over de impositione di nomi, adduce una quantità di parole, che dinotano solamente flusso, motto, attione, e passione451. Et al suo proposito sarebbe stata la lingua sacra che li manca il tempo presente, e si serve del partecipio accompagnato con il verbo dell’essere accomodabile ad ogni tempo passato, et avvenire e vien preso il futuro per il passato,

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e di più sono ancor mescolati insieme, come a gramatici è manifesto, openione parimente recitata da Aristotile nel IV della Metafisica452. Ma Platone adherendo in parte al detto parere, con più maniera placida non assentì esimere affatto dall’universo l’essere di qualunque cosa essistente e permanente, congieturando che vi fossero oltre l’appressione de nostri [82r] sen|si alcune sostanze ferme e fisse, che senza il rapportamento e relatione ad altrui per se stesse potessero havere essentia stabile, e ferma, e che queste fossero l’origini de quelle apprensioni, che da noi si sentono, che propriamente ombre et453 vani simulacri si potrebbono nominare, dottrina come lui attesta nelle sue Epistole454 di grande applicatione di mente e sforzo d’ingegno d’apprendere una cosa pura, sincera, e denudata dal mesculio di relatione e moto, essendo ogni oggetto da questi vessato, et invilupato come dimostra Sesto Empirico, che da cinque spetii di relatione quasi tutte le cose sono accompagnate et involte, anzi vintilandole, quasi altro di loro che relatione non si comprende, cosa tanto fievole e tenue, che li Stoici, e dopo loro i nominali, li negorono l’essere se non chimerico, et imaginario, e per dir meglio verbale. Alla openione platonica pare che aderì Filone ebreo nel libro della Monarchia, trattando della richiesta di Moise in voler comprendere le cose divine, onde lo fa ragionare in questa maniera. Persuades inquit mihi me non posse manifestam imaginationem tui mente concipere, oro tamen, ut saltem gloriam tuam videre liceat, gloriam dico potestates quarum stiparis satelitio, quae actenus ignoratae miro me torquet cognitionis desiderio455, e poco dopo seguita, tales cogitandae sunt potestates, quae mihi astant pro apparitoribus, qualitates formasque addunt rebus qualitate, formaque carentibus, absque ullo sempiternae suae naturae [82v] detri|mento, haec non temere ideae nominantur a quibusdam vestratibus, etc.456. E sebbene non piglia così strettamente l’openione di Platone, come io l’ho riferita, tuttavia in gran parte a lui s’accosta, non ponendo queste idee nella mente divina, ma che siano principii, et origini, benché da Dio dipendenti, imperò divisi, e distinti fa lui, e li Platonici soriani457, che fu l’ultima scola d’academici, come Plotino458, Iamblico459, e Profirio460, a

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questa openione si accostarono. Ma li cabalistici, fondando li loro pensieri sopra la traditione, v’aggiunsero questa ragione per renderla probabile, ch’osservorono tutte le cose mondane havere insieme una vicina, e prossima graduatione di brevi intervalli distinta, come per esempio, gli elementi con le qualità simboliche sono annessi insieme, come dimostra Aristotile nel libro De Cœlo, et mundo461, e così fra le pietre, e li metalli, vi sono li mezzi minerali, e fra metalli non dal piombo la natura trapassa immediate all’oro, ma vi s’interpone diversità di metalli che gradualmente ascendono al valore dell’oro. Così da questi al vegetabile v’è il coralo, e parimente fra le piante e li animali media le spongie e le conchiglie. Tutte l’altre cose si distinguono subordinatamente senza admettere transcorso stravagante, ma con dolcissimo modo sono legate, e congiunte insieme, così anco nel trapassar dall’infinto, [83r] semplicemente uno, imutabile, et incorporale, al terminato, moltiplice, variabile, e corporale, conviene infraporre alcune essentie, ch’in parte per la loro spiritualità, et eccellenza havessero alcuna corrispondenza, e simbolo con l’eminenza infinita d’Iddio, e per essere dipendenti e creati havessero parimente alcuna convenienza, e simpattia con le creature mondane. E queste sono l’idee de cabalistici differenti fra loro secondo la varietà de loro offitii, alcuni di loro applicati al rigore della giustitia, altri alla pietà, et altri ad una temperata clemenza, differenti dalli angioli, che la loro fontione è il contemplare, et essequire li volontarii comandamenti d’Iddio, assumendo anco vestito corporale per apparire agli huomini. Di più tengono che queste idee si trovano in quadruplicata distintione, alcune le più degne sono difuse overo inspirati, le seconde create, le terze formate, le quarte et ultime operate, e perfettionate, essendo l’une subordinate all’altre con regolata hierarchia. Le qual dottrine averebbono bisogno di lunga discussione, addattandosi molti lochi della Scrittura in conformità del parere di detti cabalistici, come spurii tralignarono dalla dottrina sopra detta li Valentiniani462, e Gnostici, et altri eretici antichi, come si può vedere in Epifanio dottor greco463, et Ireneo latino464. Solo Avicena465 famoso autor arabo, [83v] pare che s’accostasse alli cabalistici, ponendo certa concatenatione de cause spirituali, per evitare l’incomodo che da una semplice causa derrivasse la

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moltiplicità d’effetti, come nella sua metafisica si può vedere. Di più ancora li cabalistici, fra l’anima et il corpo vi pongono una essentia per mezzo della quale l’anima si fa capace de passioni e sentimenti, e questo suppongono esser un spirito di corpo sottilissimo conforme alli veicoli asserti da Platonici, e tengono che s’accompagna all’anima dopo la partenza del corpo466, per mezzo del quale patisce le pene afflittive per cagione d’errori commessi467, e de Dante nel canto XXV del Purgatorio, trattando dell’anima: E quando Lachesis non ha più lino Solvesi da la carne, et in virtute Seco ne porta, e l’humano, e’l divino. L’altre potenze tutte quante mute Memoria, intelligenza, e volontade In atto molto più che prima acute468.

Cioè quando occorre la separatione dell’anima intellettiva, dal corpo humano, s’uniscono con lei altre potenze, et in particolare la sensitiva, con sue facoltà, supposte tutte dal poeta, per la parte humana, restando però mute, cioè consopite, rimesse, ubbidienti, e non petulanti, e disordinate come già erano mentre l’anima informava il corpo, ma allhora fiache, come radice di pianta sbarbicata [84r] dal suo terreno. Al contrario l’anima divina, et intellettiva, essendo divisa dal consortio del corpo insieme con le sue proprie potenze, dal poeta esposte, si rinfrancano, e radoppiano il vigore, il qual testo del poeta, né dal Daniello469, e Velutello470 fu in tal senso esplicato. Segue poco dopo l’istesso poeta: Tosto che luogo là, la circonscrive La virtù formativa raggia intorno, Così, e quanto ne le membra vive, E come l’aere quand’è ben piorno, Per l’altrui raggio, ch’in sé si riflette, Di diversi color si mostra adorno; Cosi l’aer vicin quivi si mette In quella forma, che in lui suggella Virtualmente l’alma che ristette.

Rassimiglia quel vestito aerio e spirituale, che si forma

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intorno l’anima dopo la separatione, all’iride celeste che rappresenta la figura del sole per li suoi raggi, che riflettono in quella parte nuvolosa e piovosa che l’è dirimpetto, e sebbene il poeta v’aggiunge poi l’apparenza visibile, le lacrime, e la voce, et altre proprietà corporali. Li cabalistici più oltre non trapassano, che attribuire al detto adobbamento et invoglio, che l’impressione d’alcuni passioni corporali, dovendo esser adminicolo e mezzo che l’anima intellettiva in sé rissenti le pene afflittive, come ancor gli avviene nel stato presente [84v] per esser unita con il corpo. Fu openione ancora sopradetti cabalisti la transmigratione pitagorica, e non de talmudisti, come in ciò legiermente s’ingannò il dottissimo Lipsio471, poiché giamai non fecero mentione di tal pensiero, anzi che472 da teologi della seconda classe fu tal parere affatto oppugnato. Molti sono li libri che di cabala trattano, in fra gli altri uno intitolato De Creatione473, principale in tal proposito, parimente un altro volume grandissimo sopra li cinque libri de Moise nominato Il Splendore474, attribuito ad uno d’antichi rabbini. Fra li celebri auttori di tal materia è nominato Rabì Moise Gerundense475, che fu di acuttissimo ingegno. Né altro per hora mi resta dire circa li cabalistici, ché volendo esplicar esatamente le loro dottrine vi converebbe un volume da per sé. Vi si trova ancora un’altra quarta classe d’Hebrei stimata dal comune della natione scismatica, et eretica, nominata charaita, e sono un residuo delli antichi Saducei, li quali non admettevano alcuna traditione, et espongono la Scrittura conforme il loro proprio sentimento, e dimorano in alcune poche città de Levante476. Sono fra di loro talmente discrepanti, che qualunque d’essi è auttore di nuove espositioni, non havendo la norma della traditione che li rattenga al segno della concordia, et unione, ma è ben vero che sono più corretti che li [85r] antichi Saducei, admettendo essi l’incorporalità et immortalità dell’anima, come anco assentiscono che vi siano angioli immateriali, dogmi negati e ricusati dalli Saducei. Sono pochissimi di numero, tenui di facoltà, e privi d’ogni auttorità, et in più depresso stato appresso l’altre nationi, di quello sono gli ordinarii Hebrei, s’appellano charaiti, cioè gramatici, per la peritia ch’hanno piuttosto della construttione gramaticale, che del vero senso della Scrittura477.

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Quest’è quanto mi è sovvenuto dire circa li studii degli Hebrei in materia della Sacra Scrittura. In quanto poi alla loro applicatione delle scientie humane, non solo appresso di loro non si trova alcuna prohibitione, anzi che tengono per precetto legale il dedicarsi alla contemplatione delle cose naturali per conseguirne una probabile cognitione della grandezza d’Iddio, e molto più anco si tengono obligati impiegarsi nel studio dell’astronomia sì per il bisogno che s’ha dell’institutione de giorni festivi, sì anco per esser quella scientia una certa introduttione alla cognitione della sapienza, e potenza divina, conforme al detto del Salmista, in coelis praeparabitur veritas (over fides) tua in eis478, cioè li cieli sono quelli, per mezzo de quali, dispone, e [85v] prepara Iddio l’animo degli huomini alla fede, contemplando la loro vastità, e velocità di motto, e fermezza di periodi, et immutabilità de loro giri. E per certo gli Hebrei ritrovandole nel stato presente di soggettione, non havendo altro di libero affatto che l’impiego della loro mente ne studii, e dottrine, doverebbono in ciò applicarsi con ogni loro pensiero, et industria, e tenere per certo che l’unità de dogmi, la protettione che da Prencipi furono favoriti, e la conservatione che per sì lungo corso di tempo contra tante oppressioni hanno ottenuto, parlando humanamente, sono derrivate dalla virtù, e dottrine d’alcuni pochi di loro, ch’appresso li dominanti si sono acquistati credito, et auttorità, essendo privi di qualunque altro adminicolo d’aspirare per altra via a favori, e gratie di grandi, e devono esser certi, che mancando in loro l’apretiamento delle lettere, e la stima de virtuosi, sono per incorrere in alcuna notabile declinatione, e più disprezzabile oppressione, che per il passato giamai hanno patito.

CONSIDERATIONE XVII Si discorre circa la causa della varia permissione delli Hebrei, et anco di alcune espulsioni occorse alla natione [86r] Nelle questioni filosofiche, e scolastici abbattimenti, dopo la digladiatione479 delle ragioni, è costume capitare all’armi delle auttorità inesorabili, et alle volte invincibili. Così credo che

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alcuno non potendo affrontare alle cose antedette procurarà combatterci con l’oppugnationi dell’esempio et auttorità, dicendo che se gli Hebrei apportino tanti e tali commodi, qual è la cagione che Prencipi prudentissimi, republiche sapientissime escludano da loro Stati la natione hebrea, come Spagna, Francia, Inghilterra, e moltissime città di Germania, et in Italia non poche? Alla quale instanza si risponde, che in caso politico di poco momento è l’argomentare dal loco dell’esempio, e siccome è vanità usare l’auttorità nelle matematiche per la loro evidenza e certezza, così anco in materia politica è absurdità per la contingenza e diversità d’individuali accidenti. Ogni dominio e città hanno le loro circonstanze e proprietà particolari, che non s’assestano al governo d’altrui, non vi è città in Europa, che in materia civile, [86v] e criminale, non habbia le sue leggi particolari, e municipali, né però l’una è instruttione e documento all’altra, e quando ciò fosse l’auttorità dell’eccellentissimo Senato veneto nell’abbracciare la natione hebrea doverebbe essere a tutte l’altre amaestramento, e norma di admettere nelli loro Stati gli Hebrei, e non è dubbio che tutti egualmente li permetterebbono, come amatori di popolationi, e desiosi d’utili et entrate, ma la diversa dispositione, et impiego de popoli è cagione ch’essi Prencipi inclinano, e si dispongono a secondare li loro caprici, non volendo o non convenendo usarli forza. E l’istessa Serenissima Republica concede habitatione alli Hebrei nella propria città, capo del dominio, ma non in Brescia, Bergamo, Crema, et alcune altre città del Stato, e ciò per la repugnanza, e renitenza de popoli contra la natione. E sebbene non si può con ferma ragione discorrere fra tante varietà de pensieri di popoli, nondimeno probabilmene si può dire, che le città che non hanno porto di mare, popolatione numerosa, concorso di forastieri, e commissioni de negotii da tutte le parte del mondo, come ha la città di Venetia, conviene alli Hebrei che in esse dimorano sostenersi in uno de tre modi: primo, con l’usura siccome fanno in alcune città d’Italia, e Germania; secondo, per mezzo dell’[87r] essercitio delle arti comuni delle città; terzo, come in Levante, con l’entrate de beni stabili tenuti ad affitto. L’usura li rende egualmente poco amabili a tutti gli ordini

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della città, l’essercitio delle arti al popolo minuto, il possesso de beni stabili alla nobiltà e grandi. Queste sono le cause essentiali, et efficaci che gli Hebrei non abitano in molti lochi, il che non occorre, et accade nella città di Venetia, ove l’usura è solo di cinque per cento, e li banchi sono erretti per la comodità della povertà, e non per proffitto de banchieri, e l’uso delle arti li è prohibito insieme con il possesso de beni stabili, supplendo a loro bisogni il negotio e traffico, di modo che a niuno stato, et ordine della città sono gravi, e molesti. Ma oltre di ciò con gran verisimilitudine si può indagare la causa d’alcune espulsioni notabili degli Hebrei. In molte città della Germania seguì a tempo Gottifredo con l’occasione della Cruciata per l’espeditione di Terra Santa, onde quella soldatesca infervorita contra qualunque natione differente dalla christiana, essequì nelli miseri Hebrei memorabili, e compassionevoli eccidii, ove non fu loco quasi all’esilio, il che poi si abituò nell’animo di popoli l’odio, e l’avversione contra la natione. [87v] In Francia nel tempo istesso che occorse la strage de cavalieri templari, furno anco contro li Hebrei fulminati severissimi decrettii di confiscationi, et esilii, per le cause accenate nelle historie. Da Spagna furono scacciati a tempo di Re Ferdinando e Regina Isabela, dopo la soggettione de mori granatini, e se vi concorse altra causa, che puro zelo di religione si può conietturare ch’essendo li loro regni ripieni di mori, e maomettani, benché in apparenza cristiani, non li compliva trattenere ne loro regni una massa sì grande d’Hebrei, e mori divisi dalla comune religione, ché gli Hebrei soli ascendevano al numero di mezzo millione come ho detto480, onde facilmente poteva fra dette nationi passare alcuna intelligenza di solevatione, come egualmente suddite soggiogate e mal contente. E sebbene ciò realmente non fu, vi era apparenza bastante d’insospetire quelli Prencipi, per il che fecero risolutione per diminuire la gelosia, piuttosto bandire li Hebrei che li mori, essendoli questi più necessarii a suoi regni per l’agricoltura, et essercitio dell’arti, di che ne erano privi gli Hebrei, oltre di ciò per non irritare quel popolo, che ancora riteniva la sua primiera ferocità,

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e che aveva capo potentissimo della sua propria religione. In quanto poi al Re di Portugallo481, che d’indi a poco fece il simile contro la natione, [88r] oltre alla continua persuasione delli suddetti Ferdinando, et Isabella, quel tentativo fu piuttosto indrizzato, et ebbe mira alla conversione che alla esclusione, et esilio, e ciò fu che possedendo egli per mezzo della navigatione molti paesi nella costa d’Africa, e dissegnando far di nuovo altri acquisti nell’Indie, e dilatar il suo dominio molto oltre, li bisognava impiegare molta gente per supplire a tali espeditioni e populationi, essendo lui esausto di suditti per la picciolezza, et angustia del suo regno, ch’era una portione non troppo grande della Spagna per se stessa poco habitabile. Onde procurò di convertire alla religione christiana numero grande d’Hebrei ch’allhora si ritrovavano nel suo regno capitati con l’occasione dell’esilio di Ferdinando, et Isabella sudetti, e ciò fece per amassarli, et aggregarli al suo proprio popolo, e servirsene nelle sue imprese, navigationi, e colonie, né si curò della violenza usata in materia di fede e religione, onde publicò un fiero e crudele editto di repentino esilio, e totale confiscatione de beni contra quelli che non volessero consentirli alla detta conversione come nell’historia dell’eloquentissimo Osorio tale avvenimento è narrato482. E li riuscì che centenaia di migliaia si disposero, e si risolsero ad ubbidirlo, e la minor parte si sbandò, e presero volontario esilio. [88v] Questo è quanto si può discorrere, circa le cause di simili eventi, lontani da nostri tempi, et involti nelle tenebre d’imperscrutabili cuori de Prencipi.

CONSIDERATIONE XVIII Si tratta della dispersione degli Hebrei, e si dà relatione del loro stato diversi potentati, e numero loro Li popoli, e nationi hanno prescritti li loro periodi non meno che tutte l’altre cose mondane, prevenuti483 che sono alla sommità del fausto, et applauso, trabboccono poi nel abbisso dell’oblio. Disse il poeta: Muoiono le Città, Muoiono i Regni.

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SIMONE LUZZATTO Copre i fasti e le pompe arena et erba484.

E siccome due sono le maniere del finimento delle cose, l’una con il corrompersi affatto, et in altra transformarsi, overo ritenendo la propria essentia, frangersi e deformare la semplice figura, con solutione del continuo, com’il vetro franto, e l’acqua divisa, nelli stessi modi si disfano, e finiscono le nationi. La caldea, la persa, la greca, la romana, e tutta la gentilità, affatto si abbolirono, e si dileguarono, et in nuova metamorfosi si transformarono, onde di alcune d’esse, hoggi solamente ne sapiamo il nome, e delle altre, se risserba a guisa di [89r] tavolato sfuggito dal naufraggio alcuni fragmenti delle loro memorie. La hebrea non li occorse simili mutationi, e cangiamenti, ma bene si spezzò, e fu divisa quasi in infinite portioni, distrata, e dispersa per tutto l’universo, restandole in gran parte l’identità della sua essentialità485. E non è dubbio, che per se stessa non haverebbe avuto tanto vigore di opponersi alla edacità del tempo, et esimersi dalli suoi fieri insulti per sì lungo tratto di 1600486 anni in circa, ma ciò dipende dal volere della Divina Maestà, perservandola a fini a lui manifesti. E sebbene la captività, e dispersione è il maggior flagello che possi occorrere a popolo e natione, rendendola vile, et abbietta, scherno, et irrisione delle genti, nulla di meno è rimedio efficacissimo per la duratione, e perservatione, levando alli prencipi dominanti la gelosia, et il sospetto, et al popolo distratto, l’orgoglio, e la iattanza487 divenendo perciò umile e pieghevole. Li dottori antichi hebrei, osservorono, che Balaam per avanti fiero nemico del popolo hebreo volendolo poi benedire per rendersi in apparenza ossequente a Iddio l’assimigliò all’arbore di cedro altissimo e robusto488, e Hachià silonita hebreo pronosticandoli alcun male lo rassembrò alla canna palustre che si move ad ogni [89v] vento489. Onde dicono li dottori, che fu meglio il minaccio, e l’esacratione del silonita profeta verace e pio, comparandoli alla canna pieghevole, e flessibile, e che cede ad ogni violenza, e perciò resiste intiera, che la benedittione del scelerato pseuprofeta, che li raffigurò al cedro, che facendo forza all’empito490, e furia di turbi, e vehementi spirationi de venti, sovente insin da radici è svelto:

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103 Flectitur obsequio curvatus ab arbore ramus. Frangis si vires experiere tuas491.

La quale dispersione non solamente li ha giovato in renderli ossequenti a superiori, ma anco li ha difeso dall’innovationi de dogmi, e riti, non potendo serpeggiare, et invadere tutto l’universale per la divisione, e distratione delle parti integranti della natione. In quanto al numero degli Hebrei non si può diffinirlo precisamente non havendo n’anco ferma notitia de lochi ove dimorano. In quanto alle dieci tribù492, che furono captivati da Salmanassar innanzi la distruttione del primo Tempio, non si sa di loro certa novella ancor che sia il mondo oggidì tutto indagato e scoperto, e principiando dalla parte orientale, sapiamo che sotto il re di Persia se ne ricovra quantità grande, e con mediocre libertà nel Stato del Signore turcho è la principale stanza della natione non solo per [90r] l’|antica loro habitatione, ma anco per il concorso d’Hebrei sbandati da Spagna, ché gran portione di loro alla fine capitorono sotto quel dominio. E la causa di tal riduttione fu primieramente per il libero uso della loro religione per la connivenza ordinaria de Turchi verso qualunque altra aliena dalla loro, e ritrovandosi una quantità infinita de Greci, et osservatori d’altri riti, non si fa reflessione alcuna sopra gli Hebrei, oltra che li è permesso il possesso de beni stabili, e qualunque altra professione, e non vi essendo nobiltà non si pone il tenire terreni in consideratione, oltre che da Greci anco ne sono possedutti in gran parte, l’istessi per il più sono ancor applicati all’arti operarie, e li Turchi alla militia et al governo de popoli attendono, di modo che non se li dà occasione d’odio e rissa. Si potrebbe dire che la conformità della circoncisione cagionasse alcuna amichevole corrispondenza, ma ciò non è vero, perché l’esperienza insegna che li popoli in parte comunicanti de riti, et in parte differenti, meno convengono insieme, che li assolutamente distinti, e divisi. In Costantinopoli, e Salonichi, vi ne è maggior numero, che in altre città, e si giudica in queste due solamente esserne più di 80 mila, e si stima che sotto l’Imperio turchesco passano li miglioni. In Terra Santa, et in particolare Hierusalem vi capita annualmente non [90v] solamente numero grande d’Hebrei

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di tutte le nationi del mondo, ma ancora grossissima quantità de renditi annuali, che li vien offerto per mantener poveri, e sostenere accademie. In la Germania sotto l’Imperatore, vi ne sono gran quantità, ma molto più in Polonia, Russia, e Lituania, ove vi sono accademie, et università di migliaia di gioveni, e s’esercitano nelle leggi civili, e canoniche de Hebrei, avendo in quelle regioni libera potestà di giudicare qualunque differenza e controversia sì civile come criminale, che accade fra la natione. Sotto li dominii divisi dalla Chiesa romana, per il più non vi stantiano Hebrei, certa cosa è che la natione hebrea in alcuni articoli inclina alla romana più che alla loro opinione. Tengono gli Hebrei la Scrittura Sacra in molti lochi non esser intelligibile senza il lume delle traditioni, facendo gran stima e fondamento sopra esse, come ho già dimostrato. Credono ancora che grande sia il valore dell’opere meritorie appresso Iddio, et in esse grandemente si essercitano, accompagnandoli però con la fede. Asseriscono il libero arbitrio, e lo stimano essere articolo principale delle loro credenze. Affermano parimente, che li meriti altrui possino coadi[u]vare alli imperfetti, e li vivi [91r] pre|gano per l’anime de morti, dicono la giustificatione del penitente esser reale, e non putativa, et assolutoria, come ha tenuto Calvino, e sebbene non hanno il nome di Purgatorio frequente nelli loro auttori tripartiscono gli avvenimenti delle anime separate alla beatitudine, alle pene temporali finite, et alle eterne, tenendo ch’Iddio assolva la colpa, ma tuttavia esige la pena. Le loro orationi si fanno in lingua hebraica, non in volgare. Le qual cose nel trattato delli dogmi, e riti sono discussi, e ventilati. Tuttavia ne Paesi Bassi sono con grandissima carità, et amorevolezza trattati, come in Amstradamo, Retrodamo, et Amburgo di Olssatia493, per essere dominii, che per la floridezza della professione mercantile, concedeno humano hospitio a tutti. Verso occidente poi non resta altro che l’Italia, e nella costa di Africa il regno di Fessa494, e Marocco. In quanto all’Italia sono universalmente da Prencipi che li ricettono protetti, e favoriti, et osservati li loro indulti, e privileggi, senza alcuna alteratione, che per esser ciò sotto

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l’occhio d’ognuno non occorre ch’io vi allungo, e credo arrivare al numero di venticinquemila. In Marocco, e Fessa495, et altre città [91v] circonvicini non sottoposti al dominio del Turcho vi ne sono numero grandissimo, essendovi anco in quelle parti capitati dalli esilii di Castiglia, e Portogallo per la vicinanza de lochi. Si dice esservene un’infinità in paesi Mediteranei dell’Africa, che per essere paese poco praticato, et ignoto non si può limitarne il numero con certezza. L’opinioni, e dogmi di tutta questa natione cosi divisa, dilaniata, e smembrata sono uniformi, li riti cerimoniali sono l’istessi, in alcune cose non essentiali poco dissimili. Onde Aman nemico della natione disse al re Assuero, est populus unus dispersus per omnes Provincias regni496, con tante calunnie ch’aggregò non poté occultar questa conditione dell’uniformità, differenti solo ne costumi, diversità considerabile per la ragione sopra accenata. Quest’è quanto mi è sovvenuto a dire in proposito di questa natione in quanto appartiene all’interesse de prencipi, e popoli che la ricovrano, et in particolare della Serenissima Republica Venetiana, che con tanta benignità la riceve nelli suoi Stati, e prottege con la solita sua giustitia e clemenza, abborrendo essa, e detestando in ogni sua attione quell’ingiusto, et inhumano detto dall’impio statista497 Photino498 al giovine imperito Re Tolomeo proferito, come cantò Lucano: [92r] Dat poenas laudata fides, cum sustinet inquit Quos fortuna premit, fatis accede deisque, Et cole felices, miseros fuge, sydera terra, Ut distant, et flamna mari, sic utile recto499.

Il qual pronuntiato, produsse la proditione de maggior guerriero, che viveva a quel secolo, dico l’uccisione del magno Pompeo, che con la sua decapitatione fu iugulata, e recisa la cervice della romana libertà, et erresse un monumento d’infamia eterna a chi assentì a sì esecranda sentenza. Ma sempre ossequendo essa Serenissima Republica quel pronostico admonittivo espresso da prudentissimo padre a pio figliolo, come finge Virgilio che partorì poi le grandezze, e glorie del popolo romano, ché forse un giorno per benignità de cieli, siccome la Republica delle cui virtù è gareggiatrice così

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potrebbe esserne emula de trionfi: Tu regere Imperio populos Romanae memento. Haec tibi erunt artes pacisque imponere morem Parcere subiectis, et debellare superbos500.

IL FINE

SOCRATE OVERO DELL’HUMANO SAPERE

Esercitio seriogiocoso di SIMONE LUZZATTO hebreo Venetiano Opera nella quale si dimostra quanto sia imbecile l’humano intendimento, mentre non è diretto dalla divina rivelatione Al serenissimo Prencipe di Venetia

FRANCESCO MOLINO et eccellentissimo Collegio VENETIA, appresso il Tomasini MDCLI Con Licenza de’ Superiori e Privilegio IN

SERENISSIMO PRENCIPE ET ECCELLENTISSIMO COLLEGIO Socrate, fra l’antichi filosofi forse il più lodato, fu a modo suo devoto osservatore del famoso oracolo delfico, e riportò di esserne da quello giudicato sopra tutti l’huomini del suo secolo sapientissimo. Il di lui benché rude abbozzo hora a’ piedi di Vostra Serenità, et Eccellenze Vostre Illustrissime, hodierno e vero oracolo della humana prudenza, è diretto, e spera di tal ardire non incontrarne la publica displicentia1. E se nel tempo andato l’istesso Socrate, indagando appo suoi coetanei li vestigi dell’humano sapere, invano ne fu curioso, inviandosi in questo punto al trono di Vostra Serenità et Eccellenze Illustrissime s’accerta appieno rinvenirlo, havendo la Maestà della Venitiana Republica, di cui Vostra Serenità è glorioso Prencipe, e Vostre Eccellenze Illustrissime Sapientissimi Consultori, in ogni | tempo, e massime2 nelle presenti combustioni di gravissima guerra contro potentissimo nemico3, dimostrato con evidenza di prove memorabili, avverarsi la sentenza di Salamone, dicebam ego meliorem esse sapientiam, bellicis instrumentis4. Onde per il corso d’anni sette fu esprimentato che la violenza, benché munita d’immense forze, languisce e soccombe alla oppositione di constante e matura prudenza, della quale tali apparirno li notabili effetti nelle correnti emergentie, che se dalla trionfante antichità fossero stati presagiti, forse con invidioso livore ne havrebbe preso dispetto, siccome l’età presente l’ammira et acclama, e la ventura posterità se non fosse la continuatione delle sperate vittorie, li riputarebbe incredibili e favolosi. Pertanto io, Loro humilissimo suddito e servo, nato sotto questo felicissimo cielo5, et augustissimo dominio, come furno anco li miei antenati al di sopra di doi secoli, prostrato, suplica Vostra Serenità et Eccellenze Illustrissime, che ramemorandosi che nella legge mosaica si trova registrato, che la Divina Maestà appagavasi di poca farina6, che in segno di divotione povero

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meschino l’appresentava, si compiaciano parimente aggradire questo benché minimo saggio di dottrina, che in espressione della mia ossequentissima servitù, con ogni profondo affetto e riverentissima umiltà, da me l’è esebito e dedicato. Devotissimo servo Simone Luzzatto hebreo7

Al Benigno Lettore [1] Il fare passaggio per questo mondo senza imprimervi vestigio alcuno, è comunemente stimato vano viaggio et inutile tracorso. E Salamone nelli Proverbii fra li quattro che nel camino non producono di loro segnale, fu annoverato il serpente8, che sopra duro sasso si striscia, animale non solamente improficuo, ma oltre modo al nostro genere nocivo ed inimico. Sono stato ancor io dalla natura chiamato a transitare questo sentiero mondano, per il che ho giudicato convenevole lasciarvi alcuna orma, che se poi in breve, come stimo, il calpestio d’altrui la deturbi, overo il tempo l’abolisca, poco di ciò mi curo, havendo il mio devere eseguito. Il proponimento del presente impiego non è la difesa della scioperata, flatuosa9 ignoranza, che di sé tutto presume, e che a caso si regge, ma della modesta, discreta, e che non temerariamente si arroga quello che non ha, né tiene. Confuta Socrate il sapere humano, non l’inspirato et infuso da mente superiore, avanzandosi da tale divisamento che riconoscendosi la fiacchezza del natio nostro intendimento, si rendiamo flessibili alli sentimenti et attestationi delle sacrate lettere. Né paia ad alcuno troppo ardita intrapresa ad homo della mia conditione, l’attentare la libertà dell’animo humano inviluppato da lacci, con quali l’ardito e troppo pretendente sapere lo tiene legato e [2] stret|to, poiché l’esopico topo, con il suo minuto rodimento, già sciolse generoso e feroce leone. E se nel principio dell’accademica institutione fu alla humana autorità sospesa et interdetta la sua rigorosa e despotica giuridittione, ciò non seguì per dispregio che si tiene verso il serio e pesante

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parere di più saggi, ma solamente per evitare quelli ciechi et inosservabili colpi che sogliono offendere e ferire coloro, che non oltre modo nelli libri versati sono, ritrovandosi piuttosto alquanto pronti d’ingegno, che carichi di allegationi e provisti di aliene dottrine, avertendo di più che tutto ciò che pronontiò Socrate, nella everssione dell’humano sapere, fu piuttosto per modo tentativo, septico10, e dubbitativo, che dogmatico et assertivo. Et infine scaturendo non poche scorrettioni, e fallacie nel corso dell’opera, si compiaccia il cortese lettore darle facile venia, e che rimangano amassate et indulte con tanti altri errori et illusioni, che alli esercitii e fontioni della humana mente quotidianamente incontrano et accadono, come che nel progresso dell’opera si dimostrarà.

Argomento [3] Essendosi instituita in Delfo Accademia, il cui impiego era la riforma dell’humano sapere, congregatasi nel tempio di Appolline, si ritrova scrittura che per parte della ragione finta carcerata, reclamava dell’oppressione che pativa per cagione della humana autorità. Si disputa se convenga esaudire la detta ragione. Si delibera che interim conseguisca il suo desio. S’apre un recetacolo11 per raccogliere le denuntie secrete d’assordi che circa le divolgate dottrine si comettono. Si trova accusato Socrate ateniese, imputato di havere tentato l’everssione dell’humane scienze. Fu nella publica assemblea altercato se conveniva lacerare tal querela overo discutterla. È preso di proseguire, per il che s’intima la difesa a Socrate, onde appresentatosi alla publica adunanza tratta la sua discolpa, e dimostra la cagione che lo motivò a sospettare dell’incertezza dell’humane discipline. Manifesta che prese origine dall’osservare le controversie che vertiscono12 fra li sapienti circa li principii delle cose naturali. Racconta poi certo tal litigio che li rasembrava nel suo animo vertire fra l’oggetti, sensi, intelletto, et il sapere, circa l’offerirsi primo cadaun di essi all’esame da Socrate instituito. E ritrovandosi egli circa ciò dubbioso, alla fine si risolve da oggetti principiare. Proseguisce

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ciò, e trovando questi come che incomprensibili, continua l’indagare la suficientia di sensi esterni et interni. Onde con acre discussione esamina egli il senso comune, imaginatione estimativa e memoria e da questi si conduce all’intelletto. Trova parte di questi fititii e parte invalidi ad informarci della sincera verità. Doppo s’applica a riconoscere l’istesso sapere. Adduce quindici espositioni circa ciò e le confuta. Attenta finalmente se almeno si ritrovi alcuna [4] cer|ta dottrina circa l’affari humani. Per il che s’impiega a ricercare ciò che sia la prudenza. Apporta nove esplicationi di essa e le regetta. Diviene alla sospensione del giuditio, ma dubbitando che il ciò propalare13 apporti alcuno nocumento alla vita civile, consulta primieramente con Hippia14 se riuscirebbe profittevole il ciò palesare. L’admonisce a ciò non comunicare, e li dimostra molti documenti civili e politici che si tragono dalla contemplatione delle cose naturali. Capita poi a Timone15, inimico dell’humano consortio, e lo persuade anzi a manifestare l’imbecilità dell’humano sapere, onde detestandoli la contemplatione circa l’universo e li dimostra molti assordi che intorno la vita umana da ciò risultano, continuando nell’invehire contra la cavillosa morale filosofia, che attentando con immoderata curiosità di ritrovare l’antiani primordii delle virtù, s’incontrasse nelli vitii, anzi che prese essa a comendare16 alcuni enormi vitii, e persuadendo a Socrate a manifestare la debolezza dell’humano intendimento con altri brevi ragionamenti pone fine al suo favellare. Socrate inclina piuttosto al parere di Timone che a quello di Hippia, e loda17 il seguire il probabile, e si difende d’alcune altre colpe apposteli, e chiude il suo ragionare. È conteso tra giudici circa ciò che si deve deliberare. Vi è chi persuade l’assemblea alla condanagione. Platone è di parere che non si debba venire ad alcuna peremptoria18 sentenza, onde essendo rilasciato l’affare, a tempo più opportuno fu rimessa l’assoluta deliberatione. [5] Aperta che fu in Delfo l’Accademia reformatrice dell’humano sapere, non pochi di varie nationi vi concorsero. Alcuni per arrolarsi in sì nobile compagnia, altri per procurare emenda ad alcune dottrine a loro parere alquanto assorde. E

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molti vi si condussero per semplicemente osservare il progresso e riuscita di tanto proficuo proponimento. In quel tempo avenne, che fattasi assemblea nel tempio di Appoline per dar essordio a tal nobile intrapresa, ritrovossi ivi scrittura, che fingendosi colà dalla carcerata ragione inviata, in questo tenore favelava: “Alli Signori Accademici reformatori, la prigioniera ragione madre dell’humana auttorità et hora di lei oppressa serva, continuata salute e prosperità implora.

Non poteva la fortuna nell’ingresso di sì importante incombenza offerire, né la vostra prudenza proporvi impiego più glorioso, e maggiormente necessario per il maneggio della vostra carica, che l’intraprendere la mia libertà con solevarmi dalle sciagure e miserie che tanto hora mi annoiano et affligono. Le quali appieno riconosciute, sono sicura che non solamente eccitaranno in voi, verso di me compassione, ma contro chi mi tiene oppressa, implacabile sdegno provocaranno. E sebben che le mie disaventure, siano in alcuna parte a molti notorie, giovami nondimeno farnevi breve, ma verace racconto. Scorse lungo tratto di tempo, che in mia balia e potestà furno poste le redini delli animi umani, onde a mio talento li reggevo e moderavo. E li miei semplici cenni e taciti susurri induceva altrui a seguire [6] li documenti che l’additano, onde senza le blanditie di dispendosi premii, e timori de odiosi castighi, li miei consigli alacramente erano esequiti. Alhora fiorivano le dottrine, s’avanzavano le più egregie discipline. In quel tempo, dico, gareggiavano l’ingegni in promovere nuove scientie e dilatare i limiti dell’humano sapere, non in rendersi maggiormente insigni, come al presente si accostuma, nel divenire ligi, e contumaci setattori19 dell’altrui pareri. Onde il conformarsi con li dogmi già ricevuti, et acclamati, ma non già con la verità aggiustati, riesce hora il più egregio conato e nobile proponimento del saper humano. Ma perché osservai, che gran turba di gente riusciva inetta alla mia trattatione, deliberai assumermi vicaria e luogotenente la mia figlia autorità, a cui delegai la masnada di più sciocchi e scioperati ingegni, e per maggiormente renderla alle genti veneranda, l’assegnai due industriose ministre, la

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fama e consuetudine: la prima acciò le preparasse facile adito nell’animo di suoi futuri vassali, arrecandole concetto e stima; l’altra che li rendesse durabile quella riverenza che già una fiatta appo li suoi seguaci ottenuta havesse. Ma non sì tosto che la traditrice sì nobil grado conseguì, insolentita non poco dalla agevol obbedienza e facile credulità che lo stupido volgo le prestava, contro di me conspirò. Et a tal segno arrivò la felonia, che discacciandomi dal mio regal seggio, in tenebrosa e solitaria prigione m’intruse20 e confinò. Per il che havendo io affato la libertà perduta, fummi interdetto il tenir pratica con miei favoriti, onde infeconda e sterile divenni. Ma quello è peggio a mia onta, e dispetto, sovente sono violentata a divisare e consultare con li suoi seguaci, e miei capitali nemici, non della verità del dogma, ma dell’autor di lui, mentre fra essi è altercato, e contraverso qual egli si sia. Da quindi è che havendo la iniqua occupato il despotico dominio delli affari humani, non più s’indaga e consulta, a qual scopo incaminare li omini si devono, et a qual fine il traino delle loro attioni dirigere li [7] con|venga, ma solamente è ricercato se numerosa folla, e turba a quella volta viaggi, essendo dall’autorità decretato, che non il peso de pareri, ma il copioso loro satelitio21 sia il saggio cimento della verità. E per non lasciare alla ingratitudine che desiderare, già ardisce negare da me trahere li suoi natali, pressumendo da strani principii et alieni esordii dedurre la sua genealogia. E quello che più mi offende, che non essendo pur anco di mediocre virtù armata, né da vigorose arme decorata, nondimeno il tutto a suo arbitrio ragira e sconvolve, né de altri adminicoli rimane provista, che de illusorie apparenze, e falaci arti, havendosi cotanto avanzata solamente con l’aiuto di pomposi vestiti, gravi portamenti, rugosa fronte, torva vista, accigliati occhi, concise et ambigue parole, scarsa e ritrosa conversatione, sprezzanti e delusorii trattamenti, ostinate et inflessibili assertioni, inverecondi milantamenti, affettate acclamationi di volgari e sfrontato satelitio di scioperati, e di tutto quello che le tiene attaccato et ingionto, la bugiarda fama, e confirmato le ha la contumace consuetudine, de’ suoi applausi e comendationi promotrici. Questi sono li mezzi con che essa tiene oppresso il genere umano, ché essendo come che infiniti li pazzi che la seguono,

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conviene a’ savii di minor numero, soccombere a più potenti, e numerosi. Hor dunque essendo a tal segno giunta la tirannica violenza di costei, invito et imploro la magnanima e generosa Vostra virtù che alla depressione della dishumanata proditrice, con presentaneo provedimento vi accoriate, ché se giamai per il Vostro egregio valore rimanesse la perfida debelata, et io al pristino stato ridonata, promettovi restituire alle dottrine il perduto loro splendore, et al vostro genere lo smarrito decoro, facendo riuscire evidente che l’affrapare22 et attenirsi alle altrui spalle convenga solamente a’ ciechi, non a coloro che la natura d’alcun senso non l’invidiò, havendo essa anco constitutito tal differenza fra li uomini e le pecore, che queste dal proprio loro congresso23 [8] sono smosse e ragirate, e quelli da me solamente diretti e normati: Come le pecore escono dal chiuso Ad una a due a tre con l’altre stano Timidette atterando l’occhio al muso. Et ciò che fa la prima l’altre fanno. Adossandosi a lei, se ella se aresta Semplici e quiete, e lo perché non sanno24.

Publicata la predetta scrittura, siccome fu comunemente giudicato parto di sciolto e libero ingegno, così varii furono li sentimenti circa quello che in tal affare deliberare si dovesse. Si trovarno molti che essendosi acramente turbati dalli insulti et ingiurie dalla autorità verso la ragione comesse, proposero che affatto scacciare e detrudere25 l’autorità dal grado usurpatosi convenisse, dovendosi rimettere la ragione nella primiera dignità et iuridittione. Ma Pitagora, et Aristotele, con loro seguaci, a diverso partito s’attenero. Il primo motivato dal favore che da essa autorità li fu prestato con il servile ille dixit26, da suoi satelici anteposto a qualsivoglia sensata evidenza, con rimessi susuri la difesa di quella attentarano. L’altro persuaso alla di lei protetione dall’applauso e stima, che li suoi decreti appo il comune de studiosi per lunga serie de tempi li conciliò, a segno tale che il deviare da suoi pareri è giudicato poco meno che avicinarsi al sacrilegio27, la diffesa di essa autorità publicamente interprese, et in tal guisa parlò:

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“Se la ragione nelli suoi dovuti chiostri, e convenevoli limiti contenuta si fosse, non incontrarebbe hora occasione di reclamare e lagnarsi delle offese dell’autorità, né questa sarebbe assonta all’assoluto dominio, et administrazione dell’humani affari. Ma ciò avenne, perché la ragione fu poco curante anzi sprezzante del proprio decoro, ché [9] ha|vendosi prostituita alla libidine di qualunque intemperato ingegno, somministrò a qualsivoglia fantastico capricio, e vana chimera, apparenza de argumenti, e probabilità de instanze. E talmente ha riempiuto il mondo intelletuale di monstruosità, che mille Ercoli si stancarebbero a debelarle, ché insino ad Aristarco samio28, per altro insigne matematico, che una fiatta si sognò di vagare con la terra fra pianetti celesti havendo il sole e le stelle fisse immobili spettatori di tal stupendo progresso e danza, li suggerì tanti, e tali ingannevoli, et apparenti instanze, che oggi da molti, et anco da intendenti per vero dogma è acclamato. Onde per ostare, et impedire tali assordi, fu da più prudenti stimato oltre modo espediente, che cacciata che fosse la raggione dal reggimento29 e sopra intendenza dell’ingegni, sostituire se li dovesse l’autorità, che raffrenando l’humana curiosità, a’ certi cancelli, e limitti la restringesse, imponendo con rigorosa severità ad essi ingegni che conformare, et aggiustare si dovessero al parere di coloro che per sodezza de giuditio, eruditione di dottrina, e peritia di maneggi si havessero acquistato il publico concetto, e stima. Onde per tal cagione giudicarei che l’oppressione dell’autorità, e solievo della raggione rimettendola nel primiero stato, altro non farebbe che riempire di nuovo il mondo di una coluvie30 di strani dogmi, et assordissime opinioni, anziché abbattuta che una fiatta fosse l’autorità, per alcun tempo avvenire giammai non potrebbe di nuovo risorgere. Per il che con molta circomspettione conviene che in sì grave affare la prudenza vostra proceda, e non frettolosamente alle reclamationi della raggione soccombere, e piegarsi”. Il parere di Aristotele con il solito applauso de Accademici

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non fu altrimenti ricevuto. Ma in contrario deliberossi, cioè che per dar opera alla instituita riforma, immediate31 fosse posto in libertà la raggione e che perciò fosse lecito a qualunque32, conforme il suo proprio talento, pronunciare quello che li paresse espediente, e profittevole [10] in tal proponimento et interim prohibire all’autorità che nelli affari meri33 humani interporre la sua giuridittione, restandole pertanto sospesa ogni sua prerogativa, dovendosi doppo che sarà seguita la riforma, deliberare del modo che tenire si debba nel contemperare la direttione della raggione con il comando dell’autorità, in maniera tale che la lusuriante curiosità, e vano divagamento delli ingegni, rimanessero alquanto ripressi, e moderati. Et acciocché la riforma riesca di maggior profitto fu parimente preso, che appo la porta della Accademia fosse aperto secreto recetacolo a tutti esposto, onde sia lecito a qualunque denontiare clandestinamente quelle opinioni e dottrine, che maggiormente li paressero bisognose di correttione, e ciò senza incorrere nella desplicentia di loro autori34.

Accusa contra Socrate Everssore dell’humane dottrine Socrate ateniese, non meno che l’incendiario del celebre tempio efesino35 da intemperata et acre ambitione sospinto, ha tentato demolire il mirabile edificio dell’humane dottrine dalla veneranda antichità elaboratto et eretto. Et hormai per l’altrui oscitanza36 in alcuna parte resta eseguita la di costui esecranda sceleragine, onde per suoi captiosi argomenti, cavilose instantie, simulate ironie, delusorie interrogationi, et inconcludenti induttioni dedotte da legnaioli, selaii, et calzolaii, e simili, rimane come prostrata la filosofia, indisciplinabile la virtù, inetta la prudenza, improficua la temperanza, dannevole la giustitia, temeraria la fortezza, vana la eloquenza, dubbiosa e perplessa la religione, et insomma ogni maggior pregio humano da suoi discorsi, avilito riesce, come da discorsi tenuti con Tehetetto, Gorgia, Lachete, Eutifrone, et altrui suoi famigliari, evidentemente si scorge. Ma oltre di ciò, con la [11] sospen|sione del giuditio e

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retentione dell’assenso che procura tuttavia fra noi introdurre, a tal stolidezza, e per ridurre il nostro genere, che più non li resta alcuna ferma e stabile norma per ordinare e reggere li usi della vita, levandole la distintione del vero e falso, del bene e male, honesto e disonesto, onde se meritevole de castigo riuscirebbe colui che acciecasse li suoi benevoli amici, tanto più è degno de rigorosa pena Socrate, che il lume dell’intelletto, concessoci dalla migliore causa per direttore delle nostre attioni, intraprende spengere et estinguere. Ma quello che più molesta, che al disopra di Temistocle di tale sua intrapresa pretende acclamatione, e gloria, presumendo egli che non ad una sola provincia del mondo quale è la Grecia apporti salute, ma universalmente a tutta l’humana republica arechi sommo sufraggio37 et aiuto sugerisca, havendola dalla vessatione di contumaci openioni e pernitiose perturbationi liberata. E quello che riesce maggiormente insoportabile, che per accreditare queste sue menzogne, ad una tal deità ad esso domestica e famigliare tale scelerato proponimento attribuisce, che a ciò eseguire con importuni comandi l’induce. Molto più di quello referisco, esaminando tal affare vi trovarete di assordo e pernitioso, et esprimentarete che a medicare tale malore tutto il genere humano vi eccita et implora. Letta l’antedetta accusa nella publica reduttione di Accademici, fu openione di Xenofronte Ateniese38, non meno preclaro per l’eloquenza che celebre per la peritia d’humani affari, che lacerare immediate si dovesse tale scrittura, et in questa guisa pigliò a dire: “Se la sceleraggine di Socrate, come afferma l’antedetta querela, da gagliarda et intensa ambitione prende origine, stimarei che la severità de castighi, quando tal colpa comprobata fosse, producesse effetto assai diverso, anzi contrario a ciò che desideramo et attentamo, poiché l’ambitione siccome sopra [12] qual|sivoglia altro vitio riesce all’universal delli homini nocivo, tiene anco questo di malignità, che le pene dalla civile prudenza instituite per raffrenare li humani eccessi, quasi sempre, nel reprimere li progressi di questa, non solamente riescono invalide, et inefficaci, ma quello è peggio l’accrescono et

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invigoriscono, perché l’audace ambitione nel mezo di languori a guisa di meravigliosa fenice rinasce, et a modo del favoloso Anteo39 atterrata risorge, e si rinfranca. Onde il scelerato incendiario del tempio di Diana, nelle angoscie de suoi martirii, la speme della indelebilità del suo nome lenivali il rigore di suoi vehementissimi dolori, stimando tali tormenti vehicoli et ale della fama che alla indefinente posterità il suo nome rapportava. Da quindi è che da politici fu stimato che al contrario de altri vitii si deve l’ambitione corregere et emendare. Questa con la conivenza et inavertenza solamente opprimersi, poiché immediate che le manca chi la osserva, languisce e s’estingue, e quelli con la incombenza e vigilanza conviene impedire et ostare, havendoci l’esperienza insegnato, che quasi sempre, spuntati li pugnali, sfilate le manaie, alimentose le cicutte riescono nel castigare li delitti che dall’ambitione sono comessi. E chi non prevede che nel presente caso, se devenissimo alla dannattione di Socrate, che talmente se irritarebbe l’humana curiosità ad indagare quale sia in stato il suo misfatto, che qualunque mediocre ingegno si impiegarebbe a riconoscere la cagione che homo tanto celebre da noi castigato, e dannato stato fosse? Onde come è solito del nostro genere patrocinare il più debole, et oppresso, e con l’animo dannare il più potente e vigoroso, riuscirano li vanegiamenti di Socrate aggraditi, et applauditi, ché forse trascurata tal querela, rari o forse niuno rimanerà informato di tal socratica dottrina. Per il che concludo, mosso non solamente dalla ragione, m’anco dall’evento delle cose, che nelli affari civili di gran lunga prevale a qual si sia divisato et accurato discorso, che omettere si deve l’accusa a Socrate [13] imputata, presagendo io che disquisito, e punito il delitto, il rimedio è per riuscire più dannevole, che l’istesso misfatto”. Non fu altrimente accettato il parere di Xenofronte, essendo posto in consideratione, che oltre la violenza di castighi, non mancano modi alla humana prudenza a scansare et impedire il corso de delitti dall’ambitione comessi, e che la discussione

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de affari non apporta nocumento di gran rilevo, restando sempre libero a chi regge, prendere quello espediente che se li rappresenta più proficuo e salutare. Onde fu deliberato che progredire si dovesse contra Socrate, per il che notificateli le colpe li fu significato che alla difesa si preparasse.

Discolpa di Socrate Benché per tutto il corso della mia vita franco et inatterito nell’affrontare l’accozzamenti et incorsioni della fortuna mi sono ad altrui dimostrato40, negare non posso che l’accusa hora intentatami da miei malevoli habbia, come caso a me inaveduto et inopinato, alquanto stordito il mio intendimento. E chi harebbe41 giamai stimato che la sospensione del giudicio, retentione dell’assenso, il seguire nelli affari della vita il semplice e sincero probabile, et il rendermi ossequioso a cenni e taciti susuri delli dèi sugeriscano materia a’ caluniattori di lacerare la mia fama e deturpare il mio nome? Essendo io perciò accusato al vostro spetabile tribunale, come se atrocissima sceleragine, non meno che li tempii delli dèi e loro altari diruppato comesso havessi, m’attentino questi novelli Aniti e Meliti42 ciò che vogliono contra il concetto che la libertà del mio animo nella mente de virtuosi ha procaciato, ché per il certo vano è per riuscire ogni loro conato e maligna intrapresa. Anzi di più hora mi avego43 che per tale loro querela, maggiormente a retenire l’assenso inclinare mi persuade, [14] ren|dendomi questa loro ingiuriosa accusa molto più che prima probabile, che nel nostro animo giamai alcuna indubitabile certezza allogii. Et hora molto più di prima mi rimane probabile, che niuna opinione si trova appo l’homo di tal ferma esistenza, che al tormento del nostro importuno discorso44 alla fine non ceda e si pieghi, e che non vi sia oggetto rappresentato all’intelletto, che non prenda quel visaggio et apparenza, che egli li somministra e sugerisce. Onde perciò li apprensibili in tanto essistano, in quanto che dalla nostra mente l’è prestato formalità et apparenza, il che grandemente si conforma con quello è solito il nostro Protagora45 pronontiare, che l’homo sia la misura delle cose che nel mondo

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ci appariscono, e di quelle che non sono nella maniera che ci spariscono, occorendo lo stesso alli oggetti da noi appresi, che a nostri vestiti e drappi, stimati da noi falsamente principali cagioni di quel calore, che da noi derivando, da essi ci è solamente reflesso e rimandato, così fors’erroneamente crediamo che quelle rimostranze, che nelli oggetti esterni scorgiamo, siano di loro germani46 imagini, mentre che per la verità, da noi in gran parte procedendo, ne siamo di esse originarie cause. E l’oggetto che concorre a produrli ci li regetta e rimanda, a guisa di spechi che reflettono l’imagini che incontrano, ma però conforme la diversità della conditione, figura, e compositura di essi spechi disguisano e variano li simulacri che ribattono. Da quindi aviene che la sospensione del giuditio, da me oltre modo salutare e giovevole al nostro genere giudicata, ad altrui, come tuttavia accade a questi miei accusatori, apparisca in eccesso pernitiosa e danevole, giudicandosi ciò da essi e da me con diversa dispositione d’animo. Ma inanzi che io intraprenda la mia difesa, conviene che io spenga dall’animo di alcuno certa meraviglia, che per occasione di questa mia discolpa forse turbare lo potesse, et è, che professando io apatia e severissima alienatione di qualunque affetto, e che ad ogni urto e scossa di fortuna [15] sempre mi dimostrai indiferente, inalterabile, e non curante, a segno tale che già con il mio costante e libero ragionare, ma qual si conveniva al decoro filosofico, la cicuta affrapai da mani delli mali affetti giudici, e come che da me stesso mi dannai, nondimeno al presente, per conservarmi la popolare aura e concetto delli homini, cotanto io sia solecito et affanatto. Ma nondimeno, mentre che sarano advertiti et osservati, quali furno sempre in me l’incentivi e fini, che ressero le mie attioni, acquietarassi in altrui ogni stupore. Fu sempre il mio proponimento non essere solamente nato economo de una privata famiglia, né patritio de particolare republica, ma cittadino dell’universo, stimando il publico servigio del comune delli homini il più proprio e decente esercitio che nel corso della mia vita adoperare mi potessi. Da quindi è che non mi lece trascurare punto la difesa dell’openione che il mondo tiene della mia virtù, dipendendo da ciò la stima delle dottrine, che per felicitare il nostro genere divolgai, havendomi

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l’osservatione delli humani affari dimostratto, che il valore e pregio di amaestramenti affatto dipende dalla openione che si ha de loro autori. Per il che riesce impossibile, che dannato et infamatto Socrate, che li suoi documenti siano osservati et eseguiti. Ma che li miei insegnamenti siano tali che tranquillare l’animo humano possino e che dispongano altrui a divenire felice, da ciò probabilmente giudicare si può, che essendo le impetuose perturbationi che agitano et infestano l’animo humano nelle false opinioni fondate, e radicate, il proprio e germano rimedio di sedare tali flutuationi è lo sbarbicare47 da noi questi tali openioni. Né altrimente ciò si può eseguire, se non con lo far sortire evidente, che incerto sia il concetto che tenimo48 del vero e falso, da cui dipendono le openioni de quali siamo tanto tenaci e partiali. Per il che in ciò ho pratticato il costume de perito medico, ché affrontandomi alla radice del male, ho procurato affatto dal nostro animo eliminare e [16] detru|derlo, non come sogliono li volgari fare, che con semplici refrigeranti sedare e temperare l’ardore della febre attentano, trascurando il fomite49 d’onde essa prende origine e vigore, ché perciò l’instituto mio fu il dimostrare che mentre non è diretta da superiore lume la nostra mente nulla di fermo, constante, et indubitabile apprende50. Né perciò stimare dobbiate, che io affatto abbandoni le attioni della vita al forsenatto caso, ma sappiate che per mia scorta tengo il barlume del probabile, stella polare del viaggiare nel corso della mia età, né crediate parimente, Signori Giudici, che reprobando io la contumacia dell’assoluto assenso, overo dissenso, che51 talmente mentecatto io sia divenutto, che pertinacemente io nieghi, che da miei nemici mi sia hora intentatta gravissima querella, che voi, Signori Accademici, assistiate alla discussione della causa, e ch’io trattando mia discolpa disperi l’ottenerne assolutione, ché se talmente fossi disposto, non mi accingerei hora ad informarvi della mia innocenza per conseguirne favorevole sentenza. Ma acciocché l’affare sortisca conforme la mia probabile aspettatione, conviene che esatamente con ogni maggiore puntualità vi racconti l’avenimenti che mi occorssero inanzi ch’io capitassi a tanta stupidità e codardia nell’affermare overo negare alcuno dogma. Dal che spero scorgerete, che non vana

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ambitione, come fingono li miei adversarii, cagionò nel mio animo tal sospensione di giuditio, ma piuttosto ragionevole e probabile discorso a ciò m’indusse et impulsò. Stimo non esservi affatto occulto, Signori Giudici, con quanta applicatione et urgenza d’animo, nella mia giovenile età m’impiegai nelli esercitii della filosofia, non trascurando n’anco quelle arti che in maggior pregio e stima appo noi Greci si ritrovano, come la pittura, scultura, aritmetica, musica, e simili, onde progredendo in queste et in quella, diverso anzi contrario successo incontrai. Nell’arti predette quanto più m’inoltravo, tanto maggiormente profitavo, ma nella filosofia, alquanto in essa internandomi, [17] in difficoltà inestricabili mi conducevo, onde a tal segno divenne la mia mente confusa e turbata, che la vertigine delle irreconciliabili altercationi e contraposte et equilibratte opinioni il lume del discorso di essa mi abbagliò, e quasi affatto spense. Il che tanto più mi turbò, osservando io che circa li primi principii dell’universal esser delle cose, tanto varii e repugnanti ritrovansi li pareri delli più insigni cultori della filosofia. Cratilo52 e suoi seguaci, sempre paralitici, e tremanti, che si milantano trarre il loro dogma d’insino Omero, in continuo motto53 et agitatione ponevano l’universo, non admettendo in esso cosa che in flusso e flutuattione non si ritrovasse, apportandoci però con tal parere tanto di bene, che non resta a noi homini di che lagnarci del cangiamento del nostro stato dalla fortuna continuamente sconvolto, correndo tal disaventura anco l’universale di tutte le cose, dalla inevitabile fatalità sempre alterato e perturbato. Non lontano da Cratilo si trovava Protagora, che non solamente asseriva conforme l’openione del detto, che il tutto fosse in sempiterna agitatione, ma di più aggiungeva, che quello che apprendiamo altro non sia che motto, rapportamento, e relatione ad altrui, non ritrovandosi nell’ambito dell’universo cosa che per se stessa diffinitamente54 tale sia, ma ad altra sempre relata si riferisce, stimando egli che non vi sia per se stesso, né mobile, né mottore fissi e permanenti, ma il tutto in rispetto, e congresso55 ad altrui constituito. Siccome aviene al maggiore, equale e minore, che per loro stessi tali non sono, ma solamente in paragone ad altrui, in tal maniera anco diceva accadere

Occasione della sospension dell’assenso

Racconto di openioni diverse circa li principii delle cose

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all’imagini che ne corpi politi si veggono, che nel medesimo punto, e nel stesso tempo differenti apparenze rappresentano rispetto a diversi oggetti che colà mandano li loro simulacri e d’indi a varii organi visivi sono inviatti e reflessi. Ma Xenofane56 e Melisso57 assiderati et intorpediti, per il contrario si lagnavano, che [18] l’uni|verso di languido e cadaveroso aspetto se li rappresentava, sospetando essi, che invece della Sapienza, nella monstruosa testa de Medusa si havessero incontrato58, e che d’indi contratto havessero il suo letale veneno, per il che tutto ciò che miravano se li impetriva59, et in immobile sasso convertiva. Per il che furno indotti ad asserire che quello veramente è, d’ogni motto fosse casso60 e privo. Et a ciò Parmenide con suoi Eleatici61 aggiungevano che non solamente l’universo che veramente partecipa di essere fosse affatto otioso e scioperatto, ma di più privo d’ogni vaghezza e varietà, e tutto conforme, et a se stesso equabile sia, non essendo altro la promiscua diversità che in esso il senso scorge, che sogno de vigilanti e dal rio di sani. Ma d’altra parte Eraclito62 con voce quasi inarticolatta et affanosa, dirottamente piangeva, ché non meno in sé, che in altrui, osservava un febrile calore, che se incaminava ad una grave accessione et incendioso parasismo, che in progresso di tempo era per incenerire l’universo, tenendo egli per indubitabile dogma che il tutto di fuoco fosse construtto, e che in esso doppo lungo deviamento, convertire si dovesse. Ansimene63 vociferava che sebbene Eraclito non affatto dal vero deviava, attribuendo al fuoco la vita delle cose e la energia et efficacia delle attioni naturali64, nondimeno il primo esordio loro dall’aria derivare, non essendo altro il fuoco che collisione e stropiciamento della istessa aria, che in se stesso esercitandosi e dibattendosi produce il calore, e genera la luce. Onde aria elaborata, secondo il suo parere, il fuoco nominare si deve. Ma tuttavia dalla openione de Eraclito non si discostava nel cominare65 l’arssione all’universo, aggiungendo solamente, che l’ultima e finale ressolutione delle cose all’aria se redurebbe. Contra questi Talete66 insurgeva occorendo67, et apponendo a tal fantastico e chimerico abbrugiamento68 non solamente

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l’Eridano69, che estinse già l’incendio che per l’arogante ardire di Fotonte, come dicono [19] li poeti, seguì, ma con il vasto oceano e coluvie di tutti li fiumi, procurava spengere et ammorzarlo, affermando egli che l’acqua havesse sugerito e prestato origine a tutto il contenuto del mondo, e che perciò piuttosto di universale diluvio temere conveniva. A questi seguiva Orfeo70 con suoi giocosi poeti che non meno abhorivano la somerssione della acqua, che la sorpresa et assalto del fuoco, per il che alla terra se attenivano, fermo e constante elemento, né giammai a noi nocivo, se non che da maligne et aliene esalationi fosse turbatto e sconvolto, decantando la terra fecondissima madre e cortese altrice71 della sua prole. A tutti questi semplici elementisti, si opponeva Empedocle72, delle siciliane muse cultore, reclamando egli, che non conveniva ad un solo elemento raccomandare sì gran machina, ma che tutti li quattro detti elementi siano necessarii a tale construtione, aggiungendo de più, che soministrando questi solamente inerte materia, era bisognoso assignare alla struttura universale delle cose industrii ministri et efficaci agenti, che insieme accopiassero tali elementi, e che finito e terminato il periodo della loro compositione e congresso73, di novo li disuniscano e separino. Per il che all’amore assegnò la fontione dell’ammassare, et all’odio del dividere e disgiungere. Né di ciò si contentava Democrito74 et a tutti li predetti repugnava, affermando che né uno, né tutti li quatro volgari elementi fossero sufficienti a soministrare materia sempiterna al sublunare universo, e che li predetti né primi, né anziani appellare si devono, poiché, facilmente cangiandosi l’uno nell’altro, havevano bisogno di precedente e comune materia, che sottogiacesse impermutabile a tale conversione. che perciò convenisse capitare75 a’ primi ad inderivatti, et originarii elementi, talmente constanti e fermi, che renitenti fossero ad ogni alteratione, et incontro di violenza, e che giamai in altrui non si transformassero, quali secondo lui sono certi corpuscoli atomali et indivisibili, [20] onde per li urti e scosse che casualmente dall’uno all’altro perviene si amassano, e con l’intermedio del vacuo poi in diverse forme si configurano, e che per loro vario congresso riescono le loro compositioni dotatte di varie qualità e conditioni.

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Il che Democrito contemplando, di riso, osservai, che s’ismascelava76, scorgendo, come egli diceva, un ludicro77 spettacolo, che il caso nel teatro del mondo78 gratis li rappresentava, cioè una zuffa e pugna che vertiva tra pigmei, quali sono l’atomi, e vastissimi giganti cioè le portioni maggiori dell’universo, rimanendo questi da quelli alla fine vinti e debelatti, poiché tali corpuscoli minimi et indivisibili invadendo con valida aggressone li piú nobili membri e portioni del mondo, prima alterando e doppo depravando e corrompendoli in progresso di tempo, poi alla fine li distrugono et aboliscono. Aggiongeva egli che siccome la fortuna prende gioco della turba delli homini, così reciprocamente il sapiente tratteniva il suo otio, con l’osservare li vanegiamenti che il forsenato et insano caso comette nell’administrare il terrestre globo. Contra de costui Pitagora79, benché del silentio amico, romoregiava, dicendo che l’introdurre corpo indivisibile implicava manifesta contradittione, ché essendo questo di trina dimensione, li ripugnava l’atomalità, e che perciò alla unità conveniva ritrarsi, principio semplice, et anziano, asserendo egli che fosse non meno essa origine dell’universo, che del numero, onde riassonta in diverse guise, havesse prodotto la moltiplice varietà e congerie delle cose. A tali positioni contrastava Anasagora Calzomeno80, fieramente invehendo contra loro autori, che affatto pazza prosontione fu la loro, intraprendendo81 essi dedurre da tali meschini principii tanta diversità di enti, fra essi repugnanti e contrarii, e che riusciva insano proponimento assignare al cieco et inosservante caso la struttura e compositione del tutto, e che giamai intelletto da ragionevole discorso moderato [21] po|teva assentire, che l’accidentale e fortuito incorso di atomi, overo d’altri elementi, producesse il mondo in cui riluce costante e regolata dispositione, ornata compositione, et ordinato collocamento de cose, e che questi autori inanzi che a tal dogma capitassero dovevano esprimentare, se continuando per molto tempo in gettare a sorte li caratteri del greco alfabetto, se il caso, loro opefice dell’universo, l’havesse giammai potuto formare un paio de versi della Iliade di Omero82. Per il che asseriva Anasagora che ritrovava più convenevole l’affermare, che nell’antico cahos vi erano confuse le essenze

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similarie delle cose, e che per lunghissimo tratto di tempo fra esse si agittassero, et in varie guise accozandosi, diversamente insieme s’ammasassero e ne risultasse da ciò differenti figure e varie construttioni, alle fiatte83 decentemente, e più sovente in maniere strane, assorde et insusistenti si accopiassero. Onde ritrovandosi al cahos coasistente una divina mente del tutto inspetrice84, osservò li convenevoli congressi di quelle portioni e loro più permanenti strutture, e ne formò in se medesima di queste ferme e stabili idee, onde poi ad imitatione di esse, segregando poi quelli minutti fragmenti di essenze che nel cahos risedevano, ne construì varii et innumerabili semi originarii di tutto quello che nel mondo inferiore giornalmente si produce. E sebbene a noi tali semi sono insensibili, alla natura non sono punto ignoti, che più di Argo85 riesce occhiuta in scorgere ogni minutia di materia che al suo operare riesce proficua e giovevole. Contra l’antedetti machinationi urgeva Platone, asserendo che nella mente divina insistevano certe idee che le servivano per norme e direttrici nell’operare, ma non come Anasagora sognava, che dal caso fossero primieramente construtti l’essemplari delle cose, ma stimava che l’idee d’una interna necessità residente in essa mente fossero sortite, a tali attribuivagli la efficientia della essentialità delle forme e spetii, non negando però [22] che vi fossi certa rude materia che soggiacesse alla impressione di dette idee. Non mancava Aristotele, benché per anco giovane, di addurre in sì importante contesa alcuna novità, divolgando egli con gran acclamatione del suo fidele satelitio, che tre siano li principii anziani delle cose naturali: la privatione, che precede a qualunque che di novo si genera et è come di esso previa dispositrice et introdutrice, la materia in cui si produce, e la forma che constituisce et arreca perfetto essere al generato. La qual positione altretanto che manca di sodo fondamento, abbonda di solertia et aveduto accorgimento, essendosi il suo autore, per sfugire l’instanze et argomenti che da adversarii li sarebbero stato opposto, occultato e nascosto nelle latebri86, et oscurità del niente87, ché perciò constituì principio la privatione, che a mio credere è l’istesso niente, la materia, per se medesima destituta88 e spoliata di qualunque forma et è come pura potenza e vana capacità, e perciò ad esso niente contigua, e la forma in

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Dubita di Socrate

Deliberatione di Socrate in scandagliar se stesso

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essa materia instalatta e sostenuta, e per questo dal niente non molto discosta e lontana. Et arrivò a tal termine il litiggio, che insino li affumicati chimici89, dalla fucina alla scola trapassatti, caluniavano acramente tutti l’antedetti sapienti come troppo indulgenti e codardi in constituire et esaminare la natura, milantandosi che solamente essi in tal affare riuscirono sufficienti, ché osservandola ritrosa e renitente in confessare e scoprire li suoi primi natali et esordii, al tormento del fuoco havendola posta, al suo dispetto l’havevano estorto tal verace confessione, che ’l solfore, mercurio, e sale fossero li veri e germani principii et elementi del tutto, esenze visibili, palpabili, non fantastiche e chimeriche come sono quelle che da primieri furono pronuntiati90. Altre assordità circa tal proposito da scioperatti furono promulgate, che troppo importuno riuscirei se hora reassumerle attentassi, ma dall’osservatione di tali litigi e controversie circa li [23] prin|cipii delle cose presi a sospettare della imbecilità dell’humano sapere, onde probabilmente argomentai, se tali e tante sono le repugnanze intorno li principii, che maggiormente siano per riuscire inestricabili le difficultà nel progresso del discorso, a guisa de linee che dal centro escono per inviarsi alla circonferenza che vicino al loro principio puoco l’una dall’altra si dilunga, ma progredendo sempre più si divertiscono. Da quindi parimente cominciai a dubbitare che noi homini non siamo altrimente provisti de organi e facultà sufficienti ad apprendere e riconoscere la verità e che le prime basi e fondamenti, sopra li quali si erge l’edificio della humana sapienza, non siano altrimente fermi e stabili, ma arbitrarii e posti da noi a capricio, come accadere suole ad alcuni giochi et in particolare di scachi, che altro tanto che le dedotioni e consequenze riescono necessarie, le prime positioni sono affatto contingenti e volontarie91. Da tal sospetto adunque eccittato, risolsi rinonciare a qualunque altra speculatione, ma con diligente incombenza impiegarmi a riconoscere me stesso, et al maggior segno possibile scandaligiarmi92, dedicandomi tutto in meditare ciò che sia questo nostro sapere che ci rende così pretendenti e fastosi, qual siano li suoi primieri fondamenti, li mezi e criterii

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con che si conseguisce, et insomma a qual grado possa egli arrivare, e sormontare. Ma non sì tosto che acciò mi applicai, mi si attraversò ostacolo tale, che quasi totalmente distornò tal mio attentato, e ciò fu un grave litigio che nel mio animo mi si rappresentò. Rasembravami che le cose esterne, overo li oggetti che dire le vogliamo, sensi, intelletto, e l’istesso sapere insieme acramente contendessero, quale di essi precedere dovesse nell’esame e discusione da me instituita. Parevami che romoreggiassero li oggetti, che a tutti in tal esame conveniva fossero anteposti, urgendo che da essi prende esordio e norma il sapere nostro, rimproverando in particolare [24] all’in|telletto la sua meschina nudità, e nativa rudità mentre si trovi privo dell’ornamento de loro suppelletile, non apparendo egli ad essi altro che pura e mera potenza, habile solamente a ricevere l’impressioni de loro influssi. Onde quando essi fossero ignoti, riesce parimente impossibile l’apprendere qual sia tal sua potenza, et habilità, essendo necessario ad informarsi di ciò, riconoscere prima quelle cose a quali egli si ritrova disposto a ricevere, siccome che l’informarsi se un palaggio sia idoneo ad allogiarvi personagio di stima dipende dal riconoscere la qualità e conditione di tal hospite, e nell’istesso modo qualunque continente è riconosciuto dalla quantità del contenuto, così parimenti giammai non si potrà sapere qual sia la potenza e dispositione dell’intelletto, se non si apprendano prima le inteligibili che in lui s’introducano et instalano. Ma l’intelletto parevami che gagliardamente di ciò si risentisse, non potendo tolerare che semplice dispositione, capacità, e potenza fosse appellato, difendendosi che non solamente teniva esistenza soda e reale, ma che egli da per sé di molte nuove inventioni senza l’adminicolo d’oggetti fosse sofficiente autore, e che il comporre, dividere, ordinare, permettere varie propositioni, e dedurne inopinate conclusioni, siano offitii suoi speciali, che trascendono et oltra passano di gran lunga alla inertia et inefficacia di semplice e languida dispositione, e potenza , esposta solamente a ricevere li colpi et impressioni d’altrui. Ma li oggetti, mi si rappresentava che di nuovo repigliassero,

Litigio fra li oggetti, sensi, intelletto e sapere circa la preminenza

Risposta dell’ intelletto

Oggetti replicano

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denegando all’intelletto tali suoi vanti, sogiongendo, che mentre esso si trova privo della cognitione de oggetti, non può né anco possedere, né tenere in sé norma alcuna di regolare et ordinare, permettere e dedurre alcuno concetto, né formare alcuna propositione, siccome se renderebbe anco impossibile a Zeuse il saper egregiamente ordinare e temperare li colori, mentre che non havesse appreso ciò che sia il nero et il bianco, il rosso e [25] verde, e che l’esperienza l’havesse appieno instrutto il modo di decentemente insieme temperarli et anco dimostratali la riuscita di tali compositioni. E né anco il cuoco, quando assagiatto non havesse giamai il dolce, garbo, acre, e falso93, tanto separatamente com’insieme mescolati, riuscirebbe perito nella professione di convenevolmente condire li cibi. Onde concludevano essi, che l’intelletto per se medesimo si trova inetto all’esercitio delle antedette fontioni, mentre che del tutto da oggetti non fosse stato instrutto, informato, e diretto. Dal che finalmente raccoglievano che tutto quello d’inventione, che l’intelletto humano a se medesimo attribuisce, fosse delibato94 e preso dalla inspettione delle cose et oggetti che la natura esteriormente li offerisce, la quale non fu meno liberale all’huomo nell’ornarli la mente, di che li fu cortese di tanti altri commodi, e piaceri per trattenire giocondamente la sua vita. Per il che quelli che derivarono l’uso dell’aratro dall’immondo animale95, e l’arte tesitoria dal ragno96, e bombice97, e la edificatoria dalla nidificatione delli uccelli, con sincera et ingenua confessione refferirono l’origine di tali professioni a suoi primieri autori. E di più apportavano l’oggetti che non dovrebbe parer istrano all’intelletto, che essendo essi materiali, e come dice egli insensati, pretendessero l’esser stimati l’origine di tanti solertissimi ritrovamenti, che falsamente egli si usurpa, poiché siccome professava esser diligente osservatore delli avenimenti naturali, dovrebbe considerare qual fosse l’accuratezza et acume che tiene la natura loro direttrice nel suo operare, ché di facile scorgerebbe quanto di gran lunga è da essa avanzato, e superato nelle proprie sue fiache e tarde attioni. Qual celebre pittore giammai rappresentò imagine così al vivo come che eseguiscono li oggetti visibili nelli corpi politi e tersi, eppure dalla semplice natura normati sono? Qual finto risalto di chiaro, e profondo di scuro può compararsi alla

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spicatura e ribalzi che [26] ap|parisce in spechi materiali? Ma quello che accresce la meraviglia è la celerità e prestezza del loro operare: si rafigura in spechio, conforme la grandezza e dimensione dell’oggetto, imagine, che agiustatamente lo rappresenta, a caso si spezza lo spechio et in minuti fragmenti si divide, in quell’istesso instante in cadauna di quelle picciole portioni apparisce il primiero ma impiciolito simulacro con simetria, proportione, e similtudine tali, che peritissimo pittore con li adminicoli di graticole, compassi, e dispendio di lungo tempo, alla perfettione di tale operatione non potrebbe giammai arrivare. Nel ritrovare il centro della gravità de corpi è parimente la natura così aveduta che il più speculativo mecanico non potrebbe giamai ad essa egualiarsi, accorgendosi essa instantaneamente ove il centro si ritrova in qualsivoglia corpo per irregolare che egli sia98, ciò che solertissimo ingegno appena nelli regolari con stentatte dimostrationi può conseguire. Dal che resta evidente che l’intelletto nella esatezza e celerità dell’operare rispeto alli oggetti, è meno che scimia comparata all’huomo, il che risulta, devisavano questi, dall’havere essi la necessità maestra99, a cui il tutto rende ossequio et obedienza. Ma l’intelletto dalli altrui influssi nelle sue operationi dipendente, et essendo semplice osservatore di ciò che fuori de lui accade, riesce sempre tardo, imbecile, et imperfetto nelle sue intraprese. Onde, concludevano li oggetti che conveniva all’intelletto rinontiare ad essi ogni inventione, essendosi necessario sempre insistere nelli vestigii delle loro instruttioni, e che contentare si dovesse di esercitarsi circa la servile, sterile, e conditionata imitatione, fontione sua propria, e che oltra i limiti di essa non osasse progradire, raccogliendo pertanto ch’essendo l’intelletto destituto da simulacri dall’oggetti inviatoli et essendo spogliato di loro supeletile, rimane a se stesso inattengibile et incomprensibile, esimendosi perciò da qualunque esame, mentre però che non li [27] prece|desse la disquisitione di essi oggetti. E non solamente questi contra l’intelletto tenzonavano, ma con li sensi esterni parimenti intrapresero l’istesso litigio di precedenza, pretendendo che non essendo conoscenti essi sensi di loro stessi, alla classe di esterni oggetti redurre si devono, poiché né le membrane, umori, nervi, figura, sito e positura dell’occhio in altra maniera si osservano e riconoscono, che per

Pretesa di sensi per la precedenza

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Pretesa di sensi, intelletto, sapere

Protesta di sensi

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mezo della disecatione anatomica in altrui administrata, ché perciò come oggetti esterni esaminare si debbano, e l’istesso alli altri sensi accadere per tale instanze da oggetti addotte. Non cessavano li sensi, l’intelletto e l’istesso sapere contra essi oggetti insurgere, denegandoli tale prerogativa di prelatione, divisando100 che impossibile riesce appieno discuttere ciò che siano li oggetti se primieramente essi non siano esaminati e riconosciuti, adducendo che siccome nella administratione della publica giustitia prima si stabiliscono l’auttorità de’ magistrati, le formule del progresso del giuditio, l’ellettione di giudici sinceri e sapienti, e la approbatione di testimonii che superano ogni eccettione, e poi che101 tutto ciò egregiamente fosse eseguito, s’introducono i litiganti, si agita la causa, e ventilatta102 che sia, alla ultima decisione si diviene, così nel presente caso, havendosi posto in dubbio o per dir meglio in sindicato, il giudice qual è l’intelletto, sospettandosi della fede di testimonii, cioè de’ sensi, et altrecandosi103 della forma del giuditio ch’è il saper humano, resta per consequenza impedito il giuditio che circa li oggetti si attenta, che tengono la vice104 de quelli che a magistrati s’appresentano per essere giudicati. Ma qual giusta sentenza, in tal stato ridotto l’affare, si può aspettare circa l’oggetti pretendenti l’anzianità nell’esame mentre il giudice si trova per anco imputato d’inscitia105? Li testimonii, di falsità? Il modo di ordinare il progresso della giustitia e proferire la sentenza dubbioso e perplesso? Né qui si terminò la contesa che fra l’intelletto e sensi sortì nuova gara e scisma. Pretendevano i [28] sensi sopra l’intelletto precedenza in tale esame, contendendo essere i primierii a ricevere le impressioni d’oggetti, et anziani referendarii delli esterni avenimenti, standosi l’intelletto sequestrato nel suo secreto gabinetto, ignaro per se stesso di tutte l’emergenze che al di fuori accadono, attendendo egli solamente a quello che da essi gli è sugerito. Onde se faliscono con loro raguagli, affatto precipitarebbono tutti l’aerii edificii di esso intelletto, per il che concludevano che siccome l’architetto impiega primieramente il pensiero alla stabilità di fondamenti, che alla erettione dell’edifitio, così era decente che precedere dovesse l’esame106 intorno li sensi a qualunque altra consideratione instituita circa il saper humano107:

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133 Denique ut in fabrica si prava est regula prima Normaque si fallax rectis regionibus erit Omnia mendose fieri atque obstipa necessum est Prava cubantia, prona, supina, atque absona tecta Iam ruere ut quadam videantur velle, ruantque Prodita iudicis fallacibus omnia prima Sic igitur ratio tibi rerum, prava necesse est Falsaque sit, falsis quecumque ab sensibus orta est108.

Lucret.

E fra sensi, il senso visivo particolarmente reclamava dicendo: “E chi non osserva che dalla varietà de membrani, humori, nervi, configurationi, sito dell’occhi, risulta la diferenza dell’apparenza che si tiene di oggetti visibili?”. Per il che deducevano, che dalla inspettione et esame d’organi sensitivi principiare si dovesse tale indagine, per seguire poi alla tratattione e disquisitione delli altri pretendenti. Replicava l’intelletto che temeraria ricercata era di tutti loro l’attentare di esser anteposti, mentre si ritrovavano di conditione materiale, a quali è negato il riflettere e ragirarsi sopra loro stessi e divenir di loro medesmi giudici. Onde ritrovandosi a ciò [29] inha|bili conveniva che si appresentassero al suo spettabile tribunale, non vi essendo altro giudice ch’esso nell’huomo idoneo a riconoscerli, e che tal giuditio effetuare non si poteva, se prima non fosse riconosciuto la propria sua sufficienza et idoneità nell’esercitare questo affare. Per il che raccoglieva109 che prima di qualunque altra speculatione, esaminare si doveva qual fosse la prestantia dell’istes intelletto nel riconoscer e giudicar le cose esterne, che se l’appresentano. A tal instanza parevami che di nuovo fosse dalli suoi adversarii opposto, e ricercato, da cui esso giudicare si dovesse, e qual fosse il tribunale al quale incombeva tal impego. Ma l’intelletto mi rassembrava che intrepidamente a ciò occoresse dicendo, che tal giuditio a se stesso apparteniva, e questo per privilegio speciale dalla natura concessoli, mercé della sua immaterialità, per il che in causa propria li è permesso di esser legitimo giudice, ritrovandosi egli agile a riflettere e rivolgersi sopra se stesso e divenire legitimo riconoscitore di se medesimo.

Protesta dell’ intelletto

134 Replica de contendenti

Pretesa del sapere

SIMONE LUZZATTO

Contro di ciò insurgevano di novo li antedetti contendenti, dicendo che li pareva inadmessibile a qualunque si sia giudicare et apprendere se medesimo, e che ciò se li dimostrava tanto impossibile, quanto che il motore e mobile, l’agente et il patiente, il continente et il contenuto, e che il sugello e la materia impressa siano lo stesso. Oltra di ciò aggiungevano, che se tal riconoscimento e giuditio si permettesse, ne seguirebbe che per tutto il corso della humana vita continuarebbe questa speculatione, non potendo alcuno altro alieno oggetto tanto oltre insinuarsi, che detruda e spichi110 la mente da se medesima, non ritrovandosi oggetto più interno e prossimo quanto è la mente conscibile, a se stessa conoscente. Oltre di ciò se tale cognitione reflessiva conceduta fosse, sortirebbe la più agevole e verace di tutte le altre che la mente intraprende, essendo l’oggetto tanto penetrante, presente e radicato alla facultà che lo riceve, eppure riesce fra le [30] ardue la più dificoltosa, ché perciò forse dall’oracolo al pari della duplicatione del suo cubico altare la propose111, per eccitare et esercitare li greci ingegni alla contemplatione di più reconditi et astrusi quesiti. Ma l’intelletto a ciò protestava, che se non li fosse admesso tal prerogativa d’esaminare e giudicare se medesimo, si rendeva affatto perplesso e dubbioso il sapere humano, e che perciò l’elaborate machine delle dottrine crolorebbero e forsi affatto rovinarebbero. Rispondevano essi, che siccome alla giustitia comutativa è interdetto lo sbilanciarsi, per la meschinità che ne seguirebbe ad alcun de litiganti, per cagione della giusta sentenza, così parimente riesce decente, che rimanga nella speculatione prohibito il deviare dalla verità e norma del raggionevole discorso, benché da ciò fosse per sortire qualsivoglia pregiuditiale nocumento al saper humano, e che sì bene dalle comuni leggi si trova impedito che si divenga di se medesimo homicida, nondimeno è conceduto al discorso humano che destruga se stesso, piuttosto che admettere alcuna falacia. A questi pretendenti s’opponeva l’istesso sapere attentando ancor egli la degnità di tale anzianità, apportando a ciò non lieve ragione: divisava che molto disonante et assordo risultarebbe l’anteporre l’esame di qualunque cosa ad esso sapere, poiché

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discorrendo circa l’altri contendenti, infinite fiatte converebbe valersi del sapere e non sapere, il che seguirebbe senza tenire di tali vocaboli contezza et informatione alcuna, e che perciò bisognarebbe supporre la cognitione di ciò che fosse sapere, mentre che per anco si trova ignoto, e sebbene che tale instanza fosse insuperabile, tuttavia, invece di risolverla et appianarla, attentarno piuttosto li adversarii addurre nuova difficoltà. Contendevano essi che impossibile fosse riconoscere ciò che sia sapere, se prima che se imprenda tal affare, non fosse posto in chiaro ciò che sia il conoscente et il conoscibile, essendo il sapere un certo raportamento112 e relatione che tra questi si ritrova, tanto è a dire, prole [31] che prende li suoi natali dal congresso113 et accopiamento delli doi antedetti cioè, lo sciente e scibile, sopra li quali sostiene la sua fiaca e debole conditione. Siccome anco restarebbe occulto ciò che sia amore, se prima non si tenesse cognitione di quello che fosse l’amante e l’oggetto amabile, di più soggiungevano che tanto era assordo il pronuntiare sapere del sapere, quanto il dire moversi il motto, vedersi la visione, et udire l’udito, ma che ben decentemente si proferirebbe, moversi il mobile, vedersi l’oggetto colorato, et udirsi il suono, come anco convenevolmente si pronontiarebbe sapere lo scibile. La cagione di tale assordo procede per essere tali relationi e raportamenti di natura tanto fievole et imbecile, che non possiede energia di causare in altrui alcuna impressione, et imagine, che li rapresenti, e di più sono parimente tali relationi anco di conditione tanto labile e fugace, che non può per causa di essempio il posteriore sapere afferare et apprendere l’anteriore sapere, che tiene la vice dell’oggetto apprensibile, che non sia di già questo spento et estinto, et a guisa di onda marina, che seguendo l’antecedente non la può ragiungere, e quando essa alla ripa si ritrova, quella che la precede è già franta e spenta, il che apunto accade al nostro sapere, quando intraprende venire in cognitione dell’istesso sapere: Credule quid frustra simulacra fugacia captas114.

A questa obbiettione aggregavano de più quello fu di già all’intelletto opposto, cioè che non solamente delle leggi humane rimane prohibito che alcuno in causa propria non potesse esercitare la carica di giudice, ma che l’istessa impossibilità

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Nuova replica dell’ intelletto

Dubbietà di Socrate

SIMONE LUZZATTO

reclamava contra tal intrapresa, dovendo sempre il giudice tenire alcuna prerogativa sopra il giudicabile, ché altrimenti non li conveniva assumersi autorità di giudicarlo. Per il che anco riusciva indecente al sapere l’intraprendere il giuditio circa ciò che sia sapere, [32] essen|do il giudice et il giudicato della medesima conditione, anzi l’istesso. Ma il sapere parevami che contro l’intelletto di novo risurgeva, protestandoli, che se ad esso era interdetto il riconoscere ciò che sia sapere, non potendosi stringere et afferare tal fievole e fugitivo oggetto, che anco all’intelletto restarebbe impedito il riconoscere ciò che sia motto, attione, passione, alterattione, generatione, coruttione, sensattione, contatto e tutto quello che si riduce al genere della relatione, portione grandissima e quasi totale del scibile, e se la opinione di Cratilo e Protagora giammai si admetesse, che a tal classe tutte le cose dell’universo riducono, sarebbe esso intelletto casso e privo d’ogni intelligenza e sapere. Rimasero perciò attoniti et affrontati115 l’intelletto, sensi et oggetti, ma non perciò sviluppò et appianò lo sapere le difficoltà che li suoi emuli l’opponevano, onde restarno tutti li predetti l’uni dalli altri illaqueati116 et impediti. Ma io, osservatore di tal pugna e tenzone che nel mio animo s’agitava, tanto mi resentii117 dalle equelibrate e contraposte addotte instanze, che giudicandole tutte di simile et egual peso, non mi poteo risolvere a qual di esse prestare l’assenso dovessi, et a qual di pretendenti la precedenza convenisse concedere. Onde, nuovo Tantalo118 divenuto, in tanta copia di ragioni ad alcuna di esse appigliare non mi era permesso: Intra due cibi distanti e morienti Di un modo, prima si morà di fame Che liber huomo d’uno si recasse a denti Sì si starebbe uno agno intra due brame, Di fieri lupi ugualmente temendo Sì si starebbe un cane intra due dame119.

Per tale perplesità dunque mi rimaneva impedito il progresso alla propostami discussione, dovendo suporre sempre la cognitione di alcuni di questi contendenti alla [33] di altrui, né a tutti insieme nel medesimo tempo applicare mi potevo, repugnando a ciò la loro diversità, essendo impossibile che una sola facoltà, nel stesso instante, a differenti speculationi

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addattare si possa. Onde perciò, come dissi, mi restava affatto interclusa la strada ad oltrarmi120 con il discorso in tal inchiesta, ma per non abbandonare proponimento con tal fervore d’animo dal principio da me abbraciato, determinai, disimulando per allhora l’antedette difficoltà, all’oggetti primieramente applicare il mio discorso, ritrovandomi casualmente in quel tempo circa essi vagante121 et impiegato122. Da questi dunque prendendo li primi auspicii della mia speculatione, il primo attentato circa di essi fu, che osservando la loro varietà e moltiplicità, presi a considerare, se vi fosse un tal oggetto universale che sia adequato impronto, e sugello, che s’agguagliasse alla ampla capacità della nostra mente, a guisa del colore che serve alla vista per suo oggetto proprio, et universale, et il suono all’udito. Ma contemplando io circa ciò, mi si appresentò in primo loco il vero, apparendomi che egli fosse quel tale che tenga simile facoltà di corispondere alla contenenza della mente. Ma considerando ciò piú acramente, mi s’affaciò che la verità piuttosto fosse una risultanza dipendente dal nostro intendimento, che oggetto, che precedentemente mova l’intelletto e l’informi, consistendo l’esser del vero in certa posteriore relatione, e raportamento, cioè in la corispondenza e similitudine che verte fra l’oggetto, e l’imagine che l’intelletto di esso concepisce. Per il che tralasciando il vero come non idoneo al mio proponimento, invece di lui all’istesso essere over ente, che dir lo vogliamo, mi appigliai. Il qual stimai che con suoi vastissimi amplessi abbracciasse tutto l’ambito del sensibile et inteligibili, non potendo la mente humana, fuori delli di lui difusi termini, ritrovare che di apprendere e riconoscere. Per il che giudicai che sotto il vessilo dell’ente, incaminar dovesse sempre l’intelletto il traino de [34] tutte le sue speculattioni. Ma mentre che circa ciò ruminavo, nella nostra città Gorgia leontino123 capitò, celebre non solamente per certa copia et effluvio124 di universale eloquenza, flessibile et indiferente insino alla difesa di ambi li contraditorii, ma anco famoso per lo studio della reale sapienza. Costui fra le altre sue intraprese, lo rese insigne l’espugnatione dell’ente, da esso attentata, al niente riducendolo. Per il che si accese in me desio di seco trattare, e di questo da me asserto universal oggetto e sugello della mente devisarne. Non mi riuscì difficile contrahere seco amicitia,

Principia dalli oggetti l’esame

Ricerca se vi sia un oggetto universale

Stima da principio perché sia il vero

Rigetta tal’ogetto

Congresso con Gorgia leontino

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ritrovandolo di conditione molto humana et urbana, onde una fiatta, accadendoci esser ambi alquanto otiosi, l’interrogai del suo parere circa questo mio pensamento, et egli in tal maniera mi favellò: “Se il mio sentimento intorno l’esser over ente ricerchi, talmente io verso lui mi ritrovo abbacinato, che nulla di certo in ciò arrecare ti potrei. Il comune ragionare, il generale intendimento delli homini, e la lunga loro consuetudine affermano che vi sia fuor di noi certa cosa soda e di massicia consistentia che ci tenga compagnia e società, ma gagliarde instanze movono e persuadono la mente mia a ciò rifiutare, e mi rendono oltre modo circa tal esser dubbioso e perplesso. Troppo lungo sarei se le contraposte ragioni di tal speculatione hora raccontare ti volessi, ma ti rimetto a miei scritti, da quelli restarai circa ciò appieno, a mio credere, satisfatto. Ma se hora, conforme la corrente openione affermi ritrovarsi fuori di noi tal esser per se stesso susistente, e procuri sapere, se decentemente egli sia stabilito adequato oggeto della mente humana, diroti quello, che conforme tal suposito mi rassembra”. Al che risposi: “Giacché tuoi dotti scritti mi offerisci, di quello che contengono per hora non chiedo, ma solamente ti dimando che mi raguagli, s’esso ente conforme il comune parere, sia l’oggetto adequato et universale della nostra mente”. Al che sogionse egli: “In troppo angusto termine e [35] stretto recinto, o Socrate, attenti rachiudere l’innumerabili schiere de inteligibili, mentre che nelli limiti dell’ente intraprendi sequestrare e confinarle. E troppo breve cariera proposto haresti alla humana curiosità, avida non solamente d’abbraciare l’infinito, ma trapassarlo se possibile le fosse”.

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Repigliai io: “Non è l’ente quello che con suoi larghi dilatamenti include in sé tutto l’apprensibile? E ciò che da esso non è abbracciato, nell’anientato niente s’incontra e concide?”. Ma egli a me: “Dimmi, diletto Socrate, quando tal esser, over ente come oggeto universale della mente apprendi, lo consideri come una tal cosa terminata, homogenea, similare, et equabile, over piuttosto si ti rappresenta una faraginosa moltitudine, varia, ilimitata, sciolta, heterogenea, dissimilare, e di differenti e contrarie portioni construtta et amassata?”.

Ricerca circa l’univocatione dell’ente

Risposi: “Per il certo negarti non posso, che mi rassembra scorgere una tal cosa limitata, similare, che tenga facoltà di fermare, e terminare la mente. Et in qual maniera, prestante Gorgia, potrei giammai admettere che mente humana, nel medesimo momento di tempo, diversi e varii oggetti apprendere potesse?” Al che Gorgia: “Egregiamente divisasti, et in breve ti sei condotto ove che con molto giro stimavo che appena capitar dovessi. Per il che siccome admiro la perspicacità del tuo intelletto, così per il contrario prendo stupore che non adverti la repugnanza et accozamento del tuo dogma con la quottidiana apparenza de sensi”. Et io ad esso: “Per il vero il sommo dell’ignoranza stimarei che fosse, il ritrovarsi irretito et invilupato nelli errori, e tutavia non avedersene, per il che pregoti che mi rendi avisato di tale mia inadvertentia, e schiochezza”. Et egli: “Il pregio del desio di emendarti che tieni supera di gran lunga la difalta125 della tua ignoranza. La difficoltà

Riprende Gorgia Socrate d’inavertenza

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Rumore che pose Parmenide circa l’ente

Considerationi circa l’ente dificile

Circa il non ente move dificoltà

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dunque in che sei incapato è tale: se l’universo d’un solo essere fosse construtto, e come che tal uniforme et universale oggetto si ti appresentasse, il tuo dogma forse admettere [36] si po|trebbe, ma essendo esso universo come ci si mostra di dissimili e contrarie portioni amassatto, e di varii visaggi construtto, riesce impossibile, che tal oggetto homogeneo e similare contenga tutti li sensibili et intelligibili tanto fra essi repugnanti e contrarii. Dal che si deduce che ambe queste tue assertioni insieme complicate126, cioè che l’essere sia l’adaquatto oggetto della mente, e parimente che egli sia homogeneo e similare, repugnano127 con la moltiplice e repugnante diversità che nell’universo apparisce, ché se pure ambe le predette tue positioni sostenere vogli, conviensi capitare al parere di Parmenide, che havendo primieramente comosso128 Elea sua patria, non poco di turbatione poi fra sapienti di questa città concitò. Affermò egli che le differenze, e contrarietà delle cose che nell’universo osservamo, siano mere illusioni, e fallacie del senso, overo vane apparenze della fantasia, ma che l’esser della mente appreso, sia tutto unito, equabile, e similare, e ch’egli solo tenga del vero e reale”. Ringratiai Gorgia del lume che in tal proposito mi sugerì, ma di nuovo lo richiesi se altro circa ciò di recondito e pregiato nelli tesori della sua mirabile sapienza ritenesse. Al che egli soggionse che, a confessarmi il vero, che di qualunque altra inchiesta piuttosto desiderava esser ricercato che di ciò che all’ente appartenesse, non vi essendo, conforme il suo parere, quesito che maggiormente rimproveri la nostra inscitia e sciochezza, ché dovrebbe pur l’ente, come il primiero che ci si affaci et essendo fondamentale delle altre ricercare129, riuscire il più piano e spiegato. E nondimeno praticando circa esso la speculatione, sortisce il più arduo e dificoltoso, e ciò non solamente circa l’ente accade, ma maggiormente intorno il non ente occore simili inviluppi, ché pur senza la cognitione di questo, pervenire non si può all’apprensione dell’ente, come si dirà. “Primieramente mi si attraversò”, diceva egli, “che del

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non ente, o niente che appellare lo vogliamo, conforme il calcolo di tutti li [37] sapien|ti non si può di lui tenirne concetto, openione, e sentimento alcuno, non possedendo egli efficacia et energia tale, che produca di sé in altrui vestigio di alcuna impressione, riuscendo affatto sterile di potere generare simulacro et imagine che lo rappresenti e rafiguri. Ma per altro verso, se di esso non potemo haverne cognitione et apprensione, in che maniera si rappresentamo e formalizamo le privationi, negationi, e di più le diferenze e distinzioni delle cose, che pur sopra le dette negationi e privationi si fondano? Oltra di ciò, li delirii di frenetici, sogni di addormentati, e tanti errori che vessano la mente dell’ignaro volgo, che non tengono alcuna realtà et esistentia esterna, che pur movono il nostro sentimento e di loro si formalizamo? Il che reproba affatto l’autorità delli sopra detti sapienti”.

Ricerca circa l’univocatione dell’ente

Al che repigliai: “Non crederei giammai che la mente humana dal non ente si movesse e sogiacesse alli di lui impulsi e scosse, ché essendo egli nulla, non tiene alcuna attività in causare in altrui sentimento. Per il che al parere di sapienti aderisco et applaudo”. Ma egli continuò: “Stimi forsi che non vi sia alcuna diversità tra l’esser e non essere?” Et io ad esso: “E qual inditio di tanta stupidezza arrecato t’ho, che a tal interrogatione ti indusse? E qual è colui così scioco che non riconosce fra questi non dirò diversità, ma estrema repugnanza?”. Di novo sogionse egli: “Gran ardire è il tuo, o Socrate, che asserisci contrario e nemico ad altrui quello di cui non tieni alcuna scintilla di cognitione et aviso. Ricordomi che più fiate tu meco ragionando, mi attestasti l’interno et arrabbiato odio che contro te tengono Anito e Melito, e che pigliasti argomento di ciò dalla conoscenza che tieni di essi, et

Riprende Gorgia Socrate di inavertenza

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in particolare della prava e pessima inclinatione che professano contro la virtù e cultori di essa”. Al che risposi che: “Bene mi accorgo ove colpisce il tuo130 ragionamento, rimproverandomi che havendo io affermato che solamente dell’esser sia la mente humana capace, escludendo dal [38] con|tenuto di essa il non ente, hora sortisce per la instanza da te esposta, che anco esso non ente, overo niente ch’appellare lo vogliamo, sia comprensibile et intelligibile, affermandolo io contrario e repugnante all’ente”. Dimanda di Gorgia

Ma egli seguì, addimandandomi, se diversamente io mi ritrovava disposto quando sopito nel sonno, over affatto scioperava, da quello mi aveniva, quando circa il non ente con il discorso mi esercitava131. Risposeli senza punto pensarvi, che grandissima diferenza io scorgeva tra il non meditare cosa alcuna, dal speculare circa il non ente, e quasi tanto io trovava in ciò varietà, quanto tra l’esser e non essere. “Riesce dunque”, sogionse egli, “necessario che il non ente tenga anco egli alcuna attività et efficacia in movere et informar la nostra mente, e che tal non ente da noi appreso non sia affatto totale privatione et annientato niente, poiché si trova bastante a produrre di sé alcuna impressione. Dal che ne segue, che piuttosto con la voce lo esprimiamo per assoluto niente, che con la mente tale lo concepimo, e perciò appare che esso non ente dell’esser in certo modo partecipi e tenga con esso comunicatione et allianza.” Di più sogionse:

Non si può haver cognitione dell’ente se non s’apprende il non ente

“Stante l’assertione antedetta delli sapienti, non saprei imaginarmi in che maniera si potesse dell’ente haverne cognitione, mentre che del mero et assoluto non essere non siamo informati, havendo la natura, benigna reconciliatrice del tutto, constituito tal legge, che anco li contradittorii l’uno all’altro si apprestino

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lume, e chiarezza, onde tanto d’informatione apporta l’apprensione dell’assoluto non ente all’ente, che quasi ardirei affermare, che senza la cognitione del non ente, divenire non si potesse alla vera apprensione dell’essere, a guisa dell’ombre che soministrano risalto e sbalzo a più chiari, et illuminati colori. Onde non meno l’esser è mezo di farci riconoscere il niente, di quello è questo adminicolo di renderci conoscibile quello. Da ciò ne segue anco altro inviluppo che dipendendo l’apprensione dell’uno di questi, [39] dal|l’informatione dell’altro, e riuscendo impossibile che ambi nell’istesso istante di tempo si riconoscono per cagion della loro repugnanza, onde non saprei rappresentarmi in che maniera di cadauno di essi formalizare si potiamo, essendoci interdetto, et impedito il devenire in cognizione dell’uno prima che dell’altro non siamo informati, et essendo impossibile ad un tratto ambi apprenderli. Per consequenza qualunque di essi ci sortisce incomprensibile”. Al qual ragionare replicai:

Replica di Socrate

“Negare non posso che meravigliato io non rimanga, e che non mi tinga di erubescentia132 riconoscendo quale fu da principio la mia temerità, che così arditamente nell’essordio del mio ragionare, proposi et affermai, che l’ente fosse quel massimo oggetto, che possiede ampla facoltà di adempire la vasta capacità della mente, mentre che tante e tali siano le ambagie et arduità che circa di esso emergono. Per il che mi disuade che io prenontii e pubblichi altri miei pensieri che circa ciò nell’animo ritengo, dubbitando di non rendermiti affatto ridicolo e sbeffatto”. Rispose egli: “Anzi, pregoti che liberamente quello che in simile proposito nel pensiero per anco indigesto ritieni mi espongi, ché se al saggio e cimento133 della ragione non potrà resistere, almeno da inutile peso e faticosa sarcina134, per la nostra discussione rimanerà il tuo animo sgravato”. Seguii io:

Risposta di Gorgia

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Tre saggi circa il riconoscere la verità

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“Giacché la tua humanità mi assicura che le mie sciochezze ti palesi, spero da te piuttosto corettione, che scherno conseguirne. Per il che spiegaroti quello che hora mi soviene, per isfugire alquante delle difficoltà da te motivate, avisandoti primieramente che stimare non devi che tale io sia, che più riverisca l’autorità di maggiori, che la veneranda verità, e che parimente tanto codardo io sia, che tenga a me stesso rispetto e riverenza nel ritrattare quello che erroneamente una fiata havessi asserito, e divolgato. Giudicarei hora dunque, persuaso dalle tue instanze, che tanto dell’esser quanto del non ente si possa [40] ottener|ne cognitione, essendo l’apprensibilità comune tanto all’uno quanto all’altro. Onde perciò l’apprendimento piuttosto nostro resentimento interno che imagine di oggetto esterno riuscirà. Pensiero assai diverso da quello già inavedutamente stimavo, tenendo per inanzi in troppo veneratione l’autorità delli antichi sapienti, mentre pronontiai, che l’ente solamente fosse l’aggiustato oggetto, che all’ampla continentia della mente corispondesse. Ma hora parmi ragionevole l’affermare che anco fuori di limiti di esso ente può la mente vagare e spatiare, aggiungendo questo però, havendo rispetto all’illusioni che accadono all’intelletto incontrandosi nel non ente, ché allhora ci potemo quasi che accertare della verità dell’apprensione: primieramente, quando si trova essa accompagnata e corroborata dall’attestatione de sensi esterni, et in particolare del tatto, sincero raguagliatore di ciò che al fuori di noi accade; secondariamente, così anco la lunga e continuata duratione di tali apprensioni ci le rende oltre modo certe; come parimente anco, in terzo loco, quando dal concorso del comune delli homini o della maggior parte di sapienti fossero asentite et applaudite. Onde per il primo cimento non solamente le falacie dell’intelletuale discorso, ma l’inganni anco della vista quando stima mendacemente duplicati, slocati, e distorti l’oggetti, rimangono dal tatto reprobate. Anco per il secondo saggio, le frenesie de infermi, e sogni di dormienti, per

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la loro breve perseveranza sono dalla ragione con buon fondamento reggetti. Come anco, per la terza prova, le scioche openioni del volgo, per esser dall’universale de sapienti abhorrite, riescono schernite et abolite”. Ma mentre che io tal maniera divisava, osservai, che Gorgia alquanto sorise. Per il che qual ne fosse di ciò la cagione lo ricercai. Risposemi: “Li usi dell’amicitia dispensano e permettono il potere con modesta irrisione l’amico alla emenda admonire. [41] Adver|tii”, diceva egli, “nel tuo favellare, che nulla ti cale135 del parere di tanti sapientissimi homini, che affatto denegano al non ente l’energia di poter imprimere di sé nella mente carattere alcuno, ma che verso di lui stimanno che siamo disposti, come quando si troviamo da profondo sonno sorpresi, over che con la mente neghitosi a nulla abbadiamo. Per il che punto non mi aggrada la tua positione, stimando tu che l’apprensibilità sia comune e promiscua tanto al non ente, come all’ente. Non mi piace, redico, tale comunione, ritrovandosi questi talmente discosti e distratti l’uno dall’altro per infinito intervallo, che impossibile rassembra, che rinvenire si possa cosa, cioè l’apprensibilità che l’uno e l’altro abbracci, ricusando anco la volgare scola che la sostanza et accidenti tenghino un superiore genere che li comprenda. Onde secondo la tua assertione che del non ente tenimo concetto e cognitione, ci converebbe affermare che dell’essere non si possa haverne apprensione alcuna. Onde, se l’apprensibilità non può essere comune al non ente et all’ente, ne segue che del non ente non ne potiamo haverne apprendimento, perché se di lui ne tenissimo cognitione l’ente riuscirebbe incomprensibile et affatto ignoto. Oltre di ciò s’alla tua positione assentissimo, in grande hazardo e pericolo si esponerebbe l’humano sapere, non essendo più l’apprensibilità cimento e saggio della vera esistentia d’oggetti esterni, ritrovandosi essa comune anco alli falsi e putatitii, come asserisci. Onde in qualunque

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Riggetta il primo saggio di sensi e particolarmente del tatto

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nostra speculatione restaressimo perplessi, se a guisa di Endimione136, nube pregna di vanità invece di cosa consistente nell’amplessi della mente preso havessimo. Et il primo saggio in quanto137 che attenti conseguire per mezo di sensi et in particolare del tatto, stimo riuscire insufficiente ad arrecarci certezza circa l’apprensioni della mente. Ma prima de sensi in universale diroti quello mi rassembra, cioè che non appariscano bastevoli a ministrarci certa evidenza delle cose, non instruendoci [42] la vista d’altro, che il semplice colore, l’udito il suono, l’olfato l’odore, il gusto il sapore et il tatto alcune qualità come il caldo, il freddo, il mole e duro e simili, ma non giammai ci informano dell’essentialità interna delle cose, ma né anco di altri accidenti più esterni, come della grandezza, numero, sito, distantia, motto, quiete, similitudine, proportione, diversità e contrarietà et infinite altre cognitioni de quali sono construtte le humane dottrine e più egregie arti, le quali cose sono dalla mente solamente apprese e riconosciute, come in breve si dimostrarà. Ma, amico Socrate, non osservi qual sarebbe il discapito dell’intelletto circa le cognitioni antedette, quando la certezza del suo sapere d’altrui dovesse mendicare, cioè da sensi esterni? E che essi solamente fossero li periti saggiatori della verità? Onde risultarebbe che non derivando da sensi tali cognitioni non ci accertaressimo giamai della loro verità. Ma lasciamo ciò a parte, voglio per hora proporti la stimata appo volgari, la più certa apprensione, cioè quella che per mezo del senso del tatto conseguimo, dico quella che per suo raguaglio tenimo della esistentia de corpi esterni, mediante la renitenza che sentimo ostarci, che tuttavia scorgerai ciò dal tatto non derivare, ma dal discorso dell’intelletto in gran parte dipendere, non havendo esso tatto appena che minima portione in tale cognitione. Fu definito che corpo sia ciò che possiede longhezza, larghezza, e profondità, altri vi aggiunsero la resistentia che ad altrui fa. Primieramente dico essere molto evidente,

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che tali dimensioni siano piuttosto dall’intelletto che da sensi apprese, non conseguendo li sensi altro che li sopra nominati oggetti. Ma la recognitione delle dimensioni dipende dall’advertire con la mente certa continuata successione di diverse portioni del tangibile, insieme ordinate et unite, essendo da quella solamente osservata per certo passagio e flusso dell’organo tangente sopra al tangibile overo al converso. Al che vi concorre [43] anco l’apprensione del tempo che si consuma in tale successione, e parimente la conoscenza della continuità la quale non si può rafigurare senza l’apprendere ciò che sia unità, e numero, non essendo altro il continuo che l’unione di due estremità, che in un punto concidono e s’accopiano. Da tutto questo discorso, devenimo in cognitione della grandezza e dimensioni del corpo, e di più essendo questo uno aggregato di tre dimensioni, tale accopiamento e compositione non appartiene punto al senso esterno materiale, e semplicemente passivo, m’a facoltà compositiva di lui più egregia. Oltre che il riconoscimento della resistentia agiunta da alcuni, come fu detto, alle dimensioni per farne sortire il corpo, non conviene al tatto attribuirlo, poiché noi per mezo di questo, altro non sentimo che una certa interna nostra compressione, facendo perciò poi giuditio con il discorso della mente, che tale compressione ci avenga per cagion di ostacolo et impedimento che ci contrasti l’oltrapassare e c’opprime. Al che concludere fa di mestiere alla mente, che alquante propositioni construisca. Primieramente, li fa bisogno asserire che vi sia motto mentre che in noi si sente tale compressione, et in altrui renitentia che ci vieta lo progredire, benché Parmenide, Zenofane, Mellisso, e Zenone138 rifiutavano tal motto.

  • che parimente giudichi la mente che l’organo del tatto si risenta, per cagione della oppositione causata dall’esterno oggetto, et è necessario che concepisca et admetta che vi sia causalità, materia involta139 da tante difficoltà, che non mancarno fra sceptici che affatto

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    negarono qualunque causalità, e senza dubbio l’asserire che vi sia, alla mente, e non al senso ciò appartiene. Di più sarebbe temerario trascorso l’affermare che per mezo del tatto si riconosce l’esistentia delle cose esterne, mentre che fosse ignoto ciò che foss’esso tatto, come in breve vi sono per esporre. E di più, se nel genere delle relationi e rapportamenti essa causalità e tatto si riducono, chi può dubbitare che alla mente non incomba [44] que|sto riconoscere? Ma di più risorge altra difficoltà: in che maniera per mezo del tatto capitamo in cognizione delle cose per se stesse esistenti, s’egli nella classe de relativi è compreso? In qual guisa accidente tanto fievole quanto è la relatione, che non pochi li negarno il reale essere, ci può indicare e rappresentare il da per sé stante, e da niuno dependente? Ma che direbbe il nostro Aristippo140, che severamente ci sequestra e restringe nel recinto delle nostre passioni, e che ci interdice il far passagio fuori de loro limiti? Per il che conforme tal suo benché falso dogma, l’asserire, che vi sia cosa fuori di noi riesce arditezza et inconsiderato partitto, onde quando che presumiamo con il concetto formalizarci di esterno oggetto fuori di noi esistente, e circa esso con il discorso ritrovarci, secondo Aristippo, inavedutamente in noi medesimi insistemo, a guisa di mobile che si move circolarmente e benché continuamente rivolge, nondimeno nell’istesso loco sempre si ritrova. Dal discorso dunque conclude l’intelletto, e non il senso del tatto, che ci siano fuori di noi oggetti resistenti, e renitenti all’organo tangente, ché negandosi alcuno delli detti hippotesi, rimanerebbe affatto eliminato il fondamento più sodo della credenza che si tiene circa l’esistentia delle cose esterne. Né voglio tralasciare di teco comunicare quello che circa la resistentia tengo nell’animo, benché per hora alquanto indigesto, apparendomi che essa non sia altrimenti segno tanto efficace in dimostrarci l’esistentia corporale di oggetti, osservando io, che l’impeto che acquista il corpo mobile per la celerità del motto tenga una gagliarda resistentia con li corpi che incontra, che

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    non solamente impedisce ad essi il progresso, ma anco li smove, spezza e frange. Il qual impeto non può esser corpo generandosi dal semplice motto comunicato dal motore al mobile e dal proicente al proietto, augumentandosi anco l’acceleratione et impeto dal motto procedente nell’istesso mobile receputo. E l’insinuarsi tal impeto nelli [45] intimi recessi del mobile parimente dimostra non esser egli corpo, perché se tale fosse, denegato li sarebbe la penetratione. Dal che si raccoglie, che la resistentia, essendo effetto dell’impeto generato dal motto, non ci può indicare et accertare che derivi da cosa soda e massicia, non potendo l’effetto ch’è la resistentia trapassare la conditione del motto suo progenitore, che non è cosa esistente. Ma oltre di ciò addurre ti potrei, per renderti sospetto questo tale tuo contatto al quale tanta fede attribuisci, altra instanza, rappresentandoti ciò che sovente nel sonno accade a crapuloni e bevoni, che li rassembra esservi chi li comprime restandoli perciò impedita la respiratione e qualunque loro motto, che dalli ignari delle cagioni naturali a demonii incubi è ciò attribuito. Onde ci resta sospetto che può rassembrarci alcune fiate nell’animo esservi resistentia, benché non vi sia renitente esterno che ci si opponga. Di più anco si può addurre in dubbitatione di ciò, che se al sagittario celeste fosse permesso che la saetta che tiene nelle mani fuori dal convesso dal cielo scoccasse, restarebbe nondimeno essa impedita, non per oppositione di resistentia esterna di corpo, ma per mancamento di loco, mentre però che supponessimo, come che asserisce la comune credenza, che fuori del cielo non vi si ritrova pieno, né loco vacuo. Apportare anco potrei in corroboratione di questo li dolori artetici e colici che le loro punture d’acuti ferri esterni derivare rassembrano, eppure non tengono fuori di noi esistenti cause. Dalle cose da me insino hora divisate, amico Socrate, si può agevolmente raccogliere, che quando l’intelletto da sensi dedurre li convenga le sue dottrine, et essi

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    accertarli la verità, ad estrema inopia141 e meschinità egli si ridurebbe, e poco o nulla di sufragio può sperare dal tatto, stimato da te la più sicura norma e stabile base delle sue speculationi. Anzi che, se all’intelletto di più li fosse rimproverata una certa tal massima inavedutamente da lui a suoi danni e nocumenti prodotta e divolgata, et hora da te [46] alquanto con il tuo discorso applaudita, cioè che niuna cosa in lui ritrovare si può se prima non sia passata per la condotta de sensi esterni, a qual disagio e mendicità egli si condurebbe? E se interrogato fosse d’onde prese sì copiosa supeletile di tante cognitioni già accennate per lo acquisto de quali si stima tanto arichito, che pur giammai per l’adito et uscio di sensi trapassorono, a qual confusione e turbamento capitarebbe? Non sapendo d’onde tanta farragine de cose in esso sia pervenuta. Ma di più se anco admettessimo che il senso del tatto insieme con li altri suoi congeneri somministrassero sufficientemente all’intelletto materia circa di che si potesse largamente esercitare, non si è veduto per anco qual certezza potressimo con l’aiuto di questi ottenere circa l’esistenze delle cose esterne, perché oltre il divisato apparisce di più, che il tatto non è per anco noncio verace e certa norma dell’apprensioni dell’intelletto, non essendo anco egli privo di sospetto di falsità. E quello che mi rende in ciò flutuante è che alcuno delli esterni non esercita la sua fontione senza il toccamento del sensibile, overo la di lui imagine. E la vista giudicata la più spirituale fra tutti li altri sensi, anco essa del tatto si serve, faciasi ciò per mezo dell’effluvio de raggi visivi che dall’occhio uscendo insino all’oggetto arivino, overo che la imagine dall’oggetto spicandosi ferisca nell’organo visivo, accada ciò nell’una maniera, overo nell’altra, sempre la sensatione con l’intervento del contatto s’eseguisce. Argumento di ciò anco è che la dimensione di qualunque corpo nell’istesso modo si misura con il tatto che con la vista, et è ragionevole che l’istesso effetto sortisca della medesima causa: Lucret..

    Sed atque etiam minima hac fateri necesse est

    SOCRATE

    151 Corpora qua feriant oculos visumque lacessent, etc142 Praterea quoniam manibus tractatta figura In tenebris quadam cognoscitur esse eademque [47] Cernitur in luce et claro candore necesse est Consimile causa tactum visumque movere Nunc igitur si quadratum tentamus, et id nos Comovet in tenebris in luceque poterit res Accidere ad speciem; quadrata misi eius imago?143.

    Onde da ciò si deduce che se falace riesce sovente l’aviso della vista che per mezo del tatto risulta, che altro tanto bugiardo ci può riuscire parimente il comune tatto, al quale s’appogiano tutte le nostre speranze in conseguire la verità delle cose, e se per evadere ciò, dicessimo, che l’esame e recognitione delli tatti adoperati nelle sensazioni all’intelletto appartenire, dunque ridondarebbe in lui la certezza del giuditio che si tiene delle cose, e non nel tatto, divenendo perciò tanto l’intelletto quanto il tatto sospetti di mendacio, mendicando l’uno dall’altro la certezza delle loro apprensioni. Per il che rimanerebbe dubbiosa ogni nostra apprensione, riuscendoci il testimonio al pari del giudice sospetti di falsità. Oltre di ciò, chi accertare ci può che, siccome il tatto comune è stimato da te verace testimonio e sincero esprolatore144 alla vera esistenza delle cose e che ci accerta delle altre apprensioni, che anco nella vastità della contingenza, e possibilità non si possa rinvenire altro tatto, molto più di lui esatto et esquisito che sia sofficiente a manifestare le di lui frodi et inganni, e che convinca evidentemente le sue falacie, siccome egli ti rivela e palesa l’illusioni della vista? E di più mi arreca ansa145 di ciò dubbitare, l’osservare che ad alcuni animaletti e vili insetti la natura molto più egregio tatto che al nostro genere distribuì. Il ragno tessittore di quella predatrice sua tella senza dubbio possede palpitamento più risentito e risvegliato del nostro, esercitandosi circa quelli sotilissimi filli a noi inattingibili, et impalpabili. Né diversamente del bombice artefice della seta giudicar si deve. Né d’altronde scaturì quella insana openione delli huomini volgari, che li ucelli [48] siano avisatti dalli dèi

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    de future emergenze humane, overo almeno per mezo di questi ne siamo dalli dèi raguagliati, se non che per essere tali animali di sentimento molto acuto, e perciò di qualunque alteratione d’aria osservanti, onde riescono presaghi delle mutationi di tempi che seguire devono. Dal che l’ingegni plebei di più dedussero, che di qual si sia evento futuro benché non naturale siano conscii, dipenda ciò dal caso overo dalla nostra volontà, quasi che li dèi fossero più liberali a comunicare li arcani del tempo avenire alli bruti che alli huomini, a cui tali successi appartengono. Ma ritornando al tatto humano, diroti non esser io fuori di sospetto che egli al pari di altri sensi ci frodi et inganni, il che si osserva circa l’appensione del caldo e freddo, del grave e lieve, onde la mano giudica freddo o caldo l’oggetto per tanto solamente che in una di queste qualità l’eccede, e il peso del nostro corpo benché grave, non lo sentimo per esser noi acciò avezzi, et un lieve drappo alle fiatte ci affatica, et affanna”. A ciò replicai: “Stimo che circa dette qualità l’affare riesca conforme il tuo146 avisamento, ma intorno la restistentia di oggetti dificilmente l’animo mio si può acquietare, e ridurmi a dubbitare che il tatto il falso ci referisca, né posso formalizarmi in che maniera avenga che147 ciò ch’esterno mi apparisce sia solamente passione in me internamente instalata”. Al che egli replicò: “Stimarei abbastanza haverne circa ciò divisato, ma tuttavia volendo affatto compiacerti, e satisfare a questo tuo contumace148 pensamento, rappresentaroti alcuni avenimenti che comunemente c’ingannano, facendoci stimare l’interno esterno. L’humore giallo, che nelli occhi d’itericii s’annida, li fa apparire tutti li visibili esterni di tal colore infetti, e se d’altrui non fossero admoniti149 della loro infermità, cagione di tal errore, constantemente gialli li giudicarebbe150. L’istesso accade alli vertiginosi,

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    infestato il loro occhio da vapori che colà ascendono, e si ragirano, per il che li rassembra tutte le cose che mirano mobili et [49] agi|tati, e li sani ancora nel nascere e tramontare del sole, verso lui affissando la vista, li pare che con veloce motto in se stesso si rivolge, il che avienne per il dilatare e restingersi della loro interna pupilla, onde comovendosi perciò li humori che circondano l’occhio, attribuiscono falsamente al sole tale terpidatione151. E nella vista ordinaria quale è colui se non è di soda eruditione dotato, che non li rassembra che la visione si esequisca circa li oggetti da noi remoti, e lontanissimi? Stimandosi volgarmente che con la vista si affera le stelle. E tuttavia secondo la meno insana openione la visione entro dell’occhio nel più profondo recesso da lui si eseguisce, né altro apprende l’organo visivo che la cuspide radiale del cono, che dall’oggetto ci è inviato, onde dal dilatamento e ristrengimento di tal apice si apprende la distanza e grandezza, over picciolezza della cosa visibile. Da simile argumentatione anco concepimo la figura et altre attinenze di oggetti visibili, restando per tanto il comune delli huomini ingannati, stimando che il tutto fuori di loro avenga et anco quelli che sono conscii del modo che si eseguiscono tali apparitioni, negare non possono, che li rassembra che fuori d’essi nell’istesso oggetto remoto, e lontano ciò si faccia. Tanto può la consuetudine in stabilire nell’animo nostro opinioni, benché false, indelebili et irretratabili”. Hor dunque havendo ciò esposto Gorgia, da tal ragionamento presi ardire di novo stuzicarlo con dirli, che sebbene alla mia età alquanto giovanile converebbe piuttosto rendersi attenta a ciò che sapientissimo huomo favella, che introdurre proponimenti, et apportare dogmi, nondimeno la curiosità et inquietudine del proprio genio mi stimola a conferirli quello che nell’animo in tal proposito io concepisca, significandol io152 stimare che il tatto giammai s’ingannasse circa li suoi oggetti come né anco l’altri sensi, eseguendo ancor essi le loro fontioni per mezo del tatto, sempre infalibile, ma che se la vista ci rapporta [50] alle volte alcuna falacia, ciò sia causato dal comercio che tiene con l’intelletto di tali illusioni principale autore, e che per se stessa

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    SIMONE LUZZATTO

    non si possa altrimente ingannare, può il medesimo accadere al tatto comune153. Al che replicò egli: “Non è come credi proprietà dell’età giovanile l’imparare, ma piuttosto è sua conditione la pretesa dell’insegnare, essendo naturale e proprio alla humana, et inaveduta ambitione la brama d’altrui instruire. Ma noi, provetti et avanzati nelli anni, riconoscendo quanto la verità ci sia contrastata, et impedita, siamo oltra modo desiosi d’imparare, e ritenuti nell’insegnare e dogmi asserire. Ma il tuo ragionare m’induce a chiederti che mi esponi, se stimi che quello decreto filosofico che vuole che sentimento alcuno eseguire non si possa senza il contatto, escluda et esima l’apprensione dell’intelletto, over piuttosto ancor lui di ciò non si trova immune et assoluto”. Risposi: “Crederei che per la sua spiritualità restasse da ciò eccetuato”. Replicò egli: “Ma il nostro comune amico Protagora a cui alcuni di sapienti del secolo presente adheriscono, pretende, che l’intendimento della mente altro non sia che sentimento, confessando però che tanto sia più delicato di quello delli altri sensi, quanto la vista si ritrova al di sopra delli quattro suoi congeneri. Onde stante ciò non sarà giammai l’autore di tal dogma per assentire che senza l’aiuto del tatto alcuna apprensione benché intellettuale eseguire si possa, conforme, che alli altri sentimenti necessariamente ciò accade. Ma approbi il parere di Protagora over lo rigetti, convienti confessare che alcuna imagine e simulacro dall’oggetto spicato154 et intruso nelli sensi esterni, e poi penetrando nell’interni, giunga insino all’intelletto e lo risvegli, facendo in lui, se non impressione almeno impulso, onde per via di certo lieve e spirituale contatto esercita ancor egli le sue

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    fontioni. Ma se per modo di contatto, e di questo tale contatto sospettamo e dubbitamo, in che maniera sarà suo congenere il di lui cimento e [51] sag|gio? Dunque il dubbioso et incerto sarà prova a se medesimo? Ma oltre di ciò s’accade che la vista, praticando con la mente, resti sovente delusa nelle sue apprensioni, perché siamo affatto fuori di dubbio che anco al tatto comune non li avenga l’istesso infortunio? Poiché la cognitione che tenimo dalla esistenza delle cose esterne per mezo della resistenza conseguimo, e dell’apprensione di questa la mente gran parte ne possiede, da che poi s’evince la esistentia delle cose esterne, come già fu detto. Ma soprattutto il cimento eseguito da sensi circa le speculationi dell’intelletto non mi aggrada, perché dall’intelletto istesso è tal giuditio ad essi delegato e rimesso, il che in causa propria non se li deve admettere, perché ponendosi dubbio nella sua sufficientia, anco tal remissione riesce incerta e perplessa. Onde, riducendo il discorso a quello che da principio devisavamo, riesce il tatto, stimato da te sincerissimo e leale saggiatore delle nostre apprensioni, non meno che li altri sensi, così interni come esterni, perplesso et all’inganni esposto. E siccome il cimento de tatto ci sortisce hora invalido a farci riconoscere e rivelarci la verità, così anco quell’altro saggio che adducesti, dico la continovata155 duratione delle apprensioni, ci riesce al mio stimare parimente incerto e falace. E non poco ti sei allucinato nel tenere vere quell’apprensioni che sono di lunga perseveranza, e false le momentanee e transitorie, ché per il certo a troppo debole fondamento raccomandi et appoggi la verità, sopra qual altra cosa egregia e pregiata. Dunque, o Socrate, per tua assertione le manie di melanconici che essendo radicate in humori contumaci, che perciò al pari della vita sovente continuano, veri giuditii per tuo parere stimare si devono? Ma che le frenesie de colerici, insultorie, e di breve esistentia, solamente mendaci siano? E così medesimamente dal tuo ragionare si raccoglierebbe che se li sogni continuassero ogni notte li stessi, non vani et illusorii li giudicaresti.

    Rigetta il saggio della duratione dell’ apprensione

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    SIMONE LUZZATTO

    Onde se Bible156 [52] l’imagi|ne del pravamente amato fratello in qualunque suo sonno li fosse apparso, conforme il tuo parere satolatta si sarebbe realmente dell’infame et incestuoso suo inamoramento, e come vigilante goduto se l’harebbe, mediante la frequenza delle rapresentationi del desiato fratello: Ovidio Metam.

    Dumodum tale nihil vigilans comittere tentem Sepè licet simile redeat sub imagine somnus Testis abest somno, nec abest imitata voluptas Pro venus et tener volucer cum matre cupido Gaudia quanta tuli, quam me manifesta libido Contingit? et iacui totis resoluta medullis Et meminisse iuvat? quamvis breve illa voluptas Nox fuit praeceps, et ceptis invida nostris157.

    Né perché allhora si trovamo sopiti nel sonno, e con il corpo immobili, mendaci giudicare si dovrebbero tali apparenze, mentre che l’istessi sogni ogni notte si reiterassero. Anzi si argomentarebbe che al di sopra dalle apprensioni di vigilanti vere fossero, ritovandosi in quel tempo l’anima appartata nelli suoi proprii chiostri, e recessi, e che non essendo turbata da scosse de sentimenti esterni, imbrochi158 nel bersaglio della verità. E se la continuatione e durata d’una openione fosse bastevole cimento per accertarci della verità, già l’assorde openioni radicate et abbarbicate nell’animo di plebei e volgari per il tratto di migliaia di anni, verissime sopra tutte l’altre reputare si dovrebbero, come per il contrario li dogmi di sapienti che non sì tosto che sono pronontiati, dalla folla e turba di sciochi rimangono abbattuti e spenti, mendaci riuscirebbero. Ma oltre di ciò, qual openione benché in buona lena perseverasse lungo tratto di tempo, mentre che alla fine conforme a tutte le altre cose humane le convenga terminare il loro periodo nella totale estintione, non riesce di momentanea durata rispetto al tempo infinito avenire, et [53] alla indifinente159 successiva posterità? Anzi quotidianamente esprimentiamo che molte openioni che si ritrovarno in stima e reputatione appo l’antichità, hora in favoloso figmento160, e ridicolo racconto si sono

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    convertite. Già l’adorato bue, con la caterva de brutti animali dalli Egittii deificati, appo noi Greci cominciano a sentire del forsenatto, e pazzo, il che può servire per documento circa le cose presenti, rispetto al venturo tempo. E permettesse Iddio che li avenimenti instantanei, falaci apparenze, privi de reale esistentia fossero. E li terramotti, e folgori, che in un momento principiano e finiscono i161 loro horrori, sarebbero conforme il tuo pronontiato, mendaci illusioni, e che la morte come si dice che per la sua subitanea conditione non appartenere né a vivi né à morti, fosse piuttosto spaventevole larva, che pena così grave et affanosa: Aut fuit aut veniet, nihil est prasentis in illa Morsque minus pena quam mora mortis habet162.

    Ovidius Epistolaria

    Ma la verità è, per quello hora mi si appare, che tanto tenga le sue vere e germane cause, quello che per brevissimo tempo esiste, quanto ciò che per lunghissimo tratto di tempo dalla natura l’è permesso perseverare. E tanto possiede le vere cagioni di vita quell’animaletto e sgratiatto insetto, efimero163 appelato, che nasce vicino le fornaci di Cipro, che si dice la mattina trahere li suoi natali, e che la sera li sopragiunge la naturale sua morte, quanto la cornachia che per alcuni secoli continua in vita. Per il che stimo che molto s’ingannasse Hero164, che sognando ritrovarsi in stretti amplessi con l’infelice Leandro, et havere carpito il sommo di piaceri amorosi, tuttavia si lagnasse che vani fossero stati tali diletti, poiché brevissimi li riuscirono. [54] Me misera brevis est, e non vera voluptas165.

    Per il che, carissimo Socrate, hormai persuadere ti devi ch’il cimento, et evidenza della vera esistentia dell’oggetti non si conseguisce altrimenti dalla continuata apprensione che da essi tenimo, come in sinora vigilando sognavi. Né la terza prova che adducesti, cioè che il consenso del comune delli huomini, over della maggior parte de più sapienti probabilmente ci possa accertare della verità, stimo sortire di migliore riuscita, che il

    Ovidio

    Rigetta il terzo cimento

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    SIMONE LUZZATTO

    primieri saggi e cimenti. Li pareri del volgo sono per il più li meno sani, e veraci, ché essendo naturale del comune delli homini seguire la mediocrità, accade che sovente all’estremità più assorde si attenga. Per il che occorre, o che l’apparenza de sensi seguiti, regettando affatto il discorso della mente, overo che all’estremo contrario appigliandosi, all’assertioni aerie et insusistenti che forma la imaginatione, assolutamente lontani del senso et anco sovente alieni all’istesso intelletto, inclini e s’appiglia166, essendo anco proprio dell’astrusità interessare li ingegni nelli loro inviluppi, e di rendere li homini più curiosi in riconoscerle, e poi maggiormente tenaci in abbracciarle. Oltre che l’oscurità apporta certo tale decoro e maestà alli dogmi, e la chiarezza poco di stima e sovente molto dispregio. Né il conformarsi la moltitudine in una opinione apporta maggiore certezza della sua verità, di quello occorerebbe alle monete sospette di falsità, ché siccome la abbondanza e copia non accerterebbe altrui della loro sincera liga, ma piuttosto accrescarebbe il sospetto, così parimente accade circa l’opinioni, riuscendo per il concorso dell’approbatione piuttosto incerte, tanto è lontano che lo annidarsi in molte teste l’istessi concetti, argumenti167 che dal falso siano lontani et alieni168. Ma se al calculo di plebei rimettere non vogliamo affare cotanto importante, quanto è la recognitione della verità, ma sì bene169 al parere de più saggi et [55] addottri|nati, ciò poco giovarebbe per divenire a capo di tal inchiesta, perché converebbe di novo riconoscere prima, quali fossero li sapienti a quali rimettere ci dobbiamo in riconoscere la verità, onde di novo indagare ci bisognarebbe, se quelli che ci proponessero tali giudici, savii ovvero ignoranti fossero. Non appartenirebbe al sicuro il fare tale scielta alli volgari e plebei, essendo questi di già regetatti da tal fontione, ma s’a sapienti fosse delegata tal carica, convenirebbe ch’anco essi fossero posti all’esame per riconoscere e cimentare la loro sufficientia in eseguire simile elettione. Onde all’infinito si procederebbe.

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    Ma oltre di ciò mi soviene nuova difficoltà, non potendomi rappresentare in qual maniera giamai possa seguire retto giuditio nell’approbare over reprobare l’altrui parere, poiché li giudici che sono egualmente disposti come quelli che al giuditio si sottopongono, non riescono idonei ad esaminare loro pari et equali, ritrovandosi tutti essi nella istessa constitutione posti, ché tanto sarebbe come se cadauno di essi giudicasse se stesso. Li pesi affatto simili non puono l’uno all’altro apportare fede della legitima loro sincerità. Ma se diferente il giudice dalli giudicati, non riesce esso giudice per altro verso suficiente a tal fontione, poiché quello che diversamente si trova disposto, con diferente visaggio et apparenza se li rappresenta l’altrui openioni. Per il che non sortisce al proposito in fare giuditio della disposizione dell’altri, ché tanto sarebbe come se giudice circa cosa ad esso ignota attentasse proferire sentenza. Onde siccome sempre mi rassembrò come impossibile, che il sano riuscisca habile a giudicare delle apparenze del frenetico, essendo diferentemente disposti, e constituiti, così anco stimai che il reputato da noi savio, le stoltitie dell’ignorante sincermente giudicare non potesse. Il che oltre che la ragione ciò me l’additava, li volgari tintori mi lo dimostrano, ché volendo essi assagiare due porpore, dell’istesso panno prendono due portioncelle, ché se altrimente [56] fa|cessero, restarebbero delusi in tale loro prova. Pertanto, amico, riuscendoci li cimenti e caratteri da te addotti per riconoscere la vera esistenza delle cose insuficienti et impediti da sì gravi difficoltà, rimanemo come prima, nell’informarci circa l’esser over non essere d’esse cose, confusi et ignari”. Ma io ad egli di novo li soggionsi: “Punto non mi difido che circa tal materia mi sei per apportar alcun maggiore e più chiaro lume, e ben scorgo qual sia la tua modestia in dissimulare inscitia circa ciò che meglio di qualunque altro ne sei adottrinato. E per il certo non poco di giovamento mi arrecò tale discussione teco tenuta, havendomi purgato l’animo di quelle

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    SIMONE LUZZATTO

    sciochezze, che mi harebbero conteso l’adito a quelle dottrine che, motivato dalla innata tua benignità, hora sei per introdurre nel mio animo”. Risposemi egli: “La facilità che scorgo in te nel retrattare le tue proprie openioni, mentre che non tengono apparenza de verità, m’invita a comunicare teco quello che circa tal affare, già una fiatta, seriamente forse vanegiavo, ché havendo in consideratione la tua indole e probità di costumi, stimo170 esporlo più alla tua censura e corettione che a derisione, e se alla copella171 del tuo intendimento non resisterà, almeno eccitarà in te desio di rinvenire in tal proposito quello che in sin’hora tanto ci abbandona, e sfuge”. Et io ad esso: “Da tuoi primieri ragionamenti ben osservai a qual grado di eccellenza sormontava la tua scientia, ma hora assaggio qual sia la moderatione et urbanità del tuo egregio animo, proprio carattere di sì preggiata dottrina, emendando l’altrui arrogantia con la simulata da te inscitia. Ma segui hormai, ottimo homo, il tuo cortese proponimento”. Nello ricercamento circa l’oggetti

    Che l’oggetti non sono alcuna delle quattro cause

    Al che continuò Gorgia: “Credo esserti noto, che quattro siano comunemente stimate, le cause delle cose: la materia da cui sortiscono, forma che tali le constituisce, efficienti dal quale sono operate et il fine per cui l’efficiente si condusse alla loro facitura. L’oggetti esterni che sono stimati volgarmente cagione delle [57] nostre operationi, ad una overo a parte di queste quattro cause ridurre si devono, se però a tutte non li vogliamo riferire. Ma li oggetti non sono già altrimente cause materiali dell’apprensioni, ché sortirebbero172 l’istesso animo. E per la medesima ragione, né anco sono formali cause, poiché parimente altro non sarebbero che l’istesso animo, in tal modo e non era conformato, e constituito173, non restando in tal guisa alli oggetti altra esistentia esterna e reale, fuori di

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    noi disgiunta e separata. Non cause finali, non servendo queste se non, che ad impulsare la volontà dell’operante alla esecutione di quello l’è proposto dall’intelletto sotto imagine di bene, per il che non sortiscono sufficienti174 ad informare la mente della volontà primiera norma e scorta, oltre che la causalità del fine è piuttosto metaforica che reale. Restaci solamente il ricorso alla causa efficiente, né a mio credere tal causa ci si dimostra bastevole a renderci informati delle conditioni di essi oggetti. Primieramente parmi che non essendo altro l’efficiente, che l’origine e principio d’onde deriva il motto esecutivo, et operativo dell’effetto, non può esso produrre nella nostra mente cognitione tale, che ci renda informati della sua vera essentialità, siccome quando miramo la stupenda testa di Giove Olimpico, non restiamo conscii delle conditioni e qualità proprie et essentiali dell’opefice di tal simulacro, e l’esperienza ci insegna che una puntura che sentiamo può derivare nella istessa maniera da diversi e varii efficienti. Nel medesimo modo ci afflige acuto ferro, spino appuntato, schieggia di pietra, et humori interni acri e mordaci, che nel nostro corpo sovente risiedono. Per il che ci si rende chiaro che l’interne passioni non riescono soficienti a palesarci la qualità e conditioni delli efficienti di esse”. A ciò replicai che: “Piuttosto stimarei che li oggetti esterni fossero non come semplici motivi et impulssori175. ma che a guisa di tipo e stampa formassero nel nostro animo il loro modello et imagine, ché perciò [58] pre|sumere potiamo di riconoscere in certa maniera le condizioni reali di tali oggetti”. Ma Gorgia immantinente a ciò occorse, et acramente mi redarguì, che con troppo resoluta confidenza ciò pronontiassi et affermassi, e che era immoderata prosuntione, che non havendo l’huomo giamai scorto tali pretesi, et asserti tipi, impressori de nostre interne passioni, non essendo giamai alcuno traboccato fuori di sé et afferato tali stampe, e tuttavia ardisca sententiare

    Socrate stima l’oggetto stampe

    Rigetta Gorgia il modo di stampa

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    SIMONE LUZZATTO

    che vi siano, mentre che in altro modo salvare si possono li nostri risentimenti:

    Tre maniere d’impressione di oggetti

    Confuta li tre modi proposti dell’operar d’oggetti

    “Come hora son per dirti, la verità non compatisce ardite congietture, et arischiatti trapassi la codardia176, ad essa sortisce Virtù, e la tarda e lenta circonspettione le apporta commendatione. tiene maggior nemistà con il verisimile, che con l’aperto falso, questo usa la forza per opprimerla, e quello l’inganno per tradirla. Ma acciò non ti resti che desiderare circa quello che in tal proposito tengo meditato, comunicare ti voglio ciò che una fiatta in tal affare nella mente mi capitò. Rassembravami che in tre maniere si potessero formare l’apprensioni che in noi si producono: primo modo, come hora divisasti, per mezo di stampa, e sugello fuori di noi esistente, cagionando in noi impressione simile ad esso oggetto, il qual impressione rimane in sé doppo l’haver fatto in noi incontro. Seconda guisa, come quando con il motto e flusso del penello over scalpello, sortisce nella tella177 over pietra la figura che si attenta indurvi, onde dopo tal facitura, non rimane appresso l’efficiente alcun’imagine dell’effetto prodotto. In terzo modo può seguirne effetto simile, senza aiuto d’esterna efficiente, ma per mezo di certa coagmentatione178 et amassamento di varie portioni materiali d’onde risulti una tal figura, dal caso in certa maniera formata, come si racconta che appo il Re di Macedonia si ritrova agata nella quale appariscono le nove muse che circondano Apollo loro corifeo179, e nelle pietre di minor pregio, ogni giorno si scorgono varii scherzi della natura che rassembrano effetti della più elaborata humana arte, causati solamente dal concorso di diversi humori fortuitamente [59] insieme congelati et impetriti180. Da questa tripartita effetuatione d’imagini, fui indotto a speculare quali di queste maniere fosse la più propria et addatibile alla produttione delle apparenze che in noi sentiamo. Non mi fu occulto che volgarmente si stima, come tu medesimo hora proponesti, che nella primiera guisa sortiscono, nondimeno oltre il già detto, non mi

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    mancò motivo ragionevole che mi indusse a disentire dalla tale comune openione, e che me inclinasse l’animo alla seconda guisa accennata, stimandola non aliena dal nostro proposito, persuaso, dico, dall’osservare che le nostre apprensioni con certa misura di tempo si eseguiscono, benché erroneamente alle fiatte, subitanee ci appaiano, ché se per modo de stampa li oggetti ci causassero le loro impressioni, affatto instantanee si produrebbero. Né da ciò è alieno il dogma d’Eraclito e Cratilo, che stimano il tutto essere in continua agitatione, produttione, e flusso, onde qualunque impressione che si trova in noi è in alteratione, e successione, e che il dolce, amaro, nero, e bianco, derivino da un certo congresso che tengono li oggetti esterni con li nostri sensi, e che disciolto tal accopiamento, non rimanga fuori di noi esemplare di tal apprensione, e che non altro resti nel nostro animo che un tenue vestigio della prima impressione accadutaci. Oltre che il moltiplicare senza urgente necessità idee, stampe, tipi, e sugelli riesce insano partito, havendo la natura nelle sue operationi non meno il superfluo che il difettoso e manchevole schifatto et abhoritto. Né la terza guisa da me proposta rimane affatto esclusa dal nostro proponimento, poiché sovente esprimentiamo, che li sogni, delirii, e false opinioni si producono in noi senza l’esistentia d’alcun esterno oggetto. E siccome è mendace il ritrovarsi fuori di noi opefici di tali illusioni, così è vero insistere nel nostro interno tali rassembramenti, et apparenze, il che in altra maniera non può accadere, che per cagione di certa compositione e construtione di imagini che [60] in noi, e non nell’esterno, tengono le loro radici e propagini. Onde tali avenimenti ci rendono alquanto sospetto che alle fiate vigilando sognamo, e che ritrovandoci sani del corpo, deliramo con la mente, non tenendo tali apprensioni fondamenti reali fuori di noi ove si appoggiano e sostengono. In queste difficoltà si ritroviamo, o Socrate, illaqueati speculando l’ente, stimato da te a tal segno evidente, che lo giudicavi il vero et adequato oggetto della mente, e che

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    Asserire in continuo flusso e perciò ignoto

    Esser immobile secondo Parmenide, e perciò ignoto

    Instanza per l’immobilità dell’essere

    SIMONE LUZZATTO

    sotto la sua scorta il tutto se apprendesse e riconoscesse, eppure a tal flutuatione e perplesità siamo ridotti che dubbitamo della sua esistentia. A questo si aggiunge il parere d’Eraclito, Cratilo, e Protagora, che niegano all’ente la fermezza e stabilità, ma flussibile181 e successivo si lo rafigurano, non diverso dal tempo di esso misura, non dovendo, conforme il loro pensamento, il misurato di diversa conditione sortire, che la sua misura, siccome riesce anco impossibile che la grandezza d’una campagna con il semplice numero discretto182 si misuri. Per il che se il tempo, dell’ente misura, è flussibile, conviene che anco l’istesso ente, suo misurato, successivo sia. Ma se di lui, in qualunque instante della sua duratione, non si può affermare che piuttosto sia, che non sia, mentre che in continua alteratione e mutatione si trova, riesce complicato e mescolato con il non ente, e perciò di contraditione composto egli apparisce. Dal che parimente anco ne segue che di esso ente giammai compita cognitione non posiamo ottonerne, essendo interditto alle cose che in motto si ritrovono l’esatamente esser apprese, ché siccome sono in loro stesse fugitive, così anco scansano l’altrui comercio et esser appresi. Ma se Melisso e Parmenide ascoltare vogliamo, che il contrario affermano, nelle istesse ambagie ricademo, restandoci molto più l’essere ignoto se immobile e stabile lo supponiamo. E l’instanza, dedotta dalla consideratione del tempo a favore di Eraclito, punto non l’annoia, anzi [61] da quella prendono questi ansa di maggiormente confermare l’immobilità dell’ente, advertendo essi che la portione del tempo passato in quiete si ritrova come di già trascorsa. E la portione dell’avenire parimente, perché al motto non è per anco chiamata, in riposo se ne sta. Il presente anco in quanto egli è tale, non li conviene il motto, oltre che essendo egli estremo del passato et avenire, li conviene che immobile sia, siccome accaderebbe alle estremità di corpi, che solamente al motto di essi corpi si movono, non potendo questi esser stabili e quelle mobili. Ma se l’ente fermo et immobile si trova, siccome

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    alli primieri riusciva, conforme li fondamenti della loro positione, che l’ente ci fosse ignoto, così alli assertori della quiete et immobilità accade che ci rimanga sconosciuto, perché ritrovandosi secondo tal dogma quieto, riposato, immobile, tutto in se stesso raccolto, ritirato e sequestrato, perciò anco l’è prohibito il tenire con altrui famigliarità, alleanza et attività alcuna, né può in altrui fare di sé impressione e produrre imagine, onde ci riesce di novo incomprensibile et inattingibile. Stante l’antedette difficoltà circa l’ente incontrate, meravigliare non si dobbiamo, se alcuni di sapienti a tal partito s’indussero, di affatto sbandirlo dalli humani ragionamenti, et invece di pronontiare il corvo esser nero, il cigno bianco, il sole è corrente183, proferivano corvo negro, cigno bianco, e sole corrente. Et altri per ripatriarlo introdussero in sua compagnia il diverso, l’istesso, il moto, e la quiete, siccome d’uno hospite eleate184 intesi divisare, quasi che questi quattro generi, dall’esser diversi e distinti, fossero idonei ad operare in esso e qualificarlo. In tali mostruosità et assordi si riducono quelli, che sottilmente presero a ventilare e discuttere ciò che sia l’essere, stimato già da sé l’unico sole che apporta lume a tutti li altri intelligibili oggetti, ma quello che oltre di ciò non mediocremente offende il saper humano è, che a tali termini ridotoci circa [62] l’essere, ci resta impedito l’adito di oltrapassare a qualunque altra speculatione, essendo noi destituti della cognitione di cui è fondamento di tutte le cose mondane, e base di qualunque nostra speculazione”. Al che soggiunse io: “Non picciola portione di dottrina fu quella che in tal proposito circa l’ente divisando meco, apportato mi hai, ritrovandomi purgato l’animo di molte sciocchezze che sode e vere scientie per inanzi reputavo, non essendo meno giovevoli le medicine purgative a corpi infermi che li utili alimenti a sani”. Al che repigliò egli:

    Platone nel Sofista

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    SIMONE LUZZATTO

    “Volesse Iddio che ciò fosse avvenuto, ma dubbito che tutto il discorso teco consumato ci riesce perplesso e dubbioso”. E quale di ciò sia la cagione, l’interrogai. Rispose egli: “L’haverci noi per tutto il tratto del nostro ragionamento, ventilando e discuttendo l’essere, servitosi del verbo ‘è’ e ‘non è’, e che mentre indagavamo ciò che egli sia, come di cosa già conosciuta et appresa nelli nostri parlamenti l’adoperavamo. Per il che tal nostro favellare ci riesce simile al fuoco che distruge non meno se stesso che altrui”. E seguì egli:

    Persuasione di Gorgia fatta a Socrate per retentione del giudizio

    Socrate si dà all’otio

    “Non mi rimane per hora altro che amichevolmente avisarti, che ritrovandoci noi in tali roversciati meandri, et invilupati laberinti, restandoci smarita la via di proseguire et afferare la verità circa l’esistentia universale delle cose, che per l’avenire da qualunque resoluta assertione affermativa, over negativa ti astenghi, havendo ambe queste bisogno di tali dittioni ‘è’ ‘non è’, il che tu esequendo, probabilmente stimo presagire, che doppo lunghi contrasti et importune oppositioni, che da malevoli ti saranno intentate, riuscire devi per tal circonspetta modestia, e cautelosa ritrosità, non solamente appregiato da molti di tuoi coetanei e comendato185 dalla indifinente posterità, ma oltre modo grato186 alli dèi, che dalli tesori della sapienza, ad essi solamente riserbati, ti astenesti, e no ardisti porvi profana mano, né con sacrilega lingua osasti vanamente milantarti di possedere la sincera verità, che ad essi è appropriata”. Qui hebbe fine la [63] confe|renza che passò tra Gorgia e me, la quale gettò nel mio animo li primi fondamenti di quella retinenza di giuditio, tanto da miei adversarii calunniata, et al Vostro spettabile tribunale acramente hora accusata, ma dal sapientissimo Gorgia lodata e comendata. Hor dunque ritrovandomi dal ragionare di Gorgia in tal maniera affetto, e

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    disposto, essendo per allhora destituto dalla norma di sapienti, al mio fiaco e proprio sapere mi abbandonai, proponendomi nell’animo tralasciare affatto ogni speculatione, et ad un pigro otio e volontaria ignoranza mi condannai, persuadendomi a ciò la rimembranza de saggi documenti del prudente Gorgia, che a guisa di nuova, ma benigna Circe, con salutifero incantesmo in lenta testugine mi transformò, ché siccome questa, mentre che ristretta e raniciata nel suo teschio, e naturale armatura si riduce, dalle esterne offese si trova sicura, così, mentre che li miei giuditii nel recinto e continente delle proprie passioni si ristringessero, e che fuori de loro limiti non trabocassero né ad oggetti putatitii si affidassero, mi stimarei affatto cancellato187, di non attoppare188 et offendermi189 nelli diruppi delle falacie, e di non rendermi a me stesso deluso, et ad altrui ridicolo. E seppur il caso inavedutamente ad essi oggetti nel favellare mi facesse trapassare, con l’antidoto del ‘così mi si rappresenta’, e ‘rassembra’, coreggere et emendare tal ardito divagamento et inconsiderato passagio dovrei190. In tal stato di scioperatezza et inerte accidia mi tratteni alquanto di tempo. M’annoiato dalla otiosità et infastidito dalli stimoli del proprio genio191 e dall’oracolo finalmente admonito a non continovar in sì neghittoso stato di vita, admonendomi che ad ogni modo dovessi in me stesso discendere, facendomi a me medesimo teatro, intrapresi finalmente di penetrare con il discorso nelli più interni miei recessi, e con ogni maggior diligenza et esatezza intrapresi di esatamente scandalgiarmi, reputando tal speculatione non men nobile di quella che per inanzi circa [64] og|getti esterni esercitai, ché se l’universo è di intelligenza dottato, come li pitagorici asseriscono, non havendo fuor di sé che osservare e scorgere, ad altro per il certo non s’impiega che alla contemplatione di se medesimo. Da tali motivi dunque persuaso, essendo di già da oggetti spicato, rivocai li vaganti miei pensieri alla interna speculatione di me stesso. Nel primo adito192 che a tal inchiesta mi s’apparì, furno li sensi esterni, circa quali primieramente presi ad esaminare, se bastevoli siano a raguagliarci di tutte l’emergentie che al di fuori di noi accadono. Osservai che cinque sono stimati dal comune delli homini tali sensi, la vista, udito, odorato, gusto, e tatto, ma

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    Dubbio circa il numero di sensi

    Avvenimento occorso con Critone cieco che negasse il senso della virtù

    SIMONE LUZZATTO

    che questi solamente ad avisarci di tutte le conditioni e visaggi delle cose a noi esterne fossero sofficienti, molto ne dubbitai. E ridicoli affatto giudicai coloro che arditamente pretendono evincere tal quinario dal numero de generi di sensibili, quasi che questi per altra via e mezo che da sensi, ci si rendano conosciuti e manifesti et altre fiate poi, divenuti obliviosi193 della loro propria dottrina, deducono vicendevolmente il numero di sensibili da quello de sensi. Ma lasciando la di costoro instanza e fievola argomentatione, stimai che tenisse molto194 dell’ardito l’affermare che li antenominati cinque sensi fossero soficienti ad avisarci tutte le condizioni delle cose esterne, e perché noi non ci possiamo formalizare delli altri sensibili a noi occulti, né delle maniere di sensi di quali si ritroviamo privi, tuttavia temerariamente si arisichiamo di affermare la loro impossibiltà. Mi accrebbe gagliardamente il sospetto l’avenimento occorsomi con Critone di nascita cieco, ma di intelletto molto erudito, ché ritrovandomi seco, in compagnia de alcuni comuni amici, furno raccontati alcuni mirabili spettacoli che Pericle al popolo già alcuni mesi rappresentò. Da che fu preso occasione di favellare della eccellenza della vista che sopra tutti li altri sentimenti prestante [65] fosse, sugerendoci piaceri sinceri, non come li altri, sempre con dolori mescolati, e che alla loro riuscita nocumenti ci apportano, oltre che estendendosi essa vista ad oggetti lontanissimi, ci arreca egregie dottrine. Ma dubitando io che Critone da tal discorso prendesse alcuna noia, ritrovandosi egli di lume destitutto, attentai di consolarlo con dirli che altro tanto che la natura li si mostrò poco amica in renderlo cieco, il proprio genio li riuscì favorevole, con eccitarlo al studio della sapienza, ché tanto trapassa il diletto che da questa si trahe, quanto che il piacere della vista supera le altre volutà del corpo. Ma egli soridendo replicò, che non occorreva che io prendessi briga a sedare il suo animo, reputando egli l’antedetta narratione de spettacoli, come tutto ciò che circa la vista fu da noi ragionato, favoloso racconto e chimerico discorso, e che ciò da noi per altro non fosse stato introdutto, che per attentare la sua credulità, et esprimentare se nella filosofia profitato havesse, ma ch’egli non era tanto ignaro, et imperito, che non riconoscesse quanto di assordo e disonante alla filosofia apportasse l’admissione di tal incredibile senso.

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    “Qual comunicanza”, diceva egli, “può esservi tra l’occhio e le stelle che, come favolegiate, per quasi immenso intervallo si trovano distanti, se è vero che qualunque sensatione, come si tiene comunemente, per mezo del contatto del sensibile et organo sensitivo si eseguisce? Ma forsi dall’occhio, come alcuni per rendermi alquanto più probabile tal loro menzogna mi affermano, escono alcuni raggi visivi, e con incomprensibile celerità all’oggetto remotissimo slanciandosi l’incontrano e l’afferano? Ma qual è colui nel numero delli homini così insano, che credesse che dall’occhio di così angusto recinto et ambito, sortiscano tali raggi, che insino alle stelle fisse giongono? Ove è nell’occhio tanta copia di materia, benché tenuissima, che soministrare possa effluvio tale? Qual vigore et energia nell’occhio si trova, che soficiente [66] sia ad eiaculare per tanto tratto di spatio e massime materia così sottile e lieve non obediente alla proiettione? Qual languidezza e fiachezza nell’organo visivo esprimentarissimo doppo tale evacuatione? Ma concesso tutto ciò, in qual maniera permettere si può, che fuori di noi per tanta lontananza si eseguisca la sensatione? E che li raggi visivi siano de vita e sentimento dottati, mentre che passando per regioni algenti195, overo ferventi, non sentano dolore alcuno? E che interrotti e divisi non patiscono alcuna tormentosa passione? Per il certo ciò trapassa tutte le meraviglie. Né meno mi si rende ridicola l’altra esplicatione da alcuni amici narratami, che dall’oggetto esterno visibile egualmente verso tutte le sue circonstantie a quali si affacia siano difuse alcune lievi imagini, onde incontrandosi tali tenui simulacri nell’organo visivo e facendo in esso certa impressione, resulti la visione e scorgimento del visibile ogetto. Ma qual maggiore poetica fintione et impersuasibile assordo si può imaginare, che d’incredulità196 tal dogma superi? E per il certo stimo che ciò fu inventato ad onta dell’humana credulità, et insana sua semplicità. Sono queste imagini corporali over piuttosto immateriali? Se corporali, ove abbonda nelli ogetti tanta quantità di spoglie che continuamente si

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    diffondono et insino a lochi remotissimi l’inviano? Ma se essi oggetti sono immobili, con qual forza per linea retta insino alli occhi le sospingono? Qual sarebbe l’evidente detrimento che in essi oggetti si scorgerebbe per una tal continua et incessabile evacuatione? In che maniera, essendo questi imagini corporali e sovente l’una con l’altra incontrandosi, et insieme accozandosi, non restano impediti li loro digressi197 e viagiamenti? E per qual cagione tali198 simulacri dalli occhi non sono appresi, ma invece di essi li oggetti che li producono , tenendo quelli non meno di questi facoltà di movere et imprimere l’organo sensitivo? E chi crederebbe che ritratto facesse apparire il suo originale [67] rimanendo egli occulto et invisibile? Come trapassano dall’oggetto all’occhio tali imagini? E benché l’aria fosse da impetuosi venti infestata, con tutto ciò lunga serie di simulacri non è disturbata et interotta, et all’occhio ordinatamente giunge e s’insinua? Nell’istesso punto de aria nel medesimo tempo s’incontrano diverse imagini di contraria natura come il nero e bianco, l’obliquo e retto, e senza alcuna repugnanza e loro diformità felicemente arrivano a lochi che da loro progenitori oggetti sono destinati et inviati. Ma chi admettarebbe ben anco che il limitare della filosofia non fosse trapassato che li contrarii nell’istesso soggetto e nel medesimo instante di tempo, insieme sogiornare potessero? Ma oltre di ciò chi non osserva altro e notabile inconveniente, cioè che l’imagine che dall’oggetto si dipartisce, et all’occhio s’incamina, produrre dovrebbe in lui diversa figura di quella che nell’oggetto si ritrova? Esprimentando noi che le prominentie del sugello nella cera impresse divengono cavità, come per il contrario le profondità di quello riescono in questa risalti e rilievi, il che per apunto circa l’impressione dell’imagini che sognano l’autori di tal openione accadere dovrebbe. Ma se tali simulacri over specii, come essi li appellano, sono immateriali, per la qual positione stimano sfugire molte di dette oppositioni, in che maniera ci si rendarà persuasibile che oggetto affatto corporale produca effetti

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    spirituali et immateriali? Tanto più de esso oggetto nobili et egregi? Ma in che modo tali imagini riuscirano rappresentatrici al vero di oggetti materiali tanto da essi diverse di conditione, e natura199? Né però scansano et evitano tali autori, con l’immaterialità d’imagini da essi introdotta, molte delle oppositioni da me contra l’assertori di simulacri corporali intentate, non essendo permesso a qualunque ente, sia corporale over immateriale, si esimerà e liberarà da qual decreto inviolabile dalla necessità constituito200, che li contrari nell’istesso [68] sogget|to, nel medesimo tempo stantiare non possono, non tenendo in ciò alcuno spetiale privilegio l’immateriale sopra il corporale che possa in sé tal complicatione di contrarii admettere. E tale contrarietà non solamente nell’aria esterna accade, ma nel tempo della visione, nell’occhio l’istesso assordo avienne, concorrendo nel medesimo punto, et apice del cono visibile la rafiguratione e rappresentatione di quanto nel vasto hemispero si contiene, onde conforme tale positione, converebbe che raccolta in tal punto vi fosse faragine innumerabile di colori, benché contrarii, et infinite e diversissime figure, mandate da varii oggetti in diferenti lochi esistenti che in sì amplo tratto sono contenute. Ma di più mi espongono li assertori di simulacri, tanto materiali come immateriali, in qual maniera si riconosce la grandezza dell’oggetto, se l’imagine che lo rappresenta è così minima che trapassa in picciolezza l’acume201 del cupide del cono visibile? In qual modo apprende l’occhio la distantia dell’oggetto, se lui non è impresso dall’oggetto distante e lontano, ma invece di esso dalla sua imagine, tangente l’istesso organo? In qual guisa s’accorge l’occhio della situatione dell’oggetto se il simulacro è in lui medesimo intruso? Il ricorrere a linee e triangoli, che si fanno in detto cono, et a deduttioni matematiche per mezo de quali si informiamo della grandezza, distantia, sito dell’oggetto trascende la capacità dell’organo materiale del senso, e ripugna parimente alla tardità del discorso intelletuale, che non poco di tempo consuma e dispende nel formare

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    tali teoremi e raccoglierne conclusioni che di ciò instruire lo possa. Tanto più ciò riesce incredibile che anco li fanciullini e bruti202 privi di discorso, del sito e grandezza dell’oggetto sono informati, il che esclude tali machinationi e dedottioni geomatriche203. E siccome li apportatori di tali menzogne ridicoli mi appariscono, così quelli che attentano de calcare certa mediocre via non si trovano meno ancor essi da critica, e rigorosa [69] cen|sura vessati, e travagliati. Questi per evitare l’oppositioni che accadono alli antedetti, tanto quelli che asseriscono, che l’imagini da oggetti all’occhio inviati siano, come quelli che introducono l’eiaculatione di raggi visivi, nuovo figmento inventarno: cioè che tali raggi visivi si uniscono e complicono con il lume esterno, contrahendo con esso certa famigliarità, et allianza, che poi, fatto tal congresso e compositione, giungono insino all’oggetto e ci informano della qualità di essi oggetti esterni visibili 204. E per il vero né anco ciò poté atrahere il mio assenso, anzi che stimando io non solamente tal dogma soccombere a quasi tutte l’oppositioni antedette, ma di più anco parmi esposto ad altre e nuove dificoltà. Qual può essere tal subitaneo comercio e comunicanza, che li raggi visivi con il lume esterno conseguiscono, ritrovandosi di genere tanto diverso, l’uni sensitivi e visivi, e l’altro affatto privo di vita? Influiscono205 quelli al lume il sentimento, over resta egli nella primiera conditione, e qualità insensato? S’eseguisce la sensatione circa il contatto dell’oggetto con il prolungato raggio, overo nella continuatione, e congiuntione del raggio visivo con il lume esterno o piuttosto nell’istesso occhio? Ché se nel primo modo, repugna a ciò l’assordità che segue nell’admettere fuor di noi in parte tanto lontano la sensatione, e massime per mezo del lume per se stesso privo de sentimento. E nella seconda maniera, ci contrasta di più la disgiuntione del oggetto dal raggio visivo. Nella terza guisa, ci s’oppone la celerità della sensatione che non permette tante subitanee attioni cioè l’effusione di raggi, l’accoppiamento con il lume esterno,

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    il progresso all’ogetto, et ultimamente il regresso insino alli portioni interni di noi. Da questi e da altri motivi che addurre potrei rimango certissimo, che tutto quello circa la visione narrato m’havete sia piuttosto [70] giochevole tentativo e burlevole scherzo, che seria instruttione e vero racconto. Anzi debbo stimare che tal narratione fra la nenie puerili, et annili206 deliramenti annoverare si convenga”. Questo ragionare di Critone, tanto constante e contumace contra la visione, instillò nel mio animo non lieve sospetto, che siccome ad esso riusciva come che impossibile che si ritrovasse nel catalogo delle cose il senso della vista, uno de’ più egregi che noi possediamo, così anco potrebbe avenire, che nel vasto ambito della possibilità potrebbonsi rinvenire molte altre maniere di sentimenti, benché noi alcuna contezza de esse non ottenimo. Et a ciò persuadermi non mancarono altri probabili inditii: vi sono alcuni vili animali che tanto al di sopra di noi sono dotatti di egregio sentimento che si potrebbe affermare che da nostri i loro siano affatto diversi. Il cane con l’odorato riconosce l’amico dall’alieno, e non meno si serve di quello in viaggiare, che noi del discorso in dirigere il nostro camino, il che accade anco a tutti quasi li generi di pesci et uccelli che trapassando ampi mari, al destinato loco senza alcun errore pervengono, benché destituti siano di adminicoli di quadranti, magneti e mappe hegrafiche overo idrografiche207, li quali animali, essendo da noi stimati privi di ragione e discorso, ci conviene confessare che per il mezo di alcun senso materiale ciò eseguiscono. Non vi mancorno alcuni filosofi, fra quali fu Empedocle celebre per sapienza et eruditione poetica, che asseriscono, che le piante siano di senso dotatte, benché del nostro assai diverso, e perciò a noi affatto ancora incomprensibile. Il che si conforma al racconto d’alcuni che all’atlantide regioni hanno navigato, che ci referiscono colà ritrovarsi alcuni arbori, le cui foglie benché spicate dal ramo, conservano per certo tempo vitale risentimento da se stessi movendosi, e compresse si ritirano. Ma quello che ci apporta maggior meraviglia, e mi persuade a tal credenza [71] l’osser|vare le stupende qualità della magnete, hormai divenuta maestra d’una nuova e sensibile filosofia. Questa pietra, benché in apparenza si

    Raccoglimento di Socrate dal ragionare di Critone circa il numero di sensi

    Eccelenza di sensi di animali bruti

    Piante ornate del sentimento

    Magnete: tiene anima sensitiva

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    SIMONE LUZZATTO

    mostra inanimatta, nondimeno advertendosi li suoi instinti et inclinationi ci significa che di anima ornata sia, ché perciò dal sapiente Talete nella classe di animali li arrolò208. Essa, a guisa de viventi, atrahe dall’alito del ferro il suo nutrimento, e perciò lo desidera et a sé lo congiunge. Non li manca facoltà generativa, comunicando la sua virtù sì attratrice come versoria209 all’amico ferro. Possiede anco virtù progressiva come li altri animali, il che ci manifesta il girarsi da per sé al polo terrestre, suo famigliare amico. Non è priva de stimoli d’amore verso la sua patria attentando quando è posta in libertà, il ritornare a quella situatione che ottenne nella sua minera210, né parimente è destitutta di risentimento di odio abhorrendo il polo magnetico settentrionale, il polo settentrionale d’altra magnete ad esso simile, ma per il contrario admette ne’ suoi amplessi il contrario meridionale, al pari de’ inamorati rivali che, al medesimo oggetto aspirando, professano fra loro aperta nemistà, et odio, dirimendo di più con tale attione questione acramente altercata fra sapienti, cioè se l’amore fra simili over dissimili si ritrova, adherendo essa magnete al parere del tragico poeta Euripide, che fra dissimili lo constituisce. Ma non si dimostra tal pietra solamente sensitiva, ma in certo modo anco alquanto contemplativa e discorsiva, né affatto imperita di matematica scienza apparisce, sapendo da se stessa advertire la positura del polo terrestre, girandosi horizontalmente verso quella volta. Ma di più in ogni regione anco sa rivenire, e dimostrare l’elevatione del polo declinando il suo polo magnetico211 dal proprio horizonte, tanto quanto che il polo mondano si inalza sopra il terrestre horizonte, ritrovando anco con mirabile agevolezza la linea meridiana in qualunque [72] re|gione essa sia posta. Le quali cose eccelente matematico, privo d’instrumenti e non aiutato da reiterate osservationi, trovare non li è permesso. Lasciamo la proportione della eiaculatione di suoi effluvii, ché la mente humana appena ne rimane capace. Ma per adempire tutti li caratteri che ad animale attengono, a guisa di quello invechiandosi, alla morte si conduce, essendosi esalato quel spirito vitale autore di tante sue pregiate virtù et egregie operationi, rimanendo perciò cadaveroso sasso, il che parimente li accade quando gettata nel fuoco, quasi che come

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    da morte violente assalita, l’è consumata dal fuoco lo spirito che sostiene la sua facoltà vitale. Ma quale sia la qualità del suo sentimento e quanto avanza in perfettione a quello delli altri animali, ché perciò introdussi il presente ragionamento, da due insigni proprietà si può agevolmente comprendere, l’una che per tanta distanza quanta s’interpone tra noi et il polo artico terrestre, si risente delli amichevoli incentivi che dal polo ad essa famigliare li sono cagionati, ché perciò a conformare et aggiustarsi ad una medesima positura con esso la richiamano. L’altra egregia conditione di tal sentimento è, che di tanto resvigliato accorgimento si trova dottata, che niuno ostacolo per massicio e sodo che sia, può impedire che non si risenta della approssimatione del ferro, over altro polo magnetico ad essa amico overo adversario, in maniera che immediate212 non eseguisca la sua atrattione over verticità, ché se non fosse repugnante al principal axioma della filosofia naturale, che sentimento non si può eseguire senza il tatto del sensibile con lo sensitivo213, ardirei affermare che senza d’esso contatto né anco spirituale, esercitasse tali suoi risentimenti. Dalle antedette osservationi mi son imbevuto credenza tale, che nell’ambito e continentia della natura fosse possibile ritrovarsi varie maniere di sensi, non solamente diferentissime delle nostre, ma anco di più esatta [73] conditione, riuscendomi perciò anco per altro verso assai agevole lo stimare che caduno di oggetti possa possedere molti et infiniti visaggi e qualità, conforme il congresso e relatione che con diverse et innumerabili varie constitutioni di sensi potesse incontrare, sortendo diverse le apparenze della istessa cosa, conforme le diferenti dispositioni di organi sensitivi, variandosi quella per la diferente temperie, configuratione, compositione, e situatione di organi sensitivi. E siccome il cubito paragonandolo alle sue portioni, che infiniti sono, sortisce in maniere innumerabili di proportioni e simetrie, così li oggetti esterni acquistano diverse apparenti conditioni, per le varie applicationi che con sensi diversi si abbatono, conforme appunto come occore a specchi, che sebbene li oggetti che dirimpetto li asistono rimangono inalterati, tuttavia cangiandosi li specchi in concavi, convessi,

    Conclude la possibilità di altri sensi

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    Ragionando di un specchio in dimostrare l’eccellenza de sensi humani

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    collonari214, conici et altri diferenti maniere, parimente si disguisa e varia l’apparenza di tali oggetti. Ma che occorre a spechi ridursi per ciò evincere? Il lume esterno alli animali comunemente vehicolo di colori, accieca la nottola, e la tenebre l’arreca la vista, e l’esperienza quotidiana parimente nelli altri sensi non altrimente ci dimostra, osservandosi che l’assintio incontrando nel nostro palato, rassembra amarissimo, et ad altri animali di giocondo gusto, il sale ci offende, et alle pecore riesce di somma delitie, come per il contrario il zucaro a noi tanto saporito, ad essi non punto aggradevole, li escrementi e le carogne da noi in estremo abhoriti, al cane, benché di esquisito odorato, non offensivi, per il contrario il muschio, zibetto215 et ambra, a noi tanto fragranti e così dilettevoli, ad esso non piacevoli, la musica, sopra modo alettatrice del nostro orecchio, alla lepre che trapassa qualunque altro animale nell’udito, non osservabile, ma pure la tarantola vilissimo insetto, per quello si racconta, senza instruttione di maestro et esercitio di alcuna disciplina dilettevole, [74] e la melodia et harmonia della voce aggrada. Per il che sovente mi diedi a dubbitare che siccome accade a cibi, che quelli che per loro natura sono insipidi, agevolmente ricevono tutti li sapori, e li panni che sono privi per se stessi di qualunque colore, indiferentemente di tutti facilmente si tingono, e noi, mentre che dell’amore di alcuno non siamo di già sorpresi, verso tutti egualmente ci mostriamo essere bene inclinati. L’istesso anco giudico al nostro proposito, che quell’oggetto che tutto può rassembrare, niuna cosa realmente è di quelle che dimostra et apparisce essere. Per il che stimai che li oggetti esterni potendo in modi infiniti rappresentarsi, niuna apparenza che in essi si scorge essentialmenete sia216. Hora dunque havendo io tali divisamenti sovente con li amici comunicati, avenne, che una fiatta ne feci di ciò ragionamento nella officina d’un maestro di specchi, che stimando io che alla sua arte abbadasse, improvvisamente in tal maniera verso di me pigliò a dire: “Non poca ingiuria verso te li tuoi calunniatori, o Socrate, comettono in riprenderti che invece di versare fra libri, e praticare nelle scuole di filosofi, per le officine di artefici divaghi, e che sempre con il comune d’idioti

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    conversi, poiché le vere e sode scientie dalla esperienza tragono i loro natali. Noi artefici siamo le loro ostetrici, e voi filosofi siate poi li aii217 et educatori. Et al contrario di quello accade al nascimento delli homini, occorre alla produttione della sapienza: quelli, non riconoscendo i loro padri, come del volgo figliuoli sono infami stimati, ma questa, non le conviene riconoscere alcuno autore spetiale, et appropriato, ma da qual si sia genere d’homini deve derivare la sua origine, cioè riportarne instruttioni e documenti, onde prole del comune decentemente appellare si deve, non ritrovandosi homo così inetto, che in alcuno particolare non avanzi e prevaglia ad altrui, benché per altro egregio et eccellente sia. Onde per hora, amico [75] Socrate, in ciò che io ti son per conferire non tenire a sdegno se io presuma, che discepolo mi divenghi, poiché non al di sopra della mia professione io sono per ragionarti, né stimo incontrar in quel volgare rimprovero, che il calzolaio oltre la scarpa non deve altrui emendare. È verissimo, come divisasti, che per la varia configuratione di specchi e corpi politi, diversificandosi la riflessione e ribatimento dell’imagini over raggi visivi, sia come si voglia, si suole variare l’apparenza delli aspetti circa la figura, numero, distantia, sito delli oggetti visibili, ma tuttavia in fra questi specchi vi si trova il piano, che al naturale rappresenta l’imagine dell’oggetto, aggiustandosi con lui in tutte le sue vere germane conditioni et attinentie. E siccome infiniti sono le spetii di specchi curvi, et irregulari, così unica è quella de’ piani. Per il che stimarei che il simile accada circa le sensationi, ché havendo la miglior natura impiegato ogni sua cura nel formare e constituire l’homo, havendoci posto nel mezo dell’universo soli inspettori delle sue bellezze, ragionevolmente perciò credere si deve, che ci habbia proveduto di facoltà et organi tanto esatti et egregi, che a guisa di specchi piani ci riferiscono sinceramente le vere qualità delle cose esterne, e che li organi sensitivi che nelli animali bruti che diversi da quelli del nostro genere osserviamo, si rassomigliano a specchi curvi, distorti, et

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    irregolari”. Risposta di Socrate al spechiaio

    Tre ragioni per la debolezza de’sensi addotte da Socrate

    Al che replicai: “In quanto alla peritia che tieni della tua professione ti stimo al di sopra di molti filosofi, che essendo professori delle sette più nobili arti, cotanto si affanano per mantenersi, e sovenirsi218 e tu, con una solamente, honorevolmente sostenti la tua numerosa famiglia. Ma circa quello appartiene al presente trattato, non voglio contendere se hai trapassato i limiti dell’arte specularia219, ma ben diroti che hai supposto molti dogmi per verissimi, che per anco al giudice sogiaciono, e di gravi contese sono vessati, et a guisa di degenere gallo anticipatemente contra di me hai la vittoria cantato. E giudico per [76] il certo, che senza l’havere fatto conferenza tra li altri animali et il nostro genere hai donato la palma a’ sensi humani, non essendoti sovenuto il tatto del ragno, il gusto delli uccelli, l’odorato del cane, l’udito della lepre, e la vista dell’aquila e linceo220 e soprattutto l’acre sentimento della magnete, onde con precipitato giuditio, e con lubrica221 partialità, sententiasti circa li sensi a favore nostro. Né mi move molto l’instanza da te dedotta dalla egregia dispositione o attitudine che tenimo circa le speculazioni propria fontione dalla mente, con che concludere tentasti la perfettione de nostri esterni sensi, perché ciò facilmente scansare si potrebbe in più maniere. Primieramente, che da quella provida causa raggente del tutto, fu scarsegiato all’homo la perfettione di sensi esterni e rintuzzato il loro vigore riducendoli al di sotto delli animali bruti, acciocché maggiormente con sensi interni s’essercitassimo per suplire alla difalta di esterni. Overo piuttosto vogliamo dire, a fine che non fosse impedito e deviato l’intelletto dalla contemplatione, divagando dietro oggetti sensibili alieni a tal esercitio, havendo l’opefice universale praticato con noi quello sogliono usare li strucieri222 con loro predatori falconi, cioè l’atturarli li occhi, acciocché la vista loro non si distraga, così a noi l’opefice del tutto ci rese ottusi li sensi corporali esterni, acciocché l’interni da quelli non siano

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    distratti, e che per causa di essi non stiamo in continua agitatione. E non vi mancò nell’ordine di noi filosofi che volontariamente si acciecasse223, per potere meglio con la mente alla speculatione applicarsi, e da tal discorso parimente si mossero alcuni di sapienti a sospettare, benché ciò a mio giuditio sia falso, che a molti di animali brutti non li manchi la facultà del discorere, ma che da essi non fosse esercitata per la perfettione de lor sensi esterni, supplendo questi con più agevolezza e celerità a loro bisogni, di quello li riuscirebbe servendosi della discorsiva facultà, pigra stentata e sovente fallace [77] nelli suoi impieghi, alla quale, secondo essi, l’homo per necessità riccorre, per il mancamento et imperfettione di sensi esterni. In ristretto dicoti, che la natura che tanto si diletò della varietà del suo operare, volse che alcuni animali valessero in una spetie di sentimento, et altri in diversa: a noi sortì l’eccellenza de’ sensi interiori, alli altri l’esquisitezza d’esteriori. Oltre di ciò si potrebbe in altra maniera occorrere a tal tuo224 argomento, che ritrovandosi la nostra temperatura tanto delicata et alterabile, e li nostri spiriti così tenui e passibili, che se li sensi esterni fossero maggiormente apprensivi, over più numerosi, saressimo fuor di modo soggetti alle perturbationi dell’animo, et a fieri assalti di horribili invasioni esposti, aprendosi l’adito per mezo di oltre modo apprensivi sensi alli oggetti esterni ad affatto occupare, et opprimere il nostro animo. Ma, amico artefice, ciò teco hora devisai conforme la tua, mia, e comune openione, che l’homo fra tutti li altri animali sia appo il sommo opefice delle cose il più favorito, havendolo voluto colmare di tutte quelle gratie che lo formò disposto e capace a ricevere. Ma quelli che a parere contrario s’appigliano, e benché rustici, e fieri verso il loro genere appariscono, poco di ciò si curano, e temerariamente asseriscono esser li homini non solamente nulla al di sopra delli altri animali, ma che in alcuna parte ad essi siano inferiori, essendo et a pericoli, e necessità del corpo al di sopra di essi sottoposti et apparati, et in

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    quanto a vessationi et infestamenti dell’animo assai più di quelli turbati e sconvolti. Né punto a questi tali, di noi spregiatori, li move l’esercitio dell’humano intelletto circa li più astrusi et occulti oggetti, ché anzi da ciò prendono occasione di calunniare tal vano impiego stimando essi, che havendocili la natura nascosto, perciò conieturare si deve, che l’applicarsi ad apprenderli derivi dalla nostra depravata non naturale incombenza, a cui non siamo dalla natura chiamati, havendoci essa con facilità [78] e liberalmente offerto quello stimò a noi, sua prole, necessario e giovevole. Onde perciò questi ingiuriosi al loro proprio genere, né anco il pane et altri elaborati cibi stimano che a noi siano assolutamente proprii e naturali, per il che non mancano d’attentare con loro discorsi di ridurci alle antiche giande, et alla semplice acqua, che senza nostro stento copiosamente già una fiatta, come dicono essi, con sanità e satietà di vita ci nutrivano. Onde li medesimi, tornando al proposito, stimano, che le dottrine ci siano faticose e ponderose sarcine, che c’incurvano l’animo, e sovente ci accrociano225 la vita. Onde li autori di tal dogma punto non li calerebbe di tue instanze, ma agevolmente permetterebbero, che li nostri sensi esterni, e l’istesso stimo che temerariamente affermarebbero della humana mente, che fossero a guisa di quelli spechi curvi, et irregolari che stravolgono l’imagini et apparenze di oggetti, havendosi così compiaciuto la natura scherzare con li homini, con farli travedere226, siccome noi ci pigliamo diletto di formare tali spechi per defrodare227 la vista de più creduli e semplici. E se benché tal parere, come di già ti accennai, sia alieno dell’intendimento del comune delli homini, tuttavia la sua assordità non riesce tale, che subito appreso, da se stesso si regetti et abbati, simile a quelle propositioni, che essendo repugnanti a primi principii, rimangono immediate per la propria et interna loro contradittione reprobate, come che la parte sia eguale over maggior del tutto, et altre simili. Ma ad eliminare l’antedetta openione ci converebbe servirci di copia d’argomenti et

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    evidenze de esperienze, dedotti da sensi, et apprensioni dell’intelletto. Per il che ci bisognarebbe, mentre che li autori di tal parere ci contendono la sufficienza di nostri sentimenti et interno intendimento, di questi servirsene per regettar il loro parere e supporre per certo, quello per anco sta in litigio. Onde la reiettione di tal falso parere in gran parte da divini oracoli dipende”. [79] Inteso ciò il maestro speculaio, a strisciare et appianare suoi spechi si applicò, et io tralasciando in disparte l’indagare se possibile sia il ritrovarsi maggior numero di sentimenti e spetii di sensibili, mi rivolsi ad esaminare ciò che sia l’istesso sentimento, e qual certezza promettere ci potiamo de’ raguagli che ci apportano essi sensi circa le conditioni et avenimenti di oggetti esterni. Nell’ingresso di tal incombenza, mi sovenne la difficoltà che nel principio, quando ricercando ciò che fosse sapere, mi si attraversò, che siccome allhora mi riusciva quasi impossibile, che si potesse admettere sapere di sapere, in tal guisa parimente mi s’appariva malagevole il riconoscere ciò che sia sentire, sortendomi come che impossibile che simili relationi, e raportamenti l’uno l’altro apprendere potesse, come già fu devisato. Ma nondimeno deliberai per alhora scansare tal ostacolo, poiché mi prohibiva il progredire l’intrapreso esame, e per tanto mi resi affatto conivente a questo assordo. Ma non sì tosto che ciò scansai, risorse nel mio animo altra dificoltà circa li nostri sentimenti che ritardò il mio discorso. E ciò fu che mi ramentò certo avenimento occorsemi con Democrito, mentre egli appo noi dimorò, ritrovandosi esso allhora di età assai provetta, et io per anco alquanto giovane. Questo prestante homo, come bene stimo esservi noto, fu nella scientia naturale oltre modo versato, non solamente per l’esercitio dell’intelletto, ma per una accurata esperienza che molti anni haveva praticato, ma quello che mi lo rendeva più mirabile fu una certa franchezza di animo che teniva, non solamente in sopportare li travagli humani, ma anco in patientare li dolori del corpo, e sebbene che giunto alla decrepità fosse, nondimeno sempre giolivo e ridente appariva. Ma io fui più curioso di sapere la cagione di tale sua constanza e tranquilità, che di aricchirmi di qualsivoglia sua altra pregiata dottrina. Onde, ritrovandolo una fiatta con Anasagora che divisava

    S’applica Socrate a considerare ciò che sia l’istesso senso

    Racconta avenimento occorso con Democrito

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    della cagione della immobilità della terra, [80] che essendo nel centro dell’universo sospesa e pendola, dal rapidissimo motto et agitatione di cieli, et aria circonvicina non sia smossa e sconvolta, e massime incontrandosi nelle prominentie de monti228, e rendendo di ciò ognuno di questi certa ragione, dall’altro diversa, io, volgendomi verso a Democrito, in tal guisa li favellai:

    Socrate ricerca Democrito della causa del suo animo

    “Non della constanza e fermezza della terra io prendo meraviglia, giudicando che come corpo pesante e pigro nel loco ove si ritrova facilmente si posi, e per la sua semplice materialità si renda renitente all’altrui scosse et impulsi, ma ben mi stupisco che il tuo animo per se stesso di natura tanto flessibile e mobile, a colpi e vessationi della fortuna rimanga imperturbato e persista constante e fermo, e che con continuata allegria229 sempre perseveri, il che certo in homo sapientissimo, qual stimo che sei, non deve da sciocchezza e stupidità ciò risultare”. Rispose egli: “Se tu, Socrate, con accurata deligenza havessi praticato li principii della mia dottrina circa le cose naturali, agevolmente penetrato haresti, d’onde si origina in me tanta stabilità e fermezza di spirito, trascurando io perciò tutte le offese che la fortuna imprendere contra di me attentasse”. Replicai [che]: “Molto celebri sono li tuoi dogmi circa il primordio delle cose, ma [che] giammai non saprei da ciò dedurne nelli travagli e dolori imperturbatione d’animo, et insensibilità, se però non fosse che l’occuparsi la tua mente in tal dottrina la divertisce dal risentimento di humani incommodi, oppur anco talmente è grande il diletto, che prende in rinvenire proprie, e vere cagioni di mirabili effetti della natura, che ricompensa di gran lunga a qualunque altro dolore et angoscia che il tuo animo infestasse. E tanto più si accresce in te il piacere, essendone celebrato autore di tal mirabile dottrina, ruminando in te stesso l’applauso universale che sei per

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    conseguire da sapienti del secolo presente, ingiuntatovi230 la ferma speranza che tieni di raccomandare la fama della tua virtù alla indifinente e ventura posterità”. A ciò [81] soggiunse egli [che]: “Anzi, il riconoscere le vere cause de mondani eventi sugerisce piuttosto noia e vessatione di mente, che diletto e piacere, rappresentandosi all’intelletto l’inesorabile fatalità che il tutto regge, over lo stolido et assordito231 caso, che li affari humani sossopra rivolge, riconoscendosi perciò non potersi apportare alcuno facile e salutare rimedio per impedire tal precipitoso et inevitabile corso, onde li volgari, ingannati dalla propria inscitia, e lusingati da folle speranza, con molti agevoli e poco dispendiosi mezi stimano scansare l’incontro di venturi mali, e procaciarsi facilmente li beni. E di più anco non sono offesi dall’angore232, che suole arrecare la prescientia de mali, per il che non li patiscono se non quando effetivamente sono da essi assaliti et invasi. Né l’acclamatione del secolo futuro punto mi raconsola, antivedendo io che mancando con la vita, il patrocinio delle mie dottrine, che hora con qualche diligenza la loro stima e credito sostengo, devineranno un giorno alla gente ventura ridicole favole, et anili delirii, non essendo le dottrine meno che l’altre cose mondane esposte a colpi della inconsiderata fortuna, e variante caso. Oltre che, le dicerie che di me doppo la morte saranno decantate, riuscirano a me inattinenti come, che se inanzi il mio nascimento fossero state divolgate e celebrate, che allhora sentimento alcuno di esse non ne teniva. Ma233 la tranquilità e quiete, che scorgi nel mio animo, deriva piuttosto da peculiare proprietà che hanno li miei dogmi, circa li primi essordii delle cose da me promolgati, cioè che havendo io molto tempo invigilato in ritrovare principii tali dell’universo, che sofficienti fossero per conservare la di lui incolumità e fermezza, alla fine capitai a tali principii che da niuno disastro de strano accidente si potessero depravare, et alterare. Questi furono li atomi, et il vacuo. Li primi essendo incapaci della

    La scientia sugerisce dolore

    Espone Democrito la cagione della sua allegria

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    divisione, perciò inalterabili et impassibili li stimai. Il secondo per sua natura affatto imperturbabile lo giudicai [82] ritrovandosi egli di ogni essenza privo, e perciò non soggetto alle alterationi e variationi, a guisa di meschino, che non havendo che perdere, s’esime delle ingiurie di furatori234. Questi, dico li atomi et il vacuo, in varie guise mescolandosi, producono infinite configurationi, condizioni e qualità di cose, l’uni le rendono sode e vigorose, e l’altro permeabili, e che con amichevoli congressi, tenessero insieme comercio e famigliarità235. Oltre che il moto privo del vacuo, restarebbe affatto impedito, essendo dal pieno interdetto et ostato l’oltra passar e progredire: Lucretio

    Tum puro locus ac spacium quod inane vocamus Si nullum foret haud usquam sita corpora possunt Esse neque omnino quoquam diversa meare236.

    Essendo dunque tali li principii delle cose mondane, qual dunque, amico Socrate, affronto del caso, o che fiero avenimento offendere ci può, mentre che noi come anco tutte l’altre cose dell’universo, di tal impassibili elementi siamo composti e construtti? Per il che non dobbiamo tenire cagione di punto affligerci di qualunque apparente disastro che ci rassembra offendere, poiché le vere reali e primordiali portioni che ci constituiscono sono affatto inoffensibili, et inalterabili. E nulla o almeno poco molestare ci deve la slocatione accidentale, e fortuita positura de atomi che nel similare et indiferente vacuo accada in questa situatione over in quella, restando sempre illesi quelli fondamentali principii che ci compongono, onde il dolore il più formidabile inimico che tenga la nostra natura, riesce piuttosto fantastica la rua237, parto della falace openione, che cosa reale et esistente, poiché ci si dimostra chiaro che il pieno che in noi si ritrova, si oppone et è renitente a ricever in lui ciò che lo penetri et offenda, essendo decreto inevitabile della necessità, che qualunque cosa per tenue che sia repulsi da sé l’altrui insinuatione e [83] penetratione, essendoli imposto che insino alla ultima estintione s’opponga a qualunque

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    interna invasione, che d’altrui li fosse intentata. Et insino238 l’aria benché facilissima alla divisione, se non fosse la sua fugace lubricità239, si difenderebbe al pari di qualunque altro corpo sodo, e conservarebbesi immune da qual si sia compressione e penetratione. E parimente anco il vacuo che in noi si ritrova, schernisce qualsivoglia colpo che aventato li fosse, onde penetrando egli altrui overo essendo penetrato, senza alcuna dificoltà et oppositione non si risente punto di tal offesa”. Ma in questa maniera discorrendo Democrito con la mente, e progredendo con piedi, avenne che inavedutamente s’attoppò in certa prominentia, per il che fu sforzato a terra dare, con non mediocre offesa di una delle gambe, restando per tal caduta molto contusa. Onde del gran dolore risentendosi, non poté far di meno che con la voce non lo significasse, e che in dupplicati “ohimè!” non prorompesse. M’Anasagora che come dissi con esso si ritrovava, con maniera derisoria accorendolo li diceva, che li rassembrava che vigilando sognasse, ovvero che conforme il concetto che di esso tenivano li suoi Abderiti, fortemente delirasse, havendosi in un subito dimenticato di suoi proprii prononciati e dogmi. Onde instantemente l’interrogava che li esponesse in qual portione di lui havesse riceputo tal offesa, nelli atomi over nel vacuo? Nel pieno, over nelli intervalli di fori d’ogni essere privi? “Li attomi secondo il parere tuo”, diceva egli, “sono indivisibili, et il pieno medesimo impenetrabile ché perciò non possono patire dolore alcuno, né meno il vacuo si trova disposto al dolore, essendo non solo di vita, ma di qualunque essere destituto”. Ma Democrito ricercando con stentati e fievoli distintioni evadere tali instanze, compresi che non meno l’affligeva la doglia del corpo, che la molestia dell’animo, divenendo egli eversore della propria sua dottrina. Onde io ciò [84] osservan|do, procurai divertire240 il ragionamento ad altro proponimento, et a fomentarli241 l’offeso membro me impiegai. Ma siccome rimase Democrito convinto piuttosto dall’avenimento occorseli, che da ragionevole evasione che sciogliesse la sua argomentatione, così io confuso et ignaro mi ritrovai nel riconoscere il modo che

    Gioco di Anasagora preso di Democrito

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    Dal discorso di Democrito rimane Socrate dubbioso del modo della sensatione

    Openione d’Archita Tarentino circa le qualità

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    nell’animale la sensatione si produce. E sebbene che la quottidiana esperienza purtroppo mi instruisce che in noi si generi il dolore, havendo io tante volte assaggiato la sua ferocità, e per il certo egregie ragioni furno ritrovate da sapienti per sedare e renderci facile la morte, così anco per render vani alcuni oggetti che molestano l’anime, le quali a questo si riducono in dimostrare che non sono reali ma arbitrarii e fititii dalla nostra fallace openione prodotti, ma li dolori del corpo che sono cagionati dalla dissolutione del continuo, non riuscì ad alcuno con discorsi mentali annularli e renderceli insensibili. Nondimeno tornando al proposito mentre che mi rimane occulta et astrusa la maniera che si produce la sensatione, non mi rassembra convenevole, che per mezo di essa io ardisca di accertarmi delle vere conditioni di oggetti esterni, parendomi gran assordo che l’ignoto mi conduca all’apprensione di altro per anco sconosciuto, come se per le tenebre attentassi ricercare cosa che oscura fosse. Ma avenne che, mentre io vacilava circa tal dificoltà, che Dione242, da Italia partitosi, verso noi navigasse, della dottrina di Archita tarentino243 molto disciplinato, ché di costui la fama molto celebre appo noi suonava. Occorse che havendo egli inteso dalli miei amici qual fosse la mia titubazione circa la sensatione, con non mediocre allegria m’incontrò et in tal modo favellomi: “Stimarei, o Socrate, haverti arrecato ciò che per acquietare affatto il tuo animo circa il riconoscere la maniera che in noi la sensatione si genera, et è, che Archita Tarentino gloria della nostra Italia, considerando la innumerabile farragine di cose che [85] nell’universo si ritrova, che perciò sfugiscono la nostra apprensione, il tutto raccolse et arrolò in due classi e distinti generi, nell’uno di essi vi rachiuse le più nobili e vigorose essentie, suficienti da se stesse senza l’appoggio altrui con il proprio essere sostentarsi, e queste appellò sostantie. Nell’altra vi accumulò una turba di cose di tanta fievole et imbecile conditione, che non potendosi da se stesse con il proprio essere reggersi e mantenersi, le conviene alla sostanza attenere et appigliarsi, e da questa mendicare il loro essere, e quelli accidenti nominò, li

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    quali poi in nove minori classi distinse. Fra questi vi si ritrova il genere della qualità, del quale si serve la sostanza in esercitare in altrui le sue fontioni, la quale sostanza a guisa di maestoso Prencipe ritirata se ne sta da per sé nella sua reggia, e per mezo di ministri et emmissarii eseguisce con altrui li suoi attentati et intraprese. Onde quella in disparte dimorando con il ministerio della qualità in altrui penetrando et operando prima l’altera, e poi affatto corrompendolo lo riduce a sé simile. Così il fuoco adopera il calore, l’acqua il freddo, et in tal maniera parimente ogni altra sostanza si diporta244. Il che accade anco all’animale sensitivo, che incontrandosi nel fuoco non lo riceve altrimente essendo questo corpo e sostanza materiale, a cui è interdetto l’introdursi nelli intimi ricessi di altra sostanza, ma sì bene al calore, suo ministro, come immateriale qualità li è permesso et aperto l’adito ad insinuarsi e penetrare nell’interno dell’animale. La qualità dunque è quella che ci cagiona il sentimento, e che nel pieno di noi non li è intercluso l’adito et ingresso, onde se tal qualità si trova confacevole alla nostra natura produce la volutà e piacere, s’adversa offesa et il dolore. Per il che ci si rende manifesto che questa, a guisa di ambasciatrice, ci espone e ci fa riconoscere l’istessa sostanza, ché, senza la communicatione dell’idioma della qualità, ci restarebbe [86] quella affatto occulta et incomprensibile, a guisa appunto che accade a nostri corpi che benché siano infagotati e ricoperti de vestiti, nondimeno agevolmente per mezo di questi si comprende la costitutione e positura di quelli”. Ma havendo Dione posto fine al ragionamento, del cui favellare non punto restandone io satisfatto, in tal maniera repigliai: “Non così fu appo tarentini pregiato il volo della materiale colomba d’Archita245 construtta, quanto che il volo della fama della sua dottrina da noi Greci è admirato. E volesse Iddio che io mi potesse impennare alle tali246, che ad esso mi apportassero, onde mi fosse

    Replica di Socrate

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    lecito in alcuna parte arichirmi della sua mirabile et acclamata sapienza, et in particolare mi appianasse alcune dificoltà che in tale sua positione, da te esposta, mi si attraverssano, ché essendone egli il primier autore, stimo che meglio che qualunque altro ciò eseguirebbe. E per il vero, amico Dione, molte assertioni suppone egli che tengono bisogno di lunga discussione et accurato essame, per il che di parte di essi il ventilare tralascio. Ma per hora parmi strano, né posso facilmente digerire in qual maniera cosa priva in se medesima di essere, in altrui lo ritrovi. L’arbore si sostiene sopra le radici, e lo edificio si posa alla base e fondamento, ma l’uno e l’altro possegono proprio essere, sebbene non hanno per loro stessi solievo et erettione. Ma questi tali accidenti per loro stessi, sono cassi di esistentia, et in altrui l’accattano247, ma l’esser è tanto intrinseco alle cose che fuori di esse il ritrovarlo parmi arduo. Ma lasciamo ciò in disparte, teco voglio esaminare quello che solamente appartiene alla mia particolare inchiesta: rassembrami oltre modo assordo che enti di così grama e fievole conditione, che il proprio essere d’altrui li conviene mendicare, tengono per altro verso facoltà di informarci et additarci l’imagine della sostanza vigorosa, potente, e che possiede non solamente virtù di esistere da [87] per sé, ma ad altrui prestarlo e communicarlo. Il che molto più mi riesce mirabile, che se il simulacro d’animale dipinto pretendesse rappresentare l’interna essentia del suo vivo originale, non possedendo quello altro che il colore e lineamenti di contorni esterni. Oltre di questo, si aggiunge che conforme tal positione ci resta impedito il riconoscere tanto la sostanza quanto l’accidente, divenendo noi dubbiosi e perplessi da quali di essi prendere dovessimo l’esordio della nostra indagine, non dalla sostantia essendo quella imbrogliata et affatto ricoperta dalli addobamenti et invogli di accidenti, il che d’Archita non è altrimente preteso. Ma in che maniera dall’accidenti è possibile pigliare il principio della disquisitione, se il loro essere dalla sostantia assolutamente dipende? Et essendo essa

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    ignota, in qual maniera si possono quelli apprendersi? E come vogliamo pretendere che l’essentia delli accidenti sia riconosciuta, mentre che il fondamento della loro esistentia, quale è la sostanza, ci è per anco occulta? Oppur diremo che l’esser dell’accidenti sia distinto dalla loro essentialità? Non essendo il ciò affermare privo di irreconciliabile litigio e spinose dificoltà. O piuttosto per evitare tal instanza approbarasi248 che ad un medesimo tratto et instante la sostanza e suoi accidenti dalla nostra mente siano osservati et appresi, senza che essa mente rimanga confusa et implicata in speculare oggetti tanto varii e diversi? Ma all’admissione di ciò non mi permette acconsentire il mio genio. Et in quanto appartiene alla maniera che il sentimento in noi sortisce, dico, ch’asserendo l’antedetto dogma, che per mezo di accidenti e penetranti qualità d’oggetti nell’interno del nostro animo si eseguisca la sensatione, ché perciò adducesti l’essempio de ministri de Prencipi. Non volendoti io negarti il vero, dicoti che a tal dottrina io non inclino, né l’essempio di ministri reggii parmi che punto s’addatti al proposito che alle mani habbiamo. Anzi, da questo parmi scaturire maggiormente dificoltà circa il tuo e di [88] Ar|chita divisamento. Se alli ministri di Prencipi non fosse lecito di giamai dipartire e spicarsi da loro Signori, e che ad essi fossero talmente anessi e congiunti, come sono l’accidenti alle sostanze che si trovano talmente ad esse uniti che loro essere da queste dipende, giamai appo altrui eseguirebbero alcuna agenda, et affare, senza la coasistenza de loro padroni e comittenti, et ove che a questi non fosse lecito capitare, né anco a quelli si permetterebbe penetrarvi”. A tal favellare s’acquietò Dione, né altro in difesa di Archita attentò. Onde siccome prima circa il modo che s’eseguisce in noi la sensatione rimasi flutuante, e perplesso, a ciò mi s’aggiunse altro dubbio e fu se il sentimento nell’organo esterno si eseguisce, instalandosi in esso facoltà di risentirsi dell’incontro dell’oggetto o della sua imagine, overo che per mezo di irradiatione della parte più principale del nostro animo,

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    a guisa di luce emanante da corpo lucido, nelli organi al sentire destinati con subito influsso è dimandata facoltà che li cagiona divenire sensitivi, come contendono li medici, overo piuttosto che l’organo esterno altro non presta che adito e condotta alli simulacri di oggetti, in modo che possano penetrare alla più interna facoltà, a cui attiene il resentirsi di tale impressione, essendo probabile che ad un modo et all’altro ciò possa avenire, apparendoci la prima maniera probabile per la celerità e velocità che si eseguisce la sensatione nell’organo esterno. Ma per altro verso il discorso ci addita, che nelli più retirati ripostigli della mente ciò avenga, osservandosi che ritrovandosi essa occupata in alcun importante impiego, non si risentiamo punto di ciò che alle mani habbiamo, e che sotto l’occhi teniamo: Dante Cant. 4

    Esami particolari di sensi

    Quando per dilettanza over per doglie D’alcuna virtù nostra comprenda L’anima ben ad essa si raccoglie Par che nulla potenza più intenda [89] E questo è contra quell’error che crede Che l’un’anima sovra altra in noi s’accenda249.

    Ma chi dubbitare può, ch’avenendo la sensatione nell’una over altra maniera oltre modo se disguisa la certezza che si tiene di oggetti esterni? Poiché se nell’interno dell’animo riceviamo l’imagine dell’oggetto, inanzi che in noi s’eseguisca la sensatione, conviene che l’imagine s’inoltri insino alli ultimi penetrali dell’animo. Per il che, l’accaderebbe non mediocre alteratione, e depravatione dovendo scorrere per meati250 tanto angusti et inviluppati, il che non avenirebbe se nell’organo esterno la sensazione occorresse, oltre che si divolverebbe il tutto al senso interno et all’istesso intelletto, né li sensi esterni apportare potrebbero fede al discorso dell’intelletto, non havendo essi parte nelle sensationi, ma il tutto appartenerebbe all’intelletto. Onde, stimando noi apportare attestationi a favore del senso, all’intelletto arrecaressimo in prova lui stesso a se medesimo. Da questa consideratione, o per dir meglio, flutuatione, et attentamento universale che fu da me pratticato circa la sensatione come preludio di particolari speculationi, mi ridussi all’esame di nostri spetiali sensi, ma per più facile et agevole espediente, feci scelta di doi d’essi, quali furno il tatto e la vista, circa di quali intrapresi instituire la destinata da me disquisitione.

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    Elessi il tatto, non solo per esser il più universale delli altri, non potendosi l’animale senza di esso reggere et esistere, ma perché come già fu detto, egli è riputato il fondamento delli altri suoi congeneri sensi, non potendosi eseguire alcuna sensatione251 senza l’intervento di certo contatto fra il sensitivo252, e sensibile. E la vista parimente fu da me scelta per esser fra sensi il più nobile e maggiormente informativa dell’intelletto, e di lui non poco famigliare. Dal tatto dunque pigliai l’essordio dell’esame, e benché nel devisamento tenuto con Gorgia alcune cose di non poco rilievo furno circa esso discusse, nondimeno non satisfatto di ciò a [90] pie|no, deliberai attentarlo con nuova ricercata più della primiera esquisita et esatta. Per il che ad Archelao253 ricorsi nelle materie fisiche, come sapete, assai versato e celebre, e lo richiesi che mi esponesse la vera esplicatione del contatto, mezo efficacissimo alla produttione delle cose naturali et a noi informativo delle cose esterne. Risposemi egli che tale contatto sortiva quando l’estremi di doi corpi insieme si ritrovino, non intermezandosi fra essi altra cosa, a differenza del continuo che li estremi uno si fanno254. Non restai punto satisfatto di tale dichiaratione non potendomi formalizare, in che maniera due superficii, linee over punti insieme toccare si possino senza che seguisca255 la di loro unione. Onde non comprendevo diversità fra il contatto e la continuatione, dovendo sempre con la unione delli esterni eseguirsi tanto l’uno quanto l’altra, non potendosi imaginare contatto senza certa coniuntione, né questa senza unione, dal che si raccoglie, che il contatto sia una certa tal continuità in quanto che diversi punti, linee, overo superfitii ad un comun termine accorrono. Ma evinto che ciò hebbi, di nuovo ad esso Archelao attendendo, li dissi che havendo rispetto alle cose antedette, riesce che la diversità che vertisce fra la continuità, e contatto sia la facilità, overo malagevolezza che accade nella divisione e separatione, ché il contatto agevolmente permette la distrattione, e separatione, ma che il continuo a ciò riusciva più renitente. Al che egli soggionse che per il certo la verità lo constringeva a confessare che ambo li tangenti in un punto, e comune superficie concorrono256, ma che di ciò non molto si curava

    Esame del tatto

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    havendo dall’istessa verità anco ottenuto esser diverso il contatto dal continuo in quanto alla facilità overo malegevolezza della divisione. Ma io continovai: “Poiché l’unità dalli esterni di tangenti è comune al contatto, et al continuo, gravi difficoltà mi s’attraversano, amico Archelao, admettendo tale unione per mezo del contatto over del continuo: in qual [91] maniera due superficie o per dir meglio estremi toccandosi over continuandosi, in una si transformano, e convertono? Ove una de quelle estremità e superfitie capitò, essendosi ambi fatti una? E come tale unione avenire può senza insieme confondersi? Onde l’aria tocando l’acqua et in uno comune termine accozzandosi, riesce necessario che si faccia certa mescolanza di diverse cose di contrarie qualità dotatte, così parimente l’oggetto sensibile per mezo del toccamento divenendo uno con il tangente sensitivo. Ma qual unione può ritrovarsi tra questo vivo e di sentimento dotatto, e quello privo di vita et insensatto? E qual sincera certezza potiamo conseguire delle conditioni dell’oggetto esteriore, mentre che per mezo del contatto con altra a sé diversa natura si confonde e diviene uno? E se così è che mescolandosi li tangenti riescano l’estremità dell’uno e l’altro l’istessa cosa, in qual guisa può l’uno esser agente, e l’altro patiente insieme essendosi confusi e divenuti uno? Et oltre ciò toccandosi due superfitii orbicolari mentre l’una entro l’altra posta sia, converrà, che tal contatto in una comune superfitie si termini. Ma qual gagliarda imaginatione può giamai digerire, e rappresentarsi che superfitie concava, cioè quella dell’orbe continente et altra concava, qual è la superficie orbicolare257 esteriore del contenuto, in una superfitie indivisibile concorano et una sortiscano? E che il convesso e concavo nel medesimo si confondano? Ma a questo si aggiunge che impossibile apparisce, che doppo eseguito il contatto e che già l’estremità de tangenti sono riusciti uno indivisibile, si possino di novo disgiungere et in due convertirsi, in

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    modo che l’uno indivisibile in duoi si cangi. Et insomma mi appariva che il contatto e continuità nel modo che tu, Archelao, hai esposto, a cui consente il comune di fisici, altro non sia che implicatione di contrarii et assorde repugnanze, all’intelletto humano affatto indegestibili, et inattingibili. Tralascio per hora altre instanze, dalle speculationi [92] mate|matiche dedotte, che oppugnano affatto tal contatto, come la linea che si genera da punti indivisibili per la revolutione di circolo, over sfera sopra il piano di superfitie, oltre di ciò l’angolo, che producono due linee rette insieme incontrandosi e toccandosi in uno punto, e tutta volta detto angolo all’infinito appresso li geometri si può dividere. E di più l’angolo che risulta dal toccamento di linea retta con circolare, il qual angolo è già divenutto celebre autore di incredibili paradossi e stranissime consequenze”. Ma non tenendo Archelao ciò che replicare presi d’esso congedo non punto di lui satisfatto. Da simili ambagie dunque io soprafatto, presi a dubbitare che altro non fosse il tatto de una certa compressione, ovvero distrattione, dico una passione a noi assolutamente interna, e circonscritta, senza saperne altro di certo circa quello che fuori di noi avenga. E questo sia quel tanto che il senso realmente ne apprende, e può delibare, e che tutto quello vi aggiunse Archelao fosse ardita e capriciosa fabrica et accessione258, che sopra vi forma e construisce l’intelletto, avido sempre di traboccare fuori di noi, non saprei dire per vana e propria sua ambitiosa curiosità, over che ciò li avenga da satietà et abborrimento che tenga di seco coabitare e dimorare. Ma havendo io tali miei esercitii mentali a miei amici comunicati, irritai acramente contra me il comune delle genti, reputando molti tali discorsi piuttosto vaneggiamenti e delirii che dottrine sode, e fondate speculationi. Ma in particolar si stimarno molto offesi li professori di scientia, havendo io ardito di porre la falce insino alle radici del saper humano mettendo in dubbio l’istesso tatto, tenuto in sin hora la più sicura norma e fedele scorta che li speculativi nel derigere, et accertare li loro discorsi tenissero. Da questi ne derrivò poi l’odio, e dispregio

    Conclusione di Socrate circa il senso del tatto

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    dell’homini volgari verso di me, che sempre come ombra seguono il parere di quelli che stimati sono li più sacenti. Et a tal segno inoltrarsi il livore, che insino li otiosi amanti [93] contro di me conspirarno, essendoli stato imbevutto da miei malevoli, che ritrovandomi per cagione della mia senile età esautorato dalla militia di Venere, et essendomi li suoi piaceri a me interdetti, come d’essi amanti invidioso mi fossi indotto a screditare il tatto, portione così principale anzi fondamento delle loro carnali volutà: Lucretio 385

    Quem iam prasagit gaudia corpus Atque in eo est Venus ut muliebria conserat arva Adfigunt avide corpus iunguntque salivas Oris et inspirant praestantes dentibus ora Ne quisquam quoniam nihil inde abradere possunt Nec penetrare et abire in corpus corpore toto259.

    Ma delle costoro detrattioni poco curare mi dovevo, ché siccome l’amore sovente l’accieca la vista, così facilmente può riuscire che l’istesso l’havesse depravato il tatto, facendoli apparire quello veramente non è, e stimare di palpitare reale sodezza, mentre che forse si abbattono in ombre e vane larve. Questo fu quello che a tardità della mia mente apprese e delibò circa il tatto, fondamento e base d’altri nostri sensi. A ciò si aggiunse anco l’instruttione della esperienza che parimente mi lo rese non poco sospetto di falsità. Mi si appresentò che il sangue arterioso che nel cuore dell’animale s’anida, sia tanto fervente che la mano non lo può tolerare, eppur dal cuore che per altro è tanto sensitivo che per un istante non può patire offesa che mortale non sia, non è sentito. Dal che si comprende che l’organo del tatto non osserva se non quello che a sé riesce peregrino et alieno, così il ventre de pesci mentre vivono e massime nella stagione più algente260 riesce al nostro tatto fredissimo, eppur conviene che non mediocre calore li sia dalla natura donato, digerendo cibi crassisimi e semplicemente ingoiati, che il nostro ventricolo giammai in chilo261 [94] convertirebbe. Così anco il grave et il lieve, rispetto alla nostra dispositione over consuetudine sono da noi giudicati. Celebre è quello avenimento che ad una delle nostre contadine occorse, che havendosi assuefatta a portare quotidianamente un vittelino mentre che per anco cresceva,

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    avenne che, divenuto bue, agevolmente lo solevava, essendole insensibilmente augumentata la carica262. E non mancò fra sapienti chi stimò che la cagione del starsi pendula e ferma la terra nel mezo del circostante aere derivasse dalla lunga et antica consuetudine che prese di situarsi in quella positura: Terra ut in medio mundi regione quiescat Evanescere paullatim et decrescere pondus Convenit atque aliam naturam subter habere Ex inuente aevo coniunctam atque uniter aptam Partibus aerus mundi quibus insita sedet Propterea non est oneri neque deprimit auras263.

    Ma dubbito, Signori Accademici, che con noiosa satietà io sia troppo trattenuto circa l’esame del tatto, senso materiale, e volgare, non degno sogetto a consumarvisi il cotanto di voi pregiato tempo, che al di sopra delli ingegni plebei oltra modo vi solevate. Per il che tralasciandolo, al senso della visione egregio nontio, et accurato raguagliatore della nostra mente a divisare applicaromi. Negare non posso le sue egregie qualità, e conditioni, poiché non solamente ci rapporta l’emergentie et affari humani, ma ci avisa et instruisce d’avenimenti della celeste regione, contrahendo noi per mezo di questo certa famigliarità, e domestichezza con quelli nobilissimi corpi, benché tanto remoti e lontani da noi posti siano, e massime doppo che fu sufragato dall’egregio adminicolo del cannachialo264, che dimostrò l’errori e falacie, che l’antichità normata dall’humano discorso giudicava vere e sincere [95] dottrine. Stimò questa che la Via Lattea fosse sublunare, e terestre esalatione, ma l’occhio aiutato da tal criterio et instrumento, hora ci insegna che sia una congerie di minutissime stelle fisse, nelle più sublime parti del cielo esistenti. Crese265 quella che la luna fosse corpo terso e polito, ci instruisce questo che de molte cavità e prominentie sia imgombrata. Ci persuase facilmente quella che solamente alla luna avenga diversità di apparenza, ci dimostrò questo che Venere parimente apparisce, intiera, dimezzata, e falcata. Stimò quella che l’istessa Venere e Mercurio attorniassero la terra, come fanno li altri pianeti, ci avisò questo che non la terra, ma il sole come loro centro questi circondono et intorno ad esso si ravolgono. Giudicò quella che

    Lucrezio 452

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    sette fossero li erranti pianeti, ci accertò questo che all’intorno di Giove, con loro periodi particolari, si rivolgessero quattro altri globi, benché da esso circa il zodiaco siano traportati e rivolti, et anco ci insegnò che Saturno non solamente uno pianeta sia, ma certo consortio di tre corpi, che in anni trenta con moto conforme la terra circuiscono. Approbò quella che il sole, autore del mondano calore, ne fosse egli privo, ci informò questo che il globo solare fosse occupato da molti Mongibelli e Vesuvii, che vomitando fuochi, et oscure esalationi, a vicenda le sue apparenze si alternino e disguisino. Ma se tutte le altre degne osservationi che per mezo dell’occhio furno apprese adducessi, troppo tedioso et importuno vi riuscirei. Ma a questi egregii suoi effetti mi conviene anco contraporre le sue frodi et inganni, che equilibrati con le sue lodevoli conditioni riusciranno queste soprafatte da suoi vitii e difalte, facendosi sovente apparire il grande piciolo, l’agitato immobile, l’uno duoi, il superiore inferiore, il sinistro destro, il quadro tondo, il piano profondo, il propinquo lontano, e tante altre fallacie che quottidianamente egli ci suggerisce, che come notorie tralascio. Ma nell’ingresso di tal esame mi s’affaciò non [96] dis|pregiabile difficoltà intorno la diversità di pareri che circa la visione fu da sapienti pronunciato. Alcuni, come già da Critone fu divisato, stimarono che la visione con l’effusione di raggi insino all’oggetto se esequisca. Altri, non admettendo così remota eiaculatione, stimano che li raggi unendosi con il lume esterno, et insieme consolidandosi insino all’oggetto si estendono. Et altri, opponendosi a tal emissione di raggi, piuttosto asseriscono che nell’occhio vi si introduchino l’imagini, e simulacri da oggetti spicati, e questi in due classi si dividono. Alcuni giudicarno che tali imagini siano spoglie materiali di corpi visibili che per la virtù et efficacia dal lume dall’oggetto si stachino, altri che immateriali siano ma però idonei mezi per farci riconoscere l’oggetti materiali loro progenitori, ancorché essi simulacri per loro medesimi insensibili siano. Altri vi furono che stimano che la visione senza l’intromissione di simulacri, né emissione di raggi possa ciò avenire, essendo a ciò bastevole la presenza dell’oggetto all’incontro della facoltà visiva posto. Non minore repugnanze di partiti, e pareri accade

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    circa il loco interno ove in noi si faccia la visione se pure per modo d’intromissione di simulacri ciò avenga. Credettero alcuni che questo occorre nel mezo della cristallina ovvero glaciale lenticola266. Altri abhorrendo che in semplice humore privo de vita, nonché di sentimento, ciò si eseguisca, alla membrana rettina, che nelli più secreti recessi dell’occhio è colocata, attribuirno tal sentimento, poco curandosi questi tali, che in tanto oltre penetrando le imagini, sia necessario che incrociandosi insieme, il destro divenga sinistro, et il superiore inferiore267. Altri di ciò anco meno curanti, tengono che insino alla unione di nervi optici convenga che s’introducano l’imagini, accioché per la duplicità delli occhi non ci si rendono anco l’oggetti duplicati, come ad ubriachi e deliranti sovente accade, non facendo questi stima della depravatione dell’imagini che necessariamente occorerebbe, passando esse per l’anfratti [97] d’an|gustiosissimi meati. Altri non assentirno ad alcuna portione solida dell’occhio rimettere tal fontione, ma ad un spirito permabile268 per tutto l’occhio ciò assignarno, quasi che il spirito di conditione tanto tenue e fluido potesse in sé arrestare e fermare l’imagini, ché né anco all’acqua di natura più consistente è ciò permesso, ma che dico l’acqua, né anco al christallo ciò lece. Altri attentando compiacere a tutti li predetti contravertenti, pronontiarno, che la visione si faccia per l’incontro delli simulacri nella congerie di membrane, humori, nervi, spiriti, che nell’occhio si trovano. Onde, stimando essi di generosamente satisfare alli comuni amici, si contentarno di tolerare tutte le oppositioni che a cadauno dalle antedette openioni incontravano. Altri dogmi crederei che circa il modo della visione sia per produrre l’humana curiosità, spinta da naturale desio sempre inclinato non meno alle contradittioni che alle novità. Ma qual sia la più vera delle antedette opinioni poco al mio proponimento importa, non havendo io apportato tali pareri per discutterli, ma ciò solo pretendo dedurre da tal raccolta di varie openioni: che avenga la visione in una di tali maniere ovvero nell’altra, grandissima diversità conviene che accada circa l’apparenza rispetto la vera realtà di oggetti. E chi può negare che oltre modo sia per variare la rapresentatione del visibile, faciasi per emissione di raggi insino all’oggetto, over per

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    accopiamento di questi con il lume, o piuttosto per intromissione d’imagini, overo per la semplice presenza dell’oggetto? E così anco, eseguendosi ciò nel centro del glaciale o membrana rettina, overo nell’unione di nervi optici, overo nelli spiriti, overo nell’amassamento di tutti questi? Et evidente documento di tal disguisamento di apparenza ci arrecono li spechi che, sebbene della istessa materia construtti siano, un poco di varietà che nella loro figura accade diversificano non poco l’imagini da essi riflesse. Per il che l’imagini che dall’istesso oggetto prodotti sono, stimare dobbiamo che [98] abbattendosi in varie figure di occhii, amassati di diverse materie, ci sortiscono refratti e per consequentemente di apparenza assai differente di quello è l’oggetto loro originario et efficiente, e con strani dislocamenti e positure. Il che ci rende anco documento, l’osservare che li animali bruti non sono altrimente capaci della vaghezza di colori, simetria, e bellezza de’ corpi. Il che stimo che da altra cagione ciò non proceda, che dalla diversa construttione del loro occhio, variando dal nostro nella configuratione, situatione, qualità d’humori, membrane, e nervi, e non già per mancamento di senso interno269. La raggione che a ciò m’induce è l’advertire che il lusignolo, canoro musico della campagna, non mediocre peritia tiene della proportione del suono, da che risultano quelle sue cantilene piene di melodia tale, che l’humani concerti appena aguagliarlo possono. Così della tarantola abietto insetto si racconta, che sciente sia della modulatione di armonici suoni, come anco il merlo et il papagalo divengono nostri discepoli in apprendere li canti che l’insegnamo. E perché non si può negare che maggior applicazione e peritia sia necessaria nell’osservare et apprendere l’armonia de suoni, che in giudicare la vaghezza de colori e proportioni di membri, questi da più volgari e plebei ingegni sono osservati, quella appena da esercitati e professori dell’arte riconosciuta et appresa. Onde se per difetto di sentimenti interni e mancamento di discorso li animali sono ignari della bellezza, molto più si renderebbero inetti circa li suoni, ché nell’advertire le loro qualità è necessario più esatto e risvegliato intendimento, ma essendo li organi visivi di bruti dalli nostri grandemente diversi, ciò che non accade alli organi dell’udito,

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    risulta che nel vedere vi sia notabile diferenza tra essi e noi, ma nell’udire mediocre similitudine e corispondentia. E probabilmente giudicarei anco, che più esatta sia la visione de molti animali bruti, che la nostra. Segno di ciò che [99] non si lasciano così agevolmente ingannare dell’illusioni e fraudi della pittura, come a noi accade, né ciò ad essi per mio giudicio occorre per stupidezza, ma per la buona construttione de loro organi visivi, non agevoli ad esser fraudati et allucinati come li nostri. E ciò mi move270 l’osservare che essi animali circa la distantia et intervallo delle cose, al di sopra di noi sono informati e periti, il che si argomenta da loro aggiustati salti, che quasi giammai non faliscono. E tuttavia da scorciamenti, e finte lontananze, benché da scienti pittori elaborati non si lasciano punto circonvenire, et ingannare. E se una fiatta occorse ad un uccello che da un grappo d’uva dipinta fosse colto, ciò fra li miracoli fu annoverato, dal che si raccoglie che la perfettione del loro organo li defenda da tali fallacie. Motivato io dunque da tal discorso publicai, che colui il quale a fare giuditio delle cose belle si propone, sempre con la cautela del ‘così appare alla construttione del mio senso’, dovrebbe ciò pronontiare, poiché il nostro occhio che l’oggetto esterno apparende, è piuttosto efficiente271 del bello overo difforme, che di esso recetivo e da lui impresso. Divolgossi tal mio ragionare, et alle orecchie di Diotima si fece udire, che nell’arte lenonia o del rufianesimo che dire vogliamo alquanto di nome nella nostra città si acquistò, et io per inanzi conoscendola quanto valeva nell’introdurre e risvegliare amistà nelli animi humani, et insieme raconciliarli, procurai la sua pratica, per apprendere da essa la maniera di maneggiare e disporre l’humane passioni, in modo che ne rissultasse quiete et unione nella civile società, stimandola a questo molto più idonea, che coloro che di ciò aeriamente ne favellano, senza mai haverne effetivamente in tal fontione essercitati. Onde Diotima, essendosi dal mio divisare risentita, in tal guisa mi rimproverò: “Molto diverso mi riesci, o Socrate, da quello che nel mio animo di te concepiva, né giammai harei creduto che tanto ingrato verso di me dovessi riuscire, che [100]

    Riprensione fatta da Diotima rufiana a Socrate

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    havendoti comunicato e rivelato li più reconditi arcani della mia arte, a cui incombe l’eccitar amore nel nostro genere, sedare li odii e riunire li animi nemici, dal qual apprendimento et esercitio hai acquistato tanto di stima nella tua republica, che al sommo dell’autorità sei giunto, ma tuttavia hora come sconoscente di tanto benefitio attenti di levarmi quel poco di guadagno che per mezo della mia professione giornalmente mi procaccio”. L’interrogai qual ne sia la cagione di tale sua reclamatione. Soggionse essa: “Non parti havermi gravemente offeso, mentre che il vago e bello che tormentano gli amanti, e che per il cui conseguire ansiosamente a me ricorrendo, con larghi premii riconoscono la mia industria, che ad essi tenghi persuaso, nel proprio loro occhio se annida272, e che le rose confuse con gigli dico la vaghezza di colori, e la gratia che dalle simetrie de membri risulta, nelli proprii occhi di amanti risiedono, essendo questi opefici di quella bellezza che nelle loro amate donne falsamente stimano ritrovarsi, e che con tanto travaglio e dispendio ricercano possedere, e godere, e che l’oggetto amabile piuttosto ben aventurato che bello giudicar si deve, che incontrò in organo visivo, che con benefica qualità lo rende dell’altrui amore attrativo?” Al che risposi io che molto stimavo haver ricompensato all’obligo che con essa tenivo, per la instruttione che da lei appresi circa lo praticare l’humani affetti, mentre che procurai abbattere il saper humano tanto ad amore adversario, et inimico, onde screditando quello, arrecava vigoria e forza a questo. Ma alla per fine io dal probabile discorso indotto, dal genio stimolato, e dall’oracolo comandato, non haver potuto far di meno di non palesare circa la visione quello che sentiva, ma che di ciò punto turbare non si dovesse, ché quelli fiachi animi, che ad amore sono fuori di modo proclivi273 e disposti, tali miei discorsi non al di sopra che cicalamenti di garrulo vecchio, e vano sofista stimati farebbero. Restò di ciò [101] alquanto satisfatta Diotima, ché la pratica del mondo molto prudente renduta l’haveva, et io seguendo

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    il mio principiato proponimento, dall’organo visivo al colore suo oggetto mi trasferii, il qual mi s’apparì piuttosto fititio che consistente e reale. Stima il volgo di savii che li colori siano permanenti anco quando del lume sono privi, apportando esso lume piuttosto la visione alli occhi, che l’esser a colori. Ma il parere di più eruditi e sensati ingegni è, che, ritrovandosi senza dubbio alcuni colori di temporanea durata, intanto perseverando che dal lume sono irradiati come quelli che nell’aeria iride, prisme triangolari di christalli274, e collo della colomba275 appariscono. Da ciò si può convincere276 che universalmente tutti li colori siano lumi riflessi, e che da certa positura e configuratione di corpuscoli fissi, e permanenti nelli corpi ove insistono siano ributati, ché se altrimente li colori fossero, non così facilmente dedurre si potrebbe la necessità che tengono del lume acciocché alli occhi appareschino. Per il che probabilmente conieturano li autori di tal parere, che nella superficie dell’oggetto si ritrovino alcuni minutissimi corpuscoli, in varie figure construtti secondo la differenza di soggetti ove insistono, che incontrati dal lume in varie guise riflettendolo, ci fa apparire le diversità e varietà de colori. Onde vi fu alcuno che stimò, che il nero si generasse da una minuta congerie di sferule sode con l’intersfero vacuo, dal lume incontrata. E per il contrario il bianco comporsi dalla adunanza di molti orbi vacui, e l’interstitio pieno, come appar nell’acqua ridotta spiumosa che apparentemente imbianchisce. Ma tali colori di lunga durata, da primi transitorii sono diversi, per cagione che tali corpusculi sono fissi e permanenti in loro soggetti, se però da alcuna violenza o gagliarda alteratione non siano smossi e tramutati, come aviene quando tali corpi sono lisciati et imbruniti et affatto divenuti tersi, che mirando la semplice loro superficie non vi si scorge colore alcuno se non [102] certa fiacca lucidezza e diminuto splendore, essendo contuse quelle figurine e picciolissimi corpuscoli, che concorrendo con il lume generavano tal particolar colore. Né per altra cagione la superficie di qualunque corpo colorato gagliardamente percuote il senso visivo, che per l’inequalità di esso, cagionandosi per li infranti riflessioni del lume che in tali inequalità incontra, e d’esse sono ribatutte. E l’arte distilatoria rivelatrice di più reconditi arcani della natura, ci

    Esame del colore

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    ha insegnato la maniera di separare et estrahere tali corpuscoli che insieme con il lume sono del colore progenitori. Ma che all’occhio nostro distintamente non appariscono mentre che sono nelli loro soggetti insinuati, non ci deve annoiare, essendo alla natura più che linceo di acutissima vista dottata, benissimo esposti e patenti, ché anco li pori e fori che nel vetro over altro transparente insistono, dalla nostra vista sfugiscono, ma il lume da essa natura guidato in un momento di tempo li ritrova et espeditamente li trascorre. E per il certo un caso avenuto alli giorni passati a Calicle277 oltre modo mi persuase della inesistentia e vanità di cotesti colori. Occorse che essendo stato egli percosso nella fronte vicino all’occhio, mentre che dal chirugico li fu gagliardamente permuta la ferira, riferì Calicle d’haver scorto internamente non mediocre splendore. Dal che presi ragionevole conietura, che essendo il loco ove si generò tal luce impedito in maniera, che il lume esterno non vi poteva havere ingresso, che tal apparenza di luce si generasse da certo spetiale motto di quelle membrane overo nervi, che parimente anco si muovono e risentono dalla scossa over introduttione di certa tal cosa che lume appelliamo. Onde concludevo che il lume che ci apparisce, e così anco li colori da esso generati, non tenessero in loro stessi alcuna realtà et esistentia, ma che altro non fossero che certa commozione alteratione dell’organo visivo. Et a ciechi forse accaderebbe simile accidente che a Calicle occorse, se in quelli [103] non fosse depravato tale interno istrumento che alla visione della luce serve, e che fosse mosso in quella maniera come a Calicle avenne. Da queste ragioni, et instanze rimasi alquanto admonito, che li colori non siano altrimente fuori di noi permanenti nell’oggetti ove appariscono, ma che sortiscono dalla irradiatione del lume nella superfitie di essi oggetti, overo che forse anco fuori di noi non tengono essi né il lume alcuno essere, ma ch’altro non siano che esso motto et alteratione dell’organo visivo, come hora ho divisato. Onde li colori secondo ciò riescono prole di corpusculi che risiedono nella superfitie dell’oggetto visibile, e del lume che in essi riflette, over effetto di certa agitatione dell’organo visivo. Non dissimile de colori sono li suoni non durando questi

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    se non quel tanto di tempo che persevera la colisione dell’aria che dal precedente percuotimento de corpi risulta. Ma cessata quella non rimane vistigio alcuno dell’isvanito suono. Per il che non poeticamente pronontiò egregio poeta trattando di colori: Rebus nox abtulit atra colorem278.

    Virgilius

    Ma tale fu la mia disgratia – e chi lo harebbe mai conieturato? – che non poco di sdegno apportò alli oppulenti avari tal mio discorso, onde avenendomi in Critia280 fra li trenta tiranni il più rapace, et inhumano, e verso di me suo precettore maggiormente ingrato, in tal guisa mi assalì: 279

    “Non meno che li notturni incendiarii meriti, malitioso Socrate, severissimo et essemplare castigo, poiché non sei come li ladri che si procacciano con il nocumento altrui il proprio utile. Ma tu da scelerato talento e pernicioso instinto, il danno altrui solamente procacci, havendo intrapreso con vani e cavilosi ragionamenti levare il concetto e stima allo splendore e bellezza dell’oro, vaghezza delle margherite281, e scintilare delle gemme, persuadendo altrui [104] che queste sino282 vane apparenze e putatitie rimostranze, e che prive dal lume, e dall’icontro della visiva facoltà, si estinguono, et isvaniscono, e che l’oro e le gioie in vili carboni e tenebrosi corpi si cangiano. Del qual tuo attentato rimane non solamente offeso il privato, ma oltre modo dannificato anco il publico, divenendo di niuno pregio li tesori che nelli erarii per urgenti occasioni tiene raccolto, e tanto più”, giocosamente soggiongeva, “meriti di essere severamente castigato di tale tua sceleragine, che né con custodia de vigilanti guardiani, né difesa di ferrato scrigno può essere impedita”. Onde perciò mi admoniva che retrattassi tal nocivo dogma come everssore dell’humano comercio e civile società, ché dal pregio che si ha fra li homini dell’oro e gemme riesce il mondo comunicabile, e che perciò li avari rilasciano ad altrui le cose proficue e buone, per l’acquisto delle belle ma inutili. Al cui ragionare con filosofica licentia risposi che giammai d’avari oppressori dalle ricchezze al di sopra di selaii feci alcuna

    Risposta di Socrate a Critia

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    Esame universale circa li sensi interni

    SIMONE LUZZATTO

    stima, ché questi benché periti siano in formare le selle, tuttavia si ritrovano affatto ignari del maneggio di cavalli, come anco di arcolaii283, ché sapendo essi li archi ottimamente operare, nondimeno dell’arte del saettare non sono punto addottrinati. Il che per appunto a mio credere, accade ad essi avari, che informati appieno di tutte le maniere e modi di accumulare richezze, tuttavia della guisa de usarle e decentemente servirsene sono assolutamente sconoscenti et imperiti. E seguii che poco mi curava dell’ingiurie et offese che da questi mi fossero intentate, perché l’avaritia opposta alla virtù, sempre quella soccombe, anzi rimane per il più abbattuta dalla propria pusilanimità e dappocagine, riuscendo l’avaritia più efficace ad impedire lo progresso alla virtù, levandole l’alimenti e commodi, che a resisterle quando si trova già adulta e di generosa resolutione armata, e che in quanto a ciò che esso mi riprendeva circa il privare l’oro del suo splendore et alle [105] gioie de loro bellezze, li replicai che in ciò non poco s’ingannava, ché anzi con tal mio dogma admoniva a loro possessori, che scarcerandoli se li restituirebbero le perdute vaghezze de colori, che per malignità di avari con le continue tenebre erano estinte, avenendo a tali ricchezze quello che accade al corallo, che stando nell’acqua sepolto, è frale e vile arbuscello, ma emerso, et all’aria apparito, in consistente e non dispregiabile gemma si converte. Rimase dal mio ragionare confuso Critia, et insino qui giunse la instituita disquisizione circa alli sensi esterni, e sebbene che infelicemente il mio attentato sortì, non perciò mi si arestò la curiosità di non più inoltrarmi in tal proponimento, lusingando me stesso che forse li sensi interni per la allianza e famigliarità che tengono con la mente si renderebbono maggiormente patenti e conoscibili. Hor dunque nel primo ingresso di tal discusione con certo trascorso universale osservai, che li sapienti che circa tali sensi si travagliarno dalli governi civili trassero la ordinatione del reggimento interno del nostro animo, havendo essi instituiti in noi li istessi magistrati che nelle republiche per il governo politico furono eretti. La qual uniformità siccome al comune delli homini sommamente arride, così per il contrario a me riuscì oltremodo sospetta di falacia, rassembrandomi ragionevole che il regimento delli homini piuttosto deve essere

    SOCRATE

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    normato dall’originale della natura, che questa da quello ne prenda essempio. E chi non scorge per il più la moltiplicità di tribunali appo noi non tanto fu instituito per la copia d’affari, quanto che per trattenire l’otio over satiare l’ambitione di cittadini? E la subhordinatione di magistrati per corregere li errori de giudici over rafrenare la loro rapacità? Onde la natura immune e libera da tali difalte e depravationi, non li è necessario tali gierarchie e subgradationi di iusdicenti. Ma tornando al proposito, dalli predetti savii dunque fu [106] instituito che li sensi esterni servissero al comune regimento e governo della nostra interna republica, a guisa d’esploratori che ci informano di tutto quello che al di fuori di noi accade. Il senso comune pedaneo284 magistrato e di prima instanza, al qual riferiscano promiscuamente li detti sensi esterni loro avisi e raguagli, riconoscendo esso, come si dirà, le diferenze di loro sensationi. L’imaginationi che sia referendaria285 dell’intelletto, che raccolge e construisce ciò che sciolto e sparso ritrova nel senso comune, ché essendo questo destituto di facoltà compositiva286, quella insieme unisce l’imagini e le rapporta alla mente. Alcuni aggiunssero la potenza estimativa287, alla quale incombe a guisa di giudice criminale il riconoscere li odii et amori meriti, e demeriti, et altri oggetti più tosto intelligibili, che sensibili, ma che tuttavia risultano in certa maniera dalle apprensioni che nel comune insistono. Fu eretto parimente in noi una tale celebre cancellaria, ove sono registrate le nostre apprensioni, questa memoria è appellata, onde alcuni non contenti di una sola cancellaria, la distinsero in publica e secreta, la prima dedicata alle apprensioni della imaginatione, la seconda al registrarvi le apprensioni dell’intelletto. A tale potenza vi aggiunsero l’intelletto consultore maggiore, e di maestosa autorità nelli humani affari dottato, a cui sopra li altri magistrati si presta assoluta fede. A tutti questi è sopraposta la volontà libera principessa di tutte le agende, ma per il più reggere si lascia dalli consigli di esso intelletto. A’ cenni di questa si rendono ossequenti li spiriti interni, ché con prontezza e mirabile agilità scorrendo questi per tutto l’ambito del nostro corpo movono li membri,

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    Non esser necessario moltiplicare li sensi interni

    SIMONE LUZZATTO

    conforme li decreti di essa volontà. Fra suoi principali vassali annoverati sono l’irascibile e concupiscibile, che con efficace energia eseguiscono li suoi comandi, ma non resta però che alle fiatte movono gravi seditioni contra la loro dominante et imperatrice volontà, con soversione e sconvolgimento del stato della interna [107] republi|ca. Vi sono ultimamente288 li membri organici e corporali che distratti da ogni conditione d’imperio, a guisa di più vili officiali li appartiene solamente il semplice obedire, et eseguire. Bene intesa ordinanza, se l’opefice del sistema humano prendesse documento de nostri instituti, sovente come dissi piuttosto inventati per sostenere la plenipotenza e somma autorità di più vigorosi, che a difendere l’indemnità di più deboli et imbecilli. Ma per quello che io osservai non vi scorsi copia di emergentie et affari né diversità di negotii, né insoficientia di ministri, che apportino necessità alle numerosità di tanti tribunali, se pure non indusse tali sapienti a fingere in noi tanti e tali curiali289, una certa admiratione che l’humanità tiene verso le sue proprie inventioni, ché le rassembra irregolato et enorme, tutto ciò che non si aggiusta con il nostro uso, e costume, e tanto più li fu facile introdurre in noi tali magistrati e numerosa famiglia, che senza alcuno dispendio e spesa, li manteniamo e sosteniamo. Et oltre di ciò non sono fuori di sospetto che la mente humana, come che accortissima nelli suoi affari, sostituì tali e tanti ministri et agenti nella sua curia, per solievo e discolpa di proprii errori, e delitti, a guisa che sogliono alcuni imperanti erigere magistrati, conferirli autorità quasi regia, adoperandoli nelli più rigorose e fiere esecutioni e tirannici trattamenti, per irritare il publico odio sopra tali ministri, scaricandosene essi che pur furno del tutto primi impulssori. Onde sovente li semplici esecutori sono sacrificati al popolare sdegno e plebeo furore, restando intanto li dominanti non solamente illesi, ma acclamati giustissimi vendici290 delle comuni offese. Nell’istesso modo tiene machinata essa mente humana di riversciare sopra altrui le proprie colpe e difalte, ché perciò si fornì e provide di copia di agenti et assessori, per incaricar questi e liberare se stessa dalle calunnie che per cagione delle sue deliquenze le potessero seguire. Onde peccando essa, rimangono [108] da lei accusati li sensi come fallaci testimonii,

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    il senso comune pigro et inetto, la imaginatione menzognera et ingannatrice, l’estimativa fantastica e chimerica, testarecia291 et ostinata la volontà, indomito e feroce l’irascibile, dissoluto e sfrenato il concupiscibile, vaganti, et incapaci di intendimento li spiriti, materiali e ponderosi li membri. Ma che essa mente sempre retta e sincera nelli suoi giudicii riesce, onde seguisca ciò che si voglia, non le mancano subterfugi e scapatoii, da scansare le censure, e ribattere le colpe che a sé veramente appartengono, e che tuttavia essa sugerisce la prima scossa al motto, l’impulso all’esecutioni, sì del bene come del male. Et a tal segno arrivò la sua solertia, che quando essa manifestamente è nelli misfatti colta, e che ad altri regettarli non può all’asilo e franchigia dell’ignoranza ricorre, e si ricovra per riparo de sue difalte, quasi che questa sufficientemente difendere la potesse di qualunque delitto che le fosse imputato. Onde se per il contrario musico over pittore nella loro professione per ignoranza errassero, sono ispediti292, et inescusabili, ma se volontariamente deviano dalli precetti dell’arte, punto non discapitano della loro stima, e reputatione. Ma l’intelletto per inscitia nelli morali affari dal retto deviando, riesce discolpato et innocente: Nec tamen haec ratio facinus defendere pergit Virtutemve suis fraudare in premia donis. Nam neque mortiferas quisque minus oderit herbas Quod non arbitrio veniunt sed semine certo, Gratia nec levior tribuetur dulcibus escis Quod natura dedit fruges, non ulla voluntas Sic hominum menti tanto sit gloria maior Quod caelo gaudente venit, rursusque nocentes Oderimus magis in poenam culpamque creatos293.

    Fiaca difesa dell’ ignoranza

    Manilius lib. 4

    Ma havendo io tutto ciò osservato, da quindi presi occasione di sempre intonare nell’orecchie delli amici, contra il [109] co|mune parere, che dall’intelletto dipende in maggior parte sì il bene come il male, publicando io che le virtù morali mere scientie, e li vitii ignoranze siano. Onde Medea come forsenata e di giuditio depravato, falsamente per sua difesa pronontiò: Sed trahit invitam, nova vis, aliud cupido Mens aliud suadet, video meliora proboque,

    Ovidio

    SIMONE LUZZATTO

    208 sed peiora sequor294.

    Ma essa medesima prima di ciò riconoscendosi insana di mente disse: Excute virgineo conceptas pectore flammas Si potes infelix, si possem, sanior essem295.

    Essame di sensi interni in particolare

    Ma posto da banda296 tal preludio universale, circa li interni sensi, hormai l’opportunità mi chiama a dimostrarvi in particolare la insofficientia di questa tale chimerica e superflua curia, da comune de savii in noi instituita. Primieramente mi se affaciò il senso comune, ritrovato da sapienti per l’esercitio di due fontioni a quali riescono inhabili li esterni sensi affatto materiali, et inetti a qualunque attione, soggetti solamente al patire, et a ricevere l’esterne impressioni disposti. Primo officio dunque che a tal senso comune fu attribuito è l’apprendere la diversità che verte tra le sensationi che da differenti sensi li pervengono, dico fra l’apprendimento del colore, da quello del suono, sapore e simili, non essendo il senso esterno ad altro idoneo che all’apprendere il semplice suo proprio oggetto, cioè l’organo visivo del colore, l’udito del suono, e così li altri. Onde fu detto che il senso comune fosse come centro di circolo, che essendo uno, ad esso concorrono infinite linee, che dalla circonferenza si l’inviano, così il comune ricevendo in sé l’apprensione di cinque sensi, riconosce le loro diversità. Ma internandomi alquanto in considerare tal esercitio al senso comune attribuito, mi si apparirno non lievi difficoltà. In primo loco mi s’appresentò che cadauno da sensi [110] este|riori, possiede un organo proprio affatto diverso, di quello tengono li altri sensi, con il quale apprende li oggetti che se li incontrano, et appartengono297, onde perciò qualunque d’essi riesce inhabile et impotente ad esercitare la fontione dell’altro. Da ciò presi argomento che impossibile sia il ritrovarsi in noi tal senso comune, poiché s’egli tiene organo simile ad uno di essi sensi, li conviene rinontiare il nome di comune, e sortisce senso particolare e perciò di egual fontione a cui è simile. Ma s’è construtto et amassato di tutti li organi che a sensi esterni servono, oltre che ciò sia falsissimo, non apparendo tal cosa nella anatomica inspetione298, ne seguirebbe anco di

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    più, che le sue apprensioni fossero oltremodo diverse e varie di quelle che cadauno di sensi risente, essendo questo di un organo semplice dottato e quello, dico il comune, di una congerie, e mescolanza di moltiplicità d’instrumenti construtto. Ma se di qualunque d’organi di sensi esterni egli è privo, tanto meno riesce incapace d’apprendere né tutte né qualunque delle sensationi da esterni già apprese. Onde dovendo egli essere constituito in una delle antedette maniere, riesce insuficiente ad apprendere le sensationi di tutti li sensi esterni, e per consequenza non si trova idoneo a riconoscere le loro diferenze e diversità, essendo impossibile riconoscere la diferenza di cui si trova ignoto et inappreso. Per altra via parimente mi si mostrò la sua invalidata circa tale recognitione, non sapendo io discernere in qual modo s’eseguisce tal giuditio circa le diferenze delle esterne sensationi, non mi rassembrando convenevole, come già dissi, che il simile giudichi il simile, non tenendo l’uno sopra l’altro facoltà e prerogativa di giuridittione, e tanto sarebbe come l’admettere che uno di se stesso fosse giudice. Onde se il senso comune è simile all’esterno riesce inetto in giudicare le sue diferenze, ma se dissimile le constituimo, non potrà giamai il comune tenire in sé apprensione simile a quella dell’esterno a sé diverso, e vario. E [111] per|ciò non restando appieno informato del risentimento di quello, li è parimente prohibito il pronontiare retto giuditio e sincera sentenza circa le diversità dell’esterne sensationi. Alli antedetti intoppi vi si aggiunse altro attraversamento299, ché giamai non mi poteva formalizare in qual modo il senso comune potesse effetuare tal giuditio circa la diversità delle sensationi, parendomi che né come un sol giudice, né come in molti diviso potesse ciò eseguire. Perché se egli è semplice et indiviso, in che maniera può nell’istesso instante di tempo apprendere due sensationi diverse? Ché giamai giudice alcuno nel medesimo momento ascoltò duoi litiganti che non confondesse il suo giuditio. Ma se non come uno ma distinto in più portioni si impiega all’osservatione di tali sensationi, riesce parimente impossibile il pronontiarne retta sentenza, siccome accaderebbe a duoi giudici, che caduno di essi separatamente havesse udito le ragioni d’uno di contravertenti. Restaci solamente per autenticare tal giuditio il dire, che il senso

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    Antistene pretende scioglier il dubbio motivato contra il senso comune

    Regetta Socrate l’evasione di Antistene

    Esame circa l’maginatione

    SIMONE LUZZATTO

    comune essendo uno indivisibile, in diversi instanti di tempo apprenda tali sensationi, e doppo ne formi il giuditio delle loro diferenze. Ma tal scansatoio poco giova, ricadendo noi nelle antedette ambagie, riuscendo nell’istesso modo assordo l’apprendere in diversi tempi diferenti oggetti, come che se doi giudici in disparte giudicassero doi litiganti, non essendo diferente la diversità di tempi all’istesso giudice applicato a diversi oggetti, che se fossero doi separati che nel medesimo instante apprendessero cose varie. Ma mentre che tal oppositione fu da me motivata circa il senso comune, e che gravemente mi molestava, poiché non solamente sturbava ciò che atteniva al riconoscimento di esso senso comune, ma offendeva qualunque altra conferenza300 che dal nostro discorso fosse attentata, non restando perciò più loco all’apprendimento di alcuna contrarietà, similitudine, diferenza, proportione, maggioranza, egualità, e minorità, e tutto ciò che [112] al genere relativo appartenga, portione sì grande dell’intelligibile, per evitare difficoltà accorsemi Antistene301, mio famigliar amico, e stimò rincorarmi con dire, che non m’isgomentassi da tale benché in apparenza importante difficoltà, che agevolmente si potrebbe evitare, e che sebbene fosse indubbitabile che nell’istesso instante di tempo da un solo apprendente non si potesse advertire et osservare cose diverse, siccome riesce anco impossibile che nel medesimo momento l’istesso marmo ricevesse in sé la figura di Ercole e di Bacco, nondimeno succedendo immediatamente nel senso comune l’apprensioni di tali diverse sensationi, vale tanto come che se nel medesimo tempo l’occorsero, avenendoli a guisa di fiaccola di fuoco che ragirata, una compita e perfetta circonferenza ci rassembra302. Al che mi opposi con dirli, che non posso se non comendare il zelo che tiene verso l’humano sapere, procurando sfugire sì importante ostacolo, che impedisce lo progresso a qualunque speculatione che circa la conferenza delle cose accade, per il che rimarebbe per tal attraversamento la nostra mente come che legata et immobile circa le sue fontioni, ma che tuttavia non rimango di meravigliarmi che l’affetto che tiene verso la sapienza lo rendesse tanto immemore et oblivioso di suoi proprii dogmi, che se il genio non mi faliva, transmessi alle posterità, lo

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    renderanno illustre e celebre alla ventura gente. Risposemi: “Conviene che io ti confessa la propria tardità ché anco da te eccitato, non mi soviene a qual di miei dogmi il tuo ragionare acenna”. Et io ad esso in tal guisa li dissi: “Ricordare dunque ti devi, che fra tuoi famosi decreti dal volgo paradossi appellati, vi si annovera anco quello che difende tutti li peccati esser eguali, e dell’istesso peso, poiché tanto trapassa il segno quello che un ditto fuori di meta si ritrova, quanto colui che per molte parasanghe si discosta303. Onde al nostro proposito dicoti che quando le sensationi in diversi tempi dal senso comune overo d’altro apprensivo, [113] sono conseguite, poco vale che immediatamente l’una all’altra succede, siccome circa li peccati parimente tieni affermato, essendo assolutamente diversa l’identità, dalla immediate successione, e la transmutatione sostantiale conforme la volgare opinione in un istante senza intermedio di tempo accade, e così la luce alle tenebre succede, benché tanto diverse siano una dell’altra304. Per il che, amico Antistene, riesce hormai vana cotesta tua evasione, e restiamo come prima hesitanti circa le conferenze dal senso comune e d’altre facoltà interne praticate”. Non replicò altro Antistene e da me cogitabondo si dipartì. Ma né anco l’esempio del centro già addotto punto mi acquietò l’animo, essendo non meno esso centro, che il senso comune implicato da inestricabili et insolubili ambagie: il ponto indivisibile non può esser d’alcuno tocato, essendo egli l’istessa estremità che con il tangente uno riesce, tantomeno apprendere si può il contatto d’infinite linee da diversi lati ad esso centro inviati305. Per il che, lasciandolo ne suoi inviluppi involto, a sciolgere l’altrui nodi non conviene chiamarlo et affaticarlo. All’antedetta primiera fontione del senso comune vi fu aggionto altro officio, e questo fu: che apprendendo l’organo visivo solamente il semplice colore, il senso comune vi aggiunge l’accorgimento della sensatione che in noi si eseguisce,

    Secondo offitio del senso comune

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    SIMONE LUZZATTO

    osservando egli certa tal passione che l’incontro del sensibile306 nel sensitivo cagiona, al che apprendere non si trova bastevole l’esterno, mancando egli di facoltà reflessiva idonea a far regresso sopra al suo proprio apprendimento. A confessar il vero, alquanto di tempo fui oltremodo fautore di tal fontione attribuita al senso comune, siccome nel Carmide307 di Platone fu da egli riferito. Ma poiché stimolato dal genio fui indotto a risaggiare li miei dogmi, e di nuovo scandalgiarmi, circa ciò mi si affrontò il308 dubbio, che se al senso comune appartiene il riconoscere la passione et il resentimento di ciò che già apprese [114] l’esterno senso, altro ciò non sarebbe che se Clinia309 fosse da Aristarco battuto, e stafillato, e che di ciò se ne risentisse Agatone310. Ma se dire vogliamo che il senso comune apprende il colore, et anco la passione, come facoltà apprensiva dell’altrui incontro, e riflessiva sopra la propria passione, riuscirebbe la sua apprensione molto diversa da quella del senso esterno, essendo esso comune di tanta diferente conditione, e qualità, e perciò non idoneo a giudicar le diferenze delle sensationi esterne. Oltre che non apprenderebbe se non le proprie sensationi, non di esterni. A ciò se aggiunge, che intopparebbe in quell’inconveniente tante volte da me replicato, di concedere sentire del sentire, non meno dissonante che admettere vedere il vedere, udire l’udire, e moversi il motto. Ma quello che oltre modo mi annoiava admettendo tal senso comune, fu che giammai potei riconoscere il loco spetiale della sua dimora, e residenza, benché da suoi partigiani fosse curiosamente indagato. Alcuni stimano che la sua stanza sia internamente fra li occhi, altri fra le membrane del celabro311, altri lo constituirno in uno delli ventricoli dell’istesso celabro, altri nel cuore lo sequestrarno, et altri in tutto l’ambito del corpo li concessero larga habitatione. Et havendo cadauno delli autori di detti pareri addotte valide instanze alla sua particolare opinione, io non volendo ad alcuno di essi con la mia assertione pregiudicare, con cautelosa neutralità, giudicai che in niun loco del nostro corpo si ritrovasse, stimandolo putatitio e vano. Dalla disquisitione di questo primiero magistrato mi sono condotto al tribunale della imaginatione, facoltà celebre non solamente per li suoi fantastichi ritrovamenti, e falacie, ma per

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    esser acclamata feconda madre d’egregie dottrine e professioni. Da questa scaturì la poesia, nobile ristoro del nostro animo, e destra riformatrice di costumi, quando decentemente è usata. Parimente è lodata l’imaginatione, come ottima maestra dell’arte oratoria, timoniera della republica, [115] e moderatrice di nostri affetti, né sdegna la detta di riconoscere per sua legitima prole la pittura, e scultura, della natura imitatrici et emulatrici. A questa potenza imaginativa parimente fu attribuito che a guisa d’ape raccolga et amassi quello che diviso e sciolto ritrova nel senso comune e decentemente poi, con benigna qualità condendo e migliorandolo, all’intelletto lo rappresenta e riferisce. Ma inanzi che io disquirisca312 le sue fontioni, stimai necessario indagare ciò che sia . Primieramente persuaso dal significato del suo nome giudicai, che a guisa di molissima cera fosse pronta a ricever l’imagini che per via di sensi esterni le derivano. Ma contra tal suposito insurgevano grandissimi ostacoli, e repugnanti alla conditione del spirito, ché tale comunemente si stima il soggetto di tal facoltà, che potesse raffigurarsi in tali imagini, ritrovandosi egli di conditione oltre modo tenue, e lubrica. E che se alla acqua di natura molto più crassa e consistente, non lece né anco per un istante conservare in sé alcuna apparenza di simulacro che le sia impresso, tantomeno ciò al spirito è permesso. Ma anco quando questo li fosse conceduto, mi riusciva incomprensibile che varie e quasi infinite imagini in sì poco di spirito tanto aggiustamente, senza che punto l’una l’altra diformi, vi potessero fare giusta impressione. Oltre di ciò, repugna ad ogni retto discorso che li simulacri visibili insino alli recessi di essa imaginativa arivino senza punto guastare e depravarsi, e massime dovendo passare per angustissimi meati quanti sono l’invisibili cavità di nervi optici. Di più se a guisa di pittura in tella, sono nella imaginatione rafigurate tali apprensioni, essendo quelli penetrali313 di lume privi, in che maniera si possono apprendere e riconoscere? E tanto più se il lume come fu detto, è di colori l’essentiale fondamento? Ma oltre di ciò, se dicessimo che nell’imaginatione vi fossero simulacri corporalmente impressi, accaderebbe che le prominentie dell’oggetto in esse [116] sortissero cavità, come fu advertito da Critone circa il senso della vista, onde diverse

    Prima espositione circa l’ imaginatione

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    Secondo modo dell’ imaginatione

    SIMONE LUZZATTO

    sarebbono le apprensioni dalla constitutione e realtà de oggetti esterni. Oltre che non saprei formalizarmi in quel314 modo si possano dall’intelletto spirituale et immateriale apprendere tali imagini esistenti nella imaginatione, essendo esse construtte di risalti e profondità. Né anco si può evadere tal instanza con dire che la imaginatione, a guisa di specchio, non ricevendo in sé l’immagini le riflette e ribatte all’intelletto, perciò che ripugna ciò alla natura e conditione del spirito soggetto senza dubbio della imaginatione, non essendo esso corpo duro e terso a cui solamente è conceduto tale riflessione et eiaculatione, oltre che nulla operarebbe la facultà imaginativa circa li simulacri, ma tali quali li ricevesse da sensi li rifleterebbe all’intelletto. Ma di più, se per modo di rapresentatione di simulacri eseguisce la imaginatione le sue fontioni, in qual maniera li odori, sapori, e suoni per mezo di essa imaginatione ci appariscono e si fanno sentire? In qual guisa l’imagine, che solamente alla facultà visibile overo tangente appartiene, ci può dimostrare ciò che in semplice alteratione, come li altri sensibili, consiste? Ma quello che affatto espulsa315 tale espositione è, che il sentimento che a noi veramente appartiene è affatto distinto dalla imagine, ché se altrimente fosse, il marmo scolpito, la cera impressa, e la tella dipinta sarebbero di sentimento dottati. Per il che conviene piuttosto dire che quello che si apprende, sia certa comottione che in noi sentiamo, che imagine impressa et affigurata, ché perciò capitai a giudicare, che tali apprensioni che attribuirno alla fantasia siano comotioni di nostri interni spiriti, causate dall’impulso e scossa ch’i sensi esterni hanno da oggetti receputo che insino ad essa imaginativa arrivano, a guisa di tesa corda che commossa da un capo, tremola e vibra anco nell’altro estremo, et a guisa di acqua che se vi fosse pietra caduta, si produrebbero in essa molte circolazioni per [117] distante intervallo. Mi piaceva al principio questa seconda esplicatione, rassembrandomi in apparenza molto avenente al proposito, nondimeno in quanto aspettava alla certezza che tenimo di oggetti, et informatione delle loro reali conditioni, non mi riuscì al proposito e di mia compita satisfatione. E non dipartendomi punto dalli essempii addotti, siccome la corda può essere scossa

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    da infiniti impulsori di diversa conditione, e le circolationi dell’acqua da varii agitanti di diferenti qualità, così anco parimente può avenire al senso interno che le sue agitationi da promottori di conditione affatto diversissima siano cagionati, benché l’apparisce sempre l’istessa comotione. Oltre di che riesce tal agitatione inetta a significarci la realtà vera dell’oggetto non essendo la cagion d’essa propria e peculiare dell’agitante e motore, né di lui cosa interna et essentiale come né anco la comotione penetrante nell’agitato e comosso, come che divisando, della causa efficiente fu da Gorgia dimostrato. Onde per ciò riparare, alla alteratione feci ricorso, conieturando che lo spirito interno incontrando nell’oggetto, over imagine da esso mandatali, internamente si altera e ciò esser il resentimento che in noi apprendiamo. Ma havendo sopra ciò alquanto ruminato, parevami non isfugire l’antedetta difficoltà, ricapitando di novo all’istesso assordo, potendosi anco parimente nel medesimo modo alterare lo spirito da diversi alteranti, con tutto che la sensatione fosse simile et uniforme. Ma oltre di ciò, qual assomigliatione e corispondentia può esservi tra l’oggetto stabile, e l’alteratione flussibile e fugitiva? Tra il permanente per sé stante, et il sentimento privo in se medesimo di essere, e che d’altrui lo richiede e mendica? Il dolore e piacere sono le principali alterationi che ci occorrono, ma in noi solamente circonscritte e terminate né in modo alcuno rapresentative di oggetti esterni, non possedendo questi in sé né dolore né piacere. Per il che, se il nero, [118] e bianco, il dolce et amaro, alterationi sono, non al di sopra del dolore e piacere stimarei che ci rappresentassero il vero visaggio di esterni oggetti. Ma di più contra tal esplicatione mi si appresentò altra316 difficoltà, che essendo ogni alteratione previa preparatione alla estintione della essentia del loro sogetto, la imaginatione se alteratione fosse, condurebbe il suo soggetto alla coruttione, il che non accadendo, mi persuadeva che l’imaginare per modo di alteratione non si eseguisca. Raccogliendo dunque il mio divisamento, non apparendo che in niuno di tre maniere racconte possa eseguirsi l’imaginare, né altre guise non potendo rinvenire la mia tardità, mi restava intercluso il discorrere circa tal facoltà, e più oltre progredire, essendo verisimile che

    Terzo modo dell’ imaginatione

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    ignorata l’essentia di qualunque cosa, resti parimente impedito il discorso e la via di riconoscere le sue conditioni e qualità. Nondimeno per non lasciar angolo vacuo al destinato esame, applicai il mio talento ad indagare quali siano le attioni che comunemente se li attribuiscono: fu assignato, come già accennai, a tale facoltà imaginatrice il construire insieme le apprensioni, che ritrova nel senso comune sparse e divise, over anco separare quelle che fossero insieme anesse, et all’intelletto poi ciò rapportare, per il che refferendario dell’intelletto s’appellò. Dal che ne segue, che essendo tal potenza dall’intelletto distinta, sovente complichi insieme cose che affatto disgionte e repugnanti sono, come per il contrario disunisce quelle che realmente congiunte si ritrovano. Prole di costei sono li centauri, harpie, pegasei, et altre chimeriche compositioni, di che ci assordiscono li poeti con lor copiose dicerie, e li pittori ci spaventano con loro stravaganti rapresentationi. Al primo aspetto, l’essempio del refferendario preso dalla pratica dalla curia civile, introdotto tal offitio per facilitare il progresso delli affari in modo che al supremo magistrato si rendono più agevoli e trattabili, molto parevami [119] che al proposito della imaginatione rispetto all’intelletto si aggiustasse, e che assai dilucidasse qual fosse il ministerio di essa. Ma mi ramentai alla fine del parere del nostro Euclide megarese317, ch’affatto reprobava nel praticare le speculationi più importanti, l’uso di essempii e similitudini, stimando egli che se l’essemplare affatto riesce simile all’essemplificato, diveniva tal conferenza inutile, e superflua, essendoci ambi egualmente noti over occulti, ma se punto fra essi variano, conviene che sortisca ingannevole tale comparatione. Per il che cominciai a dubbitare che l’esempio del referendario non riuscire idoneo al trattato della imaginatione, e quanto più che rassembrava che li apportasse chiarezza, tanto maggiormente sospettai che in alcuna circostanza li fosse diverso, il che facilmente riflettendovi sopra, mi accorsi della falacia. Il referendario non è privo di ragionevole discorso, anzi di egregio giuditio conviene che sia dottato nel saper discernere ciò che nel processo confusamente si contiene, e smedolandolo318 farne poi un ordinato construtto, componendo insieme quelle cose che fra loro coherentia tengono, il che addattare non si può alla

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    imaginatione mentre che disgiunta e separata dall’intelletto la suponiamo. Onde se la facoltà imaginativa, in tal guisa dementicata et ignara fingere se la vogliamo, riesce piuttosto una inaveduta aggregatrice che perita referendaria, e con la memoria la confondaressimo, e l’istessa devinirebbe. Per il che ci conviene dire che ancor essa capace sia di ragionevole discorso, né perché construisse heteroclite319 e strane compositioni, perciò affatto insana e pazza stimare la dobbiamo. Perché se forma centauri, di figura humana e beluina composti, construisce tal imagine per dimostrarci homini che possedendo il discorso della ragione, tuttavia tengono alle volte affetti, che li rendono simili a bruti, et oltremodo alla concupiscibile et irascibile soggetti. E se ci rafigura le harpie, ci rappresenta li adulatori che tenendo apparenza affabile, e sempre ridente, [120] posse|dono nondimeno le mani adunche e grifagne. E tale facoltà imaginativa, instruendo il pittore al rappresentare varii simulacri, li regge la mano così perfettamente nel disegno et apprestamento de colori, che rasembrano a chi mira tali effetti, dall’istessa natura trahere li loro natali. La poesia parimente giudiciosa apparisce, e capace di esquisito discorso, e se snoda la lingua a proferire overo la penna a scrivere menzogne, le sugerisce anco tali artifitiose figure di dire, agiustato decoro a colui che la rappresenta, aggradabili documenti a chi instruisce, che lo affermare priva di ragione l’imaginatione, madre di tale professione, sarebbe pronunciato oltremodo assordo. E sebbene volgarmente si stima che non vi sia ciò che più offenda tali nobili impieghi, che il comercio et intervento dell’intelletto, onde se con sue sacenterie e sottigliezze troppo in simili affari si ingerisce, et impiega, non fra le mediocri censure, che a queste professioni si oppone, è la calunnia di pennello stentato, e maniera elaborata, ché perciò, a certo subitaneo et improviso furore si attribuisce l’egregio di tal imaginarie arti, nondimeno dico che non resta però, che l’imaginatione di retto discorso sia destituta, ma si vuole inferire che tali esercitii desiderano piuttosto efficacia et urgentia di spirito, benché peraltro non oltremodo grave, chefiacchezza, accurata, et immoderatamente circonspetta, e perciò languida e cadente. Ma lasciamo la poesia e pittura a parte, ché purtroppo la

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    rendono evidente320 di facoltà ragionevole dottata. Ma li sogni, per non dire li stessi delirii, che senza dubbio riconoscono l’imaginatione per loro madre, benché il loro principal fondamento sia vano, e che al di fuori di noi non tengono oggetti reali che li sostengano, non è tuttavia il filo e serie delle loro apparenze affatto privo di retto discorso, e ragionevole giuditio. Onde rappresentando essa imaginatione horridi avenimenti, et atroci casi prima si attrista, e spaventa, e doppo li compassiona come se la mente istessa l’osservasse, come per il [121] contra|rio321 di dilettevoli e giocondi spettacoli se ne rallegriamo e compiacemo, il che non d’insano discorso può risultare. Ma di più, se alcuna dishonesta et infame ma voluttuosa apparenza nel sogno ci sorprende322, e che la concupiscenza ci stimoli ad essequire alcuna attione indecente, nondimeno il rispetto delle comuni leggi, e riguardo dell’honesto in certa guisa ci raffrena, benché allhora la sola imaginatione distratto l’intelletto, come comunemente si dice, tenga il regimento interno del nostro animo, et in sua balia affatto si ritrovamo posti, come a Bible occorse del fratello inamorata: Ovidio Met.

    Placida resoluta quiete Sapè videt quod amat visa est quoque iungere fratri Corpus erubuit, quamvis sopita iacerat323.

    E tal instruttione per il certo dall’intelletto pervenire non può, ché se alle fantastiche machinationi di sogni asistesse, affatto reprobarebbe tutto quel vano spettacolo, e fallaci apparenze che ci si rappresenta, che pur in quell’istante al pari di qualsivoglia seria verità li apprestiamo assoluta credenza, stimandoli affatto reali et esistenti. Oltre di ciò , ché se la imaginatione priva di giuditio e discretione congiungesse le apprensioni di sensi insieme, amassarebbe sempre faragine di compositioni e construttioni affatto incomplicabili, onde troppo importuno tedio seguirebbe alla mente in sciogliere da tal coluvie di impertinenti amassamenti quello che essa approba e che al suo proposito serve. E quante fiatte restarebbe delusa la sua diligenza non havendole l’imaginatione sugerito ciò che li aggrada. E

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    l’istesso intelletto in tali casi scorgerebbe non tanto il poco che elegesse, quanto il molto incondito324, mendace e superfluo che l’imaginatione li raccolse e soministrò, il che non esprimentando in noi, ci rende probabile che non priva di giuditio sia tal facoltà imaginativa, come volgarmente è decantato, ché in [122] quan|to poi all’apprendimento delle propositioni universali, che né a tempo e loco sono affissi e circonscritti, che comunemente alla imaginatione vengono denegati, in breve sono per dimostrare la inesistentia di tali asserti concetti universali. Da queste e simili instanze, probabilmente giudicai che di qualche intendimento fosse anco essa donata. Ma doppo finita l’antedetta discusione, alla facoltà estimativa applicai l’esame, alla qual quasi tutte l’oppositioni occorrenti alla imaginatione parimenti l’incontrano. Ma di più mi accadeva nuova difficoltà, che essendo ad essa estimativa attribuito l’apprensione di alcuni oggetti che non cadono sotto a’ sensi esterni, come l’odio, amore, honore et infamia, e simili, mi riusciva non poco disdicevole che li soggetti che sostengono l’attributi di amanti et amabile siano da sensi esterni et imaginatione appresi, e l’amore dalla estimativa solamente ciò riconosciuto. Onde convenga alla estimativa, quando vuole inferire che questo sia amante e quello amato, ricorrere alla imaginativa che li presti e sugerisca soggetti a quali attribuire possa tali suoi intentionali oggetti. E così l’imaginatione mentre attenti formalizarsi che Paride fu di Helena amante convenga dalla estimativa mendicare tale amore, essendo ad essa ignoto. Oltre di ciò parevami assordo lo admettere che tenissero titoli di oggetti, cioè efficienti325 d’impressione, l’amore et odio, semplici passioni e perturbationi, ché, come ho divisato molte fiate, che essendo queste relationi, per la loro fievolezza, e flussibilità non sono bastevoli di mover alcuno di nostri sentimenti sì esterni come interni326. Oltre che se questi tenissero facoltà come di oggetti, di movere l’estimativa, dunque inanzi che fossero appresi hebbero esistentia, dovendo il mottore e l’efficiente precedere al movimento et all’effetto. Ma da onde tali oggetti insensibili scaturirno? Da chi presero la327 loro origine? Non dalli oggetti esterni che sarebbero da sensi riconosciuti et appresi, non dalla [123] ima|ginatione parimente, mentre che distinta dalla estimativa la constituirno.

    Esame circa la facoltà estimativa

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    Essame circa la memoria

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    Da tali divisamenti dunque raccolsi che tal facoltà estimativa fosse parimente putatitio e chimerico magistrato, e che non tenisse appo noi reale, e vera residentia. Espeditomi328 dunque da questa, altro non mi rimaneva di esaminare inanzi che alla reggia dell’intelletto giungessi, che la memoria, onde colà transferendomi con il discorso, disposimi circa di essa travagliarmi. E per il certo restai alquanto attonito, considerando le sue stupende facoltà, ché perciò la stimai al di sopra di tutti li altri ministri, all’intelletto serventi, degna et egregia e che ragionevolmente nominare si dovesse tesoriera del tempo, e refertissima depositaria delle spoglie dell’universo, poiché in quella come che in sicurissimo archivo329, sono riposte l’imagini di tutto ciò che giammai occorse, e successe, ritrovandosi essa capace non solamente di ciò che l’universo contiene, ma di tutto quello che per il passato in esso soggiornò, et hora si trova estinto, et abolito, e che a ciò contenere et abbraciare angusto e deficiente riuscirebbe. E quello che maggior meraviglia mi areccò fu il fermo ordine, e stabile collocamento,che mantengono l’imagini che in essa sono constituite, e talmente riescono constanti, che il rodimento del tempo per il tratto d’un secolo sovente un minimo di quello330 non deprava né sloca331. Come anco non l’assalti di contumaci affetti, et incursioni di fiere infermità, né anco le travagliate vessationi di rea fortuna sono bastevoli a sconvolvere e sregolare così ordinata serie di simulacri. Onde, da queste notabili conditioni admonito, fui io il primo fra Greci a sostenere l’immortabilità della nostra anima, non potendosi dedurre dal caldo, freddo, humido e secco la tenacità della memoria in conservare per lungo tratto di tempo tanta copia di imagini distinte et inconfuse. Onde per il certo da altri principii trahe tal facoltà memorativa il suo esser e divina virtù, ché perciò il [124] distin|guere tal facoltà memorativa dall’intelletto non poco mi molestava, per il che insino allhora procurai di ritrovare instanze che la indentificassero con l’istesso intelletto. Hor dunque proposimi a considerare che li sapienti la rafiguravano a guisa di biblioteca, overo cancellaria interna, nella quale doppo che li sensi esterni, il comune, l’imaginativa et estimativa esercitato havessero le loro fontioni, eran ad essa rimesse le reliquie di tali apprensioni, restando però esposte

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    al servigio dell’intelletto overo imaginatione, al che tanto più si rendono idonee, quanto che con esquisito ordine conforme il successo di tempi, proprietà di lochi, et altre circonstantie di avenimenti, fossero disposte. Il che succede a guisa di noi Ateniesi che osservamo nelli nostri archivi di collocare le materie urbane, dalle esterne distinte, e così anco con decente ordine separamo li affari di Persiani, Macedoni, Tebani, et Argivi. Tale fu l’esplicatione divolgata da sapienti circa la facoltà memorativa. Ma altrettanto che l’esempio mi si appariva avenente et aggiustato tanto maggiormente presi sospetto, come già circa l’imaginatione, della sua fallacia. Onde ventilando io tal dottrina, e ponendola al cimento della esame, osservai che noi Ateniesi oltre la cancelleria tenimo per nostro commodo et uso un cancelliere assai perito e versato circa li affari della cancellaria332, a cui esatamente è noto l’ordine, e regolato colocamento delle scritture, che nell’archivo si contengono. Onde perciò nell’urgenti occasioni, ad un tratto capita a pigliare quello che al proposito convenga, trascurando l’impertinenti ché, se altrimente avenisse, l’una scrittura per l’altra prenderebbe, e rare fiate se non a caso coglierebbe quella che procurasse ritrovare. Questo istesso fermandoci sopra il rigore dell’essempio addotto, conviene constituire nella nostra interna cancellaria memorativa, cioè un massaio che eserciti la fontione del cavaliere, e sia ricordevole dell’ordine di ripostiglii dell’avanzi [125] del|l’apprensioni, da che ne seguirebbe che tal interno canceliero overo bibliotecario egregiamente memorativo fosse, ché se altrimente, riuscirebbe inetto a simile carica, ma di tal sua memoria di novo si ricercarebbe chi ne fosse il massaio, in maniera tale che all’infinito si procederebbe. Onde che ci converebbe caricare di innumerabili cancelarie, e massaii. Il che m’indusse a probabilmente giudicare che tal biblioteca overo cancellaria, in quanto almeno aspetta alla mentale, non sia altrimente distinta e separata dall’intelletto e che l’intelletto da per sé sufficiente sia, senza il suffragio d’altrui rappresentarsi le proprie apprensioni. Si può anco per l’inesistentia di tale cancellaria addurre la momentanea celerità con che l’intelletto si ramemora delle cose già conosciute, ché per il certo evidentemente apparisce che non fuori di lui ricerca e mendica

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    li fondamenti della sua intelligenza, oltre che se tal biblioteca333 in noi si trovasse distinta dall’intelletto, inanzi che egli capitasse a quella imagine che ricerca, e che procura addattare al suo discorso, in altre infinite che non l’appartengono incontrarebbe. Il che anco accade nelle bene disposte librarie et ordinate cancellerie, che prima ad un ripostiglio ch’all’altro si perviene conforme l’ordine della positura delle scritture, il che in noi non occorrendo, ci mostra l’inesistentia di tale aeria e vana separata cancellaria. Oltre di ciò mi si rendeva impersuasibile che in tal angusto e coarttato334 loco, qual è il ristretto ambito dalla memoria, si conservassero per tanto corso di tempo così copiosa coluvie e faragini d’imagini diverse et infra loro repugnanti, e massime abbraciando la memoria non solamente li simulacri delle cose che esistono m’anco di quelli che il tempo di già estinse et annientò, ma di più come già accennai discorrendo circa la imaginatione, oltre li simulacri di oggetti visibili vi si dovrebbero ritrovare in tal servatoio le reliquie di suoni, odori, gusti, e toccamenti, il che non mi saprei formalizare in che maniera questi esistono, essendo [126] questi semplici passioni et alterationi, repugnando alla loro conditione lo conservarsi lungo tempo. E parimente, non capisco in che modo per intervallo di tempo tali passioni ci riescono insensibili et inosservabili, ché per il certo ritrovandoci noi con l’animo affatto scioperatto, dovressimo sentire di esse alcuna scossa. Da tali oppositioni et instanze io impulsato, presi ad abbattere e demolire tale biblioteca interna, stimando che l’esercitio del ramentare appartenga al semplice intelletto, senza bisogno di ricorrere ad altrui. E mi persuasi che punto ciò non lo degradi, anzi che riuscendo egli di se stesso dipendente non li conviene da altrui mendicare suoi alimenti. Oltre che mentre da se medesimo si ramenta le proprie apprensioni, havendo perciò se medesimo in assoluta balia e potestà, può agevolmente emendare due difalte che non poco l’offende, stimando havere la facoltà memorativa da sé distinta. L’una è l’esser oltre modo tenace delle ricevute offese, e labile e lubrico de beneficii conseguiti, ma hora moderando l’intelletto se stesso, riconoscendo in se medesimo fondati tali vitii, si può rendere da questi immune, e purgato, avisandosi parimente che delle ingiurie conviene ramentarsi, non per

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    vendicarsene ma per solamente osservare la conditione di chi l’offese per evitare la reiteratione, e replica di affronti, ma de beneficii sapersene dimenticare, insino tanto solamente, che la fortuna li porge occasione di ricompensarli, perché il continuo oggettare335 li favori ricevuti genera prima erubiscentia e poi turbatione, et alla fine dispetto et odio, non solamente verso il beneficio, ma sovente anco contro il benefattore. Onde per scansare tal angore, con l’aperta inimicitia si procura levare lo stimolo del debito, e rompere la sferza dell’obligo, che flagella e tormenta. L’altra difalta della memoria è, che ci rende troppo tenaci et abbarbicati a questa vita mortale, onde occorrendoci abbandonarla, chiamati a ciò dal servigio della patria, o dalla [127] fatalità della natura, con importuno contrasto a tali instanze et urgenze si opponiamo, e ciò non d’altra cagione procede, che dal dispiacere che sentimo in perdere la memoria delle cose già da noi apprese. Onde se nel corso della vita ci avenisse una totale et assoluta oblivione, senza alcuno angore si reputaressimo come se all’hora nati fossimo, et havessimo acquistato un nuovo essere, e ciò accadarebbe senza alcun fastidio della perdita della vita passata. Onde la mente, hora con la sua egregia intelligenza può moderare in se stesso tale eccessivo affetto che tiene circa la tenacità e ricordanza dell’avenimenti passati, ché siccome li oggetti che questi causarno sono di già estinti, così anco può patientare che in essa siano aboliti li loro fievoli e vanide336 imagini, et a migliore conditione di vita aspirando, con alacre comiato dal suo corporale hospitio, licentiarsi e sviluparsi. Né della destruttione del suo domicilio e construttione deve punto attristarsi, mentre osserva che la migliore natura, da principio terminò e limitò la materia del mondo sublunare, e come giustissima distributrice decretò, che con alternanti vicende, caduna portione di essa materia fosse per alcun tempo impressa dalla più nobile e vile forma che nella sua idea si trovava. Onde a guisa di convitati che doppo l’esser satolati cedono il loco, a quelli che l’hanno serviti e regalati337, così conviene all’animo humano, rinontiare ad altrui li piaceri della presente vita, siccome altri adesso li lasciarno:

    Esame circa l’imaginatione

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    Nam si grata fuit tibi anteacta priorque Et non omnia pertusum congesta quasi in vas Commoda perfluxere atque ingrata interiore Cur non ut plenus vita conviva recedis?338

    Lucret. 3.282

    Instanza di Protarco a favor della memoria

    SIMONE LUZZATTO

    Tale fu il mio divisamento circa la memoria, ma devolgata la mia openione circa essa, offese non poco Protarco339, che certa arte memorativa che locale si appella [128] pro|fessava, rassembrandoli che attentassi distrugere il soggetto e fondamento di quella sua arte, che lo rendeva celebre alla nostra città. Onde avenendomi, rimproveromi che facile fu sempre l’opporsi a qualunque dottrina, ma che l’inventare ciò che alli homini fosse giovevole riuscì in ogni tempo oltre modo arduo e malagevole, e seguendo disse, che la sua arte memorativa locale ben dimostrava, che vi fosse posto in noi un archivo nel quale insistono l’imagini dell’impressioni seguite, e con mirabile ordine distinto e collocato e che l’aggravare l’intelletto di tal sarcina, lo renderebbe non meno impedito nelli suoi mentali discorsi, di quello accade a donna di più embrioni pregna, che ad ogni attione della vita riesce impedita et inetta, ma la mente ritrovandosi agile et espedita340 nelle sue attioni, ciò argomenta, che di tale gravidanza e peso sia affatto scarca e libera. Oltre di ciò adduceva che l’istessa natura pareva ci additasse tal distintione tra l’intelletto e la memoria, havendole costituito nel celabro loco appartato a guisa che assegnò alle altre facoltà interne serventi ad esso intelletto. Al che io che egregiamente divisava, ma che disideravo che pacatamente ascoltasse altra maggior novità che in tal proposito io l’era per dire. “E quale sarà”, replicò egli, “Tal nuovo assordo che sei per narrarmi?”. Soggionsi:

    Nuova instanza di Socrate contra la memoria

    “Non solamente niego che non si trova ripostiglio e cella assignata alla memoria, e che vi sia facoltà diversa dall’istesso intelletto, ma di più arditamente io propongo che non so formalizarmi abbastanza, che vi sia in noi alcuna ricordanza d’avenimenti passati. E benché insino

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    con il latte habbiamo imbevuto che quella conoscenza che rimembranza appellamo, sia di fatti e casi già estinti e preteriti, nondimeno il fiaco mio discorso diversamente mi persuade, e m’instruisce che ciò sia inganno et illusione del nostro falace intendimento, riuscendomi assolutamente assordo che di quello che non tiene alcuna esistenza, si possa haverne di lui openione, concetto e [129] sen|timento alcuno, né ad esso si può attribuire relatione e rapportamento immaginabile. Al che quasi tutti li sapienti assentirno, siccome nel divisare che con Gorgia hebbi si è dimostrato. Ma volgarmente allhora diciamo ramentarci del passato, quando che con pronta agevolezza ritrovamo in noi una serie e filo di imagini, ottimamente coherenti et amassate il che seguisca senza consumare alcuno spatio di tempo in ammassarle, et insieme ordinarle, onde conieturamo, che se non fossero impressioni di avenimento preterito non si trovarebbero nel nostro animo con tale regolata dispositione. Per il che se il caso overo altra sopra naturale virtù, formasse in noi momentaneamente senza nostro accorgimento un ordinato concatenamento di simulacri, lo stimaressimo rappresentatione di trapassati avenimenti, e scorse emergentie, siccome accade a freniticanti che li appaiano strani avenimenti giammai non successi”. A ciò soggionse Protarco: “In qual modo deduci che di quello non è, la memoria non si può ricordare, mentre ch’io mi ramento di Tebe mia patria che per anco esiste, e forse contra il volere di voi Ateniesi per molto tempo perseverarà in prospero e felice stato?”. Al che mi opposi con ricercarlo in che maniera di Tebe si ricordava. Risposemi egli della veduta di essa città, di piaceri e travagli in essa accadutili, et in particolare dell’arti ivi apprese. Ma io lo rincalciai con dirli: “Non ti accorgi, ottimo Protarco, che tutto quello

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    ch’hora hai narrato, e conservi memoria di Tebe come tue attioni overo passioni, essere del già estinto et abolito?”341. A tal discorso replicò di novo Protarco: “Dunque se non admetti ricordanza che si riferisca al passato, da che procede tale impensato ordine di eventi che nell’animo ci si rappresenta?”. Risposi io: “Conietturo, amico Protarco, che la facoltà rappresentativa che esercita l’intelletto che memoria nominamo, altro non essere, che certa inclinatione e proclività, che egli tenga al ritornare a quelle guise e [130] constituitioni che già altra fiata hebbe, essendo ciò legge come che fatale a tutte le cose mondane di rimettersi nel pristino stato, e conditione. Onde conseguito che tenga la cosa un sito mentre da questo è rimossa, purché si trova libera, fa regresso e ritorna a quella volta. E se il proietto non fosse impedito dalla oppositione dell’aria, perseverebbe sempre nell’istesso motto e direttione che in quel poco di tempo che fu unito con il proicente342 acquistò. Il che potrebbe accadere a cieli che havendo una fiatta riceputo il motto da Iddio loro impulsore, per non ritrovare essi in ciò impedimento, senza altra scossa et urto in esso motto perseverano. Ma che occorre da cieli tanto a noi remoti trarre di ciò argomento, il ferro stando per alcun tratto di tempo fermo in una positura, rimosso da tal situatione e poi posto in libertà, ritorna da se stesso al primiero sito. Che la magnete tenga parimente anco essa tal impulso è superfluo l’addurne prova. Ma ben ciò stimo riuscire osservabile al nostro proposito, che qualunque corpo flessibile essendo con alcuna violenza piegato e rivolto, e poi in libertà ritrovandosi, da se stesso ritorna alli primieri spiri e ravolgimenti: Boetio lib. 3 Metro 2

    Validis quondam viribus acta Pronum flectit virga cacumen Hanc si curuans dextra remisit Retro spectat vertice coelum343.

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    Et in ogni momento esprimentamo nelli nostri membri, che da se stessi si movono in quelle maniere che per alcun tempo si sono essercitati, non essendo né anco da noi advertito il loro motto, nemmeno sappiamo in qual maniera le loro fontioni eseguiscono. Da ciò ne segue che punto non ci deve arrecare meraviglia, se l’intelletto di maggior perfettione dottato di qualunque altra cosa mondana, conservi in se stesso talento e dispositione di ritornare a quella guisa [131] che già una volta fu constituito. Il che tanto più agevolmente accade, quanto che nella primiera impressione perseverò per alcuna duratione di tempo, il che habito344 volgarmente si appella, ma non resta però che ciò da principio fu detto che la memoria tenga rispetto o relatione a cosa passata, ma sia solamente una certa tal facile constitutione dell’animo nostro in tal maniera, per così dire, configurato e disposto. Né li ventricoli da te adotti che osservano l’anatomici nelle loro dissecationi345 punto mi move, havendoli io sempre stimati piuttosto destinati a ricevere l’escrementi del celabro che a contenere in sé facoltà che s’esercitasse in servigio della mente. Da ciò che teco tengo divisato stimarei che satisfatto rimanessi di quello che circa la memoria mi opponevi, né devi punto lagnarti che perciò rimanga la tua mirabile arte discreditata, anzi stimare devi che più degna e pregiata divenga, instruendo hora l’intelletto istesso più egregia portione di quante concorrono ad integrarci, né annoiare ci deve che molti vagliano346 nel discorso della mente e sono difettosi di memoria, e così parimente per il converso, poiché la finezza dell’ingegno non consiste solamente nel regresso alli primieri motti, siano in qualsivoglia modo seguiti, ma nell’essere con regolati e decenti ordini disposti”. Ma Protarco essendosi renduto taciturno al mio ragionare, né altro aggiungendo, stimai che affatto convinto rimanesse, et io da tutto ciò raccolsi, che superflua fosse al servigio della mente tal facoltà memorativa da esso distinta, non meno che l’altre, che al suo ministerio li sapienti del secolo destinarno. Ma

    228 Esame circa l’intelletto

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    progredendo nella primiera inchiesta, ritrovomi alla fine giunto all’estremo grado della interna curia et al sommo magistrato di essa penetrato, cioè all’intelletto arrivato, né altro mi rimaneva di esaminare che l’istessa mente. Ma però con non mediocre cautela a tal impiego mi applicai, dubbitando che l’identità che tiene la mente con se stessa non mi [132] traviasse in riconoscerla dal tramite del vero. Onde per evitare tal errore deliberai circa ciò in questa maniera diportarmi, che se a favore dell’intelletto riesce tal sindicato, non immediate con peremptorio giuditio a prò di esso terminare dovessi, poiché nel proprio interesse potrebbesi ingannarsi il mio giudicio. Ma se per il contrario in tal disquisitione convinto347 di inettia348 et insufficientia esso intelletto rimanesse, senza alcuno altro rispetto e scrupolo non idoneo ad esser giudice della verità delle cose stimare si dovesse, havendo egli se medesimo condannato. Hora dunque havendo proposta una rigorosa inquisitione circa l’intelletto, o per dire meglio contro me stesso, attentai per venirne a capo li seguenti quesiti: Primo, indagare ciò che sia l’intelletto. Secondo, se uno overo molti al timone del nostro regimento risiedono. Terzo, qual sia la propria sua attione et officio. Quarto, circa che esercita le sue operationi. Quinto, in qual loco di noi sogiorna e dimora. Sesto, quanto di tempo consuma ne suoi ordinarii esercitii. Settimo, con qual istrumento esequisce le sue attioni. Ottavo, con qual ordine regola e pratica li suoi discorsi. Nono, in che maniera s’eseguiscono le sue deliberationi. Decimo, ciò che sia il fine di tanto suo travagliare349, e che attenta di conseguire et ottenere.

    Hor dunque applicandomi a snocelare350 il primo quisito, tosto mi accorsi et avertii, quanto infelicemente succedere mi dovesse tal mia intrapresa, e che non dissimile avenimento succedere mi dovesse, da quello mi occorse nelli antecedenti essami. Inditio di ciò mi fu che nel ricercare ciò che fosse l’essentia dell’intelletto da cui dipendono tutte le altre sue conditioni, non incontrai in meno difficoltà, di che mi avvenne già, trattando circa li anziani principii delle cose, non ritrovando meno li pareri [133] repugnan|ti e discordi intorno a quello che circa questi, affermando li autori tale esser l’anima quali sono li

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    loro asserti principii delle cose. Anzi di più vi fu chi stimò che altro non fosse che tenue e sottilissimo spirito, cioè elaborato sangue con aria mescolato, altri un fragmento dell’anima universale del mondo, che ad esso soministra vita: His signis atque exempla secuti Esse apibus parte divina mentis et haustus Aetarios etc351.

    Altri semplice potenza sostenuta d’organo interno materiale. Altri con parole generali pronontiarno che fossi certa tal egregia facoltà instalatta in certa perfettione di corpo organico, anima appellata. Ma d’altri fu divolgato che a guisa di auriga nel carochio352, overo nochiero nella nave asista e regga la sua mobile stanza e portabile domicilio. Altri dissero che fosse un rampolo di un certo tale intelletto agente, non affatto di lui diviso né con esso identificato. Altri pubblicarno ch’altro non sia che una portione di eccellente magnete, indotti a ciò dire, da certe corrispondenze di aversioni et inclinationi che accadono all’animo e la magnete. Ma troppo riuscirei prolisso, se io esatamente riferire volessi il353 tutto. E per ultimarla non vi manca chi che con ardita temerità promolgò l’intelletto essere nome senza soggetto, e che altro non sia che semplice esercitio delle reliquie di sensationi già apprese, che hora insieme s’uniscono, et hora si disgiungono. Ma altri con più sodo giuditio stimarno che fosse un’essentia immortale, nel corpo come in hospitio residente. Le quali tutte openioni ho raccolto et addotto, non perché io inclini ad assentirle, ma per dimostrare, quanto sia conspiqua l’imbecillità del nostro intendimento in riconoscere qual sia la sua propria et essentiale natura, e che tuttavia ardisce rinvenire quali siano le più recondite e [134] remote cause dell’universo. Ma oltre di ciò da tal controversia questo voglio anco dedurre, che siccome divisando io circa il senso della vista raccolsi, che dalla varietà dell’openioni intorno tal senso ne seguiva parimente grande diversità circa apprendere la verità di oggetti che vi facevano impressione, l’istesso avenire circa l’intelletto che secondo il parere di caduno di antedetti altercanti si differentiava parimente oltre modo il visagio et apparenza dell’intellegibili oggetti, essendo necessario che incontrandosi

    Virgil. 4 Georg.

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    Risolutione del secondo quesito circa iln umero dell’ intelligenti

    Virgil. 5

    Instanza a favor della molteplicità d’ intelligenti

    SIMONE LUZZATTO

    caduno di questi in diverse constitutioni e nature di intelletti, sortiscano medesimamente in strane rappresentationi e varie apparenze di cose. Hor dunque ritrovando tali intoppi di irreconciliabili litigi circa l’interno essentiale dell’intelletto, inchiesta che primieramente mi proposi di rinvenire, non arrestai però la mia curiosità, e progredii e continovai l’indagare la resolutione delli altri propostomi quesiti, et al secondo mi condussi, e ricercai se uno solo e singolare fosse quello che come monarca reggesse il sistema humano, overo molti, che a guisa di republica da ottimati governata e retta sia la nostra construttione. Non mancarno di quelli che questo ultimo partito stimarno assai probabile. Per il che pronontiarno che a modo di governo civile, molti fossero li comandanti che a vicenda l’uno all’altro nel prendere il dominio sopra di noi succedesse, al che pare che s’accostasse preclaro poeta mentre che descrivendo una certa flutuatione e perplesità di animo di egregio heroe in tal modo disse: At pater Eneas casu concussus acerbo, Nunc huc ingentes, nunc illuc pectore curas Mutabat etc.354.

    Dove mostra che non nell’istesso loco dell’interno le cure et i pensieri si mutavano, ma in diverse parti ciò accadeva, [135] et io parimente inanzi ch’affatto sterile divenissi e che per anco con indifferente aversione non regettavo qualunque dogma, a tal parere alquanto inclinavo. A ciò mi moveva, primieramente il rassembrarmi assordo che uno solo regene355 a guisa del favoloso Proteo356 e cangiante camaleonte, momentaneamente in tanti diversi e repugnanti modi si mutasse, e che come in uno instante s’accendesse di fervente ira o di cocente amore, e poi in un subito si cangiasse in fredda gelosia overo algente timore. Al che stimare alquanto mi confortava l’osservare che nel sogno si presta l’assenso a molte assertioni che tengono evidenti instanze contrarie e di ciò punto il sognante non se ne avede. Il che io credevo che risultasse, perché quello che riserba in sé la memoria di tali instanze si trova nel sonno sopito, e perciò non s’oppone a tale falsa illusione, ma poi risvegliato abbattendo la fallacia nel sogno concepita, si rimane informato della verità e mendacità del chimerico sogno.

    SOCRATE

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    Non altrimente pensavo avenire a delirii di frenetici restituiti alla sanità. Oltre di ciò mi rese proclivo a tal parere l’advertire che doppo l’essere da noi riconosciuta la fallacia di qualche nostra assertione e ch’evidentemente rimane reprobata, nondimeno persevera in noi chi persiste contumacemente in affermarla, né punto si rende pieghevole a regettarla e refiutarla. Da quindi è che mentre carocciamo357 over navigamo ci appare benché falsamente, che li arbori over i lidi si muovano e da noi si dilunghino: Provehimur portu terraque, urbesque recedunt358.

    Né può quel tale in noi intrinseco a cui tal illusione li rassembra vera, per qualunque efficace persuasione desistere da tal inganno benché ciò si riconosca dal miglior giuditio che in noi si trova, al qual non solamente è manifesta la falacia m’anco la cagione et essordio di essa, cioè che risulta [136] da una tal quale nostra arbitraria suppositione di attribuire ad altrui il motto et a noi la quiete e stabilità. Né vale il rimetter tal fallace openione al senso esterno, poiché questa mendace credenza, non è in esso fondata ma installata in una facoltà discorsiva a cui incombe riconoscere il motto e la quiete delle cose, e359 come in breve si dirà. E simile errore parimente ci accade mentre che caminando siamo dal sole illuminati, causandosi perciò ombra sopra la terra, onde ci rassembra moversi l’ombra, ma anzi la luce è quella che progredisce overo retrocede, ch’essendo l’ombra privatione non se li può attribuire né motto né attione alcuna. Altra fallacia anco accade quando miramo la luna offuscata da nube che le sottogiace che ci appare questa ferma stare, e quella velocemente viaggiare e sviluparsi da tal involgio, ché senza punto dubbitare il contrario aviene. Ma la cagione di tal fallacia accade per altro nostro arbitrario supposito, cioè di attribuire la stabilità e fermezza a quello che ci rassembra più d’apparente grandezza, apparendoci continente, e perciò fisso, et il motto assignare al contenuto come minore, onde rappresentandosi la nube maggiore per la sua prossimità e la luna minore per la lontananza, crediamo erroneamente che questa velocemente si move, e quella ferma se ne stia. E sebbene siamo capaci et informati della cagione di tale

    Virgil. 3

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    illusione, pure rimane in noi, non saprei dire quale contumace assertore, che repugna a tale disinganno, e vuole perseverare nella fallacia. Dal che raccoglievo che non sia l’istesso colui che riconosce l’errore, e quello che ostinatamente l’acconsente, ma che differenti siano, e che l’uno all’altro non comunichi li proprii concetti et openioni. Mi si rendeva anco ciò mediocremente ragionevole dall’osservare, che in molte attioni che tengono bisogno di non poca advertenza nell’esercitarle, la mente principale reggente ad altro abbadi, et in particolare mentre che caminiamo, stando noi eretti sopra un solo [137] piede, dovendosi in tal stato rinvenire nel nostro corpo il centro della gravità sopra il quale egli eretto si sostiene, ritrovamento tanto arduo, benché non pensamo né anco moverci divertendosi la mente ad altri affari. Parevami anco favorire tal dogma la quotidiana esperienza apparendoci, che nell’istesso tempo siamo distratti in varii pareri che insieme contendono per il dominio di noi e sovente nell’istesso instante alla sensualità, et alla riverenza dell’honesto ci chiamano e rapiscono: Terent. Eunuc.

    Openione di Stoici circa la molteplicità dell’ intelletto

    Quid igitur faciam? non eam ne nunc quidem Cum accersor ultro? en potius ita me comparem Non perpeti meriticium contumelias? Exclusit: revocat: redeam? non si me obsecret 360.

    E perciò inclinavo anco a quella openione che per un tempo celebre fu, e doppo divenne ridicola, cioè che qualunque virtù e vitio over openione, che in noi insista fosse animale appartato, per il che seguendo io tal parere stimavo che in noi fosse constituita republica tale, che variando la nostra età cangiasse ancora essa forma e maniera di governo. Onde nel tempo della pueritia e gioventù in guisa popolare fosse retta, non vi essendo né vitio over virtù che alle fiate non tenga nel dominarci la sua alternata vicenda, anzi sovente accade che tutti ad un tratto tumultino per occupare l’imperio di noi, ma poi nella età consistente e virile alla aristocratia overo oligarchia il nostro stato si riduce, havendo il costume già fatto alquanto di presa, perdominandoci alcune virtù over vitii. Ma non senza alcuna oppositione et altercatione ciò accade, ma ultimamente nella vecchiezza havendo già l’inveterato

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    habito pigliato in noi lo scetro e l’assoluto regimento, ad una totale monarchia over tirannide si [138] divolve361 il governo, osservandosi l’età senile, constante et affatto retinente d’alcun costume et openione particolare, e tanto nel bene come nel male contumace et inflessibile, essendo per il continuo uso depressi et estinti quelli capi di seditioni che solevano inquietare l’interno stato della nostra vita. Questo fu quello che in altro tempo circa tal proponimento giudicai alquanto ragionevole, ma doppo che infecondo divenni, mi occorse ciò che accadere suole alli animali bruti, che devenuta la loro prole adulta, di essa punto non li cale. Onde tanto in tal soggetto come circa altri miei dogmi, a guisa di alieni li trattai, spogliandomi verso di loro d’ogni paterno affetto. Anzi come si favoleggia dell’antico Saturno, di essi fui uccisore. Per il che anco l’openione antedetta come contraria alla ragione regettai et espolsi, rassembrandomi molto strano, che noi a guisa di gabbioni e seraglii di varii e feroci animali fossimo constituiti. E per il vero a troppo continue turbolenze sogiacerebbe il nostro genere, tenendo caduno di noi in se stesso una masnada di tanti sediosi e tumultuanti animali. Né crederei che nel spettacolo che già alcuni mesi per trattenimento del popolo ateniese, rappresentò il nostro Alcibiade362, vi si ritrovasse tanto numero di ferigni animali quanto che nel nostro interno, conforme tal parere si annidarebbe, essendo appo la natura diffinite le spetii di animali, ma non giammai si ha potuto terminare li generi di vitii, come anco le strane openioni che nella mente humana possono capire. Oltre che se conforme la antedetta openione si ritrovassero rachiusi in noi tanta varietà di animali, non mi saprei rassembrare che ad un istante si potessero ridurre sotto l’imperio d’uno dominante, e massime non essendo questi capaci di retta ragione e non potendo passare, come fu detto, li discorsi dell’uno, all’intendimento dell’altro363. Ma n’anco stimarei che tal obedienza fosse prestata per violenza e sforzo, non potendomi imaginare con [139] quali arme, organi, et adminicoli il vittorioso sottoponesse li oppressi e vinti. Ma nondimeno havendo riguardo alle primiere instanze addotte per tale parere, non poteva io admettere in noi un solo dominante e despotico arbitro, onde a guisa di Euripo364

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    in continuo influsso e reflusso di contrarie instanze agitava il mio animo. Ma mentre che io pendente fra questi repugnanti pareri flutuavo, occorsemi Archelao, che pretendeva introdurre certa transatione fra le due estreme opinioni, giudicando egli probabile che tre rettori principali fossero proposti al nostro governo, la ragione, l’irascibile, et il concupiscibile, e che fossero construti et insieme annodati a guisa di portentoso tricipite cerebro365, in maniera che questi tre capi siano fondati e radicati ad una comune stirpe, onde l’irascibile e concupiscibile fossero a guisa di rami, e la ragione di tronco e l’animo del tutto la fondamentale radice: Virgilus

    Nascenti cui tres animas feronia mater Horrendum visu dederat terna arma mouendo Ter lato sternardus erat366.

    Tal dogma posto dunque alla censura, parevami, che calcando una mediocre via per scansare l’inconveniente che alli altri dogmi accadevano, piuttosto partecipasse delli assordi di ambi li pareri. Né mi sapeva parimente bene formalizare in che maniera il concupiscibile fosse distinto della ragione, se l’oggetto di quello sovente è367 la bellezza, la gratia e proportione di motti, la destrità del conversare, et apparenza di buoni costumi, non potendomi raffigurare in che maniera tali oggetti ad altra facoltà che alla intellettiva appartenessero, né che potessero esser appresi368. Non sortisce la bellezza dalla simetria di membri e temperie di colori come anco la gratia da un aveduto e modesto modo di attegiare? Ma che forse ciò [140] dalla dissoluta e pazza concupiscenza è osservato et appreso? Ma oltre di questo li solertissimi machinamenti, accorte stratagemme, che praticano li amanti per conseguire il bramato loro desio, non avanzano qualsivoglia pensamento militare che perito capitan per sorprendere et espugnare munitissima fortezza usare suole? Arte cita, veloque rates remoque reguntur Arte, lenis currus, arte, regendus amor369.

    Né facilmente mi potevo persuadere che l’intelletto, principale corifeo e duce dell’humano sistema, ché questi tale lo fingono, e che per sua natura si oppone alle dissolutioni della sfrenata concupiscenza, inavedutamente tradisca se medesimo,

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    soministrando alla istessa concupiscenza, non solamente l’oggetto, ma anco li modi di conseguire quello che tanto sfuge et abhorisce? Eppur è in sua balia il sottraherle il vigore e rendere ineficace tali sue intraprese e ridurla consternata et enervata. Non dissimile avenimento accade circa l’irascibile, essendo l’honore il principale impulsore di tale perturbatione. Ma l’honore da chi altro che dall’intelletto può essere ideato e riconosciuto? Ma oltre di ciò giamai a sufficientia ho potuto riconoscere in qual maniera si accopiassero l’irascibile, concupiscibile e ragione insieme, ché havendo li doi primi antedetti per loro soggetto, tenue spirito, in che modo si congiungono che non si confondino? Le cose fluide si mescolono non si legano et insieme aggropano370. Tanto meno ciò riesce admessibile rispetto alla mente di conditione molto più di essi spirituale, et affatto immateriale. Per il che io non appagandomi di alcuno delli antenarrati pareri, altro da ciò non raccolsi se non la recognitione del nostro infelice stato, mentre da mente superiore non è illuminato371, non sapendo né anco doppo una tal ventilata discusione et agitato dibattimento, discernere se il totale governo di noi sia retto da monarca [141] alle fiatte saggio, e sovente anco pazzo, et insano, overo piuttosto governato da una turba di diversi animali alcuni ragionevoli, et altri affatto dishumanati, oppure siamo soggetti ad un monstro moltiplice372, e tricipite, essendo sorti373 fra le miserie vicina alla suprema, servire e non sapere a cui. Et a confessare il vero mi rassembra l’huomo mentre si trova assalito da alcuna gagliarda perturbatione, simile a colui che advertendo al buio nella propria casa il puzzo e noia del fumo, non accertandosi ove il fuoco si annida, se nella sua habitatione, overo nel vicinato, vi accorre con l’acqua, et a caso il tutto scialaquando, sovente riesce vana ogni sua fatica. Così noi sorpresi dall’ardore della concupiscenza over fervore dell’ira, vi si appresentamo con la ragione per amorzare tal incendio, eppur da noi non si conosce per anco, in qual facoltà accade l’incendio. Da tal non sortita indagine, circa il numero di nostri interni reggenti e dominanti, mi applicai a riconoscere quali siano l’attioni della mente, il che stimai che riuscire mi dovesse

    Essame circa l’attioni della mente

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    non molto difficile, non sospettando, che ciò che tanto ci è famigliare ignorassimo. Ma in questa incombenza deliberai lasciare a parte, il considerare ciò che sia l’istesso sapere, havendomi a questo destinato particolare esame374, onde il mio impiego fu circa l’universale delle sue attioni. Nel primo adito di tal discussione ritrovai, chi apertamente negava all’intelletto attione alcuna, affermando che fosse semplice potenza, pigra, et inerte facoltà, disposta solamente a ricevere li influssi che per mezo di sensi esterni da oggetti l’è distribuito, e mandato, non ritenendo altra potestà che di risentirsi di tali impressioni, le quali sono dalla natura così bene seriate375 e regolate, mentre l’invia, che non tengono bisogno che l’intelletto le congiunga et amassi, o le disgiunga e divida, assomigliandolo l’autore di tal dogma, ad ostrica marina, che stando affissa ad un sasso di altra facoltà non si trova dottata che d’aprirsi e rachiudersi: Boetio lib. 5, met. 4

    Parere di quelli che stimano l’intelletto attivo

    [142] Quondam porticus attulit Obscuros nimium senes Qui sensus et imagines E corportibus extemis, Credant mentibus imprimi Ut quondam celeri stilo Mos est equore pagine Quae nullas habeat notas Pressas figere litteras376.

    Ma non rimasero perciò altri che di tal parere non poco si risero, stimando indecente che l’humana mente, inspetrice o per dir meglio giudicatrice dell’egregie e meravigliose bellezze dell’universo, destituta fosse d’ogni energia et attività. E tanto più mi riusciva ciò impersuasibile, quanto repugna a ciò l’esperienza, riconoscendoci dotati di efficace attione nel comporre, dividere et ordinare diverse propositioni e da essi raccogliere nuove et inopinate conclusioni, aggiungendole questi fautori della mente, la construttione di universali non a tempo né a loco alligati377, la cui struttura non può da sensi esterni né interni derivare, e sortire, essendo questi corporali e materiali. Ma bene essi universali riescono degno parto della mente spirituale, et immateriale, aggiungendo di più che la facoltà reflessiva che tiene la mente in ragirarsi sopra se stessa, bene indica, che di egregia e straordinaria conditione sia dottata,

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    attione che a qualunque altro agente naturale è dinegato: Sed mens si propius vigens Nihil motibus explicat Sed tantum patiens iacet Cassasque in specula vicem Rerum reddit imagines Cernens omnia notis [143] Aut qui cognita dividit Qui divisa recolligit Alternumque legens iter? Nunc summis caput inserit Nunc decidit in infima Tam sese referens sibi Veris falsa redarguit? Hac est efficiens magis Longe causa potentior Quodque materie modo Impressas patitur nota 378.

    Da quali due contrarie openioni, diversità non disprezzabile risulta circa la sufficientia dell’homini, ché se l’intendimento è passione, l’animi maggiormente passibili e fievoli riusciranno li più intelligenti, e per consequenza meno attivi, ma s’egli è attione li animi più galiardi e vigorosi sortirano li più discorsivi, e perciò parimente anco più agili et esecutivi. Non mancorno delli altri che procurando fra li estremi pareri destregiare, constituirno in noi nuovo e monstruoso hermafrodito, cioè una essentia che tenisse due facoltà, l’una maschile, et attiva, e l’altra feminile, patiente, e recetiva. Ma tuttavia questi tali transatori379 participavano dell’incomodi dell’uno et altro delli estremi dogmi, e benché stimassero di evitarli con li nomi di facoltà e potenza, stimando che sebbene contrarie fossero, nell’istessa essentia instalare e mescolare si potessero, nulla dimeno a mio credere poco giovarno. Ma io non essendo difensore né oppugnatore di alcuno di detti pareri, non mi conviene che in ciò mi inoltri e trapassi. Solamente da tal racconto dedurre voglio, che a tal segno giunge l’inscitia dell’intelletto, che resta dubbioso e perplesso in terminare, se egli eserciti le sue fontioni et operi over d’altrui è mosso, se mottore over mobile sia, [144] inscitia che supera ogni ignoranza et inettia. Ma di più inquirendo li suoi officii lo ritrovai circa essi tanto ignaro, e pravamente informato, a

    Consequenza che risulta dalle dette due opinioni

    Essame di particolari offitii dell’ intelletto

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    SIMONE LUZZATTO

    segno tale che le sue proprie fontioni ad altrui attribuisce e con indiretto giuditio defrauda se stesso dal pregio delle sue proprie attioni. E per il vero non crederei giammai, che pittore tanto sciocco si ritrovasse che mentre egli con la propria mano disegnasse li primi rudimenti della futura pittura, che erroreneamente stimasse, che ciò fosse eseguito dal servo over fantesca. Ma che ciò intervenga all’intelletto lo rende manifesto l’apprensione di quelli oggetti che sensibili comuni volgarmente sono appellati. Principali fra essi sono la grandezza, figura, numero, motto, quiete, sito e distanzia, et altri simili, ché per esser questi volgarmente stimati che da sensi appresi siano, il nome di comuni conseguirno, e benché impropriamente ciò ottennero, tuttavia vario fu il parere di sapienti a cui appartenesse la loro recognitione. Stimorno alcuni che conforme risuona il loro nome, a sensi esterni la loro apprensione incombesse, mossi a ciò dall’osservare che sentito che sia dall’occhio il colore, s’apprende la grandezza, figura, numero, motto, quiete, et altri simili conditioni che ad oggetti attengono, non infraponendosi alcuno sensibile interstitio di tempo osservabile nel quale s’eseguisce circa essi il discorso della mente. Ma perché li fautori di questa openione si ritrovano impediti da gravi difficoltà, fu openione di alcuni di sapienti benché non molti in numero, che la cognitione di tali oggetti fosse fontione del discorso intelletuale, e che l’organo, per essempio, visivo d’altro non sia capace che del colore suo proprio oggetto, e che la grandezza della dimensione, dalla sucessione continuata che fa il senso sopra l’oggetto visibile, benché ciò sia da noi inosservabile, il discorso interno deduce e riconosce380. E chi può di ciò dubbitare non essendo il motto e la successione appo noi apprensibile se non [145] per le sue portioni che li construiscono, cioè il già trascorso, e quello che è per trascorrere? L’apprensione di cui appartiene al senso interno, non all’esterno, che solamente dal presente oggetto si move e rimane impresso381, riuscendo in tal affare parimente il senso del tatto simile al senso visivo, ché per il certo per mezo del flusso del tangente sopra il tangibile, il discorso apprende la quantità dell’oggetto. Così anco dalla cognitione che si tiene della dimensione di oggetti agevolmente

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    alli altri asserti382 sensibili comuni il discorso interno progredisce. A questo parere assentiscono li prospetivi che havendo congionto le demostrationi matematiche alla esperienza naturale arrecano alcun peso a detta openione, benché forsi in ciò troppo alle matematiche attribuirono, poiché la quantità della dimensione, situationi e lontananze di oggetti visibili dalla dottrina di triangoli dedussero, scientia che oltre modo eccede la capacità di idioti, fanciulli, et animali irragionevoli. Ma tornando all’inscitia dell’intelletto circa le sue proprie attioni, osservatione molto più notabile in tal proposito accade nel riconoscere la vera situatione delle parti del visibile, che interscecandosi383 nell’humore glaciale posto nel mezo dell’occhio, le linee dell’imagini che dall’oggetto sono inviate alla membrana rettina vero organo visivo, cangiando per cagione di tal incrociamento situatione nella detta membrana, riesce il destro sinistro, et il superiore inferiore. E nondimeno il retto discorso della mente non si lascia in ciò ingannare, ma con aveduto accorgimento emenda tal falacia e riconosce la vera positura dell’oggetto, nella quale realmente si ritrova. Eppure tale osservatione a’ sensi la mente attribuisce senza advertire di esserne essa l’autrice et opefice, credendo ciò non solamente la turba delli idioti, e volgari, ma anco molti che nella classe di sapienti sono annoverati, stimando essi che dall’organo [146] sensitivo e visivo ciò appreso sia. E quello che rende alquanto di stupore è, che della grandezza, numero, distantia, sito delli oggetti, non solamente li fanciulli, ma li sognanti, e deliranti, e di più li animali stimati da noi incapaci di ragione, appieno sono informati. Ma quello sopra ogni altro in tal proposito riesce mirabile, portentoso, e che maggiormente argomenti la inscitia dell’intelletto è, che egli esercitando un tale suo giuditio circa il sito e distantia di certo tale oggetto, che pur tuttavia giamai per anco con ogni solertia che vi s’habbia impiegato, non si ha potuto investigare d’onde li deriva tal giuditio, e da quali principii egli con sì ferma assertione lo deduce e raccoglie. Questo è il riconoscimento della cagione per la quale esso giudica che il loco dell’oggetto nella visione riflessiva, si ritrova nell’intersecamento della linea della reflessione prolongata insino l’incontro del cateto over perpendicolo che dall’oggetto

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    Democrito ribambito prezzato e lodato

    SIMONE LUZZATTO

    cade, onde perciò nel spechio concavo alcune volte occorre dietro di lui, alle fiatte nella sua superficie, et anco alcuna volta anteriormente fuori di esso verso l’occhio ribalza. E siccome nella visione diretta come si ha detto, non all’occhio appartiene la recognitione della distantia e sito dell’oggetto, così parimente nella riflessa ad esso ciò attribuire non si deve, ma sì bene che il discorso della mente solamente di tal finta apprensione ne sia opefice, e nondimeno egli non sa rinvenire qual sia la ragione che lo impulsa e che lo induce a ciò stimare, né per qual via si conduce a formar tal giuditio, ancorché sia credibile che mentre eravamo fanciulli e che principiavamo a discernere il sito e distantia delli oggetti, di tutto ciò fossimo affatto informati, et instrutti, ma per la lunga consuetudine ci siamo resi inadvertiti delle dedutioni et illationi che produssero in noi tal estimatione. Per il che sovente ho giudicato che mentre noi scientemente operiamo alcuna cosa, non ne teniamo [147] per anco l’intiera peritia, ma sì bene quando che senza nostra osservatione la eseguimo384. E di più ho stimato che il sapere operare altro non sia che uno accorgimento che segue immediate doppo la produttione dell’effetto, che advertimo riuscito e corrispondente alla idea che già si formò nella mente, come, quando non s’assomiglia, rimaniamo conscii della nostra inettia et imperitia, di modo che il continuato esercitio e perseverante habito è quello solamente che ci dispone et addestra nell’operare. E perciò cominciai a dubbitare che lo stimare che il bene operare rissulti dalla cognitione che si tiene e che regge le attioni, fosse certa complicatione di contrarii, perché giudicando io allhora che il sapere fosse una spetie di risentimento e passione, io credevo anco per consequenza che con l’attione identificarsi et unire non si potesse. Onde secondo questo discorso appariva che la peritia dell’operare derivi dalla reiteratione dell’attioni, non dalla cognitione. Ma alquanto io sono dal mio proponimento digredito, onde ritornandovi dico che mi apparisce che solamente li fanciulli, che di tal consuetudine et habiti sono privi, stimare si devono riconoscitori di motivi che l’inducono a formare l’antedetti giuditii. Per il che il saggio Democrito essendo giudicato da suoi Abderiti pazzo, e perciò da essi per improperio appellato vecchio ribambito, egli ciò annoverò fra suoi elogi et encomii, stimando che la vera humana

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    filosofia, altro non essere che ribambire e riassumere quelli primi principii che produssero in noi tante farragini di positioni che giudicandole noi affatto da sensi esterni derivare le giudicamo invincibili et indubitabili385. Ma tale speculatione siccome non mi arrecò alcuni lume e chiarezza, circa la recognitione delle attioni dell’intelletto, così per il contrario mi suggerì non poco di modestia nello sopportare l’altrui errori et incogitanze. Per il che divenii molto più facile a patientare li falli di [148] Xan|tippe mia moglie e le difalte della fantesca, né giammai più come solevo le rimproverai che non sapessero ciò che si facessero, ritrovandomi conscio che anco la mia mente benché per il corso di tanti anni esercitata fosse nelle dottrine, sovente non apprende ciò che si faccia, essendo ridotta a tal estrema imperitia, che non discerne né anco se nel speculare operi over patisca. Hor dunque ritrovando l’indagine dell’intelletto tanto inviluppata et impedita, mi risolsi a guisa di giudice che in alcuna causa sia perplesso, che per prenderne maggiore informatione sopra il loco che verte la contesa si conduce, così anco io deliberai capitare al proprio domicilio ove tiene l’intelletto la sua residenza. Ma non essendone io di ciò troppo informato ne ricercai li sapienti, né da essi riportai alcun certo raguaglio, alcuni pronontiarno che il suo hospitio fosse nel cuore, celebre officina del sangue più spiritoso, poco curandosi questi, della continua agitatione del continente cuore, et inquieta circolatione del contenuto sangue. Altri lo confinarno nelli ventricoli del celabro, loco piuttosto destinato a scaricarvi li escrementi di quella humida e fredda regione, che ad altro spiritual officio. Vi fu chi lo sequestrò nelle membrane che circondano il celabro fra quelli invogli di arterie, che la ordiscono. Altri a loco più particolar del capo fra le ciglia lo detrusero. Altri nella inquiete diaframma constituirno la sua stanza, contendendo che ove si origina la frenesia, collocare si deve anco il discorso della ragione. Vi fu chi ardì appropiarli loco nella bocca del stomaco admonito dalla isquisita e dolorosa sensatione di quella parte quand’è offesa. Altri in tutto lo spirito che per angustissimi meati di nervi scorre, lo distribuirno. Altri tutto per tutto il nostro corpo e tutto in qualsivoglia parte di noi lo constituirno.

    Essame circa il loco ove risiede l’intelletto

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    Esame circa il tempo o circa l’intelletto nel discorso

    SIMONE LUZZATTO

    Finalmente vi furono alcuni di più temerario proponimento che anco fuori di noi havesse habitatione, non essendo dal nostro corpo affatto [149] circonscritto e terminato386, forse a ciò persuasi dalla maniera che s’esercita la visione, che in parte tanto remota, secondo l’openione della eiaculatione di raggi, eseguisce il suo risentimento, oppur mossi dalla continua inspiratione dell’aria, che con il nostro animo si coniunge et amassa. Da tali controversie alcuni a maggior insania spinti per satisfare in parte a tutti li antedetti altercanti387 pronontiarno che, non potendosi ritrovare per le contraposte instanze nelli lochi già detti, che in niuno affatto dimorasse e che la mente altro non fosse che uno semplice esercitio delle reliquie delle sensationi. Ma circa tal inchiesta anco deluso rimasto, seguii a considerare il tempo con che esercita esso intelletto le sue fontioni, circa di che, non meno che nelle antedette inquisitioni nulla profitai. Osservarno li speculativi la luce di consistentia molto spirituale, come che in un istante trascorre dall’estremo dell’oriente all’occidente, perciò si lasciarono persuadere che admettere si potesse momentaneo motto, che dal tempo misurato non fosse, da onde si trasse l’attribuire alle attioni della mente tale prerogativa di esercitarsi con subitaneo discorso, apparendoci, benché falsamente, che in momento indivisibile essa trapassasse con il discorso dalla terra insino all’ultima convesità del cielo. Ma io advertito dalle antedette fallacie, non così agevolmente prestai l’assenso a tal suppositione, stimando che con il nostro intelletto si habbiamo formato un certo minimo intelligibile, con il quale stimiamo di rappresentarci il vero e reale instante, che forsi la natura all’infinito divedere388 potrebbe, avenendoli non diversamente quello accade al minimo sensibile, che in innumerabile portioni si può distinguere. Da ciò è proceduto che esercitando la mente le sue fontioni e praticando le sue speculationi, stima che alcune di esse siano momentanee, misurandole con il minimo ad essa famigliare, ma che tal minimo momento mentale et arbitrario [150] sia e che la retta ragione lo repugna e regetta. Da ciò si può dedurre, che sebbene ci si dimostra in un subito apprendere e riconoscere qualsivoglia oggetto, tuttavia conviene, inanzi che di ciò anco probabilmente se ne informiamo, che discorriamo circa molte

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    delle sue differenze che verso altrui tiene, acciocché l’uno per l’altro non prendiamo, il che senza alcuno progresso e successione di tempo eseguire non si può. E di più afferma la prospettiva che nelle apprensioni della distanza dell’oggetto cinque advertenze almeno conviene osservare inanzi che di essa ne teniamo esata informatione: si apprende la luce, la qualità spetiale del colore, la dimensione dell’oggetto, il sito che si trova rispetto alla positura del mondo, e doppo tali osservationi si diviene alla cognitione della lontananza in astratto, e doppo ultimamente di quello intervallo particolare che attentiamo accertarci. Il che anco per mezo d’alcune consequenze dedotte da triangoli si raccoglie, siccome che da prospettivi difusamente fu insegnato. Ma di più anco innanzi che alla intiera cognitione di qualunque oggetto visibile capitamo fa bisogno che le asse del cono visivo trascorra per tutto l’ambito della superficie dell’oggetto, il che parimente senza flusso di tempo non si può eseguire. Non lascio a parte il giuditio subitaneo che circa la bellezza over diformità dell’oggetto accade, ché dipendendo dalla cognitione della simetria di membri e proportionata mescolanza di colori, niuno per il certo ardirebbe di asserire che ciò senza successione di tempo avenga. Né meravigliare ci dobbiamo che tal illusione accade alla nostra mente, poiché se quell’animallucio e vil insetto che efimero si appella, che al matino la natura li donò l’essere, et alla sera seguente gli lo estingue, havesse tanta facoltà di discorrere circa la divisione del tempo della breve sua età, li suoi momenti li riuscirebbero molto più minuti, e ristretti che i [151] no|stri, determinandoli conforme la angustia del suo proprio essere e duratione, et il nostro giorno li rassembrarebbe un lungo intervallo di tempo. E se caduno di noi fosse presago del spatio particolare della propria vita, si formarebbe instanti proprii e peculiari dall’altri diversi. Ma la natura, amica della equalità, come abstruso arcano ci occultò il termine del vivere, poiché tal spetiale distintione augumentarebbe over diminuirebbe il pregio e valore del tempo, il che apportarebbe senza dubbio pregiuditio alli humani affari, risparmiando alcuno e vendendo a maggior pretio il suo impiego. Non resta però che la virtù ad onta della natura non

    Tempo diviso conforme la sua duratione

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    Essame circa il soggetto intorno al quale s’impiega l’intelletto

    SIMONE LUZZATTO

    habbia a suoi cultori limitato più al minuto la misura del loro tempo, e siccome che a merci vili e triviali è constituito dalle leggi misura e peso uguale, ma alle gemme non fu ciò ordinato, riuscendo perciò qualunque gioia a se stessa peso e particolare misura, così a volgari la loro vita è dal comune tempo misurata con hore, giorni, mesi et anni. Ma quella di savii et egregi homini esimendosi da tali limitationi, conforme la di loro virtù si accresce il pregio di qualunque sua benché minima portione di tempo. Ma essendomi io forsi troppo digredito circa il tempo, dubito d’havere abusato, Signori Accademici, il vostro tempo al pari di qualunque altro pretioso e valevole. Al primiero proponimento facendo dunque ritorno, alla consideratione di tali circonstantie all’intelletto attinenti, vi agiunsi il disquerire et esaminare ciò che sia il soggetto circa di che l’intelletto se stesso esercita e travaglia. Invalse appresso il volgo di sapienti che egli intorno certi concetti che né a tempo né loco spetiale si restringono si affatichi, li quali comunemente universali appellati furno. Questi primieramente dall’istesso intelletto con l’aiuto di altro intelletto agente ad esso coasisitente sono formati, et in tal modo prodotti che [152] apportan|do il senso alla mente una coluvie e farragine di individui simili di qualità e natura, che essendo recise da essa le conditioni particolari et individuali, ratiene solamente appo sé il loro comune et eguale. Onde havendone essa mente construtti alquanti di tali universali se ne serve poi in construire le machine silogistiche, deducendone conclusioni e deduttioni parimenti universali, che contrastando questi poi con il tempo deludendo li suoi insulti, in sempiterno illesi et inalterabili rimangono, lasciando che con l’individui eserciti esso tempo le sue fierezze et abbattimenti. Presi a ventilare tal positione, primieramente incontrai irreconciliabili controversie e contumaci digladiationi389 fra li fautori di detti universali circa il modo della produttione di essi, ché ricorrendo tutti unanimi al suffragio dell’intelletto agente, divengono poi fra essi contrarii, altercando se diviso, over unito sia con il nostro passibile, e ricetivo se concorre a tal formatione come efficiente, overo estrahente, o piuttosto a guisa di lume che faccia l’universale apparire. Ma troppo lungo devenirei

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    se referire volessi ciò che in tal proposito fu detto e ridetto. Per il che lasciando per hora tale discussione a parte, mi risolsi solamente considerare ciò che in loro stessi tali universali siano. Applicai dunque il mio primo impiego ad esaminare, se nella classe delle cose reali che fuori di noi esistono porre si devono, ma non sì presto che mi si appresentò tal quesito, fu dalla ragione e senso regetto e ributtato che nella classe di cose reali esterni si ritrovassero, essendo qualunque cosa da loco circonscritta e da tempo terminata, onde seguii a speculare se pure nella idea humana rappresentare si può tali universali. Ma questo anco non mi riuscì admissibile, ritrovandoli non solamente privi di soggetto esterno, ma anco destituto d’imaginabile interno concetto, e che tenga appo noi né anco lieve formalità. Ma Platone, mio singolare amico, hora qui assistente, inteso che hebbe tal mia390 perplesità circa li universali come [153] di essi grande partegiano, accorrendomi, in tal maniera mi favellò: “Qual offesa contro di te comisero le humane dottrine che con abbattere l’universali, attenti affatto eliminarle e distrugerle? Non ti accorgi, o Socrate, che mentre nieghi l’esistentia di tal universali, e che li detrudi non solamente dal mondo reale, ma anco mentale, che si distruggerebero le humane scientie, alli individui sempre alterabili e corutibili appogiate, ché giammai questi nell’istesso modo permanenti e stabili non sono? E che riuscirebbero al pari di essi labili, e di niuna ferma esistentia sortire?”. Al che io li risposi che non fuori del dovere egli prese la pretensione e patrocinio della scientia che tanto celebre lo ha renduto appresso il secolo presente, e se il genio non mi falliva che al venturo non è per riuscire di minor grido, ma che io havendo di già rinontiato ad ogni scientia, poco mi curavo se dalla destruttione di tali universali, sortisca l’eversione delle dottrine. Anzi,
  • che havendo rivocato le391 mie contemplationi da cieli, e da qualunque altro oggetto alli affari humani, era parimente mia incombenza difendere la prudenza che li regge e governa, et espugnare e prostrare tali universali che ad essa tanto nuocono e dannegiano, non havendo io ritrovato, chi più d’essi infeliciti le nostre attioni. Onde li massimisti e formalisti

    Rigetta l’universale che né anco mentali siano

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    senza l’inspettione e pratica di particolari, et individuali circonstantie di negotii, il tutto confondono e turbano. Per il che siccome questi tali nelli aringhi e publici ragionamenti acquistandosi credito appresso li imperiti, riescono vittoriosi, così nelle esecutioni e maneggio delle cose, sortiscono inetti, e ridicoli. Il che aviene dal non potersi giamai aggiustare et adattare l’emergentie che alle mani tengono a quelle massime che ritratte dalli avenimenti preteriti, e particolari, non hanno corrispondentia con le occorrenze presenti. Da quindi è che li Persiani et altri che con il nome di barbari dilegiamo, aveduti et [154] osser|vantissimi del stato presente, non punto ogettando392 il tempo passato riescono prosperosi nelle loro intraprese, havendo occupato tutto l’Asia e tuttavia alla nostra Grecia minacciano. Ma noi Ateniesi che sopra tutte le altre nationi di tali axiomi universali per la cognitione delle istorie et eruditione delle dottrine siamo abbondantemente provisti, giammai fuori dell’Attica piciola et angusta provincia della Grecia non ci fu concesso protrahere e dilatare il nostro dominio. M’anco quando che alcuno danno non ci apportassero tali universali, essendo le admissioni di essi alla ragione repugnante, punto movere non mi deve il pregiuditio e nocumento che la loro eliminatione apportasse all’humano sapere, ché siccome la giustitia commutativa punto sbilanciare non si deve, per la meschinità che seguire potesse ad uno di litiganti per cagione della giusta sentenza che contra esso fosse pronontiata, così anco non lice al retto discorso deviare dalla verità, segue qualsivoglia danno all’humane dottrine. Al che replicò Platone: “Hor dunque a questo accingere ti devi, dico a dimostrare et evincere la falsità di tali universali, ché non meno di te sincero cultore della verità io sono”. Al che ripigliai: “Stimi forse, o Platone, che di minor ambito sia il concetto universale non limitato da loro né da tempo benché estratto fosse da minutissime, et individuali formiche, che la dimensione d’un libico elefante, o vasta balena?”.

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    Risposemi: “E chi può dubbitare che più amplo sia l’universale cavato benché di picciole formiche, abbraciando esso quanti furno, sono, e saranno, che lo rappresentamento d’un elefante over balena per grandi che siano?”. Soggionsi io: “Stimi tu forsi che nel formicaio, stantiare et addaggiare vi potesse tali smisurati animali?”. E seguii che non fuori di proposito di ciò lo interrogai. “Non certo”, rispose egli. Ma io li continovai: “Molto avenentemente hai corriposto393 alla aspettatione che di te ho conceputo, essendo guidato dal retto discorso meco [155] affermi l’impossibilità di tali universali, e che anco dall’intelletto li convenga prendere comiato et esilio”. Ma replicò egli che qual ne sia di ciò la cagione li dimostrassi. A che occorrendo li dissi, che esporre mi dovesse se stimava che l’humano intelletto nel qual sono dipinti tali universali, fosse cosa terminata, over che né a loco né a tempo alcuno fosse affisso e limitato. Risposemi egli che ciò non crederebbe giamai, ma che indubitatamente cadauno di noi tenga il suo intelletto spetiale, in se stesso circonscritto, con suoi particolari concetti e singolari openioni ad altrui non comunicabili, e che a tempo e loco egli sogiacia. Al che io continovai: “Non advertisci, amico Platone, che sei sorpreso, e nella rete colti sono li tuoi universali, benché come li fingi per la loro difusione siano inattingibili, havendo tu stesso confessato che il tuo intelletto fondamento e soggetto che sostiene in sé tali universali, e nel qual si ricovrano, sia singolare, e da essi di conditioni affatto diverso, e parimente tieni asserito che picciol loco non possa capire dimensione molto di lui maggiore, et essendo l’universale

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    molto maggiore in proportione, di quello sono li elefanti e balene resta anco parimente concluso che impossibile sia che l’idea et imagine dall’universale si rappresenti e rafiguri nell’intelletto”. Al qual mio ragionare riconoscendosi Platone convinto altro non replicò. Ma io instando394 la vittoria di nuovo l’invasi, dicendoli: “Non osservi, o Platone, che admettendo l’universali introduci nella tua mente certa spetie di simulacri la più diforme, assorda, et incomprensibile, che l’istessa imaginatione decantata volgarmente genitrice delle fallacie et illusioni giammai non seppe fingere? Rafiguraci, o Platone, il colore in astratto, che non sia negro né bianco, né giallo né rosso, né verde né turchino, né di altro spetiale colore, che sarà egli? Et in che maniera ti rappresenti l’animale che non sia né homo, né cavallo, né bue, né leone e d’altri simili spetii? Oltre che essendo il genere [156] universale e per dir così infinito, la spetie anco universale e perciò anco essa indeterminata et infinita in qual maniera il genere sarà di maggior continentia che la spetie, essendo ambi infiniti, tenendo questi per legge inalterabile, che l’uno infinito non possa l’altro avanzare? Onde Diogine nostro amico, non perché fosse di tardo e rude ingegno come alcuni di suoi adversarii finsero, pronontiò, che egli benissimo scorgeva Alcibiade, Agatone, Calicle e Clinia, e che discerneva quali homini fossero, ma che verso l’humanità over l’asinità affatto cieco riusciva”395. Al qual ragionare replicò Platone che per il certo da mie ragioni rimaneva alquanto convinto, ma che nondimeno il discorso conveniva cedere alla evidenza del fatto, e che quotidiamente in noi stessi esprimentiamo le appresioni di tali universali, non meno che con il senso esterno li singolari individui. Al che soggionsi che oltre modo circa tal pratica s’ingannava, stimando egli di riconoscere cosa universale, mentre che singolare a tempo, e loco circonscritto apprende, e che altro non fosse l’asserto universale da lui pronontiato, ma pravamente

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    inteso, che un imperfetto abbozzo, che desidera l’ultima mano dell’artefice che lo riduca ad un distinto et elaborato dissegno. E siccome un rude tronco di legno già diramato a diverse figure che dall’opefice l’è imposto ubidisce, così anco l’universale essendo certa tal informe figura, può di esso sortire diversi individui, non resta però che in conformità dell’abbozzo e tronco accenati, non sia singolare et individuo. Per il che tal universal di che tanto si milanta l’intelletto, ci riesce rudità396 et imperfetione o per dir meglio sconciatura et aborto della mente, ché per anco non ha receputo l’ultima et estrema lineatura. Per il che fu, a mio stimare, con gran pregiuditio e detrimento di esso intelletto da savii publicato, che alla mente appartengono l’universali, et al senso li singolari, essendo questi reali et sistenti397, e quelli finti e putatitii. Rimase affatto convinto Platone dal mio divisare, benché non poco impalidito, [157] scor|gendo esser abattuta la sua già cotanto pregiata scientia, che sopra le basi di tali universali si sostentava, ma tuttavia con generosa modestia confessò, che non poco di commodo haveva da ciò conseguito, essendosi scaricato dal grave preso di errori che per vere et infallibili dottrine stimava, rimanendo di gran lunga inferiore l’emolumento che da queste putatitie traheva, che li nocumenti che ne risultavano, e che hora esprimentava che il maggior grado al qual sormonta l’humano ingegno, caruisse stultitia398 e non acquisisse sapientiam399, promettendomi che per l’avenire critico censore divenirebbe contro il suo proprio sapere, non come per inanzi, n’era cieco, et indulgente genitore. Disciolto il favellare con Platone, mi riapplicai a soliti esercitii, e per non lasciare che d’intentato circa la mia principal inchiesta, alla consideratione alli altri mezi et instrumenti che sono ad esso intelletto più famigliari e che adopra per conseguire le sue contemplationi mi dedicai. Fumi400 di alcuni pitagorici detto, che verisimile fosse, che quella miglior causa che ottimamente ci formò, non si rese parca et invidiosa all’intelletto humano, dedicato alla inspettione delle bellezze dell’universo, nel concederli idonei instrumenti, et aggiustate norme per il mezo de’ quali esercitare potesse le sue fontioni e riconoscere la verità scopo e meta del suo mental camino. Per il che stimavano che nella mente humana dal

    250 Contra li Pitagorici che affermano l’incomplicabilità de contraditorii

    SIMONE LUZZATTO

    principio del suo essere fossero stati inserti, et instilati alcuni semi, e primi essordii, mediante li quali esso ordinar e regolare dovesse la condotta e serie di suoi discorsi. Principali fra questi, è quella massima e propositione che nega li contradittorii insieme cohabitare possino. Inteso ciò interrogai questi sapientissimi homini, s’estimassero ragionevole che giudice pronuntiasse sentenza peremptoria a disfavore di alcuno, inanzi che tenga appreso lo stato della causa contraversa. Prontamente risposero che ciò riuscirebbe affatto ingiusto et iniquo giuditio, ma che prima conviene rappresentarsi le ragioni d’ambi li altercanti e formalizarsi della [158] qua|lità del litigio. Replicai: “Stimate dunque, ottimi homini, che dannare si devono per falsi li centauri, et hidre, e castelli volanti se prima non se li rafiguriamo almeno con la imaginatione?”. “A satietà”, replicarno, “ci affatichi intorno ciò, amico Socrate”. Al che soggionsi: “Per il certo indecente e precipitata sentenza fu la vostra, mentre che per anco giammai non vi habbiate rafigurato duoi contradittorii insieme complicati, eppur havete ciò dannato, come falso et impossibile”. A questa mia instanza replicavano dal non haversi giammai potuto tal complicatione di contradittorii apprendere, dedurre si può la sua impossibilità. Al che soggionsi con dirli che tale consequenza et illatione punto non teniva del necessario, poiché moltissime altre propositioni riescono incomprensibili, né la mente se le può imaginare, ché tuttavia non solamente non sono possibili, ma di più anco necessarie, quali sono che due linee benché vicine, prolongandosi all’infinito e sempre l’una all’altra accostandosi, nondimeno giamai insieme si possono congiungere, il che riesce repregante al discorso: “Eppur la demostratione matematica dedotta da questi tali vostri primi principii, conclude che ciò avenga,

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    che parimente infinite siano le parti d’ogni continuo, e che perciò l’uno maggior dell’altro non dovrebbe esser, escludendo l’infinito la maggioranza e minorità. Nondimeno non tenimo sotto li occhi cosa più famigliare et evidente, che la disuguaglianza di corpi, et il motto fondamento di tutte le operationi sì naturali come humane, in qual guisa avenga affatto è incomprensibile et al discorso inattingibile, mentre che non si admetta la complicatione di contradittorii, poiché, ritrovandosi il mobile nel loco d’onde partì per anco non si move, se nel loco ove tende et aspira, di già il motto è finito e terminato. Per il che pare che ci convenga dire che continuando il flusso, e successione, che sia e non sia in tali lochi e termini. Eppure non si può repugnare al senso, con asserire, che [159] non si trovi il motto, ché rifiutandolo ci converebbe negare l’istessa natura, che comunemente è definita principio di motto. Per il che a torto fu dannata la coasistentia di contradittorii, se d’altra instanza che dalla incomprensibilità a tal sentenza pronontiare non siano motivati li autori di tal dogma, ma che piuttosto alla tardità della nostra insufficientia in apprender la detta complicatione ciò attribuire dovevano. Ma se a contrarii vogliamo rivolgerci, li osservaremo parimente altrettanto pieghevoli401 a riceversi e concedere hospitio l’uno l’altro. La qualità rimessa del caldo e freddo, non è amichevole introduttione e penetratione dell’una nell’altra? La reatione parimente admessa comunemente fra le operationi della natura, che altro è che mescolamento di attione e passione nell’istesso soggetto? L’harmonia di suoni, la soave compositione di odori, l’aggradimento di cibi mescolandosi il dolce e garbo402 insieme non sono resultantie di interno mescolamento, e totale confusione di contrarii? Ma che, nell’istesso punto dell’aere non si ritrovano l’imagini del nero e bianco da diversi corpi coloriti ivi mandate? Anzi che nell’apice del cono che ferisce l’organo visivo, quanti diversi simulacri di colori e figure contrarii vi si uniscono? Il piacere ristoro di nostri affanni e lusinghevole trattenimento della vita, non è egli composto et unito con il dolor suo contrario?

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    Indicio di ciò è che cessando questo si termina quello, ma nel contatto, quando accade che duoi contrarii l’uno l’altro si tocca risultando fra essi certa unione, non segue necessariamente che li contrarii si areccano fra loro benigno albergo? Ma lasciamo hormai ciò a parte quando anco a tali oppositioni fossimo indulgenti, non mi saprei giamai risolvere, ottimi amici, di concedere a tal vostro principio e fondamental origine della nostra scientia, prerogativa di antianità sopra molte altre cognitioni, che a mio stimare lo precedono o almeno che circolamente l’un all’altro egualmente precede e segue, [160] poiché a raccogliere la impossibilità che li contraditorii insieme nell’istesso sogetto, e medesimo tempo si complichino, et uniscano, ci conviene prima rappresentare ciò che sia l’essere, e non essere, de quali si compongano li contraditorii, concetti tanto ardui quanto dal ragionare di Gorgia si dimostrò. Parimente bisogna apprendere ciò che sia l’istesso et identità, che forse riesce delle più spinose dottrine che assagi la nostra mente, per la moltiplicità de generi de distinioni di novo ritrovati in che si abbagliorno403 li più acuti ingegni. Né anco ci deve esser occulta la natura della impossibilità e d’onde essa procede e prende forza la sua fatale renitenza, tutte quante speculationi delle più difficoltose che in sé habbia la filosofia. E senza dubbio per altro verso ci occorerebbe grave assordo, apprendendo prima l’antecedenti cose, che la inessistenza de contraditorii, poiché ci converebbe molte fiatte servirsi di tal vostro principio cioè che l’essere e non esser insieme cohabitare nell’istesso soggetto nel medesimo tempo non possino, e converebbe inanzi che egli fosse appreso, riconoscerlo e per vero saperlo, come anco riesce impossibile tenire cognitione di alcuno composito qual è tal vostra axioma, se prima non si tenga cognitione de suoi componenti che sono li antecedenti concetti. Per il che si scorge che cirolarmente tali apprendiamo. Ma anco apparisce assordo per altra maniera il dire che tal principio ci sia dalla natura e non dal senso e discorso

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    additato, poiché ciò repugna ad ogni sana ragione, che se la cognitione delli componenti che constituiscono tal massima non è altrimente in noi da essa natura inestata, ma per noi de sensi habbiamo ciò appreso, così parimente la incomplicatione di tali cose per l’istessa via e modo habbiamo ottenuta, essendoci interdetto di apprendere tali impossibilità senza la notitia de’ soggeti a cui essa si attribuisce, et inferisce. Per il che probabilmente stimar si deve che sebbene ottenga tal axioma peculiare dignità sopra l’altre cognitioni, ha comune con [161] esse l’istesso natale, et origine, ma che questo per la frequenza del suo uso sia giudicata sopra l’altre propositioni evidentissima et indubitabile. All’istanze antedette vi si aggiunge che alcuni di sapienti ardiscono di negare la sua certezza, fra quali fu il nostro amico Protagora, che perciò acquistò celebre grido havendo intrapreso di opporsi al comune concetto de tutti li homini”. Ma li detti pitagorici di novo risorsero con protestarmi, che molto circonspetto doveva io procedere in tal affare, ché abbattendo tal principio e fondamento, pericolarebbero tutte le dottrine. Et io li repplicai che anzi essi advertire dovessero di non erigere le machine de loro scientie sopra fondamenti incerti e fievoli, et in tal maniera dissolvessimo il ragionare senza haver raccolto da essi cosa soda circa li mezi che adopra l’intelletto nelle sue speculationi. E non potendo riportare messe di alcun rilievo da tale disquisitione, mi transferii al considerare l’ordine che tiene l’intelletto nell’esequire li suoi mentali esercitii, né di ciò lo trovai punto meglio informato che degli altri suoi affari. Mi apparì che fra le controversie più irreconciliabili che l’istesso intelletto agiti, è, quale sia il primo conoscibile che al suo giuditio si appresenta. Ad alcuni rassembra che se li incontra il più universale e comune, ad altri il maggiormente singolare fosse l’anziano che li apparisce, ad altri e l’uno e l’altro, ma in diverse guise. Oltre di ciò li resta dubbioso, se prima riconosce l’affermatione, che la negatione. Alcuni di sapienti preferiscono l’affirmatione, dovendo il positivo come fondamento precedere

    Considera l’ordine che tiene l’intelletto nei suoi discorsi

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    al privativo. Ad altri il contrario li aggrada, ché siccome è credibile che all’esser reale li sia anziano la privatione, così parimente occorrere404 deve al mentale, oltra che, dovendosi per esempio affermare che il cigno sia bianco, prima conviene riconoscere che il cigno e la bianchezza non siano l’istesso, perché se altrimente fosse non riucirebbe affermatione ma piuttosto tautologia e repetione dell’istesso. Oltre di ciò si trova [162] l’intelletto come che instupidito nel sapere discernere qual primieramente se li rappresenta, la unità overo la moltitudine. Da un lato li appare che precedere dovesse l’unità come principio semplice e componente della moltitudine non essendo questa altro che riassunta unità, ma per altro verso, considerandosi che la definitione della unità consiste in non haver parti, conforme la definì il nostro Euclide, però405 rassembra che prima conviene riconoscere la moltitudine che la unità. Et in non minore preplessità e flutuatione ritrovai involto l’intelletto circa quelle cose che ad altri si rapportano e referiscono, non sapendo egli, o forse non potendo discernere, a qual primo de corelativi applicare si debba, dipendendo sempre la cognitione di uno d’essi, dall’apprensione dell’altro, non potendosi riconoscere ciò che sia amabile se non si apprende prima quello sia amante, e così per il converso. E parimente del Signore non si può tenir cognitione, se prima del suditto non siamo informati, né di questo senza di quello si formallizamo, né ambi nell’istesso tempo si possono comprendere, mentre che confondere non vogliamo tali cognitioni, mescolandosi insieme diverse e repugnanti apprensioni. Da quindi risulta che de simili, diferenti, contrarii, proportionabili, eguali, cause, effetti, significanti, significati, sensitivi e sensibili, intelligibili et intelligenti, non può l’intelletto per molto che circa essi speculasse, conseguirne per cagione di tale impedimento perfetta cognitione, non potendosi terminare a quale prima di relativi impiegar si debba. Da ciò forsi prociede che riesce preplessa et incerta la cognitione della relatione a segno tale che alcuni rifiutandola affatto, fra le chimere la aroralarno406. E per il certo l’ingannarsi l’intelletto circa l’ordine e serie delle sue attioni, non puoco lo discredita e l’arreca biasimo. Qual è pittore da sì grave ignoranza oppresso, che non tenga appreso l’ordine della sua operatione?

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    Forse si trova tale che non sappia che prima li convenga ordinare la tella over tavola, ove formare si deve [163] la pittura, macinar li colori e doppo maestevolmente407 temperarli, formar l’abbozzo, perfetionare il disegno, apprestare il colorito e doppo ritocandolo produrre li sbalzi e risalti, profondare le cavità et ultimamente poi dolcemente far isvanire li più duri e tagliati contorni? E qual è parimente architetto che non sia informato che prima convenga misurare il tereno sopra il quale attenta erigere l’edifitio e poi conforme il sito e capacità formare il modello, scavare li fondamenti, finalmente constituire la ideata fabrica? Eppur l’intelletto humano che presume donare regola, misura, et ordine a tutte le cose, riesce tanto imperito della serie e seguimento delle sue proprie attioni, non sapendo qual di esse prima e qual doppo esequisca. Ma havendolo io dunque trovato tanto ignaro circa se stesso e proprie operationi, non mi arrecò poi tanto di meraviglia rinvenirlo parimente affato cieco circa il riconoscere li suoi più famigliari e domestici ministri, et esecutori de suoi consigli. E per il certo riesce stupendo che egli fondator de regni, instituitore de republiche, legislator de popoli, rimanga sconoscente de suoi proprii agenti et astanti408, che pur a meno che a cenno eseguiscono li suoi comandi. È ben vero che di tanta sua inavedutezza difendendosi, rigetta l’administratione del sistema humano alla volontà, a cui egli come semplicemente consultante sugerisce il suo proponimento, dimostrandole il bene che si deve eleggere, et il male che conviene rifiutare, dovendo poi essa volontà a spiriti interni imporne la esecutione delle sue arbitrarie deliberationi. Ma nondimeno non se può all’intelletto raggionevolmente admettere tal discolpa e sfugatoio409 poiché rapportandosi egli alla volontà, e confessandosi ignaro de ministri et esecutori di essa, ne segue non mediocre assordo, constituendo la volontà priva di cognitione come da esso disgionta, ché avenirebbe perciò alla nostra interna republica quell’assordo che ad Anacarsi Scita410 benché di natione barbara ma di ingegno non punto [164] incul|to osservò nella nostra republica, che governandosi allhora, con forma popolare, li fu addimandato quello che giudicasse di tale maniera di reggimento. Onde liberamente rispose che punto non li aggradiva tal maniera di

    Considera l’instrumenti che adopera l’intelletto

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    publica admonistione411, ove li savii quali erano li Areopagiti proponevano, e li pazzi cioè li volgari e plebei deliberavano. Tale veramente per il certo ci occorarebbe quando admetessimo la volontà dall’intelletto divisa e distinta, per il che si scorge che attentando l’intelletto sfugire una dificoltà in altra maggiore si conduce, ma se anco questa difalta dissimulare volessimo, affatto non si scolpa dalla propria inscitia e sciochezza, poiché se la volontà distinta di lui si ritrova, non sa né anco riferire in che maniera le propone li suoi consiglii, ché essendo la volontà di ragione priva in che modo li sugerisce suoi amaestramenti e documenti? Ma se non per modo di instruttione ciò eseguisce, con quelli mezzi la inclina a suoi insegnamenti et instruttioni? Forsi a guisa di pedagogo con le sferzate over altra simile violenza? Over come sugello l’imprime ciò che li aggrada? Ma s’è l’istesso la volontà con l’intelletto ci occorre la primiera assordità, cioè l’ignorare li suoi agenti e ministri. Et è notabile che nella inspiratione e respiratione e formatione della voce, vi concorrono al numero di ottantasei muscoli incirca412 li quali benché eseguiscono ciò che l’intelletto e volontà l’impongono, da quelli punto non sono riconosciuti, né osservati, ma sì bene doppo lunga osservatione di anatomica inspettione da pochissimi e peritissimi dell’arte, ciò è riconosciuto et advertito. E quello è di maggior stupore, che anco nel tempo del sonno, si eseguisce l’inspiratione e comottione di sì gran turba di muscoli benché l’intelletto, principale rettore di nostri motti, alhora in se stesso sia raccolto et attratto, ché il rimettere ciò a semplice et incogitante natura non riesce ragionevole, essendo in balia dell’intelletto a suo talento il ritenere, ritardare, et acelerare la inaspiratione, ché perciò a [165] fa|coltà animale attribuire si deve tale attione. Per il che quando io vaneggiavo nell’affermare dogmi, stimai ciò non ineficace coniettura per condurmi ad affermare, che più d’uno regesse li nostri volontarii motti, et essendo l’uno occupato over sopito, l’altro come suo vicegerente eseguisce li offitii di quello. E di più ciò che circa tal proposito è degno di osservanza, che l’intelletto unito con la volontà in un medesimo momento a diversi membri distinti e lontani l’uni dalli altri compartiscono spiriti talmente aggiustati e proportionati, che ad un medesimo tratto le fauci cantando, le mani suonando, li piedi danzando,

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    con mirabile corrispondentia insieme si aggiustano, et accordano, e tuttavia rimane l’intelletto affatto ignaro del modo e guisa che tiene in ciò operare, et eseguire. Ma lasciamo a parte tali attioni, ché pure si riconosce che l’intelletto in certo modo ne sia autore, ma l’esercitio del caminare che con tanta incognitanza413 dell’intelletto si eseguisce eppure da esso dipende, poiché non si potrebbe giammai il nostro corpo sopra un piede sostennersi come aviene nel caminare, se non fosse dalla mente ritrovato il proprio suo centro della gravità, sopra il qual bilanciato in positura retta si mantiene, come accade a tutti li altri corpi che equilibrati sopra il centrale loro punto insistono, e non vacilano. La cui inventione414 riesce molto malagevole nel corpo humano tanto irregulare, che anco nelle semplici superficii regulari il ciò ritrovare fu reputato da periti matematici, più che mediocramente arduo, eppur noi senza alcuna advertenza et ad altro pensando, e mentre operamo, lo serviamo, e non solamente li sapienti et addottrinati, ma l’idioti e fanciullini con somma prestezza et agilità ciò eseguiscono. Ma quello che trapassa la meraviglia che anco dormendo ci conservamo in tal equilibrio sopra il centro della nostra gravità, che vigilando ci siamo constituiti. E non manca parimente di admiratione l’osservare che essendo li spiriti esecutori di consilii dell’intelletto, e decreti [166] della volontà non solamente privi di capacità di ragione, ma di vita, come afferma il comune di sapienti, che così prontamente et alacramente pongono in opera ciò aggradisce e piace a loro regenti e comandanti. Ma se altrimenti, con quali urti e scossi l’intelletto, over la volontà, tanto spirituali et immateriali movono et agitano tali ignari et insensati operarii? E per porre in esecutione le loro deliberationi, quali vetti415, taglie, torchi, et altri mecanici strumenti appo loro tengono di mover corpi così gravi e ponderosi? In che maniera l’imagine di un picciolo pesciolino, per trapassare anco fuori del nostro genere, riesce bastevole a movere vasta balena che velocemente accorre per ingoiare l’originale di tal imagine? Il ricorrere per resolutione di tali difficoltà al patrocinio della simpatia, stata questa per un lungo tratto di tempo sicuro ricovro a negligenti investigatori della natura, stimarei vano sfugitolo. La magnete già asilo di tali

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    Considera il fine del sapere

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    pigri e scioperati esploratori delle cause di mirabil effetti, ha liberamente manifestato le germane cagioni della sua attrattione, e vertecità. Per il che rimane vano il dire che li membri mentre che obediscono a cenni della parte dominante, non sia ciò, per semplice loro ossequio, o impulso che da quella ad essi pervengono, ma piuttosto ci accada per certa simpatia che tengono di conformarsi con quella serie d’imagini che nella mente e volontà allogia, onde tale ricovro riesce piuttosto nenia infantile e favola annile, che soda e consistente dottrina. Ma da tale discussione circa l’imperitia dell’intelletto circa li criterii et organi che adopera per essequire li suoi proponimenti di nuovo riconobbi e ritastai quanto sia grande l’humana ignoranza, e cecità. Mi rimaneva solamente scorrere affatto la mia cariera l’addatarrmi al considerare il fine e scopo a cui indrizza la mente tanto suo travagliare. Non ragiono hora di fini accessorii, et adventitii, come sarebbero le ricchezze, honori, autorità, et altri simili, ma parlo di quell’ultimo scopo e bersaglio a cui dirige [167] et incamina lo sapere humano. Onde ritrovandomi in tal speculatione implicato, mi occorsero Diogene416 et Aristippo mentre che io per diporto417, nel giardino di Alcibiade mi era condotto, godendo ad un tratto ivi della amenità della terra e vaghezza del mare, del corso di fiumi et erettione di montagne, compendio di tutto ciò che nell’ambito dell’universo si raccoglie. Ma soprattutto remanessimo non mediocramente admirati dall’osservare la notabile varietà di piante, così domestiche, come forestiere che il giardino, con maestevole ordine conteniva. Onde per tal diversità di vegetabili fu preso a divisare Diogine, che siccome la natura riuscì diligentissima nel variare li generi delle stirpi, così anco molto industre fu nell’apprestare a qualunque di individui di medesimi generi l’istessa conditione e virtù, ma che il contrario pare che osservasse nella humana spetie, che di tal equalità punto non si curò, ritrovandosi cadauno homo, tanto diferente di virtù, conditione, costumi, et opinioni dall’altro, che rassembra che cadauno d’essi constituisca affatto diversa spetie. Onde se l’anatomia interna dell’animo si potesse praticare, come la disecatione del corpo, s’osservarebbero le più portentose monstruosità che giammai

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    la imaginatione formalizare si potesse, né l’Africa di heterocliti parti fecondissima madre, né la licentiosa libertà di poeti e pittori, tali ne formarebbero e fingerebbero. Da che presero origine quelli tre celebri pronontiati che appo il volgo passano per adagii, homo homini Deus, homo homini lupus418, homo homini homo, ché forsi questo ultimo meglio espresse la fierezza dell’human genere. Ma da tal discorso disentiva Aristippo, et opponendosi a ciò, prese a dire, che la natura non ci trascurò punto, havendoci construtti tanto fra noi varii e diversi, né che ciò da forsennato caso risultò, m’anzi, che da tal varietà si può argumentare che essa natura tenne di noi ottimo provedimento, ché havendo le piante come che a stampa gettate, delli homini come che se caduno di [168] appar|tata spetie fosse, con particolare idea et esata diligenza ne prese cura e patrocinio, acciocché per tal diversità riuscisse l’universo più vago et ornato. Ma Diogine a ciò contradicendo replicò, che se tal varietà da accurata incombenza derivasse, doveva sortire in noi ciò che in quello giardino accadeva, che la diversità delle spetie che in esso vegetano lo rendevano di riguardevole e giocondissimo aspetto e visaggio: “Ma per il contrario chi considera quali siano le diverse e strane conditioni, costumi, et openioni delli homini, infetti di tante assordità e sconvenevolezze, altro probabilmente stimare non si può che tali diversità altro non siano che errori che deviano dal vero tipo della humanità, né che ciò a malignità della natura et a sua difalta attribuire si deve, ma piuttosto ad insano et in discreto caso derivare. E per non prendere da ciò lontani essempii dimostrarotelo con cinica libertà. Se il tuo animo, Aristippo, al senso visivo altrui si rappresentasse, siccome io con la mente mi lo rafiguro, in sembiante di monstruoso centauro e diforme harpia li apparirebbe”. Al che Aristippo alquanto alterato rispose: “E qual impulso ti move a ciò pronontiare e in sifatta maniera dileggiarmi?”. Sogiunse Diogene:

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    “Mi move l’osservare che havendoti il piacere proposto per ultimo fine delle humane attioni e ciò sfaciatamente con non poco d’infamia della filosofia hai al mondo divolgato, onde con grande nostra ingiuria ci hai intruso nella classe di bruti, perciò sei in parte a questi simile. Ma d’altro verso osservandoti tanto solecito et anhelante all’indagare la verità e riconoscere le cagioni delle cose, oltre lo esser ornato di qualunque altra egregia morale virtù, non solamente homo ma semideo mi rassembri. Onde havendo advertito che il tuo animo di tal heterogeneo mescolamento sia composto, fui indotto a dire che mi rafiguravi in guisa di centauro”. Al che ripigliò egli: “Se mi riponessi nel rollo delli animali, anco che brutti da te stimati, gran caso di ciò non farei, ché tuttavia ancor essi dalla comune madre [169] natura sono prodotti et educati, e nella classe di enti reali sono riposti, ma che m’assegni loco fra portenti di poeti, et arditi capricci di pittori ciò patientare non voglio. Per il che desidero che rimanghi informato appieno di questo mio tal instituto. Conviene dunque che sappi, che il piacere non solamente al corpo, ma all’animo parimente appartiene, e se a tempo dedicato al servigio del corpo e suoi piaceri con ogni mia cura e conato m’impiego, altro tanto quando di ciò mi trovo satolato al diletto dell’animo tutto mi offerisco, refocilandolo con curiose speculationi e mentali tratenimenti. Onde io a guisa di economo diligente, all’uno e l’altro della mia famiglia al debito tempo presto quello se li deve, ché perciò riesco tenace sempre del mio principale proponimento, il piacer continuamente seguendo e tracciando. E per il vero con tanto maggior fervore il diletto dell’animo procuro, che la volutà del corpo, quanto che quello più durabile e privo di qualunque nocumento mi riesce”. S’oppone che il diletto sia il fine del sapere

    A tal ragionare acquietosi Diogine, ma io stimolato dal proprio genio non potei rattenermi419, et ad Aristippo volgendomi li dissi che ponendo egli l’ultimo fine e scopo delle attioni et attentati humani il piacere comune al corpo et all’intelletto, conveniva

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    constituirlo a guisa del colore che contiene sotto di sé il nero, bianco, rosso, giallo. Per il che conviene che resti accordato fra noi che la voluttà sia un certo universale comune a tutti li piaceri e diletti particolari. Accennò Aristippo a ciò assentire, seguendo io: “Parimente stimarei anco, che fra noi fosse aggiustato che il piacer altro non sia che un nostro interno risentimento che ci accade per la restitutione che si fa in noi al primiero naturale stato”. Assentì egli. Et io: “Ma se questa è la deffinitione del piacere pigliato in comune et astratto, bisogna che tanto si addati al corporale quanto all’intellettuale. Da ciò si deduce che tre siano li statti nelli quali si trovamo, indolenza, dolore, e piacere. L’indolenza quando [170] siamo senza alcuna alteratione, dolore mentre che si partimo dal statto naturale, piacere quando di nuovo ad esso restituiti siamo, cioè mentre che dal dolore alla indolenza facciamo passagio. E che esso piacere tale sia, potemo da ciò argomentare, che cessando in noi la sete e fame si estingue anco il piacere del bere e gusto del mangiare. Hor dunque stando le predette assertioni in tal guisa stabilite ruminiamo di nuovo alquanto circa quello affermasti che il piacere sia il sommo bene ch’a noi s’aspetta. Primieramente parmi che non solamente non sia sommo, ma che né anco semplice bene egli sia. La ragione che mi move a ciò dire, è, ch’essendo il piacere posto fra il dolore et indolenza, cioè un progresso fra questa e quello, come fu hora detto, riesce un certo mescuglio dell’uno e l’altra. Per il che il nome di bene offerirli decentemente non se li può, non potendo esser bene colui che uno de’ suoi componenti è male quale è il dolore, ma che questo tale sia, non crederei che né anco li pazzi ciò negassero, poiché con il timore del dolore si rendono alquanto mansueti. Ma né anco l’indolenza è meritevole dell’economio del bene, essendo essa anco alle pietre insensate comune, onde se l’esser privo di dolore

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    bene fosse, mentre che ciò desiderassimo, bramaressimo di renderci alla conditione di freddi marmi. Ma oltre di ciò se il piacere, come tenimo concertato, consiste nella restitutione al primiero naturale stato, non sarebbe per se stesso desiderabile, ché pur ciò si stima il proprio carattere del sommo bene, poiché giammai si bramò per se stesso il risanarsi, ma sì bene doppo che havessimo smarita la sanità, e di già incorso nella infermità. Ma di più avicinandomi al primiero nostro proponimento cioè al diletto che sentimo nella speculatione, ci converebbe dire che la scientia già appresa sia a guisa della indolenza, l’ignoranza simile al dolore e lo speculare eguale al piacere. Ma che l’ignoranza generi per se stessa il dolore non saprei in qual guisa ciò rassembrarmi, essendo essa ignoranza il più potente [171] nar|cotico che ci habbia proveduto la natura a renderci imperturbati a dolorosi colpi che ci sono dalla fortuna inviati. E se sovente ci lagnamo della nostra ignoranza ciò accade per il riconoscimento che di essa tenimo, onde il contrario di essa, cioè il riconoscimento, è quello che ci molesta e tormenta, overo altra prava consequenza che da quella deriva, ad essa adventitia420 et accessoria come il sprezzo, e mala riuscita di nostri intraprese. Ma di più se il bene, come affermi, è il piacere che si conseguisce dall’atto dello speculare e ricercare la verità, doppo conseguita che questa fosse, rimarebbe terminato et estinto il bene, onde mentre che procacciamo e tracciamo la scientia ottenimo il sommo bene, ma acquistata che l’habbiamo estinguendosi esso piacere, ci svanisce il sommo bene. Per il che sarebbe desiderabile per continuare nel diletto cioè nel bene, subito che havessimo conseguito la scientia dimenticarla acciocché di nuovo tenissimo occasione di reiterare il piacere che conseguimo nel riacquistarla, et infratanto ripossedere il bene del diletto che in ciò sentiamo, divenendo simili a quelle miserabili sorelle che attingendo con crivelli421 l’acqua, giù questa cadendo, li bisogna continuamente rinovare il loro vano

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    impiego. Ma di più aggiungo, che dubito il piacere, che dal conseguire la verità prendiamo, non sortisce per cagione di essa verità, ma che il diletto risulta, a mio credere, perché fugimo con tal esercitio quel naturale timore che apporta seco l’admirabilità, mentre che ignoramo le germane e vere cause di stupendi effetti che inopinatamente nel mondo occorrono, riuscendoci sospeta qualunque novità che ci apparisce. Onde quando che alla retta speculatione ci applichiamo, conoscemo tali novità essere semplici aborti e sconciature della gran madre natura, non feciali422 et alardi423 che c’intimano la guerra et all’arme come stima il volgo de plebei. Per il che riconoscendo noi le cagioni di tali fenomeni resta l’animo nostro quieto e tranquilato. Da questo procede ch’a guisa di cacciatori alli [172] speculatori424 accade, che siccome quelli mentre che tracciano vil lepre oltre modo pare che la pregiano, ma presa che l’hanno non più la stimano che vilissimo animale, così noi inanzi ch’habbiamo fatto acquisto della verità, la tenimo in gran stima, ma ottenuta che sia, poco o nulla la curamo: Come segue la lepre il cacciatore. Al freddo al caldo alla montagna al lido Né più la stima poiché presa vede. Et sol dietro a chi fugge affreta il piede425.

    Dal che ne siegue che l’animi maggiormente fiachi e deboli sono quelli che più delli altri riescono li più curiosi nel conseguire la scientia delle cause d’effetti naturali, essendo maggiormente da sospetti e timori vessati, ma l’animi per natura generosi, et inflessibili, poco o nulla da tal impiego ricevono diletto. Onde fermasi il cielo, sconvolgasi la terra, confondansi di nuovo li elementi, nulla li comove e paventa. M’anco, amico Aristippo, se l’antedette ragioni non ti appagassero, lo promulgare che il piacere sia l’ultimo scopo e mira delle nostre attioni, non mi pare che ciò apporti alcun utile alla humana società, anzi l’arrechi notabile nocumento. Onde s’anco il tuo dogma vero fosse, riesce oltre modo dannevole. Et in qual modo si potrebbe giammai

    Cagione del diletto che sentimo nel sapere

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    disuadere altrui l’abbandonare l’oscene volutà, mentre che da sapienti fosse publicamente asserito che l’acquisto del piacere sia il sommo bene. Né la distintione posta fra li piaceri corporali e spirituali può tal colpo affatto evitare, poiché già si è mostrato che in quanto ambi sono piaceri, sono simili e che concorrano nell’istessa definitione. Ma, carissimo amico, giacché il presente loco al piacere fu dal nostro amico destinato, non procuramo con nostre importune discussioni profugarlo426, né contraveniamo al generoso volere di lui che [173] tanto largamente ci l’offerisce, ma prendiamo quelli diletti che la stagione et il loco ci stimola a ricevere”.

    Pone fine Socrate al sindicato circa la curia interna dell’huomo

    Si ride Socrate della vana curiosità altrui

    Qui hebbe fine il nostro discorso circa tal proponimento, dal quale questo solamente fu da me raccolto ch’il piacere non sia l’ultimo scopo della speculatione e ritrovamento della verità. Non mancai a ricercare altri sapienti circa tal fine ma doppo lungo divagamento di discorso e dubbiosa flutuatione, mi fu da alcuni di essi detto, che il fine della contemplatione era un scusabile fuggilotio427 et un honorato scanso dalla pernitiosa e dannata accidia e scioperatezza. A questo segno approdò la mia lunga navigatione e continuato travagliare circa il riconoscere la nostra interna curia e questo fu il fine del mio rigoroso sindicato. E per il certo da tal mio faticoso impiego altro non rapportai se non che dubbitai che li oggetti, primieri promotori del nostro sapere in folta caligine si ritrovassero, li sensi esteriori fallaci, l’interni vani e fititii, l’intelletto ignaro di se stesso, e di qualunque sua attinentia et attione. Dal che ne seguì che non poco spiacere sentii dalla frustatione di tanti miei laboriosi conati, ma maggior molestia mi arrecava l’osservare che l’administratione delle mie attioni, e regimento di me stesso era comesso ad ignoti et imperiti governatori. Ma tal consideratione per altro verso eccitava in me non poco di riso rappresentandomi la vanità di coloro che mentre il loro intelletto si trova sconoscente di se stesso, e se da altro lume non fosse illuminato dubbitarebbe se uno overo molti siano coloro che governano il loro sistema, nondimeno con temerario ardire attentano con risoluta decisione definire se l’universo da spirito permeabile nelli suoi vastissimi membri retto sia, overo

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    piuttosto trovasi causa dal mondo distinta e con esso punto non mescolata che con la propria energia et efficacia il tutto moderi e regga. Se li cieli si movono per impulso conferitoli da esterno motore, overo come soleciti amanti a volta si ragirano [174] per ossequioso corteggio verso loro amate separate intelligentie. Se le stelle e pianetti a guisa di pesci che nell’acqua guizzano nel puro ethere viaggino, o piuttosto come nodi in tavola affissi continuamente sono traportati428. Se un primo mobile a tutti superiore rapisce li orbi ad esso inferiori e l’impulsa ad andare dall’oriente all’occidente, overo piuttosto caduno di essi tiene un proprio cielo che tal moto l’imprime contrario al di loro proprio dall’occidente all’oriente, overo conviene dire che caduno di cieli oltre il suo naturale moto, tenga propria propensione di conformarsi al motto uniuersale di tutto il sistema. O piuttosto è ragionevole il risparmiare alla natura non solamente la moltiplicità delli orbi m’anco di motti et affermare che caduno di orbi dall’oriente all’occidente solamente s’indrizza, ma che il tardare nel lor corso chi più chi meno, ingannevolmente ci fa apparire che in contraria regione s’inviano cioè dall’occidente all’oriente. E non mancò chi per evitare la pluralità di motti, rapti, accelerationi, stattioni, retrogradationi nelli cieli, a maggior assordità assentì, cioè che le stelle fisse et il sole immobili se ne stassero, e che li pianeti e la terra circolarmente comettessero circa quelli, continua danza. Ma lasciando io a parte tal ridicola consideratione, di nuovo invalse in me l’antico mio talento di proseguire l’incominciato instituto, massime percorso tanto di spatio, che poco mi pareva rimanesse di progredire, e superare per compimento del destinato mio proponimento. E perciò circa l’istesso sapere mi applicai come ultima meta del mio mentale viaggio. E perché riconobbi la propria mia imperitia nelle antedette discussioni, deliberai ricercarne il parere di più sapienti. Il primo che mi s’offerì fu Prodico429, famoso sofista della nostra età e che per lo straordinario premio che di suoi documenti conseguiva divenne oltre modo stimato dal volgo della nostra città. Ad esso dunque ricorsi e lo richiesi che m’esponesse ciò che intendeva che fosse [175] l’humano sapere, e che Alcibiade li sarebbe malevadore430 di una mina s’egli ciò m’insegnasse. Risposimi che tanto agevole li riusciva il satisfare il mio

    Socrate s’applica a discutere ciò che sia il sapere

    Prima espositione del sapere

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    desiderio che non meritava tanto di remuneratione e seguendo disse che il saper humano, consisteva nella cognitione delle cose divine, naturali et humane. Al che soggionsi che anzi meritava per tal grata instruttione assai maggior mercede che la da me offertali, poiché invece d’insegnarmi ciò che sia un solo sapere di molti mi haveva informato, ma che io havendo hora assaggiato la sua urbanità e cortesia, ardiva di nuovo circa altra mia richiesta occuparlo, ricercandolo che m’esplicasse qual fosse il parere suo circa l’essenza del colore bianco, havendone esso, tenuto intorno ciò con Democrito trattato. Rispose egli che varii furno li pareri circa questo: “Alcuni stimarno che non fosse altrimente colore ma semplice privatione di esso, esprimentandosi che purgato che sia il panno da qualunque altra tintura al bianco si riduce, né ad altro colore fa passagio. Altri attribuirno il bianco a certi corpuscoli che nella superfitie del corpo si ritrovano, formati di figura orbicolare vuota con l’interstitio pieno percossi dal lume esterno siccome nella spiuma biancheggiante appare. Non mancorno di quelli che con la solita tirannica dedutione, alle prime qualità ricorsero, attribuendo il bianco al freddo et humido. Ma il definire qual di questi pareri al vero più si aggiusti troppo lungo divinirei se hora ciò attentassi”. Ma io lo rincalzai con dirli: “Amico Prodico, per qual cagione cosí prestamente dimenticato ti sei del tuo primiero proponimento, non havendomi hora risposto come prima facesti, che la bianchezza fosse ciò che insiste nella cerussa431, marmo pario, neve, e nel petto delle celebre sirene, siccome che nell’esplicare ciò che sia il sapere esponesti, cioè che fosse la cognitione delle cose divine, naturali, et humane”. Ma io ridarguendolo osservai che nuova bianchezza nel suo volto apparì. Per il che confuso e convinto lo giudicai, riconoscendo egli che tal sua definitione [176] addotta circa il sapere non indicava l’essentiale interno di esso sapere ma piuttosto esponeva circa ciò egli si esercita et impiega, come

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    se fossimo interrogati dell’arte della pittura respondessimo che travaglia circa li colori. Ma io da Prodico accomiatatomi inclinai la mia diligenza alli monumenti lasciatici dalla veneranda antichità, et in Omero primieramente m’incontrai, il quale parevami che in certi quali suoi versi decantasse ch’il sapere altro non fosse che un certo delicato risentimento che nell’interno dell’animo ci accade. Ma Protagora, che con maggior espressione lasciossi intendere, chiaramente afferma che il nostro sapere sia semplice passione dell’interno animo. Ma per esporre li motivi che indussero costoro a ciò stimare e le consequenze che da questo si deducono, conviene che alquanto mi dilunghi e che da lontano rdisca432 il mio ragionare. Nell’introdurre nel marmo alcuna imagine conviene scalpellarlo, et in tal maniera riesce in esso il simulacro che s’attende farvi sortire, come anco la cera comprimendola il sugello, risalta in essa la figura che si ricerca formare, ma né questa né il marmo benché rappresentino tali imagini essendo di sentimento privi non riconoscono punto ciò che in essi il maestro ha indotto. Da quindi è che se di senso fossero dottati altro non apprenderebbero di più il marmo che la distrattione delle sue parti e la cera la compressione, onde conforme il parere di Protagora e suoi seguaci che il sapere altro non sia che sentimento, da noi non si apprenderebbe il vero simulacro et imagine che l’oggetto veramente, che realmente433 forma e rafigura nel nostro animo, ma solamente la semplice compressione over distrattione, che per l’incontro dell’oggetto overo della sua imagine, nel nostro animo si produce. Onde se il nostro sapere altro non fosse che sentimento, noi apprenderessimo solamente certa interna alteratione né più oltre passarebbe il nostro intendimento, adducendo di più l’autore di tal dogma in prova che tenendo poi l’occhi aperti [177] in modo che si conceda libero adito all’imagini che s’introducono insino alli più intimi recessi del nostro animo e che vi facciano impressione, tuttavia mentre che con l’animo altrove ci divertimo non sono da noi advertite et osservate. Dal che parimente raccolgono che il sapere sia l’istesso che il sentimento. Apportano oltre di ciò che non può imagine di oggetto insensato complicarsi et identificarsi con la facoltà

    Seconda espositione del sapere che sia risentimento

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    sensitiva, ma conviene che diverse siano. Per il che è di mistiero che altro sia il simulacro che il sentimento che s’apprende per la di lui impressione. Si favoregiano di più dell’autorità del nostro Aristotele che pronontiò che intelligere est quodam pati 434 sebbene che altri suoi discorsi si dimostrò da ciò alieno. Ma esposti li fondamenti di tal opinioni, conviene che s’esplichi l’avantaggi che il saper humano da questa positione riceve, come anco li pregiuditii che ne derivano. Fra li avantaggi dunque s’annoverano la destruttione di concetti universali già da me oppugnati essendo impossibile che passione in noi instalata divenga tale, che né a loco né a tempo sia alligata435 e ristretta. Secondo profitto che conforme tal dogma ne seguirebbe grande sollievo all’affari humani, ché per tal parere si levarebbero affatto le contradittioni e contese che seguono per la repugnanza delle openioni, poiché essendo queste semplici risentimenti in noi circonscritti e terminati, non può l’uno homo all’altro contradire, essendo una sensatione diversa dall’altra secondo la varia dispositione dal sensitivo e diferente applicatione dell’oggetto, benché questo l’istesso sia, com’accade a panni di diversa conditione che posti nella istessa caldaia di tintura emergono di variato colore. Onde oltre modo evidente riesce che le facoltà sensititive che sono di egual dispositione e rispetto all’istesso oggetto e nell’istesso modo ad esso accomodate, affatto sortiscono corrispondenti e di egual impressioni. All’antedetti avantaggi che seguono alla predetta espositione dell’ [178] huma|no sapere, e si contrapongono alcuni altri incongruità per li quali, tal dogma riesce oltre modo assordo. Primieramente, non mediocramente rimanerebbe avvilita e depressa la nostra mente, mentre che ad altro non aspirasse che al patire e semplicemente risentirsi dell’altrui urti e scosse, priva per se stessa d’ogni efficacia et attività. Di più secondariamente, se il sapere altro non fosse che sentire ci pervalerebbero alcuni animali bruti che di meglio sentimento di noi si trovano proveduti e massime ritrovandosi li loro sensi al di fuori esposti, non passando l’impulsi che da oggetti derivano per li anfratti di angustissimi et invilupati meati, come a noi accade, dovendo penetrare all’ultimi ripostigli del nostro animo.

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    Terzo assordo, che tanto li delirii de frenetici, sogni di addormentati, e le sciochezze del pazzo volgo, quanto l’egregie et elaborate dottrine di sapienti egualmente vere riuscirebbero ché tutti uniformamente sono passioni e sentimenti dell’animo causati d’oggetti non vani ne’ fititii. Quarto inconveniente, ne seguirebbe da questa espositione, che siccome altre fiate fu da me detto, che non essendo altro il nostro sapere che sentimento, siccome il dolore e piacere li più vehementi risentimenti che incontramo in noi insistino e sono circonscritti, né giammai si trovò esterno oggetto che piacere over dolore fosse, così l’istesso seguirebbe circa tutte le altre nostre passioni. Onde il dolce et amaro, il nero e bianco, e qualunque altra apprensione sensibile over intelligibile, denegare se li dovrebbe entità e realtà esterna, e così anco il concetto che forma l’intelletto della esistentia esterna delle cose, sortendo436 anco essa sentimento nostro interno437, e mentre che ci pensamo d’apprenderla, e rittrovarsi con il discorso vagare circa li oggetti esterni, in noi stessi dimorarissimo, a guisa di sognanti che imaginandosi peregrinare e ritrovarsi in parte remota dalla patria, alla fine nel loro letto fissi et immobili giaciono. Quarto assordo, ch’è come colorario dell’antecedente [179] si|ccome il dolore e piacere in noi sono temporanei e flussibili, né più tengono in loro stessi reale essistentia che mentre continua il risentimento che di essi tenimo, l’istesso parimente accadarebbe a tutti li sensibili et intelligibili che l’universo ci appresenta, producendosi la di loro apprensione per mezo del nostro semplice risentimento, onde divertendo da essi ad altro, rimanerebbero estinti. Per il che troppo crudeli contra li più cari oggetti della humanità diveniressimo, mentre che cessando noi di specularli et apprenderli, l’amici, la patria, e li figlioli si distrugessero. Né vale il dire che continuarebbe al di fuori quelli oggetti che produssero in noi tali apprensioni, perché già fu esposto, che secondo la predetta opinione qualunque cosa che da noi s’apprende essere sentimento, da che ne segue parimente, che anco tal imaginato efficiente del sentimento, in noi allogia e risiede. Quinto inconveniente, che se il sapere non fosse altro che sentimento non già l’essentie delle cose, ma solamente si

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    Terza espositione del sapere

    Virgil.

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    apprenderebbero leggiermente l’esterne membrane e cortecie dell’oggetto, non potendo il semplice sentimento più adentro penetrare e fare passaggio, siccome aviene quando di alcuna puntura rimaniamo offesi. S’aggiunge a ciò per sesto assordo, che rassembra repugnare alla esperienza il negare alla mente l’attività e situarla nella classe delli semplicemente passibili, osservando noi le compositioni, divisioni e dedottioni che continuamente essa essercita, per il che nel rollo dell’attivi ci par che convenga includerla. E per il vero havendo io riguardo alli narrati assordi, m’arosisco d’inclinare a tal dogma. Ma lasciando hormai queste spinosità riduciamoci a gente più festevole, che ci espone che il sapere sia reminiscenza delle cose che altra fiatta habbiamo apprese. Onde con ardito proponimento ci dissero che l’animo nostro, inanzi che nel corpo nostro sogiornasse, fosse stato delle cognitioni di tutte le cose mondane dottato, stimando alcuni che l’anime nostre siano come rami recisi da grande [180] tronco d’arbore. Questo è l’anima dell’universo che regge con tanta sapienza li mirabili effetti della natura: Principio calum et ac terras compos liquentes. Lucentemque globum luna titaniaque astra Spiritus intus alit, tatamque infusa per artus Mens agitat molem, magno se corpus miscet Inde hominum pecumque genus viteque volantum438.

    Onde essendo poi tali animi congionti con li corpi humani a guisa di quello dicono li poeti con il beveragio del fiume Lete si dimenticano tutto il già conosciuto, ma doppo con l’occasione dell’incontro di oggetti esterni quasi destandosi da profondo letargo si ricordono delle cose di già sapute. Da qui trassero il dire che il nostro sapere sia piuttosto remiscenza, che nuova cognitione. Crebbe la credenza di tal dogma per l’autorità di Pitagora ch’a tal parere dicesi che assentì. Non poco di stima parimente apportò appresso li miei Ateniesi ciò che in tal proposito giocosamente pronontiai, con l’occasione di un fanciullo affatto ignaro delle scientie matematiche, che proponendol io certo difficoltoso teorema a dimostrare, per mezo delle mie semplici interrogationi, senza punto circa ciò instruirlo, egli ottimamente dedusse la ricercata

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    da me demonstratione. Per il che come che giocando pronontiai ch’egli si ricordò ciò che si havea dimenticato, perché se altrimente fosse, non poteva condurre a fine così laboriosa demostratione. Fu stimato appresso il volgo ciò seria mia opinione. E perché non fu mai così strano dogma a cui assolutamente mancasse patrocinio di huomini dotti, e che mendicasse visaggio di alcuna apparenza avenne che tale opinione fece tenace presa nella mente di molti, né rimase destituta di alcune apparenze e superficiali instanze. Onde fra li altri motivi fu apportato il bombice diligente artefice della seta, che senza instruttione conseguita da suoi [181] pro|genitori, né da maestri né da esperienza appresa esercita la sua laboriosa arte, tessendosi quel non punto ivvilupato convoglio e serraglio, acciocché senza alcuno disturbo et impedimento tenga commodo et agio di renontiare alla primiera vita di semplice serpibile e trasformarsi in alato animale, riuscendo perciò anco idoneo a perpetuare la sua spetie. Onde non havendo tal animale imparato questa sua arte d’altrui, conviene che ciò li accada per ricordanza di quelle apprensioni che li fu transmessa da suoi parenti nel seme, dal quale fu prodotto, conservando questo in sé l’idea di tal operatione, come anco mantiene in sé il modello di varii membri e minutissime portioni de quali l’animale è composto, dipendendo tal distintione da sotilissimi spiriti che nel seme si contengono conservandosi la loro anatomia non meno immista inconfusa di quello che varii lumi, benché siano di conditione tenuissima, rimangono distinti, ancorché per angustissimo e ristretto foro insieme trapassano, così anco l’imagini visibili di contrarii colori per l’istessa aria viaggiano senza punto disordinarsi. Per il che riusciva alli autori di tal dogma ancor persuasibile che anco le reliquie della memoria in tali spiriti siano impresse e che possono perseverare e continuare per alcun tempo. Dimostravano anco alcune infermità che in quarta età risorgono et appariscono, come la podagra439, epilepsia et altre, né vale, dicono l’autori di tal openione, quello che alcuni pusilanimi investigatori della natura dicono, che tali effetti mirabili che si scorgono nelle operationi di alcuni animali, al semplice

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    instinto naturale attribuire si devono, perché mentre essi non ci espongono con più chiara espressione ciò che sia tale instinto, senza loro ingiuria, et offesa della natura appelare si potrà, nome senza sogetto, inventato solamente per ricovro di pigri esploratorii delle cause di stupori dell’universo. E chi crederebbe, che la natura occupata nel generare e corrompere tanta infinita coluvie di cose, sia attenta ad insegnare al bombice la maniera di fabricarsi il suo domicilio, et al ragno la insidiatrice sua [182] tella per cogliervi una mosca over zanzara et alle api l’edifitio della loro esagonale stanza acciocché dimorino più accommodati et agiati? Di più con quali modi esequisce la natura tale instruttione? Documenta li suoi figlioli come pedagoga440? O piuttosto qual maestro che soprapone la sua alla mano del discepolo per avezarlo al scrivere? Qual giuditio tengono tali insetti e vili animalluci per apprendere l’insegnamenti che li sugerisce la loro madre natura? Overo quali idonei instrumenti possiede questa a guidare quelli alle operationi che essa attenta che eseguiscono? Ma di più come è credibile che la natura, o per meglio dire l’ottima causa che il tutto regge, fosse così cortese nelli bruti et alli homini d’essa speculativi, ne fosse cotanto parca et avara, che non li fu pronta con suoi instinti se non per mezo della reminiscenza eccitati dalli invitti et impulsi di oggetti esterni? Hora dunque posti da banda l’instinti, alla memoria riduciamo l’operationi di tali animali, ché se la imaginatione humana non fosse aggravata, vanegiano questi poetici ingegni, da un mescuglio di molte discipline, senza l’eccitatione di oggetti esterni da se stessi l’homini al pari delli bruti delle preterite cognitioni si ramentarebbero, come ci aviene nel suchiare il latte, ché sebbene l’embrione nel ventre della madre per la sola via delle arterie umbelicali si nutrisce, tuttavia nondimeno immediate che sia uscito dal ventre materno riconosce l’uso del mangiare e bere benché da esso prima non fu praticato in questo stato. Ma ciò accade dalla tenace retentione di memoria, dicono questi, del reiterato uso che da suoi progenitori fu frequentato, ché perciò ne segue nel seme e doppo in esso embrione impressione così gagliarda e contumace. E chissà, seguono questi, se la cagione perché subito scapato441 che sia il bambino dall’alvo materno in pianto prorompe

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    che da altro non proceda che dal ritrovarsi in esso vestigio e residuo delle passioni che così sovente infestavano li suoi parenti. Et alla fine tali facetissimi dogmatori [183] apportano corroboratione del lor parere quel volgare e tritto442 essempio del servo fugitivo, ch’essendo da principio al suo padrone ignoto e sconosciuto riesce impossibile che lo rinvenisca e che si accerti del suo ritrovamento, anzi che anco in lui incontrandosi non lo riconoscerebbe, non tenendo appo sé la di lui imagine. E né anco a ricercarlo si potrà impiegare mentre ch’ignora per qual via se ne sia sfugito et il loco ove si ricovrò. Il che appunto, asseriscono questi, ci accaderebbe quando che pretendessimo investigare et accertarsi della verità delle cose mentre che non fosse la nostra nuova apprensione, reminiscenza. Ma queste tali instanze addotte da fautori di questa giocosa openione il mio intendimento punto non piegarno e che a tal sogno prestasse assenso, poiché lo stimare che il nostro animo inanzi che nel corpo si ritrovasse teneva la cognitione di tutte le cose che nel mondo si ritrovano e che poi per il contagio del corpo se le smariscono e che ultimamente per l’occorso et incontro di oggetti di nuovo risorga la primiera cognitione, non poteva al mio intendimento riuscire punto digestibile. Il che accadeva per molte oppositioni che il registrarle tutte compitamente stimo affatto superfluo. Il ricorrere all’anima del mondo cioè che l’anima nostra sia un rampolo over fragmento di quella non tiene meno del forsenato e chimerico. Qual sano giuditio può assentire ch’il mondo non tenendo le sue parti conesse et insieme legate possedesse tale permeabile spirito che lo constituisca un animale? Quali sono li meati e condotte di continuata consistenza che contengono tale spirito a guisa delle arterie, vene e nervi del nostro corpo che a tutta la vasta mole dell’universo lo distribuiscono? E s’essa anima del mondo di cognitione è capace, siccome questi tengono, di acutissimo443 senza dubbio sarà fornita. Ma a quali dolori essa sogiacerebbe, mentre che da noi il suo corpo fosse lacerato e discontinovato? Ma perché non osservano l’assertorii di tal dogma nuova [184] e noiosa superstitione che l’interdica lavorare l444 terra, e penetrare con violenza di ferro nelle sue viscere? gliare le montagne, recidere le selve? Et insino calcare il

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    suolo per non offendere tale anima mondana? Di più li richiedo se recondita et ascosa tiene a guisa della nostra, in domicilio appartato la sua principale residenza overo piuttosto per tutto l’universo ugualmente si trova difusa e vagante? Ma di più m’instruiscano, che se il nostro animo è congenere ad essa anima mondana derivando da questa quello, per il che conviene che ambi nell’istesso modo apprendono le cose, mi instruiscono ridico, in qual maniera essa apprese la cognitione delle istesse cose? Quali organi di sensi essa tiene? Per qual cagione l’animo nostro, di lei portione, inherendo al nostro corpo pur anco egli fragmento della universale materia diviene così dimenticato et immemore, eppur nondimeno esso animo congionto con il corpo dell’universo assai meno organizato del nostro ratiene l’apprensione delle cose senza alcuno detrimento? Ma di più, in qual modo l’oggetti eccitano nel nostro animo di nuovo le obliviate cognitioni? Se già sono estinte et abolite? M’anco quell’altro sfugitoio cioè il ricorrere alle reliquie d’impressioni transmesse da progenitori nel seme da essi deciso non tiene meno del favoloso. Non nascono l’animi humani l’uno dall’altro a guisa di quelli di bruti, conforme la più sana openione. Ma di più, il riserbarsi l’occulti vestigi delle dottrine nel seme possiede molto del ridicolo, esprimentando noi che molti divengono addottrinati in scientie de quali per longa serie di successione loro progenitori furno affatto ignari di qualunque disciplina. Anacarsi Schita445 dimorando appo noi, divenne celebre filosofo benché da suoi barbari parenti non traheva alcuno seme di dottrina. Et il nostro Fedone446 ancor egli di stirpe schiavo a pari di qualunque altro suo coetaneo, riuscì cotanto scientiato. Ma né anco l’esprimento praticato da me con quel fanciullo, che [185] senza alcuna antecedente disciplina, in un subito divenne eccellente matematico, punto di suffragio apporta a tal parere, perché tal fanciullo nel construire il teorema propostoli si rimembrò di quelli principii, che per mezo del senso giornalmente già apprese, come che il tutto sia della parte maggiore, e che le grandezze che ad una terza sono equali, fra esse447 parimente eguali siano et altri simili massime, non già che ciò proceda da dottrina che nel suo animo inanzi che con il corpo si accopiasse li fosse stato infusa.

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    Ma io per mezo delle mie interrogationi, insieme annodandoli quelli axiomi già da esso conosciuti, lo resi fecondo a generare conclusione tale, che da indi sortì la perfetta demostratione che io attentavo per mezo di esso dedurre. Nell’istesso modo si abbate448 l’instanza del servo fugitivo, riconoscendo noi per mezo della disciplina le istesse cose già da noi in questa vita apprese, ma separate e disgiunte l’una dall’altra, ma doppo per mezo del discorso insieme conesse e con decente maniera congionte, essendosi già per inanzi con l’intervento della osservatione advertito anco il modo d’insieme accopiarle, come insegna la logicale dottrina. Ma essendo da me in tal guisa prostrata l’antecedente espositione, sopra le rovine di questa sortì altro dogma che afferma, che non poteva mancare che il sapere fosse reminiscenza per alcune delle instanze da me hora apportate, ma che fosse essa rimembranza de primieri principii e massime già per mezo di sensi appresi e di nuovo dal discorso decentemente insieme comessi449 et annodati, da quali scaturiscono poi le vere e nuove conclusioni, rassomigliandosi ciò alle figure di Dedalo che insieme unite furno di alcuno pregio l’una l’altra fermando, ma separate e divise, che per la loro leggierezza dal vento erano furate450, di niun valore erano stimate451. Onde l’istesso accade a tal principii e massime che sciolti improficui, et inutili riescono, ma insieme con modo decente construtti sortiscono idonei di produrre in apparenza [186] nuove et inopinate conclusioni. Ma né anco questa espositione del sapere acquietò il mio animo, oltremodo essendo divenuto impatiente ad assentire et approbare ciò che con tutto li suoi numeri compíto non sia. E benché tal opinione trahesse li suoi natali dall’antedetto mio esprimento, e che per mia legitima prole la riconoscessi, non però mi sofrì l’animo pregiudicare alla riverenza che verso la veneranda verità tengo. Per il che sottoponendola al mio solito esame parevami inconveniente l’admettere che il saper humano consistesse solamente nel legare li principii già appresi, rassembrandomi che tali principii benché siano con stretissimo legame anessi e più del nodo gordio avitichiati, arrecare non ci possono il vero conoscimento delle cose, né l’interne rapresentationi di oggetti che presumiamo conseguire, e non perché le figure che dal vento

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    non si lasciano portare, per se stesse stimare si devono gran cosa, se peraltro non fossero degne d’essere pregiate, perché tanto l’imagine che nella cera s’imprime, benché agevolmente si depravi, quanto quella che nel marmo apparisce mentre che egualmente ci rappresentano l’effigie del loro originale, in quanto sono figure egualmente appregiare si devono, perché anco al nostro proposito la duratione della rappresentatione delle imagini in noi impresse non è inditio della corrispondentia che tengono con l’oggetti, ma sì bene452 nella di loro similitudine consiste la real e sincera verità delle nostre speculationi. Et oltre di ciò non mi pareva convenevole attribuirre al coligamento di principii, tanto di honore, e che esso fosse l’istesso humano sapere, ché li spetiali che al di sopra di medici sono periti del comporre e mescolare l’ingredienti delle medicine, tuttavia si trovano affatto ignari della interna natura di semplici e del modo di applicarli all’infermità, né parimente il baiulo453 benché opportunamente lega e commette insieme le merci, riesce perciò punto informato del loro valore e pregio. La cagion di tutto ciò è, che l’esser [187] sciolto overo legato, unito overo separato non appartiene all’interna cognition delle cose che si ricerca sapere. Ma di più interrogai Dionisidoro454 assertore di tal espositione se455 stimava che ogni plebeo e volgare ingegno fosse idoneo ad esercitare e praticare tal complicatione e ligamento di principii. Risposemi prontamente che a ciò eseguire conveniva tenirne alcuna peritia. Di nuovo l’interpelai che intendeva che fosse peritia. Sogionse che intendeva una esata cognitione in sapere convenevolmente ciò eseguire, allhora io lo sorpresi: “Dunque il sapere non risulta dalla conessione di tali principii, ma piuttosto questa da quello deriva. Ma stante la tua esplicatione il contrario ci converebbe affermare che il sapere inanzi che fosse nato, già fosse e tenisse energia di produrre la sua causa e produtrice, cioè la conessione di principii”. Ma Dionisidoro benché molto caviloso egli fosse, punto non replicò, dando perciò evidente segno di concedermi la vittoria. Non passò molto di tempo dopo il congresso antedetto, che

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    capitò nella città d’Atene un hospite siciliano della dottrina di Empedocle non mediocramente imbevuto, con il quale contratto che hebbi alcuna pratica, lo richiesi se circa il saper humano cosa di rilievo ci havesse dalla sua patria rapportato. Risposemi che il saggio Empedocle agrigentino ne suoi celebratissimi versi dottamente ne trattò: Terram nam terra, limpha cognoscimus unda Aethera athere sanè, ignis dignoscatur igne Sic et amor amore, ac triste discordia lite456.

    E continuando egli divisava, che siccome per mezo della luce che risiede nell’occhio apprendiamo il lume e li colori suoi effetti, e con l’aria che si rachiude nel timpano dell’organo uditivo sentimo il suono, così anco l’animo riconosce qualunque oggetto esterno, per mezo di quella portione che appo sé ritiene, che s’assomiglia all’oggetto esterno e ciò che [188] non li corrisponde nega, che tale sia, contendendo Empedocle che l’animo nostro composto sia in certo modo di tutte le cose, overo almeno di quelli principii che constituiscono l’universo. La novità di tal dogma piuttosto che la sua probabilità attrasse il mio animo ad applicarvi alcuna speculatione. Primieramente giudicai che l’openione di Empedocle fosse, che non la terra interna che ci constituisce, apprendesse la terra esterna che come oggetto ci si appresenta, né che nel medesimo modo l’acqua interna riconoscesse l’esterna, poiché la terra et acqua in quanto tali, di ragione e di sentimento prive sono. Di più conforme il dogma dell’istesso Empedocle sono parimente inalterabili benché nel misto insieme si ritrovano et insistono. Ma che forse egli stimava che l’animo nostro di tali principii et elementi si serviva a guisa di colui che certificare si vuole della dimensione di un panno che prende una misura a lui nota e con essa si assicura della quantità del misurato, così l’animo humano si vale delli elementi che li sono contigui e cogniti e domestici, e li adopera come misura a riconoscere l’esterni elementi e ciò che di essi è composto. Onde aggiustandosi l’oggetto alla terra interna giudica rettamente che tal oggetto sia parimente terra, ma se discrepa giudica che di diversa conditione sia. In tal modo dunque sebbene l’animo non tiene alcuna cognitione delli elementi

    Quinta espositione del sapere di Empedocle Empedocle

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    Quinta espositione del sapere

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    esterni, nondimeno per mezo delli suoi ne conseguisce chiara informatione. Ma essendo tale l’openione d’Empedocle intorno il sapere humano, in tal guisa circa essa m’esercitai. Mi si offerì principalmente che essendo l’animo humano capace di sentimento, e per consequenza alterabile, il che alli elementi empedoclei non accade, per necessità converebbe conforme alla sua positione che l’animo di diversa natura di essi elementi fosse. Onde siccome delli elementi esterni esso per se stesso si ritrova incapace di poterli apprendere, il medesimo occorrere li dovrebbe circa l’interni elementi che li coasistono e compongono il di lui corpo, [189] nonostante che prossimi e congionti li siano, mancando la prima misura per riconoscerli. Ma di più mi molestava che ricercando io l’hospite ciò che fosse sapere, mi rispose che con la terra interna si riconosceva l’esterna così parimente li altri asserti elementi, non accorgendosi egli che il riconoscere è l’istesso sapere che io con tanta instanza procurava esserne informato, e che egli supponeva già appreso ciò di che io ansiosamente ne dubbitavo. Ma di più anco mi annoiava che non per mezo dell’assimigliatione noi conosciamo le cose, ma piuttosto per la diversità che con noi tengono. Se la mano possiede duoi gradi di calore et altri tanti l’oggetto esterno tangibile, non è appreso in esso da noi calore alcuno, ma s’egli ne tiene gradi tre, benissimo sarebbe sentito. Così mentre al pari dell’ogetto visibile noi ci moviamo, non vi discerniamo in esso motto alcuno, ma quando più velocemente di noi scorre all’hora, advertimo che si move. Dal che parimente risulta, che noi non osservamo il continuo et incessante flusso del nostro essere perché questo è commune all’esser di tutto l’universo che parimente con noi scorre e fluisse. Ma di più se tale fosse il sapere come Empedocle lo rafigura, converebbe che fossimo composti di qualunque spetie di cosa che l’universo abbracia, non basta ridursi alli primi elementi e qualità, et insino li veneni entrarebbero come ingredienti della nostra construttione, tenendone noi a danno del nostro genere purtroppo curiosa cognitione. Con altre instanze potevo io abbattere tal parere che hora omettere voglio, rendendosi più laborioso il percuotere il vano che agitare le cose sode e massicie. Dalle obiettioni intentate contra la predetta espositione dell’humano sapere si mosse Anasagora, nostro antico amico, a

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    ricercarne di nuovo altra esplicatione. Onde alla fine pronontiò che il sapere sortiva mentre la mente si renda all’oggetto simile, il che agevolmente l’accade per una certa versatile habilità e naturalezza di conformarsi in ogni [190] gui|sa, che se l’offerisce, onde mentre che s’aggiusta con esso oggetto ne segue la verità, ma discrepando la falsità. Inteso che io hebbi ciò, attentai abbattermi con il detto Anasagora e li dissi che per il certo da niuno poteva io sperare più ottima espositione circa il riconoscere ciò che sia il sapere che da esso primo autore et introduttore fra filosofi greci della mente disgregratrice dell’antico cahos, ché senza dubbio talmente con il suo ottimo sapere il tutto ottimamente distribuì, e con egregia ordinanza e concinità457 fu disposto, ma che nondimeno, havendo io udito la sopranarrata esplicatione del sapere ad esso attribuita aggradire non mi poteva. Interrogomi qual di ciò, ne fosse la cagione. Risposeli che se altro non fosse il sapere che assimigliatione dell’intelletto all’oggetto, già la cera impressa, il marmo scolpito, e la tavola dipinta e sarebbero di sapere dottati, paregiando essi in alcun modo al loro essemplare et originale. Confessò egli immediate la difalta e mancanza di tal sua espositione, e cedendo alla mia censura di nuovo ripigliò che il sapere era bene una assomiglianza della mente con l’oggetto, ma di più anco un riconoscimento dell’istessa corrispondentia e similitudine, a guisa di colui che mirando il ritratto vi riconosce anco l’originale. Ma io né anco di ciò punto rimasi satisfatto, ché sebbene in parte evitasse Anasagora alcuni che di assordo che ad Empedocle incontravano, nondimeno con tal dichiaratione non iscansava altre difficoltà. Primieramente lo ricercai con qual certezza poteva affermare che nella mente humana siano impresse le vere e germane imagini delli esterni oggetti, non havendo né esso né alcuno altro mortale potuto giamai assaggiare l’istesso originale. In qual guisa ci potemo oggi assicurare ch’il ritratto di Ciro li sia simile, se non havessimo per attestatione di nostri antichi e suoi coetanei certezza che tale appunto egli fu, havendoli essi occulatamente osservato. E tanto più riesce ciò dubbioso perché ogni poco di varietà e discrepanza che tra l’imagine et ori|ginale [191] vertisca, apporta grandissima diferenza.

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    La causa di ciò è che pretendendo l’humana mente al di sopra che dipinti ritratti, rappresentare la germana et aggiustata imagine delle cose, et essendone molte di natura tale che in un minimo indivisibile eccedendo overo disminuendo si mutano di essenza, onde il loro massimo e minimo termine, insieme si complicano, perciò ogni picciola varietà può cagionare gravi errori nel nostro discorso, essendo l’essentie apunto come li numeri che l’unità solamente accresciuta over diminuita li cangia di spetie, ché insino quelle incomprensibili minutie appellate volgarmente irrationali458 che sono meno et al di sotto della unità, constituiscono varietà di generi di numero, tanto è il rigore della natura nel formare suoi effetti. Onde tornando al proposito, non essendo tali minime diversità da noi osservate restiamo defraudati nelli nostri giuditii, a guisa di giudice che da gemelli affato simili rimane ingannato mentre che uno di essi havesse receputo il deposito, e l’altro alla restitutione essendo citato, giurasse di non haverlo giammai riceputo, onde l’uno e l’altro ne rimanesse libero: Plauto

    Si sunt nati filii duo gemini Ita forma simul pueri est mater sua Non internosse possetque, etc.459

    Di più non mi si rendeva piano quel suo pronontiato che la mente humana si rendesse tanto flessibile quasi nuovo Proteo nel trasformarsi in tante guise e che all’oggetti si rendesse siffattamente ossequente divenendoli simile, poi se la fingeva di tenue conditione, e perciò obediente all’altrui impressione. Non poteva accadere in ciò aggiustata corrispondentia e similitudine, osservandosi che li più consistenti meglio rappresentano l’imagini che di tenui et aerii. Ma s’essa è affatto immateriale, stante quell’asioma tanto applaudito, che ciò che in altrui s’introduce, si accomoda alle [192] condi|tioni del recipiente, in qual maniera l’imagine del corpo materiale, e dimensionato potrassi nella mente incorporale imprimersi in modo tale, che le divenga simile, e che l’oggetto con le sue proprie e germane conditioni sia rappresentato? Ma di più havendo Anasagora ingiunto alla positione di Empedocle la facoltà conoscitiva, accioché si produca in noi il sapere, mi si rendeva arduo in che modo potesse tal facoltà apprendere

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    aggiustatamente le conditioni dell’oggetto, ché s’essa dalla imagine impressa è distinta, in qual modo l’apprende non attenendole tal impressione? Ma se l’istesso è, oltre che non ci potiamo formalizare in qual guisa ciò avenga apparendo impossibile complicare insieme cose affatto diverse cioè la facoltà conoscitiva, e l’imagine impressa, di più incontramo in altra difficoltà, che molto differente riuscirebbe l’imagine impressa di quello è l’oggetto e massime essendo questo cosa insensata, riuscendo tale imagine mentre si trova nella mente impressa, mescolata con la facoltà conoscitiva. Ma di più si confonderebbero insieme il giudicato, qual è l’imagine, et il giudice la cui vice460 sostiene la mente, onde perciò il giuditio, retto non sortirebbe. Ma oltre di ciò interrogai l’istesso Anasagora che intendeva per tal potenza riconoscitiva, se virtù attiva overo passiva. Risposemi che l’uno e l’altro con alcun fondamento di ragione si poteva sostenere. Replicai io che né l’uno nè l’altro agevolmente si poteva, ché se potenza solamente passiva e sensitiva fosse incorrerebbe in tutti l’assordi che a Protagora accadono, già da me racconti, ma se facoltà attiva la constituiva, correrebbe in gran pericolo di falsità l’humano sapere potendosi sospettare, che tutto quello che appartiene a tal facoltà sia effetto et opera da essa facoltà conoscitiva et attiva prodotto, e che non tengano in ciò la norma dell’oggetto che la move e guida. Ma egli soggionse con dire, che per il vero le mie instanze gravemente l’oppugnavano, ché perciò inclinarebbe a dire, che la facoltà conoscitiva fosse insieme [193] attiva e passiva. Al che replicai che al mirabile suo ingegno ciò poteva apparire riuscibile, ché già si accommodò a formalizarsi come ciascuna cosa si ritrovasse con qualunque unita e confusa, e che per anco participasse delle conditioni dell’antico cahos da onde trasse da principio origine, e che perciò anco se li rendeva digestibile il concepire nell’istessa facoltà complicate insieme l’attione e la passione. Ma di più l’advertii che con tale sua esplicatione circa l’humano sapere incorreva in quel grave assordo che già si attopò461 l’hospite siciliano, cioè che mentre io mi ritrovo perplesso circa il riconoscere ciò che sia l’humano sapere, e

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    che io l’insto ad espormelo, egli ricorrendo all’assimigliatione della mente all’oggetto, v’ingiunse il riconoscimento di tal assimigliatione che riesce quell’istesso che io ricercava senza punto esplicarmelo di più, che quando l’indagavo. Et oltre di ciò il rincalzai che dimostrare mi dovesse la maniera che tiene la mente, stante tale sua dichiaratione circa il sapere, in accertarci della verità, cioè che essa mente concepisca l’oggetto nel modo che realmente si trova, e qual ne sia di ciò il saggio e cimento? Diss’egli: “Che l’oggetto stia nell’istesso modo che lo comprese”. L’accors’io: “Et in qual maniera si accorge la mente che se ne stia in quella guisa, che lo comprende?”. Rispose egli: “Con il retto discorso della mente ciò si apprende e si accerta”. Al che di nuovo replicai: “Non osservi, amico Anasagora, che come il dannato Ixione462 con il tuo discorso ti raggiri, et a volta ti ravolgi? Alle fiatte attenti riconoscere la verità dall’esisitentia dell’oggetto che in noi cagiona tale impressione, et alle volte poi alla mente ricorri ch’essa ci accerti che tale sia l’esistentia delle cose?”. Procurò Anasagora scansare il colpo tentando referire e devolvere l’affare a sensi esterni, e particolarmente al tatto stimato volgarmente fedele riconoscitore di oggetti esterni, ma repetendo io tutto il463 discorso di Gorgia in tal proposito meco tenuto, e [194] dimo|strandoli non esser ciò fontione di sensi esterni l’affermare over negare, approbare over reprobare l’esistentia di oggetti esterni, ma che tutto ciò alla mente solamente appartenere. Né envece di risolvere et appianare le difficoltà da me proposteli, Anasagora ad una critica censura s’appigliò, e verso di me in tal guisa prese à dire: “Quanto, o Socrate, sei divenuto diverso da quello

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    già eri, quando meco incombevi al studio della sapienza, essendo tutto dedicato alla esperienza delle cose, onde insistendo allhora nelli vestigi della natura la stimava di molto più acuto accorgimento nell’eseguire suoi effetti, che noi nel contemplare et apprenderla. Per il che noi da essa instrutti si trovavamo più habili all’operare, che al disputare, omettendo queste quisquile con le quali hora non meno confondi te stesso che turbi altrui. Per il che seguendo l’usi di vani sofisti sovertisci l’humano sapere, et invece di riportare alla filosofia lume, caligine e tenebre ad essa arrechi, e somministri. E mi stupisco che non ti ramenti che tanto sovente insieme si trastulavamo di Xenofane, Melisso e Parmenide che attentavano con cavilose consequenze ridurre l’universo, mirabile teatro di tante varietà, ad un solo et uniforme sembiante, ma di più anco che imprendevano fermarlil motto con il quale si regge, governa, e si rende di sì gratioso aspetto? E nell’istesso modo sbeffavano Heraclito che non lasciando in esso universo cosa quieta e riposata, sturbava affatto la tranquilità di esso. E quanto più di te, Pericle riuscì prudente, mio vero e germano discepolo, divenuto hora arbitro della Republica ateniese, il quale meco continuando li suoi studii, non si lasciò depravare dalla consuetudine di cotesti venditori di ventose parole e raccoglitori di massici denari, ché seguendo egli nelle cose naturali l’esperienza et il senso, e nell’humane il probabile, riuscì ad un tratto scientiato e prudente? E perché antevedeva che a reggere la Republica li conveniva ammaestrarsi nel sapere moderare l’animi de suoi cittadini, né ciò conseguire poteva se prima egli non [195] rimanesse a sufficientia informato della natura, e conditione dell’istesso animo humano, et in qual modo si producono in esso l’affetti e come l’uno dall’altro procede et a qual segno si può cadauno d’essi condurre, che in diverso e repugnante non degeneri e si cangi, et in qual maniera prodotti che siano, agevolmente manegiare si possino. Perciò al speculare circa l’animo humano e sue qualità tutto si dedicò, renuntiando a qualunque altro studio, et in questo solamente ogni sua incombenza

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    impiegò. E non solamente applicossi alla compositione di circonflessi e rotondi periodi, equilibrati contraposti, hiperboliche amplificationi, tumide e solevate parole, ardite translationi, ornate e calmistrate dicerie praticate da semplicimente disciplinati oratori, che non ritrovando l’animo dell’auditorio disposto a riceverle, piuttosto l’annoiano e perturbano, che l’admoniscono e persuadono. Come per il contrario la peritia che si tiene circa la generatione et estensione delli humani affetti sempre riuscì opportuna e proficua a chi la praticò. Da quindi è, che a Pericle giammai non accadé che il soverchio timore mosso dal suo ragionare nell’animo altrui, si cangiasse in desperatione, dalla quale poi ne successesse ardire et inavertita temerità, né giammai talmente s’inoltrò nel provocare e riscaldare l’ira, che affatto s’evaporassero li spiriti più sottili e furibondi, ché perciò rendesse l’animo altrui consternato e languido. Né parimente nel regimento suo proprio si lasciò da suoi offenditori talmente irritare l’animo più di quello si havesse sdegnato contra l’offesa della fervente stagione, overo dell’eccessivo freddo dell’inverno, formalizandosi della humanità come di certa cosa non dalla natura universale astratta et esclusa, ma in essa compresa, a cui non meno che alle altre cose mondane conviene accommodarsi e destramente reggere. Né per aquistare amicitia si rese affatto di animo simile all’altrui, conoscendo che l’esata et assoluta simiglianza non produce amore, non possendendo l’uno d’amico, [196] cosa di avantagio sopra l’altro amico acciò l’alletti ad amarlo, né troppo dissimile per non offenderlo con la repugnanza e contrarietà, ma si rende moderato quale si conviene ad homo morale e civile. Et havendo egli da me imparato il modo di medicare il corpo, molti assioni d’inde trasse per il risanamento del suo animo. A tali impieghi attendendo, Pericle è divenuto così celebre appo l’età presente e forsi non oscuro è per riuscire alla ventura posterità. Ma tu invece di ciò, ti sei travagliato in oscuri affari cavilando con giovani et altercando con sofisti onde non tieni per anco acquistata

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    fama di alcuno pregio, ma di più dubbito che ne sei per riportarne segnalato et essemplare detrimento”. Al che risposi che non la pratica di sofisti causò in me tal mutatione, né mi ritrasse dalla contemplatione delle cose, ma che admonito non solamente dall’oracolo, e spinto dal proprio genio, ma anco a ciò impulsato dalli editti del popolo ateniese e proposti dal medesimo Pericle, che vietano l’uso di qualunque misura e peso che dal magistrato non sia primieramente stato approbato e riconosciuto per sincero e legitimo. Per il che mi restò medesimamente impedito, che dovendo io con la mia mente assagiare e cimentare l’esser di tutte le cose che nell’universo appariscono, che ciò non attentasi, se prima essa mente non sia riconosciuta e cimentata per aggiustata misura di tutto l’intelligibile. Per il che rivocai a me stesso ogni mia speculatione et ad assagiarmi posi qualunque mio impiego. Et in quanto a Pericle attiene, benché al sommo delle sue virtù per anco non giungo, nondimeno la sua egregia conditione non occlude ad altrui l’adito ad alcuna mediocre comendatione: “Nell’arte navigatoria sono distinti li carichi et impieghi: al nochiero appartiene nell’alto mare governare le velle, rasecondare li venti, overo opporseli. E ciò per apunto rincontra con l’offitio dell’oratore la cui fontione consiste nel concitare overo sedare l’affetti del popolo. Ma carica del pilota è riconoscere [197] li terre|ni, ritrovare le fauci de porti e condurre la nave in sicura statione, e salutare ricovro, tale parimente è l’intrapresa del filosofo, che con vive ragioni, et efficaci documenti addita se non il porto del sommo nostro bene, almeno ci dimostra la spiaggia ove alquanto ancorare e tranquillare il nostro agitato animo si possa. Ma di più diroti essere cosa volgare con il fuoco ammolire il ferro e con l’acqua poi amorzandolo renderlo indurito, ma l’introdurvi temperatura tale, che per l’eccesiva renitenza non si franga, e per la tenerezza cedendo non rimanga piegato, è proprio arcano della feraria arte. Così anco l’irritare l’animo nostro al furore come per il contrario con le lusinghe e blanditie

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    enervarlo non è impresa oltremodo celebre, ma il ridurlo a segno tale, che spogliato d’affetto, dalle percosse della rea fortuna non si rompa, né che per favore della medesima non si amolisca, ma che sempre constante sia, appartiene al sapiente ciò solamente eseguire”.

    Settima espositione del sapere

    A questo mio ragionare non replicò Anasagora, ma solo mi advertì, che sebbene egli rimaneva satisfatto del preso da me patrocinio de filosofi, nulla di meno stimava che il seguire l’apparente, e volgare verità, fosse sempre giovevole. Ma la esquisita et esata sempre apportò a suoi settatori noie e calamità, essendo la pura e sincera verità simile all’eccessiva luce, ch’alli deboli di vista nuoce mentre che in essa si affissano, et alli furatori arreca molestia, come rivelatrice de loro ribalderie. Cos’il lume della verità all’ingegni plebei che non possono li suoi raggi tolerare, gravamente offende, et alli sagaci e sinistramente accorti, oltremodo
  • travagliare, dubbitando questi che non scuopra ad altrui le loro menzogne, et inganni. Per il che la lunga pratica sempre dimostrò che l’osservatori di humani costumi sono divenuti egregi nel destreggiare e maneggiare l’affetti del volgo, e nell’affari del mondo prosperi e felici riuscirno, e li troppo esatamente sapienti, e contumaci nelli loro benché fondati proponimenti, all’altrui [198] stra|pazzo s’offerirno. Ringratiai Anasagora di tali ottimi avisi, dicendoli che permetta Iddio et il proprio genio che io tali documenti eseguisca, havendo l’esperienza insegnato ad esso Anasagora quanto può in simili affari la naturale propensione dell’animo, non essendosi egli autore di tal ammaestramenti, potuto astenersi di promulgare che il sole, tanto dalli Ateniesi riverito et adorato, che fosse, secondo il suo parere, insensato ferro overo macigno infocato et ardente. Con tali ragionamenti, da Anasagora mi dipartii. M’avenne che doppo alcuni giorni in Eutidemo mi abbatei, in Eutidemo dico, homo di non mediocre grido non meno per la sua eruditione, che per strani dogmi che difendeva, al quale in questo modo la favellai: “Non dubbito punto, o sapientissimo Eutidemo, a cui il naturale talento accompagnato da vigilante disciplina ha

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    sugerito facoltà di reggere a tuo modo l’humani ingegni, e piegarli a qual verso ti aggrada et hora con sottilissime reti illaquearli, e quando anco ti piace sviluparli, et alla verità incaminarli, pregoti che amichevole officio meco hora eserciti instruendomi di ciò che sia l’humano sapere, rendendoti compassionevole la mia inettia e dapocagine, ché mentre voi homini valorosi et oltremodo addotrinati nell’alto della Sapienza prosperamente vellegiate, io già invechiato, nel limitare e vestibulo di essa per anco dimorando, mi trovo tanto impedito”. Al che Eutidemo accorendomi disse: “Tengo dubbio, o Socrate, che hora pratichi meco delle tue solite ironie che simulando ignoranza, procuri con maggior sicurezza assaltare e sorprendermi. Ma sia come si voglia, satisfarti mi aggrada, ché se censurato da te sarà il mio parere, emendato e corretto riportarolo. Stimo dunque, o Socrate, che la mente humana in due fontioni si eserciti l’una in apprendere, e l’altra in giudicare l’appreso, e siccome il giudice prima si applica a riconoscere lo stato della causa, serbandosi intanto sincero et indeterminato, e doppo si conduce al secondo offitio, cioè à decidere e [199] deter|minare il giuditio, così apunto aviene all’intelletto circa la cognitione delle cose, che prima l’apprende semplicemente senza punto giudicarle. Ma il sapere non consiste altrimente in quella primiera apparitione, ma sì bene nella susequente applicatione, cioè nell’affermare over negare la real esistentia all’appreso. Onde il formalizarsi semplicemente e rappresentarsi il corvo con piume bianche et il cigno di nere vestitto, non si commette pertanto verità né falsità, ma sì bene quando con fermo proponimento da noi si afferma che tali siano, comettendo perciò la falsità, come per il contrario attribuendo il colore nero al corvo, et il bianco al cigno con asseveratione che tali siano si afferma la verità. E questo è il vero sapere che ricerchi e che con tanta industria indaghi”. Ma io con tal espositione non rimasi punto con l’animo tranquillato, e l’interogai:

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    “O amico Eutidemo, stimi forse che quello che in noi giudica sia il medesimo che esercitò464 prima la semplice apprensione, overo piuttosto da esso distinto et appartato?”. Risposemi egli che non ardirebbe giamai pronontiare che fossero distinti sogetti, perché non sapprebbesi imaginare in qual maniera colui potesse rettamente giudicare, che prima non fosse informato di ciò che al suo giuditio di già non si fosse sottoposto. Né diverso ciò sarebbe che se Agatone apprendesse la bellezza di Taide465 e che il cieco Critone la giudicasse degna di essere da qualunque giovane amata. Ma di novo lo ricercai se stimava che nell’istesso tempo la mente esercitasse l’apprensione, et il giuditio, over in diversi momenti? Prontamente mi rispose, che li rassembrava impossibile che nell’istesso instante l’accadesse l’apprensione et il giuditio, il che facilmente si esprimenta quotidianamente nelli publici giudicii, che prima alla semplice intelligenza della causa s’impiega il giudice, e poi alla disscussione e giuditio si applica, ché se altramente facesse giamai non riuscirebbe il giudicio sincero et aggiustato, anzi affatto si confonderebbe. Al che io replicai che havendomi [200] egli conceduto che diversi non possono essere l’apprensivo dal giudicante, con la sua ultima concessione, di nuovo si invilupamo nell’istesso assordo, cioè di asserire che altro in noi sia colui che apprende, che quello che giudica, perché i varii tempi all’istesso soggetto non è dissimile che diversi soggetti nell’istesso tempo, siccome che quando ragionai del senso comune fu da me espresso. Ma oltre di ciò con altra simile instanza l’assaltai con dirli: “Credi tu, Eutidemo, che l’apprensione sia cosa per se stessa esistente come il ferro, il marmo, overo piuttosto essendo una tal passione overo attione, ché ciò non fa caso al mio arguire, conviene che a guisa dell’altre sue congeneri, sia di conditione flussibile e labile, in modo tale che impiegandosi la mente nel giudicare l’apprensione già si trova questa estinta, ma se così è dunque, sapientissimo Eutidemo, a che tenirà essa mente riguardo nell’approbare over reggettare alcuno proponimento?

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    Stimi forse giudice che dimenticato s’havesse il racconto della causa, a ragionevole sentenza, se non che a caso, capitare potesse?”. Risposemi egli, che sebbene terminata et estinta fosse l’apprensione, tuttavia rimane nell’animo certo vestigio e reliquie di essa, sufficiente ad indrizzare il seguente giuditio come ci accade circa l’habiti delle dottrine, arti, e virtù, ché senza altro nostro accorgimento, et osservatione s’eseguiscono li primieri documenti, essendo noi solamente normati da quel tenue residuo che ci avanza delle già pratticate attioni. A ciò io mi opposi con dirli, che non conviene dalli habiti dell’animo trarne consequenza favorevole al nostro proposito, ché questi sono piuttosto dispositioni e qualità che inclinano l’animo a reiterare quell’istesse attioni che altre volte esso esercitò, il che accade anco alle cose insensate come di già fu detto. Ma nel giuditio che eseguisce la mente nell’approbare l’apprensione over regettarla non replica l’istessa attione, ma una nuova ne esercita, per il che tal assomiglianza non si addatta al nostro proposito. Ma che l’introdurre tali vestigi e reliquie diversi dall’istessa [201] appren|sione, è piuttosto scansamento che vera resolutione che sviluppi la difficoltà, come riescono comunemente tali, tutte quell’evasioni a questa simili che fra li contradittorii propongono mezi e transationi. Per il mio ragionare osservandosi Eutidemo fuori del suo solito nella rete colto soggionse: “Molto fretolosamente mi diportai mentre ch’affermai che l’istesso fosse in noi colui che apprende con quello che giudica. Anzi che hora motivato da queste tue instanze m’è di mistiero retrattare il già inavedutamente asserto, e ripronontiare che diversi siano quelli che esercitano tali due fontioni, cioè l’apprendere e giudicare, che però nell’istesso tempo ciò eseguiscono. Ma per evitare l’assordo già da principio proposto, che seguirebbe se differenti fossero, fa bisogno dire, che nondimeno si ritrovano diverse facoltà destinate a tali due fontioni, ambe inestate et instalate nell’animo humano per se stesso uno e singolare, a guisa di rami, che ad uno tronco

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    sono uniti, e che dalla istessa radice si alimentano”.

    Ottava espositione del sapere

    A ciò replicai che poco al mio parere con tal sfugitoio si avanzò, non potendomi con la mente formalizare, che le cose che per se stesse e per loro propria natura sono distinte, per mezo altrui l’istesso divenire. Né il posarsi sopra il comune fondamento cagiona altrimente la loro identità, siccome anco nell’essempio di rami addotto ciò evidentemente apparisce, potendo l’uno di essi divenire infecondo et arido, e l’altro rimanere fronduto e vegetante, benché sopra l’istessa radice insistono et alignano. Onde stante ciò, essendo le già dette facoltà divise, s’incorrerebbe nella primiera difficoltà che colui che rende il giuditio non riconosce sopra che egli sententia e decide. Intraprese di novo Eutidemo evadere la difficoltà con dire che sebbene l’istesso affatto non fosse l’apprendere che il giudicare, nondimeno perché tali offitii l’uno immediatamente l’altro segue, assordo alcuno da ciò non sortisce. Ma io incontrando il suo tentativo con il discorso tenuto con Antistene siccome vi raccontai mi opposi [202] a tal sua evagatione466. Al che per fine acquietosi Eutidemo. Ma Tehetetto467 che presente si trovò a tal divisamento stimò scansare il colpo con dire che non siano diverse di spetie l’apprendere e giudicare, ma solamente varii in quanto al più e meno, e che l’apprendere sia una lieve e volatile cognitione, et il giudicare una profonda e radicata intelligenza. E perciò avenendoci altra cognitione repugnante alla primiera ma più gagliarda e potente, si ritratta quella, e quando vicendevolmente l’una l’altra oppugna e discaccia, dubbiosi e perplessi ci rende. Stimava Tehetetto con tale sua diceria havere collimato nel centro del bersaglio, ma io lo sorpresi, avisandolo che grandemente rimaneva per ciò offeso il nostro sapere, se per altro mezo e modo non si afferasse la verità che per la contumace permanenza dell’apprensione che nel nostro animo insiste. Onde ne seguirebbe che il cimento e saggio della certezza delle cose altro non fosse che la lunga dimora della loro apprensione. Ma io narrato che hebbi a Tehetetto il ragionare di Gorgia in tal proposito et a Voi già da me raccontato, rimase rintuzzato il dogma di Tehetetto. Ma non cessò egli per altro modo di risorgere con dire, che

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    siccome rifiutava per la mia instanza che la sola perseveranza dell’apprensione fosse bastevole ad accertarci della verità, così anco stimava che la decente applicatione dell’attributo al soggetto over sconvenevolezza ci indicasse la verità over falsità del proponimento.

    Nona espositione del sapere

    Ma io di novo lo risaltai dicendoli: “Non ti accorgi, ottimo Tehetetto, che con tal conditione diversifichi e distingui maggiormente il giuditio dall’apprensione, e che perciò di novo cespiti468 nell’antedetto assordo? Ma di più il tuo ragionare eccita in me altra non lieve difficoltà, non potendomi rafigurare in che modo in noi il falso giuditio accade”. Et egli a me: “In che maniera puoi dubbitare circa li falsi giuditii come quando al corvo s’attribuisce la bianchezza, et al cigno la negrezza? E chi può negare che ciò sia falsissimo mendacio?”. Replicai: “Per il certo mi [203] arrosisco di ciò dubbitare, ma il modo che ci avenga tal mendace giuditio mi si rende come che incomprensibile. Rassembrati, dilettissimo amico, che appo Prencipe grande si ritrovi una guardarobba ottimamente instrutta di varii vestiti per l’uso di diverse persone, e che conforme alla qualità della stagione variamente servire debbono, a questa vi sia preposto un dispensiere, che conforme la convenevolezza e bisogno di caduno de cortegiani a tempi e stagioni debiti distribuisca li drappi che in detta guardarobba si contengono, onde s’egli decentemente li compartisce, ottimo ministro riesce, come s’altrimente eseguisce che il vestito del cavaglier al stafiero469 e l’habito di questo a quello distribuisce e l’addobamento dell’estate nel verno appresta, inetto a tal carica senza dubbio riuscirebbe. Hor dunque nell’istesso modo quando la nostra mente accopia ad un soggetto470 l’attributo che se li deve la stimamo verace e che nel bersaglio

    Dubbita Socrate come accade al falso giuditio

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    colpisca, ma quando insieme aggrega cose repugnanti, et incomplicabili, mendace e fallace la giudicamo”. Al che soggionse Tehetetto: “Per il certo essempio migliore al nostro proposito arrecare non potevi”. Ma io continovando dissi: “Nondimeno importuno intoppo ci incontra, per il che esercitare in comune il tuo egregio intelletto mi conviene, ché forse il tutto ci appianarà. Stimi, o Tehetetto, che tal dispensiere tenendo cognitione di Critia, et Agatone questo proceroso471 di corpo e di notabile statura, e quello oltremodo macilente e quasi nano, ch’egli distribuisca ad Agatone il vestito che a Critia si addatta, et a questo quello che ad Agatone si assetta?”. Rispose egli: “Per il certo non cometterebbe tal difalta seppur a caso over per burla o piuttosto sorpreso di grave delirio ciò non operasse”. Seguii: “L’istesso stimare dovresti dell’animo nostro, che giammai non fosse per comettere tal difalta di applicare conosciuto attributo, che disconvenga a non ignoto soggetto”. “Per il certo non”, affermò Tehetetto, e continovando disse472: “Forse l’errore occorere ci potrebbe, quando il [204] di|spensiere riconoscendo Agatone e Critia e circa la conditione di vestiti imperito si trova, et in ciò ingannatosi assegna l’habiti indecentemente. E l’istesso avenirci quando l’intelletto giudica il falso, conoscendo un delli accoppiati, e l’altro ignorando”. Ma a ciò accors’io: “Né errore in questa guisa parmi poter avenire, ma

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    siccome mi rassembra impossibile che la473 mente giudichi che la luce sia tenebre mentre che riconosce ciò che sia luce e tenebre, così appunto ancora non li può accadere che l’ignoto al da lei conosciuto attribuisca”. Sollecitomi Tehetetto, che meglio li dilucidasse tal essempio. Et io ad esso: “Rafigurati che Agatone sia dal dispensiere conosciuto, e che il vestito che li compartisce li sia ignoto, in qual modo potrà egli stante ciò affermare, che tal vestito sia il suo proprio e quello che agiatamente se li addatta? L’istesso ancora facilmente puoi applicare circa il giuditio della mente mentre che asserisce l’attributo convenire a tale soggetto”. Ma di nuovo risorse Tehetetto con dire: “Forse che il falso occorre quando ambi li accopiabili non sono da noi conosciuti, tanto il soggetto quanto l’attributo, siccome anco accaderebbe al dispensiere mentre che Agatone, e Critia, e parimente li vestiti li fossero ignoti”. Al che mi opposi, che né anco ciò può avenire, ché in tal caso né il dispensiero né la mente possono cadere in tal fallacia, non potendosi con fondamento di alcuno apparente giuditio affermare che l’uno all’altro convenga e si addatti, essendo tutti egualmente ignoti, Agatone e Critia e li addobamenti, così anco li soggetti e l’attributi, siccome giamai alcuno non affermarebbe mentre le cose nelle tenebre si ritrovano, che l’una all’altra convenga, e punto sarebbe come se cieco dispensiere attentasse di eseguire decentemente la distributione di colorati vestiti a persone di diversa qualità e conditione. Onde restaci per anco occulto il modo con che opiniamo il falso. Anzi apparirebbe per tal discorso che sempre nel vero colpissimo. A ciò sogionse Tehetetto dicendomi: “Ma tale buona ventura che [205] im|provisamente mi arrechi di sempre incontrare nel vero, mi si rende infortunio, diminuendosi perciò il pregio alla verità, facendone tu di essa tanta larga copia et

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    abbondanza, appresentandosi, conforme il tuo divisare, spontaneamente alle mani di qualunque senza alcuna nostra laboriosa industria. E mi sortisce admirabile che tutti li altri beni con tanta ansietà e sudori li cieli ci vendono, e che la verità gratiosamente ci sia offerta. Ma in quanta confusione, o Socrate, sortirebbero tutti li humani affari, quando fosse levata la distintione del vero e falso, e che ogni fititia chimera l’elogio del vero si usurpasse? Ma in tali salebri474 et inviluppi ci conducemo per cagione dell’immoderato dibatimento che circa l’investigatione della verità praticamo. Per il che ho sempre stimato che siccome intorno l’habiti morali dell’animo la mediocrità sia il più comendabile et ottimo, così in fatto delle dottrine et esercitii mentali temperatamente esercitar si deve, e che se l’intelletto rimane sovente irretito in tali ambagie e come da se medesimo illaqueato, non deve di ciò punto lagnarsi e reclamare, poiché tendendo egli insidie non solamente alli altri animali, ma sopra tutti al suo proprio genere, la natura giustissima vindice475 delle ingiurie contra la sua prole comesse, l’induce a cogliere, imbrogliare, et implicare se stesso. Ma giacché a tal flutatione ridotto mi hai, pregoti a compiacermi in esplicarmi ciò che in tal proposito intendi”. Et io ad esso: “Diroti quello, non saprei se sognando over vigilando, già una fiatta mi sugerì il discorso. Stimavo che la mente nell’istesso instante che giudica l’attributo al soggetto convenirsi, non havendo allhora rispetto a tutte le circostantie et individuali476 attinentie dell’uno e dell’altro, sempre in certa guisa nella verità s’affronta, benché ciò inutilmente et importunamente seguisca, havendo solamente la mira a quelle conditioni e positure che per allhora se li appresenta. Ma poi diversificandosi le conditioni delle cose overo palesandosi all’intelletto altre e diverse qualità, e sovente [206] va|riandosi la dispositione dell’istessa mente se varia il giuditio, e falso e mendace si stima il primiero, non essendo pertanto da noi advertito et osservato che la mutatione del posteriore

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    giuditio sia seguito per nuove avenentie che sono state da noi scoperte et osservate, ingannandoci che reputiamo sempre rimanere l’identità del primo oggetto, e della facoltà apprensiva stabili e constanti, credendo noi, che circa l’istesso oggetto habbian conceputo varii giuditii. Appunto come se la fantesca capitasse al polaio per prendere una cotornice477 et invece di essa pigliasse una tortore, ché senza dubbio nell’istante della presa non teneva nella imaginatione la figura della tortore distratta dall’imagine della cotornice, ma un certo tal abbozzo addatabile all’una et all’altra, onde in quel momento non faliva mentre che pigliò l’una per l’altra, ma subito che fu eseguita la presa scorgendo più d’appresso e considerando minutamente il tutto, riconosce la difalta. Quest’è quanto in tal proposito ho delibato non sapendo per anco se al vero mi sia molto avicinato, per il che alla tua sagace censura l’offerisco. Ma di più tornando al primiero proposito, tanto alla tua positione come a quella di Eutidemo mi rimane per anco difficoltoso che riducendosi il sapere al giuditio che si esercita circa la complicabilità over incomplicabilità delle cose l’una con l’altra, non si può eseguire senza riconoscere la convenienza over incongruità che le cose insieme tengono, il che incontra e concide con l’istesso sapere, per la cui intelligenza tanto si travagliamo a rinvenire e riconoscerlo, onde si troviamo in tal punto, che esponiamo il sapere con l’istesso sapere”. Al fine di tal mio ragionare osservai Eutidemo alquanto turbato, recandosi ad onta, ch’egli insino allhora vittorioso in tutti li mentali conflitti, al presente da me in dottrina tenuta da esso tanto volgare fosse stato da me ragirato e superato. Ma Tehetetto di più nobile indole e generoso spirito dottato, deliberò meco affaticarsi circa tal inchiesta, e né volse per l’avenire aventurare [207] il suo giuditio in affermare o negare dogma alcuno, se prima non veniva a capo di tal indagine, stimando irragionevole pretensione presumere di conoscere la conditione di alcuna cosa, mentre che si ignorasse ciò che sia l’istesso sapere. Ma io rincorato da tale compagnia, licentiatoci da Eutidemo

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    Decima espositione del sapere

    Virgilius

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    determinassimo ambi ricorrere ad Erchelao478, che tutto alla speculatione delle cose fisiche dedicato si era, stimando che havendosi egli con tanta assiduità a ciò impiegato, si fosse prima esatamente informato di ciò che sia il sapere, siccome che giamai nochiero al mare si aventurarebbe, se prima non riconoscesse quello che fosse l’arte navigatoria. Ad esso dunque capitati lo ricercassimo che ci esplicasse quello che sia il sapere. Al che egli prontamente rispose, che fosse l’apprendere le cose per le lor cause, quali sono la materia, forma, efficiente, e fine. Fra molte ragioni che addusse in corroboratione di tal sua diceria fu, che allhora si acquieta in noi la brama del sapere, quando habbiamo conseguito la cognitione delle cause, rimanendo perciò la nostra curiosità affatto satolata, occorrendoci a guisa di pedota479 che doppo lungo travagliare con l’insulti del mare, in sicuro porto pieno di gaudio approdi et ancori, e che perciò egregiamente pronontiasse il poeta: Felix qui potuit rerum conoscere causas480.

    Ma io punto non mi allegrai per tal espositione, né questa satisfece punto al desio che teniva di conseguire tal cognitione. Primieramente m’abbatei in quella difficoltà che come fatale a tutte l’espositioni del sapere si oppone e contrasta eccettuando forse a quella di Protagora, cioè mentre che ignari si troviamo circa quello che sia il sapere, e che instantemente ricerchiamo di tenire novella, presumemo con lui stesso renderci di esso capaci et informati, nel qual inconveniente evidentemente incorse Archelao mentre pronontiò che il sapere fosse apprendere le cause delle cose, che [208] altro non è che l’istesso sapere. Ma lasciando ciò a parte, altri non lievi assordi mi si attraversarno. Mi molestava primieramente che il riconoscere ciò che sia causa et in che consiste la sua efficacia et energia è forse delle più ardue dottrine che pratichi il saper humano. Onde non vi mancorno di quelli benché troppo temerarii ingegni e puoco481 riverente al comune intendimento delli homini, che negarno qualunque causalità. Ma siccome questa opinione, falsa dall’universale delli homini è reputata, nondimeno la sua falacia non è tanta manifesta che con la semplice evidenza a guisa de primi principii si riconosce. Tiene tal fantasia settatori e seguaci, per il che è di mestiere

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    confutarla con serie di argomenti e difuse dedottioni, per il che senza la cognitione di ciò che sia saper non si può attentare la sua regettione482. Onde inanzi che fosse comprobato l’esistentia delle cause già sarebbe nato et adulto il sapere. Oltre di ciò admessa la causalità come da per sé evidentissima, mi si oppone altra difficoltà non solo intorno il modo che tiene nel produrre il suo effetto m’anco circa il numero dalle cause. Non mancano alcuni de sapienti che solamente la causa materiale admessero. Altri v’aggiunsero la formale. Et altri anco l’efficiente introdussero. Et Anasagora asserendo la mente disgregatrice del confuso cahos alle predette la finale v’addatò. Non manca Platone di acramente contendere per la ideale. Onde a risolvere e determinare il vero numero di esse, sforzati saressimo di valersi dell’istesso sapere, onde ci ridonderebbe l’antedetta dificoltà. Ma di più mi annoiava altro intoppo, che se il sapere dipende dal riconoscimento delle cause o che ci converebbe all’infinito procedere, il quale per sua natura è incomprensibile483 né si può giamai con il discorso percorrerlo, et abbracciarlo, overo ci conviene fermare ad un segno e termine senza ricercarne più oltra causa alcuna, onde vano di novo riuscirebbe il nostro antecedente travagliare. Che valerebbe alla curiosità delli Egittii riconoscere la vicina [209] deri|vatione delli rivi, e canali che irrigano e fecondano le loro campagne, ritrovando che dal Nilo fluiscono, mentre che li resta occulto il primo origine e scaturigine dell’istesso Nilo, da cui prendono principio? E per il certo Democrito in ciò è degno di grave censura, che havendosi affaticato al di sopra di ogni altro fisico in rendere le ragioni di qualunque benché minimo effetto naturale, e nondimeno la construttione universale del mondo al caso e cieco concorso delli atomi assignò. Da questi comuni esami, alla particolare disquisitione di cadauna di esse cause m’applicai, proponendomi indagare qual grado tenisse qualunque di esse nel sapere humano, e dalla causa materiale feci l’esordio. Mi riusciva tal causa oltre modo inetta e sterile a produrre in noi cognitione alcuna di vaglia484, essendo essa in quanto tale indiferente et interminata. Per il che ad arrecarci la vera e speciale essenza delle cose, affatto insufficiente et inidonea mi si appariva, e perciò a riconoscere la simetria e formosità della

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    testa di Giove olimpico poco ci vale il sapere che di bronzo o di argento, overo di altro metallo sia. Nell’istesso modo parimente la forma non mi rassembrava causa che ci instruisca la conditione del suo effetto, ma piuttosto che sia l’istessa cosa che oggettamo485. L’efficiente come all’effetto esterno, lo stimai, e che minimo di lume ci apporti nel rappresentarci li suoi effetti, siccome che riconoscendo Fidia, non si apprende punto le conditioni particolari di sue sculture, seppure non ci avenisse come accade all’ignari dell’arte della pittura e scultura, che dal semplice conoscimento delli opefici, deducono la perfettione delle loro opere. Oltre ch’essendo l’efficiente solamente cagione della semplice essistenza delle cose non dell’interna loro ragione e conditione, non ci può altrimente suggerire cognitione di importante rilievo. Il legnaiolo forma tavola di quadrata misura. Egli è bene cagione che il legno in tal figura sortisca, non già che il diametro di essa sia al suo lato [210] incommensura|bile, né che i quadrati che emergono dalli doi suoi lati siano eguali al quadrato che dal diametro risulta486, derivando tale proprietà da necessaria inevitabile et intrinseca causa, propria all’istesso quadrato non già dipendente da legnaiolo che fece apparire tal figura nel legno. Così il pittore appresta il disegno e soministra li colori, ma la bellezza che dalla proportione de lineamenti, e temperatura di colori risulta, d’altro principio sortisce. Il musico medesimamente sugerisce la voce et il suono, ma la melodia dell’armonia, da numeri consonanti risulta. Ma per confessarvi la mia ignavia né anco seppi intieramente imaginarmi, in che maniera dall’efficiente pervenga il principio del motto, che fontione sua propria è stimata, perché se trapassa alcuna cosa dal motore al mobile non so formalizarmi, parlando hora con termini usitati487 dalla scola, se tal cosa sia sostanza overo accidente. Non sostanza, poiché essendo il motto semplice accidente, e forsi non altro che l’istesso mobile, come stimano quelli ch’a nomi attribuiscono tali formalità, ricusa ogni retto discorso che sia sostanza. Né che sia accidente si può admettere, poiché a questo è interdetto lo spicarsi e fare passagio d’un soggetto all’altro, e perciò parevami che non potesse cosa alcuna transferirsi dal mottore nel mobile. Ma se non deriva da quello a questo né sostanza né accidente, che sarà

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    quello che operarà il mottore nel mobile, e che renderà questo ossequente a quello? E perciò alcuna fiatta adherivo al parere di coloro che l’offitio che si attribuisce al motore di movere il mobile, sia piuttosto certa concomitanza di motto che tiene con altrui, ché insieme accopiati si movono, che cosa che da esso al mobile pervenga. Ma né anco il fine benché preconizato causa delle cause e primo impulsore dell’efficiente, non mi riuscì bastevole a produrre in noi de suoi effetti alcuna egregia cognitione. Chi non sa che il fine della guerra sia la vittoria? Della medicina la sanità? Del politico governo la tranquilità della [211] republica? Quanti pochi e rari si trovano che dalla administratione della militia, pratica della medicina, e reggimento di Stato siano periti, et in tali professioni di alcun grido? Per il che meravigliare non si deve che alcuni di filosofi hanno lasciato a parte la speculatione della causa finale nell’annoverare esse cause. Oltre che mai non mi potei rafigurare la maniera che tiene tal fine nell’impulsare l’efficiente. Parevami impossibile, che il fine che per anco non è, tenisse facoltà et energia di movere l’efficiente alla esecutione dell’istesso finale effetto, ma se per evitare la predetta difficoltà dire vogliamo che tal causa finale che impulsa l’efficiente sia imagine di cosa che già essiste, se così fosse non moverà altrimente come fine, ma piuttosto a guisa di efficiente, onde giudicare si dovrebbe motore del motore over efficiente dell’efficiente. Ma di più ancora, a sufficientia formalizare non mi potei in qual maniera si può rappresentare l’uso della cosa che tanto sarebbe a dire il fine di essa, se prima informato non si sia della qualità e conditione di essa cosa, essendo l’uso accidente consequente e posteriore o piuttosto effetto di lei. Prima è l’occhio, e poi il vedere: Nil ideo quoniam natura est in corpore, ut uti Possemus: sed quod natum est id procreat usum488,

    disse uno poeta anco peraltro troppo ardito e temerario. Ma io in ciò nulla affermando, solamente accuso circa tali speculationi la propria ignavia. Anzi tanto desioso mi trovavo in riconoscere la causalità et energia del fine, che se permesso mi fosse stato il rinvenirla, harei rinontiato alla speculatione

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    et inchiesta di ogni altra causa, et ad apprendere il fine delle principali cose che nell’universo si trovano totalmente impiegato mi harei. E per certo Anasagora havendo alla mente attribuito il regolare et ordinare l’universo, nel progresso delle sue speculationi abbandonando la causa [212] finale, ricorse nel rendere ragione delli avenimenti naturali al caldo freddo, secco et humido, leggiero e grave, e simili. Onde seguendolo li altri sapienti, chi mai di essi investigò e rinvenì il fine per cui alcuni regioni della terra sono a satietà irrigate da prolifico humore, et altre affatto di esso destitute, et altre dalle illuvioni489 di fiumi somerse? Chi ricercò perché alcuni paesi sono piani e commodi alli usi humani et altri alpestri e sterili? Chi indagò per qual oggetto il mare in alcuni lochi della terra con furioso flusso l’assalta, et immediate la rilascia come accade nel mare occidentale settentrionale, et in altri lochi con mediocri aggressi, regressi con essa scherza, et in altre positure, come nella lunghezza del Mare Mediteraneo, solamente con reciproco et alternante corso non crescendo né diminuendo la lambisce? Per qual scopo l’istesso mare nel lido della Soria termina, e non più oltre si estende, privandoci di agevole comercio con li popoli più interni della vastissima Asia? Qual mira hebbe l’opefice universale nell’impedire la navigatione alla Grecia, Italia, et altre provincie mediteranee con l’infraporre quel stretto istmo e poco di terra fra l’Asia et Africa, in modo che ci rimane impedito lo transitare con vascelli alle ricche Indie? Come anco perché infrapose quel strettissimo tratto di terreno fra la Grecia e Poloponesso, con che fece ostacolo a doi mari Ionio et Egeo che insieme con tanto profitto di popoli non comunichino? Per qual cagione la natura congela la grandine così nociva e dannosa? Se per nostra pena e castigo, perché sovente la scarica in lochi affato sterili, e deserti senza l’offesa di alcuno? Per qual fine si accende il folgore, ultimo terrore del nostro genere? Se per abbattere il nostro orgoglio, perché tante fiatte il dorso di raminga montagna vanamente percuote? Lucano

    Scilicet ipse petet Pholon? petet ignibus athen? Immeriteque nemus Rodopes? pinus minantes?490

    Ma la varietà di tanti animali non solamente a nostri usi [213]

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    alie|ni, ma a noi oltre modo nocivi per qual causa esistono? Ma se li venenosi serpenti per nostro castigo spirano491, perché nelle vastissime solitudini della inhabitata Africa son confinati? Le piante tanto dannose e mortifere a qual fine la natura de suoi effetti custode, dal suo seno produce, e con sue poppe nutrisce? Infinite altre cose addurre potrei, che ometto, che a ricercarne le loro cagioni finali li sapienti, neghitosi, et intorpediti riescono, che pure fra tutte l’altre cagioni sono dalla curiosità del nostro intendimento oltre modo bramate. Ma ritornando al primo nostro proposito, di più dico, in difalta di tali cause, che né anco le scientie matematiche che tengono fra le altre di certezza il principato, né di causa efficiente né finale nelle loro ferme demostrationi punto si servono, non potendosi render ragione per qual fine il diametro del quadrato sia al suo lato incomensurabile, e che tre angoli di caduno triangolo siano eguali a doi angoli retti, né meno si discorre in tali scientie circa la causa efficiente di simili proprietà. Ma quello che in tal proposito è notabile che nelle matematiche sovente si rendono evidenti alcuni teoremi senza l’aiuto et intervenimento di alcuna causa, come accade nel già detto celebre teorema fecondo di tante altre consequenze, cioè che li tre angoli di caduno triangolo sia eguale a doi retti, dimostrando ciò il nostro Euclide per mezo dell’angolo esterno di esso triangolo, il che ad alcuna delle antedette quattro cause ridurre si può. Né punto mi move l’instanza apportata d’Archelao presa dal piacere che sentimo quando habbiamo conseguito la cognitione delle cause, avenendo ciò per certo nostro suposito, che la cognitione delle cause sia l’ultima linea dell’intelletuale discorso, come s’ingannarebbero coloro che posto havessero il loro ultimo fine nelle ricchezze o bellezza e simili oggetti che realmente non adempiscono la nostra volontà, se non tanto che da essi a ciò sufficienti li stimano. Potrebbe anco tale aggradimento derivare che mancandoci il modo di conseguire le cose per se stesse ci contentiamo di quello che per mezo delle loro cause ne [214] deli|bamo. A questo si aggiunge che tal contento ci accade non perché le cause ci sugeriscono sincera e perfetta cognitione delli effetti, ma perché sovente ci spingono dall’animo quelli sospetti che la novità et admirabilità ci apporta, come già fu detto

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    trattando con Aristippo et egregiamente prononciò il poeta: Virglius

    Felix qui potuit rerum cognoscere causas.

    Seguendo egli immediate rendendo di ciò la cagione Atque metus inanes et inevitabile fatum Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari492.

    Undicesima espositione del sapere

    L’eclisse della luna perfettamente si apprende da qualunque mentre che repentinamente la sua luce si estingue, ma il saperne la cagione perché tale oscurità procede, cioè che derivi dalla interpositione della terra fra essa et il sole, detrude dal nostro animo quell’horrore che ci arreca l’osservare che uno di principali ministri della natura patisca deliquio e detrimento, dubbitando noi che ciò in grande offesa e danno ridonda493. Onde per tal ignoranza seguì l’eccidio dell’ateniese esercito che sotto Nicia494 in Sicilia militava. Da tutto ciò si rende chiaro che la cognitione delle cause di effetti non è l’ultimo conato dell’humano sapere anzi che meglio si conosce la cosa per se stessa che per altrui, siccome che giamai ritratto di pittura non ci farà meglio conoscere il suo originale di quello che esso originale per se medesimo. È ben vero che in difalta di questo di quello si servimo. Hor dunque non havendo dall’antedetta esplicatione raccolto messe che mi satisfacesse, lasciando Archelao tutto implicato nella investigatione delle sue cause, a Teofrasto ricorsi, il quale di Aristotele era amicissimo e che per l’assenza di esso a Stagira ito, la vice di lui nel Liceo sosteneva, e con maggior instanza che io poteva [215] lo solicitai che spiegare mi dovesse quale fosse la mente di Aristotele circa l’humano sapere, tenendo io ferma speranza che circa ciò la mia curiosità estinguerebbe. Tale è la celebrità dell’acume e solertia del suo ingegno, risposemi Teofrasto, che il comune amico circa ciò molto s’industriò per riportarne concetto di lui degno, ma che prima li conveniva narrarmi quello che circa il mio modo di discorrere, seco sovente favellò, il che stimava non alieno dal nostro proposito: “Per il vero, diceva Aristotele, il nostro Socrate nel confutare l’altrui openioni, e rintuzzare il vano acume di

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    sofisti, riesce admirabile, né meno è comendabile circa l’affari humani nel consigliare e dirigere altrui a suoi profitti. Ma nondimeno osservo in esso notabile penuria d’instrumenti e machine per oppugnare l’altrui dogmi, non havendo giamai alle mani altro che la semplice induttione tratta da legnaioli, selaii, calzolaii e simili, non affatto valevole a prostrare le contumaci openioni di protervi sofisti. E continuò di più dicendo, che giamai non intese che da te fosse formato demostrativo silogismo, che pure è il più formidabile ariete che sia stato escogitato per disrocare et atterrare il più munito et ostinato dogma, ma però confessava egli che se di tal organo ti fosse provisto, haresti esercitandolo renduta stupida l’istessa maraviglia”. Al che risposi che strano non doveva parere al nostro amico se io fosse destituto di tal silogismo, appropriato più che altri a ritrovare e fondamentare la vera scientia, non professando io alcuna scientia e dottrina, e che perciò incombeva ad esso Teofrasto esatamente instruirmi qual sia tal demonstrativo silogismo. Seguì Teofrasto che: “Secondo Aristotele altro questo non esser che construtione di due premesse et una conclusione, le quali premesse dalla definitione di una portione della conclusione che si ricerca riconoscere, scaturiscono, le quali conviene che siano affatto vere, immediate dipendenti da primi principii over che tengono da essi principii necessaria consequenza, e che [216] esse premesse contengano la causa della conclusione la quale è l’istessa scientia da te tanto bramata et ambita”. Inteso che hebbi ciò subito sospetai che la moltiplicità di conditioni non arrecassero al sapere maggior chiarezza, ma sì bene l’apportassero maggior numero di contrarie instanze. Primieramente risorssero nel mio animo l’oppositioni hora contra Archelao intentate circa le pretese cause che producono in noi il sapere, pretendendo Aristotele che le premesse abbraciassero le cause della conclusione, oltre che nel scegliere quali devono esser le premesse idonee per fabricare tal silogismo

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    dal quale si produca la conclusione, conviene già esser dottato di non mediocre sapere, onde la scientia inanzi li natali suoi, di già prodotta et adulta sarebbe. Ma perché non appieno della antedetta diceria da Teofrasto pronontiata, mi trovavo informato, cioè del modo che la difinitione d’una proportione della conclusione nelle premesse s’introducesse, lo pregai che ciò esatamente mi esplicasse. Al che mi rispose che: “Aristotele teneva per certo che dalla definitione conveniva auspicare e prendere l’essordio della demostratione, e da essa formarne il silogismo da cui si raccoglie e conclude la congiuntione del soggetto con il predicato over attributo, che dir lo vogliamo, che si attenta dimostrare. Ma se ricerchi da qual portione della conclusione, la definitione si deve prendere, benché l’amico ciò apertamente non habbia dichiarito495, e crederei che fosse la definitione dell’attributo della conclusione, dalla quale per mezo della ordinatione silogistica si manifesta l’allianza et anessione che tiene con il soggetto della istessa conclusione”. Il ricercai che di ciò alcuno essempio mi appressentasse. Il che egli cortesemente mi l’offerì, et in tal maniera l’espose: “Ogni animale ragionevole è homo, Clinia è animale ragionevole, Dunque Clinia è homo,

    ove [217] si scorge che il mezo per raccogliere che Clinia sia homo, è l’essere animale ragionevole, definitione dell’attributo della conclusione, cioè homo”. Per il certo rimasi attonito che sapiente qual stimai fosse Aristotele, sì per la cognitione che possiede delle cose naturali, come per la varia eruditione delle più nobili discipline, tenisse approvato che tal silogismo sopra tutte le altre maniere di argomentare occupasse il più degno loco, e che fosse il maggiormente idoneo a produrre la scientia. Per il che interrogai Teofrasto: “Stimi forse che giammai si ritrovasse alcuno così

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    scioco che sapendo che Clinia sia animale ragionevole che dubbitasse che homo non fosse? Seppur questo tale come barbaro e straniero ignorasse il significato del vocabolo homo, ché in tal caso a gramatici e dittionaristi espositori delle parole lo rimetteressimo, non a filosofi di demostrationi artefici, e piuttosto ad Aristarco496 e Palemono497, che ad Aristotele ricorreressimo”. A ciò risposemi Teofrasto, che in altra maniera si poteva ciò eseguire cioè per mezo della difinitione del soggetto della conclusione. Di novo l’instai che avaro non mi fosse in arrecarmi di ciò essempio, et egli tale mi appresentò: “Ogni animale ragionevole è risibile498 L’huom è animale ragionevole Dunque l’homo è risibile.

    Nel qual silogismo”, seguì egli con dire, “ecco che la definitione dell’homo soggetto della conclusione è il mezo della demostratione, che convince l’homo esser risibile”. Non potei ciò udendo rattenermi dal ridere, scorgendo io Teofrasto reiterare benché alquanto in diverso modo l’istesso assordo. Ma egli che mi attendeva, ricercomi instantemente della cagione di tal irrisione. Al che io li dissi ch’era una esperimentativa approbatione ch’io volsi aggiungere alla sua elaborata demostratione. Ma egli di ciò non [218]499 satisfat|to sospettando di quello ch’in effetto era, mi sollicitò che li palesasse la vera cagione di tal mio scherno e sbefegiamento, promettendomi di ciò giamai con Aristotele motegiarne, ché purtroppo l’osservava meco alterato lamentandosi di me, che espositore di nomi piuttosto ch’esploratore di dottrine l’appellassi. Al che io sogionsi: “Ottimo amico, non attendi500 che con tal tua posteriore dichiaratione ti sei di nuovo esposto a colpi della primiera mia oppositione, per il che ti sei fatto meritevole di provocare la mia derisione? Non advertisci che niuno di sano giuditio conoscendo ch’ogni animale

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    ragionevole sia risibile, che non apprenda ch’anco l’homo risibile sia, purch’egli intenda il significato della voce homo e che sappia che l’istesso sia che l’animale ragionevole, e che questo espressamente e con giro di parole, e quello implicitamente e ristretamente il medesimo esprime? Onde avenire potrebbe, che la parola homo divenisse mezo termine per far riconoscere che l’animale ragionevole risibile sia, mentre che alcuno si trovasse meglio informato del vocabolo501 homo che dell’animale ragionevole. Il che stimo che appo il volgo sovente avenga”. Inteso questo Teofrasto non si poté anco egli dal riso temperare et astenersi. Ma instando io la vittoria continovai a dimostrarli le vanità di tal silogistica machina502, e li soggionsi: “Significare ti voglio che l’induttione da me tanto praticata, e dal nostro amico schernita, efficacissima si trova ad apportarci quel lume di sapere, che alla nostra conditione è permesso. E ciò tanto più volentieri teco hora eseguisco, quanto è grande l’obligo che tengo di difenderla dall’altrui ingiurie, havendomi essa renduto vittorioso in molte battaglie e conflitti che con importuni sofisti me occorssero, né giamai li suoi suffragi mi riuscirno scarsi e deficienti. Io stimai sempre che mentre si pronuntia che ogni animale ragionevole sia risibile, che giammai alcuno con il discorso della mente abbracciasse tutto l’ambito delli animali ragionevoli che nel mondo furno, sono, e [219] saranno, ma che havendo tal conditioni in molti di essi animali ragionevoli osservato habbia supposto ch’a tutti li animali convenga tale risibilità”. Soggionse Teofrasto: “Così al sicuro aviene”. Onde continovai: “Per qual cagione dunque dal nostro amico debbo esser intanto ripreso, poiché dal raccogliere da molti individui deduco quello ch’al mio proposito attiene, conieturando, che quello che a molti accade, anco a quel mio particolar

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    soggetto ad essi simile occorrere debba? Rittenendomi pertanto dal formare propositione universale, ché se ciò facessi non sarei perciò maggiormente sicuro di non incorrere in alcuno errore, affermando quello non ho assolutamente praticato, né sensatamente osservato”. Rimase Teofrasto affatto satisfatto, affermando ch’a suo credere l’induttione sola essere soficiente direttrice del nostro discorso, né altra norma et instruttione ci sia necessaria per formare e fermare la nostra speculatione, e che perciò qualunque desidera profitare in alcuna disciplina, provedere si deve della cognitione di molti esprimenti et osservationi per poter trarne a suo profitto utili induttioni. E seguì con animo veramente filosofico confessando che sempre sospetò della insuficientia e vanità che503 tale silogistica construttione, e sovente dubbitò che l’istesso Aristotele fosse conscio della deficientia di tale argomentatione, ma che a guisa di falito alchimista benché sia informato della mendacità della sua arte nondimeno attentando il resarcimento della iatura504 ad esso seguita, continua appo homo opulente celebrare la prestantia505 della sua professione, con fine di raderli dalla borsa altrettanto argento, che le sue vane speranze l’indussero a consumare. Ma dubitando che l’esperienza in breve non convinca la falsità delle sue promesse e vantamenti, tante lunghe et odiose preparationi e stentate dilationi li propone, che giammai si capita all’ultima esecutione e finale tramutatione di metalli, onde infra tanto l’impoverito homo conservando il concetto appo quel riccone, [220] comprando a caro prezzo et a denari effetivi tante vane promesse e sterili speranze: “A questo modo apunto stimo che Aristotele si diportasse circa il saper humano, che ritrovandosi appieno informato dell’imbecilità e fiachezza dell’humano sapere, et havendo infrutuosamente consumato molto studio per rinvenire la verità, propose tale silogismo pieno di tante difficoltà et ardue circonstantie, a modo tale che giamai a capo di esso devenire non si potesse, onde l’homini d’ingegno semplice attribuendo la difficoltà alla loro propria inettia, e non alle impossibiltà del fatto, conservassero appo loro illesa la conceputa stima

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    dell’autore di tal silogismo. Segno evidentissimo di ciò mi fu che giamai nel corso di tante sue speculationi non formasse silogismo tale, che adempiuto havesse tutti li suoi numeri, e che tante conditioni possedesse, quante che da esso proposte furno. Indicio di ciò parimente mi fu, che essemplificando egli tal suo silogismo ricorse al nostro greco alfabeto, onde con non proprii essempii rappresentò suoi silogismi, ché se con termini reali rafigurati l’havesse, immediate riconosciuta si harebbe l’invalidità di tali machine”.

    Duodecima espositione del sapere

    Havendo qui fatto fine Teofrasto al suo divisare, lo comendai d’ingegno sciolto e libero, e che la famigliarità che tenne con Aristotele non li arrecò quella tenacità che proprio è di suoi seguaci. Hor dunque essendomi smarita anco quella506 speranza ch’io teniva nella famosa dottrina di Aristotele, non passò molto di tempo doppo il congresso havuto con Teofrasto che nella nostra città capitò un hospite italiano che fu molto domestico di Filolao507 pitagorico, del quale possedeva un libro per quello si diceva molto pregiato, per il quale Platone tre mille darici508 li offerse. Havendo dunque egli meco contratto amistà, mi ricercò che essendoli stato da Platone per il libro tre mille darici promesso, e volendo egli, seguito il contratto, in Italia condurre over rimettere il dinaro, mi richiese509 che l’informasse della lega di tali monete. Al qual risposi, che [221] di ciò io mi ritrovava ignaro, ma che ne harei con Calicle ragionato, che all’erario publico era deputato, onde io lo stimava di tal affare abbastanza pratico, ma che in ricompensa di tal servigio solo ricercava, che instruire mi dovesse se circa ciò che fosse il saper humano in tal libro, Filolao alcuna cosa ne dividasse. Risposemi egli che egregiamente di ciò ne trattava il di cui raccolto è, che due fontioni praticava l’intelletto, l’una componendo le cose sparse e divise, e l’altra dividendo le confuse et unite. Onde l’aviene a guisa di aritmetico che doi offitii esercita circa l’arte del numerare, cioè comporre e dividere, onde quando la mente alcuno attributo ad un soggetto arreca et afferma, compone, e quando nega, disgiunge e divide. Da ciò poi prende ansa Filolao conforme il dogma di Pitagora di esaltare sopra qualunque altra disciplina l’aritmetica,

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    celebrandola più d’ogni dottrina giovevole e profittevole ad indrizzare il nostro discorso, dipendendo da questa tutto l’humano sapere. Né peraltro stima egli che l’homo meglio che tutti li altri animali con sentimenti interni discorre, che per esser perito dall’arte del numerare, aggiungendo l’hospite, che solamente per tal dottrina meritava il libro li tre mille darici che Platone li propone. A tal ragionamento si ritrovò presente Xenocrate510 il quale non poco si rallegrò, che al suo dogma fosse apportato da sì lontano loco tanto di sufragio, havendo egli definito che l’anima humana fosse numero da se stesso movente, tenuto insino alhora che possedesse più del chimerico che reale. Ma io ciò inteso, non l’autorità di Filolao, né l’offerta di tre mille darici di Platone, e né anco l’amicitia di Xenocrate poté rattenermi che io non cimentassi tal dottrina, e che al mio solito sindicato non la sottoponesse. Interrogai l’hospite qual fosse la ragione che havendoli Platone promesso li tre mille darici, et essendo egli certo del loro numero, tuttavia dubbitasse della loro lega, e qualità. Risposemi che poco li giovava il [222] sa|pere il semplice numero delle monete ignorando il loro stesso valore. Al che replicai: “Per il certo oltremodo riesce ingordo il pretio del tuo libro, contenga egli qualsivoglia dottrina, mentre che asserisce che il sapere humano universalmente altro non sia che numerare, poiché con tal sapere, non si può penetrare nell’interno et essentiale delle cose numerate, ma solamente delibarne l’esterno non essendo altro l’annoverare che una riasuntione over difalcatione511 mentale delle unità. Onde il numero piuttosto nel numerante che nel numerato risiede. Hor dunque siccome, ottimo hospite, di nulla overo poca satisfattione ti riuscì lo sapere il numero del pretio offertoti da Platone, cioè li tre mille darici, mentre rimanghi non informato della loro qualità e valore, così anco nulla o poco curare ci dobbiamo di qualunque dottrina, mentre che di altro noi non siamo raguagliati da essa che del numero del scibile, non altrimente delle interne conditioni di esso”.

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    Rimase512 confuso di tal mio divisare l’hospite. Ma Xenocrate per difesa del suo proprio dogma mi accorse, dicendomi: “Con ottimo proponimento rigetti, o Socrate, l’openione di Filolao e non consenti che il saper humano sia numerare, essendoti tanto inetto dimostrato in tal esercitio, quando nel raccogliere publicamente li voti di Ateniesi così scioccamente nell’annoverarli ti diportasti”. Al che soggionsi: “Se nel corso delle mie attioni fossi stato provido e solecito in procurare il concetto del volgo circa il mio sapere, con ragione ciò conieturaresti, ma essendo io banditore della propria ignoranza, sinistramente513 ciò deduci. Ma giacché il mio falire introducesti conviene che anco di nuovo ti richieda se conforme il tuo parere e di Filolao l’esercitio dell’annoverare tenga bisogno di alcuna peritia, overo anco a caso e trascuratamente si può ottimamente eseguire?”. Risposemi, che per il certo il numerare non era attione tanto volgare che senza alcuna peritia decentemente esercitare si potesse, e perciò fu detto che il sapere fosse ottimamente numerare. A questo [223] replicai interrogandolo: “In qual maniera ottimamente si annovera?”. Rispose egli: “Sapendone l’arte”. Allhora soprendendolo li dissi: “Non adverti, amico Xenocrate, che mentre indagamo ciò che sia sapere, e che del libro di Filolao ricercai apprenderlo, e che da voi prestanti homini mi è detto che sia il saper ottimamente numerare, pretendete con l’ignoto informarmi di quello stesso ch’io ricerco di modo tale, che il sapere diviene l’esponente e l’esposto?”. Tacque Xenocrate e volgendomi all’hospite, che per il mio ragionare alquanto smarito divenne, lo rincorai con dirli,

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    che di tal mia altercatione, pregiuditio alcuno apportare non doveva alla vendita del libro, e che li libri non si stimano per l’esata verità, ma per l’eleganza et eruditione che contengono, e che l’Illiade di Omero era di molto maggior pregio appo il comune delli homini, che li versi di Empedocle e Parmenide, che le più recondite materie della natura spiegano. Qui terminò il divisamento che hebbi con l’hospite e Xenocrate. Non affatto dissimile ragionamento mi accadè con Euclide, come sapete nelle matematiche eccellentissimo, il quale affermava che la mente humana fosse a guisa di misura overo bracciolare514 segnato di minute portioni di divisioni. Li veramente sapienti possiedono aggiustata misura, e di minutissime distintioni la tengono divisa. Ma quelli che a tal segno non arrivano, ma che probabilmente giudicano le cose e che quasi per certo barlume conieturano la verità, possegono tal misura di giusta divisione segnata, ma non così minutamente distinta. Ma quelli, che non solamente all’ingrosso non giudicano bene le cose, ma affatto erroneamente ciò eseguiscono, come sono li volgari e plebei, tengono misura falsa, e pravamente segnata. E concludeva che il sapere consisteva nel decentemente applicare la propria et aggiustata misura come si conviene alle cose che apprendere si devono. Udito io ciò, altrettanto che mi piacque l’inventione del tripartito numero di caratteri d’ingegni legiadramente applicato all’ [224] es|sempio, così non mi satisfece il redurre la cognitione humana a modo di semplice misura, avenendole l’istesso che occorse alla espositione di Filolao non vi essendo altra differenza dal numerare al misurare se non che questo appartiene alla quantità continova, e quello alla discreta515, et ambidoi non attengono punto all’interno essentiale delle cose. Oltre che secondo la positione di Euclide si procedeva all’infinito, bisognando riconoscere l’aggiustamento di qualunque misura per altra misura precedente, il che accade in riconoscere se l’istessa mente decentemente segnata e terminata sia. La qual instanza tanto maggiormente riesce gagliarda poiché tali signature516 non furno da principio dalla natura poste nella mente, ma giornalmente dalla esperienza et osservatione vi sortirno. Oltre che il riconoscere l’istesso aggiustamento è diverso dalla misura et è il medesimo sapere

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    Quartadecima espositione del sapere

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    che tuttavia si ricerca, e che sotto il giudice pende. Per tali instanze et obbiettioni rimase Euclide convinto, et io come prima perplesso et hesitante circa la mia antica inchiesta. Avenne che vicino a quel tempo ritornasse Platone d’Egitto, al quale mi condussi per ricercarlo se circa il mio proponimento da sacerdoti di quel loco havesse raportato cosa di rilievo. Ad esso dunque capitai, e pigliai a dirli. Per il certo diverso fu il fine che l’impulsò ad Egitto navigare, da quello è il scopo d’altri che colà si conducono, che per acquistar haveri intraprendono tal viaggio, ma egli per rapportarne dottrine certamente a quel verso s’incaminò, per il che sicuramente stimavo che pregiati tesori di scientie alla Grecia, oltremodo avida di tali merci, arrecato havesse. Ma io altro517 hora non lo richiedeva, se non che mi comunicasse quello che circa il saper humano dall’Egitto havesse adotto. A ciò egli cortesemente rispose, che di ciò sovente con sacerdoti ne ragionò, e quello che d’essi rapportò fu, che impossibile stimavano conseguire la cognitione di alcuna cosa per mezo altrui ma che per se stessa riconoscere si doveva, ché perciò essi [225] sacer|doti reggettavano la speculatione delle cause che cotanto appresso li Greci era stimata, dicendo essi che dalla esistentia del fuoco, si può bene dedurre che vi sia anco il fumo sua prole, ma non perciò si conosce ciò che sia esso fumo. Per il che raccoglievano che la vera scorta che ci conduce all’interni penetrali e recessi delle cose, e che al vivo all’intelletto le rapresenta, altro non esser che la definitione dell’istesse. Questa è518 quella, secondo il loro parere che normando l’intelletto giamai permette che falisca, e tanto si trova questa al di sopra delli altri adminicoli che all’intelletto ministrano, quanto che essa definitione né da tempo né loco si trova terminata e ristretta, né ad alteratione alcuna soggetta, rimanendo sempre appresso l’intelletto invariabile. Lo ringratiai di sì nobile regalo da paese tanto remoto arrecatomi, et insieme lo solicitai che mi esplicasse la conditione di questa cotanta preclara definitione, ch’essendo tanto prestante giudicavo che non sia di volgare artifitio il construirla. Risposemi egli che non tutte le definitioni riescono idonee a tal affare, cioè a rappresentare l’interna essentia delle cose, ma solamente quella che conforme il precetto della logicale

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    scientia è formata, e che allhora sortisce ottimamente, quando che di due portioni del definito è composta, cioè di genere e differenza. La prima ci dimostra in che il diffinito con altri alquanto è simili e corrisponde, e l’altra in che si trova diverso e distinto, come per essempio volendo noi diffinire ciò che sia l’homo, si dice ch’egli è animale ragionevole. La primiera particola ci dinota la convenientia che tiene con li altri animali, l’altra ci instruisce di quello che esso è dalli altri differente, cioè l’esser ragionevole, advertendo di più essi sacerdoti che tali componenti della definitione conviene che siano intrinsichi et essentiali, non adventitii et accidentali. Inteso io ciò non si poté a tal espositione dell’humano sapere il mio inquieto genio fermare et ancorarsi, benché Amone, et Iside, over anco il bue Apis l’havesse a sacerdoti Egittii rive|lata. [226] Primieramente mi offendeva che convenendo nel formare la definitione scegliere accuramente le portioni essentiali che la compongono, ciò non si può eseguire senza il retto discorso, onde ne sortirebbe che inanzi che la diffinitione fosse construtta già le sue parti integranti fossero da noi conosciute e sapute. Per il che ne seguirebbe, non esser propria fontione della definitione l’additarci et insegnarci le essentie delle cose e produrre l’humano sapere, come che Platone e suoi sacerdoti suposero. Di più mi si rendeva strano che il riconoscere l’assomiglianza che tiene una cosa con l’altra producesse in noi cognitione di alcuno rilievo, si come diceva il nostro Euclide megarense, li simili in quanto tali, ci riescono al pari intelligibili overo incompresibili. Onde il dire che questo sia a quello simile non produce in noi alcuna importante dottrina, e doi ritratti benché affatto simili, non argomentano che all’originale corrispondano e si aggiustino, né doi tiri per esser eguali, ci accertano che nel nero del bersaglio colpischino. E la differenza, seconda portione della definitione, non è parimente priva delle sue difficoltà. Mi riusciva essa insufficiente rivelatrice delle cose, essendo infinite le diferenze che caduna di esse cose519 tiene con l’altra, e l’ultime sono stimate comunemente ignote, e non ritrovabili. Oltre di ciò restavo non mediocremente impedito nel deliberarmi da quale di correlativi diferenti, dovesse principiare la speculatione, non potendosi apprendere l’uno di essi senza riconoscere l’altro,

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    né insieme nell’istesso tempo rappresentare si possono, ché si confonderebbe la nostra intelligenza, come fu molte volte detto. A questa difficoltà si aggiunge, siccome conieturo, pretendono l’autori di tale difinitione produtrice dell’humano sapere, che delle semplici portioni di essa ch’incomposti e simplici sono, non si tenga propriamente scientia. Ma stante ciò non poteva io concepire che quel composto le cui parti non cadono sotto scientia, riesca il proprio e germano [227] og|getto del nostro sapere. In qual modo essendoci ignote le lettere del nostro greco alfabeto, il construtto di esse, dico le sillabe, possono essere esatamente conosciute? Ma di più supposto come hora fu detto che le mere portioni delle diffinitioni per se stesse non apportassero alla mente scientia, per cagione della loro simplicità, in qual guisa ci può la definitione tutta unita e come incomplessa520 sugerire scientia? Ma se521 come sciolta e nelli suoi parti integranti divisa, e non come una tal formalità l’oggettamo, ritorna la medesima difficoltà, e si rende non idonea a produrre la scientia. Ma di più lasciamo a parte li argomenti contra essa diffinitione dal discorso intentati, seguire dobbiamo l’esperienza, cimento d’ogni discorso, che certamente ci dimostra la vanità di tali difinitioni, ché lambendo queste solamente l’esterno apparente delle cose, non ci somministrarno giammai alcuna soda cognitione, ma ombratile e vana. Da quindi è, che le maggiormente celebri deffinitioni, che da sapienti sono celebrate, altro non ci arrecano che superficiale espositioni di semplici nomi. E la natura che con tanta incombenza fu da savii ricercata la sua definitione, alla fine uno de più stimati di essi, con acclamatione di suoi seguaci pronontiò, che fosse un principio interno di moto e quiete, non advertendo l’autor di essa, che se alcuno curioso addimandasse altrui, qual fosse la cagione impulsiva, che move l’horologio overo altro automato, e che a ciò li fosse risposto, che derivasse da principio che entro di lui risiede, che provocarebbe con tal risposta il sibilato522 e riso de auditori. Come anco se alcuno peregrino capitato nella nostra città e che richiedesse con instanza, qual è colui che a suo talento ragira e volve523 la Republica ateniese, invece di significarli che Pericle è quel tale, li fosse detto ch’è un tale che si trova nel corpo di essa Republica, che hora move

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    et impulsa li suoi concittadini all’eseguire alcuno affare, et hora li ratiene, et impedisce, al sicuro che ridicolo riuscirebbe quel tale che [228] risposto arrecasse. Né meno incongrua è la definitione del motto benché comunemente sia accetata, cioè che sia un atto del mobile in quanto si trovi in potenza, ché conscio il suo autore delle dificoltà che s’incontrano nel concepir il motto, poiché in esso complicano li contraditorii, cioè l’esser e non esser, con il scapatoio di vocaboli di potenza et atto presunse evitare l’assordo, o piuttosto occultarlo. Al pari delle antedette apparisce vana la definitione del bene, scopo e bersaglio delle nostre attioni, il quale fu definito che sia quello che per la sua perfettione si rende al genere humano desiderabile. La qual esplicatione non riesce meno indecente che se fossimo ricercati di esporre ciò che fosse l’oro, rispondessimo esser quello che per la sua perfettione al di sopra di tutti li altri metalli è da noi appretiato e desiato, non esplicando noi con tal diceria la di lui bellezza, splendore, peso, incorutibilità, flessibilità, et estensione, conditioni sue proprie, non come l’esser appretiato dalli homini, non essendo ciò che un segno e carattere esterno per il quale si discerne qual sia l’oro over il bene, come apunto occorrerebbe a colui che tentasse di fare riconoscere fra le meretrici Taide, per la turba e satelitio di suoi insani amanti. Ma troppo tedioso riuscirei se hora compilare et amassare volessi la farragine delle definitioni schioche e vitiose, che per bocca delli homini pravamente sono pronontiate. Bastami le già dette per dimostrare li difetti di tali definitioni. Ma Platone, accorgendosi che la merce dall’Egitto condotta rimaneva per le mie confutationi avilita, e di nulla overo di pochissimo pregio riusciva, mi advertì, siccome già inanzi la sua navigatione mi ricordò, mentre che io li suoi universali abbateva, che circonspetassi524 che in gran pericolo io poneva l’humana scientia, trahendo da tali definitioni da loco e tempo libere e sciolte, li suoi permanenti e saldi fondamenti, e che queste demolite et abbatutte, tutta la filosofia rimaneva impedita et estinta. Et io costante [229] nel mio proponimento poco di ciò mi curavo ché havendomi di già in gran parte scaricato dal peso delle dottrine, poco mi importava si crolavano li aerii edifitii dell’humano intelletto.

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    Ma lasciando Platone alquanto afflitto in Cratilo mi abbatei, il quale si trovava in openione delli homini sapienti non meno aveduto esploratore di arcani della natura che egregio espositore di vocaboli e loro etimologie. Con costui adunque presi a ragionare circa il sapere humano, e raccontandoli compendiosamente tutto quello ch’in tali affari mi occorse, lo richiesi circa ciò del suo parere, il quale in tal guisa favellomi: Quintadecma espositione del sapere

    “Vano affatto, secondo il mio stimare, è per riuscirti circa tal proponimento ogni tuo tentativo, e mi stupisco, che invece di redarguire altrui, non emendi te stesso, perché ramentare ti conveniva delle primiere dificoltà che al sapere incontravano, mentre che ti rassembrava che li oggetti, senso, intelletto, contra esso sapere per la precedenza nell’esame, apportavano. E massime ignorando tu ciò che siano li oggetti, sensi, et intelletto, dovevi anco giudicare che meno potevi rinvenire ciò che sia l’istesso sapere, siccome impossibile ci riuscirebbe riconoscere quello che fosse amore mentre ci fosse interdetto l’apprendere ciò che sia l’amante, e l’amabile, di esso amore basi, e fondamenti. Di più essendo il sapere relatione e raportamento che verte tra il sciente e scibile, e tante sono le difficoltà, e ch’alla intelligenza della relatione incontrano, che anco il sapere resta anco egli invilupato et obtenebrato. Inoltre di ciò in che modo con il sapere l’istesso sapere attenti comprendere? Non ti accorgi che a guisa dell’infelice Ixione ruoti te stesso? Il sapere che giudica il primiero sapere, perché deve esser immune e libero di sottomettersi anco egli all’essame? Ma se il secondo sapere al terzo si sottopone perché non questo al quarto, e così all’infinito? Per [230] li quali motivi parmi vano e frustatorio tal tuo ricercamento, cioè di indagare ciò che sia il sapere, ma che contentare ti dovresti di quel primo lume di cognitione che egli ti appresta, mentre che di passagio l’incontri et assaggi, e non procurare con concetti da lui diversi, di nuovo riconoscerlo, essendo qualunque nostro risentimento et intendimento appieno espressivo e significativo di se stesso, né per altrui da sé diferente, si può aggiustatamente rapresentare. Per il che giudico

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    che prudentemente si diportò Diogene, nostro comune amico, benché d’altri fosse stato schernito, che mentre nell’Accademia si disputava circa il dolore tenendosi da accademici diverse openioni circa la sua assenza, Platone asseriva che fosse effetto della dissolutione del continuo, altri settatori di Democrito il dedussero dal slocamento delli atomi nel vacuo, altri aggiunsero per cagione del dolore, l’alteratione d’interna qualità, Diogine percuotendo con la verga che in mano teniva Platone, prorupe dicendo: ‘Dolore è ciò che Platone hora per cagione della percossa patisce’. Con le quali parole significare volse che tutte le passione o resentimenti dell’animo nostro sono in tal modo in se stessi terminati, che con niuno altro concetto non si può rappresentarli. Per il che né anco Democrito solenne derisore delle humane attioni, riuscì punto ridicolo, mentre che essendo interrogato di ciò che fosse l’homo, stando egli con l’animo alquanto sospeso, rispose che fosse quel tale che si vede, mosso, per il certo della ragione hora accennata, cioè che niuna cosa per mezo di altra meglio al vivo rappresentare si può che per se medesima”. Al che soggionsi: “Dunque se il riconoscere ciò che sia sapere ci è impedito, in che maniera si diportaremo in prevalersi per nostro profitto delle cose che ci coasistono, e che invitan il nostro intendimento a contemplarle? Dunque rimaneremo privi di sì nobile trattenimento e dilettevol studio a cui la nostra mente si trova tanto propensa et inclinata?”. Accorsemi egli: “Anzi da cotesto [231] nostro amichevole congresso pretendo che resti affatto tranquillato, e che ormai ponghi fine e meta a questo tuo lunghissimo mentale divagamento, che insino al presente tanto ti affaticò et infestò. E stimarei che per l’avenire per il mio ragionare declinare e desistere dovessi da questo desio di sapere,

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    dalli admiratori delle cose vane tanto affetato525, il qual tanto più molesto e noioso ci riesce che questo nell’interno dell’animo annidandosi in ogni tempo e loco ci accompagna e stimola. Il curioso sapere che s’impiega circa l’humani affari, non meno ci travaglia per la cognitione delli avenimenti passati, overo che per l’avenire ci possono soprastare, che di quelli che di presenti ci molestano. Onde il tempo che tiene potestà sopra tutte le occorenze sublunari rendendole al pari di esso labili et flussibili, dalla contumacia526 del nostro animo a danno suo è domato, arrestando et affissando il nostro pensamento le preterite527 emergenze, e formalizando et ideando l’eventi che per l’avenire potrebbono essere, come se reali et esistenti fossero. Ma se alla cognitione delle cose naturali l’humano intelletto incombe, fra li altri tormenti a cinque oggetti crudeli e sempre flagellanti egli si comette: all’infinito che lo distrahe, al minimo indivisibile che lo comprime, al motto che l’agita, al tempo che lo consuma, et al loco over vacuo che l’inanisce528, materie tanto piene di spinosità ch’infelice per il certo è colui mentre che in esse invilupato, presume venire a capo della loro intelligenza. E quello è peggio che altro disastro ci occorre, che siccome il mare da contrarii venti comandato e percosso, non sa a qual di essi obedire, così la mente molte fiatte distratta da contrarie evidenze, e da repugnanti instanze diversamente raguagliata, non sa né può deliberare a quale di esse prestare debba la sua credenza et assenso. Il nostro senso scorge apparente diversità e varietà nell’esser mondano. La mente di Xenofane, Melisso e Parmenide nega che vi sia in esso alcuna diferenza, ma instantemente afferma che l’esser in [232] quan|to tale, sia affatto eguale. E similmente l’occhio esprimenta che la luce che più lontana e remota si trova di maggior ambito apparisca. Onde una picciola fiacola mentre che lontana sia posta, grande incendio ci rassembra, tuttavia la mente con chiare dimostrationi ci instruisce, che cento e settanta cinque volte incirca il Sole sia maggior della terra. Alla ragione repugna, che da portioni indivisibile il continuo

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    sia composto, ché se ciò fosse il diametro del quadrato non solamente sarebbe al suo lato comensurabile, ma di più, eguale. Ma se per il contrario all’infinito il continuo si divide, e non ad atomali portioni si riduce, accade non minor difficoltà, che non producendo la divisione le portioni nel continuo, ma solamente le separa e distrahe, da ciò ne segue che realmente infinite portioni si ritrovano in qualunque continuo per picciolo che sia. E perché non si può admettere infinito che sia dell’altro maggiore, ne segue che tutti li continui siano eguali, il che repugna ad ogni evidenza. Così anco ne seguirebbe altro assordo che qualunque picciola dimensione riuscirebbe impertransibile, non potendosi le portioni infinite che la compongono trapassare. Repugna all’intelletto per un verso che l’indivisibile movere da un loco all’altro si possa, poiché per la sua indivisibilità non può ritrovarsi parte nel termine dal quale, e parte nel termine al quale, come è proprio di qualunque motto, nondimeno non si ritrova alcuno impedimento all’indivisibile in qualunque corpo inserto, che non si mova. Onde anco per se stando non si rinviene529 la cagione di tal impossibilità. Apparisce assordo alla retta ragione che trapassar si possa dal minore al maggiore senza prima pervenire alla equalità, tuttavia la geometria insegna ciò possibile essere in certo caso di angoli prodotti entro al circolo e fuori di lui. Così anco il giudicio gagliardamente contrasta in admettere, che due quantità l’una maggiore, e l’altra minore continuamente al possibile augumentandosi questa, che alla fine una [233] fiatta non accada che si ritrovino eguali, e che vicendevolmente la minore venga maggiore, e l’altra minore. E nondimeno la dimostratione matematica insegna che in certo caso la minore rimanga sempre minore e l’altra continuamente maggiore. Rassembra affatto impossibile et incomprensibile, che un punto indivisibile sia eguale ad una amplissima superficie, eppure si dimostra che ciò occorre, mentre che certa figura tagliandosi insieme con altra orbicolare, le portioni che rimangono di ambe sortiscono eguali,

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    onde all’ultimo procedendo, dell’una resta un punto, e dell’altra amplissima superficie. Che il centro della gravità del cono sia diverso dal centro del triangolo che constituisce esso cono rassembra impossibile, essendo questo formato dal girarsi di quello in se stesso, eppure la demonstratione rende ciò necessario. Che il cono horizontalmente tagliato, la superficie del fragmento inferiore sia maggiore del superiore, par che sia necessario. Ma poi considerando che tutto il cono sia formato dalla giratione del triangolo in se medesimo, repugna che vi sia tal graduatione e scalamento. Che l’angolo sia il concorso di due linee in un punto, la definitione di esso angolo ci lo insegna, nondimeno esso angolo dividere si può in quante portioni desideramo, et all’infinito procedere, com’anco il centro di circolo che dividere si può, e da infinite linee che dalla circonferentia si dipartiscono può esser toccato. Che di sotto l’unità si trovino più minuti et incomprensibili numeri trascende ogni nostra imaginatione, eppure li numeri appellati comunemente irrationali sono della unità minori. Né si può negare che tali siano, sommando, moltiplicando, sottrando, devidendosi fra loro come li altri numeri che al di sopra dell’unità si trovano. Che un numero quadrato possa haver più d’una radice che in se stessa moltiplicandosi lo produca, rassembra assordissimo e falsissimo, come anco che diversi quadrati tengono l’istessa radice, nondimeno in tali numeri irrationali la scientia matematica dimostra [234] ciò avenire. Che uno indivisibile tenga diversi e come contrarii visaggi, ogni ragione la repugna, nondimeno la linea circolare benché impartibile tiene in sé il convesso et il concavo. Il transitare dal finito all’infinito par che sia passaggio impossibile, tuttavolta con l’intervallo d’un punto indivisibile si scorre dall’uno all’altro, siccome accade fra l’ultimo allargare di linea circolare che immediate in linea retta si converte, questa all’infinito progredisce, e quella per lungo tratto di giro alla fine in se medesima s’incontra e ritorna. E l’istesso aviene all’ombra che da corpo opaco

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    rotondo si produce, che opposto a corpo luminoso di lui maggiore getta l’ombra finita in conica figura, ma occorrendoli luminoso ad esso eguale all’infinito la produce, eppure nel far passagio dal maggiore all’eguale con l’aggiunta di un sol punto indivisibile ciò si eseguisce. Che due linee in molte guise all’infinito accostandosi giamai insieme non si uniscono, è già divenuto volgare proponimento, né homai tiene punto del paradosso. Si dimostra ragionevole ad ogni discorso che le linee spirali che circondono cilindro finito e terminato si possino all’infinito sempre allungare, per altro verso appare che qualsivoglia di esse finita sia, poiché l’istesso cilindro è finito e terminato. Che l’infinito non si possa percorrere ogni sano intendimento lo recusa, nondimeno conforme quelli che stimano il tempo passato sia stato sempiterno et infinito, fu dimenso530 e trapassato. Onde accozzano insieme queste due propositioni, cioè che principiando scorrere dal presente all’insù, cioè contra il flusso del tempo passato progredendo, giammai non si può divenire a total trapasso dell’infinito, nondimeno per l’altro verso, cioè dal passato al presente scorrendo conforme il progresso del tempo preterito è stato transitato e valicato l’infinito. Mentre che da alcuno non si dubbita che tanto sia la dimensione della via che ci conduce da Corinto ad Atene, quanto è quella istessa che si trova partendosi d’Atene, e verso Corinto inviandosi, [235] appa|risce chiaro al senso, che un moto sia più dell’altro veloce et accelerato, onde principiando l’uno a moversi inanzi all’altro, l’ultimo può giungere alla meta inanzi il primo. Tuttavia il nostro Zenone eleate con evidente demonstratione convince ciò essere impossibile, né che giamai veloce lepre possa arrivare, nemmeno trapassare lenta testudine531 prima mossa. Che li contraditorii insieme non possino cohabitare e complicarsi ogni volgar ingegno l’afferma, tuttavolta formalizarsi di ciò che sia motto senza l’admissione di tal accoppiamento non si può. Che fuori del convesso del cielo imaginandolo finito vi sia capacità di loco di ogni esser vacuo qualunque

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    fantasia lo afferma, tuttavia l’admettere dimensione non appogiata ad alcuna essentia la mente non lo può digerire, come anco il concedere assoluto vacuo nelle compositioni delle cose mondane. Ma negandolo, per qual cagione li corpi non sono di egual peso e sodezza? Quante altre instanze”, seguiva Cratilo, “addurre potrei in modo che mancarrebbe piuttosto il tempo in narrarle, che il discorso nell’osservarle, che implicano in se stesse repugnanze e contrarietà affatto intolerabili et inadmissibili, riducendosi alla fine qualunque speculatione a termine di litigio e tenzone fra il senso e la mente. E sovente questa con se stessa per l’opposte ragioni che la combattono, accozza, e contrasta: Quaenam discors foedera rerum Causa resoluit, quis tanta deus Veris statuit bella duobus? Vt qui carptim singula constent Eadem nolunt mixta iugari An nulla est discordia veris Semperque sibi certa coherent Sed mens cecis obruta membris Nequit oppressi luminis igne Rerum tenues noscere nexus?532

    Boetio Lib. 5 Metr. 3

    Per [236] il che, amico Socrate, lasciamo hormai cotali anfratti e spinosità a quelli che per loro colpa li fu destinato tal faticoso impiego, e noi raccogliendo le vele del nostro discorso terminamo hormai questo nostro mentale viaggio, e nel probabile approdamo, ridotto se non al pari del porto della verità sicuro che solamente ad Iddio è appropriato, almeno esso è tale che vi potemo in esso alquanto ancorare e fermare, difendendoci alquanto dalla tempestosa flutuatione che in questa nostra travagliata vita ci occorre”. Al che replicai: “Giacché abbondante di tanta egregia dottrina mi sei riuscito, pregoti che non rimanghi aggravato di informarmi delle conditioni di tale probabile, alla vita tanto proficuo e salutare, come hora mi attestasti”. Et egli in aggradirmi punto tardo non mi si dimostrando

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    pronontiò che altro non stimava che fosse il probabile, che quel subitaneo barlume che ci si appresenta in distinguer il bene dal male, offerendosi alla nostra mente senza che dal vehemente e spermuto533 discorso sia agitato e depravato, riuscendo egli a tutto il genere humano chiaro e sereno, se da nostri stentati cavilli non fosse oscurato et obtenebrato, accadendo ad esso probabile siccome avviene nell’effusione del vino, che quello che prima esce dal doglio534 è più sincero, ma ciò che nel profondo del vase si ritrova più fecioso535 e torbido riesce. Tale appunto occorre alla consideratione del bene, che il primiero lume che ci si apparisce stimare si deve che più al vero si avicina, ma che l’ultimo conato et esercitio della mente lo disperde e fa smarire. E ragionevolmente stimare si deve, che siccome quella migli causa in tal ottima guisa constituì l’homo e li donò egregi organi per conseguire li suoi desii, così anco l’offerì et apprestò il probabile facile ad esser da lui conosciuto et appreso, siccome sono tutte le altre cose alla nostra vita alquanto necessarie. “Concludo dunque”, diceva Cratilo, “il mio ragionare. Se come occhiuto Argo non potemo riconoscere l’esata verità, contentare si dobbiamo ch’a guisa di monocolo Polifemo scorgere ciò che ad essa tiene alcuna assimiglianza, ché se [237] oltre|modo circa essa saremo curiosi deveniremo alla fine come il cieco Tiresia, affatto di lume e vista, privi e cassi”. Qui posò e terminò il suo divisare Cratilo, ma non già hebbe fine il mio travagliare. Osservai che le maggiori dificoltà da Cratilo mosse, vertivano circa la cognitione delle cose esterne et a noi inatinenti, per il che meravigliare non mi doveva se ci riescono ignote et incomprensibili. Onde presi speranza che del modo di reggere l’usi della vita, et ordinare li nostri affari ne potiamo tenire alcuna più che mediocre cognitione, et estimai che tale fosse la comunemente appellata prudenza cotanto decantata e celebrata dalli periti delle humane emergentie, ché perciò deliberai, che per tenirne di essa cognitione ricercare dovessi il parere di Pericle, celebre sopra ogni altro della nostra età in moderare e reggere li maneggi urbani. Per il che al giardino di esso in tempo che conieturai che sfacendato era, mi condussi. Il quale ritrovai, che in compagnia di amici divisava,

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    se vi era più bisogno di prudenza nel far acquisto di un Stato, overo in conservarlo. Alcuni asserivano per l’acquisto, ma Pericle vivamente manteniva che nella conservatione, la prudenza maggiormente prevaleva, adducendo quel celebre detto che difficilius est, prouincias obtinere, qua facere. viribus parantur, iure retinentur536. Quasi che l’istesso fosse che fortuna parĆtur, prudentia retinentur. Dilatossi poi in dimostrare quanto che superava la prudentia la fortuna. Ma io verso tale conversatione in tal maniera favellai: “Altro tanto che voi, ottimi amici, vi accordate in pregiare la prudenza, io son bramoso di sapere ciò che essa sia, e con suplichevoli instanze chiedo che me la dimostrate”. Rispose a ciò Protagora delli altri il più provetto, et in tal modo pigliò a dire:

    Prima espositione della prudenza

    “Se tu, buon Socrate, havessi per il passato ordinata la tua vita conforme li precetti della prudenza, giudicarei che tale richiesta fosse una delle tue solite ironie e dissimulationi, ma il vederti in tal stato e conditione di fortuna m’indica esser tu veramente ignaro di ciò che sia prudenza. Per il che stimo che voglioso sei di conoscerla, accioché con il possesso di essa possi ordinare il residuo della tua [238] età. La prudenza che ricerchi è timoniera della humana vita, stella polare per mezo della quale si deve indrizzare il corso delle nostre attioni, moderatrice anzi regina delle morali virtù, auriga delli humani affetti, quella che ci raffrena nelle prosperità e che ci sostiene nelle adversità, e che tenendo l’animo in equilibrio non li permette vanamente insultare, né vilmente trabocare, rendendolo cauteloso, e sempre circonspetto nel deliberare, ardito nell’intraprendere. E per concludere il molto in poco, la prudenza è quella che garegiando con li dèi, alquanto ci difende da colpi da essi aventatici, et arivandoci ce li fa riuscire tolerabili et insensibili. Onde quanto può, rende quasi simile l’humanità all’istessa divinità:

    SOCRATE

    325 Nullus numen deest si est prudentia Sed nos te facimus fortuna deam coeloque locamus”537.

    Iuvenale

    Stimava Protagora havermi appieno satisfatto con tale sua gonfia diceria. Ma io ad egli: “Amico Protagora, egregiamente hai esposto l’effetti e consequenze della prudenza, ma non tieni dichiarato né affigurato la vera effigie et imagine di essa. Non altrimente ciò hai eseguito che se forestiero allettato dalla fama che per tutto corre del valore del nostro Pericle, e capitato in questa città procurasse di veduta riconoscerlo, li fosse additato li palagi, li teatri e le munite muraglie che di suo ordine sono stati nella città erretti. Ciò che io bramo d’esser instrutto, è il riconoscimento dell’istessa prudenza e non di suoi attinentie et effetti”. A questo mio dire non replicò Protagora, onde a Pericle rivolgendomi l’instai che circa ciò il suo parere amichevolmente mi arrecasse. Al che punto non ritardando, prononciò che la prudenza fosse quella virtù che si esercita in ramemorarci le cose passate, instruirci delli presenti, acciò potiamo provedere [239] et ordinare le venture. A tal esplicatione mi opposi dicendoli che io non indagava una particolare cognitione di tutte le cose, come egli accennò nel suo dire, ma solamente io ricercava la propria imagine, e formalità della prudenza che la rende distinta e diversa dalle altre dottrine e facoltà, onde il dire che ci ramembra le cose passate et instruisce delle presenti, tiene troppo del generale, interminato et indefinito. Oltre di ciò il provedere alle cose venture parevami come ch’impossibile, perché conforme il mio intendimento non si può provedere, circa ciò che non si può prevedere, né prevedere parimente si può ciò che per anco non è né tiene esistentia alcuna, non potendosi di quello non è, conforme il calcolo di quasi tutti li sapienti, tenirne né senso, né openione, né concetto alcuno. Ma di più lasciando in tal affari le sottigliezze a parte, siccome in certo modo la pontuale conditione delli effetti della constantissima natura non si può presagire, tanto meno l’emergentie delli affari humani, che per il più dal pazzo caso sono sosopra538 rivolti e turbati.

    Seconda espositione della prudenza

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    SIMONE LUZZATTO

    A queste mie obbiettioni, rispose Pericle, che per il certo stringere si doveva la fontione della prudenza circa il ricordarsi delle cose passate et inspettione delle presenti per apportar profitto alle venture, solamente in quanto appartiene alli affari del vivere civile non alla medicina, agricoltura, et altre simili professioni, ma che in quanto al provedere per l’avenire, stimava che bastava appogiarsi sopra un certo probabile che ragionevolmente presagisce li eventi futuri. Ma opponendomi alla prima evasione li significai che non mi sapeva per anco formalizare in che consisteva la prudenza, e ciò che fosse la sua peculiare fontione e proprio offitio circa l’humani affari, poiché intraprendendosi per gratia di essempio di munire la nostra città, all’architetto si capita. Se condurre uno esercito si vuole et ordinarlo in battaglia, al professore dell’arte militare. Se deliberare una guerra si attenta al perito delle nostre forze e del nemico si ricorre. E se parimente [240] mini|strare la giustitia a cittadini vogliamo, a giurisconsulti si conduciamo. Onde non resta al prudente in che esercitarsi essendo il tutto da altri professori occupato, et ad essi conviene se rettamente vuole operare che si riferisca. Et in quanto all’altra partita della sua risposta, cioè che basta al prudente probabilmente indovinare l’evento, e li mezi per conseguirlo, il redarguii con dire, che se l’effetti della natura sono tanto dubbiosi e perplessi innanzi che accadono come sono le pioggie, li venti, il freddo e caldo delle stagioni, che sarà poi di ciò che apporta l’insana fortuna, e produce il capricioso, e variabile humano arbitrio? Replicò egli, che non intendeva giamai che li cultori della prudenza fossero egregiamente dottati di tutte le arti, dottrine, e discipline, perché se ciò fosse di mestiero converebbe al prudente rinontiare il dominio che pretende sopra li affari humani, e rassignarlo alli veri professori di caduna arte che serve al viver civile, come di già io divisai539, ma che la prudenza era superiore regente e comandante a tutte le altre arti e dottrine, nell’istesso modo che accade al capitano di esercito, che comanda a perito arciero che per molti avenimenti egregii nella sua professione fu riconosciuto, benché esso capitano non sia punto pratico nell’arte del saettare. Così parimente occorre alli prudenti che ordinano e comandano alle altre discipline benché di esse ne siano come che affatto ignari.

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    Ma io in tal modo l’incalzai: “Stimi che la prudenza consista nel comandar a cui che al sicuro si conosce per la certa esperienza che si tiene della sua peritia e sufficientia, idoneo ad eseguire la tale attione, o piuttosto nell’imperare a colui che si tiene alcun dubbio della sua sufficientia, ma che tuttavia si conietura che in tal esercitio sia per riuscirne conforme il desio e bisogno di chi l’adopera et impiega?”. Rispose egli: “Giammai non crederei che fosse fontione propria della prudenza tanto comendata, il sapersi prevalere di cui che appo qualunque benché volgare sia stimato habile ad eseguire tale effetto, ma [241] sì bene stimarei che essa prudenza si travagliasse nell’indagare e riconoscere quel tale che non è altrimente a tutti manifesta e notoria la sua attitudine et habilità. Il che essa prudenza per via di esato essame, et accurata disquisitione sceglie et approba”. Al che io: “Egregiamente ti sei condotto senza molto mio faticare a quel posto che io desideravo. Dunque conviene che tal prudente saggiatore sia perito della professione ch’in altrui si ricerca e desidera che vi sia. Dal che ne segue ch’a riconoscere la suficientia del medico, mentre che per la lunga esperienza di suoi felici eventi nel medicare non si tenisse di lui buon concetto, converebbe che oltremodo della medicina fosse intendente colui che prudentemente di esso facesse scelta, e che approbasse il suo valore. E quello si è detto del medico applicare devi a qualunque altra professione rispetto alla prudenza. Ma di più circa l’humani affari non solamente basta alla prudenza l’esser aveduta circa la peritia di altrui nell’eseguire qual si sia effetto che attenta, ma le conviene parimente riconoscere la dispositione dell’altrui volontà tanto di natura astrusa, e di punto in punto variabile e mutabile”. Contra il mio dire di nuovo risorse Pericle dicendo che poiché convenga concedere che la prudenza sia distinta dalle

    328 Tertia espositione della prudenza

    Quarta espositione della prudenza

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    particolari cognitioni delle cose, e non può né anco esserne affatto ignara, come dal prossimo antedetto ragionare appare, ché affatto inetta riuscirebbe, è necessario stimare che la prudenza sia una mediocre peritia di tutte le professioni et arti, e che per tal sua universalità a tutte decentemente comanda, et ottimamente li humani affari regge e governa. Ma a ciò gagliardamente mi opposi, con dirli, che permettere non si deve che quella virtù che regge e modera le altre, et è arbitra delle humane emergentie, e come disse Protagora che tiene la comitiva e satelitio di tutti li dèi, al di sotto di qualunque dottrina et arte si ritrovasse. E qual è quel principe che accadendoli guerra, rimanessi servito del consiglio di mediocre capitano, et [242] atte|ntando solcare con grave armata il mare, non facesse scelta di eccellente e pratichissimo nochiero? E cadendo in infermità non chiamasse a sé sapientissimo e consultissimo medico? Ma per il certo di tutte le professioni sceglierebbe l’egregio et ottimo. Onde se la prudenza fosse mediocrità rimarebbero sempre li cultori di essa rigetti, et ad altrui inferiori. Al mio ragionare fermossi Pericle né altro circa la prudenza apportò. Ma Hippia, ch’ivi si ritrovò prese a lodare la sentenza di Chilone in via ne properato540, dicendo, che in essa consisteva gran parte della prudenza, ma se si accopiava con altra, festina lente541, sortiva perfettissima, ché adempiva tutti li suoi numeri. E da quindi egli si allargò in dimostrare che il principale fondamento della prudenza era una certa moderata lentezza nel deliberare, et acceleratione nell’eseguire, ché però542 l’Egittii la rapresentarno come se delfino ad àncora fosse avolto, l’uno sopra qualunque altro pesce veloce nel guizzare, e l’altra nell’afferare e ratenere accelerato legno tenacissima. “E chi non sa”, seguiva egli, “che il tempo è della verità padre? Esso ci additta il vero visagio e circonstantie delli affari. Et è cosa certa che ove egli s’interpone giamai o di rado falire non si può”. Non potei tolerare che la prudenza cotanto celebrata alla fine si riducesse alla tardità, lentezza, e pigritia, et opponendomi li dissi, che giamai non harei stimato che perito aritmetico nel calcolare, lento esser dovesse, né pittore che stentatamente

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    trattegiasse, di ciò pretendesse lode, e che oratore che nella pronontia hestitasse, riuscisse comendabile. Per il che si rende chiaro che la tardità e lentezza non essere l’interno essentiale della prudenza, ma che piuttosto certo freno e retinentia alli precipitosi et inaveduti ingegni, non meno che la catena e ceppi all’insani e pazzi. A questo mio dire replicò Hippia, che per il certo per la mia instantia stimare si deve, che alla tardità e lentezza in quanto appartengono alla prudenza si deve aggiungere l’esata inspettione dell’affare sopra il qual si consulta, [243] consideran|do tutte le sue attinentie. Ma io di nuovo il sopresi che inavedutamente si era accapato543 nelli primieri inviluppi, essendo già d’accordo regetto544 l’attribuire alla prudenza quella fontione ch’è propria a caduna arte e professione, appartenendo a qualunque di esse tal inspetione secondo l’affare che le sottogiace. Oltre che la inspettione non pare che sia suficiente per sé sola a dirigere e normare le nostre deliberationi, perché il troppo oggettare nelli affari ci rende sovente perplessi et irresoluti, onde non sapendo a che attenersi, per la moltiplicità di repugnanti instanze, e contraindicanti, il nostro assenso rimane sospeso et in se stesso implicato. Oltre che l’inspettione per sé è piuttosto passione dell’animo che attione che appartenga alla buona deliberatione. Il linceo et aquila sono di egregia vista dottati, nulladimeno545 non crederei che meglio di qualunque altro animale deliberassero. Per il che oltre l’inspettione ci vuole altra norma che dia perfettione alla prudenza. Ma di novo ripigliò egli con dire che alla inspettione si deve accompagnare alcune massime et universali concetti, che come norme apportino l’ultima perfettione al giuditio et il sommo alla prudenza. Ma di ciò non restando io punto satisfatto, li narrai l’instanze già da me a Platone opposte mentre che nelle scientie attentava valersi di tali axiomi, dimostrandoli di più, che non meno riuscirebbe temerario ardire il dedurre certo presagio di alcuno avvenimento futuro da tali propositioni universali, che l’indovinare quale deve puntualmente essere e sortire l’imagine con tutta la sua perfettione, per il riguardare il di lei rude et informe abbozzo. E poi rivolgendomi verso tutta la compagnia

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    che ivi si ritrovava, li dissi:

    Quinta espositione della prudenza

    “Ottimi amici, quale massima politica fu maggiormente approbata, e da tutti noi acclamata, che quella che ci admonisce, che per la quiete della nostra Republica non solamente desiderare, ma procurare si dovesse la depressione e diminuitione della immensa potenza del Re di Persia, che havendo di già occupato [244] tutta l’Asia, alla Europa minacia porle il giogo di miserabile servitù. Onde da noi Ateniesi con il calcolo di tutti li ordini della città fu preso per espediente, che con ogni più occulta et accurata arte si attentasse infiacchire le loro smisurate forze, et attenuare la loro tanto accresciuta potenza. Per il che oltre che si procurò di porre discordia fra loro suditti con solevare nel loro vasto imperio alcuni popoli a manifesta ribelione, la fortuna o per meglio dire il tempo ancora secondò il nostro desio, havendo essi Persiani per il loro lungo otio e prosperità smarita l’antica loro militare disciplina. E perciò avenne, che siccome per il passato tutta la Grecia, Macedonia, Epiro e Peloponesso insieme uniti non li potevano fare resistentia, quasi la nostra città si trovò suficiente ad opporseli, e contra essi fare capo. Noi di tal loro debollezza allegri e giocondi, accade hora che tal fiachezza ci riesce oltremodo più dannevole, che la loro antica potenza, poiché accadendoci con essi gueregiare, havendoci per mare, e per terra assaltati siamo da tutte le provincie sudette abbandonati, stimando esse noi soli senza l’altrui aiuto, esser bastevoli a diffenderci et a contrastarli l’oltra passare. Onde hora tutto il peso della guerra conviene noi soli sostenere. Ma se tal axioma che insegna che il nemico potente si deve indebolire ci riesce in la prattica hora falace, a qual altro documento politico prestaremo fede, e per norma delle nostre attioni seguiremo? Da quindi è, che se osservare vogliamo la riuscita delli humani avenimenti si trovarà che la violentia, che con loro universali regole, e massime, apportano li formalisti alla resolutione di particolari e gran affari, ben sovente attraversa il loro progresso, benché peraltro siano stati dal principio ben incaminati e diretti”.

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    Al mio dire altro non replicò Hippia. Ma Critia doppo esso continuò dicendo che per quello haveva appreso nella gran scola del mondo li appariva, che la prudenza, altro non fosse, che farsi l’homo, il suo proprio interesse centro sopra il quale si ravolge [245] la circonferenza di suoi pensieri, con moderatione tale, che faccia apparire che il commodo altrui sia il punto del bersaglio, al quale prendono mira li suoi attentati, e che l’esperienza instruisce, che anco li più petulanti homini del mondo che senza alcuno rispetto agognano le loro intraprese benché con qualche difficoltà, li conseguiscono, et al dispetto altrui li loro desii riescono. Non mi piacque punto tale diceria, non essendo decente che l’imperatrice delle virtù, non oggetti altro che il profitto del soggetto particolare nel quale insiste, né meno riesce ciò sconvenevole che se gran Prencipe ad altro non mirasse che alla conservatione della sedia sopra la quale egli si trova assiso. Oltre che Critia, espose piuttosto il fin di questa sua interessata e vil prudenza qual è il proprio profitto, che la propria di lei essenza, et in che modo il professore546 di tal prudenza possa pervenire all’acquisto del proprio interesse. Il sapere che il fine del saetante sia il colpire nella mira e scopo, non ci dimostra et insegna il modo del saettare, così anco l’esporre, che la prudenza tenga per fine il proprio profitto di chi l’esercita, non ci instruisce ciò ch’essa sia e qual formalità in sé tenga. Acquietatosi Critia al mio dire, li sucesse Tarsimaco547 il qual proferì, che la prudenza fosse una arte di mettere in stima li cultori di essa appresso il comune delli homini, facendoli apparire quello che veramente non sono. Onde per mezo del concetto che li concilia, tengono appo altrui somma autorità nel disporre a loro talento a pro loro e di altrui li più importanti affari e maneggi. Il qual concetto diceva egli sortire per lo splendore di alcune minute virtù, insieme comesse benché cadauna da per sé sia come che insensibile e priva di comendatione, e forse di nome, a guisa delle piccole stelle che formano la via lattea celeste, che essendo qualunque di esse insensibile, insieme aggregate ci rendono osservabile luce. “Né si deve”, seguiva egli, “la prudenza sdegnare ch’io l’impieghi circa tali virtù piuttosto putatie et ideali che vere e reali, poiché non [?]548 il pprio peso delle

    Sesta espositione della prudenza

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    cose, ma li effetti e profitti, che producono si devono stimare e pregiare”, [246] dicen|do di più che per tale esplicatione non occorreva incaricare la prudenza di moltiplicità di arti e discipline che rendesse stimato, et autorevole il professore di essa, bastandoli l’istesse cose che nella finta lettera inviata alla Accademia dalla ragione furno esposte, affermando che quelle rendevano l’autorità appo altrui signorile e maestosa”. Ma io nauseato da tal ragionamento, li dissi, che parevami che il suo prudente non fosse dissimile da insani amanti, che come suole dire il nostro Platone, non in loro stessi, ma nelle loro amate vivono. Così anco questo prudente in se medesimo alle dottrine e virtù è morto, ma solamente nella openione altrui vive, per il falso concetto e stima che di lui si tiene. Oltre che a mio parere riuscirebbe oltremodo infelice, non sapendomi imaginare il più miserabile di mercante, ch’essendo meschino, li conviene per mantenere il credito, apparire ricco et opulente, così senza dubbio accadarebbe all’ignorante vestito e mascherato da prudente. Ma di più non mi saprei rappresentare in qual guisa colui che si trova ignaro di una arte possa dimostrarsi di essa perito. In qual modo si può imitare ciò che giamai non si ha scorto et osservato? Colui che non sa che cosa sia dottrina, in qual maniera può ad altrui rappresentarsi addottrinato? Chi mai non ha appreso gramatica potrà giamai ottimamente fingere esserne disciplinato? Chi non imparò rettorica potrà ad altrui dimostrarsi oratore facondo? Tacque a tali instanze Tarsimaco. Ma invece di esso pigliò a dire Clinia: Settima espositione della prudenza

    “Gran ardire”549, diceva egli, “sarebbe il mio mentre che da voi eminenti ingegni sfuge il riconoscimento della prudenza, che io attentasi di afferarla, se non fosse che con la scorta del celebre oracolo di Delfo vi proponessi in ciò il mio sentimento. Stimo dunque che la prudenza altro non sia che conoscere se stesso, non dico l’apprendere di ciò sia composto il nostro corpo, né qual essentia sia il nostro animo, ché questo a fisici non ad homini civili appartiene il riconoscere, ma il sapere a qual esercitio,

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    incombenza e [247] fon|tioni, cadauno è inclinato e dalla natura chiamato, e parimente saper esatamente misurare l’ultimo grado della propria suficientia, accioché la temerità non più oltre ci spinga di quello conviene, e la pusilanimità a dietro non ci ritiri di quello si deve. Questo fu il sentimento dell’oracolo quando comette a cadauno di suoi initiati nosce te ipsum, ché per il certo colui che divenirà osservatore di tal egregio precetto, cioè che egli si giudichi puntualmente qual egli è, impossibile li riuscirà il falire. Come per il contrario comettendo in tal giuditio errore, tutto ciò che interprenderà improsperamente li sortirà”. Ma né anco Clinia parevami che nel nero colpito havesse, et in tal guisa ripigliai, che sebbene tal sua diceria dalla autorità dell’oracolo alquanto era spalegiata e protetta, io non poteva applauderla, opponendomeli che colui che pretende regger decentemente l’humani affari e massime li civili, ove maggiormente è bisogno della prudenza da noi ricercata, conviene che non solamente riconosca se medesimo, ma che anco oltremodo sia informato delle altrui conditioni. Onde il sapere ottimamente anatomizare l’animi delli homini e penetrando nelli ultimi recessi della loro mente, scuoprire ogni loro astrusità è proprio della prudenza. A ciò replicò Clinia, che agevolmente si potrebbe con un poco di additamento550 rimediare alla espositione da esso addotta, cioè che la prudenza fosse una retta cognitione di se stesso, e di altrui. Né di ciò rimasi punto satisfatto, per il che l’interrogai: “Stimaresti forse, amicissimo Clinia, che spechio rispetto all’istesso oggetto rappresenti la medesima apparenza di imagine, benché curvo, convesso, over concavo sia?”. “Per il certo, non”, rispose Clinia. “Così anco”, replicai io, “stimare si deve che giamai alcuno non si può aggiustatamente formalizare della apprensione e concetto altrui circa l’istesso proponimento, mentre che diversamente egli sia

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    constituito, onde più facilmente il pazzo può indovinare il proponimento dell’altro ad esso simile, che il savio in diversa [248] dispo|sitione posto, et è molto probabile che li homini sono nell’interno delle loro cogitationi molto più che nel volto over nella voce diversi. Per tutto ciò riesce come impossibile che si possa tenere ferma cognitione della conditione dell’animo altrui, benché sinceramente si procurasse di renderlo evidente, non potendolo esporre se non con parole, non veri e propri ritratti del concetto dell’animo siccome che con l’istesse giamai non si può rappresentare l’altrui effigie. Ma oltre di ciò qual ferma cognitione si può ottenere circa la conditione dell’animo delli homini che più che il favoloso Proteo in un subito si cangia? Il decorso della età, la mutatione della fortuna, il variare conversatione, la turbata temperatura del corpo, l’affissarsi ad uno oggetto, le nuove dottrine e studii sovente inducono stupende metamorfosi. Onde quando anco havessimo consumato un moggio di sale con l’amico havendo del suo animo fatta accurata disecatione, in meno di un baleno, altro e diverso da se stesso è divenuto”. In quanto poi alla cognitione di se stesso cioè di riconoscere il proprio sapere, e qualità del nostro animo ricordai a Clinia tutte l’instanze che oppugnano tale reflessiva cognitione. Ma egli replicando disse, che in quanto quello che appartiene alla cognitione di se stesso facilmente poteva evadere le oppositioni fatteli, non ricercando egli per la fontione della prudenza una esata cognitione del nostro sapere siccome fu già da me, mentre che tutti li sapienti del secolo io agitava, e vessava, essendo tal cognitione da me indagata, piuttosto fisica che morale, ma per quello attiene alla prudenza, li bastava che al possessore di essa li fosse manifesto a che egli sia idoneo, et insino a qual grado e segno fosse valevole di arrivare, e che li sia contrastato dalla propria insuficientia l’oltrapassare in breve. “La prudenza è quella che ci rende instrutti di quello sappiamo e di ciò che ignoramo, onde non occorre per tal mia dichiaratione addossare al prudente di tante dottrine e discipline, come che forse accaderebbe ad [249] alcune

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    delle esplicationi già esposte”. Non appagò al mio animo Clinia. Primieramente se l’attraversava quella instanza tante volte a satietà da me adotta, che siccome è impossibile vedere il vedere, così anco riesce inadmissibile sapere quello che si sa. Ma di più mi molestava che a mio credere molto si aviliva tal celebrata prudenza, facendola comune a qualunque homo per ignaro che fosse, perché conieturavo che giamai homo volgare et idiota, mentre che egli deliberò nel suo animo non falire, operi se non quello che a sua stima giudica che ottimo sia, ché se ciò non fosse in altra miglior maniera harebbe eseguito la sua attione, cioè conforme la miglior idea, che in sé concepisce. È ben vero che subito eseguito l’effetto con la cognitione che ritrahe dalla inspettione dell’opera, riconosce pravamente551 haver eseguito la sua fontione, ma perché tal nuova cognitione li perviene in un momento subito eseguito l’effetto, stima benché falsamente, che anco nel tempo dell’operare non habbia concepito altrimente, e che tenendo in sé migliore idea seguì la peggiore. Dal tutto hora divisato sortisce, che nel tempo dell’operare ognuno opera conforme l’ultimo grado e conato del suo sapere e non altrimente. A tal mio dire Clinia altro non vi aggiunse, il che mi diede segno che la vittoria alacramente mi concedeva. Si ritrovava a queste disquisitioni presente Alcibiade, di Pericle nepote, giovane di nobile indole e che nelli primi studii della humanità allora si tratteneva, il quale in questa guisa parlò, che sebbene non conveniva alla sua età in presenza di sì prestanti homini, di prudenza ragionare, e massime essendo tanto ventilata, nondimeno voleva riferire l’espositione del suo maestro Aristarco che dichiarando552 il principio dell’Odissea ove Omero celebra Ulisse molto pratico delli affari del mondo, pronontiò che la prudenza sia un habito d’operare conforme la ragione, cioè consigliandoci seguir le cose buone, e distolendoci dalle cattive, e che il bene consiste nel mezo virtuoso infra l’estremi vitiosi colocato, e posto, convenendo alla prudenza primieramente [250] indagare quali siano l’estremi et il mezo e doppo indurre il sensuale affetto a refiutare quello, et abbracciare questo. La dicacità553 e tedio di tale descrittione da Alcibiade proposta, non solamente mi riuscì scarsa in apportare sufficiente lume alla mia inchiesta, ma piuttosto di nuovo l’obnubilò et

    Ottava espositione della prudenza

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    offuscò. Primieramente non satisfece alla mia curiosità, poiché io non era tanto solecito di riconoscere ciò che sia la prudenza morale, quanto la civile e publica. Per il che tale definitone riuscì incongrua al mio principale proponimento. Repugna alla conditione della publica prudenza, di conditione facendosa554 e generosa, il titolo di habito, poiché questo significa una certa tenacità di dispositione acquistata per la reiteratione del medesimo atto, il che stimare si deve contrario e repugnante alla vivace civile prudenza, tutta flessibile alla mutabilità delle occasioni, versatile al vario manegio de negotii, e mutabile alla diferente qualità de persone con qual si tratta. Né peraltro li volgari virtuosi dalla morale prudenza domati, riescono per il più disaventurati che per il contumace loro habito, e non pieghevole modo del loro costume. Ma di più anco l’attribuire alla prudenza il constituire il mezo fra li estremi vitiosi parevami non convenirle. Li vitii non tengono estremità che li terminano, all’infinito si estendono, ché perciò non si ritrova il lor mezo, essendo li estremi di qualunque dimensione indici del suo mezo. Ma di più questa mediocrità tanto affetata dalla privata prudenza, nulla o poco giudicai che fosse per giovare alla publica che il sommo solamente deve agognare, e desiare. E chi non sa che trattando con nemici è di mestiero o con somma piacevolezza accoglierli ammolendo il lor animo cangiandoli l’odio che ci tengono in amistà, overo con eccessivo rigore eccedente li termini della humanità affatto spegnerli e distrugerli? La via della mediocrità apparì sempre dannosa e nociva a chi la calpestò accapandosi, in quella censura nec satis audent nec satis provident, così la neutralità, che per il più espone chi la segue alle ingiurie di ambe le nemiche fattioni. Ma [251] final|mente che diranno di tale esplicatione coloro che abhorendo qualunque transatione con vitii, non meno che la convalescenza nella dispositione del corpo? Non insurgerano contra tal prudenza, come quella che ci instruisce non l’assolutamente purgarsi dal vitio, ma in parte admetterlo et abbracciarlo, e di più con il nome di virtù honorarlo? Decretando questi che l’assoluto svelere e sradicare il vitio, sia il vero conato et intrapresa della virtù. A tali ragioni si acquietò tutta la sessione, eccetto Pericle che pigliò la difesa del nepote dicendo che facilmente, in quanto

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    questa ultima oppositione, si poteva sostenere tal espositione concedendo alla prudenza facoltà di non solamente rintuzzare li affetti vitiosi dell’animo, ma affatto esterminarli et eliminarli. A tal scapatoio mi opposi, ché a tutti li modi non cosa di rilievo si attribuiva alla prudenza che perciò meritasse tanto di encomii e lodi, mentre che solamente si esercitasse ad abbattere e detrudere le passioni, e che non bastava ad ottimo Prencipe il distrugere li nemici, ma di più li conveniva apportare alli amici e proprii vassali alcun profitto e giovamento, come anco riuscirebbe inetto quel pedagogo che solamente emendando li discepoli li purgasse la mente de loro proprii errori e natii vitii, senza che giamai li arrecasse del suo alcuna dottrina e documento, e che parimente gran diversità si trovava fra il lavandaio che semplicemente purifica li panni da liture555 e macchie, et il tintore che li sugerisce vaghi e fioriti colori. Ma di più ricercai Pericle, fautore della espositione di Aristarco, che mi dimostrasse la maniera e modo che tiene la prudenza nel scacciare e sbandire li affetti vitiosi dal nostro animo e ridurre l’apetitto ossequente alli di lei documenti. Non per modo di ragionevole discorso essendo tali affetti, e l’istesso apetitto incapaci di retta ragione! L’insani non con documenti et instruttioni, ma con le verghe si divertiscono dal mal operare. Ma se adopra la forza, con quali instrumenti et arme doma et opprime tali [252] contumaci et inossequenti vassali? Rimanendo al mio parlare satisfatto Pericle, occorse che in quell’instante capitò a noi Anasagora per procurare favori da Pericle appresso l’Areopagiti, essendo stato di già accusato che publicamente havesse affermato che il sole altro non fosse che pietra over ferro ignito, al quale io volgendomi li dissi: “O quanto meglio, amico Anasagora, ti sarebbe riuscito che il vigore del tuo ingegno impiegato havessi in riconoscere la conditione delli humani affari divenendo possessore, e cultore della prudenza, che intraprendere l’investigatione del sole, corpo tanto lontano da noi et inattinente a nostri impieghi. Eppure altra volta fui da te ripreso che io a vane dispute mi applicassi tutto dedito a debelare sofisti e demolire l’aerie machine dalla loro vanità erette. E sebbene nel mondo sei invechiato per

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    anco non tieni osservato quanto più agevole sia lasciarsi dalla corrente acqua traportare overo contra il suo flusso ascendere. La natura non applicò giamai li agenti se non a patienti disposti et ossequenti, né agricoltore giamai a caso gettò seme se prima non osservasse la natura e conditione del terreno a che egli sia idoneo, il frumento richiede una qualità, et il miglio un’altra. Ma voi homini sapienti nel communicare al mondo vostri libri e dottrine non teniate rispetto né consideratione alcuna alla conditione delli lettori et auditori, per il che incapace in travagliosi casi come hora a te accade”556. Al che rispose: “Non inconsiderata curiosità mi distrasse dall’impiego d’humane emergentie, e mi dedicò alla speculatione delle cose sublimi, ma l’osservare l’incertezza, vacilatione, vicissitudine e flutuante contigenza delle cose humane mi intruse in tali contemplationi e dottrine. E che557 di certo poteva558 io conieturare nelli nostri affari, havendo questi per efficiente la nostra volontà, solamente constante nelle alterationi [253] e varietà, et il forsenato caso ben spesso per guida e reggente? E la esperienza mi ha dimostrato che sovente la prudenza ad altro non vale che a infracidire l’animo et infievolire il suo vigore facendolo pieghevole, e perciò debole a sostener il peso de gran negotii. Simile in ciò la prudenza all’argento vivo559 che rendendo flessibili li più consistenti e saldi metalli e perciò habili ad esser lavorati et a molti usi idonei, nondimeno rintuzza in essi il lor naturale robore560 e forze, così appunto accade a questa che sebbene formi l’animo humano snodato e manieroso561 a trattare qualunque negotio, e maneggiare ogni qualità di homini, sapendo non solo patientare, ma anco secondare qualsivoglia costume et humore, tuttavia enerva562 e consterna li suoi cultori di siffatto modo che nelle attioni spiritose e generose al si sotto della mediocrità freddamente si diportano, rimanendoli sopiti quelli primi e naturali semi che incontrando in opportune occasioni havrebbero prodotto meravigliosi e stupendi effetti.

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    E perciò tali prudenti si possono assomigliare al vino alquanto inacetito, che né come vino alimenta, né come aceto condisce, così questi né a guisa di huomini valorosissimi sono habili al comando, né a modo di volgari pronti all’obedire et eseguire. Per tale discorso et esprimento praticato circa le cose humane, deliberai per trattenere l’otio della vita, applicarmi alla indagine della natura e massime alla cognitione de563 corpi celesti inalterabili nella loro essentia, e constanti ne loro motti”. Al che soggionsi: “Giacché scorgo che de fatti humani sei oltremodo informato, desidero da te conseguire alcuno documento circa la prudenza cotanto decantata appresso l’homini, se realmente si trova et esistente sia, o piuttosto annoverare si deve fra le favolose larve e poetiche fintioni, nome non meno di oggetto che di concetto privo”. Et egli a me: “Circa [254] essa prudenza altro dire non ti saprei, se non che sebbene da molti con divini encomii sia celebrata, io altro di essa giudico, se non che sia fra le arti divinatrici la meno mendace, e che fra aruspici564, auguri565, auspici566, giuditiarii567, matematici568, geomantici569 et hidromantici570, nel conieturare il futuro tenga il primo loco, non allontanandomi in tal credenza da Omero, che volendo rappresentare la prestanza dell’augure Calcante571, pare che di prudenza lo comendasse: Tum cunctis toto reticentibus ordine, solus Calchas taestor ides longe celeberrimus augur Quaque nunc fierent, quae ventura tenebat, Idem qui caneretque dudum facta fuissent572.

    Loda Calcante di prevedere le cose venture, ma imperò573 indrizzato dalle cognitioni delli avenimenti presenti e passati, eppur al di sopra di celebratissimo augure non lo soleva”. Di più seguì Anassagora che: “Se tu, Socrate, stimi che il caso come vuole Democrito

    Omero lib. 1

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    il tutto agita, grande temerità cometterebbe la prudenza, mentre pretendesse presaggire ciò che per l’avenire fosse per disporre il pazzo et insano caso. Ma se l’ordine delle cose da decreti della Divina Mente dipendono, com’io credo, e che già una fiatta sia constituita e terminata la riuscita del tutto ch’è per seguire, ogni conato della prudenza in opporsi à ciò, riesce vano e ridicolo. Onde con il prevedere gli urgenti avenimenti che ci soprastano, nulla si può provedere. E seppure la humana prudenza s’infrapone ancor essa nella serie et incatenamento delle cause, le conviene senza alcuna renitenza permettersi574 al transporto della altrui condotta, seguendo piuttosto alacramente il corso delle cause moventi, che con affetto renitente e repugnante presumere resisterle, seppur l’istesso affetto non è anco esso dall’altrui forza mosso e guidato, mentre che falsamente crede contrastare con chi più può”. Qui hebbe fine la discussione praticata da me circa l’humana [255] prudenza. Per il che conieturai che non meno la cognitione de’ nostri proprii affari, che l’apprensione delli esterni et alieni oggetti ci sia impedita, e che il tutto con folta tenebre di ignoranza si trova ingombrato. Qui sortì il fine e meta del mio lungo e travaglioso viaggiare, et approdò la mia stanca et affaticata mente, occorendomi quello suole accadere a viandante che ricco da casa sua partendosi, essendo nel viaggio svaligiato, nel fine del suo camino meschino è divenuto. Così io nel principio del mio divagamento opulente di molte dottrine mi stimavo, et havendo intrapreso di nuovo viaggiare per maggiormente farne acquisto per l’incorso d’huomini prestantissimi, affatto spogliato d’ogni sapere fui, onde nel fine del mio mentale camino meschino e tapino, mi ritrovo d’ogni sapere privo. Né di ciò punto mi attristo e doglio, essendomi per tal iattura e perdita liberato dal timore che continuamente mi infestava, il dubbio che tenivo, che l’oblivione sorititiamente mi furasse tal pregiato tesoro. Ma hora ritrovandosi il mio animo posto in libertà non più come prima con tanta ansiosa cultura me stesso travaglio, et invece che per il passato con circonspetta timidità alli assalti di captiosi sofisti mi esponeva, hora con risoluta alacrità a combattere con

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    essi m’offerisco, non temendo di riportarne da essi perdita alcuna, rassomigliandomi a quel mendico, che incontrandosi in rapaci ladroni punto non si smarisce, ma sicuro per la sua povertà verso loro danza e festegia: Cantabit vacuus coram latrone viator575.

    Insomma la messe che tengo raccolto da sì lunga e laboriosa disquisitione circa l’humano sapere fu, che egli s’assomiglia ad una bene intesa scenografica pittura, e che conforme alli precetti della prospetiva sia egregiamente scorciata, ché ingannando la vista, come se fosse una profonda lontananza apparisce, ma avicinandosele riesce piana superficie [256]. In tale stato ritrovandomi affetto circa la cognitione della verità, risoluto di sospendere e retenire il mio assenso né a caso dispensarlo, sortì nel mio animo non lieve dubbio circa il propalare tale mia hesitantia e perplesità. E ciò fu, che essendo sempre stato mio instituto, indrizzare ogni mia attione al comune et universale bene del mio genere mi posi a considerare se fosse profitevole partito il publicamente discreditare il nostro preteso sapere, manifestando le sue difalte e mancanze, over che sia piuttosto all’humano genere giovevole mantenerlo in lena e concetto, perché non sempre la scoperta verità con il commodo nostro s’incontra et aggiusta, anzi siccome la nudità a nostri corpi non conviene sebbene che li loro membri con ogni maggior maestria siano stati dalla miglior natura construtti, così anco sovente indecente riesce, che la verità priva di addobamenti fra l’homini volgari apparisca. E come il diamante più di notte che al chiaro scintila e barlumi, nell’istessa guisa la verità fra le tenebre di misterii, e simboli più risplende. Sarei per liberarmi da tal dubbio all’oracolo occorso, ma essendomi interdetto l’importunarlo se prima tentato non havessi la comune sapienza delli homini che dalla cortese e libera mano d’Iddio li fu dispensato. Presi espediente alli savii del secolo ricorrere e capitare, ricercando il loro parere se il palesare l’imbecilità del nostro sapere sia al volgo delli homini giovevole, overo nocivo. Accadé nell’istesso tempo che Hippia in Atene dimorasse, homo celebre per il possesso di varia dottrina, onde conferitoli tutto quello che mi occorse circa l’esame da me instituito circa l’humano sapere, lo richiesi se giudicava convenevole il

    Iuvenal

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    SIMONE LUZZATTO

    propalare la fiachezza del nostro intendimento. Al che Hippia in tal guisa rispose:

    Eccellenza dell’homo contemplativo

    Ovidio per met.

    “Per il certo, o Socrate, attenti di oltremodo rendere l’homo a se stesso rincrescevole e molesto, quando lo privassi della openione e concetto che egli tiene circa il pregio del proprio sapere, unica [257] sua consolatione fra tante altre calamità et angoscie, che continuamente l’affligono. Et al sicuro fra tutti li altri animali, sortirebbe il più miserabile, quando che con l’ali della speculatione lungi da questa ima576 sentina, e vile cloaca non si solevasse, et a cieli sormontando insino all’altura et eminentia della primiera e più nobile causa non pogiasse. Onde poi con generosa despicientia577 abhorendo[la]578 l’angusto recinto della sua abietta, o per dire meglio fetida carcere, con il mezo della sua acre contemplatione contrahe famigliarità con li più nobili enti che l’universo adornano. Né per il certo per altro fine dalla più efficace causa fu eretto l’homo con la facia al cielo, se non per eccitarlo al vaghegiare quelli splendenti e lucidi globi, che sono non meno lumieri579 a nostri andamenti, che ossequenti ministri di chi li guida e ravolve: Pronaque cum spectent animalia caetera terram Os hominis in sublime, dedit coelumque videre Iussit, et erectos ad sydera tollerentur vultus580.

    Fu posto l’homo nel mezo di questo gran teatro come giudice a cui incomba con il suo mirabile ingegno determinare nobilissimi quesiti, e svelare profondi arcani: se nel primordio di questa universale construttione, si ritrovava materia pregna d’infiniti e repugnanti embrioni, e ch’alla fine annoiata di portare in seno tal conflitante mescuglio, primieramente diformi et inesistenti aborti produsse, non potendo poi tale incongrue sconciature, et assorde progenie continuare, Lucretius lib. 5

    Multaque cum tellus etiam portenta creare Conatast, mira facie, membrisque coorta Androgynum, neutrum, inter utrunque ab utroque remotum, etc. Multaque tum interiisse animantum secla necesse est

    SOCRATE

    343 Nec potuisse propagando procedere prolem581,

    alla fine essa materia havendo la necessità per ostetrice, sortirno li suoi parti nel modo che hor si trovano; overo conviene pronontiare, che al detto chaos assistesse mentre del bono e bello capace, che per la di lei virtù e scientia fosse distribuita in guisa tale, che ad un tratto ne sortì l’ottima dispositione delle cose, per cui l’universo ci si rende ornato et admirabile; o piuttosto riesce ragionevole che da causa efficiente non [258] sola|mente di sapienza e bontà, ma d’infinita potenza dottata, il tutto assolutamente sortì e derivò, non essendo maggiormente impossibile il creare il tutto dal niente, che dare legge a quella materia, che essendo eterna, possiede il suo essere e constitutione da necessità ad essa interna, e da niuno dependente582. A noi homini mediate la speculatione della nostra mente parimente appartiene definire se quattro sono li anziani elementi, incorottibili et inalterabili, dal qual vario mescolamento procede la diversità di tante spetii d’enti, overo piuttosto si rende probabile, che la prima intrapresa del maggiore efficiente fu, la conditura583 di varii e minutissimi semi che poi sparsi per tutto l’ambito del mondo, sopra li quali come invariabili principii, e fondamenti, la natura quotidianamente si esercita, e giornalmente erige li suoi temporanei edifitii, overo rassembra più credibile, che si trova certa tale materia di ogni attuale forma priva, ma tutta idonea a ricevere, o per meglio dire con vicendevole alternatione transformarsi, e come licentiosa meretrice hora abbracia l’una forma, et hora detrudendo e regettandola, altra accoglie. Ma non solamente a tali disquisitioni è dalla sua energia chiamata la nostra mente, ma di più dal proprio talento è impulsata a spatiare con il discorso insino l’essere sempre eterno, inalterabile, et imutabile, e sebbene questo interminato oggetto interdetto sia a qualunque intelletto affatto apprenderlo, nondimeno non l’è impedito tenuamente assagiarne, lambendo piuttosto, che penetrandovi, satolarsene, e più facilmente

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    riconoscere ciò che quella sublime essentia abhorisce seco mescolarsi, che riconoscere quello che se l’addati, onde in tal affare più s’assomigliamo a scultore che scalpella e recide l’incongruo, che pittore che con il penello colori apporti, et aggiunga. L’istessa nostra mentre intraprende l’indagare, se quel felice ente primiera causa del tutto, doppo che sugerì al mondo l’esser, e lo provide di tutto quello li fu di mestiero, si ritirasse e ristrinse a se medesimo [259] vagheggiando se stesso, non ritrovando alcuno oggetto fuori di lui che adequare possa alla capacità della sua intelligenza, non rimanendo perciò in certo modo di non apprendere tutto quello che fuori di lui esiste, ritenendo appo sé le radici e fondamenti di tutto il creato, overo è meglio dire che vibrando fuori di sé li raggi della sua Providenza non sdegni rimirare ciò che gratiosamente già una fiatta produsse e formò. Al nostro giuditio soggiace riconoscere, se la serie delle cose mondane sia una decretata constituitione di concatenata successione di cause, con la quale ordinatione non ci lece accozzare, e tenzonare, overo piuttosto stimare si deve, che sia lasciato loco alla contingenza, per il che sia permesso alla nostra prudenza sciegliere il bene che le aggrada, et evitare il male che l’offende. Con tali e simili esercitii trattenimo il corso di nostra vita, che non ci si renda per tante altre sciagure noioso. E di più si difendiamo dal rodimento del vorace tempo che affatto non ci estingua, raccomandando la reliquie della nostra memoria alla seguente, et indefinente età, riuscendoci ciò molto più avantagioso, che la rimembranza del semplice nostro nome, overo dell’effigie del nostro volto in duro et insensibile marmo scolpito, overo della continuatione della sovente degenere nostra prole, procurandoci la sempiternità con la vera idea et imagine del nostro animo di mirabili dottrine ornata, e non in materia insensata, ma in animo a noi simile vivo et animato impressa. Ma anco quando la fama che si tenga di noi doppo la nostra morte nulla ci importasse, nondimeno non pochi sono li documenti che da tali speculationi per l’uso della

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    nostra vita ne trahemo. Principalmente dall’apprendere che quella sublime causa senza alcun proponomento e fine di ricompensa e retribuitione il tutto produsse, et in ottima maniera construsse, e tuttavia conserva e regge, sono li homini eccitati e massime li maggiormente aggiati et opulenti, a socorrere li bisognosi, benché affatto fossero privi di speme di premio e [260] remu|neratione. Dalla speculatione de motti celesti apprese l’humana prudenza l’ottima administratione della republica, havendo osservato da essi, che la retta ragione di Stato non deve solamente oggettare la publica utilità, e rigorosamente ricercare da ministri del governo l’esato comune profitto, ma con moderata conivenza lasciare che mediocremente appovechiano584 al loro privato avantagio, essendosi sempre osservato che la esata et esquisita procuratione del ben publico, riuscì seminario di contese, archivo di discordie, promptuario d’ingiurie fra cittadini, e scaturigini di attraversamenti585 di più importanti affari, essendo il ben proprio quasi sempre il vehicolo et incentivo dell’universal profitto. Tale instruttione dico, da motti celesti agevolmente fu delibata, e riconosciuta, che conspirando tutti li orbi sublimi nel motto diurno da oriente all’occidente, motto universale e comune a tutti li ministri celesti, nondimeno tolera il primo e generale impulsore, che qualunque di essi tenga il suo motto proprio e contrario all’universale, dall’occidente in oriente, e con andamenti suoi particolari e proprii diversi dalli altri di lui compagni, il che accade senza alcuno sconcio e sconcerto dell’universale sistema. Ma di più è notabile, che l’orbi che si trovano più vicini al primo mobile, che impulsa li suoi inferiori al motto universale dall’oriente all’occidente, con più tardo passo il loro motto speciale e contrario, dall’occidente in oriente, eseguiscono. Ma li più remoti da esso, e maggiormente inferiori con più vehemenza, e celerità al loro proprio camino incombono. Nobile documento, che quelli che più principi si avicinano, e che maggiormente nelle republiche al sommo si accostano, devono con più tardo e lento passo a loro particolari interessi incaminarsi,

    Profitti che si trahe dalla speculatione delle cose mondane

    da Iddio

    Profitti che si trahe dalle speculationi de cieli

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    e che perciò alla plebe che affatto nell’estremo lontano da sommi reggenti è posta nulla disdice se affatto a suoi individuali profitti si impiega senza punto curarsi del publico [261] et universale bene. Così la terra il più basso e fecioso elemento sublunare, non tiene altra natura che con moto retto diverso affatto dal circolare celeste al centro piombare. Ci amaestrano parimente li cieli et instruiscono che quattro modi di governi sono: il primo ottimo, il secondo buono, il terzo cativo, il quarto pessimo. Alcun orbe sopra il proprio centro irregolarmente, ma circa quello dell’universo, ordinatamente si move. Tal è il governo di Principe che più agevolmente si desidera che si trova, che anteponendo il publico profitto de popoli al di suo proprio gira con le sue attioni decentemente sopra il centro dell’universal bene, ancorché ridonda in alcun suo proprio dispendio e detrimento. Seconda maniera di motto è di quelli orbi che il centro sopra il qual si ravolgono è loro proprio, et anco comune con l’universo. In tal guisa si ravolgono il primo mobile, e le stelle fisse così fortunati sono quelli Stati che il centro del loro interesse incontra et è l’istesso con quello del Prencipe che li regge. Terzo modo si movono quelli orbi che regolatamente sopra al proprio centro, ma irregolarmente sopra il centro dell’universo, a questi sono simili li tiranni, che sempre circolando sopra il punto del loro interesse non mirano punto a quello del publico e de loro vassali. Quarta guisa sono li orbi che né sopra il loro centro, né sopra quello dell’universo ordinatamente si movono, ma circa un centro diverso di certo orbe fititio, equante586 appellato regolarmente si ravolgono. Tali appunto sono quelli inaveduti, e malamente avisati imperanti, che né sopra il centro del proprio profitto, né circa quello del publico bene si ragirano, ma sì bene intorno quello de loro consiglieri e privati circolando, indrizzano ad esso disordinate attioni, riuscendo non meno a se stessi, che a loro vassali dannevoli e nocivi. Ci sugeriscono li cieli anco altro documento, che essendo le stelle fisse una moltitudine quasi innumerabile, tutte

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    si movono con uniforme traino e camino, ma li pianeti principali ministri della natura, hora retrogradi, hora accelerati, et hora stationarii appariscono, come anco alle fiatte [262] vicini, et alle volte lontani dalla terra si ritrovano, egregio insegnamento al politico governo, che siccome la numerosa turba di vassalli deve osservare leggi eguali, et uniformi, così alli principali ministri del governo et agenti di gran affari, è concesso deviare dal comune sentiero et ordinarii decreti per mantenimento dello stato universale. Dal regimento celeste si apprende, che siccome le stelle conforme il parere di alcuni savii, solamente con il motto e luce, e non con altri influssi assistono al governo del mondo sublunare, cosi li prencipi con il lume della loro prudenza, e motto della vigilante et efficace esecutione devono reggere i loro suditi, et acquistarne la benevolenza, non già con la profusione de tesori conseguire il loro ossequio, et obedienza. Ma siccome dall’universal moto e viaggiare di corpi celesti non poche instruttioni sortiscono per amaestramento della vita civile, così dalla particolar inspettione circa tali corpi e loro andamenti molte osservationi a pro nostro ne potiamo delibare e rapportare. Li famosi congressi del sole e della luna ci sugeriscono non dispregiabili advertimenti. La luna riceve la luce dal sole e mentre che si trova vicino ad esso in congiuntione laterale, non solo non ecclissa il sole, ma anco conseguisce alcun lume benché a noi invisibile, ma quando s’interpone diametralmente fra noi et esso sole apporta ecclisse a questo, e la facia di essa a noi rivolta affato rimane oscura. Documento a grandi e favoriti de Principi, che sebbene si li accostano, approsimansi a loro Signori, in modo che rimangano essi in parte riguardevoli e li dominanti con loro decoro e maestà conspicui, ma levandoli la reciproca veduta mettendosi fra imperanti e suditi, si ecclissa il governo e riesce il tutto ottenebrato e confuso. Dalli istessi congressi si apprende che siccome la Luna quando che nella maggior lontananza che può essere dal sole discosta è tutta luminosa e rassembra un

    Profitti dalli cieli in particolare

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    ritratto di esso, ma mentre [263] che si li avicina depone il suo splendore, e nella congiuntione con esso rimane come invisibile, così anco li ministri e rapresentanti de Principi mentre si trovano in governi di eserciti, legationi appo Principi stranieri, et adminstrationi di provincie remote, conviene che con ogni pompa e decoro possibile, rappresentino l’absente maestà de loro Signori, ma mentre che sono alla loro presenza divenuti, depongano ogni fasto e grandezza, e che a vita privata si riducano. Di più ci amaestra l’istessi viaggiamenti del sole e luna, essere vero non solamente nel corpo humano, ma nel civile ancora, quel detto del nostro celebre vecchio Hippocrate, che la natura in noi sta sempre in moto e progresso over regresso, e giunti che siamo al sommo della sanità subito essa retrocede: In exercitantibus boni habitus ad summum progressio periculosi sunt si in extremo fuerint, non nam manere possunt in eodem, neque quiescere. quum vero non quiescant non amplius in melius augescere possunt, reliquum est igitur et ut in deterius587. Così anco aviene nelli favori de Principi che giunto che sia alcuno all’ultimo suo grado, non havendo più il Principe ciò che dare né il privato ciò che desiderare, subito cominciano a decrescere la gratia nell’uno, e l’ossequio nell’altro. Anzi come doppo la maggior luce della luna, subito diminuisce, e nella esata oppositione al sole, ritrovandosi puntualmente nella ecclitica ad esso diretta, per la interpositione della terra le accade deliquio et oscurità, così sovente nel maggior grado di gratia che favorito si trova, per l’incorsione di altro suo emulo fra esso, et il Prencipe, rimane egli privo di honore et autorità. Ci insegnano anco l’andamenti di tali pianeti che chi semina ingiurie, raccoglie messe di offese, e che anco all’inferiore non li è denegato provedere vendetta al suo maggiore. La luna è assai inferiore della terra in trigesima sesta proportione, questa ponendosi tra quella et il sole l’impedisce la luce, e la rende corpo oscuro. L’istessa luna vendicandosi di ciò alle fiatte [264]588 metten|dosi tra la terra, et il sole, la priva della veduta di esso, et impedisce,

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    che non riceva li influssi de suoi prolifici, e benigni raggi. Né dalla regione sublunare mancano l’instruttioni ad erudire la civile prudenza, onde principiando dalla terra nostra altrice, essa sospesa,589 e pendola nel mezo, sopra il centro dell’universo si sostiene. La cagione ch’in tal sito si mantenga comunemente si dice che sia, overo perché egualmente da tutti li lati del cielo è attratta, overo respinta, e perciò nel suo posto si conserva. Documento a mediocri Stati che oltra modo sicuri s’attrovano stando situati fra Principi molto più di loro potenti, mentre che questi siano di forze eguali et equilibrate, e siccome la terra al volo di una mosca d’un loco di essa ad altro movendosi, variandosi perciò il centro della gravità, si ripone essa di nuovo in equilibrio, nell’istesso modo chi di minori forze si trova proveduto, nel mezo si rimetta, acciocché acostandosi ad uno lato più che all’altro, non sia da questo per la distanza abbondonato e dall’altro affatto attratto et oppresso. L’acqua parimente sostenendo il lieve e somergendo il ponderoso, ci arreca notabile documento, che gli ingegni gravi e constanti amici della sincera verità, dalla flutatione del mondo sovente sono tirati al basso e s’affogano, ma li sventati et aerii non di rado emergendo, al sommo delle cose sono portati e solevati, avanzandosi li homini, più con l’apparente, che con l’essentiale. L’aria medesimamente ci sugerisce altro non inutile essempio, cioè che riceve dalle viscere della terra alle fiatte vapori pregni di fecondi influssi, et hora maligne esalationi, di impetuosi venti et horribili folgori gravide. Così aviene fra noi homini che alcune volte si solevano al sublime delle dignità alcuni che procurano emendare la difalta del loro nascimento con l’esercitio delle virtù, onde otttimi ne loro governi riescono, e sovente altri volendo vendicarsi delle ingiurie ricevute con molta offesa dell’universale, satiano il loro maligno genio e pessimo talento. Onde quasi sempre quelli che sono oscuramente nati e poi solevati, riescono all’estremo buoni, overo [265] pravi590, renuntiando alla mediocrità e transatione della virtù con il vitio.

    Profitti che si trahe dalla contemplatione delle cose sublunari

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    Il fuoco medesimamente ci dimostra, che non quel stato che ci apparisce di lontano splendido e bello sia accompagnato di quel bene che si stima il maggiore. La fiamma del fuoco fra tutte le mondane cose forse alla vista, è la più vaga591, ma avicinandosele è la maggiormente tormentosa e dolorifica, ché se ciò fosse comunemente osservato, meno homini infarfalati592 fra noi si trovarebbero che volando a tal apparente lume, non solo se li accrociano le ale della lor fortuna, ma sovente, perdendovi anco la vita, s’inceneriscono. Si advertisce di più circa l’istesso fuoco, che la di lui fiamma mentre è visibile non si può spicare e solevarsi da quella vil materia che l’alimenta, ma rilasciandola invisibile divenendo, si soleva alla sua sublime regione, e senza detrimento, e nutrimento emulo de cieli si ravolge e si conserva inalterabile. Il che instruire ci dovrebbe che quando sarà che l’animo nostro, rilasciarà et abbandonarà la corporale spoglia, da noi affatto sparendo, pervenire debba a loco tranquillo e sereno, et esso di ogni turbatione immune e libero esisterà. Dal continuo litigio e contrasto delli elementi che l’uno con l’altro esercita, apprendiamo che la conservatione et augumento della republica dipende piuttosto da temperata e moderata discordia, che da tepida pace, e neghitosa quiete, poiché dall’altercatione sortisce l’emulatione, e garegiamento delle virtù fra cittadini. Onde per il contrario l’esquisita unione amorza li spiriti più generosi in alcuni, e rende più baldanzosi li maggiormente arditi all’offesa de privati, et espilatione593 del publico. E siccome detti elementi solamente nelle loro estremità contendono, rimanendo illesi nelle portioni più interne, così anco non può fare che fra Principi appo li confini non avenga alcuna tenzone, e sortita, restando sempre fermo, et inalterato il sodo et essentiale del Stato. Constituì medesimamente la natura che li elementi parti [266] mag|giori del mondo sublunare perseverino sempre inalterabili, ma che li minuti misti in continua vicissitudine e cangiamenti si travagliassero. Così parimente vuole la bona politica che li grandi e per

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    lunga serie di natali potenti, che non decadano dalla loro sublime conditione, acciò non tengano occassione et impulso, per riparare il loro cadente Stato, di movere turbolenze e seditioni: Hinc usura vorax; avidumque in tempore fœnus Et concussa fides, et multis utile bellum594.

    Ma per il contrario pare che sia giovevole che fra la gente volgare sia l’alteratione di ricchezze e cangiamento di loro stato, ché in tal maniera si mantengono vive le speranze de poveri, e dalla fortuna abbatutti che al miglior stato privato, e non al publico aspirino, e di più si rintuzza l’orgoglio di più opulenti che alla maggior potenza non agognino. Di più, s’advertisce nelle operationi della natura la destrità che pratica et osserva nell’accrescere le piante et animali eseguendo ciò insensibilmente et in corso, rispetto alla loro età, di longhissimo tempo, ma nel destrugerli, ci adopera prestezza e celerità, corpora lente augescunt, cito extinguuntur595. Il che serve ad ottimo consiglio a grandi, che nel solevare li suoi favoriti devono lentamente procedere, e non ad un tratto colmarli con la maggior dignità, essendo sovente più riverita la dubbiosa speranza che riconosciuta la certa benificientia, e sono maggiormente ampliate dalla imaginatione li beni venturi, che per anco non sono, che li presenti dalla reale esistentia oltremodo impiccioliti. Ma per il contrario l’abbattere et opprimere altrui, ad un colpo si deve eseguire, in modo che la lentezza non li porga aviso e sugerisce occasione di evitarlo, e forse anco regettarlo sopra l’oppressore. Dall’advertire che fra le cose naturali, giamai non si trova cosa affatto semplice, e di [267] una sincera et incomposta conditione, e l’istessi nostri volgari elementi di alcuno mescuglio sono construtti, onde qualunque metallo ha della scoria, et alimento dell’escremento, e liquore del fecioso, onde l’homo prudente deve patientare se alcuno al possibile humanato596 tenga alquanto portioncella di ferità597, e che le egregie virtù si associano alle fiatte con enormi vitii. E siccome che nelli misti mentre la forma principale di essi signoregia,

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    Profitti che s’estrahe dalla speculatione del sistema humano

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    rimangono ascose, et occulte le portioni escrimentitie, ma emergono et apriscono598 quando la si deprava, così li vitii con le virtù inestati, alterandosi il stato dell’homo, per la lusuriante, overo oppugnante fortuna, si rendono evidenti e manifesti. Ma per il certo mirabile osservatione è quella che si trahe dal modo che tiene la natura quando intraprende la dissolutione del misto che volgarmente putrefattione si appella, il che in tal guisa eseguisce. È il suo calore che mantiene il misto unito, e che rende disposti li suoi integranti all’ossequio della forma dominante. Attenta la natura per servirsi ad altro uso della materia di tal misto, con il calore esterno che lo circonda lambire l’interno di lui, e l’alletta et invita ad uscire et abbandonar il misto, onde perciò dissolvendosi affatto lo disfa e demolisce. Come quando per il contrario in esso vuole conservarlo, adopera il freddo, che con l’antiperistasi599 riconcentra il natio calore, in modo che reprima l’interna seditione, imponendo alle tumultuarie portioni del misto che siano alla dominante forma uniti e concordi. L’istesso apunto accade a Stati che tengono confini con più potenti di eguali costumi e consuetudini, che facilmente per la conformità di usi, attragono l’animi di popoli ad essi prossimi e li seducono ad abbandonare li propri loro Principi et ad essi assogettarsi. Ma essendo vicini a gente di diverse leggi et instituti, tanto più si rinfrancono, et al loro naturale Signori si uniscono. Non fu parimente scarsa in sugerirci alcuno documento civile, la naturale constitutione del nostro humano sistema: tre sono le officine e sortite [268] principali della nostra vita. Il fegato distribuisce il sangue per mezo di vene per alimentare il nostro corpo. Il cuore sporge per la condotta delle inquiete arterie in sangue vitale a tutti li membri. Il celebro per mezo di nervi infonde il senso e moto per tutto il nostro ambito. A questo obediscono per mezo di muscoli l’ossi, principal nostro robore, e fortezza. E la saggia natura talmente dispose le vene arterie, nervi, che sempre insieme uniti si trovano, dipendendo la vita nostra da tale società.

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    Così parimente il corpo politico tiene tre fonti da cui scaturisce il suo mantenimento. La copia di vetovaglie simile al fegato per conservare la moltitudine quieta e pacifica annona pelexere600. L’erario601 il cuore che sparge quel sangue spiritoso del danaro, che si distribuisce per mantenimento del Stato, et in particolare nella soldatesca et in altri adminicoli del governo, milites donis allicere602. E l’archivo delli consigli, stratageme, arcani dell’imperare, e publici provedimenti, è quello che a guisa di celebro dà il moto a tutta la machina. Onde mentre che questi tre membri principali si trovano concordi, felice riesce la civile construtione, e sanissimo il corpo politico. Di più dall’edifitio del nostro corpo si advertisce altro amaestramento di Stato, cioè che la sagace natura fra li più duri e vicini ossi, che al continuo motto sono destinati, pose flessibile e pieghevole cartilagine, ché se altrimente operato havesse, per il perseverante motto si attritarebbero e frangerebbero. Così parimente conviene a Stati potenti se in pace e quiete vogliono perseverare, che fra essi alcuno Stato debole, e di minor forze sia posto, acciocché destramente ceda alli soliti insulti che fra vicini e confinanti accader sogliono, rimanendo quelli illesi et inoffesi. Ma troppo lungo sarei a raccogliere tutte l’instruttioni che la prudenza civile dalla speculatione della natura prese e delibò, lasciando hora anco a parte l’amaestramenti che la medicina, agricultura, navigatione, edificatoria, tessetrice, et altre arti e professioni dall’istessa natura appresero et impararno, non vergognandoci di confessarci [269] disci|plinati da alcuni vili et abietti animali. È ben vero che se non come il bombice che trahe dalle sue proprie viscere la nobile seta, siamo affatto inventori delle arti, tuttavia non s’assomigliamo alle formiche che semplicemente aggregano la loro raccolta, ma a guisa di api che da fiori pigliando la dolce rugiada nelle loro fauci migliorandola le porgono l’ultimo condimento e perfettione, così dalla natura instrutta la nostra mente di molte osservationi, a miglior uso sono digeste et ordinate. Ma questo basta circa l’humana prudenza. E

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    S’apprende la giustitia

    S’apprende la temperanza

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    siccome a questa abbondò la natura di ottimi precetti, così alle altre virtù non fu scarsa. L’istessa insegnoci l’administratione della giustitia distributiva e comutativa. La prima ci fu offerta dall’osservare la proportionata partitione ch’esercita la terra nell’alimentare le piante, et il ventricolo603 nel nutrire le portioni del nostro corpo tanto diferenti. Homogenea aparisce la terra, e similare il ventricolo. Tuttavia questo distribuisce a nervi, vene, arterie, ossi, cartilagini, ligamenti, tendini, membrane e carne l’alimento loro spetiale et appropriato, e quella offerisce a piante di repugnanti qualità dottate il suo assignato nutrimento, non confondendo punto che quello ad una appartiene all’altra distribuirlo. Onde dall’istessa terra attrahe il frumento, l’aconito604, e napello, documento a Prencipi a non promiscuamente scialaquare, et a caso gettare li beni che li furno posti in loro balia, ma giuditiosamente dividerli: ad alcuni ricchezze, ad altri apparenti honori, et ad altri sopraintendenza et autorità compartire, et in somma il tutto conforme il genio, e capacità di cadauno distribuire. Così anco la giustitia comutativa dalla istruttione della istessa natura fu appresa. Nella regione sublunare essercita essa un decreto universale, che qualunque misto doppo certo tempo da essa constituito, debba restituire alli comuni elementi tutto quello che gratuitamente li fu imprestato et impartito. Dal che impararno tutti li legislatori come base de’ loro decreti, che senza rispetto di età, dignità, e di autorità, caduno deve restituire tutto quello che d’altrui tiene. La moderatione delle nostre passioni da progressi della migliore natura fu osservata, ché [270] sebbene essa natura può la sua prole molto aggrandire, e che tenga incentivi all’infinito estendere le sue attioni, non deficiendole la virtù né mancandole la materia, nondimeno impone moderata meta alle sue operationi. Né poco giova all’animo nostro per renderlo forte a tolerare li colpi di fortuna, l’osservare non esservi portione dell’universo che alle fiatte non rimanga offesa. È travagliata la terra dal mare e sovente è assalita et

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    ingoiata, e da esalationi over da incendii nelle parti nitrose605 di essa è scossa e sconvolta. Il mare da coluvione di terreni da fiumi apportati è occupato et oppresso. L’aria da impetuosi venti è infestata, e non di rado da pestilenti haliti è vessata, il sole si ecclissa, e la luna patisce deliquio606, e li cieli conforma la più evidente ragione da infauste comete sono strisciati e sfregiati. Onde l’homo prudente di tutto ciò conscio, non li conviene né anco sospirare delle sciagure che l’incontrano, e sempre nella mente tenere fisso il detto del poeta: Muoiono le città, muoion li Regni, Et l’homo di esser mortal par che si sdegni607.

    E per il certo colui, che havendo advertito l’inevitabile corso delle cause, e concatenata serie della fatalità, et invece di renderli ossequio con volontariamente seguirle, e vuole piuttosto esserne strascinato, è meritevole, che per pena della sua tergiversatione che con noie volontarie e continovate esiga da se medesmo il congruo suo castigo. E senza dubbio che il considerare la caducità universale del mondo sublunare, rende l’homo dispregiatore della vita, e poco curante della imminente morte, che per servigio della patria seguire li debba. Cangia facia il mondo, muoiono e rinascano le cose in esso contenute, per servigio nostro, et un homo individuo e particolr608 spetattore di tali metamorfosi, ricuserà per servigio della patria perdere la vita e socombere alla morte? La [271] su|perbia et alterigia parto della humanità per il certo rimane fiaca, e rintuzzata dal considerare et osservare l’ampiezza di cieli, e vera grandezza delle stelle, divenendo conscia che l’ambito della terra rispetto alli antedetti, riesce per la sua minimità a guisa di insensibile grano d’arena. Sormonti l’homo con il discorso del suo intendimento alla sommità del più eminente cielo e scorga il globo terrestre e mira l’homini che il calpestano, che appena li rassembrino minutissime formiche che sopra esso s’affacendano, e che contendono per il possesso d’insensibile fragmento di grano, che per il certo questo

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    tale che aventuroso fu di cotanto solevarsi, rattenere non si potrà, verso tale reclamare: ‘O forsenata turba, o insana caterva questa piciolissima gleba, il cui maggior spatio occupa il mare, ingombra li tumori609 di sterili montagne, tengono vessato inculti selve, paludosi laghi e regioni deserte, o per il rigore d’implacabile freddo o per l’ardore di fervente caldo, parvi sia degno premio a tanti vostri faticosi esercitii, e che merita, che con il ferro, e foco ve l’usurpate? Onde aviene che per il cui acquisto, della humanità vostro proprio possesso vi private? Rassembravi decente che quella dispositione d’ingegno che dalla somma liberalità della superiore causa vi fu donata a fine che l’animo vostro riesca ornato et abbelito di egregia dottrina, impiegarlo in ignominia del vostro genere, et in detrimento dell’humana società? Ma siate certi che anco ottenute le vostre intraprese, altro non conseguirete ch’esporvi alla rapacità di più potenti, odio di eguali, et invidia d’inferiori, non dovendovi alla fine della nostra vita, l’amassamento di vostre immoderate richezze arrecarvi altro che impacio e vessatione d’animo apportandovi maggior molestia la distributione delle pravamente raccolte opulentie, che l’iminente e minuto comparto, che si deve fare del vostro composito, non sapendo ove le maggiormente essentiali portioni di esso capitare devono, et a qual loco siano destinate. Ma di più se all’altura antedetta giammai si solevò con il suo mirabile ingegno [272] De|mocrito che fu delle humane insanie destro schernitore, crederei che al suo solito ismascelasse scorgendo che quello acervo610 di formiche stimasse che le vastissime ruote celesti, e li splendidi corpi in esse inserti con indefessi et aceleratissimi rivolgimenti anhelassero per apportare a quello lume e vitali influssi e che il sole ch’eccede conforme l’opinione più moderna quattro mille volte incirca la terra, giornalmente con tanta velocità si rivolve, per illuminare li formicaii che qui a basso sono, e con altro contrario et annuale moto dall’occidente all’oriente , circolando per arrecare alli istessi varietà di

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    stagioni e diversa temperatura d’aria. E meno assordo egli giudicarebbe, che se vile et infarinato toparello stimasse, che l’edificio del molino, il girare di ruote, l’influsso continuo dell’acqua, l’assistenza del mugnaio, fossero destinati per renderli più agevole e macinato il cibo. Non rimane però che se giamai tali formiconi cacciassero fuori l’ale, e che con il valore del loro intelletto al pari di lui alla regione celeste sormontassero, il di lui sbefegiamento in admiratione si cangiarebbe, e ben degni li reputarebbe che sì gran machina per loro servigi fosse stata eretta e construtta’. Dal tutto insino hora detto”, seguiva egli611, “si raccoglie, che la natura non meno fu solicita in sugerirci documenti bastevoli a renderci quanto che può arivare la nostra conditione felici, di quello fu liberale in soministrarci ciò che appartiene alli nostri corporali bisogni e commodi. Onde essendoci la natura ottima maestra, e direttrice, e che giamai non falisce nelle sue operationi se non per superfluità o deficientia over contumacia della materia, che incontra, e che alle mani li perviene, mentre che noi seguiamo li suoi vestigi e constantemente insistiamo nelle sue orme, ci riesce impossibile il falire, e dal retto deviare. Per il che egregio e spiritoso poeta volendo descrivere li costumi di homo al sommo virtuoso li attribuì: [273] Serva|ri modum Naturamque sequi, patriae pendere vitam Nec sibi sed toto genitum mundo612.

    Cioè che conviene all’homo benché sopra ogni altro egregio, porre meta alle sue intraprese, seguire le pedate della natura, e preporre al proprio profitto il servitio non solamente della sua patria particolare, ma anco della universale, cioè di tutto l’humano genere, il che anco nel seguire li documenti della natura apprende e riconosce. Li fiumi con vehemente corso nel mare imergendosi, perdono non solo la dolcezza delle loro acque, ma anco il proprio nome, e ciò per soccorrere all’oceano loro comune patria, che per li continui vapori

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    Contemplatione delle cose fa riconoscer Iddio

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    che in alto ascendono, sia ciò per il sotteraneo fuoco che li spinge over il superiore celeste che l’attrahe, non venga meno e che non s’esausti, et inanisca. Ma facendo regresso al punto principale del mio divisamento, concludo che senza la speculatione et osservatione delli andamenti della natura, cieca sarebbe l’humana prudenza. Ma quello che maggiormente nobilita tal impiego, è l’haverci soministrato la cognitione di quella eminentissima causa, che il tutto a miglior fine dispone et indrizza, che di gran lunga supera lo profitto che trahemo da tal apprensione, che qualunque giovamento che da qual si sia altra speculatione ci risulta. L’advertire il regolato motto de cieli, l’ordinato regimento delle cose sublunari, ci sugerì l’intendimento che teniamo di una suprema cagione, il cui sapere admiramo, potenza riverimo, e bontà amamo, e per il certo perciò siamo molto al di sopra di bruti, per tal apprensione affatto distratti et alieni. La traditione che si tiene di portenti e memoria di miracoli può dal continuato flusso del tempo rimanere estinta, overo da scelerati miscredenti temerariamente schernita, ma il certo et evidente giudicio che faciamo circa Iddio e sua Providenza, s’esime affatto dalle ingiurie del tempo e rigetta lo scherno d’empii. E di più riesce l’humana scientia o filosofia che dire la vogliamo, simile ad industre agricoltore, che procura svelere e sradicare l’inutile, e troppo lusuriante fecondità. [274] Detru|se primieramente essa filosofia la dannata e scelerata impietà di ogni vitio solecita notrice, preparando l’animo humano al sentimento della vera religione. Ma di più s’impiegò a rintuzzare la pazza superstitione, che a guisa di germogliante l’olio, opprime la pregiata messe della veneranda religione613, havendole essa Sapienza reciso e mutilato quelli diformi cenci et appendici che la insana superstitione l’attacò et ingiunse, inducendo l’homini saggi a rendere al Supremo Autore et Opefice quella degna estimatione che se li deve, havendolo essa superstitione indegnamente finto hora troppo flessibile et indulgente, e però meno riverito, et alle fiatte lo rappresentò in eccesso rigoroso, e per ogni

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    minuta transgressione implacabile et inesorabile, e perciò piuttosto temuto che amato. Ma la Sapienza a guisa di vigoroso e perito guerriero, con ambe le mani di arme proviste, ad un tratto duoi diversi e fieri nemici abbaté e prostrò, dico l’impietà e superstitione. E per il certo non meno tiene la Sapienza merito per il fugare questa che per lo scacciare quella. L’impietà conoscendo la sua turpitudine, dall’aspetto dell’homini s’invola, e con l’addobamento dell’istessa superstitione mascherandosi, sconosciuta nella scena del mondo esercita quelli tragici avenimenti che desertano le città et inaniniscono le provincie, e che l’homo divenga al suo genere lupo e tigre. Ma non resta però che odiosa non riesca all’altrui apparenza, poiché la imagine della superstitione tanto maggiormente riesce difforme, quanto che donna vecchia, monocola, guinza614, e bavosa, più attrista la nostra vista, che l’aspetto di bue o cavallo affatto dalla nostra spetie diverso, essendo l’empii privi di alcun sentimento della deità, a guisa d’animali irragionevoli dalla classe delli homini distratti et esclusi, e li superstitiosi non essendo di religione privi, ma in modo distorto e depravato sortiscono in diformi et abominevoli sembianti. Ma la Sapienza debelato che hebbe tali monstri et assordità, che con la retta religione ferocemente tenzonavano e gueregiavano la [275] richiamò al suo regal seggio, havendole preparato honorevole albergo, e degno tempio nella humana mente, più egregio loco che nella regione sublunare si ritrova. Questi sono li maggiori profitti che l’homo trahe dalla speculatione delle cose mondane, che nonostante le tue argutie e cavilli stimo che siano manifesti et evidenti, ma quando anco fosse come contendi quello che giammai io non son per affermare, che nulla di certo da tanto laborioso mentale esercitio, si conseguisce, essendoci la verità inattingibile et inaccessibile, tuttavia negare non puoi che grande noia arrecaresti all’humano genere in descreditarli il suo sapere. E stimo che verso di te in tal maniera reclamarebbe: qual ingiuria giamai dalli huomini tuoi consorti hai ricevuto,

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    che con avilirli et annientarli il proprio sapere procuri privarli dal più sincero e durabile piacere che possegono, cioè del diletto che conseguiscono per la contemplatione dell’universo? Non è questo come le volutà del corpo che velocemente pongono termine, e sovente quello è peggio inanzi che arivino al sommo, ci finiscono, ma principiando esso nella pueritia, ci accompagna nella vecchiaia, e non ci abbandona insino all’ultimo anhelito e respiratione. Né accade al piacere che dal sapere ci sortisce quello occorre alle altre volutà che con l’altrui ingiuria over danno ben spesso si conseguiscono, ma il contemplativo diletto senza noia et iattura di alcuno sempre ci si appresenta agevole e pronto. Il gran teatro dell’universo al senso et intelletto di tutti li homini tanto nobili come plebei, ricchi come poveri egualmente è aperto e spalancato, e con liberale indiferenza li suoi mirabili spettacoli espone et offerisce, et in qualunque tempo alternando li suoi visaggi, diletta et instruisce. Molti de suoi arcani rivelò alli nostri antenati, non pochi al presente secolo svelò, ma in maggior copia è per manifestar alla ventura posterità. Onde, o Socrate, se il teatro che novamente Pericle eresse, acciocché con ludicri spettacoli l’otiosa plebe si trattenga, attentassi diruppare e demolire, senza dubbio incorreresti nella publica [276] indignatione, e per il certo severissimi castighi ne saresti per ricevere. Così anco riesci615 degno di rigorosissimi flagelli, mentre attenti di annientare il comune et universal teatro mondano che tanti piaceri e diletti a tanta moltitudine di homini continuamente appresta e sugerisce, il che certo seguirebbe quando che divolgassi, che mendace, vano, et illusorio fosse tutto quello che in esso apparisce e ci dimostra. E senza dubbio la pretensione che cadauno tiene del proprio sapere, è quel potente narcotico che lo adormenta nel renderlo insensato alle proprie miserie, et è quello fascino che prevertendo616 il giuditio, cagiona che ognun si appaga di se medesimo. Ma di più diroti, che se publichi tal tuo parere circa

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    l’imbecilità dell’humano giuditio, non poco offenderesti la buona moralità che tiene associato il nostro genere. Le publiche leggi agevolmente da scelerati si possono con la secretezza di delitti eludere. E la falsa openione che tengono l’impii della conivenza d’Iddio, e li volutuosi della sua indulgenza, rende questi confidenti, e quelli arditi nel comettere clandestinamente le sceleratezze e l’enormità. Ma l’horrore che ci impone severissimo magistrato nel più interno recesso di noi, dall’istessa natura eretto, è di tanta efficacia che non solamente ci reprime dalle prave attioni, ma anco da maligni pensamenti ci ritrahe, esigendo dalli homini in ogni tempo e loco le pene di loro misfatti e delinquenze. Questo magistrato è la conscientia, cioè la ragione che ci rimorde di nostre difalte, e che subito comesse che siano ci acusa, ci punge e flagella. Tale maetoso tribunale per cagione di tuoi insegnamenti rimarebbe affatto dispregiabile e vilipeso, mentre che manifesti la sua imbecilità e debolezza. Qual rispetto, amico Socrate, e qual riverenza prestato sarebbe per l’avenire alla veneranda conscientia over ragione, mentre che mendace e fallace la promulghi? Al sicuro schernite sarebbero le sue admonitioni, e sbefati li suoi rimproveri e l’humano genere incorrerebbe di [277] nuovo in quelle sciagure che cadé nel tempo di Deucalione617: Fugere pudor, verumque, fidesque: In quorum subiere locum, fraudesque, dolique, Insidiaeque, et vis, et amor, sceleratus habendi618.

    Onde sarebbe Iddio solicitato purgare il mondo con altro diluvio come già eseguì, perché le nude leggi siano minacievoli quali furno quelli che Dracone619 a noi Ateniesi instituì, vane riuscirebbero quando alla loro difalta non suplissero quelle della occulta conscientia sopra tutte le altre in domarci validissime. Et a qual infamia si ridurebbero l’homini se come debitori di pessima qualità, non pagassero li loro creditori se non fossero le scritture e testimonii rimproveri de loro debiti, così anco s’essi non si astenessero dal mal operare se

    In publicar la debolezza dell’ingegno discredita la conscientia

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    non fosse il freno de’ castighi dell’humane leggi o flagelli della Divina Providenza? Questo sarebbe l’avantagio che conseguitasse il comune delli homini dalla publicatione della retentione dell’assenso e sospensione di giuditio. Per il che, amico Socrate, se Gorgia ti convertì come mi narrasti in testugine, io t’admonisco che in vernale620 lumaca ti cangi che a guisa che essa de tuoi suchi, cioè di proprii discorsi e meditationi ti alimenti. E seppure di essi sei talmente pregno che non li puoi reprimere che fuori non prorompino, solamente a saggi e prudenti li comunicarai, con cautela tale, che l’orechio del volgo non feriscono, e con il poeta sempre susarare: Procul o procul este profani621”. Ricorre Socrate a Timone

    Profitti circa la religione

    In ciò terminò il ragionare di Hippia, ma io conforme il mio già intrapreso instituto, che sospende il giuditio, pertanto ratteni l’assenso, e deliberai di non inclinare al parere di Hippia, se prima non ricercassi ciò che Timone in tal proposito consigliasse. Costui come ben sapete prese irreconciliabile nemistà con l’humano genere per l’aversione che teniva con li sapienti del secolo, alla dottrina de quali li homini del nostro tempo pareva che inclinassero, e perciò risolse di evitare la loro famigliarità, et ad un suo podere vicino alla nostra città [278] et in vita solitaria si tratteneva, nella quale sua habitatione offeriva gratis recapito a quelli che importunati dal tedio del loro vivere procuravano da questo mondo accomiatarsi. Onde io alla sua maggione transferitomi, con proponimento di migliorare non di terminare la mia vita, egli con benigno sembiante mi raccolse, et in tal guisa pigliò a ragionare: “Se la noia di vivere come a sicuro posto, qui ti condusse, con opportuna occasione sei qui capitato, havendo io ad offerirti pregiato regalo di dolcissimo liquore, che con laboriosa industria dall’oppio tengo estratto. Il quale in tal maniera è condito, che sebbene apporta a chi l’assagia accelerata morte, nondimeno è preparato in guisa, che garegia con qualsivoglia saporito vino, inducendo soavissimo sonno ch’alla morte tranquilamente et inavedutamente transmette e consegna.

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    Né di ciò mediocramente ringratiare mi devono l’homini della vita infastiditi, ché siccome si rimane obligato alla ostetrice che ci educe622 et estrahe dalle viscere materne alla luce del mondo, così parimente non poco di merito deve tenere appo essi, colui che l’appresta maniera di agevolmente et agiatamente estrahere le anime loro da tenebroso e noioso carcere, e senza alcuna passione e tormentoso sentimento le sviluppi. E siccome colui che alli affaticati viaggianti arreca generoso vino, che inducendoli sonnolenza che per tempo supisce li loro languori è lodevole, tanto più è degno di comendatione et è meritevole di elogio colui che alli travagliati et affannati da sciagure del mondo li sugerisce se non piacere e godimento, almeno perpetua et imperturbata indolenza. Per il che riconoscendomi invalido ad aportare alcuno giovamento alla altrui vita, ho procurato di rendere meno dolorosa l’agonia della morte insino hora stimata fra mali la più tormentosa. Ma se tu, Socrate, qui ti sei tranferito non per mettere fine alla vita, ma per meco dimorare, benché peraltro io sia alieno di qualunque conversatione e famigliarità, tuttavia havendo rispetto alla tua indole e probità di costumi, volentieri sono per [279] comportarti623 e teco convivere, mentre però che ti compiaci purgarti affatto dalla infettione dell’hodierna filosofia, di buoni costumi corrutrice, la quale se insino hora non ti guastò, sono certo che in breve è per depravarti”. Inteso che hebbi ciò io ringratiandolo del suo regalo, li dissi, che non tedio di vita, né desio di seco cohabitare, mi haveva alla sua stanza indotto, ma solamente per tale fine io colà mi condussi, per rendermi informato quali fossero li motivi che lo fecero tanto alieno e nemico alla scientia morale da filosofi del secolo divolgata, e che perciò delli homini in universale divenne nemico, che alli insegnamenti di essa prestano orechie. E di più, voleva io seco comunicare quello tenivo praticato circa l’humano sapere, havendolo ritrovato dubbioso e falace, e se propalando ciò alli homini l’havessi apportato alcuno giovamento, e forsi perciò con essi homini egli si sarebbe reconciliato e riamicato. Risposemi, che ciò prontamente eseguirebbe, et in tal guisa

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    favellò: “Negare non si può che alcune dottrine dall’humano sapere derivate, habbino promosso grandi profitti alla vita humana, non riuscendo in ciò inferiori a veneni, che alle fiatte ottimi rimedii alla infermità de nostri corpi sugeriscono, ma di gran lunga sopravanzano li nocumenti, che tali speculationi l’apportano et arrecano. Primieramente la contemplatione circa oggetti a noi esterni et inattinenti, richiama la nostra mente dalli humani affari de quali perciò rimaniamo affatto ignari, e contendendo di abbraciare il cielo, perdiamo la terra, incorrendo in quella celebre riprensione ch’incontrò Talete, dalla sua serva rimproverato, che tenendo li occhi a cieli per spiare li loro andamenti, in una fetida cloaca cadè. Per il che dalla serva fu rampognato, che mentre con vana curiosità attendeva ad esplorare li viaggi delle stelle non scorgeva ciò che haveva in terra avanti a piedi. Né saprei ritrovare impiego, che maggiormente offendesse la civile prudenza, che la pratica e famigliarità che la humana mente tiene con le cose dalla natura prodotte e governate, e [280] massi|me li corpi celesti. Questi sono sempre con ordine costante et uniforme retti, ma per il contrario l’humani affari sempre variabili, e la volontà che li maneggia più che Proteo cangiabile, combattuta sempre da mutabili desii, intemperati amori, fanatici timori, insane speranze, furibondi odii, et altri affetti che la sconvolgono. Onde l’homo assuefato alla contemplatione delle cose naturali, riesce affatto inetto al trattamento delle materie civili, e massime quelli che nelle scientie matematiche sono esercitati, ricercando essi in qualunque cosa ferma demonstratione, onde nelle materie urbane al di sopra di probabili conieture non possono ascendere. E chi può nelli secreti recessi dell’animo humano penetrare e condursi, ricoperto et impedito da tante simulationi e fintioni? E l’esperienza sempre dimostrò che li homini che si dedicarno al studio della natura, chiamati al governo civile, talmente si diportaro, come che se in altro emispero appresso li antipodi vissuti et educati fossero.

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    Né molto mi cale di quello mi narrasti di Hippia, che in favore delle speculationi della natura addusse, che in quanto a quella ardita ascesa e temerario volo, che insino al cielo l’intelletto humano sormonti. Appo me tal intrapresa mi rende l’homo piuttosto ridicolo, che admirabile, e novello Icaro me lo rappresenta, tanto sono li pareri che circa l’essentia, situatione e moti di cieli da sapienti del secolo divolgati. Et inanzi che fosse stata624 fatta la disecatione dell’animale, quante openioni furno circa il principio della vita e moto di esso. Né giamai alcuno indovinò per molta speculatione che vi usasse, qual fosse tale esordio et origine di vita, ma doppo fatta la desecatione con stupore d’ognuno fu trovato, che tal fosse un picciol membro di conica figura, residente in un folicolo che contiene alquanto di certa acqua, che continuamente allargandosi e restringendosi, assorbe dalle vene il sangue e lo rigetta già elaborato e perfetionato alle arterie. Questo è il cuore primordio e conservatore della vita, primo a vivere et ultimo a morire. Stante ciò mi [281] meraviglio che vi sia alcuno che intraprende investigare la cagione impulsiva e motrice delli cieli, corpi tanto lontani da noi e mi stupisco, che se senza l’anatomica et occulata osservatione, giamai alcuno conieturò qual sia il principio della vita di noi stessi, agogna di riconoscere qual sia la vera cagione di moti celesti625. E per il certo mentre l’homo si trova ignaro di tal cagione stimarei, lieve dottrina l’apprendere quali siano li viaggiamenti di essi orbi overo stelle, e non degna di tanti milantamenti, siccome anco li condottieri di invogli626 e bagaglieri627 che accompagnano l’eserciti, stimare non si devono per il semplice osservare li loro marchiamenti628 e posate629, mentre che ignorano l’impulsi e fini di tali diverse attioni. Per il che concludere si può in quanto a questo capo, che tali speculationi sono infrutuose applicationi o per dir meglio otiosi esercitii e neghitose facende. Ma quello che tali contemplationi tengono di peggio, che praticando li professori di esse con il discorso continuamente con li corpi celesti, li stimano come se

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    fossero concittadini della universale republica mondana, nella quale stimano esservi arrolati, e perciò con altiera despicientia riguardare la loro propria patria, conforme disse Hippia, come che se fosse vil vespaio et abietto formicaio. E per il certo ottimamente decretarno alcuni legislatori, che per tenire meglio affetti li cittadini alla loro propria republica, che li fosse interdetto l’inestarsi et annoverarsi anco in altra ad essi aliena, essendo tali ordinanti sicuri, che se ciò li fosse permesso, si diminuirebbe il legitimo amore che verso la loro patria sono tenuti. Tutto ciò accade a tale filosofo che cittadino del mondo s’appella, e con celebre elogio si vanta come disse il poeta allegato non sibi sed toto genitum mundo630, onde rispetto all’universo del quale egli è patritio, non più della rovina della sua picciol patria si comoverebbe, di quello si alterarebbe un di nostri cittadini ateniesi se vil publica capanucia per ricorso di pochi pastori eretta, fosse a terra caduta né a tal sapiente più li molestarebbe il disfacimento della sua città, di quello [282] altro si attristasse del frangimento di picciola pietruzza, che in vastissima montagna accadesse. Né maggiormente li offenderebbe l’oppressione di suoi popolari, di quello s’allegrasse della vitoria di quelli che li assogettassero, essendo l’uni e li altri cittadini della massima mondana republica. Et oltre di ciò delle sciagure di figlioli non più si risentirebbe, che del calpestio del proprio sputo, overo altro suo escremento. Né della violenza alla moglie usata, non più se addolorarebbe, che di casa da lui abbandonata che da altrui fosse habitata e goduta. Né della demolitione di sepolcri di suoi antenati e dispregio di loro cenere et ossa, più si lagnarebbe che di ritagli di unghie e capelli di suoi progenitori, che all’aria fossero sparsi e dissipati. Né della denigratione della propria fama non altrimente si currerebbe, che di fetida saliva dal volgo escreata. Né della delapidatione de suoi beni punto si lagnarebbe, mentre che tenisse appo sé nel secreto erario del suo animo il pregiato tesoro della sua sapienza, che lo rende, secondo la sua stima, trionfante possessore

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    di tutte le cose mondane. Queste sono le massime che si tengono per l’acquisto di questa cotanto comendata e lodata sapienza, fra quali è principale il rendere promiscuo et indiferente l’amore che si deve alli homini, non admettendo in esso graduatione e diversità, non advertendo questi, che siccome copioso et abbondante fiume, in moltissimi rami derivato, alla fine estenuandosi s’estingue et inaridisce, nell’istesso modo li nostri affetti essendo a molti oggetti distribuiti, al niente si riducono. E perciò volendo rinforzare l’amore verso li proprii cittadini fu instilato da alcuni legislatori certo odio et aversione contro l’alieni della republica, che per modo di antiperistasi s’invigorisca l’affetto verso li proprii cittadini. Dal divisato da me, puoi raccogliere che non sia di profitto all’homo civile il vagare con il discorso fuori del recinto della propria patria, non dirò allargarsi insino a cieli, ma né anco difondersi per tutto il nostro genere, ma nell’ambito della propria patria terminarlo. E siccome s’ingannò Hippia circa la sapienza che [283] vertisce circa le cose della natura stimandola madre dell’humana prudenza, così parimente non colpì nel vero quando affermò che la cognitione della natura generi nell’animo humano moderatione e temperanza. Non è poco di tempo che essendo a Xerse potentissimo Re dell’Asia raportato il dogma di Democrito, ch’afferma ch’infiniti siano li mondi nell’immenso vacuo disseminati, non parendoli probabile ch’in vastissima campagna un grano di miglio solamente vi germogliasse, sospirando prorupe: ‘O da poco e neghitoso ch’io sono, che per anco uno di questi mondi io non ho assogetato et acquistato!’. Et immediate alla impresa della Grecia si accinse. Dal che ne successero li mali non meno ad esso che a noi notorii. E né anco la fortezza fra le virtù veramente la più virile, non solamente nella scola della natura non s’apprende, ma piuttosto la viltà et abiettione dell’animo s’impara. L’oggettare l’infinito e riconoscendolo inattingibile consterna talmente il nostro animo,

    Amore indifferente dannato

    Abuso della moderatione

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    che l’estingue il talento naturale che tiene di sempre proseguire et oltrapassare con suoi intraprese e conquiste, discorrendo in tal guisa il cultore della sapienza: ‘Se l’infinito non si può conseguire, di qual pregio è la portione di lui per grande che sia, se rispetto ad esso, è meno che grano di miglio in riguardo all’ampiezza del cielo? Anheli la più egregia virtù per lasciare per alcun tempo memoria di sé appo la posterità, mentre che non è certa della sempiternità, quel lungo tratto di tempo che si prometta è spatio minimo et inconsiderabile rispetto alla interminata successione ventura. Quello che una fiatta è per finire è come se mai non havesse principiato’.

    Assordi che circa la moralità risultano dal contemplar la natura

    Onde da tal divisamento turbato il sapiente, scusa la sua scioperatezza e difende il suo otio. E né stimarei che quelli documenti ch’addusse Hippia per norma della vita morale e civile che da principio dalle osservationi naturali fossero dedoti, ma che ad essi avenisse quello accade ad aritmetici, che prima ritrovano con la pratica il631 loro proponimento e doppo a tali inventioni le demonstrationi vi addatono, onde [284] volgarmente rimangono admirati l’homini di ciò ignari, stimando oltrapassare l’ingegno humano le loro sottilissime deduttioni. Così anco li pittori prima con l’occhio advertiscono li risalti, profondità e scorciamenti, e doppo li prospetivi l’accomodono le ragioni dalla matematica derivate. Nell’istesso modo io tengo, che tutte l’instruttioni apportate da Hippia, e da altri che a tal impiego si posero, fossero prima tali avertimenti da politici osservati dalle humane emergentie, e doppo da esso Hippia artificiosamente applicati alli naturali avenimenti. E non dubbito, se l’otio me lo concedesse, che in maggior numero ritrovarei l’assordi, che volendo assestare li progressi della natura alli humani andamenti, sucederebbero. Ma tuttavia non voglio lasciare di farne racconto d’alcuno, acciò il mio favellare ti riesca alquanto credibile, omettendo per hora il ragionare circa la prudenza, poiché nel principio del mio divisamento ti accennai il discapito che ne succede per l’incombenza che circa le

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    cose naturali frequenta. Ma circa la giustitia comutativa mostreroti quanto di scandalo ne segue deducendo dalla natura la sua genealogia. Non si può negare che nell’esigere la natura da minuti misti tutto quello che li è accomodato dall’elementi, si dimostra rigorosa, et oltremodo austera, e vuole che integramente li sia restituito. Non così diligente apparisce in eseguire la sua giustitia nelle portioni maggiori dell’universo, con quali si osserva praticare quella memorabile, ma dannata sententia dall’arrabiata politica pronontiata, sua retinere privatae domus, de alienis certare regiam laudem esse632, onde circa l’usurpationi ch’esercitano li elementi l’uno contra l’altro, giamai la natura con suoi vigorosi stimoli indusse che l’uno all’altro restituisca quello che dell’altrui tiene e possiede. Quando giammai l’Atlantico mare restituì alla terra quel grandissimo tratto che l’occupò e [285] somer|se? Come anco non le reintegrò quell’istmo che l’Italia con la Sicilia continovava. Né la terra parimente non ha renduto al mare quello li furò, quando con l’aluvione del Nilo, formò nel suo seno l’Egitto. Né l’aria tumultuando nelle viscere della terra, sconvolgendola con rovinosi terramoti giamai la rifece de danni cagionatile. Com’anco il fuoco con suoi impetuosi folgori abbrugiandole tratto di grandissime e spatiosissime selve, per alcuno tempo non la reintegrò. Dall’istessa natura fu appreso quell’altro iniquo detto id equius, quod validius633, osservandosi per tutto il corso di essa natura che sempre il più potente vince, et il debole soccombe e rimane oppresso. Ma oltre di ciò, quel fermo instituto della natura, di non generare alcuna cosa se non con la corrutione di altra, può esser abusato da questi che vogliono assestare li usi humani alli decreti della natura, con derivare da tale osservatione l’approvechiarsi et avanzarsi con il detrimento altrui, e fabricare li edifitii della propria fortuna, sopra le rovine di suoi consorti et amici, poiché anco la natura non trapassa nelle sue transmutationi da genere a genere, ma piuttosto da spetie all’altra prossima.

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    Da tali contemplationi presero ansa alcuni dalla virtù alieni di patrocinare alcuni enormi vitii. L’ingratitudine appo l’istessi vitiosi monstruosa e dannata, nell’ambito della natura trovò li suoi essempii, le esalationi nel seno della terra prodotte, e dal calore del sole in alto solevate, et illuminate, ma nondimeno sovente et a questo l’impediscon la vista, e l’offuscano il lume, e quella folgorano. Di più mentre che la luna maggiormente apporta luce alla terra, essendo questa dal lume del sole destituta, cioè ritrovandosi la luna nel634 plenilunio, all’hora appunto la terra la priva di luce et impedisce il vagheggiare il suo amante sole. Così anco l’avaritia che non riconosce legge alcuna per ritener quello [286] che una volta ha preso e stretto tiene nelle mani: Virgilius

    Abuso circa l’amicitia

    Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames635.

    Nella scola della natura imparò li suoi depravati costumi636. E che non eseguisce essa natura per rittenere quello che una fiatta tenga posseduto, se non di cosa equivalente sia reintegrata? Non solo ritiene il grave che contra la sua propria inclinatione al basso non discenda, ma di più lo fa ad alto salire insin tanto che non sia di altro corpo ricompensato, onde patienta l’universo che si frangano li suoi decreti, mentre non si inanisca alcuna portione di esso. Li violatori della amicitia sostegno e condimento della humana vita, da progressi della prima materia presero a paliare637 la loro scelerata iniquità. Questa secondo il parere del nostro Aristotele, seguito dal satelitio di molti suoi settatori benché s’unisca in stretta allianza et amicissima congiuntione con una forma, tuttavia giamai con essa si stringe, che in breve tempo, rispetto alla duratione dell’universo, non la rigetta et abhorisce, et a guisa di infame meretrice ad altra inclina e si prostituisce. Dal che questi tali spregiatori dell’amicitia prendono pravo documento et eseguiscono delli loro amici, quello si suole fare di vestiti, molti haverne, un goderne e cangiare spesso infiniti. Altri pravi costumi all’homo dannati facilmente si contrahe dal troppo oggettare con la mente le cose esterne. Da

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    tal pratica riportò Aristippo a noi homini, che il piacere sia l’ultimo fine al quale tutte le nostre attioni si devono indrizzare, havendo li Persiani anco nelli irragioneuoli animali osservato l’infame concubito di figliuoli con le madri. Li Egittii da bruti dedussero anco il giacersi con le sorelle. E tu, Socrate, mentre che seriamente vanegiavi, d’indi raportasti l’instituire nella tua republica la comunità di mogli e figliuoli. Come anco Diogine da tali essempi dedusse la nudità di corpi habitatione del doglio, fierezza di costumi, rudità di vita, e despicientia di ogni civile cultura. Intrapresa veramente indegna [287] di chi professa il nome di filosofo cioè l’attentare di rimettere l’homini nella classe di bruti riuscendo con tal loro intrapresa inferiori a publici giocoleri che per dilettare il volgo, procurano di amaestrare li più sciochi animali che con lor attigiamenti imitino li nostri gesti. Ma tali filosofi s’impiegano a disumanarci e che ad essi bruti simili diveniamo. Da ciò che hora teco ho divisato, stimarei, o Socrate, che a sufficientia dimostrato rimane, di quanto diversi anzi contrarii siano li andamenti della natura con quali si mantiene la vastissima machina dell’universo, dalli ordini et instituti con quali si governa il nostro genere, picciolissima portione di quello. L’uguagliarli non meno assordo che se la nostra Attica picciola parte della Grecia volesse reggersi con li ordini che si governa tutta l’Asia al re di Persia sogetta. Da ciò parimente scorgi, quanto lungi dalla verità se discostò Hippia, mentre affermò che il mondo fosse una publica scola et accademia nella quale si aprendono li precetti della moralità e rudimenti della politica. Restami a dimostrarti che anco vanamente si affaticò il medesmo in dare ad intendere che la filosofia naturale habbia aperto l’adito alla religione e pietà. Io per il certo tengo parere a ciò contrario! Anzi credo che alla filosofia sia avenuto ciò che sovente accade alla pratica della medicina, che mentre imprende638 scacciare dall’infermo li depravati humori che l’offendono, insieme con essi detrude l’istessa vita. Così anco questa temeraria Sapienza non diretta da

    Contrarii il andamenti della natura alla moralità

    Sapienza naturale offende la religione

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    maggior lume, pretendendo distrugere la superstitione, fuga la istessa religione. Et io non sono tale che approbbi la superstitione! Anzi io la condanno e regetto! Ma dirò ben questo, che piuttosto essa ridicola e dispregiabile che maligna e scelerata riesce mentre però non è pigliata per pretesto, et addobamento della istessa impietà, falce d’ogni virtù devastatrice dell’humana società. E stimo che la superstitione è a guisa di quelli veneni che alle fiatte apporta alli infermi alcuna sanità, poiché l’esperienza, vera nostra maestra, ci dimostrò che sovente ad inanimire639 un popolo alla difesa della pro [288] patria et ad incontrare con lieto sembiante l’horrore della morte, riesce più efficace l’osservare il cibare, garire640, e volare, di ucelli, come anco l’inviluppati responsi di infuriata donna641, che meditato ragionemento di erudito filosofo che del dispregio della vita e della gloria dottamente divisasse642, non riuscendo vero quello che Ipocrate ci lasciò scritto, che contraria contrariis curantur, ma piuttosto come altri più moderni tengono che similia similibus curantur. Cioè al mio proposito che li vitii prodotti dalle stoltitie del popolo alle fiate si emendono e curano con altre simili, riuscendo vero il comune proverbio che clavus clavo eiicitur643, accadendo ciò non in diverso modo di quello si pratica nel purgare li machiati panni, che con il sapone composto di oglio, liquore sopra tutti li altri infetivo, si levano le loro lordure. Così apunto nelli animi plebei le liture di alcuni vitii con altri si spingono e purgano. E ciò dico circa quella vana superstitione che consiste in superflue et esterne attioni e mendaci openioni, non già appellando con tal nome il culto mentale che si pratica verso Iddio, benché eccessivo egli fosse, non potendo giamai ciò riuscire superfluo, mentre tiene oggetto infinito et interminato. Per il che non può sortire esorbitante et intemperato il suo interno culto, e siccome nelle materie morali la mediocrità è decente, così in questo l’immoderato è il comendabile. Ma voglio hormai lasciare a parte il discorrere circa la speculatione delle cose a noi esterne, et inclinare

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    voglio il ragionare a quella tanto stimata dal volgo di sapienti proficua e giovevole contemplatione. Dico la morale scientia, quella che si milanta di haver revocato li homini dalle solitarie selve, deserte spelonche, e da quella maniera di vita raminga e roza e riddoteli al vivere civile e sociabile, havendoli admoniti ad erigire città, fondare popolationi, instruire regni, formare republiche, promulgare leggi et instilare nelli nostri animi li primi semi di virtù. Per il che si rende cotanto felici li suoi cultori, che le rendono ossequio et obedienza, havendoli dimostrato [289] li termini che fra li estremi vitiosi essa virtù si trova: Est modus in rebus sunt certi denique fines Quae ultra citraque nequit consistere rectum644.

    Ma nondimeno con tanti vantamenti se tale scientia esaminare vogliamo, non solamente riesce deficiente a tante comendationi, ma non priva da nocumento et offesa, e massime quando oltremodo cavillando trapassa il segno circa li principii della virtù. Sovente accade a questa quello aviene ad alcuni prencipi oltremodo curiosi di riconoscere la lor antica stirpe, e genealogia, che tanto oltrapassano, che s’incontran in alcuno sciagurato sbirro. E come parimente occorre a quelli che profondando per rinvenire li fondamenti di nobile e riguardevole palagio che alla fine vi ritrovano roze pietre e lordo fango, così parimente a questi fuori di ordine sacenti incontra, che tanto si internano con il loro caviloso discorso verso li primi esordii e ressorti645 della virtù, che alle fiatte nell’istesso vitio s’attopano, rendendosi costoro che seguono tal dottrina simile a quelli che nella loro infantia, e primiera indole riverirno li loro educatori come legitimi loro padri, ma in progresso di tempo riconosciuto che hanno esserli putatitii genitori, altrotanto che da principio l’honoravano doppo li dispregiano e sviliscono. Ma che ciò sia avenuto alle virtù, rispetto il troppo sofisticare di costoro, dimostrerotelo primieramente esser ciò accaduto alla beneficientia, di tutte le virtù madre e corifea. Circa questa dunque s’esercitarono in riconoscere

    Oratius

    Assordo che segue, dal troppo investigare li principii delle virtù morali

    Essami circa le cagioni della beneficientia

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    SIMONE LUZZATTO

    li suoi primordii et anziani principii, e da strane origini dedussero li suoi natali. Fu detto che fosse avantagioso trafico et usuratica mercantia, che fra li homini sovente si esercita di offerire il poco per conseguire il molto, e perciò da vil interesse trarre origine. Da altri fu detto che fosse oppiato regalo, che li più accorti al volgo offerisce per [290] addormen|tarli insino che conseguiscono li loro attentati, e perciò dalla fraude trahesse li suoi natali. Da altri fu dedota d’impatiente conditione d’animo inetto a resistere alla petulanza di dimandanti, essendole piuttosto estorti li benefitii che da essa conferiti. Sovente anco essa beneficientia derivare da lubrica rilassatione, che non sa né godere, né rattenere li beni che possiede, onde senza alcun diletto, promiscuamente a qualunque li prostituisce. Altri attribuirno la sua origine in quanto appartiene alla profusione di proprii haveri, alla otiosità e scioperatezza liberandosi dall’impacio e briga di conservare illeso, ciò che continuamente le viene d’altrui insidiato. Altri dissero che ben spesso è paliamento646 e coperta di enormi vitii, essendo questa l’anello che regge e rende invisibile li vitiosi che in dito la tengono, et il vero fascino che incanta li animi anco più attenti e risvegliati. Altri la stimarono che sebbene che anco sincera di ogni interesse e fraude fosse, non di rado è figlia di cieco amore, et effetto d’indiscreto giuditio. Altri tirarno la sua genealogia da perversa malignità, ché non rare volte prendono li grandi diletto d’inalzare alcuno con li favori, per poi abbassarlo, trastulandosi del spettacolo di salti mortali e croli repentini che il sgratiato favorito li rappresenta. Et altri, per trattenere il loro otio, e per adempire in uno sogetto le tre fontioni che appartengono ad essi grandi, cioè il fare, disfare, e dare ad intendere. Non mancono altri che stimano li favori et autorità che ad altrui si appresta, havere per fine l’interessare li suoi privati nel sostegno della cadente fortuna del loro principe, dovendo caminare a pari passo la prosperità del beneficiato, con la grandezza del benefattore. Accade anco dicono altri, che la distributione di grandi favori,

    SOCRATE

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    non procede da amore, ma per dare contrapeso ad altro favorito, onde oppresso questo cade parimente quello. Affermano parimente alcuni, che la straordinaria beneficentia, da intenso odio deriva, e non per altro è praticata, che per rendere il favorito maggiormente invidiato e che se li accendi tanto più agevolmente [291] contra l’ira de’ suoi arrabiati emuli e malevoli. Advertiscono altri, che sovente s’accresce alcuno di autorità per dar ad intendere al volgo, che li effetti enormi che nel Stato occorono, dalle difalte del ministro avengono, nella cui balia è riposto il peso e somma delle cose, onde sacrificandolo poi all’odio universale, il supremo dominante riacquista l’affetto e l’amore de suoi vassali. E quando ciò non succedesse, almeno il privato a guisa di antemurale647 si trova primo esposto al populare furore. Altri tengono che più delle volte la beneficientia scaturisce non da amore che si tenga verso li homini, ma da urgente et intensissimo desio di gloria, essendo la fama della beneficentia, la più espedita nel volo, e di più chiara voce che il sussuro che balbotiscono l’altre virtù, et ad essa come farfale alla luce, vi accorrono tutti li bisognosi over avidi di alcun beneficio. Alcuni dissero, che ben spesso nasce da ostentatione di potenza, emulando li grandi l’istesso Iddio, nel dar esser al nulla, e perciò alcune volte è praticata piuttosto in solevare l’indegni, che li meritevoli, sospettando che il merito tenendo parte in tale esaltatione, non li sminuisca la stima della loro plenipotentia. Altre cause e ressorti hanno li morali attribuito alla beneficientia, al pari delli antedetti indegni, che troppo tedioso riuscirei se hora annoverare te li volessi, ché tutti però ridondono648 in renderla interessata, fraudolente, inetta, malitiosa, e disgiunta dalla vera e sincera virtù. Da questa divolgata dottrina prese ardire l’ingratitudine abominevole vitio, di vantarsi esser una esquisita filosofia, indagatrice delle vere cause e primi esordii delle gratie, rinvenendo con il suo speculare quali siano li primi impulsi che reggono la beneficientia. Da

    Difesa dell’ ingratitudine

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    Oppongono alla prudenza

    Oppongono alla definitione della giustitia

    Altra definitione della giustitia

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    questo il nostro Aristotele nella materia morale tanto perito, assignando le conditioni al suo ideato magnanimo, prese a dire, che tale semideo si trova oblivioso di favori da altrui ottenuti. Non meno infelice incontro, occorse alla prudenza con questi sottilissimi e curiosi ricercanti della genealogia delle virtù che oltremodo [292] ven|tilata, vano e chimerico nome et improficua virtù la divolgarono, siccome dalle discussioni circa essa esercitati, come mi narrasti, si è reso manifesto. Né la giustitia benché al volgo dell’homini sia formidabile, non fu bastevole a difendersi dalli costoro affronti. Da principio dalla sincera gente fu definito che sia una ferma volontà di rendere a cadauno ciò che è suo. Ma da questi cavillatori in tal guisa fu assaltata. Primieramente suposero che l’ignoranti non siano differenti da pazzi, se non in quanto il più et il meno, che essendo tutti essi al pari esclusi dal posseso della verità, simili stimare si devono circa quelli proponimenti che ambi deviano et errano. Secondariamente, affermarno, che non meno è nocivo il libero uso delle ricchezze a pazzi, che delle arme, anzi che con quello si può procacciare più numeroso stuolo di malefici per eseguire l’insani loro attentati. Da ciò dedussero che siccome a pazzi è interdetto il maneggiar delle armi, così anco le loro richezze convenga per mezo di curatori trattare, e siccome quelle non è lecito restituirle, così anco alli ignoranti nella classe de pazzi già intrusi, non se li deve lasciar libero l’uso de loro opulentie, ma li savii o filosofi che dir li vogliamo, devono di queste prenderne custodia et esercitarvi il loro talento e voglia. E perciò mutando tale definitione pronontiarno, fontione della giustitia essere che cadauno posedesse ciò che li conviene. Onde dedussero, che il pedagogo di Ciro meritava piuttosto le stafilate ch’il discepolo, ché havendo questo giudicato che fosse lecito al grande e proceroso pigliare al breve di statura il proprio lungo vestito, contracambiandolo con il suo, se al picciolo s’assesta, seguitando piuttosto in ciò la convenevolezza e decentia, che la proprietà, per tal decisione fu

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    dal maestro severamente batutto detestandoli oltremodo tale sentenza, aggiungendo essi649, che conforme la primiera esplicatione, la giustitia comutativa seguendo la imperfetta proportione aritmetica, riusciva monocola et incirconspeta, non riguardando se non la cosa che si restituisce, non il renditore, né a cui si restituisce, di più accusandola, che seppur voleva seguire la aritmetica proportione, doveva osservare li decreti [293] dell’istessa aritmetica che dell’aggregato delle unità constituisce il numero giudicando questo altro non essere che accumulatione di quelle. Ma la giustitia comutativa trascura l’agregatione di piccioli usurpationi, come se fosse il composito di essi, bench’aggrandito, affatto di diversa natura da suoi componenti, ma solamente circa la grande et evidente usurpatione che ad un tratto sortisce, s’esercita e travaglia. Di più fu censurata di corta vista, ché solamente all’iniquo posesso presente abbadi, non riguardando all’antico originale e primordiale, affatto ingiusto e tirannico, ma oltre di ciò caluniandola che le sue leggi ripugnano a quelle della amicitia, essendo tanto questa più nobile che quella, quanto la medecina perservativa, eccede la curativa: questa dubbiosa, e che sovente invece di vita apporta morte all’infermo, e quella sempre sicura, et infine opponendole che ad essa giustitia accade quello non aviene ad alcuna altra cosa mondana, che il sommo, e perfetto di essa sia pravo e dannato, e che nel suo contradittorio si converta, d’onde derivò quella volgare sentenza summum ius summa iniuria650. Ma non perché da questi fosse vilipesa la giustitia, però fu lodata la clementia che non poco da quella declina, anzi accusandola che senza circonspettione mira solamente il presente e particolare individuo, non oggetando l’universalità dell’homini e l’infinito avenire, e che essendo pieghevole e pietosa verso pochi, e benefica ad alcuni particolari, riesce crudele et atroce verso ad innumerabili, poiché il terrore delle inflessibili leggi, rattiene infiniti dal mal operare, et altrui offendere. Ma non perciò le leggi da questi furno comendate,

    Oppongono alla clementia

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    Oppongono alle leggi

    Contra l’incostanza

    Contra la gloria

    SIMONE LUZZATTO

    anzi l’appellarno imperfetti e rudi abbozzi che giamai si addattano et aggiustano alla vera imagine d’affari, ritrovandosi sempre discrepanza notabile tra la legge, e l’emergentia che la fortuna rapresenta, riuscendo esse leggi, piuttosto ostacoli all’iniqui che non operino sceleratamente, che norma alla giustitia. Né la fortezza benché sia di conditione invitta poté evitare di costoro l’offese essendo da questi, li forti comparati alli fanciulli, che l’ombre nocturne li metton paura, e tuttavia dispregiano li grandi et evidenti pericoli della vita, così parimente essi forti non [294] s’inhoridi|scono della presenza della morte, ma sì bene prendono terrore del cicalare del volgo e saliva della plebe, reclamando anco di lei651, che sia indegna di annoverarsi fra le più nobili virtù, trahendo ben spesso li suoi natali dalla stupidità et inhumanità, et anco dall’istessa pazzia, deliberando di perdere se stessa per conservare mediocri commodi di quelli, che come insana la disprezzano, e scherniscono. Né la costanza benché tanto affine alla fortezza, dalle mani di costoro poté scapare, appellandola dell’animo contumace usciera, ché sovente ostacola et impedisce l’adito alle più opportune occasioni e benigni incontri, divolgando che l’homo constante non esser diverso di imprudente nochiero, che invece di destragiare652 et orzare653, con il vento e flutti marini vuole accozzare e che se li vitii sono spetii di insanie, questa è la più biasimevole per essere maggiormente durabile, siccome che le manie sono per la loro continuatione più nocivi, che le frenesie insultorie e brevi. Da quindi sortì, che la gloria fine et oggetto di ambe queste due preclare virtù, incontrò da questi l’istesso strapazzo. E che non dissero contro essa? Appelandola oggetto di sogno di vigilanti, e spettro di sani deliranti. A che fine dicono questi pravamente sapienti, lasciarsi dalla fortezza e constantia persuadere di pericolare anzi perdere la vita? Forsi per l’acquisto della memoria appo li posteri? Ma qual acquisto può esservi, mentre che l’acquistante non vi sia? Ma questa tal memoria ove deve rimanere impressa? Nell’animo delli ignoranti arrolati da

    SOCRATE

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    noi nella classe di menticati654 e pazzi? Onde il ritrovarsi ivi l’imagine della virtù delineata, non diverso sarebbe, che il disiare che il ritratto della nostra imagine, fosse dipinta sopra quei vasi ch’a contenere abominevoli escrementi sono dedicati. Nemmeno possono sperare tali homini forti e costanti, scialacquatori e prodighi della propria vita che il simulacro della loro virtù risieda nella mente de veramente savii, havendo questi per instituto di non admettere nel lor animo alcuna admirabilità, e stupore, essendo tali alterationi [295] prole della ignoranza dal loro animo affatto sbandita655, havendo sempre in bocca: Nil admirari prope res una numici Solaque quae potest facere, et servare beatum656.

    Da quindi è, che tali sapienti lontani sono di arischiare la loro vita, overo la fortuna, per il commodo altrui, anzi stimano che la codardia publicamente sia tiro di somma prudenza e degna di comendatione, ché se lodato fu Prencipe che per salvare una egregia pittura d’Appele657 elaborata, perdonasse ad una grande città contra d’esso iniquamente infelonita, appregiando più quella superficiale pittura et opera di virtù, che la vendetta di molti scelerati ribelli, tanto maggiormente contendono questi che sia scusabile la loro codardia, ché antepongono la conservatione di se stessi, in cui vi risiede la loro dotta mente, ritratto nel quale vi è dipinto non solamente quello di presente nel mondo si ritrova, ma mediante la memoria, quello vi fu, et anco ciò che vi sarà, se attentamente osserva il passato et il presente, e non solamente conserva le superficiali lineamenti e colori, ma l’idee delle interne essentialità. Stante ciò secondo il lor dogma, non fuor di proposito dissero, che il filosofare altro non sia, ch’il meditare la morte, parendoli che oltra modo terribile sia, ché perciò a renderla facile con la imaginaria frequenza e pratica, riesce meno spaventevole. E per il certo le grandi preparationi che li filosofi apportarno per patientare la morte, è inditio manifesto del gran timore che ne concepiscono, siccome che l’armarsi straordinariamente

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    Oppongono alla temperanza

    SIMONE LUZZATTO

    di corsaletto658, braciali, gambieri, elmo e visiera, dinota tenire del nemico straordinario timore et horribile spavento. E quello che ho detto del dispregio della gloria che tali tengono, bastarebbe a manifestarti in quanto poca stima hanno le virtù, essendo vero che contempta gloria contemnuntur virtutes659. Ma tuttavia giacch’il tempo me lo concede, voglio proseguire in narrarti [296] quel|lo circa alcune altre virtù fu da essi divolgato. Hor dunque dicoti, che né anco verso la temperanza l’antedetti sapienti punto moderati sortirno, imponendole che sia occulatissima interessata et avantagiosa calculatrice di piaceri, spiando accuratamente quali siano li diletti più durabili e perseveranti, anteponendo questi alli vehemennti ma transitorii, onde da essi fu concluso, che intemperantia temperantes sumus. Ma di più tanto oltre si condussero nel caluniarla, che immeritevole del nome di virtù la giudicorno, e che piuttosto falce di vitii e freno di sceleragini appellare si deve, essendo la temperanza semplice espulsiva di vitii non apportatrice di alcuna egregia virtù com’anco il sonno da essi ci disvia, e distolle, seguendo di più che non meno assordo comette colui che arrola la temperanza nelle virtù, di colui, che la privatione fra li principii delle cose naturali annoverò. Onde l’habito di essa secondo questi, non in diverso modo si diporta con l’humano animo, che le catene e ceppi con li forsenati e pazzi, aggiungendo essi di più che il solo fugire dalli piaceri per timore di660 non essere da essi sconvolto e superato, indica piuttosto codardia e pusilanimità, che carettere d’animo valoroso e virtuoso. Ma tale pare che sia quel tale, che tenendo pratica e famigliarità con li piaceri non si lascia da essi dominare et opprimere. E perciò alli compagni di Ulisse li fu otturato l’orecchi, acciò non udissero le lusinghevoli e micidiali cantilene delle sirene, ma egli bene le ascoltava e non l’offendevano, essendo legato all’antene della ragione, che governava la nave, cioè la sua persona. E di più dicono questi, che l’animi capaci di risalti et eccessi, riescono conspicui nel proseguire le661 più eccelse et eminenti virtù e che l’innestamento del vitio nella virtù

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    produce effetti mirabili, onde per il contrario li spiriti dalla temperanza assolutamente domati, e da scossi et impeti gagliardi non agittati, il più delle volte nell’operare languiscono. Per il che appare che sovente alcuni vitii siano li vehicoli e promotori delle grandi virtù, e per il certo dimostrano con effetti non [297] meno che con le parole, questi tali ingiusti dileggiatori della temperanza, quanto le sono nemici et al piacere a tutta briglia sono inclinati, mentre che tali sapienti si distragono da loro proprii et attinenti affari, per un lieve prorito, e fievole titilamento662 de piacere che sentono nel speculare d’onde derivi lo strepito della cicala, con quali muscoli saltella il pulce, e per qual cagione l’ape con esagonale figura formi la sua meliflua cella. E tanto più riesce ad essi pregiudiciale tal piacere, quanto che non come le altre volutà tiene li suoi limiti e periodi, poiché l’istesso nostro corpo che tanto di esse si trova avido e le concede amorevole hospitio, alla fine osservando le loro offese, overo la sua invalidità, da sé le discaccia e detrude. Ma li diletti mentali una fiatta che ci habbino sorpresi, giamai ci lasciano, né da essi sbrigare si potiamo, et in ogni tempo e loco ci insidiano et infestano, non prendendo da noi comiato se non all’ultimo anhelito. Né l’affabile amicitia poté con suoi benigni accoglimenti contrahere con costoro alcuna domestichezza, et evitare li di loro colpi, asserendo questi che fra le fintioni di poeti essa annoverare si dovesse, non possedendo real esistentia se non in voce e parole cavillando l’istessi che fra simili l’amicitia trovare non si può, dimostrando l’esperienza che piuttosto nemistà fra tali vertisce per la emulatione e garegiamento che vi accade, che ad occupare il medesimo fine ambi li simili attentano. Oltre che pare che non si possa formalizare qual sia il diletto e piacere che il simile dall’altro simile carpisca e prenda, siccome anco l’unisuono non genera alcuna dilettevole consonanza: Cum est sicca terra, ipsa certe cum imbre amat Cum turget ether imbre cum caelum tumet

    Filosofi amici del piacere

    False calunnie dell’amicitia

    SIMONE LUZZATTO

    382 Affectat ut telluris in sinus cadat663. Falsa instanza contra l’amicitia

    Dfesa della superbia

    Ma né anco fra li dissimili può esservi amicitia, poiché non pare admissibile che essendo la dissimilitudine e diversità [298] prin|cipio et origine della nemistà, onde non può essere comune madre anco all’amicitia, e però non è imaginabile ch’il dissimile in quanto tale sia cagione di corrispondentia e repugnanza. Ma non trovandosi li natali dell’amicitia né fra simili né dissimili, presero a calunniare l’istesso amore, publicandolo spurio, nato da certo incestuoso matrimonio seguito fra la copia e bisogno, perché chi fra noi non ha bisogno di alcuna cosa, non l’ama, e chi affatto non ne tiene nella mente alcuna fissa idea non la conosce, né sa che li sia attinente. Colui che ama un oggetto bello, ne possiede nell’animo alcuna imaginaria participatione, ma anco si sente bisognoso di affatto possederlo. Ma di più verso l’amicitia presero a dire, che accordandosi anco li più sinceri morali che l’amor proprio sia l’architipo originale di tutti li altri amori che si tiene verso altrui, decantandolo legitimo, antico, et immortale padre di tutti li altri amorini che alla giornata si producono, e periscono, conviene dunque per il certo alla bene morigerata sua prole regolarsi sempre conforme li paterni profitti et utili. Di più l’istessi dileggiatori imposero alla amicitia, che tenga leggi diverse da quelle della giustitia che comunemente reggono l’humano mondo: queste vigilanti, occulate, rigorose et inflessibili, quelle conivienti, trascurate, piacevoli, e pieghevoli alla voglia dell’amico. Onde perciò contendono questi, che sia anco giovevole lo stimarla ideale e priva di vera esistentia, adducendo di più che segno di ciò, che per la lunga serie dell’antichità non s’annovera altro che Damone e Fithia664, che siano stati sinceri amici, ché essendo l’uno di essi da crudele tiranno condannato a morte, e volendo ire alquanto lontano dalla città per accomodare i suoi affari, propose al tiranno di darli per malevadore et assicuratore del ritorno, il suo compagno, che se non adempiva la promessa, sopra questo cadesse la rigorosa sentenza, et essendo non meno

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    dal re accettato, che dal vero e cordial amico eseguito il partito, avenne che nel giorno terminato al regresso, il [299] dannato per liberare l’amico, si constituì e ripose nelle mani del re. E chissà se ciò fosse piuttosto figmento de scrittori per dilettare con alcuna admirabilità i lettori, che racconto per informare altrui della verità. Alla fine a tal segno si ridussero, che non si arrossirono di affermare, che essendo li sapienti a se stesso sufficiente, il culto della amicitia li sia indecente, adducendo che li animali più deboli sono gregali, li potenti e vigorosi, solitarii et insociabili. Né l’innocente humiltà scansò l’ingiurie, dicendo questi, che s’è pratticata verso li maggiori, è debito, con li eguali, è discapito, et offesa usata contro chi l’esercita, se rispetto l’inferiore, sconvenevoleza repugnante al natural corso, che il maggior e più vigoroso supera, e l’inferiore socombe. E di più divolgarno, che siccome il proietto che con maggiore forza verso la terra è cacciato, con più alto rimbalzo ascende, così sovente quello che maggiormente s’abbassa, aspira a più sublime grado sollevarsi. E l’esperienza volgare dimostra, che li formalisti cerimonieri, riescono li più puntuali osservatori delle altrui inadvertenze, che verso loro si comettono. Ma non havrebbero a sufficientia adempito questi calunniatori tutti li numeri della loro malitia, se non havessero preteso anco di comendare li più horrendi vitii. La superbia intrattabile, e fra vitii il più odioso, fu da questi lodata espultrice delli altri vitii, ché nell’animo ove essa allogia conviene a quelli pigliare congedo et esilio. Detrude da sé anco l’ambitione, con la quale essa tiene tanta allianza, dovendo quella per via della humiltà e somissione progredire nelli honori e pervenire al fine di suoi attentati. Né dissimile incontro accadé alla avaritia, celebrata da questi, nemica del lusso, temperata, mansueta, tolerante dell’ingiurie, alle fatiche patiente, provida dell’avenire, ratenuta nelle intraprese, circonspetta nelli affari, timorosa delle comuni leggi in quanto non contrastano a suoi progressi, offitiosa se non nella profusione, almeno nelle semplici attioni,

    Instanze contra l’humiltà

    False difese di vitii

    Falsa difesa dell’avaritia

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    Falsa difesa della prodigalità

    Falsa difesa della invidia

    Falsa difesa della discordia

    SIMONE LUZZATTO

    et insomma delle republiche vigilante conservatrice, poiché ove essa regna li [300] tiran|ni non sorgono, ché questi senza le fattioni languiscono, né queste senza la prodiga profusione de danari esistono. E nelli regni anco che li dominanti sono avari, se non difondono del suo, non prendono di quello d’altri per reintegrare li loro mancamenti. Né perciò la prodigalità alla avaritia contraria, fu priva delle sue comendationi, celebrandola vera medicina delle disordinate repletioni665. Questa con salutare flebotomia666 leva il superfluo, e deprime il turgido, e riduce il genere humano ad una eguale e salutare temperie. Oltre di ciò l’invidia, benché disconcia di vista, e d’occhio losco, non trovò appo li sudetti maligno, e bieco sguardo. Anzi riportò da essa lode, essendo comendata che sia stimolo alla virtù, et eccitante alli animi tiepidi, riuscendo più efficace nell’animo humano il suo tacito parlare ad invitarlo alle attioni egregie, che tutta l’eloquenza del nostro Isocrate, e la dottrina del tuo discepolo Platone. E sebbene che sovente attraversa li fatti egregi, et impedisce la remuneratione a chi si deve, ciò non accade alcune volte senza profitto notabile della republica, esercitando essa un salutare ostracismo, poiché quasi sempre l’eminente et immoderatamente insigne virtù, riuscì sospeta al ben comune, e non rare fiatte nociva all’universale commodo, essendo ben spesso solito, che colui che apprestò al publico alcuno notabile servigio, con esorbitante et illegitima usura ne pretende la ricompensa. Oltre che la invidia serve per cimento e saggio per riconoscere la vera e sincera virtù, repurgata da ogni feciosa scoria. E la discordia benché rissosa e sempre contendente, da tali turbatori come ad essa conformi667 ne riportò elogio, lodandola, che come il mare mentre che sia quieto, et in bonacia, riesce inhabile alla navigatione, e l’aria non agitata da venti, si deprava e corrompe, cosi la humanità quando da turbini di discordie non fosse alterata, devenirebbe affatto inetta e scioperata. Onde fu detto che la guerra fosse la scola della virtù, e l’otiosità

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    della pace, nutrice di vitii. E chi direbbe che anco la crudeltà, vitio piuttosto ferino che humano, trovasse chi la scusasse? Divolgando essi che sia una ottima purga delli [301] animi. Li strani essempii sono quelli che profondamente s’imprimono et affissano nella memoria. At quidam insontes peribunt, nam ex effuso exercitu cum decimus quisque fuste feritur etiam strenui sortiuntur. Habet aliquid es iniquo omni magnum exemplum quod contra singulos, utilitate publica rependitur668. Ma quello avanza ogni credenza, che insino l’infedeltà fra li vitii a mio credere il più infame, ritrovò appo costoro recapito et alcuna protettione, cicalando essi che la privata infedeltà sia vigilante custode della publica fede, ché se quella sicura si trovasse fra li minuti homini, infinite sortirebbero nelle republiche e regni le coniurationi e seditioni, ché assistendo l’infedeltà con linceo occhio tratiene et impedisce che l’uno con l’altro non comunichi et affidi li suoi scelerati pensieri. Ma troppo importuno sarei se compilare volessi tutti l’eccessi che da hodierni filosofi si sono introdotti, et in particolare nell’imporre nome di virtù a vitii, e così per il converso. Ma solo voglio aggiungere a tale divisamento quello che publicarno circa l’ultimo fine al quale devono l’homini incaminare il traino delle loro attioni, e quale sia la mira alla quale indrizza il suo riguardo la mente, per scopo di tanto anhelare. Et è degno di osservatione, che giammai fra medici fu contraversato intorno il fine della medicina, accordandosi tutti unanimi, esser la sanità de nostri corpi. Fra l’homini militari fu parimente aggiustato, che il fine della guerra sia la vittoria. Tuttavia fra filosofi morali non è questione più inviluppata, e dubbiosa, che quella che si travaglia circa il riconoscere qual sia l’ultimo scopo delle humane intraprese, overo sommo bene che dir lo vogliamo. Né giamai fu da gramatici tanto acramente altercato circa la patria di Omero, e la navigatione di Ulisse, quanto da questi sapienti in proposito dell’ultimo fine dispetosamente fu digladiato. Vi furno che asserirno, che esso fosse il piacere, a cui collimare dovessero tutti li nostri attentamenti.

    Falsa difesa della crudeltà

    Falsa difesa dell’infedeltà

    Varie openioni circa l’ultimo fine dell’homo

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    Diverse openioni circa l’utimo fine

    SIMONE LUZZATTO

    Questi si divisero in due classi, l’una ponendo per fine non solamente li piaceri presenti, ma li passati, e venturi, che aspettano. Altri si restrinssero alle instanti volutà, rifiutando l’altre come aerie e vane. Altri posero il fine nella indolenza. Altri nell’honesto. Ad [302] altri piacque l’estirpatione totale delli nostri affetti. Ad altri bastò la loro moderatione. Ad altri parve, che il seguire il dettame della semplice e sincera natura, fosse la mira de’ nostri proponimenti, né più oltre conveniva trapassare. Altri credettero che la speculatione circa le cause de mirabili effetti della natura, fosse il bersaglio di nostre intraprese. Ad altri piacque che piuttosto fosse la cognitione di noi medesimi. Altri stimarono che la mira a che dobbiamo indrizzare tutto il nostro sapere, sia l’indurci a tal conditione che il tutto ci riesca indiferente, tanto le cose a noi esterne, come anco l’oggetti del nostro animo, di modo tale, che si potiamo ad ogni caso della fortuna accomodare, et a qualunque openione asestare et aggiustare. Alcuni proferirono che l’ultimo bene humano consista nell’esercitio delle morali virtù, e nell’attualmente praticarle. Altri di più mite et indulgente ingegno li bastò il loro semplice habito. Altri posero il fine, nella sanità del corpo. Altri vi aggiunsero quella dell’animo. Altri nel dominio et imperio. Altri si contentarno che almeno ad altri non assogettarsi, et alla libera vivere. Altri nell’accopiarsi con un certo intelletto agente che c’illumina nelle nostre speculationi constituirno la nostra ultima felicità. Altri pensarno che non vi fosse alcuno ultimo fine, ma che ogni nostra attione sia a se stessa meta, e che perciò l’homo sapiente vivere debba alla giornata, havendo sempre per meta il tempo instante, giudicandolo possibile termine della sua vita. Ma altri essendo in tutto incerti e flutuanti non riconoscendo, né ciò che sia fine, né mezo che ad esso ci conduca, promulgarono, che non si deve ad alcun fine indrizzarsi, ma seguire il calpestio, e frequentare li vestigi della comune folla delli homini. Non mancano altri pareri circa l’ultimo fine delle humane attioni, a

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    segno tale, che nella nostra città di Atene, nel medesimo tempo s’anoverarno al di sopra di doi cento e nonanta openioni circa tal proponimento. Né di ciò molto mi meraviglio, poiché tutti questi stimarno che il bene consista nel conseguire [303] certa convenevolezza che tengono le cose l’una con l’altra. Da ciò ne segue, che esso bene conforme questo, non tenga una ferma e stabile essentia, ma mobile e variabile secondo la diversa dispositione delli homini e diferente incontro che nelle cose da essi desiderabili occorre, siccome il grande è tale, abbatendosi nel minore, ma se in maggiore di lui, picciolo di novo appare. Nell’istessa guisa moltiplice riesce l’aspetto del bene, siccome che ad alcuno sortisce convenevole e da altrui l’istesso è regetto, come ad esso indecente. E per il certo tu, Socrate, tieni esprimentato, ch’essendo stata a mio credere la tua dottrina a tutti li tuoi scolari e famigliari uniforme, nondimeno essi a diverso stile di vita si appigliarno. Platone alle dottrine filosofiche et ad una guisa di sublime eloquenza si applicò. Aristippo a piaceri e vita sontuosa si dedicò. Xenofonte all’arte militare, et ad un placido e moderato modo di scrivere, tutto s’impiegò. Antistene, la rudità di costumi e libertà di vita seguì. Tehetetto scielse la vita civile. Euclide alle matematiche si sequestrò. Et Alcibiade alcuno spetiale instituto di vita non abbraciò, ma dispose il suo animo talmente snodato e sciolto, che può facilmente prendere qualunque maniera di vita, che la volubile et insultoria fortuna l’appresentasse. Onde, Socrate, con essempii domestici puoi conieturare quanti varii visagi possiede il bene, e che conforme che il volgo delli homini si propone, agevolmente il concetto di esso sia cangiabile e transformabile. Ma se la scorta del nostro anhelante, et affaticato intendimento, in additarci l’ultimo scopo delle nostre intraprese, ci riesce tanto dubbiosa et incerta, quanto meglio ci avenirebbe se ommettendo tali cavillose dottrine, di nuovo nelle braccia della natura ci restituissimo che con suoi taciti instinti et occulti semi lievamente coltivati, è per riuscirci

    Bene si trova nel convenevole

    Si deve gettarsi nelle mani della natura

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    Reprobatione della sentenza che li Re toccasse filosofare over li filosofi regnare

    SIMONE LUZZATTO

    non meno nostra pedagoga e maestra nella maniera del vivere, che produtrice et alimentatrice. Onde secondo il mio conieturare, l’homo da essa disciplinato è per divenire come prima retto nel giudicare, incolpabile nell’ellegere et [304] inno|cente nell’operare, e sempre unito e concorde con se stesso. Da ciò che insino hora tengo divisato, aTpprendere puoi quanto sortisce reprobata quella sententia dalli homini volgari celebrata, cioè che allhora, beato il genere humano divenirebbe se li filosofi regnassero, overo che li Re filosofassero ché per il certo se tale disaventura accadesse, a mio stimare, non solamente senza alcun rispetto da questi con lor cavilli sarebbero spallegiati li vitii, e senza l’addobbamento e vestito delle virtù si renderebbero palesi e manifesti, ma insieme rimarebbe oppressa ogni cultura della vita civile. Rappresentati, di gratia, Diogine sopra il dorso del suo doglio assiso, di vili cenci addobato, e con il suo ruvido bastone invece di gemmato scetro in mano, che dispensi leggi, promulghi decreti a popoli, prohibendoli con grave pena qualunque minutia et atomo di affetti, e scrupulo di piaceri, a quali assordità et indecentie capitarebbe il nostro genere? La terra rimarebbe in gran parte priva di cultori, riducendoci all’antiche ghiande et all’insipida acqua. Onde non più si edificarebbero città, erigirebbero palagi, coltivarebbero hortagi, e l’istesso homo con la total mutilatione de suoi naturali affetti, e privatione di corporali diletti, non diverso rassembrarebbe che ruvido tronco di arbore, reciso di rami, spogliato di foglie, sbarbicato di radici, e denudato di cortecia. Rafiguratilo senza alcun talento di ambitione, alletamento di speranza, stimolo d’ira, comottione di misericordia, attrattione d’amore, prorito di piaceri, e gusto di qualunque diletto tenendolo con il dolore indiferente. Non si ridurebbe egli alla classe delle pietre, e forse al di sotto di esse, ritrovandosi la magnete da incentivi di amore et odio ingombrata? Ma di più chi non osserva che eliminati et estirpati

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    da noi assolutamente li affetti, per conseguenza si accomiatarebbero da noi le virtù, tanto da essi filosofi acclamate, a quali incombe li affetti reggere e moderare? Nelli governi civili spenti che siano li nemici, conviene a quelli che manegiano l’armi deporle, et a capi della militia renontiare al militar [305] co|mando. Così parimente per necessità ne segue, che abbatutte et estirpate le perturbationi che il nostro animo infestano, che cessi parimente l’esercitio della virtù, e siccome nave posta in tranquillo e calmato mare, il di lei timone punto non la regge né la governa, ma sì bene mentre che si trovi in corso e da venti spinta, e da flutti marini agitata, ch’allora agevolmente alla poca inclinatione di esso obedisce e si volge. Così anco la virtù timoniera dell’homo, poco o nulla vale, quando esso homo con la totale privatione di passioni sia affatto quieto et intorpedito, e come affisso se ne stia. Per il che si è osservato che l’homo essendo agitato da vehemente moto d’ira, dall’impulso dell’interno dettame669, overo d’esterna persuasione, essersi condotto all’estrema meta di clemenza, a guisa di inalzato pendolo, che quasi che altrotanto che ad un lato si solieva, all’altro contrario si conduce et ascende. Ma oltre di ciò dico, che in quanto a piaceri, che profligati che questi fossero, l’humano consortio si discioglierebbe, perché il diverso genio che tengono li homini in seguire diversi diletti, risveglia la cultura di varie arti, da che sorgono differenti maniere di procacciarsi il vitto, cessando l’invidiose emulationi che sono fra quelli che tragono il loro mantenimento dalla istessa professione. Ma di più non saprei imaginare, in che modo lo sfugire li piaceri, et abhorire i lussi, si aggiusta e possa seguire con il regnare di filosofi, over filosofare di re. La bellezza dell’oro, lo scintillare delle gemme, la vaghezza della porpora, lo splendore della seta, la sontuosità de palagi, la comitiva del satelitio, la copia et esquisitezza di cibi, il scialaquamento della cucina, sono quelli, che admirati dalla scioca plebe, e riescono più efficaci ad attrahere la riverenza dal minuto popolo maggiore

    Ad homo senza passione la virtù inutile

    Utilità de piaceri per l’humano consortio

    390 L’homo antepone l’apparente all’essentiale

    Non conoscere se stesso utile

    Ovidio De arte amandi

    SIMONE LUZZATTO

    portione, che li dotti ragionamenti, e gravi sentenze, che sortiscono invalidi ad impulsarlo all’obedienza et ossequio di legitimi comandanti. Il più delli homini discorrono con l’occhi, et il meno di essi con la mente. Sovente il posessore per il posseduto, l’interno essentiale per l’esterno [306] adven|titio, il vero per il fititio, si tiene in veneratione e stima. Il volgo circa l’appreggiare li homini, pratica il contrario di ciò che nel riconoscere li generosi cavalli s’osserva: questi volendoli mercare670, spogliati di selle, et altro arnese procura671 mirarli, ma nel giudicare il valore del suo congenere non altrimente, che infagotato di ricchezza, et ornato di honori e nobilità lo considera. Ma quello è peggio che non solamente nel riconoscere altrui si comette tal difalta, ma nel rimirare se stesso sì pravamente s’inganna e delude, che pure riflettendo l’animo sopra se medesimo tali oggetti non vi s’infrapongono. Ma da tali illusioni che noi pratichiamo circa il proprio riconoscimento, ne potrebbe derivarci per mio aviso salutare documento, et è, che essendo l’homo ignaro di se stesso, e ciò a mio credere riesce impossibile per le ragioni da te narratemi, rimane parimente sopito e come estinto l’inordinato amore, che verso se stesso il comune delli homini tiene, essendo tal intemperata philautia672, origine e seminario de irregolati affetti et enormi vitii che si comettono. Tal consequenza da ciò sortisce, che l’amore sempre supone il riconoscimento dell’oggetto amato, che altrimente esistere non può: Quod latet ignotum est, ignoti nulla Cupido673.

    Onde ignorandosi se medesimo, riesce impossibile che vi sortisca né anco mediocre amore tra l’homo e se stesso. Ma tali ingannati inamorati amati, invece di loro stessi, certa altra aliena fantasma e strano spettro prima admirano, e doppo irregolatamente amano et idolatrano, seppur l’animo invece d’esso medesimo, amoregia non dirò la sua carcere, ma almeno il suo addobamento e domicilio cioè il corpo che li appresta hospitio e vestito. Da quello ch’insino hora teco ho divisato, facilmente

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    apprendere e raccogliere puoi, che non despicientia che io tenga con il nostro genere, né aversione ch’io professi contra la società civile, mi indusse a questa [307] solitudine, ma l’havere esprimentato qual sia l’indole di hodierni homini dalla moderna filosofia depravati e sconci, benché dal volgo sinistramente ciò sia interpretato e da esso odiatore dell’homini son appellato. Ma la verità è, che io implacabile adversario solamente sono de loro ignoranze e vitii! E se a questa mia diserta magione alcuno incontaminato ingegno, non punto depravato da aliene dottrine, capitasse, ma tale quale dalle mani della sincera natura scapò e ritenessi quelli primi semi di humana ragione che li fu da essa sugerito, assagiarebbe qual fosse la mia piacevole urbanità e grata cortesia da fuci674 et inganni affatto remota. Onde non come che l’idioti mi infamarebbero con l’improperio di misanthropus, ma piuttosto con l’encomio di philantropus, cioè amator dell’homo mi honorarebbero, procurand’io ridurli a quella conditione di eccellenza, che già egregio homo non nella Grecia nato né con nostri costumi educato nelli suoi divini monumenti espresse: Deus fecit hominem rectum, et ipsi requiserunt cogitationes multas675.

    Né a caso e per errore incorse in discordanza gramatichale, prononciando primieramente hominem singulare et ipsi plurale, ma con somma prudenza ciò comise, volendo significare che l’homo spicato dalle mani di Iddio, overo dalla natura sua serva, non solamente fu retto, ma con se medesimo concorde et unito, ma poi depravato dalla curiosità del troppo immoderato sapere, e cavilloso indagare, divenne in se stesso diviso, moltiplice, e con se stesso repugnante. Stimarei, o Socrate, che rimani a satietà persuaso, a comunicare al genere delli homini di cui ti mostri tanto amico, la fiachezza del suo intendimento, e perciò admonirlo alle retentioni dell’assenso, e sospensione del proprio giuditio, dal che ne seguirà l’evitatione e scansamento di tanti incommodi, come dal mio ragionare

    Homo da principio retto, e doppo depravato

    392 Non si deve dubbitar che si avilisce la conscientia

    Affanno di Socrate in dest ugere le sue openioni

    Timone persuade Socrate a pigliarsi trastullo della vanità degli homini

    Lucretius

    SIMONE LUZZATTO

    tieni appreso. Né punto dubbitare devi, che rendendosi il proprio giuditio discreditato, et incolpato di falsità, che perciò il tribunale della conscientia al quale assiste la mente humana rimanerebbe avilito e privo di autorità, poiché invece di essa, [308] è per subintrare la maestà della natura, che con maggior decoro è per additare il sentiero del bene e revocare dal male. Ma prima che tu, Socrate, tanto di salute apporti ad altrui convienti deporre la grave salma delle apprese da te dottrine, che tengono aggravato et incurvato il tuo animo ché oltre il discaricarti da tal peso, ti liberarai da continua noia et affanni, che stimo non poco ti affligono: cioè che producendo continuamente il tuo intelletto copiosa prole di dogmi, doppo haverla per tratto di alcun tempo educata, sforzato dalla evidenza riconoscendola falsa e monstruosa, nella guisa che ordinasti nella tua ideale republica circa li assordi e sconci parti, con ferina crudeltà la destrugi et annienti, divenendo homicida di tuoi proprii figliuoli. Ma per meglio habituarti in sì proficuo proponimento, consiglioti che meco dimori, godendo ambi noi qui in comune quelli soavi frutti, che la natura aiutata dalla nostra industria, liberamente ci produce et offerisce, et alle fiatte trattenere il nostro otio, insieme, trastulandoci nel rafigurarci con la mente quelli ludicri spettacoli che nel teatro del mondo l’homini, e particolarmente quelli che del loro sapere più si appaga, gratis ci rappresentano. Onde noi a guisa di quelli che in loco sicuro trovandosi, mirano il battagliare di insana gente, che il suo sangue difonde per cui giammai non vide né conobbe, over simili diveniremo a colui che sopra rupe marina stando, scorge la pericolosa flutuatione di nave, che per far acquisto di superflua merce, alli asfalti di rabbiosi venti et indiscreto mare s’espose: Suavi, mari magno turbantibus equora ventis E terra magnum alterius spectare laborem676.

    Ma se contumace in seguire il camino intrapreso perseveri, calpestando il sentiero che ti additano

    SOCRATE

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    l’hodierne discipline, e che ricusi doppo l’havere fatto meco alcuna dimora [309], manifestare all’homini l’imbecilità del loro ingegno et incertezza di dottrine, avisoti che hora hora accomiatarti da me ti devi, e non apportare disturbo alla mia pacatissima quiete, ché sebbene riguardando a tuoi buoni costumi, odiarti non mi lece, mentre che sei imbevuto dalli volgari amaestramenti et usi, conforme il mio preso instituto, teco vivere mi è interdetto et impedito”. Qui fece termine il favellare di Timone. Onde io con brevi parole li soggionsi, che non poco mi aggradì il suo libero parlare, e saggia instrutione, e che molto lo ringratiava del suo cortese invito, offerendomi il meco famigliarmente cohabitare, ma che il tratenermi seco, e seguire il suo instituto, non me lo permetteva il mio genio, sempre a giovare altrui propenso, ma che da indi partendomi, conforme li suoi documenti e persuasioni, harei alli amici e miei famigliari propalato il suo ragionare, et admonitili conforme il suo parere alla retentione dell’assenso e sospetione del giuditio, e che seco prendere diletto dal vanegiare delli homini come che in pericolosa battaglia e turbolente mare travagliassero, punto non approbavo, ma che la naturale carità che ad altrui si deve, mi chiamava a prestarli aiuto e sufragio. In tal guisa da Timone presi congedo. Onde ruminando e riasumendo di novo il ragionare di Hippia e Timone, e conferendo l’uno con l’altro, ad esso Timone, et alla sua proficua instruttione inclinai. Per il che stimai essere spetie di dannata avaritia rattenere appo me quello che giovare potesse a miei consorti, et amici, tanto più che facendolo comune io non ne pativa alcun detrimento e danno. Onde tutto quello che in sì lungo o travaglioso mentale discorso mi occorse, che circa l’esame di me stesso e dell’humano sapere mi accadé, a miei famigliari avisai, e che l’incertezza del sapere et imbecilità del nostro intendimento fosse la messe e raccolto da tal stentato e laborioso impiego. Ma l’aggiunsi che l’abbandonarsi affatto alla cecità dell’ignoranza, come già fu esposto, io bene stimava che non poco di nocumento apportarebbe al [310] nostro genere. Admonii alli miei domestici, che nell’attioni all’uso della vita attinenti, seguire dovessero la direttione del probabile,

    Timone repulsa Socrate di cohabitar seco e fine del ragionare di Timone

    Conferisce Socrate insieme il parlare di Hippia, e Timone, et inclina Timone

    Non si deve abbandonarsi alla ignoranza, ma il seguir il probabile

    Admonisce al seguire il probabile

    394

    SIMONE LUZZATTO

    non punto testarecio e cavilloso, alle opportune occorenze pieghevole, e più esecutivo che discorsivo, il quale nell’uso della vita morale, non allontanandosi per molto intervallo da primi semi che la natura nel nostro animo instilò, ché se non colpisce affatto nella verità, almeno non incontra nella insana contumacia, e pazza ostinatione, dovendosi stimare, che la migliore natura che fu tanto propitia all’homo nel concederli l’organi materiali tanto vicini alla perfettione, con li quali così agevolmente potesse conseguire li comuni usi della vita, li fosse riuscita meno liberale in prestarli alcuna norma, con la quale agevolmente indrizzare dovesse il corso della istessa vita, ché siccome non mediocre errore cometterebbe colui, che havendo fabricato nave con ogni maggior diligenza, et in tutto punto corredata, e provista di marinari, nochiero, e pedota, e si fosse poi trascurato nell’apprestarle carta navigatoria, e bossolo magnetico con quali dovesse normare il suo viaggio, e nondimeno a solcare l’immenso oceano l’esponesse, così anco rassembrarebbe assordo, che essendo stato constituito l’homo con tanto artificio e magisterio, e ch’a viaggiare nel mondo, non meno che mare scogliato e turbolentissimo destinato, che non li fosse infuso il dettame del probabile, indice che nel suo camino li mostri il bene che deve seguire, et il male che li conviene evitare. Ma piuttosto stimare si deve, che tacitamente la istessa natura ci sussura e con invisibile cenno ci addita quello che convenga tracciare e scansare: Lucano

    Heremus cuncti superis; temploque tacente Nil agimus non spontè dei, non vocibus ullis Numen eget, dixitque, semel nascentibus auctor Quidquid scire licet, steriles nec legit arenas Ut caneret paucis, mersitque hoc pulvere verbum677.

    [311] Que|sto è quel genio678, che da miei calunniatori mi è opposto che come Iddio partiale dicono ch’io lo reverisca, et adori, e che mi vanto che continuamente m’assista, e che nelli più gravi et importanti urgentie mi consiglia, in modo che mentre io li fui ossequente sempre li suoi avisi mi sortirno prosperi, e quando non l’acconsentii il tutto a rovescio et infelicemente mi riuscì. Ma se interrogato fossi a che grado di certezza tal probabile

    SOCRATE

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    arivasse, e che mi fosse opposto con dire che se la sincera verità ci è impedito il conseguirla, in qual maniera potrassi dire che il probabile sia almeno verisimile? Poiché mentre che l’originale e l’assimigliato ci è occulto et inaprensibile, non potiamo a modo alcuno affermare che altro li sia simile et alquanto conforme. Pittore che non conosce Pericle giamai non potrà dipingere il di lui ritratto. A tal obbiettione risponderei, che qual grado di certezza ottenga il probabile circa l’esata verità, et in qual maniera ci la rappresenti essendone di quella non informato, ch’io ne sia ignaro, ma ben conietturo ch’egli ci sia proficuo et oltremodo salutare, pervenendoci dalle mani della natura, più solecita con li effetti a giovarci, che con le discipline adottrinarci. E l’esperienza ci insegna, che quelli attioni che per il lungo habito meno intendiamo, più espeditamente eseguimo, ma quando che con il discorso le attentiamo, stentatamente, e non senza errore operiamo. Onde bastare ci deve, il sentire che la natura a tali attioni ci impulsa, benché del perché e del come siamo ignari. Non altrimenti dovemo esser disposti, che buon soldato che de fini e consiglii del capitano non inquirisce679, ma solamente con alacrità l’ossequio li presta. Questo è quello, ottimi Giudici, che con amici e famigliari ho conferito, dal che ne seguì contra di me l’odio quasi universale di tutte le classi delli hodierni homini. Et hora esprimento quanto fosse vero il detto del nostro Pericle, che nelle fattioni e guerre, la neutralità e via di mezo, quasi sempre riesce nociva a chi la segue, rimanendo alla fine questo, ad ambe le fattioni, poco amico e sovente acramente odiato. Il che senza [312] dubbio l’istesso a me accade, essendo da addottrinati odiato perché io dispregiai l’admiranda loro sapienza, né al volgo parimente amico, né hora da esso difeso, non havendoli io approbato la sua cieca e crassa ignoranza, ma antepostole il probabile e sommamente da esso volgo per la pessima consuetudine e licentiosa dissolutione corrotto, e depravato. Né perciò, ottimi Giudici, desperare debbo la mia assolutione, mentre che sotto l’auspicii della vostra integrità mi ricovro. E tanto maggiormente mi rincoro, et in essa mi confido, che il genio che giamai nelli più dubbiosi et ardui pericoli con suoi avisi non mi riuscì mendace, havendomi accennato che nel presente caso

    Che il probabile non si può affermare che sia verisimile

    Si deve seguire il probabile sebbene non sa ciò che sia

    Socrate divien né mico a dotti né amico alli volgari

    Genio l’accenna che non sarà dannato

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    Si difende che non attentò abbattere le vere virtù

    Si discolpa della deficientia della religione

    SIMONE LUZZATTO

    dannato non riuscirei. E di più anco fui confortato che sebbene arduo, e laborioso fu il principio di tal mio instituto, alla fine honore e gloria mi è per risultarne. Stimo ch’a satietà io habbia non meno esposto la cagione che m’indusse a tale retentione di assenso, che difesomi dalle colpe che circa ciò principalmente li miei malevoli mi hanno iniquamente accusato avanti il Vostro spettabilissimo Tribunale. Ma perché a questa loro principale accusa, hanno aggiunte alcune altre indoglienze680, conviene che di esse alcuna cosa brevemente io ne dica. Fui incolpato che io attentassi distrugere le morali virtù. Il che tanto è lontano, quanto io li promulgai figliole del probabile, legitime nepoti dell’istessa natura, onde che trahendo da questa li loro natali, non dissimili da essa li stimo, invincibili et immortali, ché perciò dalla oppugnatione di qual si sia acre disputa, rimangono inflessibili et invitte. E seppure dal pravo uso alcuna fiatta si piegano, di novo dalla natura invigorite, risorgono. Ma siccome queste legitime e nobili virtù celebrai, così le adulterine e fucate681, che da cavilose argomentationi, stentate e false dottrine sono prodotte, non niego esserne stato sempre publico nemico e caluniatore, essendosi queste dalla natura tanto divertite682 che non tengono con essa alcuna allianza et affinità. In quanto poi a quello mi è opposto della deficientia della commune religione stimo, [313] che li miei accusatori, dall’attestato de voi, Signori Giudici, rimangono affatto confusi e mendaci, bastandomi per mia difesa, che habbiate in ogni tempo osservato li ragionamenti publici e privati che ho tenuto circa la riverenza che si deve alla primiera, e più degna causa, che il tutto move e regge, havendo io sempre promulgato che la cognitione che di essa si tiene, e la veneratione che si li deve, non solamente da sottili e lontane dedotioni derivare, ma dall’istessa natura insieme con il latte ci fu imbevuto. Dal che procede che l’animo humano è tanto proclive683 e propenso alla religione, e divino culto, anzi che privato che fosse di tal impiego, non troppo discosto dalli bruti animali si trovarebbe. Né le cerimonie et instituti, dalla nostra città ordinati, circa l’osservanza della religione giamai dispregiai, né omessi, ma sempre conforme li riti patrii, nelli lochi convenevoli, tempi opportuni, e con modi legitimi publicamente sacrificai. E se

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    alcuna fiatta all’homini ignoranti m’opposi, riprendendoli della loro ridicola superstitione, o depravata religione, non perciò a guisa di giganti attentai detrudere Giove dal cielo, ma sì bene procurai levarli dall’animo quelli dispregiabili concetti che deturpano la bellezza e formosità della vera religione. Per il che alli affatti prdenti sovente nelle orecchie intonai, che custodire si debbino dalla infettione della superstitione, epidemio e grave morbo popolare, e che advertiscano che non rare volte la religione del vil volgo, è del sapiente esecranda blasfemia e che il vero tempio d’Iddio è l’animo del sapiente, nel quale con holocausti di amore e sacrificii di veneratione è adorato ma che però li riti da urbani magistrati ordinati in honoranza di Iddio, con ogni maggior esterno culto si devono osservare, e nondimeno le ridicole credenze, e vane cerimonie della plebe patientare si dovessero, insino che emergesse alcuna opportunità, che senza alcuna offesa eradicarle si potessero, riuscendo sempre più salutare con l’openione del volgo destregiare che accozzare, temporeggiare [314] che affrontare. Per mia discolpa altro non mi resta, se non che ramemorare vi dobbiate l’innocenza della mia passata vita, e sincerità di costumi, da qualunque illusoria simulatione aliena, e da ciò dedurre la fallacia e mendacità de’ miei malevoli ingiuriatori. Pertanto, Signori Giudici, tal concetto nel Vostro animo di Socrate formarete, che pure s’egli con il discorso della mente, come homo in molte cose errato havesse, nondimeno la dispositione della sua volontà, al bene comune delli homini fu sempre inclinata. Per il che non solamente si trova immeritevole de calunnia, ma piuttosto degno di comendatione e lode. Ma già il genio mi accenna che ponga fine alla mia discolpa, e di nuovo mi riaccerta e riassicura che non sono per riportare danno né nocumento alcuno, dal vostro giusto giuditio.

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    S I P R O P O N E C I O` C H E S I deve deliberare circa Socrate.

    Alcuni vogliono assolvere Socrate e rimunerarlo

    Almeone propone che si condanni Socrate

    La difesa di Socrate per alcuni giorni nella publica redunanza684 con non mediocre attentione fu d’Accademici ascoltata, e non poco di comottione nella mente de giudici cagionò, distrahendosi in diversi pareri i loro animi: molti non solamente inclinavano all’assolutione, ma di più stimavano ragionevole decretare a Socrate alcuna rimostranza di honore, comparandolo ad Ercole che scacciò dal mondo sensibile le monstruosità, onde questo dal mentale le detruse. Proponevano anco di più, che conforme il socratico parere si dovesse ordinare che nelle materie mere humane si dovesse sospendere per l’avenire il giuditio, e retinirlo in giusto equilibrio tra l’affermare e negare, evitando perciò li contumaci scoglii che sì spesso inducono all’intelletto naufragio, ma che di più anco, con felice successo dell’ingegni, l’eloquenza esercitio proprio dell’homo al sommo si condurebbe, havendo amplissimo loco di spatiare, non essendo ristretta, e contratta ad alcuno terminato e limitato dogma. [315] Et insomma concludevano che a risanare et appianare l’enfiature e tumori del nostro animo, riusciva tal sospensione di giuditio, ottimo rimedio. Ma Almeone685 di setta pitagorica celebre professore di dogmi, gagliardamente invehì contro quelli che attentavano di Socrate l’assolutione, reclamando che tale giuditio traboccava dalli limiti della clemenza, e che ad ogni modo sostenere si dovesse la dignità dell’humane dottrine, a quali si appogia il decoro del nostro genere, aggiungendo che tal affare era molto considerabile, e d’importante rilievo, per le cattive consequenze che dalla indemnità di Socrate ne sarebbero successe, e che ad un colpo si dannava e demoliva tutto l’universo intellettuale non meno amplo e difuso, che il reale, e che insieme si harebbe abolita la veneranda memoria di tanti celebratissimi homini, che hanno insudato686, per lasciare alla posterità venerandi monumenti della loro dottrina, e che Socrate si mostrò del suo proprio genere più nemico, che l’istesso Timone, havendo tentato con lo screditare le dottrine, indurre l’homini nel rolo de bruti, diversificando quelle, l’uni dalli altri. Ma Platone calcando una mediocre strada in tal maniera

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    apunto favellò: “Qual sia stata la riverenza che io verso Socrate, amico e precettore mio, habbia per il passato professato, evidente attestatione ne rendono li miei scritti havendolo sempre con filosofico decoro introdotto, e con la protettione del suo nome alla ventura posterità raccomandatili. Et anco credo, che non vi sia alcuno in questa nobilissima assemblea, che li sia occulto la stima in che tengo l’humane dottrine, havendo io per apprenderle, consumato non meno buona parte di patrimoniali haveri, che gran spatio del tempo di mia vita. Per il che privo di ogni partiale affetto, son per pronontiare il mio parere, circa il modo che tenire si deve nel giudicare Socrate. Stimo dunque ragionevole, che l’istesso instituto ch’egli tiene nel giudicare le cose che se li apparano, dobbiamo ancor noi verso di lui praticare. Ratiene egli il suo assenso, e noi sospendaremo circa esso il nostro giuditio, [316] né ad alcuna decisione peremptoria pro nunc diveniamo arrestando la sentenza difinitiva, insin tanto che ci emerga alcuna più evidente instanza che ci conduca ad assolverlo over dannarlo, in modo che hora rimanga libero a quelli che sinistramente di esso intendono il dire, che essendo stato citato, et intimate le difese, e non essendo assoluto687, che non affatto purgasse la sua colpa. Et ad altri di lui fautori < rimanga libero>, il pretendere che havendo noi esercitato verso di esso il proprio suo stile, di sospendere il giuditio, habbiamo il di lui instituto approbato, et accennata la sua assolutione. Da tale nostra deliberatione sortisce non solamente questo avanzo, che né Socrate affatto discapita della sua stima, né le dottrine rimangono discreditate, ma di più altro profitto ne seguirà, ché l’homini per l’avenire diveniranno alquanto più circonspetti, e rattenuti nel pronontiare con immoderata pervicacia, e come irrefragabili688 i loro dogmi, né così fretolosamente come solevano ad ogni vana fantasma il loro assenso apprestaranno, rappresentandoli che Socrate del suo proprio sapere riuscì tanto dubbioso e titubante, né di ciò fu dannato né schernito”.

    Platone propone che non si debba determinare cosa alcuna p r circa Socrate

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    SIMONE LUZZATTO

    Fu approvata et applaudita la proposta di Platone, e pro tunc lasciato l’affare indeciso. Dal che avenne ch’essendo stata l’accusa dall’Accademia accetata e non ispedita, la fama di Socrate diversamente sortì: al volgo delli homini apparì alquanto sospetta, non essendo seguita l’assolutione, ma alcuni de sapienti continuarno nel primiero buono concetto di stima che di esso già tenivano.

    APPARATI

    NOTE IL DISCORSO 1 Invito, ovvero “riluttante, restio” (lat. invito animo). La correzione proposta indirettamente da Lattes “invicta verità” non è necessaria. Sulla “verita restia” si veda VELTRI, Renaissance Philosophy, pp. 224-225. 2 Si veda il parallelo linguistico in Bacone, Novum Organum, 29: “Nuditas enim animi, ut olim corporis, innocentiae et simplicitatis comes est”. 3 Inclito, ovvero “illustre” (lat. inclitus). 4 Forsi, ovvero “forse” (lat. forsitan o voce dialettale). 5 La pagina 4r-v, omessa nell’edizione di Saletta, contiene la tavola ovvero l’indice dell’opera. L’autore aggiunge in calce dopo la tavola: “È la stampa sovente per molte cause, feconda d’inavertenze le quali tutte sono concorse nella presente impressione. Però s’implora la benignità del discreto lettore, che usi in ciò placida connivenza e facil indulgenza”. Il termine “connivenza” significa in questo contesto “tolleranza”. 6 “Havendomi proposto nell’animo”, così inizia il manoscritto del Discorso [Venezia, Biblioteca Marciana, It. VI 278, n. 7 (5882), fols. 101–119, fols. 104v–107v assenti. Legato Nobile Girolamo Contarini (1843), sulla costa “Relazioni di vari Prencipi”, citato come “Ms.B.M.”], di cui si riportano le variazioni di rilievo rispetto all’edizione stampata del 1638 (Roma, Biblioteca Angelica, C.7.68\1). Ms.B.M., 102r. Per un’edizione del manoscritto si veda VELTRI, MILETTO e BARTOLUCCI, “The Last Will”, pp. 125-146. 7 Ms.B.M., 102r.: “compendioso racconto et raguaglio dell’openioni”. 8 Luzzatto sembra qui parafrasare il famoso motivo del narrare “sine ira et studio” (“senza rancori e senza favore”) dell’incipit degli Annales di Tacito (I, 1, 5). È interessante notare che Luzzatto pone la sua opera sotto l’insegna di un motto tacitiano e che poi, nelle pagine successive, egli entrerà in aperta polemica proprio con l’illustre storico romano, accusandolo di aver descritto gli usi e i riti degli ebrei “cum ira et studio”. 9 Ms.B.M., 102r.: “tralascierò ad altrui l’admirare”. 10 Ms.B.M., 102r. dopo “credenza” aggiunge: “la tolleranza nelli travagli”. 11 Ms.B.M., 102v aggiunge dopo “proponimento”: “come apendice”. 12 In Ms.B.M., 102v, dopo “Venetia”: “ricoverandosi sotto li felici auspicii della Serenissima Repubblica”. 13 Emolumenti, ovvero “profitti” (lat. emolumentum). 14 Contumace, ovvero “ostile, sprezzante, ingiustamente ostinati” (lat. contumax). 15 Sonno, qui per “sono”. 16 In Ms.B.M. 103r, dopo “scelerati”: “che hanno commesso alcune enormi attioni”. 17 In Ms.B.M. 103r dopo “affetto”: “et riverente ossequio”. 18 Fulminato, ovvero “scagliato contro come un fulmine”. Tuttavia l’E-

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    NOTE

    sopo veneto (traduzione delle favole di Esopo nel volgare veneto risalente al XIV secolo) usa il verbo “folmenare” (XIV, capitolo 60, pagina. 57/25) nel senso figurativo di “dare in escandescenze”. 19 Perseverare, ovvero “continuare, persistere senza interruzione” (lat. perseverare). 20 In Ms.B.M. 103v: “mente”. 21 In Ms.B.M. 103v: “la comprobazione”. 22 A seconda, dicitura arcaizzante per indicare che si naviga “in direzione favorevole alla corrente”. Luzzatto aveva forse presente i versi di Dante, Purgatorio IV, 92-93: “Tanto, che sù andar ti fia leggero / com’a seconda giù andar per nave”. 23 Restia, termine marinaresco antico che designa il “violento moto ondoso del mare”, che impedisce alle navi di uscire dal porto. 24 Rissentire, nel senso di “svegliare, destare”. 25 Coroso, ovvero “corroso, eroso”. 26 In modo simile inizia anche il Machiavelli, Discorsi sopra, Libro I, “Proemio”, 3: “Considerando adunque quanto onore s’attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempi, un frammento d’una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo per averlo appresso di sé …”. Questo richiamo indiretto a Machiavelli è allo stesso tempo un’allusione al valore simbolico della spendida Quadriga Marciana di bronzo dorato, bottino di guerra posto nel XIII secolo sulla facciata della Basilica di San Marco a Venezia. Nel Rinascimento si cercò di attribuire la realizzazione dei cavalli agli scultori greci Fidia, Prassitele e Lisippo. Sulla storia della Quadriga e Venezia si veda MORRIS, The Venetian Empire, pp. 182-184. 27 Qui termina la prima parte del manoscritto del Discorso, Ms.B.M. 104r. 28 Allusione alla dottrina della vaporizzazione/nutrimento di Zenone di Cizio, considerato il fondatore dello stoicismo, la cui fonte principale era Eraclito. Luzzatto cita qui probabilmete Stobeo, I, 25, 3 “Zenone dice che il sole, la luna e tutti gli astri sono dotati d’intelletto e mente, e sono ignei, di un fuoco capace di foggiare con arte. Infatti ci sono due tipi di fuoco, quello incapace di foggiare con arte e che consuma in se stesso il suo nutrimento, l’altro artigiano, che si accresce e conserva sempre, quale è quello che si trova nelle piante e negli animali, fuoco che è natura et anima: è di un fuoco siffatto che è composta la sostanza degli astri” (ISNARDI PARENTE, Gli Stoici, vol. I, p. 177). Sullo stoicismo del Seicento si veda MOREAU, Le Stoïcisme. 29 Democrito di Abdera (V – IV secolo a.C.) fu discepolo di Leucippo di Mileto (V – IV secolo a.C.), insieme al quale è considerato il fondatore della teoria atomistica. 30 Luzzatto riporta una critica alla teoria atomistica che era stata reintrodotta nei circoli europei dal Gassendi. Sullo scetticismo di Gassendi e la sua interpretazione dell’atomismo si veda POPKIN, La storia dello scetticismo, pp. 189-194. 31 L’autore richiama qui le conquiste di Galileo ottenute con l’aiuto del telescopio, come il fiorentino le enuncia nel suo Sidereus Nuncius. In questa sede si citerà il passo tratto dell’edizione veneziana del 1610 (Apud Thomam Baglionum): “Est enim GALAXYA nihil aliud, quam innumerarum Stella-

    NOTE

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    rum coacervatim consitarum congeries: in quamcumque enim regionem illius Perspicillum dirigas, statim Stellarum ingens frequentia sese in conspectum profert, quarum complures satis magnae ac valde conspicuae videntur; sed exiguarum multitudo prorsus inexplorabilis est”. Dal momento che proprio in questa edizione la numerazione delle pagine non è sempre coerente, si può dire che il passo si trova alla prima pagina del capitolo sulla costellazione delle Pleiadi (“Pleiadum Constellatio”), dopo la pagina 16r e prima della pagina 17r. De Sidereus Nuncius Luzzatto parlerà in ogni dettaglio nel Socrate (pp. 94-95), ma senza citarlo espressamente. 32 Credenza della medicina dell’epoca, fondata sulle dottrine umorali di Galeno, si veda SIEGEL, Galen’s System. 33 Datii, ovvero “tasse sul transito, trasporto o consumo di merci”. 34 Vetture, cioè “prestature mercenarie di bestie da cavalcare o da someggiare”. 35 Tansa, attestato nel Vocabolario veneziano di PATRIARCHI (pagina 203) col significato di “tassa” (dialetto veneziano tansa). 36 Grisargiro, si tratta di una tassa chiamata “lustralis auri argentive collatio” (letteralmente “oro-argento”, greco ΛΕΙΗΣΕ·ΙΕΓΑ). Secondo Zosimo (Historia Nova, II, 38) questa tassa fu imposta probabilmente la prima volta dall’imperatore Costantino, e consisteva in un contributo da versare in oro e argento da parte di tutti coloro che si dedicavano al commercio e a coloro che vendevano qualunque sorta di oggetti. Si veda anche MARTÍNEZ, Presión fiscal, pp. 3-4. 37 Si veda MCGINN, “Roman Prostitutes”, pp. 79-110; MCGINN, Prostitution, Sexuality. 38 L’asserzione di Luzzatto è storicamente errata, dal momento che la Serenissima aveva apposto una tassa sulla prostituzione già dal 1514, si veda RAVID, Economis, p. 54. 39 Herodotus, Historiae V, 58; CARPENTER, “Greek Alphabet”, pp. 8-29; ULLMAN, “Greek Alphabet”, pp. 359-381; MCCARTER JR., Antiquity; VELIKOVSKY, “Cadmus,”; EDWARDS, Kadmos. 40 Qui inizia la seconda parte del manoscritto del Discorso, Ms.B.M., 108r. 41 In Ms.B.M. 108r: “quattro”. 42 Su questi profitti e la loro storicità si veda RAVID, Economics, p. 55 e n. 54. 43 Gottone, ovvero “cotone”. Seta, cotone e lino erano dei prodotti la cui abbondanza nelle terre d’oriente viene celebrata – tra il vero, il fantastico e il credulone – in quasi tutti i viaggi veneziani dal Quattrocento in poi, riportati in stampa dal Ramusio nel suo Delle navigationi et viaggi. 44 Un’idea probabilmente desunta da Grotius, Mare Liberum. Secondo Grotius, il rifiuto della libertà di commercio porta alla “guerra giusta”. L’idea della libertà di commercio come presupposto della pace sarà ripreso da Richard Cobden. Sull’argomento esiste un’ampia bibliografia, a mo’ di esempio si veda STRINGHAM, Commerce, pp. 105-116. 45 Sorìa, qui per “Siria”. 46 Barbaria, anche “Barberia”, antico nome dell’Africa dell’ovest (Tripolitania, Tunisia, Algeria e Marocco). Denominò poi l’Africa del Nord, si veda

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    NOTE

    Mercator, Atlas minor, 12; Magini, Geografia, 133 segg. 47 Corsali, ovvero “corsari, pirati”. 48 Publius Vergilius Maro, Aeneis IV, 624. 49 Precipitio, cioè “pericolo”. 50 Fideicommisso, ovvero “fedecommesso” (lat. fideicommissum). Disposizione testamentaria che regola il diritto di successione a terzi dopo la morte di colui a cui si dona una proprietà sotto condizioni. 51 Per una critica settecentesca del sistema ereditario nel Seicento, secolo afflitto dalla piaga dei fideicommissi, maggioraschi, primogeniture e sustituzioni, si veda MURATORI, Difetti, pp. 47. 52 “Posteri”: parola mancante nel manoscritto del Discorso, Ms.B.M., 110v. 53 Il mare d’Azov. 54 Lo stretto di Gibilterra. 55 Lo stretto dei Dardanelli. 56 Sulla geografia politica di queste terre erano stati pubblicati al tempo di Luzzatto due volumi elzeviriani, Buchanan, Camden e Boece, Respublica sive status regni Scotiae et Hiberniae; Boxhorn, Russia seu Moscovia. 57 Ca’ da Mosto, Navigatio. 58 Pietro (Piero) Quirini (Quirino) intraprese insieme a Cristoforo Fioravanti e Niccolò de Michiel un viaggio in Norvegia. Il racconto del naufragio sulle coste della Norvegia è riportato dal Ramusio (Delle navigationi et viaggi, p. 206 e segg.). 59 Giosafat (Iosafat, Giosafatte) Barbaro, intraprese viaggi verso la Persia, Caucaso e la Russia (si veda la nota seguente). 60 È probabile che Luzzatto faccia indirettamente riferimento al terzo volume di Giovan Battista Ramusio, Delle navigationi et viaggi. In questo libro, si fa, infatti, menzione di alcuni viaggi di nobili veneziani. Nell’“Essordio” del “viaggio nella Tana e nella Persia” di “Iosafa Barbaro, gentiluomo venetiano”, 91v, si riporta: “Avendo inteso che molto piú cose di queste, che paiono incredibili, si truovano scritte in Plinio, in Solino, in Pomponio Mella, in Strabone, in Erodoto, et in altri moderni, com’è Marco Polo, Nicolò Conte, nostri Veneziani, et in altri novissimi, com’è Pietro Quirini, Alvise da Mosto et Ambrosio Contarini”. 61 La citazione di Cicerone compresa tra “fortuna” e “onde cessando” è assente nel manoscritto del Discorso, Ms.B.M., 110v. 62 Marcus Tullius Cicero, De Officiis I, 151, 19-21. 63 Ibidem. Si veda anche Camerarius,“De securitate agricolarum”, pp. 5155, in cui si fa riferimento al testo di Cicerone. 64 Il testo compreso tra “Venetiani” e “parte” è assente nel manoscritto del Discorso, Ms.B.M., 111r. 65 Convincere, nel senso di “dimostrare, provare” (lat. convincere). 66 Il testo compreso tra “negotiatione” e “Hebrei” è assente nel manoscritto del Discorso, Ms.B.M., 112r. 67 Su questo capitolo si veda BACHI, “La dottrina sulla dinamica”, pp. 369-378.

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    Porre meta, ovvero “mettere un limite”. Nel manoscritto del Discorso alla parola “mercantie” fa seguito “et manifatture” (Ms.B.M., 112v), cancellato in questa edizione. 70 Maria I Tudor regina d’Inghilterra, (1516 – 1558) figlia di Enrico VIII e di Caterina d’Aragona. 71 Elisabetta I Tudor, regina d’Inghilterra, (1533 – 1603) figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena. 72 La cosiddetta Lega Anseatica o Hansa: unione dei mercanti tedeschi all’estero, poi lega, dal carattere soprannazionale, di commercianti di città rivierasche del Mare del Nord e del Baltico. Tra il XIII e XVII secolo la Lega si estese ad altre città anche non costiere, collegate con le prime da fitti legami commerciali. 73 Vinti, qui per “venti”. 74 Improbato, cioè “disapprovato, ricusato” (lat. improbo). 75 Nel 1579 la regina Elisabetta d’Inghilterra revocò definitivamente i privilegi commerciali della Lega Anseatica. Si veda KULISCHER, Wirtschaftgeschichte, p. 240. 76 Nel 1554 fu fondata la Compagnia per il Commercio con Mosca, la Persia e i paesi del Nord che sfidò con successo la Lega Anseatica. 77 Nel manoscritto del Discorso al posto di “esteri”, si ripete “Genovesi et Fiamenghi”, Ms.B.M., 115v. 78 Complirebbe, cioè “tornare bene”. 79 Luzzatto non dichiara apertamente in questa sede che l’aver il negozio e non l’arte, per gli ebrei non era una scelta deliberata, ma coatta. 80 Qui termina la seconda e ultima parte del manoscritto del Discorso, Ms.B.M., 116v. 81 Copia, cioè “abbondanza” (lat. copia). 82 Vito, ovvero “vitto”. 83 Complire, qui usato metaforicamente nel senso di “competere, essere di loro competenza”. 84 Ragusa. 85 Si veda FUSARO, L’uva passa. 86 Formenti, ossia “frumenti”. Si veda TOMMASIN, “Il volgare”, pp. 69-89. 87 Si veda Bacone, Sermones 34: “Idem dictat Salomon, ubi multae sunt opes, multi qui comedunt eas; et quid prodest possessori, nisi quod cernat divitias oculis suis? Possessio divitiarum nulla voluptate dominum perfundit quantum ad sensum. Est sane custodia ipsarum. Est etiam potestas donativi aut distributionis”. 88 Ecclesiastes 5, 10 (Vulgata clementina): “Ubi multae sunt opes multi et qui comedunt eas”. 89 Mità, cioè “metà”. 90 Sulla provenienza dello zucchero, Luzzatto leggeva probabilmente il resoconto di Alvise Ca’ da Mosto, nell’edizione del Ramusio (si veda sopra). Sulla storia e produzione dello zucchero sotto la protezione portoghese si veda il trattato di Giulio Landi, Insulae Materiae Descriptio (1534 ca.), pubblicato recentemente da PELOSO, Al di là delle Colonne d’Ercole, p. 152 e segg. Si 69

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    veda anche Giacinto Gimma, Della storia naturale, vol. II, pp. 411-414. Uno studio sull’importanza del commercio dello zucchero in Spagna è offerto da ABULAFIA, “Sugar in Spain”, pp. 191-210. 91 Zambelotti, anche “zambelloti” o “cambellotti abiti di lana resistenti fatti probabilmente di crine di cammello o di capra”, si veda HERALD, “Dress in Renaissance Italy”, s.v. 92 Spalatro: Spalato, “Spljet” oppure “Split”, principale centro commerciale della Dalmazia. Si veda RAVID, Economics, p. 33 e n. 28. 93 Nome del Peloponneso usato in età medievale e moderna, si veda Ibidem, p. 58. Sul significato della seta nel commercio veneziano e persiano, che avveniva tramite la Sorìa, si vedano anche i documenti pubblicati già da BERCHET, Repubblica di Venezia, p. 59. 94 Lattes (Ma’amar, 158, n. 21) reputa “Smire” come una probabile forma di Ismir. L’Encyclopaedia of Islam (1913-1936) attestava la forma “Smire” già nella prima edizione come forma occidentale di Ismir, accanto a “Zmirra” e “Smirne”. All’inizio del XVII secolo gli ebrei si stabilirono a Smirne attirati dalla sua economia attiva e vitale e, inizialmente, furono in grado di controllare il commercio di vari beni. Essi tuttavia non riuscirono a fare fronte alla concorrenza di altri mercanti, di conseguenza i traffici commerciali furono monopolizzati da italiani, armeni e greci. A riguardo si veda RUDERMAN, Early Modern Jewry, p. 29. 95 Scala, ossia “scalo”. 96 Sulla necessità come termine chiave della filosofia politica del Machiavelli esiste una ricca bibliografia. In questa sede ci si limiterà a segnalare solo VIROLI, Machiavelli e DEL LUCCHESE, “Libertà in Machiavelli”, pp. 41-67, dove alla nota 2 si danno ulteriori riferimenti bibliografici. 97 Probabilmente un’eco dell’espressione di Machiavelli, Discorsi sopra, II,1: “Ed intra le altre ragioni che ne adduce, dice che per confessione di quel popolo si dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna che ad alcuno altro iddio”. 98 Luzzatto si riferisce all’ebreo convertito Daniel Rodriga. A riguardo si veda RAVID, “La prima condotta degli Mercanti Ebrei Levantini e Ponentini” e id., “La seconda condotta degli Mercanti Ebrei Levantini e Ponentini”. 99 Inviamento, nel senso di “progresso”, “tutto ciò che serve per riuscire bene nell’attività scelta”. 100 Sul concetto di Oriente nella storia del paradiso, si veda VELTRI, Renaissance Philosophy, pp. 152-153. 101 Genesis 11, 2 (Vulgata clementina): “Cumque profiscerentur de oriente, invenerunt campum in terra Senaar, et habitaverunt in eo”. 102 Una concezione della storia presente nell’opera di Tucidide. Luzzatto si riferisce probabilmente al Dialogo dei Melii e degli Ateniesi ne La guerra del Peloponneso, dove il concetto di fortuna viene indirettamente criticato: si veda CANFORA, Antologia, pp. 509-515. Si veda anche FABBRI, “Realismo politico”, pp. 5-33. 103 Detto anche “Damietta”, porto sul delta del Nilo del governatorato egiziano di DumyƗt. 104 Insediamento sul Mar d’Azov, si veda il Viaggio di Josafa Barbaro alla

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    Tana et in Persia, in Ramusio, Navigazioni, pp. 481-576; si veda PUBBLICI, “Venezia et il Mar d’Azov”, pp. 435-448. 105 Si veda DA SILVA e ROMANO, “L’histoire des changes”, pp. 715-721. 106 A penna, cioè “appena”. 107 Tartanella, si tratta di un’imbarcazione da pesca piccola e leggera, si veda BEVILACQUA, Venezia e le acque, p. 62 e bibliografia ivi citata. 108 Città portuale della Turchia sulla costa sud-orientale del golfo omonimo. 109 Fiume della Bosnia ed Erzegovina che sfocia in Croazia nel mare Adriatico. 110 Su Socrate, in particolare nell’opera di Luzzatto, si veda l’introduzione a questo volume, pp. LXVI-LXXXV. 111 Politie, ovvero “ordinamenti civili”. 112 L’Utopia di Tommaso Moro, pubblicata la prima volta nel 1514, divenne un “bestseller”. 113 Secondo LATTES, Ma’amar, p. 158, n. 27, Luzzatto si riferisce al secondo libro della Politica, dove Artemidoro tratta lo Stato e la costituzione della società, criticando Socrate e Platone. 114 Diodorus Siculus, Bibliotheca historica II, 38-41. 115 Invigilorare, cioè “operare, adoperarsi con diligenza”. 116 Si veda Consideratione VIII, 29r. Luzzatto stima che il dazio pagato dagli ebrei per importare le merci necessarie alla lavorazione delle lane, sete e altre mercanzie da loro esportate corrisponda a circa due terzi del dazio pagato per l’esportazione, cioè a ducati 47.000. 117 Minuccere, ovvero “ridurre in pezzi, frantumare”. 118 Si veda Consideratione III, 17v. 119 Aristotele, Politica V, 8 (1308b 16-17). Lattes, Ma’amar, p. 159, n. 30 fa riferimento alla traduzione latina, senza indicarne l’autore. La prima traduzione completa della Politica di Aristotele fu opera di Guglielmo di Moerbeke intorno al 1260. 120 Proverbia 22, 2 (Vulgata clementina): “Dives et pauper obviaverunt sibi utriusque operator est Dominus”. 121 Allusione alla costituzione del filosofo Falea di Calcedonia. Si veda Aristotele, Politica II, 6 (1266a33-b4) e Platone, Leggi V, 742c. 122 Deuteronomium, 17, 14-20, in particolare 17, 17 (Vulgata clementina): “Non habebit uxores plurimas, quæ alliciant animum ejus, neque argenti et auri immensa pondera”. 123 Republica, si intende ovviamente la Repubblica di Venezia. 124 Telaro oppure teler, attestato nel Dizionario del dialetto veneziano col significato di “telaio”. 125 Escomiare, vale a dire “licenziare, sfrattare” (escomeare, dal lat. commeatus). 126 Similmente li descriveva Francesco Bacone, paragonandoli però alla vena porta nel fegato, si veda Bacon, Essays, XXIV, 46; VELTRI, “Social Arguments”, p. 26. 127 Damim, ovvero “denaro, possedimento” (ebraico ʭʩʮʣ, in trascrizione

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    nell’originale). Il singolare (ʭʣ) ha il significato di sangue. Il plurale è attestato anche col significato di sangue, nell’espressione ʭʩʮʣ ʺʫʩʴʹ (versamento di sangue), oppure nel senso di “sanguinario”, ʭʩʮʣʹʩʠ, si veda Psalmi 5, 7. 128 Qui Luzzatto sembra voler sottolineare che l’ebraico, lingua sacra, attesta l’approvazione divina del commercio. Si veda CARP, Jewish Commerce, p. 23. 129 Emacritudinis, ovvero “dimagrimento”. Emacritudo è un probabile neologismo (lat. emacrescere, dimagrire). Proverbia 14, 28 (Vulgata clementina): “In multitudine populi dignitas regis, et in paucitate plebis ignominia principis”. 130 È probabile che Luzzatto si riferisca a Levi ben Gershom, il cui nome latino era Magister Leo Hebraeus, ma che comunemente è chiamato Gersonides (RaLBaG, 1288-1344). Questi scrisse un commento al Libro dei Proverbi. Luzzatto si sofferma su di lui nella seconda parte del Discorso, si veda 79r. 131 Razon, si riferisce alla parola ʯʥʦʸ di Proverbia 14, 28. Si veda Talmud babilonese, Berakhot 47b. 132 Pristino, ovvero “precedente” (lat. pristinus). 133 Per quanto riguarda il precetto di salatura della carne, si veda Heilbronn, Dinim we-seder, che si basa sul notissimo Torat ha-chattat (Cracovia, 1570 circa) di Moses Isserles (Rema), pubblicato a Venezia (1602). Il libro di Heilbronn, scritto in yiddish, era rivolto al grande pubblico. Rema scrisse in merito per la comunità askenazita anche delle glosse allo Shulchan ‘arukh di Joseph Caro, si veda Rema, Mappa, Shulchan ‘arukh, Yore de‘a, Halakhot melikha, pp. 69-78. 134 Questa considerazione parla del 1636 come passato, nel senso di “anno scorso”, il Discorso non può dunque essere stato composto in quest’anno. 135 Duchea, qui per “Ducato”. 136 Cecca, si tratta della Zecca, l’edificio o luogo in cui si batteva moneta e si conservava l’erario. La parola ha anche il senso di moneta corrente. Si veda MUTINELLI, Lessico, p. 422. 137 Memorare, ovvero “ricordare, richiamare alla memoria, rievocare” (lat. memorare). 138 Luzzatto si riferisce all’epidemia di peste del 1630. Si veda BOCCATO, “Testimonianze ebraiche”, pp. 458-67. 139 Perservarsi, qui per “preservarsi”. 140 Su questo capitolo si veda RAVID, “Moneylending”, pp. 257-283; inoltre PULLAN, “Jewish Banks”, pp. 53-72. 141 Espedito, ovvero “sbrigato, sciolto, libero da impedimenti” (lat. expeditus). 142 Terzo, qui per terzo libro. 143 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia III, 56-58. 144 Publius Cornelius Tacitus, Annales I, 2, 1. 145 Proverbia 10, 15 (Vulgata clementina): “Substantia divitis, urbs fortitudinis eius; pavor pauperum egestas eorum”. 146 Proverbia 18, 11 (Vulgata clementina): “Substantia divitis urbs roboris eius et quasi murus validus circumdans eum”.

    NOTE 147

    411 Esegito, cioè “preteso”.

    148 Nella Bibbia è un nome proprio, si veda Exodus 7,13 (Vulgata clemen-

    tina): “Induratumque est cor Pharaonis”. 149 Insogno, ovvero “sogno” (lat. insomnium). 150 Per la storia di Giuseppe, si veda Genesis 41, 1-44. 151 Sul concetto e il suo rapporto con la “ragion di Stato” si veda DREITZEL, “Die ‘Staatsräson’ und die Krise”, pp. 129-156. 152 Pediculi, ovvero “pidocchi” (lat. pediculus). 153 Malachias 4, 2 (Vulgata clementina): “Et orietur vobis timentibus nomen meum sol iustitiae, et sanitas in pennis eius”. 154 Isaias 66, 2 (Vulgata clementina): “Ad quem autem respiciam, nisi ad pauperculum, et contritum spiritu”. 155 Psalmi 16, 15 (Vulgata clementina): “Ego autem in justitia apparebo conspectui tuo”. 156 Exodus 33, 18 (Vulgata clementina): “Qui ait: Ostende mihi gloriam tuam”. 157 Indifferente, ossia “imparziale, che non propende per l’una parte piuttosto che per l’altra” (lat. indifferens). 158 Luzzatto cita Seneca (Ad Lucilium epistulae morales XIX, 113, 3). Per una discussione del passo si veda VELTRI, “Dannare l’universale”, p. 72. 159 “Metuendo igitur atque metu fortes sunt omnes praeter philosophos etsi absurdum est, metu vel timiditate aliquem fortem esse. Qui inter eos moderati dicuntur, nonne simili quodam pacto affecti sunt, intemperantia videlicet quadam temperati?”, Platone, Phaedo, 68D-E, nella traduzione di Marsilio Ficino (si veda STUART STANFORD, Plato’s Apology, “Phaedo” 13, alla pagina XLI [41]). 160 Ecclesiastes 4, 4 (Vulgata clementina): “Rursum contemplatus sum omnes labores hominum, et industrias animadverti patere invidiae proximi”. 161 Plato, Philebus 31b-31c. 162 L’elenco di personaggi ed episodi storici serve fondamentalmente a Luzzatto per perorare la sua causa in favore del concetto di colpa individuale, andando ad evidenziare quanto vari e anche contraddittori possano essere i caratteri umani. A sostegno di tale tesi l’autore si serve della dottrina dei caratteri, molto in voga all’epoca di Luzzatto. A riguardo si veda VELTRI, “Dannare l’universale”, in particolare alle pagine 71-75. 163 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 6, 10-11. 164 Luzzatto si riferisce qui a Dario III, ultimo sovrano persiano della dinastia Achemenide, sconfitto da Alessandro a Isso nel 333 a. C. e a Gaugamela nel 331 a. C. Il nostro autore sembra far riferimento ad alcuni avvenimenti narrati da Plutarco e da Arriano. Per agevolare la lettura si dà un breve sunto della questione. Dopo la battaglia di Isso, Dario fu messo in fuga da Alessandro, lasciandosi dietro il suo carro e il suo arco e la sua stessa tenda con servitori, arredi e ricchezze e le donne della sua famiglia, la madre, la moglie e due figlie. Alessandro fece subito sapere alle donne che Dario era ancora in vita e che esse non avevano nulla da temere; prese inoltre provvedimenti affinché fossero tutte trattate onorevolmente, come si confaceva al loro rango. Contemporaneamente, permise ai prigionieri persiani di seppel-

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    NOTE

    lire onorevolemente i loro morti. A riguardo si vedano Plutarco (Vita Alexandri XXI – XXII, 3) e Arriano (Anabasis Alexandri II, 11, 9-10 – 12, 3-8). Per quanto riguarda l’atteggiamento di Alessandro nei confronti di Dario, è ancora Plutarco (Vita Alexandri XXIX, 7-9) a ribadire il comportamento tollerante del giovane imperatore. Arriano (Anabasis Alexandri II, 14) invece mette l’accento sulla fierezza di Alessandro, che guardava allo sconfitto Dario dall’alto della sua vittoria. 165 Parmenione: (400 – 330 a. C.) membro di una nobile famiglia macedone fu generale di Filippo II e di Alessandro il Macedone. Plutarco riporta vari battibecchi tra Alessandro e Parmenione (si veda ad esempio Vita Alexandri XXIX, 7-9; XXXI, 10-14 e XXXII, 1-3) e ne critica l’operato durante la battaglia di Gaugamela (Ibidem, XXXII, 3-4). La versione di Arriano è invece più benevola (Anabasis Alexandri III, 10 e III, 15, 1-4). Per quanto riguarda la morte di Parmenione, Arriano (Ibidem, III, 26, 3-4) riporta la versione seguente: nel 330 a. C. il figlio del generale, Filota, fu giustiziato proprio per ordine di Alessandro perché accusato di aver complottato contro la vita del sovrano; poco dopo, la sentenza di morte raggiunse anche Parmenione, in quanto Alessandro riteneva che fosse imprudente lasciar vivere il padre dopo la morte del figlio. Plutarco (Vita Alexandri XLVIII, 1 – XLIX, 14) riporta una versione analoga, mettendo tuttavia in cattiva luce Filota e accusandolo di superbia. 166 Clito era uno degli alti ufficiali della guardia di Alessandro e, come Parmenione, aveva già servito Filippo II. Alessandro lo uccise durante un banchetto. Intorno alla tavola imbandita, il sovrano, in preda all’euforia del vino, prese a criticare l’operato di suo padre Filippo II. Clito, a sua volta sotto influenza della bevanda alcolica, rispose difendendo le scelte di quest’ultimo e accusando Alessandro di arroganza che, estremamente adirato, lo trapassò con una lancia. L’episodio è riportato tra gli altri da Arriano (Anabasis Alexandri IV, 6-8). Plutarco (Vita Alexandri L – LI), interpreta l’operato di Alessandro sotto una luce migliore. 167 Callistene di Olinto fu uno storico delle imprese di Alessandro, era imparentato con Aristotele, che fu il precettore del sovrano. Proprio dietro segnalazione di Aristotele, Callistene fu invitato da Alessandro ad unirsi alla spedizione macedone in Asia, con l’incarico di essere lo storico ufficiale della missione. Quando nel 330 a. C. Alessandro decise di introdurre il cerimoniale persiano di corte che prevedeva la proskynesis nei confronti del sovrano, Callistene rifiutò di uniformarsi, offendendo il sovrano. Successivamente, egli fu sospettato di essere l’istigatore della ‘congiura dei paggi’. La sua effettiva colpevolezza resta storicamente da verificare. In ogni caso, Alessandro lo fece arrestare ed uccidere. Si veda anche Plutarco, Vita Alexandri LV, 3-4. 168 Nel libro XV degli Annales Tacito descrive la lunga scia di morte che Nerone si lasciò dietro, soffermandosi lungamente sulla morte di Seneca (XV, 60-64) e più brevemente su quella di Lucano (XV, 70). È ancora Tacito (XV, 49) a riferire che i rapporti tra Lucano e Nerone si erano deteriorati nel momento in cui l’imperatore aveva visto le sue velleità letterarie e poetiche sminuite dal talento di Lucano. 169 Teofrasto: (ca. 371/70 – 287/86 a. C.) fu allievo di Aristotele e suo successore nella direzione del Peripato. Egli è conosciuto in particolare per

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    il suo trattato sui caratteri umani (Ethikoi Characteres), che ebbe un notevole successo nel XVI secolo. All’epoca di Luzzatto circolavano varie traduzioni latine ed italiane dei Characteres, a riguardo si veda VELTRI, “Dannare l’universale”, pp. 74-75. 170 Se la cifra è esatta e se si aggiunge l’anno della distruzione del tempio 70/72 dell’era comune, si arriva al 1620/2, come data di composizione del trattato, o almeno di questa parte. 171 Impermisto, ovvero “non mescolato” (lat. impermixtus). 172 Anzi che, qui per “anzi”. 173 Si veda Exodus 32. 174 La vicenda della ribellione di Core è narrata in Numeri 16, 1-40 della Bibbia ebraica e in Numeri 16, 1-35 della Vulgata. 175 Si veda nota 170 alla pagina 38r del Discorso (p. 413), dove sono menzionati i 1550 anni trascorsi dal popolo ebraico nella diaspora. 176 Luzzatto si riferisce alla grande rivolta del 116-117 a. C., durante la quale gli ebrei d’Egitto, della Cirenaica e di Cipro si sollevarono contro i Romani. 177 Si fa menzione del decreto di espulsione degli Ebrei promulgato il 31 Marzo 1492 a Granada dai sovrani cattolici Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia. Su rivolte e spargimenti di sangue prima e dopo l’espulsione si veda BEINART, Expulsion, p. 27 segg. 178 Su colpa individuale e pena collettiva nel Discorso si veda VELTRI, “Dannare l’universale”. 179 Luzzatto si riferisce qui all’alleanza dei cinque re di Sodoma, Gomorra, Adama, Zeboim e Zoar che affrontò Cherdolaomer re di Elam e i suoi alleati (Genesis 14, 1-12). 180 Un riferimento agli abitanti di Sodoma e Gomorra, che facevano parte dell’alleanza succitata (si veda nota precendente) e al dialogo tra Abramo e Dio sui peccati di questi ultimi. Si veda Genesis 18, 32 (Vulgata clementina): “Obsecro, inquit, ne irascaris, Domine, si loquar adhuc semel: quid si inventi fuerint ibi decem? Et dixit: Non delebo propter decem”. 181 Si veda Modena, Historia de Riti, p. 82. 182 Sui colori si veda Socrate, p. 90 e segg. 183 Compatire, qui usato con il significato antico di “conciliarsi, accordarsi, sopportarsi a vicenda”. 184 Rosso: in altre parole, mentre il bianco e il nero appartengono allo stesso genere del colore e sono entrambi oggetto degli occhi, dolce e rosso appartengono uno alla sfera del sapore e l’altro a quella del colore, sicché non sono tra loro confrontabili (quindi neppure contrari, come il nero e il bianco), ma diversi, cioè non appartengono allo stesso genere specifico, sono invece raggruppabili entrambi sotto il “genere generalissimo della qualità”. 185 Distratto, ovvero ”diviso, separato”. 186 Astratto, ovvero “separato, staccato, non in relazione con qualcosa” (lat. abstractus). 187 Probabilmente da Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia I, 181. Lo stesso verso è citato da Francesco Bacone nei suoi Essays or Counsels, XV “Of Seditions and Troubles”, (a pagina 349 dell’edizione italiana a cura

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    NOTE

    di DE MAS) nella versione “Hinc usura vorax, rapidumque in tempore foenus”. Sulle somiglianze tra la concezione dell’usura di Luzzatto e quella di Francesco Bacone, si veda VELTRI, “Economic and Social arguments”, pp. 24-25. È tuttavia anche possibile che Luzzatto stia citando Walter (Gualtiero) de Châtillon (Carmen VI, 36), si veda la versione riportata da RABY (a cura di), Oxford Book, p. 291: “Sciat artes aliquis, sit auctorum plenus, / quid prodest, si vixerit pauper et egenus? / Illinc cogit nuditas vacuumque penus, / hinc usura vorax avidumque in tempore fenus”. 188 Istituzioni finanziarie che concedevano prestiti a condizioni favorevoli con garanzia di pegno, sorte in Italia durante la seconda metà del XV sec. principalmente per iniziativa dei francescani. I monti di Pietà erano stati creati in aperta polemica con i prestiti ad interesse dei banchieri ebrei. Si veda Pullan, Monti di Pietà. 189 Persuasibile, ovvero “che può essere creduto o pensato” (lat. persuasibilis). 190 Publius Cornelius Tacitus, Historiae I, 22, 8-9. 191 Conceputoli, qui usato in senso metaforico col significato di “nutritogli”. 192 Si veda il racconto di Tacito (Annales XV, 44) dove è descritto l’incendio di Roma: Nerone accusò i cristiani di aver appiccato il fuoco, in modo da poter giustificare le conseguenti persecuzioni. 193 Tertulliano, nato a Cartagine e vissuto tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo d. C. scrisse l’Apologeticum nel 197 d.C. Il riferimento di Luzzatto a quest’opera potrebbe non essere un semplice sfoggio di erudizione. Vi sono infatti certe similitudini tra il Discorso e l’Apologeticum. Se Luzzatto fu spinto a scrivere il Discorso a causa del processo per il furto alla merceria, Tertulliano prende a sua volta le mosse da processi ingiusti contro i cristiani, che venivano condannati per l’ostilità a priori di giudici e magistrati che non conoscevano le loro dottrine. Per quanto riguarda le accuse di omicidio rituale che periodicamente e tragicamente colpivano intere comunità ebraiche, Luzzatto rimanda tatticamente i suoi lettori proprio alle argomentazioni di Tertulliano che smantellano le accuse d’infanticidio, incesto e dell’adorazione della testa d’asino (capitoli 7-9). Così facendo Luzzatto associa le persecuzioni dei cristiani a quelle subite ai suoi tempi dal suo popolo. 194 Brutto, qui per “bruto”. 195 Ippia Minore 376B. 196 Rissegnare, ovvero “rassegnare” nel senso di “consegnare”. Su “rissegnare” si veda S. EHSES e A. MEISTER (a cura di), Nunziaturberichte aus Deutschland, I Abt.: Die Kölner Nunziatur, I Häfte: Bonomi in Köln. Santonio in der Schweiz, die Strassburger Wirren, no. 27 e n. 48. 197 In arabo Binzart, città costiera a 65 km a nordovest da Tunisi. Si veda Ramusio, Delle navigazioni, p. 317: “Bensart, o diciamo Biserta, è città antica edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta da Tunis circa a trentacinque miglia”. 198 Isola greca nel mare Ionio, a sud di Cefalonia. 199 Fino al XIX secolo, nome dell’Elide e di tutto il Peloponneso. 200 Fuste, si tratta di piccole navi, imbarcazioni corsare.

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    Pedotta, ovvero “guida esperta della navigazione”. Solone: (n. ca. 640) fu il più importante legislatore ateniese nonché uno dei primi poeti del periodo arcaico. Rivestì anche la carica di arconte e a lui si devono le principali riforme nella sfera politica, sociale, economica e religiosa ad Atene. Fu inoltre annoverato tra i sette sapienti della Grecia. 203 Licurgo: è considerato, insieme a Solone, uno dei più grandi legislatori della Grecia e autore della costituzione di Sparta. 204 La storia di Romolo e Remo e della fondazione di Roma è narrata da Tito Livio, Ab Urbe Condita I, 4-7. Plutarco (Vita Romuli IX, 4) aggiunge al racconto il dettaglio del solco tracciato da Romolo definendolo ‘Roma quadrata’. 205 Malachias 2, 10 (Vulgata clementina): “Numquid non pater unus omnium nostrum? Numquid non Deus unus creavit nos? Quare ergo despicit unusquisque nostrum fratrem suum violans pactum patrum nostrorum?”. 206 Leviticus 25,17 (Vulgata clementina): “Nolite affligere contribules vestros, sed timeat unusquisque Deum suum”. 207 Luzzatto si riferisce qui al senso del testo originale in ebraico: ʭʫʩʤʬʠ ʤʥʤʩʩʰʠʩʫʪʩʤʬʠʮʺʠʸʩʥʥʺʩʮʲʚʺʠʹʩʠʥʰʥʺʠʬʥ 208 Frasa, qui per “frase”. È probabile che vi sia un errore di stampa. 209 Il senso della parentesi non è chiaro. Probabilmente Luzzatto voleva scrivere in ebraico, come sopra, e poi non ha potuto o voluto. Interessante è la trascrizione di ‘ayin con h. 210 Si veda Exodus 22, 21 (Vulgata clementina): “Advenam non contristabis, neque affliges eum: advenæ enim et ipsi fuistis in terra Ægypti”. 211 Marcus Tullius Cicero, De Officiis III, 82, 16-17. La citazione tratta da Euripide (Phoenissae 524-525), ed è tipica del machiavellismo dell’epoca, si veda MEYER, Machiavelli, p. 109; STACEY, Roman Monarchy, p. 24. 212 Regittato, cioè “respinto”. 213 Filone d’Alessandria non è stato in realtà ancora menzionato. Luzzatto ha modificato il testo, dimenticando, probabilmente, di avere tolto o spostato una citazione di Filone all’inizio del Discorso. Le considerazioni non sono state presumibilmente composte in ordine cronologico, ma successivamente giustapposte. 214 Filone d’Alessandria: esegeta e filosofo ebreo nato all’incirca nel 20 a.C. ad Alessandria d’Egitto, morto dopo il 40 d.C. 215 Philo, De specialibus legibus I, 53. 216 Lebre, ovvero “lebbra”. 217 Si veda IV Regum 5, 16 (Vulgata clementina): “At ille respondit: Vivit Dominus, ante quem sto, quia non accipiam. Cumque vim faceret, penitus non acquievit”. 218 Anzi che, cioè “anzi, invece”. 219 Ghechazì: Gehazi, servo di Eliseo. Si veda I Re 5, 20-27 (Bibbia ebraica) e IV Regum 5, 20-27 (Vulgata clementina). 220 Si veda I Re 5, 20 (Bibbia ebraica) e IV Regum 5, 27 (Vulgata clementina): “Sed et lepra Naaman adhærebit tibi, et semini tuo usque in sempiternum. Et egressus est ab eo leprosus quasi nix”. 202

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    NOTE

    Luzzatto ritorna qui sull’episodio dello scontro di cinque re di Sodoma, Gomorra, Adama, Zeboim e Zoar contro Cherdolaomer re di Elam e Amraphel re di Shelam. Quando Abramo venne a sapere che Lot era stato rapito da questi ultimi, dopo il sacco di Sodoma e Gomorra, li inseguì salvando Lot e la sua famiglia, nonché i beni saccheggiati a Sodoma, che poi si premurò di restituire al sovrano della città. Si veda Genesis 14, 13-24. 222 L’autore si riferisce a quanto narrato alla fine del libro di Esther 8 e 9, 1-10. 223 Per quanto riguarda l’interessione di Abramo per Sodoma e Gomorra, si veda Genesis 18, 20-33. 224 È qui rievocata la storia del profeta Jonas, narrata nell’omonimo libro. Per quanto riguarda la punizione di Jonas si veda Jonas 1 e 2, 1. 225 In quest’ultima parte della Considerazione XIII Luzzatto prende le mosse da Genesis 10, dove è illustrata la progenitura di Noè, che ebbe tre figli, Sem, Cham e Japhet. Da Cham discesero alcune delle popolazioni che l’autore menziona di seguito. 226 Canaan era figlio di Cham, a sua volta figlio di Noè. Stando al testo biblico, mentre Noè giaceva addormentato a causa dei fumi dell’alcool, Cham ne vide la nudità. Noè maledisse dunque Canaan, condannandolo ad essere servo (Genesis 9, 21-24). Il Deutoronomio (7, 1-6) annovera i Cananei tra i popoli che Dio consegnerà nelle mani degli Israeliti quando essi entreranno nella terra promessa. Gli Israeliti dovranno annientare i Cananei onde evitare di mescolarsi ad essi, tramite alleanze o matrimoni, e cedere così alle lusinghe del politeismo. 227 Amalechiti: si tratta degli Amaleciti, che il testo biblico associa alla spietatezza e all’inganno. Essi, infatti, attaccarono di sorpresa il popolo di Israele a Rephidim. La battaglia fu sanguinosa ma gli Israeliti vinsero e Dio ordinò a Mosè di edificare un altare su cui era scritto che Dio era in guerra con gli Amaleciti di generazione in generazione (si veda Exodus 17, 8-16). 228 Timoniano, ovvero “caratteristico del nobile ateniese Timone”, noto per la sua misantropia. 229 Gli Ammoniti e i Moabiti discendono entrambi da Lot (Genesis 19, 37-38). Gli Ammoniti e i Moabiti non possono far parte dell’“adunanza dell’Eterno” fino alla decima generazione perché ostacolarono gli Israeliti nel loro cammino verso la Terra di Canaan e negarono loro ogni aiuto in Egitto. Si veda Deuteronomium 23, 4-5 (Bibbia ebraica), Deuteronomio 23, 3-4 (Vulgata clementina). 230 Edumei: si tratta degli Edomiti, discendenti di Esaù (Genesis 36, 1). Gli Edomiti si opposero al passaggio degli Israeliti provenienti dall’Egitto, si veda Numeri 20,14-21. 231 L’uso della parentesi indica anche qui che probabilmente Luzzato aveva intenzione di usare lettere ebraiche. 232 Filistei. 233 Popolazione aramea. 234 Si veda Deuteronomium 23, 7 (Vulgata clementina): “Non abominaberis Idumæum, quia frater tuus est: nec Ægyptium, quia advena fuisti in terra ejus”.

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    Anzi che, cioè “prima che”. Si veda Exodus 1, 15-22. 237 Etnico: dal punto di vista di Luzzatto, autore che non professava il monoteismo ebraico (lat. ethnici, gentes, gentiles). 238 La fonte di questa citazione non è molto chiara. Secondo Lattes è possibile che Luzzatto abbia qui attinto ad un testo di Plinio (Naturalis Historia XIV,119: “[Et quoniam] religione vita constat”). 239 Si veda Philo Judaeus, De specialibus legibus I, 52. 240 Jeremias 10, 11-12 (Vulgata clementina): “Sic ergo dicetis eis: Dii qui caelos et terram non fecerunt, pereant de terra et de his quae sub caelis sunt! | Qui facit terram in fortitudine sua, praeparat orbem in sapientia sua et prudentia sua extendit caelos”. 241 Psalmi 104, 1 (Vulgata clementina): “Alleluja. Confitemini Domino, et invocate nomen ejus; annuntiate inter gentes opera ejus”. 242 Psalmi 147, 8- (Vulgata clementina): “Qui annuntiat verbum suum Iacob, justitias et judicia sua Israël. Non fecit taliter omni nationi et iudicia sua non manifestavit eis. Alleluja”. 243 Si veda Deuteronomium 14, 21 (Vulgata clementina): “Quidquid autem morticinum est, ne vescamini ex eo. Peregrino, qui intra portas tuas est, da ut comedat, aut vende ei : quia tu populus sanctus Domini Dei tui es. Non coques hædum in lacte matris suæ”. 244 Malachias 1, 11 (Vulgata clementina): “Ab ortu enim solis usque ad occasum, magnum est nomen meum in gentibus, et in omni loco sacrificatur: et offertur nomini meo oblatio munda, quia magnum nomen meum in gentibus, dicit Dominus exercituum”. 245 Ruth 1, 15 (Vulgata clementina): “Cui dixit Noëmi: En reversa est cognata tua ad populum suum, et ad deos suos, vade cum ea”. 246 Antichi abitanti di Ninive. 247 Probabilmenrte Luzzato si riferisce agli abitanti di Ashdod. 248 Per quanto riguarda l’ira divina contro gli Israeliti che hanno abbandonato la Legge si veda Amos 2, 4-5. 249 Si veda Josue 7, 1-26 e 8,1-28. Josue 1, 26 (Vulgata clementina): “Et aversus est furor Domini ab eis. Vocatumque est nomen loci illius, vallis Achor, usque hodie”. 250 Assoluto, nel senso di “assolto”. 251 Ezechiel 20, 32-33 (Vulgata clementina): “Neque cogitatio mentis vestrae fiet dicentium erimus sicut gentes et sicut cognationes terrae ut colamus ligna et lapides | vivo ego dicit Dominus Deus quoniam in manu forti et brachio extento et in furore effuso regnabo super vos”. 252 Amos 3, 1-2 (Vulgata clementina): “Audite verbum quod locutus est Dominus super vos filii Israël super omni cognatione quam eduxi de terra Aegypti dicens | tantummodo vos cognovi ex omnibus cognationibus terrae idcirco visitabo super vos omnes iniquitates vestra”. 253 Rashi: (1040 – 1105), acronimo di Rabbi Shlomo Yitschaq nato a Troyes, noto commentatore della Bibbia. 254 David Kimhi: grammatico ed esegeta originario di Narbonne in Provenza. Visse all’incirca tra il 1160 e il 1235. 236

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    NOTE

    Julius Paulus, Digesta 50, 17, 10: “Secundum naturam est commoda cuiusque rei unum sequi, quem sequentur incomoda”. 256 Hitro: la trascrizione di Yi- in Hi- è coniata sulla falsariga di “Hierosolyma”, Gerusalemme. Nella Vulgata si ha Iethro. 257 Exodus 18, 11 (Vulgata clementina): “Nunc cognovi, quia magnus Dominus super omnes deos: eo quod superbe egerint contra illos”. 258 Psalmi 94, 3 (Vulgata clementina): “Quoniam Deus magnus Dominus, et rex magnus super omnes deos”. 259 Il Burgensis citato è probabilmente da identificarsi con Pablo de Santa Maria de Burgos (Shlomo ha-Levi), si veda LATTES, Ma’amar, p. 153, nota 102. 260 Deuteronomium 33, 3 (Vulgata clementina): “Dilexit populos omnes sancti in manu illius sunt: et qui adpropinquant pedibus ejus accipient, de doctrina illius”. 261 Psalmi 31, 6 della Bibbia ebraica e 30, 6 della Vulgata: “In manus tuas commendo spiritum meum”. 262 Sul concetto di antiperistasi nel pensiero politico di Luzzatto, si veda VELTRI, “Economic and Social Arguments”. 263 Glosa, qui per “glossa”. 264 Psalmi 23, 3 (Vulgata clementina): “Quis ascendet in montem Domini?”. 265 Giocondità, ovvero “facilità, piacevolezza, facile ottenimento come per gioco” (lat. iucunditas). 266 Sulla questione dell’usura si veda VELTRI, “Economic and Social Arguments”, pp. 24-25. 267 Pergiuditiale, qui per “pregiudiziale” (lat. praeiudicium), nel senso di “pregiudizievole, che può pregiudicare, compromettere, danneggiare”. 268 Ricontano, cioè “si annoverano”. Il verbo è attestato nel vocabolario della Crusca (1729-1738), ove è dato ricontare: “contare, o annoverare di nuovo” (lat. recensere). 269 Si tratta di un titolo attribuito a pubblico ufficiale. Solitamente era usato per designare governatori di province occidentali o di grandi circoscrizioni. Equivale al titolo di eccellenza per consoli ed ambasciatori; si veda ad esempio Pietro Foscarini, Relazione. 270 A riguardo si veda Barbaro e Tiepolo, Dell’audientia, pp. 33-35. 271 Regalato, attestato nel Grande dizionario col significato antico e letterario di “onorato, circondato di attenzioni”. 272 Si veda SEPTIMUS, Religion, p. 400, per un’interpretatione di questo passo. 273 Si veda la Consideratione XI, 39v. 274 Su Isaac Abravanel, si veda l’introduzione a questo volume, “Ambientazione storica e politico-letteraria”, pp. LVI-LVIII. 275 Sull’argomento di questa Considerazione e sull’interpretazione di Tacito elaborata da Luzzatto, si veda MELAMED, “Simone Luzzatto on Tacitus”, pp. 143-170. 276 Philo Judaeus, Legatio ad Caium 277.

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    Luzzatto si riferisce qui alla versione greca della Bibbia, ad opera di settantadue traduttori e comunemente detta Septuaginta oppure Settanta (LXX). L’autore allude al fatto che la LXX non sia stata recepita dall’ambiente greco-romano, un dato di fatto che poi fu evidenziato da MOMIGLIANO, Alien Wisdom, pp. 91 segg. 278 Flavio Giuseppe: (37/38 d.C. – morto probabilmente dopo il 100 d.C.), membro dell’aristocrazia sacerdotale. Le sue opere storiche più importanti sono il Bellum iudaicum e le Antiquitates iudaicae. 279 Non è storicamente documentabile se le opere di Filone siano state accessibili e conosciute nell’ambiente romano. Anche Giuseppe Flavio non era probabilmente noto al pubblico romano. 280 Il riferimento è all’ordine di svolgimento degli avvenimenti ripartiti nei libri della Bibbia. 281 Secondo Flavio Giuseppe (Contra Apionem II, 79-80), Apione, basandosi sull’autorità di Posidonio e Apollonio Molo, diffamava gli ebrei sostenendo che essi conservavano nel Tempio una testa d’asino d’oro. Luzzatto mette qui in collegamento due autori, Flavio Giuseppe e Tacito. È opportuno rilevare che Flavio Giuseppe non parla esplicitamente di onolatria, cosa che, invece, la riporta Tacito (si vedano le due note seguenti). 282 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 4, 4-5. 283 La vicenda è tramandata da Tacito (Historiae V, 3). Secondo lo storico romano, questo era il motivo per cui gli ebrei avevano consacrato nel loro Tempio l’effigie di questo animale (si veda nota precedente). A sua volta, Plutarco (Quaestiones convivales IV, 5, 2) riferisce che gli ebrei adoravano l’asino in quanto ne veneravano le sue capacità di rabdomante (“scoprendo sorgenti”). 284 Questo episodio è narrato da Tertulliano (Apologeticum XVI, 1-2) che a sua volta rimanda al libro V delle Historiae di Tacito. Secondo Tertulliano, l’accusa rivolta ai cristiani di adorare una testa d’asino derivava dalla stessa accusa che Tacito aveva mosso contro gli ebrei. Nelle righe successive del capitolo XVI, Tertulliano confuta l’accusa, almeno per quanto riguarda i cristiani. 285 Sull’origine e la storia del motivo del culto dell’asino attribuito agli ebrei si veda innanzitutto BICKERMAN, “Ritualmord und Eselskult”, pp. 171187e pp. 255-264; si veda anche SCHÄFER, Giudeofobia. 286 Diffetosi, ovvero “difettosi”, in questo contesto Luzzatto si riferisce a genitori che hanno qualche difetto di conformazione fisica, oppure qualche disfunzione degli organi. 287 La pagina 59 è assente, al suo posto compare due volte pagina 60. Si tratta di un errore di paginazione che non incide sul senso. 288 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 5,18-19. 289 Ibidem, II, 78: “Est Iudaeam inter Syriamque Carmelus: ita vocant montem deumque. nec simulacrum deo aut templum – sic tradidere maiores – ara tantum et reverentia”. 290 Si veda Numeri 17, 8 (Vulgata clementina): “Sequenti die regressus invenit germinasse virgam Aaron in domo Levi: et turgentibus gemmis eruperant flores qui, foliis dilatatis, in amygdalas deformati sunt”. 291 Luzzatto si riferisce qui ad una tradizione che viene anche riportata

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    NOTE

    dall’Epistola ad Hebreos 9, 3-4: “Post velamentum autem secundum, tabernaculum, quod dicitur Sancta sanctorum: 4 aureum habens thuribulum, et arcam testamenti circumtectam ex omni parte auro, in qua urna aurea habens manna, et virga Aaron, quæ fronduerat, et tabulæ testamenti”. 292 A riguardo si veda Numeri 21, 4-9. Luzzatto forse aveva ammirato gli affreschi del Tintoretto nella Scuola Grande di San Rocco, dove è raffigurato Mosè che guarisce il popolo di Israele col serpente di bronzo. 293 Si veda II Re 18, 4 (Bibbia ebraica), IV Regum 18, 4 (Vulgata clementina). 294 Sono stati aggiunti virgola e accento per facilitare la comprensione. 295 L’intera vicenda è narrata in Josue 4, 1-7. Per quanto detto da Luzzatto si veda in particolare Josue 4, 7 (Vulgata clementina): “Respondebitis eis: defecerunt aquae Iordanis ante arcam foederis Domini, cum transiret eum: idcirco positi sunt lapides isti in monimentum filiorum Israël usque in aeternum”. 296 Si veda I Samuele 22, 9-19 (Bibbia ebraica), I Regum 22,13-19 (Vulgata clementina). Tuttavia il testo biblico parla della spada di Golia che David aveva ucciso e non, come afferma Luzzatto, della spada con la quale David aveva ucciso Golia. 297 Si veda Judicum 15, 19 (Vulgata clementina): “Aperuit itaque Dominus molarem dentem in maxilla asini, et egressæ sunt ex eo aquæ. Quibus haustis, refocillavit spiritum, et vires recepit. Idcirco appellatum est nomen loci illius, Fons invocantis de maxilla, usque in præsentem diem”. 298 Luzzatto si riferisce nuovamente a Tacito. 299 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 5, 7-8. 300 Si veda Diodorus Siculus, Bibliotheca historica I, 27, 1. 301 Si veda Philo Judaeus, De specialibus legibus III, 13. 302 Si veda CANTARELLA, Diritto romano; Plutarco (Vita Romuli XXII, 3) riferisce che Romolo aveva promulgato delle leggi secondo le quali le mogli non potevano abbandonare i mariti. Questi ultimi potevano ripudiarle, ma solo qualora esse si fossero macchiate di colpe specifiche come l’uso di veleni, scambio di bambini oppure adulterio. 303 L’episodio della visita di Licurgo all’oracolo di Delfi e la risposta della Pizia che gli si rivolge, chiamandolo ‘piuttosto dio che uomo’, sono tramandati da Plutarco (Vita Lycurgi V, 3). È sempre Plutarco (Ibidem XV, 7-8), a spiegare che Licurgo aveva permesso agli Spartani di far unire le proprie mogli con altri uomini che non fossero i loro mariti, ma che fossero di valore, in modo da dar vita alla miglior prole possibile. La ragione di questo uso, spiega ancora Plutarco, è da rintracciare nel fatto che a Sparta la prole era ritenuta di proprietà dello stato e non dei padri. 304 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia II, 380-383. 305 A riguardo si veda Plutarchus, Vita Catonis Uticensis XXV. Catone sposò Marcia, in seguito divorziò per farla sposare con Hortensius, un avvocato di grido. 306 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia II, 344-345. 307 Si veda Deuteronomium 24, 1-4. 308 Si veda Leviticus 18, 19.

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    Si veda Numeri 25. Si veda Judicum 19. Per quanto riguarda la punizione dei Beniaminiti e la loro distruzione, si veda il capitolo successivo. Il giuramento è riportato in Judicum 21, 1. 311 Preversa, qui per “perversa”. 312 L’intero episodio è narrato in II Samuele 13, 1-19 (Bibbia ebraica) e II Regum 13, 1-19 (Vulgata clementina). 313 Si veda Talmud Babilonese, Sanhedrin 21a. 314 Il peccato e la punizione di David sono narrati in II Samuele 11 e 12, 1-19 (Bibbia ebraica) e in II Regum 11 e 12, 1-19 (Vulgata clementina). 315 Si veda Salmi 51, 15 (Bibbia ebraica) e Psalmi 50, 15: (Vulgata clementina): “Docebo iniquos vias tuas, et impii ad te convertentur”. 316 Si veda II Samuele 16, 20-23 (Bibbia ebraica) e II Regum 16, 20-23 (Vulgata clementina). Come nelll’episodio di Amnon, che aveva seguito il suggerimento di Jonadab per sedurre Tamar, anche qui il consiglio di Achitophel, espressamente menzionato da Luzzatto, ha un ruolo fondamentale. Sul machiavellismo di questo periodo, si vedano a titolo di esempio: VIROLI, Dalla politica alla ragion di Stato; MEINECKE, Machiavellism, p. 25 segg; MEYER, Machiavelli, p. 109; PROCACCI, Machiavelli. 317 Coadiutore, ovvero “collaboratore”. Si tratta di persone che sono d’aiuto o fanno le veci di altre persone in determinati casi (lat. tardo coadiutor). 318 Fin qui Luzzatto segue l’interpretazione dell’episodio suggerita da Rashi. A riguardo si veda FRIEDMAN, Diritto e morale, p. 395. 319 Absalon è presentato da Luzzatto nel vesti di una sorta di Cesare Borgia, consigliato dal sagace Achitofel, si veda MELAMED, Philosopher-King, p. 172. 320 È evidente il riferimento al capitolo XVII del Principe, intitolato Della crudeltà e pietà e s’elli è meglio esser amato che temuto, o più tosto temuto che amato: “Era tenuto Cesare Borgia crudele, nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace et in fede. [...] Debbe pertanto uno principe non si curare della infamia di crudele per tenere e’ sudditi sua uniti e in fede, [...]. E infra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele”. Machiavelli, Principe, pp. 226-227. Melamed sottolinea quanto Luzzatto, come Machiavelli e Botero, consideri necessaria la mancanza di scrupoli da parte del principe (Philosopher-King, p. 171). 321 Luzzatto si riferisce alle atrocità che avvennero durante la guerra dei mercenari cartaginesi, che ebbe inzio dopo gli accordi di pace tra Roma e Cartagine alla fine della prima guerra punica. Questi mercenari si ribellarono ai cartaginesi che avrebbero dovuto servire. La guerra si articolò in varie rivolte e scontri, ai quali fecero seguito una serie di atrocità. La vicenda è narrata da Polibio (Historiae I, 65-88). Annone fu inviato dal governo cartaginese per sedare le rivolte. Luzzatto potrebbe riferirsi all’episodio specifico narrato da Polibio (Historiae I, 73-74). Durante il primo scontro contro i ribelli Annone per imperizia perse il controllo degli elefanti che irruppero nell’accampamento nemico calpestando tutto ciò che potevano. Nella fase finale della guerra, fu Amilcare, che aveva ormai preso il controllo delle forze cartaginesi, ad 310

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    assaltare gli accampamenti dei mercenari con attacchi notturni improvvisi e tutti coloro che venivano catturati vivi venivano gettati agli elefanti (Polibius, Historiae I, 84). 322 Luzzatto menziona qui un episodio avvenuto nel 88 a. C. durante la prima guerra mitridatica (89 – 85 a. C.) che vide opporsi Mitridate VI re del Ponto agli eserciti romani guidati da Silla. L’espressione “vespri efesini”, è stata coniata da Theodor Reinach e si riferisce al massacro di 80.000 romani e italici residenti nei territori controllati da Mitridate come rappresaglia contro Roma. A riguardo si veda REINACH, Mithridates Eupator. 323 Iulia Augusta Agrippina, o Agrippina la giovane (16 – 59 d. C.), madre di Nerone. Luzzatto sembra qui seguire la versione di Tacito (Annales, XIV, 2-8), che racconta che Agrippina assetata di potere arrivò al punto di tentare di sedurre Nerone mentre questi era ubriaco. Essendo ella divenuta troppo pericolosa, l’imperatore la fece uccidere. Tuttavia. Tacito precisa anche che al tempo circolava una versione diversa secondo la quale era invece Nerone che desiderava Agrippina. Svetonio (Vitae Caesarum, Nero 28) sembra seguire questa versione, per poi concludere che in seguito Nerone, sentendosi troppo oppresso dalla madre, la fece uccidere (ibidem, 34). 324 Gaius Svetonius Tranquillus, Ibidem, Divus Augustus 69, 1. 325 Decimus Junius Iuvenalis, Satura II, 126-129. 326 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 5, 7-8. 327 Ibidem: “Et quia apud ipsos fides obstinata, misericordia in promptu, sed adversus omnes alios hostile odium”. 328 Inferire, termine antico per “palesare” . 329 Spermuta, qui per “spremuta”. 330 Si veda Flavius Josephus, Antiquitates Iudaicae III, 7. 331 Philo Judaeus, De specialibus legibus I, 97. 332 Esdrae 6, 10 (Vulgata clementina): “Et offerant oblationes Deo caeli, orentque pro vita regis, et filiorum eius”. 333 Sull’incontro tra Alessandro Magno ed il Gran Sacerdote Jaddua, si veda Flavius Josephus, Antiquitates Iudaicae XI, 317 e 326-337. 334 Jeremias 29, 7(Vulgata clementina): “Et quaerite pacem civitatis ad quam transmigrare vos feci et orate pro ea ad Dominum quia in pace illius erit pax vobis” (Vulgata clementina). 335 Fregolato, ovvero “frenetico”, da “fregola”, nel senso di “voglia, appetito intenso” (derivato di fregare). 336 Dimanare ovvero “provenire, derivare” (spagnolo dimanar, provenire). 337 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 5, 27-28. 338 Primo: primo libro del De rerum natura. 339 Titus Lucretius Carus, De rerum natura I, 101. 340 I Re 5, 29 (Bibbia ebraica), III Regum 4, 26 (Vulgata clementina): “Et habebat Salomon quadraginta millia præsepia equorum currilium, et duodecim millia equestrium”. 341 Nel 20-19 a. C. Erode il Grande aveva avviato lavori di restauro e ampliamento del Tempio di Gerusalemme, in un anno e mezzo il Tempio era stato completato, seguendo il progetto dell’impianto salomonico. I lavori

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    terminarono nel 64 d.C., poco prima della distruzione del Tempio ad opera dei Romani. 342 Trattato mishnico-talmudico Sheqalim. Si veda Mishna, Sheqalim 4, 1-9, dove vengono descritti i sacrifici e le attività connesse dei sacerdoti (la “terzadecima parte del popolo” nel testo di Luzzatto). Si veda anche Mishna, Sheqalim 5, 1-6 continuazione del capitolo precedente che menziona i sacerdoti responsabili dei vari compiti. 343 Isocrates, Busiris 226d. 344 Decimus Junius Iuvenalis, Satura XV, 1-4. 345 Ibidem, 9-12. 346 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 13, 1-3. 347 Ibidem, V, 5, 20-21. 348 Si veda VELTRI, Magie, p. 23 e segg. 349 Giuditiaria elletiva: arte divinatoria di leggere il giudizio del cielo sulle vicende terrene, si veda l’espressione “astrologia giudiziaria”, usata nel XVII secolo. 350 Svelere, ovvero “svellere, estirpare”. 351 I Re 18, 21 (Bibbia ebraica), III Regum 18, 21 (Vulgata clementina). Al posto di “eum” la Clementina legge “illum”. 352 Isaias 40, 26 (Vulgata clementina): “Levate in excelsum oculos vestros et videte quis creavit haec: qui educit in numero militiam eorum”. 353 Plutarchus, Vita Lysandri VIII, 4. Plutarco riporta lo stesso detto anche nei Moralia 330f (De Alexandri Magni fortuna aut virtute libri II) e lo attribuisce invece a Dioniso. Claudio Eliano, (Varia historia VII,12) riporta altrimenti il detto, attribuito da alcuni a Lisandro e da altri a Filippo il Macedone. 354 Publius Cornelius Tacitus, Annales IV, 71, 3-5. 355 Psalmi 13,1 (Vulgata clementina): “In finem psalmus David dixit insipiens in corde suo non est Deus”. 356 Detestando, cioè “da detestare”. 357 La guerra tra i titani e gli dèi dell’Olimpo è narrata da Esiodo nella Teogonia (617-720). Resta, tuttavia, da stabilire se Luzzatto abbia letto Esiodo o se invece non stia qui facendo riferimento ad altre fonti che rimangono da identificare. 358 Quintus Curtius Rufus, Historiae Alexandri Magni IV, 10, 7. Lo stesso testo è citato anche da Spinoza nel suo Tractatus theologico-politicus, “Praefatio”, VIII. 359 Proverbia 17, 16 (Vulgata clementina): “Quid prodest stulto habere divitias, cum sapientiam emere non possit”. 360 I Re 3, 11 (Bibbia ebraica), III Regum 3, 11 (Vulgata clementina): “Et dixit Dominus Salomoni: quia postulasti verbum hoc, et non petisti tibi dies multos, nec divitias, aut animam inimicorum tuorum, sed postulasti tibi sapientiam ad discernendum iudicium”. 361 I Re 3, 13 (Bibbia ebraica), III Regum 3, 13 (Vulgata clementina): “Sed et haec quae non postulasti, dedi tibi: divitias, scilicet, et gloriam, ut nemo fuerit similis tui in regibus cunctis retro diebus”. 362 Detto di Epicarmo, citato da Senofonte (Memorabilia II, 1, 20). 363 Psalmi 26, 14 (Vulgata clementina): “Expecta Dominum, viriliter age:

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    et confortetur cor tuum, et sustine Dominum”. 364 Proverbia 11, 9 (Vulgata clementina): “Simulator ore decipit amicum suum; justi autem liberabuntur scientia”. 365 I cosiddetti nomina barbara, si veda VELTRI, Magie, p. 190 e segg. 366 Titus Livius, Ab urbe condita VI, 18. 367 Job 18, 4 (Vulgata clementina): “Qui perdis animam tuam in furore tuo, numquid propter te derelinquetur terra, et transferentur rupes de loco suo?”. 368 L’errata interpretazione di un episodio dovuto a cause naturali da indagare scientificamente è un argomento caro a Luzzatto e sul quale egli ritornerà anche nel Socrate (p. 214, per le fonti si veda la nota 494 alla pagina 457-458 di questa edizione). 369 La credenza era in voga anche presso i rabbini in epoca talmudica; Azaria de’ Rossi la intepretava come influenzata dall’ambiente storico e culturale, mentre il Maharal di Praga vedeva in essa il frutto di una scienza occulta, profonda e divina. Luzzatto conosceva ambe le interpretazioni, si veda VELTRI, “Maharal against Azaria de Rossi”. 370 A differenza di Nicia, che si lasciò sopraffare da un timore superstizioso, Giulio Cesare Druso Germanico seppe volgere a suo favore la superstizione dei soldati ammutinati. L’episodio è narrato da Tacito (Annales I, 28). 371 Colgiessero, qui per “cogliessero, colpissero”. 372 Proverbia 25, 2 (Vulgata clementina): “Gloria Dei est celare verbum, et gloria regum investigare sermonem”. 373 Publius Vergilius Maro, Aeneis VI, 258–259. Per un uso di questa citazione virgiliana nelle scienze occulte si veda quanto scrive l’umanista ed enciclopedista fiorentino Petrus Crinitus (Pietro Riccio, 1465-ca. 1504), nel suo De honesta disciplina 6,3. 374 I Regum 8, 12. 375 Illaqueare, ovvero “irretire” (lat. illaqueare). 376 Exodus 20, 21 (Vulgata clementina): “Stetitque populus de longe Moses autem accessit ad caliginem in qua erat Deus”. 377 Ibidem. 378 Sulle fonti dell’immagine luzzattiana del principe rispetto alla religione si veda SYROS, “Simone Luzzatto”, p. 159. 379 Salmi 139, 14 (Bibbia ebraica), Psalmi 138, 14 (Vulgata clementina): “Mirabilia opera tua et anima mea cognoscit nimis”. La stessa citazione del Salmo 138, 14, si ritrova in un contesto simile nella disputatio De Miraculis (Tubingae 1571, 3) di Casparus Arcularius, tenuta davanti al famoso teologo protestante Jakob Heerbrand (1521–1600): “Tale est vere mirandum Dei opus procreatio hominis, de qua David inquit: Celebrato te, propterea quod mirabiliter mirifice factus sum, Mirabilia opera tua, et anima mea cognoscet abunde. Talia sunt miranda Dei opera, regulares corporum cœlestium motus, quod quotannis fœcundatur terra, proventus frugum, omnia terra nascentia, et alia consimilia multa”. 380 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 13, 2-3. 381 “Regola Lesbia” è la regola o principio di adattabilità della legge, come afferma Torquato Tasso nella sua La Cavaletta overo de la poesia Toscana: “Ma

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    avete voi osservato ch’alcuna volta non potendosi la materia adattare a la regola, la regola si piega a la materia, come avveniva di quella che fu detta regola lesbia?”. Per la prima enunciazione di questa regola si veda Aristoteles, Ethica Nichomachea V, 14 (1137b 29-33: “Come il regolo di piombo usato nelle costruzioni di Lesbo: il regolo si adatta, infatti alla forma della pietra, non sta rigido; ed anche il decreto si adatta ai fatti”, passo citato in FERRAIOLI, Diritto e ragione, p. 135). 382 Decimus Junius Iuvenalis, Satura XIV, 96-97. 383 Publius Cornelius Tacitus, Historiae V, 4, 11-13. 384 Decimus Junius Iuvenalis, Satura XIV, 105-106. 385 Marcus Tullius Cicero, De Officiis III, 1, 3-4. 386 Exodus 31, 15 (Vulgata clementina): “Sex diebus facietis opus: in die septimo sabbatum est, requies sancta Domino; omnis qui fecerit opus in hac die, morietur“. È difficile comprendere la ragione dell’errore di riferimento biblico, probabilmente frutto di un refuso di stampa, soprattutto perché il manoscritto di questa parte del Discorso non è stato ritrovato. Potrebbe anche trattarsi di un riferimento a Leviticus 23 (32 per 23), 2 (Vulgata clementina): “Sex diebus facietis opus: dies septimus, quia sabbati requies est, vocabitur sanctus: omne opus non facietis in eo: sabbatum Domini est in cunctis habitationibus vestris”. 387 Prostibuli, qui per “postriboli”. 388 Quintus Horatius Flaccus, Satyrarum Libri I, 2, 31-35. 389 Gaius Svetonius Tranquillus, Divus Augustus II, 76. 390 Ibidem. 391 Nella stampa dell’Angelica la paginatura è errata e riporta qui 74 anziché 72. 392 Publius Vergilius Maro, Georgicon I, 82-83. 393 Marcus Tullius Cicero, De officiis II, 73, 5-9. La presenza della variante “omnino” indica che probabilmente Luzzatto ha citato dall’edizione veneziana di Aldo e Paolo Manuzio del 1601. Si veda In M. Tulli Ciceronis De officiis Libros tres, Aldi Manuccii, Paulli F. Aldi N. Commentarius, p. 109. 394 Si veda LANG, Flavii Vegetii Renati epitoma. 395 Traduzione latina del detto greco ΐ΋ΈξΑȱΩ·΅Αȱ“niente di troppo” era incisa sul frontone del Tempio di Apollo a Delfi. Diogene Laerzio, che è con tutta probabilità una delle fonti di Luzzatto, la attribuisce a Solone (Diogenes Laertius, Vitae philosophorum I, 2, 63). Luzzatto deve avere avuto sotto mano l’edizione dei Plutarchi Chaeronensis Moralia che riportava questa massima, curata da Guilielmus Xylander e publicata a Venezia presso Geronimo Scoto nel 1572. 396 Quintus Horatius Flaccus, De arte poetica 323-324. 397 Questa convinzione è tipicamente rabbinica, si veda Bereshit Rabba 16, 4: “Rabbi Chuna;.una disse: Il dominio greco è stato superiore a questo governo malvagio [il romano] in tre cose: nella costruzione del tempio [variante: nell’arte del governo], nell’arte [variante: nella tecnica libraria] e nella lingua”. Secondo il Talmud di Palestina, trattato Megilla 1,11 (ed. Venezia 71b), la lingua greca è lingua di poeti, quella latina di soldati. 398 Vitte, qui per “vite”.

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    399 Ancora una volta è il caso di segnalare la scelta strategica di Luzzatto che difende “le lettere e scientie” degli ebrei citando un padre della Chiesa, Eusebio di Cesarea, e scegliendo tra le sue opere proprio il De evangelica praeparatione, in cui Eusebio dimostra la superiorità della religione ebraica sulle religioni politeiste (si vedano in particolare i libri VII e VIII). Naturalmente, Luzzatto sorvola sul fatto che nell’opera successiva, De evangelica demonstratione, Eusebio dimostra la superiorità del cristianesimo rispetto all’ebraismo. Luzzatto doveva conoscere l’edizione veneziana del De praeparatione evangelica, (edita da) Nicolaus Jansen nel 1470 e si riferisce probabilmente alle citazioni eusebiane di frammenti d’autori giudeo-ellenistici. A riguardo, si veda STERN, Greek and Latin Authors, 1, pp. 47-48 (su Clearchus); pp. 45-46 (su Megasthenes), 2, pp. 206-216 (su Noumenios) e VELTRI, “Dalla tesi giudeo-ellenistica”. 400 Deuteronomium 4, 6 (Vulgata clementina): “Haec est enim vestra sapientia, et intellectus coram populis, ut audientes universa praecepta haec, dicant: En populus sapiens et intellegens, gens magna”. 401 Si veda Quintus Horatius Flaccus, II Epistulae 1, 156-157: “Graecia capta ferum victorem cepit et artis intulit agresti Latio”. 402 Edditi, qui per “editti”. 403 Flavio Claudio Giuliano: (Constantinopoli 331 – Maranga 363), detto dai cristiani Giuliano l’apostata. Malgrado si fosse mostrato tollerante nei confronti di tutte le religioni fu considerato un persecutore poiché reintrodusse il culto politeista nell’Impero romano. 404 Inscitia, latinismo per “imperizia, ignoranza”. 405 Edace, ovvero “che divora”, metaforicamente “che consuma” (lat. edax, da edere, mangiare). 406 Fimbrie, ovvero “orli, frange” (lat. fimbriae forma plurale). 407 Luzzatto non sembra sforzarsi di nascondere la sua avversione contro questi ultimi. Si veda VELTRI, Renaissance Philosophy, p. 30 e segg. 408 Luzzatto si riferisce alla composizione della Mishna, secondo la concezione tradizionale che è stata trasmessa ad esempio da Sherira Ga’on oppure Maimonide; su tutta la questione si veda SCHLÜTER, Auf welche Weise. 409 Rabbi Yehuda ha-Nasi: probabilmente vissuto tra II e III secolo d. C. fu tradizionalmente ritenuto il redattore della Mishna. 410 Il calendario rabbinico per calcolare le feste è lunisolare, quello biblico era probabilmente solare; per tutta la questione si rimanda al classico di MAHLER, Handbuch der jüdischen Chronologie, su cui si basano, almeno in parte, quasi tutti i lavori successivi. 411 Si rimanda in questa sede a STERN, Calendars and Community e a BICKERMAN, Chronology. 412 Al Batani: (Abu ‘Abd Allah Mohammad ibn Jabir ibn Sinan al-Battani al-Harrani al-Sabi’), oppure secondo il nome latino Albatenius (circa 850 – 929 d. C.) famoso astronomo, autore di varie opere, tra cui il Kitab al-]Løø, tradotto in latino già a partire dal XII secolo col titolo De motu Stellarum. 413 Diminutti, qui per “diminuiti”. 414 Titus Livius, Historia Romana I,19. 415 Scaliger, De emendatione temporum; su Scaligero si veda GRAFTON, Joseph Scaliger.

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    Jeremias 6, 10. Migliara, ovvero “migliaia”. 418 La tradizione rabbinica afferma che Mosè ricevette sul Sinai sia la Legge orale che la Legge scritta, si veda Mishna, Avot 1,1-3. La ricerca moderna tende a vedere nella legge orale uno sviluppo anche parallelo della Tora che si è poi cristalizzato nell’epoca talmudica, tra il primo e l’ottavo secolo della nostra era. Su questo aspetto si rimanda al classico lavoro di STEMBERGER, Introduzione al Talmud e al Midrash, e alle edizioni successive anche in tedesco per una bibliografia dettagliata e ragionata. 419 Sesto, ovvero “sesto libro”. 420 Il testo a cui si riferisce Luzzatto non si trova nel capitolo sesto del Bellum Iudaicum, ma nelle Antiquitates Iudaicae XVIII, 259. 421 Si veda VELTRI, Libraries, pp. 100-146. 422 Tuttavia, le opere di Filone non erano sconosciute in ambito ebraico, come si è rilevato già sopra; si veda inoltre VELTRI, “The Humanist Sense”, p. 383. 423 Saadia ben Joseph: (882 – 942 d. C.), fu Ga’on, capo, dell’accademia rabbinica babilonese di Sura. Tra le sue molte opere Luzzatto sembra qui rifersi espressamente al Sefer ha-’emunot we-ha-de‘ot. 424 Ga’on in ebraico. 425 Figli di Agar, Agareni, venivano denominati i musulmani. 426 Moses ben Maimon oppure Maimonide (1135-1204), talmudista, filosofo, astronomo e medico. L’opera a cui Luzzatto si riferisce è il More nevukhim [per la traduzione italiana si veda ZONTA (a cura di), La guida dei perplessi]. 427 Qui il nostro usa “e” al posto di “&”. 428 Levi ben Gershom: (acronimo RaLBaG), comunemente chiamato in latino Gersonide. 429 In realtà 52! Nato nel 1288, Gersonides morì nel 1344. 430 È l’unica volta nel Discorso in cui Luzzatto fa riferimento al contenuto manoscritto della sua biblioteca personale. 431 Claudio Tolomeo: concluse nella prima metà del II secolo d. C. l’Almagesto che fino alle scoperte di Copernico fu alla base delle conoscenze astronomiche nel mondo arabo-musulmano e in Europa. 432 In corsivo nella stampa dell’Angelica. L’opera più importante RaLBaG è il Sefer milchamot Adonai – Bella Domini (Libro delle Guerre del Signore), in cui egli fa spesso riferimento ai suoi commenti a Averroè e alla Bibbia. 433 Si noti con quale dovizia di particolari Luzzatto descriva l’opera di Levi ben Gershom in confronto al tono di lode, ma anche di distanza usato per Maimonide. Sull’impatto di Gersonide nella letteratura ebraica, si veda KELLNER, “Gersonides and His Cultured Despisers”. 434 Chasdai Ben Yehuda Crescas: (ca. 1340 - 1410/11) è stato una delle principali autorità rabbiniche del suo tempo, coinvolto anche nella vita politica del regno aragonese. 435 Da notare che Luzzatto discute l’opera filosofica di Crescas, Or haShem (Luce di Dio), senza nominarlo. Inoltre, qui ci si aspetterebbe che l’autore menzioni espressamente l’oggetto delle critiche di Crescas, che non è 417

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    Aristotele in primo luogo, bensì Maimonide. 436 Si tratta dell’Examen vanitatis doctrinae gentium, lo scritto più noto di Pico della Mirandola, pubblicato nel 1520. Fu influenzato dal trattato filosofico di Crescas, Or ha-Shem. 437 Luzzatto si riferisce a Joseph Albo, sul suo impatto nel mondo cristiano si veda RAUSCHENBACH, Josef Albo. 438 Abraham ben Meir Ibn Ezra: (1089 – 1164), fu esegeta e in particolare anche poeta. 439 Luzzatto nomina qui solo autori en vogue nel mondo cristiano. 440 In questo periodo parentetico Luzzatto riporta l’opinione di Azaria de’ Rossi senza citarla esplicitamente. De’ Rossi sottolineò le contraddizioni tra alcune credenze dei talmudisti ed i risultati apportati dalla ricerca scientifica, si veda VELTRI, “The Humanist Sense”, pp. 389-391. 441 In questo periodo Luzzatto sintetizza ciò che tratterà più tardi nel Socrate. Si veda l’introduzione a questo volume. 442 Luzzatto si riferisce qui alle Conclusiones numero XLVII. secundum doctrinam sapientum hebreorum Cabalistarum, quorum memoria sit semper in bonum di Pico della Mirandola. 443 Dall’ebraico qabbala, ʤʬʡʷ, da ʬʡʷ[qibbel], “ricevere”, specificamente “conoscenza/insegnamento ricevuto o tradizionale”. La bibliografia degli studi sulla qabbala è ragguardevole, a titolo di introduzione si possono vedere SCHOLEM, La Kabbalah; IDEL, Qabbalah. Nuove prospettive; MOPSIK, Cabale et cabalistes; BUSI, Mistica ebraica. Su Luzzatto e sulle sue fonti qabbalistiche si veda SECRET, “Un texte mal connu de Simon Luzzato”, pp. 121-128. 444 La Qabbala è ripartita da una parte in un sistema teosofico-teoretico (qabbala ‘iyyunit), dall’altra, nella qabbala pratica o teurgica, la qabbala ma‘asit. 445 Le sefirot, ovvero attributi, compaiono nel Sefer yetsira (Libro della creazione). Una traduzione italiana autorevole del testo non è ancora disponibile. Per la traduzione inglese si veda HAYMAN (a cura di), Sefer Yetsira; per il francese FENTON, Sefer yetsira. 446 Su Eraclito di Efeso si veda la nota 62 a pagina 436 del presente volume. 447 Aristoteles, Metaphysica X,1, 9-10 (1052b). 448 Plato, Theaetetus 156a. 449 Ibidem, 157a. 450 Ibidem, 156b. 451 Si veda Plato, Cratylus 392a e segg. 452 Probabilmente si riferisce a Aristoteles, Metaphysica IV, 2, 1003a 33. 453 Qui si è mantenuta la “et” dell’edizione originale. 454 Nella Lettera VII, Platone ammette, oltre al mondo sensibile e al mondo delle idee, un superiore piano ontologico (primario) occupato dai princìpi primi (Uno e Diade), da cui discendono le idee; inoltre, particolare risalto viene dato ai concetti matematici e alla loro particolare posizione. Si veda REALE, introduzione, p. 56 segg. 455 Philo, De specialibus legibus 1, 45. “De Monarchia” è la sezione all’interno del De specialibus legibus.

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    Ibidem, 47-48. Soriani, ovvero “siriani”. 458 Plotino: (205 – 270 d. C.) fu discepolo del filosofo Ammonio Sacca ad Alessandria. Il suo pensiero è ritenuto essere alla base del neoplatonismo. 459 Giamblico: (III – IV d. C) allievo di Porfirio. 460 Porfirio: (ca. 234 – 305/310 d. C.) allievo di Plotino e filosofo neoplatonico. 461 Il De caelo o De caelo et Mundo è il principale trattato cosmologico di Aristotele, vi si trovano la sua teoria astronomica e i suoi studi sulla sfera terrestre. 462 Valentino: di origine egiziana, fu un importante teologo gnostico. Fondò una sua scuola a Roma e fu attivo nella città dal 140 al 160 d. C., data della sua morte. 463 Epifanio di Salamina (o di Costanzia): scrittore attivo nel IV secolo d. C. 464 Ireneo di Lione: (ca. 135/140 – ca. 200 d. C.). 465 Avicenna: (in arabo Ibn Sina) medico e filosofo di origine persiana (980 – 1037 d. C.). 466 Nello Zohar questa corporeità spirituale riveste Adamo ed Eva prima della caduta delle “tuniche di luce”. Si veda MOPSIK, Livre de Ruth, p. 87. 467 Sulla credenza dei Kabbalisti che esista tra l’anima (intellettiva) e il corpo un’anima aggiuntiva capace di passione si veda VELTRI, Platonische Mythen, pp. 195-212. 468 Dante, Purgatorio XXV, 79-84. 469 Bernardino Daniello: (XVI secolo) autore di un commento alla Divina Commedia. 470 Alessandro Vellutello: (XV – XVI secolo), a sua volta autore di un commento alla Divina Commedia. 471 Iustus Lipsius: (XVI – XVII secolo) umanista fiammingo. 472 Anzi che, ovvero “prima che, anzi”. 473 Si tratta del Sefer yetsira, si veda nota 445 alla pagina 428 del presente volume. 474 Si tratta del Sefer ha-zohar (Il libro dello splendore). 475 Rabbi Moses ben Nachman (RaMBaN; conosciuto come Nachmanides e Bonastruc da Porta), nato a Gerona (1194 – 1270) talmudista spagnolo esegeta e medico. 476 Luzzatto avrebbe composto un trattato sui Caraiti insieme a Rabbi Leone Modena. Si veda Wolf, Bibliotheca Hebrea 3, 1150. Potrebbe trattarsi di una falsa attribuzione o di un’opera non più reperibile. 477 La presentazione dei Caraiti è molto di parte e non dà ragione della persistenza di questo gruppo, che non era solo a levante come dice Luzzatto. Sui Caraiti in Polonia e Lituania si veda SCHREINER, “Josef Schelomo Delmedigos Aufenthalt”, pp. 207-232; su Luzzatto e la sua attendibilità, p. 226. 478 Psalmi 88, 3 (Vulgata clementina): “Quoniam dixisti: In æternum misericordia ædificabitur in cælis; præparabitur veritas tua in eis”. 479 Digladiatione, termine letterario che designa una “battaglia, disputa, 457

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    contesa” (lat. digladiatio e digladiare, voce dotta). 480 Si veda sopra, Consideratione XI, 39v e soprattutto Consideratione XIV, 57r. 481 Emanuele I, re del Portogallo (1469-1521), ordinò nel 1496/1497 l’espulsione degli ebrei e dei musulmani, cui fece seguito un pogrom a Lisbona nel 1506. 482 I fatti di Lisbona sono descritti da Damião de Góis nella Crónica do felicíssimo Rei D. Manuel (1566-1567), ripresa, in versione latina, da Jerónimo Osório nel De rebus Emanuelis gestis (1586). Si veda YERUSHALMI, The Lisbon Massacre, e ROTH, Marranos, pp. 64-65. 483 Prevenuti, qui per “pervenuti”. 484 Tasso, Gerusalemme liberata XV, 20. Luzzatto cita questi stessi versi anche alla fine del Socrate, alla pagina 270 del testimone. 485 Sullo scetticismo luzzattiano e l’identità ebraica nella diaspora, si veda VELTRI, “Identità nell’essenzialità”, (in corso di stampa). 486 Si veda sopra, Consideratione XI, 38r e 39v, dove sono menzionati 1550 anni di dispersione. Questa ultima considerazione, in cui si parla di “1600 anni in circa”, sembrerebbe effettivamente posteriore nella redazione. 487 Iattanza, ovvero “ostentazione di superiorità, millanteria, presunzione”. 488 La storia di Bala’am è narrata in Numeri 22-24. Per il paragone tra il popolo ebraico e il cedro si veda in aprticolare Numeri 24, 6 (Vulgata clementina): “Quasi cedri prope aquas”. 489 Ahias: qui Hachià, profeta vissuto all’epoca dei primi re, Davide e Salomone, annunciò a Salomone che il suo regno sarebbe stato diviso tra suo figlio Roboamo e l’usurpatore Geroboamo. Per il paragone tra il popolo ebraico e la canna palustre si veda I Re 14, 15 (Bibbia ebraica) e III Regum 14, 15 (Vulgata clementina): “Sicut moveri solet arundo in aqua”. 490 Empito, ovvero “impeto, forza violenta e precipitosa” (lat. impetus). 491 Publius Ovidius Naso, Ars amatoria II, 179-180. 492 Si veda VELTRI, “Political Utopias”, pp. 249-269. 493 Holstein (lat. Holsatia), parte meridionale dello Schleswig-Holstein, Stato federato della Germania. 494 Il Regno di Fessa era considerato la seconda parte della Barbaria. Lo precedeva il Regno di Marocco, seguivano il Regno di Teleusin o di Tremissen e quello di Tunisi. Si veda Giovanni Antonio Magini, Geografia, p. 134 segg. 495 Fessa: l’odierna Fès, città del Marocco, capoluogo della provincia omonima. 496 Esther 3, 8 (Vulgata clementina): “Est populus per omnes provincias regni tui dispersus, et a se mutuo separatus, novis utens legibus et cæremoniis, insuper et regis scita contemnens: et optime nosti quod non expediat regno tuo ut insolescat per licentiam”. 497 Statista: emendato il refuso “stastita”. 498 Eunuco reggente del regno di Tolomeo XIII e istitutore del giovane Tolomeo XIV nell’antico Egitto. 499 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia VIII, 485-488. 500 Publius Vergilius Maro, Aeneis VI, 851-853.

    NOTE SOCRATE

    1 Displicentia oppure displicenza, termine antico per “dispiacere, dolore scontentezza” (lat. displicentia). Displicentia vs. complacentia è un’emozione, intesa come movimento della volontà, oggetto della psicologia medievale e moderna. Si veda KNUUTTILA, Emotions, p. 285. 2 Massime, ovvero “principalmente” (lat. maxime). 3 Luzzatto si riferisce alla guerra condotta dai veneziani contro l’impero ottomano per il possesso di Creta (Candia) tra il 1649 e il 1669. Il 10 luglio 1651, dunque proprio nell’anno della pubblicazione del libro, le flotte di Tommaso e Lazzaro Mocenigo riuscivano a battere i Turchi nelle acque di Paro (Paros). La guerra di Candia fu tuttavia vinta dai Turchi che nel 1669, 20 anni dopo l’apertura delle ostilità, ebbero il controllo di tutta l’isola. 4 Ecclesiastes 9,16. La Vulgata clementina legge: “Et dicebam ego melirem esse sapientiam fortitudine”. 5 Si veda Discorso 3v, parlando della “derelita prole”: “…. sotto il benignissimo e clementissimo cielo venetiano nata”. 6 Secondo Ruderman (Jewish Thought, p. 163) Luzzatto potrebbe rifersi a Leviticus 2, 1: “Anima cum obtulerit oblationem sacrificii Domino, simila erit eius oblatio; fundetque super eam oleum, et ponet thus”. È tuttavia anche possibile che il Nostro avesse in mente un passo dei Memorabilia di Senofonte (I, 1, 3) dove si legge che Socrate credeva che “gli dèi […] non farebbero bene a godere più delle grandi offerte che delle piccole, perché allora quelle dei cattivi sarebbero spesso più accette di quelle dei buoni, e per gli uomini la vita non sarebbe più sopportabile se i doni dei cattivi fossero più accetti agli dèi di quelli dei buoni: credeva, invece, che dèi godessero moltissimo degli onori degli uomini sommamente pii”. Per la traduzione italiana si veda GIANNANTONI (a cura di), Socrate. Tutte le testimonianze, p. 91. 7 Dopo la dedica è stampato un elenco di errata, integrati nel testo della presente edizione. Luzzatto introduce l’elenco come segue: “L’autore e stampatore: La corretione di libri è arte che ricerca straordinaria peritia. Et essendosi assonto l’emendatione di questo libro chi mai non praticò tal professione, fu cagione che anco straordinariamente vi accadessero quasi una infinità di errori di stampa. Pertanto suplichiamo il benigno lettore che incontrandosi in alcuna assordità di duplicationi di consonanti, discordanza grammaticale l’emenda, et in alcuno senso oscuro ricorra alla nota di errori che segue, e che benignamente patienti l’humana debolezza”. 8 Proverbia 30,18-19. La Vulgata clementina legge: “18. Tria sunt difficilia mihi et quartum penitus ignoro: 19. viam aquilae in caelo, viam colubri super petram, viam navis in medio mari et viam viri in adulescentia”. 9 Flatuoso, usato in riferimento a ciò “che genera gas nello stomaco e nell’intestino” oppure a ciò “che è gonfio di gas”, sempre in riferimento allo stomaco o all’intestino (lat. flatus). 10 Septico, ovvero “scettico”.

    432 11 Sulla delazione si veda infra, nota 34 a pagina 12 Vertire, attestato nel Grande dizionario col

    NOTE

    427. significato di “essere in corso o pendente”, soprattutto in riferimento ad una controversia o causa”, ma anche da intendersi nel senso di “consistere, svilupparsi intorno ad un determinato argomento”. 13 Propalare, cioè “divulgare, rendere noto” (lat. propalare). 14 Hippia oppure Ippia: (Elide, V/IV secolo a. C.), sofista. Appare in vari dialoghi platonici (Ippia maggiore, Ippia minore, Protagora). 15 Timone: (Fliunte, ca. 320 – 230 a. C.), contemporaneo e discepolo di Pirrone di Elide, nonché seguace dei suoi insegnamenti scettici. 16 Comendare, oppure commendare, termine desueto e letterario per “lodare, celebrare”. 17 Si è emendata la lettura originale: “lode”. 18 Peremptorio oppure perentorio, ovvero “che esige obbedienza immediata, dirimente”, ma anche “dispotico” (voce dotta lat. tardo peremptorius). 19 Settatore nel senso di “seguace, sostenitore”. 20 Intrudere, ovvero “spingere dentro, eventualmente con forza” (lat. medievale intrudere). 21 Satelitio, cioè “seguito, scorta”, anche figurativamente “appoggio dato ad un potere oppressivo”. Nel Dizionario del dialetto Veneziano è attestato come satelizio: “Termine ora assai conosciuto anche in Venezia, e dicesi nel significato di Sbirraglia, Corpo di birri o famigli” (lat. tardo satellitium). 22 Affrapare oppure frappare, letteralmente “tagliare minutamente”. Attestato nel Grande dizionario anche col significato figurativo di “ingannare, imbrogliare o anche inventare di sana pianta” (dal francese frapper, “battere”, ma anche “ingannare”). 23 Congresso, è un termine particolarmente ricorrente, soprattutto nella prima parte del Socrate e ha vari significati a seconda del contesto. In questo caso “congresso” può essere inteso nel senso antico e desueto di “urto fisico”, e dunque le pecore procedono a caso urtandosi l’un l’altra, oppure nel senso un po’ raro di “mucchio”, e dunque le pecore procedono seguendo il loro mucchio o gregge. 24 Dante Alighieri, Purgatorio III, 79-84. 25 Detrudere, ossia “cacciare fuori, espellere con la forza” (lat. detrudere). 26 Forma di ‘ipse dixit’, elemento che nella discussione filosofica introduce l’autorità. Tale autorità era inizialmente rappresentata da Pitagora (Marcus Tullius Cicero, De natura deorum I,10: “Nec vero probare soleo id quod de Pythagoreis accepimus, quos ferunt, si quid adfirmarent in disputando, cum ex iis quaereretur quare ita esset, respondere solitos ‘ipse dixit’; ipse autem erat Pythagoras: tantum opinio praeiudicata poterat, ut etiam sine ratione valeret auctoritas”). Nel Medioevo e nel Rinascimento lo ipse dixit era piuttosto usato in riferimento ad Aristotele, si veda Galileo, Dialogo, seconda giornata: “Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a cosí sensata esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d’Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit”. 27 Luzzatto si riferisce alla filosofia medievale latina che citava Aristotele come l’unica autorità contro cui non esistevano argomenti.

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    Aristarco di Samo: (ca. 310 – 230 a. C.), matematico greco. Era famoso per aver proposto un modello astronomico eliocentrico, e fu citato anche da Niccolò Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium libri IV. Benché la dottrina di Aristarco sia qui menzionata come esempio di errore che può essere commesso anche dai più grandi matematici, Yaacov Shavit (Athens in Jerusalem, p. 136) interpreta il riferimento come una “evidente allusione” a Galileo. 29 Reggimento, ovvero “governo”. 30 Coluvie, cioè colluvie, attestato nel Grande dizionario come “mucchio, ammasso di immondizie” (lat. colluvies). 31 Immediate, latinismo per “immediatamente”. 32 Qualunque, qui usato come pronome relativo indefinito, ovvero “chiunque”. 33 Mero, ovvero “semplice, autentico”, se preposto ad un altro aggettivo assume una funzione avverbiale col significato di “puramente, soltanto”. 34 La delazione anonima era la prassi consigliata dall’Inquisizione. Anche il “ricettacolo” di Luzzatto ricorda le “bocche de leon” istituite a Venezia per raccogliere le delazioni, prima di essere esaminate. Si veda PRETO, Persona per hora secreta. 35 Luzzatto fa riferimento probabilmente ad Erostrato l’incendiario, che nel 356 a.C. ad Efeso diede alle fiamme l’Artemision, il tempio dedicato ad Artemide/Diana, una delle sette meraviglie del mondo, solo per rendere immortale il suo nome. Una possibile fonte di Luzzatto sul personaggio potrebbe essere Gaius Julius Solinus, Collectanea rerum memorabilium 40, 3. 36 Oscitanza, ovvero “indolenza, incuria, negligenza” (lat. tardo oscitantia). 37 Suffragio, ovvero “soccorso, aiuto”. 38 Xenofronte: Senofonte ateniese (ca. 430 – 354 a.C.), scrittore e storiografo. Conobbe Socrate e scrisse una serie di opere filosofiche ispirate al maestro, tra cui i Mirabilia e L’apologia di Socrate, probabili fonti di Luzzatto. 39 Anteo: gigante libico, figlio di Poseidone e della Terra. Costringeva tutti i viandanti a lottare con lui e li uccideva dopo averli vinti. Fu vinto ed ucciso da Eracle. Secondo Apollodoro (Bibliotheca II, 5, 11), Anteo, quando veniva atterrato, diveniva più forte per il contatto con la madre Terra. 40 L’atteggiamento con cui Socrate affronta “l’accozzamenti et incursioni della fortuna” sembra richiamare quella “imperturbabilità disgiunta da ogni affezione” che secondo gli antichi scettici, era la conseguenza della sospensione del giudizio. Tale imperturbabilità doveva diventare il fine da conseguire nell’esistenza umana. Si veda RUSSO (a cura di), Scettici antichi, “Introduzione”, p. 60. 41 Harebbe, ovvero “havrebbe”. 42 Anito, artigiano e politico, e Meleto, poeta, sono gli oppositori di Socrate nell’Apologia, coloro che chiedono la pena di morte per il filosofo. Esser “Aniti e Meliti” è un modo di dire per indicare gli accusatori. Ai due bisognerebbe aggiungere anche Licone, il retore. 43 Mi avvego, ovvero “mi avvedo”. 44 Discorso, qui per “ragionamento”.

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    Protagora: (Abdera, V secolo a.C), fu uno dei primi sofisti. La principale fonte dei suoi insegnamenti filosofici sono i dialoghi platonici, tra cui quello che porta il suo stesso nome, Protagora. Il suo detto “l’uomo è misura di tutte le cose” è generalmente interpretato in chiave relativista e soggettivista, in particolare per quanto riguarda la conoscenza sensoriale. 46 Germano, ovvero “simile, identico, autentico, genuino”. 47 Sbarbicare, ovvero “sradicare una pianta”, figurativamente, “estirpare un difetto, far scomparire un’abitudine errata”. 48 Si è emendata la lettura originale: “temino”. 49 Fomite, ovvero “origine”, metaforicamente “cagione, incentivo” (lat. fomes). 50 Questa è la posizione centrale del libro di Luzzatto, che appare anche come sottotitolo del volume. 51 Si noti in questo periodo l’uso retoricamente ripetuto e talvolta pleonastico del “che”, per dare enfasi al periodo. 52 Cratilo: probabilmente di origine ateniese e vissuto nel V secolo a. C. Era seguace delle dottrine di Eraclito. I suoi insegnamenti ebbero influenza anche su Platone, che, tra l’altro, ne fece il protagonista del dialogo che porta il suo nome. 53 In italiano odierno “moto”. 54 Diffinitamente, “precisamente, esattamente”, forma letteraria derivante da “definito”, ovvero “determinato, preciso”. 55 Non è qui ben chiaro in che senso Luzzatto usi il termine “congresso”. Si potrebbe suggerire, anche in base al contesto, che egli voglia riferirsi ad una relazione e ad un confronto. In effetti, se il congresso è una riunione in cui le parti si confrontano, la scelta di Luzzatto non appare del tutto priva di senso. 56 Senofane: (Colofone, fine VI a.C. inizio V a.C.), aedo e filosofo greco, identificato da alcuni come maestro di Parmenide. 57 Melisso di Samo: (V a. C.), filosofo appartenente alla scuola eleatica. 58 A questo elemento del mito della Medusa fa riferimento Dante, autore molto amato da Luzzatto, nell’Inferno IX, 55-57: “‘Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;/ ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,/ nulla sarebbe di tornar mai suso’”. 59 Impetrire, antico per “impietrire, diventare di pietra”. 60 Casso, “inane, vuoto, privo” (lat. cassus). 61 Parmenide: (VI-V a. C.) nato ad Elea, colonia greca attualmente nota come Velia (in provincia di Salerno). Fu autore del poema in esametri Sulla natura. A causa della notevole influenza che Parmenide ebbe sulla filosofia greca si parla di “scuola eleatica”, la cui tradizione si basa sui suoi insegnamenti. Esponenti della scuola eleatica furono Zenone e Melisso. 62 Eraclito di Efeso: (VI secolo a. C.), filosofo greco presocratico. Sul pianto di Eraclito, si veda VELTRI, “Principles”, pp. 25-27 e la bibliografia citata nella nota, 76, p. 437. 63 Anassímene: (Mileto, VI a.C.), terzo dei filosofi milesii. 64 Su Eraclito ed il fuoco si veda Luzzatto, Discorso 81r. 65 Cominare, antico per “comminare, minacciare, infliggere” (lat. comminari). 66 Talete di Mileto: (prima metà del VI a.C.), primo in ordine temporale

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    dei filosofi milesii cui fecero seguito Anassimandro e Anassimene. 67 Occorrere, nel senso di “opporsi, contrastare, attaccare”, uso antico attestato nel Grande dizionario. 68 Abbrugiamento oppure abbruciamento, ovvero “il bruciare, incendio”. 69 Eridano: nome mitologico di un fiume, figlio di Oceano e Teti, associato al Po oppure al Rodano (Francia). Alla sua foce cadde Fetonte, figlio di Elio, colpito da un fulmine di Zeus, in quanto, avendo perso il controllo del carro del Sole, rischiava di bruciare la terra. 70 Orfeo: cantore mitico di origine tracia, figlio della musa Calliope e del re della Tracia, Eagro. Egli era noto in particolare per il potere magico della sua musica e del suo canto. 71 Altrice, “nutritrice, alimentatrice” (lat. altrix). 72 Empedocle: (Agrigento, ca. 490 – 430 a. C), filosofo e poeta. 73 Congresso, qui usato nel senso desueto di “unione sessuale”. 74 Democrito: (Abdera o Mileto ca. 460 – 360 a.C.), allievo di Leucippo (V sec. a.C.) e considerato uno dei fondatori della teoria atomista. 75 Capitare, “andare a finire, risultare”. Il Grande dizionario attesta l’uso, seppur raro, di questo verbo nel senso di “conlcudere, condurre a termine”. 76 Democrito ed Eraclito sono associati nel Rinascimento al theatrum mundi (si veda infra) come filosofi che ridono e piangono (“Heraclitus flens, Democritus ridens”), si veda PEDERSON, The Academia Leonardi Vinci, pp. 117–124 e RÜTTEN, Demokrit – Lachender Philosopher. 77 Ludicro, ovvero “buffo, ridicolo, esilarante” (lat. ludus). 78 Theatrum mundi è una tipica espressione barocca sulla vanità e futilità del mondo. Si veda SCHOCK, Dimensionen der Theatrum-Metapher. 79 Pitagora: (ca. 570 – 490 a.C.), originario di Samo, si stabilì nella Magna Grecia a Crotone. Non ha lasciato testi scritti. Il silenzio, menzionato da Luzzatto, faceva parte delle regole di vita e di condotta morale propugnate da Pitagora. 80 Anassagora: (500 – 428 a. C.), originario di Clazomène (Asia minore), visse ad Atene e grazie ai suoi insegnamenti filosofici diede un notevole contributo alla vita intellettuale della città. Morì in esilio a Lampsaco. 81 Si è emendata la lettura originale: “intrapendendo”. 82 Un topos dell’apologia creazionista che sarà ripreso anche da Blaise Pascal e Friedrich Schelling. 83 Fiatta: “volta” (lat. vicis; francese antico fiée). 84 L’idea d’una mente ordinatrice del caos, che è propria del filosofo greco, sarà certamente stata letta nella prospettiva di Bernardino Telesio, Campanella e Bruno. 85 Argo: mitologico guardiano di Io, che Zeus trasformò in una mucca, era noto per avere cento occhi e per essere in grado di mantenere una vigilanza perpetua, in quanto mentre metà dei suoi occhi dormivano, l’altra metà vigilava. 86 Latebra, “oscurità, nascondiglio” (lat. latebra). 87 Si propone la seguente lettura: “essendosi il suo autore occultato e nascosto nelle latebri et oscurità del niente, per sfugire l’instanze et argomenti che da adversarii li sarebbero stato opposto”. Aristotele, dunque, si cela dietro l’oscurità dell’argomentazione.

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    Destituta, “mancante, priva, abbandonata” (lat. destitutus). Dal contesto è chiaro che il nostro intende gli “alchimisti”. Luzzatto si riferisce probabilmente a Saccardini, Libro nomato, 9. Non è un caso che Luzzatto faccia riferimento al gioco di scacchi, un gioco molto amato tra gli ebrei del tempo perché permesso anche di sabato. La letteratura e la bibliografia sul tema sono abbastanza nutrite, dall’opera classica di STEINSCHNEIDER, Schach bei den Juden, al libro di KEATS, Chess in Jewish History. 92 Scandaligiarmi, “scandagliarmi” (da “scandaglio”, a sua volta dal latino medievale scandalium), metaforicamente “esaminarmi minutamente”. Lo scandagliarsi ed esaminarsi è un aspetto importante del pensiero degli scettici antichi. Avendo abbandonato la via della conoscenza sensoriale della natura, essi imboccavano la “via della soggettività, del ‘senso interno’, della conoscenza dell’uomo”. Gli scettici antichi si dedicarono ad un attento studio delle passioni dell’animo, seguendo l’insegnamento di Socrate e di Platone e favorendo “indagini di ordine psicologico, epistemologico, antropologico”; RUSSO (a cura di), Scettici antichi, “Introduzione”, p. 17. 93 Falso: “non genuino, adulterato”. 94 Delibato, “gustato in piccola quantità” (lat. delibare). Metaforicamente “toccare di passaggio qualche argomento”. 95 Luzzatto allude alla tradizione classica greca e latina secondo la quale la civetta (Athene noctua) era simbolo di Atena/Minerva. In quanto simbolo, tuttavia, la civetta ha significati variabili: può predire il mutare delle condizioni meteorologiche, essere di buon augurio, essere un uccello profetico e combattere piccoli malanni, tuttavia, quando si posa e fa sentire il suo verso essa è considerata foriera di malaugurio. Atena era patrona di numerose arti e diede agli uomini l’aratro (LURKER, The Routledge Dictionary, p. 24). 96 Aracne: (in greco “ragno”), era originaria di Colofone e figlia del tintore di lana Idmon. Brillante tessitrice, sfidò la dea Atena a competere con lei. Quando Aracne vinse, Atena, furente, distrusse il suo ordito. La fanciulla disperata si impiccò e Atena la trasformò in un ragno. Secondo Ovidio, fonte principale del racconto, Aracne fu punita per la sua superbia. 97 Bombice, arcaico per “baco da seta”. 98 Si veda GATTO (a cura di), Galileo Galilei Le mecaniche, terza definizione. 99 Sulla necessitas mater artium si veda Discorso 18r e VELTRI, “Economic and Social Arguments”. 100 Devisare, divisare, ovvero “stabilire, decidere, pensare, immaginare”, ma anche “esaminare attentamente” (lat. tardo divisare). 101 Poi che, qui da intendersi nel senso di “dopo di che”. 102 Ventilare,“gettare in aria i semi di grano o altri cereali per separarli dalla pula e da altre impurità”. Figurativamente, “ponderare una questione o sottoporla ad un’attenta analisi”. 103 Altercare, “discutere con animazione” ( lat. altercari). 104 Vice, “véce”. 105 Inscitia, inscizia, termine letterario attestato nel Grande dizionario col significato di “ignoranza”. 106 Si è emendata la lettura originale: “la esame”.

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    107 Si veda RAT (a cura di), Montaigne Essais, Livre II, Chapitre XII “Apo-

    logie de Raymond Sebond”, Vol. I, pp. 676-677: “Or, nostre estat accommodant les choses à soy et les transformant selon soy, nous ne sçavons plus quelles sont les choses en verité ; car rien ne vient à nous que falsifié et alteré par noz sens. Où le compas, l’esquarre, et la regle sont gauches, toutes les proportions qui s’en tirent, tous les bastimens qui se dressent à leur mesure, sont aussi necessairement manques et deffaillans. L’incertitude de noz sens rend incertain tout ce qu’ils produisent”. Alla pagina successiva Montaigne cita lo stesso passo di Lucrezio. Luzzatto ha forse fatto riferimento ad una delle traduzioni italiane degli Essais di Montaigne, per esempio quella di Girolamo Naselli (1590), oppure quella di Marco Ginammi (1633). 108 Titus Lucretius Carus, De rerum natura IV, 513-521. La citazione manca del verso 514: “Et libella aliqua si ex parte claudicat hilum”, presente invece nel testo di Montaigne. 109 Luzzatto si riferisce molto probabilmente all’intelletto. 110 Spicare, antico per “spiccare”, ovvero, “staccare, rimuovere”, ma anche figurativamente “distogliere”. 111 Luzzatto si riferisce qui al “problema di Delo” della duplicazione del cubo, al quale secondo alcuni interpreti Platone farebbe riferimento in Repubblica 7, 528b. Plutarco (De E apud Delphos, 386, E; De genio Socratis, 579, B-D) racconta che a Platone fu chiesto di risolvere l’enigmatico responso dell’oracolo di Apollo secondo cui gli abitanti di Delo e della Grecia avrebbero avuto sollievo dai loro mali quando fossero stati in grado di raddoppiare l’altare del dio che era di forma cubica. Platone spiegò che i tentativi di eseguire l’odine del dio letteralmente erano vani e sciocchi: Apollo si stava prendendo gioco dell’ignoranza dei Greci in quanto il responso era da intendersi come un’esortazione ad applicarsi allo studio della matematica e della geometria. 112 Raportamento, antico per “rapportamento”, ovvero “il riferire, il fare un resoconto”. Si è inoltre corretta la composizione che mette & prima di –to. 113 Congresso, qui usato con il significato attualmente desueto di “congiungimento sessuale”. 114 Publius Ovidius Naso, Metamorphoseon III, 432. 115 Affrontato, termine attualmente in disuso per “offeso, umiliato”. 116 Illaqueato, ovvero “catturato”, si usa per lo più col senso figurato di “irretito, raggirato, accalappiato” (lat. illaqueare). 117 Risentire, qui usato nel senso di “svegliarsi”, “scuotersi”, si veda anche Discorso 6r. 118 Tantalo: personaggio mitologico condannato a vivere nel mondo sotterraneo immerso nell’acqua, ma, ogni volta che tenta di bere questa si ritrae. Allo stesso modo, ogni volta che egli tenta di raggiungere il ramo dell’albero da frutti che lo sovrasta questo viene spostato dal vento. 119 Dante Alighieri, Paradiso IV, 1-6: “Intra due cibi, distanti e moventi / d’un modo, prima si morria di fame, / che liber’omo l’un recasse ai denti; / sì si starebbe un agno intra due brame / di fieri lupi, igualmente temendo; / sì si starebbe un cane intra due dame”. La lezione “morienti” di Luzzatto non ha senso, ed è da ritenersi erronea. 120 Oltrare, ovvero “procedere avanti, spingersi oltre”.

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    Vagante, detto di “colui che vaga, che erra”, attestato nel Grande dizionario col signficato antico di “divagare”. 122 Impiegato, “impegnato, dedito, intento”. 123 Gorgia da Leontini: (ca. 480 – ca. 380 a. C.), ritenuto secondo alcune fonti il padre della sofistica ed esperto nell’insegnare l’arte della persuasione, considerata di per se stessa neutrale ma utilizzabile per qualsiasi scopo. 124 Effluvio ovvero “emanazione”, attestato nel Grande dizionario col senso figurativo di “trasmissione di sensazione o pensieri” (lat. effluvium). 125 Difalta, diffalta, ovvero “mancanza, grande scarsità” (lat. defallita). 126 Complicare, attestato nel Grande dizionario con il significato attualmente in disuso di “mettere insieme, mescolare”. 127 Repugnare, forma antica e letteraria di “ripugnare”, qui da intendersi col senso figurato di “essere inconciliabile, in contrasto o in contraddizione”, 128 Commuovere, qui usato nel senso letterario di “agitare, perturbare”. 129 Si propone la seguente lettura: “ché dovrebbe pur l’ente, in quanto primo elemento in cui ci imbattiamo, ed in quanto elemento fondamentale se si vuole continuare ad indagare riguardo le altre cose, riuscire il più chiaro e spiegato”. 130 Si è emendata la lettura originale: “suo”. 131 Periodo da sciogliere eventualmente come segue: “se diversamente io mi ritrovavo disposto quando sopito nel sonno, oppure quando non pensavo a nulla, rispetto a quello che mi capitava quando circa il non ente con il discorso mi esercitavo”. 132 Erubescentia, erubescènza, ovvero “rossore del volto, vergogna” (lat. erubescentia). 133 Cimento, qui per “saggio, prova, sfida”. 134 Sàrcina, forma antica e letteraria per “carico, peso, fardello” (lat. sarcina) 135 Calere, forma antica per “importare, stare a cuore” (lat. calere). 136 Endimione: personaggio mitologico, secondo Esiodo particolarmente caro a Zeus che gli concesse il privilegio di scegliere come morire. Quando però egli manifestò il suo desiderio per Era, fu punito e scagliato nell’Ade, oppure secondo altre fonti, fu fatto cadere in un sonno eterno. 137 In quanto, in questo contesto usato nel senso di “in quanto a, relativamente a”. 138 Zenone: (V a.C.) filosofo eleatico, amico e allievo di Parmenide, era noto soprattutto per i suoi paradossi. 139 Involto, “avvolto, avviluppato, impigliato”. 140 Aristippo: (ca. 430 – 355 a.C.), filosofo originario di Cirene. Fu allievo di Socrate. 141 Inopia, “povertà, mancamento, bisogno” (lat. inopia). 142 Titus Lucretius Carus, De rerum natura IV, 216-217. 143 Ibidem, IV, 230-236. 144 Esprolatore, ovvero “esploratore“. 145 Ansa, ovvero “pretesto, occasione” (lat. ansa). 146 Si è emendata la lettura originale: “suo”. 147 Si è emendata la lettura originale: “chi”. 148 Contumace, termine letterario per “riluttante, ribelle”.

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    Admoniti, qui per “ammoniti, avvisati”. Lo stesso paragone è usato da Enesidemo nel primo tropo per la sospensione del giudizio, secondo il quale gli stessi oggetti si presentano differenti ai vari tipi di esseri viventi che li percepiscono coi sensi. Si veda RUSSO (a cura di), Scettici antichi, pp. 574-576, e in particolare per il riferimento agli itterici si veda a pagina 575. 151 Terpidatione, ovvero “ vibrazione”. 152 Significare, ovvero “manifestare, far capire”. 153 Periodo da sciogliere probabilmente come segue: “come la vista, sebbene per se stessa infallibile, commette errori in ragione della sua relazione con l’intelletto, autore delle maggiori illusioni, così può accadere al senso del tatto”. 154 Spicato, ovvero staccato, allontanato. Il termine é presente anche nella Commedia dantesca: «Non ti sia fatica a dir chi é, pria che di qui si spicchi» (Inferno, XXX, 36). 155 Continovata, qui per “continuata”. 156 Bible oppure Biblide: per lo più attestata come figlia di Mileto e di Eidotea. Era innamorata di suo fratello gemello Cauno, che, per questo motivo, prese la via dell’esilio mentre Biblide trovò la morte. Secondo alcune fonti si sarebbe impiccata. Ovidio invece racconta che si sarebbe dissolta nelle sue stesse lacrime e trasformata in fonte. 157 Publius Ovidius Naso, Metamorphoseon IX, 479-486. 158 Imbroccare, “colpire in pieno un bersaglio”. 159 Indifinente, dalla stessa radice di indefinito, la cui forma letteraria è “indiffinito”, ovvero “che non ha un limite, anche temporale, determinato”. 160 Figmento, “finzione, fantasia” (lat. figmentum). 161 Si è emendata la lettura originale: “il”. 162 Si veda RAT (a cura di), Montaigne Essais, Livre I, Chapitre XIV, vol I, p. 54: “Que le goust des biens et des maux depend en bonne partie de l’opinion que nous en avons”. Montaigne a sua volta ha combinato un verso di una satira di Estienne de la Boétie (1530-63) con un verso delle Epistulae Heroidum di Ovidio (X, 82). 163 Efimeri o Effimeri, insetti dell’ordine Ephemeroptera, i quali vivono poche ore o al più un giorno solo. 164 Il mito di Ero e Leandro è narrato da Ovidio nelle Epistulae heroidum (libri XVIII e XIX) ed ebbe molta fortuna a partire dal V o VI secolo d.C. Leandro viveva ad Abido in Asia Minore ed amava Ero, sacerdotessa di Afrodite a Sesto, sulla costa europea. Ogni sera attraversava lo stretto a nuoto per incontrarla. Una notte, una tempesta spense la lucerna che Ero accendeva per Leandro ogni volta, ed egli, disorientato, morì annegato. All’alba Ero lo vide sulla spiaggia e si gettò per disperazione da una torre. 165 Publius Ovidius Naso, Epistulae heroidum XIX, 65. 166 Si propone la seguente lettura: “Perciò si impone o che si segua l’apparenza dei sensi, respingendo del tutto il discorso della mente, oppure che, appigliandosi all’estremo contrario, si inclini e ci si aggrappi alle assertioni aerie e insussistenti, che forma la imaginatione, assolutamente lontane del senso e anche sovente aliene allo stesso intelletto”. 167 Argumentare oppure argomentare attestato nel Grande dizionario col

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    significato antico di “dimostrare, provare”. 168 Sul topos delle monete false e delle opinioni si veda VELTRI, Renaissance Philosophy, p. 86, nota 71. 169 Sì bene, in questo caso da intendersi nel senso di “anzi, al contrario, invece”. 170 Si è emendata la lettura originale: “stimò”. 171 Copella o copela, attestato nel Dizionario del dialetto veneziano col significato di “vasetto per cimentarvi l’oro e l’argento”. Lo stesso vocabolo è usato anche da Leone Modena nella sua autobiografia Chayye Yehuda, 16a (si veda la traduzione inglese a cura di Mark Cohen The Autobiography, p. 108). 172 Sortire, attestato nel Grande dizionario anche col significato di “risultare”. Dunque, gli oggetti non sono cause materiali delle apprensioni, poiché in questo caso risulterebbero coincidere con l’animo. 173 Si propone la seguente lettura: “poiché parimenti non sarebbero altro che lo stesso animo e l’animo non è stato in tal modo conformato e costituito”. 174 Si è emendata la lettura originale “sufficiente”. 175 Impulssori oppure impulsori, ovvero “che danno impulso”. 176 Si è omessa la virgola dell’originale per facilitare il senso. Luzzatto intende dire che come la verità non tollera ardite congetture, allo stesso modo la codardia non può sopportare evoluzioni ardite e rischiose. 177 Tella, qui per “tela”. 178 Coagmentatione, latinismo da coagmentatio-onis per “riunione, composto, combinazione, aggregato”. 179 Luzzatto si riferisce probabilmente a uno dei più celebri cammei dell’antichità, menzionato da Plinio nella sua Naturalis historia (XXXVII, 3). Il prezioso oggetto, nato dalla lavorazione dell’agata siciliana, rappresentava Apollo con le nove muse e si narra che fosse appartenuto al re Pirro. 180 Impetrire, antico per “impietrire, diventare di pietra”. 181 Flussibile, termine desueto usato per designare ciò “che scorre, fluido”. 182 Numero discreto: Luzzatto fa riferimento ai numeri interi o razionali. 183 Corrente, usato in riferimento a colui “che corre, rapido, veloce”. 184 Hospite eleate: filosofo proveniente da Elea, città di Parmenide, protagonista dei dialoghi platonici Sofista e Politico. 185 Commendato ovvero “lodato” (lat. commendare) 186 Grato, ovvero “gradito, apprezzato”. 187 Cancellato, “da cancellare”, attestato nel Grande dizionario col significato antico e figurativo di “rinchiudere con un cancello” e dunque di mettere al sicuro. 188 Attoppare, potrebbe essere semplicemente una variante grafica di “intoppare”, ovvero “imbattersi”, ma anche “inciampare, urtare violentemente”. Tuttavia è anche possibile che Luzzatto stia usando un verbo di origine spagnola “topar”, attestata nel Diccionario crítico col significato di “urtare contro un ostacolo”. Lo stesso dizionario spiega che il verbo è entrato nel vocabolario popolare durante il siglo de oro. A riprova di ciò vi sarebbe il fatto che l’espressione “lo que topamos” era usata nello giudeo-spagnolo d’oriente. 189 Offendere, letteralmente, “arrecare un’offesa, umiliare”. 190 Si è emendata la lettura originale: “dovessi”.

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    Genio: generalmente interpretato come una divinità tutelare, oppure anche come un concetto/personalità divinizzato, la cui residenza si troverebbe nella fronte della persona, e che rappresenta le qualità innate della persona intese come forza procreativa e come capacità creative. Attestato nel Grande dizionario col significato di indole e nel senso figurato di disposizione naturale, attitudine (lat. gignere). 192 Adito, ovvero “passaggio, ingresso, via d’accesso, possibilità”. In questo contesto da intendersi probabilmente col significato di “approccio”. 193 Obliviosi, ovvero “dimentichi, immemori”. 194 Si è emendata la lettura originale: “moto”. 195 Algente, ovvero “freddo come gelo, gelato”. 196 Incredulità, nel senso di “incredibile”. 197 Digresso, termine desueto e letterario attestato dal Grande dizionario col significato di “deviazione”. 198 Si è emendata la lettura originale: “tal”. 199 Il testo originale legge: “Tanto più de esso oggetto nobili et egregi? Ma in che modo tali imagini riuscirano rappresentatrici al vero di oggetti materiali tanto di essi diverse di conditione, e natura?”. Negli errata si suggerisce di emendare a pagina 66 ‘di esso’ con ‘da essi’. Tuttavia, seguendo il filo logico del ragionamento si è intervenuti limitandosi a sostituire ‘di essi’ con ‘da essi’. 200 Si propone la seguente lettura: “non essendo permesso a qualunque ente, sia corporale over immateriale, di esimersi e liberarsi da qual decreto inviolabile dalla necessità constituito”. 201 Acume, “estremità, vertice”. 202 Bruto qui usato in riferimento ad un essere che si lascia guidare esclusivamente dall’istinto, in contrapposizione all’uomo pensante. In generale anche col significato di “animale”. 203 Grafia erronea per “geometriche”. 204 Il periodo di Luzzatto non è di facile interpretazione. Il rabbino veneziano attacca tre posizioni: quella usualmente attribuita agli atomisti, secondo la quale sarebbero gli oggetti ad inviare una propria immagine/simulacro di natura corpucolare all’organo visivo, avvicinando così il senso della visione a quello del tatto, la seconda da alcuni attribuita alla scuola pitagorica e/o ad Empedocle, secondo la quale l’occhio emanerebbe verso gli oggetti dei raggi che rendono possibile la visione, alla quale sarebbe stato aggiunto il “nuovo figmento”, ovvero il contributo di Platone a tale teoria, secondo il quale le emanazioni sarebbero state due, quelle originate dall’occhio e quelle provenienti dall’oggetto visibile. Sulla questione si veda LINDBERG, Theories of Vision, in particolare alle pagine 1-6, che dà anche un’utile bibliografia delle fonti. 205 Influire, ovvero “trasmettere, infondere, causare“. 206 Annile, anile, ovvero “vecchio, senile” (lat. anilis, derivato di anus = vecchia). 207 Probabilmente Luzzatto si riferische alle hydrographicae mappae, di cui parla Stevert, De orbis catoptrici, 23. L’aggettivo “hegrafiche” è difficile da decrifrare, forse Luzzatto intende “mappe geografiche”, si veda ibidem. 208 Luzzatto ha probabilmente attinto l’informazione su Talete da Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum I, 1, 24), che riferisce, per l’appunto,

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    che Talete attribuiva un’anima anche agli esseri inanimati, basando la sua deduzione sulla calamita e sull’ambra. Tuttavia, la letteratura del tempo di Luzzatto riguardo le bussole e il magnete era piuttosto ampia. L’opera di William Colchester of Colchester, De magnete era tra le più accreditate del XVII secolo per le sue solide fondamenta scientifiche. Gilbert fu il primo a dare una spiegazione scientifica della misteriosa forza che faceva muovere gli aghi della bussola, giungendo alla conclusione che la terra possedesse una forza di attrazione magnetica. Nonostante ciò, allo stesso tempo, Luzzatto sembra mostrare anche una certa fascinazione per le dottrine alchemiche che ispirarono invece lavori come quelli di Athanasius Kircher, Magnes. 209 Termine attestato nel Grande dizionario col significato di “libero di volgersi in ogni direzione”, mentre l’ago magnetico è detto versorio in quanto “sospeso centralmente sulla rosa dei venti” (lat. vertere). 210 Minera, termine antico per “miniera”. 211 Si è emendata la lettura originale: “magnatio”. 212 Immediate, latinismo per immediatamente. 213 Si è emendata la lettura originale: “sentitino” . 214 Sulla dottrina degli specchi qui trattata si rimanda al testo del filosofo medievale Vitellione (latinizzazione del nome originale polacco Witelo, n. ca. 1220/30 m. 1277), autore della Perspectiva, de elementatis conclusionibus (prima edizione a stampa 1535). Vitellione è menzionato come autorità riguardo agli specchi columnarii da Paolo Uccello [si veda CORSINI (a cura di), La battaglia di San Romano, p. 22]. Infine, il passo di Vitellione sugli specchi columnarii è citato estesamente da P. Gasparis Schotti, Magia Universalis Naturae Et Artis, pp. 154-170 e in particolare nel Libro VI alle pagine 336-340, laddove sono discusse le proprietà di tali specchi, che sono convessi e costruiti in modo da riprendere la forma di una colonna. Le proprietà degli specchi sono state poi ampiamente trattate nel 1560 da Girolamo Cardano nel libro XIV del suo De Subtilitate, da Gianbattista della Porta, nel suo Magiae naturalis sive de miraculis rerum naturalium del 1585, e da Rafael Mirami Hebreo, Tauole della prima parte della specularia, cioè della scienza de gli specchi, opera del 1582. Tommaso Garzoni nel suo La piazza universal di tutte le professioni del mondo del 1665, rimanda in proposito anche ai nomi di Giovan Pisano e Oroncio Fiseo (p. 649). 215 Zibetto, si tratta di un mammifero diffuso in Africa comunemente noto col nome di civetta zibetto, le cui ghiandole emettono una fragranza di muschio adoperata in profumeria. 216 Socrate usa qui nuovamente un’argomentazione simile a quella riportata da Enesidemo nel primo tropo per la sospensione del giudizio. Si veda RUSSO (a cura di), Scettici antichi, pp. 574-583. Enesidemo conclude: “Ma se le cose identiche appaiono dissimili a causa della diversità degli esseri viventi, noi saremo in grado di dire, senz’altro, quale si offra l’oggetto alla nostra vista, ma sospenderemo il giudizio sulla sua naturale essenza. Né, a dire il vero, noi stessi potremo esprimere un giudizio che distingua le rappresentazioni nostre da quelle degli animali, essendo anche noi parte in causa del disaccordo e avendo perciò, noi stessi bisogno di chi operi la distinzione piuttosto che essere, proprio noi, capaci di operarla”. (Ibidem, p. 578). Poco più avanti l’autore precisa: “Adunque: se le rappresentazioni risultano differenti a seconda della

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    diversità degli esseri viventi, e se è impossibile esprimere un giudizio su di esse, si deve, allora, necessariamente sospendere il giudizio circa gli oggetti che giacciono fuori di noi” (Ibidem, p. 579). 217 Aio, ovvero “pedagogo, precettore” (spagnolo ajo). 218 Sovenirsi, “nutrirsi, sostentarsi”. 219 Specularia: “arte di fabbricare gli specchi”. Secondo il Grande dizionario, specolaria era anche, nella concezione scientifica dell’antichità e del medioevo, quella “parte dell’ottica che studia le leggi della riflessione e della rifrazione della luce”. 220 Linceo, usato in riferimento a ciò che è “proprio della lince”, per estensione “acutissimo” (in particolare con riferimento alla vista). 221 Lubrico, ovvero “disinvolto”, per estensione anche “impertinente, insolente”, e figurativamente “ingannevole” (lat. lubricus). 222 Struciere, termine antico per “strozziero”, ovvero secondo il Grande dizionario nel medioevo “colui che allevava e addestrava gli uccelli da falconeria”. 223 Luzzatto potrebbe qui riferirsi a Democrito. Aulo Gellio (Noctes Atticae X, 17,1-2) riferisce infatti che Democrito si sarebbe accecato volontariamente, in modo che la sua mente potesse liberamente riflettere e speculare sulle leggi della natura. 224 Si è emendata la lettura originale: “tuo”. 225 Accrociare oppure cruciare, termine antico e letterario per “tormentare, angustiare” (voce dotta lat. cruciare). 226 Travedere: “prendere un abbaglio, ingannarsi nella percezione visiva”. 227 Defrodare, antico per “defraudare”, ovvero “privare con l’inganno, deludere”. 228 Socrate si chiede come mai la terra non si muova dal centro dell’universo considerando il moto dei cieli e dell’aria. Tale aria, afferma Socrate, dovrebbe muovere la terra nel momento in cui si scontra con le montagne. 229 Correzione manuale di “allegoria” in “allegria” nel testo orginale. 230 Ingiungere, attestato dal Grande dizionario col significato attualmente in disuso di “aggiungere” (lat. iniungere). 231 Assordito, ovvero “reso sordo, stordito”. 232 Angore, ovvero “angoscia” (voce dotta dal lat. angor, da angere = stringere). 233 Seguendo la traccia data dalla correzione manuale di “allegoria” in “allegria” a pagina 80 del testimone, si è operata la stessa correzione nella relativa nota a margine. 234 Furatore, ovvero “ladro” (lat. furator). 235 Si propone la seguente lettura: “e con amichevoli congressi tengono insieme commercio e familiarità”. Luzzatto ha forse inteso questa dichiarativa come dipendente dal verbo “giudicai” posto alla fine della pagina 82, dell’edizione principe. 236 Titus Lucretius Carus, De rerum natura I, 426-428. 237 Rua, latinismo da ruere per “rovina”. 238 Insino, qui per “perfino”. 239 Lubricità, “viscosità, scivolosità” (lat. tardo lubricitas). 240 Divertire, “deviare” (lat. divertere).

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    Fomentare, attestato dal Grande dizionario col significato antico di “applicare un impacco” per lo più caldo per curare una contusione. 242 Dione: (Siracusa n. ca. 409 – 354 a. C), molto vicino a Dionisio (oppure Dionigi) I di Siracusa e influente anche durante il regno del suo successore, Dionisio II. Era amico intimo di Platone, conosciuto in occasione del suo viaggio in Sicilia nel 338 a. C. 243 Archita: nato a Taranto e amico di Platone, probabilmente conosciuto quando quest’ultimo si recò in Sicilia nel 338 a. C. Poche e frammentarie testimonianze attestano i suoi vari interessi che andavano dalla musica alla matematica e alla meccanica. Diogene Laerzio, una delle più probabili fonti di Luzzatto, riferisce che Archita fu il primo a trasformare la meccanica in un sistema applicando ad essa principi matematici (Vitae Philosophorum VIII, 4, 83). 244 Diportarsi, ovvero “comportarsi” (francese se déporter). 245 Archita era noto per aver costruito una colomba di legno in grado di volare. Non è ben chiaro da quale fonte Luzzatto abbia attinto questa notizia. Diogene Laerzio nel capitolo delle Vitae Philosophorum dedicato ad Archita non ne fa menzione. È possibile che Luzzatto abbia letto Aulo Gellio (Noctes Atticae X, 12,9-10) che tuttavia riferisce il fatto con polemica incredulità. Alla colomba di Archita fa riferimento anche Athanasius Kircher, che è un’altra possibile fonte di Luzzatto. A riguardo si veda il suo Ars magna lucis et umbrae, libro decimo, seconda parte, pp. 827-28. 246 Il Nostro probabilmente intende “tale”, sottinteso “dottrina”. 247 Accattare, ovvero “raccogliere, raggranellare, mendicare”. 248 Approbarasi, qui per “si approverà” (lat. approbare). 249 Dante Alighieri, Purgatorio” IV, 1-6. 250 Meato, ovvero “via, foro” in generale condotti attraverso cui qualche cosa passa. Usato anche per l’anatomia umana (lat. meatus). 251 Si è emendata la lettura originale: “sensationi”. 252 Si è emendata la lettura originale: “sentitino” . 253 Archelao: (ca. VI a. C.), allievo di Anassagora e probabilmente maestro di Socrate. 254 Si propone la seguente lettura: “A differenza del continuo in cui gli estremi si uniscono a comporre una unità”. 255 Seguisca, attestato nel Grande dizionario come forma antica del congiuntivo presente del verbo “seguire”, qui usato nel senso di “accadere, capitare, succedere”. 256 Concorrere, “convenire, confluire, convergere, incontrarsi”. 257 Orbicolare, “circolare, rotondo” o ancora “che ha forma di disco” oppure nel caso di solidi “che ha forma di globo o di solido tondeggiante”. 258 Accessione, termine desueto per “aggiunta” (voce dotta lat. accessio). 259 Titus Lucretius Carus, De rerum natura IV, 1106-1111. 260 Algente, ovvero “fredda” (voce dotta lat. algere). 261 Chilo, si tratta di una sostanza costituita dagli alimenti che, dopo aver subito l’azione dei succhi digestivi viene assorbita dall’intestino. 262 Luzzatto si riferisce qui a Milone di Crotone (VI secolo a. C), lottatore greco che riportò ben sei vittorie ad Olimpia e che si allenava, secondo la leggenda, proprio come fa la contadina citata da Luzzatto.

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    Titus Lucretius Carus, De rerum natura V, 534-539. Luzzatto riprende qui la dicusssione sull’ottica e sulle teorie della visione che aveva cominciato alle pagine 65-70 del testimone per bocca di Critone, che aveva criticato le vecchie teorie in materia. È interessante notare come l’autore ritorni sull’argomento proprio facendo menzione del cannocchiale di Galileo. Questo riferimento e la successiva discussione degli aspetti fisico-geometrici della visione sembrerebbero suggerire che Luzzatto fosse consapevole della dipendenza della scienza astronomica da quella della visione, come del resto era stato evidenziato da Keplero, le cui scoperte precedettero di pochi anni la pubblicazione del Sidereus nuncius (1610). Per i riferimenti bibliografici si veda MANCOSU, “Acustic and Optics”, pp. 613-614. 265 Crese, ovvero “credette”. 266 Fu Keplero, sulla scia del lavoro di Cristoph Scheiner e delle ricerche anatomiche del tempo, a sottolineare il ruolo del cristallino nella visione e ad identificare la retina come l’organo fondamentale per la visione. A riguardo si veda MANCOSU, “Acustic and Optics”, p. 616. 267 Fu il gesuita Cristoph Scheiner (1573-1650), che conduceva le sue ricerche a Roma, a scoprire che l’immagine visiva era proiettata invertita sulla retina. Egli poté verificare questo fenomeno grazie alle dissezioni anatomiche. A riguardo si veda MANCOSU, “Acustic and Optics”, p. 616. 268 Permabile, ovvero “permeabile”. 269 Ancora una volta Luzzatto torna ad usare un’argomentazione simile a quella di Enesidemo nel primo tropo per la sospensione del giudizio. Si veda RUSSO (a cura di), Scettici antichi, pp. 574-576. 270 Movere, antico per “muovere, essere la causa, servire da stimolo, indurre”. 271 Efficiente, usato in riferimento a “ciò che pone in essere, causa prima” (voce dotta lat. efficiens). 272 Si propone la seguente lettura: “Non parti havermi gravemente offeso, dal momento che, mentre che il vago e bello, che tormentano gli amanti e che per il cui conseguire ansiosamente a me ricorrendo con larghi premii riconoscono la mia industria, tu hai persuaso detti amanti che proprio tale vago e bello nel loro occhio se annida”. 273 Proclivi: “inclini”. 274 Il fenomeno della diffrazione ottica, ovvero scomposizione della luce attraverso l’uso di un prisma triangolare, era stato osservato tanto dagli scienziati quanto dagli alchimisti del tempo. Luzzatto sembra qui oscillare tra un approccio scientifico alla questione e l’attrazione per gli studi alchemici. Bisogna del resto sottolineare che le due tedenze cominciarono a differenziarsi l’una dall’altra proprio a partire dal XVI secolo. Il Nostro potrebbe dunque far qui riferimento all’opera di Athanasius Kircher, Ars magna lucis et umbrae, pubblicata nel 1646. Sull’evoluzione delle teorie scientifiche sull’ottica e la luce nei secoli XVI fino alle scoperte di Newton si può vedere MANCOSU, “Acoustic and Optics”, pp. 613-631. 275 Luzzatto si riferisce qui probabilmente a Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum IX, 11, pp. 85-86), laddove l’autore descrive le aporie tra ciò che appare e ciò che è pensato secondo il pensiero pirroniano. Tali aporie sono suddivise in 10 tropi, e nel settimo tropo, che si riferisce al variare delle di-

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    mensioni, forme e colori dei corpi a seconda delle distanze da cui sono osservati, si trova il seguente paragone: “Del resto, anche l’immagine appare diversa secondo la diversità della posizione, e il collo della colomba varia col suo voltarsi di qua e di là”. Per la traduzione italiana si veda RUSSO (a cura di), Scettici antichi, pp. 76-78. Tuttavia, la fonte di Diogene Laerzio è Enesidemo, che elenca dieci tropi. Il quinto tropo corrisponde al settimo di Diogene Laerzio e il paragone compare nella forma seguente: “E i colli delle colombe, a seconda dei differenti gradi di inclinazione, appaiono di colore differente”. (Ibidem, p. 595). 276 Convincere, ovvero “dimostrare con prove certe”. 277 Callicle: interlocutore di Socrate nel Gorgia di Platone. Del personaggio storico nulla è noto. 278 Publius Vergilius Maro, Aeneis VI, 272. 279 Il trattino sostuisce qui le virgole, dal momento che la domanda è parentetica. 280 I trenta tiranni governarono Atene dal 404 al 403 a.C. Crizia (ca. 460 – 403 a.C), allievo di Socrate, era il capo della fazione più radicale. 281 Margherita, termine letterario per “pietra preziosa”, in particolare “madreperla” (lat. margarita). 282 Lettera “a” illeggibile. 283 Arcolaio, Luzzatto potrebbe qui riferirsi ad un termine antico, derivato da arco, attestato nel Grande dizionario come una “macchina da guerra” in particolare usata come uno “strumento per tirare a segno”. 284 Pedaneo, usato in riferimento a colui che giudica cause di scarsa importanza (voce dotta lat. pedaneus). 285 Referendario, nella terminologia in vigore durante il tardo Impero romano o presso la Santa Sede si riferisce ai “vari tipi di funzionari, esperti di diritto, che istruivano sotto il profilo tecnico e facevano relazione delle pratiche di giustizia da sottoporre al sovrano; fungevano da consulenti giuridici del sovrano” (si veda il Grande dizionario). 286 Compositivo, termine attualmente in disuso che indica la capacità di procedere dal semplice al composto (voce dotta dal latino tardo compositivus). 287 Estimativa, nella terminologia della filosofia aristotelica si tratta della “facoltà propria dell’anima intellettiva, che le permette di giudicare ed elaborare le sensazioni”. Il termine può essere usato anche in riferimento all’anima sensitiva degli animali (si veda il Grande dizionario). 288 Ultimamente, qui usato nel senso letterario e antico di “infine, per ultimo”. 289 Curiale, usato in riferimento a persona che “esercita una professione legale, segretario, cancelliere”. 290 Vendico, usato in riferimento a “colui che si è vendicato di un’offesa”. 291 Testarecia, è probabilmente una parola sefardita, dallo spagnolo testa recia, nell’accezione di “testa dura” (spagnolo arecha). 292 Ispedire oppure spedire, qui usato nel senso di “giudicare” ma anche “dare per spacciato”. 293 Marcus Manilius, Astronomica IV, 108-116. 294 Publius Ovidius Naso, Metamorphoseon VII, 19-21.

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    Ibidem, 17-18. Porre da banda, ovvero “lasciare da parte”. Appartenere, qui usato nel senso desueto di “interessare”. Benché le indagini anatomiche non fossero completamente sconosciute ai Greci, Luzzatto sembra qui riferirsi ai progressi della scienza medica nel campo dell’anatomia avvenuti nei secoli XVI-XVII. A riguardo si veda in italiano: LE GOFF e SOURNIA, Per una storia delle malattie, e in particolare Darmon, Pierre. “Il furto dei cadaveri e la scienza nei secoli XVII-XIX”, pp. 93-109. In inglese si veda DUFFIN, A History of Medicine, in particolare il capitolo “The Fabricated Body: History of Anatomy”, pp. 10-40. 299 Attraversamento, termine antico per “contrarietà, incidente”. 300 Conferenza, qui usato nel senso antico di “confronto”. 301 Antistene: (Atene, ca. 445 – ca. 365 a. C.), secondo Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum VI, 1, 1-2), Antistene era inizialmente allievo di Gorgia poi divenne un seguace di Socrate. Platone nel Fedone lo annovera tra coloro che erano presenti alla morte del maestro. Successivamente, ad Atene egli fu considerato uno dei più importanti allievi di Socrate. Secondo Diogene Laerzio, Antistene fu anche il fondatore della scuola cinica. 302 Rassembrare, ovvero “sembrare”. 303 Questa tesi non sembra attribuibile ad Antistene. La fonte di Luzzatto potrebbe essere Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, 2 Sententiarum Dist. 42, Q. 2, a. 4 nella solutio afferma: “respondeo dicendum, quod Stoicorum opinio fuit (quos Tullius imitatur, ut in libro De paradoxis patet) omnia peccata paria esse”. Tommaso si riferisce qui al “Paradoxon 3” discusso da Cicerone nei Paradoxa Stoicorum ad M. Brutum 22. 304 Si propone la seguente lettura: “Onde al nostro proposito ti dico che quando le sensationi in diversi tempi dal senso comune, oppure da altro apprensivo, sono conseguite, poco vale che immediatamente l’una all’altra succeda, proprio come circa i peccati parimente affermi, essendo assolutamente diversa l’identità dalla successione immediata, e la transmutatione sostantiale, conforme la volgare opinione, in un istante senza intermedio di tempo accade, e così la luce alle tenebre succede, benché tanto diverse siano una dall’altra”. 305 Luzzatto riprende qui il paragone discusso a pagina 109 del testimone, secondo cui il senso comune sarebbe simile al punto al centro di una circonferenza verso cui convergono le rette che da essa si dipartono. Dunque, il periodo potrebbe essere sciolto come segue: “il punto indivisibile non può essere toccato da nessuno, essendo egli la stessa estremità che diventa tutt’uno con il segmento tangente, tanto meno si può apprendere il contatto di infinite linee inviate da diversi lati verso il centro”. 306 Si è emendata la lettura originale: “desensibile”. 307 Carmide: zio materno di Platone e protagonista dell’omonimo dialogo platonico. 308 Si è emendata la lettura originale “la”. 309 Clinia: figlio di Alcibiade (Herodotus, Historiae VIII, 17) e padre del più famoso Alcibiade (Plutarchus, Alcibiades I, 1) a cui Luzzatto si riferisce. 310 Agatone: (ca. 455 – ca. 401 a. C.) drammaturgo. Nel 416 conseguì la sua prima vittoria agli agoni delle Lenee. Egli è anche uno dei protagonisti del Convivio di Platone, i cui ospiti si riuniscono proprio per celebrare la sua

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    vittoria. 311 Cèlabro, termine letterario per “cervello” (lat. cerebrum). 312 Disquirire, latinismo da disquirere, ovvero “ricercare diligentemente, indagare”. 313 Penetrale, nell’antica Roma era la parte più interna della casa. Per estensione e nell’uso letterario, il termine indica la parte più appartata e segreta di una casa o di un palazzo. 314 Si è emendata la lettura originale: “quel”. 315 Espulsare, ovvero “respingere”. 316 Negli errata l’autore indica di emendare “altro” con altra, a pagina 118 del testimone. Non essendoci in questa pagina nessun “altro”, si è corretto “altre” con “altra”, anche perché Socrate parla solo di una difficoltà. . 317 Euclide di Megara: (n. ca. 450/435 – ca. 360 a. C.), era un filosofo, allievo di Socrate, fondatore della scuola di Megara. 318 Smeollar, ovvero “smidollare”, attestato nel Dizionario del dialetto Veneziano col significato di “cavare la midolla”. 319 Heteroclito oppure eteroclito, ovvero “anomalo, bizzarro, inusitato, eterogeneo” (voce dotta lat. heteroclitus). 320 Evidente, qui usato con valore avverbiale di “evidentemente”. 321 Si è emendata la lettura originale: “conrario”. 322 Si è emendata la lettura originale: “soprende”. 323 Publius Ovidius Naso, Metamorphoseon IX, 469-471. 324 Incondito, ovvero “privo di grazia, rozzo”. 325 Si è emendata la lettura originale: “efficiente”. 326 Si propone la seguente lettura: “per il fatto che, come ho argomentato molte volte, essendo tali passioni e perturbazioni delle relazioni, per la loro fievolezza e flussibilità, non sono sufficienti a muovere alcuno dei nostri sentimenti, tanto esterni quanto interni”. 327 Si è emendata la lettura originale: “il”. 328 Espedire, termine in disuso attestato dal Grande dizionario col significato di “sbrigare, sistemare, risolvere”. 329 Archivo, ovvero “archivio” (lat. tardo archivum). 330 “Un minimo di quello”, ovvero un minimo del “fermo ordine e stabile collocamento”. 331 Slocare, “cambiare la condizione delle cose rispetto allo stato precedente”. 332 Luzzatto usa indistintamente i termini “cancellaria” e “cancelleria”. 333 Si è emendata la lettura originale: “bibliotica”. 334 Coartato, ovvero “contenuto a forza”. 335 Oggettare, termine antico per “far notare”. 336 Vanido, ovvero “fatuo” (spagnolo vanidad). 337 Regalato, attestato nel Grande dizionario col significato antico e letterario di “onorato, circondato di attenzioni”. 338 Titus Lucretius Carus, De rerum natura III, 935-938. 339 Protarco: protagonista del dialogo platonico Filebo, probabilmente da considerarsi un personaggio storico. 340 Espedito, ovvero “veloce, solerte”. 341 Si propone la seguente lettura: “Non ti accorgi, ottimo Protarco, che

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    tutto quello che hai ora narrato e tutta la memoria che conservi di Tebe è preservata attraverso le tue azioni e passioni, ed essendo essa costituita di azioni e passioni risulta già estinta e abolita?”. 342 Proicente, termine antico usato in riferimento a ciò “che imprime un moto a un corpo” (voce dotta lat. proicens). 343 Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius, De consolatione philosophiae III, m 2, 27-30. 344 Dal latino habitus nel senso di atteggiamento o abitudine. 345 Dissecazione, termine desueto per “sezionare”. 346 Valere, ovvero “essere capace, avere spiccate qualità”. 347 Convinto, usato in riferimento a chi, in base a prove inconfutabili, risulta essersi reso colpevole di un delitto o di un’azione riprovevole. 348 Inettia oppure inezia, termine antico per “inettitudine, stoltezza” (lat. ineptia). 349 Travagliare, ovvero “darsi da fare, affannarsi”. Il Grande dizionario lo attesta in un contesto figurato in riferimento alla brama di sapere. 350 Snocciolare oppure snocelare, attestato nel Grande dizionario col significato di “spiegare, analizzare a fondo”. 351 Publius Vergilius Maro, Georgicon IV, 219-221. 352 Carochio, ovvero “carro”. Luzzatto potrebbe aver mutuato questa parola dallo spagnolo carrucha, che è un tipo di carrozza. 353 Si è emendata la lettura originale: “li”. 354 Publius Vergilius Maro, Aeneis V, 700-702. 355 Lettera “t” illegibile. 356 Proteo: nella mitologia greca talvolta ritenuto figlio dello stesso Poseidone, aveva le caratteristiche tipiche delle divinità marine: l’età avanzata, il dono della profezia e sapeva trasformarsi assumendo sembianze sempre diverse. 357 Carociamo, andiamo su un carro (antico carrociare, ratto dal class. carrus, carro). 358 Publius Vergilius Maro, Aeneis III, 72. 359 E, qui usato pleonasticamente, oppure nel senso di “anche”. 360 Publius Terentius Afer, Eunuchus atto I, scena I, 1-4. 361 Divolvere, latinismo da devolvere, per “precipitare, cadere giù”. Dunque “havendo già l’inveterato habito pigliato in noi lo scettro e l’assoluto regimento, il governo precipita, si logora, diventando una totale monarchia over tirannide”. 362 Alcibiade: (ca. 450 – 404/3 a. C.), uomo politico ateniese di origine aristocratica, nonché nipote di Pericle, apparteneva al circolo socratico. 363 Luzzatto riprende in questa sede una questione a cui aveva già fatto riferimento anni addietro nel Discorso, 35v-36r, in cui aveva affermato che Socrate, dopo aver scandagliato se stesso, aveva dichiarato di non sapere “se egli fosse un solo animale, overo una moltiplicità di diversi in se stessi anodati, et invilupati, talmente trovava in se medesimo confuse le virtù, e li vitii, li eccessi, e le moderationi” (35v). 364 Euripo: presso gli antichi Greci, stretto di mare che separa l’isola d’Eubea dalla costa continentale greca, cioè dall’antica Beozia. A causa del continuo variare delle maree, le correnti nello stretto possono cambiare da

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    quattro a sei volte al giorno. Il termine designa una persona dal carattere instabile per antonomasia. Luzzatto ha forse tratto ispirazione dal Fedone di Platone, in cui Socrate esprime la sua valutazione dei risultati a cui approdano coloro che si dedicano allo studio della contraddizione: essi finiscono per porre tutto in continua fluttuazione come accade nell’Euripo (Fedone, 90c). 365 Cerebro, forma antica e letteraria per “cervello”. 366 Publius Vergilius Maro, Aeneis VIII, 564-566. 367 Si è emendata la lettura originale: “e”. 368 Si è emendata la lettura originale: “apprese”. 369 Publius Ovidius Naso, Ars amatoria I, 3-4. 370 Aggropparsi, ovvero “aggrovigliarsi”. 371 Luzzatto riprende qui il tema principale del “Socrate”, cioè la mente illuminata e guidata dalla rivelazione. 372 Luzzatto si riferisce alla molteplicità dell’animo umano, illustrata nella Considerazione 11 del Discorso, si veda VELTRI, “Dannare l’universale per il particolare”, pp. 72-73. 373 Sorti, in questo caso derivato da “sortire”, ovvero “avere in sorte” e dunque: “avendo avuto in sorte tra le miserie quella più vicina alla suprema, servire e non sapere a chi”. 374 Si propone la seguente lettura: “ma in questa incombenza deliberai di lasciare da parte il considerare ciò che sia lo stesso sapere, essendomi dedicato a questo particolare esame”, cioè ad esaminare le azioni della mente. 375 Seriato, participio passato di “seriare”, ovvero “disporre in serie ordinata dei dati”. 376 Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius, De consolatione philosophiae V, m 4, 1-9. 377 Alligare, termine antico per “allegare”, ovvero nel linguaggio giuridico “annettere, accludere”. Il Grande dizionario attesta il participio passato “alligato” in uso nel linguaggio forense e burocratico dell’antica Roma. 378 Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius, De consolatione philosophiae V, m 4, 10-29. La citazione manca tuttavia dei versi 16: “unde haec sic animis viget” e 18: “quae vis singula perspicit”. 379 Transato, attestato nel Dizionario del dialetto veneziano col significato di “composto”. Si veda anche la discussione rabbinica sugli ermafroditi che devono adempiere gli obblighi delle donne e degli uomini. Forse Luzzatto si riferisce a questi brani alla discussione talmudica di Talmud Bavli, Baba Batra 140a-b e paralleli. 380 Si propone la seguente lettura: “e che il discorso interno deduce e riconosce la grandezza della dimensione, grazie alla successione continuata che fa il senso sopra l’oggetto visibile, benché ciò sia da noi inosservabile”. 381 Si propone la seguente lettura: “L’apprensione del moto sopracitato appartiene al senso interno, non all’esterno, che solamente dal presente oggetto si move e rimane impresso”. 382 Assèrto, ovvero “asserzione” (voce dotta lat. tardo assertum, participio passato di asserere, “asserire”). 383 Interscecandosi, ovvero “intersecandosi”. 384 Si propone la seguente lettura: “Perciò spesso ho giudicato che mentre noi operiamo scientemente qualcosa non ne abbiamo tuttavia una completa

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    perizia, come invece l’abbiamo quando la eseguiamo senza la nostra osservazione”. 385 Luzzatto si riferisce probabilmente alle Lettere sulla follia di Democrito attribuite ad Ippocrate. Gli Abderiti scrissero disperati ad Ippocrate affinché accorresse per guarire Democrito che sembrava impazzito a causa del troppo sapere e rideva di ogni cosa. Nella prima lettera indirizzata ad Ippocrate, tuttavia, essi apparivano preoccupati per la salute di Democrito, in quanto la sua follia gettava un’ombra sulla prosperità e sul futuro di tutta la città. Ippocrate, pur notando il tono accorato degli Abderiti, ipotizzò, prima di poter visitare il malato, che Democrito soffrisse per il troppo sapere, cosa che di per sé non era una malattia, ma che poteva apparire tale agli ignoranti. Conversando con Democrito, Ippocrate vide in effetti confermata la sua ipotesi e comprese quanto fosse profonda la sapienza del filosofo, che proprio a causa della sua profondità sembrava follia agli occhi dei profani. Per quanto riguarda la traduzione italiana delle lettere e anche la loro importanza nella cultura rinascimentale si veda ROSELLI (a cura di), Lettere sulla follia di Democrito e relativa introduzione. 386 Terminato, ovvero “delimitato”. 387 Si è emendata la lettura originale: “altercante”. 388 Divedére, termine attestato nel Grande dizionario col significato antico di “mostrare chiaramente, dimostrare”, ma anche “far credere” in riferimento ad una cosa non vera. 389 Digladiationi, ovvero “dispute” (lat. digladiare). 390 Si è emendata la lettura originale: “mio”. 391 Si è emendata la lettura originale: “li”. 392 Oggettare oppure ogettare, termine antico attestato nel Grande dizionario col significato di “far notare”, ma anche di “porre in dubbio”. 393 Si è emendata la lettura originale: “corrisposo”. 394 Instare, termine antico e letterario per “incalzare”. 395 Luzzatto si riferisce probabilmente al famoso scambio di battute tra Platone e Antistene riguardo alle idee. Quest’ultimo affermava di vedere il cavallo ma non la cavallinità e Platone rispose seccamente che egli veva l’occhio per vedere il cavallo ma non quello per vedere la cavallinità. A riguardo si veda MORRISON (a cura di), The Cambridge Companion, p. 42, per le fonti si rimanda allo stesso volume. 396 Rudità, ovvero “rozzezza di ingegno”. 397 Lettera “e” illegibile. 398 Si tratta di un possibile riferimento a Orazio, Epistula I, 1, 41-42: “Virtus est vitium fugere et sapientia prima stultitia caruisse”. 399 Probabilmente il rabbino veneziano si riferisce a Proverbia 16,16, che nella versione della Vugata Clementina legge “Posside sapientiam”. È possibile che il Nostro abbia tradotto direttamente dall’ebraico, cosa che usualmente fa nel Discorso. 400 Fumi, ovvero “mi fu”. 401 Pieghevole, ovvero “docile, propenso”. 402 Garbo, termine antico per “asprigno, acerbo”. 403 Abbagliarsi, ovvero “prendere un abbaglio, cadere in errore”. 404 Si è emendata la lettura originale: “occorre”.

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    NOTE

    405 Però, attestato nel Vocabolario della Crusca (I ed. 1612) col significato

    di “congiunzione dimostrante la ragion della cosa”. 406 Aroralarno, ovvero “arruolarono, inglobarono”. 407 Maestevolmente, avverbio derivato dall’aggettivo desueto “maestevole”, ovvero “elevato, sublime”, e dunque “in modo sublime”. 408 Astante, termine desueto attestato nel Grande dizionario usato in riferimento a colui che negli ospedali compiva opera di assistenza agli ammalati. 409 Sfugatoio/Sfogatoio, letteralmente, “apertura che lascia fuoriuscire gas o fumo”. Tuttavia, sfugatoio potrebbe anche essere ricollegato al verbo “sfugare”, ovvero “allontanarsi rapidamente”. 410 Anácarsi Scita: di famiglia reale, vissuto probabilmente nel VI secolo a.C., tentò di introdurre la cultura greca tra il suo popolo, gli Sciti. Diogene Laerzio (Vitae philosophorum I, 8) lo annovera tra i sette sapienti. Ancora Diogene Laerzio (Ibidem, I, 8, 104) gli attribuisce l’invenzione dell’ancora e della ruota da vasaio. 411 Admonistione, latinismo da admonitio per “ammonizione”. 412 Incirca, ovvero “quasi, pressapoco”. 413 Incognitanza, latinismo da incogitatus ovvero “non pensato, non studiato”, dunque l’esercizio del camminare viene eseguito come un atto di riflessione inconscia. 414 Invenzione, qui usato etimologicamente nel senso di ritrovamento di qualcosa che era smarrito o nascosto. 415 Vette, attestato nel dizionario della Crusca (IV edizione, 1729-1738) alla voce “leva”, di cui sarebbe sinonimo. Il dizionario riporta, a suffragio di tale tesi, una citazione da Galileo (Meccaniche, 605): “Nè questo strumento è differente da quell’altro, che vette, e volgarmente leva si domanda, col quale si muovono grandissimi pesi con poca forza”. Si veda inoltre, Zonca, Novo Teatro di Machine et Edificii, 7-8, dove il vette fa parte di una macchina per tirare le pietre ed è definito “stanga”. 416 Diogene: (ca. 412/403 - ca. 324/321 a. C.), nato a Sinope (Turchia), detto il cinico e famoso per il suo stile di vita ascetico che porta ad un atteggiamento distaccato rispetto alle necessità fisiche e materiali. 417 Diporto, termine attestato nel Grande dizionario nel senso di “passeggiare per svago”, e per estensione “divertimento, svago, distrazione”. 418 Il detto “homo […] homini deus est, si suum ufficium sciat” è di Cecilio Stazio (citato da Simmaco, Epistola IX, 114). È anche possibile che Luzzatto avesse in mente un testo di Seneca (Ad Lucilium epistulae morales, libro XXV, lettera 95, 33), il cui testo orginale legge: “Homo, sacra res homini”. Per il secondo detto egli attinge a Plauto (Asinaria, Atto I, scena 4, 89). Tuttavia i due detti sono commentati, nella forma in cui Luzzatto li cita, da Erasmo da Rotterdam negli Adagia (I, 1, 69 e 70). Erasmo spiega che “homo homini deus” viene detto in riferimento ad un uomo che abbia fatto fortuna, in quanto l’antichità riteneva divino tutto ciò che poteva andare a vantaggio dei mortali. Anche Thomas Hobbes (De cive, “Introduzione e dedica”, 1642), li menziona, tuttavia in quest’ultimo caso il contesto è strettamente politico. 419 Rattenermi, termine antico per “trattenermi”. 420 Avventizio, ovvero “accidentale, occasionale” (lat. adventitius). 421 Crivelli, ovvero “setacci” (lat. cribellum).

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    Feciale oppure feziale, nell’antica Roma erano i sacerdoti incaricati di amministrare per conto dello Stato il diritto sacro riguardante le dichiarazioni di pace e di guerra (lat. fetialis). 423 Alardi oppure araldi, ovvero nel medioevo i nobili che per conto dei re e dei grandi feudatari avevano il compito di presiedere ai tornei, di intimare la guerra o la resa, proporre trattive e proclamare la pace. 424 Speculatore, usato in riferimento a colui che studia e indaga da un punto di vista filosofico o scientifico la natura dei fenomeni e le loro cause. 425 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, X, 7. Lo stesso paragone è usato da Montaigne in riferimento all’amore. Si veda RAT (a cura di), Montaigne Essais, Livre I, Chapitre XXVII, vol. I, p. 201. 426 Profugare, ovvero “allontanare, evitare”. 427 Fuggilotio oppure fuggilozio, ovvero “passatempo”, spesso musicale, si veda ad esempio Le otto giornate del fuggilozio (1596) di Tommaso Costo. 428 Traportato da traportare, antico per “trasportare”. 429 Prodico: (n. ca. 470/460 a. C.) nativo dell’isola di Ceo, sofista, probabilmente visse anche dopo la morte di Socrate. Egli è citato in vari dialoghi platonici. 430 Mallevadore oppure malevadore, ovvero “garante”. 431 Cerussa, antico nome del colorante bianco, oggi detto “biacca” o “bianco di piombo” (lat. cerussa). 432 Lettera “o” illegibile. 433 Il testo originale legge “risulta realmente”. Il “che” è negli errata di mano di Luzzatto. Si intende il senso come un’enfasi su “realmente”. 434 Luzzatto si riferisce indirettamente ad Aristotele (De anima III, 4, 429a13-a15). Infatti egli sembra qui citare il testo latino di Tommaso d’Aquino (Summa theologica I-II, q. 22 a1) nella solutio: “intelligere est quoddam pati” e poco più avanti “intelligere pati est, ut dicitur in 3 De Anima”. 435 Alligare, termine antico per “allegare”, ovvero “fondere insieme”. 436 Sortire, ovvero “ottenere un risultato”, in questo caso per estensione “risultare”. 437 Si propone la seguente lettura: “Ne seguirebbe da questa espositione, come altre volte fu da me detto, che non essendo altro il nostro sapere che sentimento come il dolore e piacere, i più veementi risentimenti che incontriamo in noi insistono e sono circonscritti, né giammai si trovò esterno oggetto che piacere ovver dolore fosse, così lo stesso seguirebbe circa tutte le altre nostre passioni. Onde il dolce e amaro, il nero e bianco, e qualunque altra apprensione sensibile over intelligibile, si vedrebbe negare entità e realtà esterna, e così anche il concetto che forma l’intelletto della esistenza esterna delle cose, sortendo anche essa sentimento nostro interno”. 438 Publius Vergilius Maro, Aeneis VI, 724-728. 439 Podagra, si tratta della gotta alle articolazioni dei piedi (lat. podagra). 440 Si è emendata la lettura originale: “pedagaga”. 441 Scapato, participio passato di “scappare”, ovvero “apparire, spuntare fuori”. 442 Tritto, termine desueto per trito, ovvero “già trattato, ripetuto”. 443 Probabilmente si riferisce a “spirito”. 444 Lettera “a” illegibile.

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    NOTE

    Si mantiene la grafia dell’originale usata dall’autore, nella consapevolezza dell’oscillazione grafica Schita/Scita. 446 Fedone: (n. Elide ca. 418/416 a. C.) fu venduto ad Atene come schiavo ma Socrate persuase uno dei suoi allievi a comprarne la libertà. Da quel momento in poi Fedone si dedicò alla filosofia. Egli è protagonista dell’omonimo dialogo platonico. 447 Si è emendata la lettura originale: “essi”. 448 Abbate, ovvero “abbatte”. 449 Commesso, ovvero “messo insieme”. 450 Furato, participio passato di “furare”, ovvero “rubare” (lat. furari). 451 Luzzatto potrebbe qui riferirsi agli xoana (plurale di xoanon). Si trattava delle immagini cultuali in legno più antiche di tutta la Grecia. Gli esemplari più famosi furono creati intorno ai secoli VIII-VII a. C. da artisti appartenenti alla scuola di Dedalo, accreditato come il fondatore della statuaria greca. 452 Sì bene, ovvero “piuttosto, invece”. 453 Baiulo, termine antico e letterario per “facchino” (lat. baiulus). 454 Dionisidoro oppure Dionisodoro: fratello maggiore di Eutidemo, che comparirà nelle pagine seguenti. Si ritiene che entrambi siano figure storiche: nacquero a Chio e nel 416 a. C. vennero ad Atene per insegnarvi. I due fratelli sono inoltre protagonisti del dialogo platonico Eutidemo. 455 Si è emendata la lettura originale: “si”. 456 Aristotele, De Anima I, 2 (404b14-b16). 457 Concinnità oppure concinità, ovvero “grazia, eleganza, armonia” (lat. concinnitas). 458 I numeri irrazionali sono numeri che possono essere scritti come decimali infiniti e non periodici, tra essi vi sono √2 e π (si veda BARNES-SVARNEY e SVARNEY, The Handy Math, p. 74; LADHANI, ‘Irrational Numbers’ (“Number Sets”), in BRANDENBERGER (a cura di), Encyclopedia of Mathematics. Vol. III, p. 81). Per le fonti si rimanda a IVOR, Greek Mathematics Vol. I, “From Thales to Euclid”, pp. 214-217. 459 Titus Maccus Plautus, Menaechmi, “Prologus”, 18-20. 460 Vice, usato in riferimento a colui che è autorizzato a a sostituire il proprio superiore. 461 Attopare oppure attoppare, ricompare qui il verbo di possibile derivazione spagnola (topar) che Luzzatto ha usato a pagina 63 del testimone col significato di “intoppare, sbattere contro un ostacolo”. 462 Issione/Ixione: re della Tessaglia, era considerato uno dei più grandi peccatori puniti nell’Oltretomba in quanto aveva ucciso un parente. Secondo alcune fonti, si tratterebbe del suocero Eioneo. Zeus lo perdonò, ma Issione tentò di violare Era. Zeus, irato, lo punì facendolo incatenare ad una ruota che girava senza sosta. 463 Si è emendata la lettura originale: “li”. 464 Si è emendata la lettura originale: “esercito”. 465 Taide: famosa etèra ateniese. 466 Evagatione, oppure evagazione, termine desueto per “distrazione” (lat. evagatio). 467 Teeteto: (Atene, ca. 414 – 369 a. C.) era un matematico che divenne

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    anche membro dell’Accademia platonica. Egli è protagonista dell’omonimo dialogo platonico.. 468 Cespitare, termine antico per “incespicare, inciampare” (lat. tardo caespitare). 469 Stafiero, antico per “staffiere”, ovvero il servitore che ha l’incarico di reggere la staffa al padrone. 470 Si è emendata la lettura originale: “soggerto”. 471 Proceroso, termine letterario per “alto, slanciato” (derivato dal termine italiano desueto “procero”, a sua volta dal lat. procerus). 472 Si è emendata la lettura originale: “dissi”. 473 Si è emendata la lettura originale: “le”. 474 Salebri, termine letterario e antico per “scabrosità, difficoltà” (lat. salebra). 475 Vindice, termine antico e letterario usato in riferimento a chi esegue una vendetta. 476 Si è emendata la lettura originale: “Indluviduali”. 477 Cotornice oppure coturnice, termine desueto per “quaglia o pernice”. 478 Si tratta in realtà di Archelao, riguardo al quale si veda nota 253 a pagina 438. 479 Pedota, termine antico del gergo marinaresco per “pilota esperto”. 480 Publius Vergilius Maro, Georgicon II, 490. 481 Puoco ovvero “poco”. 482 Regettione, ovvero regezione o reiezione, termine dotto per “rifiuto o abolizione” (lat. reiectio). 483 Si è emendata la lettura originale: “incompeensibile”. 484 Vaglia, termine desueto e letterario per “merito, valore”. 485 Oggettare, termine desueto attestato nel Grande dizionario con il significato di “presentare alla considerazione”, e dunque, in questo contesto, “discutere”. 486 Luzzatto si riferisce qui al teorema di Pitagora. La tavola quadrata in questione viene divisa in due da una diagonale, andando a formare due triangoli rettangoli. L’autore tuttavia chiama tale diagonale diametro, in quanto questa diagonale è la distanza più grande tra due punti opposti della tavola quadrata, proprio come il diametro è la distanza più grande tra due punti opposti in una circonferenza.. 487 Usitato, termine letterario e desueto che designa oggetti frequentemente usati (lat. usitari). 488 Titus Lucretius Carus, De rerum natura IV, 834-835. 489 Illuvione, termine letterario per “inondazione, alluvione” (lat. tardo illuvio-oniss). 490 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia VII, 450-451. 491 Spirare, se usato in riferimento ad un serpente “sibilare”. 492 Publius Vergilius Maro, Georgicon II, 491-492. 493 Ridondare, ovvero in questo contesto “risultare”. 494 Nicia: (Atene ca. 470 – 413 a. C.) fu uno dei più importanti comandanti durante la Guerra del Peloponneso. Tuttavia, per quanto riguarda l’eclissi avvenuta durante la spedizione ateniese in Sicilia, Nicia ebbe ben poca fortuna. Luzzatto sembra qui riferirsi a quanto successivamente riportato da Tucidide

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    NOTE

    (De bello peloponnesiaco, VII, 50, 4) e da Plutarco (Nicia, XXIII, 1-6 e XXIV, 1). Quest’ultimo racconta che Nicia, a capo delle forze ateniensi contro quelle siracusane, si lasciò spaventare da un’eclissi di luna per ignoranza e superstizione. Rimandò dunque l’attacco, attendendo che la luna si disponesse in una posizione propizia e finì per essere colto di sorpresa dal nemico ed essere sconfitto. L’episodio è già stato citato da Luzzatto nel Discorso, Consideratione XV 68v-69r, sempre per evidenziare la stoltezza della superstizione, dovuta ad un’interpretazione distorta e fallace di eventi naturali. 495 Dichiarire, termine desueto attestato nel Grande dizionario per “chiarire, spiegare”. 496 Luzzatto potrebbe qui riferirsi ad Aristarco di Samotracia (ca. 216 – 144 a. C.), che fu un famoso grammatico. Da non confondere col matematico Aristarco di Samo, riguardo al quale si veda nota 28 a pagina 427. 497 Luzzatto potrebbe qui riferirsi a Quinto Rèmmio Palèmone, che era un grammatico vissuto nel I secolo, nonché maestro di Quintiliano e Persio. Si veda a riguardo Suetonius, De viris illustribus, De grammaticis et rhetoribus XXIII. Da non confondere con Polemone di Atene (IV – III a. C.), filosofo dell’antica Accademia. 498 Risibile, attestato nel Grande dizionario col significato desueto e letterario di “atto al riso” (lat. risibilis). 499 In questa e la seguente pagina si sono corretti manualmente i numeri di pagina originali 222 e 223 in 218 e 219. 500 Attendere, in questo contesto ha il significato di “prevedere”. 501 Si è emendata la lettura originale: “vocablo”. 502 Si è emendata la lettura originale: “mchina”. 503 Da intendere probabilmente: “che è”. 504 Iatura, oppure iattura, termine desueto per “danno”. 505 Prestantia, termine letterario attestato nel Grande dizionario per “prestanza”, ovvero “eccellenza, condizione di superiorità”. 506 Si è emendata la lettura originale: “quello”. 507 Filolao: ( fine V secolo a. C. – inizio IV secolo a. C.), poco si sa della vita di Filolao. Diogene Laerzio (Vitae philosophorum VIII, 7, 84-85), lo annovera tra i pitagorici. Per quanto riguarda il libro di Filolao acquistato da Platone, Luzzatto potrebbe riferirsi proprio a Diogene Laerzio (Ibidem, VIII, 7, 85) che, citando Ermippo come fonte, riferisce che Platone, giunto in Sicilia, avrebbe acquistato dai parenti di Filolao un suo libro per la cifra di quaranta mine alessandrine d’argento. L’incongruenza cronologica riguardo al tipo di monete menzionata da Diogene Laerzio è stata fatta notare dai commentatori dello stesso autore (si veda IVOR, Diogenes Laertius - Lives, II vol., 400 nota a,). Aulo Gellio (Noctes Atticae III, 17, 1-2) tramanda lo stesso episodio, citando tuttavia la somma di diecimila denari. 508 Darici: antiche monete persiane d’oro introdotte da Dario I verso la fine del VI secolo a. C. Secondo l’Encyclopaedia Iranica nel V secolo a. C. il termine ‘darico’ designava genericamente le monete persiane che circolavano in Grecia. Si potrebbe ipotizzare che la fonte da cui Luzzatto ha attinto la notizia sui darici si riferisse genericamente a delle monete persiane. A riguardo si veda ALRAM, “Daric”, p. 36. 509 Si è emendata la lettura originale: “richiesi”.

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    Xenocrate di Calcedonia: (n. ca. 396/5), fu allievo di Platone e a capo dell’Accademia per 25 anni dopo la morte di Speusippo. Nulla ci è pervenuto dei suoi scritti. 511 Difalcatione, ovvero defacalzione, cioè “detrazione, deduzione”. 512 Si è emendata la lettura originale: “rimaso”. 513 Sinistramente, ovvero “erroneamente”. 514 Bracciolare, attestato nel LEI (Lessico Etimologico Italiano, vol. VI, p. 1721) come sostantivo derivato da “brac(c)hiolum” (braccio, sostegno) col significato di “unità di misura lineare, di solito usata dai sarti e diversa a seconda dei tempi e dei luoghi”. 515 Luzzatto sembra qui riferirsi al fatto che nel campo numerico si può avere un numero infinito di cifre decimali, periodiche e così via. Tuttavia, quando si misura ci si ferma sempre ad alcune di esse e dunque si misura in maniera discreta, servendosi per lo più dei numeri interi o razionali. 516 Signatura oppure segnatura, attestato nel Dizionario della Crusca (III edizione, 1691), col significato di “segno”. 517 Si è emendata la lettura originale: “altra”. 518 Si è emendata la lettura originale: “e”. 519 Si è emendata la lettura originale: “cosa”. 520 Incomplesso, attestato nel Grande dizionario come termine filosofico ma desueto per ciò “che è composto da una parola sola” oppure “che costituisce un’unità indifferenziata”. 521 Si è emendata la lettura originale: “si”. 522 Forse Luzzatto intende qui “sibilata”, attestato nel Grande dizionario come termine desueto per “fischio di scherno”. 523 Volvere, attestato nel Grande dizionario col significato letterale di “far girare”, ma anche col significato di “indurre qualcuno a prendere una determinata decisione, indirizzare” (voce dotta lat. volvere). 524 Circonspetare, ovvero “fare attenzione, ponderare” (lat. circumspicere). 525 Affettare, attestato nel Grande dizionario col significato desueto di “desiderare ardentemente”. 526 Contumacia, attestato nel Grande dizionario col significato antico di “resistenza, tenacia” (lat. contumacia). 527 Pretèrito, termine letterario per “passato, trascorso” (lat. praeteritus). 528 Inanire, termine antico per “indebolire”. 529 Si è emendata la lettura originale: “rinvenire”. 530 Dimenso, latinismo da dimetior ovvero “misurare” e dunque “misurato”. 531 Testudine, termine antico e letterario per “tartaruga” (lat. testudo). 532 Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius, De consolatione Philosophiae, V, m 3, 1-10. 533 Spermuto, ovvero “spremuto”. Attestato nel Grande dizionario col significato di “espresso, manifesto, reso esplicito”. 534 Doglio, termine letterario che, secondo il Grande dizionario, designa un “grande vaso di argilla o di legno, a forma di globo” usato dai romani per conservare olio, vino o cereali. 535 Fecioso oppure feccioso, usato in riferimento a ciò “che ha natura di

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    feccia, che è pieno di feccia, che contiene impurità”, e che dunque è “torbido”. 536 Luzzatto cita qui Lucius Annaeus Florus, Epitome rerum romanorum, II, 30 “Bellum germanicum”,12, 29. 537 Decimus Iunius Iuvenalis, Satura X, 365-366. 538 Sosopra, forma antica di “sossopra”, ovvero “sottosopra”. 539 Allo scopo di rendere scorrevole e coerente la consecutio temporum del discorso indiretto si è emendata la lettura originale: “divisasti”. 540 La fonte di questo proverbio è probabilmente Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum I, 3, 70). 541 Gaius Svetonius Tranquillus, De vita Caesarum, II “Divus Augustus”, XXV, 4. Svetonio attribuì questo motto all’imperatore Augusto, che lo citava in greco. Lo stesso motto è anche citato da Aulo Gellio (Noctes Atticae X, 11, 5). Probabilmente nelle righe seguenti Luzzatto fa riferimento a Erasmo da Rotterdam, che negli Adagia (II, 1, 1) discute il valore e significato del proverbio particolarmente amato anche da Vespasiano. Erasmo racconta che l’editore e tipografo veneziano Aldo Manuzio gli mostrò una moneta d’argento coniata da Vespasiano e donatagli da Pietro Bembo che raffigurava da un lato l’immagine dell’imperatore romano e dall’altro quella di un delfino che si avvolge intorno al fusto di un’àncora. Erasmo, facendo riferimento ai geroglifici egiziani, spiega che questa era la rappresentazione grafica del motto: il delfino, animale noto per la sua velocità, corrisponde a festina, mentre l’àncora rappresenta la lentezza. Questo stesso simbolo appare sul frontespizio del Discorso di Luzzatto. 542 Però, attestato nel Vocabolario della Crusca (I edizione del 1612) col significato di “congiunzione dimostrante la ragion della cosa”. 543 Accapato, participio passato di “accappare”, ovvero “incappare”. 544 Regetto, oppure rigetto, termine antico attestato nel Grande dizionario col significato di “rifiutato, scartato”. 545 Nulladimeno, ovvero “tuttavia, nondimeno”. 546 Professore, in questo contesto usato nel senso di “colui che fa professione di”. 547 Tarsimaco o Trasimaco: originario di Calcedonia, era un sofista e maestro di retorica. Egli discute con Socrate nel primo libro della Repubblica di Platone riguardo cosa sia la giustizia. 548 Parola illegibile. 549 Nella nota a margine si è emendata la lettura originale: “sesta”. 550 Additamento, termine antico attestato nel Grande dizionario col significato di “aggiunta” (lat. additamentum, derivato da addere). 551 Pravamente, qui usato nel senso di “disordinatamente, caoticamente”. 552 Dichiarare, ovvero “spiegare, chiarire” (lat. declarare). 553 Dicacità, termine letterario attestato nel Grande dizionario col significato di “mordacità, disposizione alla maldicenza” (lat. dicacitas). 554 Facendoso oppure faccendoso, termine desueto per “indaffarato, affaccendato”. 555 Litura, termine antico attestato nel Grande dizionario col significato di “cancellatura, raschiatura” (lat. litura). 556 Si propone la seguente lettura: “Ma voi uomini sapienti nel commu-

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    nicare al mondo vostri libri e dottrine non avete rispetto né considerazione alcuna alla condizione dei lettori e auditori, perciò vi ritrovate ad essere incapaci di risolvere questioni complicate, come ora accade a te”. 557 Che, qui da intendersi nel senso di “che cosa”. 558 Si è emendata la lettura originale: “poteteva”. 559 Argento vivo, si tratta del mercurio. 560 Robore, termine antico attestato nel Grande dizionario col significato di “validità di una legge, di un provvedimento” (voce dotta dal lat. visroboris). 561 Manieroso, attestato nel Grande dizionario col significato di “duttile, che si adatta abilmente alla situazione”. 562 Enervare, termine antico per “indebolire, infiacchire” (lat. enervare). 563 Si è emendata la lettura originale: “da”. 564 Aruspice, ovvero “indovino che interpretava i voleri degli dèi osservando le viscere delle vittime (si veda il Grande dizionario). 565 Augure, ovvero “sacerdote” che presso i popoli italici e poi i Romani aveva l’incarico di predire l’esito di un’impresa. 566 Auspicio, ovvero “divinazione mediante l’osservazione del volo degli uccelli” (si veda il Grande dizionario). 567 Giuditiario oppure giudiziario, attestato nel Grande dizionario col significato di “ramo dell’astrologia che studia il corso dei corpi celesti per trarne pronostici circa il destino degli uomini”. 568 Matematico, termine antico attestato nel Grande dizionario col significato di “astrologo, indovino, mago”. 569 Geomantico, termine usati in riferimento a “ciò che è proprio della geomanzia”, ovvero della “divinazione del futuro mediante l’interpretazione di segni tracciati sul terreno o mediante l’interpretazione di spaccature e crepe naturali del suolo” (si veda il Grande dizionario). 570 Hidromantico oppure idromantico, usato in riferimento a “ciò che è proprio della geomanzia”, ovvero all’arte “di predire il futuro che presso i Greci e i Romani era fondata sull’osservazione dei movimenti compiuti da un oggetto gettato in acque sacre” (si veda il Grande dizionario). 571 Calcante: veggente e augure dei Greci durante la guerra di Troia. Egli profetizzò la sconfitta della città al decimo anno di guerra, basandosi sul volo degli uccelli. Quando la flotta greca non riusciva a partire a causa della mancanza di vento, fu Calcante a dire che Artemide era irata ed esigeva il sacrificio di Ifgenia. Successivamente, Calcante spiegò ai Greci il motivo dell’ira di Apollo che aveva scatenato una pestilenza nel loro accampamento. Il dio, disse Calcante, era adirato in quanto Agamennone aveva mancato di rispetto al Crise, sacerdote di Apollo, rifiutandosi di restituirgli sua figlia Criseide. 572 Omero, Iliade. Luzzatto potrebbe aver attinto alla traduzione latina di Helio Eobano Hesso (Poetarum omnium seculorum longe principis Homeri Ilias, Liber Primus, alla pagina 8v dell’edizione del 1545). 573 Imperò, ovvero “tuttavia, però”. 574 Permettere, attestato nel Grande dizionario col significato antico e letterario di “affidare”. Dunque alla prudenza conviene affidarsi al trasporto della altrui condotta, senza opporre resistenza. 575 Decimus Junius Iuvenalis, Saturae X, 22.

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    Imo, termine letterario per “fondo”. Despicientia, latinismo da despicientia per “disprezzo, disdegno”. Si è emendata la lettura originale, proponendo l’eliminazione del pronome “la”, che rende la comprensione del testo problematica. 579 Lumiero, termine desueto per “luce, illuminazione”. 580 Publius Ovidius Naso, Metamorphoseon I, 84-86. 581 Titus Lucretius Carus, De rerum natura V, 837-839, e 855-856. 582 La serie di domande fin qui elencata dipende tutta da “Fu posto l’homo nel mezo di questo gran teatro come giudice”, a pagina 257 del testimone. 583 Conditura, termine letterario attestato nel Grande dizionario col significato di “operazione del condire” oppure di “condimento”. 584 Appoveciare oppure approvecciare, termine antico attestato nel Grande dizionario col significati di “avvantaggiarsi, ritrarre utile” (spagnolo aprovechar). 585 Attraversamento, attestato nel Grande dizionario col significato figurato ma antico di “contrarietà”. 586 Equante, secondo l’antica astronomia tolemaica era il “cerchio dal cui centro il moto del sole o il moto del centro dell’epiciclo di un pianeta appariva univorme sulla sfera celeste” (si veda il Grande dizionario). 587 Hippocrates, Aphorisma I, 3. 588 Il testimone della Marciana legge “258”, qui emendato seguendo l’ordine numerico delle pagine precente e successiva. 589 Luzzatto si riferisce qui alla luna, sottintesa nel periodo. 590 Pravo, ovvero “malvagio, perverso nell’intimo”. 591 Vago, in questo contesto usato col significato di “bello, leggiadro”. 592 Infarfallato, ovvero “diventato farfalla”, e dunque attratto dalla luce. Il Grande dizionario tuttavia attesta anche il verbo “infarfallonire” ovvero “incappare in un errore, prendere un abbaglio”. 593 Espilatione oppure espilazione, termine letterario e antico per “furto, rapina” (lat. espilatio). 594 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia I, 181-182. Luzzatto torna qui a citare gli stessi versi che già compaiono nella considerazione XII del Discorso (pagina 41v del testimone). Si veda anche la nota corrispondente alla pagina 413-414 del volume. 595 Luzzatto sembra qui proporre una perifrasi di Tacito (De vita Iulii Agricolae III) che afferma: “Corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur”. 596 Humanato, oppure umanato, termine antico e letterarioper designare “colui che ha preso natura umana”, ma anche per estensione “reso sensibile alla cultura, incivilito”. 597 Ferità, termine letterario per “natura, qualità, istinto degli animali feroci” (lat. feritas). 598 Apriscono, ovvero “appariscono”. 599 Antiperistasi, termine antico che designa una “azione reciproca di due forze contrarie, reazione”. Luzzatto fa riferimento all’antiperistasi anche nel Discorso. A riguardo si veda VELTRI, “Economic and Social”. 600 Publius Cornelius Tacitus, Annales I, 2, 1. 601 Erario, antico nome che designava il “tesoro pubblico”.

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    Publius Cornelius Tacitus, Annales I, 2, 1. Ventricolo, termine usato in anatomia per designare quella “parte dell’organo digerente che corrisponde allo stomaco” (lat. ventriculus). 604 Acònito, pianta erbacea nota per il suo succo velenoso e mortale, oggi usata come analgesico. La specie più nota di questa pianta è l’aconitum napellus. Il termine “napello” citato da Luzzatto può riferisi anche alla stessa sostanza velenosa contenuta nella pianta. 605 Nitroso, attestato nel Grande dizionario col significato desueto “che contiene nitrati”, in particolare in riferimento all’acqua o alla terra. 606 Deliquio, attestato nel Grande dizionario come termine antico per “eclissi”. 607 Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, XV, 20, 3-5. La citazione manca tuttavia del verso 4: “copre i fasti e le pompe arene ed erba”. 608 Lettera “a” illegibile. 609 Tumore, attestato nel Grande dizionario col significato di “rilievo montuoso”, usato da Galileo Galilei in riferimento ai rilievi lunari visti al telescopio, oppure, più semplicemente col significato di “volume, voluminosità”. 610 Acervo, termine letterario per “grande mucchio” (lat. acervus). 611 Si riferisce ad Ippia, che ha iniziato questo discorso a pagina 256 del testimone. 612 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia II, 381-383. 613 Si propone la seguente lettura: “Ma di più si impegnò a rintuzzare la pazza superstitione che opprime la pregiata messe della veneranda religione come l’olio opprime i germogli”. 614 Guinzo, termine desueto per “vizzo, cascante”. 615 Si è emendata la lettura originale: “riesce”. 616 Prevertire, termine antico per “alterare gravemente”. 617 Deucalione: ritenuto figlio di Prometeo e ricollegato al diluvio già da Esiodo. Deucalione e sua moglie Pirra furono i soli a scampare al diluvio che Zeus inviò sulla terra come punizione per gli uomini. Avvertito da suo padre Prometeo, Deucalione costruì un’imbarcazione che galleggiò sulle acque per nove giorni e nove notti. Istruiti dall’oracolo di Temi (personificazione divina della legge suprema e perciò vicina allo stesso Zeus) la coppia si apprestò a ripopolare la terra gettandosi alle spalle le ossa della stessa madre Terra, ovvero delle pietre. Dalle pietre lanciate da Pirra nascevano donne, da quelle lanciate da Deucalione uomini. 618 Publius Ovidius Naso, Metamorphoseon, I, 129-131. 619 Dracone: legislatore ateniese che applicò per la prima volta leggi scritte nel 620/21 a. C. Le sue leggi sono divenute proverbiali per la loro severità. 620 Vernale, termine antico per “primaverile” (lat. vernalis). 621 Publius Vergilius Maro, Aeneis VI, 258. 622 Edurre, termine letterario per “trarre fuori” (lat. educere). 623 Comportare, ovvero “tollerare con pazienza”. 624 Si è emendata la lettura originale: “stato”. 625 Si propone la seguente lettura: “E mi stupisco che se senza un’attenta osservazione anatomica giammai nessuno riuscì a congetturare quale sia il principio della vita di noi stessi, vi sia tuttavia qualcuno che si sforza di individuare qual sia la vera cagione dei moti celesti”.

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    NOTE

    Invoglio, termine desueto che designa un “insieme di oggetti avvolti o impacchettati”, anche semplicemente “bagaglio”. 627 Bagagliere, termine antico per designare colui che è “addetto al trasporto e alla custodia del bagaglio”. 628 Marchiamento, probabilmente Luzzatto si serve di un derivato di “marchia” e “marchiar”, attestati nel Dizionario del dialetto veneziano come termini militari che designano rispettivamente “il camminare dei soldati e degli eserciti” e “il camminare dei soldati”. 629 Posata, nel caso di uno spostamento di truppe si tratta della “sosta”. 630 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia II, 383. 631 Si è emendata la lettura originale: “i”. 632 Publius Cornelius Tacitus, Annales XV, 1, 4. 633 Ibidem. 634 Si è emendata la lettura originale: “ne”. 635 Publius Vergilius Maro, Aeneis III, 56-57. 636 Il soggetto è sempre l’avarizia. 637 Paliare, oppure palliare, termine desueto e letterario per “nascondere, dissimulare ipocritamente”. 638 Imprendere, termine antico per “cominciare, intraprendere”, ma anche “sobbarcarsi una fatica” (lat. volgare imprendere). 639 Inanimire, termine letterario per “incoraggiare”. 640 Garire, oppure garrire, se riferito ad un uccello “cinguettare”. 641 Donna in preda allo spirito divinatorio . 642 Il periodo è di non facile lettura, come d’uso in Luzzatto. È chiaro comunque che la magia divinatoria viene accettata per il suo sforzo nel perseguire un buon fine, uno sfozo ben più convincente che le speculazioni di un filosofo. La tesi dell’uso psicologico della magia è già stata sostenuta da Maimonide nel suo commento a Mishna Sanhedrin 10,1. 643 Luzzatto ha probabilmente presente l’opinione di Cicerone (Tusculanae disputationes IV, 74-75), secondo il quale un nuovo amore riesce a fugare la malinconia di un vecchio amore in quanto “clavo clavum eiciendum”. Una versione simile del proverbio (“clavum clavo pellere”) è discussa anche da Erasmo da Rotterdam (Adagia, I, 2, 4) che cita proprio lo stesso passo di Cicerone. 644 Quintus Horatius Flaccus, Satyrarum libri I, 1, 106-107. 645 Gli inizi e gli esiti. 646 Palliamento, desueto per “dissimulazione”. 647 Antemurale, nella terminologia militare si tratta del “luogo fortificato più prossimo al nemico (si veda il Grande dizionario). 648 Ridondare, ovvero “abbondare”. 649 Essi, ovvero coloro che “pronontiarno fontione della giustitia essere che cadauno posedesse ciò che li conviene”. 650 Marcus Tullius Cicero, De officiis I, 33. 651 Di lei, ovvero della fortezza. 652 Nel gergo marinaresco “andare a destra”. 653 Orzare, nel gergo marinaresco “manovrare la prua di un’imbarcazione a vela per avvicinarla alla direzione del vento”. 654 Menticato, termine antico e dialettale per “mentecatto”.

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    Sbandito, ovvero “espulso, cacciato”. Quintus Horatius Flaccus, Epistulae I, 6, 1-2. Apelle di Colofone: (n. ca. 380/375 a. C.) fu uno dei più celebri pittori dell’antichità. 658 Corsaletto, ovvero la “corazza che protegge il torace”. 659 Publius Cornelius Tacitus, Annales IV, 38, 5. 660 Si è emendata la lettura originale: “da”. 661 Si è emendata la lettura originale: “li”. 662 Titilamento oppure titillamento, ovvero “prurito, pizzicore” (voce dotta lat. tardo titilamentum). 663 Euripide, in Aristotele, Etica, VIII, 1 (1155b5-6). 664 Damone e Finzia erano amici e vivevano a Siracusa. Quando Finzia fu condannato a morte chiese una sospensione dell’esecuzione in modo da poter sistemare i suoi affari prima di morire. Damone offrì la sua vita in garanzia qualora l’amico avesse tardato. Con gran sorpresa di tutti, Finzia mantenne la parola e fece ritorno entro il termine prescritto. L’episodio è menzionato anche da Cicerone (De officiis III, 45). 665 Repletione oppure replezione, termine letterario che indica un “accumulo eccessivo di cibo nello stomaco, che provoca difficoltà di digestione” (si veda il Grande dizionario). 666 Flebotomia, usato nella terminologia chirurgica antica per definire “l’arte di eseguire un salasso”, oppure un “salasso stesso” (si veda il Grande dizionario). 667 Conforme, ovvero “simile, uguale”, ma anche “che concorda, confacente, adatto”, dunque la discordia ottenne l’elogio di tali disturbatori in quanto questi ultimi erano simili e concordi con essa. 668 Publius Cornelius Tacitus, Annales XIV, 44, 4. 669 Dettame, ovvero “norma, principio”, qui probabilmente usato con il significato antico di “opinione, parere”. 670 Mercare, termine antico e letterario per “fare oggetto di un contratto di comprevendita” (lat. mercari). 671 Il soggetto è sempre “il volgo”. 672 La philautia è il concetto aristotelico che definisce l’amore “di sé” e che è discusso nell’Etica Nicomachea, (IX, 8). Aristotele pone una differenza fondamentale tra l’amore di sé inteso nel senso di egoismo e avidità e l’amore di sé che spinge l’individuo ad aspirare a ciò che vi è di più nobile e così facendo, a beneficiare anche coloro che lo circondano. Filautia, nel senso negativo del termine, fa inoltre parte del corteggio che accompagna la follia nell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. 673 Ovidius, Ars Amatoria III, 397. 674 Fuco, ovvero “materia colorante”, figurativamente “finzione, falsa apparenza” (voce dotta lat. fucus). 675 Luzzatto cita qui probabilmente Ecclesiastes 7, 29 (Bibbia ebraica), Ecclesiaste 7, 30 (Vulgata clementina). Tuttavia il testo della Vulgata clementina legge: “Solummodo hoc inveni, quod fecerit Deus hominem rectum,et ipse se infinitis miscuerit quæstionibus”. 676 Titus Lucretius Carus, De rerum natura II, 1-2. 677 Marcus Annaeus Lucanus, Pharsalia IX, 573-577.

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    NOTE

    Qui Luzzatto riprende le argomentazioni usate da Senofonte in difesa di Socrate nei Memorabilia (I, 2-9). Il “demone”, oppure come dice Luzzatto, “il genio” di Socrate non era una nuova divinità che il filosofo aveva voluto introdurre, macchiandosi di empietà. Tale demone dava suggerimenti a Socrate proprio come le altre persone ritenevano di esser ispirate a prendere certe decisioni da auguri, oracoli e divinazioni. 679 Inquirere, nella terminologia giuridica attualmente in disuso “inquisire, indagare” (lat. inquirere). 680 Indoglienza, oppure indolenza, ovvero “protesta, rimostranza” (voce veneziana derivata da indolere). 681 Fucato, participio passato di fucare, ovvero “tinto, cosparso di materie coloranti”, figurativamente “falso, finto”(voce dotta lat. fucare). 682 Divertito, participio passato di divertire ovvero “deviare”, e dunque “deviato”. 683 Proclive, ovvero incline (lat. proclivis). 684 Redunanza, oppure radunanza, ovvero “riunione, assemblea”. 685 Alcmeone di Crotone: (inizio del V secolo a. C.) fu tra i primi a scrivere di medicina e fu anche un filosofo naturale. Diogene Laerzio (Vitae philosophorum VIII, 5, 83) lo annovera tra i discepoli di Pitagora. Luzzatto fa probabilmente anche riferimento ad un’altra dottrina di Alcmeone, ovvero alla differenza tra uomini e animali basata sulla capacità di comprendere, e dunque sulla ragione. Secondo Alcmeone, infatti, gli animali sono dotati della sola percezione sensoriale, mentre gli esseri umani aggiungono a quest’ultima la ragione. 686 Insudato, participio passato di insudare, ovvero“affaticarsi, insudarsi“ (lat. insudare). 687 Assoluto, forma antica derivata da assolvere, ovvero “prosciogliere l’imputato dalle accuse” (voce dotta lat. absolvere). 688 Irrefragabile, antico per “irrefutabile, innegabile, indiscutibile”(lat. irrefragabilis).

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    INDICE DEGLI ARGOMENTI L’indice seguente offre al lettore un resoconto generale dei soggetti più rilevanti, presenti nell’opera di Luzzatto. Per necessità editoriali si è preferito fare riferimento ai numeri di pagina delle edizioni originali del Discorso (1638) e del Socrate (1651), evidenziate in grassetto nel testo qui pubblicato. L’eventuale rinvio alle Note nella sezione Apparati è indicato tra parentesi. Per agevolare la consultazione degli indici si è scelto di indicare con D il Discorso e con S il Socrate. I riferimenti all’Introduzione sono espressi con i numeri romani. Tra parentesi figura la grafia dei nomi adottata da Luzzatto.

    ALCHIMIA, S 22 ANATOMIA, S 49, S 98, S 268-269 ANIMA INTELLETTIVA, D 83V-84R ANTIPERISTASI, D 55V, S 267 ARISTOTELICO, PENSIERO, D 25R-25V, D 81R-81V, D 82V S 41-42, S 44, S 47, S 85-88, S ACCIDENTE, 210, S 212 DOTTRINA delle QUATTRO CAUSE: MATERIALE, FORMALE, EFFICIENTE, FINALE, S 56 INDUZIONE, QUALITÀ, CATEGORIA, S 85 SILLOGISMO, S 215-219 SOSTANZA, D 82R, S 41, S 85-88, S 210 TRE PRINCIPI delle COSE NATURALI: MATERIA, PRIVAZIONE e FORMA, S 22, S 296 ASINO, TESTA di, D 59R-59V ASTRONOMIA, ECLISSE, D 69R, S 207 OSSERVAZIONE della LUNA e dei PIANETI, S 7R, D 34V, D 76R-76V, S 95, S 174, S 232, S 261-264, S 272, S 285 UNIVERSO ELIOCENTRICO, S 95 ASTROLOGIA GIUDIZIARIA, D 66V

    219 S

    INDICE DEGLI ARGOMENTI

    ATEISMO, ATOMISMO, ATOMI,

    INFINITI MONDI, VUOTO, AUTORITÀ ILLE DIXIT,

    501

    D 66V, D 70R D 7R, D 26R, S 19, S 81-83 S 283 S 81

    147 S

    S8

    D 75V, D 80R-84V CABALA e CABALISTI, CARAITI, D 84V-85R CARATTERE UMANO, D 35V-38R, D 55V, S 296 CERIMONIE E RITI, D 18V, D 26V, D 30R, D 41R, D 43R, D 49R, D 51V-52V, D 64R-64V, D 71V, D 77R-77V, D 91V CHIMICA, V. ALCHIMIA, S 22 CIRCONCISIONE, V. CERIMONIE, D 77R COLOMBA di LEGNO di ARCHITA, S 86 COMMERCIO, D 8V-32R D 9R COTONE, D 9R, D 17V, D 29V SETA, D 9R ZAMBELOTTI, D 17R ZUCCHERO, CONOSCENZA S 247 NOSCE TE IPSUM, CONVERSIONE, R D 88 CRISTIANESIMO, D 28R, D 30R-30V, D 32R, D 33V, D 41R-43R, D 45V, D 74V, D 78R-79R, D 87V CATTOLICI ROMANI D 90V-91R D 90V-91R PROTESTANTI, CUBO, PROBLEMA di DELO, S 30 DIO

    AMORE E CARITÀ di, CLEMENZA di, COMANDAMENTI di, CONOSCENZA di, DECRETI di, EMINENZA INFINITA di,

    D 54V D 52R D 83R D 55R D 66R D 83R

    INDICE DEGLI ARGOMENTI

    502 ESISTENZA di, ETERNITÀ di, GIUSTIZIA di, GRANDEZZA di, IMPRONTA di, MINACCE di, MIRACOLI di, MISTERIOSI ARCANI NOME/I di, ONNIPOTENZA di, OPERARE di, SAPIENZA di, DISPERSIONE, 74V, D 88V-89V

    ELEATICI,

    di,

    D 52V D 34V D 52R D 52R, D 85R D 67V D 66R D 69V D 69R D 63V, D 80V D 52R D 52V D 52R D 3R, D 22R, D 38R, D 74R-

    PARADOSSO DI ZENONE, ELEMENTI ARIA (ANASSIMENE), ACQUA (TALETE), FUOCO (ERACLITO), TERRA (ORFEO), QUATTRO ELEMENTI (EMPEDOCLE), ERETICI, ESILIO, D 39V-40R, D ETNOGRAFIA,

    S 18, S 60 S 235 S 18 S 18 D 81R, S 18 S 19 S 19, S 186-187 R

    D 83

    V

    D 22

    57R, D 87V-88R, D 91V

    FILOSOFANTI, D 75V, D 77V FORTUNA, D 10R, D 11R, D 18V, D 59V, D 92R, S 13, S 17, S 20, S 80-81, S 123, S 126, S 197, S 237-238, S 240, S 248, S 270, S 293 GEOGRAFIA,

    TOPOGRAFIA, IDROGRAFIA, GEOMETRIA, GNOSTICI, V. ERETICI,

    D 16V, D 20V-21R, D 44V-45R D 7V, D 13V, D 24R, D 75R, S 285 S 233-235, S 158, S 232-233 3R D 8

    INDICE DEGLI ARGOMENTI

    503

    IDOLATRIA, D 48R, D 50R, D 54R, D 59R, D 61R, D 66V IMMAGINAZIONE, S 3, S 54, S 91, S 106, S 108, S 114-116, S 118-122, S 124-125, S 155, S 158, S 167, S 182 INFANTICIDIO, R D 43 INFINITO, S 35, S 283 D 13V-14R LEGA ANSEATICA o HANSA, LEGGE MOSAICA, D 46R, D 53V, D 54V, D 56V, D 64R, D 66R, D 77V, D 79V, S DEDICA DIVINA, D 40R, D 46V della NATURA, S 38 UMANA, S 31 LIBERTÀ, di COMMERCIO, D 9R del VIVERE, D 9V,D21R dell’ANIMO, S 1, S 13, S 255 LINGUA ARABA, D 78V R D 52 CALDEA, D 27V, D 77R, D 79R, D 91R EBRAICA, D 78R-78V GRECA, R D 79 LATINA, MAGNETE, S 71-72, S 76, S 130, S 133, S 166, S 304 MANNA, VASO della, R D 59 MATEMATICA, EUCLIDE, TEOREMA di, S 213 NUMERI DISCRETI, S 60, S 223-224 NUMERI IRRAZIONALI, S 191, S 233-234 MEDUSA, MITO, S 18 MEMORIA, S 3, S 106, S 123, S 125-131, S 181-182 MENTE DIVINA, ORDINATRICE del CAOS, S 21, S 254 UMANA, S 33-35, S 37-38, S 107, S 191, S 198 MONTI di PIETÀ, V. USURA, D 42R

    504

    INDICE DEGLI ARGOMENTI

    NAVIGAZIONE, V. GEOGRAFIA, D 6R, D 10V, D 19V, D 23V-24R, D 45R-45V NECESSITÀ, D 18R, S 21, S 26, S 67, S 82, S 257-258 NEOPLATONISMO, R D 82 OMEOMERIE, PIETRE, DODICI, PITAGORICO, PENSIERO, METEMPSICOSI, NUMERI, UNITÀ, PLATONICA, DOTTRINA, ANAMNESI,

    D 36R, S 21 R

    D 59

    V

    D 84

    D 81R, S 64, S 157, S 161

    D 81R, S 20 S 20 D 36R-36V, D 43V, D 81V S 128, S 185 CINQUE GENERI SOMMI del MONDO delle IDEE, S 62 IDEE, D 81R, S 21, S 155 PROVVIDENZA, D 25V, D 32R, D 44R-44V, D 52V, D 55V, S 259, S 273, S 277

    RABBINI, CLASSI dei, D 55R, D 75V, D 76V, D 77V, D 79V, D 80V RELATIVISMO CONOSCITIVO PROTAGORA, D 81R, S 14 REPUBBLICA IDEALE, R D 22 SADDUCEI, D 84V-85R SCACCHI, GIOCO degli, S 23 SCETTICISMO S 14 APATIA, ATARASSIA, S 13-14, S 79-80 ESAME INTERIORE, S 23, S 63, S 113 PROBABILE, D 30R, S 13, S 16 RITENZIONE dell’ASSENSO, S 11, S 13, S 277, S 307-308, S 312 SCETTICO/I, S 2, S 43 SETTIMO TROPO PIRRONIANO, S 101

    INDICE DEGLI ARGOMENTI SOSPENSIONE

    505

    del GIUDIZIO, S 4, S 13-14, S 16, S 277, S 307, S 309, S 315

    SCIENZE NATURALI D 82V, S 70, S 213, S 269 BOTANICA, SENSI S 42, S 64, S 73-74, S 76, S 125-126, S 170 GUSTO, OLFATTO, S 42, S 64, S 70, S 76, S 125-126 SENSO COMUNE agli ALTRI SENSI, S 3, S 106, S 108-109-110-111-112-113-114-115 TATTO, S 40-51, S 64-65, S 72, S 76, S 89-94, S 125-126, S 145, S 193 UDITO, S 31, S 33, S 42, S 64, S 73, S 76, S 98-99, S 125-126 VISTA, S 33, S 40, S 42, S 46-47, S 4951, S 64-65, S 70, S 73, S 76, S 78, S 89, S 93, S 102, S 116, S 125-126, S 134, S 243, S 255 SERPENTE di RAME, R D 59 SETTANTA, D 58R, D 78R SOFISTI, S 34-63, S 103-104, S 112, S 194, S 196, S 215, S 218, S 252, S 255 SPADA di GOLIA, D 59R-59V SPECCHIO, S 14, S 26, S 73-75, S 78, S 97, S 116, S 146, S 247 STOICISMO, D 7R, D 35V, D 55V, D 60R, D 82R., S 137-138, S 198-202 SUICIDIO, S 15 SUPERSTIZIONE, D 66R-68R, D 69V-70R, S 274, S 287-288, S 313 D 75V, D 84V TALMUDISTI, TELESCOPIO di GALILEO, V. ASTRONOMIA, S 94 TEMPO, S 149-151 TEOLOGI, D 75V, D 84V TERRA SANTA, D 25V, D 47V, D 49V-50R, D 53R, D 87R, D 90R THEATRUM MUNDI, S 19, S 194, S 276 PIANTO di ERACLITO, S 18 RISO di DEMOCRITO, S 19, S 230, S 272 UMORI, DOTTRINA di GALENO, D 7V, D 27R, D 44R

    506 UMORE GIALLO, VAPORI, USURA, D 33V, 87R

    INDICE DEGLI ARGOMENTI

    S 48 S 48 D 41V-42V, D 47R, D 55V-56R, D 86V-

    D 83R VALENTINIANI,V. GNOSTICI, VERGA DI ARONNE, R D 59 VITELLO D’ORO, R D 39 VIRTÙ, AMISTÀ, S 297-299 BENEFICENZA, S 289-291 COSTANZA, 294 FORZA, S 293-294 GIUSTIZIA, S 292-293 GLORIA, S 294-295 PRUDENZA (DELFINO, ÀNCORA), S 10, S 12, S 237-273 TEMPERANZA, S 296 UMILTÀ, 299 VISIONE-PERCEZIONE, TEORIA DELLA, S 50-51, S 88, S 94, S 96-104, S 145-146 MODELLO dei DUE FLUIDI, S 46 MODELLO EMISSIONISTA, S 66 MODELLO IMMISIONISTA - SIMULACRA, S 14, S 65-69 TEORIA dei COLORI, S 48, S 73, S 87, S 101103, S 113-114, S 155, S 159, S 163, S 169, S 175-176, S 199, S 210 FENOMENO DIFFRAZIONE OTTICA (PRISMA TRIANGOLARE), 101 VIZI, AMBIZIONE, S 299-300 AVARIZIA, 299 CRUDELTÀ, S 300-301 DISCORDIA, S 300-301 INFEDELTÀ, 301 INVIDIA, 300 SUPERBIA, 299

    S

    S

    S S S S S

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI Per necessità editoriali si è preferito fare riferimento ai numeri di pagina delle edizioni originali del Discorso (1638) e del Socrate (1651), evidenziate in grassetto nel testo qui pubblicato. L’eventuale rinvio alle Note nella sezione Apparati è indicato tra parentesi. Per agevolare la consultazione degli indici si è scelto di indicare con D il Discorso e con S il Socrate. I riferimenti all’Introduzione sono espressi con i numeri romani. Tra parentesi figura la grafia dei nomi adottata da Luzzatto.

    XXVII (N. 37) ABOAB SHEMUEL (ABOAFF), ABRAHAM BEN DAVID di POSQUIÈRES, XXXII ABRAMO (ABRAM), D 62R, D 48V, D 50V, D 79V ABRAVANEL, ISAAC (ISACH ABRAVANELLO), XLIX, LVI-LVIII, LXII ABSALON, D 61V, D 62R-62V ACHITOFEL, L, D 62R ADAMO, D AFRICA OCCIDENTALE (BARBARIA), D 9R, D 44V, S 167, S 212-213 AGAMENNONE, D AGATONE, S114, S 156, S 199, S 203-204 AGRIPPINA IULIA AUGUSTA, D AHIAS (HACHIÀ), D AL BATANI O ALBATENIUS (ALBETANO), D 76R ALBO, YOSEPH (RABBI GIOSEPH d’ALBA), D 79V ALESSANDRETTA, D ALCIBIADE, S138, S 156, S 167, S 175, S 249-250, S 303 ALCMEONE di CROTONE (ALMEONE), S 315 ALESSANDRIA d’EGITTO, D 17R, D 18R, D 20V, D 39V ALESSANDRO il MACEDONE, D 36V, D 63V ALGERI (ALGIERI), D 44V, D 45R ALPERINO, RENETTO (BENEDETTO ALFERIN), XXIV

    46V 64V 62V 89R 21R

    508

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    AMAN, D AMBURGO, D 19V, D 91R AMNON, D 61R AMON, AMOS, D 53R-53V AMSTERDAM (AMSTRADAMO), D 19V, D 20V, D 91R ANACARSI SCITA, S 163, S 184 ANASSAGORA, LXXI, D 36R, S 20-21, S 79, S 190, S 192, S 194, S 198, S 208, S 211, S 252 ANASSÍMENE (ANSIMENE), LXXI, S 18 ANCONA, D ANITO, S 37 ANNIBALE, D 36R, D 69R ANNONE (HANONE), D ANTEO, S 12 ANTISTENE, S 112-113, S 201, S 303 ANVERSA, D APELLE di COLOFONE (APPELE), S 295 APIS, APPIANO di ALESSANDRIA, D APOLLO, S 58 ARCHELAO (ERCHELAO), S 207 ARCHITA di TARANTO, S 84, S 86-88 ARGO, S 21, S 236 ARIOSTO, LUDOVICO, S 172 ARISTARCO di SAMO, S 9, S 114, S 217, S 250-251 ARISTIPPO, S 44, S 167-169, S 172, S 214, S 286, S 303 ARISTOFANE, LXXXI, D 70R ARISTOTELE (ARISTOTILE), LXIX, LXXI, LXXIV, LXXXI, D 22R, D 25R-25V, D 37V, D 72V, D 79R, D 81R-81V, D 82R, S 8-9, S 22, S 177, S 214-220, S 286, S 292 ARON, D 59R ASIA, D 17V, D 60R, D 62V, S 154, S 212, S 244, S 283, S 287 ASSUERO re di PERSIA (ASUERO), D 48V ATENE, S 187, S 234, S 256, S 302 ATHIAS, ISAAC, XLII ATLANTICO, MARE, S 284

    91V 225 S

    16V 62V 20V 225 S 71V

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    ATTICA, AUGUSTO, AVTALYON, AVERROÈ, AVICENNA, AZOV, MARE (PALUDE MEOTIDE),

    509

    S 154, S 287 D 32V, D 62V, D 71V XXXI-XXXII D 78V-79R D 83R D 10V

    D 52R, D 64R BABILONIA, BACCO, D 64R, S 112 BALAAM, D 89R BARBARO, GIOSAFAT, D BASNAGE, JACQUES, LXII BERGAMO, D BERSABEA, D BESANÇON (BISENZONE), D BIBLE, S 51, S 121 BISERTA, D 44V-45R BOEZIO, S 130, S 142-143, S 235 BRACCIOLINI, POGGIO, LVI, LVII BRANDEBURGO, XXI BRESCIA, D BRUTO, MARCO GIUNIO, D BURGOS, PABLO, SHLOMO HA-LEVI, (BURGENSIS), D 54V BUSIRIDE RE d’EGITTO, D 65R-65V D CA’ da MOSTO, ALVISE, CALCANTE, CALDERON de LA BARCA, PEDRO, LXIX, LXXIV CALIGOLA, (IMPERATORE ROMANO), D 63R, D 77V CALLEONI, GIOVANNI, XLII, D FRONTESPIZIO CALLICLE, S 102-103, S 156, S 221 CALLISTENE, D CALVINO, GIOVANNI, D 91R CALIMANI, ABRAHAM di, XXV-XXVI CANTARINI (YITSCHAQ CHAYYIM COHEN), XXVIII CARAMUEL, JUAN, LXIX, LXXIV, LXXVII CARMELO, MONTE, D 59R, D 66V CARPACCIO, VITTORE, LIX

    10V 86V 61V 20V

    86V 36V

    10V 254 S

    36V

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    510

    CARTAGINE, D 62V CASPIO MARE, D 20V CASTIGLIA, D 57R, D 91V CATONE, MARCO PORCIO, D 60V CESARE, GIULIO, D 36V, D 60V CHARRON, PIERRE, XXX L CHILONE, 242 S CICERONE, D11R, D 70V, D 72R-72V, S 288 CIPRO, D 39V CIRCE, S 63 CIRO, S 190, S 192 CIVITAVECCHIA (CIVITÀ VECCHIA), D 16V CLAUDIO (IMPERATORE ROMANO), D 63R CLINIA, S 114, S 156, S 216-217, S 246-249 CLITO, D 36V CONIGLIANO, ISRAEL, LIV CONTARINI, ANGELO, XXXVIII CONTARINI, GIROLAMO, XXXVII CORE (CORACH), XLVII, D 39R. CORINTO, S 234. COSTANTINOPOLI, D11V, D 20R, D 56V, D 90R. CRATILO, LXX, LXXIII, D 81R-81V, S 17, S 32, S 59-60, S 229, S 235-237. CREMA, D 86V CRESCAS, CHASDAI BEN YEHUDA (RABBI CASDAI), D 79V CRETA, LV CRISIPPO, D 60R CRIZIA, S 103, S 105, S 203-204, S 244-245 CRITONE, S 64, S 70, S 96, S 116, S 199 CURZIO RUFO, D 67V CUSANO, NICOLA, XLIX DALMAZIA, DAMASCO, DAMIATA, DAMONE, DANIELE, DANTE, ALIGHIERI,

    D D 20V, D 48V D XXVII, LXIII XVI,

    LX XVII, D 83V, S 8, S 32, S 88-89

    20R 20V 298 S

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    511

    DANIELLO, BERNARDINO, D DARIO I, D DARIO III, D DAVID, D 59R-59V, D 61R-62R DE POMIS, DAVID, LVII-LVIII, LVIII DELFI, S 3, S 5, S 246 DEMOCRITO, LXXI, D 7R, D 26R, S19-20, S 79-80, S 83-84, S 147, S 175, S 209, S 230, S 254, S 283 DEUCALIONE, DIOCLEZIANO (IMPERATORE ROMANO), D 74V DIODORO SICULO, D 22V DIOGENE di SINOPE, S 167-168, S 230 DIONE, S 84, S 86, S 88 DIONISODORO, S 147, S 187 DIOTIMA, S 99, S 101 DRACONE, DRUSO, GIULIO CESARE, D 69R XXIX, XXXVII, D 17R, D 36R ECCLESIASTE (ECLESIASTE), EGEO, MARE, EGITTO, L, D 9R, D 17R, D 20R, D 33V-34R, D 50V-51R, D 52R, D 54R, D 65R, D 70V, D 72R, D 79R, S 224, S 228, S 285 ELEA, S 36 ELENA (HELENA), S 122 ELIA, D 66V ELISABETTA I TUDOR, D13V ELISEO, D 48V EMANUELE I, RE di PORTOGALLO, D 87V EMPEDOCLE, LXXI, S 19, S 70, S 187-190, S 192, S 223 ENDIMIONE, S 41 EPICARNO, D 68R EPIFANIO di SALAMINA, D 83R EPIRO, ERCOLE, S 112, S 314 ERIDANO, S 18 ERACLITO, LXXI, D 81R, S 18, S 59-60, S 194 ERODE (HERODE), D 64V ERO (HERO), D 50V, S 53

    84R 63V 36V

    277 S

    277 S

    212 S

    244 S

    512

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    EROSTRATO, S 10 ESAÙ, D 47V EUCLIDE, S 119, S 162, S 213, S 223-224, S 226, S 303 EUFRATE, D . 47V EURIPIDE, D . 47V EURIPO, S 139. EUROPA, D 13V, D 17V, D 20V-21R, D 86R, S 244. EUSEBIO di CESAREA, LII, D 73V. EUTIDEMO, S 198-202, S 206-207. EUTIFRONE, S 10. EZECHIA, D 59R. EZECHIELE, D . 53V D . 25V FALEA di CALCEDONIA, FARAONE, D 3V, D 33V. FARSALO (FARSAGLIA), D 36V. FEDONE, D 36R, S 184. FERDINANDO II d’ARAGONA, D 39V, D 57R, D 87V-88R. FÈS (FESSA), D 91R. FIDIA, . D 6V FILEBO, D 36V. FILOLAO, S 220-221-222-223-224. FILONE di ALESSANDRIA, L, D 48R, D 51V, D 57V-58R, D 63R, D 77V, D 79R, D 82R. FINEAS, D 61R. FINZIA (FITHIA), S 298. FLAVIO GIUSEPPE (GIOSEFFO), L-LII, D 58R, D 63R-63V, D 73V, D 77V-78R, D 79V. FOTONTE, S 18. FRANCIA, D 20V, D 86R, D 87V. XXX GASSENDI, PIERRE, GENOVA, D16V, D 21R. GEHAZI (GHECHAZÌ), D 8V. GEREMIA (HIEREMIA, IEREMIA), D 52R, D 63V, D 77R, GERMANIA, XXI, LIII, LXIII, D 9V, D 86R-86V-87R, D 90V. GEROBOAMO (ROBOAM, IEROBOAM), D 65R. GERSHOM, LEVI BEN O GERSONIDES (RABBI LEVI, MAESTRO

    L 4

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    513

    LEVÌ), D , 27V. D 79R GERUSALEMME (HIERUSALEM), XLI, D 58R, D 63V, D 66R, D 77V, D 90R. GIACOBBE (IACOB), D 33V, D 50V, D 52V. GIAMBLICO (IAMBLICO), D 82R GIOACCHINO da FIORE, LVIII GIOBBE, XXXVII GIORDANO, D 59R, D 72R GIOSUÈ (IOSUÈ), D 53R-53V GIOVE, D 67R, S 57, S 95, S 209, S 313 GIOVENALE (IUVENALE), D 62V, D 65V, D 70R-70V, S 238 GIULIANO (IMPERATORE ROMANO), D 74V GIUSEPPE (IOSEF), D 34R GIUSTINO, MARCO GIUNIANO, D 71V GIORGIO da TREBISONDA (TRAPEZUNZIO), GOLIA, D 59R GORGIA, LXXVII, S 10, S 34-35-36, S 40, S 49, S 56, S 58, S 63, S 89, S 117, S 129, S 160, S 193, S 202, S 277 GRECIA, L-LII, D 8V, D 60R, D 74R, S 11, S 154, S 212, S 224, S 244, S 283, S 287, S 307 HA-COHEN, SAMUELE, HEILPRON YA‘AQOV, HERDER, JOHANN FRIEDRICH,

    XXXLII XXV, XXXII, XXXIV LXIV

    IBN EZRA, ABRAHAM BEN MEIR (RABBI ABRAM ABEN EZRÀ), D 79V ICARO, IETRO (HITRO), LVI, LVIII, D 54R IFIGENIA, D 64V INDIE, D 88R, S 212 INGHILTERRA, XLV, LII, LXIII, D 13V, D 14V, D 86R IONIO, MARE, IPPIA (HIPPIA), LXXV, D 43V, S 4, S 242, S 244, S 256, S 277, S 280-284, S 287, S 309 IPPOCRATE (HIPPOCRATE), S 263, S 288 IRENEO di LIONE (IRENEO LATINO), D 83R

    280 S

    212 S

    514

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    ISABELLA I DI CASTIGLIA, D 39V, D 57R, D 87V-88R ISAIA (ESAIA), LVIII, D 34V, D 66V ISIDE, ISIDORO di SIVIGLIA, LIX ISOCRATE, D 65R-65V, S 300 ISRAEL, D 52V, D 53V ISSIONE (IXIONE), S 193, S 229 ITALIA, XXXV, LII, LXXXV, D 9R, D 12R, D14R-14V, D16V-17R, D 21R, D 33R, D 45V, D 86R-86V, D 91R, S 84, S 212, S 220, S 285 JACOB BEN ASHER, KIMHI, DAVID (DAVID CHIMCHÌ),

    225 S

    XXXII D 53V

    LXXX LA MOTHE LE VAYER, FRANÇOIS, LACHETE, S 10 LATTANZIO, LII LAMPRONTI, YITSCHAQ, XXIX LATINI, BRUNETTO, LXVII LEONE EBREO, LVI LEONE MODENA, XXII, XXVII, XL, XLII, LX LEPANTO, LV, LVIII LEUCIPPO, D 7R LEVITA, ISACCO, XXII LIBANO, MONTE, D LICURGO, D 46R, D 60R LIONE, D LIPSIUS, IUSTUS (LIPSIO), D LISANDRO, D LISIPPO, LITUANIA, D LIVORNO, D16V, D 18V, D 21R, D 45R LOPE de VEGA, FELIX, LXIX LOMBARDIA, D LOT, D LUCANO, D 32V, D 37R, D 41V, D 60V, D 91V, S 212, S 266, S 273, S 310

    36V 20V 84V 67R 6V D 90V 16V 50V

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    515

    LUCREZIO, D 64V, S 28, S 46-47, S 82, S 93-94, S 127, S 211, S 257, S 308 LUZZATTO, DIAMANTE (LIPET), XXIV-XXV, LXXXV-LXXXVII LUZZATTO, GLORIA (GHELE), XXIV, LXXXVII LUZZATTO, GRAZIADIO (NECHEMIA), XXIII LUZZATTO, LEONE, XXII, XXIII LUZZATTO MOISÈ, XXIV, LXXXLI, LXXXVIII LUZZATTO, ROSA, XXIII, LXXXVII LUZZATTO, UZELINA/USELINA (TEGHELE), XXIV LUZZATTO YITSCHAQ, XXIV-XXV MACEDONIA, MACHIAVELLI, NICCOLÒ, MAIMONIDE (RABÌ MOISE),

    S 58, S 124, S 244 XLIX, LIX

    XXXII, XXXV, LXXVII, D 78V-79R MALACHIA (MALACHI), D 34V, D 46V, D 52V MALTA, D 45R MANASSE BEN ISRAEL, LXII MANILIO, MARCO, S 108 MAOMETTO, D 76R MARCELLO, GAIO CLAUDIO, D 36V MARIA I TUDOR, D 13V MAROCCO, D 91R MARZIA, MOGLIE di CATONE UTICENSE, D 60V MASSIMINO (IMPERATORE ROMANO), D 74V MEDEA, S 109 MEDITERRANEO, MARE, D 10V, S 212 MEDUSA, S 18 MELDOLA di VERONA, SHMU’EL, LIV MELISSO, LXXI, S 17, S 43, S 60, S 194, S 231 MELETO, S 13, S 37 MENDELSSOHN, MOSES, LXIII, LXXXV MESOPOTAMIA, D 48V MESSINA, D16V MILONE di CROTONE, S 64 MITRIDATE, D 62V MOLINO, FRANCESCO, DOGE, LXVI MONTAIGNE, MICHEL DE, LXXIX-LXXXI MORO, TOMMASO, D 22R

    516

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    MOROSINI, GIULIO, XXVI-XXVII, LXIII MOSCOVIA, D 10V, D 20V MOSÈ (MOISE, MOISÈ), XXXVII,LVILVII, D 3V, D 34V, D 39R, D 46V, D 53V-54V, D 58V-59R, D 61R, D 66V, D 71V, D 76V-77R, D 79R, D 82R, D 84V D 48V, D 54R NAAMAN, NACHMANIDE (RABÌ MOISE GERUNDENSE), XXXII, D 84V NAPOLI, LVI, D16V NAUDET, GABRIEL, XXX NARENTA, D NERONE, D 36V, D 43R, D 62V, D 74V NICIA ATENIESE, D 68V, S 214 NILO, D 3V, D 72R, S 208-209, S 285 NOÈ, D NOEMI (NAOMI), D OMERO (HOMERO), D 36V, S 17, S 21, S 176, S 223, S 249, S 254, S 301 ORAZIO, QUINTO FLACCO, D 71R, D 73R, S 289, S 295 ORFEO, LXXI, S 19 ORIGENE di ALESSANDRIA, D ORTENSIO, QUINTO, D OSÒRIO JERÒNIMO, D OSPITE di ELEA, S 61, S 187, S 193, S 220, S 221-223 OVIDIO, PUBLIO NASO, D 89V, S 31, S 53-54, S 109, S 121, S 140, S 257, S 277, S 306

    21R

    L

    46V 52V

    78R 60V 88R

    D 42R PADOVA (PADOA), PALÈMONE, QUINTO RÈMMIO, S 217 PARIDE, S 122 PARIGI, XL, LX PARMENIDE, LXXI, S 18, S 36, S 43, S 60, S 194, S 223, S 231 PARMENIONE, D 36V PATIN, GUY, XXX L PENTAPOLI, V. ADAMA, GOMORRA, ZEBOIM, ZOAR, SODOMA, D 40R, D 48V-49R, D 53R

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    517

    PELOPONNESO (MOREA), D 17V, D 45R, S 244 PERICLE, S 64, S 194-196, S 227, S 237239, S 241-242, S 249, S 251-252, S 275, S 311 PERSIA, L, D 48V, D 89V, S 243, S 287 PHOTINO, D PIACENZA, D 21R PICO della MIRANDOLA, GIOVANNI, D 79V, D 80V PIEMONTE, D PISA, XXXVI -XXXVII PITAGORA, LXIX, LXXI, S 8, S 20, S 180, S 221 PITTACO, D 73R PLATONE, LVI, LXX-LXXI, LXXVI, LXXXI, D 22R, D 36R-36V, D 43V, D 72V, D 81R-81V-82R, S 4, S 21, S 113, S 152, S 154-157, S 208, S 220-222, S 224, S 226, S 228230, S 243, S 246, S 300, S 303, S 315-316 PLINIO, LXVII PLOTINO, D 82R POLIFEMO, POLO, MARCO, D POLONIA, D 80V, D 90V POMPEO, GNEO MAGNO, D 92R PORFIRIO (PROFIRIO), D 82R PORTOGALLO, D PRODICO, S 174-176 PROTAGORA, LXXI, D 81R, S 14, S 17, S 32, S 50, S 60, S 161, S 176, S 192, S 207, S 237-238, S 241 PROTARCO, S 127, S 129, S 131 PROTEO, S 135, S 191, S 248, S 280 PRUSSIA, LXXXV QUEVEDO, FRANCISCO, QUIRINI, PIETRO (PIERO QUIRINO),

    XXIV

    D 10V

    91V 16V

    236 S 10V

    91V

    L

    D 16V, D 21R RAGUSA (RAGUGGI), RASHI (RABBI SALOMON), D 53V RINUCCINI, OTTAVIO, XVIII L RODRIGA, DANIEL, D 18V ROMA, XXVI, XLII, L, D 18V, D 42R, D 43R, D 60V

    518

    ROMAGNA, ROMOLO (ROMULO), ROSSI, SALOMONE, ROTTERDAM (RETRODAMO), RUSSIA, RUTH,

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    D

    46R XLII D 19V, D 91R D D

    16V

    90V 52V

    D 78V SAADIA BEN JOSEPH (RABBI SAADIÀ), SALMISTA, D 34V, D 52V, D 54R-54V, D 67R, D 68R, D 69V, D 77R, D 85R SALOMONE (SALOMON), D 17R, D 25R, D 32V, D 64V, D 67V, D 69R, S 1 SALTARO FANO, YEHUDA, XXXI SAMUELE, VIII SANCHEZ, FRANCISCO, XXXI L SANSONE, D 59V SANTIPPE (XANTIPPE), S 148 SANUTO, MARINO, XXXVIII SARAVAL, LEONE, XXIII-XXV, LXXXVI SASSONIA, XXI SATURNO, S 95, S 138 SAUL, D 59V SCALIGER, JUSTUS, XLII, D 76V SCHUDT, JOHANN JAKOB, LXIII SCIPIONE AFRICANO, D 70V SENECA, D 37R SENOFANE (XENOFANE, ZENOFANE), LXXI, S 17, S 43, S 194, S 231, S 303 SENOFONTE (XENOFRONTE), LXIX-LXXI, LXXXI, S 11, S 13, S 303 SENOCRATE (XENOCRATE), S 221-223 SERRA, ANTONIO, XLV SERSE (XERSE), 283 S SESTO EMPIRICO, D 60R, D 82R SHAKESPEARE, WILLIAM, XVIII L SICILIA, D 68V, S 214, S 285 SINAI, D 69V, D 77R SIRIA (SORÌA), D 18R, D 21R, D 48V, S 212 SMIRNE (SMIRE), D 17V

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    519

    SOCRATE, XLVII-LXXXIV, D 22R, D 35V36R, D 37R, D 70R, D 72V SOLONE, D 46R SPAGNA, XLVIII, LII, LVI, LXXIX, D 17R, D 21R, D 39V, D 86R, D 87V-88R, D 90R SPALATO (SPALATRO), D 17V, D 18V, D 21R SPARTA, D 46R SPINOZA, BARUCH, LXIII, LXXX-LXXXI STATO PONTIFICIO, LIII STEFANI, GIORGIO, LXXXV STRABONE, D 71V SVETONIO, D 62V, D 71V, S 242 XLIX-LI, LIX, D 32V, D 36V, D TACITO, 42R-42V, D 57R-57V, D 62V-63R, D 64R, D 65R-65V, D 67R, D 70R, D 71R-72R, D 73R, S 268, S 284, S 295, S 301 TAIDE, S 199, S 228 TALETE, LXXI, S 18, S 71, S 279 TAMAR, D 61R-61V TANA (TANNA), D TANTALO, S 32 TARTARIA, D TASSO, TORQUATO, D TEBE, TEMISTOCLE, S 11 TEOFRASTO (THEOFRASTO), D 37V, S 214-220 TERENZIO, TERTULLIANO, QUINTO SETTIMIO, D 42V, D 58V THEETETO (TEHETETTO), D 81V, S 10, S 202-204, S 206, S 303 TIBERIO, (IMPERATORE ROMANO), D 67R, D 71V TIMONE, LXXV, S 4, S 277, S 309, S 315 TIRESIA, TITO, (IMPERATORE ROMANO), D 39V, D 73V TITO LIVIO, D 68V, D 76V TOLAND, JOHN, LXIII TOLOMEO, CLAUDIO, D 76R, D 79R TOLOMEO XIII, RE D’EGITTO, D TOMMASO d’AQUINO, LXXVII

    20V 10V 88V 129 S 137 S

    237 S

    91V

    520

    INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

    TRAIANO, (IMPERATORE ROMANO), TRASIMACO, TRIPOLI, TUCIDIDE, TURCHIA, TUNISI,

    D 39V, D 74V S 245-246 D 21R, D 44V-45R LXVII, D 20V D 12R, D 90R D 44V-45R

    ULISSE,

    S 249, S 296, S 301

    D VEGEZIO, FLAVIO RENATO, VERONA, D 21R, D 42R VELLUTELLO, ALESSANDRO, D 84R VERGERIO, PIER PAOLO, LVI VESPASIANO, (IMPERATORE ROMANO), D 73V VICENZA, D 42R VIRGILIO, D 9R, D 72R, D 92R, S 103, S 133-134, S 137, S 139, S 180, S 207, S 214, S 277, S 286 YEHUDA HA-LEVI, YEHUDA HA-NASI (RABBI GIUDÀ), YEQUTIEL, YOSEF CARO, ZANTE, ZENONE DI CIZIO, ZEUS, WOLF, JOHANN CHRISTOPH (WOLFIUS),

    LXXXII D 75V XXXI XXXII D 45R S 43, S 235 S 24

    XXVIII, XLIII, LXIII

    72V

    INDICE DELLE FONTI Per necessità editoriali si è preferito fare riferimento ai numeri di pagina delle edizioni originali del Discorso (1638) e del Socrate (1651), evidenziate in grassetto nel testo qui pubblicato. L’eventuale rinvio alle Note nella sezione Apparati è indicato tra parentesi. Per agevolare la consultazione degli indici si è scelto di indicare con D il Discorso e con S il Socrate. I riferimenti all’Introduzione sono espressi con i numeri romani.

    FONTI BIBLICHE GENESIS 9, 21-24 10 11, 2 14, 1-12 14, 13-24 18, 32 19, 37-38 41, 1-44 18, 20-33 36, 1

    D (N. 226) D (N. 225) D 20V (N. 101) D (N. 179) D (N. 221) D (N. 180) D (N. 229) D (N. 150) D (N. 223) D (N. 230) EXODUS

    1, 15-22 7,13 17, 8-16 18, 11 20, 22, 31, 33, 18 32

    21 21 15

    D (N. 236) D (N. 148) D (N. 227) D 54R (N. 257) D V (N. 69 376) D V (N. 47 210) D 71R (N. 386) D 34V (N. 156) D (N. 173)

    INDICE DELLE FONTI

    522

    LEVITICUS 2,1 18, 19 23, 2 25,17

    S DEDICA (N. 6) D (N. 308) D (N. 386) D R (N. 47 206) NUMERI

    16, 1-40 (BIBBIA EBRAICA) 16, 1-35 (VULGATA) 17, 8 20, 14-21 21, 4-9 22- 24 24, 6 25

    D (N. 174) D (N. 174) D (N. 290) D (N. 230) D (N. 292) D (N. 488) D (N. 488) D (N. 309)

    DEUTERONOMIUM 4, 6 7, 1-6 14, 21 17, 14-20 17, 17 23, 4-5 (BIBBIA EBRAICA) 23, 7 23, 3-4 (VULGATA) 24, 4 133, 3

    D D

    D D D

    R (N. 74 400) D (N. 226) V (N. 52 243) D (N. 122) D (N. 122) D (N. 229) R (N. 51 234) D (N. 229) R (N. 61 307) V (N. 54 260)

    JOSUÈ 1, 26 4, 1-7 7, 1-26 8,1-28

    D (N. 249) D (N. 295) D (N. 249) D (N. 249)

    INDICE DELLE FONTI

    523

    JUDICUM 15, 19 21, 21, 19

    19

    D D D

    1

    V (N. 59 297) R (N. 61 310) R (N. 61 310) D (N. 310)

    I SAMUELE 22, 9-19 (BIBBIA EBRAICA)

    D (N. 296) II SAMUELE

    11 E 12, 1-19 (BIBBIA EBRAICA) 13, 1-19 (BIBBIA EBRAICA) 16, 20-23 (BIBBIA EBRAICA)

    D (N. 314) D (N. 312) D (N. 316)

    I REGUM 3, 11(BIBBIA EBRAICA) 3, 13 (BIBBIA EBRAICA) 5, 20 (BIBBIA EBRAICA) 5, 20-27 (BIBBIA EBRAICA) 5, 29 (BIBBIA EBRAICA) 8, 12 14, 15 (BIBBIA EBRAICA) 18, 21 (BIBBIA EBRAICA) 22, 13-19 (VULGATA)

    D (N. 360) D (N. 361) D (N. 220) D (N. 219) D (N. 340) D 69R (N. 374) D (N. 489) D (N. 351) D (N. 296) II REGUM

    11 E 12, 1-19 (VULGATA) 13, 1-19 (VULGATA) 16, 20-23 (VULGATA) 18, 4 (BIBBIA EBRAICA)

    D (N. 316) D (N. 312) D (N. 316) D (N. 293)

    INDICE DELLE FONTI

    524

    III REGUM 3, 11 (VULGATA) 3, 13 (VULGATA) 4, 26 (VULGATA) 14, 15 (VULGATA) 18, 21 (VULGATA)

    D 68R (N. 360) D 68R (N. 361) D (N. 340) D (N. 489) D 66V (N. 351) IV REGUM

    5, 16 (VULGATA) 5, 20-27 (VULGATA) 5, 20 (BIBBIA EBRAICA) 5, 27 (VULGATA) 18, 4 (VULGATA)

    D (N. 217) D (N. 219) D (N. 220) D (N. 220) D (N. 293) ISAIAS

    66, 40,

    2 26

    D 34V (N. 154) D 66V (N. 352) JEREMIAS

    6, 10, 29,

    10 12 117

    D 77R (N. 416) D 52R (N. 240) D 64R (N. 334) EZECHIEL

    20,

    33 32-

    D

    V (N. 53 251)

    AMOS 2, 4-5 3, 1-2 (VULGATA)

    D (N. 248) D 53V (N. 252) JONAS

    1 E 2, 1

    D (N. 224)

    INDICE DELLE FONTI

    525

    MALACHIAS 4, 2, 1,

    2 10 11

    D D D

    V (N. 34 153) V (N. 46 205) V (N. 52 244)

    PSALMI 13, 1 16, 15 23, 3 26, 14 30, 6 (VULGATA) 31, 6 (BIBBIA EBRAICA) 50, 15 (VULGATA) 51, 15 (BIBBIA EBRAICA) 88, 3 94, 3 104, 1 138, 14 (VULGATA) 139, 14 (BIBBIA EBRAICA) 147, 8

    D 67R ( N. 355) D V (N. 34 135) D R (N. 56 264) D R (N. 68 363) D V (N. 54 261) D V (N. 54 261) D V (N. 61 315) D (N. 315) D R (N. 85 478) D V (N. 53 258) D V (N. 52 241) D V (N. 69 379) D (N. 379) D V (N. 52 242) JOB

    18,

    4

    D

    V (N. 68 367)

    PROVERBIA 10, 15 11, 9 14, 28 16, 16 17, 16 18, 11 22, 2 25, 2 30, 18-19 (VULGATA)

    D D D

    V (N. 32 145) R (N. 68 364) V (N. 27 129) S. 157 N 399) D V (N. 67 359) D (N. 146) D 25R (N. 120) D 69R (N. 372) S 1 (N. 8)

    (

    INDICE DELLE FONTI

    526

    RUTH 1,

    15

    D 53R (N. 245) ECCLESIASTES

    4, 4 (VULGATA) 5, 10 7, 29 (BIBBIA EBRAICA) 7, 30 (VULGATA) 9, 16 (VULGATA)

    D 36R (N. 160) D17R (N. 88) S 307 (N.675) S 307 (N. 675) S DEDICA (N. 4) ESTHER

    8 E 9, 1-10 3, 8

    D (N. 222) D 91V (N. 496) ESDRAE

    6,

    10

    D 63V (N. 332) EPISTOLA AD HEBREOS

    9, 3-4

    D (N. 291)

    FONTI RABBINICHE AVOT 1,1-3

    MISHNA D (N. 418)

    SHEQALIM 4, 9 15, 6 1-

    BERESHIT RABBA 16, 4

    D 65R (N. 342) D 65R (N. 342) MIDRASH D (N. 397)

    INDICE DELLE FONTI

    BABA BATRA 15A-16A 140A-B

    527

    TALMUD BABILONESE XXXVII S143 (N. 378)

    BERAKHOT 47B

    D (N. 131)

    SANHEDRIN 21A

    D (N. 313)

    SHABBAT 96B

    XXXIII (N. 58) TALMUD DI PALESTINA

    MEGILLA 1,11

    D (N. 397)

    FONTI EBRAICHE MEDIEVALI E MODERNE ABRAVANEL, YITSCHAQ PERUSH ‘AL HA-TORA ESODO 18, 13, 157A ESODO 18, 13 (FOL. 31, COL. 4)

    LVII (N. 112) LVII (N. 113)

    PERUSH ‘AL NEVI’IM ACHARONIM 91 P.

    XLIX (N. 94)

    OR HA-SHEM

    CRESCAS, CHASDAI BEN YEHUDA

    GERSHOM, LEVI BEN SEFER MILCHAMOT ADONAI MAIMONIDE MISHNE TORA, HILKHOT SHABBAT 24, 12- 13

    D (N. 435)

    D (N. 432)

    XXXIII (N. 58)

    INDICE DELLE FONTI

    528

    MORE NEVUKHIM

    D (N. 426)

    MODENA, LEONE HISTORIA DE RITI HEBRAICI 82

    D (N. 181)

    SCHULCHAN ARUKH OREACH CHAYYIM § 345-348

    SEFER HA-ZOHAR

    CARO, YOSEF XXXIII (N. 58)

    DE LEON, MOSÈ (attribuito a)

    D 84V (N. 474)

    SAADIA, JOSEPH BEN SEFER HA-’EMUNOT WE-HA-DE‘OT SEFER YETSIRA

    D (N. 423) D 84V (N. 473)

    FONTI GRECHE E LATINE ANTICHE E MEDIEVALI ALBATENIUS (AL-BATANI) DE MOTU STELLARUM

    D (N. 412)

    ANNAEUS FLORUS, LUCIUS EPITOME RERUM ROMANORUM II, 30 “BELLUM GERMANICUM”, 12, 29

    S 237 (N. 536)

    DE ANIMA I, 2, 404B14-B16 III, 429A13-A15 DE CAELO ET MUNDO

    ARISTOTELES S 187 (N. 456) N S. 177 434) D

    R (N. 82 461)

    (

    INDICE DELLE FONTI

    529

    ETHICA NICHOMACHEA V, 14 (1137B 29-33) VIII, 1(1155B5-6) IX, 8 METAPHYSICA IV, 2 (1003A X,1, 9-10 (1052B)

    D (N. 391) S 297 (N. 663) S 306 (N. 672)

    33)

    D

    POLITICA II, 6 (1266A33-B4) V, 8 (1308B, 6-17) 1

    ANABASIS ALEXANDRI II, 11, 9-10 – 12, 3-8 II, 14 III, 10 III, 15, 1-4 III, 26, 3-4 IV, 6-8

    NOCTES ATTICAE III, 17, 1-2 X, 12, 9-10 X, 17, 1-2

    V (N. 81 452) D (N. 447)

    D 25V (N. 121) D 25R (N. 119) ARRIANUS D (N. 164) D (N. 164) D (N. 165) D (N. 165) D (N. 165) D (N. 166) AULUS GELLIUS S (N. 507) S (N. 245) S (N. 223)

    BOETHIUS, ANITUS MANLIUS TORQUATUS SEVERINUS DE CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE III, M 2, 27-30 S 130 (N. 343) V, M 3, 1-10 S 235 (N. 532) V, M 4, 1-9 S 142 (N. 376) V, M 4, 10-29 S 143 (N. 378)

    INDICE DELLE FONTI

    530

    CARMEN VI,

    CHÂTILLON DE, WALTER (GUALTIERO) 36

    D

    CICERO, MARCUS TULLIUS DE NATURA DEORUM I, 10 DE OFFICIIS I, 33 I, 19-21 151, II, 73, 5-9 III, 3-4 1, III, 45 III, 17 82,

    16-

    PARADOXA STOICORUM AD M. BRUTUM 22

    V (N. 41 187)

    S (N. 26)

    S 293(N. 650) D 11R (N. 62) D 72R-72V (N. 393) D 70V (N. 385) S (N. 664) D 47V (N. 211) S (N. 303)

    TUSCULANAE DISPUTATIONES IV, 74-75

    S 288 (N. 643)

    CURTIUS RUFUS, QUINTO HISTORIAE ALEXANDRI MAGNI IV, 10, 7

    D 67V (N. 358)

    INFERNO IX, 55-57 PURGATORIO III, 79-84 IV, 1-6 IV, 92-93 XXV, 84 79PARADISO IV, 1-6

    DANTE ALIGHIERI S (N. 58) S 8 (N. 24) S 32 (N. 119) D (N. 22) D 83V (N. 468) S 32 (N. 119)

    INDICE DELLE FONTI

    531

    DIODORUS SICULUS BIBLIOTHECA HISTORICA I, 27, 1 II, 38-41

    D (N. 300) D (N. 114)

    DIOGENES LAERTIUS VITAE PHILOSOPHORUM I, 1, 24 I, 2, 63 I, 70 3, I, 8 VIII, 4, 38 VIII, 5, 83 VIII, 7, 84-85 IX, 11, 85-86

    S (N. 208) D (N. 395) S 242 (N. 540) S (N. 410) S (N. 243) S (N. 685) S (N. 507) S (N. 275)

    EUSEBIO DI CESAREA

    DE EVANGELICA PRAEPARATIONE VII, VIII

    FLAVIUS JOSEPHUS ANTIQUITATES IUDAICAE III, 7 XI, 317 E 337326XVIII, 259

    HISTORIAE V, 58

    TEOGONIA 617-720

    D 73V-74R (N. 399)

    D 63R (N. 330) D 63V (N. 333) D (N. 420)

    HERODOTUS D (N. 39) HESIODUS D (N. 357)

    INDICE DELLE FONTI

    532

    HIPPOCRATES

    APHORISMA I, 3

    I EPISTULA 1, 6, 1-2 1, 41-42

    S 263 (N. 587) HORATIUS, QUINTUS FLACCUS S 295 (N. 656) S 157 (N. 398)

    II EPISTULA 1, 156-157

    D (N. 401)

    DE ARTE POETICA 323-324

    D 73R (N. 396)

    SATYRARUM I, 1, 106-107 I, 31-352,

    S 289 (N. 644) D 71R (N. 388)

    BUSIRIS 226D

    SATURA II, 129126X, 22 X, 365-366 XIV, 97 96XIV, 106105XV, 4 1XV, 12 9-

    AB URBE CONDITA VI, 18 I, 4-7

    ISOCRATES D 65R-65V (N. 343) IUVENALIS, DECIMUS JUNIUS D V (N. 62 325) S 255 (N. 575) S 238 (N. 537) D 70R (N. 382) D V (N. 70 384) D V (N. 65 344) D V (N. 65 345) LIVIUS, TITUS D 68V (N. 366) D (N. 204)

    INDICE DELLE FONTI

    533

    HISTORIA ROMANA I,19

    D 76V (N. 414)

    PHARSALIA I, 181-182 I, 181 II, 345344II, 383380II, 381-383 II, 383 III, 58 56VII, 450-451 VIII, 488485IX, 573-577

    LUCANUS, MARCUS ANNEUS S 266 (N. 594) D 41V (N. 187) D 60V (N. 306) D 60V (N. 304) S 273 (N. 612) S 281 (N. 630) D 32V (N. 143) S 212 (N. 490) D 92R (N. 499) S 310 (N. 677) LUCRETIUS, TITUS CARO

    DE RERUM NATURA I, 101 I, 426-428 II, 2 1III, 935-938 IV, 216-217 IV, 230-236 IV, 513-521 IV, 834-835 IV, 1106, 1111 V, 534-539 V, 837-839 E 855-856

    ASTRONOMICA IV, 108-116

    ARS AMATORIA I, 4 3-

    D 64V (N. 339) S 82 (N. 236) S 308 (N. 676) S 127 (N. 338) S 46-47 (N. 142) S 46-47 (N. 143) S 28 (N. 108) S 211 (N. 488) S 93 (N. 259) S 94 (N. 263) S 257 (N. 581) MANILIUS, MARCUS S 108 (N. 293)

    OVIDIUS, PUBLIUS NASO S 140 (N. 369)

    INDICE DELLE FONTI

    534

    II, III,

    180179397

    D 89V (N. 491) S 306 (N. 673)

    EPISTULAE HEROIDUM XVIII-XIX XIX, 65

    S (N. 164) S 54 (N. 165)

    METAMORPHOSEON I, 86 84I, 129-131 III, 432 VII, 19-21 IX, 469- 471 IX, 479-486

    DIGESTA 50, 17, 10

    DE SPECIALIBUS LEGIBUS I, 45 I, 48 47I, 52 I, 53 I, 97 III, 13

    S 257 (N. 581) S 277 (N. 618) S 31 (N. 114) S 109 (N. 294) S 121 (N. 323) S 52 (N. 157) PAULUS, JULIUS D (N. 255) PHILO JUDAEUS D 82R (N. 455) D 82R (N. 456) D 51V (N. 239) D 48R (N. 215) D 63R-63V (N. 331) D (N. 301)

    LEGATIO AD CAIUM 277

    D 57V (N. 276)

    PLAUTUS, TITUS MACCUS ASINARIA ATTO I, SCENA 4, 89

    S 167 (N. 418)

    MENAECHMI PROLOGUS, 18-20

    S 191 (N. 459)

    INDICE DELLE FONTI

    CRATYLUS 392A E SEGG.

    535

    PLATO D (N. 451)

    EPISTOLA VII

    D 82R (N. 454)

    HIPPIA MINOR 376B

    D 43V (N. 195)

    LEGES V, 742C

    D (N. 121)

    PHAEDO 68D-E 90C

    D 36R (N. 159) S (N. 364)

    PHILEBUS 31B-31C

    D 36V (N. 161)

    REPUBBLICA 7, 528B

    S (N. 111)

    THEAETETUS 156A 156B 157A

    D 81V (N. 448) D 81V (N. 450) D 81V (N. 449)

    NATURALIS HISTORIA XIV,119 XXXVII, 3

    PLINIUS

    PLUTARCHUS MORALIA DE ALEXANDRI MAGNI FORTUNA AUT VIRTUTE II, 330 F DE E APUD DELPHOS 386, E DE GENIO SOCRATIS

    D 51V (N. 238) S (N. 179)

    D 67R (N. 353) S (N. 111)

    INDICE DELLE FONTI

    536

    579, B-D

    S (N. 111)

    QUAESTIONES CONVIVALES IV, 5, 2

    D (N. 283)

    VITAE PARALLELAE VITA ALEXANDRI XXI – XXII, 3 XXIX, 7-9 XXXI, 10-14 XXXII, 1-3 XXXII, 3-4 XLVIII, 1 XLIX, 14 L – LI LV, 3-4 VITA CATONIS UTICENSIS XXV VITA LYSANDRI VIII, 4 VITA LYCURGI V, 3 XV, 7-8 VITA NICIAE XXIII, 1-6 E XXIV, 1 VITA ROMULI IX, 4 XXII, 3

    HISTORIAE I, 65-88 I, 73-74 I, 84

    D (N. 164) D (N. 164) D (N. 165) D (N. 165) D (N. 165) D (N. 165) D (N. 165) D (N. 166) D (N. 167) D (N. 305) D 67R (N. 353) D (N. 303) D (N. 303) S (N. 494) D (N. 204) D (N. 302) POLYBIUS

    SENECA, LUCIUS ANNAEUS AD LUCILIUM EPISTULAE MORALES XIX, 113, 3

    D (N. 321) D (N. 321) D (N. 321)

    D (N. 158)

    INDICE DELLE FONTI

    537

    XXV, 95, 33

    IX EPISTOLA 114

    S 167 (N. 418) SYMMACHUS, QUINTUS AURELIUS S 167 (N. 418)

    SOLINUS, GAIUS JULIUS COLLECTANEA RERUM MEMORABILIUM 40, 3 STOBAEUS, JOANNES

    I, 25, 3

    S (N. 35)

    D (N. 28)

    SUETONIUS, GAIUS TRANQUILLUS DE VIRIS ILLUSTRIBUS. DE GRAMMATICIS ET RHETORIBUS

    XXIII

    S (N. 497)

    VITAE CAESARUM DIVUS AUGUSTUS 69, 1 II, 76 XXV, 4 NERO 28 34

    ANNALES I, 1, 5 I, 1 2, I, 1 2, I, 1 2, I, 28 IV, 38, 5 IV, 3-5 71, XIV, 2-8

    D 62V (N. 324) D 71V (N. 389) S 242 (N. 541) D (N. 323) D (N. 323)

    TACITUS, PUBLIUS CORNELIUS D (N. 8) S 268 (N. 600) S 268 (N. 602) D 32V (N. 144) D (N. 370) S 295 (N. 659) D 67R (N. 354) D (N. 323)

    538

    INDICE DELLE FONTI

    XIV, 44, 4 XV, 1, 4 XV, 44 XV, 49; 60-64; 70

    S 301 (N. 668) S 284 (N. 632) D (N. 192) D (N. 168)

    DE VITA ET MORIBUS IULII AGRICOLAE III

    S 266 (N. 595)

    HISTORIAE II, 78 V, 3 V, 4-5 4, V, 11-134, V, 7-8 5, V, 7-8 5, V, 195,18V, 27-285, V, 20-215, V, 1-3 13, V, 1-3 13,

    D 59R (N. 289) D (N. 283) D 58V (N. 282) D 70V (N. 383) D 62V (N. 326) D 59V (N. 299) D 59R (N. 288) D 64R (N. 337) D 66R (N. 347) D 66R (N. 346) D 70R (N. 380)

    TERENTIUS, PUBLIUS AFER EUNUCHUS ATTO I, SCENA I, 1-4

    S 137 (N. 360)

    TERTULLIANUS, QUINTUS SEPTIMIUS APOLOGETICUM XVI, 1-2

    D (N. 284)

    THUCYDIDES DE BELLO PELOPONNESIACO VII, 50, 4

    S (N. 494)

    TOMMASO D’AQUINO COMMENTO ALLE SENTENZE DI PIETRO LOMBARDO 2 SENTENTIARUM DIST. 42, Q. 2, A. 4

    S (N. 303)

    INDICE DELLE FONTI

    539

    SUMMA THEOLOGICA I-II, Q. 22 A1

    AENEIS III, 56-57 III, 72 IV, 624 V, 700-702 VI, 258–259 VI, 258 VI, 272 VI, 724-728 VI, 853851VIII, 564-566

    N S. 177 434)

    VERGILIUS, PUBLIUS MARO S 286 (N. 621) S. 135 N 358) D 9R (N. 48) S 134 (N. 354) S 180 (N. 438) S. 277 N 621) S. 103 N 278) S 180 (N. 438) D R (N. 92 500) S 139 (N. 366)

    GEORGICON I, 83 82II, 490 II, 491-492 IV, 219-221

    D S S

    VITELLIONE (WITELO) PERSPECTIVA, DE ELEMENTATIS CONCLUSIONIBUS

    MEMORABILIA I, 1, 3 I, 2-9 II, 1, 20

    (

    R (N. 72 392) S. 207 N 480) 214 (N. 492) 133 (N. 351)

    S (N. 214)

    XENOPHON S (N. 6) S (N. 678) D (N. 362)

    (

    ( (

    (

    INDICE DELLE FONTI

    540

    FONTI MODERNE ORLANDO FURIOSO X, 7

    NOVUM ORGANUM 29

    ARIOSTO, LUDOVICO S 172 (N. 425) BACONUS, FRANCISCUS D (N. 2)

    SERMONES 34

    D (N. 87)

    ESSAYS XXIV, 46 XV

    D (N. 126) D (N. 187)

    NAVIGATIO

    CA’ DA MOSTO, ALVISE

    V (N. 12 57)

    CAMERARIUS, PHILIPP OPERAE HORARUM SUBCISIVARUM SIVE MEDITATIONES HISTORICAE “DE SECURITATE AGRICOLARUM”

    51-55

    DE SUBTILITATE XIV

    DE MIRACULIS 3

    D (N. 63)

    CARDANO, GIROLAMO S (N. 214) CASPARUS, ARCULARIUS

    COPERNICUS, NICOLA DE REVOLUTIONIBUS ORBIUM COELESTIUM DE REVOLUTIONIBUS ORBIUM COELESTIUM

    D (N. 379)

    S (N. 28)

    D

    INDICE DELLE FONTI

    541

    CRINITUS, PETRUS DE HONESTA DISCIPLINA 6, 3

    D (N. 373)

    DELLA PORTA, GIANBATTISTA MAGIAE NATURALIS SIVE DE MIRACULIS

    S (N. 214)

    RERUM NATURALIUM

    EOBANO HESSO, HELIO POETARUM OMNIUM SECULORUM LONGE PRINCIPIS HOMERI ILIAS LIBER I, 8V

    S 254 (N. 572)

    ERASMUS ROTERODAMUS

    ADAGIA I, 1, 69-70 I, 4 2, II, 1,1

    S 167 (N. 418) S 287 (N. 643) S (N. 541)

    GALILEI, GALILEO DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI II GIORNATA

    S (N. 26)

    SIDEREUS NUNCIUS 16R-17R

    D (N. 31)

    DE MAGNETE

    GILBERT OF COLCHESTER, WILLIAM

    S (N. 208)

    KIRCHER, ATHANASIUS ARS MAGNA LUCIS ET UMBRAE X, II PARTE, 827-828

    S (N. 245)

    MAGNES

    S (N. 208)

    INDICE DELLE FONTI

    542

    MACHIAVELLI, NICCOLÒ DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO I, PROEMIO, 3 II,1

    D (N. 26) D (N. 97)

    PRINCIPE XVII, 226-227

    GEOGRAFIA 134 E SGG.

    D (N. 320) MAGINI, GIOVANNI ANTONIO D (N. 494)

    MANUZIO ALDO E PAOLO M. TULLI CICERONIS DE OFFICIIS LIBROS TRES. COMMENTARIUS 109

    ESSAIS I, 14 I, 27 II, 12

    D (N. 393)

    MONTAIGNE, MICHEL DE

    OSÓRIO, JERÓNIMO DE REBUS EMANUELIS GESTIS

    S (N. 162) S (N. 425) S (N. 107)

    D

    R (N. 88 482)

    PICO DELLA MIRANDOLA, GIOVANNI EXAMEN VANITATIS DOCTRINAE GENTIUM D 79V (N. 436) CONCLUSIONES NUMERO XLVII. SECUNDUM DOCTRINAM SAPIENTUM HEBREORUM CABALISTARUM, QUORUM MEMORIA SIT SEMPER IN BONUM

    D 80V (N. 442)

    INDICE DELLE FONTI

    543

    MIRAMI, RAPHAEL HEBREO TAUOLE DELLA PRIMA PARTE DELLA SPECULARIA

    S (N. 214)

    RAMUSIO, GIOVAN BATTISTA DELLE NAVIGATIONI ET VIAGGI 206 III, 91V 317 481-576

    D (N. 58) D (N. 60) D (N. 197) D (N. 104)

    SACCARDINI, COSTANTINO LIBRO NOMATO LA VERITÀ DI DIVERSE COSE SCALIGER, JOSEPH-JUSTUS DE EMENDATIONE TEMPORUM SCHOTTI, GASPARIS P. MAGIA UNIVERSALIS NATURAE ET ARTIS 154-170 VI, 336-340

    DE ORBIS CATOPTRICI 23

    S (N. 90)

    D

    V (N. 76 415)

    S (N. 214) S (N. 214)

    SEVERT, JACQUES

    TASSO, TORQUATO GERUSALEMME LIBERATA XV, 20 XV, 20, 3-5 XYLANDER, GUILELMUS PLUTARCHI CHAERONENSIS MORALIA

    S (N. 207)

    D 88V (N. 484) S 270 (N. 607)

    D (N. 395)