Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione
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Table of contents :
S OMMARIO......Page 9
di Luca Basile......Page 10
1. Un filosofo e le trasformazioni......Page 11
2. ‘Dentro’ i mutamenti del Politico......Page 12
3. A partire da un ‘autoritratto’......Page 14
4. Questioni di periodizzazione......Page 18
1. La polemica con Zeller......Page 26
2. Cenni su B. Spaventa e il problema della mediazione......Page 30
3. Una iniziale rivendicazione del primato della mediazione......Page 32
Oggettivismo ed antiumanesimo nella prospettiva del moderno......Page 35
1. Il rapporto di B. Spaventa con l’herbartismo......Page 45
2. Il contatto con la linea Humboldt-Herbart e il problema della integrazione con l’hegelismo......Page 51
3. Il significato del “Socrate”......Page 53
4. Ancora sul problema dell’integrazione della linea Humboldt-Herbart con l’hegelismo: alle origini dell’analisi dialettico-genetica......Page 55
5. La posizione di Humboldt sul problema della ‘filosofia della storia’ e l’orientamento di ‘integrazione dialettica’ labrioliano......Page 58
6. I problemi posti dalla Sprachwissenschaft. Un intermezzo......Page 62
7. La recensione a Vera del ’72 entro la fase di interlocuzione con l’herbartismo......Page 66
8. Da alcuni momenti di relazione con l’herbartismo e con la “Volkerpsychologie” alla Prolusione del......Page 68
1. La Prolusione: ‘problemi aperti’ e linee di continuità......Page 84
2. Il ruolo di transizione di una riflessione politico-ideologica......Page 86
3. La Prolusione di fronte alla “Scuola storica” e nel contesto europeo......Page 88
4. Il problema della rifondazione dell’idea di ‘legalità’......Page 95
5. La questione della struttura del tempo storico......Page 99
6. La questione della divaricazione tra dialettico e genetico......Page 102
7. Un primo avanzamento sul terreno della ricostruzione logico-storica dell’oggetto......Page 105
1. La ‘scelta’ politica del socialismo e del marxismo......Page 112
2. In memoria del Manifesto dei comunisti: l’istanza antifinalistica della nozione di ‘previsione morfologica’......Page 116
3. ‘Genesi astratta’ e ‘critica dell’economia politica’......Page 119
4. Oscillazione e limiti di In memoria......Page 124
1. I contenuti del “Secondo saggio”......Page 129
2. Il ‘terreno artificale’ e la mediazione storica......Page 132
3. ‘Terreno artificiale’ e ‘ambiente artificiale’: un confronto con Sorel......Page 135
4. Verso la dialettica come ‘autocritica delle cose stesse’......Page 142
5. Un excursus sul nesso genesi non empirica – ‘sistema’ e indagine della riproduzione sociale in Marx......Page 147
6. Riproduzione sociale e teoria politica delle classi......Page 152
7. Labriola nello scenario della ‘crisi del marxismo’......Page 159
8. Il ruolo della filosofia della prassi......Page 162
9. Questione intellettuale, ripresa di espansività del marxismo e veduta dialettica......Page 165
10. Filosofia della prassi, materialismo storico e costellazione degli specialismi......Page 168
11. Tendenza critico-formale al monismo e ricostruzione logico-storica dell’oggetto......Page 169
12. Due diverse risposte alla crisi della ‘società automatica’ e della stabilizzazione liberale – Ancora un confronto con Sorel......Page 172
13. Il tema della unità filosofia-scienza in ordine all’‘autocritica’ del movimento reale......Page 185
14. Il nesso teoria-movimento e la critica labrioliana al giacobinismo......Page 190
1. Labriola e lo studio de Il Capitale......Page 206
2. Morfologia e Darstellung genetica......Page 210
3. Di fronte alla ‘crisi del marxismo’......Page 212
4. Oltre gli equivoci del marginalismo: l’incidenza della contraddizione nella “forma storica relativamente necessaria”......Page 222
5. La critica di Böhm-Bawerk a Marx......Page 226
6. Osservazione sullo statuto di ‘premessa critica’ del valore come valorizzazione......Page 233
7. Osservazioni sullo statuto teorico del valore come valorizzazione – Con particolare riguardo all’interlocuzione con Croce......Page 236
8. Lo statuto teorico del valore come schema generale di formalizzazione e il ‘problema della trasformazione’ – Ancora con particolare attenzione all’interlocuzione con Croce......Page 242
9. Unità della concezione materialistica della storia e ‘critica dell’economia politica’, ed unità di forme e concetti......Page 266
10. Ragioni dell’analisi storico-genetica e dialettico-strutturale – Ancora sul dibattito con Croce......Page 273
11. Ancora riguardo dell’interlocuzione con Croce ed alla crisi del modello epistemologico ricardiano......Page 287
12. Emersione dell’‘irrazionale’ e del ‘negativo’, organizzazione formale delle cerchie e costituzione del processo reale......Page 293
13. Istanza antifinalistica, complessità interna del tempo storico e dialettica come ‘autocritica’ del reale......Page 305
1. Un confronto con Bernstein......Page 327
2. La posizione di Labriola, Bernstein, Croce e l’autonomia dell’‘etico-politico’......Page 335
3. La critica gentiliana a Labriola e la nozione di prassi......Page 345
4. La critica gentiliana a Labriola e la ‘previsione come constatazione’......Page 351
5. La critica di Gentile alla concezione labrioliana del tempo storico......Page 358
6. Ancora sulla tendenza ‘critico-formale’ al monismo – Recupero di espansività del marxismo e specialismo......Page 360
1. I moventi e il contesto del “Quarto saggio”......Page 371
2. Un esempio di analisi genetico-dialettica in actu: l’abbozzo di ipotesi storiografica di Da un secolo all’altro......Page 374
X . C ONSIDERAZIONI CONCLUSIVE......Page 385
Cronologia della vita e delle opere di Antonio Labriola......Page 392
Nota editoriale......Page 402
Introduzione ai testi......Page 408
U NA RISPOSTA ALLA PROLUSIONE DI Z ELLER......Page 419
1. La Teorica della Conoscenza considerata come fondamento della Logica......Page 422
2. Determinazione speciale del problema della Teorica della Conoscenza......Page 428
D ELLA RELAZIONE DELLA C HIESA ALLO S TATO......Page 440
1. Fissare il punto di partenza della quistione......Page 442
2. Dello Stato......Page 443
3. Della Chiesa......Page 444
4. Della relazione......Page 445
O RIGINE E NATURA DELLE PASSIONI SECONDO L ’E TICA DI S PINOZA......Page 446
TUTTI GLI SCRITTI FILOSOFICI E DI TEORIA DELL ’ EDUCAZIONE......Page 406
GLI INEDITI GIOVANILI......Page 407
I . Motivo etico della filosofia dello Spinoza......Page 449
II . Dio come Natura......Page 451
III . Gli attributi infiniti di Dio......Page 454
IV . I modi ossia la Natura Naturata......Page 456
I . La Cupiditas come essenza dell’uomo......Page 459
II . Le forme primitive degli affetti ( Tristitia et Laetitia )......Page 461
III . Le passioni come forze elementari......Page 462
IV . Amore ed Odio......Page 463
V . La simpatia e l’antipatia......Page 464
VI . Speranza, timore, ecc.......Page 465
VII . Conseguenze dell’amore e dell’odio......Page 466
VII . Imitazione degli affetti......Page 468
IX . Conseguenze della imitazione......Page 470
X . Amore ed odio che derivano dall’imitazione......Page 471
XI . Amore vicendevole e conseguenze che ne derivano......Page 472
XII . Azione dell’amore sull’odio e viceversa......Page 474
XIII . Cause che limitano l’odio nelle sue conseguenze......Page 475
XIV . Estensione dell’amore e dell’odio......Page 476
XV . Aumento e limitazione degli affetti in generale......Page 477
XVI . Cessazione dell’odio e dell’amore......Page 478
XVII . Ammirazione, disprezzo ecc.......Page 479
XVIII . Amor proprio, umiltà e loro conseguenze......Page 480
XIX . Della differenza degli affetti......Page 482
Gli Affetti Attivi......Page 484
Della libertà umana......Page 485
Conclusione......Page 488
CON L’HERBARTISMO......Page 490
Introduzione ai testi......Page 491
ED A RISTOTELE......Page 501
A VVERTENZA......Page 502
1. Socrate e gli Ateniesi......Page 504
2. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate......Page 509
3. Il carattere di Socrate......Page 515
Osservazione . Le fonti della dottrina di Socrate: Senofonte, Platone, Aristotele......Page 517
II . Orizzonte della coscienza socratica......Page 522
1. Posizione di Socrate nella storia della religione greca......Page 523
2. Elementi della coscienza di Socrate......Page 529
III . Del valore filosofico di Socrate......Page 533
1. Formalismo logico......Page 535
2. Determinazione del valore del formalismo logico......Page 537
b) Socrate e i Sofisti......Page 539
c) Pretesa soggettività del principio socratico......Page 542
d) Preteso misticismo di Socrate......Page 544
IV . Del metodo di Socrate......Page 547
1. Presupposti storici e psicologici......Page 549
2. Motivo e sviluppo del metodo socratico......Page 551
a) Imprecisione formale del metodo socratico......Page 556
b) Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio d’identità......Page 558
V . Dell’etica socratica in generale, e del concetto del bene......Page 561
Osservazioni......Page 567
VI . Conoscere e volere......Page 569
1. Equazione fra volere e sapere (γνῶθι σαυτόν)......Page 571
2. Fondamento della pedagogia socratica......Page 574
VII . Le forme concrete della vita etica......Page 577
1. L’individuo e le sue relazioni domestiche......Page 582
2. L’individuo e lo Stato......Page 586
VIII . Delle virtù......Page 590
1. Il concetto della virtù nell’orizzonte socratico......Page 593
2. Identificazione della virtù e del sapere......Page 594
3. Ignoranza degli elementi naturali......Page 596
IX . Di nuovo del bene, della felicità, e del sapere......Page 599
1. Del bene......Page 600
2. Della felicità......Page 603
3. Del sapere......Page 604
socratico......Page 607
1. Il concetto della divinità......Page 609
2. Il concetto dell’anima......Page 613
XI . Riepilogo e conclusione......Page 616
D ELLA LIBERTÀ MORALE......Page 620
M ORALE E RELIGIONE......Page 728
D EL CONCETTO DELLA LIBERTÀ......Page 770
R ECENSIONI (1870-77)......Page 802
1. G.A. Lindner, Das Problem des Glücks......Page 803
2. A. Vera, Introduzione alla filosofia della storia......Page 805
3. G.A. Lindner, Ideen zur Psychologie der Gesellschaft......Page 817
4. H. Kern, Grundriss der Pädagogik......Page 834
vom Standpunkt des Realismus und nach genetischer Methode......Page 836
des Weltprocesses......Page 841
SCRITTI DI TEORIA PEDAGOGICA......Page 847
Introduzione ai testi......Page 848
D ELL ’ INSEGNAMENTO DELLA STORIA......Page 852
L EZIONI DI PEDAGOGIA......Page 932
GLI SCRITTI DELLA TRANSIZIONE......Page 968
Introduzione ai testi......Page 969
I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA......Page 980
D EL SOCIALISMO......Page 1006
RECENSIONI (1881-96)......Page 1020
7. T. Traina, La morale di Herbert Spencer......Page 1021
8. G.A. Lindner, Lehrbuch der formalen Logik......Page 1025
9. F. von Baerenbach, Die Socialwissenschaften......Page 1026
10. R. von Jhering, Der Zweck im Recht......Page 1029
11. O. Zimmermann, Die Wonne des Leids......Page 1032
12. A. Rauber, Urgeschichte des Menschen......Page 1034
13. F. von Hellwald, Naturgeschichte des Menschen......Page 1037
14. M. Kauffmann, Immanente Philosophie......Page 1040
15. F. Brunetière, La Renaissance de l’Idéalisme......Page 1041
SAGGI INTORNO ALLA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA......Page 1042
Introduzione ai testi......Page 1043
I. I N MEMORIA DEL M ANIFESTO DEI C OMUNISTI......Page 1063
Appendice . Manifesto del Partito Comunista......Page 1101
I . Borghesi e Proletarii......Page 1135
II . Proletarii e Comunisti......Page 1146
III . La Letteratura del Comunismo e del Socialismo......Page 1154
di opposizione......Page 1163
II. D EL MATERIALISMO STORICO......Page 1165
Appendice . A proposito della crisi del marxismo......Page 1252
III. D ISCORRENDO DI S OCIALISMO E F ILOSOFIA......Page 1268
Appendici......Page 1368
Postscriptum all’edizione francese......Page 1369
Prefazione all’edizione francese......Page 1378
Prefazione di G. Sorel......Page 1380
La negazione della negazione (dall’ Antidühring di Engels)......Page 1387
SULLA LIBERTÀ DEL SAPERE......Page 1410
Introduzione ai testi......Page 1411
A L COMITATO PER LA COMMEMORAZIONE DI G. B RUNO IN P ISA......Page 1422
DELL’ARSIONE IN C AMPO DE ’ F IORI......Page 1428
L’U NIVERSITÀ E LA LIBERTÀ DELLA SCIENZA......Page 1435
Appendice I......Page 1463
Appendice II......Page 1472
POLEMICHE E ULTIMI INEDITI......Page 1475
Introduzione ai testi......Page 1476
A PROPOSITO DEL LIBRO DI B ERNSTEIN......Page 1488
D A UN SECOLO ALL’ALTRO......Page 1493
S TORIA, FILOSOFIA DELLA STORIA, SOCIOLOGIA E MATERIALISMO STORICO......Page 1525
N OTE AI TESTI......Page 1547
P OSTFAZIONE, di Biagio de Giovanni......Page 1671
B IBLIOGRAFIA......Page 1676
I . Manoscritti relativi alle Opere Inedite pubblicate nel presente volume......Page 1679
A. Scritti pubblicati in vita dall’autore......Page 1684
B. Resoconti, interviste e notizie riguardanti l’attività di Labriola......Page 1731
dopo la morte dell’Autore......Page 1744
D. Carteggi......Page 1775
E. Traduzioni......Page 1783
a. Recensioni (fino alla pubblicazione postuma degli Scritti varii …, 1906)......Page 1803
b. Saggi, articoli, testimonianze......Page 1807
A PPARATI......Page 1897
I . Parole chiave......Page 1898

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Ladri di Biblioteche

A centodieci anni dalla morte, il volume intende contribuire nuovamente a diffondere l’opera di Antonio Labriola, fra i maggiori filosofi italiani e primo originale interprete della filosofia di Marx in Italia. Attento alla rielaborazione hegeliana di Spaventa, Labriola approfondisce in maniera originale alcuni classici della filosofia e i testi della scuola herbartiana. La Prolusione (1887) prelude alla lettura di Marx culminata con la scrittura dei Saggi (1895-1902). Affiancandosi al complesso lavoro filologico intrapreso dall’Edizione Nazionale delle Opere, la raccolta offre un quadro esaustivo della produzione teorica del filosofo, ripubblicando in unico volume testi da tempo non più disponibili, l’insieme dei Saggi sulla concezione materialistica della storia nella forma voluta dall’autore per l’ultima edizione apparsa in vita (1902), oltre a inediti giovanili, al frammento del quarto saggio e ad altri inediti che si ripubblicano nel testo stabilito da Croce e Dal Pane. L’ampio saggio di Luca Basile costituisce un’introduzione compiuta al pensiero dell’autore. Le note e gli apparati a cura di Lorenzo Steardo, accompagnano anche il lettore meno esperto nella lettura dei testi. La bibliografia rivista e aggiornata da Lorenzo Steardo ripropone, integrandolo, il ricco repertorio di opere labrioliane e studi critici curato da Nicola Siciliani de Cumis alla fine degli anni Settanta.

Luca Basile (La Spezia, 1980) si è laureato all’Università di Pisa e addottorato in Filosofia e teorie sociali contemporanee presso l’Università di Bari, dove ha svolto ricerche presso il Dipartimento per lo studio delle società mediterranee. Attualmente collabora alla cattedra di Storia delle dottrine politiche. Si occupa di storia della filosofia e filosofia politica. Lorenzo Steardo (La Spezia, 1982) ha studiato all’Università e alla Scuola Normale di Pisa. Borsista della Fondazione San Carlo di Modena, attualmente insegna nella scuola secondaria. Si occupa di filosofia della storia con particolare riguardo al positivismo italiano. Biagio De Giovanni (Napoli, 1931) ha insegnato Filosofia del diritto, Filosofia morale e Storia delle dottrine politiche negli atenei di Bari, Salerno e Napoli, è stato Rettore dell’Università Orientale e Presidente della Commissione Affari Istituzionali del Parlamento Europeo. Ha ricevuto la Legion d’onore dalla Repubblica Francese. Antonio Labriola (Cassino, 1843 – Roma, 1904) si forma alla scuola di Bertrando Spaventa. Docente, pubblicista ed esperto di educazione, è tra i maggiori filosofi italiani di ogni tempo. Tra i primi a recepire in Italia l’opera di Marx, fu il principale corrispondente italiano di Engels, interlocutore di Sorel, Bernstein, Kautsky e del giovane Croce.



BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Direttore GIOVANNI REALE



Volume pubblicato con il contributo della Provincia della Spezia

ANTONIO LABRIOLA TUTTI GLI SCRITTI FILOSOFICI E DI TEORIA DELL’EDUCAZIONE UNA RISPOSTA ALLA PROLUSIONE DI ZELLER - DELLA RELAZIONE DELLA CHIESA ALLO STATO - ORIGINE E NATURA DELLE PASSIONI SECONDO L’ETICA DI SPINOZA - LA DOTTRINA DI SOCRATE SECONDO SENOFONTE, PLATONE ED ARISTOTELE - DELLA LIBERTÀ MORALE - MORALE E RELIGIONE - DEL CONCETTO DELLA LIBERTÀ DELL’INSEGNAMENTO DELLA STORIA - LEZIONI DI PEDAGOGIA - I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA DEL SOCIALISMO - SAGGI INTORNO ALLA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA - AL COMITATO PER LA COMMEMORAZIONE DI G. BRUNO IN PISA - GIORDANO BRUNO - L’UNIVERSITÀ E LA LIBERTÀ DELLA SCIENZA - A PROPOSITO DEL LIBRO DI BERNSTEIN - DA UN SECOLO ALL’ALTRO - STORIA, FILOSOFIA DELLA STORIA, SOCIOLOGIA E MATERIALISMO STORICO

A cura di Luca Basile e Lorenzo Steardo Saggio introduttivo di Luca Basile Cura dei testi, introduzioni, note e apparati di Lorenzo Steardo Postfazione di Biagio De Giovanni

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-58-76512-8 © 2014 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Prima edizione digitale 2014 da edizione Il Pensiero Occidentale marzo 2014

In copertina: Frieda Menshausen, Ritratto di Antonio Labriola, 1903 circa. © Francesco Tassara. Cover design: Polystudio.

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

SOMMARIO

SAGGIO INTRODUTTIVO, di Luca Basile Cronologia della vita e delle opere di Antonio Labriola Nota editoriale I. Gli inediti giovanili II. Il Socrate e gli scritti del confronto con l’herbartismo III. Scritti di teoria pedagogica IV. Gli scritti della transizione V. Saggi intorno alla concezione materialistica della storia VI. Sulla libertà del sapere VII. Polemiche e ultimi inediti NOTE AI TESTI POSTFAZIONE, di Biagio de Giovanni BIBLIOGRAFIA APPARATI

SAGGIO INTRODUTTIVO di Luca Basile

I LABRIOLA: IL PENSIERO E L’OPERA

1. Un filosofo e le trasformazioni Uno dei maggiori storici della filosofia italiani, Eugenio Garin, ha osservato, con il consueto acume, che Antonio Labriola «fu sempre, e volle essere, un filosofo – anzi un professore di filosofia, e non a caso di filosofia morale, di filosofia della storia e di pedagogia. Questa» – proseguiva – «la sua milizia, qui la sua battaglia socialista»1. Si tratta di una osservazione capace di indicare come il tortuoso percorso labrioliano, – del quale cercheremo di segnalare i tratti salienti –, di approdo al marxismo ed all’impegno sul fronte del movimento operaio debba essere letto come il risultato di un processo di elaborazione e di maturazione concettuale ‘ad ampio raggio’, avente a suo centro un intenso lavoro di approfondimento teorico tale da giustificare l’originale considerazione e adesione verso la prospettiva da Marx dischiusa in qualità di risultato di una precisa ‘presa di posizione’ di fronte alle trasformazioni del Politico che venivano emergendo, muovendo da una ben chiara angolatura. Dippiù. Stavano nel travagliato e, insieme, coerente percorso di enucleazione concettuale di Labriola le ragioni tanto del suo approdo al marxismo, quanto della persuasione rispetto alla necessità di definirne il carattere di autonomia, con ciò misurandosi con l’obiettivo di lumeggiarne la struttura critica all’altezza di tali trasformazioni contemporanee, e, di qui, poi, confrontandosi con lo scenario di ‘fine secolo’ della stessa crisi del marxismo, sulla base della convinzione per cui essa, ancora per dirla con Garin, «non poteva significare altro che una battuta d’arresto del movimento operaio». Donde, appunto, l’istanza di ridefinirne le basamenta, ‘facendo i conti’ con il quadro di spinte ideologiche, – dai condizionamenti del positivismo all’eredità della ricezione italiana dell’hegelismo –, e di ridislocazione di rapporti di forza in atto (pensiamo, anzitutto, al ruolo e alla cifra culturale delle classi dirigenti liberali).

2. ‘Dentro’ i mutamenti del Politico Vi è da dire che ciò non comportò mai, per lui, l’inclinazione a rinchiudersi nei confini della filosofia ‘di professione’ o di una considerazione del ‘socialismo’, come lo stesso autore di Cassino dirà, “al di fuori della cosa”. Egli, anzi, cercò di collocarsi sempre all’opposto di simili atteggiamenti, battendo ‘da subito’ su un’idea di impegno teorico che ne implicava la sottrazione ad ogni sorta di chiusura, e che, altresì, trovava nella correlazione e nella compenetrazione al campo differenziato e molteplice della realtà storica la dimensione effettiva di incidenza e di verifica. Parliamo di una consapevolezza la quale risulta ampiamente corroborabile, del resto, se si guarda anche al concreto percorso intellettuale labrioliano ed al circuito di ambiti disciplinari, – dalla pedagogia, alla riflessione sulla storia ed anche, in certa maniera, sulle categorie storiografiche, al lavoro politico ‘militante’ ed alla riflessione che vi era alla base –, in cui si profuse il suo interesse. A profonda motivazione di un simile approccio filosofico stava, crediamo, – e cercheremo di argomentarlo –, la lucida consapevolezza della sempre più intensa inscrizione del piano teorico nella dinamica tutta politica di diffusione dei saperi e delle soggettività in rapporto al ridisporsi dei ruoli cognitivo-intellettuali ed al complicarsi della sfera statuale nel suo nesso con la società civile. Consapevolezza contrapposta nettamente ai riduzionismi a cui tale inedita condizionalità storica veniva sottoposta, a cominciare dall’influenza dell’ideologia positivistica2. Sorgono così, alla mente le parole di un testo fondamentale come il discorso del 1896 tenuto all’Università di Roma, dedicato giusto a L’Università e la libera scienza, ove il Cassinate afferma, con parole problematiche ed esigenti di essere ben intese, a proposito del medesimo significato e della medesima funzione attuale, storicamente caratterizzata, della nozione di ‘filosofia’: A cotesti sopravvissuti del passato deve essere parso cosa singolare, che, p. es., le mie lezioni di etica, di pedagogica e di filosofia della storia s’aggirassero sempre in particolari ricerche entro l’ambito di determinate questioni, e non spaziassero più in quella filosofia, che avrebbe da abbracciare, come in bella prospettiva, e per via di definizioni e di categorie, la totalità del reale e tutte le forme del sapere3.

La declinazione labrioliana della prima, definitiva ipotesi – in ambito italiano e non solo – di ‘filosofia della prassi’ (malgrado i germi di tale tentativo, certo su un differente piano, fossero già rinvenibili nell’opera di Spaventa4) che apparisse

in grado di sviluppare criticamente la teorica marxiana, affermandone l’autonomia, ed esaltandone, vieppiù, la funzione, – come desumibile dalle suddette considerazioni d’insieme –, risulta compresa nelle forme della pluralizzazione della ragione scientifica, ove il Politico penetra, permeandone la complessa e prismatica struttura epistemica. Ad un simile approccio Labriola arriva sulla scorta della ricezione di tipo antifinalistico del dialettismo hegeliano5, – cui concorre la fusione della stessa lezione spaventiana6 con elementi della linea humboldltiano-herbartiana –, capace di favorire il raccordo tra una percezione avveduta e sfuggente ad ogni pacificatoria semplificazione – a cominciare dal positivismo – del moderno, da un lato, e, appunto, la comprensione della densità politica della molteplicità reale del mondo storico, da un altro7.

3. A partire da un ‘autoritratto’ Del resto, stiamo riferendoci a un tipo di indirizzo che appare confermato nel celeberrimo ‘autoritratto’ giovanile che il nostro ebbe a tracciare, dopo il ’90, con la missiva a Engels del 14 marzo 1894, poi rifusa in Discorrendo di socialismo e di filosofia, ove egli scrive: Nel leggere la Heilige Familie, mi sono ricordato degli hegeliani di Napoli, in mezzo ai quali io vissi da giovanissimo, e mi pare di aver inteso e assaporato quel libro, più che non possa riuscire a molti, cui mancano al presente i dati proprii e intuitivi di quel curioso umorismo. Mi parea di averla vista io stesso da vicino quella curiosa coterie di Charlottemburg, da Marx e da voi così singolarmente persiflée. Mi si ripresentava allo spirito, più che tutti gli altri, un professore di estetica, originalissimo e genialissimo uomo, che deduceva i romanzi di Balzac, costruiva la cupola di S. Pietro e disponeva in serie genetica gl’istrumenti musicali; e pian piano, di negazione in negazione, e con la negazione della negazione, giunse da ultimo alla metafisica dell’inconoscibile, che ignaro come ei fu sempre dello Spencer, e anzi a guisa di uno Spencer non glorificato, chiamò l’innominabile. Anch’io da giovane vissi in quella specie di palestra, e non me ne rincresce; vissi per anni con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza: di quello difesi, con giovanile ingenuità, la dialettica contro lo Zeller che iniziava il neokantismo; di questo sapevo a memoria gli scritti, e ne esposi con intendimento di innamorato, la teoria degli affetti e delle passioni. Ora tutte coteste cose mi tornano nella memoria come lontanissima preistoria. Avrò subita anch’io la mia negazione della negazione? Voi mi spronate a scrivere di comunismo: ma io temo sempre di far cosa di nessun valore quanto alle forze mie, e di poco effetto quanto all’Italia8.

In queste considerazioni, formulate nell’anno precedente la pubblicazione di In memoria del Manifesto dei comunisti, Labriola, preoccupato dell’isolamento in cui poteva venir rinchiuso il tentativo di una riflessione compiutamente critica sulle categorie del materialismo storico, esplica – in coerenza con il proprio armamentario analitico – l’esigenza di stabilire, insieme, il nesso genetico ed il significato ‘epocale’ del confronto con Marx – donde il parallelo diretto fra la sua esperienza intellettuale ed i riferimenti compiuti ne La Sacra famiglia9, laddove la polemica con le sclerotizzazioni dell’idealismo veniva congiunta ad un perspicuo recupero del dialettismo. Come confermato dallo specifico della missiva, referenti di codesta ricostruzione da parte del Cassinate della propria Haltung – nell’alveo della «rinascenza dello Hegelismo» ‘privata’ nel decennio 1840-60, e ‘pubblica’, anzitutto in campo universitario, nel quindicennio 1860-

75 – sono il «bravo Tari», l’opera di divulgazione ‘ortodossa’ del Vera (la quale fu per il nostro autore oggetto di vigorosa interlocuzione), e, soprattutto, il magistero di Spaventa che, «ottimo fra tutti», «scrisse di dialettica in modo squisito, scorse di nuovo Bruno e Campanella, delineò la parte utile ed utilizzabile di Vico, e trovò da sé (nel 1864) la connessione fra Hegel e Darwin». È in un simile ambiente intellettuale che egli cala l’iniziativa di scrivere «a 19 anni un’invettiva contro Zeller per il ritorno a Kant (prolusione di Heildelberg)», la famigliarità con «tutta la letteratura hegeliana e posthegeliana», lo studio di «Feuerbach nel 1866-68»10 e, ancora, della teologia della Scuola di Tubinga11. Di qui, constatando la crisi della ‘cultura della storicità’ in ambito italiano nella fase in cui scriveva, dominata dal «demi-monde positivistico», faceva evolvere la ricostruzione del proprio profilo e del proprio percorso considerando: Forse – anzi senza forse – io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo esser passato attraverso la psicologia di Herbart, e la Völkerpsychologie di Steinthal e altro12.

Al marxismo Labriola era arrivato, cioè, attraverso un cammino in cui la forte matrice hegeliana si è misurata in una impresa di contaminazione e di ‘traduzione di linguaggi’ – per dirla con Gramsci – volta a corroborare il dialettismo in una cultura ‘realistica’ in grado di fare perno su modelli e forniture epistemologiche particolari, definendo una radicale opzione di distinzione rispetto all’influsso che si faceva avanti degli schemi deterministici e meramente empirici e, ancora, dei riduzionismi naturalistico-evoluzionistici dell’‘eonuco Spencer’13 e di altri, nonché rispetto ai condizionamenti normativotrascendentali che provenivano anche dalla stessa veicolazione del kantismo operata da una certa parte della scuola spaventiana. Il medesimo periodo che Labriola indica come vissuto «con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza» appare ricongiungibile ad una istanza di tal genere, importando non una mera oscillazione di attenzioni, – secondo la semplificazione autobiografica che abbiamo ascoltato –, ma, – e cercheremo di accennarvi –, la sovrapposizione e la saldatura di fili concettuali diversi. Il brano appena riportato non costituisce l’unico episodio di ripercorrimento genetico-autobiografico da parte di Labriola, anche stando al solo recinto testuale del Discorrendo. Pensiamo alla missiva a Turati del 5 giugno ’97, poi rifusa nella VII lettera a Sorel in riferimento alla polemica col Di Bella14, ove il Cassinate argomenta: «Volgendomi al socialismo non ho chiesto a Marx l’abicì del sapere. Al Marxismo non ho chiesto, se non ciò ch’esso effettivamente

contiene: ossia quella determinata critica dell’economia che esso è, quei lineamenti del materialismo storico che reca in sé […] Non chiesi al Marxismo nemmeno la conoscenza di quella filosofia, che esso suppone, e, in un certo senso, continua, superandola per inversione dialettica; ed è l’Hegelismo che rifioriva appunto in Italia nella mia gioventù, e nel quale io m’ero come allevato. Manco a farlo a posta, la mia prima composizione filosofica, in data del maggio 1862, è una: Difesa della dialettica di Hegel contro il ritorno a Kant iniziato da Ed. Zeller! Per intendere il socialismo scientifico non mi occorreva, dunque, di avviarmi per la prima volta alla concezione dialettica, […] o genetica, che dir si voglia, essendo io vissuto sempre in cotesto giro di idee, da che pensatamente penso»15. Si tratta, in sostanza, della individuazione del nerbo percorrente «le tappe della marcia […] verso la concezione storica materialistica» (L. Dal Pane16), che fa nodo con l’insistito richiamo al Socrate del ’7117, ai saggi Della libertà morale e Morale e religione del ’73 ed allo studio pedagogico Dell’insegnamento della storia del ’76. Anche in altri luoghi Labriola ricorre alla formulazione di certi ragionamenti retrospettivi per definire e revisionare la propria autobiografia intellettuale18, ma quello che più conta è osservare che le fasi interne ad essa si rendono connettibili, – certo sfuggendo a facili retrodatazioni ‘di comodo’ –, nella loro complessità, all’approdo alla rielaborazione dell’apparato categoriale marxiano incentrata su una cognizione del dialettismo che, – in ciò sta l’‘aspetto-chiave’ sotteso all’impiego compiuto dal Cassinate dell’ordinario modulo del ‘rovesciamento’ del volto hegeliano di questo –, specificandosi nella coincidenza con l’articolarsi effettivo della mediazione storica, a fronte della spiccata contrapposizione ad ogni variante del formalismo normativo (onde l’esigenza di riqualificare, – con maggiore o minore esplicitezza –, il motivo dell’emergere delle strutture formali del mondo storico), trova come esito il guadagno di un campo teorico autonomo ove analisi genetica e ricognizione funzionale si legano inscindibilmente sulla scorta di un profondamente livello di criticità e di costruzione reale-interna che la medesima, avveduta percezione del dialettismo esprime. Ciò dava ragione, anzitutto, del permanente rinvio del nostro alla propria originaria matrice ed alla propria esperienza napoletana di avvicinamento ad Hegel. Ne deriva che la maturità teorica labrioliana, avendo a proprio fondamento la considerazione della dialettica in qualità di fattore, si potrebbe dire, di ‘modernizzazione’, di progressività – si badi – critico-innovativa anziché di vincolo del marxismo all’arretratezza ideologica19, appare porre al proprio centro il nesso fra politica e saperi speciali, giustificando per entro di esso ed in rapporto ad esso l’indagine e la previsione morfologica e non deterministica

proiettata sullo scenario dei mutamenti della struttura sociale e volta a scorgerne la coincidenza con il manifestarsi della crisi della stabilizzazione liberale; mirando a vagliarne la composizione e le conseguenze. Ma per provare a comprendere come Labriola pervenga ad un siffatto piano di analisi occorrerà tentare, giustappunto, di seguirne diacronicamente il percorso, così come suggerito dalle sue stesse indicazioni. Vale la pena, dunque, soffermarsi sul criterio di periodizzazione che presiederà alla nostra analisi. Criterio che, tuttavia, non seguiremo pedissequamente, combinandolo ad un andamento analitico di tipo ‘fenomenologico’, per così dire, nel vaglio delle diverse tematiche, – con il chiaro intendimento di provarci a ricostruire soprattutto l’ambito di interlocuzione in cui la figura del filosofo di Cassino esige di essere calata.

4. Questioni di periodizzazione È lo stesso Labriola, nei suoi diversi ‘autoritratti’20, ad enfatizzare l’importanza della fase iniziale di impegno filosofico e di avvicinamento all’hegelismo in virtù, anzitutto, della ricezione – mai ‘scolastica’ e ‘ortodossa’ – della lezione spaventiana. Essa si distende a far data dal 1862 e fu notevolmente condizionata – come chiaramente dimostrato, tra gli altri, da Garin21 – dall’aggancio critico alla ‘ripresa’ di attenzione verso il pensiero hegeliano in ambito napoletano dopo il 1861, configurando una sorta di ‘seconda ondata’ rispetto alla precedente, del 1848. A tale fase, in Labriola, succederà quella del 1866-67, ove i motivi antiformalistici precedentemente enucleati – a cominciare dalla Risposta allo Zeller del ’62, appunto – verranno a congiungersi, originalmente, con la sempre più marcata inclinazione verso quei canoni di privilegiamento della molteplicità e della differenziatezza del reale i quali influiranno pienamente nel periodo contrassegnato dal legame esplicito con l’herbartismo (pur venendo sempre mantenuto il rifiuto di ogni tendenza alla ‘sconnessione’, per dirla con Spaventa). Indicativo all’interno di tale fase è lo studio del pensiero spinoziano (riassunto nella memoria Origine e natura delle passioni secondo l’etica di Spinoza), che crediamo non configuri, – come invece sostenuto, per esempio, nel campo della bibliografia labrioliana22, da Aldo Zanardo, all’interno dei suoi davvero imprescindibili contributi23 –, un elemento di mera discontinuità nei riguardi dell’aggancio a Hegel, bensì una sua problematica rimodulazione in intreccio con il significato dello spinozismo medesimo. Rimodulazione sorretta dall’intento della critica verso i due corni del soggettivismo moderno, verso i due volti del cogito: quello kantiano e quello cartesiano24. Sta in codesto movente critico, del resto, unito ai suddetti motivi, la radice dell’attenzione nei riguardi di Herbart sin dal 1869 in poi, ed acclarantesi nel 1871, anno di pubblicazione del Socrate. Attenzione che possiamo dire si intensifichi nel 1871-73. Più precisamente: il 1871 è l’anno della esercitazione sul tema Se l’idea sia a fondamento della storia; il 1872 è l’anno della recensione alla Introduzione alla filosofia della storia di Vera sulla herbertiana Zeitschrift für exacte Philosophie, in cui, tra l’altro, vengono preservati determinati elementi dell’ottica spaventiana e giuocati in polemica con l’‘ortodossia’ hegeliana; il 1873 è l’anno della pubblicazione di Della libertà morale e di Morale e religione, in cui vediamo culminare le fondamentali direttrici che intessono lo scenario di codesti anni. Si tratta di un triennio ove trova evidenza la cospicua influenza di fonti diverse, declinanti

alcuni precisi elementi di certuni modelli epistemologici in alternativa alle prevalenti semplificazioni di marca positivistica: dalla Völkerpsychologie, presa nell’arco che va dalla ricezione di alcuni aspetti della lezione di Humboldt allo specifico delle posizioni di Steinthal e di Lazarus, alla logica di Wundt, – a partire dalla medesima, comune matrice herbartiana –; esibendo un grado di forte conoscenza della discussione filosofica tedesca degli anni ’70 ed ’80, protraentesi, in specie, sino al 1878 circa. Occorre sottolineare con decisione che nella biografia labrioliana un peculiare ruolo etico-politico verrà svolto dal periodo della seconda metà del decennio ’70, e, in particolare, dal 1876, anno che precede la nomina del Cassinate a professore ordinario all’Università di Roma ed in cui si appalesa il distacco dalla destra storica, chiamata, proprio in codesta data, al ‘cambio di guardia’ con la ‘sinistra’. Infatti, è in tale periodo che egli comincia a reagire in senso costruttivo – tra molti travagli – allo spessore della crisi degli assetti che caratterizzano lo scenario post-cavouriano; all’incrinarsi radicale delle speranze risorgimentali che avevano sorretto figure come quelle dei Silvio Spaventa (ferma restando la difficoltà dei rapporti fra l’hegelismo italiano e la stessa ‘destra storica’25), dei Bonghi, dei D’Afflitto. Crisi della quale il nostro già constatò la fisionomia guardando alla sconfitta che la parte politica in questione subì, in tutto il Mezzogiorno, nel ’74 – come testimoniato dagli articoli della collaborazione con il “Monitore” di Bologna –, ed a cui fece seguito una chiara iniziativa autocritica che lo mise in grado di non rinserrarsi nella difesa dei confini del moderatismo tradizionale, bensì di prendere atto della incompiutezza della ‘rivoluzione nazionale’ e della necessità di conseguire le nuove basi per una diversa strategia egemonica. La cosa è corroborabile, del resto, dall’avvicinamento al movimento operaio che giusto nel corso del ’76 verrà ad affacciarsi26, importando l’intensificazione di quell’impegno di rielaborazione concettuale che troverà una prima, decisiva ‘tappa’ nella Prolusione del 1887. Per approdare a questa, però, una funzione di pretta ‘incubazione’ verrà svolta dal settennato che ha inizio nel 1880, laddove Labriola si ebbe a misurare sul piano della analisi schiettamente politica, trovando nella concentrazione pure sul pretto fronte della teorica dello Stato27 il veicolo verso una più nitida ridisposizione ideologico-culturale. Nella Prolusione i tratti salienti di tale indirizzo verranno ad essere formulati tenendo ferma l’accentuazione antifinalistica, anche se ciò non ci pare configurare, – al contrario di quanto voluto da certune chiavi euristiche orientate in direzione normativistico-eticistica –, malgrado la effettività della divaricazione fra momento dialettico e genetico, un ulteriore elemento di

complessiva discontinuità riguardo all’ottica hegeliana, quanto, piuttosto, la declinazione di una prospettiva che può sottenderne lo sviluppo di una interpretazione più avanzata, – come acclarabile anche in virtù da costante riferimento retrospettivo, entro i materiali del Carteggio, al giovanile rapporto con Spaventa, alla meditazione dei contenuti del pensiero del grande filosofo tedesco, nonché ai modi del suo filtraggio. Di qui, attraverso un certo travaglio nella elaborazione categoriale, insorge il pretto avvicinamento al marxismo, il quale assume una precisa fisionomia con la pubblicazione dei Saggi fra il 1895 ed il 1898. Badare bene: occorre, però, essere attenti a registrare una ricca linea di articolazione nella loro costituzione interna, giacché, nel ’95, con In memoria del Manifesto dei comunisti, entro la visuale labrioliana i contorni della fondamentale enucleazione, poniamo, della nozione di previsione morfologica convivono, in forza di motivazioni preminentemente politiche, con determinati accenti sbilanciati verso una eccessiva fiducia nella necessità storica in quanto tale. Accenti che, – mostrando un certo fattore di oscillazione e tensione nella elaborazione marxista del nostro –, verranno ad essere completamente superati nei lavori successivi. E si capisce: il ’95, per Labriola, connota un’altra data periodizzante. Tale data, infatti, coincide con quella dei Fasci siciliani, episodio in cui, dopo una iniziale perplessità, egli crederà di individuare «il primo grande fatto del socialismo italiano»28. Già dal ’96, tuttavia egli comincerà a maturare la convinzione circa il determinarsi di un blocco di espansività del socialismo, anzitutto nell’ambiente italiano, collocando, così, in un vincolo irriducibile la constatazione di tale «periodo di crisi» – come egli si espresse nella lettera del 31 agosto a Romeo Soldi – con il richiamo alla esigenza di una piena riqualificazione delle basamenta filosofiche29 di esso, che egli avrà a tematizzare, – ed è cosa ben desumibile dalla considerazione di Garin evocata in esordio –, all’insegna dell’obiettivo del conseguimento dello statuto di autonomia del marxismo incardinato sul nesso fra ricomposizione teorica e funzione dei saperi speciali. Per meglio inquadrare l’interdipendenza fra il pretto fronte della elaborazione e la generale, lucida consapevolezza, da parte del Cassinate, della contrazione politico-idelogica che il movimento operaio stava attraversando fra la fine dell’800 e i primi del ’900, – implicante la denuncia degli imbrigliamenti e dei limiti cifranti le linee interne della II Internazionale, e rinviante all’istanza di un vasto processo di maturazione il cui fulcro constava primariamente nella traduzione nell’alveo e nel linguaggio nazionale della dottrina socialistica30 –, basti far menzione di quanto lo stesso Labriola scrisse, proprio in un periodo di significativa ‘svolta’ democratica per il paese, nel 1900,

a Pasquale Villari, il 13 novembre: «Non mi son mai sognato che il socialismo italiano fosse la leva per rovesciare il mondo capitalistico. A ciò non crede nessuno nel mondo civile e, soprattutto, non ci credono i socialisti di altri paesi. Io ho inteso sempre il socialismo italiano come un mezzo […] per sviluppare il senso politico delle moltitudini; […] per educare quella parte di operai che è educabile alla organizzazione di classe; […] per costringere i rappresentanti del governo alle riforme economiche utili per tutti. Il resto della propaganda socialista, nel senso specifico della parola, non può avere effetto pratico quanto all’Italia che per le generazioni di là da venire»31. È, insomma, alla luce della coscienza della forte difficoltà da parte del movimento operaio nell’indagare e rispondere alla crisi organica degli equilibri del sistema liberale che trova giustificazione la valenza complessiva di gran parte dei Saggi e dei contenuti degli ultimi corsi universitari, – di cui Dal Pane ha fornito una prima ricostruzione –, ove l’intento della riconsiderazione genetica del moderno (pensiamo a quelli del 1897-98 e del ’98-’99 dedicati alla rivoluzione francese) si integra con l’approfondimento categoriale (pensiamo alle perspicue indicazioni presenti in quello del 1903-1904, in cui troviamo rideclinato il legame fra la nozione labrioliana di ‘sociologia’, filosofia della storia, storiografia e materialismo storico), nonché con il giudizio storicopolitico di fase (del quale un abbozzo è da rinvenirsi pure in Da un secolo all’altro). Occorre, adesso, cominciare a cimentarsi in re, forti delle presenti indicazioni, con lo sviluppo del profilo teorico labrioliano. 1

E. GARIN, Labriola nella storia della cultura e del movimento operaio, (discorso tenuto a Cassino il 28 febbraio 1979, per il 75° anniversario della morte di Labriola), in «Critica Marxista», 2, 1979, p. 79, poi raccolto in ID., In due secoli. Socialismo e filosofia dopo l’Unità, De Donato, Bari 1983, p. 172. 2

Sul rapporto di Labriola col positivismo cfr., fra gli altri, ID., Il ‘positivo’, il positivismo e i positivisti, (relazione introduttiva al convegno dell’Istituto Gramsci tenuto a Firenze dal 15 al 17 ottobre 1981), raccolto in Ibidem, pp. 148-159. 3

Cfr. infra, p. 1593. Cfr. in proposito N. SICILIANI DE CUMIS, Labriola protagonista, raccolto in ID., Studi su Labriola, Argalìa Editore, Urbino 1876, pp. 27-28; e, più generalmente, sul rapporto di Labriola con l’Università, ID., Filosofia e Università. Da Labriola a Vailati 1882-1902, UTET, Torino 2005 e ID. (a cura di), Antonio Labriola e “La Sapienza”. Tra testi, contesti, pretesti, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2007. 4 Questo aspetto è particolarmente svolto da G. VACCA in Politica e Filosofia in B. Spaventa, Laterza, Bari 1966, pp. 218-298, e nei testi di introduzione critica presenti nell’antologia spaventiana da lui curata, cfr. ID., Unificazione nazionale ed egemonia culturale, Laterza, Bari 1969; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro Mediazione assoluta e universale concreto. Considerazioni in margine ad un nuovo libro su B. Spaventa, in «Filosofia oggi», aprile-settembre, 2008, pp. 303-320. 5 Questo aspetto non è colto da G. BARLETTA nel suo contributo, certo mosso anche da intelligenti

considerazioni, Idealismo, positivismo, marxismo. Note sulla questione della scienza in A. Labriola, in «Annali della facoltà di lingue e letterature straniere», Università di Bari, III, 1, 1982, raccolto in ID., Le forme e il tempo. Ricerche in filosofia, Dedalo, Bari 1987, pp. 56-80. 6 Sulla complessità della lettura spaventiana di Hegel cfr., fra gli altri G. VACCA, Politica e Filosofia in B. Spaventa cit. e V. VITIELLO, B. Spaventa e il problema del ‘cominciamento’, Guida, Napoli 1990; ID., Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Guerini e associati, Milano 2003, pp. 211-248; T. SERRA, B. Spaventa. Etica e politica, Bulzoni, Roma 1974; C. TUOZZOLO, Dialettica e norma razionale, Giuffrè, Milano 1999; E. GARIN, Filosofia e politica in B. Spaventa, Bibliopolis, Napoli 1983; B. DE GIOVANNI, Introduzione a B. SPAVENTA, Saggi di critica filosofia, politica e religiosa (ristampa anastatica), La Scuola di Pitagora, Napoli 2008, pp. 7-115; e ci permettiamo anche di rinviare ancora al nostro Mediazione assoluta e universale concreto cit. Per un’interessante interpretazione di matrice esplicitamente cattolica cfr. P. DE LUCIA, L’istanza metaempirica del filosofare. Metafisica e religione nel pensiero degli hegeliani d’Italia, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 2005, pp. 35-59 e 91-118. 7 Insiste su una lettura orientata in tale senso, fra gli altri, B. DE GIOVANNI nell’importante saggio Labriola e il metodo ‘critico’, in «Critica marxista», 4, 1979, pp. 89-108. 8 Infra, pp. 1430-1431 (corsivo nostro). 9

La Heilige Familie era pervenuta a Labriola nella copia appartenuta a F. A. Sorge, come testimoniato dalla lettera che Engels gli scrisse il 30 dicembre 1893, ove leggiamo: «Ancora una cosa. Il prof. Labriola di Roma, con il quale sono da alcuni anni in corrispondenza e che ho incontrato a Zurigo, tiene a quella Università un corso sulla genesi della teoria marxiana. Egli è rigorosamente marxista. Si è procurato a tal scopo tutta la letteratura necessaria, ma non è riuscito a vedere la “Sacra Famiglia”, nonostante abbia inserito, sul «Buchhändlerblatt» di Lipsia e altrove, l’annuncio che è disposto a pagare per questa “ogni prezzo”. […] Ora egli mi chiede insistentemente di procurargli, per amor del cielo, un esemplare in 3-4 settimane. Io stesso ne ho però solo uno, e, se questo va perso, non sono assolutamente in grado di preparare la nuova edizione che sarà fatta in seguito nell’ambito delle progettate “Opere complete”. Non posso quindi, a nessun costo, lasciarmi scappar di mano quest’unico esemplare. Ora» – domandava Engels – «qualche anno fa, io ti mandai il mio esemplare di riserva. Saresti così gentile da prestarmelo a questo scopo per 5-6 settimane?» (K. MARX, F. ENGELS, Opere, L, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 208, corsivo nostro). 10

A. LABRIOLA, Lettera a F. Engels, 14 marzo 1894, raccolta in ID., Carteggio, III, a cura di S. MICCOLIS, Bibliopolis, Napoli 2003, pp. 376-377. 11 Nella missiva Labriola aggiunge, con ironia, citando dal Faust goethiano: «Ich habe leider, auch Theologie studiert». Ma il nesso fra la biografia intellettuale del Cassinate e questo tipo di studi – come desumibile dalle stesse pagine dei Saggi – consta di uno spessore ben più profondo di quanto la presente battuta lasci presumere, come ha dimostrato con particolare efficacia A. ZANARDO nel decisivo studio – anche se, a nostro parere, non del tutto condivisibile in alcune sue movenze –, Antonio Labriola e la scuola teologico-evangelica di Tubinga, in «Giornale critico della filosofia italiana», gennaio-aprile, 2009, pp. 3746. 12 A. LABRIOLA, Lettera F. Engels, 14 marzo 1894 cit., p. 377. 13

Tale definizione risale alla lettera di Labriola ad Engels del 13 giugno 1894, sui cui contenuti torneremo, giacché in essa troviamo alcune delle principali indicazioni rispetto alla questione del ruolo del metodo genetico nel suo nesso con quello dialettico, ed ove, giusto in proposito, egli osserva, appunto, come con «la parola dialettica si rappresenta solo l’aspetto formale»; poi, proseguendo come segue: «dicendo concezione genetica così il Darwinismo come l’interpretazione materialistica della storia, ed ogni altra spiegazione di cose che divengono e si formano, pigliano il loro posto. Voglio dire, che l’espressione di

metodo genetico lascia impregiudicata la natura empirica di ciascuna particolare formazione: il che non intendono i generalizzatori del determinismo, e gli ammiratori del Grande Einuco Spencer». Di qui l’attacco al rovesciarsi in metafisicismo del keine Metaphysik mehr! di matrice positivistica, offrente occasione di precisare il carattere della stessa stigmatizzazione della figura di Spencer: «Quanto all’altro termine dell’antitesi» – dice ancora Labriola – «ossia il metodo metafisico, capisco esser difficile trovare un’espressione più adatta, ma quello non è certo sufficiente. Prima di tutto non bisogna confondersi col signor Comte, favoleggiatore di un’epoca metafisica, che non è mai esistita. Non litico sulla parola, occasionalmente introdotta […] Ma non bisogna dar ragione a quel cretino del sign. Spencer, che facendo della cattiva metafisica senza saperlo (i primi principi!), lui hegeliano, anzi pseudohegeliano senza genialità, lui inventore di metafore che vorrebbero parere concetti, gracida contro la metafisica» (ID., Lettera a F. Engels, 13 giugno 1894, raccolto in Ibidem, pp. 411-412). Il significato della stigmatizzazione rivolta a Spencer trova, però, piena esplicazione, – in diretta successione ad un altro momento di ripercorrimento del proprio cammino intellettuale da parte di Labriola –, nelle pagine del Discorrendo ove, rifondendo la missiva a Turati del 5 giugno ’97 nella lettera VII a Sorel, in riferimento alla importante polemica con «il signor Antonio De Bella, Sociologo calabrese» (cfr. in proposito G. MASTROIANNI, Cultura e società in Calabria fra Otto e Novecento, Frama-Sud, Chiaravalle, 1975, pp. 53-68 e E. GARIN, Il positivo, il positivismo, i positivisti cit., pp. 153-154), e profondendosi in essa, il Cassinate si giova del citare un brano di L’Università e la libera scienza che così recita: «Mi soffermo a notare il quasi inverosimile equivoco verbale, per il quale molti ingenuamente, e specie in Italia, confondono senz’altro quella specificata filosofia, che è il Positivismo, col positivo, ossia col positivamente acquisito nella interminabile nuova esperienza naturale e sociale. A costoro capita, p. es., di non saper distinguere nello Spencer, ciò che è merito incontrastabile in lui, d’aver cioè concorso a formare la fisiologia generale, da ciò che è impotenza in lui a spiegare un solo fatto storico concreto per mezzo della sua sociologia del tutto schematica. A costoro accade di non distinguere, nello stesso Spencer, ciò che è dello scienziato da ciò che è del filosofo; il quale, giuocando di scherma con le categorie dell’omogeneo, dell’eterogeneo, dell’indistinto, e del differenziato, del conosciuto e dell’inconoscibile, è anche lui un trapassato: è, cioè, a volte un kantiano inconsapevole e a volte un Hegel in caricatura» (infra, pp. 1459-1460). Quest’ultimo giudizio si trova, poi, confermato in nota, laddove leggiamo: «Spencer è al tempo stesso un genio e un cretino; perché essendo il principe dell’evoluzionismo, non ha mai capito il socialismo!». 14 Ivi. 15

Infra, p. 1457. L. DAL PANE, Antonio Labriola. La vita e il pensiero, Edizioni Roma, Roma 1935. 17 In particolare Labriola pone l’accento sul nesso fra ‘socratismo’, dialettica e ‘filosofia della prassi’ 16

riferendosi anzitutto ai contenuti dei suoi precedenti studi. Pensiamo, primariamente, a quanto troviamo osservato in una nota alla lettera VII all’interno di Discorrendo, laddove egli dichiara di aspettarsi «una diade Socrate-Marx; perché Socrate per il primo scovrì: essere il conoscere un fare, e che l’uomo conosce bene solo ciò che sa fare. Un mio libro su la: Dottrina di Socrate reca la data del 1871, Napoli» (infra, p. 1462). Il tema è poi enucleato nella lettera X. 18 Particolarmente importanti in proposito sono anche le indicazioni presenti nella precedente missiva del 3 aprile 1890, laddove Labriola, presentandosi ad Engels, osserva: «Ho visto nella mia giovinezza il rifiorire napoletano dell’hegelismo. A lungo fui indeciso fra linguistica e filosofia. Quando venni a Roma come professore ero un socialista inconsapevole, e solo per motivi astratti un avversario dichiarato dell’individualismo. Studiai poi diritto pubblico, diritto amministrativo e economia politica, e tra il 1879 e il 1880 mi ero già impregnato nella concezione socialista; benché più per la visione generale della storia che per impulso interno di un’attiva convinzione personale. Un avvicinamento lento e continuo ai problemi generali della vita […] il contatto con gli operai hanno poi gradualmente trasformato il socialista scientifico

in abstracto in un effettivo socialdemocratico. Nella mia situazione, e nelle condizioni italiane, questo tipo di attività non è senza rischio né ricca di prospettive» (corsivo nostro). 19 Cfr., su questo aspetto, fra gli altri, R. RACINARO, Labriola e il ‘procedimento dialettico’, raccolto in ID., Il futuro della memoria. Filosofia e mondo storico fra Hegel e Scheler, Guida, Napoli 1985, pp. 130131. 20 Meriterebbe, forse, di essere approfondito il rapporto fra i criteri dell’autobiografia labrioliana e quelli, assai differenti, di un interlocutore ed allievo per lui fondamentale quale fu B. Croce (in proposito all’‘autobiografia’ nel pensiero del filosofo di Pescasseroli, cfr. M. CILIBERTO, Filosofia e autobiografia in Croce, raccolto in ID., Figure in chiaroscuro. Filosofia e storiografia nel novecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2001 e G. CACCIATORE, Croce e l’autobiografia, raccolto in ID., Filosofia pratica e filosofia civile in B. Croce, Rubettino, Soveria Manelli 2005, pp. 93-109). 21 E. GARIN, Introduzione (Antonio Labriola e i saggi sul materialismo storico) ad A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, Laterza, Bari 1969, raccolta in ID., Da un secolo all’altro, cit., pp. 104-114. 22 Per un sintetico vaglio della bibliografia labrioliana cfr. A. D’ORSI, Sulla fortuna di Antonio Labriola in Italia, in «Critica marxista», 1, 2005, pp. 48-59 e ID., F. CHIABOTTO, ‘Professorismo’ in Patria? Note sulla fortuna di Antonio Labriola nella cultura italiana, raccolto in Antonio Labriola. Celebrazioni del centenario della morte cit., III, pp. 809-866. 23

A. ZANARDO, Il primo Labriola e Spinoza, in «Rivista storica del socialismo italiano», 1959, raccolto in ID., Filosofia e socialismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 38; ma ci pare che si tratti di un giudizio ribadito anche nei più recenti contributi Labriola contro Zeller: 1863, in «Critica marxista», 2/3, 1998, pp. 65-78 e Filosofia della storia e soggetto umano nel pensiero di Antonio Labriola, raccolto in Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia (a cura di A. BURGIO), Quodlibet, Bologna 2005, pp. 109-122. In merito al tema di ZANARDO è anche, comunque, da vedere, in termini storiografici generali, il saggio A. Labriola 1863-1867. Appunti sulla documentazione più recente, in «Paranrklesis», 2, 2004, pp. 107-122. 24 Le presenti indicazioni fanno perno sulle fondamentali argomentazioni in proposito di B. DE GIOVANNI in Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di Antonio Labriola, in «Il Centauro», 9, 1983, pp. 29-30. 25

Cfr. in proposito, fra gli altri, F. CIARLEGLIO, La piramide capovolta – Crisi dello Stato e filosofia tra risorgimento e fascismo, Vivarium, Napoli 2002, pp. 113-163. 26 Questo aspetto, crediamo, è stato ben sottolineato da N. SICILIANI DE CUMIS nella Nota introduttiva – Labriola e il “Monitore di Bologna” presente nella silloge da lui curata degli Scritti liberali, Del Donato, Bari 1981, pp. 216-217. 27 Cfr. E. GARIN, Antonio Labriola e i saggi sul materialismo storico cit., pp. 119-125. 28 29

A. LABRIOLA, Lettera a R. Soldi, 31 agosto 1896, raccolta in Carteggio, IV, p. 189. Tale esigenza è esplicitamente espressa da Labriola nella missiva in questione, aggiungendo: «Le

stesse teorie marxistiche (parlo delle vere) sono ormai inadeguate ai nuovi fenomeni economico-politici dell’ultimo ventennio» (Ivi). Cfr. S. MICCOLIS, Antonio Labriola cit., p. 66. Essa verrà, poi, costruttivamente ripresa e argomentata da Gramsci con la esplicazione del ‘programma di ricerca’ della filosofia della prassi compiuta nei Quaderni (cfr., fra gli altri, in proposito, G. VACCA, Intellettuali e marxismo, Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 84-101 e ID., Gramsci e Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. IX-XXVIII e 5-116).

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Cfr. in proposito E. GARIN, A. Labriola e i saggi sul materialismo storico cit., pp. 128-129. A. LABRIOLA, Lettera a P. Villari, 13 novembre 1900, raccolto in Carteggio, V, p. 178 (corsivo nostro). Non è, forse, senza importanza rammentare come P. TOGLIATTI, nel 1957, entro il Rapporto all’VIII Congresso del PCI, e, poi, nell’articolo Dopo settant’anni, in «Rinascita» del 13 ottobre 1962, 31

rammenterà tale brano nei termini delle considerazioni che seguono: «Ecco quelle generazioni sono venute, si sono temprate con esperienze, lotte, sacrifici immensi. A vent’anni di distanza da questa lettera – nella quale sono con precisione indicati i principali compiti di quel periodo – Antonio Gramsci […] concepisce il solo piano politico che dopo la prima guerra mondiale avrebbe potuto sollevare l’Italia dalla catastrofe fascista, facendo della classe operaia la nuova classe dirigente. Vaneggiano coloro che, cancellando le condizioni e i fatti storici, artificiosamente trasportano a quel momento le conclusioni valide oggi dimenticando che, come non fu possibile, allora, giungere al potere per via rivoluzionaria, così non esisteva nemmeno chi fosse in grado di dirigere una lotta diversa. Il riformismo dimostrò la sua impotenza e fece fallimento, davanti a quella prova, tanto quanto il massimalismo inconcludente e parolaio […] Antonio Gramsci […] poté prevedere che alla classe operaia sarebbe toccato salvare l’Italia dalla catastrofe e noi abbiamo potuto lavorare perché quella profezia si compisse. Così la classe operaia […] ha […] compiuto quella educazione di cui parlava il Labriola. È riuscita a non essere più sola, chiusa in una pura negazione del principio del mondo capitalistico. Ha un suo programma di ricostruzione della società nazionale nell’interesse di tutti» (Opere, VI – 1956-1964, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 218-219).

II TRA HEGEL E SPINOZA: IL RAPPORTO CON SPAVENTA

1. La polemica con Zeller La Risposta a Zeller rappresenta il primo scritto filosofico di Labriola1. Esso dedica la polemica verso la prolusione heidelberghese, del ’62, Über Bedeutung und Aufgabe der Erkenntnistheorie, espressione del particolare progetto di rifondazione della teoria della conoscenza in chiave neocriticistica propugnato dal celebre storico della filosofia antica. Abbiamo già registrato il valore retrospettivo che il Cassinate vi attribuì, ulteriormente confermabile se si guarda alla missiva a Plechanov del ’99 dove, menzionando la conversazione in merito con Turati, incorporata, poi, in quella con Sorel, egli si rammaricava di non poter mandargli «cette dissertation de sa première jeunesse contre Zeller»; oppure se si guarda all’insistenza di due anni prima, con Kautsky, il 10 aprile ’97, sul carattere del proprio giovanile hegelismo: «die früheste – eine Verteidigung von Hegel’s Dialektik – trägt das Datum vom Mai 1862. Ich war ungefähr 19. Jahre alt». Al centro della posizione di Zeller vi era la contestazione a Hegel della giustapposizione di ‘essere formale’ ed ‘essere reale’, enfatizzata quale non inficiante la logica formale classico-aristotelica, rivendicandone l’attributo di ‘separatezza’ epistemica2. Di fronte ad una siffatta argomentazione subitamente sovviene alla mente l’impostazione della questione nella Grande Logica hegeliana, ove la considerazione ‘in prima battuta’ della logica nel suo autoprodursi in quanto effetto conoscitivo3 si approfondisce conducendo a conferire ad essa «una verità reale» coincidente con la generale struttura della Wirklichkeit4. Questa è da intendersi come campo della costituzione logicostorica dell’oggetto incomprimibile, – si badi –, proprio in forza della coincidenza di tale struttura con il ruolo vertebrante della mediazione, sul terreno di un oggettivismo piatto e monocromo, perché capace, – una volta che si richiami il nesso alla Fenomenologia –, di illuminare, in ultima istanza, proprio la formazione dei soggetti storici. Ora, fornendoci una prova di straordinaria maturità, il saggio di Labriola è tutto pervaso dalla assimilazione di siffatto approccio hegeliano. Se si pensa ai termini in cui il suo autore lo rievocò a Croce nel ’96, ovvero, appunto, in qualità di «critica anticipata al Neo-kantismo» (il che rende conto della scelta che quest’ultimo fece, nell’edizione da lui curata

degli Scritti vari, di titolarlo Contro il ‘Ritorno a Kant’ propugnato da Edoardo Zeller), essi, ad un primo vaglio, non appaiono dominanti nel testo, venendo riconosciuto, piuttosto, nel punto di vista di Zeller una sorta di ‘ridimensionamento’ di sapore psicologistico della portata complessiva del pensiero di Kant e della ‘apertura’ che tale pensiero aveva comportato, con lo scopo di riannodare, secondo la lezione spaventiana5 (che, però, esige di esser ben distinta dalle forzatura comportate da alcune successive enucleazioni), l’elemento di continuità di prospettiva fra Kant ed Hegel. Scrive Labriola: Zeller rimpicciolisce il significato storico del Criticismo, perché dire che la conoscenza derivi da due fonti, non è superare veramente la parzialità delle due direzioni, che avevano questo di comune, d’essere una soluzione immediata; ma quello che supera veramente l’immediatezza è l’esigenza di un nuovo concetto dello Spirito, l’esigenza della mediazione6.

La decostruzione kantiana delle due speculari ed opposte soluzioni di insistenza sull’immediato costituite dal razionalismo e dall’empirismo va letta, dunque, contra Zeller, poiché la critica alla linea fenomenistico-sensista o di pura astrazione epistemica (pur rischiando, nel caso di Kant, la ricaduta sul polo risultato dalla commistione di questi due estremi nel soggettivismo trascendentale – approdante ad assumere in guisa di pretta ‘datità’ la postulazione epistemica dell’a priori formale7 –) reca, tuttavia, impulso, grazie all’introduzione del concetto di ‘sintesi originaria’, a sceverare la nozione di ‘spirito’ («In Kant bisogna distinguere due originari. Il 1° è l’originario come opposto al dato, al puramente dato, e ch’è pur anche duplice (le due forme di tempo e spazio nell’intuizione, le categorie nell’intelletto); e qui sta la vera critica dell’empirismo. Il 2° originario, il vero a priori kantiano, è la sintesi dell’originario e del dato; o meglio la sintesi della duplice natura dell’originario. Questa è la vera scoverta, la vera novità in Kant; quello che Kant enuncia come: problema della possibilità del giudizio sintetico a priori […] Questo nuovo concetto dello Spirito contiene non solo la critica della Metafisica wolfiana, e dell’empirismo lockiano, ma il germe, della nuova filosofia […] Kant non ha risoluto il problema: spiegare la conoscenza come unità di particolare e di universale, spiegare lo Spirito come vera unità d’essere e pensare; ma ha aperto la via per la vera spiegazione. Dopo di Kant, non potea più considerarsi la conoscenza come producentesi da uno dei suoi elementi, ma bisognava spiegare la sintesi originaria, che si espone come contrapposizione

con sé stessa. Kant s’è travagliato lungamente alla soluzione di questo problema, stimolato sempre dal bisogno di raggiungere la conoscenza dell’obietto razionale; ma non l’ha risoluto, perché i dati storici del problema erano parziali, ed in conseguenza di ciò, anche parziale la posizione del problema. Sicché il kantismo è falso, quando si accetta il risultato dommatico del criticismo come vera soluzione del problema»8). Ne viene che è attraverso la perspicua esibizione dei conseguimenti della posizione kantiana – addensantisi attorno alla centralità della ‘sintesi originaria’ – che si trova ad emergere l’esigenza della mediazione e quella di asserirne il primato, con ciò richiamando direttamente l’intervento della visione hegeliana. È di qui che Labriola si mette in condizione di lumeggiare i profondi limiti del ‘ritorno a Kant’ da Zeller ed altri proposto. Arriviamo, così, alla polemica col criticismo. Proprio siffatto tipo di impostazione ‘criticistica’, infatti, compromette, secondo Labriola, una lettura storicamente e concettualmente florida dello scenario dischiuso dal filosofo di Konisberg, la quale, quasi inevitabilmente, condurrebbe sul fronte di un ‘maturo’ dialettismo. «Veramente» – dice ancora Labriola – «i filosofi che succedettero a Kant non mossero dal solo presupposto della duplice origine della conoscenza, ma dal concetto, imperfetto in Kant, della sintesi originaria. Questa sintesi si presenta nella Teoria della Conoscenza dell’Hegel, con germinazione originaria della conoscenza in soggetto e oggetto; e nella progressiva esperienza dei due lati, tanto più apparisce l’oggetto, e sparisce il soggetto, quanto più si determinano, per finir, quello come assoluta idealità, e questo come conoscere per concetti, ossia pensiero reale. Ma la sintesi originaria è quello che vi ha di veramente nuovo in Kant, e Zeller mettendola da parte, e riducendo tutto il merito di Kant ad aver riconosciuta come duplice l’origine della conoscenza, ricade nel più empirico psicologismo quando vuol determinare il metodo della sua Teorica della Conoscenza. Zeller è preoccupato dell’indecisione che domina attualmente la coscienza filosofica, ma io non posso credere ch’egli sia seriamente convinto che il tentativo di Hegel abbia fallito. Io domando: che intende Zeller per “ritorno a Kant”? Forse rivedere storicamente nel principio kantiano tutto lo sviluppo posteriore della filosofia, e decidersi poi per una di quelle molte direzioni, che tanto ostinatamente pretendono essere state derivazioni di Kant? Questo lo accorderei. Ma tornare a Kant, spogliandolo di quanto ha di veramente nuovo, non è tornare a Kant, ma accettarne un lato, e forse uno dei meno rilevanti. Lo Zeller avrebbe dovuto pronunziarsi altrimenti, dichiarando voler fare un nuovo tentativo per risolvere il problema della conoscenza, e poscia accettare alcune determinazioni del kantismo»9. Zeller si limita a sottolineare in chiave realiter psicologistica la «doppia

origine della conoscenza» in qualità di principale conseguimento dell’ottica kantiana, – rischiando, tra l’altro, di assecondare l’immagine del sintetismo trascendentale in qualità di esito elementare di quella oscillazione fra i poli dell’intellettualismo e del fenomenismo empirico che aveva definito uno dei centri della critica di Hegel. Labriola mira a leggere la produttività della lezione da essa desumibile nella direzione della nuova problematizzazione del rapporto soggetto-oggetto inaugurata effettivamente dall’hegelismo e svolta all’insegna dell’affermarsi del primato della mediazione. Giacché, sin da questa iniziale prestazione teorica, e poi negli aspetti culminanti della elaborazione successiva, massimamente compresi i Saggi (basti pensare alla nozione di ‘terreno artificiale’), il Cassinate farà perno su di esso per indagare l’intessersi e lo scandirsi in rapporti obiettivi del mondo storico. Per indagare la compenetrazione tra morfologia, modi della prassi e ‘costruzione’ del tempo storico – la quale sempre più si affermerà come il vettore attraverso la cui esibizione diverrà possibile reimpostare il nodo di ciò che qui, a livello di mero abbozzo concettuale, troviamo segnalato come «pensiero reale». La ‘scoperta’ hegeliana, – grazie al rapporto, insieme, ‘compitivo’ e critico nei riguardi di Kant –, della mediazione in quanto cifra intrinseca del movimento del finito, – donde il fattore della intrinsicità di essa ad ogni occasione di emersione dell’‘immediato’, insistito esplicativamente nella Risposta –, costituisce ‘da subito’ un, – anzi saremo tentati di dire, ‘il’ –, punto fermo dell’articolato discorso labrioliano.

2. Cenni su B. Spaventa e il problema della mediazione Del resto, parliamo di un motivo che era già stato colto e mostrato nella sua strategicità in ordine alla lezione hegeliana anzitutto da Spaventa, ed in ciò risiede, crediamo, l’elemento di maggiore continuità genetica con l’autore in esame. Bertrando, infatti, vi aveva collocato il cuore della propria interpretazione del pensatore di Stoccarda e della propria polemica antiformalistica dagli Studi sopra la filosofia di Hegel, del 1850-51, in poi. Già in quel luogo Spaventa attirava l’attenzione su come il metodo hegeliano differisca «dagli altri […] poiché non è lo sviluppo formale d’un principio, un procedimento intellettuale esteriore al contenuto di esso, ma per contrario il movimento […] d’un principio che ritorna continuamente in sé medesimo e si compie e si realizza in ogni forma successiva, ossia, come si esprime lo stesso Hegel, diviene»10. A questa cognizione egli resterà fedele in tutte le fasi della sua riflessione, dal saggio su Le prime categorie della Logica di Hegel del ’64, scritto in interlocuzione anzitutto con Trendelemburg («L’Essere nel pensare, cioè l’Essere […] è essenzialmente movimento, diviene»11), sino all’estrema maturità di Esperienza e metafisica, laddove la rottura esplicita con alcuni schemi di matrice presuntamente hegeliana (a cominciare da quello della opposizione spirito/natura12) viene costantemente convogliata in vista della ulteriore esigenza della conquista di una visuale unitaria sul divenire reale, grazie alla quale il medesimo livello naturale si trovi ricondotto dentro al processo di mediazione dialettica (in tale sede, inoltre, egli, con grande capacità di antevisione rispetto al fulcro di dibattiti assai successivi, si trova a difendere il dialettismo nei riguardi dell’impiego contro di esso, di matrice kantiana, del criterio di ‘non-contraddizione’, argomentando: «si badi che altro è dire: A non è A, l’essere non è l’essere; altro è dire: A (che è e non cessa di essere A) è insieme non A, cioè più che semplicemente essere. E insomma il non-essere non è l’annullamento dell’essere: tutt’altro. E l’errore è qui, in questo modo di intendere la posizione. Se A, essendo non-A, cessasse di essere A, non si avrebbe produzione o sviluppo; e né meno si avrebbe se fosse o rimanesse semplicemente A. Quest’atto è il divenire»13). Coerentemente, la concezione spaventiana del ruolo egemonico della borghesia e della statualità, esibendo una percezione notevolmente lucida della relativa delineazione hegeliana, anzitutto per ciò che attiene al nesso con la società civile, poi ripresa e riformulata dal nostro, verrà ad essere incardinata sull’idea della mediazione vivente dei processi storici covanti, per dirla con gli Studi sull’etica di Hegel del ’69, nella «sostanzialità etica» coincidente con

l’«unità […] degli interessi particolari»14. Ma se Spaventa porrà l’accento sul carattere organico e dialettico concreto del procedere dello spirito, valorizzando la assoluta autoproduttività che lo profila attraverso l’onnicomprensività della mediazione, e ne acclarerà l’esclusivo statuto di ‘a priori’ che non si rende affatto ipostatizzabile a datità presupposta, bensì risulta in corrispondenza a quella che, con Herbart, possiamo configurare come la sua Selbsterhaltung, concludendo, vieppiù, ad adombrare l’essenziale vincolo critico di prassi e «scienza della moderna esperienza»15; Labriola si volgerà a riposizionare il filo di un simile discorso per entro l’effettività e l’unitarietà della dialettica storica, penetrandone l’incomprimibile composizione differenziata. Il ‘taglio’ antiformalistico della Risposta pone già in evidenza tale indirizzo, – destinato a ‘farsi strada’ in guise molteplici e, via via, sempre più comprese all’analisi del presente –, inserendolo nella prospettiva del moderno, e così giustificando analiticamente le dissimetrie ed i mutamenti che lo solcano.

3. Una iniziale rivendicazione del primato della mediazione È utile rimarcare le acquisizioni che derivano dal rifiuto dell’empirismo psicologistico in cui Zeller ricade; acquisizioni conseguite in virtù di un peculiare recupero di Kant in chiave di idealismo oggettivo: La Teorica della Conoscenza dello Zeller – dice Labriola – è una disciplina puramente empirica, una descrittiva psicologica; in conseguenza della quale, e della Logica formale, si otterranno esatte ricerche, ma non un sistema filosofico16.

L’affermazione è di grande interesse poiché, senza svalorizzare l’incidenza delle «esatte ricerche», appunto, pone il problema di evitarne la divaricazione dal «sistema filosofico». Problema che, più oltre, verrà ad essere sostanzialmente tipizzato nei termini della ricomposizione teorico-politica. Esso attiene, cioè, in primo luogo, alla questione dello statuto di scientificità in rapporto alla concreta costituzione del reale, che qui è trattata tematizzando il nesso ideale-storia proprio in vista di una formulazione antisoggettivistica della nozione di tale statuto, resa manifesta nella conclusione del saggio, a fronte dell’interrogativo sui moventi dell’«abbandono dell’hegelismo» di cui la posizione di Zeller era sentore, ed al quale constatiamo fornita la risposta che segue: A me pare che l’impotenza sia nella scuola, e non nel principio. Anzi la scuola è stata l’esagerazione del principio. Hegel intese per sapere assoluto, che la conoscenza è in sé tutto il conoscibile; ma il conoscibile certo non è ora attualmente tutto conosciuto. Lo Zeller ha ragione che la scienza sia un ideale, ma è un ideale che ha una esistenza, e si fissa come questa o quella produzione scientifica, questa o quella intuizione fondamentale d’un sistema […] Solo per questa immanenza dell’ideale in ogni esplicazione storica, la scienza è necessità razionale; solo per coscienza di questa immanenza vi può essere un metodo assoluto. E così la scienza; può essere, non un giuoco soggettivo; ma la consapevole […] contemplazione della vita reale dell’universo17.

Prendendo le distanze da un certo indirizzo organicistico che era prevalso

nell’hegelismo, il quale rischiava di forviare la corretta accezione di ‘sapere assoluto’, Labriola non rinunzia, tuttavia, a stringere la cognizione della ‘totalità concreta’ (la cui adeguata concettualizzazione richiederebbe un ampio approfondimento qui non adempibile, in virtù della presente economia testuale), ma cerca di arrivarvi considerando l’‘ideale’ in base alla dinamica di rapporti configurata da dimensione epistemica e «vita reale». Per Labriola, battere sulla inscrizione dei proliferati saperi particolari all’interno di un organismo sistematico val dire non già far leva su una concezione del «sapere assoluto» come unilaterale e riassorbente, bensì provare a visualizzare il sinolo hegeliano di idealità e piano conoscitivo, problematizzando la necessità e la oggettività della ‘scientificità’ giusto ad un livello ulteriore a quello delle semplici acquisizioni parziali e dei singoli ambiti disciplinari. Ciò che interessa a Labriola è, insomma, evitare di svalorizzare il ruolo delle ricerche particolari mirando, però, a qualificarne l’incidenza in virtù della focalizzazione di un determinato statuto epistemologico ad impianto schiettamente antisoggettivistico. È nel presente orizzonte che possiamo compiutamente dar ragione del riposizionamento degli ambiti epistemici dal fronte del mero «gioco soggettivo» a quello della «consapevole […] contemplazione della vita reale dell’Universo». Il tema si era, del resto, affacciato, fra l’altro, nella estrema (e postuma) ricerca spaventiana contenuta in Esperienza e Metafisica, laddove il movimento della scienza, nella plurima composizione che lo contraddistingue, veniva ad essere riconnesso alla «posizione storica della vita»18, e nella giovanile prova teorica labrioliana in esame si trovava ad essere declinato in virtù dell’obiettivo di conseguire proprio l’esser pienamente attraversato del suddetto movimento dal vertebrarsi della «vita reale» coincidente con lo scandirsi della mediazione. Un obiettivo di tal genere comportava di non limitarsi al privilegiamento empiristico della parzialità della ricerca scientifica, bensì di volgersi ad inquadrare i risultati di essa, ricongiungibili ai diversi specialismi, in una corretta visuale complessiva, che divenisse termine di riferimento e di congruenza rispetto al loro attributo di esattezza complessiva (non puramente ‘naturalistica’). Comincia già qui, dunque, ad essere tratteggiata la misura della inversione logico-storica del nesso fra saperi particolari e totalità sistemica (ciò che nella Risposta è indicato quale «sistema filosofico»), la quale conduce ad una precisa ricomposizione assiata su un innovativo criterio di oggettività19. Il centro del ragionamento labrioliano inizia a profilarsi con l’istanza di non appiattire il pluralizzarsi della ragione scientifica sul lato del mero «giuoco soggettivo», bensì di esaltarne le tipizzazioni specifiche riconoscendo e qualificando al loro interno l’articolarsi della mediazione reale e, con ciò, lumeggiando il piano della

ricomposizione come reggentesi sulla compenetrazione tra dimensione storicooggettiva, attesa nella sua irriducibile differenziazione, ed organizzazione epistemica. Siffatta acquisizione del connotato di oggettività della ‘idealità’ verrà, poi, ad essere compiutamente sviluppata nel ricorso al marxismo in quanto spazio teorico entro cui riqualificare criticamente il dispiegamento della storicità nel ritmo complesso di saperi determinanti e di rapporti di forza, ove genesi (non empirica) e sistema si legano e si congiungono in una costante tensione coincidente con la stessa unità critica del sapere. È importante osservare che se tra i principali fuochi della Risposta vi era una forte critica all’‘immediatismo’, in cui veniva ricompreso anche lo spinozismo, considerato in qualità di peculiare variante del naturalismo, – benché ne fosse riconosciuto il merito di esser fuoriuscito dal territorio dell’‘esclusivismo’ cartesiano, insieme a quello, molto diverso, di Leibniz, consistente nell’aver ammesso la ‘gradatezza’ del piano della rappresentazione20 –, nello studio successivo, terminato nel 1866, la riflessione su Spinoza diverrà lo strumento di un perspicuo raffinamento concettuale combinato ad un ulteriore, implicito sguardo sul dialettismo hegeliano.

4. Uno snodo fondamentale: l’incontro giovanile con Spinoza – Oggettivismo ed antiumanesimo nella prospettiva del moderno Occorre, d’altra parte, subito aggiungere che la Risposta a Zeller e la memoria Origine e natura delle passioni secondo l’etica di Spinoza appaiono come due momenti di approfondimento analitico che hanno da essere collocati in una sostanziale linea di continuità. In altre parole, è legittimo, a nostro parere, dire che se è opportuno distinguere la fase iniziale del percorso labrioliano, gravitante intorno alla Risposta del ’62, dai passaggi successivi, parimenti, è anche opportuno puntualizzare la diretta saldatura della polemica con Zeller con la riflessione su Spinoza del ’66. Cercare di saggiare le ragioni di ciò ci consentirà, prima di tutto, di ‘aprire la strada’ alla opportunità di cogliere come lo schema della contrapposizione tra ‘metodo storico’ (e poi ‘genetico’) attribuibile allo stesso Labriola e ‘metodo speculativo’ attribuibile all’hegelismo ortodosso21 non restituisca l’impegno, sin dalle origini del Cassinate, verso un impiego del dialettismo in grado di non chiudere finalisticamente il campo del reale, il suo sviluppo, e di sottrarne l’indagine ai condizionamenti del soggettivismo che, nello scenario del moderno, si era rassodato nei due vertici del razionalismo cartesiano e del formalismo kantiano. Si regge proprio sulla contrapposizione a questi due punti di vista la motivazione dell’interesse per Spinoza22, a cui sostrato c’è certamente il magistero spaventiano23, benché, come appare evidente dalla lettura della Relazione di Bertrando sulla memoria labrioliana24, vi siano elementi di forte dissimmetria tra i due punti di vista in merito. Bisogna, anzitutto, sottolineare che questo scritto, sorto da esigenze di tipo funzionale, oltre alla precedente trattazione di Spaventa, troverà come polo di interlocuzione di assoluta rilevanza l’opera di Kuno Fischer, apparsa in seconda edizione nel ’65, Geschichte der neueren Philosophie. Ciò è corroborato dagli ampi apparati relativi agli appunti preparatorii o, comunque, attinenti al testo, i quali constano di vasti materiali concernenti l’attento studio di essa25. È necessario enfatizzare come lo scritto nasca in un ambito di sorvegliatissima ricezione delle ottiche euristiche decisive in proposito, stagliantisi nel quadro europeo e in particolare tedesco, al nostro coeve e precedenti. Al suo interno si confrontano due principali tesi: una per cui l’attributo non ha statuto di realtà ed è solo il modo nel quale l’intelletto percepisce la sostanza; l’altra per cui l’intelletto percepisce la sostanza tramite l’attributo, che ne costituisce realmente l’essenza. Labriola respinge la lettura soggettivistica, nel contesto del dibattito sugli attributi, svolta da Erdmann nel Vermischte Aufsätze (e nei Grundriss der

Geschichte der Philosophie), in quanto priva di adeguati supporti filologici e della necessaria capacità di penetrazione della intentio complessiva del pensamento spinoziano; discute, – implicitamente ed esplicitamente (come ancora attestato dai materiali di studio) –, oltre alla posizione ‘realista’ di Fischer, la lettura, che risente di forti echi kantiani, esposta da Waldemarus Hayduch in De Spinozae Natura naturante et Natura naturata, e quella di Carl Schaarschmidt in Des Cartes und Spinoza. E ancora: conosce le opinioni di Ueberwerg e quelle dello stesso Herbart; approfondisce, inoltre, le considerazioni jacobiane in Über die Lehre des Spinoza. Al centro dell’analisi labrioliana vi è, insomma, un intenso confronto con specifici Standpunkt rilevanti sul terreno della ricostruzione categoriale: con la revisione kantianeggiante dell’hegelismo (di cui viene colta e riarticolata la insistenza – certo comune ad altri orientamenti – sulla tematica dello strutturarsi di rapporti nell’ottica spinoziana), e con le direttrici storiografiche delineatesi in ambito italiano, non solo per quanto attiene a Bertrando (comprese la valenza generale e le implicazioni della rappresentazione compiuta dal filosofo di Bomba del Bruno ‘morale’ del 185126), ma anche, per esempio, per quanto riguarda l’immagine che di Spinoza si trova fornita da Fiorentino nel suo manuale di storia della filosofia del 1879-8127. Sulla scorta della gamma critica che abbiamo brevemente indicato, Labriola sembra proseguire il ragionamento abbozzato nella Risposta a Zeller sul legame di totalità sistemico-concreta e risultanze particolari nei termini della connessione ‘contenuto’-‘sistema’. Egli, infatti, battendo ‘in prima istanza’ sulla relazione con Hegel, afferma: Il concetto filosofico di Spinoza è esposto in un sistema che può considerarsi come uno dei più perfetti e dei più conseguenti di cui vi sia esempio nella storia della filosofia. Se n’eccettui Aristotele e Hegel, nessun filosofo ha come Spinoza raggiunta la perfetta trasparenza del contenuto filosofico nella forma del sistema, e la perfetta compenetrazione del principio assoluto che voglia dirsi, con l’intelletto che lo […] pensa.

Ciò che, soprattutto, desta l’attenzione del nostro è la configurazione, da parte di Spinoza, di una alternativa alla rigorizzazione epistemica cartesiana, – scorrente sulla contrapposizione soggetto/mondo –, pensando al reticolo del reale come costituito da rapporti; facendo incontrare formazione e potenza in una veduta unitaria esibentesi, antidualisticamente, in quanto conoscitivamente interdipendente («In ciò si vede che Spinoza ha superato Cartesio. Lo spirito può identificarsi con l’intera natura, sol quando questa è in sé unità di pensiero ed

estensione – ecco superato il dualismo cartesiano. Questa unità è conoscibile soltanto quando tutto è conoscibile – ecco vinta la limitazione cartesiana». «Il sistema di Spinoza è la soluzione fondamentale e consapevole di quella interna contraddizione che noi abbiamo scoverta in Cartesio e nei suoi continuatori, nei quali il pensiero generatore e le sue ultime conseguenze, il suo punto di partenza, e la conclusione sono in un manifesto contrasto»). Attingere a Spinoza, alla sua tematizzazione della nozione di ‘sostanza’ significa, per Labriola, aprire ad una visuale unitario-rapportuale sul mondo che viene, così, ad essere inteso come compresenza di nessi strutturali, i quali non possono affatto contrarre la loro mobilità in senso mentalistico, – di contro a quanto voluto ‘idealisticamente’ dalla interpretazione della relazione logico-formale ‘sostanza’-‘attributi’ (pensiamo alla polemica riguardo alla corrispondenza, voluto da Erdmann, dell’esse formale al pensiero28, ed alla relativa tesi degli attributi della sostanza come prodotto della visione della unicità di essa da parte della mente umana). In proposito sono eloquenti le osservazioni compiute negli appunti su Fischer concernenti la memoria: «Spinoza afferma infiniti attributi nella sostanza e determinati nell’uomo […] La distanza è così grande che Spinoza non potea ritrovare nei limiti della natura umana tutte le potenze che agiscono nell’infinita sostanza. L’uomo non è per lui sostanza come per Descartes, ma modo. Col pensiero e con l’estensione si spiega tutto l’uomo. Che in una singola agiscano due potenze è per Spinoza ragione sufficiente di ammetterne infinite nell’essere che tutto abbraccia»29. Trattiamo di osservazioni che mettono in evidenza quello che è il tratto prevalente della lettura labrioliana di Spinoza, ovvero la percezione schiettamente antiumanistica di tale filosofo. La dialettica modi/sostanza si trova ad essere identificata quale risposta all’immagine cartesiana di un soggetto evidenzialmente presupposto e contrapponentesi al mondo con la pretesa di assorbirlo per mezzo della coincidenza coscienza-‘facoltà’; insistendo, altresì, sulla costruzione di determinazioni sincroniche che tendono reciprocamente, senza, tuttavia, mai divaricarle, sostanza e formatività, cosicché la seconda innervi e pervada intrinsecamente la prima. Labriola sottrae, dunque, Spinoza ad un omogeneo monismo. Nella sua angolatura analitica, la sostanza si declina sempre al plurale, nella infinita differenza delle determinazioni modali. È nello spazio sincronico del mondo che l’uomo si inscrive consustanzialmente, senza legittimare alcun primato di una soggettività ipostatizzata; preso com’è in un sistema di potenze di cui i corpi, infinitamente disponibili e manifestati nell’orizzonte del finito, rappresentano i centri propulsori e di attraversamento delle tensioni che ne articolano il movimento, e che Spinoza raccoglie nel rapporto tra volontà e passione. «Gli affetti dell’anima non sono più false

percezioni com’era per Cartesio distinte dalla volontà, a questa opposte e capaci d’esserne vinti e superati. Le passioni nelle loro forme fondamentali, nei loro elementi originari, sono attività, percezioni e volizioni al tempo stesso, percezioni e volizioni non accidentali e arbitrarie, ma necessarie»30. Facciamo attenzione: Labriola sa bene che il terreno spinoziano della necessità delle strutture costitutive del mondo si colloca in uno spazio sideralmente distante da quello della lineare teleologia. L’autentico problema posto da Spinoza concernere il guadagno concettuale delle regolarità che scandiscono l’organizzarsi di tali strutture in forza di una immane sincronia di potenze nella quale l’uomo vien ricompreso in guisa di res particularis. Siffatta accentuazione del motivo della regolarità in quanto fattore che attesta la effettività dello stesso ‘essere formale’ nel quadro del concrescere e ritmarsi connettivo di plurime potenze oggettive – recanti giustificazione dello stesso emergere delle tante soggettività – riposa su una cognizione avanzata del dialettismo da parte di Labriola, nella quale ci è dato, però, rintracciare una delle radici più forti della successiva sensibilità verso Herbart e la sua scuola. La ricerca labrioliana si colloca con sicurezza al di là di quello schema, per lungo tempo prevalso nella letteratura critica su Spinoza, che prevedeva la divaricazione fra la serie del pensiero e quella dell’estensione, mettendo, invece, l’accento, – in maniera più o meno esplicita –, sulla loro unità e sul loro isomorfismo, dilatando al massimo la potenza di quella complessità che è tale sin dall’inizio, – di contro al simplex sigillum veri del cogito cartesiano –, ed in cui il mondo sussiste31. È innegabile che vi sono parti del ragionamento del nostro che sembrano anche andare in direzione differente da ciò, ma l’omaggio ad alcuni allora diffusi principi euristici non gli ha impedito di procedere rovesciando il filo del discorso all’epoca prevalente, calando nella complessità l’incidenza fortissima del corpo e la sua continuità rispetto alla spinta delle passioni; nel giuoco di necessità e relativa spontaneità, ripugnante ad ogni finalismo, in cui è preso un determinato spazio di intelligenza; destituendo di leggittimità, vieppiù, ogni ipostasi separata della soggettività, – dal momento che «nel concetto del mondo è determinata la natura dell’anima e la sua relazione col corpo»32 –; nonché immergendo la libertà nel plurimo ordine delle forme. Riflette il Cassinate, muovendo alla celebre Proposizione VII della II parte dell’Etica: «L’ordine […] ed il nesso delle idee, e l’ordine ed il nesso dei corpi sono la stessa essenza sotto due aspetti (esse formaliter et esse objective)»33. Certo, l’istanza della mediazione espressa nella Risposta a Zeller non si consegue autonomamente attraverso Spinoza. La critica all’immediatismo

soggettivistico-razionalistico, il recupero di una logica del corpo e, soprattutto la coincidenza del ‘cominciamento’ con la intrinseca complessità del mondo che giustifica tale logica vengono stretti a fronte della centralità attribuita a siffatto elemento dal capitale pensatore della dialettica storica quale fu Hegel. Se ne può avere riprova anche nel modo in cui il riferimento a Spinoza diviene una sorta di ‘leva’ per fuoriuscire da alcuni ossificati schemi dell’hegelismo stesso (obiettivo attestato, fra l’altro, dalla recensione a Vera del ’72), – tendenti ad irrigidire il dialettismo –, ‘rilanciando’ – se così possiamo dire – implicitamente, sul terreno di una analogia strutturale con lo Standpunkt del filosofo di Stoccarda pertinente al pensamento della originaria mobilità e connessione del modo. Si tratta di un modulo attraverso cui Labriola si volge al nesso fra presente storico e moderno, invigorendo la ‘complicità’ tra il livello della ricomposizione teorica e quello del costitutivo pluralizzarsi del sapere scientifico e del proliferare dei suoi linguaggi. Stà in ciò il pernio dell’ottenuto intreccio tra differenziazione e regolarità del reale, capace di fornire una nuova immagine dell’organizzazione epistemica e del portato delle sue acquisizioni speciali. Ciò, del resto, ci dice già molto sulla maniera in cui Labriola percepirà la storicità e la struttura discreta del tempo storico, – compenetrata alla moltitudine delle forme –; e ci mette in condizione di comprendere come la critica di questi anni all’idea dell’unilateralità cristallizzata del soggetto che dal rigorismo cartesiano trapassa nel formalismo kantiano si collochi in un’area assai lontana dalle varianti – vuoi, appunto, in chiave spinoziana, vuoi in chiave hegeliana – del deduttivismo. Ciò è ben rilevabile se si considera l’impianto naturaliter radicalmente antifinalistico di tutta la memoria. Eccone ancora un brano significativo: Bisogna innanzi tutto osservare, che per intendere quello che Spinoza dice dello Spirito, bisogna aver rinunciato a due rappresentazioni, e come egli direbbe, a due pregiudizii, a quello che considera l’uomo come libero, e a quello che considera il mondo come un sistema di fini. Sì l’uno come l’altro di questi pregiudizi ha la sua origine nella imaginazione e questa idea è riposta nella considerazione delle cose ex communi naturae ordine. Considerare le cose come esse sono in verità, è considerarle come un sistema di cause e di effetti, non già come l’una mezzo dell’altra34.

Non ci è dato attardarci qui sul confronto – che pur si dovrà fare – fra la restituzione fornita da Labriola del problema della libertà in Spinoza e la sua consistenza complessivo-effettiva, la quale presenta alcuni aspetti di asimmetria riguardo ad essa. Piuttosto, dobbiamo osservare come sorga a questa altezza un ‘difficile’ nodo teorico. Infatti, rifiutando il finalismo e percependo all’insegna di ciò il dispiegamento della ragione scientifica, Labriola inizia ad accennare ad un

modello di sincronia funzionale che diverge da quello spinoziano poiché rifugge dal privilegiare la comprensività della ‘sostanza-mondo’ (immedesimabile con il luogo-contenuto mentale divino); pur sfruttando la ad essa coimplicata indicazione circa il combaciare di complessità e ‘cominciamento’ con lo scopo di mettersi sulla strada di inquadrarla compiutamente nei peculiari termini della costruzione delle forme storiche. Ne viene che la traduzione cogente di questo obiettivo, – che avrà a temprarsi, con ulteriore profondità, nella costante tematizzazione del vincolo fra il superamento dell’ideale della ‘separatezza’ della filosofia (coincidente con la posizione classica dei gruppi intellettuali) e la densità politica degli specialismi, la quale, tuttavia, richiama alla ricomposizione –, dovrà confrontarsi con l’indagine della fusione e, parimenti, della distinzione tensiva tra le regolarità evidenziate dagli strumenti cognitivi della ragione scientifica ed il circuito delle mediazioni reali che fanno tutt’uno con il disporsi dei rapporti di forza sociali. Crediamo che in un confronto del genere stiano le ragioni per le quali Labriola modulerà ed invigorirà senza, però, mai abbandonarla, – ne siamo persuasi – bensì maturandola con sofferto rovello, la prospettiva dialettica, – o meglio: stando alla fase matura (e forse non solo), genetico-dialettica. Lo farà giovandosi, a partire dal filtraggio spaventiano, degli apporti e degli spunti epistemici ricavabili dalla psicologica herbertiana e dagli studi antropologici e storiografico-filologici di alto profilo che si erano venuti stratificando nel contesto tedesco35 (spesso con esiti schiettamente antipsicologistici). 1

Si tenga presente che della Risposta (già edita da Croce), così come dello Spinoza e dei materiali ad essi relativi, DAL PANE, nella edizione delle opere da lui curata, ha fornito un testo esemplato dalle carte originali, anche se, nel secondo caso soprattutto, è dato registrare alcune rettifiche esterne il cui emendamento ci attendiamo dall’edizione critica in svolgimento. (Cfr. in proposito G. MASTROIANNI, Antonio Labriola e la filosofia in Italia. Studi filosofici, Argalìa, Urbino 1976, p. 28). 2 Scrive, tra l’altro, Labriola in proposito: «Lo Zeller […] si sforza a mostrare la possibilità della Logica formale. Se fosse questa una quistione pedagogica, andrebbe tutto bene, ma dove trattasi della relazione della Logica al sistema della scienza, ossia, del valore reale della forma della funzione logica, il problema resta tutt’affatto non risoluto. Ma come s’è elevato Hegel al concetto della Logica speculativa? Criticando forse l’incompiutezza della Logica formale, e quindi dal considerare che queste forme sono sempre implicate in un contenuto determinato s’è egli deciso dar loro per contenuto tutto il reale ch’è obbietto del pensiero, perché avesse valore oggettivo? Niente affatto. Perché si faccia oggetto della ricerca scientifica quella forma logica ch’è il giudizio, non fa d’uopo discorrere per tutti i generi della realtà, e raccogliere così tutti i contenuti determinati, cui è implicita quella formula. Ma perché io consideri il giudizio nella sua necessità razionale, nel suo valore oggettivo, debbo intendere che grado esprima del pensiero, che relazione abbia all’identità, alla qualità, alla quantità, e così via; infine debbo sapere che realtà sia il giudizio, e non posso saperlo altrimenti, che osservandolo nella sua genesi da altre determinazioni, che ne

sono il contenuto. Il contenuto della Logica è adunque, le stesse forme logiche come contenuto a sé stesse, e con tutto ciò la Logica resta sempre una Scienza formale, se per opposto di forma s’intende il contenuto determinato» (infra, p. 457). 3 Tale primario passaggio viene fissato da Hegel osservando come «quello che» la logica «è non lo si può […] dir prima; ma l’intiera sua trattazione produce questa sua conoscenza di se stesso come suo ultimo fastigio e suo compimento» (Wissenschaft der Logik, trag. Von J. LASSON, ristampa limitata del testo della seconda edizione del 1934, Meiner, Leipzig 1951, I, tr. it. Scienza della logica, a cura di A. MONI, Laterza, Bari 1968, I, p. 23). 4 L’approdo del ragionamento di Hegel è collocabile nella seguente considerazione: «il sostanziale o reale, quello che riunisce assieme, in sé, tutte le determinazioni astratte, ed è la loro schietta ed assolutamente concreta unità, è appunto la ragione logica. Non vi sarebbe dunque bisogno d’andar lontano, per cercar quello che si suole denominare materia. Non è colpa dell’oggetto della logica se questa par vuota, ma solo della maniera come quell’oggetto viene inteso» (Ibidem, p. 29). Ragionamento che trova conferma in quanto il filosofo, ancor più efficacemente, aveva asserito in qualche pagina precedente: «Si vede da sé che quello, che nella prima riflessione ordinaria, vien separato, come contenuto, dalla forma, non ha da esser, nel fatto, informe, non che da esser privo di una determinazione in sé (così sarebbe soltanto il vuoto, come chi dicesse, l’astrazione della cosa in sé), ma che al contrario ha forma in sé stesso, anzi una forma della quale, soltanto, riceve vita e sostanza, e che è questa forma stessa, nell’apparenza di un che di estrinseco a codesta apparenza. Con questa introduzione del contenuto della considerazione logica, non sono le cose (Dinge), ma l’essenziale delle cose (die Sache), il loro concetto quello che diventa oggetto» (Ibidem, p. 18). Cfr. in proposito, fra gli altri, F. PAPA, Logica e Stato in Hegel, De Donato, Bari 1973, pp. 45-47. 5 Possiamo rammentare paradigmaticamente l’indicazione compiuta da Spaventa nella celebre Prolusione napoletana del 1861, secondo la quale «il problema di Kant, il nuovo problema, è il problema del conoscere» (La filosofia italiana nei suoi rapporti con la filosofia europea, a cura di P. P. OTTONELLO, Marzorati, Milano 1974, p. 35), che verrà poi ‘spiegato’ da Hegel scorrendo dal mero piano gnoseologico a quello dell’unità fra logica e fenomenologia (con ciò, crediamo, istanziando, a più riprese, un ‘punto alto’ della medesima eurisi hegeliana a Bentrando contemporanea). Cfr. G. VACCA, Politica e filosofia in B. Spaventa cit., pp. 240-241. 6

Infra, pp. 466-467. Su questo aspetto della critica di Hegel a Kant esiste, naturalmente, un’amplissima letteratura, entro la quale ci piace qui ricordare i contributi di F. PAPA, Logica e Stato in Hegel cit., pp. 79-80 e B. DE GIOVANNI, La critica del fondamento nella “Logica” di Hegel, raccolto, in A.A.V.V., Logica e storia in Hegel, ESI, Napoli 1985, pp. 22-25, nonché le pagine di G. BENELLI in Riflessioni su certezza e verità, 7

Compagnia dei Librai, Genova 1988, pp. 62-72. 8 Infra, pp. 465-466. 9

Infra, pp. 469-470. Tale pagina spaventiana si può ora leggere in Il primo hegelismo italiano, a cura di G. OLDRINI,

10

prefazione di E. GARIN, Vallecchi, Firenze 1969, p. 324. 11 ID., La prime categorie della logica di Hegel (1864), raccolto in Opere cit., p. 362. 12

Cfr. G. VACCA, Politica e filosofia in B. Spaventa cit., p. 286. Si evidenzia, in proposito, il tema della ricezione spaventiana del naturalismo darwiniano, – enfatizzata dallo stesso Labriola nella missiva ad Engels del 14 marzo 1894 –, la cui enucleazione si afferma sin da prima del celebre articolo La legge del più forte del 1874 (particolarmente spinoso, crediamo, anzitutto per quanto riguarda il problema

dell’immagine del teleologismo che ne viene fornita, prolungantesi fino allo stesso fronte di Esperienza e metafisica). Cfr. in proposito, fra gli altri, F. FOCHER, Politica ed epistemologia in Bertrando Spaventa, raccolto in ID., Logica e politica in B. Croce, Angeli, Milano 1987, pp. 103-116; nonché la Introduzione (Riforma della dialettica, riforma del sistema: crisi e trasformazione dell’hegelismo in Spaventa 18611883) di A. SAVORELLI all’edizione critica da lui curata di Esperienza e metafisica, Morano, Napoli 1982, pp. 7-80. 13 Ibidem, p. 138. 14

ID., Studi sull’etica hegeliana, in «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», IV, 1986, p. 150; cfr. G. VACCA, Politica e filosofia in B. Spaventa cit., pp. 198-200. Inoltre, occorre sottolineare che per il discorso fin qui svolto molte suggestioni ci sono venute da R. RACINARO, Labriola e il ‘procedimento dialettico’ cit., pp. 114-115. 15 B. SPAVENTA, Esperienza e metafisica cit., p. 352; e sul significato complessivo di questo aspetto cfr., ancora, G. VACCA, Politica e filosofia in B. Spaventa cit., pp. 286-288; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro Mediazione assoluta e universale concreto cit., pp. 312-313. 16 Infra, p. 473. 17 Ibidem. 18 B. SPAVENTA, Esperienza e metafisica cit. 19 Per le osservazioni che abbiamo svolto siamo assai debitori alle considerazioni formulate da R. RACINARO nello strepitoso volume La crisi del marxismo nella revisione di fine secolo, De Donato, Bari 1978, pp. 52-55, cui faremo più volte riferimento nel corso della nostra argomentazione. 20 Scrive Labriola in proposito: «Io qui non posso fare una critica della filosofia moderna fino a Kant. È chiaro però dagli stessi cenni dello Zeller […] che la Teorica della Conoscenza era sempre parziale, o come suol dirsi unilaterale, perché fissava tutto il valore della conoscenza in una delle sue due forme fondamentali (recettività ed apriorità) con esclusione dell’altra. Per questo dominio esclusivo d’una forma su l’altra, per questa parzialità della direzione, può darsi il nome d’immediatismo a quel modo di concepire la conoscenza; che fa lo stesso quanto dire che quel periodo filosofico aveva un concetto immediato dello Spirito. O che la conoscenza sia un risultato induttivo della sensazione (empirismo), o una genesi deduttiva dell’intelletto (intellettualismo), lo Spirito è sempre un immediato, non passaggio, processo, sviluppo da una forma all’altra. L’immediatismo è così spiccatamente la caratteristica di quel periodo filosofico, che né Spinosa né Leibnitz superarono questa posizione, questo naturalismo psicologico, quantunque il primo avesse fatto già un gran passo per uscire dall’esclusivismo cartesiano (ordo rerum – ordo idearum), ed il secondo si fosse aperto la via ad accettare la direzione opposta, ammettendo vari gradi nello sviluppo delle rappresentazioni» (infra, pp. 464-465). 21 Il nostro punto di vista coincide in proposito, come già indicato, con quello esposto da B. DE GIOVANNI in Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di A. Labriola cit., p. 29, in esplicito contrasto con alcune indicazioni storiografiche formulate da A. ZANARDO in Il primo Labriola e Spinoza cit. 22

Cfr. B. DE GIOVANNI, Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di A. Labriola cit., pp. 27-28. Fra i principali testi spaventiani coinvolgenti l’interpretazione di Spinoza cfr. La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea cit., pp. 82-103 e 187-194, ma anche le indicazioni comprese nello stupendo studio su Giordano Bruno, raccolto nella silloge Saggi di critica filosofica, politica e 23

religiosa cit., pp. 137-268; nonché, naturalmente, lo scritto Concetto dell’infinità dell’attributo per T. Maniani, in esso contesto del 1854-1858, lo scritto Concetto dell’opposizione e lo spinozismo del 1867, e, inoltre, alcuni rilevanti passaggi de La filosofia di Gioberti. Per quanto riguarda la letteratura critica, cfr., fra gli altri, A. SAVORELLI, B. Spaventa e la via stretta tra Bruno e Hegel, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1, 1998, pp. 33-43, e, soprattutto, la menzionata Introduzione di B. DE GIOVANNI alla ristampa anastatica della suddetta silloge. 24 Basti rammentare una delle considerazioni conclusive di essa, laddove leggiamo, indicativamente rispetto proprio all’atteggiamento ‘antiumanistico’ generale della memoria: «Avrei perdonato all’A. qualunque digressione, se si fosse fermato di più sul concetto della humanitas » (Relazione sulla memoria presentata alla Facoltà di lettere e filosofia nel concorso a tema di Filosofia, riprodotta in A. ZANARDO, Filosofia e socialismo cit., p. 72) Cfr. in proposito, soprattutto, ID., Il primo Labriola e Spinoza cit., pp. 2931; ma anche B. DE GIOVANNI, Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di A. Labriola cit., pp. 31-32. 25

Più precisamente, stando alla edizione del I volume delle opere di Labriola (Scritti e appunti su Zeller e Spinoza 1862-1868, Feltrinelli, Milano 1959) a cura di L. DAL PANE, i materiali di appunti su Fischer constano di comparti testuali così discriminanti: A) Posizione storica dello spinozismo (pp. 179-183); B) Il “Trattato sulle emendazioni dell’intelletto” (pp. 184-192); C) Il metodo matematico di Spinoza nel suo fondamento, nella sua applicazione e nella sua tendenza (pp. 193-198); D) Il concetto di Dio (pp. 199210); F) Dio come Natura Naturante. Gli attributi determinati (pp. 211-217); G) Il concetto di Dio – Gli attributi; gli attributi determinati (pp. 218-228); H) I modi di Dio, ossia la natura naturata (pp. 229-38); I) L’ordine naturale delle cose. Gli spiriti e i corpi; I corpi. Il corpo umano (pp. 239-248); L) I modi (pp. 249-257); M) Lo spirito umano (pp. 258-269); O) La volontà umana. Virtù e potenza. La serenità umana. Il valore degli affetti (pp. 283-297); Le passioni umane (p. 298); Q) La società umana. Il diritto di Natura. Il Diritto Pubblico. Lo stato e l’individuo (p. 299); R) Lo Spirito umano. La conoscenza umana. La volontà umana (pp. 300-316); S) La libertà umana. Combattimento degli affetti. Liberazione. Amore di Dio. 26

Ha portato l’attenzione su questo aspetto B. CENTI, Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Dedalo, Bari 1984, p. 21. Per quanto attiene all’interpretazione spaventiana di Bruno, oltre alla conferenza del 1851 ed al saggio rammentato, cfr. Lettera sulla dottrina di Bruno. Scritti inediti 1851-54, a cura di M. ROSCAGLIA e A. SAVORELLI, Bibliopolis, Napoli 2000. 27 Cfr. in proposito le indicazioni di A. ZANARDO, Il primo Labriola e Spinoza cit., pp. 24-34, di cui pure non condividiamo, come già detto, le conclusioni analitiche. 28 Annota Labriola: «Per quel che riguarda l’esigenza pratica, noi diremo che se ce ne fosse stata, Spinoza avrebbe dovuto anche modificare il suo concetto di Dio. Ma dal momento che avea negato in Dio ogni volere ed intelletto, potea anche ammettere che l’uomo fosse senza autoconoscenza. Erdmann veramente insiste di più sull’errore terminologico. Questo consisterebbe in una inesattezza, cioè nell’avere applicato alle idee la denominazione di “essere formale”, che realmente non appartiene che al corpo. Quello che esiste nella estensione come corpo, esiste nel pensiero come idea: v’è dunque necessariamente idea di tutti i corpi. Ora l’esistenza è identica alla formula; è dunque necessariamente idea d’ogni essere formale. Or, come Spinoza attribuisce una volta anche alle idee l’”esse formale”, così Spinoza parla d’idee delle idee: una designazione inesatta lo ha così tratto in errore (ved. Erdm, S-181). Questa doppia negligenza non è ammissibile, in Spinoza. Noi abbiano mostrato che “esse formale” […] significa […] veramente essere formalmente, esistere in una forma determinata, cioè essere reale essere effettuato (formato). Gli effetti determinati sono i modi del pensiero e dell’estensione, cioè le idee e i corpi. “Esse formale” significa dunque l’esistenza effettiva delle idee e dei corpi. Spinoza potea dunque a ragione dire: “esse formale idearum”» (Appunti e note sulla “Geschichte der neuren Philosophie” di K. Fischer, in A. LABRIOLA,

Opere complete, I, pp. 264-265). Cfr. in proposito, fra gli altri, N. BADALONI, Antonio Labriola: genesi di un naturalismo critico, in «Critica marxista», 5, 1986, p. 119. 29 A. LABRIOLA, Opere complete, I, pp. 216-217. Ha attirato l’attenzione su questo brano N. BADALONI, Antonio Labriola cit., pp. 218-219. 30

Infra, p. 497. Su questi specifici aspetti in Spinoza cfr. B. DE GIOVANNI, ‘Corpo’ e ‘ragione’ in Spinoza e Vico, raccolto in ID., R. ESPOSITO, G. ZARONE, Divenire della ragione moderna. Cartesio, Spinoza e Vico, 31

Liguori, Napoli 1981, pp. 95-130. 32 Infra, p. 493. 33

Infra, p. 494. Infra, p. 496. 35 Per le osservazioni appena svolte siamo assai debitori a B. DE GIOVANNI, Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di Antonio Labriola cit., pp. 30-34. 34

III MOMENTI DEL COLLOQUIO CON LA LINEA HUMBOLDT-HERBART

1. Il rapporto di B. Spaventa con l’herbartismo È indispensabile soffermarsi sul ruolo polivalente e problematico di medium che l’opera di Spaventa svolse rispetto all’avvicinamento di Labriola alla scuola herbertiana, anche per quel che concerne non solo le posizioni generali, poniamo, del ‘fisiologo’ Lotze, o di uno Strümpell (di cui sia Bertrando che Labriola furono amici), ma le perspicue ricerche di Drobisch, Lazarus, Steinthal (decisive, come vedremo, per il Cassinante), e poi ancora, di Allihn, Flügel, Ziller, Hartenstein, Tepe, Thilo, Waitz, etc., ossia del gruppo che si radunava intorno alla rivista Zeitschrift für exacte Philosophie, – rivista con cui il nostro autore collaborò ed interloquì fra il ’70 e il ’721. Vi è da ribadire meglio che l’interessamento labrioliano per l’herbatismo e le sue cardinali derivazioni segue un percorso che, avviatosi nel corso del ’69, troverà nell’impegno storiografico del Socrate del ’71 un momento di cospicua acquisizione (non a caso tale monografia, che aveva risentito dell’opera di questi, registrerà proprio il consenso di Strümpell); combinandosi all’importante snodo della dissertazione dedicata alla questione Se l’idea sia il fondamento della storia; e raggiungendo una peculiare intensificazione nel ’73, con i due contributi Della libertà morale e Morale e religione. Di lì in poi si aprirà una fase di approfondimento coincidente con l’avvio di una certa revisione politico-idelogica e di una graduale ridisposizione categoriale. Vale la pena di attirare ulteriormente l’attenzione del lettore su quanto abbia pesato la mediazione spaventiana in relazione al viluppo di problemi che attenevano alla tradizione humboldtiano-herbertiana di reimpiego, orientato alla costruzione di una autonoma (e per alcuni aspetti, se così ci è dato dire, ‘antipsicologistica’) ‘psicologia’, dell’eredità kantiana, – mirando al conseguimento di una «metafisica capace di sollecitare alla disgregazione di ciò che si presenta come compatto», conseguendo una sorta di «realismo pluralistico» tutto incentrato sulla cognizione dell’«esperienza come molteplicità»2, sino a considerare l’individualità stessa in quanto complessione relazionale di reali –. L’interesse di Bertrando per l’herbartismo – con punti di assai manifesta polemica (anzitutto riguardo a certuni fattori di continuità con la metafisica prekantiana) – è distintamente ricavabile non solo dagli aperti

riferimenti e dalla piuttosto ampie occasioni di discussione teorica sul piano dello specifico testuale3, ma pure – secondo la utile ricostruzione compiuta da Siciliani de Cumis – dal vaglio dei testi da lui posseduti (annotati o meno) e dagli scritti e materiali di studio postumi. Di più: l’atteggiamento di Spaventa verso Herbart e la sua scuola e, ancor maggiormente, verso il plesso di problemi cui essa richiamava, a cominciare dal già evocato obiettivo della promozione su basi kantiane, – implicandone, però, una radicale rideclinazione –, di una organica psicologia, – nella accezione tanto in chiave ‘materialistica’ quanto di pretta Völkerpsychologie4, in un quadro di nodi epistemologici comuni e di ineludibili rimandi –, è da porsi fra le fonti, in termini di stimolo e sollecitazione, persino della riflessione che il Labriola ‘maturo’ ed assertore di una visione ‘inacquietante’ della dialettica storica esplicherà, nella Delucidazione preliminare, – edita nel 1896 e poi ristampata nel 1902 –, in merito proprio ad una concezione critica del materialismo. In tale sede, dopo aver sottratto la prospettiva teorica marxiana allo schema deterministico-economicistico della distinzione opposizionale rigida e semplice ‘struttura’/‘sovrastruttura’ prevalente nella II Internazione, egli asserisce: «Resulta da ciò […] che per procedere dalla […] struttura all’insieme configurativo di una determinata storia, occorre il sussidio di quel complesso di nozioni e di conoscenze, che può dirsi, in mancanza d’altro termine, psicologia sociale. Né intendo con ciò di alludere alla fantasticata esistenza di una psiche sociale […] Né intendo di riferirmi a quei tentativi di generalizzazione combinatoria […] la cui idea è questa: trasferire ed applicare ad un escogitato soggetto, che si chiama la coscienza sociale, le categorie e le forme accertate della psicologia individuale […] E non voglio nemmeno alludere a quel coacervo di denominazioni semiorganiche e semipsicologiche […] alla maniera dello Schäffle […] Cotesta psicologia sociale, di sua natura sempre circostanziale, non è l’espressione del processo astratto e generico dello spirito umano. È sempre formazione specificata di specificate condizioni»5. Labriola, dunque, considera la «psicologia sociale» in quanto uno degli ambiti epistemico-qualificativi ove ha ad evidenziarsi il giuoco di varianti e di costanti che costellano e tipizzano le formazioni sociali; domandando il ripercorrimento genetico dei nessi portati che le costituiscono, corrispondendo ad un processo di differenziazione cognitiva di cui occorre cogliere lo spessore delle relazioni obiettive che ne intessono lo statuto storico. Si tratta, chiaramente, di un approccio che esige di essere riconnesso a tutta la tematica, di matrice steinthaliana, delle ‘neoformazioni’. Ad una altezza teorica sicuramente molto diversa, l’hegelismo di Spaventa è considerabile, in virtù della tematizzazioni del problema psicologico – che pure egli sempre discriminò

dai risvolti della ‘psicologia empirica’ a cui una parte della sua scuola si mostrò assai suscettibile, a iniziare da posizioni come quelle dell’Angiulli6 –, in qualità di ineludibile, quanto problematica, matrice rispetto a ciò, nonché di polo di confronto e di interlocuzione coeva. In proposito possiamo, infatti, ricordare la discussione sulla nozione di ‘malattia’ del ’72 con il Tommasi (che lo stesso Moleschott considerò, comunque, ‘eterodosso’). Discussione con la quale il pensatore di Bomba si introdusse nel dibattito europeo dischiusosi, grosso modo, a far data dal ’87, – ovvero a muovere dal discorso di Rudolf Wagner a Gottinga sulla sostanzialità dell’anima –, intorno ai rapporti fra psicologia e materialismo. Egli coglierà l’occasione per stigmatizzare il rischio riduzionistico interno al dibattito, e per farlo si muoverà reimpiegando antimeccanicisticamente l’idea herbartiana del dinamismo dei reali e delle componenti psichiche – evitandone, però, il prevalente tratto di ‘sconnessione’ –, nonché riflettendo sulla considerazione compiuta da Cornelius, nel ’71, sul binomio corpo-‘anima’7. Senza alcun dubbio il vasto scenario ove l’intervento spaventiano va calato aveva tra i suoi referenti La psicologia di Kant del Mayer, uscita nel ’72, i Lineamenti di psicologia fisiologica di Wundt, usciti nel ’73-’74, che Labriola, come noto, apprezzò ed assai studiò, la brentaniana Psicologia dal punto di vista empirico del ’74 ed un testo rilevantissimo in codesto ambito quale il Manuale di psicologia del Volkmann, uscito nel ’75-’76. Ai fini di gettare luce, fugacemente, sulla presente cornice, distendentesi ben al di là del giro di anni ’69-’73 ed incidente su tutto il periodo della elaborazione labrioliana premarxista (e non solo), è utile rammentare, inoltre, quasi tentando una sorta di apposito, comunque sintetico, experimentum crucis, il ruolo che un testo come la Geschichte des Materialismus del Lange, edita, complessivamente, tra il ’66 ed il ’758, ebbe a svolgere. Il neokantismo ‘fisiologico’ che pervadeva l’opera ed in essa veniva complessivamente proposto (molto influendo, per esempio, su un autore come Vaihinger ed ‘aprendo la strada’, in certa, parzialissima ed anche – diremmo – misuratissima maniera, al movimento di Cohen, Natorp, etc.), discostandosi, – come acclarato nel ’65 con I principi della psicologia matematica. Un tentativo per la dimostrazione dell’errore fondamentale in Herbart e Drobisch –, dall’approccio herbartiano, ‘incorporante’, ad ogni conto, teoresi e scienze matematico-‘naturalizzabili’, si volgeva a contrastare una determinata accezione unilaterale del materialismo, facendo leva, – in consonanza con le opinioni di Fechner e Weber –, sul fattore della costituzione dell’organizzazione psicofisica in vista dello scopo di render compatibile la cognizione ‘innatistica’ del kantismo proposta da Helmholtz e la concezione differenziata-specifica della materia. Così, Lange tentava – ma senza riuscirvi –

di ripudiare qualsiasi variante metafisicistica del medesimo materialismo9. Del resto, il secondo volume della Geschichte poneva il tema della relazione movimento esterno-sensazione e, ricollegandosi al problema della Entstehung der Erfahrung, cercava di mostrare la coestensione di generalità e di specificità, di logico e fisiologico, riposizionando proprio il precetto kantiano secondo cui «in ogni atto della conoscenza si trova in generale il concorso di elementi aprioristici»10. Ad un simile obiettivo Lange era pervenuto comprimendo in chiave naturalistico-empiristica il kantismo, sulla scorta della dieresi Verstand/Vernuft nella Kritik der reinen Vernunft. Un ‘empiricismo’ del genere coinvolgeva, – per certi aspetti analogamente, poniamo, alla posizione dello Stammler –, lo statuto epistemologico della previsione e della generalità dello spazio teorico, recando il diretto rovesciamento nell’astratto richiamo eticonormativo, per quanto attiene all’ambito politico d’insieme, consumatosi nell’Arbeiterfrage11. In tale testo, le generali premesse langeane, – esizialmente inficiate, come constateremo oltre, con elementi di tangenza rispetto a Bernstein, da un atteggiamento di irrigidimento metodologico avente come decisivo risvolto la totale carenza per quanto attiene l’appropriazione della strategicità del dialettismo e, di conseguenza, l’assoluta indifferenza nei riguardi del rapporto fra Forschungweise e Darstellungweise –, condizionarono irreversibilmente l’approdo ad una certa misura di interpretazione empiristica del marxismo, – cui è congruente la scissione tra intellettuali e movimento operaio12. Ciò trova una evidente ‘cartina al tornasole’ nel tipo di accusa di fallacia che Lange rivolge, al lume del proprio intendimento dello zurück auf Kant, all’analisi marxiana. Accusa che fornirà occasione allo stesso Marx, – a fronte del non capire «rien del metodo hegeliano» da parte di questi, appunto –, di ben spiegare la scelta consistente nell’annodare invarianza e discreto storico, riconnettendo tale scelta al problema della ‘unità-distinzione’ di ‘forma della legge’ e ‘legge in generale’13 (riverberantesi sulla stessa idea di riforma del principio di legalità implicita alla nozione labrioliana di ‘previsione morfologica’). Il caso di Lange è eloquente, crediamo, per comprendere distintamente il carattere avanzato della complessiva elaborazione labrioliana scaturito anche dagli elementi centrali del confronto con l’herbartismo e, in generale, con le ipotesi di indagine psicologica e psicofisica, – comprese quelle molto lontane, poniamo, dalla Völkerpsychologie –, che avevano quale esplicito retroterra l’ottica kantiana. Spaventa, nel richiamato testo Sulle psicopatie in generale del ’72, ma anche in alcuni contributi e manoscritti degli anni ottanta14 (problematicamente molto attenti verso le argomentazioni wundtiane formulate

nei Beiträge zur Theorie der Sinneswahrnehmung del ’62 e nelle Vorlesungen über die Menschen-und Thierseele), assume la centralità del motivo della funzionalità dell’organismo, filtrandone da Herbart e pure dal Lotze – che aveva esplicato tanto nel Mikrokosmos e nella Medizinische Psychologie del ’52 quanto nelle lezioni pubblicate postume nel 1884, con il titolo Lineamenti di psicologia, una opzione antimaterialistica – un certo criterio di governo processuale; impegnandosi, tuttavia, ad evidenziare – in polemica, fra gli altri, col Benard riguardo al dualismo cartesiano –, come la convergenza fra tali posizioni ed un certo orientamento idealistico debba venir integrata con la irrinunciabile precisazione per cui ogni legalità rilevata ed ogni processo che ad essa, pur nella costitutiva mobilità, ha da essere corrisposto esigono, a loro volta, di essere intesi in quanto segnati dalla pervasività della mediazione ed in essa inscritti. Tutto questo comportava, vieppiù, non una sorta di restituzione della processualità in questione di sapore ‘spiritualistico’, ma lo stringimento del suo statuto reale in virtù proprio dell’affermazione del primato di detta mediazione. Parliamo di una conclusione che, traendo da canali assai diversi (e con impianti generali incompatibili con la concezione propugnata dal filosofo di Bomba) l’acqua al mulino della battaglia antiscentistica, impiegava l’armamentario psicologistico-trascendentale, gli stessi tentativi da parte di un certo antipsicologismo di saldatura di pluralismo e monismo, persino alcune acquisizioni empirico-positive; mostrandosi capace di tener ferma l’incidenza del dialettismo e preoccupandosi di rintracciarne lo scorrimento dinamico nel costituirsi regionale delle scienze particolari15. Di qui, Spaventa esibiva, in siffatta maniera, l’irrinunziabile necessità di sottrarre l’analisi del reale all’appiattimento sulla datità o, all’opposto speculare, alle varie soluzioni di segmentazione conoscitiva con accezione unilateralmente esemplificativa. Evidentemente, stiamo alludendo ai conseguimenti culminanti nelle osservazioni approssimate in Esperienza e Metafisica16. In tale sede Spaventa si avvale criticamente della concezione herbartiana, di cui viene stigmatizzato come elemento inficiante la metodologia della zufällige Ansicht il considerare la molteplicità dei reali senza qualificarla nell’alveo di una compiuta ricomposizione unitaria17. Essa si contrappone all’irrigidimento dualistico dovuto alla relazione tra stimolo e noumeno promossa da autori come Lange e Helmoltz. D’altra parte, Bertrando – esibendo un punto di continuità con Labriola che avrà ad essere caratterizzato nella direzione della penetrazione del disporsi trasversale delle cerchie particolari e della intensificazione del contenuto politico della morfologia sociale da queste espressa – già ‘apre la via’, seguendo Hegel, alla riclassificazione degli specialismi per entro la «connessione

sistematica»18 percorrente l’orizzonte del finito; designandone l’universalità in quanto concreto e «non […] altro dal particolare»19. Una siffatta prospettiva, che Spaventa è incline a rendere compenetrabile con la dimensione dell’‘autocoscienza’20, concerne alla oggettività dei rapporti intersoggettivi, al loro riconcentrare la molteplicità delle determinazioni reali ed il reciprocarsi di queste. La universalità concreta viene, in definitiva, colta dal filosofo di Bomba prendendo le mosse – indubbiamente – dal rapporto di coscienza ed autocoscienza quale molla della dialettica storica, e riconnettendolo, tuttavia, al vasto intreccio di ‘natura’ e ‘spirito’ cui egli perviene, come abbiamo ricordato anche in precedenza, revisionando molti degli schemi ordinari dell’hegelismo21, sì da lumeggiare la coincidenza fra divenire naturale-umano e Wirklichkeit. Presa nel suo impianto mediatore, la particolarità vien emancipata dalla opposizione di unità e molteplicità; puntando ad evitare di immediatizzare la seconda ma giustificandone l’incomprimibile dinamismo nell’oggettività del movimento del reale che la prima caratterizza. È coerente con un simile intento la volontà di tener insieme, in contrasto con l’atteggiamento kantiano di fissazione dell’emergere del molteplice in quanto prius su cui ha da intervenire l’inclinazione puramente assimilatrice del soggetto trascendentale, la angolatura teorica spinoziana e la prospettiva dischiusa dal filosofo di Stoccarda. Quest’ultima insiste, antisoggettivisticamente, – rendendosi, magari, passibile, per ragioni su cui non possiamo dilungarci, di declinazione nella direzione della fusione della libertà trascendentale kantiana con una certa nozione del ‘platonismo’ (fusione critica cui ha a ricollegarsi giusto la rielaborazione dello spinozismo) –, sulla libertà oggettiva come compenetrata alla inestirpabile struttura del mondo22. «Hegel» – afferma Spaventa (e ciò è anche detto, fra l’altro, nella monografia su Gioberti) – «è il vero Spinoza; il vero Spinoza è la Sostanza come Soggetto. Hegel solo ha compreso veramente Spinoza»23.

2. Il contatto con la linea Humboldt-Herbart e il problema della integrazione con l’hegelismo Ora, si deve dire che Labriola intensifica al massimo, ricolloncandole compiutamente sul terreno del vaglio dei nessi oggettivo-‘mondani’, e, poi, soprattutto, grazie all’incontro con Marx, su quello dell’esplicarsi in re della dialettica storica – di cui, ad avviso del nostro, è insufficiente considerare il mero scaturire – le accentuazioni spaventiane. Egli procede riversando il referto d’esperienza e sperimentale nel più vasto quadro dell’attività conoscitiva, rilevandone la complessità delle determinazioni, a partire da quelle ambientali e storico-culturali. Così facendo il Cassinate si misura con le problematiche pertinenti le diverse varianti del kantismo e del dibattito tedesco-europeo, sfruttando, – ancora una volta: direttamente ed indirettamente –, le suggestioni che potevano provenire, se emancipate da moduli e criteri di ricezione unilaterali, dal cimento sul fronte della psicologia di un Herbart o di un Wundt, – considerati nel cospicuo ruolo propulsivo rispetto a tutto un filone di ricerca –, ma anche di un Mach o di un Brentano, primariamente in ordine all’interazione di esperienza e cultura, appresa quale mutante storicamente giusto in virtù del peculiare formato di ‘organismo’24 (quest’ultima nozione sarà, poi, oggetto di peculiare risemantizzazione). Chiaramente, la riflessione labrioliana non va corrisposta esclusivamente alla complessività di tale conseguimento, ed occorre, piuttosto, cercare di cogliere come essa arrivi a collocarsi su un versante opposto rispetto alla fallacia che compromette radicalmente opzioni teoriche come quella di un Lange, la quale, per esempio, comporta l’equiparazione, – di genere, in fin dei conti, ‘offrente il fianco’ all’empirismo –, della ricognizione dell’organizzazione dei referti d’esperienza, – di cui pur viene avvertito, benché con un certo, paradossale grado di generalismo, lo statuto plurifattoriale e logico-specifico interno, non predicabile linearmente nei termini ‘puri’ della sua organizzazione –, con l’espulsione del dialettismo, a fronte della esigita ed infirmante recessione della teoria nei riguardi delle cause naturali25, avente come inevitabile péndant l’adesione ideologica al normativismo. Ciò è reso possibile proprio dall’approfondimento – centrale nel triennio ’71-’73, e perciò testimoniante il tratto di avanzatezza della riflessione di codesta fase – della misura teorica secondo cui occorre rifuggire dalla tendenza – comune a molte varianti dell’hegelismo e del kantismo, anche se in maniera differente – ad insterilire opposizionalmente il rapporto soggetto-natura, riconoscendo in esso, altresì, per prima cosa, la realtà complessa del divenire. In definitiva: portando

avanti le indicazioni spaventiane, Labriola invera l’‘epocale’ conseguimento da parte di Hegel della convergenza inscindibile di divenire e primato della mediazione, respingendo il privilegiamento esclusivo di alcune valenze della sua concezione (così dimostrando un intrinseco, – e però, tutto da verificare26 –, elemento di lucidità euristico-filologica), e, parimenti, ‘facendo leva’ sulla forte critica al dualismo propria dell’ottica kantiana (senza, tuttavia, con ciò impedirne lo sfruttamento finalizzato di alcune componenti concettuali). Palmare è, in merito, l’immagine che in Della libertà morale viene fornita della retroazione delle finalità dell’uomo sul quadro in cui sono calate ed operano: «La coscienza di questa attività sua si riflette nella rappresentazione di quello che dapprima appariva come impenetrabile unità della serie dei fenomeni, e impronta in essa lo stesso suo carattere di volontà e di elezione. Quello che c’è c’è, si cambia nel concetto: quello che c’è, è stato voluto»27. Il retroagire ed il convertirsi di finalità e spazio oggettivo-strutturale si manifesta quale congruente all’idea, già implicita nella Risposta allo Zeller e che comincia a profilarsi esplicitamente nella memoria su Spinoza del ’66 (pure in guisa di ‘presa di distanza’ dallo specifico spinoziano), di un mondo in cui la mediazione scorre tra le forme, riproducendole e differenziandole ulteriormente, percorrendone ed esaltandone la particolarità. Dunque, Labriola appare avere chiaro, sin dalla fase in discussione, che la sincronia delle forme va sottratta ad ogni unilaterale contrazione, e connessa al ricco ritmarsi del «sistema delle cause e degli effetti», al complicato attraversamento della «serie dei fenomeni» da parte delle tensioni soggettive intrinsecamente convertentisi nella costruzione di una morfologia oggettiva. Morfologia esigente di essere corrisposta all’attrito ed alla densità ‘vitale’ della molteplicità delle cifre epistemiche, dei linguaggi scientifici.

3. Il significato del “Socrate” Non è chi non veda come si tratti di un orientamento che pervade integralmente la monografia scritta nel ’69 ed edita nel ’71 su Socrate, motivando la scelta verso tale figura in qualità di esemplificativo riferimento critico-storiografico. Infatti, per Labriola, Socrate diviene l’‘idealtipo’ originario di colui che, contro all’atteggiamento sofistico tutto imperniato sulla enfatizzazione dell’arbitrio della coscienza, reagisce «con la sicurezza del metodo»28 (senza, però, ricurvare sul fronte dell’esclusivo privilegiamento di esso). In altre parole, il nostro autore sembra optare verso lo studio delle sorgenti del pensiero occidentale per provare a verificare geneticamente quell’incrociarsi di filosofia e scienza speciale che nel moderno troverà il culmine. D’altra parte, il pensiero socratico viene ricostruito – tramite Senofonte – in un quadro di sviluppo della filosofia che non procede per via meramente cumulativa, di sistema in sistema. Egli, piuttosto, tematizza il vincolo della mobilità dei saperi con il reticolo differenziato dei rapporti di forza, ove la presenza di determinate di regolarità e l’immanenza del dinamismo conduce a considerare il costante immedesimarsi di prassi e concetto, che il Cassinate corrobora focalizzando originalmente il ruolo propulsivo della Strebung e della Bestrebung su cui cade l’accento della psicologia herbartiana. A retroterra della attenzione verso l’antisofismo socratico v’è il motivo della contestazione del ‘mito’ del ‘libero arbitrio’, rimarcato a cominciare dallo scritto su Spinoza. Questo rifiuto dell’ideologia umanistica, sfruttando anche il riferimento ad una delle figure centrali della sua tradizione, diviene il grimaldello per indagare il pluralizzarsi della ‘ratio’ moderna. È interessante notare che il volume su Socrate si inscrive, non meno degli altri testi del periodo cifrato dalla interlocuzione con l’herbartismo, nella dimensione europea, convergendo, per alcuni versi, sia pure recando presupposti differenti ed alternativi, con l’indirizzo concettualista che era prevalso, per esempio, nella stessa storiografia filosofica di ispirazione neokantiana. Suggestioni di tal fatta si tengono, però, sempre con la ricezione degli aspetti che, da Herbart in poi, fermo restando un certo distacco dall’hegelismo, configurano un distanziamento dal kantismo medesimo, specie per quanto riguarda il formalismo etico (si persi alla riflessione di Hartenstein), insistendo sulla incidenza dei processi psicologici in quanto corroboranti la concretezza del giudizio etico, intesa proprio in guisa di predicato indicante, entro la presente ottica, l’inassimilabilità puramente normativa del medesimo operare dell’imperativo, in maniera da esibirne la sporgenza di contenuto29.

Pensare la complessità del reale in ordine alla differenziazione cognitiva, fuoriuscendo dalla idealizzazione della libertà ed intendendola come vincolata alla obiettività della trama delle reciproche connessioni che ‘fanno’ il mondo: sta in ciò il problema cruciale del Labriola di questi anni. La teorica herbartiana dell’equilibrio morale, – desumibile, poniamo, dai testi come Lehrbuch zur Psychologie e Psychologie als Wissenschaft –, in quanto correlata all’identificazione dell’umano con lo Zeitliches Geschehen, viene recepita, in particolare, attraverso la considerazione dell’ambito psicologico come governato da un sistema di simmetrie ed asimmetrie tra forze che esigono di venir classificante30, e che, soprattutto, possono essere declinate lungo la direttrice di un radicale antisoggettivismo.

4. Ancora sul problema dell’integrazione della linea Humboldt-Herbart con l’hegelismo: alle origini dell’analisi dialettico-genetica Coerente a tutto ciò è il plesso di appunti preparatori all’esame di libera docenza – proposto per la prima volta da Dal Pane31 – dedicato al tema Se l’idea sia a fondamento della storia, che rappresenta un momento di iniziale, esplicito avvicinamento al campo della filosofia della storia. Esso fu oggetto di un altro ripercorrimento critico in un luogo rilevante della Prolusione, laddove Labriola rammenta come la «disputa» fu sostenuta «con il prof. Vera» su un argomento da lui prescelto, provvedendo, poi, ad aggiungere in nota: «Nello scrivere estemporaneamente su cotesta tesi, e nella disputa che ne seguì, respinsi l’ipotesi inclusa nell’enunciazione, contrapponendo all’Hegel l’Humboldt, e lo Steinthal che ne deriva, e usando del Lotze, di cui avevo allora piena la mente»32. Bisogna subito mettere in guardia il lettore dall’intendere queste parole di sapore autobiografico come contraddittorie rispetto alla tesi che qui stiamo cercando di argomentare, ovvero quella dell’intreccio, problematico e dai toni spesso antiirenistici, fra la tradizione di pensiero e ricerca che proprio da Humboldt si diparte ed il tema dialettico, atteso in quanto propulsivo della piena ‘scoperta’, per così dire, del ‘continente-storia’ conseguita in relazione al marxismo. Osserviamo: non è casuale che Labriola si riferisca alla lezione originante di Humboldt piuttosto che a Herbart, quasi a volere marcare con ancor maggiore forza le difficoltà e le molte accentuazioni interne ad un siffatto raffronto di linee. Vero è che se assunta sine glossa l’affermazione compiuta dal nostro sedici anni dopo appare scorretta sul piano filologico33, ma sollecita una riflessione ‘di ampio raggio’ coinvolgente proprio i medesimi contenuti della Prelezione. Giacché, in tali appunti emergeva, anzitutto, l’eco della steinthaliana Allgemeine Ethik, e non si potrebbe spiegare eludendo tale opera e, in generale, il filone della Völkerpsychologie, – vi abbiamo adombrato in precedenza –, la generale, e pure successiva trattazione del motivo delle ‘neoformazioni’. Secondo Steinthal il fattore della casualità permea il regno naturale ma non quello umano, onde occorre distinguere tra Erkenntnis e Beurteilung. In questo secondo ambito Steinthal non esclude la presenza di una componente oggettiva che va discriminata dai sentimenti di genere ‘patologico’, cioè puramente egologici, e che dà luogo a «proposizioni linguistiche o piuttosto a giudizi logici con soggetto e predicato»34 attinenti alla plurirefenzialità del Formverhältnis, incline tanto verso la condizione inconscia (unbewusst) delle forme ideali nel segmento animale, quanto verso la, consaputa o inconsaputa, presenza di esse

nello spazio dello spirito. A tale proposito Steinthal avanza l’esempio della duplice ‘vitalità’ della grammatica, oggettiva per il parlante e soggettivoconsapevole per il grammatico, mettendola in parallelo alla duplice incidenza delle forme ideali in senso potenziale ed in senso normativo. La cosa illumina uno strato profondo della struttura epistemica che oltre a distribuirsi sul polo descrittivo coinvolge, nondimeno, giusto quello della conversione dell’inconsaputo nel consaputo. A fronte di una simile misura di acquisizione delle forme ideali, l’uomo coopererebbe con il principio creatore (macht sich… zum Genossen des Schöpfers) esplicantesi nel valore di esponenziale individualizzazione ed interdipendenza delle Produktionskraft, comportando l’invigorimento vitale delle relazioni etiche, sì da riproporre l’ambivalenza bewusst-unbewusst, ma anche da configurare la possibile definizione di una fascia di socializzazione costantemente estendibile. Questa viene intesa come ripugnante ad ogni variante della irreggimentazione statuale e pervasa dalla intrinseca «energia della eticità»35, la quale maturerebbe attraverso la perdita di parzialità e la sempre maggiore assunzione costitutiva di un preciso tratto di appropriazione formativa. È noto che ad un inquadramento del percorso autoregolativo del genere umano di tal foggia il Paul obiettò contestandone l’idea di stratificazione dei livelli di senso in relazione a quella della compenetrazione diretta fra sfera sociale e dimensione dello spirito36, ma esso, nel suo caratterizzante contenuto tensivo di formatività, apriva significativamente al nodo della unificazione del momento della vivificazione ‘storico-politica’ con il piano ideale37. Il punto è che il confronto con tale nodo conduceva, curiosamente, alla ricentralizzazione del nesso con Hegel, a muovere, però, dal colloquio con le impostazioni epistemologiche culminanti nelle ricerche sviluppanti aspetti del Völkerpsichologie e, in particolare, le sue radici humboldtiane. Si trattava, cioè, di un tipo di confronto agganciantesi direttamente alla stessa polemica condotta nella Risposta a Zeller nei riguardi dell’ortodossia idealistica che, con il suo ossificato apparato concettuale, aveva motivato, per controspinta, l’insistenza sul polo del kantismo38, importando, per la cultura dialettica, l’obiettivo di riacquisire espansività allargando la gamma interlocutoria, nonché recuperando nuovi, ulteriori spunti critici. Obiettivo che ci sarà dato constatare appalesarsi nella recensione a Vera del ’72. In definitiva, a quest’altezza, Labriola si poneva il compito di addivenire ad una sintesi tra Humboldt ed Hegel, puntando a sfruttare le tesi del primo ai fini di dimostrare la complessiva efficacia e lungimiranza di quelle del secondo. Argomenta Labriola: «Il problema delle idee nella storia è stato per la prima volta nettamente formulato da G. di Humboldt. Egli dice: nella storia non

importa sapere i fatti, questa cognizione è semplicemente cronaca. Quello che ha prodotto i fatti sono le idee – etiche-estetiche-religiose etc. – e queste segnano il valore dei fatti stessi. La storia non è svolgimento di una legge (naturale) ma l’esposizione di un valore, e come le idee sono il principio, così esse seguono il fine della storia. G. di Humboldt, secondo la felice caratterizzazione dello Steinthal, lavorava tumultuariamente, sicché questa rivelazione geniale di lui non ebbe il risultato di produrre una filosofia della storia. Né a far ciò gli fu di ausilio l’idea per sé assai feconda del metodo genetico. Humboldt infatti non riuscì a determinare la relazione fra le idee e la storia, perché gli mancava […] la cognizione sistematica della posizione del problema»39. A ben vedere, la posizione di Humboldt ha da essere collocata proprio alla sorgente genealogica della critica alla nozione finalistica della ‘filosofia della storia’, secondo una linea precisatasi, nei risvolti sostanziali, ‘a più riprese’, tra il 1791 ed il 181840.

5. La posizione di Humboldt sul problema della ‘filosofia della storia’ e l’orientamento di ‘integrazione dialettica’ labrioliano Con spirito problematico, in Sulle leggi dell’evoluzione delle forze umane, proprio del ’18, Humboldt ricorre allo Standpunkt del philosophische Geschichtsforscher anziché a quello dello storiografo, problematizzando la pretta legalità storica anziché l’opzione dell’appiattimento evenemenziale, diremmo oggi, rispetto alla legalità naturale, – così come sottolineato nelle note labrioliane –, ed interrogandosi, vieppiù, sulla possibilità della ‘filosofia’ a fronte della corrispondenza reciproca fra il campo dell’umano e le forze ricongiungibili all’individualità. In tal maniera Humboldt reimposta il generale problema kantiano espresso in Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürglicher Absicht. Di qui, attraverso la direttrice rassodata nella celebre Betrachtungen über die Weltgeschichte del 1814 e nelle successive Betrachtungen über die bewegenden Ursachen in der Weltgeschichte, Humboldt mette a questione la ricostruzione del principiamento e dello svolgimento, ad impianto universale, della vicenda del genere umano. Egli si preoccupa, primariamente, di respingere la declinazione astratta ed intellettualistica della Weltgeschichte e, parimenti, di evidenziare come questa non sia da intendersi quale governata dal principio normale di unificazione fisico-meccanico newtoniano, come chiarito già nel 1791, ma debba venir rapportara all’influenza delle «forze reali», per ricorrere al suo stesso lessico. Egualmente, Humboldt contrasta la rappresentazione del soggetto in quanto, in accezione determinata, ‘soggetto-oggetto’ della storia qualificata nel senso del ‘culturalismo’, e quindi come incardinata sulla cognizione ‘progressista’ del tempo storico. Donde l’esigenza, massimamente esplicitata nelle Betrachtungen del ’14, di portare l’attenzione non sulla idealizzata incidenza delle causalità finali, bensì sulle «cause motrici»41 attraverso le quali dare ragione del costitutivo carattere di possibilità del tempo storico, ove molteplicità ed intero, ma anche rilevabilità di uno spazio normale e struttura differenziata del reale si intrecciano irriducibilmente42. E tuttavia: la rottura col finalismo connotante la posizione humboldtiana non equivale all’esclusione tout court del perfettismo illuministico (diversamente da un aspetto sostanziale del pensamento hegeliano che trapassa in Labriola), il quale vien ridefinito, altresì, nel suo contenuto grazie al coglimento della complessità sensibile-spirituale concentrantesi nella individualità considerata, certo, entro i vicendevoli nessi del plasmarsi della Bildung. Tutto ciò, in virtù della mai definitiva concludibilità di quest’ultima, combinatamente alla presa di distanza

dall’ipotesi del conseguimento della prevalenza della ‘seconda natura’ sulla ‘prima’ e, parimenti, specialmente, alla completa, – e, ci pare, fallace –, reintegrazione del primato della kantiana ‘ragion pratica’43. Ne viene, d’altra parte, che la riaffermazione di esso primato non si elide con alcuni cospicui motivi di critica al ‘Dracone della Germania’44, – in certa maniera convergenti proprio con il formulatore di tale connotazione –, ma ciò non conduce a nessuna forma di aggancio diretto all’ottica hegeliana, la quale, realiter, – di contro alla comune esemplificazione in chiave teleologica, e come verrà recepito con assoluta lucidità da Labriola (in ciò consterà uno dei focus fondamentale del nostro discorso) –, pensa, appunto, strategicamente la formazione relazionale e discreta del tempo storico (articolato secondo la costituzione oggettiva del ruolo di soggetti il cui grado di variabilità e/o costanza s’inscrive per entro la costruzione mediativa della compenetrazione del tempo storico con la estremizzata visualizzazione dell’orizzonte del finito45). La cosa si spiega considerando come Humboldt non pervenga ad una organica concezione in ordine alla questione, – comunque sia, al di là della sua perspicua modulazione, fortissimamente avvertita, ad esempio, in uno scritto come Über die Aufgabe des Geschichtsschreibers del 1821 –, del rischio della sconnessione tra storia ed empiria (implicata, d’altro canto, alla sua critica allo storiografismo) e della ‘costruibilità’ dell’oggetto storico46. E si capisce anche in che senso Labriola, partendo dalla meditazione sui limiti e sulle suggestioni della matrice humboldtiana, trovi occasione per riallacciarsi alla lezione della filosofia della storia hegeliana: essa si incentra tutta sull’unità della storia dantesi proprio attraverso l’estremizzazione della sua complessità, richiamando al vincolo, – e non alla divaricazione ‘positivo’-congetturale –, di ‘fatto’ (in accezione non rozzamente empiristica) ed ‘idee’. Tale vincolo risulta definito secondo la costruzione obbiettiva della mediazione, segnando l’implicazione reciproca e la continuità (non assumibile con accezione deterministica) del cammino differenziato del genere umano con la dimensione della ‘universalità concreta’. Hegel, arriva, in definitiva, «a risolvere […] il problema su la relazione fra i fatti e le idee» poiché per lui non si tratta di avere belle e pronte le idee per poi vedere come esse si manifestino, si svolgano, e si applichino, ma lo svolgimento stesso della storia nella sua realtà e concretezza è la rivelazione del fine ideale umano […] La filosofia della storia non è uno schema astratto, ma la reale esposizione della storia dal punto di vista speculativo del processo ideale47.

Una simile rappresentazione dell’angolatura teorica hegeliana sembra, in certa maniera, consentirci di rinsaldare il momento genetico a quello dialettico, che troveremo legati compiutamente con l’approfondimento della riflessione sulla concezione materialistica della storia, e la cui combinazione, tuttavia, stando al periodo della elaborazione labrioliana in esame, risulta già delineata in virtù di una precisa finalità di riqualificazione concettuale. In Hegel, nel recupero di espansività del suo pensamento, il Cassinante identifica, – sia pure in un quadro non privo di spencolamenti (l’inclinazione ad una restituzione stremamente ‘speculativa’ di esso, resa oggetto di parziale discrimine) –, e continuerà ad identificare proprio l’alternativa maggiore ad una accezione forviante del dialettismo innescante il capovolgimento di evoluzionismo e meccanicismo in fondazionalismo, e viceversa. Capovolgimento basato sulla presupposizione di un principio ideale-sostanziale di cui il ‘divenire’ non sarebbe che l’epifenomenico dispiegamento48. Giacché, il filosofo di Stoccarda sarà sempre per il nostro il filosofo capace di considerare il reale in qualità non di presupposto ma di risultato del processo mediatore ad esso immanente, che la nozione di dialettica è preposta a restituire. In definitiva, cioè, è lecito avanzare l’ipotesi secondo cui gran parte del confronto con la linea che da Humboldt si diparte, svolgendosi anche coinvolgendo la psicologia di taglio herbartiano, venga condotto da Labriola sottendendo tale perspicua accezione del reale, vocata al dispiegamento nella unità storica rispetto a cui la ricerca condotta al lume dell’apparato categoriale marxiano consentirà un più avanzato livello di concettualizzazione. Si tratta di un approdo che, del resto, appare anch’esso in nuce entro la fase che stiamo considerando, come corroborato della dichiarazione che segue: Io accetto come fondamentale per la filosofia della storia – dice Labriola – l’esigenza hegeliana del riconoscimento dell’unità storica, e rigetto l’obiezione di coloro che rimproverano ad Hegel di avere introdotto arbitrariamente il concetto di unità della storia.

Certo, – lo abbiamo appena osservato –, Labriola negli appunti in questione tende a distanziare, in termini di ricognizione analitica, «il concetto dialettico del necessario passaggio da una sfera ad un altra»49 dallo specifico genetico, ma, oltre alla misura di una apposita ‘integrazione’50, presiede al suo ragionamento l’intento di superarne l’eventuale riconduzione ad antinomia, ed anzi di statuire un asse di scorrimento continuo tra articolazione plurale-modulare della realtà, attesa nelle sue potenzialità irriducibili univocamente, da un lato, e piano

sistematico, da un altro51.

6. I problemi posti dalla Sprachwissenschaft. Un intermezzo In merito a siffatto plesso di problemi potrà, forse, essere d’aiuto consentirci una breve ‘incursione’ concernente la riflessione sul linguaggio entro la linea Humboldt-Steinthal, attesa nella problematica interlocuzione con lo Standpunkt hegeliano; incursione riconducente alla prismatica ed, insieme, unitaria posizione di Labriola. Una simile scelta argomentativa dipende, anzitutto, dalla rilevanza che il motivo del ‘linguistico’ assume entro la presente direttrice di ricerca teorica (si pensi anche alla discussione da parte di Paul delle tesi steinthaliane), e che potrà esercitare una sorta di funzione ‘reagente’ per il generale proseguo del discorso. Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche, nella prima sezione dedicata alla ‘filosofia dello spirito’, incentrata sulla tematizzazione dello ‘spirito soggettivo’, anzitutto riguardo alla possibile determinazione ‘psicologica’ dello stesso ‘spirito teoretico’, il linguaggio vien precisato in qualità di «espressione più completa» dello spirito stesso52. Non si tratta, però, di una indicazione in sé compatta, poiché essa va rapportata tanto alla composizione intellettuale di detto ‘linguistico’, – attestata dalla sua precipua valenza cognitiva e della sua costituzione formale (coincidente con l’apparato grammaticale) organizzata categorialmente53 –, quanto alla connotazione antropologico-sensoriale e, più precisamente, psicofisiologica di questo, – attestata dalla fenomenica fonica dei singoli lessemi, definenti, appunto, il ‘materiale’ del linguaggio54. Di qui, sorge il nodo della afferente determinazione storica, che, tuttavia, esige di essere problematizzato in relazione alla mancata simmetria (che pure ci si dovrebbe aspettare, come osservato nella Introduzione alla “Scienza della Logica”) tra il livello culturale dei popoli ed il grado di articolazione del sistema grammaticale delle loro lingue. Di tutto ciò Hegel è consapevole, come evidenziato dal riferimento nella Enciclopedia55 al saggio humboldtiano del 1872 sulla questione del duale (Über den Dualis). La cosa rende problematica l’idea stessa di ‘storia della lingua’, ma, nonostante ciò, non indurrà in alcun modo il grande tedesco ad abbandonare quella d’insieme dello statuto preminentemente intellettuale del linguaggio (la quale, tuttavia, mai scade nell’intellettualismo, chiaramente), che ne giustifica il ruolo di ‘termine medio’ tra pensiero e rappresentazioni fenomenico-sensoriali. Una simile convinzione trova a suo corollario la individuazione della componente nominale in qualità di elemento universale di accesso ai contenuti concettuali che, – stante il generale impiego del giudizio logico sia nella posizione di soggetto che di predicato unibili dalla

copula –, rivela un aspetto di ambivalenza tendente, tuttavia, a render prevalente l’elemento predicativo-universale rispetto a quello del supporto soggettivoindividuale56. Tale soluzione configura una ipotesi congruente con l’intento del superamento del dualismo fra soggettività ed oggettività, – autentico obiettivo critico del pensiero hegeliano rispetto a Kant, pienamente recepito da Labriola –, che, tuttavia, a parere di alcuni, riscontrerebbe un concreto limite, – dovuto, fra l’altro, ad una insufficiente strumentazione epistemica in proposito –, consistente nel ricadere sul fronte della comunque intellettualistica ‘proiezione verso l’esterno’ (la congiunzione di un soggetto indeterminato con il predicato concettuale), definente, anzitutto, un’incongruenza – limitata quanto tangibile – rispetto alla ‘intensità’ del processo di costruzione oggettivo-razionale. Un limite che verrà ad essere, comunque, superato del tutto, per ciò che attiene alla sua generale cifra concettuale, attraverso la collocazione – compiuta da Marx e, poi, con maggiore esplicitezza, da Gramsci –, sul versante della ‘filosofia della prassi’, atteso come terreno scientifico della traducibilità dei linguaggi57. Quanto appena detto interessa, però, prevalentemente la giovanile critica steinthaliana alla opinione di Hegel sul linguaggio58. Essa si trova esposta nel notevole volume, del 1848, La filosofia della lingua di Wilhelm von Humboldt e la filosofia hegeliana (recensito – lo si è già segnalato – da Spaventa ne “Il Cimento”)59. In tale sede il termine della convergenza Hegel-Humboldt viene fissato nella comune convinzione circa la identificabilità del piano della ricomposizione con quello della storicizzazione. È solo attraverso un simile principio che, – Labriola mostra di esserne pienamente persuaso sin dalla Risposta a Zeller –, è possibile accostarsi unitariamente alle regioni dei saperi particolari senza annebbiarne i confini e la specificità. Scrive Steinthal: La conoscenza più profonda di Hegel è che la filosofia è storia filosofica […] cos’è altro mai la sua filosofia della religione se non storia della religione? E la sua filosofia della scienza se non storia della filosofia? Illustra egli forse la storia dell’arte al di fuori dell’arte reale? Una forma assoluta della religione al di fuori delle religioni veramente date? Filosofia è storia dello sviluppo delle idee: ce lo teniamo bene a mente e così ci caviamo d’impaccio anche dagli errori di Hegel60.

Congruentemente alla intentio di queste parole, Steinthal cercherà di applicare l’ottica logico-storica desumibile dalla prospettiva hegeliana in relazione alla critica di essa. Al suo centro vi è, per quanto concernente la sfera della teoria linguistica, la questione del giudizio logico disposto nell’alveo della medesima determinazione logica d’insieme dell’ambito soggettivo, e, dunque, della

‘rifrazione’ in esso della attribuzione predicativa del pensiero, avente carattere squisitamente obiettivo-concettuale. Il rischio che Steinthal avverte è quello del ripiegamento sul fronte di un dialettismo prefigurante il proprio esito, secondo un’immagine, tanto erronea quanto diffusa, tendente a leggere l’impostazione hegeliana quale cifrata da un’accezione semplice del finalismo e da una certa variante dell’organicismo. Il vero fattore di bilanciamento di questo ‘presunto’ condizionamento negativo viene, di qui, individuato proprio nella prosecuzione del ‘metodo genetico’, seguendo e portando innanzi una peculiare intuizione humboldtiana esplicata, via via, sempre più, nella ricerca sul linguaggio (ne è prova il fatto che mentre nel saggio del 1848, per esempio, il problema della distinzione tra popoli ‘storici’ e ‘non storici’ si trova escluso in ordine alla unità di esperienza e pensiero, in un testo come lo scritto del 1863 Filologia, storia e psicologica nei loro reciproci rapporti, essa viene rilanciata attraverso un raffinamento analitico, – pensiamo alla distinzione aggiuntiva tra popoli ‘non storici’ e ‘preistorici’ –, produttore di certune ulteriori aporie che indurranno lo stesso Steinthal a ripristinare la tesi iniziale61): Può darsi comunque – scrive Steinthal – che Humboldt qua e là non avesse una visione abbastanza chiara e compiuta dell’autoarticolazione del contenuto, ed è proprio compito nostro, di noi, suoi seguaci, di integrare la sua visione: ma il suo metodo non è perciò meno l’unico vero, quello genetico che sta a guardare la storia del contenuto, il suo scindersi e il suo ricomporsi da sé62.

Ora, vi è da dire che per quanto riguarda lo specifico della teoria del linguaggio Labriola (che in gioventù si interrogò se intraprendere gli studi di linguistica) sembra assumere, anche nella fase del dialogo con l’herbartismo e con la Volkerpsychologie, il fattore linguistico all’insegna della sua declinazione in qualità di luogo di riverbero della sedimentazione di una Weltanschauung storicamente determinata, – pensiamo alla trattazione nel Socrate dell’argomento relativo al processo storico di formazione coscienziale in quanto avanzamento rispetto al mero fattore psichico, la quale ne coglie il riflesso diretto nella «lingua, che nell’epoca delle tradizioni primitive e della poesia popolare esprime per tutti egualmente dei criteri costanti di valutazione, e che conserva nelle epoche posteriori l’apparenza di una norma alla quale tutti gli individui debbano necessariamente ed inevitabilmente adattarsi»63 –, ponendo già premesse feconde, anche se circoscritte, per la riflessione marxista sul linguaggio64. Se si allarga lo sguardo al complesso del suo percorso di riflessione teorica è agile conseguire come livello dialettico e livello genetico tendano a saldarsi, –

malgrado il configuarsi di talune fasi di tendenziale divaricazione (si faccia riferimento all’esempio palmare della Prelezione) –, acclarando il «giro di idee» nella quale egli da «sempre […] pensatamente» pensava. Ciò sottende una interpretazione del ‘nocciolo duro’ del pensiero di Hegel in quanto non riproducente il dualismo, – così come, invece, aveva voluto Steinthal –. Interpretazione che, in potentia, potrebbe favorire, con le sue implicazioni, una lettura maggiormente compiuta dello strutturarsi storico-universale del linguistico, dislocando il suo valore di mediazione (nello specifico della analisi di Hegel in merito, tra concettualizzazione e materiale fenomenico) all’altezza di una misura di prosecuzione del medesimo, complessivo discorso sul raccordo fra struttura logico-storica e densità epistemica. Esso consente di far emergere la costituzione regionale delle forme ove arrivano a fusione le soluzioni di tipizzazione comunicativo-concettuale con l’incidenza del processo di socializzazione (la loro determinazione storica dei linguaggi naturali configura la efficace esemplificazione di un possibile ur-paradigma). Ne viene che uno dei caratteri decisivi di tutta la strategia teorica labrioliana consta nel corrispondere all’obiettivo di stringere la ‘vicenda’ del ‘contenuto’ con l’indagine della morfologia storico-reale, evidenziandone le costitutive determinazioni formali, lo statuto mediativo e la mobile impalcatura logico-storica. Una simile operazione, – che certo si basa sulla ricezione di numerosi e variegati stimoli, a cominciare da quelli di matrice stenthalina e collegabili alla Völkerpsychologie –, richiederà, però, il conseguimento, con intento ‘de-speculativizzante’, della misura di storicizzazione genetica, – che Steinthal cerca di rivolgere contro Hegel, mirando ad enfatizzare una ‘presunta’ contraddizione entro il percorso di questi –, in quanto implicata al versante della ricomposizione teorica (rispetto alla cui istanza Hegel medesimo definisce un punto di inusitata intensità, che deve essere fatto scorrere, in senso generale, verso il polo marxiano e – aggiungiamo da par nostro – proprio verso il campo della soddisfacente ‘traduzione dei linguaggi’ indicata da Gramsci65). Su questa via, il momento della ricomposizione non andrà mai ‘indebolito’ in chiave ‘postulatoria’. La ripresa della nostra indagine cercherà di corroborare l’indicazione di siffatto, cruciale aspetto.

7. La recensione a Vera del ’72 entro la fase di interlocuzione con l’herbartismo Evidentemente, il discorso viene a fare corpo con la tematica dell’infittirsi dei saperi speciali e del loro declinare la struttura epistemica del moderno in un vincolo di surdeterminazione reciproca alla comprensiva morfologia generale. Ne è prova, crediamo, pure, benché lateralmente, l’argomentazione condotta nella citata recensione del ’72 alla Introduzione alla filosofia della storia di Augusto Vera (raccolta di lezioni di cura di Raffaele Mariano, uscita nel 1869), comparsa nel decimo volume della Zeitschrift für exacte Philosophie im Sinne des neuern philosophischen Realismus, a cura di Allihn e Flügel. Il criterio con cui in essa viene fissata la distinzione tra metodo genetico e metodo speculativo va letto – badare bene – come orientato dall’intento della valorizzazione della produttività dell’hegelismo. In tale senso si trova ripreso il motivo spaventiano dell’oltrepassamento della sua sclerotizzazione ‘ortodossa’, – in grado di intendere solo «molto superficialmente»66 il pensamento del maestro di Stoccarda, irrigidendolo nella dottrina di ‘bramani’ specularmene opposti alla ‘scolastica’ giobertiana67, e importando, quasi per controspinta, l’esigenza di conseguire una sorta di ‘terza via’ fra ‘idealismo’ e ‘realismo’ fondata sul vincolo fra «ragione oggettiva» e «libero pensiero della mediazione»68 grazie al quale il finito venga posto come tale e risultato69 in ordine alla sua infinita articolazione –, in qualità di tramite per un approfondimento sempre più improntato a fuoriuscire dalla cristallizzazione ‘alla moda’70 della filosofia della storia in chiave speculativo-metafisica, attuata sulla scorta di una riduzione lineare ‘di comodo’ («qualcuno s’immagina che si possano prendere i fatti del sapere storico, alla cui ricerca critica ed elaborazione scientifica tante discipline si affaticano, e con un paio di parole magiche gettarli nel vortice dell’idealismo assoluto»). Labriola mira a svincolare il materiale teorico derivato da Hegel dalla secolarizzazione e/o enfatizzazione della ‘riserva escatologica’ rilevabile nella sua ottica, privilegiando, altresì, la struttura differenziata del movimento reale71 che egli squaderna tematizzando il nesso finito-infinito. Essa è da riconnettersi proprio al nerbo epistemico del campo conoscitivo. Struttura la quale – ci sembra opportuno aggiungere tale osservazione – si riarticola nell’autonomia delle cerchie speciali (di cui viene valorizzata la perspicuità cognitiva), definendo rispetto a ciò il luogo della ricomposizione. Si tratta di un argomento generale che costateremo fortemente ripreso proprio in uno dei contributi pensati

come funzionali alla marcatura dell’autonomia da molti motivi hegeliani, ovvero nella Prolusione, allorché ne risulterà colto l’integrale potenziale di rottura degli schemi seriali e di costruzione logico-storica discreta del campo temporale; correlando il rifiuto della semplificazione diacronica al congiungimento dei processi formativi con l’incidenza dei saperi speciali, – e così definendo, il principale risvolto della problematica epigenetica.

8. Da alcuni momenti di relazione con l’herbartismo e con la “Volkerpsychologie” alla Prolusione del 1887 Nel testo del ’73 Della libertà morale la sensibilità verso l’herbartismo si giustifica anzitutto in ragione della spiccata preoccupazione, da parte di Labriola, di insistere sulla costituzione composita del movimento reale, – già implicante una sorta di ‘presa di distanza’ dai moduli tradizionali dell’hegelismo in vista di un riposizionamento espansivo di questo, connesso strettamente all’indagine di concreti tragitti di modernizzazione –, puntando a far emergere, insieme, e connessamente, a quello naturale, il profilo prettamente storicosociale dell’umano, motivante la richiamata valorizzazione del raffronto fra ‘coscienza’ ed ‘autocoscienza’, condotta riprendendo alcune linee della eurisi spaventiana della Fenomenologia72 ed accordantesi, in sostanza, con la pluralità di sollecitazioni che il nostro recepisce dalla psicologia herbartiana, – passando pure, ancora, per la mediazione di Spaventa –, dalla Völkerpsychologie e persino da certuni elementi del kantismo tout court. Preludendo ad un finalizzato riuso del motivo herbartiano dell’equilibrio psicologico-morale e del plesso dei reali, Labriola arriva, quindi, a saldare l’aspetto dell’intreccio natura-storia con il designamento del ruolo dell’‘autocoscienza’, in uno scenario che in sé ricomprende il rifrangersi delle determinazioni riflessive: L’uomo ha […] questo di peculiare, che egli è coscienza, e non solo coscienza come l’animale, ma eziando coscienza riflessa; ossia coscienza che al tempo stesso è distinzione di sé da altro, e di sé da se stesso73.

Il nodo della ‘riflessività’ rinvia direttamente, com’è evidente, a quello dell’incidenza della mediazione, ed apre ad una prospettiva di nessi compresenti e di vicendevoli scansioni in cui s’inscrive l’intervento delle facoltà umane in rapporto al principio morale. Torniamo, così, al nodo relativo alla necessità di designare una perspicua alternativa al kantismo. Infatti, un simile contesto di legami obiettivi richiama all’interrogativo sulla possibilità di rendere effettivo il criterio morale e la eventualità dell’assunzione dell’attributo di concretezza oggettiva da parte di questo. All’interrogativo il punto di vista kantiano, la opzione formalistica che vi attiene, è incapace di offrire una risposta in grado di fuoriuscire dalla tautologia, e non può che limitarsi a fondere immediatisticamente volontà ed ‘a priori’ ideale (il cui risvolto simmetrico è definito dalla discriminazione ‘fatti’/‘finalità’, variamente riarticolata e su cui

dovremo, almeno indirettamente, tornare in seguito). Si tratta di un elemento denunziato anche nell’altro principale contributo del ’73, Morale e religione, laddove il Cassinate osserva: «idealità è concetto generico […]; e chi dice che la idealità è il principio della religione, della filosofia, della morale, dell’arte e dello stato, dà di certo nel segno, ma solo fino a che ei non faccia della idealità, che assume come principio, una anticipazione in re, la quale voglia chiamare originaria facoltà delle idee soprasensibili, apriorismo, cioè, che è una cosa con l’innatismo»74. Di qui, i due poli della conoscenza e della valutazione acquisiscono un particolare margine di influenza, poiché l’intervento, parimenti, di volizione e giudizio consente di oltrepassare le secche del formalismo acclarando come gli spazi di libertà si inscrivano in una cornice di tensioni molteplice-differenziata (all’opposto, del resto, in vero, della ‘cattiva infinità’ di stampo kantiano). Stando in tal maniera le cose, l’enfatizzazione del versante della conoscenza oggettiva (oppure: della ‘conoscenza adeguata’) già posto al centro della memoria su Spinoza, si congiunge ad una ricezione della gamma categoriale dell’herbartismo, e delle ricerche che ne sono derivate, dissociata dalle sue premesse kantiane in virtù, anzitutto, dello spezzamento dei confini fra ‘ragion pratica’ e ‘ragion teoretica’, in maniera tale che divenga possibile affermare la costante tendenza all’inclusione di ognuna delle due rispetto all’altra. Ovverosia: che divenga legittimo affermare la coappartenenza di indagine teoretico-scentifica e fattore della volontà, nonché il loro reciprocarsi costitutivo. Così, diviene legittimo dar ragione tanto dei modi oggettivi del ricambio natura-storia quanto, in inscindibile interdipendenza, dell’influenza della valenza di socializzazione della potenza storica, che il nostro arriverà a far coincidere con l’orizzonte mobile della prassi, plasmante l’ambito del finito, e di cui ora già si trova ad emergere il dinamismo configurato da variegate spinte propulsivo-regolative delineanti la molecolarità dei ‘rapporti di forza’75. Non a caso i due scritti della fase herbartiana del ’73 riconfermano ed intensificano la polemica autiumanistica, a partire della concezione della libertà. Labriola qui si cimenta proprio con il tentativo di sottrarla ad ogni possibilità di ipostatizzazione mitologica, calandone l’incidenza nell’articolazione del reale proprio attraverso lo scandirsi tensivo di una trama di rapporti ripugnanti a qualsiasi valutazione astratta: Davvero la teoria del libero arbitrio non è che il mito di questa possibilità: un mito filosofico e teologico, come tutti gli altri che sono nati da una scorretta esperienza della vita interiore; dalla fretta di concentrare in concetti generici gli stati reali della vita psichica; e dalla pretesa di attribuire a questi concetti generici una virtù generativa degli atti particolari dai quali sono stati astratti. La possibilità di una decisione opposta a

quella che s’è presa di fatti c’è come astrazione della nostra mente: ma non come elemento reale della decisione stessa, in quanto atto particolare: perché nessuna cosa o atto è se stesso più la possibilità sua. Ché se quella possibilità ha da essere qualcosa di più che una semplice possibilità, deve specificarsi in tanti e tali motivi efficienti, quanti possono essere i criteri pratici coi quali si valuta la decisione presa per la prevalenza degli appetiti: e qui sta tutto il problema76.

Lungi dall’appiattirsi sul corno della mera accezione positivistica77 della necessità, l’impegno del Cassinate è quello di rendere evidente la ‘genericità’ del formalismo soggettivistico (inteso a ricondurre il molteplice alla postulazione di una soggettività trascendentale-assoluta su cui verrebbe parametrato l’astratto riferimento normativo-imperativo). Così, – torniamo ad enfatizzarlo –, le forniture concettuali derivate dal campo dell’herbartismo vengono giuocate contra Kant, anche con l’obiettivo di focalizzare l’erroneità di un atteggiamento proteso ad asserire la esclusiva estraneità di episteme e volontà. «Kant» – ragiona il nostro autore – «fondava tutta l’etica sul concetto del dovere: sul semplice concetto cioè di quello che è il correlativo del comando espresso nell’imperativo […] Ma dove trovarlo questo volere, se nella sfera dell’esperienza tutto è determinato da altro, e qui si tratta appunto di un valore che non è determinato da niente altro che da se stesso? Questo volere non è dunque dato nella esperienza: e se la morale esige che ci sia, non gli rimane altro posto che la sfera extratemporale nella quale non c’è più causalità, perché il concetto di causa non s’applica che al fenomeno»78. In sostanza, Labriola esibisce la ammissione kantiana della divaricazione fra il campo dell’esperienza e quello della corrispondenza fra volere e piano assiomatico al fine di considerare la sottoponibiltà al processo scientifico-cognitivo – certo mai esaustiva (pena, altrimenti, la fallacia scientista) – di un insieme di spinte e controspinte, di disposizioni e reazioni reso, così, comprensibile nella sua ricongiungibilità ad un impegno precisamente motivato dell’argomento herbartiano della complessione dei reali. In tal maniera, l’istanza individuale viene ad essere collocata nello scorrimento permanente della trama delle determinazioni concrete, cioè lumeggiandola al di fuori dell’inclinazione alla ‘scomunicazione’ – per dirla con Spaventa – che inficia la elaborazione prima facie di tale argomento. Del resto, la penetrazione di questa trama costituisce il vettore della critica alla presupposizione di un soggetto trascendentale-assoluto proteso all’assimilazione per via imperativa del mondo. Recuperare il profilo perspicuamente critico della struttura epistemica (aprendo, in tal maniera, alla opportunità di scoprire l’intrinseca compenetrazione del suo impianto all’area storico-politica) significa, eo ipso, appropriarsi di essa in qualità di strumento

esiziale per la dissoluzione, in relazione alla pluriversa categoria di libertà, dell’ipertrofia soggettiva, concludente, – come abbiamo osservato –, alla esclusività dell’imperativo. Labriola, cioè, insiste, alla presente altezza, sull’idea per cui l’individuo reale non possiede sé stesso nella totalità sua, in nessuno dei momenti della vita stessa. Quindi nessuno può dire: io voglio esser libero (moralmente), e riporre in questa semplice volizione un reale principio di libertà; perché il voglio suppone il soggetto […] Ma l’individuo non è quello che è, solo in quanto io e volere: perché esso è somma di molteplici stati interni, e punto d’incontro di molteplici rapporti nella vita […]. C’è quindi nell’individuo una possibilità di molti coefficienti […] che concorrono a preformargli il valore morale: cosicché, se la responsabilità sua, rispetto al complesso dell’attività morale, non si può puntualizzare nel semplice atto dell’io voglio, di certo si specifica e si risolve in una […] molteplicità di momenti, i quali costituiscono in complesso la responsabilità reale79.

L’‘io’, assunto suo profilo di zeitliches geschehen, viene risolto nell’interdipendenza configurata dalla gamma delle mediazioni reali che l’indagine scientifica riclassifica di continuo grazie all’organizzazione epistemica corrispondente alla sua stessa referenza analitica, data dall’articolazione dei rapporti di forza del reale. Ciò appare chiarissimo in tutta la discussione sui metodi della scienza compiuta in Del concetto della libertà, e consente di leggere la convergenza di ‘scienza’ e momento della ‘verifica’ della costruzione differenziata di tale articolarsi, cogliendone la integrale continuità rispetto al pluralizzarsi della ragione scientifica esplicantesi nella organizzazione dei saperi speciali, in una condizione di compresenti rifrazioni strutturali sottendenti, intimamente, il prismatico affermarsi di percorsi di socializzazione e di appropriazione cognitiva. Ne deriva che il dialogo con l’herbartismo, con la psicologia tedesca – proseguito in seguito – di un Lotze o di Wundt (guardando ai suoi maturi conseguimenti teorici: pensiamo, oltre ai riferimenti precedentemente richiamati, ai Beiträge zur Theorie der Sinneswahrnehmung del ’56-’62), oppure, intensificando le considerazioni spaventiane, con il nucleo acquisitivo del darwinismo, ben distinto dall’inclinazione, inconsapevole quanto contraddistintiva, verso la facile metafisica delle tesi positivisticoevoluzionistiche (specie di ambito francese80), viene adempiuto anzitutto in forza della sostanziale intentio di, in qualche maniera, misurare la produttività dell’hegelismo (e in specifico, per Labriola: del relativo ‘bagaglio’ teorico) sul terreno della ricognizione degli specialismi, la cui indagine definisce il diretto precipitato dell’obiettivo, perseguito sin ‘da subito’, della critica decostruttiva

della logica soggettivistica, mirando a definire rispetto ad essa un’efficace alternativa. Con ciò, Labriola segna un punto di densità teorica massima a confronto, per esempio, di tutte le linee interne all’hegelismo di ambito napoletano81. L’immagine delle spinte e controspinte che costituiscono il reale e che vengono vertebrate pluralmente dalla mediazione, importandone l’intensiva diffusione, la cui visualizzazione rappresenta uno dei maggiori conseguimenti del tentativo labrioliano di ridislocazione teorica dell’hegelismo, arriva certo a toccarsi, muovendo da approcci assolutamente differenti, con alcune forniture peculiari della Völkerpsychologie. Si pensi alla posizione di Lazarus. Commentando Humboldt, nel celebre discorso rettorale del ’6382, egli riflette sul ruolo storico delle idee e del loro sviluppo dal punto di vista della psicologia, evidenziando come queste, pur pervadendo forme psicologiche particolari, non abbiano a saturarsi nella puntualità singolare dei contenuti psichici ma si dispieghino in un quadro, insieme, massimamente differenziato ed unitario di rapporti. In siffatto modo, le idee, mantenendo il loro incontro con l’ambito naturale, trovano il proprio profilo di autonomia nel dispiegamento di una legalità genetica sempre aperta e, parimenti, capace di mostrare intrinsecamente l’operari del Gesamtgeist. Nell’indagine descrittiva, mai precludibile nei suoi esiti, di tale dispiegato scenario consiste il primo e decisivo compito del ‘programma di ricerca’ della ‘psicologia dei popoli’83. Ciò viene declinato chiaramente nella distinzione disciplinare dalla sfera storiografica, ponendo ad oggetto della Völkerpsychologie la ricostruzione della legalità del divenire storico effettivo in relazione alla vicenda del genere umano in quanto Darstellung del mondo; considerandone lo sporgere fenomenico e, tuttavia, ricavandone paradigmi generali84. Osserviamo: se siffatto aspetto della fissazione di una legalità universale appare assai lontano dalla problematizzazione labrioliana, – la quale risulta, altresì, consapevole del rischio di un rovesciamento autocontraddittorio del progetto humboldtiano, secondo, magari, una sorta di contrazione in ordine al fattore delle ‘cause motrici’, e approderà ad una apposita rideterminazione della stessa nozione di ‘legalità’ –, d’altra parte, tale problematizzazione intende svincolare da ogni ipoteca metodologistica proprio il ‘nocciolo duro’ di una ricognizione genetica in grado di pervenire alla Darstellung della formatività della vicenda storica (corrispondibile ai modi di sussistenza del genere umano), affermando e penetrando il riprodursi intrinsecamente differenziato della mediazione storica. Si tratta di un filo conduttore che avrà a svolgersi con un carattere di forte autonomia e ricchezza, trovando nella Prolusione dello ’87 un passaggio

capitale. Ma prima di considerarne sommariamente il portato, è utile profondersi ancora in qualche argomentazione analitico-concettuale inerente il percorso che a questa conduce.

1

Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Labriola protagonista cit., p. 47. A. ZANARDO, Herbart e Schopenhauer, in Storia della filosofia, IX. La filosofia contemporanea.

2

L’Ottocento, a cura di M. DAL PRA, Vallardi, Milano 1976, p. 76 (la sintesi di ZANARDO costituisce, crediamo, in termini complessivi, uno dei migliori testi di introduzione al pensiero di Herbart). Ma sull’herbartismo cfr., inoltre, G. WEISS, Herbart und sein Schule, Reinhardt, München 1928; B. SCHWENK, Das Herbartsverständnis der Herbartianer, Beltz, Weinheim 1963; W. ASMUS, Der “menschliche Herbart”, Hemm, Ratingen 1967; M. B. DANKEL, Herbart and Herbartinism: an Educational Ghost Story, The University of Chicago Press, Chicago-London 1970. E, oltre agli studi menzionati, per quanto riguarda la ricezione in ambito italiano dell’herbartismo cfr. I. PICCO, Herbart in Italien, in «International Zeitschrift für Erziehung», 1941, pp. 222-228 e A. MESCHIARI, Per una storia dell’herbartsimo in Italia, in «Rivista di filosofia», 1, 1980, pp. 98-124. 3 Fra i testi spaventiani che toccano e discutono le argomentazioni di Herbart ci piace qui ricordarne alcuni: dal primario accenno compiuto nell’articolo Schelling, in «Il Cimento», Torino, ottobre 1854 (raccolto in Scritti inediti e rari (1840-1880), a cura di D. D’ORSI, Padova 1966, p. 47); alla recensione del volume di STEINTHAL, Die Sprachwissenschaft W. von Humboldts und die Hegel’sche Philosophie, Berlin 1848, in «Il Cimento», luglio 1855 (raccolto in Ibidem, pp. 60-65); alle considerazioni presenti nella monografia La filosofia di Gioberti cit., p. 60 e n. 425 e 426. Altre considerazioni di grande interesse sono presenti, poi, in Le prime categorie della Logica di Hegel, laddove leggiamo: «Trendelenburg, ponendo come principio il movimento, tanto si accosta ad Hegel, quanto si allontana da Herbart. La vera antitesi non è tra lui ed Hegel, ma tra Herbart ed Hegel. Herbart piglia per reale appunto, l’omogeneità pura, l’isolamento, la comunicazione (direbbe, credo, Tommaso Rossi), cioè il puro essere, la pura quiete: e considera come non vera realtà, sebbene come oggettiva apparenza, la comunità delle cose. Pare che per lui il mondo nella sua vera realtà sia come un gran Certosa; se i certosini parlano, cioè gli enti entrano in relazione tra loro, e vogliono davvero accomunarsi, la regola, cioè la realtà pura è offesa, e l’apparenza comincia. – Ciò è quanto dire: non ci è il Mondo: non si sono davvero altro che i certosini». Ed ancora: «Chiamano il sistema di Herbart Realismo in opposizione all’Idealismo. Hanno ragione; quello che prima si diceva realismo non è che una forma dell’idealismo. Il realismo di Herbart è il nuovo realismo. Idealismo vuol dire: il Principio, l’originario, la realtà, l’oggettività è la Relazione, l’Idea, la Ragione, lo Spirito, la Mente. In questo senso tutti i filosofi da Socrate ad Hegel sono più o meno idealisti. Realismo nel nuovo senso – nel senso di Herbart – vuol dire: il Principio, la realtà, è l’Irrelativo, la scomunicazione». Segue quindi questa conclusione: «rimane poi a vedere, se questo realismo merita realmente il nome che prende; se non sia esso stesso un astratto idealismo». (Opere cit., pp. 390-391). Nel testo del 1865, raccolto in Scritti inediti e rari cit., p. 106 e pp. 151-152, Spaventa si interroga: «come è possibile che da un fatto si vada a qualche cosa, che non è più semplice fatto, ma era il carattere scientifico della necessità e della universalità? […] Questo è un dipresso lo stesso problema di Herbart: dato il dato (e non si può che cominciare dal dato), come si procede ad altro?», e così risponde: «La Fenomenologia è confutazione dell’Idealismo e del Realismo parziali. La Logica fa lo stesso in altro modo». Quindi, «questa confutazione è l’essenza stessa del metodo». Invece, nelle Note sulla metafisica dopo Kant, in «Rendiconto dell’Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», 1873, egli osserva: «Nella metafisica herbartiana il soprasensibile è concepito in modo particolare e opposto alle altre forme della metafisica dopo Kant giacché i punti essenziali in cui essa consiste, sono: 1° gli enti o semplici reali (soprasensibili assoluti), 2° le relazioni (estrinseche) tra gli enti (soprasensibili relativi; giacché relazione vuol dire intuizione; e posta

l’intuizione, la soprasensibilità non è più assoluta: e ciò […] nel senso herbertiano, secondo il quale il vero soprasensibile è l’intellegibile senza intuizione o relazione, l’ente puro), 3° i dati, o i sensibili». (Ibidem, p. 487). Indicazioni in merito si trovano, inoltre, nel celebre e già menzionato articolo di discussione del darwinismo La legge del più forte, apparso nel «Rendiconto dell’Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», 1874 (raccolto in Ibidem, pp. 491-504), e, di maggior importanza, nello scritto titolato, appunto, Idealismo o realismo? Nota sulla teoria della conoscenza: Kant, Herbart, Hegel, apparso sempre nel «Rendiconto» del ’74. Qui Bertrando considera: «Kant, come è noto, distingue materia e forma. La materia è il dato. Dipende dalla cosa (res). Non è la cosa, ma è come la cosa nel soggetto; lo stato del soggetto, ma prodotto della cosa, e che non sarebbe senza la cosa. Quindi recettività: qualità soggettive e nondimeno date (p.e. colori, sapori, suoni, etc.). […] In generale, per la soluzione del problema, sono possibili due sorte di condizioni, cioè quelle consistenti nella cosa, e quelle consistenti nel soggetto. È come un duplice a priori: il soggetto, e la cosa (l’anima, e ciò che è oltre – praeter – l’anima); e l’a posteriori è il fatto, l’esperienza. Kant rinuncia a indagare le prime condizioni; perché se la cosa cade nella intuizione (e solo così può essere conosciuta) non è cosa; e se non cade, non può essere conosciuta. – E come sono conosciute le condizioni consistenti nel soggetto, cioè la forma? Non cadono né anche nell’intuizione; non sono oggetti dell’esperienza: giacché se fossero oggetti, non sarebbero condizioni della possibilità di essa. La forma è conosciuta non come fatto, ma come funzione (fare) propria del soggetto. E se la possibilità di conoscere la materia (di determinare le condizioni della conoscenza della materia) dipendesse dal presupposto che queste condizioni non consistono nel soggetto? E furono fatti dei tentativi di dichiararle consistenti nel soggetto. Quindi la cosa. Per Herbart è dato quello che pel soggetto non dipende dal soggetto, ma da ciò che è oltre (praeter) il soggetto (la res). E appunto perché la cosa è oltre, non è niente di dato; è in sé. Il dato è un che di soggettivo, che dipende dalla cosa; niente è dato nella conoscenza, nel soggetto. Nella cosa (res) sono da considerare: a) la res ut sic, il reale, l’ente; b) l’attualità (wirkliche Geschehen); c) il risultato immediato di questa […] . È dato non solo la materia, ma anche la forma; quindi le condizioni a priori della possibilità della esperienza si ricercano nella res (a parte obiecti). Si esclude, e non si sa con qual diritto, la possibilità che non dico la materia, ma la forma stessa consista nel soggetto […]. Ricercando le condizioni nella res, Herbart entra immediatamente in metafisica. E quale metafisica? L’antekantiana: salta del fatto; escogita – escludendo il soggetto – l’ente, gli enti, i reali […]; si colloca oltre (praeter) il soggetto, oltre la cognizione, quasi oltre il pensiero, e pure non ha che escogitare, e non può fare altrimenti. Bisogna però notare – quando dico salta e oltre e simili – che Herbart, escludendo il soggetto, collocandosi nella res, porta seco, come una duplice esigenza, il mal di origine, due dirò così criteri o condizioni sine quibus non, extra o ante metafisiche: e queste condizioni non consistono punto nella res. E sono: a. Il dato stesso (quindi il molto; e quindi in metafisica i molti enti). Per sé non è necessario che l’ente sia molti enti. b. E la logica formale: l’unità, l’accordo del pensiero con se stesso. Herbart, nemico dell’apriori (a parte subiecti), apriorizza a parte obiecti, per conto della res; giacché ente, enti, rapporti, sono apriorità belle e buone. E apriorizza male, cioè come si soleva prima di Kant, intellettualizzando. Intellettualizzare è realizzare i concetti immediatamente: quod in intellectu est, in res est: dommatismo cartesiano e spinoziano». Di qui, Spaventa procede ad interrogarsi nuovamente se la dimensione soggettiva possa venir ‘discentizzata’, ridotta a Scheien, e se, inoltre, tale atteggiamento possa venir considerato in qualità di variante del ‘realismo’, ricavandone la seguente argomentazione: «Herbart vuole assegnare le condizioni della possibilità dell’esperienza, mettendosi non solo sopra o sotto, come si ha a dire, dell’esperienza e della conoscenza, ma oltre il soggetto e la conoscenza: l’ordine della conoscenza non è che l’ordine reale, oltre di essa, impresso nel proprio di essa – l’ordine de’ suoi stati interni, è il puro meccanismo delle rappresentazioni:

l’ordine, tanto logico quanto metafisico (cioè degli enti oltre l’anima) è estraneo ad essa, inaccessibile a questo meccanismo checché si dica. E il bello è che il meccanismo psichico è la metafisica dell’anima; come l’ordine metafisico degli enti è esso stesso meccanismo. Ma il guaio è che tutti e due gli ordini metafisici – come ontologico e come psicologico – non spiegano la metafisica, la possibilità del pensiero metafisico, e in generale la conoscenza». (Ibidem, pp. 505-520). Accenni a Herbart, alla sua scuola ed ai «fisiologi moderni» Helmholtz e Drobisch sono presenti in L’istanza metaempirica del filosofare del 188081 (raccolto in Scritti inediti e rari (1840-1880) cit., p. 175); in Kant e l’empirismo, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», 1881 (raccolto in Opere cit., pp. 217-252); e, più ampiamente, nel celebre Frammento inedito del 1880-1881 proposto da Gentile. In esso troviamo considerazioni di grande spessore sull’herbartismo in quanto ‘metodo di rapporti’, lamentandone la scarsa conoscenza in ambito italiano: «Metafisica difficile, profonda, tortuosa; ma pur seducente, forse per la stessa tortuosità sua; ma sempre chiara, netta, precisa; chiaramente tortuosa, appunto perché non sdrucciola, saltando tutte le difficoltà, a occhi chiusi, come su un pavimento incerato; ma le vede, le affronta una ad una, fa alto e non va avanti se non quando crede di averle superate […] Beati quelli che non sentono il bisogno d’una metafisica del fenomeno, che non hanno in loro questo tormento; che l’ammettono perché lo vedono, e se ne contentano nonostante le molte contraddizioni che contiene. Beatissimi quelli che dicono di pensare, e pur mangiano contraddizioni a ogni momento e non se ne accorgono, come non si avvede il contadino che la terra gira, ed esso con essa, e se tu glielo dici, ti accusa di metafisica; che insomma non si son domandato mai in vita loro: come è possibile il fenomeno? – Orlando [il «cortese paladino» su cui Spaventa ha detto, metaforicamente, in precedenza di esser saltato “in groppa” a fini di dimostrazione argomentativa, e con cui galoppa “per le orme… della forza psichica”] è impaziente e sbuffa e protesta che non ne capisce e non gliene importa niente di questi strani arzigogoli; che gli han detto che la metafisica è finita da mezzo secolo […] che Hegel, Schelling, Fichte, lo stesso Kant, gli stessi Platone e Aristotele e Spinoza e Leibniz, e questo Herbart, di cui ignorava perfino il nome, non valgon niente, e si può esser filosofo in Italia senza leggerli; che ci sono di fatto di gran filosofi in Italia, dei filosofoni – tanti pasqualini – che non gli han mai letti […]. Sia dunque, in omaggio alla pubblica opinione… degli spadaccini, come non detta la filastrocca su Herbart, plachino Orlando». Altri riferimenti inerenti si rintracciano in Esame di un’obiezione di Teichmüller alla dialettica di Hegel, sempre negli «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», del 1884 (raccolto in Opere cit., pp. 399-422). Considerazioni di grande rilevanza si possono riscontrare, vieppiù, nella postuma opera Esperienza e metafisica a cui accenneremo fra poco. Vale ora la pena, soprattutto, destare l’attenzione sul fatto che nei materiali a tale opera concernenti, posti da Gentile, nel ’15, sotto il titolo Introduzione alla critica della psicologica empirica (raccolto in Ibidem, pp. 227-246), oltre al richiamo problematizzante al motivo herbartiano della relazione dei reali e della Zufällige Aufsicht, si registrano vari accenni a Wundt, Lindner, alle tesi di LOTZE in Microcosmo («Il Lotze, il fisiologo Lotze, comincia col piccolo mondo, col cervello fisiologico, e finisce col gran cervello del mondo, la cui topografia e fisiologia è riservata a microscopisti o alla scoperta dell’avvenire»), e al «kantismo popolare» di Helmhotz. E ancora: sono in proposito da ricordare le citazioni fatte dall’Ueber die Prinzipien des Realismus di KIRCHMANN, del 1875; dal Forze e materia del PIOLA, del ’75, dalla relativa recensione su la «Revue philosophique de la France et de l’étranger» del 1881; e, in ultimo, giustappunto dalla stessa Metafisica di HERBART. (Per il sintetico vaglio che abbiamo appena compiuto siamo assai debitori, come già accaduto, alla documentazione fornita da N. SICILIANI DE CUMIS, Herbart e herbartiani alla Scuola di B. Spaventa, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1973, raccolto in ID., Studi su Labriola cit., pp. 106-125). 4

Sulla Völkerpsychologie cfr., fra gli altri: C. SGANZINI, Die Fortschritte der Völkerpsychologie vom Lazarus bis Wundt, Francke Verlag, Bern 1913; B. HOLZER, Völkerpsychologie, Leitfaßen und

Bibliografie, Holzner Velag, Wurzburg 1960; J. BELKE, M. Lazarus und H. Steinthal. Die Begründer der Völkerpsychologie in ihren Briefen, Mohr, Tübingen 1971; E. BENCHELET, Idealgeschichte der Völkerpsychologie, Hain Verbag, Meisenheim am Glan 1974; S. POGGI, I sistemi dell’esperienza, Il Mulino, Bologna 1977; J. BELKE, Die Begründung der Völkerpsychologie, in «Rivista di Filosofia», 2-3, 1982. 5 Infra, pp. 1283-1284 (corsivo nostro). 6

Cfr. in proposito la Introduzione di A. SAVORELLI alla edizione da lui curata di A. ANGIULLI, Gli hegeliani e i positivisti in Italia e altri scritti, Olschki, Firenze 1992, pp. 5-56. 7 In riferimento alla tesi di H. CORNELIUS in Ueber die Wechselwirkung zwischen Leib und Seele, Halle 1871, pp. 2-7, Spaventa osserva, tra l’altro: «Questa escogitazione degli enti reali, del loro aggruppamento e de’ loro stati interni, ha il gran merito di combattere il materialismo con l’arma sua stessa» (Sulle psicopatie in generale, raccolto in Opere cit., p. 1155). 8

Sulla differenza tra la prima e la seconda edizione di Geschichte des Materialismus, cfr. G. GIGLIOTTI, Il ‘ritorno a Kant’ e la nuova critica della ragione, in Storia della filosofia, V – L’Ottocento, a cura di P. ROSSI e C. A. VIANO, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 475. 9 Su questa e su altre tesi cfr. K. SACHS-HOMBACH, Philosophische Psychologie im. 19. Jahrhundert. Entstehung und Problemgeschichte, Abler, Freiburg-München 1999, pp. 268-278. 10 F. A. LANGE, Geschichte des Materialismus seit Kant, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1974, tr. it., Storia critica del materialismo, II. La filosofia moderna e il materialismo, a cura di A. TREVES, Monarmi, Milano 1932, p. 41. 11 È bene rammentare, anche in vista delle considerazioni che formuleremo in seguito, che E. Bernstein considerava Lange «quanto a imparzialità, conoscenza dell’argomento e coraggio, pur sempre lo scritto migliore che sia venuto fuori dagli ambienti universitari intorno» alla questione operaia «del secolo» (Zur Würdigung Friedrich Albert Langes, in «Neue Zeit», X, 2, 1892). Sui contenuti idelogico-politici generali a cui codesta opera va riconnessa cfr. H. BRAUN, F. A. Lange als Nationaloekonom, Berlin 1892. 12

Sugli aspetti qui trattati della posizione di Lange, e sui suoi costitutivi limiti, cfr. l’introduzione di R. RACINARO, Max Adler e il revisionismo – Il problema della ricomposizione tra teoria e politica, a M. ADLER, Causalità e teleologia nella disputa sulla scienza, De Donato, Bari 1976, pp. LXIII-LXX, cui siamo assai debitori. 13 Il riferimento va, naturalmente, a quanto Marx afferma nella lettera a Kugelmann del 27 giugno 1870: «Ciò che lo stesso Lange dice sui metodi hegeliani e sulla mia applicazione è veramente puerile. In primo luogo non capisce rien del metodo hegeliano e perciò, in secondo luogo, tanto meno del mio modo critico di applicarlo […]. Il signor Lange si meraviglia che Engels, io, ecc. prendiamo au sérieux quel cane morto di Hegel, quando Büchner, Lange, il dottor Dühring, Fechner, ecc., hanno pur da tempo convenuto di averlo – pour Deir – da molto tempo sepolto. Lange è tanto ingenuo da dire che nella materia empirica “io mi muovo nella più rara libertà”. Egli non ha la minima idea che questo “libero movimento nella materia” non è assolutamente nient’altro che una parafrasi per il metodo di trattare la materia, cioè il metodo dialettico» (Lettera a Kungelmann, Editori Riuniti, Roma, p. 147, il secondo corsivo è nostro). Meditare sul presente aspetto è utile, tra l’altro, per sottrarre Marx – così come Labriola fa con la sua riflessione sulla critica dell’economia politica – alla lettura in chiave naturalistica della afferente opzione teorica (che taluni hanno, fra l’altro, giustificato proprio in base ad una scorretta ricezione dei contenuti di un’altra lettera a Kugelmann, ove egli parla della impossibilità di annullare le «leggi di natura», Ibidem, p. 92). Cfr. R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 247-248. Chiaramente, se vi fosse modo, il discorso andrebbe

esteso anche all’altra posizione di Dietzgen ed alla relativa valutazione leniniana; cfr. in proposito, F. FISTETTI, Il caso Dietzgen. Sulla dialettica, «Nuova Corrente», 66, 1975; e R. RACINARO, Max Adler e il revisionismo cit., pp. LXX-LXXIII. 14

Cfr. in proposito il manoscritto Che cos’è il materialismo?, e le ricerche raccolte in Psicologia e logica (1880), Psiche e metafisica (1882) e, ovviamente, in Esperienze e metafisica (1881-1882). 15 Cfr. in proposito, fra gli altri, E. GARIN, Hegeliani e positivisti fra Ottocento e Novecento, raccolto in ID., Tra due secoli cit., pp. 54-55 e ID., Filosofia e politica in B. Spaventa cit., pp. 37-38. 16 «La verità è questo paradosso […] L’assoluta concretezza – il realismo – non è, come afferma l’empirista, la informe sensazione, ma la coscienza tutta spiegata, l’assoluta conoscenza» (Scienza e metafisica cit.). 17 Scrive in proposito Spaventa: «Quando Herbart dice: molti reali, non contraddice al dato. Ma quando identifica immediatamente l’essere (l’esistenza) e la qualità del reale, e dichiara la qualità assolutamente semplice, indistinguibile, inalterabile, irrelantiva, assolutamente positiva e perciò inconoscibile, confonde l’indipendenza del reale, del che della coscienza, coll’indipendenza del cos’è della conoscenza stessa: confusione, a cui nulla l’autorizza, e che il dato stesso della coscienza dell’esistenza gli vieta di fare; e perciò trascende affatto il dato o l’esperienza; e se ne raccosta soltanto, contraddicendosi, col metodo di rapporti e della Zufällige Ansicht» (Ibidem, p. 180). 18 Ibidem, p. 106. 19 Ibidem, p. 216. 20 Scrive ancora Spaventa: «L’altro è la cosa: ciò che non è mai altro è l’universale. E si vede, che questa relazione, che è l’oggetto della coscienza intellettiva, è più concreta di quella che è oggetto della percettiva. E oltre questa, la coscienza intellettiva ha un’altra forma anche più concreta; cioè quella, in cui l’universale è distinto non solo particolarmente sotto di sé, ma universalmente in sé stesso. Questa nostra distinzione è ciò che i logici chiamano comprensione del concetto […] La funzionalità è ciò che dicesi necessità del concetto. In questa ultima forma, la coscienza ha per oggetto sé stessa: autocoscienza» (Ibidem, pp. 216-217). 21

Ma, a ben vedere – come corroborabile, tra l’altro, da una attenta lettura della Enciclopedia – simili schemi non coincidono affatto con l’effettività del pensamento hegeliano. 22 Su questo decisivo aspetto in Hegel cfr., fra gli altri, il bel saggio di M. MONTANARI, Libertà soggettiva e mondo moderno nella filosofia hegeliana del diritto pubblico, raccolto in ID., Percorsi del moderno. Studi di storia della filosofia politica, Pensa Multimedia, Lecce 2003, pp. 59-82. 23 B. SPAVENTA, Sul problema della cognizione e in generale dello spirito, a cura di F. ALDERISIO, Loescher, Torino 1978, p. 157; ma cfr. anche il già rammentato saggio del 1857, Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo cit., pp. 279 e sgg. 24

Per molte osservazioni svolte in ordine al rapporto di Spaventa e Labriola con il dibattito ottocentesco sulla questione della ‘psicologia’ siamo debitori nei confronti dello studio di B. CENTI, Antropologia e filosofia della storia nel materialismo di Antonio Labriola, in Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia cit., pp. 94-99; studio che, però, ci pare pervenire a conclusioni diverse da quella che cercheremo di esplicitare nella presente sede. 25 Assai esemplificativo è, in proposito, il brano che segue: «Ciò che giustifica le idee» – afferma Lange

– «in opposizione al materialismo, non è la loro pretesa ad una verità superiore, sia questa dimostrata o sia rivelata e indimostrabile; è piuttosto il contrario: la piena e franca rinuncia ad ogni valore teorico sul terreno delle scienze del mondo esterno […] In quest’ultimo mondo, tutto s’incatena come causa ad effetto. Esso solo, astraendo dalla critica della ragione e dalla metafisica, può essere oggetto delle indagini scientifiche» (Storia del materialismo, II, cit., p. 11). 26 Ci auguriamo di poter svolgere il presente nodo in altra sede, muovendo dal vaglio delle specifiche fonti hegeliane di cui Labriola ebbe a valersi. 27 Infra, p. 693. Sui temi accennati cfr. soprattutto R. RACINARO, Labriola e il “procedimento dialettico” cit., pp. 116-122. 28 Infra, p. 568. Cfr. in proposito le indicazioni presenti in B. DE GIOVANNI, Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di Antonio Labriola cit., pp. 34-35. Sullo specifico della interpretazione socratica di Labriola cfr. G. CAMBIANO, Il Socrate di Labriola e la storiografia tedesca, raccolto in L. PUNZO (a cura di), Antonio Labriola. Celebrazioni del centenario della morte, Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, Cassino, 2006, vol. I, pp. 31-45, ed E. SPINELLI, Questioni socratiche: tra Labriola, Calogero e Giannantoni, raccolto in Ibidem, vol. III, pp. 755-795. 29

Cfr. R. RACINARO, Labriola e il “procedimento dialettico” cit., p. 121; ma anche S. POGGI, Antonio Labriola. Herbartismo e scienza dello spirito alle origini del marxismo italiano, Longanesi, Milano 1978, p. 36, (il punto di vista espresso in tale monografia ci pare, però, eccessivamente sbilanciato nel comprimere l’incidenza del nesso Hegel-Labriola; nesso sul quale, altresì, cercheremo, da parte nostra, di battere adeguatamente). 30 Cfr. B. CENTI, A. Labriola cit., p. 31. 31

A. DAL PANE, Antonio Labriola cit., pp. 113-126. Infra, p. 1085. Labriola rammenta anche come «Vera» gli «fu liberale del suo voto favorevole, specie per la lezione» che egli tenne «sul concetto della Scienza Nuova di Vico», Ivi. 33 È questa anche la giusta opinione espressa da L. DAL PANE in A. Labriola cit., p. 123. 34 H. STEINTHAL, Allgemeine Ethik, Berlin 1885, p. 79. 35 Ibidem, p. 272. 36 Cfr. H. PAUL, Prinzipien der Sprachgeschichte, Halle 1909, pp. 8-11. 37 Cfr. in proposito l’importante ricostruzione di N. BADALONI in Il marxismo di Gramsci. Dal mito 32

alla ricomposizione politica, Einaudi, Torino 1975, pp. 4-6, cui siamo assai debitori per le presenti osservazioni. 38 In ambito italiano, per esempio, l’insoddisfazione verso l’hegelismo ‘ortodosso’, data la sua usura, scaturente un – diretto o indiretto – recupero del punto di vista kantiano, trapasserà assai dopo, fra l’altro, nel crociano Saggio sullo Hegel, del ’13, (ma il principale saggio raccolto nel volume, Ciò che è vivo e ciò che è morto nel pensiero di Hegel, risale al 1906) ed in molte posizioni dello stesso Gentile. 39 Cit. in L. DAL PANE, Antonio Labriola cit., p. 117. 40

Tale periodizzazione è stata messa in luce nel suo svolgimento di F. TESSITORE nel saggio Humboldt e la Weltgeschichte nella edizione da lui curata di W. HUMBOLDT, Il compito dello storico, E.S.I., Napoli 1980 (raccoglie la tr. it. di G. MORETTO di Über die Gesetze der menschlichen Kräfte; Über der Geist den Menschheit; Betrachtungen über die bewegenden Ursachen in der Weltgeschichte; Über die Aufgabe des Geschichtsschreibers). 41 Humboldt riconduce tali cause motrici «ad uno dei seguenti tre oggetti: la natura delle cose, la libertà dell’uomo e il decreto del caso», il quale coincide con «la struttura individuale del presente», ma rispetto alla cui eliminazione è rivolta «l’aspirazione più universale della ragione umana» (Considerazioni delle

cause motrici della storia universale, raccolta in Il compito dello storico cit., pp. 109-110). 42

Cfr. F. TESSITORE, Humboldt e la Weltgeschichte cit. Per la sintesi svolta di alcuni aspetti del pensiero humboldtiano siamo debitori nei riguardi delle considerazioni generali formulate da L. CALABI, La filosofia della storia come problema. Karl Löwith tra 43

Heidegger e Rosenzweig, ETS, Pisa 2008, pp. 17-18 e 33-44. 44 F. SCHILLER, Grazia e dignità, raccolto in ID., Saggi estetici, a cura di C. BASEGGIO, Torino 1951, p. 175; e cfr. in proposito A. NEGRI, Schiller e la morale di Kant, Milella, Lecce 1968. 45

In proposito appaiono massimamente esemplificative le pagine della Grande Logica dedicata alla critica della ‘cattiva infinità’ ed il § 258 dell’Enciclopedia della Scienze filosofiche, il quale può a ragione essere considerato in guisa di luogo di fondazione dello ‘storicismo assoluto’. Ci permettiamo di rinviare, fra i molti altri testi inerenti, al nostro Tempo storico e ‘mediazione sovrana’. Tre studi su Hegel, Luciano, Napoli 2010, pp. 67-102. 46 Cfr. R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 55-56, cui siamo anche assai debitori in merito al nesso problematico Humboldt-Hegel stabilito, più o meno implicitamente, da Labriola. 47 Cit. in L. DAL PANE, Antonio Labriola. cit., pp. 115 e 133. 48

Cfr. in proposito R. RACINARO, Labriola e il ‘procedimento dialettico’ cit., pp. 123-124. Cit. in L. DAL PANE, A. Labriola cit., p. 131. 50 Osserva Labriola in proposito: «Io potrei riassumere il mio concetto in queste parole: la necessità 49

speculativa della filosofia della storia tanto più guadagna per quanto più restringe il suo compito alla determinazione del valore ideale delle sfere storiche, lasciando larga parte alla spiegazione genetica dei fatti» (Ibidem, pp. 120-121). 51

Per le osservazioni svolte siamo assai debitori nei riguardi di R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 55-56. 52 G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle Scienze filosofiche, a cura di B. CROCE, II, Laterza, Bari 1980, § 411 (annotazione), pp. 415-416. 53 Cfr. Ibidem, § 459 (annotazione), p. 449. 54

Cfr. Ibidem, § 401 e 459 (annotazione), pp. 391-394 e 449-455. Ibidem, pp. 449-450. 56 Afferma Hegel: «Dio, lo spirito, la natura o altro che sia, son quindi come soggetto di un giudizio 55

nient’altro che il nome. Che cosa sia, secondo il concetto, un soggetto simile, si ha soltanto nel predicato […] Ciò che sta sotto (subiectum) non è ancora altro che il nome» (La Scienza della Logica cit., II, p. 707). 57

Pensiamo, anzitutto, in proposito, alle prime sezioni del I e del II libro del Il Capitale, dedicate,

rispettivamente, alla metamorfosi della merce ed alla metamorfosi del denaro. In esse, alla formulazione generale del giudizio logico hegeliano del tipo ‘A è B’ (ad esempio: ‘la mela è un frutto’), rideterminante il modello di matrice aristotelica, viene sostituita la forma generale del valore del tipo ‘1 quarter di grano = 2 braccia di tela’, ove tanto il soggetto quanto il predicato si rendono tipizzabili in guisa di grandezze storicodeterminate (e definenti un ambito formale-speciale precipuo, come avremo modo di approfondire) rispetto a cui tutte le equazioni del processo di circolazione (M-D-M’; D-M-D’) possano essere considerate, – pur dovendo venir connesse allo spessore del movimento delle forme da loro designato, pena, quasi per paradossale converso, la fallacia di formalismo –, in qualità di sillogismi della forma generale del valore, – come, del resto, esplicitamente suggerito in Per la critica della economia politica. Si tratta di un nodo decisivo per comprendere la 5° sezione dei Quaderno 11 di Gramsci, laddove il pensatore politico sardo tematizza in tutta la sua portata gnoseologica la possibile traducibilità della logica hegeliana in una determinata accezione della economia politica ricardiana. Sul motivo gramsciano della ‘traducibilità dei

linguaggi’ cfr. fra gli altri, F. FISTETTI, Gramsci e l’antimetafisica dei fondamenti, raccolto in ID., La volontà di valore. L’etico-politico dopo Nietzsche, Dedalo, Bari 1981, pp. 183-224, e G. SCHIRRU, Filosofia del linguaggio e filosofia della prassi in Gramsci nel suo tempo, a cura di F. GIASI, Carocci, Roma 2008, pp. 767-792. 58 In proposito ci pare che resti un contribuito valido, seppur con accentuazioni discutibili, quello costituito dal volume di S. TAGLIAGAMBE, La mediazione linguistica. Il rapporto pensiero-linguaggio da Leibnitz a Hegel, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 170-296. 59 In essa il filosofo di Bomba annotava in riferimento alle tesi espresse nel volume: «Tutta la differenza tra i filologi consisterà nel modo d’intendere la filologia […] desidererei che qualcuno che capisce a un tempo di filosofia e filologia facesse un esame di questo libro […] e così iniziasse gli italiani a questo genere di studio» (B. SPAVENTA, Recensione ad E. Steinthal, «Il Cimento», 4, 1855, pp. 60-65). 60

H. STEINTHAL, Die Sprachwissenschaft Wilhelm von Humboldts und die Hegel’sche Philosophie (1848), tr. it., La scienza della lingua di Wilhelm von Humboldt e la filosofia hegeliana, a cura di A. MESCHIARI, Guida, Napoli 1998, pp. 109-110. In propositi ai temi trattati in riferimento a Labriola cfr. D. BONDÌ, Il problema dell’unità della storia. Antonio Labriola e Heymann Steinthal, in Antonio Labriola. Celebrazioni del centenario della morte cit., pp. 612-613. 61

Cfr. in proposito ID., I rapporti di filosofia, storia e psicologia in H. Steinthal, «Annali del Dipartimento di filosofia. Università di Firenze», XIV, 2008, pp. 179-222. 62 H. STEINTHAL, La scienza del linguaggio di Wilhelm von Humboldt… cit., pp. 67-68. 63 64

Infra, p. 589. Si pensi alla eco che ebbe la pubblicazione in russo, nel 1926, dei saggi sul materialismo storico

labrioliani sulla giovane generazione di linguisti sovietici appartenenti al cosiddetto “fronte linguistico”. 65 Come è noto proprio il tema del ‘linguistico’ e della determinazione storica del linguaggio costituisce una delle componenti del Quaderno 11 in cui si staglia l’interlocuzione critica di Gramsci nei riguardi di Labriola. Essa è scandita su linee di avvicinamento e di aspro allontanamento (si pensi alla celeberrima questione della ‘educazione del papuano’) che appaiono coerentizzabili alla struttura filologica ed alla composizione del quaderno stesso. Riguardo allo specifico della posizione su Labriola vanno approfonditi i nessi del § 70 agli appunti presenti nei Quaderni 10 e 29. Gianni Francioni, – che è, certo, il massimo filologo gramsciano –, studiando il Quaderno 11, ha messo in luce come le prime annotazioni, che coinvolgono anzitutto il pensiero di Labriola, presenti tra le carte n. 3 e 6, siano state stese successivamente al resto del quaderno. (Cfr., anzitutto, in merito L’Officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei “Quaderni dal carcere”, Bibliopolis, Napoli 1984, pp. 109-114). In base a tale ricostruzione, Giovanni Mastroianni ha obiettato che se la prima nota di carta n. 3 fosse stata scritta subito dopo l’ultima, terminante a c. 79 v., si configurerebbe una forte incoerenza, dal momento che la nota conclusiva nella organizzazione attuale, il § 70, contiene un giudizio ampiamente positivo sul Cassinate, mentre quella collocabile dopo di esso, ovvero la n. 1 dell’ordinamento attuale, contiene una presa di distanza da questi. Di qui, Mastroianni ha proposto di commisurare la struttura interna del quaderno alla direttrice di una riarticolazione di tale giudizio. (Tutto il contenuto del presente dibattito è esposto in ID., G. MASTROIANNI, L’impaginazione dei Quaderni e le note su Labriola, in «Belfagor», V, 1992, pp. 607-619). All’obiezione Francioni ha risposto ipotizzando opportunamente il sovrapporsi nel quaderno di giudizi diversi rispetto ai diversi aspetti del pensiero labrioliano. Quello che, però, più conta, a nostro parere, è tener fermo il criterio di una eurisi prettamente dialettica di siffatta pluralità di aspetti, nell’intento di lasciar emergere la complessiva e complessa direttrice di continuità Labriola-Gramsci (prevalentemente respinta: cfr. V. GERRATANA, Sulla ‘fortuna’ di Labriola, in ID., Ricerche di storia del marxismo, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 155-163; C.

LUPORINI, Il marxismo e la cultura italiana del Novecento, in Storia d’Italia, vol. V.2, Einaudi, Torino 1973, pp. 1587 e sgg.), ben comprensibile – ne siamo convinti – se si pensa a questioni come quella dell’‘autonomia’ del marxismo ed al modo in cui il pensatore politico sardo recepisce le forniture categoriali della ‘critica dell’economia politica’ marxiana e le applica, per esempio, all’analisi dell’americanismo. Su quest’ultimo nodo e su tutti quelli che abbiamo trattato nel presente intermezzo concentrato sull’argomento del ‘linguistico’ siamo assolutamente debitori al bellissimo contributo di G. SCHIRRU, Filosofia del linguaggio, psicologia dei popoli e marxismo: un dialogo con Labriola nel Quaderno 11, raccolto in Gramsci tra filologia e storiografia. Scritti per Gianni Francioni, a cura di G. Cospito, Bibliopolis, Napoli 2010, pp. 93-119. 66 B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea cit., p. 283 67

Ibidem, p. 305. Scrive Spaventa: «L’idealismo e il realismo sono insufficienti; ciò che hanno di vero si fonda sul pensiero oggettivo […] Ma questa legge è […] forza cieca, se non comprendiamo la mediazione nel libero pensiero. L’evidenza o ragione obiettiva non è altro che il libero pensiero della mediazione» (La filosofia di Gioberti, Napoli 1863, p. 421) 69 «Il difficile» – scrive ancora in proposito Bertrando – «è conciliare 68

questo: le cose non sono vere che in Dio (il che, inteso al modo di Spinoza, mira a negare ogni sostanzialità alle cose, anche allo Spirito) e le cose non sono semplici modi. E si concilia, mi pare, col porre Dio come principio e fine delle cose, e in ciò risultato di se stesso, gioco d’onore con se stesso, ecc. ecc.: mediazione che sarebbe puramente astratta, cioè non vera mediazione, se le cose come cose non fossero nulla, o se fossero, come vuole Spinoza, semplici criteri dell’immaginazione » (Ibidem, p. 259). Cfr. G. VACCA, Politica e filosofia in B. Spaventa cit., pp. 235-237. 70

«Io credo» – scrive Labriola – «di aver recato prove sufficienti perché il mio giudizio non appaia ingiusto, né ingiustificata la mia avversione contro codesta filosofia della storia che ora è di moda» (A. LABRIOLA, Opere complete, III, p. 281). 71

Condividiamo in proposito, ancora una volta, la posizione espressa da B. DE GIOVANNI in Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di Antonio Labriola cit., pp. 41-42, da intendersi in alternativa a quella esplicata da ZANARDO in Il primo Labriola e Spinoza cit. 72 L’approfondimento della Fenomenologia hegeliana, – rispetto a cui, com’è noto, fondamentale è il dialogo con il fratello Silvio, il quale indicò tale testo come il «diabolico libro, il libro dei ‘sette sugelli’» –, in quanto opera intrecciata intimamente alla Logica, – a cominciare dalla questione della coincidenza e dell’aggancio tra la concettualizzazione del ‘primo’ dell’uno e quello dell’altra –, nonché la riflessione sulla sua natura di sezione della enciclopedia delle scienze ‘dello Spirito’ costituiscono aspetti fondamentali del pensiero di Spaventa. Questo approfondimento definisce, per Bentrando, lo strumento teorico con cui sondare la dimensione della ‘autocoscienza’ coincidente con la mediazione e da connettersi strettamente alla questione della caratterizzazione del binomio soggetto-oggetto. Nella Parentesi inedita del ’58 la Fenomenologia viene indicata in guisa di luogo ove vediamo tematizzato il ruolo dello spirito, esibendo, anzitutto, come «sistema e scienza, oggetto e soggetto [non siano] due esistenze separate, come per esempio, lo spettacolo e gli spettatori, il palcoscenico e la platea. La realtà, il sistema come oggetto, è insieme spettacolo e spettatore, oggetto e soggetto; e similmente la scienza non è duplicemente spettatrice, ma è essenzialmente oggetto, realtà; è parte del sistema del mondo, è il compimento di questo sistema, è questo sistema come sapere di se stesso. L’oggetto è essenzialmente soggetto, il sistema, sistema compiuto, assoluto, senza la scienza; e il soggetto è essenzialmente soggetto, non è fuori dall’oggetto, non è soggetto che come oggetto che sa se stesso. Il vero oggetto è insieme oggetto e soggetto; cioè il vero, l’assoluto, e il soggetto-oggetto. In questa identità si fonda la possibilità della conoscenza, del sapere in generale; la conoscenza in generale sarebbe inesplicabile, sarebbe impossibile, se lo spirito, il soggetto fosse

semplicemente un altro, un assolutamente altro. La conoscenza è essenzialmente Selbsterkenntniss» (Sul problema della cognizione e il generale dello spirito, a cura di F. ALDERISIO, Torino 1958, pp. 99 e 5758. Cfr. G. VACCA, Politica e filosofia in B. Spaventa cit., pp. 238-239). 73

Infra, pp. 702-703. Infra, pp. 814-815. 75 Cfr. R. RACINARO, Labriola e il ‘procedimento dialettico’ cit., pp. 122-123. 76 Infra, p. 689. 77 In questo senso, esplicita è la polemica di Labriola verso l’atteggiamento 74

del positivismo deterministico-meccanicistico volto ad applicare la legalità naturale alla struttura sociale, obbliando la effettività del mondo storico e fornendo, quasi ‘per controspinta’, l’opportunità di esibire la mobile plurideterminazione mediatrice del nesso storico-sociale, comprendente l’incidenza naturale ma assolutamente non riducibile ad essa, anche per quello che attiene alla fascia del ricambio e della riproduzione della vita. Egli argomenta: «Il determinismo meccanico ha trovato negli ultimi tempi nuovo impulso in quell’insieme di vedute che si suole raccogliere nel concetto, o nella esigenza della fisica sociale; ossia di una serie di studi fatti col metodo delle scienze naturali intorno alla organizzazione sociale; ed al modo come gl’individui si muovono e vivono in essa, per naturale condizione di azioni e reazioni. Erano certo in grave errore gli antichi deterministi meccanici, quando per via di considerare l’individuo da un canto separatamente, e l’oggetto naturale, il semplice oggetto naturale, dall’altro canto, riuscivano a tener quello come semplice conseguenza di questo. Fra l’individuo com’è ora, e la natura c’è di mezzo la società; e l’individuo non vive che in questa, ed ha da questa – dalla storia, dalla tradizione, dalla educazione – la più gran parte dei concetti, dei sentimenti, delle volizioni che egli, secondo la sua speciale capacità, è atto a ricevere; e nel corso di tutta la vita rimane come legato a quell’ordine, a quella forma sociale in cui si trova, o che elegge. Nell’assiduo ricambio delle forze sociali, non c’è posto per nulla che si presuma debba eccedere la misura di quello che c’è realmente, e che nel suo insieme rappresenta la somma delle reali forze di tutti e di ciascuno» (infra, p. 694). 78 Infra, p. 712. 79

Infra, p. 758 (corsivo nostro). Cfr. E. GARIN, I saggi sul materialismo storico cit., pp. 112-113. 81 Per le considerazioni che abbiamo svolto siamo assai debitori a B. DE GIOVANNI, Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di A. Labriola cit., pp. 34-36. 82 M. LAZARUS, Über die Ideen in der Geschichte, in «Zeitschrift für Völkerpsychologie und 80

Sprachwissenschaft», III, 1865, pp. 385-386 (rielaborazione del discorso rettorale tenuto all’Università di Berna il 14 novembre 1863). Sul pensiero di Lazarus, cfr. fra l’altro, A. MESCHIARI, La “psicologia dei popoli” di Moritz Lazarus in Psicologia delle forme simboliche, Le Lettere, Firenze 1999. 83

Cfr. in proposito D. BONDÌ, Il giovane Croce e Labriola. Ricezione e circolazione della Völkerpsychologie in Italia alle soglie del Novecento, in «Rivista di storia della filosofia», 4, 2004, pp. 890891; ma cfr. anche A. MESCHIARI, Moritz Lazarus e Lewis Henry Morgan: Psicologia dei popoli ed etnologia nel pensiero di Antonio Labriola, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXIV, 1985, pp. 16-30; e ID., Mito, metafisica e scienza in A. Labriola, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXVII, 1988, pp. 112-127. 84 Cfr. B. CENTI, L’ottocento tedesco di Antonio Labriola, raccolto in L. PUNZO (a cura di), Antonio Labriola. Celebrazioni del centenario della morte, cit., vol III, pp. 550-551.

IV UN PASSAGGIO INTERMEDIO: LA «PROLUSIONE»

1. La Prolusione: ‘problemi aperti’ e linee di continuità Rispetto a come occorra pensare a una sorta di continuità problematica, e non di cóupure, nel cammino che va dallo scritto su Zeller, – il più marcatamente hegeliano di quelli giovanili –, alla Prolusione, al maturo e compiuto confronto con il materialsimo storico, la sintesi del percorso biografico fornita ad Engels nel ’94 costituisce, forse, la maggiore e più esplicita indicazione. E proprio all’interno della corrispondenza con Engels, ancora nel ’90, Labriola appariva convinto di poter far fronte alle obiezioni di questi nei riguardi della impostazione dell’871. Comunque sia, il punto che egli tenderà a conservare, certo rielaborandolo ampiamente, consta, anzitutto, nel concepire, – sulla scorta della ricezione steinthaliana2 –, le condizioni storiche materiali come fluidificate, nella loro configurazione costitutivo-collettiva, da un impasto di segmenti diversi di ‘coscienza’ ed ‘incoscienza’ per entro cui pur si solidificano particolari formazioni storiche resistenti e si pongono in nuce quelle che, a cominciare dalla Prolusione, vengono definite, appunto, quali neoformazioni. Ne viene che il motivo delle ‘neoformazioni’, – rivelante il risvolto ‘creativo’ della ‘epigenesi’ sfuggente ad ogni ipotesi di semplice ‘direzionalità’ evolutivo-seriale3 –, si rende già in qualche maniera implicitamente raccordabile al principio – da Marx formulato con efficacia nella Prefazione del ’59 a Per la critica, e la cui centralità il lettore avrà maniera di considerare in ordine a diversi risvolti del discorso, nella consapevolezza che essa esige di essere attesa in rapporto con l’ottica hegeliana della Grande Logica – per cui ogni ‘posto che’ è dato quale intrinseco ai processi reali ed al loro pieno dispiegamento in termini di esplicazione potenziale (su ciò riposa l’inquadramento della contraddizione fra rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive, che pure rileva assai ulteriori implicazioni). Tuttavia, ciò che adesso conta soprattutto insistere è il fatto che, entro l’analisi svolta nella fase della ricerca labrioliana che stiamo considerando, e pur fra incertezze e contraddizioni, lo snodarsi di strutture genetiche si costituisce formativamente proprio a fronte dell’integrale dilatarsi della mediazione, rassodante e rendente conto della differenzialità del reale; dando lungo ad un movimento di potenziamento riproduttivo e di ripercorrimento di nessi che apre al conseguimento di sempre maggiori livelli di appropriazione, e, di

conseguenza, di matura assunzione dei modi di socializzazione. Lo stesso Steinthal, avversando la versione ‘statalistica’ della idealità socialista, e precisando la questione del rapporto fra condizioni conservative ed energezzizzazione etica, sottolinea, sebbene con accentuazioni talmente unilaterali da sfiorare il pericolo di una monocroma compressione categoriale (data anche la mancata tematizzazione, in definitiva, della stessa nozione di ‘mediazione’), come, ad un alto livello di socializzazione, ciò che contingentemente si presenta quale attribuibile «ad un rapporto solamente pratico, quasi meccanico, per lo più incosciente», arriverà ad essere fatto «con coscienza e con chiara volontà. Il cittadino saprà e vivrà ciò che è e fa» – scrive Steinthal «mentre ora non sa in che modo egli è morale»4. Labriola riesce ad evitare il vizio di unilateralità inficiante l’intuizione che sorregge il modello steinthaliano dell’intreccio fra gradi diversi di consaputezza ed inconsaputezza pervadente, ed eticamente invigorente, la ‘formatività’ delle strutture reali poiché riesce a dislocare costitutivamente tale intreccio sul fronte di un sistema mobile di nessi per statuto ripugnante allo schiacciamento su una direttrice – tendenzialmente restituibile in chiave lineare – di mero ‘raffinamento’ cognitivovitale, inevitabilmente vocata a richiudersi entro il piano della pura qualificazione ideale5. Può farlo in quanto possiede e stringe l’articolarsi della mediazione percorrente la configurazione latu sensu gestaltica del campo oggettivo, – ove s’incontrano ‘totalità’ ed, appunto, rapporti strutturali, esaltando la presenza di quelle «formazioni stabili» il cui concetto viene da Labriola guadagnato reimpostando la nozione herbartiana di Beziehungen in vista del vaglio della effettività del divenire6 –, che fà corpo con esso. Articolazione la quale richiama proprio a quella complessiva qualificazione del mondo storico che sempre più si affermerà come ambito cui deve essere rivolto un lavoro concettuale di esibizione della relativa costruzione interna abilitato a sfuggire al generalismo, contraddistintivo anche di una certa declinazione del medesimo oggettivismo, poiché commisurato all’istanza di lasciar emergere l’attrito dei percorsi di socializzazione, passibili di tipizzazione, riconnettibili alla pluralità dei linguaggi epistemici e trovanti la loro unità in forza giusto della traiettoria della mediazione stessa, ricomprensiva delle forme vitali e dei termini del ricambio storico-naturale. È a fronte di ciò che va recepito, crediamo, il misurarsi labrioliano, esplicitamente antifinalistico, con il ‘problema-filosofia della storia’, atteso in quanto luogo di verifica e reimpostazione critica, anche nel suo risvolto pedagogico – così come dimostrato dal testo del ’76 Dell’insegnamento della storia.

2. Il ruolo di transizione di una riflessione politico-ideologica Si direbbe che dal 1876, appunto, tale intricato cammino si precisi in quanto consunstanziale allo specifico della revisione politico-ideologica pertinente, anzitutto, come già detto, la concezione della statualità, in relazione al primo tratteggiarsi della manifestazione ‘di lunga durata’ della crisi erosiva del sistema liberale classico e degli equilibri ad esso corrispondibili. Vertono su ciò gli argomenti dei corsi del 1880 e del 1886 («determinare i concetti fondamentali della società e dello Stato […] il valore e i modi di trattazione della questione sociale»). Con costante irrobustimento, il nostro mirerà a rafforzare il sostrato categoriale delle proprie posizioni7, fondendolo con la militanza politica ed acquisendo, vieppiù, l’esigenza di contribuire alla costruzione in Italia di un soggetto politico anzitutto congruente alle modalità della socialdemocrazia tedesca8. Alla configurazione organizzativa di tale soggetto occorreva fornire delle solide basamenta ideologico-filosofiche in grado di favorire una lettura critica ed autonoma delle trasformazioni sociali distinta dalle semplificazioni passivizzanti del positivismo. Si tratta, in definitiva, del gran nodo che Gramsci si troverà a tornare a porre al centro della ricerca teorica, nei Quaderni, di fronte alla epocale ‘sconfitta’ del ruolo politico del movimento operaio sul terreno della risposta alla crisi del mondo liberale9, ricollegandosi alle indicazioni del Cassinate10. Questi collegherà gli arresti di espansività del socialismo italiano a ben determinate difficoltà teorico-politiche esigenti di essere afferite, anzitutto, alla diagnosi della struttura interna della statualità in relazione alle modificazioni ‘prive di confini esterni’ del complesso sociale. Riguardo ad un percorso del genere, trovante un primo approdo organico nel ’95, vanno richiamate come tappe significative la prolusione al corso di filosofia della storia del 28 febbraio ’87, dedicata alla relazione Stato-Chiesa; il corso del ’88-’89 sulla Rivoluzione Francese (che comportò tumulti e disagi, sino alla sospensione delle lezioni fra il febbraio ed il marzo), nonché le due conferenze Della Scuola popolare del 22 gennaio ’88 e Del Socialismo datata 20 giugno ’8911. Di qui, avrà a svilupparsi un cammino ‘difficile’, incardinato su un tipo di dialogo aspro, mai pacificatorio con tutto il gruppo dirigente socialista12. Nell’ambito di un simile articolarsi della elaborazione teorico-politica a muovere dall’indagine della morfologia statuale ci piace attirare l’attenzione, fra l’altro, sulla recensione dell’85 al volume di Jhering Der Zweck im Recht. In questo scritto Labriola si confronta implicitamente con il tentativo di definire il ruolo produttivo della scienza giuridica in corrispondenza alla innovazione

capitalistica, fissando nello Stato lo spazio di soddisfazione di certi circoscritti principi teleologici classificabili con accezione utilitaristica (per Jhering, dice Labriola, «son buoni solo» quegli istituti «che si mostrano e conservano utili»13) e da saldare in chiave regolativa ai fattori scaturenti dell’individualismo, configurando il loro disciplinamento. Nella presente fase Labriola aderisce, così, all’idea della statualità come garanzia degli interessi determinati. La posizione jheringiana, capace di cogliere con lucidità il tema della relazione ‘vita’ – ‘scienza’, sembrava rivelatrice della reciproca relativizzazione di etica e diritto nello scenario odierno, mettendo in luce come né il giusnaturalismo o la idea di Stato etico, né l’‘assolutezza’ della coscienza morale potessero venir considerati in qualità di poli di effettiva ricomposizione generale. Se, dunque, tale posizione corroborava l’incrinarsi dell’omogeneità del paradigma kantiano, – lasciando, però, aperti i margini per la estraniazione quasi, potremo dire, ‘impositiva’ della norma ai fini della riduzione delle spinte sociali –, essa non poteva che essere posta in tensione col quadro di riferimento attraversato dalla tendenziale dissoluzione dell’ordine armonico-liberale (corrispondente anche ad un progetto di giuridicizzazione integrale del sistema sociale) sollecitante il lavoro teorico labrioliano, primariamente in proposito al vaglio della composizione materiale del reticolo delle mediazioni sociali in quanto da ricongiungersi e compenetrarsi alla considerazione del massimo arricchirsi e rendersi discreto delle strutture storiche. Si badi: è a questa altezza che emerge il nodo della ricomposizione teorico-politica che, sempre più, – e ciò esprime tutta la difficoltà dell’impresa labrioliana –, il nostro autore cercherà di tematizzare facendo fruttificare la prospettiva della ‘critica dell’economia politica’ marxiana e visualizzando giusto l’opzione di teoria politica delle classi e della riproduzione sociale che ne deriva14. Labriola, dunque, si dispone con maggiore esplicitezza a valutare il dinamismo conflittuale che il moderno squaderna e rassoda, sulla scorta, per esempio, dell’assai indicativo passaggio designato, da prestazioni teoriche come la stesura, nel 1880, di uno schema di scienza dello Stato, sulla traccia della Enzyklopädie der Staatswissenschaften di R. v. Mohl del 1859, ove troviamo restituita l’idea della statualità non in guisa di ‘organismo’ in senso ristrettivamente compatto ma, – in congruenza anche all’immagine della struttura differenziata desumibile dalla definizione di tale categoria nella sfera degli studi della psicologia tedesca –, diremmo, di ‘organamento’ concernente un plesso mobile di forze ininglobabili in alcuna ‘armonia prestabilita’, e procedenti, invece, in virtù del profilarsi di equilibri e di tese dissimmetrie15.

3. La Prolusione di fronte alla “Scuola storica” e nel contesto europeo Presiede all’orientamento teorico-concettuale labrioliano il tentativo, di cui riscontreremo la successiva, ampia affermazione, di leggere l’intima complicità tra morfologia e penetratività della mediazione storica, sceverandone l’integrale dimensione perspicuamente politica. In tale convergenza di piani consta, per esempio, il discrimen del nostro autore nei riguardi del dibattito, anzitutto in ambito tedesco, sul metodo delle scienze umane. Discrimen che, tuttavia, ha da essere constatato all’insegna della essenziale consapevolezza della forte e problematica tangenza di Labriola verso l’insieme tematico-categoriale che al suddetto dibattito pertiene. Torneremo anche oltre sulla profonda inscrizione della ricerca labrioliana nel contesto europeo (di cui già abbiamo potuto saggiare certuni risvolti). Ci preme, però, segnalare subitamente, apertis verbis, come il Cassinate affronti le medesime questioni che, fra ottocento e novecento, verranno affrontate da Dilthey, Simmel, Rickert, Weber, ecc. unendo l’indagine metodologica all’esame della costruzione dei modi di senso del mondo16, e, d’altra parte, cercando di collocare il loro lumeggiamento all’altezza di una adeguata teoria delle forme storiche. Guardando all’arco tendentesi dai lavori di più marcata sensibilità herbartiana, scritti soprattutto tra il ’71 ed il ’78, alla Prolusione del 1887, sporgono molti, circoscritti quanto strategici, parallelismi attinenti pure la discussione sulla metodologia storica. Si pensi alla nozione boeckhiana, all’interno della ‘Scuola storica’, di verstehen o alla concezione droyseniana della storia e della storiografia. Boeckh, in particolare nel volume del ’77 Encyklopädie und Methodologie der philologischen Wissenschaften, rifletterà sullo sviluppo e sul disporsi genetico delle sezioni epistemico-speciali, indicando nella funzione della filologia lo strumento di evidenziamento del verstehen configurante la cifra di unitarietà della segmentalità dei saperi scientifici differenziati, enfatizzandone il carattere costruttivo-sistematico. Con ciò, Boeckh segna una certa linea di convergenza con Bernheim (ma anche con Ranke, Sybel, Waitz, Eicken), che pure a lui non risparmierà critiche e che comincerà ad approcciare, con una maggiore misura di nitidezza, la vexata quaestio – culminante, sul piano dell’approfondimento, in Dilthey – della distinzione fra ‘scienze naturali’ e ‘scienze dello spirito’. La ricerca di Boeckh rappresenta un canale di passaggio dell’herbartismo verso di essa imperniato sulla funzione ricostruttiva della filologia, considerata in quanto conseguibile con la sua declinazione in direzione critica e non meramente e poveramente ermeneutica, sì da orientare la ricomposizione dell’oggetto di indagine

ermeneutica per via del riferimento al giudizio o, più ampiamente, per tramite di idealizzazione. Da una simile impresa di fondazione e finalizzazione conoscitiva della filologia, poniamo, il Labriola della Prolusione (e, in certa maniera, anche la complessità del suo impegno teorico successivo), in combinazione con il filtraggio di elementi determinati della Völkerpsychologie, recepirà un ulteriore spunto utile al conforto rispetto alla necessità teorico-generale di accantonare ogni organicismo in favore della appropriazione della strutturalità del reale, cioè dell’insieme delle sue relazioni costitutive17 da considerare in termini di esplicazione della mediazione e della cifra delle forme storiche; sino, poi, a riproiettare tale conseguimento in ordine al superamento dello schema rigido della discriminazione ‘struttura’/‘sovrastruttura’ in ambito marxista. Per quanto riguarda l’attenzione verso il modulo droyseniano, – direttamente, e rischiosamente, esposto alla confluenza fra contemplazione della astoricità cifrante l’emersione del dato e generale cognizione teistica della storia18 –, vi è da dire, in estrema sintesi, che, lungo il medesimo asse della, soprattutto indiretta, valutazione della posizione di Boeckh, il nostro s’impossessa del motivo della integrazione e della dilatazione storico-conoscitiva comunque adempibile da uno Standpunkt finito19, e lo trasvaluta e risemantizza20 mostrando il dinamismo costruttivo della attività come compreso nel dispiegamento plurale delle mediazioni reali, comprovanti quanto il comporsi delle forme definisca la chiara e solida ‘smentita’ di ogni tendenza concettuale concludente, de facto, all’imbozzolamento in un irrelato orientamento gnoseologico. Di qui, Labriola perverrà a visualizzare nella sua pienezza la centralità della nozione di ‘prassi’ in quanto fattore ove l’articolazione della mediazione arriva a convogliare nelle forme plasmate entro l’orizzonte realefinito, connettendo – senza, però, incappare in alcuna coincidenza indistintiva – organizzazione esperienziale-ideale ed apporti produttivi propri dei processi di socializzazione poggianti, a loro volta, sull’accumulo e sulla distribuzione differenziata delle forniture della ragione scientifica. Donde l’incidenza permeante del ‘lavoro’, atteso nel vincolo concreto con i circuiti della riproduzione della vita e della ulteriorità corrispondibile alla riproduzione ‘allargata’. Chiarificanti suoneranno in merito le celebri considerazioni, – cui dovremo agganciarci nell’evoluzione del discorso, ove schietti accenti vichiani si legano a tutta la costellazione categoriale labrioliana, all’interno della quale sporge la nozione di ‘terreno artificiale’ –, della Delucidazione Preliminare, dove troviamo affermato: «Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali; ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro». Per Labriola, tenere presente la variegata letteratura sull’argomento non

impedisce, ma anzi è funzionale a designare una alternativa ai rischi, – riferibili, de facto, ad una netta inclinazione verso un disegno di ‘rivoluzione passiva’ –, di rabbassamento della storicità a fissi schemi storiografici (si pensi ad alcuni aspetti della successiva riflessione crociana, a cominciare dalla valenza meno proficua della relativa lettura del marxismo, ovvero quella che tenderà a comprimerlo a esclusivo ‘canone storiografico’21). È da osservare che persino la peculiarità dell’indagine storiografica viene capovolta nel suo modello di riferimento, giacché l’attributo di oggettività, per così dire, ‘direttamente constatabile’ fuoriesce dalla predominante formulazione del rapporto fra il contributo delle discipline a valenza ‘integrativa’ e la ‘certezza del risultato’ poiché essa inevitabilmente ‘presta il fianco’ alla fallacia empiristica, vuoi nella sua cruda declinazione, vuoi nella versione ‘sublimata’ volta ad enfatizzarne il connotato di Einmaligkeit. Il lettore potrà ricavare dall’avanzare del ragionamento come la implicita critica labrioliana al ricongiungimento della nozione steriotipata di ‘filosofia della storia’ con l’ideale di armonia deterministica sotteso all’immagine classico-liberale di ‘società autoregolata’ – ossia di ‘società automatica’ – intendesse evitare anche la caduta sul fronte del «cieco evoluzionismo», passibile magari della saldatura al suddetto ideale entro le secche della «morta gòra del positivismo», come egli stesso si troverà a stigmatizzarla con efficacia. L’accento posto sul metodo genetico e sul momento epigenetico capace di dar conto del discretarsi, dello spezzarsi e complicarsi interno del tempo storico – ripugnante allo schema lineare-seriale – configurato dal disporsi di ‘plessi’ o ‘sistemi’, conduce, in ultima istanza, alla riconquista della dimensione dialettica. Al lume della precisa consapevolezza dell’incrinarsi radicale dei progetti finalistici di matrice sia idealistica che positivistica, il Cassinate procede – cerchiamo di esplicitarlo ancor meglio – lungo una ‘linea di condotta’ consistente nell’avvalersi degli spunti desumibili da diversi modelli epistemico-storiografici, sapendo, però, che la loro accettazione sic et simpliciter o la considerazione esclusiva dell’uno o dell’altro non concluderebbe che, appunto, al ripiegamento sul lato della frammentazione e della dispersione empirica. In definitiva: tanto gli indirizzi riferibili a soluzioni strettamente metodologiche o di ricostruzione puramente legalitaria della universalità (afferibili, che dir si voglia, alla vocazione fondamentale del trascendentalismo), quanto i moduli segnati dalla teleologia rivelano, per Labriola, un profondo ‘vuoto di teoria’ a cui si potrà rispondere soltanto con l’impegno per la ricomposizione tra determinazioni genetiche e visuale storico-mediativa, cioè ‘rifondando’ le strutture e proprietà del logico-storico22, in vista di una loro compiuta appropriazione.

È importante sottolineare che il nostro autore adempie ad una sorta di rovesciamento implicito di alcuni modelli afferibili a posizioni come quelle richiamate. Esso viene operato all’insegna della lucida consapevolezza di tutte le implicazioni generali della tematica della filosofia della storia. In generale, il grumo problematico attorno al quale si addensa il multiverso dibattito sui criteri della ricerca storica – dalla Historik di Droysen o dalle opinioni di Bernheim, appunto, a quelle di Gervinus, Böck, Wolf, inerenti, tra l’altro, e non marginalmente, la diffusione del vichismo – venne da Labriola rielaborato correlandolo ad un’immagine della costruzione genetica ottenuta attraverso una particolare terapia di denaturalizzazione che, però, crediamo, si mostrava capace di non essere insensibile agli echi delle sollecitazioni provenienti dagli studi sul mondo organico in chiave di biologia postdarwiniana, – pensiamo al sondaggio compiuto da Hertwig delle tesi riguardanti l’‘epigenesi’ e la ‘preformazione’, nel ’9423, o agli argomenti espressi da Roux in Zur Orientierung über einige Probleme der embryonalen Entwicklung dell’85 –. Sollecitazioni che, come derivabile da quanto appena indicato, si distendono su tutta la riflessione in merito alla concezione materialistica della storia24, consentendo di cogliere con efficacia come l’originario motivo dello stagliarsi di neoformazioni differenziate configuri livelli modulari di latenza e di composizione appropriativo-costruttiva sospingenti i percorsi di socializzazione ed appropriazione nel loro intrinsecarsi all’unità ed ai termini di maturazione che, in vero, solo un’accezione complessa del dialettismo è in grado di qualificare, esibendo l’intensificarsi del vincolo di Bildung e strutture storiche. Vincolo che ha a squadernarsi, – ed in ciò è rilevabile, ancora una volta, il mai venuto meno riflesso della decisiva assimilazione della lezione hegeliana25 –, nella sua compiutezza, e che si sottrae ad ogni semplificatoria variante. Del resto, si manifesta come pienamente coerentizzabile con quanto appena detto la costante interlocuzione nei riguardi della temeatica del rifrangersi delle variegate gamme concettuali concernenti i contenuti di coscienza entro il campo della psicologia e delle ‘filosofie della cultura’. Pensiamo a quanto sia indicativo l’apprezzamento labrioliano, nel corso del 1884, verso l’«eccellente libro», così lo definì, di Lipps Grundtatsachen des Seelenlebens, dell’anno prima26. In esso, – analogamente a ciò che Brentano fece, da una diversa direzione, nella Psychologie vom empirischen Standpunkt –, si cerca di formulare una precisa idea della funzione della psicologia in quanto elucidante una pretta legalità interna, sicuramente integrabile con i risultati della filosofia wundtiana, a cui base è posta – antiriduzionisticamente – la ‘filosofia’ in qualità essa stessa di scienza del Geisteswissenschaft, che, a sua volta, è chiamata, evidentemente, ad

assumere un ruolo fondativo in quanto scienza del Getriebe des seelischen Lebens. Si affianca a tale impostazione la critica alle relative inclinazioni all’ipostasi, di cui l’isolamento dei contenuti di coscienza configurerà lo speculare corrisposto segnalato dalla riflessione del Lotze, vista anche la ripresa del progetto kantiano di reimpostazione del rapporto di natura e cultura, attesa in quanto capace di scaturire una nuova antropologia abilitata a ridefinire gli intrinseci rimandi tra storia naturale e vicenda del genere umano27 (compito, quest’ultimo, che è lecito collegare pure allo specifico della Völkerpsychologie). Si può affermare che Labriola recepisce simili sollecitazioni teoriche esaltandone, per prima cosa, l’aspetto di evoluzione non formalistica e che, malgrado esse non siano in grado di condurre direttamente ad intendere l’intreccio inscioglibile ed unitario tra differenziazione incomprimibile del reale e mediazione storico-dialettica (che pure, in un ambito come quello della Prolusione, non raggiunge una chiara fisionomia concettuale, lasciando, però, emergere molti decisivi punti di intervento e ridefinizione), ne privilegi, certo al di fuori dei caratteri contraddistintivi di detto progetto di matrice kantiana ed in ferma alternativa al riduzionismo positivistico28, – sulla scorta, indubbiamente, dell’oltrepassamento spaventiano della opposizionalità rigida ‘natura’–‘spirito’ –, l’insistenza sulla trama ‘totale’ e fluida in cui hanno ad esplicarsi e tipizzarsi i momenti di incidenza della Selbesttäting determinante ogni elemento della pluralità del reale. Labriola convoglia siffatto indirizzo, ad un più avanzato livello, nell’impresa della ricostruzione dell’oggetto storico in ordine all’inquadramento della complessa costituzione del tempo storico per entro lo spazio della teoria. è un compito, quest’ultimo, che, se ripugna alla compressione omogenea in una legalità statutariamente idealizzata come autosufficiente, consta di una chiara analogia strutturale con l’aspetto plurifattoriale e di connessione ‘totale’ dei ritmi e delle direttrici vitali proprio delle paradigmatiche angolature tematiche appena indicate. La Prolusione del 1887 su I problemi della filosofia della storia va intesa come ‘tappa’ rilevantissima del percorso teorico labrioliano da collocarsi ad un simile livello di discorso. Essa esige di essere riconnessa a tutto il successivo dibattito sociologico e teorico-politico, che avrà, poi, a squadernarsi dalla seconda metà degli anni novanta (basti riferirsi esemplificatoriamente all’incidenza del neokantismo à la Stammler, che, nove anni dopo, nel 1896 pubblicherà un testo decisivo come Wirtschaft und Recht, cui dovremo tornare a fare cenno), protraendosi fino agli inizi del ’900, intorno alla discriminazione ‘storia’-‘teoria’ centralmente problematizzata da Simmel come da Rickert, da Sigwart come da alcuni aspetti delle ricerche wundtiane, sino alla tematizzazione

sombardtiana che, con la corrispondente ipotesi di storiografismo economico (la quale tenterà di propugnare una sorta di ‘terza via’ tra il bruto empirismo ed il legalitarismo kantiano-newtoniano), arriverà ad evidenziare uno scenario generale ove la già richiamata distinzione tra il versante della Geiseteswissenschaften e quello della Naturwissenschaften apparirà comportare la concessione al solo secondo campo della oggettiva operatività dei medesimi criteri di legalità. Tali criteri cioè, emergeranno soprattutto, entro codesta cornice, nella loro validità universale attribuita in senso costitutivo, e, d’altra parte, la Historie si vedrà nettamente differenziata dal carattere di Einmaligkeit degli eventi29. Trattiamo, del resto, della fase temporale e dell’ambiente in cui, primariamente in Germania, la costellazione neokantiana si allunga sulla integralità dell’impianto dell’Historismus e lo oltrepassa radicalmente. Basti rammentare, evocativamente, la data di uscita di alcuni testi: nel 1884 esce la prima edizione dei Präludien di Windelband; nel 1892 quella di Die Probleme der Geschichtsphilosophie di Simmel e di Der Gegenstand der Erkenntnis di Rickert; nel 1892, Geschichte und Naturwissenschaft di Windelband; nel 1896 la prima parte delle Grenzen rikertiane, di cui la seconda parte apparirà nel 1902; passando per la pubblicazione nel 1900 di Kant und der Sozialismus di Vorlander, ed arrivando alla data di morte di Labriola, il 1904, in cui compare il saggio adleriano su Kausalität und Teleologie im Streit um die Wissenschaft. Non sembrino impressionistici o fuori luogo i presenti richiami. Essi concorrono a situare Labriola in una trama di accentuazioni teoriche e questioni alle quali il suo pensamento deve venir agganciato saldamente in termini di confronto; stringendo, magari, il significato di ‘ulteriorità’ critica proprio della Prolusione, distendendolo e ‘accertandolo’ reattivamente rispetto a tutta la elaborazione marxista. In questa vediamo culminare la intentio di esibire la coestensione mediativo-reale della struttura logico-storica, – donde la pregnanza del ‘procedimento dialettico’ –, alla molteplicità e differenziazione delle forme, apprese nella contraddistintiva mobilità modulativa (implicante l’esigenza di non escluderne mai la funzione di configurazione genetico-interna). Nella Prolusione emerge un’idea dell’obiettivarsi della vita in relazione e sistema che ha, per esempio, alcuni punti in comune con talune tesi espresse assai dopo da un Simmel (pensiamo ad un testo come Vom Wesen des historischen Verstehens del 1918), fermo restando che Labriola non sembra condividere l’idea estremizzata di una traduzione spontaneo-diretta tra ordine della prassi e ordine logico, tra la vita e le sue forme30 (e certamente neanche l’ottica simmeliana appare aderire pacificamente ad un simile assunto31). Inoltre, non è chi non veda – torniamo a

battervi – come l’impegno del filosofo di Cassino si inserisca nella grande mobilitazione teorica europea sul nodo della ridefinizione dell’‘intelletto sociale’ in relazione alla regionalizzazione produttiva del sapere, esibente l’interdipendenza inscioglibile di specializzazione e razionalità scientifica. Esemplari punti di riferimento sono in proposito opere di portata eccezionale, e certo distanti dal nostro, come la Einleitung diltheyana dell’83, – il cui nocciolo categoriale maggiormente proficuo risiede nella delucidazione della stratificazione discontinua di forze (successivamente qualificabili, in quanto forze produttive) entro il campo della storicità, connessamente al circolo epistemico della vita (laddove si dispone l’intervento delle relazioni costitutive dell’Erleben) entro cui, a sua volta, si sedimenta la dimensione della traditio in quanto ambito del lavoro accumulato al quale si legano i modi di ‘costruzione’ del mondo storico da parte delle scienze al lume della oggettività per cui tramite trova esibizione la struttura relazionale della vita stessa32 –; come l’Analisi delle sensazioni di Mach, del 1886; o, ancora, come la riflessione rickertiana tesa fra la sussunzione dello stesso vincolo strutturale realtà-filosofia nella intenzionalità pura del predicato di valore, da un lato, e la permanente riconduzione del Sinn alla sfera soggettiva, da un altro33.

4. Il problema della rifondazione dell’idea di ‘legalità’ A questa altezza, sporge con nettezza la capacità di Labriola di utilizzare la ‘verifica’ dello spazio della filosofia della storia in quanto veicolo e leva di una pretta, originale rifondazione dell’idea di legalità. Ciò significa, anzitutto, per il nostro, sottrarne l’identità ad un mero principio di sussunzione o di riduzione, commisurandola, altresì, alla logica di movimento interno alla particolarità delle formazioni. A ciò conduce – anziché all’abolizione di tale idea o allo speculare diluimento nella serialità lineare, oppure in una astratta ipostasi ad impianto ‘universale’ –, la visualizzazione genetica, abilitata, anzitutto, a motivare lo scaturire epigenetico delle neoformazioni. Afferma il nostro in merito che il «significato di legge è analogo a quello della morfologia nelle scienze organiche, e consiste precisamente nel riconoscere le condizioni di corrispondenza, o d’azion reciproca, da cui nasce un dato tipo». E poco oltre: Data la interpretazione teorica dei fattori della civiltà, come criterio distintivo della storia dalla non-storia, dato il concetto del sistema per funzione di coscienza sociale, dal quale concetto risultano e la legge e il tipo, la storiografia tradizionale che usa del criterio prospettico della successione nel tempo per dati di cronologia uniforme, si risolve da sé come in tanti processi di formazione specifiche, aventi il proprio ritmo e indipendenti dalle divisioni condizionali di oriente e occidente, di antico, di medioevale […] o come altro si dicano34.

Approdando, in definitiva, a considerare: «Tutte le tendenze e tutti gli studii scientifici, che hanno svecchiata già da un pezzo la storiografia tradizionale, la spingono sempre più verso una rappresentazione pensata delle cause operanti particolarmente ed in complesso in un determinato periodo. Ma per quanto essa si giovi della scienza come di sussidio e di presupposto, l’ufficio suo è pur sempre quello di narrare e di esporre. E perciò appunto la filosofia della storia non può né deve essere una storia universale narrata filosoficamente, ma anzi una semplice ricerca sui metodi, su i principii e sul sistema delle conoscenze storiche»35. Ne viene che la interrogazione sulla demarcazione ‘storia’ / ‘non storia’, – iscriventesi nella cornice dell’impegno verso il ‘continente-storia’ e la costituzione del suo oggetto a fronte del dispiegamento di strutture epistemiche compresenti alle forme reali –, consente al nostro autore di vagliare l’articolazione e la composizione del campo storiografico. Per Labriola, si tratta di desumere – di contro ad ogni ‘estraniante’ ipoteca –, dalla narrazione che gli è propria non già lo schema diacronico-evenemenziale della «cronologia

uniforme», ma l’emergere definitivamente plurale dei ritmi particolari dei «processi» concernenti «formazioni specifiche» costituenti la pluridirezionalità interna del tempo storico in ordine al continuo plasmarsi di una morfologia complessa ove, realiter, la mediazione scorre raddensandosi nelle disposizioni e nei modi di attraversamento diagonale delle cerchie sociali congiunte alla segmentazione del sapere speciale. Dunque, il discorso labrioliano, partito dalla suddetta analogia, non conclude ad un approccio di sapore naturalistico. Nell’originale ottica antifinalistica labrioliana, al centro del compito della ‘filosofia della storia’ è da porsi, d’altra parte, non la mera prospettazione di un ideale Weltgeschichte, bensì l’indagine storico-strutturale in grado di elucidare la costituzione delle forme nella connessione con le linee di scorrimento interne al tempo storico, restituendone tutto lo spessore del movimento. Così, «la ricerca […] sui principi e sul sistema di conoscenze storiche» fuoriesce dai meri confini della discussione sul Methodenstreit ed arriva a sottendere tutto un programma di ricerca concernente l’orizzonte di ricomposizione delle differenziazioni storico-reali in grado di non eluderne la costituzione genetica, ed inteso, perspicuarmente, come fattore strategico, sul piano concettuale, di effettiva sottrazione del tempo alla uniformità seriale. A suo centro vi è la costruzione di un’adeguata alternativa alle due opzioni del riduzionismo e del trascendentalismo fondata sul concetto di ‘legge’ come veicolo alla individuazione dinamica di omologie tipologico-strutturali. A ciò si trova ad essere commisurata la diversa ed innovativa classificazione di un apposito principio di legalità36 nella direzione della comprensione di quella dinamica interna affermantesi, de facto, nella compiuta configurazione del circuito delle mediazioni storiche; rendendo possibile la scansione discreta di sempre nuove forme. Stando in tal maniera le cose, i termini in cui Labriola elabora un’ipotesi di filosofia della storia abilitata ad esprimere una precisa Kulturgeschichte critico-morfologica37, – designando il ricambio storico-naturale compresente all’irradiarsi delle modificazioni storico-temporali (il vertebrarsi del «lavoro di ricambio»38) –, appaiono capaci di saldare tutti i contenuti problematici evidenziati dalla genetischen Geschichtsanschauung sul fronte della ricostruzione dell’oggetto reale, facendone la leva per la penetrazione del mondo storico. Tutto ciò mostra come le prospezioni conseguite nella Prolusione dell’87 non segnino, sostanzialmente, l’elusione della migliore eredità hegeliana – a cominciare dalla corrispondente critica del kantismo (pensiamo ancora alle pagine della Grande Logica dedicate alla ‘cattiva infinità’) –, ma si confrontino con la ‘posta in giuoco’ di tracciare lo spazio unitario della Durcharbeitung39. Esso vien concepito con l’impegno ad affrontare la vexata quaestio

dell’oggettivazione della ‘vita’ nei saperi speciali – fondamento di tutta la ricerca di un Dilthey – come non risolvibile nell’‘affrancamento’ dello ‘spirito’ dal concetto, stante che la connessione dinamica che all’oggettivazione pertiene lascia emergere il sistema ‘in divenire’ delle forme le cui interconnessioni obiettive non ammettono alcuna soluzione alludente ad una mera ed unilaterale ‘costruzione dall’esterno’, così come invece implicato dalla logica trascendentale presiedente anche ad una certa idea della temporalità in quanto ‘fluire’. Bisogna, tuttavia, subito precisare che se, in sostanza, la impostazione della Prolusione è da collocarsi in una siffatta ‘direzione di marcia’, sul piano testuale essa costituisce un contributo posto in escursione esplicita nei riguardi del polo hegeliano. La cosa si spiega anzitutto perché su di questo pesava l’ipoteca di una cattiva ricezione che concludeva, in fin dei conti, a fare del grande tedesco il cardine della secolarizzazione in senso comulativo-progressivo del messianesimo occidentale. Labriola, tuttavia, pur concedendo la possibilità che le componenti fondamentali della filosofia della storia hegeliana possano venire «male intese, e peggio interpretate»40, qui tende a ricondurla al monismo teleologico, in maniera tale da leggere il già acquisito e condiviso motivo dell’unità del processo storico nella chiave incline ad una stretta, quasi rischiosamente occlusiva, strategia di riconduzione alla uniformità lineare: «La filosofia monistica, la quale culmina in Hegel […] per gl’influssi teologici di cui sentiva ancor vivissima l’azione, e per la natura stessa del suo assunto, ch’è quello di ridurre ad assoluta unità ogni materia conoscibile ed ogni metodo di conoscenze, mise come il suggello a cotesta concezione […] di un processo unico di tutti gli accadimenti storici»41. Vero è che, in piena coerenza con tale generale e preliminare valutazione, nel testo la divaricazione del momento genetico da quello dialettico arriva a un punto massimo di intensità, ma ciò non deve far velo alla considerazione per cui la trattazione genetico-epigenetica dei fenomeni richiama ad una percezione della complessità del tempo storico comunque realiter rinviante alla impalcatura logico-storica unitaria hegeliana. Codesta trattazione, infatti, domanda, a sua volta, quella ricomposizione teoricoconcettuale che pure, – come si è accennato e come cercheremo di confortare fra un attimo –, viene nella Prolusione indicata ed avvertita, ma che sarà attualizzata compiutamente con l’appropriazione matura del campo, appunto, dell’unità dialettica. Infatti, ragionando sui nuovi metodi scientifici intorno alla storia, Labriola afferma che l’animo col quale coteste combinazioni si vanno facendo, dice già molto in favore del tentativo; massime quando esso riveli il proposito di cercare, e di non presupporre l’unità, e di

esporre geneticamente, ma non di dedurre le differenze42;

già ‘aprendo la via’, implicitamente, a stringere insieme lo spessore e il ‘tempo interno’ delle cerchie speciali, il loro contributo all’analisi critico-genetica delle forme che discretano il tempo storico, e la qualificazione della loro permanente differenziazione e del loro dinamismo nell’orizzonte della dialettica storica, che consente di scoprirne lo scorrere mediatore di cui appaiono innervate e le strutture di movimento che ne sono proprie. Nel presente scenario il ruolo soggettivo-oggettivo arriverà ad essere integralmente riqualificato sull’asse non dello stabilimento del ‘presupposto’ ma del ‘risultato’ immanentemente connesso al processo, ridefinendone i termini della ricomposizione secondo quelli della sua formazione.

5. La questione della struttura del tempo storico Il costitutivo congiungimento labriolano dell’articolarsi genetico-morfologico alla struttura del tempo storico consente di inquadrare la storicità in foggia di processo formativo, configurando l’alternativa alla matrice soggettivistica (che lo si voglia o meno) dei prevalenti procedimenti di focalizzazione concettuale concludenti all’ipostasi. L’esibizione dei tratti salienti di tale approccio teorico ci dovrebbe consentire di riannodare i fili rispetto a tutte le indicazioni che abbiamo formulato in merito alla ampia gamma di interlocuzione cifrante la presenza del Cassinate nella cultura europea. Vediamo meglio. Egli, evidentemente, non rinunzia al momento della ricomposizione teorica ma – coerentemente a tutto l’evolvere del proprio cammino – ne definisce il ruolo in virtù delle acquisizioni specialistiche volte alla caratterizzazione della costruzione storica. Osserva Labriola: «la esigenza della obiettività, che non vuol più dire il semplice opposto della subiettività accidentale del ricercatore, si tramuta in consapevole tentativo di conciliare, in modo reale […] i diversi elementi e le varie funzioni che concorrono alla formazione del fatto storico. E quando di cotesta conciliazione si voglion poi ricercare le ragioni per davvero più intime e più generali, ecco che la questione piglia forma di grave e difficile problema teorico su la natura delle condizioni proprie del vivere umano […] La soluzione di così fatto problema» pertinente alla necessità di chiarire «il valore specifico, correlativo e complessivo dei così detti fattori storici, non è chi possa dirla indipendentemente dal concetto generale della scienza; il che è come dire dalla filosofia, la quale è dottrina fondamentale dei principii della scienza»43. Ne viene che il compito di ricomposizione della «dottrina fondamentale dei principii della scienza» si raccorda, innanzitutto, col guadagno di una adeguata Darstellung44, posta da alcuni al di sotto della terminologia di «Historica, parola foggiata per la prima volta da Gervinus in analogia a pedagogia e grammatica, e usata poi dal Droysen», sul cui specifico il nostro non si pronuncia «né pro, né contro», cogliendo, altresì, l’occasione per risalire alla fontalità dello stesso vincolo filologia-filosofia, ricollegandosi problematicamente («in un certo senso e in certi limiti»45) alla cognizione böckhiana della filologia medesima in qualità di Erkenntnis des Erkannten, nonché rivendicandone l’ascendenza nello storicismo vichiano. È opportuno considerare il brano della Prolusione in cui il nostro si richiama alla recensione che, nel ’72, egli fece ad un volume di Lindner, Ideen zur Psychologie der Gesellschaft46, per finalizzare la tematizzazione critica della

‘psicologia sociale’ in vista di ulteriori conseguimenti ed implicazioni. «Alcuni anni fa» – rammenta Labriola – «io feci oggetto di una critica, dire quasi spietata un manuale di psicologia sociale uscito dalla penna di uno degli scrittori della scuola herbartiana, e tengo fermo anche oggi nei miei dubbi e nelle mie riserve per rispetto alle formule troppo recise della psicologia sociale; appunto perché vedo quanto ci sia di frettoloso e di poco conclusivo nella più parte dei libri che pigliano a fondamento delle loro indagini il cosiddetto spirito collettivo […] Io credo, insomma, che in codesto genere di studii siamo ancora allo stadio della preparazione, e che non abbiamo superato la critica elementare, che deve formare oggetto di una propedeutica speciale. Ma come a spiegare plausibilmente i plessi e i nessi storici ed intendere, insomma quei sistemi di attività coordinata che chiamiamo diritto, religione o simili, gli è cosa indispensabile per sorpassare i veri e propri confini della vita individuale, e quella cerchia ancora in che consiste la semplice convivenza per similarità d’individui, non si può fare a meno di attribuire alla coscienza sociale il valore preciso di una funzione determinata». Di qui, il nostro rivendica di tenere «all’indirizzo dello Steinthal e del Lazarus», attribuendo, vieppiù, «un gran peso alle obiezioni sobrie e calzanti fatti non è guari dal Wundt»47 rispetto a quelle che il «linguista Paul»48, entro i Prinzipien, aveva formulato nei riguardi di certune tesi della stessa Völkerpsychologie. In ciò consta anche la leva attraverso cui cifrare concettualmente il passaggio – movente dalla ricostruzione genetica concernente la suddivisione in cerchie regionali interne alla dimensione collettiva, al suo plasmarsi ed ai relativi indirizzi di determinazione – verso l’indagine della ‘complicità’ tra sempre maggiore complessificazione dei procedimenti di socializzazione cognitiva, rassodantesi nella stessa realtà delle cerchie speciali, ed effettività della morfologia storica; sì da sfruttare gli spunti peculiari della ‘psicologia dei popoli’ collocandoli su una soglia avanzata. Entro di essa si rende stringibile la trama di implicazioni lumeggiata dalla ricognizione genetica e dinamico-strutturale della organizzazione del tempo storico. In ciò, in definitiva, è da cogliersi l’intento profondo della dislocazione e riclassificazione antifinalistica, – in termini che abbiamo indicato, crediamo opportunamente, di Darstellung –, degli argomenti di studio della ‘filosofia della storia’ operata da Labriola, e del commisurato orientamento verso la ricezione delle forniture produttive recate dalle «indagini speciali» della Völkerpsychologie ed intendibili quali riguardanti la intrinseca proiezione entro la dimensione sociale delle forme, di contro alla semplice generalizzazione psicologica dell’ambito sociale propugnata da approcci del tipo di quello di Lindner49. A questo punto sarà, dunque, necessario dedicarsi a

tentare di comprendere come il discorso condotto nella Prolusione, malgrado un certo grado di divorzio, – almeno in superficie –, dal piano dialettico, ed anzi, paradossalmente, proprio in forza di ciò, istanzii ante litteram molti elementi della fase marxista, quasi a domandare una indispensabile integrazione di ottica. Vediamo meglio.

6. La questione della divaricazione tra dialettico e genetico Seguiamo l’argomentazione labrioliana, che prelude al nodo della compenetrazione scienza-oggetto poi affrontata distesamente nei Saggi: o sia – egli ragiona – […] che lavori dentro il nostro spirito un sentimento indistinto, o un vago concetto dell’unità ideale del genere umano, o che la paziente e rigorosa ricerca dei particolari, con lo scovrire o col ritrarre dal vero delle connessioni sempre più vaghe e multiformi, ci faccia argomentare se n’abbiamo a trovar poi delle altre sempre più generali e più complesse, sta il fatto che in molti è viva sempre la fede nella unità effettiva della storia, che, rifatta dentro il pensiero, possa esprimersi come per immagine in un quadro grandioso50.

Lo sforzo di Labriola si volge ad abbandonare il presupposto dell’ipostasi dell’‘unità reale’, quale matrice del finalismo, ed a dislocare l’incidenza del pensiero e l’istanza della ricomposizione sul terreno del processo formativo del ‘fatto storico’. Parimenti, il procedimento di ricostruzione che qui viene designato si distanzia profondamente dall’intendimento in chiave di funzione e coscienza ‘esterna’ del fattore storiografico su cui convergeranno – seppure con accentuazioni molto differenti, e in relazione critica diretta alla prospettiva del Cassinate – Croce e Gentile. Esso viene incardinato, altresì, su una particolare idea dell’oggetto storiografico, del compito della teoria, e, di conseguenza, del concernente criterio di obiettività. Per quanto riguarda il primo di questi tre temi reciprocamente vincolati Labriola asserisce, interrogandosi sui requisiti distintivi rispetto alla predicabilità di certuni eventi umani come eventi ‘storici’: Nella varietà dei casi e degli accadimenti storici, già distinti e contrapposti come che siasi a quelli che non teniam per tali, si trovano come delle forme di rapporto e d’insieme […] le quali forme assorgono dal corso ordinario e naturale della specie come per rilievo, anzi pare rappresentino come dei nessi o plessi di attività, come degli organi di coordinazione, come dei centri di attrazione. E la gran corrente, che è quella che più comunemente e volgarmente chiamiamo contingenza storica, pare s’infranga innanzi a cotali formazioni resistenti, e non riesca a roderle e scomporle, se non a patto di fermarsi e di raccogliersi essa stessa, per produrre di bel nuovo alcuni sistemi equivalenti per ufficio ed energia51.

È da osservare che i ‘plessi’ non fungono, nella veduta di Labriola, da elementi di demarcazione fra ‘civiltà’ e ‘non civiltà’, fra ‘storia’ e ‘non-storia’,

come preteso dalla brutalità dell’empirismo («Il sentimento scientifico, se non la scienza propriamente detta, s’è venuto po’ per volta impossessando di […] peculiari condizioni di conoscenza; e le persone colte si abituano, come per acquiescenza, ad ammettere un che di speciale del vivere umano che si chiama storia, che pur svolgendosi sopra i comuni dati antropologici, ha l’apparenza di costituire un mondo a sé. E le formazioni stabili paiono per naturale conseguenza, senza che se ne discuta altrimenti, come il centro principale dell’attività, per rispetto a cui tutto il resto assume la parte di semplice condizione, o di complemento. E le neoformazioni si accettano qual fatto immediato del passar della vita d’una in altra condizione; e quando accada di associare al concetto del semplice processo un qualche apprezzamento pratico, si parla poi di progresso e di regresso. Al filosofo che ripensi a cotesti presupposti impliciti nella ricerca e nella cultura dei nostri tempi, parrà naturale di chiedersi, se c’è modo di giungere a una definizione intrinseca del fatto storico […] Gli storiografi puramente tradizionalisti, e i cultori delle discipline storiche, i quali si tengono per inclinazione o a disegno nei limiti del puro empirismo, risolvono la prima questione in modo semplice e spiccio: tirano come una linea fra il mondo della civiltà e quello dei così detti selvaggi o barbari, e interpongono come un piano fra le classi dirigenti e rappresentative delle società avanzate, e le moltitudini, lo studio delle quali rimane abbandonato, secondo i casi, all’etnografia, o alla demografia»52). Il vertebrarsi della costituzione delle forme storiche domanda la critica ed il conseguimento di una opzione alternativa alla piattezza dell’evoluzionismo, incapace di dare una soddisfacente giustificazione delle ‘neoformazioni’ e rinviante, ‘per contrasto’, nonostante la escursione (comunque a valenza tensiva) dell’ottica della Prolusione rispetto ad essa, alla necessità di porre, in definitiva, l’embrione della reintegrazione della dialettica espressa proprio dalla nozione di ‘epigenesi’. La nozione svolge anzitutto, de facto, la funzione di consentire che le medesime esigenze riconducibili a siffatta reintegrazione vengano liberate dal pericolo del loro capovolgimento sul corno dell’evoluzionismo in ordine alla comprensione del processo di costituzione delle ‘neoformazioni’. In proposito, Labriola osserva come «la fretta» sia «per davvero una pessima consigliera nella scienza; la quale vuol essere principalmente critica, cioè sentimento preciso della distinzione», e come, vieppiù, occorra arrivare a comprendere che nel campo del tempo storico non c’è un semplice trapasso d’uno in altro punto della medesima serie, e non la semplice accumulazione secolare ed inconscia di prodotti che si alterino da sé, per impulso inerente alla lor propria natura; ma sì invece una certa maniera di tramutamento nell’azione propria dello spirito, una vera e propria epigenesi di natura peculiare. E le

scienze storiche speciali, non meno che la storiografia generale, han bisogno di una teoria epigenetica della civiltà, se non vogliono, o smarrirsi nel cieco evoluzionismo, o rimanere campate in aria, fidando nel vago sentimento di differenze non riducibili a criterii fissi53.

L’accezione antievoluzionistica della ‘epigenesi’ esprime in nuce un’idea di dialettismo capace di tener insieme la penetrazione conoscitiva del movimento reale e la giustificazione della innovatività dei casi di discontinuità qualitativa, cioè delle ‘neoformazioni’. In definitiva, nell’alveo della Prolusione, la percezione di storia e storicità appare incardinata sui due coimplicati aspetti, da un lato, della opportunità di non risolvere lo studio storiografico nell’indagine dei fatti parziali, concentrando l’attenzione verso i plessi-sistemi costituenti i ‘poli di attrazione’ degli eventi individuali, e, dall’altro, del rifiuto del criterio seriale e cronologico-unilineare di organizzazione del tempo storico.

7. Un primo avanzamento sul terreno della ricostruzione logico-storica dell’oggetto Tutto ciò comporta la precisa ridefinizione dello statuto della teoria concentrata nell’istanza di procedere sul terreno del «rifare da dentro del pensiero». In maniera alternativa a come è stata ordinariamente ‘messa in opera’, cioè sul piano della ‘deduzione’ o su quello della mera ‘ricostruzione’, ambedue tendenzialmente convergenti verso il fronte del finalismo. Essa discende dalla convinzione per cui i sistemi, o plessi, o nessi di attività permanente, che procedono da similarità di bisogni, da comunità d’intenti, da accordo di inclinazioni […] non sono semplici concrezioni accidentali […] ma un che di specifico, che offre alla nostra considerazione la materia e il mezzo di formulare dei problemi ben determinati54.

La scoperta di formazioni storiche di carattere epigenetico, sulla scorta della rifondazione dell’idea di legalità che abbiamo adombrato, apre ad un nodo centrale della riflessione sulla concezione materialistica della storia, cioè a quello della referenza della previsione antideterministica alla morfologia. Infatti, l’idea di legge va mantenuta in una accezione svincolata dalla ingenua cognizione dell’«ordine ovvio della cronologia estrinseca» e si trova inscritta nell’ambito sistematico-processuale. L’avvertimento della centralità di esso, segnalato anche in congruenza ad una parte significativa della storiografia tradizionale, evidenzia, tuttavia, uno scarto eversivo nei confronti dei moduli di questa. Di qui, Labriola, si contrappone all’impoverente interfacciarsi ed alla unificazione per via soggettiva dello storico-eurista, mirando alla costruzione del sistema, nella chiave di una peculiare apprensione della oggettività connessa al momento della ricomposizione-ricostruzione (il rifare la storia «dal dentro del pensiero») che si afferma in quanto appropriazione in merito ai processi di socializzazione – commisurata alla assunzione integrale della massima complessità del reale coestesa all’intreccio dei ritmi di formazione speciale costituenti il tempo storico – così da conseguirne tendenzialmente proprio l’unità (che qui si comincia ad approssimare) e non a presupporla. Le misure filologiche relative non si rendono più esclusivamente riducibile al grado di correttezza della strumentazione tecnica. Labriola osserva, più generalmente «in primo luogo, che la certezza del risultato non si misura soltanto dalla precisione istrumentale dei metodi paleografici, filologici, linguistici, o come altro si

chiamino, ma anche e principalmente dal grado di […] riproducibilità teorica della materia presa in esame: e in secondo luogo, che gli elementi teorici coi quali s’interpreta il fatto storico, quando siano stati per se stessi convenientemente dichiarati, dan luogo a discipline generali, che fanno come da capisaldi di ogni ulteriore ricerca particolare»55. Facciamo attenzione: ancora una volta, il richiamo labrioliano al sinolo di ‘riproduzione teorica’ ed orizzonte generale non scade mai in una forzosa monocromia, ma cerca di conseguirlo per cifrare, in definitiva, lo spazio obbiettivo ove riclassificare il dinamismo delle cerchie cognitivo-sociali corrisposte alla morfologia speciale dei saperi. In tal senso va inteso il riferimento – già precedentemente menzionato – alla «dottrina fondamentale dei principi della scienza». Questo mostra un meccanismo problematico di rovesciamento della relazione classica fra «esatte ricerche» e «sistema filosofico», per dirla con le parole della Risposta a Zeller, conducente ad un radicale ripensamento della dimensione veridica. Tale dimensione, – all’opposto del rigido schema epistemico cartesiano –, insiste, nell’ottica labrioliana, su un ‘doppio movimento’ rivolto alla ricomposizione: di riflessione della verità del secondo sulle prime e, ciò non di meno, di fissazione dell’uno, – di contro a qualsivoglia ‘retorica speculativa’, per riprendere l’espressione del nostro56, assai fermo nel rivendicare il mantenuto filtraggio dal concetto herbartiano di ‘metafisica’ in qualità di criterio di verificazione critica57 (anche in opposizione, nel caso, ad una certa nozione di ‘totalità’) –, come territorio di esibizione della plurima incidenza delle altre, attese nella loro costituzione in ordine a cerchie determinate e nell’intreccio di tempi differenti, ognuno con un proprio ritmo e spessore autonomo ‘nel’ tempo storico. La peculiare accezione della ‘obiettività’ che dalla Prolusione si desume, secondo un’idea di ricostruzione logico-storica dell’oggetto alternativa agli opposti convergenti del positivismo evoluzionistico e di tante semplificazioni dell’hegelismo, sospinge verso la compiuta appropriazione della costituzione formata del processo storico, che ne attesta ora l’unità58, salvaguardandone la fisionomia ricca di determinazioni. Di qui, il motivo della previsione ‘morfologica’ diverrà il veicolo di un recupero della dialettica in quanto condizione non di stemperamento ma di visualizzazione della articolata composizione delle determinazioni nell’oggetto. Sulla base di codesta impostazione, Labriola si incammina sulla via di uno storicismo dialettico in grado di rappresentare il più efficace contrapposto all’accezione unilaterale di esso, insistente sulla accumulazione seriale-unilineare ‘dal passato al presente’; conseguendo, vieppiù, il primato logico-gnoseologico e politico del presente

storico. 1

«Mediterò a lungo» – scrive Labriola a Engels – «su le vostre obiezioni alla mia filosofia della storia, e forse risponderò pubblicamente in un articolo di rivista» (A. LABRIOLA, Lettera a F. Engels, 19 maggio 1890, raccolto in Carteggio, III, p. 37). 2 Sullo specifico della posizioni di Steinthal cfr. J. FRANKENBERG, Objektiver Völkerpsychologie, in «Zeitschrift für Philosophie und Philosophische Kritik», 154, 1914, pp. 68-168; W. BAUMANN, Die Sprachtheorie Heymann Steinthals, dargestellt im Zusammenhang mit seiner Theorie der Geisteswissenschaft, Hain, Meisenheim am Glau 1965; D. DI CESARE, “Innere Sprachform”, Humboldts Grenzbegriff, Steinthals Begriffgrenze, in «Historiographia Linguistica», XXIII, 1996, pp. 321-346; A. MESCHIARI, Heymann Steinthal dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della cultura, in H. STEINTHAL, La scienza della lingua di Wilhelm von Humboldt e la filosofia hegeliana cit., pp. 7-40; ID, La psicologia delle forme simboliche – ’Rivoluzione copernicana’, filosofia del linguaggio e ‘spirito oggettivo’, Le Lettere, Firenze, 1999; M. RINGMACHER, Organismus der Sprachidee. H. Steinthals Weg von Humboldt zu Humboldt Schönyng, Paderborm-München-Wein-Zürich 1996; J. TRABAUT, Ideelle Bezeichnung. Steinthal Humboldts Kritik, in A. ESCHBACH e J. TREBART (a cura di), History of Semiotics, Benjaminus, Amsterdam-Philadelphia 1983, pp. 251-276; C. TRAUTMANN-WALLER, Aux origines d’une science allemande de la culture. Linguistique et psychologie des peuples chez Heymann Steinthal, CNRS Editions, Paris 2006; J. WACH, Die hermeneutische Lehre Steinthals, in Das Verstehen, Grundzüge einer Geschichte der hermeneutischentheorie im 19. Jahrhundert, George Olms, Hildesheim 1966, pp. 207-250; e H. WIEDEBACH – A. WINKELMANN (a cura di), Chajim H. Steinthal. Sprachwissenschafter und Philosoph im 19. Jahrhundert, Briel, Leider-Boston-Köln 2002, pp. 3-109. 3 Cfr. N. BADALONI, Il marxismo di Gramsci, cit., pp. 7-8. 4

H. STEINTHAL, Allgemeine Ethik cit, p. 272. Cfr. in proposito, per alcuni aspetti, l’analisi (che pure ci pare traguardare un’ottica critica diversa da quella che qui stiamo cercando di esplicitare) di N. BADALONI in Il marxismo di Gramsci cit., pp. 4-7. 6 Cfr. B. CENTI, A. Labriola cit., pp. 92-93. 7 Rammenterà Croce nel 1904: «Egli [Labriola] mi disse una volta di essere giunto al socialismo 5

attraverso la critica dell’idea dello Stato. Quando lo Stato etico, vagheggiato dai pubblicisti tedeschi, si svelò un’utopia, e dura una sola realtà gli apparvero gl’interessi […] delle varie classi, si trovò nelle braccia del marxismo». Sono certo parole non prive, di un profondo carattere di semplificazione, ma che hanno da essere riconnesse, nel loro merito, ai contenuti ed agli spunti compresi nella polemica spaventiana verso i gesuiti della “Civiltà cattolica” (La politica dei Gesuiti nel secolo XVI e nel secolo XIX, a cura di G. GENTILE, Alberighi e Segati, Milano 1911), nonché nel saggio di Bertrando su Bruno del ’65. Cfr., fra gli altri, in proposito, G. ARFÈ, L’hegelismo napoletano e Bertrando Spaventa, in «Società», VIII, 1952, pp. 53 sgg.; e P. ZAMBELLI, Tradizione nazionale italiana e sovranità etica nazionale, in Problemi dell’Unità d’Italia. Atti del II convegno di studi gramsciani, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 250-272. 8 Cfr., fra gli altri, G. MANACORDA, Formazione e sviluppo del Partito socialista in Italia, in «Studi Storici», 1963, pp. 36-37. 9 Cfr. in proposito G. VACCA, Gramsci e Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. IX-XXXVI e 92116, ed ID., Appuntamenti con Gramsci. Introduzione allo studio dei “Quaderni del carcere”, Carrocci, Roma 1999.

10

Cfr. in proposito a questo tema, cui già si è accennato in nota, ID., Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 49-101. 11 Su questi aspetti importanti indicazioni, cui abbiamo attinto, sono presenti in E. GARIN, I saggi sul materialismo storico cit., pp. 122-123. 12

Tra i momenti salienti di tale cammino occorre rammentare l’entrata in rapporto con Andrea Costa a far data dal 23 agosto 88, e con Turati, con cui il nostro concorderà l’indirizzo al congresso di Halle del ’90 a nome dei socialisti italiani (il testo è stato riprodotto da E. RAGIONIERI, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani 1975-1895, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 241-242; traendolo da «La Montagna» di Napoli 28 settembre, 1890); quel Turati rispetto a cui la costante, serrata polemica non impedirà un certo grado di collaborazione sino al Congresso di Genova del ’92 ed alla formazione del Partito dei Lavoratori Italiani. Cfr. E. GARIN, I saggi sul materialismo storico cit., pp. 123-127. 13

Infra, p. 1119. La recensione a Jhering apparve nel numero del 15 giugno del 1884 della «Nuova Antologia» ed è

14

stata ripubblicata in «Movimento operaio e socialista», 3, 1978, pp. 252-254. Sul pensiero giuridico jheringhiano cfr. la interessante Presentazione di R. RACINARO al volume La lotta per il diritto e altri saggi, Giuffrè, Milano 1989, pp. V-XXIII, e, naturalmente, la Introduzione di M. G. LOSANO all’edizione italiana di Lo scopo nel diritto, Einaudi, Torino 1972; nonché le acute considerazioni di B. DE GIOVANNI, L’esperienza come oggettivazione – Alle origini del problema moderno della scienza, Jovene, Napoli 1962, pp. 281-287. 15 Cfr. in proposito B. CENTI, Metodo genetico e struttura morfologica nei “Saggi” di A. Labriola, raccolto in L. PUNZO (a cura di), Antonio Labriola filosofo e politico, Guerini e Associati, Milano 1996, p. 286. 16 Cfr. Ibidem, pp. 281-282. 17

Cfr. ID., Antonio Labriola cit., pp. 167-170. Cfr. in proposito la Nota di D. CANTIMORI nella edizione da lui curata di J. G. DROYSEN,

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Sommario di Istorica, Sansoni, Firenze 1967, pp.12-14. 19 Scrive Droysen: «Non si tratta dunque di accertare il passato né oggettivamente né in tutta l’ampiezza che fu il suo presente […] bensì di ampliare, completare, rettificare la nostra rappresentazione ancora angusta, frammentaria, confusa del passato, la nostra comprensione di esso, di svilupparla ed estenderla secondo punti di vista sempre nuovi […] Lo spirito finito possiede soltanto l’hic et nunc. Ma esso dilata questa misera angustia del suo essere, in avanti con le sue volontà e le sue esperienze, in dietro con l’abbondanza della sue memorie […] Allo sguardo finito sono celati il principio e la fine. Ma esso può riconoscere, indagando, la direzione della corrente. Confinato nell’angusto limite dell’hic et nunc, esso intravede il donde e verso dove» (Ibidem, pp. 28, 340, 366) 20 Cfr. R. RACINARO, Labriola e il “procedimento dialettico” cit., pp. 130-131. 21

Cfr. in proposito B. DE GIOVANNI, Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo

dello Stato, in «Lavoro critico», 1, gennaio-marzo 1975, pp. 131-166; ma una tale lettura va certamente contrappesata con quella di M. MONTANARI in La rifondazione della ragione storica in B. Croce, raccolto in ID., Crisi della ragione liberale. Studi di teoria politica, Lacaita, Manduria 1983, pp. 21-40. Ci permettiamo anche di rinviare ad alcuni accenni formulati nel nostro Il mercato, la riproduzione sociale e l’ermeneutica politica ‘dimidiata’. Su Croce e il marxismo, raccolto in ID., Per una teoria del mercato cit., pp. 58-69. 22 Importanti osservazioni in proposito vengono svolte da R. RACINARO in Labriola e il

‘procedimento dialettico’ cit., pp. 125-126. 23

O. HERTWIG, Präformation oder Epigenese? Grundzüge einer Entwicklungstheorie der Organismen, Zeit-und Streitfragen der Biologie, I, Jena 1894. 24 Cfr. in proposito B. CENTI, L’‘ottocento’ tedesco di Antonio Labriola cit., pp. 524-531. 25

Su questo tema cfr. R. RACINARO, Sul concetto hegeliano di ‘Bildung’, raccolto (con il titolo tedesco Zur Hegels Bildungsideal) in Die Logik des Wissens und das Problem der Erziehung, Meiner, Hamburg 1982, e poi in Il futuro della memoria cit., pp. 1-22. 26 Nella missiva in questione dell’8 giugno 1884, indirizzata a Francesco Bonatelli, Labriola osserva come il volume lipsiano abbia «molto della maniera lotziana nella forma dubitativa» (Carteggio, II, p. 126). 27 Cfr. B. CENTI, L’‘ottocento’ tedesco di Antonio Labriola cit., pp. 536-542. 28

La distinzione tra l’ideologismo positivistico e tutto un insieme di ricerche postkantiane in ambito tedesco viene marcata con forza, di contro ad ogni provinciale semplificazione, nella importante, già evocata, missiva al Bonatelli dell’8 maggio 1884: «converrete con me» – scrive il nostro – «che Herbart, e Lotze, e tutta la filosofia tedesca neokantiana e così via non hanno niente che vedere col positivismo; e che lavorando sulla base di questi concetti […], non si rischia di comprendersi coi riveriti ciarlatani del nostro demi-monde filosofico». Sulla base di siffatta cognizione, Labriola si profonde nella fissazione problematica di una serie di temi attinenti al quadro di interlocuzione in esame: «La posizione del problema che mi metto sotto gli occhi della mente» – scrive ancora Labriola – «è questo. Se a sfuggire al pericolo del noto effettivismo spenceriano abbiamo bisogno dell’originario, del normativo, del logico etc. gli è forse necessario che l’apriori qualitativo si tramuta nella nostra mente in una priorità materiale di forma della coscienza? E se no, non basta forse di ammettere l’apriori qualitativo (per es. norma logica, estetica, etica) senza volerlo arbitrariamente introdurre nella spiegazione dei fatti particolari psichici, che con le intromissioni dell’infinito divengono anche più inintelleggibili? E qui faccio punto. Quasi non la finirei più. Sarà tanto felice se vanno stuzzicati a scrivere a lungo su l’argomento. Se no s’affoga nella gora morta del positivismo» (Carteggio, II, pp. 116-117). 29 In proposito alla posizione di Sombart entro il quadro delle problematiche richiamate cfr. le osservazioni di R. RACINARO in La crisi del marxismo cit., pp. 98-111 e in Max Adler e il revisionismo cit., pp. XVI-XLI. 30 A differenza di quanto sostenuto da M. MONTANARI in La rifondazione della ‘ragione storica’ in B. Croce cit. 31

Su Simmel sono da vedere, fra gli altri, la Introduzione di M. CACCIARI alla edizione da lui curata dei simmelliani Saggi di estetica, Liviana, Padova 1970 e quella al Diario postumo, Aragno, Torino 2011, pp. VII-XXII; e i contributi di B. ACCARINO, La democrazia insicura – Etica e politica in Georg Simmel, Guida, Napoli 1982; G. D’ANNA, G. Simmel – Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, De Donato, Bari 1982; A. DAL LAGO, Il conflitto della modernità – Il pensiero di Georg Simmel, Il Mulino, Napoli 1984; R. RACINARO in Georg Simmel. La vita come oggettiviazione, raccolto in ID., Il futuro della memoria cit., pp. 217-227; G. CALABRÒ, La legge individuale – Saggio su Simmel, Morano, Napoli 1963. 32

Cfr. in proposito N. AUCIELLO, Senso e comunità. Studio su Dilthey, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1983, che costituisce, crediamo, il maggiore contributo in ambito italiano (e forse non solo) su tale autore, ma anche le rilevanti osservazioni di B. DE GIOVANNI in L’esperienza come oggettivazione, cit., pp. 244-245. 33 Cfr. in proposito il complesso saggio di N. INCARDONA, Logos e storicità in A.A.V.V., Rickert tra

storicismo e ontologia, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 67-80, ma anche A. GIULIANO, H. Rickert tra ‘Philosophie des Lebens’ e ‘Lebensphilosophie’, «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche», XCVIII, 1987, pp. 277 sgg. 34 Infra, pp. 1073-1074. 35

Infra, pp. 1086-1087 (corsivo nostro). Cfr., in proposito, ancora, le decisive osservazioni di R. RACINARO, Labriola e il procedimento dialettico cit., pp. 126-127. 37 Accenna a questo aspetto A. GIULIANO, Appunti su Labriola e il neokantismo, in «Archivio di storia della cultura», IX, 1996, p. 239 (edito anche in Antonio Labriola filosofo e politico cit.). 38 Infra, p. 1079. 39 Accenna a questo problema, specie in riferimento alle posizioni di Dilthey e di Bernheim, B. CENTI in L’‘Ottocento’ tedesco di Antonio Labriola cit., pp. 560-561. 40 Infra, p. 1077. 41 Infra, pp. 1078-1079. 42 Infra, p. 1081. 43 Infra, pp. 1066-1067. 44 «Questo primo gruppo di questioni […] concerne» – osserva Labriola – «la propedeutica della 36

concezione storica, nei tre aspetti dell’interesse, che ci muove alla ricerca, del metodo che teniamo nel ricavare, e della esatta, ossia, della obiettiva esposizione» (ibidem). 45 Ibidem. 46

In tale recensione, uscita nel fascicolo del dicembre 1872 della «Nuova Antologia», Labriola conclude concentrando l’attenzione sulla necessità di distinguere la ‘parcellarità’ (usiamo questo termine per distinguerlo dalla accezione virtuosa di ‘parzialità’) quasi paradossalmente caratterizzante le generalizzazioni e le uniformità consequenziali derivate da una impropria dilatazione della indagine positiva dalla più ampia istanza di autentica ricomposizione concettuale che nella presente fase il nostro indica in termini di ‘metafisica’ (il tema andrebbe riconnesso, se vi fosse lo spazio opportuno, alla successiva discussione con Sorel): «Da tutte le cose che furono qui innanzi esposte per sommi capi, può indursi una generale affermazione, che cioè sotto il nome di libertà si celi quel che in logica con una parola proprio barbara dicesi polisenso. Di fatti non si giunge mai ad un concetto primo ed universale, dal quale altri e poi altri vadansi naturalmente svolgendo, per necessaria successione di conseguenze. […] Le molte teorie, che intorno a questo argomento furono escogitate, trovano, a mio avviso, una adeguata spiegazione dei fatti, i quali son di tal natura da dar luogo in certi punti a generalizzazioni apparentemente convincenti, che si trovan poi false, quando si tratti di armonizzare tutti gli aspetti della questione. Senonché quantunque la più parte di cotali generalizzazioni, che mirano a riassumere fenomeni così svariati sotto concetti astrattissimi, sian prive di fondamento ed infruttuose per l’indagine scientifica, non si può però negare che sotto a quei fenomeni medesimi si celi un problema di carattere universale, che di per sé si impone e s’imporrà sempre alla ragione». Dai dubbi e dagli interrogativi a ciò riferibili, continua il nostro, «s’ingenerano parecchi degl’impulsi ideali, che talvolta spingon l’animo nostro a cercare acquiescenza in convincimenti superiori ad ogni fluttuazione di appetiti, e tal’altra stimolano l’intelletto alla ricerca dei concetti, che siano atti a risolvere le contraddizioni inerenti alla empirica cognizione delle cose. I quali problemi può ben darsi che paiano di dubbia anzi difficilissima soluzione a quelli che ci si siano seriamente travagliati attorno, ma che è cosa men che puerile il voler rigettare alla prima, come punto compatibili con la presente serietà del sapere positivo. Gli è anzi qui per l’appunto e in altrettali questioni che ha la sua ragion d’essere quella metafisica, della quale è oramai usanza si discorra con fortissimo dispregio da molti, che, con buona pace loro, ne son pratici come i ciechi dei colori» (infra, pp. 868-869).

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Labriola si riferisce, in particolare, al saggio wundtiano Ziele und Wege der Völkerpsychologie, in «Philosophische Studien», IV, 1, pp. 1-27. 48 Infra, p. 1073. 49

A tal proposito Labriola s’interrogava retoricamente nella recensione in questione: «C’è una società, così per sé, fuori dagli individui? – e d’altra banda, una parte assai notevole degli elementi onde la coscienza individuale si compone, non è frutto della società stessa? Dovrà, dunque, la psicologia sociale accettare come sua unica norma le leggi della psicologia individuale; o dovrà cercarne invece delle nuove? È volendo, ove potrà rintracciarle, se non negl’individui stessi?». Nelle improprie conclusioni di Lindner «si troverà», scrive il nostro, «un avvertimento a non darsi la fretta di scrivere un manuale di Psicologia sociale; perché la somma delle idee che una così fatta disciplina dovrebbe esporre, non è ancora così bene sceverata e dichiarata, che si possa fin d’ora chiuderla nei confini di una vera e propria scienza» (infra, pp. 890 e 906-907). Cfr. in proposito D. BONDÌ, Il giovane Croce e Labriola cit. 50

Infra, p. 1077 (corsivo nostro). Infra, p. 1068. 52 Infra, p. 1069. 53 Infra, p. 1071 (corsivo nostro) 54 Infra, p. 1072. 55 Infra, p. 1065. 56 Ecco, più distesamente, cosa Labriola afferma: «lo studio specifico di alcuni degli ordini precisi di 51

fatti […] ci ha dato ai nostri tempi i primi serii tentativi di scienza storica […] Con questi studii, come con vero e proprio oggetto di scienza, il filosofo della storia deve simpatizzare, se non vuole che le sue elucubrazioni e il suo insegnamento divengano pretto esercizio di retorica speculativa» (infra, p. 1074). 57 Osserva in proposito il nostro: «per quanto io abbia per molti versi cambiato per molti rispetti nel mio modo di concepire e di insegnare, da che professo etica e pedagogia in questa università, tengo sempre fermo nell’indirizzo herbartiano di considerare la metafisica […] come critica e correzione dei concetti, che son necessari per pensare l’esperienza». Cfr. B. DE GIOVANNI, Labriola e il metodo ‘critico’, in «Critica marxista», 4, 1979, p. 99. 58 A tal proposito è di assoluto rilievo l’indicazione togliattiana, nell’incompiuto studio su Labriola del ’54, secondo cui il «tema della unità della storia viene […] dipanato dal principio alla fine dell’opera labrioliana e non poteva non essere così» (P. TOGLIATTI, Per una giusta comprensione dell’opera di Antonio Labriola, in «Rinascita», 4-7, 1954, raccolto in ID., La politica culturale, a cura di L. GRUPPI, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 318, corsivo nostro).

V LA PRIMA FASE DELLA RIFLESSIONE MARXISTA 1. La ‘scelta’ politica del socialismo e del marxismo Come osservato in precedenza, l’avvicinamento di Labriola al marxismo si configura nella coincidenza tra il percorso di maturazione di categorie adeguate all’indagine dei mutamenti storico-sociali e assunzione di consapevolezza rispetto alla crisi della variante italiana del liberalismo classico. Si rammentino i contenuti della importante lettera a Ettore Socci, – il vecchio garibaldino con cui Labriola aveva condiviso l’esperienza della direzione del circolo Radicale di Roma –, del 5 maggio 1890 (anno dell’indirizzo alla redazione del “Sozialdemokrat”), e poi edita in opuscolo il 10 maggio, in occasione del Congresso democratico. L’argomento centrale in essa trattato è quello della distanza tra democratici e socialisti, con lo scopo di stigmatizzare il misto di illusioni ed ipocrisia che contrassegnava quella intellettualità borghese i cui esponenti, «senza entrare risolutamente e francamente nelle fila dei socialisti, si atteggiano ad antesignani, guidatori e correttori del nuovo moto proletario»; cogliendo, in tal maniera, l’occasione per osservare, con tono esplicitamente autobiografico: Quelli fra i radicali che sono socialisti, dirò così inconsapevoli, basta che aprano gli occhi sulle cose, e su la ragion dei tempi, e il resto verrà da sé1.

Lungo un percorso che scorre dall’inizio della corrispondenza con Engels nel corso del ’90 alla intensificazione dell’attività prettamente politica, e poi alla rottura con Turati ed al rifiuto di partecipare al congresso di Genova del ’92, la ‘tappa’ rappresentata, nel ’95, dall’uscita di In memoria del Manifesto dei Comunisti – prima in francese ne “Le divenir social”, e poi in italiano per iniziativa di Croce – va rapportata al momento di maggior ripresa di fiducia da parte del filosofo di Cassino nella capacità di espansione politica del movimento socialista in Italia, in diretta connessione, anzitutto, alla portata della mobilitazione dell’evento dei Fasci siciliani. In questa fase, lo specifico della considerazione perspicuamente politica della attualità non sembra volgersi al di là dei confini di quella prevalente nella Internazionale e, in particolare, nella socialdemocrazia tedesca. Insieme alla considerazione del ruolo ‘progressivo’ della estensione coloniale, egli considerava la questione agraria in relazione alla ‘posta in gioco’ della proletarizzazione della campagna ed al superamento delle resistenze della piccola proprietà rurale. Proprio nel corso del ’95 Labriola, in

ottobre, in occorrenza del Congresso di Breslavia, si trovò ad inviare un gruppo di lettere a Kautsky ove manifesta era la condivisione delle tesi del dirigente tedesco di fronte a quelle del settore della socialdemocrazia atte a sollevare la questione della difesa delle masse contadine qua talis; mirando ad evidenziare come l’‘idiotismo’ di esse sarebbe stato abbandonato allorquando le strutture delle campagne fossero state soddisfacentemente assimilate al processo di industrializzazione. È da notare che se nel primo saggio la centralità attribuita all’evento dei Fasci siciliani è testimoniata dalla collocazione in esso del «primo segno che il proletariato abbia dato di sé in Italia»2, la consapevolezza del generale rallentamento del ritmo di proletarizzazione (fattore in ordine a cui la lettura labrioliana della questione degli intellettuali apparirà assai più avanzata di quella kautskyana), – emersa nell’insieme del dibattito nel socialismo europeo con la discussione sul revkionismo, e marcata sia nel quarto saggio, sia nella lettera a Kautsky del 5 maggio del ’900, sia in certune missive ad Adler ed a Ellenbogen –, non sembra mai contrapporsi esplicitamente alle argomentazioni concentrate nella Agranfrage3. Argomentazioni che avevano come più grave limite (lo testimonia palmarmente la stessa polemica Kautsky-Vollmar) lo studio dei riflessi dei processi di Rationalisierung (letti, certo, nello specifico, al lume di una modellistica che molto aveva in comune con la ‘sinistra’ del “Verein”) e concentrazione capitalistica sui vari settori di produzione senza considerarne il legame con la natura della occupazione industriale4. Dal ’95 in poi, il nodo della ‘incongruenza’ dello sviluppo italiano5 si troverà ad essere progressivamente commisurato al tema del rapporto fra soggettività del movimento operaio e problema contadino in termini che verranno sempre più approfondendo il loro carattere di criticità, rinviando – potremo dire, con gli occhi della contemporaneità – a quell’opera di ‘lungo periodo’ di costruzione di una adeguata apparecchiatura teorica trovante uno dei centri nevralgici nella ripresa della elaborazione dell’equilibrato nesso fra città e campagna (si pensi all’accezione gramsciana del ‘giacobinismo’), passante attraverso l’esperienza e la strategia leniniana, nonché culminante nella sfida – affrontata proprio da Gramsci di fronte ad ulteriori arresti ‘epocali’ della capacità di protagonismo del socialismo politico – dell’oltrepassamento degli steccati dell’‘economicocorporativo’. È necessario tener presente ciò poiché è giusto sulla falsariga di una siffatta cognizione della necessità di un’accurata rielaborazione concettuale – corroborata anche dal suddetto aspetto – che si può spiegare il fatto che Labriola, – non recedendo mai dalla sostanziale asserzione, in continuità con Marx, del primato universalizzante della ‘forma-merce’, ed anzi, via via, intensificando la diagnosi delle sue forme di produzione e riproduzione, le quali

importano il netto infittirsi della trama del sistema sociale e del corrispondente movimento formale –, abbandonerà definitivamente ogni tono di eccessiva fiducia nella valutazione della prospettiva del movimento socialista, della sua propulsività egemonica. Parliamo di un tono determinato che, talvolta, all’interno di In memoria, sembra contraddirne altri mantenuti in coerenza con il distacco dai moduli finalistici, nonché, in senso generale, con una precisa percezione della pluridirezionalità del moderno e della differenziazione delle forme del mondo storico. Ma anche per quanto attiene allo specifico della disamina politica, bisogna dire che il tono fiducioso nella capacità espansiva del socialismo italiano, talvolta influente sulla stessa ossatura categoriale, non si traduce mai, neppure in In memoria, in un atteggiamento semplificatorio ed elusivo delle asprezze della contemporaneità. Basti pensare al fatto che, rilevando la questione agraria in qualità di una delle tematiche politiche principali di quella fase, Labriola osservava come, dovendo essere rapportata alla complessività del processo di industrializzazione, essa comportasse per la soggettività del movimento operaio «prove […] lunghe e non facili, anzi dure; il che spiega, e scusa, e scuserà per un pezzo gli errori che furono e saranno commessi ai primi passi»6. Labriola guardava, per prima cosa, oltre che al dibattito fra i socialisti francesi (si pensi al confronto del Congresso di Nantes), al già evocato travaglio nella socialdemocrazia tedesca che dal Congresso di Francoforte del ’94 si allunga in quello, anch’esso rammentato, tenutosi, nell’anno di uscita del primo saggio, a Breslavia, la cui discussione ‘propedeutica’ si intersecherà con un quadro ampio di ricerche svoltesi soprattutto all’interno della intellettualità germanica (si faccia ancora riferimento alla esperienza del “Verein”, con le analisi di Schmoller – orientate a congiungere Scuola storica e modello neoclassico in chiave antidialettica7 –, di Sombart e Weber8). La capacità labrioliana di mantenere una coscienza lucida ed improntata programmaticamente al realismo degli impetuosi mutamenti in atto pare, del resto, assolutamente simmetrica con gli elementi di maggior interesse del primo saggio, attinenti alla esplicita considerazione, – sulla scorta dei problemi che la Prolusione aveva espresso o lasciato intravvedere, e della domanda di ‘integrazione dialettica’ che essa sprigionava –, dell’articolarsi, appunto, della unità dialettica del processo storico. In senso generale, l’incontro con la Kritik der politischen Oekonomie marxiana, che irrobustirà di profilo nelle distinte prestazioni analitiche costituenti i Saggi, darà modo al nostro autore di mettere a frutto, per esempio, le implicazioni sottese al dispositivo della ‘previsione morfologica’ in ordine alla vexata quaestio della ricostruzione dell’‘oggetto-storia’, verificandone il potenziale di attrito riguardo allo scopo di

lumeggiare le linee tendenziali che attraversano la morfologia sociale, a fronte della mobilità dei rapporti di forza e della pluralità dei ruoli cognitivi; esibendo una inusitata diffusione del Politico giustificabile in virtù della centralità della riproduzione sociale. Un simile approccio – incardinato sulla saldatura del momento dialettico con quello genetico – non poteva che correlarsi alla ‘presa di coscienza’ della drammatica condizione di crisi teorico-politica in cui il movimento operaio italiano, e, generalmente, l’elaborazione della II Internazionale andava inesorabilmente imbattendosi proprio nel trapasso ‘da un secolo all’altro’.

2. In memoria del Manifesto dei comunisti: l’istanza antifinalistica della nozione di ‘previsione morfologica’ Il carattere di totalità del processo storico e la decisività della visualizzazione complessiva di esso per riconoscerne e penetrarne la profondità e lo spessore della composizione differenziata vien certamente avvertito, ad ogni maniera, nel primo saggio. In ciò si affaccia l’assoluta compenetrazione tra l’acquisizione della storia come «tutta d’un pezzo»9 e la restituzione dell’oggetto. Il motivo arriverà ad un punto massimo di intensità nella Delucidazione preliminare. Nel primo saggio comincia ad essere avanzata una concezione del materialismo storico segnante una certa discontinuità nei riguardi della linea secondointernazionalistica (prolungantesi, poi, in quella della III Internazionale), precisandolo in guisa di apparato teorico-categoriale in grado di qualificare l’orizzonte d’insieme del processo storico in connessione diretta all’incidenza dinamica dei saperi speciali. Stando in siffatta maniera le cose, tale apparato è da impiegare anzitutto allo scopo di analizzare i rapporti di forza in campo. L’esperienza herbartiana aveva consolidato in Labriola l’idea, cui terrà sempre fede (lo constateremo, ancor meglio, fra l’altro, prendendo in considerazione la sua accezione della «tendenza critico-formale al monismo»), della irriducibilità ad un principio unico del reale. Egli, cioè, contrastando il meccanicismo deterministico e le forvianti versioni panlogistico-monistiche e finalisticotriadiche del pensiero hegeliano che ne propugnava l’‘ortodossia’, insisteva su un’idea del mondo storico in quanto sistema differenziato-strutturato di forme, originariamente plurale. Di qui, l’unità del processo reale non veniva a risolversi in una conclusione prefigurata e compatta, ma appariva esplicato in una dialettica costantemente aperta concretantesi, a propria volta, nel ruolo di discretamento del tempo storico recato dalla costituzione oggettiva di soggettività e forze tra le quali intercorre una tensione opposizionale effettiva, capace di definire un rapporto e di cui non è dato prevedere l’esito di sintesi, bensì è possibile classificare le particolari dinamiche. A ciò, e non ad altro, assolve la ‘previsione morfologica’, ripugnando ad ogni inclinazione teleologica alla formulazione di una «storia a disegno»10, e mirando, anziché alla ‘anticipazione’ della conclusione del processo, alla adesione critica verso di esso, cioè alla intellezione del mobile snodarsi delle sue articolazioni in un orizzonte organicamente differenziato11. Ne viene che la ‘concezione materialistica della storia’ ha da porsi prevalentemente lo scopo di fornire la ricognizione del campo di possibilità dischiuse nel processo storico, tipizzandole. Così, il marxismo

viene sottratto tanto alla sua declinazione in guisa di soluzione scientifica o coscienziale pertinente alla assunzione in direzione normativa del divenire sociale, quanto alla identificazione con un preciso assetto tassonomico della scienza sociale medesima. Il concetto di ‘previsione morfologica’ riorienta, soddisfacendola, l’istanza – già avanzata nella Prolusione – della rifondazione del principio di legalità e, connessamente, dell’indagine scientifica delle tendenze reali. Argomenta il Cassinate, delineando la distinzione cronologico/morfologico che protrarrà la sua incidenza concettuale sino al quarto saggio: La previsione storica, che sta in fondo alla dottrina del Manifesto, e che il comunismo critico ha poi in seguito ampliata e specificata con la più larga e più minuta analisi del mondo presente, ebbe di certo, per le circostanze del tempo in cui apparve la prima volta, calore di battaglia, e colore vivissimo di espressione. Ma non implicava, come non implica tuttora, né una data cronologica, né la dipintura anticipata di una configurazione sociale, come fu ed è proprio delle antiche profezie o apocalissi […] La previsione, che il Manifesto per la prima volta accennava, era […], per dirla in una parola, che a mio avviso esprime tutto in breve, morfologica12.

Nella temperie di fiducia nella capacità espansiva della soggettività del movimento operaio, Labriola si preoccupa di indicare una via di enucleazione compiutamente antifinalistica della prospettiva marxiana, riannodando i fili delle sue acquisizioni precedenti, a cominciare da alcune accentuazioni polemiche della Prolusione. Perciò egli, come approfondiremo meglio oltre, affronta – certo con altri accenti e strumenti – la medesima tematica con cui Bernstein si è confrontato, badando, però, a tener ferma l’esigenza di una adeguata ricomposizione teorico-politica. Ne discende una idea della iniziativa di trasformazione a carattere perspicuamente politico come non isolabile, in alcuna maniera, dalla morfologia del processo storico. Con ciò, il nostro definisce una cognizione del mutamento sociale affatto diversa dalle forme della ‘rivoluzione borghese’, di cui arriva ad essere colta l’usura in relazione alla ‘crisi organica’ della fondamentale figura egemonico-universale su cui essa è stata plasmata. Entro codesto piano, secondo Labriola, deve essere verificato il ruolo delle soggettività storiche capaci davvero di rimodulare i rapporti di potere e di misurare su di essi la dislocazione dei gruppi intellettuali, intesa come vincolata al percorso delle classi subalterne, che, attraverso una pretta «educazione democratica», debbono giusto provarsi a costituire una autonoma «organizzazione politica»13, e, dunque, ad assumere la funzione di classe

dirigente, mantenendo quale scenario regolativo (il termine è da non acquisirsi chiaramente in senso formalistico) quello del raggiungimento del «selfgovernment del lavoro»14. Occorre cercare di insistere già da ora con nettezza sul presente aspetto: si tratta di uno scenario che mai deve venir irrigidito nella fissazione dell’Endziel, ed esige, piuttosto, di venir riconnesso alla declinazione del «intelligenza della […] necessità storica» del socialismo precisamente coincidente, quasi vichianamente, con «la consapevolezza del modo della sua genesi»15.

3. ‘Genesi astratta’ e ‘critica dell’economia politica’ La trattazione del primo saggio, pur nelle incertezze e negli indirizzi differenti che la pervadono, mostra con una certa ampiezza la saldatura tra momento dialettico e momento genetico. A movente di ciò vi è la compiuta espressione di molte assunzioni precedenti, coagulate attorno al fronte dell’apparato epistemologico-categoriale enucleato da Marx e conducenti all’apposita riflessione sulla concezione materialistica della storia. Si presti attenzione, a conferma di ciò, a quanto Labriola scriveva nella missiva ad Engels dell’11 agosto 1894, precisando il senso dell’impiego corrente, da lui operato, del termine ‘genetico’: Quando dico genetico ho proprio in mente il 1° vol. del Capitale. In fatto di metodo di pensiero non c’è nulla di tanto perfetto. Non una forma sola, ma tutte le forme. La genesi concreta (p[er] e[sempio] accumulazione inglese): la genesi astratta (analisi della merce etc.): la contraddizione che spinge ad uscire dall’ambito di un concetto o: di un fatto p[er] e [sempio] la formula G[eld] W[äre] G[eld] etc. etc. La difficoltà di Marx sta appunto nella forma del pensiero16.

Torneremo oltre sul carattere della ricezione labrioliana de Il Capitale. Ci è d’uopo, però, sottolineare – e anche sul punto dovremo ritornare – come egli tenda a concettualizzarlo in qualità di paradigma teorico portante rispetto all’insieme della sua ricerca in chiave marxista. Notoriamente, il movimento dell’analisi in esso contenuta scaturisce dal piano che il Cassinate chiama della «genesi astratta». Se Smith presuppone, entro il proprio discorso, uno stato di ‘libertà perfetta’ nel mercato che risulta, tuttavia, acquisito esclusivamente in veste di mera giustificazione generale e non con accezione effettivo-reale; se Ricardo – ritematizzando ed, insieme, superando la visione smithiana – presuppone un certo stato di concorrenza ma ragiona in termini di valore e non di ‘ricchezza’ – in contrapposizione a Say e poggiando i principi su De Tracy –, dunque, ragiona in termini di storicità del modo di produzione; Marx, appare, parimenti, sceverare i conseguimenti dell’economia ‘classica’ a livello logicostorico17, e – antevendendo l’erosione di una determinata formulazione del modello epistemologico ricardiano – sottolinea la necessità di non fermarsi alla riproduzione del concreto storico così come lo si riproduce nel pensiero, focalizzando, al di fuori di una accezione unilaterale ed internamente non discreta del tempo, il processo storico medesimo, – di contro alla considerazione

primaria della proprietà fondiaria –, e, di conseguenza, partendo dall’indagine del capitale in ordine ad un rapporto di produzione vincolato alla mediazione attraverso il valore della merce. Il criterio di inversione logico-storica formulato nella Einleitung del 1857 si snoda nella qualificazione della unione (intrinsecamente mediata) dei fattori di produzione attraverso lo scambio, – che è condizione determinata della riproduzione –, afferibile alla costituzione della forma-merce. L’applicazione di esso consente di illuminare la differentia specifica del processo capitalistico di produzione in quanto processo di valorizzazione del capitale; stringendo, cioè, il processo di produzione in qualità di processo di produzione di merci, dato il suo esprimere l’unità del processo lavorativo e di quello di formazione di valore, e, perciò, in qualità di forma capitalistica di produzione delle merci. Non bisogna, però, smarrire la connessione preliminare della suddetta applicazione al procedimento epistemologico – che nel I volume de Il Capitale trova efficace esibizione – convergente sul polo di una astrazione in grado di cogliere nel ‘complesso’ il luogo di comprensibilità del ‘semplice’, stante che esso ne approfondisce, dilatandoli al massimo, i contorni. Procedimento il quale mostra gli aspetti del capitale come «forme compiute» del suo movimento, che, pur nella loro identità fenomenica, a propria volta risultano predicabili in quanto ‘concrete’ e conoscibili, appunto, soltanto risalendo, per particolare via deduttiva, alla loro Kerngestalt. Nel caso: «la forma di merce del prodotto, ossia la forma di valore della merce, è proprio la forma economica corrispondente alla forma di cellula»18. Marx, arrivato a questo conseguimento, lumeggia la determinatezza storica della categorie impiegate poiché si volge a ricavarne la emersione della contraddizione classificabile nell’area delle relazioni logico-storiche in virtù giusto della comprensibilità di esse come profilanti la Gestalt emergente dalla concettualizzazione delle mediazioni che tra codeste intercorrono19. Avremo occasione di soffermarci sul genere di analisi – davvero avanzatissima – che Labriola sviluppa della teorica del valore-lavoro, sollecitando la ricerca nella direzione della sua lettura in foggia di schema di formalizzazione del mondo rapportato ad una cerchia determinata; e, ancora, pari passu, non dimenticando come anche al livello più alto di astrazione permanga la referenza alla riproduzione commisurata anzitutto al ricambio organico uomo-natura, a muovere dal versante del valore d’uso. Adesso, ci preme battere su come tutta l’elaborazione marxista di Labriola si svolga alla luce dell’aggancio paradigmatico alla complexio teorica de Il Capitale in quanto, nell’insieme, analisi di strutture formali. La problematicità della «forma del pensiero» marxiana consiste nell’impiegare la via astrattiva

dello stabilimento di un non ipostatizzato prius logico-storico determinato per fuoriuscire dagli estremi convergenti della mera riproposizione del dato empirico e della generalizzazione. Ciò diviene possibile considerando l’arco di fattori a cui è correlato il ‘difficile’ rapporto critica-oggetto, – a cominciare dal livello della circolazione semplice del capitale –, in quanto leva di un impresa di qualificazione analitica complessiva abilitata a penetrare anche i punti massimi di densità astratta (si pensi, nel quadro della diagnosi marxiana, al subentrare del ciclo D-M-D), sporgendo – grazie alla tematizzazione della contraddizione (è da osservare che in ciò consta la chiave della corretta lettura della teoria del valorelavoro) – verso l’«uscita» dal mero «ambito d’un concetto o d’un fatto»; e così mettendo al riparo la ‘critica dell’economia politica’ – e pure su un simile aspetto dovremo concentrarci innanzi, a fronte del suo significato decisivo in merito al dibattito con Croce e con il marginalismo – dall’ipoteca naturalistica. È solo su questa strada che risulta davvero possibile scorrere, a partire dal livello genetico–non empirico (su cui torneremo ad insistere), nella direzione del conseguimento della ‘tipicità’ connettibile alla «genesi concreta». Una tale misura teorica illumina, – come viene asserito chiaramente nella capitale lettera ad Engels del 13 giugno 1894, direttamente precedente a quella in esame, già rammentata e che preferiamo prendere in considerazione oltre, impiegandone i contenuti in guisa di ‘cartina al tornasole’ di certuni epicentri della nostra argomentazione –, l’intima fusione tra metodo ‘genetico’ e ‘dialettico’ in ordine al movimento costitutivo del processo storico-reale; segnandone lo statuto di unità concernente la molteplicità incomprimibile delle determinazioni (coerente con l’acquisizione organico-complessa della Wissenschaft, alternativa al riduzionismo della «science dei positivisti»20). Si può, dunque, parlare di una sorta di metodo storico-genetico, – sottendendone con ciò l’integrazione prettamente dialettica –, che sin dal primo saggio, e dal percorso di maturazione che vi è alla base, si esplica in quanto strumento fondamentale per elaborare una pretta teoria critica della società capitalistica. Essa trova come compito precipuo quello di classificare la realtà mobile dei rapporti di forza, senza riferirla a nessun ineluttabile Endziel e, conseguentemente, di considerare in senso integralmente politico il ruolo del socialismo. Forte di una appropriata considerazione della matrice e della realtà di tali rapporti, della loro natura sociologica (la quale, tuttavia, non ha da venir letta unilateralmente) e del loro indirizzo strategico, il movimento che vi corrisponde persegue l’organizzazione politico-culturale delle classi subalterne, chiamate a specificare la loro identità sovranazionale nel concorso alla direzione nazionale. Ciò spiega come Labriola avesse fatto tesoro di tutta la posizione marxengelsiana successiva al 1870-71, volta a connettere il passaggio, secondo la

nota formula, dalle «armi della critica» alla «critica delle armi», – rompendo nettamente con i fallaci orientamenti insurrezionalistici –, alla necessità di un ulteriore raffinamento analitico-categoriale in ordine all’impetuoso complessificarsi dell’organizzazione sociale. A sostrato della consapevole valutazione labrioliana vi era l’intersecarsi degli strumenti propri della ‘critica dell’economia politica’ con il vaglio attento delle modulazioni del presente storico, sfruttando anche i giudizi engelsiani esibenti la impraticabilità e la forvianza della linea dell’‘attacco frontale’21. Esemplari appaiono, in merito, le affermazioni che seguono: Il comunismo critico non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse;

esso «vede e sorregge» il movimento socialista nella piena intelligenza della connessione che esso ha, o può e deve avere, con l’insieme di tutti i rapporti della vita sociale. Non è, in somma, un seminario in cui si formi lo stato maggiore dei capitani della rivoluzione proletaria,

ma deve essere parametrato alla registrazione del significato dei mutamenti morfologici della società capitalistica ed alla lucida acquisizione, in relazione a questi, della «difficoltà»22 della lotta politica democratica23. Ne viene che, – sulla scorta di una attenta delineazione del nesso di ‘unità-distinzione’ fra marxismo e socialismo, rinviante a quello fra teoria e prassi (su cui si concentrerà lo stesso programma della ‘filosofia della prassi’ gramsciana) –, Labriola definisce la funzione politica del movimento operaio in una chiave nettamente antiespressiva e conseguente alla avversione sempre manifestata verso il soggettivismo, articolando lucidamente il rapporto tra teoria e movimento. (Il rapporto è visto quale commisurato ad un genere di analisi che «sola ha valore per l’intelligenza della storia, ed è quella che distingue e separa gli elementi soltanto per ravvisarvi la necessità obiettiva della concorrenza nel loro risultato», ossia, – al di là della inclinazione alla eccessiva fiducia nella ‘neccesità’ tout court, appunto, che pervade una siffatta prospezione e che considereremo fra un attimo –, ad un’analisi consapevole del connotato politico delle sue varie declinazioni possibili e capace di esprimere una veduta in grado di dar luogo ad una ricomposizione dell’oggetto alternativa alla stabilizzazione

della scienza nell’orizzonte della scissione). In tal maniera, il materialismo storico non si riduce solo a ‘guida per l’azione’ – secondo il celebre, e, comunque, spesso semplificato, suggerimento di Engels24 – dei partiti dei lavoratori, o meglio ne sviluppa al massimo tutte le implicazioni. Infatti, la concezione materialistica della storia ha certo come commisurato referente il movimento operaio, e, situandosi nel contemporaneo intreccio di cerchie e ruoli cognitivi, nonché impiegandoli per indagare la concretezza della condizionalità delle trasformazioni rispetto a cui vanno orientate le pratiche sociali medesime, si configura in quanto tramite speciale – nel senso che l’attributo assume nella odierna dinamica dei saperi e nell’«insieme di tutti i rapporti della vita sociale» – della possibilità della relazione, anzitutto e prevalentemente culturale (il che sottintende tutto il distacco dello schema opposizionale 25 ‘struttura’/’sovrastruttura’), fra intellettuali e socialismo stesso .

4. Oscillazione e limiti di In memoria Non è chi non veda come un siffatto approccio non descriva un modulo esclusivo all’interno di In memoria, come già abbiamo avuto occasione di anticipare. Infatti, come detto, in questo scritto, – a fronte, primariamente, delle sollecitazioni in atto, che pure mai condurranno il nostro a dimenticare la presenza di precise ‘difficoltà’ strutturali, e di elementi precisi di immaturità, a cominciare dallo scenario italiano –, il discorso qualche volta spencola verso una assunzione della storia «tutta di un pezzo» che sembra ‘passare il segno’ rispetto alla giusta istanza (la quale, comunque, almeno in parte, la motiva), che troveremo al cuore della successiva Delucidazione preliminare, di restituire la complessità dell’oggetto-‘storia’, assecondando, incoerentemente, l’idea – poi compiutamente e fruttuosamente superata – di uno sviluppo antinomico ricadente, inevitabilmente, sul fronte, – dal nostro sempre stigmatizzato, decostruito ed inteso come termine di configurazione di una chiara ipotesi alternativa –, della necessità lineare («il comunismo […] trovava» – scrive Labriola riferendosi al significato generale del Manifesto – «per la prima volta la sua adeguata espressione nella coscienza della sua propria necessità; cioè nella coscienza di esser l’esito […] delle attuali lotte di classe»26). Siffatta parziale oscillazione rilevabile nel primo saggio verso un collegamento eccessivamente piatto e diretto fra storia empirica e teoria della storia, conosce, però, – è bene ribadirlo – un contrappeso nell’antisoggettivistico rifiuto di ogni inclinazione alla spontaneità dell’iniziativa e, quindi, di ogni affido latu sensu ‘provvidenzialistico’. Basti evocare l’osservazione per cui i «comunisti critici riconobbero il diritto della storia di fare il suo cammino. La fase borghese è superabile, sì, e sarà superata. Ma finché dura, ha le sue leggi […] Possono sparire e spariranno, per il fatto stesso del mutarsi della società. Ma non cedono all’arbitrio soggettivo, che annunci una correzione, proclami una riforma, o formuli un progetto»27. Come si vede, qui Labriola non si lascia irretire dalla diffusa inclinazione ad intendere l’incidenza della soggettività del movimento operaio come risolventesi in spinte di tipo volontaristico, compreso quelle privilegianti, sicuramente in accezione determinata, quell’elemento, intrinseco al disegno del Manifesto, concernente il raccorciamento della transizione dal livello collegabile ad alcuni aspetti della critica dell’economia politica (in vero non prevalenti nell’ottica de Il Capitale, cui la sinossi della elaborazione labrioliana tende a conformarsi, in radicale discrimine al modulo dicotomico) a quello della traduzione sociologica (pensiamo, in particolare, proprio alla questione della ‘proletarizzazione’28). Restava complessivamente confermata una percezione della società in quanto

organismo intricato e non sottoponibile alla semplificazione ideologica. In proposito Labriola contestava, anzitutto, la riduzione, contraddistintiva degli «empiristi della ricerca», al campo dell’‘isolamento’ dei fattori (alterativa all’indagine imperniata sulla intensità plurifattoriale della mediazione storica): «La società» – sintetizza il nostro, fissando succintamente uno dei perni della sua impostazione – «è un complesso», appunto, «un organismo»29. A fondamento genealogico di tale percezione Labriola designa alcune precise matrici, concentrantisi nella scansione molteplice di determinazioni tale per cui la loro gamma di implicazioni potenzialmente infinita si esplica ‘formativamente’ nella dimensione storico-finita. Matrici tra cui si evidenzia quella vichiana, che egli recepisce, sfruttando alcuni accenti euristici proposti da Spaventa e Fiorentino30 – ulteriormente collegabili agli accenni a Boeckh nella Prolusione dell’87 (egli si interrogava finalizzatamente: «non aveva già Vico ritrovato, che la Provvidenza non opera ab-extra nella storia, ma anzi opera come quella persuasione, che gli uomini hanno della esistenza sua? E lo stesso Vico […] non aveva ridotto la storia tutta ad un processo, che l’uomo compie da sé come per una successiva esperimentazione, che è ritrovamento della lingua, delle religioni, dei costumi e del diritto31?») –. A questa altezza, Labriola trae occasione per promuovere una concezione antieconomicistica del materialismo storico asserita in aperta escursione alla riduzione monofattoriale della ‘storia’ a ‘storia economica’, considerando, altresì, la storicità perspicua dell’organizzazione economica medesima: Tutt’altro è il fatto nostro – dice il Cassinate –. Qui siamo nella concezione organica della storia. Qui è la totalità e la unità della vita sociale che si ha innanzi alla mente. Qui è la economia stessa […] che vien risoluta nel flusso di un processo, per apparir poi in tanti stadii morfologici, in ciascuno dei quali fa da relativa sostruzione del resto, che le è corrispettivo e congruo. Non si tratta, in somma, di estendere il cosiddetto fattore economico, astrattamente isolato, a tutto il resto, come favoleggiano gli obiettatori; ma si tratta invece e innanzi tutto di concepire storicamente la economia32.

Risulta evidente come la suddetta concezione venga a saldarsi con la lettura unitaria del processo storico in forza della sostanziale discriminazione tra tempo cronologico e tempo storico, la quale induce a cogliere come solo la tematizzazione del secondo consenta di rinvenire le ‘leggi di movimento’ del processo, commisurando alla sua sostanza – coincidente con la mediazione storica – la ricognizione predittiva. Si tratta di un genere di ‘previsione’ che fuoriesce dal campo della ordinaria astrazione scientifica, recependo la

ridefinizione di fisionomia compiuta da Marx, ed interessandosi esclusivamente al carattere del ritmo di tale processo e della impalcatura categoriale ad esso rivolta (lo ‘schema’). L’ipotesi di teoria della storia labrioliana fa corpo – va ribadito – con la attenta perlustrazione del presente storico, in cui si squaderna la funzione strategica della unificazione importata dalla forma-merce, connettendosi all’«allargarsi del sistema borghese» ma anche allo stagliarsi della sua crisi in corrispondenza all’usura delle forme ossificate forme del dominio. La cosa domanda una accurata riclassificazione del medesimo «ritmo di movimento», che si fa «più vario», ovvero del concretarsi di elementi di varianza (e covarianza) e di invarianza i quali spezzano ed articolano il corso storico, chiamando, vieppiù, a misurare su tale terreno l’autonoma soggettività politica socialistica; cambiandone i «modi» e le «movenze»33. Se ne ricava la collocazione della teoria non sul fronte della singola attività dello storiografo (quella, cioè, della ‘separatezza’, egemonicamente determinata, dell’intellettuale-‘mosca cocchiera’, per ricorrere ad una fortunata formula), bensì su quella della appropriazione e socializzazione di un quadro determinato di legalità e della previsione morfologica che vi corrisponde. «Qui» – osserva ancora il filosofo di Cassino – «nella dottrina del comunismo critico, è la società tutta intera, che in un momento del suo processo generale […] fa luce a sé stessa per dichiarare la legge del suo movimento»34. 1

Cfr. E. GARIN, I saggi sul materialismo storico cit., p. 94. Cfr. infra, p. 1184. 3 Cfr. in proposito G. PROCACCI, Antonio Labriola e la revisione del marxismo attraverso l’epistolario con Bernstein e con Kautsky 1895-1904 cit., pp. 279-280. 4 Su questo tema molti stimoli, seppure da una prospettiva diversa da quella che qui ci permettiamo di avanzare, sono presenti in M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione. Problemi e funzioni della critica al sistema dialettico, raccolto in ID., Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, 2

pp. 37-38. 5 Si tratta di un argomento su cui, come avremo modo di constatare, Labriola insisterà massimamente in Da un secolo all’altro, ma che troviamo già fissato nel primo saggio, laddove leggiamo: «Risorta ad unità e diventata stato moderno, dopo l’epoca della reazione e delle cospirazioni, e nei modi e per le vicende che tutti sanno, l’Italia si è trovata ad avere di recente tutti gl’inconvenienti del parlamentarismo, e del militarismo, e della finanza di novello stile, non avendo però in pari tempo la forma piena della produzione moderna […] Uno stato moderno in una società quasi esclusivamente agricola, e in gran parte di vecchia agricoltura: – ciò crea un sentimento di universale disagio, ciò dà la generale coscienza dell’incongruenza di tutto e d’ogni cosa!» (infra, p. 1183). 6 Infra, p. 1182. 7

In proposito alcuni interessanti spunti sono presenti in M. CACCIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione cit., pp. 32-40. 8 Sui temi appena trattati cfr. le considerazioni di G. PROCACCI nell’Introduzione a K. KAUTSKY, La

questione agraria, Feltrinelli, Milano 1959, pp. xLI-XLII. 9 Infra, p. 1150. 10

Questi aspetti vengono efficacemente sintetizzati da M. MONTANARI in Cento anni di ideologia italiana, in ID., G. CASCIONE, R. FINELLI, F. PAPA, La libertà dei moderni. Filosofia e teorie politiche della modernità, Liguori, Napoli 2003, pp. 233-234. I giudizi del Montanari in tale testo rivedono, ci pare, adeguatamente quelli precedentemente espressi in La rifondazione della ‘ragione storica’in B. Croce cit., con cui interloquiremo criticamente più oltre. 11 Insiste su questo aspetto N. SICILIANI DE CUMIS in Il criterio del ‘morfologico’ secondo Labriola, raccolto in Antonio Labriola. Celebrazioni del centenario della morte cit., vol. I, p. 51. 12

Infra, p. 1169 (corsivo nostro). È assai rilevante in proposito la seguente argomentazione formulata nel primo saggio: «La massa

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proletaria non istà più alla parola d’ordine di pochi capi, né regola le sue mosse su le prescrizioni di capitani, che possano, se mai, su le rovine di un governo di classe o di consorteria, crearne un altro dello stesso genere. La massa proletaria, là dove essa si è svolta politicamente, ha fatto e fa la sua propria educazione democratica. Cioè, elegge e discute i suoi rappresentanti, e fa sue, esaminandole, le idee e le proposte, che quelli per anticipazione di studio e di scienza abbiano intuito e presagito» (infra, p. 1178). 14 Infra, p. 1179. 15

Infra, p. 1157 (corsivo nostro). Cfr. in proposito le osservazioni di G. VACCA in Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 37-40. 16 A. LABRIOLA, Lettera a F. Engels, 11 agosto 1894, raccolta in Carteggio, III, pp. 431-432; cfr. B. CENTI, L’Ottocento tedesco di A. Labriola cit., pp. 528-529. 17 Cfr. in proposito, fra gli altri, L. CALABI, In margine al ‘problema della trasformazione’: logico e storico in Smith e Marx, in «Critica marxista», 4, 1972, pp. 109-179. 18 K. MARX, Il Capitale, I, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 32. 19

Cfr. L. CALABI, In margine al ‘problema della trasformazione’ cit., p. 131. A. LABRIOLA, Lettera a Engels, 13 giugno 1894 cit., p. 413. 21 Sul profilo politico di Engels cfr., fra gli altri, la ricostruzione contenuta in N. MERKER, Il 20

socialismo vietato. Miraggio e delusioni da Kautsky agli austromarxisti, Laterza, Bari 1996. 22 Infra, pp. 1174-1175. 23

Cfr. M. MONTANARI, Il marxismo dopo Marx, in ID., F. FINELLI, F. PAPA, G. CASCIONE, La libertà dei moderni cit., pp. 282-283. 24 Per una corretta interpretazione di tale suggerimento engelsiano, attraverso il collegamento alle ulteriori indicazione di Gramsci, cfr. G. VACCA, Il “Manifesto del Partito Comunista” e il problema storico della democrazia, raccolto in ID., B. DE GIOVANNI, L. CANFORA, Il “Manifesto del Partito Comunista” in Inghilterra, Pensa Multimedia, Lecce 2005, pp. 214-215. 25 Cfr. ID., Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 41-42. 26

Infra, p. 1151. Infra, p. 1194; cfr. B. DE GIOVANNI, Labriola e il metodo ‘critico’ cit., pp. 93-94. 28 Cfr. in proposito G. VACCA, Il “Manifesto del Partito Comunista” e il problema storico della democrazia cit., pp. 202-203. 29 Infra, p. 1188. 30 Per quanto riguarda l’eurisi vichiana svolta da Fiorentino il riferimento ed il calco in merito è 27

costituito dalle Lettere sulla Scienza Nuova, in «Civiltà italiana», 14 maggio 1865, raccolte in ID., Scritti varii di letteratura, filosofia e critica, Napoli 1876, p. 189 (cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Il Vico di Francesco Fiorentino, Guida, Napoli 1970). 31

Infra, pp. 1188-1189. Ci è d’uopo rammentare come il giovane Gramsci, nell’articolo, del 12 gennaio 1918, che torneremo oltre a rammentare, La critica critica, pubblicato su «Il Grido del popolo» (raccolto in La Città futura, 1917-1918, a cura di S. CAPRIOGLIO, Einaudi, Torino 1982, p. 556), – dedicato alla polemica con Treves, nonché esplicitamente interloquente, tra l’altro, con Labriola (in collegamento ai contenuti del III paragrafo della Delucidazione preliminare, che verrà poi edito, il 5 gennaio 1918, su «Il grido del popolo» con l’indicativo titolo Le ideologie nel divenire storico), con il revisionismo crociano e con Sorel in merito al motivo della discriminazione tra il livello previsionale ante faestum e post faestum –, riprenda direttamente siffatta lettura del pensiero vichiano. Cfr. in proposito le osservazioni di G. MASTROIANNI, Su Antonio Labriola e la filosofia politica in Italia, raccolto in Antonio Labriola. Celebrazioni del centenario della morte cit., II, pp. 305-306. 32

Infra, pp. 1194-1195. Per le osservazioni appena compiute siamo ancora assai debitori nei riguardi dell’analisi di R. RACINARO in La crisi del marxismo cit., pp. 62-63. 34 Infra, p. 1169. 33

VI UNA PROSPETTIVA DI TEORIA DELLA STORIA 1. I contenuti del “Secondo saggio” La “Delucidazione preliminare” Del materialismo storico, del ’96, marca un cospicuo avanzamento all’insegna della liberazione da quei condizionamenti oscillatorii che attraversano il primo saggio. Vi è un brano di assoluto rilievo in esso da cui occorre prendere le mosse: Non si tratta già di separare l’accidente dalla sostanza, la parvenza dalla realtà, il fenomeno dal nocciolo intrinseco, […]; ma, anzi, di spiegare l’intreccio ed il complesso, per l’appunto in quanto è intreccio e complesso1.

Sulla base di questo, ora pienamente fissato, principio di ricostruzione logicostorica dell’oggetto viene a specificarsi l’intendimento labrioliano della unitarietà del processo storico, connesso ad una accezione del legame di ‘società’ e ‘scienza’, di piano dell’indagine e della strutturazione epistemica, da un lato, e di quello della costruzione storico-sociale, da un altro, in termini – secondo la declinazione concettuale segnalata ‘a più riprese’ qui su – di ‘organismo’ (da avvicinarsi alla perspicua nozione di ‘organamento’). È al lume della presente idea di appropriazione dell’oggetto-‘storia’ che Labriola intende enfatizzare lo statuto critico del marxismo. Esso, – ed in ciò sta, forse, l’argomento maggiormente decisivo di tutta la sua elaborazione –, si configura nel pieno della regionalizzazione del sapere scientifico, del moltiplicarsi delle cerchie e dei ruoli cognitivi (ove – come ben desumibile dalla formulazione marxiana della teorica del valore-lavoro – si inscrive costitutivamente la critica medesima, in collegamento al determinarsi di una perspicua dissimmetria2), svolgendo, prima di tutto, una mansione di ricognizione, di filtro e di cerniera rispetto a questi. Ecco, in merito, un altro brano di straordinaria importanza: Non fu, come non sarà mai tempo perso quello che sia speso nell’analisi preliminare e laterale dei fatti complessi. Dobbiamo alla metodica divisione del lavoro la erudizione precisa, ossia la massa delle conoscenze dichiarate, cribrate, sistemate, senza delle quali ogni storia sociale vagherebbe sempre nel puramente astratto, nel formale e nel terminologico. Lo studio da parte dei presunti fattori storico-sociali ha giovato, come giova a ogni altro studio empirico che si attenga al moto apparente delle cose, a raffinare gl’instrumenti dell’osservazione, e a dar modo a ritrovare nei fatti stessi, che furono artificiosamente distratti dall’insieme, gli addentellati che al complesso sociale li

legano. Le diverse discipline, che son tenute isolate e indipendenti per via del presupposto dei fattori concorrenti nella formazione storica, per il grado di sviluppo che han raggiunto, per il materiale che han raccolto, e pei metodi che han prodotti, sono per noi tutte indispensabili3.

Più oltre il Cassinate conclude: Nella ricerca particolare tocca anche a noi di pigliar le mosse da quei gruppi di fatti apparentemente isolati, e da quel variopinto intreccio, […] dal quale è nata la credenza nei fattori, che poi si è svolta in una semidottrina4.

Dalle osservazioni labrioliane, convergenti nella celebre polemica con la ‘storiografia dei fattori’, possiamo ricavare come il nodo della ricostruzione dell’oggetto-‘storia’ si esplichi soltanto nella iterazione speciale con i saperi speciali, cioè nella compresenza di un campo teorico-speciale determinato ed autonomo, quello del marxismo, alla vasta geografia delle cerchie cognitive. Viene ad emergere con chiarezza un modello particolare di rapporto tra il campo speciale del marxismo ed il resto degli specialismi, a cominciare dalla costellazione delle scienze sociali empiriche. Il marxismo deve svilupparsi incorporando i varii conseguimenti della ricerca nelle distinte discipline sulla base, appunto, di quella idea e di quell’obiettivo di ricostruzione logico-storica dell’oggetto che procede muovendo dall’intensificazione progressiva della integrazione tra le connotazioni dell’analisi genetica e la ricognizione funzionale plasmata proprio sull’intreccio fra pluralizzazione della ragione scientifica e trama particolare della organizzazione sociale5. Tale intreccio orienta, nel quadro labrioliano, la tipizzazione politico-obiettiva della costituzione dei soggetti storici, rendendola anche congiungibile a un’ipotesi di preciso raccordo fra il vaglio e la penetrazione critica della tessitura molecolare di questa stessa organizzazione e la prospettiva di una gnoseologia antindividualistica (laddove alla nozione di ‘individualismo’ venga corrisposta, marxianamente, l’ipostasi integralistico-naturalizzante dell’homo oeconomicus6). Il raccordo in discussione esige di venir incardinato su una apposita batteria categoriale, e ciò giustifica l’insistito attacco labrioliano alla teorica dei fattori. Essa rappresenta il contrapposto speculare rispetto all’umanesimo unilaterale (ed a rischio di rovesciamento entro codesto medesimo), e vi può essere ricompresa anche la variante del volgarmarxismus, dato il suo mostrarsi atta a ridurre le forme della vita al ‘fattore’ economico7. La fondamentale incoerenza della ‘pseudodottrina’ dei fattori consta nello smarrire proprio quella incidenza del

‘particolare concreto’ che intendeva principiativamente enfatizzare. Siffatto elemento di fallacia si verifica in virtù del contraddistintivo ripiegamento riduzionistico concludente – quasi paradossalmente – all’approdo verso gli irrigidimenti connotanti la variante deterministica della storia ‘a disegno’8. Risulta, dunque, invigorito l’intento labrioliano di sottrarre il marxismo alla dicotomia, prevalente nella Seconda Internazionale, ‘struttura’/ ‘sovrastruttura’, facendo emergere la declinazione della unità del processo storico in quanto «processo […] di mediazione […] assai complicato, spesso sottile e tortuoso»9. Il suo corso non lineare si snoda e si ritma nella definizione di strutture formali, lumeggiando la condizione di statutaria interdipendenza delle determinazioni del mondo storico che ‘attraverso’ di esse e ‘in’ esse si articolano.

2. Il ‘terreno artificale’ e la mediazione storica Il nodo della mediazione storica che, come ormai dovremmo ben sapere, accompagna Labriola sin dai principii, viene riqualificato, a questa altezza, attraverso il motivo del terreno artificiale. Secondo il nostro autore (abbiamo già accennato in precedenza al brano che segue) le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro prodotto dell’attività umana, si formano in date circostanze, in tale precisa maturità di tempi, per l’azione di determinati bisogni, e per reiterati tentativi di dare a questi soddisfazione, e col ritrovamento di tali o tali altri mezzi di prova, che sono come gl’instrumenti della produzione ed elaborazione loro. Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro. Spostare quelle e questo ossia, le idee e il pensiero, delle condizioni e dell’ambito di lor proprio nascimento e sviluppo, gli è svisarne la natura e il significato. Mostrare come la concezione materialistica della storia fosse nata precisamente in date condizioni e cioè non come personale e discutibile opinioni di due scrittori […] – considera, con il consueto atteggiamento retrospettivo il nostro – questo fu l’assunto del mio primo saggio. Il che è quanto dire, che una nuova situazione storica si è completata del suo congruo instrumento mentale10.

Di conseguenza, la indagine labrioliana, sulla scorta del diretto prolungarsi della critica dell’ideologia nella conquista teorica circa la costruzione oggettiva della realtà storica11, tematizza come segue la suddetta dimensione del terreno artificiale: Gli uomini lavorano per l’esistenza sopra di un campo, che fu in gran parte modificato dall’opera loro, e con istrumenti che sono del tutto opera loro. E da quel punto in poi hanno lottato per la posizione eminente degli uni sugli altri nell’uso di tali mezzi artificiali […] e dove hanno progredito, e dove han regredito, e dove si sono arrestati a una forma che non furon più capaci di superare, ma non son mai più ritornati al vivere animale, con la completa perdita del terreno artificiale. Dunque la scienza storica ha per suo primo e principale oggetto la determinazione e la ricerca del terreno artificiale, e della sua origine e composizione, e del suo alterarsi e trasformarsi. Dire che tutto ciò non è se non parte e prolungamento della natura, è dir cosa, che per esser troppo astratta e generica, in fin dei conti conchiude poco. Il genere umano vive soltanto nelle condizioni telluriche, e non è chi non possa supporlo trapiantato altrove. In tali condizioni esso ha trovato, dalla primissime origini fino ai giorni nostri, i mezzi […] allo sviluppo del lavoro, e cioè dire, così al progresso materiale, come alla sua formazione interiore […] Non sono […] i mezzi naturali, essi stessi, che sian progrediti; anzi son gli uomini soltanto che progredirono, ritrovando via via nella natura le condizioni per produrre in nuove e più complesse forme, per via del lavoro accumulato che è l’esperienza12.

Il ‘terreno artificiale’ si definisce come l’ambito in cui si articola il circuito delle mediazioni che la prassi sostanzia ed in cui vengono ad essere scandite le forme, consentendo la conservazione del genere umano attraverso la riproduzione materiale della vita. Ciò significa, anzitutto, che non v’è alcuna possibilità di riassorbimento in un ‘soggetto generale’, e che, altresì, la costitutiva pluralità dei soggetti s’inscrive nell’ancoraggio reciproco di storicità e forma; richiamando, vieppiù, alla tematizzazione dell’affermazione del processo storico medesimo come sporgente dalla delimitazione del ‘terreno artificiale’ medesimo, quando esso è già «per un buon tratto formato»13. La cosa conferma tutta la radicale distanza del Cassinate dagli sviluppi a lui contemporanei (il determinismo della II Internazionale) ed anche, massimamente, successivi (il soggettivismo orientato dall’idea di una ricomposizione della ‘unità originaria’ e della contrapposizione soggettiva ‘vita’/’forme’) della tradizione del marxismo occidentale. Egli fa leva sulla cognizione marxiana della centralità del ricambio organico uomo-natura14 specificantesi nella riproduzione materiale della vita umana, e colloca nel suo organizzarsi l’esplicazione mediatrice della prassi, rinviante, ad una diverso livello di astrazione, alla proprietà universale-concreta della warenform di corrispondere «con le sue qualità» ai «bisogni umani»15. Proprietà in assenza della quale avrebbe luogo l’elisione vicendevole di valore d’uso e valore di scambio, nonché l’elusione della funzione fondamentale della circolazione (che dovrà essere, invece, problematicamente raccordata alla produzione nell’alveo della riproduzione e del suo contenuto egemonico di garanzia della stessa illimitata espansione delle merci – forza-lavoro, beni di consumo, capitale – e di rapporti sociali determinati). Di qui, viene indagata la scansione di un siffatto, mediato svolgimento attraverso il rassodarsi di ruoli, di compiti egemonici e delle inerenti relazioni di dominio. Il configurarsi del ‘terreno artificiale’ in qualità di spazio costitutivamente vocato all’esplicazione della capacità di permeare e di vertebrare la realtà storica da parte della mediazione in cui lo scambio organico in discussione si manifesta non comporta alcuna risoluzione naturalistica («Dire che tutto ciò» – asserisce il nostro autore, con tono di manifesta ironia – «non è se non parte e prolungamento della natura, è dir cosa, che per esser troppo astratta e generica, in fin dei conti conchiude poco»), e si traduce, altresì, nella articolazione organizzativa del lavoro accumulato e nella dislocazione che gli attiene. L’unità del suo corso si realizza, in raccordo ai modi del lavoro vivo ed alla sua configurazione separata nella forma sociale determinata del lavoro (il lavoro astratto), in sezioni temporali specifiche convoglianti nella compenetrazione di

processo e tempo storico. Abbiamo già adombrato all’intrinseco carattere non lineare di tale compenetrazione. Nel suo alveo, la connessione tra il carattere di comprensiva sedimentazione insidente nel lavoro accumulato, le emergenze concernenti il ‘lavoro vivo’, e la diretta separazione in guisa di lavoro astratto, appunto, si mediano e fondono inestricabilmente. Vi è da aggiungere che, nel presente caso, l’utilizzo della nozione di ‘progresso’ – rispetto alla cui accezione ‘perfettistica’, scorrente su una direttrice seriale la cui idealizzazione ha matrice illuministica16, l’attacco del nostro sarà costante e destinato ad estremizzarsi acutamente – viene operato come termine di qualificazione dello sfruttamento di stock di conoscenze in ordine alla distribuzione e disposizione del lavoro accumulato – «il progresso materiale», giustappunto – ed ai mutamenti di impalcatura concettuale e di costruzione di soggettività molteplici (la «formazione interiore» del genere umano) a ciò coimplicati. Questi ultimi esigono di essere correlati e vincolati, cioè, alle strutture materiali dell’esistenza storica in cui la mediazione coincidente con la prassi si squaderna, concentrando il proprio contenuto di lavoro accumulato in misure di memorizzazione parallelizzabili – in un sistema di dissimmetrie e concordanze rispetto al polo della ‘ulteriorità’ – al dispiegamento internante della Erinnerung hegeliana17. È a questa altezza che la prassi umana esibisce la propria integrale inscrizione formativo-costitutiva nella rete obiettiva ove il mondo storico viene ad istituirsi, nell’insieme delle «condizioni telluriche». Intendiamo ribadirlo: è stato correttamente osservato come il fatto «che l’uomo viv[a] solo nelle ‘condizioni telluriche’ non signific[hi] alcuna concessione al piatto naturalismo, ma solo il riconoscimento che non si può […] sradicarlo dalla condizioni in cui opera quotidianamente la sua capacità di costruire il terreno artificiale della vita economica, culturale e scientifica» (G. Cacciatore18). La prassi umana si concreta coestesamente al determinarsi delle forme storiche cui la mediazione si annoda costitutivamente. Riaffiora, in tal maniera, il segno di alcune suggestioni steinthaliane inclini a considerare il ruolo genetico-formativo delle soluzioni di intervento distanziante del genere umano nei riguardi dell’ambiente naturale, liberato, però, da alcuni inficianti condizionamenti. Di qui, la morfologia storica viene attesa come veicolo della strutturazione dei ritmi diversi del tempo storico; secondo diverse linee di formazione coincidenti con la modulazione del ricambio organico mercè l’emergere di una moltitudine di nessi, dipartentisi dalla prassi, che definiscono anche precisi rapporti di forza in corrispondenza ad aree più dense e meno dense di appropriazione ed alla valenza egemonica attribuibile allo sporgere ed allo stratificarsi degli ‘impedimenti’19.

3. ‘Terreno artificiale’ e ‘ambiente artificiale’: un confronto con Sorel Il motivo del ‘terreno artificiale’ ci consente di introdurre un argomento non marginale nei riguardi della riflessione labrioliana, ovvero quello del confronto con la proposta teorico-politica di Georges Sorel20. L’argomento ci costringerà anche ad accennare, per un momento, ad alcuni nodi che coinvolgono la strategia analitica del Discorrendo e che ritroveremo oltre. Proprio nella breve Préface del ’96 alla traduzione francese degli saggi labrioliani sul materialismo storico, Sorel si interroga, regolando lo sguardo da una precisa angolatura, sul problema della espansività del marxismo, che fa direttamente corpo con quello della crisi teorico-politica di esso ed, anzitutto, della sua qualificazione e giustificazione21. In tale scritto, assai denso, la questione viene affrontata riecheggiando le accentuazioni presenti nel saggio del ’94 su L’ancienne et la nouvelle métaphysique, laddove è presentata un’idea del marxismo in quanto campo epistemologico ‘aperto’ e integrabile con una accezione della ‘metafisica’ per certi versi (e malgrado alcune accentuazioni) simile a quella propugnata da Labriola nella Prolusione ed in altre occasioni, e poi articolatamente confermata, in sostanza, nel medesimo Discorrendo22. Una siffatta concettualizzazione si trova, a sua volta, plasmata in riferimento ad un modello ulteriore, cioè quello designato dal nesso tra motivo meccanicomacchinistico e prospettiva gnoseologica. Si tratta, anche nel presente caso, di un versante che richiederà successive sottolineature. Interessa ora attirare l’attenzione sull’affermazione contenuta nel testo per cui in «nessun luogo l’intelligenza appare con più rilievo che nella tecnologia, il cui ruolo storico è messo in evidenza, in maniera così stupefacente, nel Capitale»23. Nella presente osservazione, – che pure contrasta con la prevalente, ed equivoca, attribuzione da parte del pensatore francese a Marx di una generale sottovalutazione proprio di tale «ruolo storico» –, si trova implicita una rimodulazione complessiva del paradigma marxiano concernente il rapporto dialettico di accumulazione ed incorporamento della scienza nel processo produttivo-riproduttivo, da un lato, e controllo del mutamento sociale, da un altro. Esso, realiter, definisce in proposito una ripresa ed un parziale avanzamento rispetto a quello hegeliano, il quale, – essendo certo contrassegnato dalla consapevolezza della proliferazione del Politico nelle regioni della organizzazione epistemica –, se non possedeva ancora compiutamente la nozione di ‘motore’, ossia di produzione di energia ulteriore per via macchinale, così come la aveva formulata Sadi Carnot24, risultava, ad ogni maniera, avvicinabile indirettamente, quasi per isomorfismo,

allo stesso principio carnotiano del funzionamento iniziale di una macchina grazie ad uno scarto di temperatura25 (di cui sono state fornite anche versioni definenti un modello epistemologico corrispondente ai processi di armonizzazione interna della ‘società automatica’) – in virtù dell’aggancio all’idea dell’incremento quantitativo determinato come sbocco qualitativo non traslabile nei riguardi dello schema della continuità seriale e della temporalità empirica, nonché a quella dell’insorgere, mediatore ed interdipendente, del ‘lavoro’26 –. Giacché, – in connessione alle evoluzioni disciplinari contemporanee (che spiegano gli studi appositi su Ure, Babbage, Poppe, Beckmann e le scoperte tecniche riassunti negli appunti su Hefte zur Technologie all’intero del corpus dei Manoscritti del 1861-186327, nonché la IV sezione del I Libro de Il Capitale28) –, Marx tematizza la possibilità della configurazione dello Stoffwechsel in foggia di ‘metabolismo artificiale’, sì da considerare il prodursi e l’attivarsi delle trasformazioni energetiche (la cui verifica comporta il superamento dell’ideale delle macchine ‘statiche’) come esplicante la dinamica di oggettivazione–concentrazione del sapere scientifico, di cui si tratta di evidenziare compiutamente il contenuto di Knowledge entro più vasti margini di socializzazione29. Orbene, stando in siffatta maniera le cose, Sorel batte sull’accantonamento delle funzioni artigianali in favore del patrimonio scientifico ed in vista dello sviluppo delle forze produttive. Da ciò trae ragione per annodare problema ‘metafisico’ e discorso sulle macchine in una comune cornice conoscitiva. «Per fare l’analisi critica della nostra conoscenza» – egli afferma in L’ancienne et la nouvelle métaphysique – «dobbiamo ricorrere alle macchine»30. Ne viene che il configurarsi dell’ambiente artificiale definisce l’alveo da cui trarre «gli elementi esplicativi, più chiari, meglio analizzati»31. Ciò si deve al fatto che tale ambiente coincide, appunto, con il terreno della socializzazione del patrimonio scientifico accumulato. Il tema delle macchine assume in merito una funzione davvero paradigmatica. «Se esiste qualcosa di sociale, per eccellenza nell’attività umana» – dice ancora Sorel – «questa cosa è la macchina; è più sociale dello stesso linguaggio»32. Il motivo tema apre la via ad un approfondimento dello spunto marxiano sul general intellect (riguardo a cui occorre evitare l’appiattimento in ordine alla accezione unilaterale della compenetrazione tra accumulazione scientifica e forze produttive) poiché acclara la coimplicanza di teoria della conoscenza e modi di appropriazione della natura, stante che la prima si specifica quale funzionale ai secondi («Le macchine comportano un modo di acquisire e di utilizzare le forze naturali; si può dire, in un certo senso, che esse siano apparecchi che sottopongon la natura all’esperienza: soltanto non si tratta qui di un’esperienza individuale e

temporanea, ma di un’esperienza sociale e permanente»33). La medesima questione dell’‘inconoscibile’34 – come Labriola la chiama nel Discorrendo, decostruendola sulla scia del rifiuto della ingenua identificazione diretta di ‘capitalismo’ e ‘irrazionalità’ – appare, a questo livello concettuale, destituita del suo fondamento, rendendosi ‘contenibile’, d’altra parte, rispetto al suo emergere prima facie, esclusivamente attraverso la corroborazione pratica, giacché «possiamo conoscere le cose che appartengono all’ambiente artificiale. Estendete dunque l’attività dell’uomo, inventare nuove macchine, e strapperete qualcosa al dominio dell’ignoto, allargando il campo della cooperazione fra l’uomo e le energie naturali nell’ambiente artificiale»35. Com’è chiaro, il motivo soreliano dell’‘ambiente artificiale’ e quello labrioliano del ‘terreno artificiale’ si toccano vistosamente. Tuttavia, ciò individua pure un punto interessantissimo di divergenza. Badare bene: a rigore la scelta sorelliana di concentrare l’accumulo della razionalità scientifica entro l’esclusivo livello macchinale sembra alludere ad una percezione unilineare e non discreta della crescita della conoscenza scientifica. Siffatta opzione, trovante il suo elemento di più cospicua fallacia nella estraniazione dei modi di appropriazione della natura dalle forme in cui essi si inscrivono, conclude alla riduzione tecnicistico-economicistica della problematica del ‘cervello sociale’, sino a rischiare il rovesciamento sul polo di quella che potremmo a ragione indicare come una sorta di naturalizzazione ‘di seconda istanza’ convergente, in fin dei conti, sul fronte del positivismo, compromettendo, così, – anzitutto in virtù di una rappresentazione quantitativa del processo qualitativo –, con una inequivocabile ipoteca scientista, tutte le intuizioni poste alla base del ragionamento sulle macchine dell’‘ingegnere-filosofo’ francese (si tenga presente, in merito a ciò, l’influenza sulla formazione del suo pensiero del naturalismo taineiano, volto a schiacciare sulla uniforme continuità biologica la vicenda storico-effettiva36). La compressione ‘tecnicistica’ operata da Sorel si traduce direttamente nella espulsione del Politico dalla sfera dell’appropriazione (come testimoniato, curiosamente, anche dalla asserzione della asimmetria fra storico e logico al fine di dimostrare la prevalenza di una certa accezione dell’uno sull’altro, con l’esito della sua risoluzione nell’ambito del mito, – come attestato dalla trattazione della ‘teoria delle catastrofi’37 –). Si tratta di una operazione che, in definitiva, contrasta con una delle considerazioni portanti della diagnosi afferente alla ‘critica dell’economia politica’ marxiana, giacché l’inspessirsi della composizione del valore d’uso nel capitale costante avvia la configurazione, – sulla quale si attaglia una peculiare strategia di subordinazione –, di una struttura socializzata scandente il tempo storico della contraddizione

dall’interno della morfologia rispetto alla contrazione ‘isolante’ della posizione della forza-lavoro nei riguardi della forma-merce38. Non così in Labriola. Il nostro, forte, implicitamente, proprio di tale considerazione, mira a ‘mettersi al riparo’ in ordine a qualsiasi pericolo di sganciamento dei modi di appropriazione della natura dalla complessità dei rapporti sociali. Dippiù: nell’ottica che egli elabora questi stanno alla base della delineazione delle forme storiche di quelli. Vi è un denso brano che lo testimonia con nitidezza: Su cotesto terreno artificiale, […] non vissero come non vivono ora, masse informi d’individui, ma consociazioni organate, che ripeteano come ripetono ora l’argomento loro da distribuzione d’ufficii, ossia, di lavoro, e da conseguenti ragioni e modi di coordinazione e di subordinazione. Tali relazioni, e vincoli, e modi di vita non resultarono, come non risultano, da ripetizione e fissazione di abiti sotto l’azione immediata della lotta animale per l’esistenza. Anzi suppongono il ritrovamento di certi istrumenti […] In altre parole, le opere degli uomini, in quanto congregati, reagirono su gli uomini stessi. I loro trovati ed invenzioni, creando modi di vivere supernaturali, produssero non solo abiti e costumanze […] ma rapporti e vincoli di coesistenza, proporzionati e congrui ai modi di produrre e riprodurre i mezzi della vita immediata39.

Qui Labriola, evidenziando la prassi quale innervata dalla mediazione ed in grado di renderla effettiva, con ciò istituendo i modi della interdipendenza del genere umano (commisurabile all’orizzonte dell’‘universale concreto’ che da Hegel trapassa, ridefinito, in Marx e poi in Gramsci40), esibisce implicitamente come se al centro della ‘missione’ teorica generale del marxismo si sceglie di individuare la ‘posta in giuoco’ della ricostruzione della complessità dell’oggetto, allora, ne consegue come davvero indebito ‘assolutizzare’ fattori interni dello sviluppo quali scienza e tecnica, senza coglierne i termini di assunzione ed impiego storicamente determinato. Si tratta di connotare le modalità dell’influenza sociale in quanto modificazioni dell’ambiente artificiale. Stiamo trattando di un aspetto estendibile ben al di là dei confini della verifica dovuta all’esplicativo attraversamento del circoscritto contesto della ‘accumulazione originaria’. Parliamo di un aspetto il quale, in sintesi, lascia intravvedere un nucleo decisivo di tutta la interlocuzione labrioliana – cui intendiamo prestare la dovuta attenzione – con la teorica marginalista e la revisione crociana, ovvero quello rinviante alla lettura in chiave propriamente dialettica, piuttosto che meramente e rigidamente opposizionale, del rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, donde risulta legittimo desumere un genere di visualizzazione dello spazio di riproduzione-distribuzione-consumo della formamerce irracchiudibile nei confini della concezione classica del ‘mercato’ sottesa

alla cosiddetta ‘società automatica’, poiché incardinata sulla cognizione della ‘mediazione allargata’ istituita dalla dimensione mercantile stessa, anzitutto in ordine all’elemento del rinnovamento del capitale, del carattere politico della sua costituzione e organizzazione, e, perciò, posta in condizioni di far affiorare il nesso strategico del valore d’uso con le finalità dei modi del «riprodurre i mezzi della vita» e di soddisfarne la relativa necessità di inveramento. Di qui, occorre cogliere, però, il nesso in discussione come approfondibile nella direzione del riposizionamento del lavoro, ovvero della sottrazione all’ipostasi della forma astratta di questo intesa in guisa di rottura del suo isolamento corrisposto proprio all’occultamento della funzione di socializzazione della stessa forma-merce (certo problematicamente parallelizzabile alla individuazione del campo speciale del valore-lavoro stesso). In definitiva, siamo di fronte a due risposte analitiche notevolmente differenti al tendenziale dispiegarsi della crisi della stabilizzazione liberale. La scansione del vincolo fra forme dell’appropriazione e sedimentazione del lavoro accumulato lungo le linee della struttura discreta del tempo storico rinvia direttamente, nella prospettiva labrioliana, a considerare la dimensione mercantile non in qualità di area ‘separata’ ed autoreferente ove la mediazione procede autoregolandosi, bensì in quanto ambito la cui estensione ed universalizzazione, rendente possibile il rafforzamento dei margini di inclusione e comunicazione pertinenti alla compresenza di valore d’uso e valore di scambio, si connette ad una trama assai composita e costantemente attraversata, nel plesso delle sue cerchie, dalla diffusione del Politico. La percezione labrioliana di un simile ambito di problemi va, dunque, davvero ben aldilà dell’indagine di forme di razionalità ricongiungibili al paradigma signorile connesso alla accumulazione originaria41. La ricognizione e l’intervento entro lo scenario della crisi tendenziale degli equilibri definiti dal liberalismo classico esige che i modi dell’appropriazione naturale e della socializzazione dell’intelligenza scientifica vengano inscritti in un percorso largo dove arrivi a stagliarsi la ridefinizione degli attori cognitivi e della costituzione dei soggetti politico-collettivi. Dunque, un simile approccio appare maggiormente adeguato, rispetto alla ristrettezza ed ai condizionamenti, in fin dei conti, naturalistici della elaborazione di Sorel42, a distinguere e qualificare il circuito lavoro produttivo-riproduzione, e, connessamente, l’inusitato inspessirsi e la potente innovatività del sinolo masse-sapere, intrecciato alla organizzazione dei rapporti di forza e delle zone di potere. Ne sono di riprova, crediamo, le osservazioni circa il vigoroso riplasmarsi della statualità, – attesa nel vincolo con la pluralità articolante la fisionomia della società civile –, che vengono compiute nel secondo saggio. Esaminando

indirettamente l’intersecarsi del Politico con lo svolgimento del tempo storico, dopo aver precisato come lo Stato non debba venir considerato in foggia di «semplice escrescenza» o di «puro accessorio, o del corpo sociale o della libera associazione» (di contro al determinismo economicistico), e, senza, d’altra parte, qualificarlo come spazio autonomo simmetricamente speculare al paradigma della razionalità ‘autoregolata’ del mercato, bensì enfatizzandone la non unilaterale compenetrazione alla «potenza economica», Labriola osserva: Lo Stato è ben qualcosa di assai reale, come sistema di forze […] E per esistere come tale sistema di forze è dovuto divenire ed essere una potenza economica […] In cotesta potenza economica, di tanto cresciuta, negli stati moderni, consiste il fondamento della sua capacità ad operare. Da essa deriva che per via di una nuova division del lavoro, intorno alle funzioni dello stato stesso si formino ordini e ceti speciali43.

Queste argomentazioni – che avvalorano, ci pare, molte delle indicazioni critiche qui formulate – favoriscono la possibilità di confermare la presenza di un legame forte con Hegel, specie con quello che il nostro autore aveva potuto ed inteso filtrare, – grazie, anzitutto, all’interfaccia spaventiano44 –, dei Grundlinien, oltre che della Grande Logica. Tale legame si addensa intorno alla coappartenenza del Politico con le diverse sezioni della società civile, la quale organizza i segmenti funzionali della statualità al di fuori di un semplice ‘ordine separato’ ed, anzi, descrive i molteplici assi percorsi dalla combinazione intrinseca di strutture regolative e cerchie, dove compiti sociali ed accumulo di sapere si incontrano. Si addensa, insomma, intorno alla incostringibilità del vincolo di coappartenenza in esame nel paradigma della autonomia della sovranità e nell’afferente schematizzazione del tipo ordinario ‘interno’/’esterno’. Con ciò, dando luogo, vieppiù, ab origine, appunto, alla sovrapposizione di piani di regolazione differenti, proliferanti e la cui condizione di governo interno è data dalla moltitudine di fili rinvianti ai rapporti di forza solcanti – secondo la sincronia di ‘continuità’ e ‘rottura’ – il procedere storico-temporale. Osserviamo: nel modo in cui Labriola riassume il mutamento assiale della morfologia statuale moderna del quale la crisi della stabilizzazione liberale segna l’apice è coglibile tutta la distanza da Sorel. Giacché, mentre il filosofo francese sembra ricadere sul polo di un attivismo macchinistico di calco naturalistico, il Cassinate non concepisce in quanto estraniante, sulla falsariga di una totale separazione da essa, la relazione con la natura, ma all’insegna, coerentemente con Marx, del pretto intervento trasformatore e di ricambio

rispetto ad essa espresso dalla metafora del ‘terreno artificiale’, – in sé riassumente la coimplicanza tra la maturazione di una apparecchiatura cognitiva differenziata e ‘modi del fare’, per dirla con Vico, approdante, certo, ad un livello di inusitata avanzatezza delle modalità della appropriazione (ciò che vichianamente il Cassinate designa quale «epoca delle menti dispiegate»)45, ed eludendo il quale non è dato comprendere il presente storico –, che nel diffondersi del Politico, rideclinando al di fuori di ogni subalternità ma secondo un principio di trasversalità la relazione Stato-cerchie particolari-dispostivi epistemici, raggiunge un grado di inedita complicazione46. Entra in giuoco, così, una percezione molto diversa della autonomia del marxismo.

4. Verso la dialettica come ‘autocritica delle cose stesse’ Nel Discorrendo Labriola riassumerà il nucleo delle osservazioni svolte da Sorel nella Préface, in interlocuzione diretta, come segue: «Vi dà pensiero, in fondo» – egli dice – «che il materialismo storico possa apparire come campato in aria, fino a che abbia di contro a sé delle altre filosofie, con le quali non armonizzi, e fino a quando non si trovi modo di sviluppare la filosofia, che gli è propria, come quella che è insita ed immanente ai suoi assunti e alle sue premesse»47. Si pone, cioè, il problema di come debba essere affrontato il rapporto del marxismo con il piano della ‘generalità’, assunta, però, nella accezione critica che lo stesso Sorel ne fornisce attraverso l’uso di una nozione determinata di ‘metafisica’. Per il filosofo di Cassino, proprio il nucleo fertile di questa consente di vedere come la visuale marxista (di cui più oltre cercheremo di caratterizzare la cognizione soreliana) non debba venir irretita nell’applicazione di un criterio di isolamento ad impianto naturalistico di certi fattori, bensì consegua il proprio statuto di autonomia in quanto vettore di congiunzione politica tra teoria della storia e teoria della società abilitato, in definitiva, a interagire con gli specialismi a partire dall’istituzione del proprio campo teorico-speciale, e a ricavarne una prospettiva unitaria senza mai annullarne la pretta determinazione tipologica48. Ciò è reso possibile, primariamente, dalla riconnessione delle cerchie speciali ad ambiti in cui si esprime e manifesta il portato di mediazione della prassi, anche considerata nella coincidenza con il livello puramente cognitivo, ossia con il livello della produttività del pensiero, poi, – lo constateremo –, tematizzata nel terzo saggio, ma già anticipata nel secondo, allorquando – come abbiamo ascoltato – vien detto apertis verbis che «il pensiero è anch’esso una forma del lavoro». Battere sulla declinazione pluridirezionale della prassi consente, insomma, di rilevare la caratterizzazione prismatica dell’incontro fra modi della socializzazione e sezioni del sapere e della sua organizzazione. Incontro in cui s’inscrive, con funzione di cerniera e di costituzione storica della teoria, il marxismo in qualità di leva autonoma-speciale di confronto e ricognizione-ricomposizione in ordine alla geografia contemporanea degli stessi specialismi, connessa ai rapporti di forza ed alla morfologia del sistema politico-sociale49. Si legano a tale versante del ragionamento le seguenti, preliminari affermazioni di critica – cui già si è accennato – alla possibile attrattività della ‘teoria dei fattori’: «Così […] i fattori storici, che ricorrono per le menti e gli scritti di tanti, indicano qualcosa di molto meno della verità, ma che è molto di

più del semplice errore, nel senso grossolano di abbaglio, di illusione e di inganno. Sono il prodotto necessario di una conoscenza, che è in via di sviluppo e di formazione. Nascono dal bisogno di orientarsi sopra lo spettacolo confuso, che le cose presentano a chi voglia narrarle; e servono poi di titolo, di categoria, di indice a quella inevitabile division del lavoro, per entro alla quale fu finora teoreticamente elaborata la materia storico-sociale. In questo campo di conoscenza […] la unità del principio reale, e la unità della trattazione formale, non s’incontran mai di primo acchito, anzi si trovano a capo di un lungo e intricato cammino; cosicché, anche per cotesto rispetto, ci pare calzante l’analogia stabilita da Engels tra il ritrovamento del materialismo storico e quello della conservazione dell’energia»50. Labriola cerca di porre l’accento sulla inadeguatezza dell’impiego unilaterale delle forniture conoscitive dovute al campo dei ‘fattori’, ed indica la via della inscrizione del loro contenuto entro la sinergia dinamica degli specialismi, – vincolata, prima facie, alla divisione del lavoro –, puntando a ricavare, muovendo da questi, la tendenziale unitarietà del processo storico – in ordine a cui si compie la già accennata saldatura di teoria della storia e teoria sociale (l’elaborazione teoretica della «materia storico-sociale»). Di qui, diviene approssimabile come il piano della «unità formale» e quello della «unità reale» non si trovino a combaciare linearmente, bensì grazie ad «un lungo ed intricato cammino», giacché fra di loro si interpone la mediazione che ogni specialismo – anche, ed anzitutto in quanto concrezione della prassi –, atteso nell’apporto determinato che lo cifra, richiama non in ragione del proprio toglimento, bensì perché il relegamento semplice al vincolo dell’‘unità reale’ rispetto alla ‘unità formale’ è incapace di render conto del fatto che la stessa trama dei saperi e ruoli speciali necessita di essere riferita alla caratterizzazione del processo di formalizzazione che, a propria volta, permea e penetra il mondo, ove ogni ‘generalizzazione’ si scopre riconducibile ad una apposita ‘riduzione’, posta in tensione con la struttura differenziata del reale. Nella tipizzazione e nella qualificazione di un simile processo è da concentrarsi, dunque, uno degli ineludibili compiti del materialismo storico. È solo attraverso la cognizione, di matrice alternativa alle rigidità naturalistiche, della mediazione-trasformazione, contraddistinguente l’intrinseca polivalenza dei modi di appropriazione cifrata dal motivo del ‘terreno artificiale’ che il nesso ‘unità formale’ – ‘unità reale’ consegue un adeguato grado di articolazione effettiva. Sicché, l’indagine unitaria e l’indicazione critica di prospettive circa il plasmarsi ed il rinnovarsi dei rapporti di forza nel sistema sociale vien ‘posta al riparo’ dal rischio di essere staccata da una diagnosi efficace e capace di sinergia con il medesimo plesso delle forze reali contingenti e con la loro incidenza sulla strumentazione

concettuale. Essa trova, però, piena giustificazione se si comprende che è solo grazie alla visualizzazione dell’orizzonte della mediazione (declinantesi nelle forme della prassi) che si può arrivare a guadagnare l’unità del processo storico, ovvero l’unità d’insieme dei ‘processi’ in esso51, parallelizzabile e riconnettibile alla struttura discreta e plurale del tempo storico. Altrimenti, il compito della teoria si svuoterebbe, involvendo in una descrizione ‘priva d’attrito’ dell’empiria e della sua legalità interna. Una simile impresa, che possiamo già da ora fissare, sulla scorta di alcuni precedenti indirizzi, nella tematizzazione del nesso fra ‘filosofia della prassi’, specialismi e mediazione reale, procede attraverso la restituzione della complessità logico-storica dell’oggetto, ‘recuperando’ nei riguardi della sconnessione del rapporto – di matrice prettamente hegeliana – automovimentoforme che sia il positivismo, sia le stesse versioni inaridite del dialettismo avevano arrecato. Ed è proprio a partire dalla salvaguardia della inestraniabilità ed anzi della compenetrazione di ‘oggetto-storia’ e morfologia intrinsecata al processo che ci possiamo avviare a stringere su un unico asse previsione a statuto antideterministico52 e indagine della riproduzione sociale, intesa come luogo ove gli specialismi si irradiano nella compenetrazione con precisi rapporti sociali storicamente determinati; definendo – lo notiamo ‘di passaggio’, e sull’argomento dovremo tornare – l’intero spazio di regolazione, realizzazione e orientamento della forma-merce. In virtù di una simile impostazione generale, sporge l’esigenza di battere sulla incidenza della storicità delle categorie (poi esplicata pure nel Discorrendo) in riferimento a quella «autocritica che è nelle cose stesse» di cui la marxiana ‘critica dell’economia politica’ definisce l’ambito di manifestazione dialetticocontraddittoria e di cui Labriola cerca, vieppiù, di elucidare la generale direzione di approccio, approfondendo proprio il ruolo di nerbo dinamico-reale ricoperto dalla dialettica. Donde l’esigenza di marcare il discrimine tra la criticità della concezione materialistica della storia e la precedente cognizione della scienza entro l’alveo della modernità, assumibile anche in termini squisitamente gnoseologici, orientata dal primato del soggetto, delle sue discipline osservativo-sperimentali53. Il materialismo storico, nota giustappunto Labriola, non è più la critica soggettiva applicata alle cose, ma il ritrovamento dell’autocritica che è nelle cose stesse. La critica vera della società è la società stessa, che […] genera dà sé in sé stessa la contraddizione, e questa poi vince per trapasso in una nuova forma54.

Le accentuazioni di questo ultimo brano appaiono disporsi in una esplicita continuità con i contenuti della Prefazione a Per la critica dell’economia politica – cui già abbiamo inteso far menzione – rispetto all’idea secondo la quale se non vi può essere, in chiave analitica, nessun elemento ‘posto’ che non sia già ‘presupposto’, vi è, parimenti, da dire che non è partendo da una data ipotesi ‘presupposta’ che diviene possibile conseguire la realtà del processo (in ciò consta l’errore fondamentale inficiante l’economia politica classica), ma dalla ricostruzione logico-storica di esso che ne cifra lo statuto di risultato. Diviene, così, possibile aprire al coglimento nello sviluppo capitalistico della presenza in nuce di ‘opportunità’ di trasformazione che sarebbe illegittimo irrigidire in qualità di ‘esiti’ finalisticamente prefissabili e che emergono attraverso il dinamismo dialettico in cui s’instanzia l’incidenza reale della contraddizione. Autocritica del reale e dialettica costitutivamente percorrente le forme del mondo storico si tengono inscioglibilmente. Le osservazioni fin ora svolte ci avviano a lumeggiare come sottesa alla prospettiva labrioliana vi sia una cognizione notevolmente raffinata del nesso ‘genesi’-‘sistema’ in qualità di leva della complessiva diagnosi di origine marxiana. Infatti, esse possono venire agevolmente riannodate alla indicazione della saldatura di ‘momento genetico’ e ‘momento dialettico’ nella costituzione metodologica-analitica de Il Capitale. L’insistita enfatizzazione dell’incontro, che nulla ha di immediato, di ‘unità formale’ ed ‘unità reale’ conduce, piuttosto che ad una riduzione di incidenza del primo fattore, a focalizzare la sua tendenziale dilatazione egemonica, la cui struttura fondamentale affiora nel primato della Formbestimmung55. La produttività della ‘vicenda’ della differenziata struttura formale è essenziale, cioè, per profilare la morfologia del processo. La condizione «di continuo instabile» dell’«organamento sociale»56 designa il sistema della mobilità storica interamente costituito dallo stesso movimento delle forme che sarebbe assolutamente errato passivizzare al di sotto di uno schema di riduzione astraente allo svolgimento empirico (così come vuole la teoria dei fattori). Essa richiama, invece all’esigenza di guadagnare il dominio dell’astratto (che troveremo implicitamente rideterminato nel terzo saggio) contraddistinguente l’integralità di tale movimento, tratteggiandolo, però, in qualità di effettiva condizione imprescindibile per la conquista della possibilità dello scorrimento verso lo statuto concreto dell’insieme delle mediazioni di cui è già vertebrata la morfologia profilata dai rapporti di produzione e riproduzione sociale e la relativa, flessibile impalcatura logicostorica cifrante il presente storico. In altre parole, Labriola, collocando il proprio ragionamento al livello della qualificazione non empirica della ‘genesi’ e del suo

nesso con il ‘sistema’, sembra recepire fino in fondo una delle principali lezioni marxiane, ovvero quella consistente nel sottrarre la dimensione formale alla identificazione naturalistico-ingenua con quella della ‘apparenza’57. Ciò conclude a guadagnare, vieppiù, intrinsecamente, la riformulazione della nozione hegeliana di Erscheinung – da non recepire in chiave fenomenistica – in vincolo alla penetrazione dei modi storicamente determinati della Wirklichkeit58.

5. Un excursus sul nesso genesi non empirica – ‘sistema’ e indagine della riproduzione sociale in Marx Siamo ora in condizione di abbozzare qualche considerazione in merito alla aperta convergenza tra i criteri di tematizzazione concettuale operanti ne Il Capitale e nella elaborazione che gli è prodromica e le intuizioni fondamentali che l’impostazione labrioliana del nesso ‘genesi’ – ‘sistema’ lascia intravedere. Per avanzare su una generale linea argomentativa di tal fatta, sarà forse utile cercare di evidenziare come, a ben guardare, il ‘taglio’teorico labrioliano converga pienamente con la strategia di Marx che dai Grundrisse trapassa, rielaborata e fornendo riposta a certuni ‘problemi aperti’, ne Il Capitale. Nei Grundrisse, infatti, l’insieme della riproduzione viene anzitutto pensata come condizione della «durata del valore nella sua forma di capitale» a fronte del profilo ancipite di luogo di unificazione della riproduzione in quanto merce e di quella in quanto danaro (Scrive Marx: «Nel capitale la perennità del valore viene realizzata in una certa misura in quanto, se è vero che essa si incarna nelle varie merci e ne assume la forma, d’altra parte la alterna anche continuamente; trascorre tra la sua eterna forma di denaro e la sua transitoria di merci; la perennità si realizza come quell’unica cosa che essa può essere, come transitorietà che passa – come processo – come vita. Ma tale capacità il capitale l’ottiene solo a patto di succhiare continuamente l’anima del lavoro vivo […] La perennità-durata del valore nella sua forma di capitale è posta soltanto in virtù della riproduzione, che è essa stessa duplice, ossia riproduzione come merce e riproduzione come denaro, ed è l’unità di questi due processi di riproduzione»)59. Successivamente, arriva ad essere acquisita la convertibilità del fronte della riproduzione stessa in quello della valorizzazione, individuando il carattere di ‘produttività’ della circolazione come irrisolvibile nella mera ‘manifestazione formale’, ma rinviante al rapporto, formalmente caratterizzabile, tra riproduzione e trasformazione («Il capitale» – scrive Marx «è posto come valore il quale, in ciascuno dei momenti in cui si presenta ora come denaro, ora come merce, ora come valore di scambio, ora come valore d’uso, non solo si conserva formalmente in questa modificazione formale, ma si valorizza, come valore che si riferisce a se stesso in quanto valore»)60. Ne deriva l’opportunità di stringere l’intreccio di riproduzione e valorizzazione definente il ruolo perspicuo della circolazione, in maniera tale da individuare nello specifico movimento di riproduzione del valore il carattere di produttività della trasformazione delle forme (D-M-M-D). Ne viene, poi, che l’intreccio non è dato dall’aumento di valore delle forme percorrenti il campo della circolazione («È

chiaro […]» – scrive Marx «che la circolazione – risolvendosi in una serie di operazioni di scambio fra equivalenti – non può aumentare il valore della merci che circolano»)61, bensì dalla pretta produttività della trasformazione delle forme stesse germinante dalla loro rapportualità, definente, a propria volta, il loro spazio di circolazione. Si verifica, così, una asimmetria dinamica il cui impulso ha ad esplicarsi non sul piano del mero scorrere del movimento, bensì su quello della adeguazione del movimento delle forme medesimo alla estrinsecità del nesso forme-valore. Tale asimmetria, senza ottenere il potenziamento del valore, si traduce nella determinazione di una equivalenza. Così, la trasformazione formale (M in D) definisce la non eternità riflessiva del valore rispetto a se stesso, che, altresì, si afferma in quanto tale («Il fatto di porre equivalenti, per esempio a e b come equivalenti, non può elevare il valore di a, poiché si tratta dell’atto attraverso cui a viene posto – il suo valore proprio, ossia come non diseguale a se stesso»62). Si attua, cioè, una sorta di valorizzazione della composizione della circolazione (rispetto a cui il valore–valorizzazione ‘in sé’ e ‘per sé’ costituisce un’elementare schema di formalizzazione su cui torneremo oltre) in quanto asse della effettività della riproduzione complessiva, la quale, rispetto agli stessi fattori della produzione e della circolazione, non deve essere sottoposta ad un criterio di scomposizione del proprio tempo in chiave semplicemente diacronica, ma deve essere pensata al lume della compresenza sincronica di momenti la cui ulteriore riconnessione non può che muovere dall’ammissione del loro principale carattere di autonomia ed autoreferenza. Accade, dunque, che il passaggio dalla merce al denaro definisca il rovesciamento ‘esterno’ della trasformazione del valore d’uso in valore, cosicché la produttività del movimento formale consenta lo squadernarsi integrale dell’orizzonte della morfologia processuale. Osserviamo: la costituzione dialettica del valore qualificante la forma-merce non ‘sparisce’ in una sorta di unilateralità della valorizzazione (in ordine alla funzione del valore d’uso), e, altresì, consente di ricavarne l’incidenza entro il sistema capitalistico a fronte della medesima dilatazione formale costitutiva della riproduzione sociale; rendendo praticabile pervenire a conseguire la trama morfologica di essa, riguardo a cui traguardare, di qui, la reimpostazione di ruoli e posizioni egemoniche. La prima e decisiva considerazione che da una siffatta ricognizione è desumibile consta nella acquisizione dell’eguagliamento delle due figure del movimento del valore – merce e del denaro – in quanto eguagliamento formale esibente giusto proprio l’asimmetria afferente al legame della valorizzazione del processo con la obiettivazione del valore stesso in forme ‘tipiche’ – per ricorrere ad un lessico contiguo a quello labrioliano –; importando, in definitiva, la

compenetrazione della produttività del movimento delle forme medesime con quella della circolazione. La costituzione riflessiva della valorizzazione della forma consente, insieme, di conseguire la essenzialità della riproduzione rispetto alla circolazione («Nel […] processo di riproduzione […] la circolazione è assunta in esso […] Il capitale contiene in sé sia l’una che l’altra circolazione, e non più come un mero mutamento formale o come un mero mutamento materiale […] bensì entrambe assunte nelle determinazione del valore»63), e, di qui, di visualizzare nella riproduzione il movimento del capitale, in maniera da dimostrare il concorso strategico della determinazione delle forme in ordine al suo concetto. Alla presente altezza è dato approdare ad una assunzione ineludibile nella cornice strategica della ermeneutica definita dalla ‘critica dell’economia politica’, ovvero a quella pertinente alla coincidenza della formalizzazione del processo corrisposto al capitale con il momento della sua scomposizione reale, – da cui, in chiave generale, dipende l’organizzazione complessiva del capitale come processo –, che, a sua volta, si specifica nella riproduzione in quanto tempo di ricomposizione cogente delle forme separate entro una prospettiva temporale unitaria e discreta insieme, ove produzione e riproduzione medesima si raccordano. (Osserva Marx con argomenti che troveremo esplicitamente ripresi da Labriola: «Il processo di produzione complessivo del capitale include tanto il vero e proprio processo di circolazione quanto il vero e proprio processo di produzione. Essi costituiscono due grandi settori del suo movimento, che si presenta come la totalità di questi processi. Da una parte c’è il tempo di lavoro, dall’altro il tempo di circolazione. E la totalità del movimento si presenta come unità di tempo di lavoro e tempo di circolazione, come unità di produzione e circolazione. Questa stessa unità è movimento, processo. Il capitale si presenta come unità in processo della produzione e della circolazione»)64. Si desume, quindi, agilmente, che la compenetrazione tra movimento delle forme e determinazione del valore staglia una ritmica che è, evidentemente, tutt’una con la morfologia specifica del capitale. Adempiere al vaglio del tempo della riproduzione val dire scoprire l’interna ‘politicità’ della sua stessa costituzione ‘interna’-‘esterna’ (evidentemente, a statuto conclusoriamente ‘internante’). Ne Il Capitale – e, in specie nella operazione, compiuta nel II volume, di ridefinizione ed approfondimento rispetto alla strumentazione categoriale messa a punto nel I – tale compito vien soddisfatto in coerenza ad una implicita teoria politica delle classi, del cui spessore è fornito riscontro, per esempio, dal trasceglimento della angolatura visuale della duplice struttura unificata del consumo (M|) – data dalla grandezza di valore rispetto al capitale consumato in

ordine alla sua produzione, ovvero, data a fronte del suo contraddistintivo profilo di ‘capitale-merce’ – definente, ‘di scorcio’, la traiettoria della riproduzione del complesso sociale65. Stiamo trattando del livello della ricomposizione concernente l’organizzazione particolare del ciclo. Se ne deriva – seguendo una serie di passaggi che ci è impossibile riassumere in questa sede – l’avvio dinamico movente da M| in vista dello svolgimento delle forme di appropriazione del ‘valore-capitale’; sicché la struttura della forza-lavoro viene ad essere scandita, al di fuori di qualsiasi disposizione immediata, nello spazio della circolazione delle merci entro la cui forma il consumarsi del capitale nella produzione lascia sporgere giusto la autoriflessività del capitale; la cui caratterizzazione primariamente politica si realizza, appunto, nella forma generale del ciclo, sino a commisurare la logica dei cicli parziali al movimento complessivo del capitale. Esso non tratteggia un livello ultimativo: piuttosto, lumeggia i rapporti di reciproca influenza che si instaurano tra le figure della produzione-riproduzione, evidenziabili già nella circoscritta relazione di merce e capitale individuale. Vero è che il presente segmento analitico esigerebbe di venire svolto pienamente nella chiave dell’‘occultamento’ e della rifrazione della morfologia politica delle classi, insolubile in semplificatorii moduli opposizionali. Interessa, però, qui solamente osservare – ai fini di un rapido experimentum crucis – che l’insieme completo di tali legami di reciprocità, l’approfondirsi della interiorità del momento dell’‘occultamento’ si esplica nello schiacciarsi della riproduzione – segnalata cospicuamente dal modello ricardiano66 – sul livello della produzione, oppure, sul versante della sostituibilità, – pur ad un certo e non dilatabile livello, e sortendo anche risultati opposti –, della riproduzione alla composizione del capitale produttivo medesimo (laddove vien riflesso l’esercizio della incidenza strategica dell’‘isolamento’ della forma-denaro voluta da Ricardo). Si badi: secondo un cospicuo mutamento visuale, il conseguimento del profilo morfologico-politico delle classi esprime l’intreccio stesso di episteme e politico entro la disposizione organizzata dei modi egemonici e, insieme, strutturalmente definitorii. Ad un siffatto conseguimento si arriva seguendo, in chiave sinottica, il criterio marxiano (e privilegiandone alcune implicazioni) per cui la storicità del capitale è acquisibile dal lato della circolazione, e connessamente, la sincronizzazione nel momento produttivo di circolazione e produzione medesime, che appaiono immediatamente separate, è designata dal capitale costante e dal capitale variabile unificati dal consumo (individuale e produttivo). Alla presente altezza, si staglia l’influenza primaria del capitale costante, ricomprendente il lavoro accumulato nella forma del valore di scambio, sì da estendere l’influenza sul

capitale variabile. è di qui che il capitale esercita il proprio dominio unificante raccogliendo produzione e riproduzione sociale in un processo circolare su cui vien scandito il tempo storico; configurando la riproduzione della fontale separazione fra produttori e mezzi di produzione e, insieme, la rottura dell’isolamento dei produttori stessi (donde proprio l’aspetto di ’apparenza’ di tale dominio). Su questa via, la sconnessione fra produzione e circolazione lascia emergere l’‘apparenza’ di ‘naturalità’ dello scambio diseguale per la produzione in ordine alla scoperta della forza-lavoro. Così, l’adozione della visuale della riproduzione consente di guadagnare la natura processuale del capitale, rispetto a cui – e ciò si ricava dalla relata scomposizione e ricomposizione di esso – è possibile giustificare, stante l’occultamento degli effettivi rapporti di forza, la dissociazione in momenti separati del ciclo economico in virtù dell’attrito reale della formalizzazione della forza lavoro. Lo spezzarsi ed il restaurarsi dell’asse di scorrimento tra produzione e circolazione, – che constateremo decisivo, in riferimento, tra l’altro, al confronto Labriola con nodo della divaricazione valori/prezzi –, consente di conseguire, quasi per controspinta, l’approfondimento della articolazione morfologica del nesso in questione, – atteso come compreso nella densità della organizzazione egemonica della riproduzione (implicando anche la complessa rideterminazione delle dinamiche di raffronto, attorno al movimento delle forme, tra ‘critica dell’economica politica’ e qualificazione ‘politica’ delle classi)67.

6. Riproduzione sociale e teoria politica delle classi Si tratta di considerazioni che acquisiscono rilevanza pure in ordine allo specifico del vaglio che Labriola compie del grado contemporaneo dello sviluppo capitalistico e del livello di intensità ed espansione raggiunto dalla riproduzione sociale allargata. L’attenzione va portata, ora, prima di tutto, – come indicato qui su –, sullo statuto non empirico della genesi processuale. A ben vedere, ciò definisce proprio la caratterizzante misura strategica messa in campo da Marx. Giacché, egli focalizza la costituzione politica della circolazione a muovere dalla apprensione della determinazione del movimento formale come non stemperabile sul versante della sua emersione fenomenica. Questa definisce, altresì, la scansione produttiva che, proprio passando attraverso il giuoco composito delle determinazioni formali del capitale, configura la tensione reciproca di trasformazione e riproduzione in ordine allo specifico della valorizzazione. Si staglia, dunque, in una siffatta direzione la ritmica di relazioni definente la circolazione delle forme. Al culmine dello snodarsi intensivo del movimento formale vi è la valorizzazione di ogni termine nella circolazione corrisposta, collegandola al precipitato – comunque anch’esso ‘transitorio’, poiché vincolato alla visualizzazione del circuito generale di riproduzione connesso alla espansione della forma-merce – concernente la ‘transitorietà’ dello scorrimento trasformativo ‘valore d’uso’ – ‘valore’ definito proprio dal determinarsi della autoriflessività del valore stesso. Di qui, diviene possibile scorrere dallo stringimento della insostituibilità del movimento delle forme alla penetrazione della definitiva morfologia processuale. Così, la produttività della circolazione, primariamente imbozzolata nella sua scansione, si allunga e si esalta nel campo morfologico della organizzazione riproduttiva, trapassando dalla condizione di suo mero momento interno alla emersione della composizione strutturale di questa. Tale particolare aspetto appare ponibile in parallelo con la consapevolezza per cui il momento della ‘unità formale’ e quello della ‘unità reale’, – ben oltre i confini della critica epistemologica contraddistintiva di approcci come quello della ‘teoria dei fattori’ –, non si ricongiungono linearmente proprio perché il loro aggancio è dato dalla densità stessa delle mediazioni, e dunque della loro intrinseca investitura egemonica, le quali consentono di dar luogo al riscontro pertinente alla ossatura logico-storico del dinamismo delle forme, sì da individuarne nella emersione – che in sé comprende la determinazione dei ruoli egemonici – la prospettiva di costituzione reale. Il percorso definente il processo

di «derivazione e di mediazione» verso la composizione politica dell’«organamento sociale», e che circoscrive marcatamente la caratterizzazione perspicuamente politica del momento della ‘genesi’ processuale ed il suo svolgimento logico-storico, si concentra sullo stesso piano non empirico della forma. Appare assai indicativa, a tale proposito, la modalità adottata dal nostro per approfondire la sfera statuale in ordine al politico in qualità di «sistema di forze» correlato ad un quadro di «resistenze»68 a vocazione egemonica (soggettivamente tipizzabili). Egli scrive: «Il primo e più difficile passo è fatto quando si giunge a risolvere lo stato nelle condizioni sociali, da cui esso trae origine. Ma queste condizioni sociali stesse sono state poi precisate con la teoria delle classi; la genesi delle quali è nella maniera delle varie occupazioni, data la distribuzione del lavoro e, ossia dati i rapporti che coordinano e vincolano gli uomini in una determinata forma di produzione. A questo punto il concetto dello stato ha cessato di rappresentare la causa diretta del movimento storico, in quanto presunto autore della società: perché s’è visto, che in ogni sua forma e variazione esso, non è se non l’ordinamento […] di una determinata accomodazione di diverse classi […] Il regno dell’inconsapevole, nel senso di ciò che non è voluto ad arbitrio, a disegno o per elezione, ma che si determina e si fa per succedersi abiti, di consuetudini, di accomodazioni e così via, è divenuto assai largo nel campo delle conoscenze che formano oggetto della scienza storica; e la politica, che era stata assunta a regola di spiegazione, è diventata essa stessa la cosa da spiegare»69. Va ribadito come la nostra direttrice di discorso si inoltri in un ambito che solo concerne una sorta di analogia strutturale, configurante, mutatis mutandis, i termini del filtraggio epistemicocritico d’insieme, diretto e indiretto, dell’apparato categoriale marxiano. Osserviamo: nella valutazione del brano in esame sarebbe erroneo allineare – con l’esito della asimmetria rispetto a gran parte delle considerazioni formulate – il rifiuto labrioliano di assumere la statualità in foggia di prius genetico allo schema Basis/Überbau. Infatti, se il Cassinate pone l’accento sulla presenza di un ‘sostrato’ complessivo, esso non è da intendersi economicisticamente (uno dei corrispettivi di una siffatta accezione sul piano della ‘economia politica’ è definito, per esempio, dall’idea dell’esaurimento della morfologia delle classi nella sfera della produzione di plusvalore, la cui disarticolazione, anzitutto in interlocuzione con Ricardo, è operata nel II libro de Il Capitale70), bensì in quanto veicolo della non estraniabilità dei modi del dominio – a cominciare dalla statualità – rispetto al complesso della mediazione riproduttiva della divaricazione tra produttori e mezzi di produzione. Non a caso Labriola insiste sulla trama complessa ma vincolante che vede intimamente connessi il sistema

mobile della statualità – la cui pregnanza si trova elucidata per entro il nesso di vicendevole permeabilità con il proliferare delle cerchie speciali – ed il complesso delle «condizioni sociali» tipizzabile per modo della enucleazione di una adeguata «teoria delle classi». Ma – come diverrà chiaro nelle argomentazioni del terzo saggio, e come esplicitato dalla sinossi analitica de Il Capitale – questa risulterebbe vanificata, non potrebbe ‘reggere’ in assenza di una adeguata teoria della riproduzione. Del resto, il riferimento al sostanziarsi delle «condizioni sociali» sottende ciò in tutto il suo spessore. L’indicazione generale dell’‘inconsaputo’ come caratterizzante prima facie lo svolgimento storico, in grado di evitare lo sfibramento soggettivistico del movimento del reale, vien finalizzata ad esibire lo stratificarsi e la trasformazione delle emergenze del lavoro accumulato nella fusione con i termini della distribuzione e del consumo, donde si derivano «abiti» e «consuetudini», ma anche, in chiave di incidenza strategica, le «accomodazioni» che concernono e/o in cui si rifrange la morfologia delle classi, connesse al presupposto della divaricazione indicata, senza però contrarle direttamente entro margini di natura dicotomica. Stando in tale maniera le cose, il segmentarsi profilante la morfologia sociale coimplicata all’impianto plurale della razionalità scientifica, e a cui va commisurata la concernente ricostruzione logico-storica dell’oggetto, avvia alla riclassificazione del legame Stato-classi-distribuzione definito nella loro ininterrompibile ‘complicità’ collo stagliarsi della riproduzione sociale. Evidentemente, tutto ciò rinvia pure a focalizzare il rapporto di forma-Stato e forma-valorizzazione, predisponendo alcune linee-guida per considerarne anche i modi della crisi. Se il paradigma Stato-valorizzazione richiama alle connessione (ed alla manifestazione della riunificazione già, comunque, implicata nel secondo termine) produzione-riproduzione, la sua articolazione, ottenuta conflittualmente71, restituisce, in definitiva, una morfologia differenziata – espressa massimamente nell’intensificazione delle mediazioni cognitive concernenti la rete degli specialismi e delle cerchie – riconducibile allo snodarsi della riproduzione sociale medesima (e a cui è connessa la stessa sfera dello Stato ‘allargato’, chiaramente). Facciamo attenzione: la caratterizzazione egemonica affiora nel pretto orizzonte della riproduzione allargata72. Lungo il presente asse di ragionamento, possiamo avanzare una apposita giustificazione al perché Labriola adombri una traiettoria che potrebbe apparire, al lettore disattento, di ‘ridimensionamento’ del ruolo della «politica». In ciò si consuma, invece, un formidabile ribaltamento di piani: se il Politico non è ipotizzabile come prius – pena l’ipostasi –, lo è in rapporto alla sua nozione separata (l’«arte di operare a disegno» in cui si raddensa sia una sorta di ‘volontarismo’ che un

certo orientamento regolativo proprio della proiezione della scissione rappresentata dalla sovranità statuale nella disposizione dei gruppi intellettuali, ed in cui ricade, per esempio, come potremo constatare, il medesimo richiamo bernsteiniano – in sé non privo di accentuazioni costruttive – all’‘eticopolitico’). Altresì la sua diffusività si rende coglibile esclusivamente quando ci si sporga sullo scenario delle «condizioni sociali», il che val dire sullo scenario definito dal reciproco richiamo di teoria delle classi sociali e teoria della riproduzione, ove trovano riscontro le movenze formali(-costitutive) del capitale. Tutto ciò è, d’altronde, reso palese dalla traduzione della dimensione statuale in un perspicuo, primario sistema di ‘rapporti di forza’ e dal particolare significato accordato al suo essere ‘potenza economica’. È a questo punto che gli accenni qui sollecitati arrivano a fare corpo compiutamente. Giacché, l’insistenza labrioliana sul terreno della genesi non empirica come leva attraverso la quale giustificare e penetrare criticamente l’intierezza del movimento formale – inoltrante ad una specificazione della morfologia del processo in parallelo alla tematizzazione marxiana del raccordarsi e, insieme, del porsi in tensione della valorizzazione (di cui oltre cercheremo di guadagnare il pirncipiativo significato egemonico) con lo stagliarsi della stessa produttività della circolazione, corrisposto al dinamismo formale – e del suo intreccio strategico alla riproduzione, si traduce in un peculiare ‘doppio passo’ concettuale. Da un lato, fissa il profilo ‘forte’, scaturente ed articolante, del movimento delle forme in quanto strutturante, attraverso la mediazione, appunto, l’orizzonte morfologico ove si ritma la realtà dei rapporti di forza. Da un altro, inscrive in esso, – in quanto sostanzialmente riverberantesi, sul piano di attrito dell’analisi sociale, nel realizzarsi dei meccanismi, di isolamento e collegamento, della riproduzione (con i quali è possibile spiegare l’accordo delle varianti di «accomodazione di diverse classi», testimoniandone la statutaria cifra politica, con l’«assai largo campo delle conoscenze», con i modi di complicazione e di incorporamento dell’episteme) –, la dimensione statuale. In qualche maniera, si potrebbe dire che ciò mostra come a Labriola sia lucidamente presente l’idea per cui è il movimento delle forme, nel suo approfondirsi, a render conto, lasciandolo emergere, dell’annodarsi di logica e storia nella composizione astratta del reale, che lo Stato esprime nell’intenso coinvolgimento entro, appunto, la dialessi e, insieme, la continuità fra autoriflessività della forma73 e ‘separatezza’ dell’astratto medesimo. Coinvolgimento che, tuttavia, induce il proiettasi e l’estendersi del binomio statualità – ‘astratto’ all’interno dei contenuti particolari74. Del resto, sta in ciò parte del ‘segreto’ dell’affermarsi effettivo della formalizzazione (di cui il

valore-valorizzazione definisce lo schema portante) in ordine all’incidenza della riproduzione nei riguardi della costellazione dei soggetti e degli attori cognitivi; evidenziando, in senso generale, come proprio il molteplice delle determinazioni formali richiami allo scorrimento dall’imprescindibile dimensione dell’astratto alla costitutività dei nessi di reciproca surdeterminazione fra loro intercorrenti. Lo squadernarsi della riproduzione sociale concentra ed esplica la ritmica della morfologia interna di un processo che la mediazione permanentemente attraversa rassodandosi proprio nello stesso movimento formale-reale. La cosa lumeggia, in definitiva, anche il fatto che la caratterizzazione egemonica dello spazio della riproduzione emerge nei suoi livelli di vicendevole implicazione, a cominciare dalla costituzione politica della configurazione formale della circolazione che, proprio nell’intersecazione con il verificarsi della scomposizione, si afferma in ordine al confluire nel suddetto spazio (in qualità di unità processuale di essa e della produzione, attese però come momenti ‘in sé’ prima facie autoreferenti), consentendo la prospettazione un particolare sbocco ricompositivo, – secondo la tensione correlata al polo definito dalla scansione della coincidenza di movimento delle forme e determinazione del valore esibita, strategicamente, dalla morfologia del capitale. Il carattere ‘produttivo’ – e politicamente produttivo – della riproduzione si spiega attraverso una attenta disamina dello statuto non empirico della ‘genesi’ concernente la costituzione di un sistema combaciante con gli equilibri mobili dei rapporti di forza innervati per entro la costruzione morfologica visualizzabile proprio in ordine al perspicuo movimento delle forme e, di conseguenza, della dimensione effettiva delle classi e del loro conflitto antagonistico. Tale disamina si rende corrispondibile, in senso esplicativo, al più reciso rifiuto di comprimere economicisticamente genesi e morfologia del capitale sul mero piano della produzione del plusvalore. Ciò richiama, ancora, al vaglio dell’ampio raggio della riproduzione. Da esso si possono ricavare tutte le ragioni per le quali occorre non assumere in chiave semplicemente quantitativa la teoria del valore-lavoro (così come farà Sorel in riferimento al modello ricardiano), – donde, tra l’altro, l’insistenza labrioliana sulla manifestazione tendenziale del ‘valore’ sul terreno della ‘valorizzazione’–; forti dell’idea per cui è indebito pensare di fermarsi ‘immaturamente’ alla ‘riflessione’ diretta dell’oggetto, mirando, piuttosto, alla ricostruzione logicostorica concernente le sue determinazioni formali. E su questo punto, d’altro canto, che si addenserà la serrata interlocuzione di Labriola con Croce e con la posizione marginalista. Interlocuzione che, dislocando ad una altezza analitico-categoriale avanzata il tema della espansione della forma-merce (imperniata sullo spessore della riproduzione collegata, anche passando attraverso la scomposizione, alla costituzione politica della

circolazione e, dunque, all’incidenza del momento della distribuzione), non importa mai l’elusione della compresenza della legalità di uno scambio diseguale (comunque generalmente connotante la coincidenza di sistema capitalistico e presente storico) in ordine alla suddetta forma-merce, ma, anzi, si rivela tutta protesa a cogliere il contenuto politico del movimento formale (pure rispetto ai riflessi della transitoria ‘sparizione’ della cifra egemonica delle classi). Onde viene a tratteggiarsi la prospettiva reale alla quale si riferice una perspicua lettura riguardo alla opportunità della saldatura unificante produzione-riproduzioneconsumi; alla quale si riferisce il raggiungimento analitico di un livello di ricomposizione capace di far affiorare lo statuto socializzante del lavoro, per poi indurre la stessa comunicazione fra i ‘lavori concreti’ esercitata dalla diffusione della forma-merce. È al conseguimento di una diversa saldatura del ruolo mediatore del lavoro75, – il cui guadagno implica, giustappunto, l’oltrepassamento dei confini cogenti del ‘lavoro astratto’ –, con quello della forma-merce che la precipua opzione ermeneutica della ‘critica dell’economia politica’ marxiana finalizza, – senza, però, alcuna declinazione ‘modellistica’ –, l’indagine della intima connessione tra morfologia sociale e movimento delle determinazioni formali, nella cui scansione di scomposizione e riarticolazione si ‘organizza’ il portato della ‘contraddizione’. Ed è in questo scenario categoriale d’insieme che Discorrendo di socialismo e di filosofia si inscrive. In tale direzione andrà condotto un apposito approfondimento, con la consapevolezza che l’impegno labrioliano verso la «mediazione e composizione» logico-storica rispetto all’oggetto (la società capitalistica e le sue condizioni di trasformazione) già nel secondo saggio conduce a stringere, sul piano dell’indagine effettiva, la centralità della riproduzione in relazione alla diffusività del Politico cifrata dallo slargamento della statualità – lo «Stato» che, appunto, «slarga i suoi confini esterni» anche «alterando i suoi limiti interni verso la società» – alle trame delle cerchie speciali ed ai loro nessi di reciproca influenza, determinando inediti rapporti di forza e di socializzazione. Essi convengono nella definizione di apparati di regolazione che orientano la costituzione di ciclo medesimo di circolazione, distribuzione e consumo delle merci cui è coordinato il perspicuo mutamento dell’ambito antropologico-culturale (il «cambiamento delle abitudini esterne cotidiane» afferenti alle «inclinazioni degli uomini variamente distribuiti nelle diverse classi sociali, le quali si rimescolano, si alterano, si spostano, si fondono o rinnovano»76), nell’intimo intreccio con la mobilità dei rapporti di dominio e del ruolo delle diverse classi e della loro composizione, focalizzabile, secondo determinate direttrici, già per entro una fase storica assai precedente al presente e connotata da un grado di sviluppo capitalistico assai inferiore (e ove,

dunque, la riproduzione assume un ruolo ‘ristretto’), ma originariamente esibente il fatto che «la società non è un tutto omogeneo, anzi è un corpo di particolareggiata articolazione, anzi un multiforme complesso d’interessi antitetici»77. L’approfondimento delle direttrici che la attraversano – le quali rendono conto, tra l’altro, giusto della «genesi» e dello «sviluppo dello Stato» – consente di guadagnare l’incidenza della socializzazione dei referti cognitivi incorporati entro il fronte produttivo-riproduttivo, attualizzando il transito reciproco dalla «direzione […] all’intelligenza», intensificando la conversione del «lavoro immediato»78 in lavoro accumulato, passando attraverso i momenti della valorizzazione e della determinazione astratta. Si tratta, nel complesso, di conseguimenti teorici che risultano «a filo diritto dalla critica dell’economia e dalla dialettica storica»79. Vediamo meglio.

7. Labriola nello scenario della ‘crisi del marxismo’ Il nesso morfologia-processo che viene dispiegato da Labriola ad un livello genetico ‘non empirico’, e che definisce la trama del ‘sistema’, consente di considerare il quadro di mutamenti in atto leggendo con lucidità la congruenza tra la regionalizzazione dei saperi e l’ambito complessivo della riproduzione in quanto orizzonte di esibizione della caratterizzazione politica del movimento delle forme in ordine alla maturazione del modo di produzione capitalistico. Ne è prova un testo peculiare quale fu il discorso dedicato a L’Università e la libertà della scienza, ove tutto il ragionamento ruota attorno all’innervarsi di forze attive nello svolgimento storico attraverso saperi e forme vitali determinate80. L’argomento verrà ampliato ed approfondito nel Discorrendo di socialismo e di filosofia, laonde l’analisi appare esplicitamente orientata dalla aspra consapevolezza dell’arresto di espansività e della crisi ideologico-culturale nella quale si trova il movimento operaio. Pensiamo alle argomentazioni formulate nel primo saggio. In tale testo, pur entro uno scenario di maggior fiducia giustificante persino alcune eccessive concessioni all’univoco riferimento alla necessità storica, Labriola osservava come «la previsione generica di una nuova èra storica» sia «diventata per i socialisti l’arte minuta dell’intendere caso per caso quel che si convenga e sia dovere di fare»81. Si imponeva, cioè, la esigenza di render congruente un adeguato insieme di strumenti analitici per avviare una precipua analisi differenziata, – abilitata a commisurare l’intreccio teoriamovimento alle modificazioni della struttura e dell’organizzazione sociale –, con la costruzione di una autonoma soggettività politica capace di esercitare un compiuto ruolo politico. Essa – di contro ai principali sviluppi del marxismo occidentale – non aveva da incarnare l’unità empirica di scienza e coscienza dove raccogliere in chiave meramente lineare l’identità ricomposta di ‘soggetto’ e ‘oggetto’, bensì aveva da definire i termini di un protagonismo storico esercitabile grazie alla ‘scienza’ e ‘arte’ della politica, capace di aderire al contributo di ricognizione unitaria, a sua volta interagente con la incomprimibile pluralità degli specialismi, che la teoria ha da fornire82 (ove si sostanzia, anzitutto – e vi torneremo – il ruolo del marxismo). Ora, nel terzo saggio è proprio il grado di pregnanza teorica ad irrobustirsi, a fronte della radicale crisi di propulsività, – dovuta, anzitutto, ad un tragico rinsecchimento ideale-culturale –, del socialismo italiano, ed alla aporie nelle quali si era imbattuto anche a livello internazionale il movimento operaio. Nel contesto del secondo saggio l’angolo visuale della concezione materialistica della storia si precisa come forza

inserita in un sistema dinamico di forze alla cui incidenza viene commisurato lo sviluppo della «teoria obbiettiva delle rivoluzioni sociali». Tale generale individuazione di ruolo si trovava incalzata e ‘messa alla prova’ dalla congiuntura e dagli eventi in corso. A quest’ultimo tema ha fatto notoriamente riferimento Benedetto Croce nel celeberrimo saggio del ’37 su Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, dove, fra le altre cose, veniva fornito un sunto del percorso intellettuale labrioliano dal 1895 al 1900. Si tratta di uno scritto costellato da evidenti forzature (a cominciare da quella relativa all’indicazione di una sorta di sostanziale ‘abbandono’ del socialismo da parte del filosofo di Cassino negli ultimi anni di vita, che è certo altra cosa dall’intensificarsi della polemica nei riguardi della debolezza analitica dei suoi gruppi dirigenti83), ma anche di utili spunti da sottoporre a verifica. In esso il filosofo di Pescasseroli aveva affermato a proposito del nostro: «Vi erano in lui due anime; quella del critico e del filosofo, che avrebbe voluto sistemare e correggere il marxismo (ed in ciò vicino non solo a me ma anche al Bernstein e agli altri della crisi), e quella del rivoluzionario, che sentiva e accoglieva in sé il valore rivoluzionario del Marx, e che, per questa parte, si sarebbe dovuto collocare accanto ai […] risvegliatori dell’originario spirito rivoluzionario del Marx, ossia a Rosa Luxemburg e al Lenin che allora cominciava l’opera sua». In questo brano, in senso generale, Croce preconizza un modulo che troverà poi vasta fortuna, entro il dibattito teorico, nell’applicazione allo stesso Marx, ovvero quello della scissione tra l’analista scientifico-critico ed il ‘politico’ volto alla trasformazione (poi connotato direttamente, entro un originale giuoco di specchi, nel ‘filosofo’, o meglio: nel ‘filosofo della storia’84 in senso determinato); conferendo anche la collocazione della propria elaborazione giovanile sul problema del marxismo nell’area di quel ‘revisionismo’ che di esso – comunque sia – intendeva rideclinare e filtrare alcuni tratti decisivi85. Il brano ascoltato, inoltre, mette in luce un aspetto sul quale dovremmo tornare: fra Labriola e l’autore della Voraussetzungen vi sono elementi di significativa vicinanza, e sarà solo per ragioni di disciplina di partito e di appartenenza che egli non paleserà il suo coinvolgimento, – certo segnando un punto alto, distinguibile dagli altri e in maggiore continuità con il paradigma marxiano –, nell’ampio lavoro di integrale rielaborazione critica, da angolature diverse, assolto da Sorel quanto dallo stesso Bernstein. La considerazione crociana è, però, pervasa da un equivoco di fondo dovuto alla sua concezione del nesso di ‘unità–distinzione’ tra ‘teoria’ e ‘prassi’86. Infatti, si tratta di comprendere che nella prospettiva del Cassinate si era delineato un asse di scorrimento continuo tra il piano della mobilitazione

politica e quello della enucleazione teorica, giacché, per lui, era proprio su tale fronte che diveniva possibile cogliere gli elementi di ‘debolezza organica’ che allora travagliavano la vicenda del movimento operaio dinnanzi alla crisi della stabilizzazione liberale (sintetizzabile, forse con un eccesso di semplificazione, per quanto attiene al complessivo scenario europeo, nel ‘combinato disposto’ fra autoregolazione del mercato e costituzionalizzazione) che veniva profilandosi in ordine, anzitutto, alla figura dello Stato nazionale, in una fase in cui ancora, paradossalmente, non poteva dirsi completamente chiusa l’esperienza della sua costruzione politica. Ma se così stavano le cose, appare difficile e improprio dimidiare il ruolo intellettuale di Labriola fra «l’animo del critico» ed il blocco «dei dommatici»87. Si direbbe che Labriola disponga la sua veduta teoricopolitica trasversalmente entro la complessità del dibattito sull’eredità dell’apparato categoriale marxiano. Ciò giustifica, per esempio, come avremo occasione di constatare, il fatto che egli converga con certune, cospicue assunzioni bernsteiniane partendo, però, da ben diversi moventi.

8. Il ruolo della filosofia della prassi Le cose appena dette ci introducono a considerare adeguatamente l’intendimento labrioliano del binomio teoria-prassi e della nozione medesima di ‘filosofia della prassi’, preminentemente impiegata nel Discorrendo ed inscritta nell’approfondimento del rapporto materialismo storico-socialismo. Portiamo l’attenzione su quanto Labriola esplicitamente asserisce: Il materialismo storico si allargherà, si diffonderà, si specificherà, avrà esso stesso una storia. Forse da paese a paese avrà modalità e colorito diverso. E ciò non sarà gran male; purché rimanga in fondo il nocciolo che n’è, come dire, tutta la filosofia. P. es., dei postulati come questi: – nel processo della praxis è la natura, ossia l’evoluzione storica dell’uomo: – e dicendo praxis, sotto questo aspetto di totalità, si intende di eliminare la volgare opposizione tra pratica e teoria: – perché, in altri termini, la storia è la storia del lavoro, e come, da una parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo rispettivamente proporzionato e proporzionale delle attitudini mentali e delle attitudini operative, così, da un’altra parte, nel concetto di storia del lavoro è implicita la forma sempre sociale del lavoro stesso, e il variare di tale forma: – l’uomo storico è sempre l’uomo sociale, e il presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della fantasia88.

Nel delineare il carattere della ‘filosofia della prassi’ Labriola risponde alla già enucleata necessità di saldare teoria della storia e teoria sociale, situando, poi, nello spazio di questa la possibilità della comprensione unitaria del processo storico dispiegantesi grazie all’indagine della stratificazione, entro la vicenda del genere umano, del lavoro vivo nel lavoro accumulato in ordine alla forma sociale astratto-determinata, sì da inquadrare in tale dinamica il pluralizzarsi, afferente alla articolazione dei saperi correlata alla morfologia sociale, delle cerchie, e, vieppiù, da conferire, appunto, in tale spazio la funzione di ricomposizione delle forniture di esse. Ricomposizione pensata, però, al di fuori del vagheggiamento della confluenza irenistica in una sorta di ‘metateoria’ monocroma. Si rammenti che Labriola, – in maniera palmare nella polemica col De Bella –, da un lato propugna, contro la deriva verso il riferimento esclusivo al terreno gnoseologico, ed insistendo nel carattere ‘insaturo’, per dirla con Sorel, e aperto della teorica da Marx dischiusa, la indefinita progressività del materialismo storico, che risolve il problema della conoscenza in opposizione ad ogni altra filosofia, ed enuncia: – non esserci limitazione

fissa, né a priori né a posteriori, alla conoscibilità, perché nell’indefinito processo del lavoro, che è esperienza, e dell’esperienza, che è lavoro, gli uomini conoscono tutto ciò che fa bisogno ed è utile di conoscere89;

e, da un altro, mira a sostanziare la ‘missione’ di ricomposizione della ‘filosofia della prassi’90. È lecito adombrare, in estrema sintesi, come sia nel parallelismo con la relazione della marxiana ‘critica dell’economia politica’ alla costituzione di una certa cerchia speciale, – in maniera tale da reimpostare il nesso critica-oggetto –, che vada pensata l’autonomia ed il vincolo della ‘filosofia della prassi’ nei riguardi della contemporanea regionalizzazione speciale del sapere focalizzata da Labriola. Torneremo sul tema in seguito, anche se muovendoci su una diversa direttrice tematica. Interessa ora, piuttosto, puntualizzare brevemente come egli tematizzi la relazione di ‘materialismo storico’ e ‘filosofia della praxis’ nell’intento di elaborare un efficace lessico concettuale. Già nel secondo saggio egli osservava come la nozione di ‘materialismo storico’ fosse stata trattata «con uno strano ardore di sofisticheria verbalistica», registrando il fatto che vi sia stato «perfino chi ha scritto […] che la cosa sarebbe buona se il nome non la guastasse»91; e manifestava fermamente, invece, l’esigenza, di preservare una siffatta denominazione, dal momento che «essa quasi compendia l’origine […] della dottrina»92. Labriola sottolineava che «è cosa risaputa che l’idealismo dialettico di Hegel ebbe come il suo risolvente negativo nel materialismo di Feuerbach […] Il materialismo di Feuerbach lasciava fuori del suo campo il mondo storico, come lo aveva lasciato fuori il materialismo del secolo XVIII […] Ora, quando Marx ed Engels incominciarono a criticare e Feuerbach e Stirner e la sinistra hegeliana, sotto la suggestione del movimento socialistico contemporaneo, trovarono che il materialismo tradizionale fino a Feuerbach non spiegava la storia, ed ecco come è nato il nome. Si può domandare» – concludeva il nostro autore – «se si è riusciti o no a fare del materialismo storico, ma non già pretendere che la dottrina sia vera ma il nome sbagliato»93. La ricostruzione qui formulata non convince del tutto per quanto concerne il terreno della genealogia storiografico-concettuale, ma segnala la mansione di analisi del mondo storico che, ponendosi in una tensione di scambio e di arricchimento con i molti saperi e ruoli cognitivi, la categoria esercita. Orbene, nel Discorrendo, la dimensione a questa afferente vien declinata come «filosofia», malgrado Labriola puntualizzi come un tale ricorso alla presente espressione abbia a spiegarsi con il fatto che egli «non ne avrebbe saputo trovare di altra». Se «scrivessi in tedesco», egli aggiunge, «direi più volentieri Lebens-und Weltanschauung»94. Dobbiamo fare

attenzione: con una simile affermazione Labriola mira a sottolineare il contenuto di ricomposizione assunto da una soluzione teorica che voglia recepire il tema hegelo-marxiano del ‘lavoro’ in tutta la sua formatività. Labriola, punta, cioè, a ben intendere la capacità di esso di riconcentrare in sé il connotato costitutivo di mediazione del reale storico e di stabilire quei nessi di reciprocità ed interdipendenza ove si intaglia il ruolo obbiettivo dei soggetti e la convergenza dei linguaggi epistemici nella organizzazione di cerchie determinate. Così come una simile impostazione rinvia direttamente al motivo del terreno artificiale, ed al generale e problematico rapporto ‘possibile’ fra livello epistemico e modi della prassi, essa torna, parimenti, a ‘chiamare in causa’ la discussione intorno alla suggestione soreliana in merito al concetto di ‘metafisica’.

9. Questione intellettuale, ripresa di espansività del marxismo e veduta dialettica Giacché, occorre osservare che il riferimento al piano della ‘filosofia’ dalla prospettiva marxiana sviluppabile va combinato con la determinazione di un programma teorico all’altezza di quella che l’autore in discussione fissa, assai felicemente, come la enorme «complicazione politica del mondo». Non dunque di elaborare una metateoria ‘onnisciente’ si tratta. Ciò è dichiarato inequivocabilmente nella polemica con Plekanov (anzitutto in relazione a Bernstein95), di cui, tra l’altro, si ha chiara e nota testimonianza nella lettera a Kautsky dell’8 ottobre 1898: Le volgarità che Plekanoff ha scritto contro Bernstein mi hanno proprio molto divertito. Che un Plekanoff parli con un tale sovrano disprezzo dell’odierna filosofia tedesca è abbastanza comico. Io con la mia buona coscienza di professore piuttosto anziano scommetto che Plekanoff non conosce neanche una sillaba di tutta l’odierna filosofia tedesca. Questo modo arrogante di parlare di scienza renderà ridicolo al mondo intero il socialismo scientifico. Il guaio è che molta gente considera il marxismo come una nuova forma di onniscienza. Questi signori non capiscono che anche se sono buoni marxisti per poter parlare di storia, filosofia ecc. devono studiare tutto dal principio, come fanno tutti. Un giovane Marx del 1898 si metterebbe umilmente a studiare la logica in Wundt96.

Sono considerazioni che vanno ricollegate a quelle espresse nella missiva ad Engels dell’11 agosto del ’94, laddove, successivamente alla peculiare individuazione antiempirica del metodo ‘genetico’ in quanto permeante la struttura de Il Capitale, il Cassinate insiste su come i modelli epistemologici contemporanei abbiano radici risalenti sino alle matrici del pensiero occidentale e possano intrinsecamente rivelare certune ‘degenerazioni’ speculative, nonché possano venir utilizzati al fine di qualificare l’intelaiatura genetico-relazionale che una certa visuale logico-storica è in grado di far affiorare («La sprachvergleichende Logik» – egli nota, in relazione a temi che già abbiamo rilevato in ordine alla questione del linguistico – «non è solo una disciplina indispensabile (già in germe in Herbart, e poi sviluppata da Steinthal, ma sempre con qualche residuo di fantasmagoria ideologica) ma è la chiave per ritrovare le cause, ossia le origini di tutte le deviazioni (metafisiche) del pensiero. Ciò si vede chiaro in Platone, che è il padre della metafisica. Il concetto appena occasionalmente trovato (Socrate) come funzione del discorso concreto si tramuta (sprachlich) nella ipostasi di se stesso. E ciò si ripete sino alla

evoluzione dello Spencer, che non è più l’espressione accorciata dei processi concreti (cellula, tessuto, pianta, cancro, proprietà, Stato, etc.) ma un che di per sé stante (un che platonico) tutto composto di astrazioni»97). Del resto, se la teorica cui Marx aveva aperto ricadesse in siffatto vizio di ipostatismo e di generalizzazione verrebbe inficiato e reso incoerente tutto il progetto di definirne l’autonomia proprio collocando nella sua parzialità il luogo di una ricomposizione interagente con il proliferare degli specialismi in virtù della irriducibilità del reale. Ricomposizione può darsi, insomma, col penetrare la dimensione del Politico, riqualificando la struttura epistemica e ponendo in maniera innovativa la relazione scienza-filosofia. La questione appare sottesa al pensiero labrioliano sin da prima del giovanile confronto con il nodo spinoziano della “conoscenza adeguata”, e si allunga verso la tematica della ‘previsione morfologica’, trovando un ulteriore approfondimento nelle considerazioni del terzo saggio, laddove si insiste sulla «determinatezza» delle conoscenze, mirando ad enfatizzare la necessità di immergersi con opportuna e pieghevole arte, in una determinata provincia della realtà,

non indugiando sulla (presunta) primalità ricomprensiva di certe formule generiche, ma percorrendo la strada della ‘comparazione’ e dello stabilimento di nessi fra le determinazioni formali delle diverse regioni speciali, sì da arrivare a poterle situare e ‘riempire’ «geneticamente»98, e, di qui, a visualizzare il carattere unitario-dialettico della processualità mediata e mediatrice che stringe ed attraversa i rapporti di forza presenti entro di esse, la loro stratificazione. L’istanza della ricomposizione che Sorel, nell’ambito della interlocuzione labrioliana, indica con un uso finalizzato della espressione ‘metafisica’ può venir corrisposta, cioè, solo attraverso un impegno costante verso l’esplorazione interna di una «determinata provincia», di una certa regione reale-speciale che sia in grado, però, di scorrere verso la adeguata ‘comparazione’ abilitata a consentire l’emersione della struttura relazionale-obiettiva intercorrente entro il ‘molteplice’ delle forme di vita e la loro tipizzazione epistemico-politica. È rispetto a ciò che il Cassinate riprende il motivo del rapporto politica-pedagogia. Infatti, egli rinnova l’enfasi sul socratismo99, facendo coincidere con esso la capacità di sviscerare e rendere tangibile la «virtuosità generativa dei concetti»100, di consentirne il guadagno della complessa vicenda geneticoformale riannonandola, nel suo stesso portato ermeneutico, all’unità dialettico-

storica, rintracciabile per entro ed attraverso il caratterizzante sottosuolo politico di ogni cerchia. Riemerge, così, a fronte di siffatte acquisizioni generali, la centralità del tema della mediazione, la quale importa la ferma consapevolezza, proprio in virtù del riferimento ad un simile orizzonte, della impossibilità di affidarsi alla funzione di anticipazione generale e vuota che l’atteggiamento ‘giacobino’ accorda tradizionalmente al ruolo cognitivo-direttivo dei gruppi intellettuali101. Ne viene che Labriola appare registrare ed enfatizzare la produttività di una figura di intellettuale di tipo nuovo muovendo dal cogliere l’intreccio fortissimo tra la crisi radicale del medesimo paradigma giacobino (ancora influente nella cultura socialdemocratica medesima e riemergente anche in angolature che intendevano porsi in alternativa ad esso, come nel caso di Sorel, che considereremo più oltre) e la impossibilità, – pena l’anacronismo, oltre che il capitale forviamento ideologico-concettuale –, di insistere ‘feticisticamente’ sul terreno della contemplazione dell’Endziel. Al di là degli sclerotizzati centri unificatori dei ceti intellettuali, ed anzi rompendo con la loro classica condizione di ‘separatezza’, si tratta, per Labriola, di stringere la possibile e alternativa fisionomia egemonica, assiata sulla fusione di specialismo e politica, dell’immagine contemporanea di intellettuale. Egli, cioè, si pone il problema di inquadrare l’inusitato livello di incorporamento delle funzioni dirigenti entro particolari mansioni tecniche concernenti la modulazione della riproduzione sociale102. È al lume della piena consapevolezza di una ridefinizione di soggettività storica di tale portata che il Cassinate indica l’obiettivo della ricognizione del grado di simmetria o asimmetria tra paradigmi di razionalità contemporanei, da un lato, e Verfassung, intrinsecamente annodata alla morfologia sociale103, dei rapporti di forza che discretano il tempo storico, da un altro; lontano dai poli del finalismo e del normativismo, o, ancora, dalla loro confluenza tanto ‘paradossale’ quanto frequentemente verificantesi. Nella presente direzione va accolto il raffinamento e l’irrobustimento che con Discorrendo il ragionamento conosce.

10. Filosofia della prassi, materialismo storico e costellazione degli specialismi L’opera di ricognizione unitaria esercitata dal materialismo storico si traduce non nella semplice «sistemazione organica» dei saperi speciali, non in una azione di impoverito orientamento metodologico, bensì lungo la direttrice della loro connessione dinamica, della «piena intelligenza della connessione» rivelantesi quale saldata a tutte le pieghe del sottosuolo politico proprio della morfologia sociale e della corrisposta impalcatura epistemica. In ciò già possiamo collocare il carattere di autonomia, anzitutto gnoseologica (ma senza alcuna intenzione di ridurre a tale dimensione l’attualizzarsi della contraddizione reale, come dimostrerà l’approccio labrioliano al ‘problema della trasformazione’ valori-prezzi), che la filosofia della prassi profila circa la concezione materialistica della storia, e che si precisa attraverso la nota formula, su cui torneremo oltre, della “tendenza critico-formale al monismo”. Afferma Labriola: la filosofia implicita al materialismo storico è la tendenza al monismo; – e uso la parola tendenza, accentuandola. Dico tendenza, e aggiungo tendenza critico-formale […] La parola tendenza esprime l’adagiarsi della mente nella persuasione, che tutto è pensabile come genesi, che il pensabile, anzi, non è che genesi, e che la genesi ha i caratteri approssimativi della continuità104.

Com’è chiaro, il riferimento al monismo, sul cui significato torneremo in conclusione, esplica, sostanzialmente, l’istanza della ricomposizione teorica, la quale esige, però, di essere correlata al principio di irriducibilità della costruzione differenziata dal reale, – che la relazione con l’herbartismo aveva aiutato il nostro a conseguire con maggior forza –, il cui criterio di connessione interna è ricavabile geneticamente, secondo un’indagine attenta alla plurima scansione del movimento formale, e che solo a fronte di ciò è in grado di definirne l’unitario dialettismo storico (“i caratteri della continuità”).

11. Tendenza critico-formale al monismo e ricostruzione logico-storica dell’oggetto Questo ‘taglio’ concettuale si rende avvalorabile se si considera – così come ha efficacemente sottolineato Michele Ciliberto105 – lo specifico lessicale concernente le tre edizioni del Discorrendo curate dal Cassinate in vita: quella del 1898, quella francese del ’99, e quella ulteriore italiana del 1902. Rispetto a quest’ultima versione, che abbiamo riportato, il ricorso alla nozione di ‘tendenza critico-formale al monismo’ appare comunque insistito con continuità. Giacché in quella nel ’98 il nostro afferma giusto: «Dico tendenza, e aggiungo tendenza formale»; mentre in quella francese si parla di «tendance formelle et critique». Stando in tal maniera le cose, la categoria di ‘praxis’ viene dissociata dalla pretesa di ricondurre il materialismo storico allo schematismo trascendentale, appiattendolo su di esso106. Questa diviene, anzi, il fulcro per contrastare tale pretesa. Quel che differenzia il momento ‘genetico’ labrioliano «dalle vaghe intuizioni trascendentali», definendo una tipologia assai originale di monismo critico, è appunto il discernimento critico, e quindi il bisogno di specificare la ricerca: ossia […] la rinuncia alla pretesa di recarsi in mano lo schema universale di tutte le cose107.

In tal maniera, il rifiuto degli esiti a cui conduce la traduzione metodologica del trascendentalismo (alla quale corrisponde la declinazione ‘postulativa’ dell’Endziel) si protende verso la ricostruzione logico-storica specifica dell’oggetto specifico, che ne evidenzia la costituzione dialettica interna. Un orientamento teorico del genere consente di evitare di cadere tanto sul corno dell’empirismo (benché il nostro arrivi perfino a menzionare l’aggancio al mero livello empirico al fine di sottolineare l’importanza di analizzare e restituire l’effettività della integrale costruzione processuale108) e dello storicismo invertebrato, quanto su quello dell’enciclopedismo e della fatale confusione tra ‘autonomia’ e ‘autosufficienza’ del marxismo. Confusione approdante a fare di esso un tipo di welthanschauung chiusa e, in fin dei conti, assolutamente impoverita per quel che attiene alla effettiva capacità di ricomposizione109. Insomma: la sfida decisiva di Labriola è quella di conseguire una concezione del marxismo in grado di non divaricarne mai espansività ed autonomia. Si tratta di una ‘sfida’ inadempibile al di fuori della sottolineatura della irriducibile

composizione specifica del reale, intesa, però, come leva per stringere la oggettività del movimento in cui si raffrontano indirizzi e spinte tensive molteplici. In virtù di tale cornice analitica risulta, del resto, meglio comprendibile vuoi la nozione di ‘previsione morfologica’, vuoi persino le considerazioni critiche del nostro circa lo ‘irrazionale’ nella storia, formulate anzitutto riguardo alla discussione con il marginalismo e, generalmente, con i sostenitori della asimmetria ‘semplice’ tra il I ed il III volume de Il Capitale (come avremo modo di costatare ampiamente più avanti). A questa altezza, il dialettismo si fa garanzia per la preservazione immanente di un livello alto di criticità, giacché la dinamica della concettualizzazione non viene ad essere estrinsecata rispetto all’intreccio tra la composizione differenziata del reale e le tante linee che discretano il tempo storico, che ne definiscono il campo strutturato-formato. Anzi, tale dinamica viene profondamente legata ad esso ed esibita in virtù, anzitutto, del raffrontarsi fra l’accumulazione conoscitiva che la filosofia esprime, nel vincolo dei contenuti del ‘saputo’, e la parzialità delle forme speciali, – dando luogo ad una convergenza articolantesi, certo, in scarti e dissimmetrie problematiche; ponendo in senso più avanzato la questione del nesso di storia e scienza110. Tutto ciò appare delineato chiaramente dalla maniera nella quale il Cassinate configura il proprio intendimento del momento dialettico nella discussione con Sorel svolta nel Discorrendo: Mi pare – egli scrive –, innanzi tutto, che voi, non per curiosità vostra, ma quasi mettendovi ad arte nei panni del comune dei lettori, domandiate: c’è mai modo di fare intendere, per via facile e piana, in che consista quella dialettica, che così spesso si invoca a dilucidazione dell’intrinseco del materialismo storico? E potreste, credo, aggiungere che il concetto della dialettica riesce ostico, ai puri empiristi, ai metafisici sopravvissuti, e a quei popolari evoluzionisti, i quali così volentieri s’abbandonano alla generica impressione di ciò che è e trapassa, apparisce e sparisce, nasce e muore, e nella parola evoluzione non esprimono, da ultimo, l’atto del comprendere, ma l’incomprensibile: mentre, all’incontro, nella concezione dialettica s’intende di formulare un ritmo del pensiero, che riproduca un ritmo più generale della realtà che diviene111.

Torna, dunque, il tema del «rifare dal dentro» il mobile scandirsi delle mediazioni definenti la costituzione dell’oggetto in intima relazione alla complessità del tempo storico ove la pluralità dei saperi e delle soggettività si articola arricchendo ed approfondendo la sincronia del campo formale e del suo dinamismo. Ma attenzione: il protendersi reciproco di ritmo della realtà e ritmo del

pensiero non va atteso in termini di impoverita Widerspiegelungstheorie, in cui scadono e si congiungono volgare idealismo e volgare materialismo112, bensì allude alla saldatura tra spessore epistemico e lettura unitaria, volta alla ricomposizione, del movimento reale delle forme designante la dimensione del mondo storico; sì da considerare come interamente compreso nell’articolazione di questo proprio il ‘pensiero’ che perciò è, – arriviamo nuovamente a confermarlo da un differente lato del discorso –, ‘lavoro’, nel segno di una accezione di filosofia della prassi radicalmente discriminata da ogni sorta di pericoloso ripiegamento verso il pragmatismo. La ‘prassi’, infatti, esige di essere costantemente connessa a soggettività determinate che ne identificano i referenti storici. Così, – di contro a quanto voluto da alcuni aspetti della successiva eurisi gentiliana –, la ‘filosofia della prassi’ non decade in ‘prassismo’, non contrae, cioè ‘in-mediatamente’ nell’attualità del pragma il fattore teorico-conoscitivo, ma mira a guadagnare il presente storico in quanto dimensione ove passato e futuro si raccordano ‘dentro’ la stratificazione del lavoro accumulato in ordine allo sporgere della effettività del lavoro vivo, attualmente destinato a separarsi nella forma sociale-astratta, secondo linee di scansione che non vanno a conchiudersi nel mero ambito diacronico. Lungi dal comprimere la prassi sulla piatta Alltäglichkeit, non è chi non veda come il modo in cui Labriola la concepisce, – che ha a proprio sostrato una cognizione della accezione spaventiana dello ‘spirito’ in quanto ‘autoproduzione’ e la fontale lezione vichiana (anche in specifica relazione ad essa113) –, si collochi in posizione di stimolo genetico riguardo al complessivo ‘programma di ricerca’ dei Quaderni gramsciani. Codesto approccio teorico rinvia, inoltre, sul piano strettamente politico, alla elaborazione di un’idea di soggettività a vocazione egemonica assai differente, ed assai più ricca, flessibile e innovativa rispetto al modello di partito allora rappresentato dalla socialdemocrazia tedesca114. Prassi e soggettività storica si coniugano e condeterminano, dunque, per Labriola, entro uno scenario di Bildung del genere umano – insistito già nel primo saggio – scorrente verso la ricomposizione in virtù della appropriazione del vicendevole nesso di interdipendenza che giusto il ‘lavoro’ istituisce, accumulandosi e stratificandosi in zone che non è possibile ricondurre a linearità, spesso discontinue, ma confluenti nella unità storico-processuale. È, insomma, l’innervarsi mediatore della prassi nelle forme storiche a costituire il fondamento della ricomposizione del genere umano115.

12. Due diverse risposte alla crisi della ‘società automatica’ e della stabilizzazione liberale – Ancora un confronto con Sorel A fronte di quanto detto sin ora, risulta opportuno riannodare il filo del rapporto Labriola-Sorel, costituente una delle cifre dominanti, non solo in senso prettamente ‘espositivo’, del Discorrendo. Come desumibile dalle considerazioni svolte in precedenza, nella Prefazione del ’97 Sorel aveva fornito una propria rappresentazione di tipo protosoggettivistico dei motivi labrioliani, traendone occasione per determinare il divenire del moderno secondo un certo livello di appropriazione, anzitutto idelogica, ‘di classe’. Sorel ridefinisce in qualità di ‘cooperatori’ il ruolo degli intellettuali, – pensando, così di superare tout court il giacobinismo –; cercando, inoltre, sia di poggiare su basi ‘metafisiche’, con accezione determinata, la prospettiva marxiana, sia di inquadrarla secondo un equivoco paradigma, – esplicitamente contrastante con la reale epistemologia di Marx –, di predominio del livello fattuale sul livello formale. Ai fini di gettare uno sguardo sulla impalcatura del discorso di questi è utile rammentare alcuni contenuti di un testo dell’anno precedente, Etude sur Vico, ove troviamo delimitate le basamenta delle portanti categorie di mélange e di bloc, benché in un quadro ancora lontano dall’utilizo in senso propriamente attivistico del ‘mito’ rispetto alla lotta di classe. Di Vico il filosofo francese appariva interessato a cogliere, soprattutto, i precipitati del binomio ‘provvidenza’-ricorsività. Esso veniva recepito quale incardinato sulla compresenza e sulla tensione di finalismo, atteso nella sua valenza etico-politica, e garanzia di uniformità. Tale garanzia definiva, in sostanza, secondo il pensatore francese, il patrimonio di lavoro accumulato coincidente con la traditio da cui comunque avrebbe a derivare ogni soluzione artificiale. Parliamo, anche in questo caso, di intuizioni di grande profondità che, tuttavia, non mancano di contrappasso. Giacché, se, con Vico, Sorel inquadra il legame ‘tradizione’-‘scienza’, e, inoltre, introduce certuni fattori tonificanti di tipo psicologico concernenti i bisogni umani, – rompendo il campo uniforme che egli, però, erroneamente attribuisce all’intendimento dello sviluppo storico da parte del filosofo napoletano –, arrivando, vieppiù, a qualificare l’azione vivificante ed ‘esterna’ della lotta di classe come un intervento che, saldandosi al processo di artificializzazione della natura, muta costantemente i carattere del mèlange sociale, ridefinendo in ordine al senso comune la gamma del diritto116, e, dunque, ricostruendo ad un nuovo livello soggettivo il ‘blocco’; d’altra parte, è tutta la percezione della scansione che va dall’impostazione della relazione

spazio naturale – costruzione artificiale – socializzazione alla emersione della soggettività etico-politica che appare plasmata, entro codesto ambito di discorso, su una chiara direttrice fattualistico-naturalistica. Il modo in cui Sorel affronta la questione della teorica del valore e, via via, rimodula il pretto motivo metafisico non fa che confermare ed estremizzare un simile aspetto.

Ne L’ancienne et la nouvelle métaphysique il carattere nel presente ambito solo ‘transitoriamente’ indicabile come ‘astratto’, – poiché, realiter, estraneo ad ogni riproposizione ‘diretta’ sul piano concettuale –, della suddetta teorica non sembra negativamente stigmatizzato117, malgrado il filosofo francese si esponga già qui ad incorrere in una pronunciata occasione di equivoco. Tale teorica viene indicata in qualità di modello espressivo-‘esperimento ideale’ (di cui il ‘paragone ellittico’ crociano designerà una apposita variante) ove il valore «possiede la quantità, essendo proporzionale a un tempo»118, analogamente alla funzione di supporto della matematica rispetto alla espressività della meccanica (pensiamo alla idealizzazione clausiusiana delle ricerche di Joule sulla conservazione dell’energia), – in tal maniera assolvendo un compito di implicito svellimento dall’inerzia, poiché sostanziantesi nella ‘costruzione’ corrispondibile al campo della meccanica (la quale «ci dà il mezzo, in tutti gli ordini di idee, di passare dai compendi soggettivi, personali, grossolani, di una filosofia abbandonata al caso, ai dati oggettivi, sociali astratti della scienza»119) e definente l’ambito di libertà consentito dalla elaborazione di dispositivi a precipitazione pratico-effettiva indipendenti dalla predefinizione naturale di una determinata legalità («noi possiamo costruire apparecchi che non hanno alcun modello nel mezzo cosmico; noi non cambiamo niente alle leggi della natura, ma siamo padroni di creare delle sequenze, che hanno un ordine che ci è proprio»120). Ciò è del tutto congruente alla già considerata nozione di ‘ambiente artificiale’, e mette anche in evidenza come il contrappeso alla retroazione dello schema naturalistico venga definito, senza interrompere la solidità della configurazione del circuito relativo alla condizione ambientale, dalla indicazione di un uso protosoggettivistico della costruzione meccanica. Se facciamo attenzione, possiamo comprendere che è su questo punto che si radica il mutamento, e, per alcuni rispetti, l’irrigidimento di giudizio sulla teorica del valore verificatosi fra il ’97 ed il ’98121. Avendo mosso da una considerazione della teoria del valore come termine di posizionamento politico, malgrado il suo presunto fondarsi esclusivamente su acquisizioni ‘quantitative’, ma non di giustificazione epistemica122 (e sarebbe in proposito da ben studiare il rapporto di una simile assunzione proprio con il ‘paragone ellittico’ crociano), ed avendo riflettuto sulle caratteristiche del ‘metodo’ marxiano in ordine alla logica hegeliana123, Sorel arriva, ad un certo punto, ad approfondirlo portando la lente sulla analogia di esso con i procedimenti della fisica, seguendo una suggestione presente nella Prefazione alla prima edizione de Il Capitale124. Di qui, egli, – davvero compiendo una mossa analoga a quella di Croce allorquando imputerà, come vedremo, a Marx una parziale esclusione della incidenza del valore d’uso e della

riproduzione sociale in ordine alle questioni sollevate dal nodo della trasformazione dei valori in prezzi e da quello della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto –, perviene a designare l’analisi propria della marxiana ‘critica dell’economia politica’ quale imperniata sul criterio della semplificazione modellistica. Lascia emergere, cioè, il tema della traduzione applicativa del metodo marxiano in ‘esperimenti ideali’ che, in fin dei conti, se può avere il pregio di porre in evidenza l’opportunità di desumere l’individuazione di regolarità determinate dai conseguimenti della medesima ‘critica dell’economia politica’, d’altra parte, non è in grado di cogliere come tali indicazioni di regolarità debbano venir inscritte in una cornice d’insieme abilitata a segnalare proprio la compresenza di precisi fattori di varianza, invarianza e convarianza registrabili nei modi del movimento formale-reale. Tutto ciò si comprende meglio riandando al raffronto, compiuto in L’ancienne et la nouvelle métaphysique, tra la figura del fisico e quella del costruttore. Il primo descrive ipotesi di legalità generale. Il secondo si confronta con il grado di complicazione pratico-effettiva connotante i referenti di tali ipotesi125, attingendo ad osservazioni intraducibili a livello positivo (ma si tenga presente, per quanto attiene al ragionamento complessivo, che le assunzioni marxiane ripugnano, realiter, a qualsiasi terapia di riduzione al ‘positivo’), e, d’altro canto, conseguendo alcune partcolari acquisizioni conoscitive, stante che la «soluzione pratica non deve essere una soluzione matematica come quella della relazione geometrica fra grandezze. Essa», altresì, «deve comprendere ogni soluzione che corrisponde a ciascuna di queste condizioni indefinibili»126. Viene così, sotto un certo aspetto, a tracciarsi il profilo di una sistematica formale volta a scorrere dal lato osservativo a quello della costruzione teorica nella quale «le cose sono legate fra loro da relazioni matematiche»127 ed entro cui ricomprendere il complesso delle variazioni possibili dell’ambito reale. Tale ‘sistematica formale’ definisce, cioè, un paradigma ‘insaturo’, adeguato ad aderire alla rugosità del reale, ed a cui il campo della ricognizione politica afferibile al marxismo può essere proficuamente correlato, rendendolo capace di ‘mettersi al riparo’ dal rischio della chiusura e della ‘saturazione’, appunto, integrando il dispositivo categoriale della legge del valore con le forniture di costruzione ed astrazione ricavate dall’indagine della configurazione cogente della produzione. Ma nel saggio del ’98 Nuovi contributi alla teoria marxista del valore la opportunità della qualificazione analitica pertinente all’‘esperimento ideale’ della legge del valore viene esplicitamente e definitivamente accantonata in favore della considerazione del suo presunto impianto occlusivo dovuto ad un sostanziale carattere di riduzionismo ‘metafisico’ da intendersi, però, come riferibile giusto

alla distinzione canonica tra ‘sostanza’ ed ‘accidente’ (con ciò definendo un significativo punto di contatto con la critica di parte marginalistica su cui torneremo). Tale distinzione si trova ed essere attesa come problematizzabile in riferimento alla confusione tra ‘supporti’ e ‘relazioni’, constatabile in discrasia rispetto alla «crescente complessità delle […] combinazioni»128 del sistema capitalistico, e, dunque, suggerendo una alternativa opposta alla missione di ricomposizione che alla stessa categoria di ‘metafisica’ viene accordata nella Préface alla traduzione francese dei primi due saggi labrioliani (di tale aspetto andrebbe perspicuamente studiata l’influenza sulla tematizzazione crociana dell’opzione dell’analisi post faestum e del relativo intendimento del paradigma previsionale marxiano). Non all’indagine della legalità fisica è, dunque, da paragonarsi, in fin dei conti, la teorica del valore. Se lo stabilimento di supporti espressivi caratterizza tanto la ‘metafisica’ quanto la ‘sistematica’, nella prima viene compiuta l’indebita sostituzione di supporto e relazione ingenerata sia dalla identificazione dello stesso ‘supporto’ con la sostanza, sia dalla pretesa di ‘dedurre’ da questa la complexio delle relazioni. A questo tipo di considerazione presiedeva certamente una acuta consapevolezza della crisi radicale della impostazione deduttivistica connotante l’ortodossia idealistica. Il significato di siffatta crisi veniva a tradurre lo svincolamento della varietà delle ‘relazioni’ da qualsiasi schema di subordinazione nella evidenziazione della compromissione strutturale-radicale della società meccanico-automatica di stampo liberale (la quale, come avremo occasione di constatare, presenta molteplici, e fra loro assai diversi, risvolti concettuali), e certamente dimostrava l’usura del modello epistemologico ricardiano delle versioni schematizzate dell’hegelismo. Ora, il punto è che Sorel, – come si potrà agilmente desumere dagli elementi appena forniti –, considera la elaborazione marxiana della teoria del valore-lavoro quale appiattibile, sostanzialmente, sul modello ricardiano e, dunque, come tutta interna alla visuale della ‘società automatica’. In ciò, se si adotta l’ottica labriolana d’insieme, consta l’equivoco fondamentale che rischia di annettere, su basi naturalistiche, l’analisi di Marx all’anacronistica accezione del concetto di ‘previsione’ afferente agli automatismi del paradigma ‘meccanicistico’-liberale classico. Il lettore avrà modo pure di constatare come si stia parlando di un esito in parte analogo, curiosamente, a quello della critica marginale di Böhm-Bawerk. L’unico recupero operabile, secondo Sorel, dello standupunkt di Marx è dato dall’accordargli un contenuto ‘qualitativo’ di contro all’approdo «matematico e quantitativo»129 dell’idealismo, sigillato esplicativamente, nel campo della

economia politica, dal privilegiamento ricardiano del fronte della accumulazione, e ‘messo in questione’, decisivamente, dall’ampliarsi e dal mutare strategico delle maglie della concorrenza130, determinante, a sua volta, il mutamento dello stardard of life delle classi produttivo-subalterne rispetto alla massa del profitto capitalistico131. Se, infatti, quel che si sgretola è l’immagine di una progressione evoluzionistico-quantitativa corrispondente alla subordinazione delle ‘relazioni’ alla ‘sostanza’, per Sorel l’outillage mental, in sostegno al ‘blocco’, della prospettiva che Marx ha dischiuso può incardinarsi esclusivamente sulla compressione alla pura dimensione artificiale del lavoro accumulato in base a cui si trova declinata la ricostruzione della scienza, in termini di socializzazione, espressa da un nuovo sensus communis attinente all’irrompere del ‘salto’ qualitativo in cui avrebbero a risolversi gli stessi effettivi processi che la interessano. La posizione soreliana esibisce, perciò, due aspetti fra loro interconnessi: a) l’incomprensione evidente della critica della serialità quantitativa che da Hegel – badare bene – trapassa nella cognizione marxiana del dialettismo storico; b) il curioso commutarsi dell’approccio lineare deducibile dalla tipizzazione squisitamente macchinistica della costruzione artificiale nel mito della ‘rottura’ attivistica, il quale consta di una cifra solo apparentemente contraddittoria poiché s’ingenera proprio dalla elusione dell’intreccio quantitativo-qualitativo, – concludente, poi, al prevalere del secondo termine del binomio quale connotante la struttura discreta del tempo storico –, posto implicitamente in luce, invece, dalla concezione labrioliana. Non a caso Sorel ricorre anche alla riduzione puramente sociologica dello statuto del marxismo, poiché al depotenziamento analitico-categoriale complessivo si combina, inevitabilmente, la traduzione di alcune forniture ricognitive in una accezione restrittiva della stessa effettività della mobilitazione pratico-ideale. Il presente quadro di coerenza dovuto agli ‘equivoci’ di fondo del ragionamento soreliano ci consente di lumeggiare ancor più i mutamenti interni ad esso, – anzitutto in merito alla connotazione del profilo epistemologico della ricerche sulla scienza. Ne L’ancienne et la nouvelle métaphysique prevale, – come abbiamo constatato –, la tensione tra ‘scienza razionale’, procedente per definizione sulla via della astrazione, e costruzione parimenti razionale ma dovuta all’orientamento pratico-valutativo. Vale la pena soffermarsi per un attimo sull’argomento. È nota l’influenza del grande studioso di meccanica Franz Reuleaux sul primo Sorel, riguardo proprio alla discriminazione tra ‘soggettivo’ ed ‘oggettivo-razionale’ corrisposto al modello meccanico132, nonché alla dilatazione di quest’ultimo versante al regno, – inassimilabile ai confini della ‘astrazione’ tout court –, della ricostruibilità dei rapporti afferenti al

connotato di Helfsbegriffe dei concetti (curiosamente tematizzato, preminentemente, anche da Dilthey133), sì da inquadrare, in rapporto al modello ‘macchinistico’, la trasformazione del carattere di relazione delle procedure di costruzione della struttura epistemica e della socializzazione scientifica rispetto alla ridefinizione della morfologia del mercato e delle concernenti forme di regolazione e di governo. Ciò mette in evidenza il limite costitutivo della posizione soreliana in proposito, ovvero quello relativo alla inadeguatezza della batteria concettuale epistemologico-politica del ‘macchinismo’ rispetto alla sfida dell’analisi della riorganizzazione capitalistica in atto, la quale deve spiegare il superamento degli automatismi del liberalismo ‘classico’. Limite che verrà a riverberarsi sull’atteggiamento antiintellettualistico del ‘filosofo-ingegnere’ dal ’94 in poi. Reuleaux aveva designato la nozione generale di ‘macchina’ in guisa di dispositivo definito da un esiguo numero di catene cinematiche e volto a tendere una sorta di ‘trappola’ alle forze naturali134, ed aveva, poi, affidato alla cinematica stessa il compito di studiare avalutativamente l’insieme delle variabili a ciò pertinenti, di qui contemplando anche l’effetto di retroazione esercitato dalla invenzione e dalla precisazione di nuove misure e disposizioni di ‘resistenza’ all’influsso naturale in ordine all’attualizzarsi di esso stesso ed al suo sfruttamento135. Sorel ne trae occasione per osservare: «Reuleaux ha descritto con acume la trasformazione dei meccanismi; ha posto i principi che permettono di classificarli, di comprenderli scientificamente; ha formulato la legge del progresso meccanico; ci ha mostrato ciò che è fondamentale sotto le apparenze. Ma sarebbe ridicolo che per giudicare le sue opere chiedessimo se ha inventato molti meccanismi utili […] La questione non è questa, poiché la scienza non ha per oggetto immediato l’applicazione e la previsione. È già molto poter discutere, razionalmente, una macchina, sapere a quali relazioni cinematiche corrisponda, infine dire se essa costituisca un progresso e in che cosa consiste questo progresso […] Perché si produca il cambiamento è necessario ben altro che la scienza; ci vuole l’evoluzione dell’ambiente artificiale nel quale viviamo»136. Nella cornice di L’ancienne et la nouvelle métaphysique viene, dunque, precisata la ‘possibile’– e comunque ulteriormente problematica nella sinossi della posizione soreliana – analogia di ‘scienza’ e marxismo sul terreno di una ‘avalutatività’ in grado di consentire la definizione di un sistema ‘aperto’– insaturo abilitato ad aderire alla rugosità del reale in relazione tensiva rispetto alla costruttività della prassi e ad un processo di formazione ambientale in cui i dispositivi artificiali si convertano nella fluidificazione del ‘senso comune’. D’altra parte, ciò descrive le basamenta di una posizione che arriverà a restringere al massimo l’incidenza cogente del portato epistemologico della

teoria del valore, riproiettando, curiosamente, sullo spazio della prassi – in quanto, in definitiva, indeterminato e dissociato da quello della teoria, che ne resta, in fin dei conti, stando in tal maniera le cose, dissolto – l’insieme delle facoltà analitico-costruttive. Certo: ancora negli scritti del ’98 dedicati proprio alla teoria del valore la riflessione sul ruolo incidente dell’astrazione scientifica viene preservata, ma, a questa altezza, la precedente asserzione del carattere di ‘avalutatività’ della sfera della scienza conduce a precipitare al di fuori di essa ogni possibilità di ‘orientamento’ alla trasformazione, in virtù della volontà di ‘mettersi al riparo’ dall’ipoteca della declinazione deterministica della ‘previsione’, – la quale, però, stante la cornice d’insieme del discorso, conclude ad una misura di sostituzione e riconfigurazione della dimensione sociologica per via meramente ‘ideale’ (e, quindi, massimamente impoverita di determinazioni qualificanti capaci di attrito). Ciò inciderà moltissimo sui contenuti della declinazione dell’antigiacobinismo sorieliano. Per Sorel, la teoria del valore deve venir intesa esclusivamente in quanto formalizzazione intrinsecamente parziale (ma in un senso molto diverso dalla problematizzazione labrioliana dell’ambito formale-speciale). A rigore, la cosa, per come si trova ad essere esplicata, compie una chiara strozzatura della espansività del dialettismo, e ciò è ben coglibile riandando al raffronto con il criterio operante nella fisica. La legalità rilevabile in campo economico, dice Sorel, ‘nascondendo’ «l’azzardo fondamentale»137, assume un raggio di interesse inapplicabile ad ogni ambito isolato, mentre le leggi fisiche ‘coprono’ ogni caso individuo. Su questa via, la sfera della economia politica, – di cui, attraverso lo svolgimento di certune suggestioni labrioliane, coglieremo la costituzione ed interazione specialistica –, viene ad essere classificata quale avente a suo centro la corrispondenza di legalità, libera concorrenza ed ‘azzardo’. Cosicché, a cominciare da Ricardo, quel che dovrebbe arrivare ad emergere è un’ipotesi di regolazione concernente la tendenze che presiederebbero al flusso fattuale, – in sé dipendente dall’‘azzardo’ –, dotata di un tipo di fondazione matematica rispetto a cui Marx, nell’ottica di Sorel, si porrebbe in netta continuità138. Egli, cioè, resterebbe intriso della mentalità ‘quantitativistica’ e comprimente il piano di relazioni che, entro la presenti coordinate, viene attribuita all’idealismo (constateremo oltre come secondo Labriola le cose stiano in ben altra e più complessa maniera), e che, – assunta la primaria condizione per cui «sotto il regime della libera concorrenza […] l’azzardo fornisce dei risultati medi»139 –, si vedrebbe travolta dal dilatarsi di margini inediti di libertà potenziale, offerti e determinati proprio dalla socializzazione, acclarando, così, l’esaurimento del

modello ricardiano. La novità della fase post-concorrenziale determinerebbe il ‘ritardo’ di Marx anzitutto in ordine a quello che, per il pensatore francese, costituisce il decisivo termine di riferimento, ovvero la gamma degli elementi costituenti il plesso delle macchine. L’affermazione del primato qualitativo appare, secondo Sorel, sfuggire alla diagnosi marxiana, dal momento che, malgrado i ricordati studi convergenti nella elaborazione de Il Capitale, il fattore qualitativo medesimo si troverebbe ridotto al campo quantitativo140. L’espansione del dominio macchinistico comporterebbe un esito estraneo all’analisi marxiana, sicché l’attualità del mondo industriale, considerato già ne L’ancienne et la nuovelle métaphisique quale «un immenso gabinetto di fisica dove si fanno agire energie naturali attraverso strutture artificiali» (si rifletta sul fatto che le strutture artificiali a sfruttamento naturale verranno dal filosofo francese slegate sempre maggiormente da ogni prospezione di legalità; sì da designare una particolare capacità di ‘accelerazione’ nelle modificazioni)141, recherebbe, in forza, appunto, della equivocante rappresentazione soreliana, l’accantonamento definitivo della portata esplicativa della nozione di ‘mediazione’ in quanto fulcro del dialettismo. Facciamo attenzione: Sorel segna un indebolimento del portato ermeneutico-politico della prospettiva marxiana, – ponibile in parallelo, del resto, a quello compiuto da Croce –, restringendolo alla sola condizione del capitalismo concorrenziale, rispetto a cui la situazione degli impetuosi mutamenti contemporanei implicherebbe l’enfatizzazione della prassi come luogo in cui riversare, quasi paradossalmente, il contenuto di socializzazione della scienza in dissociazione da essa, ovvero rintracciando nella prassi stessa ogni possibilità costruttivo-qualitativa illuminata o obliata dalla cifra di ‘presa’ effettiva della struttura scientifica in ordine ai propri determinanti referenti. è in questa direzione che Sorel cerca di preservare il significato di trasformazione sprigionato dalla prospettiva marxiana, ridislocandolo all’altezza di un impegno antiintellettualistico volto ad adempiere ad una sorta di fuoriuscita dal paradigma giacobino di direzione politica che, valendosi di una percezione ‘ristretta’ della socializzazione – concentrata sul versante definito dal modulo della organizzazione macchinistica –, non può che ricurvare entro l’alveo di una accezione della funzione degli intellettuali e del nesso teoriamovimento la quale, dato il suo carattere di divaricazione dall’effettiva disposizione delle masse, – rispetto a cui non resterebbe che invocare la mobilitazione ove l’attrito etico-politico avrebbe a sciogliersi nell’impulso del ‘mito’ –, si appalesa in quanto fallacemente plasmata, essa stessa, sulla impalcatura dell’ideologia giacobina. Sicché, lo spontaneismo si rovescia nella fissazione di schemi meccanico-naturalistici – in sostanziale aderenza a quelli

del liberalismo142 –, avendo luogo, con ciò, in tal maniera, il sostanziale indebolimento e/o svuotamento della tematica del ‘cervello sociale’. Orbene, crediamo che sia assolutamente evidente come – malgrado significativi mutamenti di accentuazione – i limiti ed i fattori di fallacia del discorso di Sorel siano già tutti compresi nella prima fase della sua proposta epistemologica, laddove il macchinismo emerge in quanto paradigma di razionalità a cui sarebbe sostanzialmente riducibile l’intiera gamma delle forme di vita. Un simile approccio vede congiungersi – come è agilmente desumibile dal paragone fisici costruttori – l’idea di ‘neutralità’ avalutativa della teoria, in quanto capace di registrare l’esplicarsi della ‘possibilità’, proprio con l’affidamento alla prassi, da essa assolutamente sganciata, del compito di ‘costruirla’, vivificandone apparentemente l’incidenza. Di qui, possiamo fissare la principale linea di discriminazione strategica SorelLabriola: se il primo tematizza la necessità di definire un campo ‘insaturabile’ della teoria, e marca, però, una asimmetria fondamentale nel proprio ragionamento, collocando nella prassi ‘autoreferente’ il veicolo attraverso cui immergersi nella rugosità del reale e permearla; il secondo mira a stringere la densità del tramite politico orizzontale solcante per linee interne le connessioni epistemiche ove si staglia la unità del processo, in riferimento a cui la ‘comprensività’ della prassi viene criticamente colta nella sua carica di mediazione e trasformazione. La produttività della prassi viene, cioè, pensata al di fuori di ogni condizionamento di matrice naturalistica ed in relazione ad un processo plurimo di socializzazione dell’accumulo epistemico-conoscitivo non restringibile all’isolato modulo della coincidenza fra artificialità e macchinismo. Ciò riconferma la valenza di mediazione storicoreale della prassi medesima, la quale richiama alla esigenza del guadagno della ‘unità-distinzione’ con la teoria, di contro al suo mero isolamento. Isolamento che, nel caso di Sorel, vien attuato sulla scorta di un intendimento antiintellettualistico contrassegnato dal cospicuo difetto consistente nella risoluzione entro la schietta immagine puramente spontanea della prassi medesima, considerata secondo un modello di ricostruzione ‘separata’ delle possibilità ‘costruttive’. Viene attuato, cioè, attraverso la concezione di essa in una situazione isomorfica allo svolgimento ‘naturale’ della artificialità macchinistica, approdante a replicare la stessa ‘separatezza’ contraddistintiva del tradizionale posizionamento dei gruppi intellettuali. Si osservi che se Sorel, in una fase precedente all’attivismo del ‘mito’, mira a recuperare la lezione di Vico poiché coglie, – anche con elementi di lucidità euristica143 –, nel motivo dei ‘ricorsi’ il veicolo del pensamento del tempo storico al di fuori della concezione ‘progressista’ che dall’illuminismo giacobino trapassa nel positivismo (cui un

attacco esplicito verrà sferrato anche con il successivo Les illusions du progrès del ’21); d’altra parte, il riferimento al modello della ‘società delle macchine’ si risolve in un genere di visualizzazione che, pur volendosi sottrarre all’ipostasi seriale e quantitativa (che resta realiter contrapposta massimamente all’impostazione marxiana e, parimenti, alle sue radici nella elaborazione hegeliana, a cominciare, evidentemente, dalla critica alla ‘cattiva infinità’), ripiega sul tratto di cifrante unilinearità di essa proprio in virtù della contrazione macchinistica della considerazione della razionalità accumulata. è in questo senso che Sorel concettualizza, del resto, l’‘ambiente artificiale’ attraverso la riproposizione, in buona sostanza, della opposizione rigida ‘quantità’/‘qualità’, ripugnante allo scorrere mediatore dell’una all’altra e riflettentesi sulla operazione di ‘estraniamento’ in chiave esclusivamente soggettiva della prassi; eludendo, così, quasi per contrappasso, la effettiva composizione realedifferenziata e costantemente intensificantesi del processo storico. A ben guardare, consta in ciò il maggiore divario tra l’atteggiamento teorico labrioliano e quello soreliano. Divario esigente di essere direttamente correlato alla differente percezione della teorica marxiana. Infatti, – come dimostrato dai presupposti della fondamentale inclinazione che Sorel manifesta sin da L’ancienne et la nouvelle métaphysique –, se, da un lato, viene attuata un’operazione di destituzione anzitutto epistemologica della teoria del valorelavoro, da un altro, il Cassinate si volgerà a guardare la complessità alla movimento formale-reale giustificante la maturazione della morfologia storicosociale rispetto a cui la inscrizione della teoria del valore-lavoro nell’ottica complessiva della ‘critica dell’economia politica’ mostrerà la densità di uno specialismo, se presa nella peculiare costituzione reagente ed esplicativa nei riguardi del reticolo mobile dei rapporti di forza della loro connotazione perspicuamente politica. Del resto, un simile atteggiamento – che dovremmo adeguatamente approfondire in seguito – mette sulla buona strada per comprendere come il particolare fattore della modernizzazione tecnica sia coinvolto in tale movimento, e inquadrabile rispetto al nesso produzioneriproduzione. Si tratta di un atteggiamento che esibisce la lontananza della impalcatura categoriale marxiana dalle varie ipotesi di ricostruzione della ‘legge naturale’ attraverso un preteso procedimento di modellamento che sarebbe abilitato a farne emergere il (presunto) nerbo sostanziale, magari inteso quale a sua volta proiettantesi entro la suddetta dimensione di legalità in quanto determinato normativamente-quantitativamente, cosicché questa divenga passibile del collegamento sic et simpliciter alla formulazione di una previsione determinata. Essa, così, apparirebbe risolversi nell’alveo della Zusammenbruchstheorie, la cui escursione rispetto al presente dovrebbe

condurre, nella considerazione soreliana, alla vivificazione ‘scorporata’ della prassi, – della quale, dunque, rebus sic stantibus, si troverebbe ad essere radicalmente spezzato il legame con la densità politica della teoria. Dal ragionamento labrioliano, di cui in questa sede stiamo cercando di esaminare la distanza dalla sinossi della elaborazione soreliana, in particolare per quanto concerne il merito del Discorrendo, si deriva pure, direttamente e indirettamente, che, invece, il paradigma marxiano non combacia con l’impostazione di Ricardo. Mentre questa si svolge prevalentemente entro la accezione strettamente quantitativa dell’incremento tendenzialmente illimitato delle merci congruente al postulato dalla concorrenza perfetta144, esso si discosta dall’atteggiamento vocato a limitarsi alla unica veduta della ‘apparenza’ empirica, presupponente ex ante la determinazione stessa del valore. Se, come chiaramente argomentato da Marx, Ricardo presuppone la scienza al suo concreto sviluppo145, nella logica de Il Capitale la scienza dell’oggetto specifico (l’economia politica) si esplica nella esposizione critico-categoriale attraverso la penetrazione dell’articolazione della mediazione logico-storica, strutturalmente vincolata alla dimensione speciale della contraddizione in relazione alla incidenza del campo del valore-lavoro146. Labriola coglie efficacemente il ruolo di questo ultimo in termini di «premessa tipica». Al contrario di ciò, il filosofo francese appare ricadere, paradossalmente, sul fronte della fallacia quantitativoecceterativa, la quale, del resto, spiega l’usura del modello epistemologico ricardiano. Egli, infatti, fissa un criterio di opposizione quantità/qualità che, presumendosi come importato dall’erroneo ‘posto che’ della consunzione del fattore dialettico-mediativo in quanto innescante il vertebrarsi dell’orizzonte reale-storico, non riesce a cogliere la trama del movimento in cui si snodano le forme della riproduzione sociale proprio all’altezza del presente. Ne discendono due accezioni diverse della capacità espansiva e di intervento dell’autonomia del marxismo (che, nel caso di Sorel, viene a porsi, per così dire, ‘oltre se stessa’, nel pieno della accezione strettamente spontanea dell’incidenza della prassi) di fronte alla crisi della stabilizzazione liberale corrispondente alla ‘società automatica’. Si tratta, ora, di riandare all’analisi della generale impalcatura teorica del filosofo di Cassino per ancor meglio tratteggiare un siffatto discrimine e le sue conseguenze concettuali preminenti147. Le osservazioni appena formulate si possono agilmente allacciare, prima di tutto, al merito della discussione – svolta, in particolare, nel Postscriptum alla edizione francese del terzo saggio –, con Croce e, per riflesso, con il marginalismo e con le tesi di Pantaloni (critiche di Böhm Bawerk, anche se complessivamente convergenti con i principi del marginalismo, crediamo)148, su

cui torneremo approfonditamente in seguito. Giacché, l’accusa di Croce verso la teorica marxiana di non possedere di un adeguato grado di capacità di generalizzazione (con tutto ciò che questo significa in ordine al tema della legalità naturale su cui fa direttamente leva l’‘economia volgare’) viene ad avvicinarsi, a rigore, – benché l’elaborazione crociana abbia, tutto sommato, ben altro taglio –, nell’implicito criterio di vaglio della struttura epistemologica presiedente alla ‘critica dell’economia politica’, ad un tipo di lettura del processo reale in termini meramente quantitativo-cumulativi opposto rispetto allo svolgimento genetico (o anche prettamente epigenetico149), ossia ad un tipo di lettura riferentesi ‘a’ ed applicante un’ottica escludente, secondo Labriola, l’effettività dialettico-mediativa. è a partire da una misura analitica del genere che la teoria del valore-lavoro può subire una curiosa riproiezione ‘in-mediata’ dell’elemento di fallacia del modello ricardiano, di cui – non senza buone ragioni – viene segnalata l’usura, attraverso, però, un criterio, mutatis mutandis, in definitiva analogizzabile a quest’ultimo – proprio come nel caso, certamente influente, di Sorel –, e rispetto a cui, d’altra parte, troviamo stemperati gli elementi capaci di testimoniarne proprio la assoluta erroneità della equiparazione tra dialettismo, – che il ricardismo non è certo in grado di stringere soddisfacentemente, benché ciò non ne giustifichi un troppo facile ridimensionamento –, e logica squisitamente quantitativa (lo specifico delle considerazioni labrioliane, in afferenza alle posizioni crociane, attinenti alla questione del ‘paragone ellittico’ nella memoria del ’97 Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo150, così concludono: «Eccoci, per conseguenza, ad alcuni enunciati molto curiosi: “È una società (s’intende quella studiata da Marx ne Il Capitale) ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi, che potrebbero anche non essersi presentate mai nel corso della storia” […] E poi: […] “Marx assume, fuori dal campo della pura teoria economica, una proposizione, che è la famigerata eguaglianza di valore e lavoro”. E di dove dunque l’ha presa? Forse (secondo alcuni) c’è arrivato “spingendo alle estreme conseguenze un concetto poco felice di Ricardo”. Il quale Ricardo» – aggiunge ironicamente il Cassinate – «bisognerebbe espellerlo a dirittura dalla storia della scienza, perché qualcos’altro di più felice non l’ha veramente fatto»151).

13. Il tema della unità filosofia-scienza in ordine all’‘autocritica’ del movimento reale C’è un brano del Discorrendo su cui è utile fermare l’attenzione in vista del proseguo dell’argomentazione, ad un livello più complessivo, che si collega tanto alla delineazione labrioliana della nozione di ‘prassi’ quanto al motivo del ‘socratismo’. Le parti salienti di esso, che succedono di poco all’inserimento della celebre missiva ad Engels del marzo ’94, così recitano: A molti dei professanti la scienza, non nella vagante Università del popolo di là da venire, ma in questa che realmente esiste nella presente società ufficiale, capita d’esser messo fra l’uscio e il muro dagli studenti e dagli studiosi, perché, uno pede stantes, rispondano ad ogni quesito, come chi avesse stampata nel cervello la ragione universale delle cose. […] Pochi hanno la socratica rassegnazione di rispondere: non so, ma so di non sapere, e lo stesso potrò sapere, se avrò compiuto gli atti di sforzo, ossia il lavoro, che occorre per sapere […] Ed ecco in che consiste quel capovolgimento pratico della teorica della conoscenza, che è insito al materialismo storico. Ogni atto di pensiero è uno sforzo; cioè un lavoro nuovo […] Cotesto lavoro, che a noi si rivela nella nostra […] coscienza, qual fatto, che ci concerna solo in quanto siamo persone singole e circoscritte della nostra naturale individuazione, non si avvera in ciascuno di noi, se non in quanto noi siamo appunto, nell’ambiente della convivenza, esseri socialmente e quindi anche storicamente condizionati152.

Sono affermazioni direttamente congiungibili al modo in cui il nostro, invigorendo la polemica verso la confluenza del semplificatorio ‘enciclopedismo’ con il monismo ‘ingenuo’, delinea una chiara alternativa agli schemi naturalistici, focalizzando il tema della trasformazione e del ricambio nei riguardi della fascia naturale piuttosto che quello della ‘separazione’ rigida e speculare del contesto artificiale enfatizzato dal discorso soreliano. L’affermazione del carattere squisitamente produttivo del pensiero si pone in netta continuità con quella, compiuta nel secondo saggio, del ‘pensare’ quale forma di lavoro (ovviamente, ambedue le prospezioni vanno discriminate dalla identificazione immediata ‘teoria’-‘prassi’). Essa amplia il quadro visuale rispetto alla restrittiva corrispondenza stabilita da Sorel tra acquisizione conoscitiva ed accezione prettamente ‘macchinistica’ della produzione industriale, e consente, vieppiù, di inserire in tale quadro l’intiero arco dei dispositivi epistemico-ideali di cui la riproduzione allargata si avvale e che concorrono decisivamente alla mediata stratificazione del lavoro accumulato – la quale, a sua volta, viene a far corpo con la molteplicità di linee interne al tempo

storico. Detto in breve, tale indicazione visuale lumeggia il dilatarsi dei percorsi di socializzazione, strutturati secondo variazioni non prefigurabili attraverso meccanismi appositi di riduzione artificiale, ovvero strutturati secondo quella che, nel passaggio di precisazione della nozione di ‘filosofia della prassi’, il nostro autore indica come «la forma sempre sociale del lavoro stesso, e il variare di tale forma». Bisogna, ora, però, soprattutto cercare di qualificare soddisfacentemente il significato profondo della «inversione pratica del problema della conoscibilità». Nella missiva di sicuro rilievo dell’8 gennaio 1900 a Croce sulla quale torneremo anche in conclusione, ne troviamo confermata, per svariate ragioni, l’istanza in ordine alla autonoma funzione del materialismo storico: Tu, Sorel ed altri – scrive Labriola – avete fatto bene a scoprire i volgarismi dei marxisti, ma non per questo avete trovato una nuova teoria della conoscenza […] La sommazione empirica delle osservazioni parziali non dà mai la nuova Weltanschauung – il criticismo non è tutta la filosofia153.

Il Cassinate si preoccupava, anzitutto, di respingere ogni rischio di facile risoluzione del materialismo storico o sul versante gnoseologico o su quello della individuazione di appositi dispositivi epistemici. Egli richiamava all’esigenza della ricomposizione ad un livello più alto, in relazione, sul piano dell’indagine d’insieme, alla dinamica dei saperi speciali ed all’orizzonte della riproduzione sociale allargata, implicante, per una adeguata analisi, la dissoluzione del modulo di teoria della conoscenza concentrato, per esempio, nella versione del ‘criticismo’ in quanto neokantismo. Tale dissoluzione si deve all’analisi genetico-dialettica, attesa come in grado di determinare il toglimento della divaricazione fondamentale tra oggetto e forme teoriche. La critica assai marcata alla eventualità dell’assecondamento dello schema concernente lo scorrimento dal terreno della frammentazione empirica alla riaggregazione sul versante della supposta capacità onnicomprensiva cifrante lo spazio di una monocroma ‘teoria generale della conoscenza’ perviene a scoprirne il ‘vizio’ originario nella scissione tra, da un lato, gli isolati termini del pensiero, e, da un altro, la loro assunzione ipostatica in qualità di ‘presupposti’. Tale vizio si coniuga, ancora una volta, con la contemplazione della ordinaria contrapposizione ‘sostanza’/’accidente’,/ ‘fenomeno’/‘noumeno’ etc., esibendo, con ciò, il condizionamento inficiante di tutto un ossificato armamentario metafisico, riproiettantesi tanto sul trascendentalismo formalista quanto sullo stesso keine Metaphysik mehr! del positivismo (si tratta, del resto, di un aspetto

in altri termini già stigmatizzato da Spaventa). Le considerazioni labrioliane, che affrontano un motivo sul quale torneremo in conclusione, sono assai esplicite in merito e si svolgono a partire dalla ripresa di un argomento engelsiano: Quando Engels nell’Antidühring usava della parola metafisica in senso peggiorativo, intendeva appunto di riferirsi a quelle maniere di pensare, ossia di concepire, di inferire, di esporre, che son l’opposto della considerazione genetica, e quindi […] dialettica delle cose. Tali maniere son contrassegnate da questi due caratteri: in prima dal fissare, come per sé stanti, e del tutto indipendenti l’uno dall’altro, quei termini del pensiero, i quali in verità son termini solo in quanto rappresentano i punto di correlazione e di transizione di un processo; e, in secondo luogo, nel considerare quei termini stessi del pensiero come un presupposto, un’anticipazione, o anzi un […] prototipo della povera e parvente realtà empirica. Nel primo rispetto, per es., causa e effetto, mezzo e fine, ragion d’essere e realtà, e così via, si presentano allo spirito soltanto come termini distinti, e quindi diversi, e alcune volte opposti; quasiché si desser cose, che siano per sé esclusivamente effetti, e così di seguito. Nel secondo caso pare come se il mondo dell’esperienza ci si andasse degradando e scindendo innanzi agli occhi in sostanza ed accidenti, in cosa in sé e fenomeno, in possibilità e in ovvia esistenza. Tutta cotesta critica si risolve nell’esigenza realistica di considerare i termini del pensiero, non come cose e entità fisse, ma come funzioni154.

Una simile evidenziazione dei «termini del pensiero» come termini funzionali giustificati ed inscritti nello svolgimento dialettico-genetico del processo storicoreale risponde all’esigenza di scardinare la vetusta egemonia metafisico-‘sostanzialista’. Esigenza che si connette direttamente alla compenetrazione pensiero-lavoro: Sperimentando – osserva Labriola – noi diventiamo collaboratori della natura; – noi produciamo ad arte ciò che la natura da per sé produce. Esperimentando ad arte, le cose cessan di essere per noi meri obietti rigidi della visione perché si vanno, anzi, generando sotto la nostra guida; e il pensiero cessa dall’essere un presupposto, o un’anticipazione paradigmatica delle cose, anzi diventa concreto, perché cresce con le cose, a intelligenza delle quali viene progressivamente concrescendo155.

Inquadrare lo statuto pratico-costruttivo del reale e del nostro rapporto con esso non implica, come nel caso di Sorel, la rottura della mediazione dialetticostorica, ma, anzi, ne richiede la compiuta appropriazione, – la quale consente di scoprirne le determinazioni astratto-formali, in cui, anzitutto, convergono le forniture concettuali del pensiero non più ipostatizzato in quanto presupposto; di qui scorrendo al livello del concreto. Torna, così, nuovamente, il nodo del

‘rifare’, della ricostruzione logico-storica dell’oggetto ‘nel pensiero’, collegato alla pregnanza della prassi ed all’istanza di una critica radicale alle erronee pretese del soggettivismo veicolata nel secondo saggio con il significativo motivo della “autocritica delle cose stesse”. L’obiettivo della ricomposizione tra logica e storia appalesa, adesso, definitivamente, a suo sostrato la cognizione hegeliana del dialettismo dell’automovimento del reale; ponendo, vieppiù, ‘oltre Hegel’, l’idea della storia come storia degli intellettuali quale perspicuo corrispondente egemonico del pericolo della sconnessione tra forme e concetti. Consta, in ciò, del resto, anche il fulcro del livello più intimo del confronto con Croce. Stando, al momento, a quello con Sorel, quanto appena detto dimostra, anzitutto, la inconciliabilità della strategia di sostituzione del fattore mobilitante delle ‘correlazioni immaginarie’ alla ‘realtà’ sociale rispetto a quella della ‘autocritica’ propria della dimensione storico-sociale, nella cui immanenza ha a esplicarsi l’«inversione pratica del problema della conoscibilità», – con tutto quel che ciò che vuol dire in relazione alla individuazione marxiana del prius epistemico-analitico del presente storico stesso. Dippiù: tale ‘autocritica’ appare implicare quella riconnessione masse-sapere che è del tutto estranea all’ottica soreliana, la quale sembra proiettare sul ricorso antintellettualistico ad una prassi completamente dissociata ed appresa solo come ‘spontaneamente’ vivificabile il carattere di ‘separatezza’ accordato al ruolo dei gruppi intellettuali nella loro tradizionale autorappresentazione congiunta agli equilibri ‘classici’, intrinsecamente volti alla ‘armonizzazione’ della ‘società liberale’. Con ciò, torna in questione, tra l’altro, il raffronto fra l’accezione allargata di terreno artificiale e quella ristretta di ambiente artificiale, e, soprattutto, torna in giuoco il significato profondo delle basamenta concettuali della prima delle due nozioni. Nel Discorrendo, viene individuata la prospettiva di Marx come luogo della fusione e della reciproca traduzione di politica, teoria della storia ed elaborazione filosofico-categoriale156 d’insieme: La sua politica – scrive Labriola in un passo dirimente – fu come la pratica del suo materialismo storico, e la sua filosofia fu come inerente alla sua critica dell’economia, la quale fu il suo modo di trattare la storia.

La posizione marxiana è, dunque, considerata primariamente come luogo di coincidenza tra filosofia e autocritica delle cose stesse, cosicché la ‘scoperta’ della critica (distinta e opposta dal ‘criticismo’) consente di costruire la ‘filosofia’ in quanto funzionale al procedere del conseguimento scientifico. Una volta precisata la compiuta confluenza di questi livelli reciprocantisi, la saldatura

tra pensiero e movimento delle cose, e la «integrazione della sua dottrina»157 ne Il Capitale, il Cassinate punta proprio ad enfatizzare come la perfetta immedesimazione della filosofia, ossia del pensiero criticamente consapevole, con la materia del saputo, ossia la completa eliminazione del divario tradizionale tra scienza e filosofia, è una tendenza del nostro tempo: tendenza, che il più delle volte rimane un semplice desideratum […] La medesima tendenza giustifica quella dicitura di semplice filosofia scientifica, che altrimenti sarebbe d’un risibile barocchismo. Se cotesta espressione può mai avere un riscontro pratico di evidenza probativa, gli è proprio nel materialismo storico, come fu nella mente e negli scritti di Marx. Ivi la filosofia è tanto nella cosa stessa, e in essa e con essa rifusa, che il lettore di quegli scritti ne prova l’effetto, come se il filosofare non sia se non la funzione stessa del procedere scientificamente158.

Abbiamo dinnanzi agli occhi di una osservazione che deve essere accolta in tutta la sua rivelatrice incidenza e non in direzione puramente ed unicamente epistemologica. Come dovrebbe risultare dalle osservazioni precedentemente svolte, il piano di ricomposizione che la filosofia (e/o la peculiare declinazione della nozione di ‘metafisica’ discussa da Sorel nella Préface) individua non si costituisce mercé la scepsi dalla costellazione dei saperi speciali dovuta al pluralizzarsi della razionalità scientifica, ma si inserisce e si tende in essa ‘aprendo’ ad un perspicuo compito teorico, – ‘insaturabile’, mai chiuso a fronte della ‘intensificabilità’ della sua intelaiatura categoriale, spesso ‘obliata’, a parere del nostro, in molti dei punti di vista coinvolti nel dibattito sulla crisi di questo –, del marxismo. Questo, dunque, corrisponde all’oltrepassamento della discriminazione rigida tra ‘filosofia’ e articolazione del campo epistemico, dando luogo all’abbandono della accezione ordinaria della prima ed accostandola all’intreccio tra la regionalizzazione dei ruoli cognitivi, appunto, e l’ampliarsi dei modi della socializzazione, sì da disporre su tale linea l’“autocritica delle cose stesse” connessa al dinamismo delle forme. Per suo mezzo è possibile conseguirne la ‘legge di movimento’, coincidente con il relativo snodarsi dialettico-mediativo della «società tutta intera»159 – per ricorrere ad una espressione del primo saggio – ove si delineano, senza sottendere alcun finalismo, le spinte reali verso la riunificazione solidale del genere umano. Stando in siffatta maniera le cose, l’immedesimazione tra pensiero consapevole e materia del saputo richiama direttamente al ricongiungimento di forme e concetti ed alla esigenza di annodare, vieppiù, criticità e processo.

14. Il nesso teoria-movimento e la critica labrioliana al giacobinismo A sostrato di ciò vi è il conseguimento della non estraniabilità del sapere critico, nelle sue molteplici declinazioni, di contro alla inficiante fissazione del suo carattere di ‘separatezza’. Conseguimento cifrante l’intiero arco del presente storico, in maniera da modulare il sinolo politico teoria-movimento all’insegna della effettiva collocazione, a livello di massa, della organizzazione egemonica e delle inerenti, variegate misure di socializzazione. Per quanto ci si possa interrogare sulla fungibilità effettiva del motivo dell’unità filosofia-scienza, esso segnala come Labriola colga la necessità di affrontare il nodo della unità interna del pensiero marxiano come affermazione della compenetrazione tra il piano filosofico (che risulta, così, emancipato dall’immagine ‘umanistica’ a più riprese attribuitagli) e quello del movimento obiettivo-reale. Ne viene che, nello spazio dilatato del Politico, permeante ogni segmento speciale, la suddetta immedesimazione, attesa in tutte le implicazioni del suo portato generale, conduce ad acquisire il carattere inusitatamente di massa ed organizzato del movimento storico reale e delle soluzioni di socializzazione del sapere, definendo la ‘posta in gioco’ della riarticolazione del nesso ‘governanti’-‘governati’, ‘dirigenti’-‘diretti’. Ciò implica che il situarsi dei rapporti di forza ed i modi di affermazione dell’egemonia si collochino all’altezza di un processo di massa ponentesi, ormai, ben al di là di ogni riflesso del giacobismo, ed, anzi, invocantene una critica senza residui, al contrario, per esempio, di quanto fatto da Sorel. Del resto, una esigenza di tale tipo appariva già fermata ‘a chiare lettere’ nel primo saggio, laddove veniva enfatizzata – come si è visto – la «educazione democratica» quale ingrediente massimamente fondamentale per la costituzione del movimento operario in soggetto politico generale; donde l’imprescindibile rottura con l’immagine della ‘presa del potere’ e della dittatura proletaria in quanto «improvvisata occupazione di un Hôtel de Ville, per imporre ad un intero popolo il volere e le idee di una minoranza»160. Vi è da dire che il superamento del paradigma giacobino è congruente, ed è anzi derivato dalla percezione della centralità del fattore della riproduzione sociale che Labriola individua al cuore delle forniture analitiche della ‘critica dell’economia politica’ marxiana, – su cui già ci siamo soffermati e che torneremo ad approfondire distesamente –, in quanto del tutto vincolata alla «complicazione del mondo moderno», per dirla ancora con In memoria (il motivo si ritrova esplicitato con chiarezza, tra l’altro, – come vedremo oltre – anche nella nota lettera a Lagardelle su Bernstein), ed alla dilatazione dei confini

del Politico. Di qui sorge il problema di svellere i gruppi intellettuali dalla loro condizione di ‘separatezza’, organica ad un certo quadro di rapporti di dominio e costituente uno degli assi portanti della classica ‘società liberale’, ridislocandoli a livello di massa. È sul presente fronte che si ‘giuoca la partita’ della interdipendenza di espansività dei marxismo, – atteso non in quanto ‘bruciato’ nella sua sostanza categoriale, come vuole Sorel, ma in quanto fondamento della connessione (e riconnessione, in alcuni casi), appunto, socialismo – intelligenza –, e capacità egemonica del movimento. Ciò emerge con chiarezza nella I Lettera, laddove il nostro prende spunto da un’osservazione engelsiana del ’94 entro la Prefazione al III volume de Il Capitale: «Non è […] da meravigliare che Engels […] scrivesse cosi: “Come nel secolo XVI, così nel nostro tempo tanto agitato, non vi ha nel campo degl’interessi pubblici dei puri teorici se non dal lato della reazione”. Queste parole, per quanto chiare altrettanto gravi, basterebbero da sole a turar la bocca a quelli che vanno sbraitando, esser già tutta l’intelligenza passata dalla nostra parte […] Il vero è precisamente il contrario: nelle nostre file c’è da per tutto scarsezza di forze intellettuali, per quanto gli operai genuini, per ispiegabile sospetto, spesso strepitino qua e là contro i parleurs e lettrés del partito»161. Labriola ha, dunque, una netta consapevolezza della centralità del nesso teoria-movimento in quanto implicante un’opera di lunga lena di riconfigurazione egemonica dei gruppi intellettuali di fronte alla crisi organica delle classi dirigenti liberali-nazionali. Parliamo di un processo di mobilitazione di vasto respiro, e non pregiudicabile nei suoi esiti, annodantesi al problema della espansività del marxismo, ossia al problema del suo portato di ricomposizione critica autonoma, preso nel reticolo morfologico-strutturale degli specialismi. Torneremo su questo aspetto qualificando nuovamente la tematica sintetizzabile nella formula monismo + specialismo. È solo all’altezza del suo contenuto, cioè dell’insistenza sul fattore della centralità dello specialismo e della sua costituzione regionale in grado di evitare che il marxismo – in quanto posizione generale la quale «ha rivoluzionato la concezione della storia» – s’insterilisca in metafisica di matrice naturalistica, ovvero in un genere di Weltaschauung a vocazione ‘onnicomprensiva’ ed incapace di adempiere in senso non anacronistico ad una precisa istanza di ricomposizione, che il socialismo può affrontare la sfida della’egemonia civile’, per dirla con Gramsci, e di preservare la capacità espansiva, appunto, dell’apparato teorico concernente. Ciò è reso chiaro pure nella lettera dell’8 ottobre ’98 a Kautsky, ove vengono ripresi molti motivi toccati nel precedente scambio epistolare162, culminanti nell’esplicativo interrogativo che segue:

In Germania cresce in modo sorprendente la letteratura sociale, sociologica, economica e storico-economica. Che molto di ciò sia rivolto contro il socialismo, è ben noto. Com’è che la Socialdemocrazia tedesca non è riuscita a tirare dalla sua parte nuove forze intellettuali […] per condurre la polemica, se non altro, con le conoscenze specifiche e con l’abilità […] necessaria?

Per Labriola il legame della crisi della stabilizzazione liberale con la costituzione dei soggetti di massa che ridefiniscono la dimensione morfologica del politico va afferito direttamente ad una nuova finalizzazione dei gruppi intellettuali e del loro apparto specialistico-cognitivo. Ciò acclara ancor più la necessità di saldare la dimensione dello specialismo al campo della ricomposizione, inscrivendo l’organizzazione della prima entro il secondo, – ricongiungibile all’accezione di un ‘certo’ monismo –, ed in esso giustificando le differenziazioni recate dal processo reale. Tale esigenza viene elusa dalle posizioni, come quella di Plechanov in risposta a Bernstein che abbiamo considerato, enfatizzanti soltanto il lato del ‘monismo’ medesimo, ed inclini a considerare il marxismo in qualità di una Weltaushauung monocroma. Secondo il nostro autore si tratta, invece, di garantire un preciso statuto obiettivo e criticoscientifico al marxismo per conquistare un grado di adeguata efficacia egemonica coerente con il livello attuale della modernizzazione, richiamante ad un perspicuo confronto con l’intiero arco delle acquisizioni epistemiche ‘esterne’ alla impalcatura categoriale portante del movimento operaio. Confronto indispensabile per inverare la capacità espansiva ed il tratto di autonomia del marxismo (in ciò consta uno degli elementi di convergenza con l’ottica, pur cifrata dal nesso con il kantismo, sviluppata, per esempio, da Max Adler ai principii del novecento163). In chiave generale, entro siffatta prospettiva raggiungono pieno superamento le due già rammentante stigmatizzazioni del realismo pluralistico herbartiano in quanto «specificazione dei metodi» e dell’idealismo hegeliano in quanto, assai semplicisticamente ed erroneamente, «anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica», – come leggiamo nel citato brano del discorso L’Università e la libertà della scienza del ’96 ripreso nella missiva a Turati dell’anno successivo, incorporata, a sua volta, nel Discorrendo –. Diviene, quindi, praticabile riconquistare, crediamo, nell’incontro fra momento dialettico e momento genetico anche uno dei significati profondi della stessa prospettiva hegeliana, cioè quello della corrispondenza della struttura speciale della dimensione sociale alla complessità del tempo storico, capace di fare ‘da battistrada’ alla formulazione di quell’opzione di monismo critico-formale di cui abbiamo appena riscontrato la piena ‘reattività’ sul fronte della cognizione del presente e dell’orientamento

politico ad esso relativo. 1

Infra, pp. 1356-1357 (corsivo nostro). Cfr. in proposito – malgrado alcuni elementi di distinzione da parte nostra – il fondamentale saggio di B. DE GIOVANNI, Il criticismo di Marx, raccolto in Filosofia e politica. Scritti dedicati a C. Luporini, La 2

Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 179-202. Su questo tema, comunque, torneremo ampiamente più oltre. 3 Infra, p. 1308 (corsivo nostro). 4

Infra, p. 1311. Cfr. in proposito le importanti osservazioni di G. VACCA in Intellettuali e marxismo cit., p. 43. 6 Su questo tema marxiano restano valide, ci pare, le considerazioni presenti in L. ALTHUSSER – E. BALIBAR, Leggere“Il Capitale”, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 165-172. 7 Cfr. B. DE GIOVANNI, Labriola e il metodo ‘critico’ cit., p. 95. 8 Cfr. in proposito, benché con accentuazioni differenti dalla nostre, M. CORSI, Antonio Labriola e l’interpretazione della storia, Morano, Napoli 1963, pp. 81-82. Sulla critica labrioliana al criterio di analisi fattoriale, specie per quanto attiene alla questione del rapporto fattori-struttura (meno rispetto a quella del 5

nesso tra ‘idealizzazione’ e ‘genesi fattoriale’), restano di grande interesse le osservazioni di K. KOSÌK in Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965, pp. 123-131. Converge, all’interno della ricerca marxista, sulla critica alla ‘teoria dei fattori’ ed alla riduzione ad essa del marxismo stesso, con argomenti rilevanti, K. KORSCH, specie in Karl Marx, Laterza, Bari 1969. Cfr. in proposito G. VACCA, Lukàcs o Korsch?, De Donato, Bari 1974, pp. 45-101; ma ci permettiamo di rinviare anche alle considerazioni svolte nel nostro Riproduzione sociale e teoria del valore, in «Critica marxista», 5, 2009, pp. 67-68. 9 Infra, p. 1309 (corsivo nostro). 10

Infra, pp. 1313-1314. Cfr. in proposito G. MARRAMAO, Marxismo e revisionismo in Italia. Dalla “Critica sociale” al

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dibattito sul leninismo, De Donato, Bari 1971, pp. 68-70. 12 Infra, pp. 1287-1288 (corsivo nostro). 13

Cfr. B. DE GIOVANNI, Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di Antonio Labriola cit., p. 45. Su questo tema cfr. A. SCHMIDT, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari 1969; ma non

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possiamo dimenticare, benché ci paiano sviluppare una linea teorica distante dalla nostra, i contributi di N. BADALONI, Marxismo come storicismo, Feltrinelli, Milano 1962; Per il comunismo. Questioni di teoria, Einaudi, Torino 1972; Teoria politica delle classi e base materiale del comunismo, in «Critica marxista», 34, 1976, pp. 3-28. 15 K. MARX, Il Capitale, I, p. 67. 16

Sulla matrice illuministica della nozione di ‘progresso’ cfr., fra gli altri, L. CALABI, “Progrés” e “Progress”, “Perfection” e “Improvement”. Sul lessico di alcuni autori dell’Illuminismo in Francia e in Gran Bretagna, in «Società e storia», 1993, I, pp. 279-307. 17 In merito a tale nozione hegeliana la lettura cui ci sentiamo più vicini è quella espressa da M. MONTANARI in La libertà e il tempo. Osservazioni sulla democrazia tra Marx e Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 27-31; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro testo – che oggi, però, riformuleremmo in molti punti – Dalla ‘Erinnerung’ all’‘universale concreto’. Note su ‘primato della mediazione’ e movimento del finito in Hegel, pubblicato in due parti in «Filosofia oggi», IV, 2009, pp. 343369 e I, 2010, pp. 99-123.

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G. CACCIATORE, Labriola nello storicismo, raccolto in Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia cit., p. 85. 19 Suggestioni su questi argomenti ci sono venute dalle osservazioni svolte da N. BADALONI in Il marxismo di Gramsci cit., pp. 23-28; benché ci paia che in tale opera venga eccessivamente sottovalutato, anche in proposito, il nesso strategico tra momento dialettico e momento genetico. 20 Sulla figura teorico-politica di Georges Sorel cfr., soprattutto, M. MAGGI, La formazione dell’egemonia in Francia. L’ideologia sociale nella Terza Repubblica tra Sorel e Durkheim, De Donato, Bari 1972 e M. GERVASONI, Georges Sorel. Una biografia intellettuale, Unicopli, Milano 1997; ma cfr. anche G. CAVALLIARI, Sorel critico del marxismo, «Critica marxista», 2, 1971; ID., Le idee giuridiche e la trasformazione della società democratico-borghese, raccolto in Georges Sorel. Studi e ricerche, a cura di V.I. COMPARATO, Olschki, Firenze, pp. 37-92 (sono, tuttavia, da guardare tutti i testi compresi nel volume), e N. BADALONI, Le riflessioni di Sorel sulla scienza, «Dimensioni», 1, 1976, pp. 22-31. Una breve sintesi di tale figura è stata fornita, inoltre, da P.P. OTTONELLO in Irrazionalismo e scetticismo in Grande Antologia filosofica, a cura di M. F. SCIACCA, XXIV, Marzorati, Milano 1976, pp. 620-622. 21 Con le parole dello stesso filosofo francese, la questione è sintetizzabile nella domanda se il marxismo sia in grado di «rovesciare […] tutto il sistema dell’ideologia tradizionale» (Préface a A. LABRIOLA, Essai sur la conception matérialiste de l’histoire, Girard G. Bière, Paris, 1897, p. 3); e ad essa il Cassinate farà poi riferimento in Discorrendo. 22

In tale testo la ‘metafisica’ viene qualificata come «Dottrina generale, o della Conoscenza, o delle Forme fondamentali del Pensiero» (infra, p. 1435). Sulla nozione di ‘metafisica’ in Sorel cfr., fra gli altri, M. MAGGI, La formazione dell’egemonia in Francia cit., p. 158. 23

G. SOREL, Préface cit., p. 10. Il riferimento va, soprattutto, alle tesi espresse nelle Réflexions sur la puissance motrice du feu et sur le machines propres à développer cette puissance (Paris, 1824). 25 Tale principio viene esplicato dal modello del funzionamento della macchina termica attraverso lo 24

scambio di calore con almeno due sorgenti a temperatura diversa, ove ha luogo l’assorbimento della più calda e la cessione parziale della più fredda. Cfr. sul ‘possibile’ rapporto Hegel-Carnot R. BODEI, Dialettica e controllo dei mutamenti sociali in Hegel in ID., F. CASSANO, Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione, De Donato, Bari 1977, pp. 54-55. 26 Sulla nozione di ‘lavoro’ in Hegel cfr. R. RACINARO, Staatsoekonomie e dimensione della politica in Hegel, raccolto in Hegel e l’economia politica, a cura di S. VECA, Mazzotta, Milano 1975, pp. 79-126; e M. MONTANARI, Libertà soggettiva e mondo moderno nella filosofia hegeliana del diritto pubblico cit., pp. 72-77. 27 Su di essi, editi in Italia nel 1980 a cura di L. CALABI, cfr. fra gli altri, i bei lavori di N. BADALONI, Dialettica del capitale, Editori Riuniti, Roma 1980 e Nel laboratorio del “Capitale”: produzione e mercato, in «Critica marxista», 2-3, 1983, pp. 17-50; nonché il contributo di F. FISTETTI, Dagli inediti di Marx una proposta polemica, in «Critica marxista», 6, 1980, pp. 87-96. 28 Sulla generale posizione marxiana in merito alla innovazione industriale-macchinale cfr. A. De PALMA, Le macchine e l’industria da Smith a Marx, Einaudi, Torino 1971; e A. A. KUSIN, Marx e la tecnica, Mazzotta, Milano 1975. 29 Cfr. su questi temi, fra gli altri, R. BODEI, Risorse, macchine, emancipazione in Marx (1857-1867), in «Teoria», 1, 1983, pp. 13-32.

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G. SOREL, L’ancienne et la nouvelle métaphysique, in « Ere nouvelle », II, 1894 ; tr. it. in ID., Scritti politici e filosofici, a cura di G. CAVALLARI, Einaudi, Torino 1975, p. 174. 31 Ibidem, p. 107. 32

Ibidem, p. 135. Ibidem, p. 136. 34 Il motivo, pronunciatamente 33

pluriverso, dell’‘inconoscibile’ va riferito anche in accezione determinata, alle «sciocchezze» costellanti le argomentazioni di Loria, ed alla stigmatizzante critica che Croce ne sviluppò nel notevole saggio del 1897 Le teorie storiche del prof. Loria (poi raccolto in Materialismo storico ed economia marxista, Milano–Palermo 1900). 35 G. SOREL, L’ancienne et la nouvelle métaphysique cit., p. 178. 36

Sul nesso Sorel-Taine, cfr. M. GERVASONI, Georges Sorel cit., pp. 21-110. Cfr. in proposito N. BADALONI, Il marxismo di Gramsci cit., pp. 53-73. 38 Cfr. in proposito B. DE GIOVANNI, La teoria politica delle classi nel “Capitale”, De Donato, Bari 37

1976, p. 66. 39 Infra, p. 1287. 40 41

Cfr. in proposito M. MONTANARI in La libertà e il tempo cit., pp. 16-19. Benché, il nostro autore ne tenti un parziale, indiretto sondaggio anche in relazione ai moti interni al

cristianesimo medievale (in particolare verso la figura di Fra Dolcino, riprendendo indirettamente alcuni cenni presenti in In memoria). 42

Per le osservazioni che abbiamo svolto siamo davvero assai debitori a R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 212-219. 43 Infra, p. 1330 (corsivo nostro) 44 Cfr. in proposito, esplicativamente, B. SPAVENTA, Studi sull’etica hegeliana cit.; ma anche i testi raccolti nell’antologia curata dal VACCA (con le relative introduzioni di questi) Unificazione nazionale ed egemonia culturale cit., pp. 15-28 a 269-286. Del suddetto testo spaventiano Labriola ebbe una conoscenza diretta, avendone corretto le bozze, come rammentato nella celebre lettera a Croce del gennaio 1904, che è forse l’ultimo scritto del nostro, ove, in polemica con il giovane Gentile, il Cassinate vi asseriva ‘a chiare lettere’ la netta autonomia rispetto alla stessa ‘scuola’ spaventiana, culminata, malgrado la forte, ed ampiamente esaminata, continuità di suggestioni, nella fase di interlocuzione con Herbart: «mentre nel 1869 io rivedevo le bozze di stampa di quello scritto di Spaventa su L’Etica hegeliana, che è un sunto […] della filosofia del diritto di Hegel […] Io ero già fuori di quell’ordine di idee e mi preparavo a comporre quel lavoro su Socrate cha apparve poi nel 1871. Ora» – si interroga con chiaro fine Labriola – «se da D. Bertrando […] era tollerato che io suo amico e familiare per circa 24 anni non fossi suo seguace, perché proprio questo giovincello presuntuoso si deve dar la pena lui di pigliarsela con gli infedeli scolari di Spaventa, i quali in verità non ci sono mai stati?» (A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 5 gennaio 1904, raccolta in Carteggio, IV cit., p. 333). 45

Il riferimento va al seguente brano in cui si cerca di fornire una sintesi di insieme del percorso di affermazione del ruolo della borghesia in ordine, anzitutto, al lavoro ed al sapere accumulato: «Che è la Rinascenza, se non il ricongiungimento dell’iniziale moto della borghesia con la tradizione del sapere antico, ridiventato usabile […]? Che cos’è tutto l’accelerato moto del sapere scientifico, dal secolo decimosettimo in qua, se non la serie degli atti compiuti dall’intelletto scaltrito dall’esperienza, per assicurare al lavoro umano […] il dominio su le condizioni e forze naturali […] L’epoca borghese è l’epoca delle menti dispiegate (Vico)» (infra, p. 1348). In rapporto al complesso nesso Labriola-Vico, – la cui connotazione ermeneutica verrà rimodulata ed, in parte, forviata, magari ricadendo sul fronte, da entrambi indebitamente stigmatizzato rispetto al grande napoletano, della contemplazione della immodificabilità

della struttura formale riguardo all’effettualità storica, nella monografia crociana La filosofia di G.B. Vico, Laterza, Bari 1911 (cfr. in proposito le osservazioni, che pure non possiamo integralmente condividere, di N. BADALONI in Introduzione a Vico, Laterza, Bari-Roma 1984, pp. 163-165) –, è da notarsi che proprio l’anno prima, – ovvero nell’anno dell’uscita di In memoria, in cui compaiono alcuni già accennati riferimenti in proposito –, Labriola ebbe a scrivere a Croce, il 20 maggio, della propria intenzione di stendere uno studio titolato “Da Vico a Morgan” (Carteggio, III cit., p. 563). 46 Sul tema dello Stato in Labriola cfr. anche il saggio, che pure segna una chiave interpretativa assai diversa dalla nostra, di L. PUNZO, Stato e diritto nei “Saggi” di Labriola, «Critica marxista», 1, 2005, pp. 60-70. 47 Infra, p. 1435. 48

Cfr. G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 43-44. Cfr. R RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 219-220. 50 Infra, pp. 1308-1309. Il riferimento engelsiano attiene al passo del Feuerbach in cui, insieme 49

all’evoluzione darwiniana e alla scoperta della cellula, viene indicata la centralità della scoperta «della trasformazione dell’energia, che ci ha dimostrato come tutte le cosiddette forze attive nella natura inorganica, la forma meccanica e il suo complemento, la cosiddetta energia potenziale, il calore, la radiazione (luce e rispettivamente radiazione calorifera), l’elettricità, il magnetismo, l’energia chimica, sono manifestazioni diverse del movimento universale, le quali, quando sono in determinate proposizioni, si trasformano l’una nell’altra, in modo che, quando scompare una quantità dell’una, ricompare una determinata qualità dell’altra, e tutto il movimento della natura si riduce a questo processo ininterrotto di trasformazione di una forma nell’altra». Essa concorre a esibire «non soltanto il nesso che intercorre tra i processi della natura nei singoli campi, ma anche il nesso che unisce i diversi campi fra di loro» (F. ENGELS, L. Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 54), formandone un quadro sinottico. La sicuramente discutibile metafora engelsiana si rende riconnettibile, primariamente, al problema della assumibilità del duplice statuto della unità del mondo di prius ontico e di risultato appropriabile concernente i diversi tipi di energia e la loro convertibilità. Considerando, all’interno della Dialettica della natura, l’ipotesi di Helmholtz di una principiativa riserva di forza in forma di calore, Engels coglierà l’occasione per contrastare l’idea della diminuzione dell’energia solare in quanto coincidente con quella meccanica, ponendo, altresì, la questione della riconversione di energia cui non corrisponda la diminuzione complessiva di forza attrattiva. Si tratta di una problematica coincidente, in definitiva, con quella della identificazione del ruolo della ‘forza’ entro la ‘forma di movimento’ ove è da ricomprendersi anche il compito della ‘energia’. Essa introduce la definizione della suddetta ‘forma’ in cui vengono ad essere comprese due serie di essa – forza gravitazionale ed energia calorica – insieme contrapposte ed inducenti diverse modulazioni di equilibrio. Tale acquisizione, su cui Engels fa leva, pertiene al nodo della duplicità di misura del movimento meccanico e dell’energia potenziale (più complesso è il caso della elettricità). Una simile tematizzazione non può essere risolta entro i confini dell’organicismo romantico, e traguarda, altresì, il superamento delle usurate categorie del meccanicismo, di cui Maxwell aveva avvertito la crisi. A pernio della tematizzazione è posta la sostanziale risemantizzazione della ‘forma di movimento’ medesima attraverso la sua saldatura alla pretta ‘trasformazione’. Ciò qualifica un’operazione ideale analoga ai modelli logici de Il Capitale in ordine, appunto (ma anche con le necessarie discriminazioni, e benché tra l’uno e l’altro piano si possa riscontrare un cospicuo scarto di spessore concettuale), alla ‘trasformazione delle forme’ (definenti, a loro volta, una apposita esplicazione paradigmatica della realtà, – come dimostrato dalla apparecchiatura degli ‘schemi di produzione e di riproduzione’ nel II volume, incomprimibile all’ambito della ‘teoria dell’equilibrio’ o a quella del piano nella versione ‘ordinaria’–). Infatti, codesta operazione concerne il principio del collegamento fra energia della trasformazione ed idea della sua conservazione. Tale principio è chiamato, poi, a tradursi effettivamente nella delineazione, in virtù delle costruzioni ideali-sperimentali della prassi scientifica, di un quadro di ulteriori mediazioni attraverso cui guadagnare appositi strumenti di

rappresentazione della realtà. Cfr. N. BADALONI, Sulla dialettica della natura in Engels e sulla attualità di una dialettica materialistica, in «Annali della Fondazione G.G. Feltrinelli», XVII, 1976, pp. 24-26. 51 Per Labriola si tratta, per dirla con le sue parole, di rendere «possibile la unificazione dei processi storici» (infra, p. 1307). 52 Come la accezione labrioliana della previsione colga il cuore dell’impostazione marxiana di contro ai suoi forviamenti deterministici, che si prolungheranno con l’influenza positivistica proseguita dopo la su morte, è stato colto acutamente da P. Togliatti già nell’articolo giovanile La nostra ideologia del 1925 («dopo di Antonio Labriola la via normale per giungere al marxismo fu tra noi quella del cosiddetto positivismo scientifico, nelle sue forme più eterogenee, dalla metafisica di Augusto Comte alla… criminologia di Enrico Ferri. Come risultato si ebbe una curiosa degenerazione del materialismo storico e di una dottrina metafisica annunciatrice di un divenire sociale tutto prestabilito nelle sue forme […] Ciò che per Carlo Marx era previsione morfologica dello sviluppo sociale, diventò in questo modo fatalismo non ragionato e cieco», Opere, a cura di E. RAGIONIERI, I, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 648). Cfr. in proposito R. RACINARO, La critica di Togliatti allo storicismo di Croce, raccolto in Togliatti e il mezzogiorno – Atti del Convegno, I, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 263. 53 Cfr. G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., p. 37. 54

Infra, pp. 1320-1321. Su questo aspetto in Marx (e sulla sua matrice hegeliana) cfr., fra gli altri, L. CALABI, In margine al problema della trasformazione cit., p.. 134-135. 56 Infra, p. 1301. 57 Sta, appunto, nella percezione di tale aspetto l’‘antidoto’ alla forviante interpretazione, a più riprese 55

proposta, della posizione di Marx in chiave naturalistica (cfr. come esempio paradigmatico di tale atteggiamento euristico il volume di M. LIPPI, Marx. Il valore come costo reale, Etas, 1980), formulata, in riferimento, anzitutto, ai celebri contenuti della missiva a Kugelmann del 16 luglio 1868. 58 Cfr. su questi temi di vastissima portata, a modo di indicazione, le analisi di B. DE GIOVANNI – che, però, non condividiamo integralmente – in Marx e lo Stato, in «Democrazia e diritto», 1, 1973, e di R. RACINARO in Marx e la religione; alcune ipotesi di lavoro, in «Paradigmi», 3, 1983, poi raccolto in ID., Il futuro della memoria cit, p. 91-112. 59

Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, II, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 327. (Corsivo nostro). 60 Ibidem, pp. 176-177. 61

Ibidem, p. 308. Ibidem, p. 307. 63 Ibidem, p. 451. 64 Ibidem, pp. 290-291. Per l’argomentazione ‘parallela’ qui svolta in ordine ad alcuni architravi teorici marxiani siamo ampiamente debitori ai conseguimenti analitici esplicati da B. DE GIOVANNI in La teoria politica delle classi nel “Capitale” cit. pp. 170-173). 65 Appaiono assai esplicative, in proposito, le osservazioni che seguono: «Il prodotto annuo comprende 62

tanto le parti del prodotto sociale che sostituiscono il capitale, la (produzione, rispettivamente) riproduzione sociale, quanto le parti che entrano nel fondo di consumo […] cioè tanto il consumo individuale quanto quello produttivo […] Il processo complessivo di riproduzione include qui tanto il processo di consumo mediato dalla circolazione, quanto il processo di riproduzione del capitale stesso», K. MARX, Il Capitale, II cit., pp. 411-412.

66

Cfr. ID., Teorie sul plusvalore, II, Editori Riuniti, Roma, Ibidem. Per le considerazionei svolte siamo davvero assai debitori nei riguardi di B. DE GIOVANNI, La teoria politica della classi nel “Capitale” cit., pp. 170-236. 68 Infra, p. 1329. 69 Infra, pp. 1329-1330 (corsivo nostro). 70 Cfr. in proposito B. DE GIOVANNI, La teoria della classi nel “Capitale” cit., pp. 324-325. 71 Ci pare che sia nella presente accezione che vada letta la cognizione secondo cui Marx propugna 67

l’idea per la quale nell’«antitesi è la causa precipua del progresso» (infra, p. 1309). 72 L’argomento mostra – così come, sulla stessa linea, altre accentuazioni –, un elemento di continuità genetica nei riguardi dei contenuti dell’analitica e della gnoseologia dell’egemonia proposta da Gramsci. Rispetto ad alcune tematiche qui trattate, proprio in chiave gramsciana, le indicazioni di DE GIOVANNI in La teoria politica delle classi nel ‘Capitale’ vanno, ci pare, integrate con quelle, ancora valide, per molti aspetti, oggi (anche in ordine all’apertura di scenario, affacciatasi quando esse furono espresse, concernente il tema della ‘crisi fiscale dello Stato’ e del sistema di welfare), formulate, fra gli altri, da G. VACCA nella rilevante introduzione Il concetto di ‘crisi dello Stato’ alla edizione italiana dell’antologia, curata in Francia da N. POULANTZAS, La crisi dello Stato, De Donato, Bari 1976, pp. XXV-XXXII. 73

Con ciò vogliamo intendere che, ad un primario livello, coerente con l’impostazione hegeliana richiamata più sopra, la forma non interessa nessun contenuto al di fuori di se stessa. 74 Cfr. in merito ad alcuni aspetti accennati B. DE GIOVANNI, Marx e lo Stato cit.. 75 Sulla centralità di questo tema in Marx alcuni stimolanti ed innovativi spunti sono presenti nella Prefazione di M. MONTANARI e C. BAZZOCCHI, Libertà e destino, Aracne, Roma 2009, pp. 16-17. 76 Infra, p. 1303. 77 Infra, pp. 1330-1331. 78 Infra, p. 1333. 79 Infra, p. 1368 (corsivo nostro). 80 Questo aspetto è stato in qualche modo colto da Togliatti portando l’attenzione su di un brano assai indicativo, ove, tra l’altro, il Cassinate afferma pure: «Per le fortunate contingenze della mia vita, io avevo fatta la mia educazione sotto l’influsso diretto e genuino dei due grandi sistemi […] di Herbart e di Hegel, nei quali era arrivata all’estremo delle conseguenze l’antitesi tra realismo e idealismo, tra pluralismo e monismo, tra psicologia scientifica e fenomenologia dello spirito, tra specificazione dei metodi ed anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica» (infra, p. 1458, corsivo nostro). Togliatti sottolineava come la formazione labrioliana abbia assunto interlocutoriamente i due estremi in questione (benché, come si può già ricavare dalle nostre precedenti argomentazioni, il polo della «onnisciente dialettica» non corrisponda allo Hegel prevalentemente recepito da Labriola ma alla sua volgarizzazione ‘di scuola’), puntando a conseguire la prospettiva marxista quale luogo di superamento di essi. «Si noterà» egli scrive – «come anche qui non tanto si parli di derivazione o filiazione ideale ma in generale di ‘educazione’. I due sistemi di Hegel e di Herbart sono posti inoltre l’uno accanto all’altro, in un confronto che dà rilievo proprio a quel dibattito tra ‘idealismo’ e ‘realismo’ che il marxismo doveva affrontare e risolvere per giungere all’accrescimento dell’hegelismo» (Per una giusta comprensione del pensiero di A. Labriola cit., p. 321 corsivo nostro). 81 82

Infra, p. 1170. Cfr. G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 40-41.

83

Il problema è ben ricostruito da G. PROCACCI in Antonio Labriola e la revisione del marxismo attraverso l’epistolario con Bernstein e con Kaustsky, 1895-1904, in «Annali dell’Istituto G.G. Feltrinelli», III, 1960, pp. 273-274. 84 Una analoga proposta di tale modulo analitico verrà, per esempio, formulata successivamente, benché da un punto di vita assai diverso, da parte di A. BARATONO in Le due facce di Marx, Di Stefano, Genova 1946. 85 Si rammenti che, come ognuno sa, sia Croce che Bernstein hanno asserito la vicendevole convergenza degli esiti della loro analisi riguardo alla valutazione marxiana del sistema capitalistico. 86 Il tema è adeguatamente sviscerato da G. PROCACCI in Antonio Labriola e la revisione del marxismo cit., pp. 270-271. 87

Tale posizione va intesa in interlocuzione con tutta la lettura weberiana della Rationalisierug e con la problematica della crisi di respiro internazionale degli equilibri classico-liberali. Cfr. in proposito, benché non ce ne persuadano tutte le accentuazioni, M. CACCIARI, Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917-1921, in Pensiero negativo e razionalizzazione cit., pp. 120-139. 88

Infra, p. 1420. Infra, p. 1462. 90 Cfr. G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 43-44. 91 Infra, p. 1703. 92 Ibidem. 93 Infra, pp. 1703-1704. 94 Infra, p. 1400. Per la ricostruzione del lessico labrioliano, anzitutto per quanto concerne i termini 89

‘materialismo storico’ e ‘filosofia della prassi’, nonché lo ‘strumentale’ riuso fattone da Croce, ma soprattutto da Gentile, e la successiva posizione di Gramsci in proposito, cfr. M. R. ROMAGNUOLO, Note sul lessico marxistico tra Labriola e Gentile, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 397-402. 95 Labriola allude, cioè, all’articolo di G. V. PLECHANOV, Bernstein und der Materialismus, in «Die Neue Zeit», 44, 1898, pp. 445-455. Ad esso aveva già fatto accenno nella lettera a Croce – indicativa per diverse ragioni – del 1 agosto di tale anno («Se mai tu rispondi a quella pappolata di Sorel me lo farai sapere, perché io qui il Giornale degli economisti non lo vedo. L’economia è la disciplina nella quale per diverse ragioni si dice il più gran numero di cose sciocche e contraddittorie: ma nel caso speciale del Marxismo ci si aggiunge questo, che a molti pare che la qualità di Genosse conferisca il diritto di avere una opinione scientifica. Quella Neue Zeit è diventata una specie di Critica sociale… ossia un giornale di exstudenti. E dire che in tutto l’orbe terraqueo non c’è altro fuori di quei quattro gatti! Quel C. Schmidt, che diviene grande uomo per aver scritto un paio di articoli lodati da Engels, ora si è costituito potenza a sé nelle appendici del «Vorwärts» e nell’«Archivio» del Braun. E ci tocca di sentire anche gli ammastramenti del Plekanoff, che sta un po’ al di sotto della tesi di laurea. Quel disgraziato di Marx – non ha avuto l’onore» – conclude Labriola, con toni che successivamente torneremo a ‘chiamare in causa’ – «di lasciare dietro di sé una storia che potesse continuarlo»; donde l’amaro interrogativo: «Per chi diavolo, dunque, dobbiamo scrivere?» (Carteggio, IV cit., p. 618). 96 A. LABRIOLA, Lettera a K. Kautsky, 8 ottobre 1898, raccolta in Carteggio, IV cit., p. 641 (corsivo nostro). I motivi centrali della missiva sono anche riscontrabili in quella a Bernestein dello stesso giorno, laddove troviamo riproposto l’interrogativo seguente: «Il marxismo è forse diventato un nuova forma di onniscienza?»; donde, poi, l’amara considerazione: «La borghesia decadente ha molti superuomini, il

socialismo ha molti superbambini» (Ivi). Cfr. E. GARIN, I saggi sul materialismo storico cit., p. 115. 97

A. LABRIOLA, Lettera a F. Engels, 11 agosto 1894, raccolta in Carteggio, III cit., p. 432. Infra, p. 1497. 99 È particolarmente significativo che il Cassinate richiami alcuni brani, già da noi precedentemente 98

evocati, anche a riguardo del problema del linguistico, della monografia su Socrate del ’71, rinviandovi complessivamente. Essi attengono al problema del ‘metodo’ e, dice il nostro, «aprono la via ad intendere il momento socratico di ogni forma del sapere». Così recitano: «Lo stato primitivo della coscienza umana» – scrive Labriola – «sebbene corrisponda all’epoca della prima formazione della società, si continua e perpetua anche nei periodi posteriori della storia, perché acquista un certo carattere sostanziale nei costumi, e ferma la sua espressione nei miti e nella poesia primitiva. Il sorgere successivo ed il lento sviluppo della riflessione… non riescono ad escludere tutto ad un tratto le diverse manifestazioni della coscienza primitiva ed irriflessa, e la trasformazione degli antichi elementi, in concetti coscientemente appresi e pensati, non avviene se non per via di un lungo processo, e di una lotta assidua, incessante e secolare. Questo processo di trasformazione non ha luogo soltanto per l’azione di quei motivi intrinseci di critica e di esame, che possono dirsi teoretici: ma emerge necessariamente dalle collisioni pratiche fra la volontà dell’individuo e l’opinione tradizional, espressa nel costume, e più tardi assume il carattere di una lotta sociale fra classe e classe, e individuo e individuo. Nella storia di questa lotta, quello fra gli elementi della vita primitiva che offra più materia di contrasto… è la lingua… che conserva nelle epoche posteriori l’apparenza di una norma, alla quale tutti gli individui debbano necessariamente e inevitabilmente adattarsi. Ma quando gli uomini han cessato di trovarsi istintivamente d’accordo in quello che deve chiamarsi giusto, virtuoso, onesto, ecc… ed han perduto la fede in quei tipi astratti del mito e della leggenda, nei quali la fantasia primitiva avea espresso ed ipostatato i comuni criterii… sorge… nell’individuo il bisogno di rifarsi quella certezza, che prima s’avea nell’acquiescenza in un criterio comune e naturale, e si dice: tì esti (che è)? E in questa domanda è riposto l’interesse logico di Socrate […] L’unità estrinseca della parola, che nel costante valore fonetico serba una certa apparenza di uniformità, non vale che ad accrescere la confusione e l’incertezza; perché, mentre dapprima siam vinti dall’illusione, che le stesse parole esprimano le medesime rappresentazioni, a lungo andare la convinzione che acquistiamo del profondo divario che passa fra i nostri e gli altrui concetti, diviene più evidente di quella illusione, e finisce per bandirla del tutto […] – La domanda tì esti (che è) circoscrive tutta la ricerca sul valore di un concetto, alla evidente determinabilità di quello che in esso si pensa. Il contenuto, che a prima vista sembra espresso nella semplice denominazione, bisogna che sia davvero posto, nella sua inerenza ed identità; e questo processo non può compiersi da sopra in sotto, o, come diremmo noi, deduttivamente, perché manca ancora la coscienza di un valore logico incondizionato ed assoluto […] – Il punto di partenza, ossia il nome, che nella sua semplice unità fonetica era dapprima il centro della ricerca, diviene in ultimo l’estremo termine del pensiero; quello in cui si va a metter capo, col farne consapevolmente l’espressione di un contenuto evidentemente pensato; e le immagini concrete, che dapprima si aggruppavano incertamente intorno alla vaga denominazione, non reggendo più alla nuova sintesi, devono scomporsi e prendere un nuovo posto: e solo il nuovo elemento, ottenuto mediante la ricerca, ossia il contenuto costante della rappresentazione, raccolto via via mediante l’induzione, può determinare 1a coordinazione e la subordinazione nella quale le immagini devono coesistere» (infra, pp. 1497-1498). 100 Infra, p. 1497. 101

Muovendosi sulla falsariga delle indicazioni hegeliane, con un riferimento diretto alla riflessione di Benjamin, F. Papa ha sviluppato alcune stimolati osservazioni in merito alla caratterizzazione del paradigma giacobino ed alla sua dissoluzione in Razionalità distruttiva. Saggi sul pensiero politico del Novecento, Guida, Napoli 1990, pp. 167-176. 102 Appare evidente che, nella presente ottica, la riflessione labrioliana sembra collocarsi in una decisiva linea di continuità rispetto alla tematizzazione gramsciana dell’‘intellettuale organico’. Su quest’ultima

nozione cfr. G. VACCA, La “questione politica degli intellettuali” e la concezione dello Stato – Nomenclatura dei “Quaderni”, in ID., Appuntamenti con Gramsci. Introduzione allo studio dei “Quaderni del carcere”, Carrocci, Roma 1999, pp. 173-206. 103

In merito ha formulato osservazioni decisive E. GARIN in Antonio Labriola nella storia e nella cultura del movimento operaio cit., p. 172. 104 Infra, p. 1449. 105 M. CILIBERTO, L’idea di ‘società moderna’ in Antonio Labriola, raccolto nel volume Filosofia e politica nel novecento italiano. Da Labriola a “Società”, De Donato, Bari 1982, p. 73. 106 Cfr. in proposito le osservazioni di G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 13-25. 107

Infra, p. 1449. Per le osservazioni svolte siamo ancora debitori a G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 46-47. 108 Labriola si spinge a parlare dell’esigenza di un «riavvicinamento all’empirismo per ciò che concerne il contenuto del processo» (infra, p. 1449). 109 Per le osservazioni svolte siamo ancora debitori a R. RACINARO, Labriola e il ‘procedimento dialettico’ cit., pp. 129-130. 110

Sono importanti in proposito le osservazioni di B. DE GIOVANNI in Labriola e il metodo ‘critico’ cit., pp. 96-100. 111 Infra, pp. 1495-1496. 112

Per le osservazioni adesso svolte abbiamo ancora tenuto presente l’analisi di R. RACINARO in Labriola e il ‘procedimento dialettico’ cit., pp. 130-131. 113 Sul carattere della ricezione spaventiana di Vico cfr. S. ONURFIO, Vico maestro di B. Spaventa, «Nuovi quaderni del meridione», VI, 1968, pp. 238-249; L. MALUSA, B. Spaventa interprete di G.B. Vico, in AA.VV., Saggi e ricerche su Aristotele, Marsilio da Padova, M. Eckhart, Rosmini, Spaventa, etc., Antenore, Padova 1971, pp. 71-108; e soprattutto A. SAVORELLI, L’‘altro’ Vico di Spaventa, in ID., L’aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 103-126. 114 Su questi temi, che definiscono la generale caratterizzazione della opzione labriolana di ‘filosofia della prassi’, ha posto l’accento, con una analisi esemplare, G. PROCACCI in Antonio Labriola e la revisione del marxismo… cit., pp. 270-271 (la decisiva importanza ermeneutica di tale studio è stata mostrata da G. VACCA in “Les liaisons dangereuses”. Gli studi di storia del marxismo, in La passione della storia. Scritti in onore di G. Procacci, a cura di F. BENVENUTI, S. BERTOLISSI, R. GUALTIERI, S. PONS, Carocci, Roma 2006, pp. 100-101); ma cfr. in proposito anche G. MARRAMAO, Marxismo e revisionismo in Italia cit., pp. 116-119. Sul modello socialdemocratico di soggettività politica, cfr., fra l’altro, le osservazioni di F. PAPA in L’altra Germania. Saggio sulla Bernstein-Debatte, Dedalo, Bari 1981, pp. 41-72. 115 Labriola è certamente consapevole della eco, rispetto al motivo della ricomposizione solidale del genere umano, dell’argomento della riconquista di una ‘unità originaria’ oltre la scissione, declinato, per esempio, da Schiller, attraverso la tematica della Ausbildung, in Anmuht und Würde, e trapassante in alcuni aspetti del pensiero marxiano (palmari nella fase giovanile e, tuttavia, irriducibili ad essa), ma tratta tale prospettiva senza alcuna concessione alla relativa concezione antropologistica. 116 Cfr. le osservazioni in proposito di N. BADALONI in Il marxismo di Gramsci cit., pp. 32-34.

117

Si pensi, ad esempio, al seguente significativo brano che, se sviluppato, avrebbe potuto definire, insieme alla posizione di Labriola, altri ‘antidoti’ all’influenza marginalistica: «L’esperienza giornaliera ci rivela che il capitale produce delle rendite; gli economisti lo confermano e dicono che si tratta di una legge fondamentale; i socialisti non negano il fatto, ma sostengono che un fenomeno così importante, caratteristico di una civiltà, debba essere spiegato con l’aiuto di elementi tratti dall’analisi della produzione considerata astrattamente. K. Marx ha compiuto questo lavoro […]. I socialisti vogliono […] e intendono rendersi conto dei problemi reali. Il problema del valore è per essi il primo e il più importante fra tutti quelli che lo spirito affronta nell’indagine economica […]. Ma quasi sempre si è imboccata la strada sbagliata […] si è ragionato su prezzi di mercato, come fa un commerciante» (G. SOREL, Scritti politici e filosofici cit., pp. 158-159). 118 Ibidem, p. 186. 119

Ibidem, p. 201. Ibidem, p. 203. 121 ID., Sur la théorie marxiste de la valour, in «Journal des Economistes», maggio 1897, pp. 222-231; 120

Nuovi contributi della teoria marxista del valore, «Giornale degli economisti», luglio 1898, pp. 15-30. 122 ID., Sur la théorie marxiste de la valour cit.. 123

Cfr. Nuovi contributi alla storia marxista del valore cit., e la recensione a S. MERLINO, Pro e

contro il socialismo, in «Divenir social», III, 1897, pp. 854-889. 124 «Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbati, oppure, quando è possibile, fa esperimento in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono» (K. MARX, Il Capitale, Prefazione alla prima edizione, I cit., p. 32). 125

I fisici non sono abilitati, argomenta Sorel, a fornire ai costruttori «i dati che sarebbero loro necessari per rendersi conto dei fenomeni relativi all’equilibrio dei corpi reali; essi trattano soltanto dei casi particolari dell’elasticità e conoscono i materiali preparati in vista dei loro esprimenti: questi possiedono una struttura molto più semplice rispetto ai materiali impiegati nella pratica […] Bisogna quindi affrontare i problemi giornalieri con metodi appropriati alle finalità pratiche» (G. SOREL, Scritti politici e filosofici cit., p. 66). 126 Ibidem, p. 67. 127

Ibidem, p. 68. ID., Nuovi contributi alla teoria marxista del valore cit., p. 49. 129 Ibidem, p. 51. 130 Cfr. N. BADALONI, Croce contro Marx e la questione del ‘paragone ellittico’, raccolto in Benedetto Croce (a cura di A. BRUNO), Giannotta, Catania 1974, pp. 24-25. 131 La libera concorrenza è arrivata, dice Sorel, ad allargare l’orizzonte in maniera tale da mutare il 128

proprio carattere primario di autoregolazione, cosicché, «mano a mano che noi ci allontaniamo da questo regno dove il caso fa nascere una specie di necessità, lo spirito recupera le sue libertà e ritorna capace in una misura più o meno grande di realizzare i suoi fini» (G. SOREL, La necessità e il fatalismo nel marxismo, raccolto in ID., Saggi di critica del marxismo, Palermo 1903, p. 83). L’aspetto più fruttuoso di codesta suggestione soreliana è stato raccolto da Gramsci con la declinazione del motivo dello ‘spirito di scissione’ (cfr. in proposito N. BADALONI, Il marxismo di Gramsci cit., pp. 70-76 e ID., Gramsci: la filosofia della prassi come previsione, in Storia del marxismo, III-2, Einaudi, Torino 1981, pp. 255-342).

132

Cfr. M. MAGGI, La costruzione dell’egemonia in Francia cit., p. 280. Cfr. in proposito i notevoli spunti presenti in N. AUCIELLO, La ragione politica. Saggio

133

sull’intelletto europeo, De Donato, Bari 1981, pp. 72 e 85-86. 134 Scrive Reuleaux: «Come il poeta contrappone i gentili, e perciò simpatici amici di Ulisse alla forza brutale del ciclope […] così possiamo noi contrapporre l’azione delle forze alle macchine, appropriate con l’opportuna limitazione a uno scopo unico e determinato al predominio delle forze naturali, le quali, cozzando fra loro in una libertà sconfinata, generano, nelle une contro le altre, l’ignoto prodotto della necessità» (F. REULEAUX, Teoria generale delle macchine, Hoepli, Milano 1876, p. 34). Ha portato l’attenzione sul valore teorico-epistemologico generale della nozione reuleuxiana di ‘macchina’, fra gli altri, R. BODEI, Dialettica e controllo dei mutamenti sociali in Hegel cit., pp. 52-53; ma sul tema cfr., soprattutto, L. PORTIS, La cinèmatique marxiste de Georges Sorel, raccolto in Georges Sorel et son temps, a cura di J. JULIARD e S. SAND. Le Sevil, Paris 1985. 135 Ecco il significativo brano di Reuleaux a cui Sorel si richiama: «Quando avremo raggiunto la dimostrazione della legge avremo, già per questo, toccato i limiti entro i quali la teoria deve offrirsi come maestra e come guida dell’insegnamento. L’applicazione delle leggi generali esige, in effetti, dal pratico, una sagacia speciale per giungere a fare della macchina un’opera pratica […] L’astrazione scientifica può solo, riguardo alle macchine, mostrare le varie possibilità, ma non possiede alcun criterio per decidere ciò che è utile e ciò che non lo è. Spesso si rimprovera alla teoria l’assenza di tale criterio; ma questo rimprovero è realmente fondato solo quando la teoria si ostina a rimanere estranea al campo delle cose pratiche. Non abbiamo abbandonato questo campo se non per riconoscere più chiaramente il complicato cammino del nostro problema. Proprio per questa scelta da compiere, tra ciò che è pratico e ciò che non lo è, ci troviamo di nuovo riportati al dominio della realtà. La cinematica deve […] proporsi, non solo di stabilire la teoria, ma anche di ricercare in quale modo si sia arrivati alle varie soluzioni, cioè deve proporsi di fare la teoria della sua invenzione […] La teoria […] deve cercare di riunire fra quanto è già stato trovato quello che è conforme alle leggi generali, e da scintille isolate farne gran fiamma, destinata ad illuminare la via delle scoperte e a guidare verso progressi ulteriori e decisivi» (F. REULEAUX, Teoria generale delle macchine cit., p. 59; la citazione si trova in G. SOREL, Scritti politici e filosofici cit., pp. 7778). 136 Ibidem, p. 77. 137

ID., La necessità e il fatalismo nel marxismo, raccolto in Ibidem, p. 84. «È manifesto» – scrive Sorel – «che Marx si è sforzato di dare all’economia un aspetto matematico» (Ibidem, pp. 77-78). 139 Ibidem, p. 83. 140 Sebbene il filosofo tedesco, ne Il Capitale, si occupi, scrive Sorel, in contrasto con affermazioni 138

precedentemente rammentate, «dei processi tecnici e della loro influenza sociale, non si può dire che Marx abbia approfondito e studiato i problemi di meccanica industriale, né ch’egli si sia tenuto al corrente della scienza […] anche le ragioni d’indole tecnica che spiegano e giustificano la superiorità della grande industria sono da lui sommariamente indicate» (Osservazioni intorno alla concezione materialistica della storia, raccolto in Ibidem, p. 30). L’affermazione è nel suo merito specifico scorretta, come desumibile da quanto già accennato, e dipende, probabilmente, anche dalle ridotte basamenta filologiche di cui lo studio di Marx poteva disporre in quella fase. 141 G. SOREL, L’ancienne et la nouvelle métaphysique cit., p. 129. 142

Si tratta di aspetti la cui critica appare implicita alle notevoli considerazioni che Gramsci dedica agli «aspetti teorici e pratici dell’‘economicismo’» al § 18 del Q. 13. Più specificamente, la vicinanza culturale

di Sorel al liberalismo classico fu colta, fra l’altro, dal giovane P. TOGLIATTI nell’articolo Baronie rosse di recensione del volume di I.E. TORIELLO, Il tramonto delle baronie rosse, Taddei, Ferrara 1921, in «L’Ordine Nuovo», 5 giugno 1921 (raccolto in Opere, I cit., p. 242). Sul nodo rappresentato da tale vicinanza, in termini perspicuamente analitico-storiografici, cfr. M GERVASONI, G. Sorel. Una biografia intellettuale cit.. 143

In ciò si concentrerà un decisivo elemento di discrimine rispetto ai contenuti della successiva,

rammentata monografia crociana del ’11 su Vico. In merito allo specifico significato della interpretazione soreliana del grande filosofo napoletano cfr. M. MAGGI, La formazione dell’egemonia in Francia cit., pp. 280-281, e G. PAGLIARO UNGARI, Sorel e Vico, in «Bollettino di studi vichiani», IV, 1974. 144

Scrive esplicativamente Ricardo: «I beni desiderati sono, nella parte di gran lunga prevalente, posti in essere dal lavoro; si prestano ad essere moltiplicati, non soltanto in una singola nazione, ma in molte, quasi al di là di ogni limite assegnabile, sempre che per produrli si sia disposti a valersi del valore a ciò necessario. Quando si discorre di merci, del loro valore di scambio e delle leggi che ne regolano i prezzi relativi ci si riferisce quasi sempre esclusivamente alle merci la cui quantità può essere accresciuta dallo sforzo dell’uomo e la cui produzione avviene in condizioni di concorrenza senza limiti» (Principi dell’economia politica e delle imposte, Torino 1965, p. 8). 145 Scriveva Marx a Kugelmann, nel 1868: «La scienza consiste appunto in questo: svolgere come la legge del valore si impone. Se dunque si volessero ‘spiegare’ a priori tutti i fenomeni apparentemente contrastanti con la legge, bisognerebbe dare la scienza prima della scienza. È appunto l’errore di Ricardo di presupporre […] come date tutte le categorie possibili che ci dovranno essere, sviluppate, allo scopo di comprovarne la conformità alla legge del valore» (Lettere a Kugelmann cit., p. 10). 146

Cfr. in proposito le osservazioni di F. FISTETTI in Critica dell’economia e critica della politica. Marx, Hegel e l’economia politica classica, De Donato, Bari 1976, pp. 180-182. 147 Per le osservazioni che abbiamo svolto siamo davvero ancora assai debitori nei riguardi dell’analisi compiuta da R. RACINARO in La crisi del marxismo cit., pp. 172-188. 148

Cfr. in proposito, fra gli altri, J.P. PORTIER, Antonio Labriola, lettore degli economisti, in Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia cit., pp. 123-126. 149 Così Labriola stigmatizza la logica di tale lettura ad impianto strettamente cumulativo: «La logichetta formale, di felice memoria, diventa l’arbitra del sapere. Teniamoci pure al testo, che in passato ebbe tanta diffusione in Francia, il Port-Royal. Si parta da un concetto della massima estensione e dal minimo contenuto, e per incremento di meccanica notazione si arrivi a un concetto di minima estensione e di massimo contenuto. E se ci capita poi fra mani un processo reale, il passaggio, p. es., dall’invertebrato al vertebrato, o dal comunismo primitivo alla proprietà privata del suolo, o dalla indifferenza delle radici alla differenziazione tematica di verbo e nome del gruppo ario-semitico, invece di fermarsi in tali fatti, come in casi di epigenesi faticosamente e realiter accaduta, scriveremo in un concetto già bello e preconcepito, per via di un facile metodo di notazione, prima un A, poi un a, poi un a1, poi un a2, poi un a3, e così via: – e tutto sarà bello e fatto» (infra, p. 1515). 150 La memoria Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo fu da Croce raccolta in Materialismo storico ed economia marxista cit.. 151

Infra, p. 1515. Infra, pp. 1431-1432 (corsivo nostro). 153 ID., Lettere a B. Croce, 8 gennaio 1900, raccolta in Carteggio, V cit., p. 118. 154 Infra, p. 1439. 152

155

Infra, p. 1437. Non è chi non veda come, anche in questo caso, si tratti di un aspetto ponibile in continuità genetica

156

rispetto alla elaborazione del ‘programma di ricerca’ gramsciano attorno alla filosofia della prassi. Davvero sarebbe necessaria un’apposita ricerca dedicata all’approfondimento di questo punto specifico. 157 Infra, p. 1444 (corsivo nostro). 158

Ibidem (corsivo nostro). Infra, p. 1169. 160 Infra, p. 1178. 161 Infra, p. 1398. 162 Per esempio, nella missiva del 29 agosto del ’97 a Kautsky veniva insistito il comunque differente 159

grado di avanzatezza dei gruppi intellettuali tedeschi rispetto a quelli italiani, dovuto a precise condizionalità sociali, e dalla cui indagine occorreva partire (compresi i caratterizzanti ‘ritardi’ e le caratterizzanti ‘tare’) per determinarne la ridislocazione egemonica. In essa, infatti, leggiamo: «Del resto quando io ti parlavo dei progressi della scienza in Italia non intendendo far confronti con la Germania. Qui si ricomincia appena dopo il lungo sonno. Inoltre io pensavo alla scienza nel senso tradizionale di questa parola in Italia, ossia Naturforschung […] Nel campo delle scienze sociali, invece, quasi generalmente si segnano le scuole straniere – o con fedeli riproduzioni, o con confuso sincretismo, o con plagi indecenti. Di originale ci è pochissimo. E ciò corrisponde alla condizione politica-sociale del paese. Intorno a questa scienza (sociale), o di seconda mano, o poco solida, o poco rispondente alle condizioni del paese, da una parte si è formata una piccola schiera di studiosi di cose erudite, e d’altra parte un vero e proprio demimonde» (Carteggio, IV cit., p. 373). 163 S’interroga, ad esempio, Adler con finalità argomentativa: «Maneggiare con tutta precisione l’arma critica solo all’interno del proprio campo, ritenendo al contrario non solo assicurato contro ogni dubbio questo campo stesso […] ma forse chiudendo anche gli occhi di fronte a una quantità di problemi, che qui ha palesato il lavoro, che penetra ovunque, di grandi pensatori; non sarebbe questa una vera assurdità? Non significherebbe, questo, distruggere la propria arma, degradarla da arma di difesa nella lotta più fiera degli spiriti a uno strumento necessario per l’uso domestico giusto o sbagliato?» (Causalità e teleologia cit., p. 7). Per le osservazioni fin qui compiute siamo ancora ampiamente debitori all’analisi svolta da R. RACINARO in La crisi del marxismo cit., pp. 222-229.

VII IL CONFRONTO CON LA PROSPETTIVA CRITICA DI MARX

1. Labriola e lo studio de Il Capitale È da rimarcare che il ‘laboratorio’ analiticoepistemologico in cui Labriola individua il terreno esplicativo del suddetto incontro, fontale rispetto alla combinazione di monismo e specialismo, è definito dall’apparato categoriale de Il Capitale. Osserviamo come, notoriamente, egli focalizzi il criterio di Darstellung sorreggente questa impresta teorica, – implicante la discriminazione tra Darstellungweise, appunto, e Forschungweise variamente compiuta nella Einleitung del ’57 e nel proscritto alla seconda edizione del I volume dell’opera –, in relazione alla nozione, su cui dovremo tornare, di ‘premessa tipica’: Il modo di rappresentazione dei fatti e dei processi è generalmente tipico, perché si suppongon sempre come già tutte esistenti in atto le condizioni della produzione capitalistica: ond’è, che le altre forme di produzione vengono illustrate, o solo in quanto furono superate di già, e per il modo come furono superate, o in quanto, come residuo, tornan di limite e d’impedimento alla forma capitalistica. Di qui il sovente passare attraverso alle illustrazioni di mera storia descrittiva, per poi tornare, dalla dichiarazione delle premesse di fatto, alla esplicazione genetica del modo come quelle premesse, data la loro concorrenza e concomitanza, debbono funzionare tipicamente, formando esse la struttura morfologica della società capitalistica. Da ciò dipende, che quel libro, che non è mai dommatico, appunto perché critico, ed è critico, non nel senso subiettivo della parola, ma perché ritrae la critica dal moto […] contraddittorio delle cose stesse, anche nei punti nei quali arriva alla descrittiva storica non si perde nello storicismo volgare, il cui segreto è questo: rinunziare alla ricerca delle leggi del variare, e alle varietà semplicemente enumerate e descritte appiccicare l’etichetta di processo storico, di sviluppo o di evoluzione. Il filo conduttore di quella genesi è il procedimento dialettico; ed è questo il punto scabroso, che mette in tristissima condizione tutti i lettori del Capitale, che nel leggerlo vi portino dentro gli abiti intellettuali degli empiristi, dei metafisici e dei padri definitori di entità concepite in aeternum1.

Dunque, la impalcatura logico-storica de Il Capitale sfugge, anzitutto nello spessore di indagine morfologica, tanto alla vocazione alla naturalizzazione contraddistintiva dell’approccio empirista quanto al finalismo omogeneo di quello storicista ‘ingenuo’ (passibile dell’intreccio con l’altro versante per via della giustapposizione lineare delle emergenze fattuali). Essa domanda, invece, in vista della inerente giustificazione, la comprensione della necessità strategica

della ricostruzione dell’oggetto poggiante sulla ridefinizione di un intiero asse analitico, implicante, a sua volta, la ‘revisione’ dell’insieme degli strumenti cognitivi prevalenti nella cultura preminente di ceti intellettuali segnati da un debole nesso europeo (riscontreremo quanta parte abbia tale motivo nell’ipotesi storiografica labrioliana) o da influenze recepite ‘provincialisticamente’ quali quelli italiani. Ma ciò vale anche, benché in diversa misura, per la ‘avanzata’ Germania: «Il primo volume del Capitale» – osserva un po’ oltre Labriola – «parea proprio fatto a posta per preparare ai cervelli dei professori e degli accademici una triste delusione; essi, i dotti en titre, proprio nel privilegiato paese dei pensatori, dovevano tornare a scuola! […] Il Capitale li costringeva a studiar daccapo, cioè a rifarsi su gli elementi primi»2. L’innovatività epistemologico-analitica complessiva cifrante la maggiore opera marxiana è, quindi, dal nostro fermata nella sua ‘epocalità’. Egli, probabilmente, cominciò ad accostarsi in termini di studio attento ai testi concernenti la ‘critica dell’economia politica’ intorno all’88-’89. Specie il III volume de Il Capitale, – su cui si concentrerà, come è universalmente noto, il dibattito storico-politico, a partire dalla pubblicazione, da parte di Engels, nel ’94, con la celebre prefazione del 4 ottobre3 –, verrà da lui letto, come verosimilmente anche il resto, nella celeberrima edizione del Messner, uscita a cominciare dal ’90 (si tenga presente che l’opera diverrà presto accessibile in Italia grazie alla edizione francese in due volumi, a cura di V. Girard e E. Brière, comparsa nel 1901-19024). Nella missiva del 13 giugno ’94 a Engels Labriola sottolinea il carattere di superamento dell’unilateralità filosofica del marxismo in favore dell’acquisizione conseguente dell’obiettivo della ricostruzione logico-storica dell’oggetto; precisandolo esso stesso in qualità di campo speciale posto in implicito vincolo dinamico con la costellazione speciale d’insieme del sapere. Egli enfatizza come, con la prospettiva teorica in questione, «la scienza» abbia «raggiunto un tale grado di maturità, da eliminare la ricerca unilaterale filosofica. P[er] e[sempio] una perfetta cognizione delle leggi intrinseche del processo storico-sociale elimina la (unilaterale) ricerca che dicesi filosofica del diritto (– la quale del resto ebbe da Grozio a Kant, parallelamente allo sviluppo dell’economia, un grande significato rivoluzionario –). Tale è il caso del Capitale di Marx»5. Con questo spirito egli si volgerà a seguire per intiero la vicenda della pubblicazione del III volume, e parteciperà al dibattito inerente («Ho letto» – scrive ancora ad Engels il 30 luglio dello stesso anno – «due capitoli del III vol. del Cap[itale] nella N[eue] Z[eit]. Quando uscirà il vol.? – Mi sono più volte ingegnato d’immaginare, con puro sforzo di logica, quale potesse essere questa teoria della sparizione non del caput mortuum ricchezza

(economia vulgaris!) ma dal vivo Mehrwert, da cui si generano nella complicazione sociale funzioni dipendenti e indipendenti, che si elidono e si combinano»6. Si badi: è in ordine a queste ultime affermazioni che l’accentuazione del fattore della «complicazione sociale» lascia già emergere la possibilità e la opportunità di un’apertura analitica verso l’esigenza di evitare il rischio di appiattire la funzione del plusvalore sul livello ‘ristretto’ della sua produzione). Lo farà forte della consapevolezza della natura intimamente criticoproblematica della elaborazione teorica in discussione. Ciò si rende, per esempio, assolutamente coglibile nell’attacco che, nella lettera del 24 settembre a Bernstein, egli ebbe a scagliare verso i «sedicenti marxisti», assai deboli per ciò che riguarda la padronanza categoriale quanto, connessamente, incapaci di stringere la reattività dialettica del sinolo teoria-prassi: «E che cosa sono, in sostanza» – egli si domanda – «molti di questi sedicenti marxisti di Marx come politico – del Marx degli anni 1848-1850 – del Marx nella Internazionale, e così via? Molti conoscono soltanto il 1° volume del Capitale – la cui dimensione tragica viene spesso tradotta in ovvio e superficiale razionalismo»7. Per quanto attiene al particolare versante del III volume appare significativa la lettura del piano e della bibliografia per il suo studio preparati, in settembre, per il figlio Alberto Franz in ordine al concorso, bandito dall’Accademia Pontaniana su promozione di Croce, a ciò dedicato nel corso del ’97 (il titolo di esso era appunto: “Esposizione e critica delle teorie economiche contenute nel III volume del Capitale di Karl Marx”8). In tale piano si appalesa la preoccupazione di un vaglio organico-sistematico dell’argomentazione contenuta nel libro, – secondo il seguente, sintetico schema: «Oggetto: a) la composizione del libro; b) la redazione di Engels; c) somma delle critiche finora apparse (Böhm etc.); d) al margine si noteranno per cenni le eventuali risposte»9 –, in rapporto ad una ricognizione esatta del panorama di opinioni concernenti il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Leggiamo, in proposito, nella missiva del 16 agosto ’97 a Bernstein: «Ora, se nella letteratura marxista e campi affini sono abbastanza di casa, non conosco e posseggo finora scritti che si riferiscono specificamente al III libro all’infuori dei seguenti: 1) La tua recensione nella N[eue] Z[eit]; 2) Le aggiunte (postume) di Engels nella N[eue] Z[eit]; 3) L’articolo di Schmidt (su «Sozialpolitischen Centralblatt»); 4) Il noto lavoro di Sombart sull’«Archiv für Soziale Gesetzgebung»; 5) Il saggio di Böhm–Bawerk Zum Abschluss des Marxschen Systems (su cui C. Schmidt ha scritto una sciatta e inconseguente recensione sul supplemento al n. 85 di quest’anno); 6) L’articolo di Kamorzynoski sulla Zeitschrift für Volkswirtschaft und Sozialpolitik (Vienna) […]; 7) Le bugie di Achille Loria sulla Nuova

Antologia; – le bugie e sciocchezze degli ammiratori di Loria sulla Critica sociale […] 1893-94-95. Mi pare quasi impossibile che si sia scritto così poso su questo tema. Ti prego di dirmi se non c’è nient’altro disponibile, e non solo in questo momento, ma anche in futuro»10. Un siffatto sforzo di acquisizione delle opinioni prevalenti in merito alla relativa letteratura critico-ideologica si ritrova esplicato, ci pare, con pieno respiro, – a cominciare dal confronto, spesso indiretto, con Böhm-Bawerk, in combinazione a quello esplicito con Croce –, in particolare nella II lettera del Discorrendo. Ci sembra che queste brevi indicazioni consentano di considerare come, al contrario di quanto ritenuto da un pur sottile studioso, il Cassinate non abbia svolto una funzione di ‘contenimento’, se così si può dire, riguardo alla possibilità dell’apertura di un vasto dibattito sul significato della teoria del valore in relazione ai nodi posti dal III volume (ove sarebbe anche ricomprendibile, a parere di tale studioso, il portato ‘potenziale’ della discussione svoltasi sulle pagine di “Critica sociale” fra il ’94 ed il ’9511). Piuttosto, il nostro, ben consapevole del contesto europeo, aveva inteso mostrare i limiti analitici del riuso loriano del ricardismo rispetto all’innovazione meccanica della produzione12 (contro al quale si attaglierà pure la giusta critica crociana13), o anche della valutazione di Graziadei e, chiaramente, del riformismo di matrice positivistica; richiamando all’esigenza di spostare in profondità il confronto con le forniture proprie della batteria categoriale della ‘critica dell’economia politica’. È proprio in virtù di ciò che diviene imprescindibile, prima di immergersi con attenzione in esso, intensificare ancora maggiormente la riflessione sulle direttici della qualificazione dello statuto di autonomia e di pregnanza analitica del marxismo, di fronte alla vexata quaestio della sua ‘crisi’; riprendendo alcuni spunti formulati qui su.

2. Morfologia e Darstellung genetica Linea dialettica e linea genetica, per Labriola, si raccordano nella integrale espansione della mediazione storica veicolata dalla prassi14. Nei Saggi la visualizzazione della loro tendenziale fusione è piena, e ciò culmina proprio nella missiva a Turati pubblicata in Discorrendo15, – a cominciare dalla ritematizzazione, diretta o indiretta, del motivo epigenetico –, convergendo entro l’alveo di determinazione generale della problematica della Darstellung. Essa si trova affrontata, ‘a chiare lettere’, nella decisiva missiva a Engels del 16 agosto ’94, laddove il filosofo di Cassino scrive: il busillis sta qui: che la storia è appunto Darstellung e narrazione, e non semplice teoria morfologica. Bisogna giungere, insomma a raccontare la storia sotto l’aspetto della concezione materialistica, ma raccontarla: se no si rimane sempre nel dualismo di storia e spiegazione […] Come vede l’interpretazione materialistica della storia è il mio chiodo16.

La caratterizzazione genetico-‘narrativa’ del ‘modo di presentazione’, – attraverso la quale è possibile tematizzare tanto lo snodarsi complessivo–discreto del tempo storico quanto, in intima connessione, il declinarsi, insieme particolare e comprensivo, della ‘linea di mediazione’ innervante gli spazi della produzione e della riproduzione –, viene finalizzata a qualificare l’indagine (in senso determinato ‘predittività’) di tipo morfologico della struttura sociale nella direzione di un’ipotesi di lettura politica delle contraddizioni, calate nell’incrociarsi di ruoli e competenze epistemiche diverse. La problematizzazione labrioliana della vexata quaestio della Darstellung – con la quale torneremo ‘a fare i conti’ anche per quel che attiene all’abbozzo del quarto saggio – mira, dunque, a farne lo strumento teorico attraverso cui finalizzare l’analisi genetica all’approfondimento della dialettica storica, ‘riempiendo’ l’emersione del profilo morfologico del reale, che, altrimenti, se ad esso solo ci si limitasse, resterebbe costretto ad una sorta di condizione di ‘inerzia’. Ciò spiega ancor meglio l’importanza di raccordare la morfologia del processo storico stesso alla sua genesi ‘non empirica’, rilucente per entro la costituzione del ‘sistema’. Di qui, l’ipotesi tratteggiata da Labriola di Darstellung dovrebbe consentire anche di riclassificare efficacemente quei determinati ‘impedimenti’ (si tratta di un termine riconnettibile pure all’arco del discorso svolto sin dalla Prolusione) in ordine ai quali risultano correlate le diverse sfere di regolazione.

È solo a fronte di una simile consapevolezza che diviene applicabile tutto un criterio analitico-categoriale in grado di garantire l’autonomia e l’‘apertura’ del marxismo. La cosa ben si evidenzia nella polemica col Masaryk del ’99 svolta in A proposito della crisi del marxismo – articolo poi posto ad appendice alla seconda edizione del 1902 della Delucidazione preliminare, che ora intendiamo affrontare in ragione di un certo grado di svolgimento del discorso.

3. Di fronte alla ‘crisi del marxismo’ Nel volume Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus – Studien zur socialen Frage Masaryk discute il tema della ‘crisi del marxismo’ all’insegna dello zurück auf Kant. Labriola osserva come Masaryk sia «un dottrinario, cioè un credente nella virtù delle idee, cioè un accademico, per il quale tutto consiste nella lotta per la concezione generale del mondo (weltanschauung) […] Questa critica» – egli prosegue – «che poggia tutta su la presunzione di un giudizio sovranamente imparziale delle lotte pratiche della vita in nome della scienza […] è e rimane intrinsecamente caduca, perché s’aggira intorno al Marxismo, senza affermarne mai il nerbo, che è la concezione generale dello sviluppo storico»17. Il Cassinate intende tenersi ben lontano dall’atteggiamento contraddistintivo della «insalata russa di opinioni» di coloro che avevano discettato «se tale filosofia, diciamo così marxistica, sia conciliabile o no col ritorno a Kant, a Spinoza, o a che altro siasi»18. Un autore, pur così ricettivo di spunti da parte di indirizzi diversi come il nostro, ma anche peculiarmente rigoroso, non poteva certo equivalere il nesso Marx-Hegel con quello Marx-Kant. Codesto ultimo, che era al centro del revisionismo europeo, riposava sul chiaro schema di una sorta di perspicua e riduttiva ‘divisione del lavoro’: a Marx doveva venir corrisposto l’ambito prettamente storico-politico, a Kant quello normativo e di teoria della conoscenza. Accettarlo significava collocarsi proprio all’opposto della tesi della autonomia anzitutto gnoseologica del marxismo19, assecondando l’idea della sua ‘vivificabilità’ esclusivamente attraverso la sostituzione dell’apparato epistemico e del criterio epistemologico che lo caratterizzava con quello kantiano20, poi riversandolo direttamente sul terreno della teoria della conoscenza. Significava sottendere, dunque, l’equivoco di una ricomposizione giuocata non in termini critici all’altezza del presente storico, delle tensioni e dei conflitti che lo attraversano, – la quale importa il guadagno della ‘unità-distinzione’ teoria-prassi; del rapporto costante tra forniture concettuali, ruoli cognitivo-intellettuali e «lotte pratiche»21 –, ma della definizione di paradigmi ‘chiusi’ e validabili in quanto aventi portata ‘generale’ per via normativa (concludendo ad una sorta di weltanschauung definitivamente ‘ingenua’). Non v’è, per Labriola, possibile omologia tra ‘criticità’ ed ‘ambizione’ alla ‘imparzialità’. Anzi: la ‘critica’ nasce dalla intentio della penetrazione della struttura morfologica in cui si snoda la mediazione storica, conducente a scoprire lo spessore politico del movimento che la definisce, di contro all’illusione ideologica di cui tale ‘ambizione’ è intrisa (torneremo

indirettamente sul punto con alcuni accenni al paradigma weberiano). Se Sorel si era richiamato alla posizione di Merlino, invocando il rispetto delle «osservazioni fatte scientificamente»22 nella chiave dello strumentale (e poi subitamente destituito), circoscritto collegamento di teoria ed empiria, ed aveva simmetricamente convenuto con Croce sul radicale divorzio fra socialismo e conseguimenti scientifici; Labriola indicava in una accezione determinata del superamento della dissociazione di scienza e filosofia – su cui già abbiamo portato l’accento –, senza confondere ricomposizione teorica ed univocità dottrinale (anche in versione ‘enciclopedistica’), il luogo di una compiuta risposta al revisionismo a là Masaryk. Dice il Cassinate: Il professor Masaryk […] stempera in 600 pagine una tesi di occasione, ed è questa: che giudizio possa farsi ora del Marxismo, atteso il fatto che se ne discute anche per entro al partito; – il professor Masaryk, che ha tanto letto, non può a meno di considerare il Marxismo stesso secondo le sacramentali rubriche della filosofia, della religione, dell’etica, della politica, e così via all’infinito […]. Era parso a me che in quella dottrina fosse proprio precisamente il contrario, e un che, anzi, di tanto intimamente unitario, da mirare, non solo a vincere la opposizione dottrinale tra scienza e filosofia, ma anche quella […] tra pratica e teoria23.

Il tentativo labrioliano di riconquistare l’autonomia e l’espansività del marxismo si concentra tutto, appunto, – lo abbiamo considerato poc’anzi, – nel suo potenziale di ricomposizione abilitato a rompere con la «opposizione dottrinale tra scienza e filosofia». Potenziale raccordabile analiticamente, anzitutto, al guadagno del nesso di ‘unità-distinzione’ teoria-pratica, in virtù del preciso incontro di monismo e specialismo, esplicativo tanto nei riguardi della ‘organizzazione’ della Darstellung genetico-dialettica commisurata alla riqualificazione storico-critica del processo morfologico, quanto al nodo generale della ridefinizione della questione egemonico-politica degli intellettuali24. Per essere più precisi, il nostro sintetizza il nerbo teorico della interpretazione di Masaryk come segue: «Marx […] segna l’estremo limite della reazione contro il subiettivismo», dato il suo ‘obiettivismo assoluto’; «[…] ma codesto estremo obiettivismo s’infrange», secondo lo studioso polacco, «nel ritorno a Kant, ossia nel criticismo. […] Non seppe superare Hegel, non trovò espressione adeguata delle sue tendenze […] invano si provò a districarsi da Ricardo e da Smith, dei quali tentò la critica, e rimase autore di un sistema incompleto»25. Ciò che preme a Labriola è di affermare come proprio il tentativo criticistico-trascendentale di rovesciare il marxismo conduca alla sua crisi;

commutando, inevitabilmente, l’oggettivismo in soggettivismo. Si tratta, altresì, di restituirne lo statuto di scienza non positiva, la cui garanzia di capacità di incidenza e di espansività è data dall’acquisizione, – anzitutto tramite una peculiare opzione di Darstellung –, del carattere politico della teoria delle forme26 che essa esprime, ed entro cui occorre ritrovare al massimo grado il dialettismo e la mediazione storica; sì da evitare di privare di attrito la medesima visualizzazione morfologica, e da riclassificarne ad un livello più alto i contenuti e le sporgenze genetiche. Il dispositivo teorico del marxismo attiene alla integrazione in progress tra analisi genetica, ricognizione funzionale e indirizzo della ricomposizione differenziata nell’orizzonte della dialettica storica in cui va calato il dinamismo degli specialismi dei saperi; i quali, nella loro convergente e, insieme, irriducibile scansione, forniscono sollecitazioni costanti alla effettiva elaborazione della ‘filosofia della praxis’. In siffatta direzione, del resto, Labriola raccoglie la tematica engelsiana della dissoluzione della filosofia nelle altre scienze particolari sul versante, – anche a ciò si è già accennato, alcune volte, da angolature diverse –, del superamento del tradizionale confine discriminatorio fra questa e quelle, in maniera tale da rideterminare radicalmente la suddetta tematica, discostandola dai condizionamenti peculiari dei moduli del positivismo. Tutto ciò culmina, in definitiva, nella lettera a Turati di polemica col De Bella, laddove, sostanzialmente, il discorso viene svolto in maniera tale da render lecito avanzare l’ipotesi della tendenziale sinonimia di ‘dialettica’ e ‘genetica’. Ipotesi già radicata, per esempio, nella cognizione espressa nel primo saggio per cui Il Capitale è da fissarsi in quanto «capitolo esemplare di filosofia della storia»27 (in accezione non finalistica). Arriva, così, a chiarirsi meglio la percezione labrioliana del nesso fra marxismo e complessiva organizzazione dell’intelletto. È la costituzione connettiva dei saperi speciali a rendere possibile il loro incorporamento funzionale nel campo autonomo-speciale che il marxismo definisce, senza pretendere di riassorbirli ed omogeneizzarli ma, al contrario, ricongiungendo dialettica e genetica nella traiettoria dell’intreccio della loro composizione e dei loro particolari referenti morfologici alla costituzione reale del complessivo movimento formale. In altre parole, dialettica e genetica si saldano al lume di un ‘programma scientifico’ volto a ‘fare i conti’ con le «correlatività sociali», considerando «l’insieme sociale» stesso «come un dato» (ma il termine non va inteso in chiave empiristico-positiva) «in cui […] si svolgono delle leggi, le quali sono relazioni di movimento»28 (torneremo indirettamente sul significato della presente considerazione). Osserviamo: tale saldatura corrisponde alla rifondazione della nozione di ‘legalità’ su cui ci siamo intrattenuti in precedenza

– così individuando un significativo raccordo fra la fase della Prelezione e quella compiutamente marxista –, e importa una precisa definizione del ruolo e della posizione del general intellect, riposante proprio sull’accantonamento della rigida coppia opposizionale ‘scienza’/‘filosofia’29. Tale definizione si raccorda col carattere di ‘originalità’ dell’opzione marxiana, configurata nella delineazione di una ‘filosofia scientifica’, – cioè di una teoria critica della ricomposizione scientifico-obiettiva –, alternativa e contrapposta all’empirismo positivista vocato a capovolgersi in metafisica. Marx ed Engels, come ormai dovremo sapere, per il Cassinate «non scrivendo più di filosofia, nel senso […] differenziale, finirono per essere i più perfetti esemplari di quella filosofia scientifica, che per molti è un semplice pio desiderio, per altri è un mezzo di spiattellare in nuova dicitura fraseologica le ovvie cognizioni della scienza empirica, alcune volte è una forma generica di razionalismo, e al postutto non è possibile, se non a chi entri nei particolari della realtà con la penetrazione di un metodo genetico inerente alle cose»30. La conquista della autonomia del marxismo sulla strada di un indirizzo teorico volto a compenetrare veduta genetica e veduta dialettica è stata costantemente invigorita da Labriola attraverso un serrato confronto con le posizioni che sono emerse nell’ambito europeo in ordine al ‘revisionismo’ ed alle sue implicazioni. Ciò è ben ricavabile non solo dal quadro dei Saggi, ma dall’ampiezza di interessi riscontrabili nel carteggio. Esemplare è, a tal proposito, il riferimento alle posizioni esposte da Stammler in Wirtschaft und Recht del ’96, che tanto avevano interessato Croce, ma anche Weber, Simmel, Kelsen e, naturalmente, nel comune quanto variegato contesto del neokantismo, Adler31. Codesto contributo, storicamente assai importante, uscì in concomitanza ai primi scritti di incidente innovazione bernsteiniani e venne colto nella sua ‘sintomaticità’ da Labriola in una lettera a Sombart, segnalando come il ‘kantismo’ di esso si aggiri «sempre nell’antitesi di materia e forma», e fosse inteso a «salvare appunto nel diritto il carattere di forma», piegando integralmente sul corno dell’‘apriorismo’. Sarà utile formulare qualche considerazione ‘di quadro’ concernente la distanza critica di Labriola da siffatto genere di approccio, al fine di guadagnare altre implicazioni del suo Standpunkt. Al centro del discorso stammleriano vi era un tentativo di recupero del valore ermeneutico, atteso quale riscontrabile primariamente nel campo della teorica del diritto, della nozione di ‘teleologia’ rispetto a quella di ‘causalità’, precisandola come distinta dalla pretta fissazione dell’Endziel, – da cui anche il nostro intendeva, chiaramente, tenersi lontano –, e come assumibile con accezione puramente normativa. Del resto, il recupero di tale nozione appariva indotto da molteplici fattori reali: l’usura della accezione

scolastica dello ‘spirito oggettivo’ hegeliano; il riarticolarsi e l’estendersi, carico di implicazioni concettuali, delle modalità di scambio e di mediazione mercantile; la disgregazione della coppia di matrice metafisico-classica ‘interno’/‘esterno’, ‘essenza’/‘fenomeno’; e ancora, persino il dilatarsi del politico nell’economico attraverso un giuoco di concentrazioni vicendevoli che spezza, come percepito da Weber, pure la coincidenza tra statualità e ‘monopolio della forza’32. Quasi paradossalmente, la crisi del vecchio assetto capitalisticoliberale giungeva a produrre, sul versante della passività, il rilancio dell’idea di ‘separatezza’ – pur ad esso congruente – della funzione egemonica degli intellettuali, – di contro la ridislocazione di questa all’altezza del nesso teoriamasse-movimento –, nella chiave, – ecco l’elemento di novità –, della espressione dell’avanzato processo di formalizzazione contemporaneo in quanto coinvolgente ‘il’ e riconcentrato ‘nella’ idea del primato dell’etico-politico (lo constateremo pienamente nel caso di Bernstein), a sua volta esplicato, nel presente caso, dall’ipotesi del primato della teleologia in accezione restrittivamente regolativa. Non è chi non veda come sia una preoccupazione implicita al ragionamento di Labriola, con la sua visualizzazione dei rapporti di forza, ed esplicita di Gramsci, – il quale enfatizzerà l’elemento della ‘lotta alla passività’ e della ‘rivoluzione intellettuale e morale’ in rapporto ad una analisi perspicua delle spinte alla ‘rivoluzione passiva’ di cui Croce rappresenta il culmine33 –, quella di sottrarre l’‘etico-politico’ all’isolamento definito dalla statuimento di un suo primato ‘separato’ (coerente con un certo intendimento della posizione degli intellettuali). Rispetto allo specifico della posizione di Stammler occorre segnalare che, in fin dei conti, il privilegiamento della nozione di ‘teleologia’ su quello di causalità è, però, assolutamente simmetrico alla tematizzazione dell’altra categoria. Giacché, esse implicano specularmente la scissione di teoria e politica, – costituente la maggiore preoccupazione di Labriola ed il punto di riferimento per il criterio di giudizio con il quale egli valuta la vicenda del movimento operaio –, presiedente, per molti aspetti, alla enfatizzazione del nodo dell’‘etico-politico’ compiuta, giustappunto, dalla linea revisionistica scorrente da Bernstein34 a Croce. Simmetricamente alla qualificazione squisitamente normativa della categoria di ‘teleologia’, quella di ‘causalità’ appare plasmata su un’idea strettamente naturalistica e a-dialettica di ‘scientificità’, recante la scomposizione di teoria e processo, – donde la riduzione della storicità al parametro storiografico, della storia reale a storia degli intellettuali congruente all’istituzione dell’autonomia dell’etico-politico. Di questo la nozione puramente normativa di ‘teleologia’ definisce, per certi versi curiosamente, la integrale

formalizzazione nel comune scenario del predominio della scissione (la cui matrice è data dalla continuità tra naturalismo empiristico e trascendentalismo kantiano) e del manifestarsi di una sorta di ‘vuoto’ (o, nel migliore dei casi, di deficit) di dialettica, appunto, il quale rende impossibile l’appropriazione della mediazione storica. Il lettore avrà modo di desumere, sulla base di alcune nostre indicazioni, come siffatta predominanza assolutamente ‘isolata’ ed ‘isolante’ della Entzweiung, come tale incapacità, tale carenza dialettica influirà decisamente su tutto il dibattito attorno al ‘problema della trasformazione’ in Marx. Ma non anticipiamo, per il momento, siffatta imprescindibile tematica. Ciò che ora interessa evidenziare è che la ‘scissione’ condiziona integralmente i termini del confronto fra intelligenza e materialismo storico. Pensiamo al fondamentale interrogativo posto da Sorel nella Préface ed a cui il nostro tenta di dare risposta, avendolo così sintetizzato nel Discorrendo: «per quali ragioni il materialismo storico ebbe fino ad ora così poca diffusione e così scarso sviluppo?»35. Certo si possono correttamente ricordare alcuni fattori ‘di cornice’ storiografica: «Gli scritti di Marx ed Engels […] furon essi mai letti per intero da nessuno, il quale si trovasse fuori dalla schiera dei prossimi amici e adepti, e quindi, dei seguaci e degl’interpreti diretti degli autori stessi?», Labriola s’interroga, e così prosegue: «Furono mai quegli scritti fatti tutti oggetto di commento e di illustrazione, da gente che si trovasse fuori del campo, che s’è formato intorno alla tradizione della deutsche Socialdemokratie; nella quale impresa di lavoro applicativo ed esplicativo ha per anni primeggiato soprattutto la “Neue Zeit”, magazzino indispensabile delle dottrine del partito? Intorno a quegli scritti, in brevi parole, non si è formato, fuori che in Germania, ed anche ivi assai parzialmente, e qualche volta con modi non pienamente critici, ciò che i neologisti chiamano ambiente letterario»36. Tuttavia, registrare tale dato ‘esterno’ non può consentire, chiaramente, di dare risposta esaustiva alla questione del ‘blocco’ di espansività del marxismo nei riguardi della dislocazione dei gruppi intellettuali, ed anzi, solo ne individua un palese epifenomeno. Sotto diversi versanti, abbiamo accennato al problema sin dalle sorgenti del confronto compiuto in questa sede con la ricezione labrioliana della prospettiva di Marx. Per avanzare nel ragionamento, occorre guardare, soprattutto, all’immagine naturalistica del marxismo che era venuta emergendo in quanto intrinsecamente capovolgentesi in una sorta di implicito riferimento alla nozione di ‘sostanza’ di marca metafisica: i dottrinarii e i prosuntuosi d’ogni genere, che han bisogno degl’idoli della mente […] i compilatori di manuali e di enciclopedie, cercheranno per torto e per rovescio nel Marxismo ciò che esso non ha mai inteso di offrire a nessuno. Costoro intendono il

pensare e il saputo come cose che esistono materiatamente; ma non intendono il pensare e il sapere come operosità che siano in fieri37.

Allo schema naturalistico, comportante, tra l’altro, analogamente ad altre tendenze, la sconnessione fra intellettuali e processo, il nostro autore risponde enfatizzando la produttività del sapere e della costruzione analitico-categoriale in cui si esplica il nesso teoria-prassi; e la inquadra nella direzione della stigmatizzazione delle conseguenze dovute all’assenza di un adeguato raccordo fra processo e contraddizioni reali, ossia dell’investimento sul fattore dialettico in senso proprio. Ciò significa, anzitutto, tener stretto il carattere ‘interno’ di queste ultime, mirando ad esprimere un adeguato grado di espansività del marxismo giusto attraverso la cognizione della illegittimità della affermazione del loro mero carattere di ‘esteriorità’ che, altrimenti, ne statuirebbe irreversibilmente la disposizione all’insegna dell’inerzia della scissione38 (mentre, come accenneremo indirettamente, la ‘scissione’ permea l’organizzazione formale ma viene ‘compresa’ dal tendesi della dialettica storica). Adombreremo più avanti, – in termini più o meno palesi –, come il carattere di internità processuale della contraddizione passi anche attraverso il momento di una ‘costituzione separata’. Questa, in definitiva, resta inscritta, in relazione a precisi contenuti egemonici, nella realtà del processo ove ha a svolgersi l’innervarsi dialettico-strutturale della mediazione (di cui l’apparato concettuale de Il Capitale definisce una precisa opzione di restituzione correlata allo scopo della ricostruzione logico-storica dell’oggetto). Adesso conta, però, cogliere il triplice carattere definente lo statuto complessivo del materialismo storico, il quale è da cogliersi nella valenza di tendenza filosofica nella veduta generale della vita e del mondo, di critica dell’economia, che ha modi di procedimento riducibili in leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica, e di interpretazione della politica39.

La visuale della ricomposizione teorica combacia necessariamente e inestricabilmente con le acquisizioni analitiche e di determinazione di legalità della «critica dell’economia». Di qui rendendo possibile, pari passu, la scoperta del contenuto perspicuamente politico permeante il collegamento tra formazione morfologica e mutazione di ‘rapporti di forza’ determinati, a partire dalla quale orientare il medesimo sinolo teoria-movimento (la cui adeguata impostazione deve cifrare la «direzione del movimento operaio») al di fuori della rigida

alternativa Endziel-Bewegung. Cerchiamo di fissare alcuni ‘punti fermi’ per lo sviluppo delle implicazioni del discorso appena compiuto. Il rilancio in chiave di ‘separatezza’ del ruolo dell’‘etico-politico’ compiuto da Bernstein nella Voraussetzungen poggia – vi torneremo oltre – su un elemento reale di complessificazione, connotante una inedita fase di vita del sistema capitalistico, dovuto al massimo dilatarsi della riproduzione sociale ed all’irrobustirsi della compenetrazione e della interdipendenza fra organizzazione cognitivo-ideale, da un lato, e configurazione materiale dei rapporti sociali, da un altro; comportante anche una cospicua ridefinizione del mobile posizionamento della struttura epistemica. Ciò determina una crisi radicale del semplicistico modello di subordinazione della ‘sovrastruttura’ alla ‘struttura’40. Esso viene tradotto da Stammler, in un linguaggio apertamente neokantiano, nella enfatizzazione del nesso fra economia e diritto nei termini della costante regolazione ‘esterna’ dei rapporti sociali. L’approccio stammleriano poggia su un elemento di coscienza oggettiva correlabile anche alla inusitata ‘concentrazioneespansione’ del Politico nell’Economico, ma non può che concludere, date le sue premesse epistemologico-categoriali, al ripiegamento normativo. Approccio avente come diretto corollario l’asserzione della incompatibilità tra il cosiddetto ‘monismo sociale’ materialistico, atteso in quanto fondato sul causalismo, e l’intervento politicamente attivo sui processi storici. L’osservazione appena formulata rileva l’equivoco fondamentale cui si contrappone il richiamo labrioliano alla tendenza critico-formale al monismo. Stammler, correttamente, contesta l’identificazione naturalistica di ‘legalità’ e ‘causalità’, e dimostra come la seconda sia da definirsi in qualità di tipizzazione della prima. Ma se la considerazione della equivalenza fra legalità e ‘visione unitaria’ può condurre, sotto certi aspetti, a risultati fruttuosi, assolutamente indebita è la assilimazione diretta di essa all’intiero campo scientifico41. È evidente, crediamo, come l’ottica stammleriana subisca, tendenzialmente, una curvatura machiana (si pensi all’accezione unilaterale della Denkoekonomie), adempiendo alla sconnessione tra teoria, categorie e empiria42; logica e storia; comprensione del processo ed effettività del suo movimento43. Parliamo di un fattore di fallacia riflettentesi pure sulla medesima critica crociana all’atteggiamento stammleriano di elusione della cogenza economica dei rapporti sociali (e dunque della loro connotazione politica) in virtù di una apposita riduzione economicistica del marxismo. Infatti, in riferimento ai contenuti di tale critica44, Labriola, nella già menzionata missiva dell’8 gennaio 1900 al filosofo di Pescasseroli, scrive: «Se mai io dovessi discutere con te porterei il discorso sopra un altro terreno – cioè su quello della filosofia nella quale non fai scuola, cioè abito di ragionare sempre

con lo stesso metodo, e con la stessa veduta. Piglio p.e. a caso […] dove obietti allo Stammler. Di fronte a due momenti reali (presupposti come dati) tu poni come terzo termine reale (che chiami cosa) una escogitazione formale (il principio edonistico!), e tiri avanti come uno che ragionasse così: in natura ci sono i maschi e le femmine, più il principio della sessualità»45. L’impalcatura di queste affermazioni si renderà pienamente elucidabile quando affronteremo il merito del dibattito fra i due pensatori in ordine alle tesi del revisionismo e del marginalismo. Importa, tuttavia, subitamente stringere il fatto che la prospettiva di ricomposizione teorica dischiusa dalla ‘filosofia scientifica’, elaborata da Marx, secondo l’indicazione di Labriola, consente di considerare i termini del processo reale non in quanto ‘presupposti’ o datità ipostatizzate ma in quanto ‘risultati’ di esso medesimo; esibendo quanto sia assolutamente coerente con ciò l’esigenza di non qualificarli attraverso un ulteriore riferimento di carattere puramente isolante – il principio edonistico, nel caso –, estrinseco al medesimo processo storico-reale (ed alle sue medesime determinazioni formali). Come vedremo, per Labriola un problema decisivo consterà proprio nel cogliere l’elemento di attrito effettivo comportato dal suddetto principio se dissociato dalle sue basamenta naturalistico-formalistiche, e, in ordine agli specifici aspetti in questione, d’altra parte, il carattere forviante di un procedimento concettuale riposante prevalentemente sul ricorso ad un dispositivo di generalizzazione empirica sottendente ed implicante giusto la divaricazione tra movimento processuale e sua comprensione. Stando in tal maniera le cose, l’angolatura visuale neokantiana di Stammler arriva proprio a toccarsi latamente con quella di un Croce46 (come, per altri versi, con quella di Gentile) – malgrado gli effettivi elementi di polemica del secondo col primo –, nel pieno della sconnessione di teoria e politica. Essa conduce, inoltre, a contemplare un’idea di ‘previsione’ che è estranea alla rifondazione che il Cassinate compie definitivamente, sulla scorta di Marx, della nozione di legalità e che si risolve, altresì, in una accezione interamente assorbita sul fronte della costatazione-preparazione. È particolarmente esplicativo, crediamo, che – come potremo verificare oltre –, in un altro testo quale, appunto, il gentiliano La filosofia di Marx, del 1899, la nozione labrioliana di ‘previsione morfologica’ conosca un trattamento in quale maniera avvicinabile47. Ciò che conta è considerare come – al contrario di quanto implicato da tutte le soluzioni di confluenza fra naturalismo e formalismo – Labriola, lungo una linea di elaborazione che scorre temporalmente da prima del ’95 alla fase successiva del ’98, rifiuti la declinazione del marxismo in quanto ‘monismo sociale’, comportante la focalizzazione in senso strettamente artificiale del processo (cioè all’insegna di un’idea di ‘artificialità’ da cui è

espunta l’incidenza della mediazione reale, in curiosa similitudine, stando ad un simile aspetto, alle opinioni di Sorel, approdanti all’appiattimento della ‘scientificità’ sul ristretto ambito tecnico, e, all’opposto, nel caso, della stessa nozione complessiva di ‘terreno artificiale’), di cui si tratterebbe, nella logica interna di tale accezione, semplicemente di descrivere la legalità regolatrice. Giacché, il ruolo della teoria viene da Labriola ‘tagliato’, in corrispondenza alla ‘novità’ dell’opzione epistemologico-analitica marxiana, nella direzione del pensare come produrre, del ‘pensare’ come operosità in fieri, incomprimibile entro una mera opzione strettamente descrittiva (riconducente a quel concetto ordinario di ‘legalità’ che il nostro intende, implicitamente ed esplicitamente, superare, ridefinendone il profilo), o (magari connessamente) in una metafisica di matrice naturalistica (vocata alla ‘ricomposizione generalistica’); e collocantesi, altresì, all’altezza dell’incontro di momento dialettico e momento genetico, dal nostro indicato già con precisione nella lettera ad Engels del 13 giugno del ’94. È solo attraverso di esso che diviene possibile ridare tono alla capacità espansiva del marxismo, affermandone, – di contro alla dichiarazione indistinta della sua ‘crisi’ –, lo statuto di autonomia in quanto alternativo proprio all’attribuzione a questo di una funzione di ricomposizione generalistica; considerandone, appunto, la mansione di ricomposizione svolta da esso per entro le dinamiche di pluralizzazione della razionalità scientifica. Il nodo della ricomposizione, sul piano della teoria, si giuoca tutto nella compenetrazione di Darstellung genetica e qualificazione della dialettica vertebrante la costruzione mediatrice del mondo storico. Costruzione mediatrice che lascia emergere lo spessore politico delle forme dove la prassi raddensa la propria mobile produttività, le cui linee di svolgimento si rendono congiungibili alla struttura plurale interna del medesimo tempo storico. Di queste è legittimo designare certune tendenzialità possibili, ma non assorbibili nella occlusiva fissazione deterministica dell’Endziel. L’autentica sfida con cui la teoria ha da confrontarsi consta, dunque, primariamente, nel qualificare l’organizzazione e la diffusione del Politico entro i modi della produzione-riproduzione, visualizzandoli attraverso la adeguata ricostruzione logico-storica dell’oggetto. È alla sua altezza che il nostro colloca l’obiettivo – fissato efficacemente nel secondo saggio – della considerazione «a filo diritto della critica dell’economia e della dialettica storica».

4. Oltre gli equivoci del marginalismo: l’incidenza della contraddizione nella “forma storica relativamente necessaria” Questo obbiettivo deve essere corrisposto, come sappiamo, con la analisi delle condizionalità del sistema capitalistico, fermate in quanto definenti l’oggetto storicamente determinato in cui si articola la configurazione dello stesso vincolo fra critica e sistema; – con ciò consentendo l’incidente penetrazione del presente storico. Nel Discorrendo, il luogo più aderente ad un siffatto obiettivo ed ai problemi che esso solleva è costituito dalla seconda lettera a Sorel, – che a noi pare la più importante, ed alla quale già abbiamo inteso richiamarci. In essa, una volta messo in chiaro l’impianto tipico della Darstellung propria della ‘critica dell’economia politica’ in relazione al valore-lavoro ed alla sua capacità di giustificazione riguardo alla fisionomia reale della dimensione morfologica – sì da riqualificarla, grazie al guadagno del «movimento […] contraddittorio delle cose stesse» di cui lo spazio categoriale de Il Capitale definisce un ambito di palmare esibizione – così prosegue il ragionamento, che dovremo ampiamente e puntualmente commentare, in ordine, anzitutto, al problema della trasformazione dei valori in prezzi, e, quindi, della presunta asimmetria tra il I e il III libro de Il Capitale stesso, nonché alle valutazioni di sapore banalmente normativo (di cui il proudhonismo rappresenta il culmine esemplare) delle condizionalità presiedenti a tali aspetti: La fastidiosa questione – scrive il Cassinate – che si è fatta da molti sulle contraddizioni che […] correrebbero fra il III e il I volume del Capitale (qui intendo di parlare dello spirito della disputa e non delle particolari osservazioni, perché, di fatti, il III volume è tutt’altro che un volume compiuto, è può offrire materia di critica anche a chi professi in genere gli stessi principii), si vede come alla più parte di questi critici manchi la nozione esatta del procedimento dialettico. Le contraddizioni che essi notano non sono le contraddizioni del libro col libro stesso, non sono le infedeltà dell’autore alle sue premesse e promesse: ma sono le stesse condizioni […] della produzione capitalistica, che, enunciate in formule, si presentano allo spirito pensante come contraddizioni. Rata media di profitto in ragione della quantità assoluta del capitale impiegato, e, cioè, indipendentemente dalla varia composizione sua, ossia dalla proporzione fra capitale costante e capitale variabile; – prezzi che si costituiscono sul mercato per via di medie, che oscillano con assai difforme oscillazione intorno al valore, e da questo si dilungano; – interesse puro e semplice del danaro come tale, e abbandonato a prestito dall’industria degli altri; – rendita della terra, cioè di ciò che non fu mai prodotto di alcun lavoro; – queste ed altre smentite alla così detta legge del valore (– gli è proprio quel termine di legge che imbroglia il cervello di molti! –) sono le antitesi stesse del sistema capitalistico. Queste antitesi, ossia l’irrazionale, che, malgrado che paia irrazionale, esiste – a cominciare dal primissimo irrazionale, che cioè

il lavoro del lavoratore solitario renda a chi lo piglia a mercede un prodotto superiore al costo (salario) – questo vasto sistema delle contraddizioni economiche […] è ciò che ai socialisti sentimentali, ai socialisti semplicemente ragionatori, e poi via via ai declamatori radicali, apparisce come l’insieme delle ingiustizie sociali […] Chi confronti ora, alla distanza di cinquanta anni, la trattazione di coteste antinomie concrete nel III volume del Capitale con la Misère de la Philosophie, è bene in grado di riconoscere in che consista il filo dialettico della trattazione. Le antinomie, che Proudhon volea astrattamente risolvere (e per tale errore egli ha un posto nella storia) come ciò che la ragion ragionante condanna in nome della giustizia, sono i fatti, le condizioni della struttura stessa, in guisa che la contraddizione è nella stessa ragion d’essere del processo. L’irrazionale considerato come un momento del processo stesso, mentre ci libera dal semplicismo della ragione astratta, ci mostra, al tempo medesimo, la presenza della negatività […] nello stesso grembo della forma storica relativamente necessaria48.

Il problema attorno al quale, anzitutto, ruotano le argomentazioni labrioliane è, come già detto, quello della trasformazione dei valori in prezzi e del plusvalore in profitto, che i classici dell’economia politica, a partire da Ricardo, avevano prevalentemente accantonato. In senso generale, per Marx la determinazione del plusvalore in forma di profitto, importata proprio dalla introduzione del saggio di profitto, qualifica una configurazione determinata del modo di produzione capitalistico da riconnettersi alla stessa catena delle trasformazioni conducenti allo statuimento del saggio generale di profitto ed alla cruciale metamorfosi dei valori in prezzi. L’idea è che le varie sfere di produzione, definenti, nei loro nessi e nella loro dimensione riproduttiva, la totalità del sistema capitalistico, si rendano caratterizzabili in virtù della composizione organica designata dal rapporto fra capitale costante e capitale variabile, sì da consentirci di cogliere la differenziazione delle grandezze e della composizione organica stessa dei capitali in forza di soluzioni molteplici di combinazione degli elementi costitutivi. Ne viene che entro un adeguato inquadramento dello spazio definito dalla fisionomia effettiva dei rapporti di produzione donde scaturisce lo sporgere del plusvalore in corrispondenza alla forma-profitto, – ovvero dello spazio ove diviene possibile il calcolo delle quote di profitto concernenti capitali uguali a diversa composizione organica, recanti saggi di profitti diseguali nelle varie branchie, da inscriversi, a loro volta, nel plesso di mediazioni relativo al saggio di profitto medio concorrenziale –, la fissazione della trasformabilità dei valori in prezzi e l’indagine della sua dinamica effettiva funge da criterio di regolazione simultaneamente raccordabile alla perequazione connessa al livellamento dei saggi di profitto medesimi. L’individuazione della metamorfosi in profitto fa sì che i prezzi di produzione

vengano adoperati in quanto dispositivi del calcolo capitalistico della redistribuzione, sulla linea delle contraddizioni reali del sistema, – le quali ‘chiamano in causa’ la posizione del lavoro e, per riflesso, la possibilità della sua ricomposizione –, del profitto medio49. «Il prezzo di produzione» – segnala sinteticamente Marx – «contiene il profitto medio»50. Vi è da dire che, evidentemente, il nodo della trasformazione dei valori in prezzi assume un significato di qualificazione strutturale-generale rispetto alla composizione del plusvalore, i modi della cui formazione si rendono, via via, sempre maggiormente ripugnanti all’appiattimento sul semplice alveo della produzione, coinvolgendo l’intiero arco della riproduzione sociale, preso nel suo costante inspessirsi. Anche in virtù di ciò, tale significato apparirà pienamente conseguibile una volta che si sia appurata la cognizione labrioliana ‘di fondo’ della teoria del valore da Marx elaborata e delle sue conseguenze criticocategoriali. Giacché occorre, primariamente, esibire come al centro del passaggio testuale che abbiamo ascoltato vi sia lo scopo di coniugare la critica di atteggiamenti concettuali motivati solo sul terreno etico con l’intento di considerare, – sulla scorta, anzitutto, della interlocuzione con le posizioni marginaliste –, ciò che Labriola chiama ‘irrazionale’, – colto anzitutto in riferimento al determinarsi della asimmetria sociale e dello scambio diseguale cui il plusvalore fa riscontro –, come, appunto, «un momento del processo stesso». Ne viene che il nostro bada, soprattutto, ad intersecare strategicamente lo statuto ‘storicamente determinato’ del processo reale con la reattività di un genere di analisi abilitata a far convergere i due livelli di astrazione – quello nel pensiero e quello reale, giustappunto – su cui si regge l’intelligenza dei modi della valorizzazione (e, dunque, dell’orientamento) presiedenti all’insieme dei cicli di produzione, circolazione e consumo delle merci; alle dinamiche della produzione e della riproduzione. Urge precisare come il conseguimento delle contraddizioni reali, che il ‘problema della trasformazione’ indica, possa essere considerato in quanto ‘travagliato’ – così come segnalato da Labriola in relazione alla questione della supposta asimmetria interna a Il Capitale – e parziale ‘punto di approdo’ di una composita direttrice di indagine concernente in primo luogo, i medesimi modi della valorizzazione. Sempre nella seconda lettera a Sorel, datata 24 aprile ’97, lo sguardo su tale complexio tematica viene regolato dall’interlocuzione, implicita ed esplicita (in nota il nostro menziona direttamente lo Zum Abschluss böhm-bawerkiano51), con certune tesi marginaliste e con il loro raccordarsi all’orientamento del revisionismo di Croce – che proprio da Labriola, a far data dal ’95, trarrà impulso per il confronto con Marx52 –, di cui alcuni aspetti decisivi verranno discussi – e su ciò ci

soffermeremo – non solo nel Discorrendo e nel Postcriptum alla edizione francese del ’98, ma anche nel carteggio. Partiamo dal considerare brevemente l’opzione teorica di Böhm-Bawerk. In Zum Abschluss l’economista austriaco osserva: La tesi fondamentale che Marx vuole fare accettare ai suoi lettori è che il valore di scambio delle merci – infatti la sua analisi si occupa di esso e non del valore d’uso – trova origine e misura nella quantità di lavoro incorporata nelle merci. Ora, tanto i valori di scambio, rispettivamente i prezzi delle merci, quanto anche le quantità di lavoro necessarie alla loro riproduzione, sono grandezze visibili all’esterno, che nel complesso sono suscettibili di una precisazione empirica. Perciò, a prima vista, la cosa più ovvia per Marx, volendo convincere di una tesi la cui esattezza o inesattezza può essere espressa nei dati dell’esperienza, sarebbe stata di appellarsi all’esperienza; in altre parole, per la sua tesi dimostrabile in modo puramente empirico egli avrebbe dovuto presentare una dimostrazione puramente empirica. Ma Marx non lo fa. Né si può dire che abbia trascurato questa possibile e certamente anche opportuna fonte di conoscenza. Al contrario, come mostrano le argomentazioni del terzo volume, egli sa bene come si comportino i dati empirici, e sa anche che sono in contrasto con la sua tesi. Egli sa che i prezzi delle merci non sono in rapporto con la quantità di lavoro in essi incorporata, ma che si fissano secondo i costi complessivi di produzione, che abbracciano anche altri elementi. Certamente non a caso ha quindi evitato la prova più naturale della sua tesi, ma con la chiara consapevolezza che seguendo questa via, non sarebbe arrivato ad un risultato favorevole ad essa53.

5. La critica di Böhm-Bawerk a Marx Secondo Böhm-Bawerk il difetto fondamentale della concezione marxiana constava nello stabilire la coincidenza tra scambialità ed equiparabilità delle merci, deducendo in base ad essa un fattore di comunanza a cui sarebbero riducibili gli elementi equiparati in quanto valori di scambio54. I due nuclei della critica böhm-bawerkiana a Marx constano, in definitiva, a) nell’attacco alla teoria del valore-lavoro, assumendola in maniera forviante, cioè in qualità di impostazione sostanzialmente incompatibile colla evidenziazione della rilevanza del valore d’uso; b) nella estrapolazione rigida del paradigma interno al III volume de Il Capitale in merito alla trasformazione dei valori in prezzi, facente leva sulla sottolineatura della composizione plurifattoriale dei costi complessivi di produzione. Insieme ad una ristretta componente ‘costruttiva’, tale critica appare viziata da un integrale atteggiamento empiristico, rovesciantesi in classificazioni astratte, impedente l’appropriazione del nerbo dell’apparato categoriale proprio della critica dell’economia politica marxiana. Giacché, la considerazione analitica di BöhmBawerk contempla l’istanza – pur in sé positiva – relativa alla emersione della natura plurifattoriale della composizione del prodotto – che, dal suo punto di vista, spiegherebbe l’oscillazione dei prezzi e la divaricazione rispetto al valore – in forza di quell’erroneo criterio, derivato prevalentemente dallo storicismo volgare ad impianto empiristico, verso cui il nostro autore rivolge i suoi strali, di scomposizione dell’oggetto. Esso conclude col ripiegare sul fronte della espulsione del dialettismo, all’opposto dell’obiettivo della ricostruzione logicostorica unitaria della costituzione plurima di tale medesimo oggetto. Si tratta, curiosamente, di un atteggiamento che inficia pure, simmetricamente, ma in diverso ambito, la variante di riduzione storiografica definita dalla cosiddetta ‘teoria dei fattori’, e che si sostanzia – come ben ricavabile dalle argomentazioni del secondo saggio – nella mera giustapposizione in-mediata dei dati empirici. In tal modo, la considerazione – di matrice, nel presente caso, fondamentalmente naturalistica – della pluralità dei fattori concorrenti al valore d’uso, al relativo scambio e, generalmente, all’esistenza di beni-‘doni di natura’ si rovescia nella restituzione del processo che ad essi ed all’insieme del campo mercantile presiede in direzione di una sovrapposizione seriale incapace, evidentemente, di consentire di leggere la complessità interna dell’oggetto ed arrestantesi, vieppiù, ad una impoverita operazione di astrazione limitantesi a conseguire l’unificazione qualitativa in base alla sottrazione delle diversità, convergendo, così, sulla delineazione di uno spazio ad ogni maniera ‘quantitativizzabile’ sulla cui mera ammissione, comunque, insiste (magari con movenze principalmente

orientate dal fattore psicologico e, parimenti, a matrice naturalistica) l’ipotesi generale della ‘utilità marginale’. Guardiamo più specificamente al ‘nocciolo duro’ della critica che Böhm-Bawerk rivolge a Marx: il filosofo tedesco dedurrebbe un unico elemento eguale fra le merci equiparate, ossia il loro risultare da una quantità di lavoro determinata, ma tale assunto consterebbe dello statuto di mero ‘presupposto’, riposante sulla tradizione dell’economia politica classica55. L’approccio böhm-bawerkiano – tutto calibrato sulla imputazione alla concezione marxiana di una misura deduttiva ‘di facciata’ – non riesce a categorizzare il movimento del capitale nella sua totalità, stante lo sfuggire di esso alla mera classificazione giustappositivo-seriale. Questo richiama, altresì, per contro, proprio all’istanza decisiva dell’inversione logico-storica in quanto misura finalizzata alla ermeneutica del presente storico. Infatti, la strategia marginalistica di appiattimento della teoria sul lato della datità empirica scivola inevitabilmente verso la torsione ipostatico-naturalizzante. Per dirla con le felici parole di Aurelio Macchioro: «Zum Abschluss muove dalla riduzione a naturalità delle categorie storico-critiche del marxismo; naturalità assoluta come parametro dato e non già conseguente a dimostrazione. Böhm-Bawerk, cioè, non già muove da una dissoluzione critica delle categorie marxiane ma da un’interpretazione di esse in termini di ‘natura’; e quindi da un equivoco. Equivoco grazie a cui le categorie marxiane […] vengono incolpate di contraddizione per non aver riconosciuto per ‘naturali’ le categorie ‘di natura’ böhm-bawerkiane […] L’assunzione naturalistica essendo ipso facto svuotamento delle categorie marxiane del contenuto storico-critico ad esse inerente, la confutazione di Böhm-Bawerk si risolve nella esercitazione tautologica di chi ha imbastito un discorso da premesse proprie reputando d’aver fatto luogo a premesse altrui»56. La continuità tra il procedimento dell’economia ‘classica’ e quello marxiano consta, secondo la valutazione di Böhm-Bawerk, nel toglimento dello statuto differenziato dei lavori in favore della determinazione di quantità misurabili, disponendo il fattore unificante delle merci nella energia produttiva in esse incorporata. Presiede a siffatta valutazione la divaricazione tra l’obbiettivo di pervenire ad una adeguata acquisizione conoscitiva per differentiam – definente uno dei perni della critica dell’economia politica – ed il ricorso al procedimento astrattivo. L’adozione di quest’ultimo da parte di Marx, – presunta da BöhmBawerk in quanto compiuta sic et simpliciter –, avrebbe occultato lo specifico della capacità produttiva–riproduttiva e delle spinte individuali; con ciò rimuovendo la realtà concreta dello scambio di merci, volta alla soddisfazione di bisogni ed ‘utilità’ particolari. Secondo l’immagine che Böhm-Bawerk designa del procedimento marxiano, se ci si dovesse affidare ad esso «non

comprenderemmo mai il vero motivo per cui prodotti di differenti generi di lavoro vengono scambiati tra loro in questa o quella proporzione»57. Egli, cioè, imputa a Marx – in forza del peculiare intreccio tra un taglio strettamente metodologico, escludente la costruzione interna dell’oggetto come costituita da termini di mediazione determinati in favore della loro emergenza in quanto ‘dati’, e l’elusione della situazione reale descrivente la forma specifica della produzione e della riproduzione allargata; intreccio recante l’approdo al definitivo appiattimento della teoria sul terreno della empiria – quella fallacia di mera presupposizione che è, invece, contraddistintiva, quasi per paradosso, dell’opzione stessa di esclusivo privilegiamento dell’aspetto fattuale. Tale opzione impedisce di cogliere l’incidenza del momento della astrazione reale, correlata alla penetrazione del movimento di produzione e riproduzione delle merci. L’economista austriaco insiste sul terreno della astrazione tout court, il quale rappresenta l’esito implicitamente speculare della stessa immediata giustapposizione di dati empirici58. Se il parziale merito dell’approccio marginalistico è definito dal riconoscimento della riscontrabilità nel consumatore della cifra di appetibilità di una certa merce – avvicinabile, da una diversa angolatura, e nel suo risvolto più analiticamente ‘delobe’, al principio di ofelimità paretiano59 (in parte acquisito e in parte assai criticato da Croce) –; tuttavia, esso si rivela comunque imperniato sulla espulsione della rilevanza del lavoro (e della configurazione della forza-lavoro) riguardo alla produzione di ricchezza. Sennonché, – ed in ciò consta il criterio generale sotteso all’analisi labrioliana che cercheremo di focalizzare via via –, la denuncia della indeducibilità del ‘lavoro astratto’ dalla equiparazione e circolazione delle merci risulta ‘mancare l’obiettivo’, stante che il cuore della teoria marxiana è da individuarsi non, appunto, nella deduzione della circolazione delle merci dal lavoro in qualità di misura del valore di scambio, ma nel guadagno del rapporto di coimplicanza tra valore d’uso e valore di scambio costituente la condizione indispensabile per comprendere il profilarsi della ‘dialettica delle forme’ del modo di produzione capitalistico, donde poi, l’articolato conseguimento della peculiarità egemonico-formale del valore-lavoro. Nella sostanza della ipotesi euristica che l’analisi labrioliana lascia intravvedere Marx fuoriesce dalla logica propria di elaborazioni come quella marginalistica, – cioè dalla logica attribuente alla teoria una funzione inertemente (e, dunque, incompiutamente) ‘riflessiva’, arrestantesi al piano della apparenza a cui ci vincolerebbe l’analisi della forma fenomenica del valore come ‘accidente’ della ‘sostanza-lavoro’ (dettata proprio dall’appiglio all’istituzione, indotta, come sappiamo, dall’incontro di naturalismo e di residuo metafisico, del nesso espressivo-lineare tra essenza e

fenomeno) –, colla dimostrazione della interdipendenza strutturale tra valore d’uso e valore di scambio, dovuta alla permanenza del riferimento al ricambio organico con la natura in vista della riproduzione della vita, compresente, – anche a tale aspetto abbiamo fatto cenno in precedenza –, ad ogni livello di astrazione, e pure connesso ad ogni livello di egemonia del valore di scambio, ivi compreso il passaggio dal ciclo M-D-M alla densità del ciclo D-M-D, e certo costantemente correlato allo specifico dei modi di formalizzazione. BöhmBawerk elude (traendone, così il maggiore movente polemico)ciò che Labriola pone come uno dei nuclei portanti della propria prospettiva: la centralità che Marx attribuisce alla categoria della riproduzione sociale60, sulla quale già abbiamo insistito con vigore. Essa è condizione della espansione unificante della forma-merce e della sua diversificazione tipologico-qualitativa in corrispondenza all’implementarsi dei bisogni, ben lungi dall’avvallo della fittizia possibilità della dissoluzione del valore d’uso o della sua reintegrazione ‘naturalistica’. È a muovere dalla visualizzazione morfologico-interna della riproduzione, da dentro di essa, che l’opzione teorica labrioliana appare approfondire il disegno teorico marxiano proprio sulla direttrice della decostruzione della forzosa attribuzione naturalistica a questo della tesi della ‘indifferenza’ dei prodotti; insistendo, vieppiù, sull’istanza della ricomposizione del lavoro, sulla scorta delle acquisizioni qualificanti l’attuale determinazione dei rapporti sociali ed ottenute attraverso il riferimento categoriale alla ‘problematica’ legalità del valore-lavoro, che ne esplica giusto la costitutiva dislocazione reale del ruolo nell’arco della riproduzione stessa61. Chiaramente, i contenuti ora abbozzati si rendono compiutamente stringibili mercé l’intensificazione del vaglio della posizione di Labriola. È utile, tuttavia, sostare ancora un momento sulle caratteristiche di quella di Böhm-Bawerk. Consideriamo quanto egli afferma in merito alla questione della teorica marxiana del saggio medio di profitto. «La teoria» – egli argomenta – «esige che i capitali di pari grandezza ma di differente composizione organica producano profitti differenti, ma nel mondo reale domina con tutta evidenza la legge secondo cui capitali di pari grandezza, qualunque sia la loro composizione organica, danno profitti eguali»62. In coerenza con l’impalcatura generale che abbiamo adombrato, l’economista austriaco è persuaso che il difetto d’origine della diagnosi marxiana si riverberi sulla individuazione di un fattore determinato di riconduzione a conformità complessiva del saggio medio di profitto nello scarto fra valori e prezzi di produzione e di mercato63. Separando, per un attimo, tali valutazioni dalle loro conclusioni – le quali fanno corpo attorno al principio per cui la scambiabilità delle merci è determinata non dal

loro valore, bensì dai loro prezzi di produzione –, ci è d’uopo notare che esse consentono di isolare utilmente un certo livello di funzionamento dei prezzi, del movimento della circolazione organica dei capitali e dei diversi saggi di plusvalore, raccordando le molte aree dell’accumulazione in virtù di un saggio medio generale di profitto. Si potrebbe dire che, quasi ‘per controspinta’, lo svolgimento dell’analisi böhm-bawerkiana dimostra, in termini rovesciati – chiaramente – rispetto a quelli contemplati dallo stesso economista austriaco, la capacità euristica della teoria del valore in rapporto alla corrispondenza fra determinati saggi di profitto e la composizione organica di capitali determinati, correlata, a sua volta, a saggi determinati di impiego definenti la pretta posizione della forza-lavoro. Tutto ciò illumina, quasi paradossalmente, uno degli aspetti decisivi della affermazione labrioliana secondo cui la individuata asimmetria interna a Il Capitale non classifica «le contraddizioni […] del libro col libro stesso» poiché «esse non insorgono dalla infedeltà dell’autore alle sue premesse e promesse, ma sono le stesse condizioni […] della produzione capitalistica». Infatti, nel III e nel I volume de Il Capitale, – previa la funzione di mediazione categoriale non lineare del II –, vengono indagate due forme diverse di mercato, ricongiungibili, attraverso l’inquadramento delle contraddizioni reali, teoricamente ricostruite, dello sviluppo capitalistico, al mutamento morfologico della composizione e della struttura mercantile stessa, storicamente esemplificabile in relazione alla crisi successiva al 1873. Ne viene che, se si tien fermo lo sguardo verso le opinioni di Böhm-Bawerk, esse possono essere anche intese in chiave di inconsaputa conferma, in definitiva, del valore ermeneuticopolitico della stessa teoria del valore, attestando, fra l’altro, la riflessività del movimento del capitale nelle sue differenti scansioni formali. Di qui, in realtà, l’analisi che egli compie testimonia proprio l’impiegabilità della impostazione connotante l’apparato categoriale marxiano al fine dell’inquadramento dei mutamenti morfologici del mercato64. Ciò rinvia, in fin dei conti, alla esibizione del funzionamento della costituzione del rapporto tra produzione e distribuzione in quanto concentrato nell’ambito della riproduzione sociale, facendo perno, fra l’altro, proprio su una maggiore problematizzazione della relazione fra grandezze di valore delle merci e rapporti di distribuzione65. Ma se le cose stanno in tal maniera, viene anche ad evidenziarsi come in assenza del riferimento alla teoria del valore, finisca smarrito il profilo della costituzione politica del mercato e del suo funzionamento, esigente di essere correlato alla determinazione delle contraddizioni storico-reali su cui Labriola ha posto l’accento, oltrepassando felicemente le aporie derivate dalla «fastidiosa questione» della asimmetria interna a Il Capitale, e vivificando il cuore della

prospettiva marxiana di ‘critica dell’economia politica’. A ben vedere, l’intuizione marginalistico-böhm-bawerkiana della prevalenza della riproduzione e del ruolo strutturante del consumo e del valore d’uso, – di contro alla linea favorita da gravi semplificazioni coeve e precedenti della posizione di Marx (su cui pure l’economista austriaco converge nell’argomentazione) –, si rivela compresente, – a differenza di quanto asserito entro la prevalente parte del resto dei neoclassici –, alla insistenza sul costante del ruolo strategico della preservazione, attraverso l’incremento, di una certa ‘eccedenza’ del valore66. Il punto è che siffatta compresenza può venir giustificata solo, a questa altezza, adempiendo alla compiuta compenetrazione di teoria del valore e teoria del mercato di cui l’equipaggiamento concettuale böhm-bawerkiano è incapace. Su questa direttrice si muove, altresì, ci pare, l’indirizzo ricavabile dalla posizione di Labriola, avanzando nell’evidenziare lo spessore dei nessi, storicamente determinati, fra produzione e riproduzione evincibili dalla effettività dei rapporti di distribuzione; lungi, però, dall’eludere, così come invece fa Böhm-Bawerk, lo specifico egemonico del ruolo dell’imprenditore in virtù della mera configurazione dell’interesse e del profitto in quanto esito della differenza temporale cifrata in guisa di ‘caso speciale’ dello scambio di merci in generale67. È lecito affermare che tutte le difficoltà comportate dalla variante böhmbawerkiana del paradigma marginalistico si riflettono nel particolare aspetto della restituzione del ‘problema della trasformazione’. Come è noto, nello specifico, Böhm-Bawerk tenta, per fini di dimostrazione, di ricondurre l’impalcatura analitica del III Libro alle ‘equazioni’ del primo, mirando a corroborare l’incongruenza interna a Il Capitale in virtù della espulsione della teoria del valore-lavoro. Arriva, così, a definirsi una sorta di incongruenza logica incapace di favorire l’analisi della composizione del ciclo (atteso in quanto commisurato, in ultima istanza, al riequilibrio68). La proiezione böhmbawerkiana dello schema naturalistico, corrisposto al criterio di presupposizione ed alla sommatoria e/o sottrazione di matrice puramente empirica, ma linearmente convertita in termini astratti, della pluralità dei fattori, sull’apparato teorico categoriale marxiano impedisce di coglierne il fertile contributo di analisi reale – in cui trovano motivazione le contraddizioni mostrate dal distendersi della elaborazione dal I al III Libro –; vanificando le opportunità di convergenza, potenzialmente produttive, nel campo dell’esame della riproduzione. In Böhm-Bawerk l’enfatizzazione della incidenza del valore d’uso rispetto alla progettazione e costruzione delle funzioni di mercato69 non si incontra, non viene correlata dinamicamente allo statuto non lineare del processo di valorizzazione70, inteso in qualità di perno dell’indagine della morfologia

effettivamente corrispondente proprio ai modi di formalizzazione comunque connessi alla riorganizzazione delle soluzioni di mercato e di governo dello sviluppo. Soluzioni elucidabili, evidentemente, attraverso il confronto generale con lo stesso sinolo fra movimento formale del capitale e riproduzione. In altre parole: all’economista austriaco, a fronte del suo approccio teorico d’insieme, per molti versi non è dato di cogliere come gli snodi della teorica marxiana lascino emergere la caratterizzazione del capitalismo ‘oltre’ gli equilibri classici della stabilizzazione liberale, e, dunque, in afferenza ai rapporti di forza ed al profilo morfologico definitosi ‘al di là’ dell’ordinario modello concorrenziale, la cui usura – purtuttavia – si evidenzia proprio in virtù dell’indagine dei meccanismi di riproduzione e della loro amplissima estensione. Il divorzio fra logica e storia gravante sul meccanismo di proiezione naturalistica scollato dall’analisi integrale della situazione reale, comporta inevitabilmente la mancata tematizzazione del medesimo nesso fra valore d’uso e forma di valore, imbozzolando il primo nella determinazione dei ‘doni di natura’, e, dunque, concludendo ad una percezione invertebrata e ristretta delle dinamiche dello scambio. La concezione labrioliana definisce uno scenario alternativo in merito proprio alla valenza ermeneutico-politica dell’analisi del capitalismo da Marx dischiusa. Si tratta, quindi, di riprenderne i fili dell’analisi, sin dalle fondamenta (anche rispetto alle già conseguite osservazioni in merito alla riproduzione sociale).

6. Osservazione sullo statuto di ‘premessa critica’ del valore come valorizzazione Asserire l’identità di ‘premessa tipica’ del concetto del valore acclara come non si tratti in alcun modo di un concetto ricavato dall’astrazione attuata per entro l’ambito dell’empiria, né di un fatto puramente logico, di un Hülfsmittel del pensiero in ordine alla singola datità, come vorrebbe lo storiografismo sombartiano, costituente il culmine di una discussione aperta da George Adler e proseguita da Conrad Schmidt, nonché definente un peculiare avanzamento rispetto alla sola identificazione nel concetto di valore del momento di una astrazione anch’essa puramente generalizzante. Bisogna, infatti, puntualizzare che oltre alla accezione fornitane da Labriola, la nozione di tipicità può essere anche intesa all’insegna della saldatura fra fatto strettamente logico, fissazione di un perspicuo principio regolativo ed apposito parametro di formazione dei ‘concetti-genere’ in vista dello scopo di annodare – ma solo parzialmente, entro siffatte coordinate – teoria ed empiria (mentre il nostro, certo condividendo detta esigenza, e coerente con la propria aspirazione antipositivistica, rifugge da ogni rischio di appiattimento su questa ultima, come ben si dovrebbe ricavare dalla ‘centralità’ implicitamente attribuita al fattore della genesi non empirica). Ora, in congruenza a quanto sostenuto, per esempio, da Weber in Gesammelte Aufsäetze zur Wissenschaftslehre, si tratterebbe, in tal caso, di una nozione in grado di specificare l’identità di fenomeni culturali determinati, che certo non appiattisce tout court la teoria sul fronte dell’empiria – così come implicato dal paradigma marginalistico –, ma procede attraverso la simbolizzazione delle forme teoriche. Parliamo di una soluzione che, ad ogni modo, non è in grado di adempiere alla propria ‘missione’ scaturente poiché approda esclusivamente alla definizione di sistemi parziali, certo internamente razionalizzati ma incapaci di delineare un quadro di nessi di reciprocità – e non di mere giustapposizioni – definenti un effettivo orizzonte di interdipendenza generale (su siffatto problema dovremo tornare ampiamente71). In ciò, del resto, consta il limite maggiore di successive nozioni come quella giusto dell’Idealtypus weberiano o del Funktionsbegriff cassireriano72. Per comprendere, invece, che cosa Labriola intenda è utile considerare direttamente ancora la sua argomentazione, pienamente raccordata a brani richiamati precedentemente e riguardante Il Capitale ed il suo significato di ‘novità’ teorica:

Quell’opera – scrive il Cassinate – per quanto vasta di tre volumi […] può parere, al confronto di […] enciclopediche compilazioni, come rassomigliante ad una colossale monografia. Il suo soggetto principalissimo è la origine ed il processo del sopravvalore (nell’orbita, s’intende, della produzione capitalistica), e poi, dopo combinata la produzione con la circolazione del capitale, la spartizione del sopravvalore stesso. Sta come presupposto del tutto la teoria del valore, portata a compimento su la elaborazione che ne avea fatta la scienza economica per un secolo e mezzo: teoria che non rappresenta mai un factum empirico tratto dalla volgare induzione, né esprime una semplice posizione logica, come qualcuno ha almanaccato, ma è la premessa tipica, senza della quale tutto il resto non è pensabile73.

In queste parole la teoria del valore nella complessiva formulazione marxiana viene sottratta alla accezione prevalentemente regolativa indicata dal modello sombartiano, oltre che ad altre sue ricezioni volgari e semplificatorie. Essa, piuttosto, definisce, secondo Labriola, in ultima istanza, la condizione in virtù della quale è possibile visualizzare la complessità della formazione capitalistica. Il pieno conseguimento delle sue implicazioni consentirà anche, successivamente, di evitare di isolare il plusvalore nell’alveo di una idea ‘ristretta’ della produzione (che è ben altra, ed opposta cosa rispetto allo studiarne ‘monograficamente’ la metamorfosi), rendendo plausibile, altresì, – badare bene –, proprio la considerazione della sua dislocazione per entro la divaricazione e la successiva saldatura produzione-circolazione, cioè in ordine allo spazio morfologicamente costituito della riproduzione sociale. La teoria del valore acquista un significato cifrante di tipicità in base ad un ben caratterizzato procedimento astrattivo. Non si tratta di un procedimento ancorato ad un mero ausilio logico74, o alla selezione operata dall’intenzionalità che governa le determinazioni epistemiche trascelte dallo ‘storico-scienziato’, cui, ad ogni maniera, si arresta il paradigma weberiano, a cominciare dalla nozione di ‘Wertfreiheit’ o, ancora, di una idealizzazione della materia connettibile, poniamo, all’ignorabimus del Des Bois-Reymond ed afferente alla crisi epistemologica della seconda metà dell’ottocento75. Abbiamo a che fare, piuttosto, con un procedimento che si pone come abilitato ad evitare ogni ipotesi di assecondamento della semplicistica via – in cui restano impigliate soluzioni come quella böhm-bawerkiana – della riunione di elementi empirici determinati in cui si risolverebbe il campo della deduzione astraente medesima e su cui si appiattirebbe il compito della teoria, riproducendo il nesso di matrice metafisica fra ‘essenza’ e ‘fenomeno’. Tale procedimento, cioè, si definisce in vista della ricomposizione logico-storica concernente una totalità differenziata, dalla complessità incomprimibile ma strutturata, ed arriva a conseguire, appunto, in

definitiva, la funzione di egemonia storico-reale di una data condizione formale strutturale. Si chiarisce, così, migliormente, il significato del brano riportato in precedenza, riguardante la definizione non-ipostatica della premessa ‘tipica’ (la supposizione di «come già tutte esistenti in atto le condizioni della produzione capitalistica») poiché imperniata sul vincolo compenetrante di Darstellung e ricostruzione dell’oggetto, – la quale consente la visualizzazione della struttura morfologica di una formazione storicamente determinata (la società capitalistica), asservendo a ciò il medesimo momento descrittivo, coerente, in senso generale, all’andamento genetico –.

7. Osservazioni sullo statuto teorico del valore come valorizzazione – Con particolare riguardo all’interlocuzione con Croce La cosa esplica meglio, inoltre, il motivo della insistenza labrioliana, palmare nella missiva a Croce dell’8 gennaio 1900, sulla illegittimità dello schiacciamento del dispositivo teorico sulla mera composizione–scomposizione empirica in ordine alla peculiare considerazione del carattere ‘catastrofico’ della storia. In essa veniva, infatti, apertamente asserito: Anche per questo rispetto la storia è catastrofica – . Il criticismo non è tutta la filosofia. La filosofia non può esistere che come un factum già bello e compiuto.

Osserviamo: la strumentale enfasi labrioliana sulla ‘catastroficità’ della storia segna un punto massimo di distanza da qualsiasi concezione lineare-progressiva del tempo storico, nella quale empirismo e storicismo ‘ingenuo’ si incontrano. La declinazione della storia in quanto ‘storia catastrofica’ giustifica il suo contenuto di sollecitazione al lume di una tensione interna irrestituibile attraverso la cognizione della composizione di questa in chiave cumulativo-seriale, sottesa, invece, dall’atteggiamento marginalistico. Il rifiuto dell’empirismo si incontra compiutamente con il criterio marxiano di inversione logico-storica in favore del presente. Non è – vi torneremo in conclusione – la «sommazione empirica delle osservazioni parziali» concernenti il ‘passato’, l’accumularsi lineare di categorie storicamente determinate, a spiegare il presente, ma viceversa. Facciamo attenzione: come si dovrebbe agilmente desumere dalle argomentazioni che abbiamo svolto, la rappresentazione del tempo storico all’insegna della accumulazione seriale non va confusa con il contenuto di lavoro accumulato di esso, giacché tale contenuto si concentra nella sua plurima e differenziata trama interna. A fronte di ciò, è doveroso evitare qualsiasi eventuale equivoco euristico: il richiamo critico alla filosofia «in quanto factum già bello e compiuto» vale soltanto nella direzione del rafforzamento della peculiare funzione di ricomposizione assolto dalla teoria riguardo alla complessità strutturale statutariamente cifrante la dimensione della Wirklichkeit, del respiro processuale che gli è proprio, in discrimine dalla accezione tradizionale della filosofia medesima; consentendo di stigmatizzare la mera, monocroma sommatoria di dati empirico-positivi come, comunque, in qualche maniera ‘conservata’ nel ‘criticismo’. Si radica entro questo fronte anche l’avversione verso l’impoverente paradigma evoluzionistico volto a risolvere il processo negli indici dell’aumento e della diminuzione; nonché il rifiuto dello storicismo empiristico in favore della validità del metodo storico-genetico. Se, come ormai dovremo aver chiaro, lo storicismo ‘volgare’ ed ingenuo assume passivamente il dato empirico, se esso si arresta ad una restituzione puramente descrittiva dei fattori di variazione e di invarianza che si stagliano nel tempo storico senza penetrarne il nerbo dialettico e di mediazione; l’appropriazione di quest’ultimo – giusto all’altezza della intricatezza del presente –, sottende l’ammissione della dissimmetria tra versante teorico e versante fattuale e la necessità di considerarne tutte le conseguenze proprio in vista dalla riconnessione di teoria ed empiria. Ciò vuole dire, in definitiva, sottrarsi ad ogni inclinazione all’ipostasi riguardo all’empiria, consentendo di qualificare analiticamente l’intensità politica della universalizzazione della forma–merce e, quindi, della morfologia definita della problematica – perché passante attraverso scansioni separate – confluenza fra produzione e riproduzione da cui essa medesima viene dischiusa.

La cosa diviene possibile soltanto in virtù della corrispondenza fra il pretto procedimento astraente in cui inside l’opportunità della riproduzione nel pensiero e le dinamiche dell’astrazione reale addensate nella relazione di implicanza fra autoriflessività del capitale configurata dal movimento delle forme e modi della scomposizione interna. Relazione comprensibile esclusivamente a partire dall’indagine dei termini della valorizzazione. Tutti questi aspetti appaiono ‘chiamati in giuoco’ dal discorso labrioliano, così ribaltando la direttrice d’insieme della discussione in merito al ‘problema della trasformazione’ ed al passaggio da I al III volume de Il Capitale; esibendo il vuoto di dialettica con cui è stato prevalentemente affrontato codesto nucleo tematico. Vuoto acclarante il posizionamento egemonico della scissione. È solo recuperando sul terreno della unità dialettica, della compenetrazione tra la scienza e il suo oggetto che, secondo Labriola, la necessità di riannodare anche ciò che in prima istanza emerge come ‘irrazionale’ e storia può venir soddisfatta, superando il condizionamento della scissione stessa. A sostrato dell’orientamento del nostro autore in proposito vi è, più di ogni altra cosa, la saldatura tra statuto tipico e carattere prettamente teorico, – donde la sua non verificabilità sul piano della formazione dei prezzi –, della nozione di valore. A tal proposito Labriola si è espresso in maniera assolutamente chiara e decisiva. Egli si spinge ad esplicitare la propria posizione destituendo di legittimità la variante scolastico-ortodossa della ‘teoria del valore’ in forza del carattere perspicuamente teorico, di genesi non empirica del valore stesso. è quanto si legge nella lettera del 31 maggio del ’98 a Croce, dando anche luogo alla sintesi della sua capitale opposizione agli argomenti revisionistici del filosofo di Pescasseroli: questo battagliare sul valore, – osserva Labriola – s’aggira sopra un equivoco (nel quale sei caduto anche tu), cioè di non intendere che è erroneo parlare di una teoria del valore, perché il valore non è che una teoria76.

Facciamo, attenzione, però: per il Cassinate, il valore non è un puro fatto di pensiero, come vuole Sombart, ma il suo statuto astratto ne testimonia proprio il connotato di realtà, definente, ancora una volta, il livello di genesi non empirica che ha a riverberarsi, poi, nella costituzione della morfologia del processo in cui si stagliano le forme della valorizzazione (alle quali vanno corrisposte anche le stesse trasformazioni del valore d’uso). Lo statuto teorico-astratto del valore consente, dunque, il conseguimento delle contraddizioni reali inscriventisi ‘nella’

e configuranti ‘la’ produzione capitalistica, nonché coincidenti con i termini della valorizzazione percorrenti i variegati meccanicismi della produzioneriproduzione. Per Labriola il valore si declina nella valorizzazione medesima e ciò reca giustificazione alla questione dell’irrazionale. Come coglieremo più oltre, di contro alle tesi di Croce e dell’edonismo economico, – entro cui primeggia l’opzione di Böhm-Bawerk –, il nostro è in grado di scorgere nei moduli di esso il contenuto multilivello di realtà che gli è proprio, – donde la dimostrazione della assoluta privazione di capacità critica dell’‘irrazionalismo’ e, altresì, della riscontrabilità in tali moduli, afferenti anzitutto la molteplice articolazione della fenomenologia di incidenza di quella asimmetria dello scambio avente funzione scaturente per la giustificazione della formazione del plusvalore, della radicale crisi dei modelli classici di razionalità e del suo riplasmarsi. Tale riscontro consente, vieppiù, l’emersione della loro densità egemonica; ed anche il guadagno della complessiva «forma storica relativamente necessaria». Così, la visualizzazione della morfologia del processo e l’esigenza di ricongiungere a questo l’intensità del campo della teoria conduce al superamento della dissimmetria tra forme e concetti. È ad un’altezza del genere che il valore viene ad essere declinato in quanto valorizzazione (donde, connessamente, il fontale inquadramento, di cui poi verrà ad essere considerata la costituzione riflessivo-processuale, del capitale in guisa di merce, che è stato accennato più su). Nella lettera–‘chiave’ a Croce del 28 febbraio 1998 possiamo evidenziare due passaggi che chiarificano l’impalcatura generale del Discorrendo in merito alla questione: Tu parli sempre di una teoria del valore secondo Marx. Io so solo che c’è una maniera con la quale Marx svolge e usa la teoria del valore che era ovvia. Il posto che egli assegna a quella teoria è diverso – ma non la teoria. E per trattare di questo posto bisogna entrare in tutta la critica storica e sociologica. […] tu mi hai l’aria di un epicureo che mediti su le forme del pensiero, ignaro della vita. Ma vuoi persuaderti che quella teoria del valore-lavoro ha una portata più larga di ciò che importi alla corrente economica, come spiegazione terra terra dei fattarelli di tutti i giorni? Tu pigli il lavoro come una cosa esterna rispetto al tuo pacifico ozio di epicureo contemplante – e quindi non puoi intendere perché la teoria del valore-lavoro abbia rivoluzionato tutta la concezione della vita e della storia, in quanto l’economia è la scienza dell’ordinamento della produzione77.

Se la teoria del valore si radica effettivamente nella elaborazione della economia politica classica, ciò che ne definisce il carattere tipico è l’uso e le derivazioni analitiche che se ne ricavano, il ‘posto’ che gli viene attribuito, in

primaria relazione al modificarsi fenomenico non lineare (né in qualche maniera riconducibile a linearità) di un principio formale-reale coesteso a tale modificarsi; configurando, con ciò, una svolta epistemologico-categoriale assiale nei riguardi di tutta la tradizione del pensiero precedente. Leva portante della acquisizione di una siffatta discontinuità è proprio la rottura con la lettura in chiave meramente quantitativa della teoria del valore (la riduzione semplice del valore a quantità di lavoro necessario ‘in sé’ e ‘per sé’, privata di intensità storico-politica, che da Smith culmina nella epistemologia ricardiana, e che configura il referente della critica marginalistica, assumente, però, in maniera aggravata, una valenza simmetrica ad essa, poiché sottendente, previo un ulteriore ‘indebolimento’, il comune terreno della generalizzazione empirica). Il problema cardinale di Labriola è quello di sottrarre la teoria del valore-lavoro alla sfera inertemente quantitativa restituendone in direzione politica la dimensione ermeneutico-funzionale. Stando in tal maniera le cose, a rigore, è del tutto indebito accordarvi il compito di spiegare tout court la formazione dei prezzi. Ad essa spetta, invece, di adempiere all’esplicazione genetica dei modi della differenziazione funzionale e alla loro riclassificazione perspicuamente politica, sì da comprendere le varianti e le discontinuità dell’«ordinamento della produzione», le quali motivano dall’interno l’organizzazione del medesimo ambito della riproduzione sociale (l’orientamento della circolazione, della distribuzione e del consumo delle merci, connesso da mille fili alla pluralità delle regioni della formalizzazione corrispondenti ai molteplici specialismi e dispositivi di regolazione, e assolutamente impossibile da giustificare, d’altra parte, – come avremo maniera di constatare – al di fuori del riferimento al valore in quanto campo formale-speciale). Di qui, è proprio l’intersecarsi della direttrice critico-storica e di quella critico-‘sociologica’ (in certa accezione) sul terreno perspicuamente politico a rendere ragione del ruolo principiante della teoria del valore, sulla scorta della compenetrazione, se così si può dire, tra dimensione della Wirklichkeit, multilinearità interna – fatta di continuità e discontinuità – del tempo storico e ‘riempimento’ dovuto al concentrarsi del lavoro accumulato. È perciò che il filosofo in questione ha avuto ad osservare con nettezza come «nella storia del lavoro» sia implicita «la forma sempre sociale del lavoro stesso, e il variare di tale forma». Nell’ottica labrioliana, la ‘critica storica’ si distingue come alternativa al volgare storicismo empirico (quello limitantesi alla ripetitività cronologico-seriale «dei fattarelli di tutti i giorni» ed alla loro «spiegazione» superficiale e puramente fenomenica). Di conseguenza, le forniture della ‘critica sociologica’ vengono ridislocate lungi da qualsiasi inclinazione ad assecondare proprio gli schemi positivi del sociologismo. Altresì, – come già fissato nella Delucidazione preliminare, con,

nuovamente, elementi di manifesta convergenza, seppure a muovere da ‘punti di partenza’ certamente diversi, riguardo alla riflessione di Max Adler78 –, la ‘critica sociologica’ vien tratteggiata in guisa di spazio scientifico ‘parziale’ di qualificazione delle forme storiche in corrispondenza al profilo intrinsecamente sociale della prassi79. In tal senso deve essere concepita, del resto, persino la continuità categoriale tra la strumentazione fornita dalla ‘critica dell’economia politica’, – il cui asse portante è configurato dal valore come valorizzazione –, e l’autonoma elaborazione della filosofia della prassi, – la quale sfrutta i contributi della critica storica e sociologica, essendo presa in una relazione dinamica con le diverse regioni cognitivo-speciali e li convoglia, poi, sul terreno della teoria politica; nonché si avvale della connessione tra trama interna del tempo storico e modi della struttura sociale da tale relazione a sua volta derivabile. Occorre, però, soffermarsi, ancora, sul nesso fra l’acquisizione dello statuto esclusivamente teorico del valore e la appropriazione delle contraddizioni reali affioranti nello sviluppo capitalistico. Partiamo col dire che nell’ottica marxiana anche la generalità dell’‘economia’ si costituisce essa stessa in quanto campo speciale. Ora, se si orienta lo sguardo dal lato della problematica connessione fra critica ed oggetto viene ad emergere con nettezza la dimensione costitutiva della contraddizione in quanto definente una dissimmetria integralmente permeante la forma della scienza. Ne viene che la relazione forma-scienza-contraddizione si staglia come centrale. Relazione assolutamente ‘difficile’ poiché quando la contraddizione si profila in quanto momento di quel sistema speciale coincidente con l’economia sorge una questione assai spinosa, giacché, a rigore, ‘in sé’ e ‘per sé’, forma e contraddizione appaiono inclini a ripugnare reciprocamente. Solo in un certo, determinato senso, però. Una via di approfondimento critico di tale questione si potrà abbozzare alludendo alla connessione generale fra ruolo di incidenza teorica del marxismo, nella sua autonomia, e ‘critica dell’economia politica’.

8. Lo statuto teorico del valore come schema generale di formalizzazione e il ‘problema della trasformazione’ – Ancora con particolare attenzione all’interlocuzione con Croce Si tratta, anzitutto, di cercare di comprendere in che maniera la contraddizione si inscriva nella costruzione del movimento formale, con la consapevolezza per cui ciò che fa problema è il determinarsi di una asimmetria interna ad un campo speciale – l’economia – istituentesi in guisa di peculiare ‘premessa’ definita essa stessa da una precisa regione di omogeneità formale. Tale regione viene delimitata in ordine al funzionamento del modo di produzione capitalistico, ma si rivela attraversata dalla tendenza alla asimmetria interna in cui si raccoglie, appunto, proprio la nozione di ‘contraddizione’. Un passo avanti nel ragionamento può essere compiuto riflettendo meglio sul fatto che una regione, una cerchia speciale implica un contenuto egemonico determinato. Comporta, cioè, il verificarsi di una certa istituzione formale attraverso la saldatura tra potere ed episteme. L’intensità politica della cerchia speciale–‘economia’ è da scoprirsi nella dissimmetria interna al contenuto egemonico della sua stessa istituzione definita in termini formali dal processo di esplicazione del ‘potere’ nella inclinazione alla integrale riduzione della società ad essa. Sta in ciò il motivo radicale dell’orientamento della critica in rapporto al ‘riempimento’ politico dell’economia. Esso definisce una sorta di doppio movimento consistente nella dilatazione del Politico in ogni articolazione formale e, al contempo, nella determinazione egemonica in chiave di ‘riduzione’. Movimento correlato alla incidenza costitutiva di tale articolazione. A ben considerare, se la diffusione del Politico si afferma quale intrinsecamente ubiconsistente ai modi della formalizzazione, ciò significa che questo penetra e procede attraverso le spinte, aventi contenuto egemonico, alla riduzione in virtù delle quali è definita la morfologia diversificata degli ambiti di autonomizzazione speciale. Tali ambiti qualificano la disposizione, a muovere dalla loro ‘internità’, di rapporti di forza sottesi all’intiero arco della riproduzione. Ciò si può evincere massimamente dalla maniera in cui, nell’analisi marxiana, vengono tematizzate le diverse valenze della forma del ciclo capitalistico. Sua funzione è, infatti, la determinazione in senso ‘produttivo’ del lavoro; la costruzione epistemicoformale, mediante l’impiego e l’organizzazione del sapere scientifico accumulato, della struttura circoscrivente il passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo; la configurazione egemonica che da ciò risulta. Tutto questo confuta, intrinsecamente, ogni ipostatizzazione naturalizzante in favore del conseguimento dello statuto storicamente determinato dei rapporti capitalistici.

Così, funzione e contraddizione appaiono compresenti, appalesando il contenuto egemonico di riduzione costituente lo specialismo, restituito paradigmaticamente dall’economia politica80. Dunque, riduzione e contraddizione si intrecciano. L’aspetto che si tratta, adesso, di ben cogliere è che qui sta il cuore della intuizione labrioliana rispetto al problema della trasformazione, coglibile proprio in ordine al nodo strategico della costruzione teorica delle contraddizioni reali dello sviluppo capitalistico. Tale ‘problema’, – da rapportarsi, poi, alla conversione del plusvalore in profitto e del saggio di plusvalore in saggio di profitto –, costituisce, in certo senso, la principale metafora di codesta dinamica di ‘riduzione’81 e va riannodato, in vista di una compiuta giustificazione, come potremo constatare oltre, alla ‘premessa tipica’ del valore come valorizzazione e del ‘valore-lavoro’ in quanto avente statuto perspicuamente teorico. Cerchiamo di spiegarci meglio. Labriola mira, principalmente, a ricollocare il nodo della ‘trasformazione’ sul terreno reale, al di fuori dell’appiattimento strettamente gnoseologico sul fronte (cui, ad ogni maniera, presiede la Entzweiung) della corrispondenza o meno di ‘teoria’ e ‘fatti’. I limiti delle ricerche di Sorel e di Croce si raggrumano attorno all’equivoco intendimento del ‘problema della trasformazione’ in quanto problema di teoria generale della conoscenza. Esse restano ostaggio di una nozione di legalità di matrice naturalistica, la quale, essendo interamente irretita nei termini della simmetria e della corrispondenza – diretta o indiretta – tra teoria e fatti, impedisce di cogliere la realtà della astrazione e della divaricazione fra valori e prezzi. Tale nozione veicola una percezione squisitamente economicistica delle finalità ermeneutiche della teoria del valore-lavoro (continuiamo ad adoperare tale nozione sottendendo, però, la medesima coincidenza del valore con una perspicua istituzione teorica) e, più generalmente, del sistema marxiano. Un simile pregiudizio economicistico compromette, secondo le coordinate analitiche labrioliane, l’opportunità di lumeggiare come la divaricazione prezzi-valori non configuri la mera discrasia tra piano teorico e fenomenologia della produzione-riproduzione ma definisca una leva analitica potente rivolta alle leggi di movimento interno della società capitalistica ed incardinata sulla focalizzazione di una perspicua divaricazione reale82. L’approdo rappresentato dal privilegiamento dell’esclusivo piano gnoseologico e quello del riduzionismo naturalistico non solo convergono, quasi paradossalmente, sul polo dell’economicismo, ma favoriscono la pericolosa reintroduzione di un orientamento basato esclusivamente sul riferimento eticonormativo tanto col riversarsi del motivo phroudroniano della ‘lotta alla ingiustizia’ nel socialismo ricardiano, quanto col generale rilancio, di calco

kantiano, – ove si evidenza la posizione di Bernstein, ma coinvolgente anche Croce83 –, dell’‘autonomia dell’etico-politico’. Atteggiamenti, questi, inficiati, come già accennato, da un approccio adialettico, concludente alla riproduzione della scissione, in virtù della proiezione all’esterno della contraddizione (donde il particolare significato del richiamo di Labriola alla continuità del percorso marxiano da la Miseria della filosofia a Il Capitale). In alternativa a ciò, e con ciò rispondendo al complesso degli interrogativi posti da Sorel nella Préface, diviene possibile, nella cornice labrioliana, la ricongiunzione tra livello teorico e storico-politico in forza della qualificazione della contraddizione nel processo; dimostrando la ‘produttività’ della «presenza della negatività […] nello stesso grembo della forma storica relativamente necessaria», sulla scorta della appropriazione della dialettica, in quanto ‘grimaldello’ della ricomposizione, consentita dallo stesso impiego del metodo storico-genetico84. Ora, scoprire il carattere tutto interno della contraddizione ci mette in condizioni di considerare come la divaricazione reale fra valori e prezzi che ad essa dischiude corrisponda alla dissimmetria innervante la costituzione di una cerchia speciale che può pretendersi come definente un campo ‘omogeneo’ soltanto in virtù del proprio sforzo egemonico di riduzione; con ciò conducendo, tuttavia, a mostrare, appunto, l’articolazione di rapporti di forza presiedenti alla costituzione della dimensione formale. Ne viene che il ‘problema della trasformazione’ si afferma come non comprimibile allo spazio delineato dalla valenza di ricognizionedescrizione dell’analisi economica poiché rinvia al rapporto tra contenuto di riduzione, a vocazione egemonica, interno alle forme e spazio esterno di ‘diffusione’ di questa medesima tendenza, riguardante la morfologia plurale delle regioni speciali, ognuna rivelantesi come governata proprio da una perspicua modulazione della logica della riduzione intrinsecamente caratterizzabile, appunto, in chiave egemonica e costitutivamente determinata in termini formali. La contraddizione, in quanto tensione egemonica percorrente l’‘interno’ di una cerchia formale, che si riconnette, però, alla geografia complessiva dei saperi e dei segmenti cognitivi, spiega perché, – come già sotteso agli spunti di analisi, presenti nel secondo saggio, della organizzazione della riproduzione sociale in ordine alla statualità quale campo di ‘rapporti di forza’ –, la direttrice della unità formale e quella della unità reale si incontrano non linearmente. In fin dei conti, la divaricazione fra valori e prezzi diviene avvertibile quando ci si ponga il problema di come la trasformazione dagli uni agli altri lasci emergere e traduca la configurazione egemonica che la contraddizione assume nel momento in cui si staglia nella costruzione plurale delle forme coincidenti con la cogenza del sistema capitalistico. Giacché, la dinamica di riduzione compresa nella

qualificazione-formalizzazione del valore esibisce il grado di disomogeneità interna del suo campo, implicato dalla individuazione di una peculiare configurazione dei rapporti di forza; venendo essa corroborata in virtù dell’incanalarsi riflessivo rispetto alla stessa ‘espansività’ della contraddizione reale, riscontrabile nella ridefinizione della relazione tra valore d’uso e valore di scambio medesimo all’altezza delle diverse sfere di produzione. Ciò consente, fra l’altro, di cogliere come il valore d’uso non ‘sparisca’ ma si inscriva nel quadro dei modi della valorizzazione in assenza dei quali sarebbe incomprensibile tanto il movimento d’insieme del capitale, quanto la sua esplicazione costitutiva dispiegantesi nella autonomizzazione-separazione e riconnessione reciproca di produzione e circolazione all’insegna dell’orizzonte della riproduzione, ove affiorano sia la specificità organica della composizione degli ambiti produttivi medesimi, sia la mobilità di distribuzione del plusvalore. Resta ferma, tuttavia, la posizione determinata del lavoro ‘produttivo’ – e della sua possibile caratterizzazione egemonica – che occorre evitare di isolare analiticamente ed occorre, altresì, connettere all’insieme dei rapporti di forza che da una data cerchia (l’economia), e secondo il meccanismo di riduzione messo in luce dalla stessa tematica del valore–valorizzazione, si protendono, ponendosi in tensione dinamica, anzitutto, con lo strutturarsi del mercato. Il problema della trasformazione concentra in sé un genere di nesso (internante) di ‘interiorità’-‘esteriorità’ riguardo alla forma-valore che non ha, però, nulla a che fare con i moduli riconducibili ad un ossificato armamento metafisico. Anticipare adesso alcuni elementi del confronto Croce/Labriola potrà convenire per evidenziare la pluralità degli stimoli provenienti dall’elaborazione del Cassinate in proposito, annodandoli alle considerazioni già svolte. La dissimmetria interna alla vocazione di ‘contenimento’, motivata egemonicamente, della forma-valore si rovescia nella contraddizione rispetto ai prezzi di produzione. Ciò risulta massimamente esibibile in virtù del rifiuto marxiano della dialessi semplice interno-esterno. La cosa risulta evidente se si guarda alla ricavabilità dalla sinossi del ragionamento labrioliano della valenza ermeneutica e politico-funzionale della intrinseca tipizzazione del valore-lavoro, del ‘posto che’ funzionale da esso definito senza indulgere nell’ipostasi, e del suo contenuto di saldatura fra contraddizione e riduzione, nonché, ci pare, sulla medesima falsariga, della legge della caduta del saggio di profitto, in peculiare confronto con la terapia di revisione del marxismo proposta da Croce85, incline, pur tra oscillazioni86, a restituirne il carattere di impiegabilità dell’apparato categoriale in chiave modellistico-causale (sì da depotenziarlo in una prospettiva comunque economicistica). La terapia crociana finisce per eludere la

determinabilità in senso non puramente economico della crisi che la fenomenologia della sovrapproduzione pone in luce, originando dalla separazione tra produzione e consumo, dalla realtà del pluslavoro e dell’esigenza della sua conversione in profitto. L’ammissione di tale separazione non appare, infatti, autosufficiente ma richiama ad un accurato investimento teorico circa la crisi dell’isolamento dell’economico (a muovere dalla contraddizione che lo schema del valore lascia emergere)87. Nel Discorrendo Labriola, polemizzando, in termini generali, con il ‘paragone ellittico’ di Croce, accennava alla opportunità del riuso epistemico di alcuni elementi della Logica wundtiana, «nella quale […], a dirlo per incidente, […] si adduce come esempio tipico di legge sociale (pare incredibile! e il Wundt non è dolce di sale, né coi sociologisti, né con le così dette leggi sociali) proprio il sopravvalore secondo Marx»88. Il brano a cui il nostro si riferiva era quello in cui Wundt anzitutto affermava: «La legge delle leggi sociali si riferisce all’esperienza che ogni fenomeno sociale più importante sta in una relazione reciproca con altri fenomeni contemporanei della vita sociale, in forza dei quali si esprime il carattere complessivo della situazione sociale generale. Come esempio di tali relazioni sociali può servire la legge del plusvalore fissata da Marx. Questa legge asserisce che la produzione capitalistica delle merci ha la tendenza a generare un plusvalore in denaro che può nascere solo perché il lavoro dei produttori della merce è usato un tempo di lavoro più lungo di quanto ne corrisponda al tempo di lavoro necessario alla conservazione della loro vita e al tempo di lavoro rappresentato nel loro salario». Una volta osservata la correlazione di plusvalore e tempo di lavoro accresciuto, Wundt argomentava: «Anche se si considera la relazione causale delle tendenze che stanno alla base si presenta alla vista, l’aumento del capitale, poiché esso è lo scopo da raggiungere, deve essere, all’opposto, considerato come l’istinto causale che aspira all’aumento del tempo di lavoro». E una volta rilevata la possibile caratterizzabilità psicologica – assumibile o meno – della forma storica della legge, egli rilevava ancora che «l’unico motivo di un dispendio di danaro che ha per fine la fabbricazione di una merce, essa stessa deve essere scambiata in danaro, può […] solo consistere nel fatto che esiste la prospettiva di guadagnare più danaro per mezzo della merce, di quanto fosse occorso per la sua fabbricazione», concludendo col sottolineare l’intervento della facoltà inventiva e il carattere astratto della legge che, tuttavia, «nell’essenziale viene a valore in forma pura»89. Sottolineiamo ancora come il valore designi, nell’ottica marxiana, una dimensione ‘interna’ costitutiva di un certo sistema speciale. Considerare ciò

vuol dire confutare l’intierezza dello schema del ‘paragone ellittico’ crociano e delle particolari osservazioni che egli muove a Labriola. Certo, a fronte della lucida consapevolezza della valenza di ‘reagente’ comunque attribuibile alla teorica del valore-lavoro90, lungi da ogni determinismo tecnologico (configurante il centro della volgare posizione loriana), il pensatore di Pescasseroli, per esempio nel saggio Recenti interpretazioni della teoria del valore del ’97, replica con nettezza, anzitutto in virtù della suddetta modellistica, alle osservazioni che il nostro gli aveva opposto nel Postscriptum all’edizione francese del Discorrendo, in cui troviamo affrontato apertamente l’indirizzo marginalistico con l’intento di mostrarne la intrinseca e ‘non manifesta’ determinazione storico-egemonica dell’atteggiamento adialettico e di estraniazione destoricizzante («L’economia pura è così poco una soprastoria, che da questa storia attuale ha preso in prestito due dati, di cui fa due postulati assoluti: la libertà del lavoro e la libertà della concorrenza, spinte al loro massimo per ipotesi»). L’argomentazione di Croce fa leva, in specie, sulla categoria di ‘plusvalore’ presupponente lo specifico del ‘valore’: «Ho chiamato il concetto di sopravalore del Marx» – egli scrive – «un concetto di differenza; e il Labriola mi rimprovera di non poter “dir esattamente ciò ch’io intenda con queste parole” […] Prendiamo due tipi di società: il tipo A, composto da 100 individui, che con capitale comune e con agile lavoro producono beni che ripartiscono in proporzioni uguali; il tipo B, composto da 100 individui, di cui 50 in possesso del suolo e dei mezzi di produzione, ossia capitalisti, e 50 esclusi da quel possesso, ossia proletari e lavoratori; i primi dei quali nella ripartizione abbiano, in misura dei capitali che ciascuno impiega, una parte del lavoro dei secondi 50. Che nel tipo A non abbia luogo sopravalore, è chiaro. Ma neanche nel tipo B voi avete diritto di chiamare sopravalore quella parte di profitto che è riscossa dai capitalisti, se non quando paragonata il tipo B col tipo A e trattiate il primo a contrasto col secondo. Considerando il tipo B in sé stesso (come appunto fanno, e debbono fare, gli economisti puri), il prodotto che si appropriano i 50 capitalisti, ossia il profitto di questi, è un effetto di reciproca convenienza, nascente dal diverso grado comparato di utilità. Voltate e rivoltate, in pura economia non troverete altro. La natura usurpatrice del profitto si può affermare soltanto quando si applichi, quasi reagente chimico, alla seconda società la misura, ch’è invece propria di una società fondata sulla mera euguaglianza […]. “È sopralavoro non pagato”, dice il Marx, e sia pure; ma non pagato rispetto a che? Nella società presente è ben pagato, al prezzo che realmente ha. Si tratta, dunque, di stabilire quale società avrebbe quel prezzo, che nella società presente gli è negato. E dunque […] si tratta di un paragone»91.

Ecco in che cosa consiste tutta l’ambiguità fondamentale dell’analisi crociana delle categorie critiche marxiane: essa ammette, almeno implicitamente, la loro capacità ‘reagente’ in termini squisitamente politici (benché, secondo una sorta di strano ‘guoco di specchi’ – che, evidentemente, molto deve all’influenza del Sorel – la cosa configuri le basi della rinnovata contrapposizione tra il piano della ‘pura’ elaborazione teorica e il momento mobilitante dell’ideale socialistico) e, tuttavia, la contraddice subitamente intendendole come proiettate entro lo scenario della compressione della diagnosi della società capitalistica alla ‘supposta’ antinomia basica dei suoi rapporti produttivi (la contrapposizione semplice – cioè ricavata, inanzitutto, senza indagare i modi del vicendevole isolamento tra produttori e mezzi di produzione nel loro fondamentale contenuto egemonico – fra capitale e lavoro)92 ricavata ‘per paragone’ rispetto ad un certo modello di idealizzazione-equiparazione (nel caso, il principio di utilità comparata). Altresì, tali categorie si rivelano finalizzate a ricostruire le connessioni complessive del sistema sociale, anziché solamente ad isolare i suoi diversi livelli, impedendone la ricostruzione e la ricognizione della modalità unitaria di funzionamento di cui ha da emergere proprio il ‘riempimento’ politico. Sta in ciò la prima motivazione concettuale per cui Croce non arriverà mai a riconoscere, in tutta la sua incidenza, il ruolo della nozione di ‘riproduzione sociale’ nella ‘critica dell’economia politica’. Ciò peserà decisivamente sul suo intendimento del problema della caduta tendenziale del saggio di profitto93, e, più generalmente, sulla sua preliminare adesione all’edonismo economico in quanto orientamento che consentirebbe di cogliere ciò che anch’egli considerava, appunto, escluso dalla elaborazione di Marx, ovvero il peso della suddetta nozione ed il ruolo ineludibile del valore d’uso. Secondo, invece, le indicazioni derivabili dallo Standpunkt labrioliano, nell’apparato categoriale marxiano questi due aspetti vengono enucleati pienamente – al di fuori del pericolo dell’empirismo e della quasi inevitabile sua conversione in parametri astratti – in ordine al movimento d’insieme del capitale come processo. Basti pensare, in breve, a tutte le conseguenze della lettura piattamente ‘quantitativa’ della teoria del valore-lavoro in coerenza alla considerazione in foggia di «cosa esterna» di essa (dunque eludente la dimensione reale-costitutiva della contraddizione), – ben stigmatizzata dal Cassinate nella missiva del febbraio ’98 –, rilevabile nell’ulteriore contrasto con il medesimo rifiuto – che Croce formula proprio sulla scia di Marx94 – della riduzione ‘calcolistica’ dell’ambito economico. Occorre rammentare il fatto che Croce individua la maggiore difficoltà nel passaggio dal valore ai prezzi ed al saggio di profitto entro lo scorrimento dal piano logico concernente l’ambito

delle grandezze – ovvero quello del lavoro come misura – a quello dell’indagine plurifattoriale della articolazione sociale. È, infatti, egli dice, soltanto in virtù di essa che si può giungere a comprendere e tipizzare la natura dell’interesse capitalistico individuale giustificante l’investimento in capitale costante connesso allo stock di sapere accumulato ed alla sussunzione della razionalità scientifica. Non vi può essere, ad avviso di Croce, correlazione strategica tra caduta dei profitti e mutamento dei rapporti sociali in ordine alla posizione della forza-lavoro. Un siffatto spezzamento di piani categoriali risulta derivato dall’assunzione della teoria del valore in termini di sole, mere grandezze e dell’assorbimento del nesso valore-lavoro al versante della pura misurazione. L’architrave della critica del filosofo di Pescasseroli muove dall’idea per cui Marx procede, in sostanza, attraverso il ‘paragone ellittico’ fra una ideale ‘società economica’ in cui valore e lavoro coincidono e la reale ‘società capitalistica’ ove tale coincidenza è destituita. Ma il punto è che, in vero, Marx non procede confrontando realtà e modello, così come sarebbe implicato dall’intendimento del valore-lavoro in ordine all’idea di una sorta di oggettivazione quantitativa di un mondo ‘altro’. Giacché, le tensioni interne – che si riannodano ad una generale complexio di rapporti di forza – alla cerchia speciale dell’economia sono comunque tali da spingere a far divenire i termini in questione – valore-lavoro – tendenzialmente appartenenti, previo apposita riduzione, ad un campo univoco. È la logica dell’‘interno’ formale-speciale (che non si elide, come sappiamo, con la determinazione, anzitutto in virtù di un certo contenuto di dominio, di perspicue dissimetrie) a comprimerli e stringerli in quanto ‘diversi’. Approfondire ciò consente di introdurre anche un ulteriore elemento sollecitato dall’enfasi labrioliana sul ‘problema della trasformazione’ e sulla divaricazione valori-prezzi in quanto contraddizione reale. Infatti, sulla via della focalizzazione di essa, il guadagno della determinazione di «prezzi che si costituiscono sul mercato per via di medie, che oscillano con assai difforme oscillazione intorno al valore, e da questo si dilungano» consente, a fronte giusto della costituzione del valore stesso nella cerchia speciale, egemonicamente caratterizzata, correlabile all’economico, di coglierne l’oggettiva conformazione; esibendo, di qui, lo strutturale carattere di mediazione del campo formale in questione, il quale tiene insieme i ‘diversi’, riverberando i riflessi di ciò sull’insieme di infinite oscillazioni scorrenti, appunto, dal valore al prezzo di produzione e di mercato. In altre parole, il campo di oggettivazioneformalizzazione definito dal valore rispetto al lavoro in relazione alla espansiva diffusione della produzione e riproduzione delle merci95, – di contro ad ogni ipotesi di ‘proiezione estera’ che da Croce si allunga a più recenti interpretazioni in chiave naturalistica delle categorie marxiane –, dando luogo alla realtà della

astrazione, nonché mostrando l’intreccio di riduzione e contraddizione rispetto alla connotazione egemonica dello spazio formale, se visualizzato, consente di cogliere, in rapporto alla trasformazione nei prezzi di produzione, i termini del dispiegamento dei modi della valorizzazione e la loro articolazione riferita alla composizione delle branchie di produzione, secondo l’effettivo consolidarsi della mediazione che non si elide con l’asprezza della tensione comportata dai condizionamenti e dai rapporti di forza reali, ma anzi si afferma in quanto immedesimata ad essi (in congruenza alla realtà della contraddizione). In definitiva, il nodo della trasformazione valori-prezzi, nella sua stessa contraddittorietà, evidenzia il campo di emersione dell’intreccio riduzionecontraddizione, concentrato, al principio, nell’acquisizione della intrinseca declinazione del valore nella valorizzazione quale perspicuo schema di formalizzazione. Il tema è soprattutto rischiarabile considerando lo statuto teorico e tipico di questa, da Labriola assai insistito. La sua preoccupazione è riassumibile nell’intento di definire un adeguato nesso fra la posizione della teoria ed il ruolo giustificante del lavoro, – oggettivato e reso ‘realmente’ astratto con la compressione formale istituente un certo campo speciale –, riguardo a tale processo di valorizzazione del capitale, e, in particolare, poniamo, al ciclo D-M-D|, ove D| > D. È da partire dalla fissazione di una siffatta predominanza categoriale, motivantene l’individuazione della funzione tipica, che la effettività del modo di produzione-riproduzione capitalistica diviene, per Labriola, qualificabile in maniera soddisfacente, come ben si può cogliere fermando lo sguardo sull’apice della formalizzazione delle forze produttive definito dalla costruzione del valore nell’astrazione del danaro. Tale predominanza presiede alla salvaguardia della impalcatura concettuale complessiva de Il Capitale, la quale consente, nel caso, di non sganciare la formazione dei prezzi di produzione dall’analisi d’insieme del movimento autoriflessivo del capitale – in assenza della cui considerazione le medesime dinamiche della mediazione mercantile, via via sempre più complesse in ordine alla morfologia definita dalla riproduzione sociale, risulterebbero incomprensibili –, e, di qui, di rivelarne le strutture formali e l’incidenza cogente della contraddizione. Si tratta di aspetti efficacemente coglibili solo a condizione di evitare la scelta di tradurre in direzione empirica la funzione genetica del valore come valorizzazione. Ciò, del resto, favorisce l’interessante, e in qualche maniera qui già abbozzata, indicazione (che meriterebbe ben altri spazi di sviluppo) di un prius reale non empirico in grado di consentire lo svellimento delle affermazioni formulate da Marx nella celebre, e già richiamata, lettera a Kugelmann dell’11 luglio 1868 dalla lettura in chiave prettamente naturalistica; ponendo l’accento sulla incidenza del piano formale in ordine alla distinzione fra

Darstellungweise e Forschungweise. Infatti, – detto davvero in breve –, tutto sta nel non scindere il significato ‘ulteriore’ del medesimo livello meramente quantitativo dal livello formale. In proposito appare, del resto, assai esplicativa l’insistita asserzione da parte di Marx, sin dalle prime pagine di Per la critica dell’economia politica, dello statuto astrattamente generale (di «misura immanente») del lavoro già sussunto nello scambio, sicché caratterizzazione formale della determinatezza specifica del lavoro e sua indeterminatezza arrivano a coincidere, poiché la peculiare qualità formale specifica del lavoro astratto si declina in termini di quantità, in tal maniera esibendo esplicitamente l’egemonia dello stesso fattore formale96 (e, dunque, rendendo anche chiaro il vincolo fra costituzione formale e squadernarsi del mondo delle merci, e, di conseguenza, proprio l’impossibilità di leggerlo in chiave prettamente ‘quantitava’). Di più: Labriola stringe assai lucidamente come nella elaborazione marxiana sia la funzione genetico-teorica del valore come valorizzazione, designante un perspicuo schema di formalizzazione, a consentire, in posizione scaturente, la penetrazione dell’orizzonte politico della riproduzione sociale, evitando il ‘facile’ arresto alla ‘mera’ dicotomia di produzione e distribuzione97, senza derivare ulteriori implicazioni. Conviene portare sin da ora l’attenzione su un brano del Discorrendo in cui è manifesta la critica nei riguardi delle tesi dell’edonismo economico proprio al fine di conseguire ancor meglio la strategica reattività ermeneutica che Labriola affida alla nozione marxiana di ‘valore’, in contrasto ad impostazioni reclinanti sul terreno dell’ipostasi. Brano in cui temi già affrontati si annodano con altri da esaminare in seguito, il quale recita come segue: Invece di pigliare l’insieme sociale, come un dato in cui geneticamente si svolgono delle leggi, le quali sono relazioni di movimento, molti han bisogno di rappresentarsi delle cose fisse, p. es., l’egoismo di qua, l’altruismo di là. Il caso caratteristico è quello dei moderni edonisti. Non si arrestano alla compagine sociale, come al dato specifico della dottrina economica, ma risalgono ai giudizii di valutazione, come alla premessa (logico-psicologica) della Economia. In questi giudizi trovano una scala, e studiano (per la più parte in forma tipica ed ipotetica) i gradi di essa; come chi studiasse nell’estetica formale i soli gradi del compiacimento. Di fronte a tali valutazioni (o gradi dell’apprezzamento del bisogno) stanno le cose, che sono i beni; e queste cose vengono esaminate nelle loro relazioni con gli apprezzamenti, tenuto conto della loro quantità disponibile e acquisibile, il che determina per esse le quantità di valori, il limite dei valori ed il valore-limite. Costituita la posizione astratta e generica della economicità, indifferentemente, così per le cose di cui la natura ci è prodiga, come per quelle cose che costano agli uomini il sudore della fronte (e l’ingrato lavoro della storia), la povera economia ovvia e comune, ossia la economia della convivenza che ci è familiare, e su la

quale si sono travagliati i teoretici di scuola classica, e i critici del socialismo, diventa un caso particolare di un’algebra universalissima. Il lavoro, che per noi è il nerbo stesso del vivere umano, ossia l’uomo stesso che si svolge, diventa in codesta veduta, o lo sforzo per evitare una pena, o la minor pena. In cotesta astratta atomistica delle conazioni, degli apprezzamenti, delle quantità di beni, non si sa più che cosa sia la storia98.

Considereremo fra poco quanto siffatte osservazioni non significhino in alcun modo, coerentemente con quanto già detto, la sottovalutazione dell’incidenza del valore d’uso, dei criteri di costruzione di mercato e della dinamica egemonica di spinte e forze che governano ed organizzano, anche sul piano della appetibilità, i consumi. Il punto è che tale incidenza non può venire isolata, secondo il Cassinate, ipostatizzando un certo prius logico-psicologico (l’ofelimo di Pareto e, almeno per certi versi, il principio di utilità di Croce), – e ciò vige, vi torneremo, anche per il valore medesimo –, attraverso un modello di generalizzazione empirica destinato ad eludere la complessità della costruzione logico-storica dell’oggetto, a consumare una vera e propria ‘perdita di storicità’, così come acclarato dai limiti della proposta di Böhm-Bawerk, ove metodologismo fattuale-positivo ed vizio di astrattezza metafisicistico si incontrano99, oppure dalla ‘strategia di isolamento’ contraddistintiva del ‘paragone ellittico’ crociano. Tale incidenza domanda, altresì, di esser ricondotta ed inscritta nella visualizzazione della complessità della morfologia del processo, la quale implica – come sappiamo – una apposita rifondazione dell’idea di legalità, nonché l’istanza di considerare il valore–valorizzazione in quanto premessa tipica ai fini di far emergere la rilevanza del lavoro che è in esso oggettivato (a fronte dell’essere il «nerbo stesso al vivere umano» proprio del lavoro medesimo, del suo definire il culmine del rassodamento della mediazione storica nella prassi, in maniera da consentire, primariamente, tanto la riproduzione della vita in ordine al ricambio organico con la natura, quanto l’inerente determinazione formale), e di aprire ad un suo diverso posizionamento egemonico in base alla realtà dei rapporti di produzione-riproduzione, della diffusione delle merci e, appunto, della trama formale che interessa tutto ciò. Il modello marginalistico-edonista, essendo incapace della suddetta visualizzazione e confermando la radicale scissione fra scienza e movimento, procede ricavando per via empirica, esplicantesi nella individuazione dei ‘gradi’ di ‘appetibilità’, la costruzione di oggetti ideali interni alle varie cerchie da riconnettersi alla composizione dei consumi. La cosa sancisce – vi torneremo – la concreta crisi dell’apparato epistemologico corrisposto al modello ‘armonico’ della stabilizzazione liberale, in virtù della acquisizione del ventaglio delle infinite

‘possibilità’. Una tale acquisizione appare, però, anche traducibile nella destituzione della dialettica storica, e, dunque, vocata al riassorbimento nella pura passività. Giacché, ogni soluzione limitantesi a sancire la costituzione separata delle diverse cerchie speciali, evidenziandone il profilo di campo formale senza, però, elucidare i nessi logico-storici nella loro valenza di emersione di contenuti egemonici determinati, non può che risolversi nell’inerzia. La prospettiva, invece, che da Marx si allunga a Labriola, mirante a rinsaldare logica e storia, e protesa a mettere in campo una concezione della Formbestimmung incardinata, in definitiva, sul rapporto contraddizionemediazione, percorre un’altra via, più densa sul fronte della criticità ed orientata a calibrare la categoria del valore in vista della giustificazione del ‘pieno’ politico in cui è immersa, appunto, la morfologia del processo reale. Infatti, quando il nostro insiste sullo statuto di «premessa tipica, senza della quale tutto il resto non è pensabile» del dispositivo del valore come valorizzazione; quando, pur senza negare la possibilità di una problematica trasformazione-mediazione in ordine alla determinazione dei prezzi, ne enfatizza la impraticabilità della verifica diretta rispetto a questa, asserendo che esso «non è che una teoria», sotteso alle sue accentuazioni si rivela il meccanismo per cui i confini della regione formale-speciale a tale dispositivo corrispondente derivano dalla stessa costituzione formale cifrante l’attributo di generalità del lavoro (che è altra cosa dalla sua determinazione quantitativa sic et simpliciter), il quale ne fa lavoro astratto, ed entro cui vediamo ‘compiersi’ proprio il potenziale di investimento egemonico che il valore esprime, lungo una apposita direttrice di riduzione. Stando in siffatta maniera le cose, occorre tenere come ‘stella polare’ il nesso valore-forma, di contro ad ogni ordinaria tentazione naturalistica. Se il contenuto egemonico del valore si esercita nel comprimere il lavoro entro la forma-merce, ciò rende basilarmente conto dell’incorporamento costitutivo di quest’ultimo nella merce medesima che si è valorizzata e nel suo movimento, ovvero nel capitale. Del resto, in congruenza alla sinossi del discorso marxista di Labriola, incline a sfruttare il livello elementare della struttura sociale capitalistica per delineare le coordinate di mediazione che ne dispiegano compiutamente la morfologia (come abbiamo potuto corroborare per via indiretta, ricongiungendo il nesso genesi non empirica – sistema ricavabile dal secondo saggio ad un segmento della tematizzazione della riproduzione ne Il Capitale), il valore assume il compito di designare, riguardo a tale struttura, il nucleo generale di funzionamento. Dunque, il valore non può implicare il ‘raffronto’ modellistico di due società poiché la sua mansione è quella di istituire l’asse portante dell’ininterrompibile scorrimento dalla individuazione della forma-merce in guisa di ‘cellula’ primaria del sistema sociale capitalistico alla

illimitata espansività di codesta ed alla funzione unificante che essa esercita. Una simile incidenza del valore può realizzarsi e rendere penetrabile la propria portata egemonica solo, però, a muovere dalla parzialità dell’alveo formale della costituzione di uno specialismo e della sua logica. In esso contraddizione e riduzione si annodano, come appare anche ed anzitutto in virtù del riconnettersi della relazione fra forma relativa di valore e forma di equivalente alla legalità di uno scambio diseguale ed alla sua effettività100. La ‘riduzione’, implicata strategicamente dalla ‘confrontabilità’ di ‘grandezze differenti’ che rende possibile il loro discrimine qualitativo solo una volta ammessa la loro espressione di una unità comune, esige di non essere trattata, come invece fa Böhm-Bawerk, sul piano della deduzione empirica, poiché proprio la logica del comprimimento ad un ambito formale determinato che vi presiede lumeggia, eo ipso, i contorni contraddittori della suddetta relazione («Nello stesso grado nel quale si sviluppa in generale la forma di valore» – scrive Marx – «si sviluppa anche l’opposizione fra i suoi due poli forma-relativa di valore e forma di equivalente»101). Siamo, quindi, agli antipodi dell’approntamento di una sorta di «algebra universalissima» e della casistica ad essa afferente, come è, invece, nel ragionamento dell’empiricismo marginalista, vocato al rovesciamento nella astrazione tout court. Quello che interessa Marx è impostare un paradigma teorico in cui marcare il nesso strutturale di contraddizione e forma speciale. Tale nesso si concentra tutto nei risvolti della riduzione del lavoro a lavoro-merce che l’equivalente del valore esprime. Qui sta il ‘segreto’ della ‘riduzione’, la quale si realizza attraverso una dinamica di non semplice comprensione giacché riguarda l’almeno apparente paradosso del circoscrivimento di uno specialismo attraverso l’istituzione di una generale regione formale ove, proprio in corrispondenza a detta ‘riduzione’, si trova posta in essere la cogenza della astrazione (e della contraddizione), di cui è pregno l’arco che va dai lavori particolari al lavoro uguale e, di qui, alla forma di valore totale. La tipizzazione teorico-funzionale di quest’ultima è inscindibile, evidentemente, dal processo di valorizzazione conducente fino alla formazione del plusvalore, in ordine a precise condizionalità, ed ai modi della sua dislocazione, giacché rappresenta il ‘posto che’ costantemente rilevabile come generale termine egemonico immesso nell’intreccio fra processo di formalizzazione d’insieme e tensione della regione–‘economia’ rispetto alla medesima inclusività morfologica primaria della dimensione-lavoro – poi, proprio a fronte di ciò, irradiata sull’intiero comprensorio del processo reale –. Facciamo attenzione: a questa altezza, valorizzazione e riduzione si coimplicano, dal momento che il valore non è un prius ipostatizzato (altrimenti si dovrebbe

dare ragione a posizioni come quella di Sombart, o, con curvatura puramente idealizzante e proiettante sul valore il fattore espressivo, di Sorel), ma esibisce quella modalità di compressione-istituzione formale in assenza della quale la costruzione morfologica della società capitalistica e del ‘mondo delle merci’ non può venir esaustivamente e realisticamente pensata. Com’è chiaro, il valore percorre costitutivamente la costruzione della riproduzione, che l’ottica che da Marx trapassa in Labriola sembra non cercare mai di ‘dissociare’ analiticamente proprio per restituirne la centralità. Esso importa, decisivamente, la possibilità di dar conto dialetticamente, nel loro vertebrarsi, delle guise della astrazione reale, anche a livelli diversi – come dimostrato clamorosamente dal significato del ‘problema della trasformazione’, cioè della consistenza della divaricazione(mediazione) valori-prezzi. È d’uopo, adesso, interrogarsi ancor più apertamente: perché siffatta particolare funzione genetico–non empirica, ‘tipica’ poiché indicante una precisa condizione di predominanza egemonico-funzionale della categoria della valorizzazione coincide, secondo l’ottica labrioliana, con il suo statuto di ‘teoria e nient’altro che teoria’? Rimarcare il vincolo di spazio teorico e dimensione dell’astrazione coglie un punto decisivo ma non autosufficiente. Esso medesimo può trovare piena giustificazione solo quando si sia compreso come l’appartenenza del valore come valorizzazione allo spazio della teoria, – cosa che impone il discrimine dal piano della verifica empirica, e, perciò, non può spiegare direttamente la formazione dei prezzi –, si rifletta su tutta l’organizzazione processuale del sistema capitalistico, nell’incontro ineludibile, necessario quanto complesso fra momento della produzione e momento della riproduzione, esprimente il primato di questa su quella. Non v’è dubbio, infatti, che tutto ciò, ‘in prima battuta’, parrebbe configurare una sorta di incongruenza nel ragionamento. Croce contempla la funzione del valore in quanto ‘tipica’ perché isolabile all’insegna della postulazione modellistica del paragone ellittico (benché, in linea con l’ambiguità precedentemente indicata, l’affermazione per cui il valore-lavoro, – o meglio: la euguaglianza che vi presiede –, sia «un fatto, ma un fatto che vive fra altri fatti», non «un fatto dominante assoluto» ma «nemmeno un fatto inesistente e semplicemente immaginario»102, pur ‘mostrando il fianco’ all’impostazione empiristica dovuta all’influenza preponderante del marginalismo, esibisca come il filosofo di Pescasseroli assuma con accezione strutturale la non riconducibilità del valore-lavoro al mero piano logico, esso esprimendo una astrazione specifica commisurata alla concettualizzazione di una condizionalità storico-specifica, benché protraentesi per una fase assai ampia103, donde diviene possibile derivare un pretto

conseguimento di carattere, giustappunto, logico-storico relativo all’analisi del capitalismo). Per Labriola, invece, il valore-lavoro definisce lo schema generale di una dinamica reale di formalizzazione del mondo; donde anche l’opportunità di riconnettere teoria ed empiria ad uno strato più profondo di ricognizione. Il valore-lavoro esprime il contenuto politico-egemonico del costituirsi formale dell’economico-specifico. Mediante il suo ruolo di riduzione egemonica, esibente una perspicua struttura di potere, esso consente di definire i contorni effettivi della cerchia speciale dell’economico. In sua assenza non si comprenderebbe la compenetrazione della complexio dei rapporti di forza corrispondenti al sistema capitalistico, nel suo contenuto politico-egemonico, con l’orizzonte morfologico, con lo spazio formato in cui è scandita la complicata intersezione produzione-riproduzione, la modulazione del mercato etc. Dovremo ancora ragionare su un simile aspetto. Ora, però, torniamo a domandare, se così stanno le cose, per quale ragione l’incidenza del valorelavoro si attesta sul terreno squisitamente teorico e, dunque, non può assumere alcuna diretta funzione di giustificazione nei riguardi della determinazione particolare dei prezzi di produzione e di mercato? Essa mostra, – bisogna ulteriormente enfatizzarlo –, proprio in virtù del dispositivo teorico cui è corrisposta, uno schema determinato di formalizzazione a contenuto egemonico, e ciò implica tre interconnessi aspetti: A) L’emersione del ‘riempimento’ politico-egemonico del ruolo peculiare di una regione formale speciale. B) Il condizionamento dovuto alle rifrazioni corrispondenti alla tessitura di tale ‘riempimento’ sull’intiero arco, che da tale regione insorge, del ‘mondo delle merci’, della sua produzione-riproduzione; dunque. C) L’esibizione, appunto, dello sporgere della centralità della contraddizione. Questa coincide con la dissimmetria che la riduzione ad una cerchia formale-speciale reca (omogeneizzando i diversi), la quale consta, ‘in sé e per sé’, di un determinato spessore teorico-epistemico, ed esplicando la realtà della astrazione appare schiudere ad una articolata continuità pure in ordine al grumo denso di criticità del ‘problema della trasformazione’ stesso, sia per quanto riguarda la realtà della divaricazione valori/prezzi, sia per quanto riguarda, il generale cuore dialettico dell’astrazione. Infatti, ciò ci mostra come si riveli indebito trattare la questione concernente «prezzi che si costituiscono sul mercato per via di medie, che oscillano di assai difforme oscillazione intorno al valore, e da questo si dilungano» ‘isolatamente’, anzitutto in virtù del fatto che la contraddizione lumeggiata dal valore-lavoro ha a rifrangersi, ad un diverso livello, su tale divaricazione. Nota bene: questo rifrangersi non si traduce nella proiezione e nella prevaricazione del piano ‘esterno’. Altresì, a fronte del rifiuto della coppia opposizionale ‘sostanza’/‘accidente’, centrale nella tradizione metafisica, Marx

delinea, in riferimento al dispositivo del valore-lavoro, la spinta espansiva verso la penetrazione ‘dall’interno’ svolta dal nesso riduzione-contraddizione, con il suo costitutivo annodarsi alla dimensione della realtà della astrazione avvolgente l’universo delle forme e l’articolazione delle cerchie speciali ove si staglia proprio il movimento effettivo e la morfologia del processo, la mobilità della sua tessitura egemonica, dei rapporti di forza. Occorre ‘mettere la lente’ su questo elemento per comprendere fino in fondo il significato della tematizzazione labrioliana del valore-lavoro. Lo stesso ‘problema della trasformazione’ attiene centralmente a tale aspetto. Giacché, ‘all’osso’, esso concernendo la dissimmetria reale tra lo scambio delle merci secondo la quantità di valore in queste incorporate e la ridefinizione dello scambio fra le loro singolarità in virtù della composizione differenziata delle tante branchie produttive, mostra come la ‘costatabile’ divaricazione definita dalla indipendente formazione dei prezzi non si equivalga, – stando alle, per certi versi, antevedenti indicazioni di Labriola –, alla mera espulsione di ogni fattore critico-qualitativo rispetto alle determinazioni della legalità della società capitalistica, – anche perché il dispositivo del valore-lavoro si ricollega inevitabilmente ad una precisa legalità, quella di uno scambio ineguale, malgrado tale legalità sfugga a qualsiasi intento di mera e rigida ‘positivizzazione’ epistemica –, bensì rinvii alla capacità, che la lettura dialettica dei due piani in discussione può esercitare, di mettere in luce la portata di costituzione intera della contraddizione dal valore mantenuta in direzione egemonica. Su questa via va intesa l’idea di Labriola per cui il dispositivo del valorelavoro, non delineando né una condizione ‘esterna’, né un criterio di applicazione empirico-naturalistico (come dimostrato dalla stessa tematica dei prezzi), trova la propria compiuta giustificazione in virtù del potenziale di predominanza ermeneutico-politica e categoriale che lo cifra in relazione all’«ordinamento» dei rapporti di produzione, al loro complessificarsi. Tutto ciò importa, vieppiù, il ‘rivoluzionamento’ di «tutta la concezione della vita e della storia», anziché «la spiegazione terra terra dei fatterelli di tutti i giorni». Per acquisire adeguatamente la funzione di riqualificazione integrale assolta dal valore-lavoro, la quale si esalta nella dialettica evidenziata qui su, occorre pensare al significato più profondo di quanto appena focalizzato, ovverosia che la mediazione compresa nella riduzione all’interno di una cerchia formale dei ‘diversi’ definiti dai due termini stessi ‘valore-lavoro’ (di cui non possiamo qui svolgere il ‘difficile’ nesso con il tanto questionato tema del ‘feticismo’, al quale pure accenneremo fra poco), secondo un meccanismo egemonico di astrazione determinante il lavoro eguale, non si annulla anch’essa ma precipita indirettamente (donde lo sporgere della contraddizione), – definendo, a sua volta,

un problematico ed ulteriore livello di manifestazione di sé stessa –, nella costituzione egemonica dell’organizzazione capitalistica. Torneremo ‘da vicino’ sull’argomento soffermandoci sulla vexata questio del ruolo della riproduzione e del valore d’uso. La potenza di astrazione reale della riduzione quantitativa, – ma da non leggersi, vi abbiamo accennato, come tende prevalentemente a considerare Croce (con Sorel), in chiave ‘quantitativistica’, ovvero restituendola in foggia di modulo economicistico –, del lavoro a valore-merce si protende in quanto tensione interna che, – pur nel quadro, che il Cassinate avverte, di sempre maggiore fluidità della distribuzione e, dunque, della ‘appetibilità’ delle merci, giustappunto, nonché della impetuosa rimodulazione del sistema della domanda e della propensione al consumo consente l’influenza egemonica di un linguaggio e di una strategia di compressione del reale ad una sezione formale determinata. In definitiva, si concentra tutta qui la ragione per cui il ‘valorelavoro’ definisce il ‘nocciolo duro’ di uno specialismo, poiché esso ‘non ha senso’ al di fuori della propria valenza di riduzione formale, ed in ciò raggruma la finalità di dilatare al massimo l’inclinazione alla compressione ‘interna’, se così possiamo dire, la cui cognizione è indispensabile per qualificare i mutamenti della morfologia capitalistica. La logica egemonica che vi corrisponde chiarisce il motivo fondante della inscrivibilità nello spazio squisitamente teorico che lo cifra, la sua grammatica genetico-non empirica, tipizzando – proprio in forza del ‘protrarsi’ di tale spinta alla riduzione – la definizione, a sua volta assai ‘propulsiva’, della cerchia dell’economico ove, come detto, il Politico si concentra e, parimenti, è sospinto ad una illimitata e pervasiva diffusione; scavando nei modi stessi della valorizzazione e facendo affiorare il loro cospicuo raggio di emersione morfologica. Lo statuto teorico del valore come valorizzazione, il suo carattere genetico non empirico consente di focalizzare i termini di costituzione egemonica, – in cui si raccoglie e rispetto a cui va rapportata la presenza della contraddizione –, che percorrono internamente, via via, livelli di ‘per sé’ estranei di organizzazione del reale, i quali, dunque, si immettono e convergono, in tal maniera, nello squadernarsi del processo di costruzione morfologica collegato alle movenze effettive del sistema capitalistico. Ciò fa problema poiché significa che l’‘economico’ non si afferma, evidentemente, quale campo realiter ‘esclusivo’. Piuttosto, esso si cala nel sistema di ‘sistole e diastole’ profilato dalla istituzione di regioni e cerchie speciali corrispondenti al pluralizzarsi della ragione scientifica, ma la sua valenza egemonica coincide con il meccanismo di riduzione formale presiedente alla massima incidenza di tale pluralizzarsi socio-cognitivo, e consente di stringere nella sua integralità la portata del sottosuolo politico che innerva e riempie le stesse cerchie formali speciali.

Arriviamo, così, a cogliere come il particolare elemento del valore-lavoro si correli al ruolo complessivo che Labriola affida al marxismo, già assai approfondito e su cui dovremmo tornare. Giacché, esso stesso, nella sua autonomia, si costituisce in guisa di campo speciale ove viene ad essere lumeggiata la contraddizione concernente il complesso delle modalità di riduzione costitutiva della molteplicità delle forme speciali medesime, rilevandone – ecco l’aspetto decisivo – proprio il pretto profilo politico. L’‘ombra lunga’ e permanente della contraddizione si distende nel dinamismo delle forme storiche in cui gli specialismi, la loro costituzione morfologica, appunto, e l’estensione ed organizzazione della dimensione mercantile si intrecciano e si compenetrano, appalesando la permanenza del nesso della dissimmetria intrinseca alla riduzione-mediazione formale con l’ineludibilità di uno scambio ineguale, potenzialmente inoltrantesi, entro il presente storico, nella realtà di ogni modo della prassi, – come reso intrinsecamente chiaro, del resto, dalla tensione connettiva dell’opzione qui discussa di ‘filosofia della prassi’ con ogni sezione e ruolo cognitivo. A fronte di un simile quadro, diviene assolutamente acclarabile il carattere di teoria politica, di teoria della storia e di ‘drammatico’ campo di elaborazione concettuale, la «dimensione tragica», per dirla con le sue stesse parole, de Il Capitale, avvertita con profonda acutezza da Labriola. Infatti, appare ora chiaro come al centro della trattazione vi sia il problema dello stagliarsi della contraddizione nell’alveo di una cerchia specifico-formale, la quale definisce la struttura e la mobilità logica innervante e scandente il confluire di spinte egemoniche, conflitti, saperi, nessi di dipendenza e di padronanza104 – ancora per attingere al pretto lessico labrioliano –, irradiantesi, poi, su tutti gli aspetti della morfologia del processo reale, costitutivamente irriducibile al campo della descrizione di una mera legalità naturale105. Arriviamo, di conseguenza, anche a capire quanto le indicazioni labrioliane ci aiutino a stringere uno degli aspetti estremamente significativi del plesso di problematiche sollevate dalla posizione di Böhm-Bawerk. In sintesi: se il criterio di ricognizione empirica cui ricorre l’economista austriaco non può che avere come suo ‘principio regolativo’ il riferimento all’obiettivo di conseguire una descrizione del genere appena menzionato, esso risulta, inevitabilmente, da una misura di isolamento, e, dunque, di esclusione della complessità logico-storica dell’oggetto, collocantesi all’opposto della fissazione del valore-lavoro in qualità di premessa tipica che, come abbiamo potuto esplicitare, definisce, certo scarnamente, – ed in quanto preliminare rappresentazione di una presentificazione pienamente esplicata e storicamente determinata –, l’ossatura

egemonica della compenetrazione tra costruzione formale e processo ove, anzitutto in relazione all’egemonia dell’astratto (di contro ad ogni strategia di deduttiva reductio ad esso), viene ad emergere il ritmo di manifestazione della contraddizione. Questo ha a riverberarsi nella divaricazione valori-prezzi (la cui rilevanza riluce, giustappunto, nella problematica asimmetria e compresenza alla trasformazione – a valenza egemonico-tendenziale – di diverse quantità di lavoro in uguali quantità di valore) e nell’insieme di connessioni, da Marx individuate, fra dislivello di produttività in una data branchia, scarto fra prezzo di produzione sociale ed individuale, e, ancora, formazione del sovrapprofitto. Badare bene: la complessità di una simile costituzione formale, nell’ottica labrioliana, non viene assunta in quanto ambito ‘feticizzato’ e ‘feticizzabile’ di risoluzione tout court di ogni concreta vitalità e soggettività, bensì – proprio in base al nesso fra dialettica e contraddizione, il quale consente, col contenuto critico-politico che lo cifra, di cogliere come sia erroneo concepire la mediazione compresa nella riduzione del valore-lavoro in quanto avente portato di esclusività – nel ‘potenziale’ rinviare ad una diversa disposizione ricompositrice del lavoro e, dunque, ad una diversa accezione della ‘unità-distinzione’ di ‘vita’ e ‘forme’106 (in modo da non intenderle come poli privi di comunicazione reciproca). Tornando al peculiare nodo della posizione böhm-bawerkiana (che, per quanto riguarda la tesi di Zum Abschluss, Labriola approfondì sin dal luglio 1896, sollecitandone, poi, la conoscenza da parte dello stesso Croce107): se la sua componente ‘costruttiva’ consiste nell’evidenziare un livello determinato della articolazione distributiva e del vincolo fra organizzazione del ciclo e funzione dei prezzi, nonché nel fermare l’attenzione sulla composizione plurifattoriale della forma-merce in relazione alla incidenza del valore d’uso, d’altra parte, essa appare come derivata da un percorso di ‘isolamento’ connesso alla giustapposizione empirica e, dunque, non in grado di acquisire l’iscrizione di tale livello nella morfologia dinamica ove il vincolo contraddizione-astrazione reale esercita rifrazioni ed influenze proprio sulla vicenda della costruzione formale d’insieme, delle sue connessioni storico-epistemiche e degli indirizzi genetici che la solcano (cosa che, invece, ne consentirebbe l’illuminazione dell’intenso midollo politico). Per arrivare a guadagnare sino in fondo la fallacia di ogni atteggiamento di isolamento e di naturalizzazione empirica è necessario, secondo Labriola, rifuggire – torniamo a battervi e ribattervi – dall’‘inconfessato’ residuo metafisico-astratto che, contraddittoriamente, vi presiede, dando luogo ad un cospicuo cortocircuito. Si tratta di un aspetto tematizzato dal nostro anche in relazione al motivo marxiano del feticismo delle merci. Argomenta il filosofo di Cassino:

Cotesta metafisica, sensu deteriori, ha alla lontana una qualche analogia con la origine dei miti […]. Tale metafisica, in senso diremo oramai dispregiativo, come stadio e come intoppo di un pensiero ancora in formazione, ricorre in ogni ramo del sapere. Quanto sforzo non è costato alla riflessione dottrinale, nel campo della linguistica, l’andar sostituendo alla illusione paradigmatica delle forme grammaticali la genesi di queste: genesi che va psicologicamente cercata ed accertata nel vario atteggiarsi del parlare, che è un fare, un produrre, e non un semplice factum? Così fatta metafisica, in senso d’ironia, esiste ed esisterà forse sempre nei derivati fraseologici dell’espressione del pensiero; perché la lingua, senza della quale noi non potemmo, né addivenire alla precisione di quello, né formularne la manifestazione, al tempo stesso che dice, altera ciò che esprime, ed ha perciò sempre in sé il germe del mito. Sprofondiamoci per quanto si voglia nella teoria più generale delle vibrazioni, noi diremo sempre: la luce produce questo effetto: il calore opera così. Si ha sempre la tentazione, o per lo meno si corre il pericolo, di sostantivare un processo, o i termini di esso. Le relazioni, per via di una illusionale proiezione, divengono cose, e queste cose escogitate divengono, alla volta loro, soggetti operanti. Se facciamo attenzione, a questa così frequente ricaduta del nostro spirito nell’esercizio prescientifico dei mezzi verbali, noi ritroveremo in noi stessi i dati psicologici del modo come si originarono, in altre circostanze e tempi, le obiettivazioni delle forme del pensiero stesso in enti e entità, come è il caso delle idee platoniche: e lo dico tipico perché è il più plastico fra tutti. Di tale metafisica, in quanto essa è la immaturità di una mente non ancora scaltrita dall’autocritica, e non rafforzata dall’esperimento, è piena tutta la storia; che appunto per ciò, come per tanti altri motivi, è anche superstizione, mitologia, religione, poesia, fanatismo delle parole, e culto delle vuote forme. Lascia, cotale metafisica, le sue tracce anche in ciò che ai tempi morti chiamano scienza. Non aduggia essa forse il campo della economia politica? Quale danaro, che, da semplice mezzo di scambio qual è in prima, si fa capitale, solo in quanto è in funzione col lavoro produttivo, non diventa forse, nella fantasia degli economisti, capitale ab origine, che per un diritto innato getti interesse? Ecco il gran significato di quel capitolo di Marx, dove si parla del capitale come di feticcio. Di questi feticci è piena la scienza economica. La qualità di una merce, che è propria del prodotto umano, solo in un certo rispetto storico, – e, ossia, in quanto gli uomini vivano in un certo dato sistema di correlazione sociale, – diventa una qualità intrinseca ab aeterno al prodotto stesso. Il salario, che non è concepibile, se a determinati uomini non è imposta la necessità di darsi a mercede ad altri uomini, diventa una categoria assoluta, cioè un elemento d’ogni guadagno; e perfino l’intrapreprenditore capitalista si adorna del titolo di un che ritragga da sé stesso un più alto salario! E poi la rendita della terra: – della terra, dico! Non ci sarebbe mai da venire alla fine, se si venisse a enumerarle tutte coteste trasformazioni metaforiche dei rapporti relativi in eterni attributi degli uomini o delle cose108.

Il Cassinate risale alle radici del paradigma metafisico-astratto poiché il meccanismo ipostatico di generalizzazione, anche colto nella sua parziale capacità plastica rispetto all’articolazione del reale (resa evidente dall’‘idealtipo’ del platonismo, in primaria connessione al riferimento definito dalla matrice del

linguistico, con ciò esibendo la molteplice connotazione semantica attribuibile alla predicazione di ‘tipicità’), riemerge nell’isolamento – invertebrato sul piano teorico e della ricostruzione logico-storica dell’oggetto – del factum empirico. Critica della ipostatizzazione metafisica del pensiero ed indagine della fenomenologia del ‘feticismo’ rivelano la loro omologia sulla scorta della presa di distanza dalle cristalizzazioni verbalistiche nell’ambito della Sprachwissenschaft109. L’insistenza univoca, in-mediata, sull’esclusivo terreno relativo all’empiria bruta conclude (almeno in certo senso, per contra) ad un inequivocabile procedimento di ipostatizzazione-sostanzializzazione ‘ingenua’. Esemplare appare, in proposito, il criterio naturalizzante presiedente ad un aspetto che dall’economia politica classica è trapassato nel marginalismo (e rispetto a cui un riferimento essenziale è dato dalla critica nelle Teorie sul plusvalore all’immagine propugnata dalla scuola fisiocratica del movimento del capitale-merce, che ne chiudeva unilateralmente la forma nell’immediatezza del termine dominante, in assenza di una adeguata nozione di ‘valore’110). Criterio conducente all’assunzione delle grandezze di valore e dei rapporti quantitativi di distribuzione in guisa di cardini della effettività della produzione e distribuzione capitalistica. Giacché, se l’elemento della compressione quantitativa definisce certamente, come abbiamo visto, l’ingrediente costitutivo della riduzione formale compresa nel valore-lavoro, nell’ottica che il marginalismo invera, sia pure intendendo constatare l’attribuito e presunto ‘nocciolo duro’ della impostazione marxiana, tale elemento viene appreso come un presupposto, – tanto traducibile in mitologema quanto combaciabile con il paradigma di una legalità naturale determinata, in cui ‘classificarne’ il carattere di appetibilitàutilità, definibile anche, e marcatamente, in chiave psicologistica, presumendo con ciò di estinguere la ‘supposta’ fallacia di tale impostazione –, anziché come un risultato che non ha a cristallizzare il processo storico-materiale. È interessante notare come per denunciare l’atteggiamento destoricizzante contraddistinguente la continuità fra residuo metafisico ed empirismo culminante nell’edonismo economico il nostro autore parli della fissazione della «qualità intrinseca ab aeterno al prodotto stesso», così individuando, assai particolarmente, il riflesso della determinazione feticistica delle merci, – irriducibile al livello di stretta indicazione –, nello stabilimento della eguaglianza quantitativa in termini di qualità comune di esse, rilevabile persino nel quadro di incidenza della appetibilità segnalata dal principio della ‘utilità marginale’. Il fattore–cardine che lo giustifica vene restituito in nota con la osservazione seguente:

gli edonisti, operando cum ratione temporis, spiegano l’interesse ut sic (danaro che produce danaro) per mezzo del valore differenziale tra il bene attuale e il bene futuro; ossia traducono in concettualismo psicologico la ragion del risico ed altre analoghe considerazioni della ovvia pratica commerciale111.

La saldatura tra empirismo e facile classificazione psicologico-concettuale pervade siffatta impostazione epistemologica ‘ingenua’ anche per quel concerne il ricorso ‘a’ e la modulazione ‘di’ assunzioni speciali (come nel caso, indicato nel brano sopra, di certe spiegazioni, nel campo della linguistica in parte ricollegabili ed alcune osservazioni precedenti), definendo il tragitto che va dalla fissazione mitologistica alla qualificazione naturalistico-psicologica del dato osservativo. Precipitare in ipostasi una data fornitura empirica corrisponde, entro il presente piano dell’analisi labrioliana, ad una operazione di feticizzazione che, risolvendosi nella formulazione del principio psicologistico dell’‘utile-piacevole’ derivato in ordine al «valore differenziale tra il bene attuale e il bene futuro», se, per un verso, appare negare la struttura teorica del valore-lavoro nella sua incidenza generale, per un altro, quasi per cortocircuito, sancisce tale incidenza, non solo considerando proiettivamente in chiave naturalistico-economicistica la posizione di Marx, ovvero reiterando un determinato, rigido meccanismo di riduzione epistemica che, ‘di per sé’, obnubila la densità politico-egemonica che ad esso sarebbe attribuibile e che già la suddetta teorica esibisce ‘di rincalzo’, ma anche subendo per via mimetica il riflesso della logica e dell’impulso egemonico di riduzione ‘quantitativa’. Di contro al procedimento di conversione naturalistica (più o meno inconsaputa) del dato empirico in termini di ipostasi, – che Böhm-Bawerk riproietta su Marx e che, altresì, si raccoglie nella strategia di destituzione ermeneutico-politica di ogni determinazione specificamente e ‘tipicamente’ formale –, Labriola punta sull’elemento strategico di una classificazione critico-funzionale (in certo, preciso senso) dell’intreccio morfologico-processuale esplicato, nella sua ossatura logico-storica, dallo stesso vincolo fra modi della valorizzazione, configurazione ‘produttiva’ del medesimo lavoro e movimento formale ove emerge e s’inscrive la contraddizione. Si badi: ciò schiude la possibilità della visualizzazione organica del dinamismo innervante la manifestazione dei rapporti capitalistici che caratterizzano il presente storico. Si tratta di evidenziare come, nel centrale spazio della riproduzione, l’intensità dei rapporti di forza espressi dal valore come valorizzazione, dallo slargarsi del suo campo di riflessione – proprio perché essi risultano intrinsecamente cifrati in senso politico – corrisponda lateralmente al giuoco di spinte supportanti

l’organizzazione, la distribuzione ed il trasceglimento della tipologia delle merci (che l’‘ortodossia’ della II Internazionale, poi protraentesi massimamente nella ideologia della III, annette alla sfera sovrastrutturale, e che, entro il pretto versante del discorso labrioliano, si rendono anche costitutivamente riconnettibili all’articolazione degli ‘impedimenti’ concernenti, a loro volta, il cosiddetto, almeno ‘in prima istanza’, fattore dell’‘irrazionale’). Si tratta, inoltre, di annodare articolatamente produzione e circolazione; in tal maniera esibendo, vieppiù, la intrinsecità a tutto ciò di una prospettiva di ridislocazione, di ricomposizione del lavoro e della modulazione delle ‘utilità particolari’, intese in quanto non irrigidibili nella effettiva, attuale configurazione subordinata del valore d’uso. Ovverosia: di una prospettiva ove venga nuovamente declinato il profilo politico del lavoro, – rispetto al suo contingente portato di inerenza al dominio dell’astratto, ai termini cogenti della mediazione) del mutamento morfologico dello spazio mercantile –, nell’orizzonte della riunificazione solidale del genere umano. In merito Labriola è assai esplicito e si richiama direttamente a quanto affermato nella Critica al programma di Gotha: «Solo nella società comunistica» – egli scrive – «il calcolo edonistico […] può aver carattere di cosa precisabile […] In cotesta società […] non parrebbe utopistico il chiedere, che ciascuno presti secondo le sue forze, e ciascuno riceva secondo i suoi bisogni»112. L’affermazione si connette anche alle seguenti argomentazioni del Postscriptum all’edizione francese, dove, in virtù della schietta avversione verso le volgarità di matrice positivistica, il nostro autore considera: «Con la psicologia non è lecito di scherzare. Non saprei dire in poche parole quanta parte di essa debba entrare nei presupposti della economia. So di certo però, che la più parte dei concetti psicologici, che edonisti e non-edonisti vanno cacciando dentro all’economia, ha un certo che di messoci a posto ad usum delphini, un certo che di escogitato e non di trovato, un certo che di accidentalmente tratto dalla volgare terminologia e non di criticamente vagliato; onde è il caso di ripetere tractent fabrilia fabri. E so anche questo, che dal bisogno al lavoro ci corre tutta la formazione psicologica dell’uomo; ci corre quanto ci corre dal sentimento privato della sete, che è il bisogno del bere, che il bambino non associa ancora, non dirò ai movimenti che gli occorrono, per procurarsi da bere, ma nemmeno alla rappresentazione dell’acqua, sino all’atto del lavoratore provetto, il quale per matura volontà d’intelletto, per volontà nella quale esperienza e immaginazione, imitazione e inventiva fanno uno, scava un pozzo, o apre una fontana. Ridurre e scheletrizzare cotesta viva formazione in un’arida nomenclatura, questo fu il difetto della psicologia vulgaris, e questa il più delle volte gli economisti, anche ai giorni nostri, prendono a premessa delle loro

speciali elucubrazioni»113.

8. Unità della concezione materialistica della storia e ‘critica dell’economia politica’, ed unità di forme e concetti Siffatto insieme di problemi risulterà, però, assai più comprensibile tornando ad affrontare la rilevanza generale che il tema di quella che possiamo indicare come riproduzione sociale assume, direttamente e indirettamente, nella teorica del Labriola maturo. La questione può essere ripresa riflettendo, anzitutto, sulla commisurazione labrioliana del materialismo storico in quanto teoria critica all’‘epocalità’ del modello categoriale costituito da Il Capitale, il quale – torniamo ad evocarlo – consta di un carattere di criticità «non nel senso subiettivo della parola, ma perché ritrae la critica del moto […] contraddittorio delle cose stesse». Esso fissa l’essenzialità del ruolo della ‘critica dell’economia politica’ rispetto alla concezione materialistica della storia. Ciò segna la discriminante radicale tra la stessa nozione di ‘criticità’ espressa dal materialismo storico ed il criticismo tradizionale. Questa va intesa come inveramento di prospettiva del moderno, ma rappresenta anche un radicale superamento dei condizionamenti e dei limiti del razionalismo (originariamente ‘scettico’) che dall’autoreferenza del rigore epistemico cartesiano – in corrispondenza ad una certa idea della razionalità scientifico-sperimentale – trapassa nel soggettivismo trascendentale kantiano, confluendo, in definitiva, sul corno di una concezione di genere normativo. Tale nozione svela, in definitiva, l’esito passivizzante dei due cardini del soggettivismo moderno su cui il nostro attaglierà ‘da subito’ la propria intenzionalità polemica. Può consentirci di rifuggire da un siffatto esito, – senza, però, rinunciare ai conseguimenti obiettivi della modernità (in coerenza con lo Standpunkt di Hegel e di Marx) –, l’approccio teorico volto a riconnettere unitariamente la vicenda della conoscenza scientifica a quella della riproduzione sociale; pervenendo ad inscrivere la prima nella complessità della seconda; sì da stringere l’interdipendenza mobile fra specialismi, modi del lavoro accumulato, socializzazione del sapere scientifico e sua stessa organizzazione – corrispondente alle sezioni cognitive differenziate – in appositi stock entro il medesimo campo della riproduzione. Si pensi alle affermazioni che seguono, di esemplare importanza e che vanno legate ad altre precedentemente evidenziate: La nota caratteristica della filosofia moderna […] è il dubbio metodico, e quindi il criticismo, che accompagna, a guisa di sospettosa cautela, l’uso di tali forme, così nell’intrinseco, come nella portata estensiva. Ciò che decide di tale passaggio la

ingenuità alla critica è la osservazione metodica […] e più che l’osservazione, l’esperimento volontariamente e tecnicamente condotto […] L’esperimento ad arte e metodico finisce da ultimo per indurci nella persuasione di questa verità semplicissima: che anche prima che nascesse la scienza, e in tutti gli uomini che alla scienza non arrivano, le attività interiori, compreso l’uso della ovvia riflessione, sono come un venir crescendo, per la sollecitazione dei bisogni, di noi in noi stessi, e cioè un generarsi di nuove condizioni, successivamente elaborate. Anche per questo rispetto il materialismo storico è la chiusura di un lungo sviluppo. Esso giustifica persino il processo storico del sapere scientifico facendo questo sapere qualitativamente consono e quantitativamente proporzionale alle capacità del lavoro, cioè facendolo rispettivo ai bisogni114.

Si tratta di argomentazioni che solo in superficie possono apparire lontane dall’ambito concettuale considerato in quest’ultimo tratto di strada. Nel loro carattere di puntualizzazione categoriale complessiva, esse, dovendo essere riconnesse alla riproposizione dell’obiettivo della ricostruzione dell’oggetto dall’interno dei suoi nessi logico-storici nella chiave della rottura con lo schema metafisico-sostanzialista, – concludente a sopprimere il primato del fattore della mediazione e della sua esplicazione relazionale –, promuovono una percezione determinata della dimensione pratico-costruttiva del reale. Questa si trova da Labriola riconnessa al momento – cardinale nello scenario del moderno da Galileo e Bacone in poi – della ‘verifica’, consentendo di lumeggiare in termini funzionali – concernenti la tipizzazione della storicità delle categorie – la ricomprensione della storia della scienza nella storia del lavoro in cui i modi della prassi accumulata si rendono interdipendenti all’orientamento del ricambio sociale organico115. Ma, a ben guardare, fissare in ciò il cuore del materialismo storico – che è «chiusura di un lungo sviluppo» non con accezione di risoluzione irenistico-finalistica, bensì, all’opposto, di culmine del moderno e di riproblematizzazione delle sue coordinate – che cosa importa? Importa che le modalità di stratificazione, socializzazione e sussunzione della conoscenza scientifica facciano corpo con la compresenza complessa di produzione e riproduzione; segnando, di rimando, la centralità di quest’ultima nozione, in maniera tale da esprimerne la intensità e la duttile corporatura politica. Non è chi non veda come cogliere ciò significhi cogliere la centralità del nesso poteresapere diffondentesi nella molecolare organizzazione delle forme speciali e dei ruoli cognitivi, da cui sarebbe marchianamente illegittimo dissociare – in definitiva, ‘svuotandola’ – la morfologia complessiva del processo. I ritmi e le misure di innovazione e di consumo universalizzante delle tante tipologie della forma-merce qui si strutturano. Di qui, siamo in grado di guadagnare, sul piano della ricognizione concettuale, le conseguenze di quello che è apparso come uno degli scopi principali della riflessione labrioliana dal secondo saggio in poi – e

persino pienamente sotteso alla enucleazione della nozione di ‘previsione morfologica’ nel primo –, cioè – in coerenza con un progetto determinato, innovativo ed aperto, di legalità scientifica – l’obiettivo di strappare il materialismo storico tanto al normativismo quanto alla sua riduzione a veicolo della definizione tassonomica della scienza sociale. È solo attraverso la consapevolezza della articolazione effettiva di un simile scenario che diviene possibile sia indagare a fondo la manifestazione nel presente storico della fusione – dal complesso percorso di configurazione (incomprensibile al di fuori del movimento del capitale come un tutto e, perciò, della sua autoriflessività) – fra il portato di tendenza egemonica espresso dai modi della valorizzazione moventi dalla riduzione quantitativo-formale e la ineludibilità del valore d’uso e delle dinamiche di comunicazione da esso innescate; sia profilare un più avanzato fronte della mediazione rassodantesi nella riproduzione della vita in sé e in quella sociale-allargata, in ordine alla inedita dislocazione del lavoro in vincolo alla compiuta riunificazione del genere umano (da intendersi in una chiave sfuggente ad ogni monocromo organicismo). Se si risale all’idea di ‘terreno artificiale’ si può vedere che tale concetto si trova tematizzato come insorgente dall’emersione dalla mediazione storica, la quale dissolve la eventualità teorica della contemplazione di ogni precondizione naturalistica a riguardo del ricambio organico. Sporge, così, la strategicità della convergenza di trasformazione mediatrice e socializzazione produttiva connessa alla intensità dello sviluppo tecnico-scientifico, – diversamente dalla posizione di Sorel –. Viene, cioè, riclassificandosi un reticolo di saperi, compiti cognitivi e di direzione che, acclarando la reciproca immissione, previo separazione, di produzione e riproduzione, lumeggiano come le dinamiche di riduzione influiscano sul piano della logica e delle spinte egemoniche costitutive di cerchie formali–speciali determinate (come messo in risalto dal valore-lavoro), ma non possono, d’altra parte, plasmare ‘di per sé’ alcuna soluzione epistemologica abilitata a sorreggere l’analisi critica del loro pluralizzarsi, in complicità con gli stessi modi della valorizzazione. È all’insegna della generale declinazione della trasformazione del reale storico in quanto sua mediazione che vengono, al principio, istituiti i termini della riproduzione (pensiamo alla straordinaria restituzione, compiuta in Del materialismo storico, della statualità modernocontemporanea come «sistema di forze» in relazione al quale si formano «ordini e ceti speciali»). Tale declinazione disegna l’ambito in cui opera l’«intelligenza dell’autocritica che la società esercita sopra se stessa nella immanenza del suo proprio processo», e restituisce il massimo risalto, poniamo, al vincolo fra lo statuto squisitamente teorico del valore e l’intreccio di forme e concetti. A sostrato di ciò v’è la decisa revisione della coppia opposizionale

‘struttura’/‘sovrastruttura’, traducentesi nella non disgiungibilità di ogni stratificazione e disposizione egemonico-comunicativa, connessa alla morfologia oggettiva delle classi, dalla forma della produttività del lavoro. Come sappiamo – si faccia riferimento alla trattazione del secondo saggio – Labriola è in proposito chiarissimo, data l’inclinazione ad intendere le «relazioni fra le classi sociali» quali mutevoli «per l’alternasi dei rapporti, che precedentemente correano, tra la produttività del lavoro e le condizioni (giuridico-politiche) di coordinamento tra i componenti nella produzione»; valutando, vieppiù, che «tali rapporti fra la produttività del lavoro e la coordinazione dei cooperanti» si alterino «per il mutare degli istrumenti (- nel lato senso della parola) occorrenti». In quest’ottica, la cognizione della storia come storia del lavoro (sino ad esplicare il «dramma»116 di questo) va letta quale sottratta all’immagine tendenzialmente naturalistica di essa in quanto compresa ad una certa accezione della dimensione tecnico-scientifica propria dell’idea dell’‘ambiente artificiale’ soreliano. La dimensione storica trova le proprie linee di scansione interna nella riproduzione, esibendo, fra l’altro, l’investitura egemonica dell’attualizzarsi della trasformazione organica del capitale, di qui inducendo il rimodularsi dell’incontro fra termini di produttività e socializzazione. A questo punto la connessione inscioglibile e costitutiva della incidenza dello statuto teorico del valore, e della sua declinazione nei modi della valorizzazione, con la costituzione reale dell’orizzonte della riproduzione si rende ancor più evidente. Per entro di essa, il valore, esplicando l’immanenza, in senso egemonico, e la costitutività della contraddizione allo sviluppo della formazione capitalistica, rende possibile il riconoscimento della sporgenza della ‘negatività’ (cioè, prima facie, l’‘irrazionale’) del processo, subitamente riferibile allo scambio diseguale concernente la formazione del plusvalore. Appare chiaro, inoltre, come una simile condizione generale comporti che la trama politica del pluralizzarsi formale-speciale e della morfologia del processo si renda compiutamente rintracciabile nella composizione mercantile, la quale, secondo la costante ridefinizione della riproduzione, si allontana sempre più dalla sua originaria manifestazione mediativa117 assumendone una diversa; esaltando, così, il ruolo del lavoro sociale che proprio nel nesso con il circuito mercantile rinvigorisce l’aspetto di espansione ed arricchimento cognitivo e comunicativo dovuto alla diffusione della forma-merce, al di là dei confini tradizionali della società liberale e dei suoi dispositivi di stabilizzazione armonico-esclusiva, e, dunque, ben oltre l’emersione del medesimo momento dell’irrazionale ‘in sé’ e ‘per sé’. Di qui, il quadro sembra aumentare massimamente il suo grado di intricatezza. Giacché se, per un verso, il coglimento dello statuto teorico del valore consente

di giungere alla ricognizione del movimento di concentrazione-espansione egemonico-politica corrisposto al meccanismo di riduzione-omogenizzazione dei modi della costituzione formale-speciale, d’altra parte, l’interdipendenza fra modificazione della composizione organica del capitale, del reticolo mercantile, e delle misure di incorporamento e socializzazione del sapere scientifico che la centralità della riproduzione – in rapporto alla dinamica riflessiva ‘d’insieme’ del capitale, attesa nella connotazione formale-reale che la cifra – dischiude non può che destituire di legittimità l’individuazione della quantità ‘in sé’ e ‘per sé’ come fattore classificante della produzione della ricchezza. L’immanenza della contraddizione al modo di produzione capitalistico si appalesa e culmina nell’effettività della crisi del valore come mera misura (che può traslare la propria incidenza solo in una precisa determinazione egemonico-formale) – la quale ne delinea e precisa il fondamento – rispetto allo sviluppo della presenza di questo. È per ciò, del resto, che, secondo Labriola, non bisogna parlare delle asimmetrie fra il I ed il III libro de Il Capitale, ma del carattere di contraddittorietà, nell’ambito capitalistico, del corrispondente processo di valorizzazione, esibito dal vincolo produzione-riproduzione, dalla loro compresenza118, donde si evidenzia la necessità di un recupero di capacità analitica in chiave di unità dialettica. La realtà della contraddizione ‘apre la via’ alla opportunità dello scorrimento dal piano dell’incrementarsi costante del livello di circolazione e consumo – inducente vuoi l’estremizzarsi della condizione di individualizzazione, vuoi di quella di unificazione – al piano del conseguimento di una diversa regolazione – comunque in senso ‘espansivo’ – delle ‘utilità-particolari’, correlata alla inedita posizione di ciò che Gramsci indicherà quale il ‘lavoro come insieme’ ed alla riarticolazione delle forme di mediazione in cui la prassi trova realizzazione. L’individuazione di elementi di prospettiva entro un simile assetto inclusivo è consentito da una lucida diagnostica della dissoluzione della società classicoliberale. Essa appare muovere dall’assunto secondo il quale la riproducibilità del capitale in quanto capitale configura la realtà delle contraddizioni – di cui quella fra rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive costituisce ‘un’ punto di riferimento genetico-giustificante (ove prevale non il tema della mera crescita degli strumenti tecnici, bensì quello della crescita politico-culturale delle classi subalterne) – appresa come esprimente la coincidenza dello statuto di esse con un preciso contenuto politico119. Approfondendo tale aspetto, una simile diagnostica comincia a scorgere anche come l’impianto critico-categoriale derivabile da Il Capitale traguardi una dimensione ponentesi ben oltre i confini dello schema dicotomico (paradossalmente intersecato al progetto classico di

‘armonizzazione’) su cui era venuta plasmandosi, ab origine, la coincidenza diretta tra socialismo e movimento operaio. Giacché, se il guadagno della struttura teorica e del potenziale di riflesso egemonico del valore-lavoro ci mette in condizioni di visualizzare, nella ossatura dei suoi rapporti di forza, il pluralizzarsi della costituzione formale dei settori speciali, con ciò viene anche meno la possibilità di ricondurre ad un semplice modulo antinomico la struttura sociale (si pensi alla vera e propria ‘trappola teorica’ circoscritta dalla emersione del ciclo produttivo san phrase come ‘leva’ veridico-storica attesa quale ‘celata’ dalla mistificazione ideologica; ‘trappola’ alla quale è dato sfuggire solo riandando, invece, ai fattori scaturenti dell’ordine egemonico corrispondibile alla gnoseologia individualistico-naturalistica dell’homo oeconomicus). La cosa implica, vieppiù, l’indagine del dislocarsi e dell’invigorirsi della contraddizione – massime esplicato dalla divaricazione valori-prezzi – in connessione alla deformalizzazione di alcuni spazi compatti, – di cui la sovranità statuale definisce un pretto ‘idealtipo’ –, ed in favore della moltiplicazionedifferenziazione formale-speciale delle cerchie particolari e della loro pregnanza politica interna che ne descrive, al contempo, i margini di espansività. D’altronde, le tesi di Labriola sembrano suggerire come in questa direzione vada interpretata la nozione di ‘produttività’ in riferimento al paradigma marxiano del ‘lavoro produttivo’, sì da vagliare efficacemente, di qui, i moduli effettivi della inaudita dilatazione della riproduzione sociale – nei suoi distinti momenti di articolazione –, la quale squaderna un ventaglio ricchissimo di funzioni, competenze, soggettività. Badare bene: stando in siffatta maniera le cose, il valore-lavoro, in quanto fondamentale schema di formalizzazione, descrive un campo di proiezione che si pone al di là della sua particolarità, in rapporto alla trama egemonica degli specialismi, sempre più fitta e, insieme, più sottile, dunque capace – a rigore – di far derivare dal permanente riassetto della medesima formalizzazione capitalistica un mutamento spingibile fino al culmine della ‘rimessa in discussione’ proprio della formalizzazione ordinario-portante delle classi sociali, cui esige di essere commisurato, – a fronte della stessa impalcatura egemonica che vi presiede –, l’orizzonte ‘possibile’ della preservazione e ricomposizione del genere umano120. È importante stringere, soprattutto, come dall’analisi di Labriola affiori una gamma vastissima di opportunità per ridefinire il nesso forme-vita, sapere-potere nel nuovo quadro connotato dalla inattualità, già avvertita da Marx, dell’ideale ‘borghesetradizionale’ della integrale capitalizzazione del plusvalore ottenuto in funzione del lavoro produttivo – il quale, se vigesse, sancirebbe il modulo della opposizione ‘semplice’ capitale/lavoro121 –, nonché, principalmente, dal

graduale spostamento della estrazione del plusvalore dal livello produttivo ‘in sé’ e ‘per sé’ alla ineludibile riconnessione di esso al campo largo della riproduzione sociale (come, del resto, già ricavabile, per esempio, da una avveduta ricezione della elaborazione del II libro rispetto alla sinossi teorica de Il Capitale). A questa altezza, e forti di quanto si è fin qui conseguito, occorre stare attenti ad evitare di interpretare il confronto labrioliano con il marginalismo – di cui Croce, nel suo specifico ‘edonistico’ comunque legato alla ‘Scuola di Vienna’ (cioè alla, ad ogni maniera, inespungibile acquisizione che si era affermata, a fronte del riplasmarsi della morfologia della società civile, e coestesamente alle forme dei rapporti capitalistici, circa l’impossibilità di immergere l’orientamento dei consumi, corrispondibile, adesso, alla mera ‘ofelimità’, nello spazio sovrastrutturale, data la loro incidenza rispetto alla molteplice costituzione dei soggetti sociali diffusi) aveva rappresentato un ‘problematico’ e ‘bisognoso di problematizzazione’ veicolo – come un confronto tipizzabile prevalentemente ‘in negativo’. Giacché, esso si era profilato, piuttosto, in quanto cifrabile soprattutto in termini di ‘riflesso indiretto’, dal momento il nostro autore ne trasse la sollecitazione a ricavare un genere di analisi dove la qualificazione delle determinazioni formali, esprimendo l’intersecarsi di episteme e politico nella reciproca connessione delle cerchie speciali, diveniva l’implicito ‘posto che’ – intrinsecamente sottratto alla ipostasi – per stigmatizzare criticamente l’approccio volto alla sconnessione, allo spezzamento del «concreto delle correlatività sociali e storiche» inficiante la medesima posizione marginalista. E non solo: anche per coglierne e farne fruttificare, entro una diversa cornice teorica, l’apporto in ordine al rilevamento di funzioni e competenze determinanti il mercato; in ordine allo stesso riconoscimento dell’attrito della convertibilità non esclusiva del plusvalore in profitto, bensì anche in misure di reinvestimento nella riproduzione sociale inestricabilmente coimplicate all’incremento dei consumi. Tornare ad approfondire, distesamente, i contenuti del confronto Labriola-Croce ci aiuterà a vederci più chiaro proprio in merito agli aspetti appena menzionati.

10. Ragioni dell’analisi storico-genetica e dialettico-strutturale – Ancora sul dibattito con Croce Portiamo, nuovamente, l’attenzione verso il tentativo di difesa, compiuto nel Postscriptum all’edizione francese del Discorrendo, rispetto alla critica alla teoria del valore fornita da Croce e, a monte, da Böhm-Bawerk (posta in tensione con la posizione, su cui si attaglierà, appunto, la discussione crociana, di Pantaleoni). Proseguendo l’argomentazione già richiamata ‘a più riprese’ nella presente sede, il Cassinate stigmatizza l’approccio edonistico invitando «per […] passatempo» a «mettere in iscena una farsetta ideologica concepita così: – si assume da una parte la legittima aspettazione del creditore, e da un’altra parte la onesta promessa del debitore; – questi due attribuiti psicologici, che tanto fanno onore alla eccellenza dell’animo loro, vengon messi nella dovuta evidenza; poi si suppone che debitore e creditore siano homines oeconomici tanto perfetti, quanto è necessario di tener pur fermo che siano, dal momento che nacquero coi diagrammi di Gossen stampati nel cervello;» (in merito ai quali il nostro condivide con sicurezza le opposizioni del Lexis) «- poi si aggiunge la nozione del tempo astratto; – e, costituita la santa trinità di aspettazione, promessa e tempo, si attribuisce a questa trinità la virtù di trasmutarsi in quel più di valore, che deve essere, poniamo, per es., nelle scarpe prodotte col denaro mutuato, perché il mutuante, in ultimo, e guadagnando pure lui qualcosa, se nel frattempo non vuol morir di fame, salvat debutum cum usura.» Di qui, Labriola conclude: «Ma questa è proprio la scienza messa alla gogna», e poi prosegue ancora: In verità il tempo non è nella economia, come non è nella natura, se non nella misura di un processo: ed è nell’economia la misura del processo della produzione e della circolazione (ossia, in ultima analisi, e data la debita analisi, del lavoro). E solo in quanto esso entra nell’economia per questo rispetto, il tempo è anche misura dell’interesse. Un tempo che in quanto tempo operi come causa reale è un mitologhema […] Parrebbe quasi che persino in questa, o per inavvertenza, o per una certa tal qual bizzaria di forma letteraria, il Croce rischi di dare una capata, quando scrive: “E se nell’ipotesi di Marx, le merci appaiono come gelatine di lavoro, o lavoro cristallizzato, perché in altra ipotesi non potrebbero apparire come gelatine di bisogni, o quantità di bisogni cristallizzate?” Santi numi! Marx non fu veramente un modello di ciò che chiamasi dizione classica, specie nella plasticità, nella trasparenza e nella continuità delle immagini. Marx fu un seicentista. Ma le sue immagini, spesso bizzarre, non son

mai né ghiribizzi né facezie, dicon sempre qualcosa di profondamente realistico. Se quella immagine della gelatina, che del resto non ha niente di sacramentale né di obbligatorio per nessuno, l’andate a ripetere al primo calzolaio che vi capiti innanzi, egli, accennando forse alle mani incallite, alla schiena ricurva, e al sudore della fronte, vi dirà che a un dipresso ha capito, perché nelle scarpe che produce ci mette via via una parte di sé stesso, le sue energie meccaniche, dirette dalla volontà, ossia dirette dall’attenzione volontaria, secondo la forma preconcetta, nella quale si assomma, come in intento ed in proposito, la sua attività cerebrale in quanto egli è in atto di lavorare. Ma finora fu dato solo ai fattucchieri di credere o di dare a credere, che coi soli desiderii si riesca a conglutinare una parte di noi stessi con alcun bene in genere, prodotto o non prodotto che esso si sia122.

Dalle affermazioni di Labriola ne viene che se è indebita la considerazione in termini causali del fattore temporale giacché ciò configurerebbe un elemento di fallacia di tipo magistico, la definizione di esso in quanto misura – sin, quasi, a determinarne una sorta di statuto tendenzialmente ‘entizzato’, benché con accezione affatto opposta a quella corrispondente alla sua naturalizzazionesostanzializzazione – si pone su un fronte diverso da quello meramente quantitativo-positivo corrispondente al paradigma ricardiano. Anzi, la determinazione di ‘misura’ del valore-lavoro assume, adesso, un portato di formalizzazione da inscriversi proprio nel quadro della crisi radicale della declinazione del valore come mera misura. Il significato di questa affermazione può apparire oscuro ma è, invece, in fin dei conti, ben accessibile, se ci riferiamo con nettezza al fattore formale – e dunque connotabile anche sul versante qualitativo – della riduzione di lavori diversi ad un’unica quantità di tempo. Cosicché, se possiamo esprimerci in tal maniera, la forma viene a corrispondersi con un fattore prima facie assai lontano – anzi, potremmo dire: opposto – da esso, ovverosia proprio al fattore quantitativo. Si tratta di saldare la suddetta definizione al profilo di incidenza egemonica definito dal valore-lavoro in rapporto al complesso raffrontarsi di produzione e circolazione nell’orizzonte morfologico riconducibile alla dimensione della riproduzione sociale. Non pare che – a fronte degli aspetti che abbiamo, via via, acquisito – Labriola faccia leva sul modulo, certo invalso nel marxismo volgare, della corrispondenza in-mediata e diretta della relazione fra produzione e circolazione alla contraddizione – certo avente, come accennato, un ruolo strategico di configurazione – tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, senza coglierne, altresì, i problematici nessi di collegamento e di discrimine, i quali, comunque, intessono il campo della riproduzione ed in essa rifluiscono. Piuttosto, al nostro autore interessa visualizzare la morfologia della riproduzione sociale ‘ammettendo’, ad una precisa altezza teorico-analitica e in riferimento ad una condizionalità storicamente determinata coincidente con l’odierno modo di produzione capitalistico, l’impiegabilità del tempo in quanto misura della produzione e della circolazione non coll’intento di far poi combaciare tout court produzione e circolazione (dunque in relazione alla quota di tempo corrispondente a lavori differenziati), appunto, quasi attraverso una sorta di mero escamotage logico (opzione assolutamente estranea al filosofo di Cassino e alla lezione di Marx, come si è potuto costatare confrontando la sua posizione con quella sombartiana, che pure, come detto, presenta aspetti di avanzatezza), – cosa che importerebbe, del resto, l’elusione dei meccanismi di isolamento-dissociazione e ricomposizione costituenti l’ambito della riproduzione sociale stessa, la complessità della sua composizione logico-storica –, bensì muovendo nella

direzione aperta dal mantenuto riferimento alla dinamica di riduzione-istituzione formale espressa dal valore-lavoro e dall’emersione del principio ‘ristretto’ del ricorso ad una unica misura per due fenomeni distinti. Essa rileva la ‘spina dorsale’ della differenziata morfologia di ruoli e specialismi coinvolta dalla riproduzione medesima e surdeterminante la mobile impalcatura perspicuamente politica del mercato. Un simile scenario consente, anzitutto, di inquadrare al massimo grado, ed all’insegna dell’intreccio sapere-potere, le ricche articolazioni della regione dell’economico, presa nella sua vocazione di espansione e compressione formale politicamente cifrata. Il discorso labrioliano ci riporta al nodo concernente gli elementi di raccordo e di asimmetria ‘forte’ fra teoria del valore e teoria dei prezzi. Attraverso un ulteriore confronto con esso potremo ben comprendere perché l’ottica labrioliana non sia in alcun modo afferibile all’atteggiamento economicistico orientato a considerare l’intiera organizzazione sociale secondo il calco desunto dalla produzione e dalla determinazione del plusvalore ‘in sé’ e ‘per sé’, ed, anzi, come questa configuri la principale alternativa a tale atteggiamento nella cornice storica della teorica della Seconda Internazionale. Quando il filosofo di Cassino asserisce che il problema della deducibilità o meno dei prezzi dal valore non descrive una questione meramente gnoseologica, bensì un campo di contraddizioni reali, evidenziando la divaricazione dei due piani, egli non intende eludere il punto che Croce e Böhm-Bawerk avevano sollevato riguardo ai criteri di analisi dei modi effettivi della relazione fra produzione e circolazione, bensì cerca di lumeggiare come tale questione non debba venir sganciata dall’aspetto della compresenza della contraddizione alla trama propria della organizzazione della riproduzione. Come si dovrebbe poter agilmente ricavare dal precedente, breve excursus dedicato ad alcuni risvolti della trattazione marxiana della riproduzione, lo spinoso nesso fra produzione e circolazione, e la sua costituzione morfologica in ordine all’emergere della contraddizione non è afferibile alla semplicistica asserzione dell’unità lineare fra l’uno e l’altro piano guadagnabile al lume del conchiuso superamento del contrasto tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, bensì attiene alla composizione ed al ritmo interno della riproduzione e dal suo stesso rinviare al problematico rapporto tra circolazione medesima e forza-lavoro. Circolazione e produzione appaiono, sì, in prima istanza sconnesse, ma la categoria della forza-lavoro ne implica l’inversione e l’invigorimento del loro nesso, acclarando come il reciproco isolamento di questi momenti, l’autonomizzazione della produzione, si volga – sul versante ideologico – a favorire la naturalizzazione dello scambio diseguale. Compreso tale aspetto, la saldatura di produzione e riproduzione, che ne evidenzia la ‘centralità’, conferma

e fa risaltare lo statuto squisitamente processuale del capitale123. Se, in virtù del principio del valore-lavoro, il tempo di lavoro è colto in guisa di fattore di determinazione unificante-astrattiva, ciò non coincide con la considerazione meramente indifferenziata delle forme in cui la prassi si concreta, vivificandosi nella riproduzione e, all’altezza del presente storico, nelle soluzioni, formalmente determinate, di socializzazione ed incorporamento dei saperi, dei molti dispositivi epistemici – perciò nelle cerchie speciali, nelle istituzioni, nelle modalità di distribuzione ed orientamento dei consumi (con tutto quel che la cosa implica in termini di collegamento e distanziamento dal pretto campo della produzione), etc. –, ma, come si è cercato di dimostrare, attiene allo schema di costituzione egemonica della pluralità delle costruzioni regionali-formali cui la riproduzione stessa aderisce e si rivela consustanziale. Facciamo ancora bene attenzione: quest’ultima considerazione, proprio perché né Marx né Labriola intendono realiter schiacciare la formazione sociale sulla dimensione della produzione e della ‘isolata’ estrazione del plusvalore, va attesa come sideralmente lontana da ogni opzione di riduzione del ‘lavoro astratto’ a veicolo della ‘presupposta’ rappresentazione del continuum storico plasmato sulla pretesa coincidenza della struttura logico-storica del capitale con la sua manifestazione cronologica. Tutt’altro! La visualizzazione labrioliana della struttura sincronico-differenziata del tempo storico, della sua trama logicostorica sottraentesi a qualsivoglia modulo seriale, ove si articolano e si ritmano costitutivamente le forme e le connesse spinte soggettive, raccorda alcuni imprescindibili nuclei tematici già approssimati nella Prolusione dell’87 con la prospettiva della ‘critica dell’economia politica’ marxiana. Donde l’aggancio al valore-lavoro, alla vocazione alla contrazione definente il profilo della organizzazione plurale delle forme espressa dalla determinazione di ‘cristalli’ in cui arriva a concrezione l’accezione del tempo come misura, rendendone lecita l’acquisizione non in foggia di puri ‘fantasmi’ oppure di riflessi epifenomenici di un unico ed ipostatizzato potenziale di soggettività del lavoro reificato, bensì in foggia proprio di elementi ‘germinali’ di formalizzazione. Essi esibiscono intrinsecamente la basica compenetrazione della molteplicità delle forme, della loro disposizione egemonica, con la maturazione di un certo sistema di rapporti di forza, ove ha a stagliarsi la compresenza della contraddizione. Quest’ultima, concentrata nella tensione fra riduzione formale definente una sezione determinata e direttrice egemonico-espansiva corrispondente, ed annodata, vieppiù, alla configurazione della dissimmetria interna a tale, determinata sezione, manifesta e rende stringibili le rifrazioni presiedenti ad un campo ‘ulteriore’ rispetto a quello della produzione, coincidente con la diretta emersione del valore, ma che ad essa e, chiaramente, all’intiero arco della

riproduzione, nelle sue articolazioni, devono essere connesse, – in virtù, a loro volta, della declinazione in chiave di perspicua tensione politica –. Tale connessione consente di far emergere la presenza dei modi di valorizzazione, l’incidenza del fattore dell’astratto in ordine alle condizioni di sussunzione comunque correlabili alla effettività della morfologia mercantile e del contenuto di socializzazione delle diverse sfere di produzione. In assenza del collegamento al carattere di compressione formale del valore-lavoro, atteso nelle implicazioni pertinenti il livello della misura e della quantità, verrebbe meno l’asse portante per la comprensione dell’orizzonte mobile e dell’organizzazione composita della riproduzione stessa, ove circolazione e produzione si profilano distintamente e, poi, si saldano e si modulano nello spessore formale-reale della loro compresenza, coestesamente alla dinamica del capitale. Vale la pena di sottolineare come la determinazione ‘astratta’ del lavoro che Labriola contempla, proprio perché non si riferisce ad un modello da cui desumere ‘per confronto’ una certa prospettiva di trasformazione, così come vorrebbe l’ipotesi crociana del ‘paragone ellittico’, ma ad una condizione cogente e storicamente determinata, – della quale occorre saper leggere le linee di tendenza ripugnanti, però, alla postulazione dell’Endziel –, ponga il problema della ricognizione della realtà della organizzazione del movimento formale, senza ipostatizzare mai unilateralmente la funzione del lavoro. Se il Cassinate è giunto a ricomprendere in quest’ultima la stessa attività del pensiero, – definendo uno dei cardini della propria generale opzione di ‘filosofia della prassi’ –, la radicata motivazione di ciò sta nella convinzione rispetto al ruolo primario assolto da parte di essa di veicolo del ricambio organico con la natura e, chiaramente, di leva costitutiva dei modi della riproduzione (a cominciare da quella della vita). Ruolo che, però, si rende impiegabile secondo una pluralità infinita ed imprecludibile di orientamenti, a partire da quelli tendenzialmente connessi alla possibilità effettiva della ricomposizione solidale del genere umano, ovvero alla possibilità di quel «futuro» costruibile «dagli uomini stessi per la sollecitazione dello stato in cui sono e per lo sviluppo delle attitudini loro». Ciò acclara come per Labriola, essendo egli ben lontano dai limiti del ricardismo ed avendo compiutamente indicato il terreno del loro oltrepassamento il valore-lavoro designi la cifra della organizzazione formale presente vincolata al quadro di mutamenti in cui si inscrive il ‘cervello sociale’, in cui si inscrivono gli ambiti di socializzazione della scienza. Acclara anche, tuttavia, come il filosofo di Cassino né la irrigidisca naturalisticamente, né rapporti l’immagine che se ne ricava sul fronte analitico – quasi deterministicamente – ad un certo schema di ‘transizione’, mirando, piuttosto (in tal maniera anche riformulando significativamente alcuni motivi engelsiani), ad indicare le direttrici flessibili ed

inclusive solcanti la cornice sociale, sulla base della appropriazione dei contenuti storici del lavoro accumulato; sì da conseguire proprio il nuovo orientamento delle strutture di mediazione interna della riproduzione. Quanto guadagnato primariamente enucleando la nozione di ‘previsione morfologica’ si trova, dunque, mantenuto proprio ad un più alto livello di complessificazione formale, vuoi senza esibire nessuna ingenua certezza rispetto ad un ‘futuro’ preteso come già trasparentemente, senza alcuna opacità, leggibile nel presente e riferito alla unicità di un soggetto vocato alla ricomposizione (la ‘centralità’ del proletariato); vuoi designando il paradigma teorico di un ‘paragone’ non più ‘ellittico’124, almeno in chiave di confronto, ma ordinato a un modello capace di conservare peculiare capacità euristica. Adottando la metafora della ‘cristallizzazione’ del lavoro Labriola non intende ipostatizzare rigidamente in essa le forme della prassi, bensì intende lumeggiare un’ulteriore aspetto ai fini di mostrare come lo schema del valore-lavoro, – all’altezza della società capitalistica contemporanea, ma sempre focalizzando un certo nucleo primario, come dimostrato dal riferimento esemplificativo alla figura «del primo calzolaio che […] capiti innanzi» –, designi il meccanismo di formalizzazione che sussiste in ordine alla pluralità delle spinte egemoniche, dei linguaggi e dei fattori epistemico-cognitivi; volti alla organizzazione del fluire vitale; esplicitando la perspicua presenza di un costante, anche se articolato, sostrato politico. La sua operazione teorica, congruentemente a quella di Marx, non ha di mira, evidentemente una qualche sorta di ‘spoliazione’ delle determinazioni funzionali, – quasi che ogni relato dispositivo categoriale debba venir plasmato ‘inmediatisticamente’ sull’esplicarsi fenomenico del ‘lavoro astratto’ –, bensì il guadagno del contenuto egemonico del portato di riduzione proprio della tensione dinamica intercorrente fra il contenuto di potere afferente all’insieme della formalizzazione – culminante nel ruolo costitutivo riguardo al campo economico – ed il sistema complesso ove si snodano i rapporti capitalistici, dando luogo ad una articolata confluenza. Di qui, si pone in chiaro come ogni segmento ed ogni cerchia interna al sistema capitalistico divenga luogo di intersecazione di relazioni molteplici ed anche di dimensioni temporali autonome – coerentemente alla differenziazione sincronica del tempo storico –; ma anche come tutto ciò vada inteso in vista della penetrazione della dimensione egemonica della costituzione speciale della morfologia capitalistica, – appresa nella tensione con la spinta alla ‘compressione verso l’omogeneo’ definente la determinatezza dell’ambito formale –; lumeggiando il carattere generale della compresenza della contraddizione. Il problema è concentrabile tutto proprio nella questione del tempo-misura (inteso come in grado di accomunare formalmente, – con tutta la peculiarità della incidenza di un siffatto aspetto –,

tempi diversi, ivi compresa la composizione dei due separati momenti della produzione e della circolazione che – come sappiamo – attengono all’unitarietà contraddittoria della riproduzione del capitale). Si tratta di un aspetto decisivo su cui occorre ancora attardarci. Marx e poi Labriola, – in una cornice analitica che considera il rapporto fra tempo di lavoro, tempo libero e consumo non come semplicemente ‘mistificato’ da un certo plesso di ‘inganni’ o sovrastrutture ideologiche, bensì come insieme di connessioni necessarie del ciclo sociale complessivo affiorante, in definitiva, nell’orizzonte della riproduzione, il quale mette in evidenza la implicazione organica tra socializzazione scientifica ed estrazione del plusvalore –, mantengono il riferimento al tempo-misura, ovvero al genere di temporalità cronologico-lineare volta a misurare la quantità di lavoro erogata in ordine alla equivalenza di valore. Il tempo-misura istituisce anche una soluzione di, quasi paradossale, immersione sussuntiva del valore d’uso (che tuttavia è compito della teoria evitare di continuare ad occultare ed, anzi, fare emergere proprio, anzitutto, nella sua investitura dialettica) attraverso la problematica elevazione del lavoro socialmente necessario per la fornitura di esso a termine di determinazione formale della grandezza di valore. Il riferimento al tempo-misura viene, dunque, considerato in quanto esprimente la valenza egemonica che la pur mobile trama delle costruzioni formali reca con sé entro la configurata dimensione capitalistica, rendendo manifesta la contraddizione che le attraversa. Parliamo della contraddizione restituibile nei termini della tensione interna tra il tempo formalmente determinato, ‘cristallizzato’ (la ‘gelatina’ di tempo di lavoro incorporata da riferirsi, dal punto di vista concernente la valorizzazione, alla costituzione della merce) e la disposizione sincronica delle forme speciali medesime nello scenario, non imbrigliabile in moduli seriali, del tempo storico. Tensione capace di dar luogo ad un vasto caleidoscopio di rifrazioni. Esse richiamano alla possibilità della risoluzione della contraddizione tra formazione del tempo libero e crescita del lavoro superfluo in quanto momento in cui il capitale incontra sé stesso come limite, rinviando alla compiuta emersione del general intellect e di una diversa posizione politica del lavoro125. Quanto appena detto ci consente di approfondire ulteriormente le considerazioni in merito alla percezione labrioliana del tema della valorizzazione. Esso viene affrontato nel Postscriptum all’edizione francese in diretta polemica col Croce volto ad ammettere l’incidenza politica – attesa anche come traducibile in chiave sociologistica, ed ‘assolutizzata’, vieppiù, in tal senso – ma non il portato di reattività analitico-scientifica della teorica marxiana, con toni persino eccessivamente caricati e finalizzati:

La benedetta formola del DD’, ossia del danaro che si ritrova in danaro con tanto di più, fu come il chiodo fisso nella testa di Marx ricercatore, come il pernio della sua ricerca. Ora il Croce, fatta la sua profession di fede di edonista convinto, quasi come chi avendo già bevuto e mangiato a sazietà, voglia ribere e rimangiare, si volge a Marx a chiedergli una teoria sociologica, che sia complementare a quella economica, nella quale lui Croce è tanto fermo e deciso; – e che altro può dirgli Marx se non questo: mandate al diavolo quella vostra filastrocca edonistica126.

L’enfasi labrioliana sulla valorizzazione, – a cominciare dal nodo della trasformazione del danaro in capitale, definente la ricongiungibilità dei meri ‘fattori di produzione’ alla costituzione del ‘rapporto di produzione’ effettivo, attraverso la forma mediata e mediatrice del ‘valore’ delle merci, nonché capace di condurre ad intendere la costruzione della astrazione propria del denaro, lumeggiando i termini in cui il capitale scandisce il tempo di movimento reale della forza-lavoro, occultandone la possibilità della affermazione quale categoria autonoma (donde il coincidere della sua esistenza con quella dello stesso, pretto capitale variabile) –, mira ad acclarare come il suo significato primario, incardinato sull’intreccio reale non lineare fra piano formale e piano egemonicoreale, percorra ed attraversi la morfologia ed i movimenti interni del rapporto di produzione-riproduzione capitalistico. Rapporto esprimentesi con evidenza nella confluenza di valore-capitale e plusvalore, esibente la compiuta valorizzazione del primo per entro il processo ciclico del capitale, rispetto a cui il processo di produzione segna un preciso livello di mediazione in vista dell’aumento della grandezza di valore stesso127. Per giungere ad una cognizione analiticamente esaustiva di tale rapporto, dice Labriola, non occorre adottare una inerte visuale sociologistica (esito intrinseco dello sganciamento, opposto alla operazione categoriale marxiana, di economico e politico), collocandosi, magari, sul terreno della sociologia economica comparata, come talvolta sembra proporre Croce, sulla scorta di una per alcuni versi malintesa ricezione della tesi ‘purista’ (esposta, in particolare, da quel Böhm-Bawerk dal cui ruolo perspicuo il filosofo abruzzese apparirà, in alcuni casi, discostarsi, proprio convergendo con l’attenzione labrioliana verso l’acquisizione del medesimo nodo strategico della valorizzazione, in dissimmetria all’aspetto che ora stiamo indicando128) della preferenza temporale verso i beni presenti rispetto ai beni futuri, ovvero del collegamento di questa alla determinazione esclusiva dell’‘interesse’ anziché del ‘profitto’ (tesi che, invece, Labriola dimostra di aver chiara, a riprova della sua esatta conoscenza delle teorie economiche coeve). Se appare certo esageratamente liquidatorio l’invito a «mandare al diavolo» la «filastrocca edonistica», una simile asprezza

di toni non deve venir riferita – come riscontrabile attraverso le precedenti prospezioni ed alcune delle prossime – all’elusione dei ‘problemi aperti’ sui cui il marginalismo aveva posto l’accento, ma si giustifica in ragione della condanna verso la inclinazione crociana ad inverare la dissociazione della qualificazione dei meccanismi di mercato dalla incidenza – sul terreno, prioritariamente, della costituzione del processo – del movimento formale-reale, del portato egemonico dei modi della valorizzazione. Inclinazione alla cui sorgente è da individuarsi, – in congruenza, del resto, ad una certa generale impalcatura ideologica –, l’elusione della centralità ermeneutico-politica della nozione di ‘riproduzione’ nella prospettiva marxiana (forse non è in proposito inutile, ricollegandoci ad un passaggio del Postscriptum cui si è già fatto riferimento, rammentare che il nostro ebbe ad evidenziare quanto persino il Pantaleoni – «rappresentante di quell’edonismo, che il Croce […] vorrebbe conciliare col Marxismo»129, e certo assai lontano dalle sue convinzioni – si fosse mostrato persuaso, stando al mero livello descrittivo, della fallacia dei punti di vista volti ad occultare, – o anche a fornirne una accezione impoverita per quanto concerne proprio la densità analitica della qualificazione reale –, il rilievo del fattore della valorizzazione – che pure, per alcuni aspetti, l’Abruzzese sembra lumeggiare contra BöhmBawerk –, in particolare per ciò che riguarda la questione del tempo in quanto autonomo generatore di profitto). In fin dei conti, Labriola intende focalizzare il problema della valorizzazione al di sotto di due versanti. Per un lato, mettendone in luce l’intrinseco carattere interno che, pur consentendo il ricavo di indicazioni paradigmatiche – e, perciò, essendo configurabile anche come passibile di accezione in guisa di ‘paragone’ –, non implica né un elemento di obbligata caratterizzazione ‘ellittica’, né lo schema del confronto fra ‘realtà’ e ‘modello’. Per un altro, esibendo come il suo portato di incidenza egemonica non sia trattenibile nei confini semplici della determinazione economica, ma sia invece capace di dimostrare come la struttura economica riconcentri in sé la spinta diffusiva del Politico relativa alla compresenza della contraddizione riferita alla tensione fra pluralità dell’organizzazione formale-speciale e sua costitutiva spinta alla ‘riduzione all’omogeneo’. Del resto, l’aspetto che abbiamo appena rideclinato si motiva tutto a fronte della ferma opinione secondo cui, lungi da ogni estrema e magari massimamente raffinata variante dell’atteggiamento di esclusiva attenzione al piano gnoseologico, è necessario penetrare tutto lo spessore reale dell’emergere della contraddizione. Quel che fa velo ad adempiere a ciò è la erronea concezione del trattamento astraente del materiale empirico culminante nell’‘edonismo’ della cosiddetta ‘scuola austriaca’. Argomenta a tal proposito il Cassinate in un brano dai contenuti già evocati: «Al postutto cotesta economia

pura – come è in uso chiamarla in Italia, che è sempre il paese dell’enfasi e della esagerazione – ossia cotesto indirizzo di ricerca e di sistema, che su gl’inizii, o insufficienti, o ignorati, o dimenticati del Gossen, del Warlass e del Jevons, s’è venuto sviluppando in ciò che ora ha (vulgo) il nome di scuola austriaca, non è, così nelle premesse come negli andamenti, se non una variante teoretica nella interpretazione di quegli stessi dati empirici della vita economica moderna, che han sempre formato l’obbietto degli studii delle altre scuole. Si distingue dalla scuola classica […] per la tendenza a un più alto grado di astrazione e di generalizzazione. Si prova a mettere in maggiore evidenza gli stati psichici, che precedono ed accompagnano gli atti ed i rapporti economici. Usa ed abusa degli espedienti matematici. Non è la superistoria, sebbene metta assai spesso in iscena le robinsonate, che dissimula però sotto la veste di una sottile psicologia individualistica: anzi è tanto poco la superistoria, che da questa storia attuale assume due dati, facendone due presupposti estremi, ossia la libertà del lavoro e la libertà di concorrenza spinte per ipotesi al massimo. Per ciò essa è, in ciò che reca, afferrabile, comprensibile e discutibile; perché è confrontabile con l’esperienza della quale è spesso una forzosa ed unilaterale interpretazione»130. Sebbene non riprendendone tutti gli elementi, – che pure potrebbero venir giustificati all’insegna di un ‘taglio’ assai differente, a cominciare dalla tematica del nesso fra ‘appetibilità’ emerse individualmente e composizione distributivotipologica del mercato –, e certo – come vedremo – rovesciandone, per alcuni versi, l’impostazione ordinaria, Croce, nella fase in esame del suo pensiero, poggia il paradigma di revisione della ‘critica dell’economia politica’ marxiana su un approccio, piegante sul versante del naturalismo e svolto attraverso un determinato procedimento di astrazione, distinguibile dal ‘cattivo’ (almeno sotto certi aspetti) storicismo empirico di Böhm-Bawerk in virtù, principalmente, di una differente ‘incubazione’, per così dire, della fallacia speculativa (estremo rovesciamento dell’empirismo), ovvero di ciò che Labriola indica giusto come il «malefico bacillo metafisico»131, il quale, tutto sommato, riassume anche una percezione paradossalmente a-dialettica dell’eredità idealistica132. Si tratta di un orientamento risolventesi nell’atteggiamento ‘wolfiano’ che il nostro autore imputa a Croce, guardando anche, in particolare, alla impostazione della Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale133, nella sua penultima missiva. Egli gli scrive, infatti: Ti sei mai reso conto della portata e delle conseguenze di questo modo di ragionare? La conseguenza più semplice è questa: non c’è scienza di nulla che sia empiricamente dato – c’è solo scienza dei cosiddetti concetti puri e questi sono enunciabili in questi giudizi analitici. Altro che dialettica (hegeliana o marxistica) – altro che giudizi sintetici

a priori – altro che Spencer e Wundt e altre evoluzioni –: questa è filosofia wolfiana bella e buona. Ma al tempo di Wolfio si credeva alla naturalezza dei concetti… e non si sapeva che questi sono non fatti, ma tendenze, ma postulati, ma ipotesi, ma tentativi… etc. etc. e che quindi risultano sempre da una sintesi di dati (empirici o esteriori…) etc. etc.134.

Per un verso, Labriola mostra uno degli aspetti di maggiore debolezza nella sua interlocuzione con Croce nel non comprendere come la tendenziale divaricazione fra ‘fare’ e ‘pensare’, ‘teoria’ e ‘prassi’, in questa prima fase della riflessione del filosofo di Pescasseroli, esprima, ad ogni modo, un progetto di riformalizzazione dei saperi e di inquadramento della loro rimodulazione epistemica ad una altezza concettuale che si lascia intravvedere come ricongiungibile alla riflessione sui termini della ‘ragione storica’ di cui il Cassinate stesso aveva mostrato, comunque – come confortabile in virtù delle valutazioni precedentemente espresse –, vasta ed acuta cognizione. Per un altro, egli stringe come la subordinazione a ciò «che sia empiricamente dato» (sulle cui implicazioni torneremo in conclusione, adombrando come essa non costituisca che, paradossalmente, l’esito di un procedimento di astrazione basato sulla acquisizione qua talis della «sommazione empirica delle osservazioni parziali») insista, quasi per cortocircuito, sul terreno della naturalizzazione nell’ambito concettuale generale-generico in ordine alla risultanza empirica, concludendo alla coincidenza tra autoevidenza e determinazione astratta e, di conseguenza alla naturalizzazione di tale coincidenza (corrispondibile alla stessa convinzione wolfiana nella «naturalezza dei concetti»). Di qui, viene in guoco per intero il problema dell’intendimento dei rapporti formali che ordiscono il mondo storico. Infatti, non pare che l’elaborazione labrioliana di categorie storico-genetiche e dialettico-strutturali in relazione alla prospettiva da Marx dischiusa tralasci la problematizzazione della ‘qualità’ di tali rapporti. Anzi, all’opposto, la indagine morfologica, la ricognizione del portato vertebrante del movimento formalereale svolta dal nostro autore mira, chiaramente, per prima cosa, ad adempiere ad essa. Congruente a ciò risultava la stigmatizzazione dei pericoli afferenti all’ipotecante residuo speculativo a cui poteva inevitabilmente essere esposto il ricorso crociano alla nozione di ‘spirito’. Esso appariva coerentizzabile con un’idea della mediazione sempre ripercorrente il circuito predefinito del proprio movimento (dalla quale mai Croce si discosterà compiutamente135), plasmata su una percezione fissa del modulo della ‘ragione signorile’ e dei ruoli cognitivi, nonché approdante alla cristallizzazione dell’idea della storia come storia degli intellettuali. Rammentiamo quanto vien detto nella ultima lettera a Croce del 5 gennaio 1904, laddove la polemica si accentua, coinvolgendo – con un assai

maggiore grado di asprezza – Gentile: Di Gentile non m’importa di approfondire più nulla. Faccia il comodo suo e invochi il perdono di Hegel per gli spropositi che gli attribuisce… giudizii analitici! è un modo per servirsi della formula kantiana per ispiergarsi. E poi hai capito… perché neghi la comprensione filosofica della natura e della storia… E ti pare poco? Quello Spirito che non ha niente che fare con la Natura da cui risulta e con la Storia che è la somma delle sue manifestazioni deve essere… un bel Mamozio. Mandamelo come dono della Befana136.

L’immagine del Croce formulatore di soli ‘giudizi analitici’, quasi ‘prekantiano’, non corrisponde certo alla sinossi del pensiero del filosofo di Pescasseroli, ma ciò che interessa ora sottolineare è il nodo teorico pertinente la impossibilità di sussumere le tensioni che innervano l’intervento della prassi riguardo alla «sprucida (spröde) materia»137, la mobilità dei rapporti di forza, la mutevolezza dei termini della mediazione nel progetto di ‘risoluzione’ della vita storica nella purezza compatta dello ‘Spirito’, cui Labriola si spinge a contrapporre la prospettiva di una perspicua ontologia materialistico-storica138. Vale la pena di insistere su questo punto anche perché esso concentra in sé tutta la lettura labrioliana di Hegel e del tema della dialettica. A tal proposito, nel secondo saggio, in riferimento ad alcuni aspetti sollevati dalla ‘psicologia dei popoli’, viene enfatizzato come il movimento della storia non sia da riferirsi alla generale costituzione a priori della ‘mentalità’, bensì all’imbricarsi reciproco di morfologia del processo, con la sua logica tendenziale interna, ed emersione dei contenuti, di cui la dialettica definiste la intrinseca ‘autocritica’139. Ovverosia, e lo si è già evocato: non al «processo astratto e generico del cosiddetto spirito umano», bensì alla «formazione specificata di specificate condizioni». Il midollo del suddetto progetto appare organico ad un disegno politico-egemonico proteso ad ipostatizzare i ruoli dirigenti già presiedente ad alcuni degli scritti crociani di revisione del marxismo, stante che essi sottendono la ammissione della incidenza politica della teorica del valore-lavoro ma la saldano alla ipotesi di una ‘società di puri lavoratori’, depotenziandone l’attrito reale in ragione, in ultima istanza, di una cognizione non inclusiva delle funzioni direttive, raccordata ad un certo assai lucido avvertimento del consumo come forma generale di esperienza inscritta nell’alveo della modernità, ma priva – anche in forza, appunto, di una fontale movenza naturalistico-neutralizzante – della capacità di adeguata riqualificazione dei rapporti sociali nel loro scenario d’insieme. Forti di una siffatta consapevolezza, ci sarà agile comprendere come proprio il

rifiuto dello schema della risoluzione del mondo reale nella unità dello spirito corrisponda al guadagno della complessità della morfologia della Wirklichkeit (continuiamo, come si vede, a ricorrere a questa espressione di sapore perspicuamente hegeliano) – attesa nell’intreccio dei suoi segmenti formali – e, connessamente, del tempo storico, traducentesi, a livello specifico, nella visualizzazione della compenetrazione tra riproduzione e costituzione politica del mercato. Il suo sviluppo, entro la società capitalistica, non ha a svolgersi in un processo lineare aderente ad uno spazio economico piano, ma in un giuoco di profondità, di articolazioni e di differenziazioni temporali ove si snoda il procedere diseguale dell’accumulazione capitalistica medesima140; richiedendo la compiuta indagine della densa investitura politica di tale morfologia. Indagine di cui risulterà essenziale luogo di verifica l’enucleazione, segnalata in precedenza, di un possibile impiego della nozione di ‘irrazionale’.

11. Ancora riguardo dell’interlocuzione con Croce ed alla crisi del modello epistemologico ricardiano Ci pare che l’attenzione vada portata, primariamente, proprio sulla impostazione epistemologica generale del ‘revisionismo’ crociano, individuabile in quanto alternativa all’esigenza fondamentale pervadente il marxismo labrioliano e culminante nel Discorrendo, ovvero alla esigenza della ricomposizione teorico-politica di fronte, poniamo, a fenomeni come quello della frantumazione del modello ricardiano. Frantumazione dalla cui oggettività Croce muove – come Sorel – concludendo, tuttavia, ad inverare il predominio della scissione. In contrasto ad essa il nostro mette in campo l’istanza di una efficace ricognizione critica della società capitalistica movente dalla liberazione della sua costruzione effettiva dallo schiacciamento su determinati moduli quantitativo-cumulativi attraverso, però, il mantenuto riferimento al contenuto di influenza egemonica esplicato dalla riduzione quantitativo-formale propria del valore-lavoro. Di qui collocandovi, vieppiù, la leva stessa per discriminare la presenza dinamica della contraddizione, rifrangentesi sul carattere costitutivo dei processi di valorizzazione riguardo alla dimensione complessiva della riproduzione. Stando in tal maniera le cose, torna in primo piano, ancora una volta, la vexata quaestio della ricostruzione logico-storica dell’oggetto, dei suoi nessi interni. La esemplificazione metodologica che Croce adempie, in certa misura, del materialismo storico (congruente, però, alla destituzione, – come subitamente avremo occasione di sottolineare –, di ‘adeguatezza’ epistemico-epistemologica di questo ed attesa come corrispondibile ad un mero fattore ‘mobilitante’) si collega alla rappresentazione ambivalente della teoria del valore-lavoro, attesa, insieme, come derivata dalla forma astratta del Capitale (dal plesso di componenti teoriche da esso comprese) e, di conseguenza, in quanto coincidente con il carattere costitutivo del procedimento scientifico, e, d’altro canto, quale costruita per via di sola selezione-eliminazione – e cioè in quanto ottenuta per mezzo dell’astrazione rispetto a quei beni il cui valore non si rende incrementabile attraverso l’erogazione di lavoro –, e, perciò, presunta come incapace di garantire proprio un livello di densità astraente sufficiente a soddisfare, da una determinata angolazione, le prerogative di impianto epistemologico di un sapere che sia tale perché scientificamente fondato e caratterizzato. In siffatta maniera, la riconduzione dell’operazione teorica marxiana al ‘paragone ellittico’ si esplica in qualità di stabilimento del mero rapporto differenziale tra la estraniata ‘società economica’ – qualificata per modo

della misura di ‘isolamento’ che vien fatto coincidere con l’intervento della teoria del valore-lavoro – e la società nella sua interezza. Con la introduzione del ‘paragone ellittico’ Croce rende, cioè, palmare la fatale duplicità infirmante la propria posizione di ‘revisione’ dell’apparato categoriale marxiano. Egli spencola tra il riconoscimento dell’attrito concettuale di esso in rapporto ad una realtà specifica storicamente circoscritta e la formulazione di una corrispondente nozione esemplificativa ‘testata’ e in parte condannata in ordine al circolo forzosamente eguagliante di astrazione ed onnicomprensività. Tale spencolamento configura una chiara incoerenza, la quale si riflette e riverbera, poi, nella duplicità di indirizzo delineata vuoi dalla componente stessa di produttività teorica compresa in nuce, nonostante tutto, nella osservazione della non assimilabilità della categoria del ‘sopravalore’ – e del valore medesimo, sulla quale riposa – alla sfera della ‘economia pura’, concernente l’esibizione della capacità di penetrazione critica (in un preciso senso) di tale apparato categoriale riguardo allo spazio ed all’oggetto dell’economia politica; vuoi dalla corrispondenza strutturale tra l’impianto complessivo della interpretazione crociana della tesi del valore-lavoro e la sostanziale compressione dell’apparato in questione a canone storiografico. Del resto, proprio l’appello al suddetto circuito di equiparazione astrazione-onnicomprensività se, al di sotto di un certo aspetto, appare avvicinabile al principio di esemplificazione contraddistintivo dell’atteggiamento classificatorio dell’edonismo; d’altra parte, si rivela inconciliabile tanto riguardo all’attrito effettivo della analisi plurifattoriale – in qualche maniera esprimendo implicitamente la esiziale asimmetria interna alla movenza naturalistica di Böhm-Bawerk (non a caso Croce si riferisce all’‘economia pura’ in qualità di ambito di illustrazione ed interpretazione dei fenomeni economici, storicamente succedutisi, poggiante la propria rilevanza di giustificazione sulla delineazione di principii economici universalmente validi) –, quanto rispetto all’obiettivo dell’analisi di una certa condizionalità storica. Ovvero rispetto all’obiettivo del conseguimento di corrispondenti astrazioni determinate, parimenti, fruttuosamente ammesso e, poi, contrastato con tale equiparazione. Croce appare spinto, appunto, ad imputare – in forza del ricorso, con sapore di riduzione metodologia, al criterio della ‘abbreviazione nel pensiero’ (assimilato forzosamente al metodo de Il Capitale, giacché, egli osserva, mostrando la sua lontananza, nella presente fase, da molti aspetti della lezione hegeliana, tutte «le leggi scientifiche sono leggi astratte; e fra l’astratto e il concreto non c’è più ponte di passaggio, appunto perché l’astratto non è una realtà, ma uno schema del pensiero»141; nonché, assecondando, tuttavia, la contemplazione di un possibile, alterato ricorso a quella sorta di ‘stenografia dei concetti’, passibile anche di declinazione secondo moduli scientifici, evocata da

Weber in proposito al tema dell’‘idealtipo’) – alla teoria del valore-lavoro proprio l’incapacità di garantire un livello sufficientemente alto di astrazione intesa come generalizzazione. Egli, insomma, conclude – così segnando il profilo ‘inconciliato’ della inerente considerazione del marxismo – ad espungere – la necessaria istanza dello scorrimento vicendevole dal piano dell’astratto al piano del concreto, da concepirsi in vista dell’appropriazione di quel nesso strutturale tra analisi storico-morfologica generale, costituzione specificoformale e configurazione politico-soggettiva entro una precisa rete obiettiva di mediazioni – che persino la declinazione modellistica del ‘paragone ellittico’ implicitamente, ma, in certa maniera, inequivocabilmente ammette, ‘in sé’ e ‘per sé’, almeno con scopo conoscitivo (anche nonostante la infirmante conversione tra ‘astrazione’ ed attributo di ‘onnicomprensività’) – indicato, con vigorosa intensità, dalla prospettiva marxiana. A questa altezza, viene in chiaro il discrimine radicale tra l’impalcatura epistemologica crociana e quella del nostro; richiamando, tra l’altro, al raffronto fra due differenti nozioni di ‘legalità’. Quel che, però, più occorre sottolineare, adesso, è che alla radice della interpretazione crociana vi è una chiara equivocazione del procedimento astrattivo marxiano, tale per cui esso si trova qualificato – con una sorta di cortocircuito ponibile in parallelo a quello operato in altri, diversi termini da Böhm-Bawerk – come avente un carattere fortemente naturalistico. In vero, la teoria del valore-lavoro non si rende riconducibile alla designazione di un dato ‘idealtipo’ né alla formazione di una mera ‘ipotesi’. Come detto, l’atteggiamento crociano si raddensa attorno alla imputazione di un grado non sufficiente di astrazione alla teoria del valore-lavoro. Il suo punto di vista mira a dislocarne il contenuto non sul terreno delle compiute acquisizioni teorico-conoscitive ma su quello delle ‘valutazioni’ – del tutto ‘parzialmente’ propulsive di spinte alla mobilitazione ideologica indipendenti dalla analisi scientifica (si noti la vicinanza estrema, con altro segno, di tali argomentazioni a quelle di Sorel) –, facendo leva, dunque, su un criterio epistemologico di ‘avalutatività’ concludente alla riproposizione della divaricazione tra scienza e politica, teoria e movimento. Di un siffatto limite epistemologico Labriola si mostrerà ben consapevole. In particolare, vi è da rammentare la decisiva missiva – sulla quale Roberto Racinaro ha avuto il merito di attirare l’attenzione142 – del 28 febbraio 1898, cui già si è fatto riferimento, ove la posizione critica in proposito si trova fissata con estrema precisione: Tu dai segno di pura e semplice ingenuità quanto non solo credi che esista una economia pura (buona per tutti i tempi e luoghi) – scrive Labriola – ma poi vuoi anche

collocare il Marxismo in un certo posto per rispetto all’economia pura, come chi dal generale passi al particolare. […] Non ti avvedi che ciò che si chiama economia pura, non è che un’amplificazione utopistica dell’ideologia libertaria, ossia una ideologia buona a darci soltanto la coscienza degli impedimenti e delle antitesi, che costituiscono la realtà della storia. Tu credi che sia una teoria più generale, mentre è semplicemente l’immaginario. E quindi a un certo punto t’impapini, che non si capisce che cosa tu dica. Che fai una confusione suddetta fra i concetti che vengono escogitati per ispiegare una realtà data – con la creazione di un mondo ipotetico. Il marxismo tenta di spiegare la società capitalistica – cioè usa di concetti leggi etc. per ispiegare un fatto – e naturalmente lo spiega nei suoi caratteri generali: – dunque dici tu, spiega un mondo ipotetico. E qui si vede che avevi in capo il mondo ipotetico della economia pura. Ma come vuoi che uno il quale sia persuaso che la scienza non è altro che la spiegazione del dato empirico si pigli l’incomodo d’inventare un mondo ipotetico, per poi considerare il mondo reale come un caso particolare […]. Ciò poi ti porta a confondere il tipico con l’ipotetico: e se ci pensi ne riderai143.

Simili affermazioni testimoniano come alla sorgente della diversità di opinioni fra Croce e Labriola vi sia, anzitutto, la considerazione del carattere di astrazione del procedimento analitico svolto ne Il Capitale, cui si è appena fatto cenno. La confusione crociana fra ‘tipico’ ed ‘ipotetico’ dimostra quanto il filosofo di Pescasseroli sia impedito a comprendere come il profilo costruttivo del metodo marxiano poggi sulla cognizione delle determinazioni concettuali del pensiero «non», per dirla con le già menzionate parole di Labriola nel Discorrendo, «come tesi ed entità fisse, ma come funzioni». Se va ribadito l’avvertimento, alla base di un simile filtraggio della posizione di Marx, della polverizzazione di un immagine forzosa, unilaterale e semplificatoria della nozione hegeliana di ‘totalità’144, – da porsi, per esempio, in parallelo al delineamento, compiuto da Dilthey nella Einleitung, del riplasmarsi dei modi della oggettivazione e della socializzazione intellettuale145 –, e della stessa convergenza tra hegelismo ‘di maniera’ ed ingenuo, da un lato, e modello epistemologico ricardiano, da un altro; ciò che va soprattutto tenuto fermo è che la mobilità di uno scenario del genere vien da Croce recepita nella direzione adialettica che si troverà a culminare nel ‘taglio’ apertamente classificatorio della riflessione – per certi risvolti transitoria e per certi risvolti protraente la propria influenza su gran parte della ‘filosofia dello spirito’, in virtù della asserita antecedenza della ‘distinzione’ all’opposizione146 – circa la demarcazione fra ‘opposti’ e ‘gradi’147, e, dunque, connessamente, in alcuni precisi aspetti della formulazione della logica dei distinti. Ciò appare in maniera evidente nel riverberarsi della forbice tra forme teoriche e realtà concreta nel collegamento crociano alla tesi della ‘utilità marginale’. Arriviamo, così, a comprendere meglio in che senso Labriola parli, – come reso esplicito nella già

approfondita II missiva a Sorel del Discorrendo –, del marginalismo quale spazio di riflessione «degli impedimenti e delle antitesi» della realtà storica. Egli esibisce il riverberarsi dell’‘irrazionale’ e del ‘negativo’ sulla teoria economica (cioè il riflesso ‘ulteriore’ oltrepassante la dimensione degli ‘impedimenti’ ‘in sé’ e ‘per sé’), di cui, quasi paradossalmente, c’è bisogno di comprendere il connotato di indice di razionalità interna alle cerchie e, parimenti, di speculare compromissione della totalità (che con la rappresentazione autoreferente di esse, in un primo momento, sembra coincidere), i cui livelli di storicità reale si rendono conquistabili soltanto risalendo alla profondità della unità dialettica e penetrandola. L’influenza ‘allargata’ di tali momenti, – la cui primaria manifestazione vien recata dallo scambio diseguale concernente la formazione del plusvalore, approfondibile guardando al meccanismo formale della riproduzione nei contenuti di dominio politico –, appalesa la propria giustificabilità in ordine alla crisi del modello di razionalità congruente agli equilibri armonico-concorrenziali della società automatico-liberale. In tal maniera, esprime, riguardo a ciò, il determinarsi di una ‘rottura’ reale manifestantesi, però, in una ‘pretesa di autosufficienza’ in grado di irradiarsi – badare bene –, in vincolo alla intensificazione dell’apparato epistemico complessivo, nella pluralizzazione della razionalità configurante la articolazione dinamico-diffusiva di cerchie speciali in sé conchiuse, e compiutamente regolate internamente, nonché, di conseguenza, esibenti il corrispondente carattere di autoreferenza in quanto espresso in virtù della stessa dimensione incidente della ‘scissione’ (cosa acclarata dai caratteri di alcuni fondamentali modelli teoricocategoriali e sistemico-epistemologici cui già si è accennato, e da cui Labriola si differenzia principalmente poiché è in grado di leggere dialetticamente l’interdipendenza delle cerchie proprio ‘al di là’ del loro imbozzolamento autoreferente). Come rimarcheremo fra poco, si tratta, – e la cosa è in parte assolutamente evidente, a fronte di quanto appena detto –, di un aspetto pienamente congruente alla percezione della complessità delle implicazioni del tema del valore-lavoro che abbiamo cercato di tratteggiare. Bisogna, tuttavia, partire soprattutto dall’enfatizzare come l’emersione dell’‘irrazionale’ comportata, quasi per contrappasso, dalla posizione marginalistico-edonistica rechi riscontro delle «condizioni» statutariamente contraddittorie delle sviluppo capitalistico, e costituisca il ‘punto di partenza’ possibile per verificarne il cospicuo approfondimento nell’inedito contesto morfologico ricongiungibile proprio alla necessità di accantonare la fallace restituzione quantitativistica della teorica del valore dovuta al sempre maggiore allontanamento, rispetto all’immagine della loro compresenza proporzionale, dei due poli della formazione della ricchezza e

del fattore tempo di lavoro-quantità di lavoro impiegato. Allontanamento che, tuttavia, conferisce il massimo di efficacia e penetratività ermeneutica a questo teorico. Ne viene che l’incrinarsi del modello epistemologico ricardiano sospinge, di contro alla compressione poveramente quantitativistica della funzione del valore-lavoro, ad un netto rilancio della capacità analitica delle categorie marxiane, che Labriola cerca di insistere massimamente, individuando in ciò l’unica ‘via di uscita’ dalla ‘crisi del marxismo’ stessa. Sicché, la medesima, incerta affermazione crociana della destituzione di senso del «sopravalore» nel campo della «pura economia» (che è comunque vista quale ‘esplicativa’ riguardo agli aspetti lumeggiati dalla teorica marxiana) appare esprimere un nucleo di verità, giacché segna l’emergere della dimensione ‘interna’ della valorizzazione come dispiegantesi sul doppio, intraconnesso binario della costituzione del campo speciale-formale dell’economico e del verificarsi della impossibilità di trattenere in un circoscritto segmento il determinarsi della contraddizione reale; con ciò anche segnando, dunque, per riflesso, in tutta la sua pregnanza e profondità, lo scarto problematico fra economia politica e critica dell’economia politica.

12. Emersione dell’‘irrazionale’ e del ‘negativo’, organizzazione formale delle cerchie e costituzione del processo reale Confrontarsi all’altezza delle presenti coordinate con la tematica della cosiddetta ‘irrazionalità’ significa confrontarsi con il nodo, che la pretesa ‘assolutezza’ di essa sollecita, ‘per contrappasso’, dell’intrecciarsi della crisi della epistemologia ricardiana con la opportunità di rimodulare i contenuti della ‘critica dell’economia politica’ all’insegna dell’obbiettivo di ridefinire i termini di ciò che il Cassinate indica come la «integralità» de Il Capitale. Egli scrive, in chiave generale: Agli eruditi, ai ricercatori di temi per dissertazione, ai dottori novellini, tutto è possibile. Come han messo assieme l’etica di Erodoto, la psicologia di Pindaro, la geologia di Dante, l’entomologia di Shakespeare e la pedagogia di Schopenhauer, così a fortiori, e a più giusto titolo, potrebbero scrivere della logica del Capitale, anzi costruire un insieme della filosofia di Marx, tutta specificata e spartita secondo le sacramentali rubriche della scienza professionale. Question di gusti! – io che, per esempio, preferisco l’ingenuità di Erodoto e la poderosità di Pindaro alla erudizione che ne stemperi gli unitarii prodotti in amminicoli di postuma analisi, lascio volentieri al Capitale la integralità sua, a produrre la quale concorrono organicamente tutte le nozioni e conoscenze, che allo stato differenziato han nome di logica, di psicologa, di sociologia, di diritto e di storia nel senso ovvio; – e ci concorre anche quella singolare flessibilità e flessuosità del pensiero, che è la estetica della dialettica148.

Si direbbe che nel brano torni, in tutta la sua rilevanza, una tematica centrale fin dalla Risposta allo Zeller, ovvero quella del nesso fra pluralità degli specialismi e dei segmenti cognitivi e ricomposizione unitaria. Ciò su cui aspramente si attaglia la critica labrioliana non è, – com’è evidente dalla sinossi del suo percorso di pensiero –, l’ammissione, – che anzi egli, come sappiamo, sottolinea al massimo in quanto cuore della mobilità morfologica del moderno –, della incidenza strategica della differenziazione speciale della struttura epistemica, ma l’atteggiamento arrestato passivamente alle costitutive determinazioni ‘autoreferenti’ di essa. Altresì, Labriola mira ad indicare proprio uno spazio di articolazione unitaria che non comprima o annebbi la precisa configurazione cognitiva di ciascheduna articolazione speciale ma la finalizzi alla ricostruzione logico-storica, per linee interne, dell’oggetto, secondo la prospettiva rispetto alla quale la costruzione categoriale de Il Capitale funge ‘da battistrada’. E d’altra parte: Labriola evita assolutamente di ‘chiudere gli occhi’ di fronte al contemporaneo investimento da parte del Politico di una simile frammentazione autoreferente dei modi della organizzazione epistemica anche

rispetto all’immagine ordinaria della «integralità» dell’apparato concettuale de Il Capitale stesso, bensì individua in ciò il movente di una più avveduta riappropriazione analitica di essa. Per entro di questa ed attraverso di questa, infatti, diviene possibile invigorire gli strumenti grazie ai quali leggere nella manifestazione di ‘pretesa’ autosufficienza da parte della molteplicità delle cerchie, intrinsecamente lambita dall’‘irrazionale’, il riverbero estremo di un percorso, storicamente determinato, di sconnessione tra economia e politica, schiudentesi, nella sua fisionomia ideologica, proprio nell’area di massima visibilità della trama politica della stessa organizzazione formale-speciale di cui la costituzione dell’economico rappresenta il maggiore vettore egemonico in ordine all’emergere della contraddizione. In altre parole, dall’insieme del ragionamento labrioliano si può ricavare che reimpostare il lavoro teorico sulla «integralità» del campo teorico definito da Il Capitale rappresenta l’unica via per sanare lo iato fra forme e concetti, raggiungendo le condizioni soddisfacenti per giustificare l’‘irrazionale’ «come un momento del processo stesso», come inscritto «nello stesso grembo della forma storicamente necessaria». A riscontro di questo centrale aspetto è assai utile far riferimento alla traducibilità di una siffatta situazione nell’‘apparente’ affinamento degli strumenti metodologico-epistemici del marginalismo, – a cominciare dalla crescente rigorizzazione matematica della ‘scienza economica’ (l’‘Economia’ come «algebra universalissima»), che Labriola sembra intendere essa medesima, pur nel connotante contenuto di ‘irrazionalità’ riposante sulla suddetta divaricazione, in una luce che va al di là della mera configurazione ‘individua’, dato il suo essere collocata in inscioglibile intreccio al profilo squisitamente politico dei meccanismi di ‘ingegneria’ economico-sociale pertinenti149 –, trovante, però, come contrappeso il radicale indebolimento della capacità euristica reale150. Tale ‘indebolimento’ – vale la pena ribadirlo – appare, poi, segnare l’assai tenace filo di congiunzione tra isolamento dell’economico ed assunzione autonoma dell’etico-politico attraversante l’intiero campo revisionistico; mostrando tanto l’anacronismo del paradigma ricardiano di compressione dell’energia in favore dell’accumulazione151; quanto anche la capovolgibilità della, almeno per certi versi, ‘produttiva’ enfasi, rispetto alle volgari semplificazioni deterministiche delle varianti della Zusammenbruchstheorie152 (che dalla II trapassano nella III Internazionale), sul fronte dell’iniziativa politica. Si tratta di un ‘indebolimento’ che viene, nondimeno, a collegarsi e compenetrarsi, – nel suo appena rammentato contenuto egemonico-passivizzante, comunque politicamente caratterizzato –, con l’indirizzo di riorganizzazione per via di autoregolazione speciale, –

intrinsecamente esposto, sarebbe assai grave dimenticarlo, alla spinta della costituzione per scissione –, dei modi dell’ineludibile vincolo fra forma e potere. Luogo di riverbero di una simile riorganizzazione, se attesa come collocantesi all’insegna di una sorta di Standpunckt passivizzante, è proprio l’isolamento dell’economico – che dalla formulazione originaria nel marginalismo trapassa in Croce – in quanto leva dell’isolamento reale-speciale correlato, ‘per contrappeso’, alla estensione e complessificazione del mondo di produzione capitalistico, della sua struttura mercantile etc., nonché poggiante non sull’obiettivo – assunto da Labriola – della ricostruzione logico-storica dell’oggetto, bensì sulla affermazione dell’attributo della sua presunta ‘purezza’153 (da Croce ricavato per via di astrazione generalizzante del ‘dato empirico’. Dato empirico cui il nostro autore – in particolare nella citata missiva del febbraio ’98 – si riferisce per contrapporsi proprio alla conversione del crudo determinante in classificazione astratte). Cercheremo di cogliere, fra poco, in che senso la problematica si intrecci ai termini che abbiamo indicato della declinazione della teorica del valore-lavoro. Ma è necessario continuare ad approfondire le presenti coordinate per comprendere sino in fondo che cosa Labriola lasci intendere parlando dell’elemento di realtà contenuto nell’‘irrazionalità’ che il marginalismo ha fatto emergere; evidenziando il ruolo del ‘negativo’ nel movimento delle forme. A ciò va finalizzato il recupero dello statuto di integralità dell’apparato concettuale de Il Capitale, ricomponente in un organismo dinamico l’apporto degli specialismi e dei conflitti che essi sottendono in virtù «di quella singolare flessibilità e flessuosità del pensiero, che è la estetica della dialettica». Dialettica innervante la marxiana Darstellungweise, la quale rende compresente alla riflessione dell’oggetto l’emersione delle sue determinazioni formali. Ora, si tratta di comprendere che il fattore dialettico si rapporta in maniera massimamente problematica alla teoria degli specialismi ed alla mobile organizzazione della regolazione – che lo stesso Weber, per esempio, tende a sganciare dal livello delle forniture riconducibili alla ‘critica dell’economia politica’, in congruenza al peculiare assecondamento del divorzio fra scienza e movimento154 proiettantesi sulla focalizzazione delle direttrici di razionalizzazione della vita e di identificazione della dimensione sociale in ordine ai suoi attori155 –, la quale ricostruisce di continuo la trama del potere nella compenetrazione tra articolazione del reale e pluralizzazione della razionalità scientifica traducentesi nella moltiplicazione tendenzialmente infinita delle cerchie separate-sistemi parziali rispetto a cui il valore-lavoro, con il suo ampio potenziale di giustificazione (a cominciare dalla determinazione di uno scambio ineguale),

assume funzione paradigmatica. Il recupero labrioliano della preminenza del fattore dialettico, infatti, si contrappone ad ogni soluzione ‘subalterna’ alla manifestazione ‘in sé’ e ‘per sé’ del nesso potere-specialismo, richiedendo, invece, la soddisfazione dell’istanza di tessere, e qualificare sul piano teorico, il reticolo sistematico di collegamenti, volti alla ricomposizione, fra le cerchie parziali. Ciò vale anzitutto rispetto al loro padroneggiamento interno, in vista della compiuta ridislocazione circa il pieno dispiegamento del ‘cervello sociale’, anche aldilà della transitoria persistenza di moduli ricavati dal quadro degli equilibrii ‘classici’. Arriviamo, dunque, a cogliere ancor meglio la densità della coimplicanza tra critica dell’epistemologia e critica della politica. Essa richiama alla necessità della soddisfacente acquisizione della carica politica della costruzione della composita struttura epistemica. A tale proposito, appaiono particolarmente esemplificative le critiche del nostro all’‘economia pura’ ed alla modellistica del ‘paragone ellittico’; il suo richiamo ad immergersi «nel concreto delle correlatività sociali e storiche», rintracciandone le determinazioni dialettiche e le contraddizioni storiche nel pieno della vicenda genetica del complesso movimento formale-reale; evitando di isolare, magari, gli ingredienti della riproduzione, le spinte all’appetibilità, l’effettività dei beni ed il carattere del loro consumo per, poi, ricondurli alla mera ‘scala’ designata dalla «Economia» in quanto «algebra universalissima» (operante con l’esame degli stessi ‘beni’ «nella loro» sola «relazione con gli apprezzamenti», appunto, «tenuto conto della loro quantità disponibile e acquisibile, il che determina per esse le qualità dei valori, il limite dei valori ed il valore-limite»; in modo tale da concludere a trameggiare un paradigma di idealizzazione invertebrato poiché esclusivamente aderente allo sporgere dell’empiria fattuale). A rigore, le indicazioni di Labriola dovrebbero condurre a rifiutare recisamente, in definitiva, l’idea che lo snodarsi delle mediazioni possa essere corrisposto permanentemente alla cristallizzazione dell’ordine della stabilizzazione liberale; stante che la mediazione, appresa nel suo ulteriore portato ‘internante’ – concorrente alla costituzione autonoma delle cerchie speciali – si rivela proprio sul fronte della loro chiusura a fini di autoregolazione; di qui esplicitando come l’apporto di esse possa venir ridislocato ed espanso entro un diverso assestamento morfologico, senza cedere né alla illusione di una ‘de-formalizzazione’ integrale (che è altra cosa dalla ‘transitorietà’ di momenti ad essa riconducibili in chiave di rideterminazione), né alla restituzione – validabile solo prima facie – del giuoco delle cerchie in termini di sola, mera ‘frammentazione’. In senso generale, tutto sommato, ci pare opportuno cogliere qui l’occasione per osservare che l’esito della giustapposizione di sistemi parziali ed autoreferenti nella loro impalcatura razionale a cui conduce, poniamo,

l’estremizzazione di paradigmi come quello weberiano o quello cassireriano, elaborati soprattutto a cominciare dalla fase coincidente con la morte di Labriola in poi, appare concettualmente conquistabile quando si consideri come il loro limite costitutivo, cioè l’incapacità di delimitare i margini di ridislocazione dell’apporto che di questi è proprio (magari configurando un diverso orizzonte formale), divenga conseguibile attraverso il confronto con alcune acquisizioni cardinali della analisi marxiana, anche grazie al filtraggio critico e al potenziamento che dalla elaborazione labrioliana si può desumere. Infatti, il valore-lavoro designa l’asse genetico-non empirico della costituzione di una cerchia speciale che, venendo istituita per via di una apposita riduzione formale, assume un profilo di autoregolazione interna la quale, pur cifrando un fattore di sconnessione, – dovuto, anzitutto, all’implicita sua caratterizzazione di potere –, rispetto allo stesso reticolato mobile in cui s’inscrive, ed essendo realiter interdipendente all’intreccio d’insieme tra posizione e funzione egemonica, da un lato, e costruzione epistemica, da un altro, consente di far emergere, – intrinsecamente, nel caso, al cogente nesso di coincidenza tra valorizzazione e riduzione a quantità di tempo di lavoro –, i margini oggettivi di rideterminazione, anzitutto squisitamente politica, del lavoro stesso. Badare bene: è coglibile, ora, con estrema nettezza la distanza tra il modulo ipotetico, – dotato di contenuto politico, ma sfibrato, almeno in parte, di ‘presa’ analiticocategoriale –, designato, rispetto al criterio ermeneutico marxiano, dal ‘paragone ellittico’ di Croce, e la considerazione labrioliana dello statuto teorico-‘tipico’ integrale del valore-lavoro, – da afferirsi alla Darstellung genetico-complessiva della struttura morfologica capitalistica, intesa nell’intreccio logico-storico con il campo sincronico e sfuggente ad ogni concezione lineare del tempo storico medesimo156. Giacché tale statuto non allude, come sappiano, ad una sorta di ‘rinvio’ verso l’esterno in ordine alla società capitalistica, definendo piuttosto, dall’interno di essa quelle connotazioni egemoniche in base alle quali riconoscere le condizionalità su cui far attrito per conseguire un’inedita compenetrazione tra mediazione e forme storiche. Ciò illumina le basi obiettive del mutamento della funzione del lavoro e della connotazione politico-soggettiva che gli attiene. È a questa altezza che gioca l’intervento della contraddizione reale, reso esplicito nel pieno della coincidenza di forma speciale e valorelavoro, ed il suo poliedrico rifrangersi su tutte le linee di movimento della società capitalistica – come, del resto, ben dimostra dalla divaricazione prezzi/valori. A fronte delle osservazioni appena compiute possiamo davvero arrivare a capire in che termini vada assunta la primaria istanza compresa nell’inquadramento dell’‘irrazionale’, del ‘negativo’ in quanto «momento del

processo stesso». Se la formazione della ricchezza ‘in sé’ si sgancia sempre maggiormente dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegata, ciò corrobora l’esigenza dello svellimento della teorica del valore-lavoro dalla sua volgare accezione ‘quantitativistica’ non già perché il meccanismo di riduzione che essa restituisce possa venir spogliato del ruolo di determinazione quantitativo-misurativa della grandezza, ma perché lo schema di formalizzazione che esprime viene a distendersi costitutivamente sull’intierezza del processo (e del suo costante vincolo con l’effettivo assetto morfologico), definendo, evidentemente, l’ossatura delle molteplici segmentazioni formali in virtù delle quali arriva a stagliarsi – quasi per cortocircuito – la pretesa ‘assolutezza’ di determinati fattori recanti, a livello allargato, ‘impedimenti’ e tensioni determinate nell’arco della riproduzione, nonché la manifestazione di precisi fenomeni delineati dal cosiddetto ‘problema della trasformazione’. Si pensi alla istituzione delle regioni di scambio mercantile ed all’effettiva relazione sociale tra i diversi lavori riconducibili alla medesima forma trasformata di valore configurata dai prezzi di produzione e bisognosa di essere collegata, a sua volta, alle peculiarità tecnico-organizzative dei processi lavorativi afferenti alla composizione organica delle tante sfere di produzione. Labriola ‘apre la via’, in certo senso, alla lettura dialettica dell’organizzazione autonoma delle cerchie speciali, indicando una prospettiva di rimodulazione della mediazione storica rispetto alla pretesa valenza di autoregolazione da parte di queste. Pretesa corrispondente ad una parzializzazione prima facie compresa nella scissione poiché negante per via riflessiva il quadro di vincoli comunicativi in cui esse cerchie si inseriscono. Parliamo di una lettura dialettica in grado di sottrarre alla cristallizzazione della parcellizzata distribuzione speciale gli aspetti emersi dal plesso delle ‘spinte’ e degli ‘impedimenti’, compresi nella scansione processuale, che sarebbe indebito arrestarsi a qualificare in quanto risolventisi sul mero versante dell’‘irrazionale’ (la ‘totalità’ prima facie), e che occorre, invece, recepire in quanto restituenti l’articolazione di rapporti di forza riguardanti la compresenza della contraddizione a tale complessa scansione. È a ciò che, in ultimo grado, approda l’enfasi labrioliana sulla «singolare flessibilità e flessuosità del pensiero», definente il primario modus essendi – anzitutto caratterizzato sul versante espositivo, ma con conseguenze, com’è chiaro a fronte delle precedenti considerazioni, concernenti tutto il ritmarsi di esso – del dialettismo reale, di contro all’atteggiamento contraddistintivo del marginalismo, rivelantesi incapace di cogliere la rete complessiva delle connessioni obiettive, ed il cui orientamento metodologico si volge ad insistere, in definitiva, su un procedimento ‘isolante’, passivamente appiattito sulla collocazione ‘in superficie’ irrelata delle cerchie

particolari. La «flessibilità e flessuosità» contraddistintiva della dialettica consente di far emergere lo scorrere vertebrante della mediazione, al di là della sua medesima, esclusiva finalizzazione alla ‘riduzione’ istitutiva di una certa cerchia speciale – esemplarizzata dal valore-lavoro –, rendendo, però, possibile approfondire la gamma di tensioni propria dell’inclinazione egemonica che tale ‘riduzione’ istanzia. Incidendo, dunque, dall’interno della trama politica che il movimento formale-reale d’insieme squaderna. Ovvero focalizzando ed approfondendo il determinarsi della contraddizione. Insistere sulla dialettica che percorre lo spazio di articolazione delle cerchie significa, d’altro canto, proporre un’idea generale di «flessibilità» e modularità del dialettismo permeante il mondo storico impiegabile in alternativa all’intento di ‘rivoluzione passiva’ – potremmo dire riadattando l’espressione gramsciana – del marginalismo, recepito come volto a risolvere l’‘Economica’ in un «algebra universalissima», ovvero in un modello astratto che in sé può includere – come reso chiaro dalla tematizzazione crociana – tanto l’economia liberale ‘pura’ quanto l’economia marxistica stessa. Tale modello può farlo giacché non si pone la questione di protendersi alla indagine ed alla spiegazione della totalità reale – intesa, certo come, in ultima istanza, costitutivamente ed incomprimibilmente differenziata –, bensì resta vocato ad incorporare a proprio oggetto, – quasi autodefinendosi in qualità di ‘schema trascendentale’ cui, però, corrisponde, peculiarmente, un’apposita terapia di parcellizzazione-generalizzazione empirica –, i diversi sistemi teorici, attesi in quanto ricongiungibili a peculiari indirizzi di caratterizzazione della razionalità di una o di alcune delle cerchie speciali (come dimostra, nel caso della teorica marxista, la considerazione del valore-lavoro all’insegna del ‘paragone ellittico’). Si tratta di una consapevolezza rintracciabile nella acutissima osservazione per cui, come ascoltato, in «codesta astratta atomistica delle conazioni e delle quantità di beni non si sa più che cosa sia la storia». Diviene, così, palese il vincolo fra l’opzione di rigorizzazione cifrante la «algebra universalissima» propugnata dal marginalismo e lo storicismo volgare. Ciò che raccorda i due versanti è tanto la incapacità di qualificare effettivamente le «leggi del variare», la plastica e perennemente mutevole legalità del movimento interno alla morfologia del processo, quanto, in maniera strettamente connessa, il generale divorzio fra scienza e movimento. E c’è di più. Tutto questo risultava congruente alla rottura del sistema classico, al dispiegarsi weberiano del ‘disincantamento del mondo’, dello scenario del ‘politeismo dei valori’, la cui dimensione di crisi – che è, anzitutto, crisi dell’ordinaria visione metafisica157 – ha coinvolto tanto il marxismo quanto il vecchio liberalismo, e, per molti aspetti, è approdata, certo incongruentemente, alla riclassificazione della scienza in termini di mera tecnica, – cui già Sorel si

era rivelato subalterno, acclarandone, comunque, più o meno di rincalzo, l’inclinarsi radicale del tradizionale statuto epistemologico –, scaturendo, dissociatamente, l’irrigidimento dell’autonomia dell’‘etico-politico’. Le indicazioni formulate da Labriola, al contrario dell’atteggiamento sotteso all’epistemologia crociana, non si limitavano a registrare il quadro dei mutamenti che venivano innanzi, intersecanti superamento di paradigmi epistemologici determinati e crisi della stabilizzazione liberale, – donde il riverbero passivo su alcuni dispositivi elaborati da Croce come un certo ‘paragone ellittico’, appunto, l’astrattezza delle inerenti formule scientifiche etc.; comportando l’adesione alla impostazione adialettica del nesso fra categorie e storia –, nonché recanti quella che Dilthey, successivamente, nel 1910, benché facendo leva su una accezione assai discutibile (proprio perché volta a declinare la nozione in questione in direzione speculativa) di questo158, designò come la ‘dissoluzione dello spirito oggettivo’159. Tali indicazioni miravano, bensì, a demarcare le coordinate di ridefinizione del corso della mediazione storica, senza sottendere come ‘dissolvibile’ il Politico ed, invece, scoprendone la pregnanza nella determinazione e nel movimento delle forme. Osserviamo: ciò val dire che, puntando a stabilire un preciso asse di scorrimento tra teoria e movimento, intelligenza e processo, Labriola rifiuta l’opzione di una sorta di appiattimento sul quadro di rapporti di forza presenti dovuta al mancato riconoscimento ed alla mancata qualificazione della dimensione di compenetrazione tra forma e potere cui appartengono. Mancato riconoscimento che, come detto, favorisce, quasi per controspinta, l’emersione ‘separata’ – anziché connessa alla costruzione obiettiva delle soggettività storiche – dell’‘etico-politico’160. Rifiutare ogni soluzione di ‘separazione’ e di spinta verso l’‘esterno’ è uno dei principali problemi del nostro autore, il quale non isola nessun elemento empirico, ma punta a farne risaltare i nessi che lo inscrivono nella dimensione del processo e che, proprio per questo, ne rendono inadeguata la considerazione puramente empirica; consentendone, altresì, la qualificazione entro un differente scenario di ricomposizione, – come dimostrato, fra l’altro, dalla possibile tematizzazione che dalla posizione labrioliana è lecito derivare del ruolo del valore d’uso –. Val la pena dedicare qualche ulteriore considerazione in merito. Il riflettersi di ciò che è passibile di venir considerato come irrazionale, come negatività entro la «realtà della storia» si sostanzia nel processo entro cui arriva a dischiudersi la stessa ‘vicenda’ della forma-merce, a cominciare, evidentemente, dalla istituzione dello scambio ineguale inerente la sua costituzione. Malgrado il carattere di limitatezza e gli elementi di fallacia, il

programma marginalista ne lumeggia l’effettività in termini di ‘impedimenti’. Ammettendo ciò, benché da un fronte polemico, il Cassinate ammette la capacità di tale programma di filtrare, almeno indirettamente, il carattere delle dinamiche interne al mercato. Labriola ammette il fatto che l’orizzonte della riproduzione sociale (di cui, però, occorre saper vedere l’interconnessione complessiva – ecco il motivo dirimente del confronto del nostro con l’‘economia pura’ – proprio in forza di un assolutamente diverso indirizzo – a carattere, appunto, ricompositivo – di padroneggiamento degli specialismi relato, in senso strategico, all’estensione del formalismo della produzione capitalistica alla medesima riproduzione sociale allargata, comprensibile solo attraverso l’assunzione di una autentica ottica dialettica) riarticola di continuo, in un ritmo assai incalzante, i modi stessi della produzione, della circolazione e del consumo (qui abbiamo evocato alcuni tratti del loro generale e mobile strutturarsi, focalizzabili in virtù dell’analisi de Il Capitale, che il nostro interpreta in chiave di continuità interna). L’ottica del marginalismo, insomma, esibisce, ‘di rimando’, e con un certo grado di disomogeneità interna, la compenetrazione tra i rapporti di forza presiedenti allo spazio del mercato e quelli del più complessivo terreno della regolazione riproduttiva. Compenetrazione della quale occorre evidenziare la ‘politicità’. Si tratta, per Labriola, di comprendere che l’‘irrazionalità’ non è altro che uno dei momenti strategici strutturanti ‘da dentro’ l’arco che si tende dalla produzione alla riproduzione ed ai meccanismi di implementazione costitutiva del mercato. Pure dall’‘irrazionale’ sono desumibili indicazioni di regolarità, ma in una direzione assai diversa dall’approccio dell’‘economia pura’. Infatti, il fattore di ‘regolarità’ può essere colto in termini adeguati soltanto rendendo manifesta – quasi in base ad una sorta di cortocircuito – l’insufficienza vuoi di un impiego, vuoi di una restituzione meramente descrittiva della teoria del valore – così come sarebbe congruente alla configurazione puramente quantitativa, propria del paradigma ricardiano, del suo medesimo aspetto di determinazione di misura, mentre esso esige di venir riconnesso ad un generale portato di formalizzazione –; con ciò rapportandola e ponendola in tensione, piuttosto, con mutamenti morfologici intrecciati a quella ‘pluralità di tempi’ che in sé coinvolge le varie soluzioni di incorporamento dei saperi e di distribuzione. Tempi i quali scandiscono la penetrazione della forma-merce; rendendo anche chiara, di conseguenza, l’illegittimità della qualificazione di essi attraverso una semplice operazione di classificazione; ossia l’illegittimità, pure in proposito, della applicazione della tesi marginalista, derivata da un peculiare vizio naturalistico ‘di fondo’. A cosa apre tutto questo? A nostro parere, un simile orientamento rende soprattutto ben visibile la compenetrazione strategica tra produzione-riproduzione, ruolo e

posizione determinata della forza-lavoro, Verfassung del mercato e delle forme della mediazione (compenetrazione che ogni costante e variante regolativa della società capitalistica coimplica). Basta riandare, del resto, all’accusa decisiva rivolta da Böhm-Bawerk a Marx (e alla ben diversa ottica di Rodbertus), nonché, comunque sia, a ogni posizione di discostamento dalla «sana empiria»161: l’elusione del valore d’uso, donde l’economista mitteleuropeo prendeva le mosse per sostenere l’elevazione dell’‘utilità marginale’ – e non già del lavoro – a criterio di tipizzazione dei comportamenti sociali, e, di qui, per affermare un certo intendimento del primato del momento della circolazione su quello della produzione (la cui ottica anche Marx assume ‘transitoriamente’ e problematicamente, per giungere a ben diverse conclusioni). Ebbene, il disvelamento teorico dell’‘irrazionalità’ quale insieme reale di ‘impedimenti’, di spinte e controspinte che attraversano tanto la formazione germinale del plusvalore quanto la riproduzione sociale e la costituzione del mercato ha da venir adempiuto, giustappunto, anzitutto col leggere l’unità nell’opposizione medesima tra valore d’uso e valore di scambio; cercando di muovere, poi, verso la piena acquisizione della comunicazione resa possibile dallo scambio di merci (acquisizione sicuramente utile sia in ordine alla relazione differenziale ricompresa nel valore – così esibendo una delle ragioni dell’errore interno alla critica böhm-bawerkiana –, sia – in parziale ma decisiva connessione – in vista della dinamica scambio-consumo in quanto dinamica comunque inerente la riproduzione materiale della vita, il ricambio organico uomo-natura162), e in connessione anche, certo, «al grado della soddisfazione»163, verso la considerazione dei processi di valorizzazione a muovere dello stagliarsi della realtà della contraddizione. Tutto ciò consente di cogliere, di conseguenza, la centralità del governo di tale opposizione dinamica, di contro all’idea della illusoria abolizione di essa, nonché in senso generale, la centralità del principio per cui il mercato ‘mette in relazione’, per cui il compito che gli è proprio ha una funzione squisitamente mediatrice, benché investita di un carattere, via via, sempre più distante dal paradigma dell’‘individuo-mercante’ (di cui occorre rifiutare la naturalizzazione) e concorrenziale–‘perfetto’ dell’economia classica, ma in grado di offrire proprio la possibilità di inediti spazii di espansione e di inclusione. L’ipotesi labrioliana di indagine morfologica ha il merito di afferrare adeguatamente, grazie ad una robusta analisi differenziata, il ruolo delle forme e gli specialismi profilanti il giro d’orizzonte del processo sociale-reale storicamente determinato (con questo rielaborando il rapporto contraddizionedialettica e l’approccio marxiano al modularsi incessante di tali forme), e, conseguentemente, di proseguire il discorso sulla riproduzione che intride i

contenuti della marxiana ‘critica dell’economia politica’, lasciando intravvedere l’abbozzo di una lucida teorica del mercato poggiante sulla incomprimibilità in senso economicistico del ‘problema della trasformazione’ e di tutte le questioni su cui si attesta la posizione marginalista, della quale pure occorre riconoscere non solo i limiti ma anche le ragioni (tale embrione teorico – lo notiamo per inciso – può essere facilmente raccordato in termini di sostanziale continuità concettuale a quella che sarà l’apparecchiatura categoriale gramsciana di analisi dell’americanismo164). L’indagine dei mobili rapporti di forza presiedenti alla riproduzione sociale e della pluriversa costituzione politica del mercato configura il livello più avanzato in cui le indicazioni del Cassinate si rendono impegnabili per individuare le linee di intervento concernenti l’inverarsi della mediazione storica nelle determinazioni della prassi e per riplasmarne la connotazione egemonica; indicando l’opportunità di spezzare l’autoreferenza delle cerchie speciali e degli apparati e ruoli cognitivi nello scenario di una diversa, ma già radicata – senza, però, implicare nessun esito obbligato – via di organizzazione formale. Ora, se la mobilità dei livelli di produzione ad un alto grado di sviluppo capitalistico comporta, anzitutto, un certo scarto nei riguardi del piano della composizione del valore165, ‘in sé e per sé’ essa converge articolatamente nella complessità del circuito della riproduzione e, proprio perciò, evidentemente, non può che tornare a ‘chiamare in causa’ il significato genetico-esplicativo dei plurimi processi di valorizzazione. Essi si annodano costitutivamente al costante manifestarsi della realtà della contraddizione, in quell’orizzonte di dissociazione e ricongiunzione contrassegnato dalla inversione del nesso fra produzione e circolazione (su cui si fondano concetti portanti della ‘critica dell’economia politica’ quali forza-lavoro, plusvalore e lo statuto di rapporto sociale del capitale) il cui intramato movimento formale ne attesta la ‘copertura’ logicostorica e la scansione differenziata, ove tali plurimi processi si spingono ben al di là dei confini della determinazione di misura del valore, – anzi: si pongono in esplicita asimmetria nei loro riguardi –, e, tuttavia, conservano e dilatano il carattere egemonico che proprio nell’aspetto formale della riduzione al tempo come misura constatiamo concentrato. Siffatto andamento dilatatorio – designante la ‘spina dorsale’ egemonica del rapporto di produzione-riproduzione capitalistico – si intreccia, chiaramente, alla riflessità del capitale compresente alla duttile organizzazione della riproduzione medesima, giungendo a subordinare il valore d’uso (correlato, a fronte dell’emersione della stessa realtà del valore di scambio nel suo afferire ad esso in virtù dei termini di relazione dell’astratto e del carattere dell’aggancio fra logica e storia166), così come al

‘congiunturale’ – ma anche significato strategico – occultamento della morfologia politica da cui pure questa è cifrata (come abbiamo potuto accennare nel breve excursus compiuto), ovvero alla configurazione di condizioni che proprio in virtù della fluidità dei rapporti di forza e dell’affermarsi della stessa contraddizione reale consentono il guadagno del loro, de facto, riarticolabile ed intrinseco statuto politico. Esso si rivela qualificabile grazie alla visuale, volta alla ricomposizione, corrisposta alla «flessibilità e flessuosità» della dialettica storica. Viene, così, ad essere tracciata la prospettiva di una più avanzata riaggregazione fra produzione e consumo e della rideterminazione egemonicofunzionale della stessa forma-merce.

13. Istanza antifinalistica, complessità interna del tempo storico e dialettica come ‘autocritica’ del reale Come sarà chiaro al lettore, la lettura di matrice labrioliana della morfologia politica interna al rapporto di produzione-riproduzione capitalistico (ma, a rigore, si dovrebbe contemplare la seconda come ambito complesso da cui partire per l’indagine del capitale come processo167) ed alla sua costante intensificazione coimplica una concezione radicalmente antilineare ed antiseriale del tempo storico. È entro di essa ed in rapporto ad essa che l’intelligenza della «correlatività sociali e storiche», che il coglimento dell’«insieme come insieme»168 (implicante che le indicazioni provenienti dalla configurazione della ‘totalità’ come ‘irrazionale’, comportata dalla chiusura autoreferente della razionalità interna delle cerchie, vengano riconnesse, attraverso, appunto, la visualizzazione propriamente dialettica, al determinarsi del ruolo costituente della contraddizione entro il processo reale) dispiega la ‘presa’ dei suoi contenuti, richiamando alla stessa focalizzazione della dialettica in quanto squisita realizzazione dell’autocritica riguardante proprio il movimento dell’‘insieme’ coincidente con la realtà del mondo storico. Nella struttura sincronico-discreta del tempo storico in quanto perspicua ‘struttura significante’ si organizzano i modi della formalizzazione, ma anche della sua neutralizzazione e del suo riplasmarsi; i meccanimi di crisi e ridisposizione rispetto alle forme particolari. La dialettica qualifica ‘bisogni’ e ‘matrici’ incidenti nella modulazione della impalcatura epistemica che, all’insegna del presente storico, si configura come inscindibile dalle misure effettive di socializzazione, rilevando il concorso e il profilo egemonico delle forme particolari proprio in connessione all’orizzonte di crisi e ridislocazione della molteplicità delle scienze, e, dunque, alla produttività della contraddizione rispetto all’intreccio tra forme di vita e dimensione di massa. Lo sporgere di massa della ‘criticità’ evidenzia come la dinamica delle forme e di tipizzazione delle funzioni importi un percorso di ricostruzione continua dove s’inscrivono le stesse spinte alla riduzione connesse a siffatta dinamica embrionalmente esemplarizzata, nel contesto attuale, dallo schema del valorelavoro, e dove si colloca, vieppiù, tanto la mansione autoreferente delle cerchie quanto l’opportunità di romperne la separatezza e di fluidificarne, con un inedito indirizzo, l’apporto di sapere in virtù del loro nesso intrinseco con lo spazio espanso del Politico. I modi dei possibili orientamenti alla ridislocazione di potere corrisposti alle

‘opportunità’ dischiuse dalla socializzazione e, dunque, dalla maturazione del general intellect, attraversano la temporalità storica, e per venir adeguatamente appropriati domandano, conseguentemente, l’emancipazione da ogni condizionamento finalistico e dal modulo della fissazione normativo-legalitaria del ‘progresso’, – il ricorso alla cui nozione appare legittimo soltanto per designare un termine ‘relativo’ di valutazione dei ‘circoscritti’ aspetti della distribuzione delle risultanze della prassi, rassodate nel lavoro accumulato, sulle molte direttrici mobili interne alla temporalità. Ai fini di stringerne la costituzione in riferimento alla connessa, plurivoca sussistenza del genere umano, nel complesso delle sue ricche ed incomprimibili movenze, Labriola osserva chiaramente nel secondo saggio: Il tempo storico non è corso uniforme per tutti gli uomini. Il semplice succedersi delle generazioni non fu mai l’indice della costanza e della intensità del processo. Il tempo come astratta misura di cronologia, e le generazioni succedentisi in termini approssimativi di anni non dànno criterio né recano indicazione di legge o di processo. Gli sviluppi furono finora varii, perché varie furono le opere compiute in una e medesima unità di tempo. Fra tali forme varie di sviluppo c’è affinità, anzi c’è similarità di moventi, ossia c’è analogia di tipo, […]: tanto che le forme avanzate possono, per semplice contatto, o con la violenza, accelerare lo svolgimento delle forme arretrate. Ma l’importante è d’intendere, che il progresso, la cui nozione è […] sempre circostanziata e perciò limitata, non istà sul corso delle cose umane come un destino od un fato, né qual comando di legge […] La nostra dottrina non pretende di essere la visione intellettuale di un gran piano o disegno, ma è soltanto un metodo di ricerca e di concezione. Non a caso Marx parlava della sua scoverta come di un filo conduttore169.

Tener fermo l’impianto sincronico e ripugnante al finalismo del tempo storico consente di guadagnare i connotati della soluzione di unificazione che il presente storico esibisce, considerandola in rapporto alla produttività dei conflitti interni allo sviluppo capitalistico; nonché ‘apre la via’ verso il possibile ma articolato superamento essa, incardinato sul mutamento dei rapporti di forza anzitutto rispetto alla ricomposizione politica del lavoro ed alla emancipazione di ogni componente della proliferazione del sinolo perspicuamente politico ‘sapere’-‘forma’ dall’imbozzolamento in segmenti di razionalità isolati ed autoregolati parcellarmente; intensificandola e, vieppiù, sfruttando a pieno in proposito le chanches della stratificazione-socializzazione d’insieme a carattere primariamente cognitivo. È in tal senso che vanno recepite le conclusioni del ragionamento labrioliano in questione:

I secoli che han preparato e portato alla forma sua attuale il dominio economico della produzione borghese, hanno anche sviluppato la tendenza a unificare la storia sotto una veduta generale; e per cotal modo rimane spiegata e giustificata la ideologia del progresso, che informa tanti libri di filosofia della storia e di Kulturgeschichte. La unità di forma sociale, ossia la unità di forma capitalistica […], cui la borghesia tende da secoli, è venuta a riflettere nel concetto della unità della storia, in forma tanto suggestiva quanto non ne potea mai dare al pensiero l’augusto cosmopolitismo dell’impero romano, né quello unilaterale della chiesa cattolica. Ma codesta unificazione della vita sociale, per opera della forma capitalistica borghese, si sviluppò per la prima volta, e continua ora a svolgersi non secondo […] piani, e preconcetti disegni; ma, anzi, per via di attriti e di lotte […] Ed è tanto complicato l’intreccio delle opere e delle azioni di tanti emuli, concorrenti e contendenti, che la coordinazione degli eventi sfugge assai spesso all’attenzione, per esser cosa poco facile il coglierne l’intimo nesso […] E perciò il moto della storia, preso in generale, ci si rivela come oscillante; – o meglio, per usare una immagine più propria, ci pare si svolga sopra di una linea spezzata, che cambia spesso di direzione, e di nuovo si spezza, e in alcuni momenti gli è come rientrante, e alcune volte si distende, dilungandosi di molto dal punto iniziale: – un vero zig-zag170.

I due passaggi del discorso labrioliano rispondono, anzitutto, all’esigenza di rifiutare la restituzione in senso finalistico-escatologico dell’indirizzo da Marx dischiuso. Si tratta di considerazioni che muovono dalla seguente premessa generale: «Può darsi bene il caso, e di fatti s’è pur già dato in parte, che la fantasia degl’inesperti d’ogni arte di ricerca storica, e lo zelo dei fanatici, trovi stimolo ed occasione persino nel materialismo storico a foggiare una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenza e a disegno. Né c’è cautela che basti. L’intelletto nostro raramente s’appaga della ricerca schiettamente critica, ed è sempre propenso a convertire in elemento di pedanteria ed in novella scolastica qualunque trovato del pensiero. A farla breve, anche la concezione materialistica può essere convertita in forma d’argomentazione a tesi, e servire a rimettere in nuove fogge pregiudizii antichi; come era quello d’una storia dimostrata, dimostrativa e dedotta»171. In definitiva, il problema che il nostro si pone è di declinare, secondo un perspicuo riferimento alla effettività della lezione marxiana, l’opzione di teoria della storia connessa alla concezione materialistica al di fuori della forma modernoilluministica di estremizzazione (secolarizzata) della idealizzazione orizzontale della temporalità, culminante nella «ideologia del progresso» indotta dalla pur estremamente produttiva unificazione sociale di tipo capitalistico. Essa, di converso, può ingenerare l’‘utopia regressiva’ dell’intendimento dell’‘era borghese’ in qualità di culmine e ‘fine’ della storia, a cui si congiunge la speculare controspinta verso l’evocazione ideologica del suo superamento in

senso quasi volgarmente ‘messianico’. Altresì, per Labriola, nel tempo storico continuità e discontinuità si intrecciano sincronicamente (come esplicato dall’organizzazione della riproduzione sociale), cosicché si ha un arricchimento ed una complessificazione intensiva della formazione sociale172, ma esigente di essere intesa, stando all’altezza del ragionamento corrente, anzitutto proprio in ordine alle rifrangenze della costituzione della cerchia speciale dell’economia (dunque: dell’‘economico-politico’), – richiamante, a sua volta, subitamente, la portata del valore come valorizzazione –. Rifrangenze capaci di manifestare il grado di mobilità e dinamismo – vincolato alla compresenza della contraddizione – interno a siffatta continuità e connessione; dimostrando, con ciò, come il loro ritmo risulti impossibile da rappresentare sul piano della mera cronologia seriale. Il rigoroso antifinalismo labrioliano173, pur combinandosi, talvolta, con discutibili giudizi ad argomento storico, ed avendo a sostrato – come sappiano – l’esigenza di poggiare – al contrario di quanto prevalentemente fatto, ad ogni modo – sul terreno morfologico-strutturale l’istanza di ricognizione propria della primaria accezione della nozione di Kulturgeschichte, – fuggendo, invece, in toto, le idealizzazioni generalistiche e generalizzanti tout court della Weltgeschichte (da cui, però, debbono essere distinti sia l’originario progetto humboltiano, sia molte acquisizioni dovute alle sue derivazioni –, respinge proprio la concezione piana e cumulativa del progresso – tanto nella sua variante ‘perfettistica’ quanto in quella concernente il ‘compimento’ teleologico174 – che dal giacobinismo trapassa nei condizionamenti ideologicopositivistici della II Internazionale. La respinge evidenziandone, vieppiù, la corrispondenza alla fase della unificazione borghese del mondo (nell’irrigidimento della cui immagine si riassume il riproiettarsi dell’‘ombra lunga’ della precedente ‘ragione signorile’175), il cui sostanziale esaurimento di propulsività egemonica176 ha cominciato a sporgere con l’affacciarsi della crisi della stabilizzazione liberale. L’indagine labrioliana della intima connessione tra morfologia politica generale della organizzazione sociale, percorsi formali che la solcano definendola e carattere pluriverso del tempo storico, – la trama delle cui stratificazioni si dispone sincronicamente –, conduce alla appropriazione del profilo di ‘autocritica’ del reale proprio della dialettica storica, in quanto vettore della possibilità della ricomposizione, tramite la riqualificazione dei conflitti e del proliferare differenziato della contraddizione. Così la dialettica appare restituibile concettualmente mercè il riferimento ad essa stessa come «filo conduttore» dello snodarsi di nessi e rapporti distribuiti non unilateralmente ma nello «zig-zag» della vicenda storica. Osserviamo: assumere la dialettica in siffatta maniera, e l’impostazione che su di essa si incentra in qualità di «metodo

di ricerca e di concezione» piuttosto che di «visuale intellettuale di un gran piano o disegno» non val dire reclinare sul corno della semplice indicazione metodologica, indebolendo, in certa maniera, l’idea del conseguimento dell’autonomia del marxismo – benché, talvolta, Labriola appaia incline a circoscrivere l’affermazione della integrale storicità del reale all’individuazione del compito del materialismo storico in quanto metodologia generale della storia (che è, ad ogni maniera, altra cosa dalla mera fissazione di un canone storiografico richiamata da Croce). Piuttosto, val dire assumere la dialettica in qualità di struttura dinamica in base alla quale focalizzare le linee tendenziali, le opportunità – dischiuse ma impregiudicabili – che proprio dal dispiegamento processuale della «autocritica del reale», cui essa è compenetrata, sono poste in evidenza. La coincidenza autocritica del reale – dialettica storica appare capace di adempiere, con tutta la opportuna pregnanza teorica, all’obiettivo sempre emergente di delineare in re una più avanzata prospettiva di ricomposizione dall’interno del proliferare di conflitti e di frammentate sfere epistemico-formali contraddistinguente il presente storico, mai riducibile alla povertà di un dato schema di tipo dicotomico. In definitiva: la dialettica in quanto ‘autocritica’ consente la ricomposizione differenziata, a muovere e per entro la ‘non ultimativa’ dimensione dell’orizzonte parzializzato delle cerchie speciali, della pluralizzazione delle spinte egemonico-cognitive; dei separati ed autoregolati segmenti formali. Così, essi vengono riqualificati nel pieno della unità della dialettica storica. Lungi dalla presupposizione di un Endziel predeterminato, l’adozione di un simile atteggiamento consente di guadagnare la dilatazione del nesso sapere-Politico intridente l’attuale organizzazione separata dalle forme, muovendo dal movimento di esse, dal loro procedere, attraverso la contraddizione, in vista dell’arricchimento e dell’intensificazione dell’odierno grado di unificazione; ridislocandolo – a cominciare dal pernio di esso, ossia dalla capacità infinitamente espansiva della forma-merce – nella direzione della integrale, compiuta ricomposizione del genere umano, interdipendente al raggiungimento del grado massimo (ed irrinunziabile) di diversificazione di questo medesimo. Tutto ciò si ricava, primariamente, dalla esplorazione del vincolo tra costituzione composita e multilineare del tempo storico e forme determinate; lasciando affiorare ritmi differenti che esibiscono come entro tali forme non scorra una energia ‘eguale’, ma vi si esprimano l’ordine e le tensioni del sapere e dei contenuti di egemonia che attengono alla visuale d’insieme dei rapporti di forza reali. Ciò si esplica, del resto, con evidenza, nella corrispondenza fra la distribuzione dei modi cognitivi e di razionalità e il rapporto governantigovernati, – di contro all’immagine classico-idealistica della ‘storia’ come ‘storia

dell’intelletto’, realiter corrisposta ad un assetto cristallizzato del dominio («La coltura», asserisce il nostro, «nella quale […] gli idealisti ripongono la somma del progresso, fu ed è per necessità di fatto assai disugualmente distribuita»). La cognizione policentrica del tempo storico labrioliana dimostra, parimenti, la complessità della morfologia sociale e l’impossibilità di una commisurata semplificazione strategica (nella fiducia rispetto ad essa consta, secondo l’ottica del nostro, uno dei più fatali errori concettuali), e, di qui, colloca il marxismo, l’impegno teorico del movimento operaio all’altezza, anzitutto, della statualità, in quanto spazio in cui, con assoluta densità, saperi e forme particolari si rassodano in istituzioni, modi della organizzazione cognitivo-intellettuale, etc.. Ancora una volta: si tratta, seppur embrionalmente, del medesimo problema con cui si confronterà Gramsci, indagando – in cardinale riferimento alla lezione di Hegel – la «trama privata»177 della statualità. Essa – come si è potuto constatare in precedenza – non viene considerata in foggia di prius corrispondente al corpo di una ‘sovranità’ separata, ma vien, piuttosto, intesa come crogiuolo arroventato ove si rinvigoriscono, si rifrangono o precipitano le spinte concernenti la tensione ininterrompibile (simul stabunt, simul cadent si potrebbe dire), e paradigmaticamente fissata dalla stessa teoria del valore, tra diffusività del Politico e propensione alla riduzione-istituzione compressivo-delimitante implicata da ogni cerchia formale-speciale. Ognuna di queste richiama il Politico stesso, dato il connotante carattere egemonico-‘contenitivo’. Ne deriva la formazione e la organizzazione molecolare di «ordini e ceti speciali», intrecciata a molteplici linguaggi e giustificante, perciò, i particolari meccanismi di funzionamento dei variegati sistemi formali che, in relazione a soggettività determinate, discretano e plasmano il tempo storico178. 1

Infra, pp. 1407-1408. Infra, pp. 1413-1414. 3 Tale prefazione fu tradotta, su sollecitazione di Labriola, da P. MARTIGNETTI, ed apparve prima su 2

«La Rassegna», fascicoli di gennaio e febbraio 1895, e poi in opuscolo a parte (Dal terzo volume del “Capitale” di Carlo Marx, Tipografia editrice Romana, 1896). 4 Cfr. J. L. PORTIER, Antonio Labriola, lettere degli economisti cit., p. 143. 5

A. LABRIOLA, Lettera a F. Engels, 13 giugno 1894 cit., p. 413. Id. Lettera a F. Engels, 30 luglio 1894, raccolta in Ibidem, p. 425 (corsivo nostro). Qui Labriola si riferisce a K. MARX, Zwei Kapitel aus dem diritten Bande des “Kapitale”, in «Die Neune Zeit», 1893-94, II, 42, pp. 848-849; 43, pp. 317-523. Si tratta dei capitoli XXIII, Interesse e guadagno d’imprenditore, e XXIV, Esteriorizzazione del rapporto capitalistico nella forma del capitale produttivo d’interesse, de Il 6

Capitale. 7 A. LABRIOLA, Leggera a E. Bernstein, 24 settembre 1896, raccolta in Carteggio, IV, p. 210.

8

Il concorso fu vinto, poi, da V. GIUFFRIDA con lo studio, assai influenzato da Croce medesimo, Il terzo volume del “Capitale” di Carlo Marx. Esposizione critica, Giannotta, Catania 1899 (cfr. ancora J.P. POTIER, Antonio Labriola. Lettere degli economisti cit., p. 144) 9 A. LABRIOLA, Per uno studio sul III volume del “Capitale”, Introduzione di L. DAL PANE, in «Fatti e teorie», 1, 1946, p. 36. Sui manoscritti labrioliani interessanti notazioni si trovano in L. DAL PANE, I manoscritti inediti di A. Labriola e la loro importanza per la storia del marxismo, in «Movimento operaio», 11-12, 1950, pp. 302-306. 10 A. LABRIOLA, Lettera a E. Bernestein, 16 agosto 1897, raccolta in Carteggio, IV cit., pp. 364-365. 11

M. VISENTIN, Il rapporto Labriola-Croce e la genesi del marxismo italiano cit., pp. 159-164. Cfr. in proposito P. FAVILLI, Il socialismo italiano e la teoria economica di Marx, Bibliopolis,

12

Napoli 1980. 13 Cfr. B. CROCE, Le teorie storiche del prof. Loria (1896), raccolto in ID., Materialismo storico ed economia marxista cit.. 14

Questo elemento è colto, fra gli altri, da E. GARIN in I saggi sul materialismo storico cit., p. 135; anche se egli, talvolta, e specie nel saggio su Antonio Labriola nella storia e nella cultura del movimento operaio, tende a convergere sulla idea della divaricazione dei due piani, accogliendo l’accentuazione del distacco Labriola-Hegel (il grande storico osserva come, infatti, «sia lecito dubitare della fedeltà dell’hegelismo di Labriola»; e precedentemente considera – con spunti indubbiamente significativi –: «Certo chi, oggi, nella prospettiva dei tempi lunghi, cerchi di valutare il peso reale di Labriola – dico il peso e non la fama – deve ritrovarlo in indicazioni di metodo, in interpretazioni di momenti storici cruciali, nella condanna senza appello dei “dogmatici delle idee a buon mercato” – soprattutto in un libero ed originale atteggiamento di fondo nei confronti dei maestri del socialismo scientifico: e cioè nella consapevolezza lucida che una teoria come quella di Marx, elaborata in una realtà così diversa dalla realtà italiana, per diventare operativa in Italia doveva fare i conti con la storia di una società che non aveva le strutture né dell’Inghilterra, né della Germania dell’Ottocento, che non aveva quello sviluppo industriale e che, soprattutto, non aveva né quella classe operaia, né quei capitalisti. Qui è il realismo di Labriola, l’inflessione tutta particolare del suo ‘storicismo’, e vorrei dire il suo ‘sperimentalismo’ e il suo ‘empirismo’ – che gli fece sostituire, e non fu davvero sostituzione marginale o di poco conto, al metodo dialettico che, per rovesciato che fosse, conservava la sua matrice hegeliana, il metodo genetico capace di abbracciare – com’egli dice – oltre l’aspetto logico–formale, “il contenuto reale delle cose che divengono”», pp. 162163). La (parziale) divaricazione compiuta da GARIN è pensabile come, per così dire, ‘integrata’ da B. DE GIOVANNI in Labriola e il metodo ‘critico’ cit., p. 99. 15

Cfr. ID., Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di Antonio Labriola cit., p. 40. A. LABRIOLA, Lettera a F. Engels, 16 agosto 1894, raccolta in Carteggio, III cit., pp. 436-437. 17 Infra, p. 1375. 18 Infra, p. 1378. 19 Vale la pena rimarcare come questo aspetto sia stato colto – come già evocato – con estrema esattezza da Gramsci al § 3 del Q.3, laddove leggiamo: «Il Labriola, affermando che la filosofia del marxismo è 16

contenuta nel marxismo stesso, è il solo che abbia cercato di dare una base scientifica al materialismo storico»; ed al § 3 del Q. 4, laddove leggiamo: «I marxisti ‘ufficiali’ preoccupati di trovare una ‘filosofia’ che contenesse il marxismo, l’hanno trovata nelle derivazioni moderne del materialismo volgare o anche in correnti idealistiche come il kantismo […] Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri con la sua affermazione che il marxismo stesso è una filosofia indipendente e originale. In questa direzione occorre lavorare, continuando e sviluppando la posizione di Labriola» (Quaderni del carcere cit., pp. 309 e 421422. Corsivo nostro).

20

Cfr. in proposito B. DE GIOVANNI, Labriola e il metodo critico cit., pp. 90-91. Tale nesso di unità-distinzione, da un punto di vista complessivo è anche ulteriormente e compiutamente declinabile nei termini di una coniugazione non immediatistica tra pratica politica e 21

pratica sociale. 22 G. SOREL, La crisi del socialismo scientifico, «Critica sociale», 1° maggio 1898, p. 134. 23

Infra, pp. 1375-1376.

24

Cfr. ancora in proposito R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 226-227. Infra, pp. 1381-1382. 26 Benché con accentuazione per certi versi assai distanti dalla nostra prospettiva di lettura e, in generale, da quella labrioliana, una interessante indicazione de Il Capitale quale teoria delle forme è stata formulata, fra l’altro, da C. LUPORINI nell’intervista Con Marx, oltre i marxismi, in «Rinascita», 9, 1983, 25

p. 14. Tale nodo, del resto, si pone al centro di tutta la ricerca luporiniana. 27 Cfr. B. DE GIOVANNI, Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di A. Labriola cit., p. 44. 28

Infra, p. 1448. Cfr. G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 43-46. 30 Infra, p. 1447. 31 Cfr. M. ADLER, Causalità e teleologia cit., p. 13; B. CROCE, Le livre de M. Stammler, in «Divenir social», n. 11, 1898, pp. 804-816 (poi raccolto in Materialismo storico ed economia marxista cit.); M. WEBER, R. Stammlers “Ueberwindung” der materialistichen Geschichtsauffassung, in ID., Gesammelte 29

Auftsaetze zur Wissenschaftslehre, J.B. MOHR (P. SIEBECK), Tubingen 1973, pp. 291-293 (ma si vedano anche le osservazioni presenti in Il metodo delle scienze storico-sociali, Mondadori, Milano 1951, pp. 182183); G. SIMMEL, Zur Methodik der Socialwissenschaften, in «Jahrbuch fur Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft im Deutschen Reich», 20, 1896, pp. 575-585: H. KELSEN, Hautprobleme der Staatsrechtslehre, Scentia Verlag, Halen 1923 (le critiche kelseniane a Stammler sono, per alcuni versi, affini a quelle di Weber, cfr. la Introduzione – La giurisprudenza come ‘scienza dello spirito’ secondo H. Kelsen di G. CALABRÒ a H. KELSEN, Tra metodo giuridico e sociologico, Guida, Napoli 1974, pp. 1315). 32 Si tratta, evidentemente, di uno dei temi centrali di Politik als Beruf (1918). Cfr. la Introduzione di D. CANTIMORI alla edizione del 1948 de Il lavoro intellettuale come professione, e quella di M. CACCIARI alla edizione del 2006 per Mondadori. ma cfr. anche. tra gli altri, F. PAPA, Weber politico – Tra Spirito tedesco e civiltà europea, Carrocci, Roma 2000. 33 Al § 2 del Q. 10 il pensatore politico sardo insiste esplicitamente su «Croce come leader intellettuale delle correnti revisionistiche della fine del secolo XIX» (Quaderni del carcere cit., p. 1213). 34

Sull’‘etico-politico’ in Bernstein cfr., fra l’altro, il saggio introduttivo di L. PAGGI, Intellettuali, teoria e partito politico nel marxismo della Seconda Internazione. Aspetti e problemi, a M. ADLER, Il socialismo e gli intellettuali, De Donato, Bari 1974, pp. 25-37, e F. PAPA, L’altra Germania cit., pp. 19-27. 35 Infra, p. 1411. 36 Infra, p. 1401. 37 Infra, p. 1406. 38 Sui temi trattati cfr., ancora, R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 133-135. 39 Infra, p. 1405. 40 In proposito sono esplicative, ad esempio, queste parole di Bernstein: «Rispetto alle società che l’anno preceduta, la società moderna è molto più ricca di ideologia non determinata […] dalla natura che agisce come forza economica […] O meglio, per evitare fraintendimenti: il grado di sviluppo economico oggi raggiunto lascia ai fattori ideologici […] un’autonomia molto più ampia che nel passato» (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, a cura di L. COLLETTI, Laterza, Bari 1974, p. 38).

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Codesto aspetto fu ben colto, pur in un contesto teorico non privo di assai discutibili indicazioni teoriche, da Max Adler, il quale ebbe ad osservare in proposito, in termini certo esigenti una ulteriore problematizzazione: «L’errore del naturalismo in tal modo veniva ripetuto da un’altra parte. Se il naturalismo aveva identificato una legalità particolare, la causalità, con la legalità in generale, qui il modo di concepire unitario in generale viene equiparato a un suo modo particolare, a quello teorico, in quanto scienza» (Marxistische Probleme, Dietz Nacht, Stuttgart 1913, p. 160). 42 «La connessione causale» – scrive Stammler – «non è una connessione fra le cose, che spetterebbe a questa assolutamente, anche prescindendo completamente dalla possibilità della nostra conoscenza; ma è un particolare modo unitario di ordinare le nostre rappresentazioni, un legame fra le nostre percezioni, che ci vengono offerte nell’intuizione» (R. STAMMLER, Wirtschaft und Recht nach der materialistischen Geschichtsauffassung, Viert. & Comp., Leipzig, 1896, p. 326). 43 Per le osservazioni appena svolte siamo assai debitori a R. RACINARO, Max Adler e il revisionismo cit., pp. XXIX-XLIII. 44 Ecco un passaggio saliente del ragionamento crociano, critico nei riguardi di Stammler, e a cui Labriola si riferisce nella suddetta missiva: «Lo Stammler polemizza a lungo contro l’Economia considerata come scienza a sé, che possegga leggi proprie e metta capo a un principio originale e irriducibile. È errore (egli dice) quello di coloro che pongono una scienza economica in astratto e la suddividono poi in scienza economica individuale e sociale. Tra queste due scienze non c’è possibilità di unificazione, perché l’economia dell’uomo isolato ci presenta solamente concetti tratti dalle scienze naturali e dalla tecnologia, e non è altro se non una raccolta di semplici osservazioni naturali, spiegate per mezzo della fisiologia e psicologia individuale: l’economia sociale presenta, invece, la condizione propria e caratteristica delle regole esterne, sotto cui si svolgono le azioni. E che cosa può essere un principio economico se non una massima ipotetica: se l’uomo vuol raggiungere il tale o tal altro scopo di soggettiva soddisfazione, deve ricorrere a tali o tali altri mezzi, “massima, ch’è osservata più o meno generalmente, e talora violata”? Il dilemma è, dunque, tra la considerazione tecnologico-naturale e quella sociale: non vi ha una terza cosa. “Ein Drittes ist nicht da!”. Ciò lo Stammler ripete molte volte, e sempre con le stesse parole. Ma il dilemma (pel quale egli si è malamente ispirato al Kant) non regge, ed è il caso di un trilemma: oltre i fatti concreti sociali, oltre le cognizioni tecnologiche. vi ha una terza cosa, ch’è il principio economico, o postulato edonistico che si voglia chiamare. Lo Stammler afferma che questa terza cosa non è di egual valore delle due prime, che viene secondariamente; e noi dichiariamo di non comprendere bene che cosa questo significhi. Ciò ch’egli doveva dimostrare è, che quel principio si riduca ai due primi, alla tecnica cioè, o alla società regolata; il che non ha fatto, e non sappiamo davvero come si potrebbe fare. Che l’Economia, così intesa, non sia scienza sociale, siamo tanto più disposti a concedere inquantoché essa stessa ciò afferma denominandosi Economia pura, ossia tale che per configurarsi prescinde da ipotesi particolari, e quindi anche dall’ipotesi della molteplicità degli individui, che è fondamento del concetto di società. Ma ciò non vuol dire che essa non si estenda alle società, e non possa dar luogo a deduzioni di economia sociale. L’elemento sociale viene allora assunto come un medio attraverso il quale il principio economico attua la sua efficacia e produce determinati effetti. Posto il principio economico, e posto, per esempio, l’ordinamento giuridico della proprietà privata della terra, e l’esistenza di terre di diversa qualità, e poste altre condizioni sorge di necessità il caso della rendita fondiaria. In questi ed altri esempi simili, che sarebbe facile recare, si hanno leggi di economia sociale e politica, ossia deduzioni dal principio economico operante in condizioni giuridiche date. Certo, in un’altra condizione giuridica, le conseguenze sarebbero diverse; ma tutte quelle conseguenze non avrebbero luogo senza la natura economica dell’uomo, ch’è presupposto necessario ed originale, e non può identificarsi col presupposto delle conoscenze tecniche, o con l’altro delle regole sociali. Conoscere non è volere; e volere secondo regole oggettive, ossia etiche, non è volere secondo deali meramente soggettivi o individuali (economici). Lo Stammler potrebbe dire che, se questa scienza dell’Economia, così intesa, non è proprio una scienza sociale, egli la lascia da parte, perché sua intenzione è di costruire una scienza che meriti a buono diritto il nome di Economia sociale. Ma (facciamo anche noi un dilemma!) codesta Economia sociale, da lui vagheggiata, o sarà per l’appunto la scienza economica applicata a determinate condizioni sociali nel senso che ora si è detto; o sarà una forma

di conoscenza storica Una terza cosa non esiste. Ein Drittes ist nicht da!». Del resto in precedenza, entro il presente testo, Croce aveva osservato: «Se (per spiegarci meglio su questo punto, che merita delucidazione) ‘economico’ si prende in senso rigoroso, per esempio nel senso in cui è usato nella pura economia, ossia se per esso s’intende il principio conforme al quale si cerca la massima soddisfazione col minore sforzo possibile, è evidente che, col dire che questo fattore ha parte (fondamentale, preponderante o eguale a quella di altri) nella vita sociale, non si direbbe nulla di preciso e di pensabile. L’economicità è un principio generalissimo, e puramente formale, di pratica; e non è concepibile che si operi poco o molto, in un modo o in un altro, senza seguire, bene o male, il principio stesso di qualsiasi azione, ch’è il principio economico. Peggio ancora se ‘economico’ si assume nel senso che, gli assegna il prof. Stammler, e se con esso si abbracciano “tutti i fatti sociali concreti”; nel qual senso sarebbe addirittura assurdo affermare che il fatto economico, ossia tutti i fatti sociali nella loro concretezza, dominino sopra… una parte di essi fatti. Per ritrovare, dunque, nella parola ‘economico’, quale si usa in quelle proposizioni, un particolare significato, bisogna uscire dall’astratto e dal formale, concepire azioni umane con certi fini determinati, aver presente l’uomo storico, e anzi l’uomo medio della storia o di un’epoca storica più o meno lunga; pensare, per esempio, ai bisogni del pane, delle vesta, delle relazioni sessuali, delle cosiddette soddisfazioni morali di stima, di vanità, di dominio, e via. L’enunciazione del fattore economico accenna allora a gruppi di fatti particolari, che si sono costituiti nel linguaggio corrente e che sono particolarmente determinati nella storiografia e nei programmi pratici del Marx e del marxismo». (Il libro del prof. Stammler cit., pp. 129-131 e 121). 45 A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 8 gennaio 1900 cit., p. 118. 46

L’influenza di matrice kantiana è assai visibile in alcune opere crociane precedenti la sua definitiva maturità come il saggio, del 1906, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel (raccolto in Saggio sullo Hegel, Laterza, Bari 1913, pp. 3-148). Su tale aspetto cfr. R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 149-171, e il bel volume di A. CHIELLI, La vita e il vivere. Benedetto Croce e la crisi della cultura europea (1893-1900), Pensa Multimedia, Lecce 2004; ma anche J. BIDET, Sur l’épistémologie du jeune Croce (A propos du débat Labriola/Croce sur la valeur: 1896-99), in Labriola d’un siècle à l’autre, a cura di G. LABICA e J. TEXIER, Meridiens Klinckseick, Paris 1988, pp. 181-186. Vi è da precisare subito, tuttavia, che già negli scritti del Saggio su Hegel tale indirizzo sarà accostato ad altri, differenti aspetti; via via lasciando emergere un approccio assolutamente inassumibile in senso normativistico. Cfr. in proposito le indicazioni di M. MONTANARI in La rifondazione della ragione storica in B. Croce cit., pp. 67-75, e in Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 45-48. 47 Cfr. in proposito R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 63-70; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro La mediazione mancata. Saggio su G. Gentile cit., pp. 59-98. 48

Infra, pp. 1408-1409 (corsivo nostro). Cfr., fra gli altri, in proposito F. FISTETTI, Critica dell’economia e critica della politica cit., pp. 36-

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37. 50

K. MARX, Il Capitale, III cit., p. 242. Malgrado, come vedremo, Labriola recepirà, convergendovi, certuni elementi su cui la posizione

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marginalista ebbe a porre l’accento, nella nota inerente la «fastidiosa questione» della ‘presunta’ dissimmetria interna a Il Capitale, entro la II lettera a Sorel, egli assume un tono assai duro in proposito: «Alludo più specialmente» – egli scrive – «agli scritti di Böhm-Bawerk e di Komorzynski. Quanto allo scritto del primo (Zum Abschluss des Marxschen Systems) che ha levato tanto rumore, non posso far a meno di manifestare la mia maraviglia per la maniera indulgente come ne ha fatto giudizio Conrad Schmidt nella Beilage al «Vorwärts» del 16 Aprile 1897, n. 85» (infra, pp. 1408).

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Come è noto, il 27 aprile del 1895 Labriola scrive a Croce per informarlo dell’uscita del «Devenir social» a Parigi e per inviargli il manoscritto dell’In memoria che egli vi pubblicava. Anni dopo, così il filosofo di Pescasseroli rammenterà: «Quando lo ebbi ricevuto, lo lessi e lo rilessi, la mente mi si riempì di visioni e di concetti per me nuovi, e» – vi abbiamo accennato in precedenza – «nel rispondere al Labriola, gli proposi di farmi editore di quel saggio» (B. CROCE, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia cit., p. 280). 53

E. BÖHM-BAWERK, La conclusione del sistema marxiano, in ID., Hilferding, Bortkiewicz,

Economia borghese e economia marxista, La Nuova Italia, Firenze 1971, p. 60. 54 Scrive in proposito Böhm-Bawerk: «Marx aveva già trovato nel vecchio Aristotele l’idea che “lo scambio non può esistere senza l’uguaglianza, e l’uguaglianza a sua volta senza la commensurabilità” […] È appunto a questa idea che […] si riallaccia. Immagina cioè lo scambio di due merci sotto forma di equazione, deduce che nelle due cose scambiate e quindi equiparate esista “qualcosa di eguale della stessa grandezza” e procede, quindi, ad individuare questo qualcosa di comune, al quale debbono poter essere ‘riducibili’ in quanto valori di scambio le cose equiparate» (Ibidem, pp. 62-63). 55

Argomenta Böhm-Bawerk in proposito, non senza una certa dose di grossolanità, e, perciò, eludendo la diversità di atteggiamento fra Marx e le tesi di Smith e/o la concezione della teoria del valore formulata da Ricardo, cui abbiamo già fatto riferimento in rapporto alla elaborazione labrioliana: «Marx ereditò […] tendenze e opinioni che, grazie all’autorità di Smith e Ricardo, avevano ottenuto un prestigio immenso e certamente incontestato […] Nessuna meraviglia […] che sulla base dello stesso materiale che aveva allettato i classici a formulare le loro unilaterali […] affermazioni egli abbia personalmente creduto in quelle tesi in modo fermo, incondizionato e con ardente convinzione. Ma per il suo sistema era necessaria una motivazione formale» (Ibidem, p. 72). 56

A. MACCHIORO, Studi di storia del pensiero economico, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 405-406. E. BÖHM-BAWERK, La conclusione del sistema marxiano cit., p. 77. Si rammenti, in proposito, la

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celebre accusa formulata dall’economista austriaco nei confronti della teorica marxiana di non distinguere, per esempio, tra il prodotto del tagliatore di pietre e quello dello scultore. 58 Su tutti questi temi cfr. R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 112-123. 59

Sullo specifico rapporto di Labriola con la posizione di Pareto cfr. l’interessante saggio, di cui pure non condividiamo molte accentuazioni, di L. MICHELINI, Marx in Italia: Pareto, il ‘paretaio’, Labriola in Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia cit., pp. 249-262. 60 Su questo tema un contributo imprescindibile è stato formulato da B. DE GIOVANNI con La teoria politica delle classi ne “Il Capitale” cit., cui già abbiamo fatto riferimento. 61 Pure per lo svolgimento della presenti considerazioni siamo debitori di molte suggestioni alle considerazioni svolte da M. MONTANARI nel saggio Gramsci e la revisione del marxismo, in ID., Politica e storia. Saggi su Vico, Croce e Gramsci, Publierre, Bari 2007, pp. 161-173. 62 E. BÖHM-BAWERK, Le conclusioni del sistema marxiano cit., pp. 17-18. 63

Scrive Marx in proposito (ci sia consentita la estrapolazione del brano da un ragionamento ben più ampio): «una parte delle merci viene venduta al di sopra del valore, nella stessa proporzione in cui un’altra viene venduta al di sotto. È solo la vendita a tali prezzi che rende possibile un saggio del profitto uniforme del 22% per i capitali I–V, senza tener conto della loro diversa composizione organica» (K. Marx, Il Capitale, III cit., p. 198). 64 In proposito ci pare notevolmente interessante il passaggio che segue: «Lo stesso Marx ci ha detto […] che le merci si scambiano approssimativamente ai loro valori soltanto se esiste una concorrenza vivace; quindi in quel punto si era richiamato alla concorrenza come ad un fattore che ha la tendenza a spingere i

prezzi delle merci verso i loro ‘valori’. Ed ora veniamo a sapere che la concorrenza è una forza che, al contrario, spinge i prezzi delle merci lontano dai ‘valori’ indirizzandoli invece verso i prezzi di produzione» (E. BÖHM-BAWERK, Le conclusioni del sistema marxiano cit., p. 90). 65

Per le osservazioni svolte siamo assai debitori – benché alcune accentuazioni di esso non siano oggi più assumibili –, al lavoro di F. PAPA, L’altra Germania cit., pp. 73-76. 66 Cfr. in proposito E. BÖHM-BAWERK, Teoria positiva del capitale, UTET, Torino 1957, p. 209; ed in chiave di approfondimento critico-interpretativo M.C. MARCUZZO, Capitale e distribuzione. Saggio su Böhm-Bawerk, in «Aut Aut», 139, 1974, p. 47. 67 Cfr. E. BÖHM-BAWERK, Teoria positiva del capitale cit., pp. 348-349 e, per alcuni spunti critici N. AUCIELLO, La ragione politica cit., p. 191. 68

Cfr. in proposito le orami ‘classiche’ considerazioni di M. CACCIARI in Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 13-23. 69 Alcune suggestive indicazioni teoriche in merito sono presenti in ID., Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, p. 30. 70 In un ancor interessante testo del ’76, – benché non condivisibile, da par nostro, in tutti i suoi risvolti di tematizzazione della ‘critica dell’economia politica’ marxiana –, proprio Massimo CACCIARI ha osservato, con argomenti riallacciabili alla questione del rifiuto della convergenza fra schema naturalistico e metafisicistico-tradizionale, come «nulla è più lontano dal significato della critica marxiana che tentare di risolverlo in un processo omogeneo – riducibile – lineare, per cui la dinamica della produttività del sistema, formazione del plusvalore, formazione del profitto medio, determinazione dei prezzi di equilibrio, non sarebbero che ‘apparizioni’ dei medesimo rapporti sostanziali» (Lavoro, valorizzazione, “cervello sociale”, in «Aut aut», 145-146, 1975, p. 25). 71 In una direzione problematicamente connessa a tutto ciò, in chiave concettuale, si muove, per esempio, la nozione husserliana di astrazione, concludente alla determinazione di una classe di oggetti specifico-ideali insieme a quella degli oggetti individuali-reali. «Per una fondazione filosofica della logica pura» – scrive Husserl – «il problema dell’astrazione viene in questione per un duplice motivo. Anzitutto perché tra le distinzioni categoriali dei significati con le quali ha essenzialmente a che fare la logica pura si trova anche la distinzione corrispondente alla distinzione tra oggetti individuali e generali. In secondo luogo, ed in modo particolare, perché i significati generali – e precisamente i significati nel senso di unità specifiche – formano i domini della logica pura e ogni disconoscimento dell’essenza della specie arriva perciò a colpire la sua essenza. È dunque lecito affrontare […] il problema dell’astrazione e, definendo la legittimità degli oggetti specifici (o ideali) accanto a quelli individuali (e reali), assicurare il fondamento principale della logica pura e della teoria della conoscenza» (Ricerche Logiche, Il Saggiatore, Milano 2001, p. 378). Cfr. in proposito, fra gli altri, F. FISTETTI, La volontà di valore. L’etico-politico dopo Nietzsche, Dedalo, Bari 1981, pp. 145-182. Un simile approccio ‘apre la via’ alla predominanza del carattere descrittivo della fenomenologia (cfr. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, Einaudi, Torino 1965, p. 130). Del resto, il discrimine fondamentale tra l’atteggiamento teorico husserliano e quello labrioliano andrebbe adeguatamente studiato in riferimento anche alla possibile lettura da parte del Cassinate delle Logische Untersuchungen, e, più generalmente, al suo reciso rifiuto di tale autore (A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 17 settembre 1903, racconta in Carteggio, V, p. 315). 72

Sulle assonanze fra queste due nozioni osservazioni davvero assai importanti vengono svolte da G. MARRAMAO in L’ordine disincantato, Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 78-83, e sullo specifico della posizione cassireriana cfr. anche le pagine di N. AUCIELLO, in La ragione politica cit., pp. 103-104; mentre su quella di Weber cfr., fra gli atri, C. GABETTA, Strategie della ragione – Weber e Freud, Feltrinelli, Milano 1981.

73 74

Infra, p. 1407. Come, appunto, fissato da W. SOMBART in Zur Kritik des Ökonomischen Systems von Karl Marx, in

«Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik», VII, 1894, pp. 555-594. 75 Si tratta di un processo di idealizzazione centralmente e criticamente tematizzato da Cassirer in Substanzbegriff und Füktionsbegriff. In tale opera il riferimento va soprattutto alle tesi espresse da Du Bois–Reymond in Die allgemeine Funktionentheorie (1882), ma anche in System einer Theorie der Grenzbegriffe (1900), nonché a quelle esposte da Ostwold in Grundriss der Naturphilosophie (1902). Il filosofo di Breslan considera, in definitiva: «Se il procedimento della scienza della natura consistente soltanto nel sostituire ai fenomeni direttamente osservabili i loro limiti, si potrebbe tentare di rendere giustizia a questo metodo mediante un semplice ampliamento dello schema positivistico. Infatti, secondo questo schema, gli oggetti di cui la considerazione teorica della natura deve occuparsi, sebbene si vengono a trovare fuori dal vero e proprio campo della percezione empirica, sembrano tuttavia essere sulla stessa linea con gli elementi di questo campo. Le leggi che noi formuliamo sembrano rappresentare non tanto una trasformazione, quanto un ampliamento di determinate relazioni percepibili. In realtà, però, il rapporto fra i fondamentali elementi teoretici e gli elementi di fatto, sui quali poggia la fisica, non può essere descritto in questa maniera semplicistica. Si tratta di un rapporto molto più complesso; si tratta di un particolare intrecciarsi, di un reciproco compenetrarsi dei due elementi, il quale domina nell’effettiva costruzione della scienza e che quindi, anche sotto l’aspetto logico, esige una pressione più precisa per indicare la relazione fra principio e fatto» (E. CASSIRER, Sostanza e Funzione, La Nuova Italia, Milano 1995, pp. 178-179). 76

ID., Lettera a B. Croce, 31 maggio 1898, raccolta in Carteggio, IV cit., p. 572 (corsivo nostro). ID., Lettera a B. Croce, 28 febbraio 1898, raccolta in Ibidem, pp. 495-496. 78 Esplicative sono in proposito le posizioni espresse da M. ADLER nel bellissimo saggio Die 77

Bedeutung Vicos für di Entwicklung des soziologischen Denkens, in «Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung», hrsg. C. Grundemberg, XIV, 1929, pp. 280-304. 79 Per le osservazioni svolte siamo di nuovo assai debitori alla trattazione condotta da R. RACINARO in La crisi del marxismo cit., pp. 136-146. 80

La primaria indicazione in questo senso è stata fornita, notoriamente, da Hegel nei Grundlinien,

laddove leggiamo: «L’economia politica è la scienza che ha la sua origine da questi punti di vista, ma poi deve mostrare il rapporto e il movimento delle masse, nella loro determinatezza qualitativa e quantitativa e nella loro complicazione. È questa una delle scienze che è sorta nel tempo moderno, come il suo proprio terreno. Il suo sviluppo mostra lo spettacolo interessante, al modo in cui il pensiero (v. Smith, Say, Ricardo) della quantità infinita di fatti singoli che si trovano dapprima dinnanzi ad esso, rintraccia i principi semplici della cosa, l’intelletto attivo in essa e che la governa. Come, da un lato, l’elemento conciliante, nella cerchia dei bisogni, è riconoscere questo apparire della razionalità, che si trova nelle cose e che vi si manifesta, così, viceversa, questo è il campo in cui l’intellettualismo dei fini soggettivi e delle opinioni morali sfida il suo malcontento e il suo fastidio morale» (G.F. HEGEL, Lineamento di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1954, pp. 169-170). Cfr. in proposito R. RACINARO, Staatsoekonomie e dimensione della filosofia in Hegel, cit., e F. FISTETTI, Critica dell’economia e critica della politica cit.. 81

Per le osservazioni svolte abbiamo attinto alle dense indicazioni di B. DE GIOVANNI in Il Criticismo di Marx cit., pp. 180-188; anche se da tale testo sentiamo di doverci differenziare per quanto riguarda il possibile approdo conclusivo, come avremo modo di esplicitare in seguito. 82 Restano valide, ci pare, in proposito, fra l’altro, alcune suggestioni presenti in F. CASSANO, Note d’analisi sullo sviluppo capitalistico, in «Critica marxista», 6, p. 55. 83 È bene ricordare che nella fase in questione Croce appare lontano dall’aver compiutamente elaborato la nozione stessa di ‘etico-politico’.

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Per le osservazioni svolte siamo debitori ancora a R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 139-141. 85 Sul tema del rapporto fra Croce e il marxismo sono da ricordare, fra gli altri, i seguenti studi: E. AGAZZI, Croce e il marxismo, Einaudi, Torino 1982; ID., B. Croce. Dalla revisione del marxismo al rilancio dell’idealismo, in La crisi di fine secolo, Teti, Milano 1980, pp. 279-330; N. BADALONI, Croce contro Marx e la questione del ‘paragone dialettico’, cit.; G. COTRONEO, Un intellettuale meridionale di fronte a Marx: B. Croce, in Il marxismo e la cultura meridionale, a.c. di P. DI GIOVANNI, Palumbo, Palermo 1984, pp. 9-31; M. VISENTIN, B. Croce, la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’utile, in Croce e il marxismo cit., pp. 11-122; C. TUOZZOLO, ‘Marx possibile’. B. Croce teorico marxista 1896-1897, F. Angeli, Milano 2008, pp. 175-180; A BRUNO, Croce e le scienze politico-sociali, La Nuova Italia, Firenze 1975; ID., Marxismo e idealismo italiano, La Nuova Italia, Firenze 1979; G.L. CASANOVI, L’anti-Loria. Croce e Loria: due interpretazioni del materialismo storico a confronto, in «Archivio storico italiano», 1985, pp. 611-671; S. CINGARI, Il giovane Croce, Rubettino, Soveria Manelli 2000; M. CORSI, Le origini del pensiero e suoi rapporti con E. Bernstein e G. Sorel, in Croce e il marxismo un secolo dopo (a cura di M. GRIFFO), Editoriale Scientifica, Napoli 2004, pp. 207-241; M. MAGGI, L’esperienza del marxismo nella filosofia di Croce, in ID., La formazione della classe dirigente, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, pp. 87-97; G. MORPURGO-TAGLIABUE, L’obiezione di B. Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto, in «Giornale degli economisti e annali di economia», 1947, pp. 175-193; M. ROSCAGLIA, Croce lettore di Marx ed Engels, in Croce e il marxismo cit., pp. 11-122; M. REALE, Introduzione alla lettura crociana della teoria del valore – Questioni di metodo, in Ibidem, pp. 123-154; ID., L’interpretazione crociana di Marx tra il ‘canone’ e il ‘paragone ellittico’, in «La Cultura», 2, 1995, pp. 219-263; C. SCOGNAMIGLIO, Il giovane Croce, la forma della conoscenza e la concezione materialistica della storia, «Il cannocchiale», 2009, pp. 89-105; S. ZOPPI–GARONFI, Sul testo del “Materialismo storico” di B. Croce, in «La Cultura», 2002, pp. 467-480. Sul tema del nesso Labriola – Croce sono da ricordare, fra gli altri, i seguenti testi: M. AGRIMI, Labriola tra Croce e Gentile, in Antonio Labriola filosofo e politico cit., pp. 177-207; ID., Con Labriola e con Croce, in «Studi filosofici», 2005, pp. 153-174; ID., Croce: il magistero di Labriola e la sua lunga durata, in Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia cit., pp. 283-297; G. CACCIATORE, Marxismo e storia nel carteggio Croce-Labriola, in Gli epistolari dei filosofi italiani, 1850-1950, Rubettino, Soveria Manelli 2000, pp. 89-122; ID., Marxismo e storia tra Labriola e Croce, in Croce e il marxismo cit., pp. 315-339; S. CORTESINI, Antonio Labriola, il ‘compagno’ Croce e la revisione del marxismo, in Croce e il marxismo cit., pp. 263-314M; G. CATTANEO, Croce e Labriola, in Antonio Labriola cit., pp. 643-659; A. GIUGLIANO, “Caro Benedetto…”, “Caro Professore”. A proposito dell’epistolario Labriola-Croce, in Gli epistolari dei filosofi italiani cit., pp. 113-128; A. MACCHIORO, Croce e Labriola, in Antonio Labriola nella storia e nella cultura… cit., pp. 227-247; C. OCONE, Croce e Labriola sul tema dell’utile, in Antonio Labriola filosofo e politico cit., pp. 372-387; M. VISENTIN, Il rapporto Labriola-Croce e la genesi del marxismo italiano cit.. 86

Sul tema ci permettiamo di rinviare al nostro Il mercato, la riproduzione sociale e l’ermeneutica politica ‘dimidiata’. Su Croce e il marxismo cit..

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Cfr. in proposito B. DE GIOVANNI, La teoria politica delle classi ne “Il Capitale” cit., pp. 286-292. Il limite dell’analisi di De Giovanni è configurato, oggi possiamo dire, da un tentativo – seppure radicalmente antieconomicistico di rielaborazione deduttiva della teoria della rivoluzione proletaria in una prospettiva di transizione. 88

Infra, p. 1513. W. WUNDT, Logik der Geistes-Wissenschaften, Stuttgart 1908, pp. 653-655. 90 Valga, a tal proposito, rammentare un interessante passo del decisivo saggio Le teorie storiche del 89

prof. Loria: «È impossibile giungere mai, per deduzione puramente economica, a restringere il valore delle merci al solo lavoro e ad escludere da esso la parte del capitale, e quindi a considerare il profitto come nascente dal sopralavoro non pagato… se non si tenga a riscontro, come tipo, un altro valore particolare, quello cioè che avrebbero i beni aumentabili con lavoro in una società in cui non esistono gli impedimenti della società capitalistica e la forza-lavoro non fosse una merce» (B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica cit., pp. 32-33). 91

B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica cit., pp. 140-141. È, a nostro avviso, persino impressionante quanto i toni della trattazione labrioliana siano vicini al modo in cui Gramsci affronta la questione della dissimmetria fra il I ed il III volume de Il Capitale in 92

ordine al problema specifico della caduta tendenziale del saggio di profitto, dunque, del ruolo del plusvalore relativo – definendone la dialettica –, nonché nel nesso fra teoria dei costi comparati e teoria del valore al § 33 del Q. 10. Esso sembra coinvolgere proprio la funzione di ‘riproduzione sociale’ da Marx posta al centro del II volume de Il Capitale (elucidata, vieppiù, da recenti studi concernenti i relativi manoscritti). Scrive, infatti, il pensatore politico sardo: «In ogni caso è da fissare che la questione della legge tendenziale della caduta tendenziale del saggio di profitto non può essere studiata solamente nella esposizione data dal III volume; questa trattazione è l’aspetto contraddittorio della trattazione esposta nel I volume, da cui non può essere staccata. Inoltre occorrerà forse meglio determinare il significato di legge tendenziale: poiché ogni legge in economia politica non può non essere tendenziale […] sarà forse da distinguere un grado maggiore o minore di tendenzialità e mentre di solito l’aggettivo tendenziale si sottintende come ovvio, si insiste invece su di esso quando la tendenzialità diventa un carattere organicamente rilevante come in questo caso in cui la caduta del saggio di profitto è presentata come l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella della produzione di plusvalore relativo, in cui l’una tende ad elidere l’altra con la previsione che la caduta del saggio di profitto sarà la prevalente». (Quaderni del carcere cit., pp. 1278-1279). Cfr. in proposito, fra gli altri, R. GUALTIERI, Le relazioni internazionali, Marx e la filosofia della praxis in Gramsci, «Studi storici», 4, 2007, pp. 1040-1041. 93 Scrive Croce, con ancor maggiore esplicitezza: «Il Marx […] nell’assumere a tipo l’eguaglianza del valore con il lavoro e nell’applicarlo alla società capitalistica, istituiva un paragone della società capitalistica con una parte di sé stessa, astratta e innalzata a esistenza indipendente: ossia un paragone tra la società capitalistica e la società economica in sé stessa (non solo in quanto lavoratrice)» (Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, in ID., Materialismo storico ed economia marxistica, p. 65). 94 Questo aspetto, che ben si evidenzia nello scritto del 1900, poi compreso in Materialismo storico ed economia marxistica. Sul principio economico-Due lettere al prof. V. Pareto, è stato particolarmente evidenziato da M. MONTANARI in Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, F. Angeli, Milano 1987, pp. 36-37. 95 In proposito è esplicativo il seguente brano marxiano: «La forma generale del valore […] mostra di essere l’espressione sociale del mondo delle merci, proprio mediante la propria struttura. Così essa rivela che, entro questo mondo, il carattere generalmente umano del lavoro costituisce il carattere specificamente

sociale di questo» (Il Capitale, I cit., p. 99). Per le osservazioni appena svolte siamo ancora notevolmente debitori a B. DE GIOVANNI, Il criticismo di Marx, pp. 190-192. 96

Cfr. R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 247-248. In ciò consterà il limite più grave dell’assai successivo modello sraffiano, su cui ci auguriamo di poterci concentrare in altra sede. Sui temi ora accennati cfr. P. FAVILLI, Il socialismo italiano e la teoria 97

economica di Marx (1802-1902), cit., pp. 94-100; benché in tale volume vengano esposte valutazioni che non possono essere condivise al lume della presente indagine. 98 Infra, pp. 1448-1449 (corsivo nostro). 99

Cfr. sul tema anche le osservazioni di E. AGAZZI in Croce e il marxismo cit., pp. 346-347. Scrive Marx: «La forma di valore del prodotto di lavoro è la forma più astratta, ma anche la più

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generale del modo borghese di produzione, ed essa perciò viene caratterizzata come forma particolare di produzione sociale, e così viene insieme caratterizzata storicamente» (Il Capitale, I, pp. 112-113). 101 Ibidem, p. 100. 102 103

B. CROCE, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo cit., p. 77. Insiste su questo aspetto M. MONTANARI in La rifondazione della ‘ragione storica’ in B. Croce

cit., pp. 21-24. 104 Cfr. in proposito B. DE GIOVANNI, Pour Labriola in Labriola d’un siècle à l’autre cit., p. 161. 105

Per le argomentazioni svolte siamo assai debitori, ancora, alle stimolanti osservazioni presenti in ID., Il criticismo di Marx cit., pp. 192-198, ma anche in La teoria politica delle classi nel “Capitale”, pp. 7-50. 106 In ciò consta, ci pare, l’elemento di discriminazione che, in riferimento alla linea Marx-Labriola, poi proseguita da Gramsci, distanzia la nostra posizione euristica rispetto alla stessa percezione della prospettiva marxiana esposta da DE GIOVANNI in Il criticismo di Marx, cit., e poi, ci pare, invigorita nei due successivi testi Marx e la costituzione della praxis Cappelli, Bologna 1884, e Marx e la democrazia, in «Il Ponte», 8-9, 2006, pp. 54-66. La presente osservazione risulta consonante con le indicazioni di M. MONTANARI in Gramsci e la revisione del marxismo cit., p. 171. 107

Cfr. P. FAVILLI, Il socialismo italiano e la teoria economica di Marx cit., pp. 99-100. In tale testo il Favilli ricostruisce come, – di contro alla erronea valutazione di G. Are, il quale ha sostenuto che Labriola conosceva la critica böhm-bawerkiana al III volume de Il Capitale solo nel senso «squisitamente accademico-bibliografico di ‘aver presente’, di ‘sapere che esiste’» (Etica e politica nell’Italia liberale, Bologna 1974, p. 55) –, lo Zum Abschluss fu prestato al Cassinate dal Mazzola, in edizione fuori commercio. 108 Infra, pp. 1440-1441. 109

Cfr. F. BONDÌ, La teoria della storia. Pasquale Villari e Antonio Labriola, Unicopli, Milano, 2013,

p. 152. 110

Davvero tale critica contiene tutte le ragioni di una risposta ante litteram alle opposizioni böhmbawerkiane alla teoria del valore – lavoro, offrendo l’opportunità di mostrarne la piegatura feticistica posta in continuità con gran parte della tradizione del pensiero economico. Cfr. K. MARX, Teorie nel plusvalore, I cit., p. 136; e per l’approfondimento critico ancora B. DE GIOVANNI, La teoria politica delle classi nel “Capitale” cit., pp. 206-207. 111

Infra, p. 1441. Infra, pp. 1469-1470. Cfr. in proposito l’importante saggio, benché assai lontano dal presente approccio euristico, di L. MICHELINI, Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e 112

marginalismo nel volume da lui curato insieme a E. L. GUIDI, Marginalismo e socialismo nell’Italia liberale 1890-1925. Annali della Fondazione G.G. Feltrinelli, Feltrinelli, Milano 2001, p. 430. La considerazione labrioliana in questione appare, poi, notevolmente avvicinabile, ancora una volta, al punto di vista di Gramsci. Questi, al Q. 10, rammenta «l’affermazione di Engels a proposito della possibilità di giungere, anche partendo dalla concezione marginalistica del valore, alle stesse conseguenze (se pure in forma volgare) di quelle a cui giunse l’economia critica»; e più oltre considera: «L’economia critica ha diverse fasi e in ognuna di esse è naturale che l’accento cade sul nesso teorico e pratico storicamente prevalente […] quando il lavoro è diventato gestore dell’economia, anch’esso dovrà, per il suo essere cambiato fondamentalmente di posizione, preoccuparsi delle utilità particolari e della comparazione fra queste utilità per trarne iniziative di movimento progressivo» (Quaderni del carcere cit., p. 1262). Cfr. in proposito le osservazioni formulate da B. DE GIOVANNI in La teoria politica delle classi ne “Il Capitale” cit., p. 306 e, soprattutto, M. MONTANARI, Gramsci e la revisione del marxismo cit., pp. 180-185. 113

Infra, pp. 1517-1518. Infra, pp. 1436-1437. 115 Cfr. G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 36-37. 116 Infra, pp. 1359-1360. 117 Essa è, ci pare, ben comprensibile, fra l’altro, con la lettura dei saggi di L. CALABI, L’uomo mercante di Adam Smith cit.; e Adam Smith. La divisione del lavoro e la nascita del moderno, in A. A.V. V., 114

L’Europa moderna. La disgregazione dell’Ancien Régime, Electa, Milano 1987, pp. 278-289. 118 Per alcune delle osservazioni svolte siamo ancora debitori a R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 146-149. 119 Su questo tema marxiano ci pare interessante, fra i moltissimi altri, il saggio introduttivo di L. CALABI, Sul problema delle classi medie e il metodo de “Il Capitale”, a N. BIRNBAUM, La crisi della società industriale, Marsilio, Venezia 1972, pp. 7-38. 120 Molti di questi temi, desumibili dalla prospettiva critica marxiana, sono stati trattati in modo assai suggestivo, fra l’altro, da B. DE GIOVANNI in Crisi e legittimazione dello Stato, in «Critica marxista», 6, 1979, pp. 69-88. 121 K. MARX, Theorien über den Mehrwert, Dietz, Berlin 1968, III, p. 352; ma cfr. in proposito L. CALABI, Sul problema delle classi medie e il metodo de “Il Capitale” cit., e soprattutto, ID., L’estensione delle classi medie in Marx – un aspetto del metodo logico-storico, «La critica sociologica», 1972, p. 53; ma anche Crisi capitalistica e critica dell’economia politica, in «Critica marxista», 4, 1986, p. 72. 122

Infra, p. 1517. Il testo di Croce da cui Labriola cita è Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo cit., p. 16. 123 Sta in ciò una delle tesi centrali, per quanto riguarda lo specifico della lezione di Marx, di B. DE GIOVANNI, La teoria politica delle classi ne “Il Capitale” cit. 124 Per alcune suggestioni in proposito, seppure in una diversa cornice generale, abbiamo tenuto presente il discorso di N. BADALONI in Croce contro Marx e la questione del ‘paragone ellittico’ cit., pp. 34-35. 125

Molte sollecitazioni in merito al tempo-misura di lavoro nella teorica marxiana ci sono provenute dalla lettura di M. MONTANARI, La libertà e il tempo. Osservazioni sulla democrazia fra Marx e Gramsci cit., pp. 48-56. 126 Infra, p. 1512.

127

Sul tema sono fondamentali le pagine marxiane de Il Capitale, II cit., pp. 51-58. Cfr. B. DE GIOVANNI, La teoria politica delle classi nel “Capitale”, cit., pp. 194-196. 128 Ciò ben si ricava dalla maniera in cui Croce ne Le teorie storiche del prof. Loria affronta la medesima questione della formazione del plusvalore: «il concetto marxistico del Mehrwert è restato confitto come dardo accuminato nel fianco della società borghese, e meno ancora è giunto a strapparvelo. Ci vuol ben altra radice medica che non i ragionamenti del Böhm-Bawerk e simili critici, per sanare la piaga» (Materialismo storico ed economia marxistica cit., p. 46). 129

Infra, p. 1516. Infra, p. 1513. 131 Ibidem. Cfr. sui temi trattati, E. AGAZZI, Il giovane Croce e il marxismo cit., pp. 352-355. 132 Interessanti spunti in proposito sono presenti in B. DE GIOVANNI, Spinoza e Hegel: l’oggettivismo di A. Labriola cit., p. 37. 133 Scrive Labriola: «Ho ripensato al tuo filosofare vedendo da Bocca la 2° ed. della tua Estetica Ah! 130

benedetto Croce, nella nuova prefazione citi, fra le sue recensioni persino quella dell’(idiota) Leone nell’Avanti! Ma lasciamo correre. Dunque ho ripensato al tuo filosofare: che raccolgo meglio che da ogni altra manifestazione appunto dalle tue recensioni. Il tuo filosofare – per dire la cosa in una formula semplice – consta di semplici giudizi analitici. Di fronte a questi giudizi purissimi (e sfido che non sian puri, dal momento che non sono sintetici!) stanno le disgregate e infinite cose della natura e del mondo sociale. P. e. (gli esempi sono tuoi!): nella Filosofia del diritto non c’è la lotta di classe, la quale però c’è nella società; – nella Estetica non entrano le categorie del comico, sublime, grazioso etc. perché sono invece nella psicologia; – ma che andare a cercare la causa nel Diritto penale, la causa è un concetto logico! E così via etc. etc.. Gli esempi bastano» (Lettera a B. Croce, 2 gennaio 1904, raccolta in Carteggio, V cit., pp. 341342). 134 Ibidem. 135

Cfr. in proposito, per alcune accentuazioni analitiche in merito, M. MONTANARI, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce cit., pp. 166-167. 136 A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 5 gennaio 1904, raccolta in Carteggio, V cit., p. 343. 137 ID., Lettera a B. Croce, 2 gennaio 1904 cit. p. 343. 138 Cfr. B. DE GIOVANNI, Pour Labriola cit., pp. 161-162. 139 Cfr. in proposito ID., Labriola e il metodo ‘critico’ cit., p. 92. 140 Le osservazioni svolte nel presente paragrafo vanno intese come interlocutorie rispetto alla lettura del rapporto Labriola-Croce sviluppato da M. MONTANARI in La rifondazione della ‘ragione storica’ in B. Croce cit., pp. 24-30 (come già rammentato, ci pare che il Montanari abbia sinteticamente riarticolato alcuni elementi del suo giudizio sul Labriola – a cominciare da quello concernente la nozione di ‘previsione morfologica’ – in Cento anni di ideologia italiana cit., pp. 282-283). 141

B. CROCE, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo cit., p. 54. R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 255-256. 143 A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 28 febbraio 1898 cit.. (corsivo nostro). 144 Cfr. in proposito le osservazioni di E. GARIN nei saggi Appunti sulla formazione e sui alcuni caratteri del pensiero crociano, e B. Croce e la ‘separazione impossibile’ fra politica e cultura, in ID., Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 3-32 e 47-68; ma anche di S. CINGARI, 142

B. Croce e la crisi della civiltà europea, Rubettino, Soveria Manelli, I, 2003, pp. 9-94.

145

Cfr. N. AUCIELLO, Senso e comunità cit., p. 9-38. Cfr. G. SASSO, B. Croce. La ricerca della dialettica, Marano, Napoli 1975, pp. 139-230. 147 Ci riferiamo alla distinzione – adempiuta in Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filososofia di Hegel – fra ‘gradi’ e ‘opposti’, che Croce svolgerà pensando, però, di poter demarcare – e non ci è dato qui 146

spiegare le ragioni per cui tale demarcazione appare fallace e tutta interna a una sorta di cattiva concettualizzazione idealizzativa – tra, poniamo, i gradi a e b, i quali sarebbero egualmente concreti, e gli opposti α e β, i quali sarebbero egualmente astratti e rispetto a cui l’unico reale è il divenire (γ), – istanziando una versione ‘debole’ della logica sincronica ripiegante, in definitiva, sul polo della diacronia e dello schema strettamente cronologico-empirico. Cfr. R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 158162 (ma l’elaborazione del Saggio sullo Hegel tocca anche aspetti ponibili in continuità effettiva con la stessa concezione hegeliana della ‘mediazione’, cfr. in proposito M. MONTANARI, La rifondazione della ‘ragione storica’ in B. Croce cit., pp. 67-69). 148

Infra, p. 1448 (corsivo nostro). Cfr., esemplificatoriamente, gli interessantissimi materiali contenuti nell’antologia curata da L. BIAGIOTTI, Marginalisti matematici, UTET, Torino 1975. 150 In proposito a tale inclinazione del marginalismo appaiono assai esplicative le seguenti osservazioni 149

di Piero Barucci in un bel saggio di cui, però, non possiamo condividere tutto l’impianto analitico (la rilevanza dei contenuti di esso è stata sottolineata giusto da R. RACINARO in La crisi del marxismo cit., p. 157): «La scoperta dell’idea di margine […] va producendo sempre maggiori risultati tanto da permettere di formulare una rigorosa teoria dello scambio […] fino ad arrivare a proporre una spiegazione, intorno al 1890, per il grande tema della distribuzione. […] Sempre in chiave di strumenti analitici, giusto in quegli anni si celebra il grande matrimonio, fonte […] di alcuni equivoci, fra matematica ed economia. C’è il miraggio di giungere alla costruzione di una economia pura, per scienficizzare l’economia politica […] con tutta la cautela possibile, si potrebbe dire che quanto più l’economia politica individua strumenti di analisi capaci di dare validità sempre più generale alle sue conclusioni, quanto più essa tende ad allontanarsi dai problemi reali del suo tempo e tanto più tende a perdere capacità di spiegarli» (Il pensiero economico: crisi o sviluppo?, in «Quaderni storici», 20, 1972, pp. 105-107). 151

Cfr. in proposito, N. BADALONI, Croce contro Marx cit., p. 27. Cfr. in proposito, fra gli altri, L. PAGGI, Intellettuali, teoria e partito nel marxismo della Seconda Internazionale cit.. 153 Cfr. per alcuni aspetti inerenti B. DE GIOVANNI, Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo dello Stato cit., p. 139. 154 Accenni in proposito sono presenti in G. ZARONE, Filosofia e dominio tecnico. Ricerche sul tempo 152

e la crisi in Kant, Marx e Weber, ESI, Napoli 1983, p. 122. 155 Sintetiche quanto importanti osservazioni sono state svolte in proposito, fra l’altro, da F. PAPA in Razionalizzazione distruttiva. Saggi sul pensiero politico del novecento, Guida, Napoli 1990, pp. 61-77. 156 Osservazioni in proposito sono state formulate da G. LABICA in Sur l’épistémologie du jeune Croce… cit., pp. 185-186. 157

Proprio in proposito al liberalismo classico, Croce osserva come esso abbia poggiato su un «un fondamento metafisico» – corrispondibile, d’altra parte, all’ipostasi naturalistica, giustappunto, – «che è in quella persuasione della bontà delle leggi naturali e in quel concetto di natura […], che, sorta nella filosofia del secolo decimosettimo, fu dominante nel secolo decimottavo». E di qui considera: «Ora, appunto per essere di radice metafisica, quel concetto si può rigettare radicalmente, ma non si può confutare in

particolare. Esso tramonta con la metafisica di cui faceva parte» (B. CROCE, Materialismo storico e economia marxistica cit., p. 87). Come si è cercato di dire, egli, però, resterà, purtroppo, involontariamente subalterno ai condizionamenti di una simile matrice nel rapporto col marxismo (e non solo). 158 Per una corretta interpretazione della nozione di ‘spirito oggettivo’ cfr., fra gli altri, R. BODEI, Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 1975, e M. MONTANARI, Libertà soggettiva e mondo moderno nella filosofia hegeliana del diritto pubblico cit.. 159

Ebbe a scrivere Dilthey che Hegel «ha costruito la comunità sulla base della volontà universale della ragione: noi dobbiamo oggi muovere dalla realtà della vita […] Hegel ha costruito metafisicamente; noi analizziamo il dato» (Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1954, p. 239). 160 Per molte delle considerazioni qui svolte siamo ancora assai debitori nei riguardi di R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 155-162. 161

E. BÖHM-BAWERK, La conclusione del sistema marxiamo cit.. La centralità di queste tematiche nello sviluppo del pensiero gramsciano è stata ben sottolineata nel già menzionato saggio di M. MONTANARI, Gramsci e la revisione del marxismo cit., pp. 157-185. 163 Così Massimo CACCIARI in Pensiero negativo e razionalizzazione cit., p. 20; anche se diversa dal 162

nostro approccio è, ci pare, l’accezione che in tale testo viene contemplata «dalla hegeliana capacità di mediazione universale, di realizzazione della sintesi» (Ivi) in ordine all’economia politica classica. 164 Sulla nozione di ‘americanismo’ in Gramsci cfr. fra gli altri, ID., Costituzione dei soggetti e tempo storico nell’età dell’americanismo cit.; ma ci permettiamo di rinviare anche ai nostri Mercato e cittadinanza democratica. Osservazioni su ‘Cosmopolitismo’ e ‘Americanismo’ in Gramsci cit. e, Filosofia della prassi e americanismo. Spunti e appunti per una discussione su Gramsci, in «Intersezioni», 1, 2010, pp. 123-135. 165 Si rammenti in proposito quanto Marx osserva nel III volume de Il Capitale: «lo scambio delle merci ai loro valori o approssimativamente ai loro valori richiede […] un grado di sviluppo assai inferiore che non lo scambio ai prezzi di produzione, per il quale è necessario un determinato grado di sviluppo capitalistico […] Anche astraendo dall’azione decisiva della legge del valore sui prezzi e sul movimento dei prezzi, è dunque conforme alla realtà considerare i valori delle merci non solo da un punto di vista teorico, ma anche storico, come il prius dei mezzi di produzione» (Il Capitale, III cit., pp. 219-220). Cfr. in proposito, fra gli altri, L. CALABI, In margine al ‘problema della trasformazione’ cit., pp. 114-115. 166

In proposito sono ancora importanti le pagie di B. DE GIOVANNI, La teoria politica delle classi nel “Capitale”, cit., pp. 75-83. 167 Il proposito il riferimento va ancora alle molte, importanti riflessioni di B. DE GIOVANNI in La teoria politica delle classi nel “Capitale”, cit., pp. 152-173. 168 Infra, p. 1360. 169

Infra, pp. 1298-1299 (corsivo nostro). Infra, pp. 1365-1366. 171 Infra, p. 1294. 172 Su questo tema e sulla a ciò connettibile distinzione rinvenibile nella prospettiva marxiana fra 170

“formazione economico-sociale” e “formazione economica della società” restano, crediamo, ancora fondamentali, benché tutti da problematizzare, i saggio di C. LUPORINI Marxismo e sociologia: il concetto di formazione economico-sociale, in Dialettica e materialismo, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 113-296 e Marx secondo Marx, pp. 297-304.

173

Per le osservazioni appena svolte cfr. G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 34-35. La distanza dall’ideologia ‘progressista’ accomuna Labriola e Croce anche per ciò che concerne la

174

critica alle movenze di stampo ‘illuministico’ del movimento socialista. Cfr. in proposito, per quanto riguarda il filosofo di Pescasseroli, fra gli altri, G. SASSO, Tramonto di un mito. L’idea di ‘progresso’ fra ottocento e novecento, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 165-167. 175 In ciò consta il limite più cospicuo della posizione di Croce, efficacemente mostrato, in chiave gramsciana, da M. MONTANARI in Saggio sulla filosofia politica di B. Croce cit. 176

Ecco un ulteriore elemento di continuità, sulla scorta di Marx, con la successiva diagnosi gramsciana (su tale aspetto in essa cfr. G. VACCA, Appuntamenti con Gramsci cit., pp. 42-43). 177 Il riferimento va, anzitutto, alle inerenti affermazioni formulate da A. GRAMSCI nel Q.1 e nel Q.8. Sulla interpretazione gramsciana di Hegel in proposito, cfr. G. VACCA, Pensare il mondo nuovo. Verso la democrazia del XXI secolo, Edizioni San Paolo, Milano 1994, p. 111, e Appuntamenti con Gramsci cit., pp. 19-20, e, ancora, M. MONTANARI, La finalità etico-sociale del partito politico, raccolto in Studi su Gramsci cit., pp. 199-200. 178 Per le osservazioni formulate cfr. B. DE GIOVANNI, Labriola e il metodo ‘critico’ cit., pp. 102106.

VIII I CONTI CON LABRIOLA. CRITICHE E CONFRONTI

1. Un confronto con Bernstein A questo punto, per cercare di considerare ancor meglio l’impianto marcatamente antifinalistico della ricerca labrioliana appare utile spendere qualche parola ulteriore sul nesso di raccordo e di discrimine fra di essa, da un lato, e la posizione di Bernstein, – ovvero fra quelli che a noi paiono, forse, tutto sommato, i due più avanzati punti di vista entro l’arco della Seconda Internazionale179. È cosa nota che la relazione Labriola-Bernstein mescola insieme elementi di asprezza con un fattore di forte attenzione, incentrato principalmente sul terreno di una riclassificazione antieconomicistica (di contro ad una certa ‘ortodossia’) delle istanze marxiane, e, conseguentemente, sul rifiuto di rigidi schemi classisti di polarizzazione, la cui decisività già si è richiamata. Il dialogo di Labriola col Bernstein non è, dunque, certo specificamente meno significativo di quello con Kautsky. Infatti, se in un primo momento esso apparirà assumere un tratto di prevalente ‘circostanza’, a far data dal ’97-’98 presenterà la fisionomia di un vero e proprio commercio di idee, a fronte, anzitutto, della puntuale conoscenza da parte del Cassinate delle tesi che il dirigente tedesco veniva esponendo nei suoi articoli sulla “Neue Zeit”. Profondo, anche se non esplicito, era lo spirito di simpatia di Labriola nei riguardi di un tentativo di rivisitazione che, comunque sia, romperva con il rischio imperante di una sterile ossificazione della dottrina marxista. Se ne ha riscontro in alcune delle poche missive precedenti l’uscita delle Voraussetzungen ove si accenna, soprattutto implicitamente, ad un’idea del marxismo non, appunto, come compatto ambito filosofico-dottrinario ma come luogo dinamico di ricomposizione teorica implicante il superamento dello statuto tradizionale della ‘filosofia’ e dell’immagine ossificata della discriminazione di questa dalla pretta sporgenza dei contenuti epistemici particolari. D’altra parte, contiguo ad un simile approccio appare il rifiuto, esplicitato tanto nella polemica con Masaryk quanto nel ragionamento complessivo del Discorrendo, di ogni inclinazione verso l’ideale di un onniesaustivo enciclopedismo, o, ancora, della relativa, semplicistica, inerente ‘popolarizzazione’ del marxismo. In proposito è assai esplicativa la già citata missiva del 12 novembre del ’98, scritta nel momento in cui il nostro autore stava attendendo alla revisione del Discorrendo:

«Hai ragione» – egli osserva – «i miei saggi sono critici […] io ho soltanto discorso in modo obiettivo […] Desidero soltanto che i miei lettori non credano, che mi propongo una popolarizzazione di Marx». Rispetto allo stesso orientamento espresso dal partito socialdemocratico tedesco al Congresso di Halle, proprio nel ’98, di rifiuto di alcune tesi bernsteiniane, Labriola tenne ferma la attenzione nei riguardi di esse, e cercò di distinguere il loro significato dal carattere estrinseco al movimento operaio – «fuori dalla cosa»1, per dirla con le parole della lettera a Croce del 17 novembre di tale anno – di altri punti di vista poi ricondotti al filone ‘revisionista’ (Masaryk, lo stesso filosofo di Pescasseroli, etc.). Con la pubblicazione delle Voraussetzungen, – che il nostro aveva atteso con ansia2, e di cui diversi contributi si erano avuti entro la serie Probleme des Sozialismus nella «Neue Zeit» –, nei primi giorni dell’89 arrivò a consumarsi, tuttavia, un certo distacco fra i due, che troverà espressione, anzitutto, nella lettera del 20 maggio e, poi, nei contenuti della celebre missiva a Lagardelle3. Si tratta ora di cercare di approfondire brevemente le ragioni di tale distacco, fermo restando che, in senso complessivo, consta, crediamo, proprio nel ‘revisionismo’ di Bernstein, per molti versi – e con i dovuti, capitali distinguo che ci proveremo a tratteggiare –, la posizione entro la ricerca del movimento operaio di quella fase a cui Labriola va maggiormente avvicinato, in quanto propugnatore di un’idea del marxismo «come dottrina progressiva» (laonde la predicazione dell’attributo di ‘progressività’ non venga intesa come rinviante alla vocazione al perfezionamento lineare di un determinato apparato categoriale, bensì nel senso del carattere di ‘apertura’ e di continua approfondibilità e rielaborabilità di questo, all’insegna di una sempre lucida e realistica intentio di adesione analitica alla effettività dei rapporti di forza in campo). Rammentiamo del resto, quanto troviamo detto nella missiva a Louise Kautsky del 5 aprile ’99: Io col Bernstein ho sempre tenuto corrispondenza […] Io ho trovato utile […] il suo atteggiamento critico. Io credo fermamente che i socialisti di tutto il mondo devono far ancora una buona digestione di utopismo4.

Se un punto forte di tangenza fra Labriola e Bernstein è dato dal rifiuto dello schema finalistico, come accennato, nonché dalla convinzione – enunciata sin dalla Prolusione – per cui un primario obiettivo politico è da individuarsi nella necessità di traguardare una condizione storico-sociale ordinata ove si possano equilibrare «le forze radicali e conservative», il divario fra i due è definito

soprattutto dall’atteggiamento del secondo di reiterazione del divorzio fra teoria e movimento, tra masse e scienza, cui corrisponde la riduzione alla mera dimensione della fattualità empirica dell’oggetto – eludendone la struttura logico-storica –, e, vieppiù, la cognizione ‘dissociata’ dell’etico-politico, così sottovalutando, implicitamente, lo spessore reale del tempo storico al cui coglimento l’adozione di un’ottica antifinalistica pur consente di ‘aprire’. Si tratta, del resto, di aspetti collocabili in parallelo, per ciò che riguarda certuni elementi, a quanto già detto in proposito alla trattazione stammleriana ed alla risoluzione sul polo dell’empiria compiuta, per esempio, come sappiamo, da alcuni risvolti della declinazione del marxismo stesso come ‘teoria dei fattori’, oltre che dai principali tratti del marginalismo. Così come per l’intiero arco della discussione sulla crisi del marxismo, la Bernstein-debatte, – e, in particolare, il suo addensarsi attorno agli argomenti delle Voraussetzungen –, è per il nostro, anzitutto, occasione rivelatrice della necessità di ridisporre l’elaborazione teorica e, dunque, il ruolo perspicuamente politico del movimento operaio, – senza dar luogo ad alcuna separazione di piani –, all’altezza degli impetuosi mutamenti del mondo capitalistico e del connesso fluidificarsi della forma-Stato. Ne è di riprova la missiva a Lagardella del 15 aprile 1899, ove, – manifestando anche qui, tra l’altro, l’istanza poc’anzi richiamata, espressa nella lettera dei primi del mese a Louise Kautsky (in peculiare riferimento al «socialismo dei paesi latini»), di «digerire bene l’utopismo» –, il Cassinate giustificava il proprio declino dell’invito a fornire una pubblica valutazione del volume bernsteniano, affermando, per prima cosa: Quanto a me personalmente, sono troppo in causa e non amo ripetermi. Sono pochi giorni da che ho presentato al pubblico francese un secondo saggio sul materialismo storico, dopo aver fatto di questo, per quel che ero capace, una revisione critica,

e, soprattutto, avendo resa esplicita la partecipazione ad una generale impresa di autorevisione da parte del marxismo, arrivava ad aggiungere: In verità, al di sotto di tutto questo rumore di disputa, c’è una questione grave ed essenziale: le speranze ardenti, vivissime, precoci di qualche anno fa – quelle aspettative da dettagli e dai contorni troppo precisi – vengono a cozzare ora contro la più complicata resistenza dei rapporti economici e contro i più imbrigliati congegni del mondo politico.

L’imbricarsi sempre maggiormente denso tra la «complicata resistenza dei rapporti economici» e «i più imbrogliati congegni del mondo politico», o, per ricorrere ad altri termini, l’«enorme complicazione del mondo attuale» corrispondente all’«allargarsi del capitalismo», alla integrale universalizzazione della forma-merce, lasciava emergere, in vista di un recupero di protagonismo politico del movimento operaio, l’esigenza di rompere con gli sterili toni dei «socialisti intinti di giacobinismo rivissuto»5, anzi – come già era stato scritto nell’In memoria – l’esigenza di non essere «più Giacobini, né quelli eroicamente giganti del 93, né quelli in caricatura del 1848!»6, – con ciò apportando un ulteriore elemento di raccordo al nocciolo di consapevolezza proprio della posizione bernsteniana –, e di impiegare la specificazione categoriale della concezione materialistica della storia in ordine all’indagine del presente storico ed alla commisurazione ad esso dell’iniziativa (come reso evidente, poniamo, dalla sostanziale ritematizzazione della nozione di ‘previsione morfologica’ nell’ultima lettera a Sorel7). Tutto ciò implica la saldatura inscindibile di teoria e movimento, evidenziando come se un elemento dell’ipotesi revisionistica di Bernstein di cui tener conto poteva apparire definito dal suo essere interna ‘alla cosa’, – come constatato riconosciuto da Labriola qui su –, d’altra parte, essa concludeva al ripiegamento sull’ideale di a-valutativa collacazione entro un’angolatura visuale ‘esterna’8. Nota il Cassinate: «assumere la posizione fittizia dei cosiddetti imparziali, dei neutrali, degli amatori disinteressati della verità, sarà un bel mestiere e una bella occupazione per i letterati alla ricerca dell’artico, ma non è il fatto della causa nostra»9. A ben guardare la distanza fra Labriola e Bernstein riposa su un elemento di particolare profondità che poc’anzi abbiamo richiamato solo per cenni e che, in certa maniera, può venir inteso all’insegna dell’emersione degli oggettivi ‘problemi aperti’ della problematica della teorica della conoscenza, e, dunque, del ‘ritorno’ al criticismo kantiano verso la fine degli anni ’90 dell’Ottocento, in coincidenza, sia pure in forma distorta, con gli interrogativi ‘messi a nudo’ dalla polemica sulla crisi del marxismo. Per il nostro, lo si è detto, tutto si giuoca nel recuperare una capacità ermeneutica alla concezione materialistica della storia adeguata alle «complicate resistenze dei rapporti economici» e degli «intricati ingranaggi del mondo politico»; muovendo dal coglierne la saldatura reciproca – di contro allo schema rigido ‘struttura’/‘sovrastruttura’, il cui sostanziale accantonamento definisce il cuore dell’approccio antieconomicistico accumunante gli intenti dell’italiano e del tedesco –, manifestantesi con pienezza sul terreno della riproduzione sociale e, appunto, della sua morfologia politica. Rifuggendo – come si è ben costato guardando alla focalizzazione del ‘problema

della trasformazione’ – il rischio di ogni inclinazione verso il solo piano gnoseologico, Labriola, immerso nella presente congiuntura, si troverà impegnato nel mettere in luce due interdipendenti aspetti. A) La necessità di stigmatizzare il pericolo del mero appiattimento sul livello fattuale (l’accettazione della assunzione semplice della ‘constatazione’, – pur, come dovrebbe agilmente derivare dal carattere dell’atteggiamento labrioliano verso la questione della ‘crisi del marxismo’, sfruttandone a pieno il potenziale di aderenza oggettiva –, per cui i ‘fatti’ possono linearmente mettere in discussione la ‘teoria’). B) La necessità di coniugare un esplicito orientamento antiempiristico con l’obbligo ineludibile di ridisporre la teoria in termini tali da poter affrontare lo scenario di crisi che la discussione sul marxismo, – ossia la discussione sul suo statuto di scientificità e, prioritariamente, sulla nozione medesima di ‘scienza’ –, esibisce, con ciò indicando tutta la pregnanza obiettiva, insorgente dalla tangibile articolazione del reale, dell’invigorito intreccio di epistemologia e politica. Solo penetrandolo diviene davvero possibile rinsaldare teoria e movimento. Ciò significa, in primo luogo, porsi il problema di un recupero di espansività del marxismo battendo, preliminarmente, sulla necessità di discriminare l’affermazione dell’autonomia di esso – in quanto campo teorico che ha in sé le risorse per svolgere un’azione di ricomposizione nella iterazione con la ineludibile ed irriducibile geografia degli specialismi – dalla ‘pretesa’ enciclopedistico-ingenua di ‘onniscienza’. Dalla pretesa, cioè, di rispondere ai problemi di tutte le scienze, – evidentemente contraddittoria rispetto alla appena richiamata centralità attribuita da Labriola ai risvolti morfologici, egemonicamente caratterizzabili, della pluralizzazione della ragione scientifica –, il merito della doverosità della cui condanna risultava chiaro al medesimo Bernstein ed era stato sollecitato anche dall’approccio espresso da Sorel, nella Préface (di cui si sono valutate le implicazioni), dando modo al filosofo di Cassino di riconfermare, vieppiù, la propria opinione in proposito. Si tratta, del resto, di un nodo che già si è incontrato anche accennando ai contenuti della II lettera del Discorrendo. Abbiamo complessivamente a che fare con un grumo di questioni di ‘inquadramento’, se così possiamo dire, le quali risultano sottese o manifestamente dispiegate nella cornice, di cui abbiamo cercato di insistere certune conseguenze e certuni nuclei concettuali, della riflessione che lo stesso imporsi ad argomento di confronto della ‘crisi del marxismo’ aveva fatto discendere. Alcune accentuazioni generali coinvolte da tale confronto si mostrano presenti, sotto molti rispetti, sin da determinate – e qui approssimate – prospezioni di In memoria. Per accostarsi a tracciare le linee di rilancio di espansività del marxismo, anzitutto riguardo ai gruppi intellettuali, – il cui

orientamento è considerabile, come sappiamo, in guisa di principale ambito di verifica dell’attrito di efficacia di esso –, Labriola, peculiarmente nel Discorrendo, sembra tener ferma la consapevolezza – espressa chiaramente, tra l’altro, da Engels nella Prefazione del ’94 al III volume de Il Capitale10 – secondo la quale risulta stringente il compito di superare l’ideologia della ‘separatezza’ di tali gruppi, – la cui ‘apparente’ divaricazione dalla dimensione del Politico si è rovesciata intrinsecamente in una misura di squisita passivizzazione (sta in ciò il germe della tematizzazione gramsciana della ‘questione degli intellettuali’) –. Questo compito appariva inadempibile se non si fosse preso interamente atto dell’ampiezza e della incidenza del ritardo reale del movimento. I massimi indici di esso erano rappresentanti tanto dalla riduzione economicistica del marxismo medesimo, quanto dalla elusione del nesso di ‘unità-distinzione’ fra teoria e prassi, e, di conseguenza, dalla disconnessione tra teoria e compito della costituzione di un influente soggetto storico-politico. Il che si equivale, a fronte di ciò, alla destituzione dei margini di concretizzabilità di un simile compito. La preoccupazione di definire una convincente alternativa vuoi all’economicismo, in sé e per sé, vuoi alle valutazioni erronee che inficiavano i principali tentativi di ‘revisione’ determinò il decisivo fattore propulsivo di intensificazione della elaborazione labrioliana, a cominciare dal ‘problema della trasformazione’11. Rammentiamo le parole della I lettera del Discorrendo in merito ad un certo modo di considerare la concezione materialistica della storia da parte di ampi settori dell’intelligenza borghese ed all’interrogativo, posto da Sorel – cui già si è adombrato – intorno alla difficoltà del ‘prender piede’ da parte del marxismo in Francia: «Voi» – dice Labriola al ‘filosofo-ingegnere’ – «lamentate la poca diffusione che ha avuto fino a ora in Francia la dottrina del materialismo storico. Anzi lamentate, che a tal diffusione mettano ostacolo e oppongono resistenze i pregiudizii derivanti dalla boria nazionale, le pretese letterarie di alcuni, l’albagia filosofica di altri, la maledetta voglia del parere senza essere, e da ultimo, poi, lo scarso avviamento intellettuale, e molti difetti che si riscontrano anche in certi socialisti. Ma tutte coteste cose non sono da considerare come meri accidenti! […] cotesto materialismo storico esige, da chi voglia consapevolmente e schiettamente professarlo, una certa curiosa maniera di umiltà: che, cioè dire, nell’atto che ci sentiamo legati al corso delle cose umane, e di questo studiamo le complicate linee e le tortuose pieghe, ci tocchi pur di essere insiememente e medesimamente, non già rassegnati e acquiescenti, ma anzi operosi di conscia e ragionevole opera». La ripresa di espansività del marxismo non può non comportare che la doverosità di misurarsi con l’esigenza

di riqualificare criticamente il «complicato ingranaggio dei meccanismi sociali»12 si precisa quale compito politico e di socializzazione (l’essere «insiememente […] operosi di conscia e ragionevole opera») abilitato sia a penetrare le «tortuose pieghe» e le direttrici mobili della organizzazione sociale, nelle sue disposizioni formali e nei suoi termini di riproduzione, sfruttando proprio il carattere diffusamente politico dei proliferati saperi socialmente determinati-formalizzati (anche nella loro vocazione alla ‘riduzione’ segmentale) e delle funzioni che essi incorporano o da cui sono insostituibilmente implicati; sia a cifrare l’elaborazione propulsiva della costituzione di un nuovo soggetto storico (che il Cassinate tende ad identificare con movenze determinate della prassi, certo cifrandole politicamente, – ossia con quella soggettività del lavoro che rappresenta, forse, il punto più forte dell’influenza dell’orientamento della II Internazionale su un’ottica tanto originale quale la sua –, mentre Gramsci arriverà a guadagnarne il primario carattere di orientamento della volontà egemonico-collettiva). Ciò significa, in breve, conquistare pienamente il vincolo strategico teoria-masse e superare lo statuto tradizionale dei gruppi intellettuali, ridislocandoli. Tale vincolo descrive il crinale di demarcazione LabriolaBernstein riguardante tutta la preliminare ‘posta in giuoco’ analitica del raggiungimento o meno della ricostruzione logico-storica dell’oggetto e dell’effettivo conseguimento o meno dello spessore e della ‘struttura significante’ del tempo storico, nonché delle sue determinazioni politicamente investite. Uno dei fattori maggiormente produttivi della elaborazione bernsteiniana consta nella polemica con ogni soluzione di Zusammenbruchstheorie e con la relativa matrice naturalistico-fatalistica, – rintracciabile anche nella posizione di Kautsky, cui corrisponde, nell’ambito dell’analisi sociale, una cognizione proporzionale fissa del rapporto fra capitale costante e variabile (parallelizzabile, comunque, ad alcuni elementi inscritti nell’ottica dello stesso Bernstein), ed avente, a sua volta, come corrispettivo programmatico una teorica della transizione intrinsecamente ‘debole’, poiché incardinata sul principio di collettivizzazione e, appunto, sul fattore salariale in quanto asse del programma socialista (formulandone un’immagine assolutamente distante dalla efficace assunzione della centralità del pluralismo13), esemplicata, poi, con evidenza, nei saggi apparsi sulla “Neue Zeit” ai primi del secolo14 –; benché l’impianto complessivo di essa appaia alludere al principio normativo, – anzitutto declinabile, realtier, in direzione ‘antidialettica’ o ‘adialettica’ –, della rimozione della contraddizione, sin quasi ad assecondare la contemplazione di una data legalità naturale sulla quale ‘ritagliare’ la costruzione storico-sociale. Tale

polemica, comunque, si combina ineludibilmente, – ecco un altro tratto di avanzatezza di Bernstein rispetto al resto del gruppo dirigente della socialdemocrazia tedesca comune a Labriola, il quale pure (come accennato più sopra) sempre tenderà ad apprezzare, talvolta opportunamente, lo specifico programmatico di alcuni risvolti della linea kautskiana riguardo al nodo della modernizzazione industriale –, con una pronunciatissima avversione nei confronti di un’idea del sollen socialistico in quanto vocato alla ‘disaleniazione’ integrale, ossia presunto come capace di sollecitare la dissoluzione del ‘mondo delle forme’ in virtù di una versione in effetti notevolmente rigida e, insieme, restrittiva del ‘produttivismo’15 (traducentesi in una sorta di monocromo ‘lavorismo’, – laonde si intenda adeguatamente tale termine in congruenza alle presenti coordinate di ragionamento –, e dunque all’opposto della individuazione labrioliana del lavoro come costituibile ‘in’ e costituente ‘una’ pretta soggettività a vocazione egemonica16). L’enfasi che ne discende sul versante latu sensu ‘idealistico’ lascia emergere certo una forte richiesta di iniziativa politica, di contro alla tendenziale inerzia kaustskiana, ma corrisponde, inevitabilmente, d’altra parte, ad una concezione dell’etico-politico tale per cui se esso vien inteso in quanto architrave riconnettibile per linee molteplici alla panoplia dei saperi speciali, della Vermittlung tra interessi ed istanze concernenti bisogni determinati17, ciò nondimeno, ‘manca’, giustappunto, al proprio obiettivo scaturente, giacché, configurandosi come ambito ‘separato’, definente una pretta sfera autonomizzata, non può che elidersi con l’opportunità della effettiva visualizzazione della mediazione reale, la quale percorre costitutivamente la compenetrazione tra morfologia sociale e dimensione del tempo storico.

2. La posizione di Labriola, Bernstein, Croce e l’autonomia dell’‘eticopolitico’ Stando in tal maniera le cose, quella che arriva innegabilmente a compiersi è la sconnessione fra teoria e politica. Essa è già stata ampiamente richiamata ed ora possiamo considerarla esemplificata dall’intendimento del socialismo in qualità di ‘movimento’ in quel senso per cui esso può divenire oggetto della teoria, la quale si volge a darne ragione, ferma restando, però, la collocazione del piano teorico-scientifico stesso al suo esterno. Cosicché, la mobilitazione eticopolitica arrivi a definirsi in guisa di momento pragmatico-normativo della ‘storia degli intellettuali’ a cui si trova, giocoforza, inevitabilmente ristretto il complesso della vicenda storica; anzitutto, privando il movimento operaio dei margini tangibili per la propria compiuta configurazione soggettiva, che dovrebbe essere, altresì, ancorata all’intreccio (da distinguersi nettamente dalla giustapposizione o dall’assorbimento risolutivo dell’una nell’altra) fra ricostruzione giustificativa dei nessi logico-storici interni all’oggetto, – con cui si attua l’ermeneutica radicale del presente storico –, alla quale tale configurazione avrebbe proprio da essere commisurata, ed orientamento attivo. Quasi paradossalmente, tutto ciò fa sì, però, che l’etico-politico si trovi ad essere, per forza di cose, ridotto e sussunto all’economico-corporativo. Ne viene che l’atteggiamento antieconomicistico bernsteiniano rischia di capovolgersi nel proprio contrario in virtù del divorzio fra teoria e politica, fra politica e penetrazione critico-analitica compiuta sulla scorta di precisi indirizzi epistemologici; esibendo, possiamo affermare a posteriori, la propria diretta avvicinabilità alla considerazione ‘passionale’ del politico complessivamente propugnata da Croce (ed esaustivamente ‘posta a problema’ da Gramsci18). Ne è di chiara riprova, per quanto attiene allo Standpunkt bernsteiniano, la fissazione della distinzione tendenzialmente antinomica tra l’accezione puro-trascendentale della ‘generalità’ della scienza, da un lato, e il connotato di ‘tendenziosità’ compreso nel presunto statuto, attribuito linearmente, di ‘particolarità’ del Politico, da un altro. Dice, infatti, per esempio, Bernstein, apertis verbis, in Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich?, del 1901, testo della conferenza, assai successiva alle Voraussetzungen (sulle quali si concentrarono le attenzioni critiche del nostro), che accese un’ampia discussione entro il Congresso di Lubecca19 e nel quale, fra l’altro, troviamo un infelice accenno al Labriola di In memoria (individuato in quanto autore esemplificativo dell’elaborazione marxista di ascendenza schiettamente hegeliana), di cui pure – anche se con

accezione equivocante – veniva accettato l’impiego del «name ‘kritisch’» in ordine al marxismo20: «Il socialismo in quanto scienza si richiama alla conoscenza, il socialismo in quanto movimento è guidato dall’interesse come motivo principale […] Vi è anche un interesse morale (socialmente avvertito), un interesse idealistico. Ma senza interesse non vi è azione sociale»21. Risulta palese che la funzione del movimento socialistico finisce per risolversi, nell’ottica di Bernstein, nell’incrocio fra la direttrice economico-corporativa e quella normativa, vendendo, sotto certi aspetti, paradossalmente indebolito della capacità di rappresentanza generale (invece sottesa alla diversa, particolare cognizione della fallacia dovuta alla sovrapposizione fra socialismo e connotazione di classe puramente economico-corporativa che Labriola approssima al lume di una precisa teorica dei referenti storico-politici), ed assecondando, vieppiù, lo schiacciamento dell’etico-politico sul versante della indicazione meramente regolativa («l’interesse idealistico»), poi vocata, però, alla ‘particolarizzazione’, – con il che rendendo palesemente coglibile come il criterio di dissociazione di esso corrisponda all’obliamento della sua connessione alla morfologia sociale ed alla organizzazione formale. Vale la pena di insistere sul fatto che la contrapposizione ‘purezza’ della scienza wertfrei / ‘tendenziosità’ della politica non attenga assolutamente, – come invece è nel caso, pur assai discutibile a fonte del suo presentare precisi elementi di debolezza interna non riscontrabili, crediamo, nell’elaborazione labrioliana, e perché, in definitiva, incapace di adempiervi, dell’austromarxismo da Adler a Hilferding22 –, al tentativo di guadagnare soddisfacentemente l’autonomia del marxismo, bensì al criterio della integrazione di questo ultimo con un esplicito riferimento etico-normativo (cioè con un certo grado di «idealismo speculativo», con «un pezzo di qualcosa che non è dimostrabile né constatabile scientificamente»23, con una determinata misura di «utopia»24tout court), – malgrado la complessività della strategia bernsteniana di liberazione del socialismo dalla feticizzazione dell’Endziel non possa, a nostro parere, venir indebolita e risolta esclusivamente in ciò, giacché in tal maniera si incorrerebbe nella vanificazione dell’aroma di «attenzione per la prassi» (A. Zanardo25), comunque declinato in maniera parzialmente proficua, riscontrabile in essa. Ciò non di meno, Bernstein mette in discussione il nesso di scienza e socialismo all’altezza dei termini perspicui della problematica della previsione e, dunque, dello statuto prettamente ‘produttivo’ della teoria. (Troviamo ancora asserito in Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich?: «La scienza che qui viene in questione – la sociologia – non può predire, con quella esattezza con cui le scienze esatte predeterminano certi fenomeni, riguardo all’ordinamento sociale,

verso cui tende il socialismo, che si realizzerà in tutte le circostanze. Può solo sviluppare le condizioni in cui, prevedibilmente, si realizzerà, e può valutare approssimativamente il grado della sua probabilità»26). Il paradosso sostanziale di tutto il ragionamento bernsteiniano consta nel rovesciamento della tematizzazione in direzione pronunciatamente realistica dell’esigenza di svellere il movimento operaio da ogni imbrigliamento finalistico (ciò che Labriola sintetizza nella esigenza di favorire «una buona digestione di utopismo» per l’iniziativa e la prospettiva di costituzione in soggettività politica del socialismo) – combinantesi, certo, con l’investimento strategico del movimento in chiave etico-politica – nella reintegrazione di un determinato fattore normativo vocato a culminare nel riferimento utopico, – atteso, in accezione kantiana, come indicante un’‘idea-limite’ a valenza puramente regolativa (ed esigente però di essere tipizzato con accezione diversa, chiaramente, dal Funktionbegriff) –, richiamato inevitabilmente proprio dalla dissociazione politica/teoria; dalla ‘estrinsecazione’ di quest’ultima; dalla – ‘presunta’ e, de facto, stando alle coordinate dell’ottica labrioliana, sfruttabile in direzione di un disegno di ‘rivoluzione passiva’ –, spoliazione di ruolo egemonico di questa, – in sé sottendente tanto l’ammissione della morfologia plurale connessa allo specialismo dei saperi, quanto il loro impoverimento (ivi compresa l’esclusione di tutto il portato del legame epistemologia-politica). Tale paradosso ci pare assolutamente coerente con l’effettivo significato della particolare percezione da parte di Bernstein della nozione di ‘previsione’, avente una funzione centrale nella elaborazione di Labriola. La portata della distinzione che, da par suo, Bernstein introduce, – approfondendo alcuni aspetti delle Voraussetzungen –, fra il genere di essa pertinente il campo delle «scienze esatte» e quello della cosiddetta «sociologia» non ha da essere esagerata, e va colta, altresì, nella tipizzante implicazione, – proviamo ad esprimerci in siffatta maniera –, ‘sociologistico-scientistica’, appunto. La intima contraddizione compresa nel punto di vista bernsteiniano consiste proprio nella condanna dell’«utopismo, latente anche fra i marxisti», come viene detto nel Discorrendo27, corrispondente, soprattutto, all’atteggiamento finalistico bruto, anzitutto nella variante ‘evoluzionista’ (sempre in proposito, entro tale testo, il filosofo di Cassino, ben sapendo, però, discriminare gli atteggiamenti in questione proprio da quel circoscritto elemento di finalismo legittimamente sfruttabile in rapporto ad una articolata sperimentazione progettuale di massa di vasto raggio e durata28, argomenta: «Purtroppo gli è vero, in fatto, che in tutto il socialismo contemporaneo c’è sempre un certo che di neoutopismo; come è il caso di coloro che, ripetendo di continuo il dogma della necessaria evoluzione, questa poi

confondan quasi con un […] diritto ad uno stato migliore, e la futura società», orientata da inediti modi di socializzazione e di configurazione del ruolo del lavoro, «dicono che sarà perché deve essere e quasi dimenticano, che cotesto futuro devono pur produrlo gli uomini stessi, e per la sollecitazione dello stato in cui sono, e per lo sviluppo delle attitudini loro. Beati costoro», esclama Labriola avversando l’atteggiamento ‘prefigurante’ del progressismo, di cui, poco dopo, verrà mostrato il carattere di elusione del presente storico29, «che il futuro della storia […] misurano quasi alla stregua di un certificato di assicurazione su la vita»30), da un lato, e nel richiamo marcatamente normativo-‘idealistico’ (incongruente, in determinata maniera, anche rispetto all’elemento di critica alla menzionata formulazione del sollen socialistico), da un altro. Osserviamo: tale incoerenza si profila quale ben integrabile col nerbo scientistico e, al contempo, naturalistico della suddetta distinzione. Giacché, nella prospettiva bernsteniana tra ‘previsione scientifico-naturale’ e ‘previsione sociologica’ si dà differenza di livello quantitativo di approssimazione ma non di spazio fondativo. Ovverosia, si tratta di una classificazione istituita in base ad un riferimento meramente empirico, e, dunque, esclusivamente concernente l’appiattimento della ‘scienza’ ‘in sé e per sé’ ad unica misura di ordinamento dell’esperienza. La corretta enfasi bernsteiniana sulla «società» come «organismo vivente»31, la quale – se considerata, parimenti, ‘in sé e per sé’ apparirebbe affine alla concezione di Labriola – viene impiegata dal dirigente tedesco in quanto in grado di assicurare la presenza sul terreno prevalente della sociologia empirica, – come sappiamo apertamente stigmatizzato in tutti i suoi rischi proprio dalla polemica labrioliana con il marginalismo e con le afferenti ricezioni italiane –, con ciò permanentizzando il divorzio fra l’empiria medesima ed il concetto ricavato per astrazione32. Così, i modi del Politico si vedono declinati all’insegna del discrimine fra la disgregatezza dell’empirico e la costituzione della teoria in permanente separazione rispetto ad esso. In altre parole: l’applicazione di un determinato parametro naturalistico entro il campo del Politico – facendone discendere l’abbassamento di quest’ultimo a servo-meccanismo dell’orientamento sociologico – nel quale si consuma il paradossale rovesciamento di una originaria, vigorosa e ricca di spunti istanza antieconomistica, sigilla la scissione, in Bernstein, di processo storico e sua comprensione. Abbiamo, dunque, di fronte una sorta di empirizzazione della teoria in divaricazione dell’effettività empirica stessa (esigente di essere pienamente qualificata storicamente). Del resto, se si adottano le coordinate analitiche cifranti il versante ottico di Labriola, anche in senso ideologico-storico d’insieme il limite maggiore della tesi di Bernstein e del loro certo notevolmente

coraggioso e lodevole intendimento di recisa critica al finalismo dovrebbe risultare consistere nel rischio della risoluzione nella passività, – malgrado il richiamo all’incidenza strategica dell’‘etico-politico’ medesimo –, e, dunque, realiter, nel pericolo del contrasto e dell’attrito effettivo rispetto proprio a quell’idea di democrazia commisurata alla crescita delle facoltà individuali e collettive di governo, a quell’idea di democrazia come processo formativo, come Bildung33, che, ad ogni modo, il dirigente tedesco appare avanzatamente assumere. Entro siffatta linea ‘passivizzante’, da un lato, la ‘purezza’ della scienza fa corpo con la sua ‘separatezza’, da un altro, l’affermazione bernsteniana dell’etico-politico e della sua autonomia si mostra in quanto reggentesi sulla commistione – ancora una volta, paradossalmente ricadente sul corno dell’economicismo – fra la percezione della storia come storia degli intellettuali e il contraddittorio stemperarsi della stessa forma della politica nel momento della ‘passione’-‘lotta’ come ‘lotta di interessi’ (economicocorporativi). Notare bene: quanto appena evidenziato si rivela agilmente collegabile alla trattazione labrioliana del motivo dell’‘irrazionale’. Infatti, se esso, in ultima istanza, sembra anche esprimere, in riferimento esplicativo alla costituzione in legalità di uno scambio diseguale posto in implicito attrito e, insieme, in continuità ad uno scambio fra equivalenti – e, come si è cercato di dire, congruentemente allo schema di valorizzazione individuato da Marx –, il medesimo sporgere della automanifestazione delle cerchie speciali quali capaci di autoregolazione in termini ‘apparentemente’ assoluti (ed invece effettivamente frammentarii), che l’ipotesi marginalista, magari inconsaputamente, esibisce; proprio la dinamica di spinta alla riduzione per via, insieme, di compressione e generalizzazione formale sembra rifrangersi ‘nella’ e, poi, in definitiva, coincidere ‘con’ l’immagine della dissociazione fra ‘separatezza’ della scienzateoria e (presunta) estrinsecità del Politico (e dell’‘etico-politico’), esprimendone, tuttavia, per contro, la tensione alla diffusione. A rigore, l’inscrizione della posizione di Bernstein nella prospettiva complessiva dell’ideale – sempre egemonicamente determinato – della ‘storia degli intellettuali’ comporta, per forza di cose, l’attuazione, in definitiva, dell’‘apparente’ svuotamento delle caratteristiche della struttura epistemica e della relativa organizzazione politica di questa. Di qui recando un totale indebolimento della visualizzazione del nesso modi del Politico-plesso dei rapporti di forza. Indebolimento sostanzialmente congruente ad una irrigidita cognizione dei ruoli direttivi che si rivela influire e reagire anche sulle direttrici maggiormente avvedute all’intero del movimento operaio e, più generalmente, sugli orientamenti volti all’ampliamento della cifra di inclusione storico-sociale

delle masse. Ne viene che alla implicita scissione bernsteniana fra il piano teorico e la densità della sfera del reale (scissione la quale non può che mantenere una accezione della ‘mobilitazione’ etico-politica liberata, sì, dalle maglie del finalismo, ma destinata a conservarne il carattere ‘utopistico’ riadattato in chiave squisitamente normativa) presiede il diretto congiungimento di una determinata percezione del campo della scienza al lume dell’idea di Wertfreiheit («La scienza è priva di tendenze, in quanto conoscenza del fattuale essa non appartiene ad alcun partito o classe»34), – notevolmente impoverita, però (come ampiamente dimostrato dalla sintesi affidata alla pur sbrigativa affermazione per cui «nessun ‘ismo’ è una scienza»35) se confrontata con l’elaborazione di Weber, la quale, di contro a molte diffuse semplificazioni, insiste, comunque sia, su un’idea di comprensione dello svolgimento della tensione assiologico-politica che non va confusa con la contemplazione di un oggetto naturalisticamente dato (il cui opposto è definito dal terreno, su cui converge la linea, potremo dire, Hegel-Labriola, di ricostruzione dei pertinenti nessi logico-storico interni), bensì manifesta il legame antiintuizionistico (mai implicante la sussunzione dell’una nelle altre) fra analisi rigorosa (sicuramente avvalentesi di un intendimento della ‘storia’ in qualità spazio multidirezionale sottoponibile a particolari misure di riconduzione a regolarità36) e forme dell’agire politicamente-valorialmente orientato37 –, con la stessa riduzione empiristico-naturalistica di tale agire, coerente, in definitiva, rispetto ad una rappresentazione della divaricazione materialismo storico/socialismo in ciò vicina, poniamo, a quella propugnata dalle argomentazioni di uno Stammler. «Il pilastro di una scienza pura» – scrive Bernstein – «è l’esperienza, essa si costituisce nel sapere accumulato. Il socialismo è però la teoria di un ordinamento sociale che deve venire, e pertanto viene meno in esso l’elemento caratteristico della constatazione rigorosamente scientifica»38. L’approdo naturalistico-scientistico del ragionamento di Bernstein è tale per cui il gesammeltes Wissen si trova ad essere schiacciato sulla dimensione puro-‘esatta’, con l’esito di perdere completamente di vista il meccanismo di socializzazione da cui è sorretto e che ne configura gli stock in rapporto alla trama tutta politica del vincolo reale tra organizzazione epistemica ed articolazione formale ove si situano, a loro volta, le mobili forniture di lavoro accumulato per entro la polidirezionalità interna del tempo storico. Osserviamo: un simile esito potrebbe apparire asimmetrico nei riguardi di un’ottica analitica del tipo di quella del socialdemocratico tedesco, che pure procede dall’intenzione, tra l’altro, di annodare il momento della mobilitazione eticopolitica alla ricca topografia dei saperi speciali, ma, in vero, non fa che

appalesare una sorta di ‘contrappasso’ cifrato dalla subalternità (che, d’altra parte, ne reca la destituzione di contenuto effettivo) alla cerchia corrispondibile, a sua volta, ai circoli interni della rigorizzazione dell’episteme (in termini, parimenti, assai diversi da quelli configurati dalla tematizzazione di matrice hegeliana, evidentemente, e, tuttavia, afferibili alle conseguenze ricavabili dalla visualizzazione di alcuni risvolti, – ed anche alla loro parziale opacizzazione –, da essa derivabile). Un atteggiamento del genere sancisce il diretto incontro tra approccio scientistico e naturalizzazione importato intrinsecamente dalla ‘parzialità’ di un certo, determinato riflesso egemonico. Parliamo, del resto, di un genere di subalternità facilmente coerentizzabile con i cardini della critica alla teoria del valore condotta nelle Voraussetzungen39, e collocabile su un fronte profondamente distante da quello labrioliano, perché concludente alla espulsione empiristica del Politico dalla modulazione della struttura epistemica, nonché alla sua riproiezione, con ristretta incidenza, in veste normativa. A ben vedere, è nel pieno di questa espulsione che ha a motivarsi definitivamente la scissura fra movimento di massa e scienza, avente a principale corollario la cristallizzazione economico-corporativa della lotta, dei conflitti determinati, e l’assai grave indebolimento (sociologistico) della nozione di ‘previsione’. Essa – come ormai ben dovremo sapere – era stata, invece, adeguatamente inquadrata dal nostro autore sin da In memoria, laddove, in un brano in parte già citato sopra, e che riportiamo in veste più estesa, troviamo asserita con chiarezza la intima coimplicanza fra previsione morfologica e ricomposizione masse-scienza: «nella dottrina, del comunismo critico» – dice il nostro – «è la società tutta intera, che in un momento del suo processo generale scopre la causa del suo […] andare, e, in un punto saliente della sua curva, fa luce a sé stessa per dichiarare la legge del suo movimento. La previsione, che il Manifesto per la prima volta accennava, era, non cronologica, di preannunzio o di promessa; ma era, per dirla in una parola, che a mio avviso esprime tutto in breve, morfologica»40. In tale primaria indicazione del ruolo della ‘previsione morfologica’, attesa in assoluto discrimine dalla ‘previsione sociologica’ e dall’impianto naturalisticoscientista che a questa presiede, possiamo constatare riassunte tutte le linee prospettiche di una proposta teorica che appare, sotto molti rispetti, come volta a sottrarsi ai moduli ai quali, invece, quella di Bernstein sembra aderire. Il vettore attraverso cui penetrare lo svolgimento storico e qualificare il grado di immanente – e, proprio perciò, mai costringibile ad ipostasi – necessità del dinamismo dei rapporti di forza è definito dalla riconnessione strategica dell’assetto morfologico connotante il presente alla dimensione complessiva,

inassimilabile alla serialità cronologica, del tempo storico. Cosicché, diviene possibile stringerne le linee di tendenza interne, circoscrivendo alla affermazione del loro portato oggettivo il carattere del «processo generale», che non ha a svolgersi secondo il riferimento ad un Endziel rispetto al quale certi momenti di contrazione o di ‘preannunzio’-‘premessa’ non sarebbero che passaggi preconfiguranti di adempimento e/o di ‘perfezionamento intensivo, commisurati alla «dipintura anticipata di una configurazione sociale» (esemplificata dal nostro, nelle varianti, pur segnate da un’istanza di liberazione, della direttrice che va dal millenarismo gioachimita a Fra Dolcino, all’ideologia chiliastica di Münster, al socialismo utopistico41), bensì secondo un movimento formale-reale concernente l’interdipendenza obiettiva della realtà sociale. La sua legalità interna mai si rende riducibile alla vuota positività (da distinguersi certo dal richiamo al ‘positivo’ in quanto esprimente la pienezza dei ‘diritti’ del sapere scientifico42), ‘chiamando in causa’, piuttosto, quella intersecazione fra critica e ricostruzione dell’oggetto elidentesi con la divaricazione scienza-politica, di marca inequivocabilmente empiristica, nella quale si rovescia la critica bernesteiniana al feticismo finalistico, indebolendosi estremamente anzitutto sul fronte dell’attrito di massa. La cognizione della totalità (storico-sociale) che ne deriva è tutt’altra dal paradigma organicistico. Anzi: proprio il ricorso ad essa garantisce la possibilità di non cadervi, nonché mette a frutto l’estremo rifiltraggio di alcuni elementi della precedente tematizzazione spaventiana del suo possibile, generale architrave concettuale di essa in relazione alla sussistenza ed alla distribuzione della ‘parzialità’43. Ad ogni modo, corrisponde alla complessità-complessività della densissima aderenza fra morfologia e composizione sincronica del tempo storico e ne rende, inoltre, praticabile il guadagno del costante dinamismo, anche grazie al ricorso alla ulteriore e ridefinita nozione di ‘legalità’. Questa – lo sappiamo – appare concepita in quanto orientata non allo statuimento in chiave meramente regolativa e/o ‘positiva’, bensì, in definitiva, alla considerazione del nerbo del movimento della totalità storico-sociale stessa in virtù della chiarificazione dell’obiettivo – approssimato, almeno in nuce, sin dalla Prolusione dell’87, e forse, a ben guardare, adombrato ancor prima – della comprensione della logica di articolazione delle formazioni specifiche, individuando dinamicamente certe omologie strutturali attraverso la considerazione della compresenza della contraddizione in quanto leva della costituzione del loro stesso profilo ‘atipico’ (come dimostrato anche dell’atteggiamento verso il problema del valore-lavoro). La compresenza della contraddizione si staglia, dunque, quale referente imprescindibile per cogliere le

connessioni e i rapporti vincolati alle movenze assunte, produttivamente, dall’organizzazione effettiva del tempo storico. La centralità di un simile plesso di motivi esorbita dall’ottica di Bernstein, e non può che essere così poiché il suo atteggiamento contraddistintivo si muove più nella direzione di uno zurück auf Kant concludente ad assecondare l’unilateralità normativa che in quella del filtraggio di spunti e suggestioni rintracciabili magari anche per entro la linea di sviluppo della parabola ‘neocritista’ (diversamente, in ciò, dall’atteggiamento dello stesso Croce). Risulta esemplificativa in merito la simpatia, precedentemente evocata, verso il ‘materialismo’ di Lange. Il dirigente tedesco ha parole inequivocabili: «Gli accenni d’ira che […] ho suscitato in Plechanov» – egli argomenta nelle Vorrautssezungen – «non hanno potuto che a rafforzare la mia convinzione che alla socialdemocrazia occorre un Kant […] Se non dovessi temere di essere frainteso […] tradurrei il ‘torniamo a Kant’ in un ‘torniano a Lange’»44. L’impostazione in questione rimane, dunque, attraccata alla falsariga definita dalla descrizione di una pretta legalità naturale al cui esterno non si troverebbe che l’impoverita coincidenza di referente normativo ed etico-politico. Tale coincidenza rischia di cadere nelle maglie dell’ipostasi analogamente alla feticizzazione dell’Endziel, e ciò appare dovuto – se ci si colloca entro la sezione visuale accordabile alla posizione labrioliana – al mancato possedimento di quell’idea dei rapporti cifranti il campo oggettivo che sarebbe in grado di evitare lo speculare rovesciamento pianamente regolativo dell’empiria (il quale, certo, non connota tutta l’elaborazione di Bernstein, ma finisce per prevalere). Rovesciamento che rende impraticabile, chiaramente, qualificare lo spessore della costruzione dinamico-interna del tempo storico cui giusto l’esigenza di rompere con gli imbrigliamenti finalistici, ridando slancio all’iniziativa politica svincolandola dalla passività di un certo esito deterministico ove anche una ossificata ‘ortodossia pseudodialettica’ appariva imbozzolarsi, richiama in modo stringente. È chiaro che un simile, incongruente ripiegamento, tendente all’ipostasi, ripugna al compito di approfondire compiutamente il movimento reale nel suo costitutivo nesso con la struttura differenziata del tempo storico, e, perciò, si elide con l’obiettivo di far avanzare al massimo l’intreccio teoriamasse. Tale esito allude, vieppiù, ad un’idea di ‘previsione’ come constatazione che, appunto, sconnette radicalmente categoria e empiria, logica e storia e che si avvicina, dunque, notevolmente, alla sintonia fra l’impianto epistemologico della Denkoekonomie machiana e l’ipotesi ermeneutica ‘spoliticizzante’, per così dire, formulata da Stammler nei riguardi del marxismo (pensiamo alle accentuazioni assunte dalla questione della sua interpretazione in qualità di ‘monismo sociale’). Sta qui, d’altra parte, il principale (e ci spingiamo a dire, forti di

quanto constatato più sopra, forse ‘unico’, ma decisivo) punto di convergenza del filtraggio del kantismo (compresa la sua originaria, più o meno accettata, ed non espungibile curvatura empiristica) da parte di Bernstein con il medesimo criticismo davvero ‘postkantiano’. Come fugacemente accennato in precedenza, appare curioso che un approccio del genere alla nozione di ‘previsione’ venga riproiettato – con tutte le conseguenze che ne seguono, anzitutto nei confronti della pretta visualizzazione della articolazione e composizione del tempo storico – sullo specifico dell’apparato concettuale labrioliano dal giovane Gentile, nel contesto della sua eurisi marxiana45, la quale in sé –, insieme alle tesi espresse nel Rosmini e Gioberti –, contiene tutti i germi della dottrina attualistica46. Ciò si spiega, in definitiva, con il fatto che presiede ad essa proprio l’intento di un originale ‘ritorno a Kant’, – al di fuori, tuttavia, del colloquio con molti degli aspetti culminanti del neocritismo, differentemente, anche in tal caso, dalla posizione del Croce di questi anni sul marxismo e non solo47 (e, ad ogni maniera, in radicale discrimine pure dal normativismo di un Bernstein). È ora di dedicarsi ad indagare brevemente l’escursione che corre la prospettiva labrioliana di interpretazione di Marx e quella del principale interlocutore, insieme a Croce e al Cassinate, del dibattito sulla ‘crisi del marxismo’ stesso in campo italiano, ovvero proprio il filosofo di Castelvetrano, il quale prolungherà il suo indirizzo interpretativo in merito sulla medesima caratterizzazione della elaborazione di Labriola48.

3. La critica gentiliana a Labriola e la nozione di prassi È cosa nota che il giovane e – dice Labriola – «un po’ presuntuoso»49 filosofo siciliano, del quale al nostro, da un certo momento in poi, come leggiamo nell’ultima missiva a Croce, non importerà «d’approfondire più nulla», si mostrerà originariamente attratto dalle tesi labrioliane, giuocandole in polemica a taluni connotati del tentativo di revisione messo in atto dall’autore di Pescasseroli50. Ne sono di riprova i contenuti della lettera a questi indirizzata del 2 febbraio del ’98, dove Gentile scriveva: «non credo di potermi accordare con quanto ella dice delle interpretazione storica del pensiero marxista distinta dalla sua esposizione teorica, […] a me pare che le sfugga tutta la importanza teorica e pratica del nostro Labriola […] Perché quando lei ha detto, e ha detto bene, che il materialismo storico non è che un semplice canone metodologico della storia, ecco vien subito dopo il Labriola, rappresentante cospicuo del marxismo a voler mostrare che nello stesso materialismo storico s’inchiude una vera e propria filosofia, la filosofia della praxis […] Né mi par vero che il Labriola per la familiarità contratta col marxismo abbia acquistato una noncuranza per l’elaborazione formale dei concetti; che lo vedono con molto studio e con molti scrupoli attendere alla determinazione dei concetti»51. Indubbiamente ciò che poteva raccordare le angolature teoriche di Labriola e Gentile consisteva nella affermazione dello statuto di autonomia del marxismo, ma la conclusione e i criteri analitici che le cifravano risultano massimamente distanti52. Gentile ‘usa’ Marx all’interno di un insolito ‘congegno’ teorico. Da un lato, esso condanna l’eventualità del pericolo di uno smarrimento della mediazione. Eventualità che, nello specifico, ha da essere insieme connessa e discriminata rispetto alla più complessiva visualizzazione, compiuta soprattutto in luoghi determinati del secondo saggio configurante La filosofia di Marx, relativa al concrescere (supposto come) dialettico in ordine al nodo della unwälzende Praxis ed anche del raggiungimento della sintesi «educatore, educato, educato, educatore»53 attualizzabile, stando alla presente ottica, a fronte di una certa accezione del convergere e del correlarsi (certo concepito in senso propedeutico alla identificazione tout court) di ‘oggetto’ e ‘soggetto’ nell’attività conoscitiva, la quale li supera essendo prassi; essendo – ed in tale affermazione possiamo già stringere tutta quanta la differenza di approccio rispetto al Cassinate anche intorno alla identità di detta nozione – «fare del soggetto, che forma se stesso, formando l’oggetto, crescit et concrescit », e rimanendo tale nel senso del trapassare della ultradeterminazione filosofica di essa nell’‘attualistico’ autoporsi

dello spirito. Eventualità intesa come direttamente collegata alla confusione tra ‘assoluto’ e ‘relativo’, tra a priori e a posteriori che il materialismo storico porterebbe con sé, autoelevandosi a ‘filosofia della storia’, e, con questo, contraddicendosi (si noti ancora come si tratti di una opinione inficiata, anzitutto, da elementi di viziosità interpretativa – cosa chiarissima nella propensione, che fra poco ci proveremo a esaminare, ad attribuire a Labriola un atteggiamento protofinalistico; lui che si era impegnato, con accenti considerevolmente differenti, nel cerare di ‘portare al riparo’ il marxismo teorico dal pericolo dell’isterilimento nell’ipostasi dell’Endziel –). Da un altro lato, come però già intrinseco a quanto appena considerato, Gentile concepisce la ‘prassi’ in quanto ‘autoprassi’. Questa ha a rivelarsi, secondo il filosofo siciliano, magari a contrario, in riferimento al materialismo storico, quale indistinguibile dallo ‘spirito’. è rispetto a ciò che dovrebbe essere indicato, secondo il pensatore di Castelvetrano, il ‘nocciolo duro’ dell’‘errore’ di Marx e del marxismo, cioè l’inclinazione a quello che si era esplicato – passando per il filtro di Feuerbach – in foggia di «idealismo hegeliano capovolto»54, ovvero la possibile (e soprattutto ‘presunta’) inclinazione ad assumere ‘fideisticamente’ vuoi il finalismo, vuoi l’empiria. Nei termini che seguono troviamo designata la paradossale questione della configurazione a priori, da parte del materialismo storico, di quel che è ‘relativo’ in equivocante riferimento alla nozione labrioliana di ‘previsione morfologica’ (si noti in proposito che, al di fuori di determinate distinzioni generali, l’aspetto dell’individuazione di una metodologia storica – mai ridotta a puro criterio epistemologico – e quello della filosofia della prassi si rivelano effettivamente compresenti ad essa) ed alla successiva problematizzazione crociana del marxismo teorico: «il guaio incomincia quando […] il relativo è costretto a far la parte dell’assoluto, come i materialisti storici hanno la ragionevolezza di pretendere. Immanente l’assoluto; ma l’assoluto è immaginario, reale è il relativo; dunque immanente il relativo. L’assoluto si sviluppa dialetticamente; quindi, per la stessa ragione di prima, si sviluppa dialetticamente il relativo. Il processo dell’assoluto si determinava a priori, appunto perché processo dialettico dell’immanente; e perciò determinabile pure a priori, e come dice, oggetto proprio della storia, il relativo. Non tutto ciò» dice Gentile, il marxismo ha «affermato esplicitamente; ma tutto ciò è implicito […] nelle [sue] affermazioni. Il relativo, materia propria dell’esperienza, determinabile a priori? Ecco la ragione di tutte le difficoltà del Croce: le quali si possono tutte risolvere, ciò che il Croce ha ben ragione di non voler concedere: un fatto, poiché quella tale forma – che dovrebbe dar luogo alla previsione morfologica – che altro sarebbe che un fatto storico? Il fatto non si prevede, perché non è oggetto di

speculazione, ma di esperienza; e non appartiene perciò alla filosofia della storia, ma alla storia pura (diciamo storia o storiografia) la quale non si occupa, lo sanno tutti, se non del già accaduto». Si deve tener presente questo passo poiché in esso è in nuce tutto il criterio di lettura gentiliana dell’ipotesi labrioliana di ‘previsione morfologica’, svolto secondo un’angolatura che tocca curiosamente, su certi lati, un approccio del tipo di quello del kantismo à la Bernstein (e non solo). Giacché, siffatte considerazioni conducono il pensatore siciliano a concludere che, allorquando il marxismo non si rassegni allo statuto, da Croce attribuitogli, di canone storiografico, di «semplice veduta metodologica, utile allo storiografo», «considerato nell’aspetto filosofico», esso risulterebbe consistere nel mero esito di una (non condivisibile) acquisizione «del pensiero hegeliano, in quanto riconducente ad una metafisica (scienza necessaria ed assoluta) del reale, inteso come oggetto alla maniera prekantiana; e quel che è più» trascinerebbe «alla concezione di una dialettica, determinabile a priori, del relativo»55. Al fondo della posizione di Gentile vi è la interpretazione della umwälzende praxis della III Tesi su Feuerbach in termini di ‘prassi’ (o praxis) ‘che si rovescia’ anziché di ‘prassi rovesciante’, cosicché essa finisce ridotta entro i confini della fichteiana (e con chiara matrice kantiana) Tathandlung, tutto riconducendo al dualismo soggetto («sensitivo») – oggetto giacché, a suo parere, si avrebbe a che fare con una sorta di ‘monismo’ scontrantesi con l’ineliminabile conflitto tra il pensiero autoponentesi in quanto realtà e la concorrente pretesa di fare di ciò l’essenza del reale-materiale prodotto, cioè del relativo opposto56. Se ne ricava, poi, ulteriormente, che l’assunzione secondo cui il materialismo storico è anzitutto ‘storiografismo’, come vuole l’opinione crociana, può venir assecondata proprio ai fini di mostrare l’oscillazione, da Gentile individuata come linea di tensione interna al pensiero di Marx, tra gli estremi del ‘rovesciamento di Hegel’, per un verso, e del convertirsi, – alla cui postulazione è sottesa una versione indubbiamente abbreviata del passaggio (naturalmente: tramite lo Hegel stesso) dal pensiero illuministico-razionalista a Marx –, di esso materialismo in una opzione costruttiva della ‘attualità’ entro un ordine finalistico ‘semplice’ di risoluzione della contraddizione, per un altro. Stando in tal maniera le cose, dice Gentile, il coglimento marxiano del ruolo e della centralità della ‘prassi’ entra immancabilmente in collisione vuoi con il materialismo, appunto, vuoi con il finalismo, pure nella accezione schiettamente deterministica. D’altronde, i due saggi costituenti La filosofia di Marx – Una critica del materialismo storico e La filosofia della prassi – sono passibili di venir considerati in foggia di pars destruens e pars construens dell’indagine gentiliana del marxismo; dando luogo, insomma, alla delineazione delle

presunte, attribuite incoerenze della dottrina marxiana, nonché, appunto, ad una parziale e strumentale specificazione del concetto di ‘prassi’ stessa che Marx, «idealista nato», avrebbe a cogliere e qualificare, ma che, nondimeno, ripugnerebbe, nel suo contenuto filosofico, all’adesione al medesimo materialismo storico (il quale, d’altra parte, diverrebbe, dunque, una sorta di metafisicismo), a sua volta incompatibile con l’asserzione del primato dell’‘essere sociale’, da porsi criticamente tensione con la posizione nominalistica in proposito57. A conferma di quanto appena detto vi è, d’altra parte, giusto uno dei capisaldi della critica di Gentile a Marx, ovverosia l’indicazione della asimmetria fra il presupposto materialistico e la dimensione della prassi; giacché proprio tale dimensione, in guisa di assoluto-immanente, avrebbe a costituirsi slegata dalla storicità e volta alla sussunzione di essa. Avanzando nel ragionamento, il lettore potrà ancor meglio desumere come nella cognizione gentiliana la nozione di ‘prassi’ tenda a risolversi in pura attività dello spirito. Si tenga ferma la seguente considerazione generale: se ‘l’ombra lunga’ della rottura della mediazione agisce, con livelli di maggiore o minore intensità, in alcuni aspetti del pensiero di Marx, essa comunque s’interseca con quella che Labriola chiama autocritica del reale – tendenzialmente prevalente, specie nella ‘critica sull’economia politica’ – declinantesi in critica delle forme e da esse non estrinsecabile. Se ci si libera dai condizionamenti del finalismo e della contemplazione della possibilità del raggiungimento della reintegrazione di una presunta ‘unità originaria’, il punto centrale diviene quello – come ben ricavabile dalla sinossi del pensamento del Cassinate – della visualizzazione dei limiti del sistema capitalistico e dell’incessante, costitutivo superamento di essi, nonché della capacità di penetrazione e del portato di universalizzazione della formamerce che, a ben guardare, impone un genere di cognizione dello sviluppo sottratta a schemi dicotomici e concernente, invece, il sempre più forte innesto reciproco di tipizzazione specifica delle determinazioni formali, loro valenza cognitiva, trama dei rapporti di forza permeata dal Politico (e ad esso consustanziale) e, ancora, complessività dell’organizzazione morfologicoprocessuale. Ci interessa battere sulla desumibile alternativa che, in proposito, Labriola effettivamente esprime, forte della costante critica al soggettivismo e quasi antevedendo il significato e l’incidenza di alcune determinate vie di eurisi e di formulazione concettuale dipartentisi dall’opzione teorica di Spaventa. D’altra parte, si può capire agilmente perché, a fronte di simili coordinate teoriche, Gentile consumi anche una sostanziale equivocazione della nozione labrioliana di ‘previsione morfologica’. Prima, però, di considerare ulteriormente tale aspetto, è, forse, opportuno soffermarci ancora per un momento sul nodo

dell’intendimento della nozione di ‘prassi’ (espressione che, tra l’altro, per quanto attiene allo specifico del lemma, verrà sistematicamente sostituita con quella di ‘praxis’ entro l’edizione del 1937 del volume marxiano, rispetto a quella del 189958), sprigionando una vasta gamma di implicazioni. Avanzando nel ragionamento si fa chiaro il carattere della strategia gentiliana volta a porre in tensione quello che in La filosofia di Marx si trova ad essere individuato quale il vizio finalistico dell’approccio marxiano alla ‘storia’ (appresa, in particolare, – e si tratta, com’è evidente, d’una accezione tutta piegata su peculiari esigenze argomentative –, «come un qualcosa di esterno e di indipendente da noi»59) con, appunto, una nozione di ‘prassi’ singolarmente formulata – grazie ad una strumentale ritematizzazione dei contenuti delle Tesi su Feuerbach – postulando proprio la reciproca formulata dei due piani. Ripugnanza che sottende, – così definendo il vettore di originale convergenza dell’autore di Castelvetrano sul terreno della storia come storia degli intellettuali –, la riduzione della concezione materialistica della storia a operazione della ‘mente’ di Carlo Marx («Non è anche il materialismo storico» – scrive Gentile – «una teoria della storia, e però una concezione, una interpretazione di essa? E teoria, concezione, interpretazione son tutte operazioni soggettive, anzi, in questo caso, operazioni della mente di Carlo Marx e dei comunisti critici, o meglio di pochi o pochissimi di costoro?»60); portando, dunque, al grado massimo di evidenza quanto agisca nella lettura gentiliana l’istanza di un originale ‘ritorno a Kant’. Affrontando il presente plesso di problemi in maniera ravvicinata viene in giuoco, tra l’altro, il tema della compressione del ruolo della teoria in una direzione esposta all’inflessione soggettivistica, facilmente organabile entro una peculiare linea di conversione-rovesciamento del teoreticismo in una sorta di ‘pragmatismo’ determinato. Linea assiata sulla idea della convergenza di prassi conoscitiva e prassi ‘tout court’ come compenetrata allo svolgimento delo ‘spirito’ – soggetto assoluto (e si tratta di cosa molto diversa dalla configurazione del pensiero in quanto prassi). Gentile cerca di mostrare quella che egli considera la generale incongruenza interna del marxismo (donde l’affermazione: «se è vera la dottrina stessa, si può ben essere socialisti, senza che ci sia la teoria»61), con un approccio realiter informato dalla polarizzazione – tutta kantiana – tra conoscenza fattuale e conoscenza finalistica (conseguita per modo di un preciso quanto, insieme, anch’esso forzoso uso della discriminazione crociana – rispetto alla cui tesi ‘di fondo’ già troviamo attagliata la critica labrioliana, desumibile dalle ultimissime missive, riguardo a contenuti enucleati in testi come l’Estetica ma anteriormente presenti anche, poniamo, in un contributo come la memoria, del 1896, all’Accademia Pontaniana Sulla

concezione materialistica della storia62 – dello statuto epistemologico della conoscenza storica da quello della conoscenza scientifica; uso contraddistinto dal tentativo di estraniare tale discrimine dal campo di nessi propri della grande discussione tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900, primariamente entro l’alveo della cultura tedesca, collegabile pure alla questione della elaborazione di un ‘teoria storica della società’, nonché della sostituibilità o meno tra ‘scienza’ e ‘storia della scienza’). Il pericolo che egli corre è quello di ricadere, con ciò, quindi, pure in una variante del dualismo noumeno/fenomeno (che, malgrado tutto, invece, nel Rosmini e Gioberti si intende respingere, così implicitamente esibendo anche le coeve ambiguità insidenti nel processo di maturazione del pensamento gentiliano).

4. La critica gentiliana a Labriola e la ‘previsione come constatazione’ La critica alla labrioliana previsione morfologica veicola su tale falsariga la disconnessione tra il ‘relativo’ e l’‘assoluto’ proprio in ragione della inelevabilità del fatto empirico a contenuto della speculazione, stante la sua attinenza alla ‘constatazione’ attraverso la mera esperienza63. In una valutazione del genere si svela tutto l’equivoco in cui Gentile resta impigliato. Giacché la ‘previsione morfologica’ non ha in effetti nulla a che vedere con il modello – estraneo ad ogni possibilità di ricostruzione interna dell’oggetto – di constatazione della ‘attualità’ per via di ricavo astraente, ma neppure con l’indicazione finalistica che l’autore di Castelvetrano gli attribuisce, rideclinando, con mete assai diverse, gli stessi moduli del revisionismo crociano, – in un giuoco di imputazioni concernenti o il grado insufficiente o, all’estremo speculare opposto, la portata prevalentemente sussuntiva della astrazione. La strategia gentiliana volta a dimostrare la confliggenza fra l’impronta hegeliana di Marx e il ‘materialismo’ investe le forniture categoriali della elaborazione di Labriola e si spinge, per così dire, a far reagire Kant su Hegel e non viceversa, attraverso un particolare trattamento della scissione fra ‘assoluto’ e ‘storia’. Dimensione fattuale e filosofia vengono, cioè, divaricate, ma ciò che prevale in tale impostazione non è il richiamo antiempiristico alla centralità della mediazione – che pure dovrebbe precisarsi in guisa di movente dell’istanza del superamento del dualismo soggetto-oggetto – quanto, piuttosto, il distoglimento dello sguardo sulla realtà obbiettiva del divenire storico in favore della identificazione di esso nella conversione fra prassi e spirito, la quale, benché Gentile affermi che «tutto [sia] storia», non può che sostituire l’‘identità’ alla ‘distinzione’. Essa rompe la continuità tra ‘assoluto’ e ‘relativo’ per poi ripiegare verso l’immersione del secondo nel primo, eludendo la struttura di vincoli di interdipendenza fra elementi distinti che costituiscono la totalità obiettiva. È all’insegna degli sviluppi successivi dell’attualismo che, retrospettivamente, possiamo interpretare le seguenti parole di polemica con il Cassinate: «Parli pure il Labriola» – ironizza il filosofo siciliano – «di autocritica delle cose stesse. È una frase […] puramente metaforica; la quale se vuol significare che il materialismo storico stesso, secondo la teoria che propugna, è prodotto ideologico delle condizioni reale […] della società, può, ad essere logici, ripetersi anche di qualunque filosofia della storia passata o futura, metafisica o teologica che sia, e che abbia una data storica, che si ricordi, cioè, nella serie di accadimenti storici; ciascuno dei quali, come ha il suo posto, così deve avere

altresì la sua ragion d’essere. Certo è che nelle cose, nella storia […] non c’è né significato, né legge; ma siamo sempre noi, che vediamo una storia con un significato, con una legge secondo la quale pensiamo che si muova; siamo sempre noi, insomma, che forgiamo la storia e la legge che la governa»64. In questo passo, curiosamente, Gentile intrecciava la riduzione in senso economicistico della specifica valenza conoscitiva corrispondente alla dimensione storica del marxismo ed alla immagine che Labriola ne aveva fornito, intensificandone le implicazioni, con la ripulsa verso ogni ipotesi finalistica di filosofia della storia. Ripulsa che, tuttavia, il Cassinate condivide, e che altresì gli viene imputata smarrendo, in definitiva, il significato dell’impegno da questi profuso verso l’obiettivo di distinguere e svellere il compito della ‘filosofia della storia’ proprio dagli imbrigliamenti ordinari del finalismo. Sicché, l’orientamento labrioliano del motivo della ‘autocritica delle cose stesse’ viene ad essere afferito – consumando l’equivoco della attribuzione a questo di un impianto ideologico economicistico (in palese contrasto, per esempio, proprio con tutto il nerbo della polemica verso la cosiddetta ‘teoria dei fattori’) – alla scelta dell’innalzamento, che Marx avrebbe compiuto, del ‘relativo’ e del ‘contingente’ al piano dell’a priori. Scelta, da disporsi paradossalmente, secondo il pensatore di Castelvetrano, in discrimine rispetto all’adesione verso il, dal filosofo tedesco ‘non confessato’, commutarsi alla vocazione della ‘storicizzazione dell’idea’ che la prassi porterebbe con sé venendo identificata come una sorta di principio vocato esso stesso, contraddittoriamente, alla conversione in senso metafisico che dovrebbe, alla presente altezza, trovarsi a definire l’unità di idea e materia, la quale presiederebbe al reale. Parimenti, la nozione di prassi appare impiegata in vista della formulazione di una concezione dell’immanenza alternativa a quel «principio unitario della interpretazione storica» da Labriola fissato con la acquisizione del materialismo storico in termini – come sappiamo – di iterazione con gli specialismi e con le tante disposizioni cognitive in vista della riclassificazione delle incomprimibili differenziazioni attraverso cui si articola, con il suo carattere di mediazione, l’orizzonte morfologico, – in modo tale da provare a sottrarla proprio alla tematizzazione labrioliana e, appunto, alla peculiare autocritica delle forme chiamata a configurarsi nel vincolo di compenetrazione con la dialettica storica65. In merito, ci è d’uopo far riferimento agli argomenti di una importante lettera a di Gentile a Croce del 1897. In essa il discorso muove da due interrogativi: «è il materialismo storico una filosofia della storia? – Ed è in relazione necessaria quella che intercede tra codesta dottrina e il socialismo?». Tali domande, osserva il pensatore siciliano, «poiché la filos[ofia] della storia fa

antevedere, secondo l’andamento del ritmo che teorizza, il processo futuro degli avvenimenti nel loro complesso, e poiché il materialismo storico non è se non l’espressione teorica del comunismo» si riducono «insieme alla questione, se veramente la concezione materialistica della storia, così come è sorta dai fatti e secondo la genesi splendidamente descritta da Labriola nel suo primo Saggio, si possa e si debba dire una filos[ofia] della storia». Il cuore generale del problema slitta, poi, all’interno della visione gentiliana, verso la contrapposizione, – che a suo parere agirebbe nella posizione labrioliana, laonde, invece, sempre più, questa, oltre i confini del primo saggio, ne appare rigorosamente distante –, tra il lato del finalismo e quello, invece, della sua dissociazione dalla concezione materialistica della storia. Dissociazione che dovrebbe essere in grado di mostrare la natura della incongruenza interna del punto di vista del marxismo e che Labriola non compirebbe, immergendosi, ad ogni modo, nel medesimo finalismo ed avviando una sorta di ricomposizione semplice entro la unilateralità di una cognizione filosofica «ultima e definitiva». Si noti come le parole che seguono confermino la portata deviante della rappresentazione gentiliana: dalla questione della declinazione dello statuto della ‘filosofia della storia’ a quella – certo reciprocamente ricongiungibile all’altra, in termini problematici, in virtù di un chiaro asse di scorrimento – della rottura della estraniazione, a fini di riconnessione, tra ricchezza del campo epistemico, diffusività del Politico ed impegno filosofico. Parole che danno luogo ad una risematizzazione del motivo della «immanente realtà», il quale appare disporsi anch’esso in massima lontananza delle considerazioni del pensatore di Cassino, venendo ‘svuotato’ della concreta capacità di aderenza grazie ad un assai ‘fazioso’ esercizio di lettura «tra le linee» delle argomentazioni di questi: «Secondo il Labriola, la originalità e il merito di Marx, e quindi l’essenza del materialismo storico, consiste nell’aver rivelato il corso necessario della storia, che è un divenire per processo di antitesi». Labriola «bada a ripetere mille volte che la nuova teoria non è che l’autocritica delle cose stesse, la visione della immanente realtà della storia […] e dà sfogo molte volte all’aborrimento per l’astrattismo». Ciò pare a Gentile l’aspetto «più debole dè due preziosi saggi del Labriola» (il riferimento coincide con il primo e il secondo) «– Non è che il materialismo sia una interpretazione, una rivelazione, una concezione di quel che è in sé il cammino della storia?», egli domanda ancora, e così prosegue: «l’interpretazione, o la rivelazione, o la concezione è prodotto della storia, o di noi che la studiamo o procuriamo di filosofarvi su? Finisce, forse, d’esser soggettiva interpretazione di chicchessia sia perché corregge un’interpretazione antecedente, che poneva a torto nell’oggetto da interpretare un elemento ab extra, imposto a concezioni a priori, o perché si dice che intenda o intende

veramente davvero più schiettamente codesto oggetto?». Gentile rimarca che «il significato o la legge» della storia è sempre e solo determinazione dello spirito, «è la sua elaborazione, diciamolo pure, soggettiva; e l’obiettività si riduce unicamente alla certezza dell’osservazione immediata, elevata a cognizione necessaria e universale». Come si vede, in queste affermazioni, – del tutto sottendenti l’esclusione del problema della ricostruzione dell’oggetto, poiché vincolate alla qualificazione di termini di ‘necessità’ esondanti dall’alveo dell’egemonia del presente e della sua costituzione morfologica coestesa alla articolazione del tempo storico; rischianti di equivocare l’effettività della tematizzazione marxiana del motivo hegeliano della contraddizione e della sua restituzione da parte di Labriola, attenta, in effetti, ad evidenziarne, in definitiva, la irriducibilità in chiave di mera dicotomia, con tutto ciò che ne discende; e persino inclini a rinvenire un presunto tratto inconsaputamente empiristico (quasi per riproiezione) nella posizione di Marx e dell’autore in esame66 –, si riassume il filo della modulazione critica del rapporto e del contrasto tra ‘universale’ e ‘relativo’, nonché tra a priori e a posteriori, ed in esse traluce tutta la traiettoria del ‘ritorno a Kant’ su cui il filosofo di Castelvetrano indirettamente insiste – intersecandola con la propria cognizione della immanente realtà –. Ovverosia: la traiettoria concernente la riconduzione della conoscenza scientifica – in quanto ‘in sé e per sé’ inerente al campo della teoria – alla mera fattualità, in cui, appunto, essa tenderebbe ad autocomprimersi, una volta che, per mezzo di una operazione mentale individuale, venga posto il medesimo nodo della trasformazione pratica. Nella citata missiva Gentile arriva alle conclusioni per cui «quando si dice che il materialista storico si mette in mezzo alle cose, e si limita a vedere e riferire il fatto del loro reale divenire, non si pronunciano se non delle espressioni metaforiche; e le cose, in mezzo alle quali ci muoviamo e ci intendiamo di muoverci, non sono che i nostri concetti di esse cose; concetti realistici e materialistici quanto si vuole, ma sempre concetti, né più né meno che il concetto teologico, onde la vecchia filosofia faceva governare questa vecchia e intricata matassa della storia». Presiede al ragionamento gentiliano, – oltre che la paradossale ai limiti della mistificazione (e certo congruente ad una argomentazione ‘astutissima’) attribuzione a Labriola di un atteggiamento di ‘inconfessata’ inclinazione alla riproiezione di schemi finalistici, da intendersi come incardinata sulla dilatazione all’impianto complessivo dell’angolatura visuale di questi degli aspetti, insieme, di ‘rottura della mediazione’67, aventi matrice umanistico-giacobina, e di assecondamento dell’ideale di rientegrazione di una preconfigurata ‘unità originaria’ presenti in Marx (anche se, ci pare, e lo ribadiamo, assai limitatamente rispetto all’incidenza complessiva della

impalcatura categoriale della ‘critica dell’economia politica’ nella fase più matura della sua elaborazione) e in Hegel, quando, invece, tutto l’impegno del nostro appare volto ad emancipare da simili condizionamenti, direttamente ed indirettamente, tanto il profilo dell’uno quanto dell’altro pensatore –, la forviante restituzione della previsione morfologica in qualità di dispositivo teorico in cui il ruolo della ricostituzione della genesi ‘dal’ passato ‘al’ presente viene ad essere orizzontalmente distanziato dalla constatazione fattuale. Realiter – dovremmo ormai averlo chiaro – l’impostazione labrioliana rifiuta, invece, la linearità seriale del cattivo storicismo; sviluppando il criterio marxiano della inversione logico-storica, determinata in chiave genetica, del nesso ‘passato’-‘presente’ – donde l’affermazione del primato del presente storico –; battendo, vieppiù, sull’elemento della sincronia; rifuggendo da ogni soluzione incentrata sul modulo della ‘unilaterialità’ cronologica. Come avremo maniera di elucidare meglio fra un momento, nell’ottica del pensatore siciliano non «v’ha scienza senza previsione», ma ciò a patto di un significativo riorientamento del compito di essa. Gentile, che limitò le considerazioni nei riguardi della posizione di Labriola ai due saggi marxisti precedenti il Discorrendo, riconobbe al nostro autore (il quale, in una lettera a Croce del 2 febbraio 1898, vien primariamente indicato in qualità di autore atto «a mostrare o a voler mostrare che nello stesso materialismo storico s’inchiude una vera e propria filosofia, la filosofia della storia») il merito di aver colto – al contrario di quanto alcuni risvolti dell’interpretazione crociana sembravano condurre ad asserire – l’autonomia filosofica del pensiero di Marx, pur, come si è visto, impiegando ai fini della propria accezione del ‘prassismo’ (da distinguersi – ne siamo persuasi – dalla precipua ‘filosofia della prassi’) anche l’opzione di riduzione in senso economistico-storiografico del marxismo; e pur considerando quest’ultimo in foggia di risultato del ‘capovolgimento’ dell’idealismo. A questa altezza, cioè, Gentile sfrutta la qualificazione labrioliana dello statuto del marxismo eludendone, d’altra parte, il portato di criticità in riferimento ad un preciso spazio di corrispodenza con una precipua prospettiva di scienza della politica e della storia e, vieppiù, riconfigurandola sul terreno – quanto mai lontano dal nostro (come reso evidente, una volta di più, dalle ultime missive a Croce) – della compenetrazione ‘prassi’-‘spirito’. Giacché, Gentile, da un lato, mostra di leggere in piena continuità la concezione marxiana rispetto a quella hegeliana, in maniera da enfatizzare la ‘filiazione’ idealistica di Marx; dall’altro, cangia ogni modulo di previsione sfuggente alla oscillazione fra i due interdipendenti poli del privilegiamento del ‘fattuale’ e del privilegiamento dell’essenza68 in finalismo, considerando l’«immanente, che è l’essenza della storia» in quanto

costantemente identico a sé stesso69, dunque, proprio per questo, «trascendente le dimensioni di tempo». Vale la pena soffermarci ancora per un momento sul tema della previsione. Ciò che in proposito appare fare maggiormente problema è il nesso, per un lato, fra quel piano di ricognizione del livello formale che viene assunto, – secondo un rigido criterio di discriminazione–, quale derivabile dalla capacità di astrazione propria della generalizzazione corrisposta alla conoscenza ‘puramente’ scientifica (o in tal maniera presunta), in opposizione rispetto alla supposta referenza al ‘particolare concreto’ di quella storico-filosofica (cifrabile, secondo alcuni giudizi, in ordine ad un curioso ‘rovesciamento delle parti’), e l’ambito peculiare della previsione, distinto dalla sua accezione in quanto mera ‘constatazione’ (come potrebbe essere anche nel caso di un certo hegelismo), per un altro lato. Ora, il punto è – evidentemente – che la ricognizione svolta dalla previsione morfologica labrioliana non ha nulla a che fare, – come ricavabile, per altri versi, dal confronto circa le tesi del revisionismo crociano –, con un simile modello statico-astraente, concernendo, invece, il dinamismo della dialettica storica. Il paradosso a ciò relativo consta integralmente, del resto, nel fatto che tale modello non configura alcun effettivo spostamento di campo nei riguardi della parcellarità riconducibile al versante fattuale, – con ciò esso designando pure un’altra possibile, implicita asimmetria –. Questo significa che l’esercizio di ricomposizione logico-storica dell’oggetto vien tentato – e non corrisposto – dall’esterno da parte dello scienziato-storico. Tale esercizio non pertiene all’unità processuale–differenziata delle determinazioni formali, e, dunque, attiene ad una mera misura di ricavo di un certo schema di movimento storico riguardante il succedersi cumulativo-seriale dei momenti lasciati emergere dalla bruta empiria. Con ciò Gentile riduce soggettivisticamente il plesso di nessi obiettivi cui si riferisce l’intreccio di unificazione e tendenza necessaria che nella nozione di previsione morfologica si concentra e che possiamo constatare esibito anche attraverso ulteriori accentuazioni formulate dal nostro; cosicché il marxismo si trova ad essere immerso – malgrado l’attribuzione dello statuto di autonomia – entro il versante dell’economicismo, e, d’altra parte, si risolve nell’ingigantimento – in virtù delle basamenta concettuali ad influenza kantiana del ragionamento, ma in un senso che ha poco a che fare con la modulazione neocriticistica, alla quale, invece, più sensibile si rivela l’ipotesi revisionisticocrociana – della ‘possibile’ movenza finalistica passibile del fontale riconoscimento nella filosofia hegeliana. Di qui si spiega la ragione del rinvenimento gentiliano nel marxismo di una catena che dalla ‘forma’ conduce allo sporgere dell’‘essenza’ (attesa come discriminata, evidentemente, dalla nozione di essa desumibile, comunque, volente o nolente, dall’ottica in esame)

risolta in chiave esclusivamente economicistica. «Ciò che v’è d’essenziale» – scrive l’autore di Castelvetrano – «nel fatto storico è per Hegel l’Idea, che si sviluppa dialetticamente; per Marx la materia (il fatto economico) che si sviluppa egualmente»70. A questa altezza, l’idea di ‘previsione’ adombrata da Gentile si risolve nella ‘constatazione’ degli elementi ‘virtuali’ compresi nelle emergenze fenomeniche, congruentemente ad una riorganizzazione concettuale conducente alla espulsione di qualsiasi residuo materialistico tout court non, si badi, in favore di una compiuta acquisizione della dimensione storica ma, all’opposto, in favore di una sorta di immanentismo ‘puro’71. Inoltre, possiamo nuovamente osservare come l’operazione gentiliana descriva una sorta di ‘doppio movimento’ consentito dal peculiare ‘incuneamento’ della presenza kantiana nel mezzo della rappresentazione problematica del sinolo Hegel-Marx, con lo scopo di restituire alla luce della sua influenza una precisa idea portante di soggettività. È bene cercare di chiarirlo con forza: ne La filosofia di Marx, – in virtù della sottolineatura di quella che Gentile definisce come l’ineludibile ‘ripugnanza’ del concetto di ‘prassi’ nei confronti della supposta pretesa di attribuire al ‘relativo’ lo statuto di determinabilità a priori, valente univocamente, stando al presente piano di discorso, per la onnicomprensibilità dell’‘assoluto’ (‘ripugnanza’ che inficerebbe la concezione materialistica della storia) –, ciò che prevale è la interlocuzione con una sorta di Labriola – potremmo dire – ‘immaginario’ e piegato a ben chiare esigenze argomentative.

5. La critica di Gentile alla concezione labrioliana del tempo storico Basti, a ulteriore conferma di quanto detto, volgere l’attenzione alla maniera in cui Gentile restituisce la concezione labrioliana del processo storico e dell’intervento della teoria rispetto ad esso, fissando l’attenzione sul alcune asserzioni enucleate nel secondo saggio. Giacché in tale testo – come sappiamo – il tempo storico si trova visualizzato, di contro ad ogni monocromo ed ingenuo modulo seriale, quale scorrente «sopra di una linea spezzata, che cambia spesso direzione e di nuovo si spezza, e in alcuni momenti gli è come rientrante, e alcune volte si distende, allontanandosi molto dal punto iniziale», designando «un vero zig-zag»; Gentile ritiene di dover notare, – rifrangendo anche l’ombra, con intento strumentale, di quella rigida discriminazione ‘struttura’/ ‘sovrastruttura’ che il Cassinate si era impegnato a fondo a criticare e superare (si rammenti esemplificatoriamente il significato implicito ed esplicito dell’immagine del terreno artificiale) –, «che questo è un tale zig-zag che la sua risultante riesce una linea retta»72. Così facendo, il filosofo siciliano rischia di rimuovere tutto lo spessore di una impostazione non costringibile nella fissazione dell’Endziel, – ed anzi ad essa alternativa – vertebrata, altresì, certo, dal coglimento della «necessità storica», laonde, però, essa venga attesa sul piano dell’esplicarsi della mediazione nella compenetrazione tra forma e prassi, – con il portato di svincolamento da qualsivoglia, eventuale torsione sul fronte di un monismo sprovvisto di ‘attrito’ dialettico-critico che essa reca. In definitiva, crediamo si possa dire che la concezione materialistica della storia si trova, così, ridotta da Gentile ad un meccanismo di astrazione corrispondente allo sceveramento di un ‘supposto’ sostrato essenzializzato-immanente dalla ‘accidentalità’ fenomenica. Gentile invera, inconsaputamente, lo schema a cui Labriola intende massimamente sottrarsi, corrispondendo il materialismo storico proprio, in sintesi, mutatis mutandis a molti aspetti della ‘teoria dai fattori’. Insieme a ciò, e congruentemente a ciò, continua ad operare nel ragionamento gentiliano, per un verso, la compresenza di ‘successione’ ed ‘immanenza’, per un altro verso, connessamente, un’accezione determinata delle nozioni di ‘tempo’ e di ‘processo’. Il filosofo di Castelvetrano proietta sulla batteria categoriale labrioliana un’idea di temporalità unilineare, non discreta per cui non è possibile attagliare alcuna misura di previsione alla struttura interna di questa – in vero composita e differenziata –, ma ‘previsione’ può darsi solo come constatazione della espressione fenomenica di una uniforme, indistinta ed autoidentica sorta di ‘immanenza’. Questa si trova, così, ad essere intrinsecamente entizzataipostatizzata, avendo quale corrisposto speculare, d’altro lato, lo scioglimento

del ‘processo’ nella giustapposizione di ‘fasi’ emerse per via meramente seriale73 (sarebbe tutto da approfondire il possibile raccordo della eurisi gentiliana della posizione del Cassinate e, in generale, del marxismo proprio al paradigma ermeneutico post festum crociano74). Osserviamo: due punti di vista così diversi come quello di Gentile e quello di Bernstein appaiono approdare a conclusioni talvolta avvicinabili in virtù della comune preponderanza – anche se espressa con strumenti concettuali lontanissimi fra loro – della influenza della matrice kantiana. Infatti, anche la meritoria ispirazione antifinalistica bernsteniana ripiega, incongruentemente, entro le maglie della cronologia e del modulo diacronico ‘semplice’, dato l’elemento di attuata elezione dell’empiria a terreno in ordine a cui organizzare la elaborazione concettuale avente a discriminato corrispettivo l’autonomia dell’etico-politico che, pur sorgendo, magari, da una proficua accentuazione rivolta alla inespungibile centralità della prassi, finisce di ridurre implicitamente – con chiaro pericolo di passività – il dinamismo accordabile a tale medesimo accento alla assunzione sic et simpliciter dei due piani, fra loro simmetrici, del riferimento normativo e del pragmatismo. Ne viene che, malgrado la sostanziale lontananza dalla tessitura categoriale, variamente formulabile, del neocriticismo (che abbiamo cercato di insistere in particolare per quanto riguarda il primo), tanto Bernstein quanto, in maniera diversissima, Gentile, stante il fondamentale ‘taglio’ kantiano del loro discorso, rilevano – come desumibile dal ragionamento sin qui condotto – alcuni punti comuni (con maggiore e minore evidenza) rispetto, poniamo, ai contorni dell’analisi di uno Stammler. La elaborazione labrioliana, a fronte del suo originale e contraddistintivo antifinalismo, al contrario, si trova sempre ben lontana da simili conclusioni, come dimostrano tanto l’impalcatura dei primi due saggi, quanto, poi, – specie per certuni motivi concernenti l’interlocuzione con Croce e con il marginalismo, ma anche, benché in termini ‘prodromici’, in senso ideale e prospettico, con lo stesso Bernstein –, quella del terzo. Ad ogni modo, entro tali contributi portanti della fase marxista labrioliana l’atteggiamento empirico-lineare nei confronti del tempo storico e della sua strutturazione interna viene rigettato in virtù della commisurazione della veduta complessiva del marxismo stesso al vincolo inscioglibile fra organizzazione sociale e determinazioni convergenti nel dinamismo della costituzione formalespeciale. Il sistema mobile dei rapporti di forza si rivela tutt’uno con l’effettività della costruzione morfologica, esibendo l’intreccio di articolazione epistemica, sapere e diffusività del Politico. Al lumeggiamento labrioliano di tale nodo dedicheremo, avviandoci verso le conclusioni della nostra argomentazione, alcune ulteriori considerazioni.

6. Ancora sulla tendenza ‘critico-formale’ al monismo – Recupero di espansività del marxismo e specialismo Si è accennato in diversi luoghi del ragionamento a come il Cassinate abbia sempre guardato all’hegelismo e, retrospettivamente, alla sua giovanile formazione entro tale ambito, cercando di preservarne e potenziarne il nucleo produttivo in riferimento al tema dello scandirsi della mediazione storica nel mondo delle forme, la quale nel presente si manifesta con la rottura di ogni ‘separatezza’ rispetto al campo del Politico ed al nodo della statualità – inducendo il completo abbandono del profilo di ‘escrescenza’ attribuita ad essa –, così come esplicato dall’analisi, – raccordante l’impianto della Grande Logica alle Grundlinien –, di quella che Gramsci avrà a definire come la «trama privata dello Stato», certo da rapportarsi, per quanto riguarda lo specifico hegeliano, al problema della permanenza della ‘ricomposizione separata’ che la determinazione egemonica dei gruppi intellettuali porta con sé (donde deriva una certa accezione dell’‘astratto’) e che, invece, Labriola, a livello analitico, tenta di oltrepassare, superandone lo statuto tradizionale75. Del resto, lo sguardo verso la costituzione delle forme speciali si riverbera non solo sul versante, al quale dovremo tornare a dar rilievo fra poco, della tramatura egemonica della ‘riduzione’ coimplicata intrinsecamente alla disposizione plurale delle cerchie all’altezza del presente storico, – le quali appaiono ridislocabili e riconfigurabili, a fronte di nuove condizionalità reali, ma che nel momento dell’imbozzolamento autoreferenziale connesso alla scomposizione capitalistica, che pur rivelantesi de facto intieramente permeata dalla diffusività del Politico, risultano lambite dall’‘irrazionale’ –, di cui il valore-lavoro rappresenta la più efficace ‘cartina al tornasole’, ma pure sulla avvicinabilità di esso versante, per esempio, alla valenza preliminare dell’incrocio fra scienza e storia convogliato nel motivo del ‘terreno artificiale’. È assolutamente erroneo, secondo Labriola, considerare le forme in qualità di mero ‘prolungamento’ della ‘natura’. In esse la realtà si rende plastica ed consustanzialmente a queste si staglia il ritmo dei saperi particolari. Il superficiale richiudersi di tali forme che si dà come ‘punto di approdo’ della effettività dei rapporti di forza ‘attuali’, che cela gli oggettivi vincoli di interdipendenza corrispondenti, e definisce anche il mobile ‘punto d’inizio’ connesso all’apertura di uno scenario di ricomposizione in grado di esaltare le differenziazioni a muovere giusto dall’attrito delle forze storiche per entro il «complicato ingranaggio della società». Ciò che, tuttavia, consente l’apertura di tale scenario è proprio l’emersione del potenziale critico coesteso alle forme – la loro ‘autocritica’ –, raccoglientesi, – e si tratta, anche in questo caso, di un aspetto massimamente lumeggiato dalla teorica del valore e

dalla tematizzazione che Labriola ne fornisce –, nella dimensione costitutiva della contraddizione che si pone, a sua volta, secondo una modalità squisitamente internata e internante in rapporto alla quale emerge la caratterizzazione della dialettica come ricognizione egemonico-dinamica della trama delle sezioni speciali. Trama aderente tanto alla pluridirezionalità del tempo storico – connotabile dalla compresenza di continuità e sincronia –, quanto alla effettività della morfologia sociale. Parliamo della dialettica come incomprimibile a mera circolazione modulare compresa in una o in un’altra cerchia speciale76, pena, in fin dei conti, proprio l’appiattimento inerte sull’‘irrazionale’ in quanto livello ‘di prima istanza’ (di cui lo scambio ineguale dovuto alla formazione del plusvalore definisce l’originario schema di movimento), esigente una adeguata terapia di riqualificazione e di superamento. È anzitutto in ragione degli aspetti appena rammentati che, in sostanza, non si rifletterà mai abbastanza sull’intimo collegamento, entro la posizione di Labriola, fra il sostanziarsi della ‘scoperta’ del marxismo nel «rapporto tra [questo] e [lo] specialismo» (B. De Giovanni77) ed il complessivo ruolo storico della teoria. Se ne ricava, chiaramente, anzitutto che – come già abbiamo segnalato – l’opera di riunificazione svolta dal materialismo storico in quanto tendenza critico-formale al monismo si rende possibile e legittima non già come soluzione di mera ‘sistemazione organica’ dei distinti saperi e ruoli specialistici, bensì in quanto opzione di riconoscimento dell’irrompere della dimensione politica nel loro proliferare e tentativo di individuazione dei nessi e degli incroci che questi intrattengono. In definitiva, dall’angolatura labrioliana, non può darsi ricomposizione al di fuori di una adeguata determinazione e qualificazione della funzione produttiva delle diverse sezioni speciali. Di qui, il marxismo si configura, dunque, esso medesimo, in foggia di campo speciale svolgente una precisa funzione di medium teorico in vista della iterazione dinamica con l’intiera trama delle cerchie. Iterazione capace di ‘spingere in avanti’ il processo di ricomposizione e, perciò, di mutamento della connotazione assunta dalla medesima organizzazione dei rapporti e della concernente collocazione e configurazione soggettiva. Si tratta, del resto, di aspetti ben guadagnabili a fronte dei risvolti considerati della tematizzazione labrioliana del valore-lavoro e della articolazione d’insieme della riproduzione sociale. Aspetti che occorre ricondurre, nei loro lineamenti generali, alla esibizione di una precisa tendenza critico-formale al monismo. Come sappiamo, soprattutto nel Discorrendo il Cassinate mira ad affermare l’autonomia del marxismo in alternativa, anzitutto, tanto all’idealismo quanto al materialismo naturalistico, – cosa resa chiarissima dall’accento sullo snodo

decisivo della storicizzazione della natura fisica, il quale ne consente, perciò, la discriminazione del perspicuo carattere rispetto alle scienze naturali in virtù di una esplicita visuale dialettico-genetica. Il materialismo storico emenda il monismo, liberandolo da ogni ipoteca di tipo intuizionistico, ed autoprofilandosi in quanto «parte della praxis». Siffatto plesso di caratterizzazioni si ricava facilmente dalla saldatura tra la tendenza critico-formale, commisurata all’approccio appena sintetizzato, ed il «tenersi equilibratamente in un campo di specializzata ricerca». Il connotato unitario del marxismo si rende restituibile, dunque, con la formula – assolutamente strategica, segnante un punto fondamentale – monismo + specialismo, la quale manifesta tutta la densità del contenuto politico che gli è proprio nella cifra dell’impegno per una determinata ricomposizione del sapere in virtù dell’attraversamento diagonale delle sue sezioni, in grado di evitare da ogni lato la scissione tra teoria della storia e critica dell’economia. Bisogna, insomma, definire le basi analitiche per la riconfigurazione dialettica delle forme capace di coinvolgere l’intiero arco delle cerchie, senza mai obliarne tutta la complessità del portato speciale78, – magari ‘occultata’ dai modi della loro autopresentazione, connessa al sinolo dilatazione-riproduzione, alla sua tensione interna, tipizzante il segno egemonico del processo di formalizzazione di spezzoni di razionalità autoreferenzialmente presupposti e, d’altra parte, contraddittoriamente coincidenti con quell’indice di ‘irrazionalità’ che, per esempio, come ormai sappiamo, il quadro di forze e ‘impedimenti’, spinte e controspinte focalizzato dal paradigma della ‘utilità marginale’, nelle varie declinazioni, lascia emergere, richiamando alla stringente esigenza di un attento vaglio per la ricognizione. Siamo, quindi, di fronte, ancora una volta, al problema di scorgere nella particolarità delle forme proprio la diffusività del Politico, stringendo come il portato di espansività integrale di esso si riveli in compresenza al diffondersi della molteplice segmentazione-autonomizzazione formale. In questo quadro possiamo arrivare a comprendere in che senso il riferimento egemonicamente determinato all’idea ed alla effettiva disposizione degli intellettuali in quanto ‘ceto separato’ (cui pertiene l’ideologia della storia come storia degli intellettuali) sia ponibile in simmetria rispetto ai termini cogenti della autonomizzazione formale. Badare bene: il richiamo alla declinazione critico-formale dell’istanza unitaria (il monismo) consente, d’altra parte, di evitare di appiattire la dinamica speciale afferente al marxismo sulla configurazione res sic stantibus del composito arco delle sezioni del sapere, precisando, altresì, anche in tale direzione il ruolo mediatore della teoria proprio in ordine al guadagno della centralità del fattore dialettico. Nella estrema maturità del percorso il Cassinate si volgerà a provare a ‘dare le

gambe’, a fronte delle problematiche acquisizioni appena riepilogate, ad uno sforzo di ricostruzione logico-storica dell’oggetto aderente alla riclassificazione di certi legami genetici determinati per entro l’elaborazione di particolari ipotesi storiografiche. Mette conto ora di approssimare brevemente alcuni elementi della estrema stagione del pensamento labrioliano. 179

Malgrado i limiti della sua prospettiva, è certo da aggiungere a questi il nome di Max Adler, alle cui posizioni già abbiamo fatto cenno. 1 A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 17 novembre 1898, raccolta in Carteggio, IV cit., p. 673. 2

Sempre nella missiva a Croce del 17 novembre ’98 Labriola aveva scritto: «Il Bernstein prepara un libro su ciò che ora è valido del marxismo» (Ivi). 3 In merito agli aspetti ora evocati del rapporto Labriola-Bernstein cfr. G. PROCACCI, Antonio Labriola e la revisione del marxismo cit., pp. 266-268. 4 Cfr. R. RACINARO, Labriola e il ‘procedimento dialettico’ cit., pp. 128-129. 5 Infra, p. 1504 (corsivo nostro). 6 Infra, p. 1179. 7 Cfr. G. VACCA, Il marxismo e gli intellettuali cit., pp. 38-39. 8 Interessanti valutazioni in proposito sono state formulate da E. GARIN in I saggi sul materialismo storico cit., p. 141. 9 Si faccia attenzione all’aspetto che tale elemento, di cui vengono fatti usi epistemici particolari diversi – basti pensare a Sorel –, consente di abozzare in merito al possibile raffronto con la perspicua prospettiva weberiana: convergendo ambedue, più o meno esplicitamente, sulla necessità di una verifica complessiva dell’universo teorico-sistematico marxiano, mentre Bernstein sembra enfatizzare un atteggiamento di esclusiva valorizzazione dell’elemento fattuale esposto, almeno sotto certi aspetti, all’assorbimento lungo la linea positivistico-riflessiva, Weber si concentrerà, comunque, sullo scopo di raggiungere un’adeguata ricognizione della fenomenologia delle condizioni sociali e di ‘rilanciare’ il portato di costruttività politica della teoria. Su questo tema, benché con accentuazioni che non possiamo intieramente condividere (specie per quanto riguarda lo stesso Bernstein), è importante la lettura del saggio di G. ZARONE, Bernstein e Weber: revisionismo e democrazia, in «Studi storici», 2, 1978, pp. 255-298. 10 In essa Engels muove da considerazioni legate alla vicenda intellettuale propria e di Marx per poi pervenire alle evocate osservazioni più generali: «Chi ha in qualche maniera seguito il colossale sviluppo della letteratura socialista internazionale durante gli ultimi dieci anni» – egli osservava – «e specialmente il numero delle traduzioni di precedenti lavori di Marx e miei, mi darà ragione se io mi rallegro del fatto che è molto limitato il numero delle lingue per le quali io potevo essere utile al traduttore e avevo quindi il dovere di non sottrarmi a una revisione del suo lavoro. Lo sviluppo della letteratura socialista, però, era solo un sintomo del corrispondente sviluppo del movimento operaio internazionale. E questo mi impone nuovi doveri. Dai primi giorni della nostra attività pubblica, una buona parte del lavoro di contatto fra i movimenti nazionali dei socialisti e degli operai ricadde su Marx e su di me: questo lavoro aumentò col rafforzarsi del movimento nel suo complesso. Mentre, però, anche in questo settore, Marx, si era assunto, fino alla sua morte, l’onore maggiore, da allora in poi il lavoro sempre crescente ricadde solo su di me. […] Chi, come me, è stato attivo per oltre cinquant’anni in questo movimento, considera i lavori che ne derivano un dovere irrecusabile e da compiersi senza indugio. Come il sedicesimo secolo, così nella nostra età movimentata, si trovano teorici puri nel campo degli interessi pubblici solo dalla parte della reazione ed appunto perciò questi signori non sono più dei veri teorici, ma semplici apologeti della reazione stessa» (F. ENGELS, Introduzione a K. Marx, Il Capitale, III cit., pp. 9-10, corsivo nostro).

11

Per alcune delle osservazioni ora formulate – benché con una certa differenziazione di sfumatura – siamo per molti versi debitori, ancor una volta, a R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 75-77. 12 Infra, p. 1395. 13 In proposito restano valide molte delle considerazioni formulate da F. PAPA in L’altra Germania cit., pp. 29-40. Per numerosi versi, in virtù di ragioni determinate desumibili dal complesso del ragionamento qui svolto, quella di Labriola appare come la principale tematizzazione, assieme a quella di Bernstein (ma con elementi di maggior lucidità la cui evidenziazione è anch’essa compresa nell’interpretazione da noi proposta), del nodo del pluralismo politico-sociale in un ambito precedente a quella di Lenin e al capitale apporto di Gramsci nello scenario della cultura politica del movimento operaio. Inoltre, ancora una volta, una riflessione apposita si dovrebbe dedicare alle tesi di Max Adler. 14 Il primo dei saggi kautskiani sulla Krisentheorien cui ci riferiamo apparve sul n. XX (1901-1902) della rivista e si può leggere ora in K. KAUTSKY, Teorie della crisi, Guaraldi, Rimini-Firenze 1976. 15

Cfr. in proposito alcune interessanti suggestioni formulate da M. CACCIARI in Pensiero negativo e razionalizzazione cit., p. 35. La debolezza di un’ipotesi ‘integralmente disalienante’ che dalla II Internazionale trapasserà in certi aspetti del soviettismo e nella relativa organizzazione della divisione del lavoro (benché la questione attenga assai più, in termini di riflessi analitici, alla fase postleniniana che allo specifico della prospettiva teorica di Lenin, la quale esige – come già indirettamente richiamato – un’apposita parallelizzazione critica rispetto alla riflessione weberiana, a fronte, anzitutto, della capacità di antevisione di quest’ultima e delle problematiche che essa, appunto, pone) è colta dallo stesso Weber nella celebre conferenza del ’18 agli ufficiali dell’esercito austriaco, leggibile in italiano, nell’edizione Savelli del 1979, e su cui cfr. il saggio di ID., Weber e la critica della ragione socialista, contenuto in tale edizione (pp. 81-110) e le osservazioni di F. PAPA in La Russia verso la rivoluzione del ’17 – Max Weber e la questione del socialismo, Cacucci, Bari 1996, pp. 103-136. 16 Anche tale individuazione, tuttavia, patisce di alcuni limiti, a cominciare da quello rappresentato dalla parziale oscillazione verso la feticizzazione delle forze produttive. Esemplare è a tal proposito il passo del Discorrendo ove Labriola afferma: «Ora che si apre innanzi ai nostri occhi questa prospettiva che la società, cioè, possa essere organizzata in modo, da dare a tutti i mezzi di perfezionarsi, noi vediamo chiaro, che tale aspettativa diventa plausibile, precisamente perché, col crescere della produttività del lavoro, si stabiliscono le condizioni materiali occorrenti a comunicare a tutti gli uomini la civiltà» (infra, p. 1469). 17 Cfr. in proposito le osservazioni presenti in F. PAPA, L’altra Germania cit., pp. 19-28. 18

Per quanto riguarda Croce, sul piano dei testi a carattere di impegno non integralmente teoretico, assai esplicativi risultano il già citato scritto – ricco di pluriverse implicazioni – Il partito come giudizio e pregiudizio cit., e quello titolato I partiti politici, raccolto in Etica e politica, Laterza, Bari-Roma 1967, p. 189 e ss. (ma in proposito occorre considerare tutto il volume). Per quanto riguarda invece le precise indicazioni critiche di Gramsci il riferimento va, anzitutto, al § 41 del Q. 10. 19

Per la ricostruzione di essa cfr. P. ANGEL, Eduard Bernstein et l’évolution du socialisme allemand,

Didier, Paris 1961, pp. 288-298; ed occorre qui almeno rammentare le note osservazioni di K. VÖRLANDER, Die neukantische Bewegung im Sozialismus, in «Kant-Studien», Bd. 7, 1902, pp. 68 ss. 20

E. BERNSTEIN, Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich? Verlag der Sozialistischen Monatshefte, Berlin 1901, p. 20. 21 Ibidem. 22

Sull’austromarxismo e sulle sue peculiari connotazioni teorico-categoriali cfr. i lavori, che si muovono anche su direttrici concettuali distinte dalle presenti, di G. MARRAMAO, Austromarxismo e socialismo di sinistra fra le due guerre, Milano 1977; Il politico e le trasformazioni. Critica del capitalismo

e ideologie delle crisi tra anni venti e anni trenta, Dedalo, Bari 1979, pp. 153-192, Tra bolscevismo e socialdemocrazia: Otto Bauer e la cultura politica dell’austromarxismo, in Storia del marxismo, III, 1, Einaudi, Torino 1980, pp. 241-301 (soprattutto per quanto attiene alla fase intorno al 1917 e successiva, che fuoriesce dal presente ambito di riferimento); ed il già richiamato volume di N. MERKER, Il socialismo vietato cit.. 23

Una simile indicazione meriterebbe, tuttavia, un’apposita, adeguata problematizzazione ora non

svolgibile per ragioni di economia testuale. 24 E. BERNSTEIN, Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich? cit., p. 22. 25

A. ZANARDO, Marxismo e neokantismo in Germania fra Ottocento e Novecento, in ID., Filosofia e socialismo cit., p. 129. 26 E. BERNSTEIN, Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich? cit., p. 22. 27 Ciò è affermato, in nota alla X lettera, laddove viene segnalato come, appunto, Bernstein del tema criticamente «trattò di recente, e con molta abilità, in alcuni ingegnosi articoli della “Neue Zeit” […] e molti, cui veniva la botta», aveva a celiare, con la consueta sagacia, Labriola, «avran detto: tocca a noi?» (infra, p. 1503). 28 È solo in tal senso che, crediamo, entro l’ottica labrioliana, è legittimo assumere un riferimento produttivo all’idea di ‘tempo storico lineare’, quasi a rinviare ad un diverso discretamento, ad una diversa accezione non seriale dello svolgimento storico rispetto alla contingente scomposizione delle forme; orientando verso ciò – in termini alternativi alla ricostruzione di ogni orientamento alla trasformazione nell’alveo del ‘mito’ proposta da Sorel – la mobilitazione, con gradi differenti di consapevolezza (del resto, l’istanza di una risposta all’‘offensiva’ di «simboli e bandiere dell’antimarxismo» può essere recepita in tal senso); senza, però – è bene ribadirlo –, assecondare alcun obiettivo di ‘deformalizzazione’ integrale, ma riarticolando in vista della ricomposizione la trama politica della morfologia cognitivo-sociale connessa all’intiero arco della riproduzione. 29 Prosegue in proposito ancora Labriola: «Cotesti dogmatici delle idee a buon mercato dimenticano diverse cose. In prima, che il futuro, appunto perché è il futuro, che sarà il presente quando noi saremo il passato, non può costituire il criterio pratico di ciò che noi dobbiamo fare al presente. Sarà ciò cui si arriverà, – ma non è la via per arrivarci» (infra, p. 1503). 30 Ibidem. 31 32

E. BERNSTEIN, Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich? cit., p. 33. Il tema della separazione permanente tra ‘concetto astratto’ ed empiria presiedente alla formazione dei

concetti nelle scienze esatte – dunque aventi basamenta prettamente naturalistiche – si trova ampiamente problematizzato nel I e nel IV capitolo di E. Cassirer, Sostanza e funzione, cit.; con ciò già esibendo l’aspetto di sintonia e, insieme, la netta distanza di profondità fra uno dei pensatori-cardine del neocriticismo, nella sua fase avanzata, ed il kantismo di cui Bernstein si avvale. Nel I capitolo, fra l’altro, leggiamo, a muovere dal nodo dell’‘analisi psicologica’: «La ‘psicologia dell’astrazione’ possiede […] la vera chiave del significato logico di ogni forma concettuale. Questo significato risale, in definitiva, alla semplice capacità di riproduzione di determinati contenuti rappresentativi. Degli oggetti astratti sorgono in chiunque esplichi una attività rappresentativa e abbia visto presentarsi, nelle ripetute percezioni, determinazioni uguali dell’oggetto percepito. Queste determinazioni infatti non rimangono limitate ai singoli elementi della percezione, ma lasciano certe tracce. Siccome queste tracce, che sono da ritenersi inconsce nel tratto di tempo intercorrente tra la percezione reale e il ricordo, vengono risvegliare da nuovi stimoli della stessa natura, si forma a poco a poco un nesso sempre più saldo fra gli elementi simili di percezioni successive. L’elemento distintivo perde sempre più terreno; esso forma alla fine soltanto più uno sfondo oscuro, sul quale risaltano tanto più chiaramente i tratti costanti. La progressiva condensazione di questi tratti coincidenti, il loro fondersi in un inseparabile tutto unitario rappresenta l’essenza psicologica

del concetto, il quale in tal modo per la sua origine e per la sua funzione non è nient’altro che un complesso di residui mnemonici lasciatici dalle percezioni di cose e di fatti reali. La realtà di questi residui si dimostra nel fatto che essi esercitano sull’atto stesso della percezione un influsso speciale e indipendente, giacché ogni contenuto nuovo che compare viene colto e interpretato conformemente ad essi. Qui ci troviamo dunque – come talvolta viene affermato dagli stessi rappresentanti di questa concezione – in un punto di vista strettamente affine a quello del ‘concettualismo’ medievale: le nozioni astratte, oggettive e verbali, possono essere ricavate dal contenuto delle percezioni, perché sono realmente contenute in esse come parti costitutive costanti. La differenza fra il modo di considerare ontologico e quello psicologico consiste solo in questo, che le ‘cose’ la Scolastica significano l’ente riprodotto nel pensiero, mentre gli oggetti, di cui qui si tratta, non vogliono essere altro che contenuti della rappresentazione. Ma per quanto possa sembrare importante questa distinzione, dal punto di vista della metafisica, non viene toccato con essa il problema puramente logico nella sua formulazione e nel suo contenuto. Se si rimane nell’ambito di questo problema, si manifesta qui un comune convincimento, che rimane immutato e apparentemente inattaccabile in tutti i cambiamenti della questione. Ma proprio in questo punto, che sembra inizialmente sottratto alla polemica delle opinioni, comincia la vera difficoltà metodologica. La teoria del concetto che qui venne sviluppata è una sufficiente e fedele immagine del procedimento che viene applicato nelle scienze concrete? Abbraccia e domina tutte le singole caratteristiche di questo procedimento e le può presentare nel loro nesso e nella loro natura specifica? Per la teoria aristotelica, almeno, alla domanda si deve rispondere negativamente. I ‘concetti’, che in definitiva Aristotele cerca e a cui il suo interesse è principalmente rivolto, sono i concettigeneri della scienza naturale descrittiva e classificatrice. La ‘forma’ dell’ulivo, del cavallo, del leone è ciò che si tratta di raggiungere e di stabilire. Quando egli abbandona il terreno del pensiero biologico, la sua teoria del concetto non si può più sviluppare in modo del tutto naturale e spontaneo. Sono in particolare i concetti della geometria che fin da principio resistono al tentativo d’inserirli nel consueto schema. Il concetto di punto, di linea, di superficie non può essere mostrato come parte diretta del corpo fisicamente presente, e quindi essere da esso separato per semplice ‘astrazione’. Già di fronte a questi semplicissimi esempi, che sono forniti dalla scienza esatta la tecnica logica si vede posta di fronte a un compito nuovo. I concetti matematici, che nascono mediante una definizione genetica, si distinguono dai concetti empirici, che vogliono essere soltanto la riproduzione di certi tratti effettivamente esistenti nella realtà delle cose. Se in quest’ultimo caso la molteplicità delle cose sussiste in sé e per sé e deve soltanto essere raccolta in un’espressione abbreviata linguistica o concettuale, nel primo caso invece si tratta appena di creare la molteplicità che forma l’oggetto della considerazione, in quanto da un semplice atto del porre viene prodotta per sintesi progressiva una connessione sistematica di creazioni del pensiero. Qui pertanto alla semplice ‘astrazione’ si contrappone un atto speciale del pensiero, una libera produzione di determinati nessi di relazioni. Si comprende facilmente che la teoria logica dell’astrazione abbia sempre tentato, ancora nella sua forma moderna, di cancellare questa opposizione, poiché su questo punto si decide la questione del suo valore e della sua intrinseca unità. Ma questo stesso tentativo conduce tosto a una trasformazione e dissolvimento della teoria per il cui vantaggio viene intrapresa. La teoria dell’astrazione perde qui o la sua validità universale, o lo specifico carattere logico che originariamente le apparteneva») (Ibidem, pp. 19-21). 33 Anche in proposito, la critica labrioliana a Bernstein e quella di Gramsci, – che pure, nel ‘revisionismo’ sembra riconoscere la tendenza teorica intera alla Seconda Internazionale più vicina al suo ‘programma di ricerca’, dato il comunque esplicito ‘intento’ (non adempiuto) antieconomicistico di essa –, appaiono fortemente avvicinabili. Sul rapporto di Gramsci con Bernstein (rispetto al quale occorre, anzitutto, far riferimento al § 26 del Q. 16) ha interessanti osservazioni (anche se, ci pare, da ulteriormente problematizzare) M. MONTANARI nella Introduzione alla edizione da lui curata di A. GRAMSCI, La questione meridionale, Palomar, Bari 2007, pp. 38-39. 34

E. BERNSTEIN, Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich? cit., p. 67. Ibidem, p. 35. 36 Cfr., fra gli altri, in proposito F. PAPA, Razionalizzazione distruttiva cit., p. 37. 37 Cfr. in proposito – anche se con accenti diversi dai nostri – le importanti osservazioni di M. 35

CACCIARI nella Introduzione a M. WEBER, La Scienza come professione; La politica come professione cit., pp. XIV-XV. 38 E. BERNSTEIN, Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich? cit., p. 35. 39

Cfr. ID., I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1974, pp. 73-

132. 40

Infra, p. 1169. Per le considerazioni fin ora svolte siamo assai debitori alle problematiche osservazioni di R. RACINARO in Max Adler e il marxismo cit., pp. XXXVII-XXXIX. 41 Dopo aver detto – come riportato già più sopra – che la «dottrina del Manifesto […] non implicava […] la dipintura anticipata di una configurazione sociale, come fu ed è proprio delle antiche e nuove profezie e apocalissi», Labriola argomenta: «L’eroico Fra Dolcino non era sorto di nuovo a levar per le terre il grido di battaglia, per la profezia di Gioacchino da Fiore. Né si celebrava nuovamente a Münster la risurrezione del regno di Gerusalemme. Non più Taborriti o Millenarii. Non più Fourier, che aspettasse chez soi, a ora fissa, per gli anni, il candidato della umanità. Non era più il caso che l’iniziatore di una nuova vita cominciasse da sé a mettere in essere, con mezzi escogitati, e in modo unilaterale ed artificiale, il primo nocciolo di una consociazione, che rifacesse, come albero da germoglio, la pianta uomo: – come accadde da Bellers, attraverso Owen e Cabet, fino alla impresa dei Fourieristi nel Texas, che fu la catastrofe, anzi la tomba, dell’utopismo, illustrata da un singolare epitaffio, la calda eloquenza di Considerant che ammutolì. Qui non è più la setta, che in atto di religiosa astensione si ritragga pudica e timida dal mondo, per celebrare in chiusa cerchia la perfetta idea della comunanza; come dai Fraticelli giù giù alle colonie socialistiche di America» (infra, p. 1169). 42 In proposito restano fondamentali le osservazioni di E. GARIN in Il ‘positivo’, il positivismo e i positivisti, cit.. 43 Avevamo accennato a questo tema nel nostro precedente Morfologia, specialismo e teoria del mercato in A. Labriola cit., pp. 15-16, con accentuazioni che ora saremmo inclini a rivedere e problematizzare meglio specie riguardo al nodo, da ciò coinvolto, della dimensione naturale. 44 E. BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia cit., p. 266. 45

Sulla interpretazione gentiliana di Marx cfr. fra gli altri: U. SPIRITO, Marx e Gentile, raccolto in ID., La filosofia del comunismo, Sansoni, Firenze 1948, pp. 37-74; ID., Gentile e il socialismo, in ID., Dall’attualismo al problematicismo, Sansoni, Firenze 1976; A. NEGRI, Attualismo e marxismo in «Giornale critico della filosofia italiana», 1958, pp. 64-117; G. SEMERARI, Gentile e il marxismo, in Enciclopedia 76-77. Il pensiero di G. Gentile, Istitito della Enciclopedia italiana, Roma 1977, pp. 771-784; A. BRUNO, Marxismo e idealismo italiano, Firenze 1969; D. VENTURELLI, Labriola, Croce e Gentile interpreti di Marx, in «Giornale di metafisica», 1, 1979, pp. 349-602; N. DE DOMENICO, Gentiles PraxisPhilosophie und ihr Einfluss auf die Marx-Rezeption in Italien, in Arbeit und Reflexion, a.c. P. Furth, Köen, 1980, pp. 126-142; M. BISCIONE, Il tema del materialismo storico nella corrispondenza Croce-Gentile (1896-1899), in «Trimestre», XV, 1982, pp. 137-174; B. DE GIOVANNI, Sulle vie di Marx filosofo in Italia. Spunti provvisori, in «Il Centauro», 9, 1983, pp. 3-25; J. TEXIER, Croce, Gentile et le matérialisme historique, in Labriola d’un siècle à l’autre cit., pp. 165-178; V. VITIELLO, La prassi tra struttura e storia. Croce e Gentile interpreti e critici di Marx, in «Hermeneutica», IX, 1989, pp. 77-93; D. LOSURDO, Gramsci, Gentile, Marx e la filosofia della prassi, in Gramsci e il marxismo contemporaneo, a.c. di B. MUSCATELLO, 1990, pp. 51-114; A. TOSEL, Marx en italiques. Aux origines de la philosophie italienne contemporaine, Mouvezin, 1991; ID., Le Marx actualiste de Gentile et son destin, in «Archives de Philosophie», LVI, pp. 561-572; E. GARIN, Croce e Gentile interpreti di Marx, in Croce e Gentile fra

tradizione nazionale filosofia europea cit., pp. 3-13; P. Serra, Una critica al materialismo storico. Gentile su Marx, in «Il Cannocchiale», 2, 1993, pp. 69-81. Fra i testi generali, per quanto riguarda la trattazione di tale argomento, conviene, inoltre, ricordare: H.S. HARRIS, La filosofia sociale di G. Gentile, cit., pp. 4245; A. LO SCHIAVO, Introduzione a Gentile, Laterza, Bari 1974, pp. 11-13; M. DI LALLA, Vita di G. Gentile, Sansoni, Firenze 1975, pp. 67-68; A. NEGRI, Giovanni Gentile, I, La Nuova Italia, 1975, pp. 1618; ID., Il concetto attualistico della storia e lo storicismo, in G. Gentile. La vita e il pensiero, X, Sansoni, Firenze 1962, pp. 82-83; V. STELLA, Il pensiero sociale di Gentile negli studi del dopoguerra, «Giornale critico di filosofia italiana», 1, 1962, pp. 87-119; nonché la capitale Introduzione di E. GARIN a G. GENTILE, Opere filosofiche, Garzanti, Milano 1991. 46

In proposito ci sentiamo di assumere il celebre giudizio di A. DEL NOCE in G. Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1990, rispetto alla valutazione su questo specifico punto di E. GARIN nella sua pur bellissima e imprescindibile Introduzione cit., p. 40, ed anche di G. SASSO in Le due Italie di G. Gentile, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 317-388; benché le note conclusioni delnociane non siano per noi, d’altra parte, assolutamente condivisibili, a cominciare dalla identificazione fra ‘prassismo’ e ‘filosofia della prassi’ e dalla asserita continuità Gentile-Gramsci (su questo aspetto ci permettiamo di rinviare ancora al nostro La mediazione mancata cit., pp. 39-98). 47

La prevalenza di moduli kantiani nella filosofia dei giovani Benedetto Croce e Giovanni Gentile (con una curvatura anche lockeano-empiristica nel caso del secondo, ed assai attenta al neocriticismo nel caso del primo) è stata acutamente sottolineata, fra gli altri, da A. CHIELLI nel già menzionato La vita e il vivere cit., pp. 7-45. 48 Cfr. in proposito L. DAL PANE, La polemica su Marx e le origini del neoidealismo italiano. Il carteggio di A. Labriola con G. Gentile, «Rassegna economica», 1, 1968, pp. 7-28; M. AGRIMI, Labriola tra Croce e Gentile, in Antonio Labriola filosofo e politico cit., pp. 117-207. 49 50

A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 2 gennaio 1904 cit.. Cfr. in proposito le importanti osservazioni svolte da M. AGRIMI in Labriola tra Croce e Gentile

cit., p. 118. 51 G. GENTILE, Lettere a B. Croce (1896-1900), I, Sansoni, Firenze 1972. 52

Importanti osservazioni in proposito, benché in un generale quadro interpretativo che non crediamo di poter del tutto condividere, sono presenti in B. DE GIOVANNI, Sulle vie di Marx filosofo in Italia cit., pp. 3-15. 53

G. GENTILE, La filosofia di Marx, ora in ID., Opere filosofiche cit., p. 143. Sul più generale portato e percorso teorico-pedagogico labrioliano cfr., fra gli altri, A. ERBETTA, L’eredità inquieta di G. Gentile, Marzorati, Milano 1988; ID., L’uomo del dovere. A proposito di una polemica pedagogica, in «I problemi della pedagogia», XXXIX, 1993, pp. 251-269; e, soprattutto, G. SPADAFORA, Gentile e l’identità nella pedagogia, in Filosofia e politica. Studi in onore di G. Mastroianni, in «Bollettino filosofico del Dipartimento di filosofia dell’Università della Calabria», X, 1992, pp. 339-361. 54 G. GENTILE, La filosofia di Marx cit., p. 143. 55 56

Ibidem, pp. 136-137 (corsivo nostro). Su un simile equivoco si è soffermato da ultimo F. FROSINI in La religione dell’uomo moderno.

Politica e verità nei “Quaderni del carcere” di A. Gramsci, Carrocci, Roma 2010, pp. 67-68. 57 «Società» – scrive Gentile – «[importa] relazione: e la relazione non si tocca, né si vede, né si ode:

sensibili sono soltanto i suoi termini. Se concepite i termini con la loro relazione, dal senso ascendente all’intelletto, non negano il senso, ma di esso e dell’intelletto facendo una sintesi a priori, o necessaria che si voglia dire» (La filosofia di Marx cit., p. 220). 58

Cfr. M.R. ROMAGNUOLO, Note sul lessico marxiano tra Labriola e Gentile cit., p. 397. G. GENTILE, La filosofia di Marx cit., p. 121. 60 Ibidem, pp. 120-121. 61 Ibidem, p. 133. 62 Sulla incidenza di tale testo per la argomentazione sviluppata in La filosofia di Marx cfr. E. GARIN, Croce e Gentile interpreti di Marx cit.. Invece, sulla rilevanza generale di codesto scritto cfr., fra gli altri, M. CORRENTI, Le origini del pensiero di B. Croce cit., pp. 50-67. 63 Cfr. sul tema, in particolare, R. RACINARO, Metafisica e politica dopo Hegel – Gentile, Marx e Ugo Spirito, raccolto in Il futuro della memoria, cit., pp. 138-139 e G. SEMERARI, Gentile e il marxismo cit.. 64 G. GENTILE, La filosofia di Marx cit., p. 121. 65 ID., Lettere a B. Croce cit., p. 18. 66 Si potrebbe argomentare – e purtroppo non ci è dato farlo per ragioni di economia testuale – che in questa accusa Gentile rovescia, a contrario, il già rammentato elemento di influenza soprattutto da parte della filosofia lockeiana rintracciabile in un’opera come il Rosmini e Gioberti, – la quale pure appare contraddistinta, rispetto al quasi coevo La filosofia di Marx, da un’esigenza di preservazione della 59

mediazione –. Ad un tale aspetto ci rammarichiamo di non aver dato la dovuta importanza nel nostro precedente La mediazione mancata cit.. Interessanti accenni ad esso sono, altresì, presenti – ed anche ciò è stato sottolineato più sopra – in A. CHIELLI, La vita e il vivere cit., p. 99. 67

Per dirla in maniera sintetica (e certo inadeguata): se il pur geniale schema althusseriano di distinzione fra un ‘primo’ ed un ‘secondo’ Marx rileva molti aspetti di debolezza euristica, d’altra parte, occorre considerare come l’inclinazione alla ‘rottura della mediazione’ si rifletta solo residualmente nella matura elaborazione dell’apparato categoriale della Kritik der Politischen Ökonomie (diversamente, ci pare, dalla opinione espressa da B. DE GIOVANNI in Marx e la democrazia, il «Il Ponte», 8-9, 2006, pp. 54-66; ma già implicita in Marx e la filosofia della praxis, Cappelli, Bologna 1984). 68

In proposito ci permettiamo di segnalare un certo mutamento di accentuazione rispetto al nostro precedente La mediazione mancata cit., p. 87. 69 Cfr., anche se ci pare di scorgere una differente piegatura in merito a codesto aspetto rispetto alla lettura che nella presente sede ci permettiamo di avanzare, B. DE GIOVANNI, Sulle orme di Marx filosofo in Italia cit., p. 11. 70 G. GENTILE, La filosofia di Marx cit., pp. 41-42. 71 Osservazioni particolarmente acute in proposito sono state formulate da P. SERRA in Una critica del materialismo storico. Gentile su Marx cit., p. 78. 72 G. GENTILE, La filosofia di Marx cit., p. 126. 73 Per le osservazioni appena svolte siamo nuovamente debitori a R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 48-49. 74 Un esempio di utilizzazione in direzione peculiarmente ‘antipassivizzante’ del modello previsionale post festum proprio del revisionismo crociano è dato dal giovane GRAMSCI, specie con il già menzionato

articolo, del gennaio del ’18, La critica critica cit.. Cfr. in proposito F. IZZO, I Marx di Gramsci raccolto in ID., Democrazia e cosmopolitismo in A. Gramsci, Carrocci, Roma 2009, pp. 26-27. 75

Interessanti e ancor valide, benché sinteticissime, osservazioni in proposito si trovano, fra l’altro nell’intervento di F. PAPA entro la discussione seminariale compresa in R. BODEI – F. CASSANO, Egemonia e legittimazione cit., pp. 94-96. 76

Per le osservazioni svolte siamo debitori nei riguardi di B. DE GIOVANNI, Labriola e il metodo ‘critico’ cit., pp. 96-97. 77 Ibidem, p. 100 (corsivo nostro). 78 Per le considerazioni appena formulate siamo veramente debitori nei riguardi di R. RACINARO, La crisi del marxismo cit., pp. 221-226.

IX IL «QUARTO SAGGIO»

1. I moventi e il contesto del “Quarto saggio” Se il corso universitario di filosofia morale tenuto da Labriola nell’anno 19001901 ebbe argomentato analogo a quello tenuto nel 1896-1897, – ovverosia la delucidazione di una «propedeutica dell’etica» orientata in una direzione esplicitamente incentrata sul riscontro di precisi nessi obiettivi, dunque ben coerentizzabile con le tematiche evidenziate sin qui e riproponente anche motivi afferibili alla fase influenzata dall’herbartismo1 –; quello di filosofia della storia ebbe a concernere le tematiche del quarto ed incompiuto saggio, costituendone, evidentemente, un peculiare ambito di maturazione critico-problematica. Esso segna un punto di innegabile innovazione, per ragioni che nella presente sede non ci è possibile adeguatamente esporre2, e di manifesto approfondimento analitico-storiografico, intensificato, inoltre, in termini squisitamente teorici e non solo, nell’ultimo corso dedicato al problema dei «rapporti fra sociologia, filosofia della storia, storia e materialismo storico». Vi è da dire che l’idea di un “quarto saggio” compreso nel corpus dei contributi dedicati alla “concezione materialistica della storia” fu dal Cassinate richiamata in più d’una occasione, ma non può venir fatta coincidere linearmente con il merito effettivo dell’abbozzo configurato dalla quarantina di pagine stese a Castelgandolfo nel settembre del 1901. Del progetto del saggio troviamo un accenno in una missiva a Croce del gennaio 1899: «io per ora» – annota il nostro – «non avrei interesse a scrivere che queste due cose – a) un saggio col titolo storia narrata e materialismo storico per farla finita con questa faccenda diventata ormai plebeamente odiosa – b) di ristampare integralmente i miei due scritti sul determinismo, premessovi una introduzione lunghissima, che sarebbe un nuovo saggio a fondo»3 (in congruenza con gli argomenti non solo dei corsi del 1897-98, del 1898-99 ma anche del 1899-900, approfondenti la medesima questione del determinismo sulla scorta delle tesi espresse in quello del ’95-’96 e in quello, poc’anzi indicato, del ’96-’97). L’obiettivo era stato già annunciato nella missiva del 1 agosto 1898: «Io avrei in mente […] di ridurre in volumetto non tutte le mie lezioni – di questo anno trascorso (97-98), ma l’introduzione e l’epilogo ad esse. Queste lezioni furono intitolate “la caduta de l’Ancien Régime”. Effettivamente io non riuscii che a narrare le origini della rivoluzione

dal 27 aprile al 6 ottobre 89 – e poi giunsi fino alla presa di possesso dei beni ecclesiastici. Il resto (feudalità – classi – situazione d’Europa) ci entrò lateralmente come orientazione e spiegazione […] Ma preposi al tutto delle lezioni che possono assumere il titolo di “Sociologia, Ricerca storia e Filosofia della storia”. Una appendice potrebbe riassumere la parte materiale del corso. Con tale volumetto io avrei finito di dire tutto quello che posso dire sul materialismo storico, salvo non volessi scrivere un altro saggio col titolo di Polemica»4. Ne deriva che l’intento manifestato da Labriola nella presente missiva concerne soprattutto i contenuti del corso dell’anno accademico 19021903, da Croce raccolto, in forma di appunti, nell’edizione degli Scritti varii di filosofia e politica, e che, dunque, il progetto del quarto saggio, distinto da un’ulteriore ipotesi di impegno strettamente ‘polemico’5, ebbe a configurarsi, almeno in un primo momento, come distante dalle linee abbozzate successivamente nello scritto che ora esamineremo. I suddetti propositi non avranno seguito, e ciò che parzialmente prevarrà è proprio la contemplazione dell’obiettivo – esplicato, sempre a Croce, nel settembre del 1901, da Castelgandolfo – di «mettere in libro» il corso del 1900-1901 dedicato alle «caratteristiche del secolo XIX»6 (e di cui molti risvolti verranno ripresi in quello del 1902-1903). Vero è, però, che, in definitiva, si tratta di un approdo a carattere non unilaterale giacché in altri luoghi come la lettera a Croce del 15 agosto ’98 è chiara la coincidenza tra il progetto del quarto saggio e la tematica del corso universitario di quattro anni successivo e di cui Croce ha fornito documentazione. (Considerava Labriola in stretta aderenza alla congiuntura che aveva sotto gli occhi: «Visto che mi secco di tutto […] forse mi deciderò a comporre in questi due mesi fino al 15 di ottobre il IV saggio che deve intitolarsi Sociologia Ricerca storica e Filosofia della storia.», – tale progetto va complessivamente distinto, lo osserviamo, così, ‘di passaggio’, malgrado le ‘potenziali’ convergenze contenutistiche, rispetto alla effettività degli appunti del corso di filosofia della storia dell’anno 1902-1903, maturati sempre al principio del secolo e poi pubblicati postumi da Croce con il titolo Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico –, «La cosa mi è relativamente facile. Ci sono solo due difficoltà», s’interroga in proposito il filosofo di Cassino: «I miei appunti sono di lezioni. Posso io lasciare al volume la forma di lezioni? In secondo luogo io tradussi in quelle lezioni una lunga caratteristica comparativa dello Stato d’Italia nelle sue cause storiche, che dissi prima di Natale. Ora quella caratteristica pare una parodia dei fatti di maggio. E qui mi capita una terza osservazione. Quelle lezioni riguardano il modo di trattare la storia. Potrei io, in una specie di epilogo, riassumere ciò che ho […] trattato»7). Ad ogni maniera, il

frammento sembra assumere concretamente la veste della sintesi di un corso apposito volto a rielaborare i contenuti di alcuni precedenti e collegato ad essi da espliciti riferimenti, come confermato da molti suoi luoghi testuali. Abbiamo inteso evidenziare questi primari fattori genetici poiché essi attestano filologicamente la travagliata vicenda del concepimento e della concreta elaborazione del testo, giustificandone, almeno in parte, le ragioni della incompiutezza ed evidenziando l’incidenza di alcune matrici tematiche determinate. Si pensi alla caduta dell’ancien régime, la cui importanza appare, del resto, testimoniata dalla nota aggiunta all’edizione francese del Discorrendo e rifluita in quella italiana del 1902, esprimente un diretto richiamo al corso del ’97-98: l’analisi di questa fase periodizzante avrebbe dovuto consentire, nei progetti labrioliani, di esaminare i limiti e gli aspetti di forte crisi compresi nella vicenda di formazione della nazione italiana, entro il mutamento correlato al dischiudersi del moderno ed alla decisività dell’evento della Rivoluzione Francese8, – quale che sia il giudizio su di esso, certamente problematico, a fronte, anzitutto, dell’incrinarsi radicale dell’ideologia giacobina, in virtù dei suoi forti tratti di blocco di espansività circa la costruzione di un legame fluido fra intellettuali e popolo-nazione, nonché del suo carattere ideologico di ‘inmediatezza’ già capitalmente stigmatizzato da Hegel nella Fenomenologia –, cercando, inoltre, per dirla con le parole della lettera a Croce del 15 agosto del ’98, di guadagnare «la lunga caratteristica comparativa dello stato di Italia nelle sue cause storiche»9. Vi è anche da dire che il ruolo di alveo tematico del corso del ’97-98 appare centrale rispetto alla elaborazione in questione, giacché ancora alla fine del ’98 il nostro si trovò a ribadire la volontà di pubblicare «un volumetto dal titolo: Storia narrata e materialismo storico, rifondendo alcune lezioni dell’anno scorso e di questo anno», e con ciò rimarcando ed estendendo il campo del corso suddetto, così come riconfermato ai primi del maggio del ’99 («Forse metterò insieme per maggio l’opuscolo Storia narrata e materialismo storico»).

2. Un esempio di analisi genetico-dialettica in actu: l’abbozzo di ipotesi storiografica di Da un secolo all’altro Tale primario proponimento, ove torna, richiamando all’esigenza di una maggiore esplicazione, il nodo della compenetrazione fra Darstellung, ‘narrazione’ ed analisi genetica, non verrà, poi, svolto in questa precisa direzione, malgrado si possa considerare in ordine all’impalcatura desumibile dall’avvio di Da un secolo all’altro come tale generale problematica fosse stata intesa in quanto risolta in re nel pieno della ricostruzione storiografica. Ciò, del resto, appare operato anzitutto con l’immersione nell’indagine precipua delle drammatiche condizionalità della vicenda italiana. Scrive, infatti, Labriola nella nota lettera a Kautsky dell’8 ottobre del ’98: «In questi mesi volevo dare alle stampe un quarto saggio […], col titolo Storia narrata e materialismo storico. Ma le tristi condizioni d’Italia m’hanno adugiato e demoralizzato»10. Da una simile percezione, concernente le effettive difficoltà – a cominciare dalle misure repressive – che il movimento operaio e popolare veniva incontrando, insorse l’intenzione da parte di Labriola di immergersi nell’esame della maturazione dell’intreccio tra moderno e dimensione europea, rispetto a cui giustificare, attraverso la sottolineatura della stessa dissimmetria rispetto ad essa, il problema della nazione italiana. Parimenti, egli scavava nel plesso delle implicazioni delle questioni esibite dalla interlocuzione con i protagonisti del dibattito sullo statuto del marxismo (a cominciare proprio dal dialogo con Bernstein), – come ben dimostrato, fra l’altro, da Michele Ciliberto11 –, il cui principale riverbero si riscontra nell’impegno di revisione per la riedizione del Discorrendo. In definitiva, però, è possibile asserire che la redazione ultimativa del frammento di Da un secolo all’altro afferisca alla apposita introduzione al corso del 19001901. In tale corso Labriola non intese «narrare a perdita di vista la storia del secolo morente, ma intese di fare ciò che nel linguaggio degli ideologi si chiamerebbe rappresentare lo spirito del secolo», procedendo, secondo un approccio squisitamente realistico, per ampie tipizzazioni tematiche: dall’affermazione della definitiva fisionomia degli Stati borghesi-nazionali, alla prosecuzione della diffusione del liberalismo, alla configurazione della concorrenza e all’espansione coloniale, alla ‘scienza’ e ‘rinascenza’ cattolica, alla distribuzione specifica dei livelli di avanzatezza industriale; stabilendo i nessi fra i vari aspetti ed evidenziando «momenti di transizione fecondi di risultati». A premessa di una simile trattazione Labriola mirava a porre proprio i

‘punti fissi’ indicati nel frammento Da un secolo all’altro: la critica della concezione lineare presiedente alla nozione prevalente di ‘progresso’; la a ciò interdipendente sostituzione della data ‘estera’ con la data ‘interna’; e, poi, la motivazione della diseguaglianza dello sviluppo, delle misure di inclusione sociale e di affermazione delle soggettività politiche di rappresentanza; e, ancora, le difficoltà incontrate dall’affermarsi del processo democratico; gli snodi che la vicenda della statualità si trovava ad attraversare. Ora, l’orientamento della angolatura visuale verso la questione italiana, verso il suo coinvolgimento entro l’alveo europeo e verso l’asimmetria che essa determinava al suo interno, diveniva l’effettivo terreno di verifica degli assi centrali del processo di maturazione degli equilibri della stabilizzazione liberale, adombrandone gli elementi di crisi e segnalando, vieppiù, come le ‘tare’ e i ‘ritardi’ della storia italiana, connotanti la questione della sua integrazione nella cornice del moderno, domandassero la qualificazione di un adeguato modulo storiografico, e, a questa medesima altezza, la reimpostazione a fundamentis del ruolo politico del movimento operaio (si noti come, anche in proposito, sia d’obbligo tracciare un preciso raccordo ideale rispetto alla riflessione gramsciana). A fronte di un simile approfondimento, Labriola avrebbe desiderato dedicarsi al pieno vaglio delle caratteristiche della ‘società attuale’, stendendo proprio quel VI capitolo col cui incipit si interrompe il manoscritto12. Nel complesso, si direbbe che l’esigenza di verificare la cifra e le linee di frattura interne all’intreccio tra modernità e ‘evo liberale’ si ponga come la preoccupazione sulla quale si reggono le poche pagine del frammento. Donde il cimento dell’impegno analitico nella considerazione degli ‘arresti’ – e delle relative misure di consapevolezza rispetto a loro – che la vicenda italiana ebbe a subire venendo coinvolta entro tale intreccio, innestandosi con ritardi ed anacronismi in esso e, d’altro canto, già subendo i sintomi della crisi della stabilizzazione liberale. Ne viene che nell’abbozzo storiografico delle pagine in questione assume assoluto rilievo la funzione ‘di cornice’ della dialettica ‘arresti’/‘consapevolezza’ commisurata allo stesso generale legame della contemporaneità all’orizzonte complessivo del moderno13. Del resto, si affermava così la convinzione in merito alla opportunità di collocare all’altezza di tali nodi la riconquista di ruolo politico del movimento operaio e socialista di fronte al problema della nazione italiana, per la cui disanima imprescindibile appariva al nostro la considerazione del significato dei suoi ‘deficit’ di espansività, dovuti ad autentici blocchi e limiti organici. È in tale scenario che deve venir collocato l’ulteriore approfondimento della questione dell’intendimento del tempo storico, il quale mai si trova a scadere, in Labriola,

nel povero sociologismo (a cui sostrato vi è proprio la cognizione naturalisticolineare e progressiva). Infatti, la significatività di certune ‘date’ assunte in foggia di termini a quo ed ad quem definisce un criterio di investitura periodizzante14 precisantesi all’opposto di ogni omogenea serie cronologica. Scrive il Cassinate: Mentre discorro, come per prepararmi ad afferrare in un rapido sguardo lo stato attuale delle cose del mondo civile usando della occasione del secolo che muore, io vi ho già detto implicitamente che datando per aspetti così estrinseci le cose e i nostri pensieri sovra di esse, noi rendiamo semplicemente omaggio ad una illusione convenzionale. Il secolo non è, né una contenenza, né un contenuto. Non è nemmeno una cornice; e non occorre di notare, che non risponde a nessuna rivoluzione naturale. Qual somma arbitraria degli anni civili, che alla lor volta sono una certa tal quale approssimazione di un periodo naturale, sta lì a ricordarci una molto oscillante tradizione romana […] E poi cotesto periodo di anni fu riferito ad un’era cristiana tardivamente fissata per argomentazione. Il nostro esame ci porterà a sostituire a cotesto, come ad ogni altro, convenzionale schematismo di periodo uniformi, se mai ciò è possibile, delle date interne, che siano indici dello sviluppo reale delle società. Il secolo del quale cerchiamo le caratteristiche, a spiegazione del presente, non comincia veramente dalla prima pagina del calendario del 1801; ma chi sa mai dal 14 luglio 1879, o a un di presso, e come altro piaccia di datare il vertiginoso erompere dell’èra liberale15.

Un simile approccio appare coerente con il rifiuto del paradigma diacronicolineare di restituzione del tempo storico, ed appare volto, altresì, a segnare quei nuclei arroventati della articolazione storico-sociale (di cui sarebbe da studiare il grado di simmetria e asimmetria concettuale rispetto al motivo dei ‘plessi’ e, generalmente, della ‘epigenesi’) – le cosiddette ‘date sociologiche’, derivante dalla predilezione di un criterio squisitamente morfologico e non cronologico (già avanzato nel “Secondo Saggio”), cioè da intendersi all’insegna dell’intersezione di teoria della storia, teoria della società e teoria politica, che, in fin dei conti, ha da ricomprendere le altre due, ed in rapporto a cui vanno collegate le forniture analitiche della stessa ‘critica dell’economia politica’ – capaci di consentire, in ragione della loro modulazione interna, lo snodarsi dialettico di potenzialità e linee di tendenza riconducibili al traguardo della ricomposizione solidale del genere umano e, dunque, mai riducibili ad un indistinto ‘presagio’ prospettico. Ciò segna, come già si è potuto costatare, il passaggio di più forte discrimine rispetto ai moti di liberazione contraddistinguibili in termini di utopismo e concernenti prevalentemente la dimensione dell’accumulazione originaria e la ridefinizione del profilo della ‘ragione signorile’ di fronte al primo riassetto della relazione fra ‘città’ e ‘campagna’ (si pensi in merito anche al precedente recupero di importanza,

compiuto nel Discorrendo, della figura di fra Dolcino, sulla scorta, tra l’altro, del filtraggio di alcuni conseguimenti della scuola di Tubinga – di cui il nostro aveva una conoscenza ‘di prima mano’ – attuato dalla storiografia renaniana16; con tutto quello che ciò significa primariamente sul terreno della relazione fra piano dottrinale e pretta determinazione storica17). è nella presente direzione che va letta la continuità tra le pagine di Da un secolo all’altro e quelle dello stesso Discorrendo. Vale la pena sostare ancora sul motivo delle ‘date sociologiche’. Appare esplicativo in proposito il brano di considerazione generale presente nel IV capitolo, che segue: «Ricordare» – scrive Labriola – «i contrasti perpetuatisi per tutto il secolo […] accentuandone debitamente e sinceramente la importanza, mi parve e mi pare il necessario punto di partenza alla considerazione del tutto. La relatività del progresso resulta da tali accenni descrittivi a modo di naturalissima conseguenza dei ricordati o deplorati arresti; ed essa stessa alla sua volta avvia a meglio intendere il valore specifico e tecnico di ciò che io chiamo la data sociologica. Alla quale non sarei potuto venire se non fossi passato attraverso la critica di tutte le stravaganze profetiche e sibilline delle cosiddette età del mondo e di tutti i preconcetti di un qualsivoglia provvidenziale governo delle cose umane, che a queste assegni le sorti in un preordinato succedersi. Per cotesta dichiarazione realistica rimane costituita la nozione obiettiva di un evo avente caratteri proprii, e tra questi spiccatissimo quello della nota dominante della consapevolezza del procedere. Dalla vita vissuta siam passati alla vita compresa, e in qualche modo anticipata dal pensiero, e quindi capace d’essere in qualche modo voluta. Dal processo solamente attraversato o percorso siamo giunti al processo valutato»18. In contrasto con le tante varianti del ‘provvidenzialismo’ – il quale spesso, nell’orizzonte del moderno, si commuta in finalismo – Labriola focalizza le ‘date sociologiche’ in quanto momenti a valenza periodizzante in cui convergono opportunità di socializzazione e di appropriazione determinata e in riferimento a cui, d’altra parte, diviene possibile – a fronte della assunzione del primato del presente storico in qualità di leva logico-storica donde muovere per il vaglio di un certo avvicendarsi riclassificabile in termini storiografici (e non solo) – stringerne i limiti ed i fermenti reali collegati proprio ad innovativi, più avanzati modi di appropriazione. A tal proposito appare particolarmente significativo il confronto con il carattere del capitalismo concorrenziale19, da intendersi in ordine all’avvertimento in nuce della inclinazione alla ‘crisi organica’ della stabilizzazione liberale, di cui definisce il nucleo centrale. Confronto posto in parallelo, anzitutto, con il dinamismo della formazione e del conflitto sul terreno dell’influenza, e della ri-fondazione degli Stati nazionali, il

quale evidenzia pure, e prevalentemente, d’altra parte, tanto il perdurare di tensioni concernenti l’affermazione del principio dell’autonomia nazionale, quanto l’amplissimo sconfinamento del Politico al di là della coincidenza – su cui si è plasmata l’immagine della ‘universalità’ borghese – tra statualità e nazione, – recante il sedimento egemonico di tale crisi organica –. Siffatto fenomeno si trova tematizzato, in termini di indicazione storiografica, come segue rispetto allo scenario del moderno: «Qual maraviglia» – si interroga con finalità di argomentazione il nostro – «se la politica della conquista, della supremazia, della sopraffazione, dell’intervento da paese e paese, e della guerra, o fatta o soltanto o minacciata, sia stata e rimanga l’inevitabile conseguenza, il potere ausilio e l’istrumento decisivo della espansione capitalistico-borghese? Il principio di nazionalità, vuoi per fomento di spirito democratico, vuoi per fortunate circostanze, ha compiutamente trionfato nell’Italia, che nel suo recente assetto di stato unitario rimane di poco in qua da i suoi confini etnico-naturali. Per diverse vie, con minori garenzie democratiche, ma con impeto immensamente superiore di fattività […] e pur sempre nello stesso tempo, è venuta a maturità di grande stato una Germania nuova, povera di confini naturali, che male amalgama entro i suoi confini politici alcuni elementi stranieri, e lascia fuori dal suo perimetro un numeroso popolo di Tedeschi. E qui s’arresta il successo della nazionalità. Greci, Bulgari, Serbi, Rumeni – si son redenti sì; ma son essi rispettivamente così pochi, che, non potendo essere leva da muover la storia, rimangono manubrii dei più potenti […] Il certo è, che la dinamica politica che ha menato al presente, e non invero semplicemente temporaneo assetto, le combinazioni etno-economico-politiche che formano gli stati, ha sfidato e sfida la vigorosa logica del principio nazionale»20). È a fronte di siffatte argomentazioni generali che il Cassinate designa l’asimmetria del ruolo storicamente determinato della nazione italiana «rispetto alla concatenazione economico-politica del mondo civile attuale», formulando ben precise domande congruenti alla ricognizione dei caratteri effettivi della nazione: Dal 1870 in poi – scrive Labriola – è corsa insistente l’opinione, ripetuta anche da scrittori per altri rispetti degni di considerazione, che a risorgimento politico finito l’Italia sia riuscita inferiore all’aspettazione. Ma a quale – e di chi? All’aspettazione forse si rinnovassero l’Impero romano, i fasti dei Comuni medioevali, o simili altre cose, le quali non hanno ora più ragion di essere al mondo? La verità vera è che l’Italia, uscendo da secoli di effettiva decadenza, e passando poi per la tensione cospiratoria e per l’ardore delle rivolte, non ha portato nel nuovo assetto una proporzionata esperienza di politica moderna tant’è che fino ad ora la letteratura politica da noi presso che non esiste. La tradizione letteraria aveva invece creato e mantenuto in essere l’idea, o

meglio l’illusione di una storia sola e continuativa di quante mai vicende si fossero svolte a memoria d’uomini su la unità geografica della penisola; e come cotesta storia unica di un solo subietto […] fu tra i potenti motivi ideologici della riscossa, così a rivoluzione finita l’Italia è parsa troppo piccola al confronto della sua grande storia. A stato nuovo costituito con la capitale naturale, s’è finito per pigliar notizia più accertata e più tranquilla delle altre nazioni, e a riconoscere che per grande stato siamo troppo piccoli. Ed ecco a che mi riduce: il non aver corrisposto all’aspettazione. Al rimpianto di ragione immaginaria s’è venuto sostituendo questo problema pratico: quante garenzie di stato moderno offre ora l’Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace concorrente nella gara internazionale? Non si tratta – soggiunge il nostro, introducendo un ulteriore, significativo interrogativo – […] di riportare l’esperienza di questi ultimi trent’anni ad un qualunque ragguaglio di sognate glorie o di aspettati strepitosi successi, ma di rispondere al prosaico quesito formulabile così: la vecchia nazione italiana, componendosi a stato moderno, di quanto s’è trovata adattabile e di quanto s’è trovata difettiva di fronte alle condizioni della politica mondiale in genere?21

Le considerazioni appena ascoltate mettono in luce i contorni dell’ipotesi labrioliana di lettura dei caratteri originarii dello Stato nazionale, lasciando intravvedere i limiti profondi della unificazione di matrice risorgimentale, incapace come fu di conquistare un compiuto assetto statuale contrassegnato da un soddisfacente nesso europeo. Limiti dovuti, per prima cosa, alla preservazione della condizione di debolezza strutturale della società civile attribuibile al mantenimento dell’egemonia delle classi tradizionali, che soprattutto Gramsci approfondirà ‘ponendo a tema’ compiutamente la configurazione del rapporto fra città e campagna e la chance strategica connessa all’avviamento della nazionalizzazione democratica delle masse. Alle domande formulate nel brano di Labriola è implicita una risposta negativa. Per il filosofo di Cassino l’‘incongruenza’ si profilava come un tratto costitutivo dello Stato italiano, tanto per ciò che riguardava il collegamento di società politica e società civile, quanto per ciò che riguardava la collocazione nella concorrenza internazionale e nell’ordine egemonico mondiale. Tale ‘incongruenza’ definiva la difficoltà ed il riflesso preminente dei condizionamenti propri dei gruppi dirigenti che avevano guidato e governato l’unificazione italiana, configurando, così, un fattore ricorrente (anche se, a ben guardare, non assolutamente costante a tutti gli sviluppi successivi) nella loro ‘biografia d’insieme’. Si tratta, nel complesso, di conseguimenti sulla cui base avviare un abbozzo di quadro storiografico corrispondibile all’esigenza, – che abbiamo costatato manifestamente esplicata nella problematizzazione del nodo della Darstellung e della necessità di trattare il fattore genetico vivificandone e consentendone la riqualificazione del portato dialettico-storico attraverso il momento della ‘narrazione’ –, di ‘raccontare’ contenuti determinati al di sotto dell’ottica della

concezione materialistica della storia. Esigenza efficacemente propugnata nella missiva dell’agosto del ’94. Le forniture concettuali che da un simile cimento si rendono derivabili appaiono concepite in vista della conquista di un soddisfacente ruolo politico del movimento operaio entro la complessa iterazione fra livello nazionale ed internazionale, ed a fronte di una innovativa riconsiderazione categoriale commisurata alla comprensione unitaria, per via della penetrazione della sua composizione differenziata e delle relative acquisizioni epistemiche, del processo storico. 1

L. DAL PANE ha precisamente specificato come tale corso – incentrato sulla «ricerca relativa al come,

dalla coscienza comune prescientifica, ci si avvia a determinare la natura dei problemi etici» – fosse stato suddiviso in tre parti: «1) Analisi logico-critica di quei predicati che noi adoperiamo come predicati di apprezzamento della volontà e dell’azione; 2) Analisi psicologica delle condizioni interne per le quali si forma la volontà, al fine di sapere come possa, per effetto della determinazione interiore, costituirsi quel complesso di fenomeni che, come coscienza morale, massime, carattere, etc., fanno sì che i principi esaminati logicamente nella prima parte riappariscano, non come forme del pensiero astratto, ma come forze determinanti e come impulsi; 3) Analisi delle condizioni concrete della convivenza umana, in quanto sono il fondo reale dal quale piglia materia e occasione la formazione individua del carattere, o sul quale si elaborano, per astrazione, quei predicati di valutazione, che nella prima parte sono colti nel solo aspetto logico-critico» (Antonio Labriola cit., pp. 377-378). 2

Ma ci auguriamo di poterlo fare adeguatamente – anche per ciò che attiene ai risvolti di analisi

perspicuamente storiografico-politici prevalenti in tale testo – in una ulteriore occasione. 3 A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, gennaio 1899, in Carteggio, V, p. 10. 4

ID., Lettera a B. Croce, 1 agosto 1898, raccolta in Ibidem, IV cit., pp. 618-619. Nella quarta di copertina della terza edizione del Discorrendo, del 1902, veniva presentata come in preparazione l’uscita degli Appunti polemici. 6 Ibidem, p. 619. 7 A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 15 agosto 1898, raccolta in Ibidem, p. 625. 8 Ecco come DAL PANE riassume le argomentazioni dei corsi dedicati, negli anni 1897-99, alla fase che 5

va, – in distinte articolazioni – dalla Rivoluzione Francese alla crisi dell’Ancien Régime: «La pienezza dell’ideale dello storico, che era per il Labriola quello di narrare realisticamente la storia dì un determinato periodo, non fù effettivamente raggiunta, che negli ultimi corsi sopra la Rivoluzione francese, il solo punto della storia di cui si sentisse padrone. Ma anche qui la realizzazione completa del tentativo, che era stato preparato da più di un decennio di studi severi, fu stroncata dalla morte immatura del filosofo. Infatti negli ultimi corsi sulla Rivoluzione francese, la narrazione vera e propria non soddisfa ancora il Labriola, il quale avverte che continuerà ancora molti anni a trattare dell’argomento, per raggiungere un grado più alto di precisione scientifica e di perfezione artistica, alle quali mirava con tutte le sue forze. Abbiamo detto che il Labriola si era preparato con cura all’opera insigne. Infatti, fin dal 1888-89, – come sappiamo – aveva tenuto all’Università un corso sulla Rivoluzione francese. D’allora in poi era ritornato spesso sull’ argomento o di proposito, o per incidente. Restringendoci a dire delle più importanti trattazioni, ricorderemo la parte del corso 1894-95, dedicata a spiegare il gioco delle classi nel produrre la rivoluzione e nel risolverla; e i corsi 1897-98 e 1898-99 interamente consacrati alla narrazione di quel travagliato periodo storico. L’analisi di quello che eran le classi al momento in cui la Rivoluzione scoppiò, e delle classi che da essa risultarono e ad essa sopravvissero, è di carattere sociologico, in quanto segue la traccia embriogenetica ed indispensabile preparazione alla narrazione storica. Il Labriola combatte il volgare pregiudizio che la rivoluzione sia nata dalla lotta fra il Terzo Stato e i due ordini privilegiati. Questo

pregiudizio fa perdere di vista un fatto capitale, che, cioè, la società sia organizzata mediante diverse gradazioni e che i partiti si formano per combinazione. Così, nella nobiltà, accanto ai parassiti di corte, c’erano i nobili minori di provincia, che combattevano per le libertà locali contro l’autoritarismo del governo centrale, e i nobili sballati contrari alle due categorie precedenti, che soffiavano nelle agitazioni. Altrettanto nel clero. Quasi tutti i beni appartenevano all’alto clero e ai monasteri; i parroci, che esercitavano le vere funzioni ecclesiastiche, morivano di fame. Questi Ultimi diedero impulso e forza al trionfo del giugno 1889, come i sottufficiali e caporali si buttarono dalla parte del Terzo Stato nel luglio dello stesso anno. Anche il Terzo Stato non era una massa omogenea, ma variopinta e complessa. Comprendeva infatti capitalisti e professionisti, contadini ed artigiani, operai e proletari. Il Labriola esaminò le condizioni, i bisogni, le aspirazioni e la parte avuta da ciascuno di questi ceti nel moto generale della Rivoluzione. […] Negli anni 1897-98 e 1898-99 il Labriola affrontò in pieno la narrazione propriamente detta. Nel primo anno si fermò ad illustrare il momento catastrofico della fine dell’Ancien Régime dal 5 maggio al dicembre 1789; nel secondo parlò del periodo vero e proprio, acuto e vertiginoso della Rivoluzione, dai 5 maggio 1789 al 13 vendemmiale del 1795; l’uno fu più cronaca minuta, l’altro ebbe di mira specialmente le caratteristiche d’insieme. Lo studio genetico, nel corso, precede la parte narrativa. Bisognava rendersi conto della rivoluzione parlamentare, della sollevazione parigina e dell’anarchia spontanea della città e della campagna. Perciò il Labriola si propose e cercò di rispondere esaurientemente alle seguenti domande: quale era la natura del potere regio? quali erano gli organi dei poteri pubblici e loro relazioni con la società? quale la struttura (ossia la distribuzione in classi) di cotesta società che rovesciò quei poteri e si mise nella condizione di dover creare nuovi organi di amministrazione e di governo? quali gl’intenti, le idee, le tendenze degli uomini che si fecero condottieri e capi? sotto l’impero di quali convinzioni, persuasioni e pregiudizi essi si misero all’opera? Con questo esame preliminare i fatti che si raccontano acquistano significato e danno ragione di ciò che chiamiamo rivoluzione, cioè la. caduta violenta dell’ancien régime. Ma siccome questo passaggio da una forma di società all’altra, si è verificato in tanti altri paesi, o prima, o dopo, o contemporaneamente, in altre forme, con altri modi, cosi, per intendere le ragioni della catastrofe, fu necessario illustrare le cause dell’insuccesso delle riforme in Francia e i caratteri differenziali di questa nei rispetti degli altri paesi. Dopo questo lungo. preambolo, veniva la narrazione delle vicende della Rivoluzione fino al momento in cui si prepara la dittatura militare, quando, per salvare le libertà civili, si sacrificano le politiche; quando, per assicurare la posizione dei nuovi proprietari, si ristabilisce una costituzione di censo; quando, per mantenere la Francia nei suoi confini, si porta la guerra fuori di casa; quando, per rendere possibili le istituzioni della società egalitaria, si continua la persecuzione contro il clero. Qui, alla fine, le cause economiche della rivoluzione appariscono evidenti. “La storia della vendita dea beni nazionali ci rivela la chiave del tutto. La rivoluzione fu violenta, eroica, prolungata per la qualità degli impedimenti, pei nuovi che si creavano; e al postutto si vede che a un sistema di proprietà n’è stato sostituito un altro”». (A. Labriola cit., pp. 403-407). 9

A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 15 agosto 1898 cit., p. 625. Id, Lettera a K. Kautsky, 8 ottobre 1898, raccolta in Ibidem, p. 641. 11 M. CILIBERTO, L’idea di ‘società moderna’ in A. Labriola cit., pp. 79-83. 12 Alcuni dei riferimenti appena svolti si trovano organizzati nella nota introduttiva di L. DAL PANE alla edizione da lui curata di Saggi sulla concezione materialistica della storia IV – Da un secolo all’altro, 10

Cappelli, Bologna 1925, pp. 28-29. 13 Insiste su questi aspetti, seppure con accentuazioni che non ci sentiamo di condividere integralmente, M. CILIBERTO in L’idea di ‘società moderna’ in A. Labriola cit., p. 83. 14

Un sintetico ma assai efficace accenno a tale tematica è rilevabile, fra l’altro, nell’economia di un più generale discorso distante dai presenti argomenti, in L. CALABI, Il caso che disturba. Spunti e appunti sul naturalismo darwiniano, ETS, Pisa 2006, p. 19. 15 Infra, pp. 1655-1656. La peculiare incidenza di tali indicazioni è stata sottolineata, tra gli altri, da P. TOGLIATTI nella relazione al Comitato Centrale del PCI del giugno del ’61, laddove risultano venivano

poste in parallelo alla questione del protagonismo politico delle masse giovanili: «Antonio Labriola» – afferma Togliatti – «in uno dei suoi saggi interrotti, si batte attorno al problema di definire che cosa è un secolo e, dopo ampia discussione, conclude che ciò che conta non è la misura del tempo, ma è il contenuto dei processi che si compiono […] E credo che questo valga anche per il concetto di generazione nuova» (Per un analisi marxista della società italiana, raccolto in Togliatti e il centro-sinista 1958-1964, Cooperativa Editrice Universitaria, Firenze 1975, p. 691). 16 Cfr. N. BADALONI, Sulla dialettica materialistica della ‘liberazione’ cit., p. 15 17

Cfr. fra gli altri, M. CORSI, A. Labriola e l’interpretazione della storia cit., p. 129, ma anche M. ZANANTONI, Per una storia del cristianesimo primitivo in Labriola, raccolto in Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia cit., pp. 45-55, oltre, per alcuni aspetti, il già menzionato contributo di A. ZANARDO, A. Labriola e la scuola teologico-evangelica di Tubinga cit.. La tematica si trova trattata come segue nelle note pagine della IX lettera del Discorrendo: «Conviene, nondimeno, non dimenticare, che quel cristianesimo vero, così idealmente contrapposto da tanti a questo assai positivo e realisticamente umano, che s’è svolto in condizioni accessibili al nostro ordinario intendimento, ha esercitato anch’esso la sua funzione storica, e giova ora a noi come di chiave per entrare più addentro nello stato d’animo e nei rapporti di vita dei cristiani primitivi. Fu quel cristianesimo vero come il simbolo delle varie ribellioni dei proletarii, delle plebi, della umile gente, dei manomessi, dei servi, degli sfruttati, fino al secolo XVI. Ebbi occasione, come dissi già in altra lettera, di occuparmi quest’anno in modo circostanziato, nel mio corso accademico, precisamente di Fra Dolcino, nel quale culmina, e nel cui insuccesso declina il movimento della setta degli Apostolici. Poi che ebbi dichiarate le condizioni generali dello sviluppo economico e politico dell’Italia settentrionale e media, e quelle più particolari dell’ambito (ossia delle classi sociali) nel quale gli Apostolici sorsero e si diffusero, a un certo punto mi convenne di spiegare la dottrina, per la quale e con la quale Dolcino tenne ferma la compagine dei suoi seguaci, tenacissimi ed impavidi nel combattere fino all’ultimo da eroi, da martiri e da precursori di un nuovo ordine di cose nella vita dell’umanità. Quella dottrina è anch’essa uno dei tanti ritorni apocalittici al cristianesimo puramente evangelico; – è, ossia, la negazione di tutto ciò che la gerarchia abbia stabilito e fatto da papa Silvestro (da quello almeno della leggenda), in poi, negazione rinforzata dall’ardore apostolico, che il sentimento della lotta trasmuta in dovere di combattimento. Gli è naturale, che la spiegazione prima di quelle idee, come direbbero i letterati, vada cercata nei movimenti affini delle ribellioni antigerarchiche più prossime. Per un verso si risale agli Albigesi, e per un altro verso a quei confusi e variopinti moti di plebe, che hanno il comune nome di pataria; e poi per un altro lato bisogna rifarsi su tutta quella agitazione mistica ed ascetica, che più volte accenna a dilacerare l’imperio papale, dal comunismo ideologico di Gioacchino di Fiore alle resistenze attive dei Fraticelli. Facendo un passo più addentro in cotesta ricerca; non è difficile di ritrovare, di dietro ai mistici veli dell’ascetismo, e all’esaltata passione per il cristianesimo vero, le materiali condizioni e i materiali moventi, per cui convengono intorno ad alcuni simboli di rivolta gl’infimi del cenobitismo, i contadini di quei paesi dove la feudalità è ancor viva, i contadini di quelle altre terre, che, francate dal feudo, per la rapida formazione dei liberi comuni furon violentemente proletarizzati, e poi la minutissima gente dei comuni stessi cosi spietatamente corporativi, e da ultimo, come sempre, gl’idealisti, che trasmutano in causa propria la causa dei derelitti: – gli elementi tutti di una rivoluzione sociale. Da questa spiegazione prossima si risale ad una spiegazione più generale, e direi tipica. Il moto dolciniano è uno dei momenti della grande catena delle sollevazioni delle plebi cristiane, che, con varia fortuna e con varia complicazione, si ribellarono alla gerarchia, e nei momenti più acuti furon portate alla inevitabile conseguenza dell’aspettazione del comunismo. Il caso classico, la forma strepitosa, per le circostanze di tempo e per la estensione e per la durata del moto, è di certo la sollevazione degli Anabattisti. Ma non fu cosa di poco conto la rivolta dolciniana; specie per le condizioni di precoce modernità economica in cui trovavasi la valle del Po, in principio del secolo XIV» (infra, pp. 1488-1489). Il tema della figura di Dolcino ebbe, inoltre, gran parte nel corso di filosofia della storia del 1896-97, proprio in relazione al nodo della riarticolazione d’insieme della ‘ragione signorile’. Scrive il DAL PANE: «Più vicino alla narrazione, benché avesse per oggetto la spiegazione di un fatto particolare e non tutto un periodo nel suo complesso, è il corso di Filosofia della storia del 1896-97, dedicato allo studio delle condizioni economiche dell’Italia

superiore e media alla fine del secolo decimoterzo e al principio del decimoquarto, col principale intento di spiegare l’origine del proletariato di campagna e di città, per trovar poi una qualche prammatica spiegazione al sorgere di certe agitazioni comunistiche e per dichiarare, da ultimo, le vicende della vita di Fra Dolcino. Il Labriola pensa che il risultato economico della rivoluzione, che nel secolo XII cambia, nell’Italia superiore e media, la condizione dei contadini e mette capo nel dominio borghese nelle forme della città sovrana, sia costituito dal fitto a tempo e abbia come caratteristica la mancanza ai formazione di un ceto di piccoli proprietari. “Il punto capitale è la formazione dei comuni, ossia la loro autonomia; e poi l’inizio delle libertà civili, ossia la preformazione della borghesia, e la liberazione della campagna dalla servitù personale, dalla gleba e dal fitto perpetuo; l’assimilazione giuridica della terra al concetto della proprietà libera; l’assimilazione del lavoratore della terra al libero contrattante e quindi il fitto a tempo (di cui la mezzadria non è che una sottospecie); il predominio della città su la campana e l’impossibilità che si formasse un ceto di contadini piccoli proprietari. Questo fatto primordiale ha deciso tutta la sorte ulteriore della fisonomia sociale dell’Italia dove una classe di contadini (Germania, Norvegia) non c’è mai stata, e viceversa non c’è stata che in modo minimo quella lotta che ha dato luogo alla presa dei contadini. Non posso trattare di tutta la storia della formazione dei Comuni (da scrivere ancora) che si forma nel periodo delle lotte fra Papa e Imperatore nel periodo della tentata e non riuscita dominazione politica dei vescovi, per l’impotenza degli Imperatori a costituire un potere di stato con governo ed amministratori (come sarebbe in parte riuscito al regno di Napoli degli Hohenstaufen, la massima civiltà del mezzogiorno). Questa storia interna dei Comuni non sarà fatta, finché non sarà fatta la storia delle industrie su cui si reggono”. “E poi d’altra parte [per il momento che specialmente ci interessai, noi siamo ad un’epoca (principio del secolo XIV), nel quale questi comuni si sono formati da un pezzo, e alcuni son venuti in grandezza, e in altri s’è già ingenerata la differenziazione politica che mena alla signoria ed alla tirannia, e già la lotta generica fra Chiesa e Impero cede il posto a quella più moderna e specifica fra Curia romana e monarcato, e l’Italia meridionale continentale s’è già cristallizzata in una monarchia di dominio signoriale e le classi già sviluppate. Noi vogliamo studiare monocraticamente alcuni riflessi ideologici di questa condizione di cose nei comunisti di allora (e specie le cause della sommossa di Fra Dolcino)”. Il Labriola ricorda a questo punto come le città cercassero di attirare i contadini accordando loro sicurezza e privilegi. Per effetto della reazione della città sul feudo sparisce la servitù, fra il principio del secolo XII e gli inizi del XIV, e si creano delle condizioni nuove. “Le città si allargano. Molta proprietà signorile passa nel dominio della città. I contadini diventano suoi sudditi, quando non diventano cittadini (nelle arti), e molta parte di proprietà signorile diventa demanio, e i contadini ancora soggetti passano in suggezione del comune. La città come costituzione di classe si allarga e fortifica a spese del clero e della nobiltà ed a svantaggio dei contadini. Ciò sarebbe cresciuto all’infinito se i signori non si fossero fatti cittadini”. “Le località e conglomerazioni di abitanti dell’ex o quasi feudo ebbero in più luoghi e per qualche tempo una certa autonomia, con capi eletti o indicati dagli antichi signori; tasse superiori a quelle dei cittadini, l’obbligo di vendere il grano nella città… Ma in più luoghi vi furono ribellioni o adesioni a guerre di altre città o signori, e quindi ne nacque l’istituto della podestà di campagna. Da questa lotta del comune con le località comunalizie nacquero rapporti di signoria e ragioni di monopolio… Il peso delle tasse [era] minimo in confronto di altri paesi, ma sempre grave per le continue guerre, e quindi [si aveva] lo smembramento della piccola proprietà, infinite divisioni e necessità di vendere”. Il Labriola considera in seguito gli arbitri frequenti del governo dei podestà, nelle piccole località. “Mentre il podestà interno era forestiero, quello rurale apparteneva di regola alla classe commerciale o industriale della città stessa, ed [era] solo responsabile [di fronte] alla città…, ossia al ceto dominante”. Il podestà “converte l’ufficio in una speculazione e mira specialmente all’acquisto delle piccole proprietà nell’interesse sua e dei suoi. La terra diventa oggetto di speculazione per via delle vessazioni fiscali e mezzo da far nascere l’acquisto a breve scadenza e ad alto saggio per evitare di essere rimandanti (Irlanda). Ed ecco che gli artigiani e i bottegai (macellai etc.) diventano acquirenti di terra. I maggiori proprietari, e per sottrarsi alle noie dei podestà, e per godere di altri vantaggi, si trasferiscono nella città, con pattuito obbligo di residenza, il che sviluppa sempre

più il sistema del fitto”. Il quale dunque ha una doppia origine: l’assenteismo e l’espropriazione. “Concorreva con tale trasformazione della campagna, così precocemente modernizzata, la cura diretta dell’agricoltura (politica agraria). L’eredità (di diritto romano) spartiva violentemente la proprietà e, d’altra parte, c’erano proprietari di sparpagliati pezzetti”. Il Labriola passa ad esaminare l’istituto dell’ingrossazione e dal complesso di queste misure economiche, combinate col potere politico e coll’abuso dei podestà, vede uscir fuori due effetti di considerevole importanza: la rapida sparizione della piccola proprietà endemica e la creazione di una massa di straccioni di campagna che il podestà si mette sotto i piedi. Ecco la via aperta alla meravigliosa diffusione dei Francescani e al reclutamento delle compagnie di ventura. “Nel secolo XIII in tutta l’Italia superiore e media (fatta eccezione dei sopravanzi sporadici della schietta feudalità), nella campagna non c’era che fitto a breve tempo. Solo la chiesa conservava in più punti, o la vera e propria servitù della gleba, o il fitto perpetuo. Piano piano, per altre concorrenti ragioni, entro il secolo XIV, si riproduce lo stato della campagna, che fu proprio del coloniato imperiale al momento delle invasioni barbariche. Ma c’è l’enorme differenza della libertà personale, e la libertà del contratto (modernità), e la tendenza a stabilirne il prezzo (metà). Naturalmente la base contrattuale lasciava fuori la massa dei giornalieri. Questo principio della libertà personale non fu proclamato in compenso di nulla, ma per la natura stessa della cittadinanza che avea bisogno di mani, e nei beni signorili per imitazione (e necessità di difesa). Era arrivato a compimento al principio del secolo XIV (il che fa contrasto col negozio di schiavi praticato da Venezia, Genova e Pisa). Influì la costituzione delle milizie a saldo (in gran parte di contadini) e si smise l’uso di considerare come schiavi i prigionieri di guerra… Così si arriva alla perfetta abolizione della servitù d’ogni genere”. Questo studio preliminare servì al Labriola – conclude DAL PANE – «per vedere le ragioni, per le quali alla fine del secolo XIII abbiamo un enorme proletariato di campagna, sul quale s’impernia il moto dolciniano» (A. Labriola. La vita e l’opera cit., pp. 395-400). 18 19

Infra, p. 1681. Sui temi trattati cfr., fra l’altro, le osservazioni di N. BADALONI in Il marxismo di Gramsci cit., pp.

44-45. 20 Infra, p. 1660. 21

Infra, pp. 1685-1686.

X CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Nell’obiettivo di tale comprensione unitaria consta, del resto, il movente fondamentale della riflessione marxista del Cassinate, la quale si lega intimamente a tutte le fasi precedenti della sua opera, anzitutto per il radicale tratto antiempiristico. Tale atteggiamento non indugia, – lo sappiamo –, né su una residua metafisica, né sulla cognizione ‘separata’ del problema dello statuto di scientificità. Come ci dovrebbe ormai essere chiaro, è su tale versante che si rende maggiormente riscontrabile il discrimine riguardo al dispositivo crociano del ‘paragone ellittico’. Non a caso il nostro autore aveva osservato a Croce, nella importantissima missiva del 28 febbraio del ’98, cui tanta attenzione abbiamo già dedicato in peculiare riferimento alle tesi di Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo: «come vuoi che uno il quale sia persuaso che la scienza non è altro che la spiegazione del dato empirico si pigli l’incomodo di inventare un modo ipotetico, per poi considerare il mondo reale come un caso particolare». Si tratta di una osservazione che fissa il difetto fondamentale della lettura che punti di vista diversi come quello di BöhmBawerk e Croce proiettano sulla epistemologia marxiana e che dimostra, d’altra parte, come l’approccio antiempiristico labrioliano non comporti nessuna forma di ‘chiusura’ della elaborazione teorica; evidenziando, piuttosto, come storioempirismo e ‘criticismo’ di matrice neokantiana convergano, individuando i termini del rapporto fra una forma teorica determinata e l’indirizzo ideologico prevalente del revisionismo contemporaneo. La ‘filosofia’ predominante del revisionismo si risolve nel criterio della «sommazione empirica delle osservazioni parziali». Esibendo, volente o nolente, ‘di rincalzo’, come già si è visto, il profilo ‘catastrofico’ della dimensione storica, essa mostra anche, quasi per controspinta, – configurando una sorta di asimmetria al proprio interno (maggiore o minore a seconda della accentuazioni contraddistintive di tale ‘filosofia’) – tanto l’erroneità del trattamento del processo storico-reale in chiave di mera giustapposizione graduale, quanto la necessità di riconquistarne l’unità dialettica costitutiva, senza ‘indebolirne’ la struttura differenziata. Era solo attraverso una elaborazione teorica che non venisse ad essere plasmata sulla semplice ‘sommazione’ empirico-fattuale – magari, nel caso, con l’istanza di convertirla in una vera e propria sorta di improbabile Weltanschauung («il

factum già bell’è compiuto») – che il movimento operaio, del resto, secondo Labriola, poteva colmare la profonda latenza di comprensione dei processi reali giustificantene, parimenti, la condizione di ‘crisi organica’ (ponibile in parallelo a quella della stessa stabilizzazione liberale) che egli aveva di fronte agli occhi. A estrema riprova di tutto ciò stanno alcune altre celebri quanto decisive, mirabili osservazioni compiute sempre nella missiva, – che ci ha anch’essa domandato grande interessamento –, dell’8 gennaio 1900 a Croce, laddove, avendo restituito nella direzione appena riassunta i motivi del proprio antiempiricismo, il Cassinate considera: Il socialismo subisce ora un arresto. Ciò non fa che confermare il materialismo storico. Il mondo economico-politico si è complicato […] Quel buon uomo di Kaustky può illudersi di far la parte del custode dell’arca santa. Quell’intrigante di Merlino può dare a credere di aver servito la causa del socialismo facendo quello che non ha mai imparato – e infatti nelle sue correzioni c’è qualche volta una verità della cosa […] come afferrata ad indovinare. Ma ditemi un poco in che consiste la novità reale del mondo che ha reso agli occhi di molti le imperfezioni del marxismo? Qui sta il busillis. La realtà non si afferra coi ragionamenti – ma con la percezione1.

Le difficoltà del movimento operaio coincidono con le difficoltà della teoria a spiegare la complessità che ‘marca a fuoco’ il presente storico, dovendosi impostare adeguatamente il nesso fra prospettiva di ricomposizione relativa alla unificazione plurale del genere umane e diffusività del Politico per entro linguaggi e forme speciali nelle quali la dialettica scava definendone il piano ‘autocritico’. Se l’emergere del revisionismo fa da riscontro ad una simile esigenza – e ciò spiega perché, come abbiamo cercato di sostenere, Labriola convenga sull’urgenza di un tentativo di ripercorrimento critico dell’apparato categoriale marxiano allo scopo di liberarlo dai condizionamenti deterministicopositivistici, volontaristici, o da quelli dovuti alla combinazione fra le due direttrici etc. (condizionamenti destinati a perdurare nella cultura del movimento operaio novecentesco molto oltre la sua morte – esso si mostra assolutamente incapace di porsi all’altezza del compito in questione. E tuttavia: il conclusivo richiamo al privilegiamento del versante della ‘percezione’ sui ‘ragionamenti’ risulta apparentemente contrastare con l’atteggiamento antiempiristico che percorre tutte le considerazioni in esame. Ciò su cui Labriola batte con implicita insistenza è che il ricorso alla mera «sommazione empirica delle osservazioni parziali» e la sua conversione nel richiamo metodologico (pensiamo, ancora una volta, con esiti diversi, a Croce e a Böhm-Bawerk) non riescono in alcun modo ad impadronirsi del carattere di novità reale del presente storico, corrispondente

alla ‘complicazione’ del mondo politico-economico. Ciò significa che se ‘revisionismo’ e marginalismo partono dall’avvertire l’effettività di una simile ‘complicazione’, sottesa alle loro tesi vi è la considerazione del criterio epistemologico dell’apparato categoriale marxiano ‘in sé’ e ‘per sé’, mirando a rifiutarlo, integrarlo o correggerlo senza inquadrarne l’attrito tangibile rispetto a siffatta condizionalità inusitatamente innovativa, e così smarrendone, per contro, il potenziale di autonomia. Scrive il Cassinate, obiettando a Croce, nella missiva del 9 ottobre dell’88: Una cosa sola mi permetto di obiettarti […] ed è: che ti liberi dalla smania di ragionare dal di fuori sui concetti, come se fossero cosette. I concetti bisogna concepirli rispetto a un ordine determinato di cose, come funzioni vive […] In altri tempi ti consiglio una prolungata meditazione filosofica sul modo di fare la scienza. Quella tua memoria […] s’ispirava ad un concetto giusto: “cioè ad una possibile revisione della dottrina di Marx, così in ordine ai suggerimenti obiettivi della storia, come in ordine alla tessitura logica del sistema stesso”. Ed è riuscita così sgangherata (anche dal tuo punto di vista) per manco di abitudine a concepire dal di dentro i concetti2.

Inoltre, congruentemente, in quella assai rilevante, da noi considerata più sopra, dell’8 dicembre 1900, egli afferma: Uno che si ostini a voler vedere la filosofia dal di fuori, come se il pensiero fosse una cosa che si analizza e non una attività (realmente) terminativa, potrà scrivere dei volgarismi come quei due illustri cretini di Pareto e di Pantaleoni.

In certo senso, tematizzare funzionalmente i vari strumenti categoriali implica il ricorso a quello che il nostro chiama il «rifare dal dentro del pensiero» i concetti (e dunque l’oggetto pertinente), il «concepirli dal di dentro», per stare al luogo testuale in discussione. È solo sulla strada di un simile trattamento che può arrivare ad esplicitarsi con chiarezza perché il riferimento funzionale a categorie ermeneutiche determinate sia del tutto incompatibile con gli esiti ipostatici della modellistica crociana del ‘paragone ellittico’. Tale riferimento segna un’escursione radicale rispetto allo slittamento verso la compenetrazione reciproca di empiricismo e metodologismo. Tutto ciò rinvia alla esigenza di recuperare un ambito di approfondimento ‘filosofico’ abilitato – per le ragioni che abbiamo cercato di enucleare – ad oltrepassare il confine rigido con quello della ‘scienza’; in siffatta maniera comportando la chiara rottura con ogni

schema naturalistico e collocando nello spazio filosofico il luogo di manifestazione di un indirizzo di ricomposizione (il suo compito «relativamente terminativo», mai da intendersi – lo si è cercato di enfatizzare – in quanto assumente una erronea ed ingenua ‘missione’ ‘onnicomprensiva’) procedente attraverso la penetrazione tipizzante–funzionale del dinamismo del mondo storico connesso alla plurilinearità della articolazione temporale; e, dunque, implicante la necessità di stringere tale dinamismo «alla tessitura logica del sistema» – per ricorrere alle parole crociane evocate dal nostro –, lumeggiandone la vicendevole coincidenza. Osserviamo: Labriola esplica, vieppiù, con estrema lucidità, la possibilità di conseguire l’unità non lineare tra forme del sapere e potenza della vita materiale – donde anche la stessa declinazione dell’autonomia del marxismo all’insegna dell’intreccio fra filosofia, struttura epistemica e vita –, e, quindi, esprime un ulteriore elemento – già qui più o meno costatato esplicitamente –, di fortissima distanza dalla tradizione del marxismo occidentale, ossia quello riguardante il rifiuto dell’antitesi vita/forme; sì da cogliere, piuttosto, il loro reciproco aggancio in quanto pienamente compenetrabile con la densità della connessioni storico-epistemiche3. Esclusivamente in questa chiave è legittimo parlare della riconnettibilità di pensiero e realtà, categorie ed empiria. Si tratta di una chiave che resta distante, stando all’ottica labrioniana, vuoi da Sorel, vuoi da Croce, – cosa che li rende incapaci di guadagnare nel profondo il carattere di innovazione che attraversa il presente storico. Il principale ‘errore’ consta, secondo Labriola, nel considerare cosalmente il pensiero anziché in foggia di attività, con l’esito di estraniare le ‘cose’ stesse, scindendo la loro emersione empirica dalla relazione al pensiero4. Qualificando i concetti «rispetto a un ordine determinato di cose, come funzioni vive», si viene a definire l’ambito di ricostruzione logico-storica dell’oggetto, delineando produttivamente la prospettiva di una ermeneutica strategica del presente. Del resto, tale intendimento invera l’impalcatura generale della lezione hegeliana. Essa verrà pensata da Labriola, costantemente, dalla fase iniziale sino alla estrema maturità, come non risolvibile nei due ‘presupposti’ fronti della gnoseologia ‘in sé’ e ‘per sé’ o, men che meno, dalla teoria etica. Come asserito ‘a chiare lettere’ entro la missiva a Croce del 2 gennaio 1904, in forte polemica con il giovane Gentile, «nel sistema di Hegel è possibile una sociologica ma non un’etica»5, con il che volendo significare come, in radicale contrapposizione alla estremizzazione del versante normativo, la concezione dialettica del mondo storico-reale dispiegata da Hegel si renda convertibile, in termini di continuità, nel perspicuo distendersi di un definito orizzonte di teoria della storia e, dunque, connessamente, nell’inquadramento della dinamica di collocazione dei soggetti,

dei compiti sociali, delle cerchie – è cosa resa palmare soprattutto nei Grundlinien –, in quanto connesso alla visualizzazione della sincronia delle figure del movimento reale6 dal filosofo di Cassino rintracciate, seguendo Marx, nello svolgimento differenziato della prassi – appresa in quanto significativamente ricomprensiva del ‘pensiero’ – che, di continuo, ‘costruisce’ e ripercorre la Wirklichkeit, permanentizzandosi e, con ciò, mostrando il proprio integrale profilo di universalità. Trattiamo di un aspetto che esalta l’accento labrioliano sulla dimensione della oggettività, chiaro fin dall’interessantissimo cimento con il ‘problema-Spinoza’, acquisibile in qualità di ‘strada conducente’ alla inscrizione delle plurali soggettività entro tale dimensione, di cui si possono fissare certe regolarità determinante. Regolarità che in seguito verranno ad essere classificate esse medesime in quanto tendenzialità storiche percorrenti, senza rendersi mai predefinibili nella fissazione di un qualche Endziel, un campo inedito di possibilità per l’orientamento dell’agire politico; tendenzialità sulla cui complessa analisi si attesterà la nozione di ‘previsione morfologica’ –. Sin dal confronto con Spinoza il Cassinate venne ad impostare, in primo luogo, il raffronto fra mondo scientifico, suoi linguaggi, ed effettività dei rapporti di forza e delle molteplici spinte. Spinte e rapporti di forza che costituiscono la trama del processo di riarticolazione delle forme, sino a disgregare e riaggregare i loro confini e i loro ‘contenuti’ a fundamentis, senza mai, però, fuoriuscire dallo spazio che esse stesse permanentemente costituiscono, nella loro mobilità. Lo sguardo sul ruolo tipico della teorica del valore-lavoro e della sua declinazione nei modi della valorizzazione, caratterizzanti l’intiero arco della produzioneriproduzione sociale, ci ha consentito di osservare come la connotazione della organizzazione formale proceda, nell’alveo del presente storico dei rapporti capitalistici, attraverso un indirizzo alla riduzione che arriva a tradursi, poi, definendo il campo d’insieme delle merci, e sprigionando una forte tensione connessa alla diffusione ‘senza limiti esterni’ del Politico. Emerge, così, la cifra paradigmatica dei termini portanti della costituzione delle cerchie ed il loro nesso intrinseco all’emergere delle contraddizioni; ferma restando la diversa impiegabilità, anzitutto sul fronte della appropriazione-socializzazione – a muovere dalle opportunità dischiuse dal campo d’insieme –, dei loro apporti cognitivi. Badare bene: abbiamo di fronte acquisizioni e sottesi teorici confermanti un orientamento inequivocabilmente antiumanistico anche per quel che pertiene il momento marxista della ricerca labrioliana, tutto inteso a far perno sull’interdipedenza obiettiva dei moduli formali, scoprendone la valenza storica anche nella costitutiva ‘manifestazione autonoma’, nonché coinvolgendo in tale interdipendenza la maturazione di soggettività perspicue corrispondenti alle articolazioni della prassi; di qui motivando proprio il sovraccarico di

‘coscienza della storicità’ che dalla interdipendenza tra le forme si ingenera, combaciando con l’effettività del dialettismo (l’‘autocritica delle cose stesse’). Indagare la dialettica storica innervante le inedite condizioni di mediazione che presiedono, annodandosi alla pluralità dei conflitti, alla costituzione morfologico-oggettiva conduce Labriola ad immettere la teoria nello spessore reale delle contraddizioni, con l’esito di focalizzare i mutamenti cifranti la crisi in nuce della stabilizzazione liberale, dell’idea della ‘buona forma’ della società automatico-liberale, il disintegrarsi del progetto di armonizzazione al quale vanno comunque ricollegati, nel complesso, interlocutoriamente e problematicamente, il marginalismo (il quale insiste, certo, sulla centralità del momento della riproduzione, non cogliendo però, tutte le implicazioni che da ciò si dovrebbero derivare e tutti i mutamenti che ne connotano l’ampliamento), i paradigmi dell’equilibrio neoclassico e approcci come quello machiano7. Disintegrarsi rivelato da ciò che nella lettera a Lagardelle su Bernstein del ’99 viene indicato come l’intersecarsi delle «più complicate resistenze dei rapporti economici» con i «più intricati ingranaggi del mondo politico», rispetto a cui il ruolo del movimento operaio appare in grave ritardo di comprensione dei mutamenti, – cosa che ne motiva il forte impaccio nell’iniziativa generale e la drammaticità del dibattito sulla ‘crisi del marxismo’, a cavallo fra Ottocento e Novecento, e dei suoi precipitati. Le ‘lenti’ con cui Labriola ha guardato allo scenario che veniva avanti appaiono in grado di ‘mettere in campo’ una gamma di strumenti concettuali abilitata a riclassificare in termini avanzati le strutture formali che danno luogo alla saldatura fra processo reale e tempo storico, indicando, in siffatta maniera, una strategia di confronto con Marx e dotata di attrito proprio nella sua sostanziale distanza non solo dai condizionamenti economicistico-deterministici della II Internazionale ma dalle correnti complessivamente prevalenti del marxismo occidentale e orientale novecentesco8 (donde la necessità, sul piano analitico, dell’intensificazione critica del rinvio, fatto di collegamenti e di discriminanti, alla successiva elaborazione gramsciana). Perciò gli esiti dell’impegno intellettuale di Labriola, i «volti» del cui ‘socialismo’ e del cui ‘marxismo’ si rivelano davvero articolati9, potranno dire qualcosa – crediamo – all’oggi e, forse, anche al domani contrassegnato dalla massima estensione della potenza unificante della forma-merce, suggerendo una via interessante per il giovevole recupero della ‘cassetta degli attrezzi’ del materialismo storico rispetto alla contemporanea dimensione della ‘società complessa’, ed anche per il rinnovo di una efficace prospettiva di filosofia della prassi10. Fornire al lettore attuale l’occasione di leggerne e studiarne il contributo d’insieme è, in definitiva,

il compito prefissosi dalla edizione delle Opere qui presentata. 1

A. LABRIOLA, B. Croce, 1900 cit., p. 119 (corsivo nostro). ID., Lettera a B. Croce, 9 ottobre 1898, raccolta in Ibidem, p. 643 (corsivo nostro). 3 Cfr. B. DE GIOVANNI, Pour Labriola cit. 4 Per le considerazioni svolte siamo nuovamente assai debitori nei riguardi della trattazione di R. RACINARO in La crisi del marxismo cit., pp. 73-75. 5 A. LABRIOLA, Lettera a B. Croce, 2 gennaio 1904 cit., p. 341. 6 Ha di recente messo l’accento sulla produttività della indicazione labrioliana in merito a Hegel qui approssimata B. DE GIOVANNI in Riconoscimento e libertà dei moderni, in L. RUGGIU – I. TESTA (a cura di), Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti, Mimesis, Milano 2009, p. 245. 7 Su questi temi è ancora d’obbligo il rinvio, pur nella diversità di approccio, all’ormai classico contributo di M. CACCIARI, Krisis cit. 8 Per una interessante tematizzazione della polarità marxismo ‘occidentale’ / marxismo ‘orientale’, in particolare in ordine al pensiero di G. LUKÀCS, cfr. F. PASTORE, Crisi della borghesia, marxismo 2

occidentale e marxismo sovietico nel pensiero di G. Lukàcs, Marzorati, Milano 1978. 9 Riprendiamo qui un’espressione adotatta da E. GARIN in Antonio Labriola: ritratto di un filosofo, in «Giornale critico della filosofia italiana», 2, 1998, p. 303. 10 Le indicazioni che dall’analisi labrioliana si ricavano restano utili, insomma, per continuare a ‘fare i conti’ con la realtà del modo di produzione capitalistico inteso come non isolabile quale mero ‘rapporto sociale economico’ e, altresì, in quanto coimplicato alla articolazione delle forme del dominio ed al determinarsi dei contenuti del Politico.

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE DI ANTONIO LABRIOLA

2 luglio 1843 Antonio Labriola nasce a San Germano, l’odierna Cassino, da Francesco Saverio (1809-1874), docente di lettere al ginnasio e cultore di archeologia, e Francesca Ponari (1808-1890), imparentata con la nobile famiglia De Vio di Gaeta. 1848-1860 Compie gli studi inferiori dapprima sotto la guida del padre e dello zio Gaetano Labriola, quindi presso il collegio dell’Abbazia di Montecassino, dove l’abate Pappalettere si prende cura in prima persona della sua formazione. 1861 Terminati gli studi inferiori, in autunno si trasferisce con la famiglia a Napoli, dove segue i corsi universitari della Facoltà di Lettere e Filosofia. Qui si lega ad Antonio Tari, già amico del padre, e per suo tramite a Bertrando Spaventa, di cui diviene brillante allievo. Dimostra già una buona conoscenza dei classici di Aristotele, Spinoza e Kant. Potendo contare su una discreta conoscenza del tedesco, si dedica allo studio sistematico del pensiero di Hegel. Risale agli anni di studio a Napoli l’amicizia con Arturo Graf, Carlo Fiorilli, Felice Tocco e Pasquale Turiello, e la frequentazione della libreria Detken. 1863 Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller (maggio). Intraprende una relazione con Rosalia von Sprenger (1840-1926), giovane di origini austriaco-tedesche e di confessione evangelica, maestra alla “Scuola di Scozia” di Napoli, nota anche come Scuola evangelica “Garibaldi”. Per le ristrettezze economiche in cui versa la famiglia, è costretto a cercare lavoro: dopo alcuni sfortunati tentativi per ottenere un posto di bibliotecario, su intervento di Silvio Spaventa, cui è raccomandato dal fratello Bertrando, è assunto come Applicato di Pubblica Sicurezza (dicembre). 1864 Prende servizio presso la Segreteria del Prefetto di Napoli, marchese Rodolfo D’Afflitto, tra i suoi incarichi vi è anche quello di

occuparsi del fenomeno del brigantaggio. Mantiene i propri contatti con l’Università (non si ha notizia, tuttavia, del conseguimento della Laurea). Risale verosimilmente ai mesi finali dell’anno, o ai primi dell’anno successivo, lo scritto Della relazione della Chiesa allo Stato, indirizzato ad un uditore dei corsi universitari di Spaventa, in cui, forte della lezione del maestro e della rielaborazione della filosofia di Hegel, affronta il nodo teorico dei rapporti fra Stato e Chiesa. 1865 Conseguita l’abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nelle tre classi inferiori del ginnasio (settembre), abbandona l’impiego prefettizio e intraprende l’insegnamento ginnasiale in alcuni istituti pubblici e privati di Napoli. Progetta un lavoro, mai realizzato, sul Cristianesimo delle origini (aprile). Successivamente intraprende lo studio di Feuerbach, di Strauss e di altri autori della scuola teologica di Tubinga. 1866 Prosegue gli studi intrapresi ma, a seguito di un bando di concorso dell’Università per uno studio sulla filosofia di Spinoza, si concentra progressivamente su quest’ultimo. Le letture (in particolare Fischer e Jacobi) e la stesura di materiali preparatori si protraggono fino alla prima metà dell’anno successivo. 1867 Il 23 aprile sposa Rosalia von Sprenger, da cui avrà tre figli: Michelangelo Francesco, Teresa Carolina e Alberto Franz. Da alcune corrispondenze private traspare la delusione per lo scarso impegno di Bertrando Spaventa ad assicurare all’allievo un’adeguata collocazione. In giugno risulta ancora alle prese con la stesura finale della memoria Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza, con cui, nel marzo dell’anno seguente, ottiene la medaglia d’oro dell’Ateneo di Napoli. 1869 A seguito di un nuovo bando di concorso della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli (gennaio), si dedica alla preparazione e alla stesura della memoria La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele. La lettura di Strümpell e la conoscenza della Völkerpsychologie lo spingono ad approfondire ulteriormente la filosofia di Herbart e della sua scuola. 1870 La memoria su Socrate consegue il primo premio: sarà

pubblicata dalla Stamperia dell’Università di Napoli l’anno successivo. Diviene titolare di cattedra presso il Ginnasio “Principe Umberto”. Sulla «Zeitschrift für exacte Philosophie im sinne des neuern philosophischen Realismus», rivista di riferimento dell’herbartismo tedesco, compare la recensione a G. Lindner, Das Problem des Glücks. 1871 Con una dissertazione sul tema Se la filosofia della storia possa fondarsi sull’idealismo ed una lezione pubblica dal titolo Esposizione critica della filosofia di Vico, consegue la libera docenza in Filosofia della storia presso l’Università di Napoli (agosto). In autunno ottiene l’aspettativa non retribuita dall’insegnamento ginnasiale. Si dedica ad un’intensa attività giornalistica come corrispondente del quotidiano svizzero «Basler Nachrichten» (settembre 1871 - dicembre 1872) e sulle testate partenopee «Il Piccolo» e «Gazzetta di Napoli», espressione del gruppo moderatodissidente riunito da Rocco De Zerbi nell’Unione Liberale: matura in questa fase un più vivo interessamento per la vita politica nazionale e, in particolare, per l’amministrazione delle province meridionali. 1872 Perde il figlio Michelangelo ammalatosi di difterite. Tramontata l’ambizione dell’Unione Liberale di farsi promotrice di un nuovo soggetto politico di centro, entra nella redazione dell’«Unità nazionale» (febbraio), quotidiano filogovernativo diretto da Ruggiero Bonghi e volto a contrastare sia le posizioni della sinistra napoletana che quelle dei moderati dissidenti: il risentimento di De Zerbi dà luogo ad aspre polemiche giornalistiche. Al termine dell’anno di aspettativa, falliti i tentativi di ottenere l’abilitazione all’insegnamento filosofico nei Licei, decide di lasciare l’insegnamento ginnasiale per dedicarsi a collaborazioni giornalistiche e ad altri occasionali lavori letterari. È corrispondente della «Nazione» di Firenze, su cui, durante l’estate, pubblica le dieci Lettere napoletane, ritratto della vita culturale e politica partenopea di quegli anni. Sulla «Zeitschrift für exacte Philosophie» esce la recensione ad A. Vera, Introduzione alla filosofia della storia; su «Nuova Antologia», quella a Idee zur Psychologie der Gesellschaft di G. Lindner. 1873 Compaiono presso l’editore Ferrante di Napoli gli scritti Della libertà morale e Morale e religione: quest’ultimo è presentato al concorso per la cattedra di Filosofia morale e Pedagogia bandito

dall’Università “La Sapienza” di Roma. Dall’autunno collabora con il quotidiano moderato «Il Monitore di Bologna», seguendo da vicino la campagna elettorale della Destra. Si trasferisce a Roma. 1874 Riuscito vincitore del concorso per la cattedra di Filosofia morale e Pedagogia dell’Università di Roma, ne è nominato professore straordinario (gennaio). Dall’autunno, e per i tre anni successivi, pubblica su «Nuova Antologia» svariate recensioni di argomento pedagogico. 1876 Tiene i primi corsi di diritti e doveri per gli operai romani. Compare presso l’editore Loescher il volume Dell’insegnamento della storia, primo di una serie di studi pedagogici che non avrà seguito. Pubblica su «Nuova Antologia» la recensione a W. Volkmann Ritter von Volkmar, Lehrbuch der Psychologie vom Standpunkt des Realismus (ottobre). 1877 Divenuto docente ordinario è nominato Direttore del Museo d’Istruzione e di Educazione del Ministero della Pubblica Istruzione (novembre), voluto nel 1874 dall’allora ministro Ruggiero Bonghi. Pubblica sul «Giornale napoletano di filosofia e lettere» la recensione a J. Frohschammer, Die Phantasie als Grundprincip des Weltprocesses (febbraio). 1878 Pubblica sull’«Archivio di statistica», diretto da Luigi Bodio, lo scritto Del concetto della libertà. Saggio psicologico (giugno). 1879 Redige una serie di Allegati al progetto di legge Coppino. Durante l’estate compie, per conto del Ministero, un viaggio in Germania finalizzato allo studio dell’ordinamento scolastico tedesco: esito di questo viaggio e dei successivi studi saranno le pubblicazioni Appunti sull’insegnamento secondario privato in altri Stati (1880) e Dell’ordinamento della scuola popolare in diversi paesi (1881). Nella corrispondenza successiva l’autore fa risalire a questi anni il progressivo avvicinamento alle posizioni radicali e socialiste. 1881 Il ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli decreta l’accorpamento del Museo d’Istruzione e di Educazione alla cattedra di Pedagogia della Sapienza; la decisione non trova d’accordo

Labriola, che matura un crescente dissenso verso le politiche miopi e trasformistiche del partito di governo e dell’opposizione parlamentare. 1883 Nel recensire Die Socialwissenschaften di Bärenbach (Frigyes Medveczky) sulla «Rivista critica delle scienze giuridiche e sociali» (marzo), menziona per la prima volta i «seguaci di Marx e Lassalle». 1884 In casa di Silvio Spaventa conosce Benedetto Croce (gennaiofebbraio), che diviene suo allievo e corrispondente. In giugno appare su «Nuova Antologia» l’importante recensione a Ihering, Der Zweck im Recht. 1886 In primavera alcuni circoli radicali propongono la sua candidatura alle elezioni politiche nel secondo collegio di Perugia, salvo poi ritirarla in un secondo momento: l’evento rende pubblico l’avvicinamento di Labriola alle posizioni democratico-radicali. In una lettera a Giosuè Carducci (8 aprile) sostiene l’opportunità di un’alleanza fra radicali e socialisti. 1887 Ottenuto l’incarico di Filosofia della storia, il 28 febbraio tiene la prolusione I problemi della filosofia della storia, data alle stampe pochi mesi dopo. In un discorso tenuto alla Sapienza (giugno) prende pubblicamente posizione contro i tentativi di conciliazione fra lo Stato e la Chiesa. Il 26 settembre tiene al Congresso universitario di Milano una relazione sulla riforma degli studi filosofici in Italia, sostenendo l’opportunità di estendere lo studio della filosofia anche agli studenti di facoltà tecniche e scientifiche (l’intervento ero stato preceduto in luglio da una lettera aperta apparsa ne «La Tribuna»): la proposta incontra l’interesse, tra gli altri, del positivista Enrico Morselli, direttore della «Rivista di filosofia scientifica». In una lettera aperta al deputato Alfredo Baccarini (14 novembre) si dichiara «teoricamente socialista», sostiene la necessità di combattere il trasformismo e riaffermare la funzione del Parlamento, e l’importanza di alcune riforme sociali a tutela del lavoro. 1888 Il 22 gennaio tiene alla Sapienza la conferenza Della scuola popolare, primo di una serie d’interventi rivolti alla Società degli Insegnanti di Roma. In occasione delle dimostrazioni popolari per la crisi edilizia si schiera apertamente con gli operai disoccupati. È

nominato Presidente dell’associazione irredentista “Giovanni Prati” e critica apertamente la stipula della Triplice Alleanza, aderendo al Comitato Permanente per la Pace. Invitato a partecipare alle celebrazioni in onore di Giordano Bruno in programma a Pisa, Terni e Nola non partecipa direttamente (ad eccezione, forse, della commemorazione di Nola) ma invia propri messaggi di adesione. Partecipa a commemorazioni pubbliche di Garibaldi e Mazzini. Tiene un discorso agli operai delle acciaierie di Terni (dicembre) in cui contesta la politica del governo Crispi, difende il ruolo del Parlamento e delle autonomie locali, e auspica la costituzione di un fronte unitario in difesa della democrazia. 1889 Elabora il programma di una serie di lezioni sul socialismo (gennaio). Il corso di Filosofia della storia in occasione del centenario della Rivoluzione Francese è sospeso in seguito ad alcuni scontri provocati da soggetti vicini alla destra (febbraio). È nominato vicepresidente del Circolo radicale e presidente del Circolo pedagogico romano. Il 20 giugno tiene la conferenza Del socialismo presso il Circolo operaio di studi sociali di Roma. Nonostante il sostegno dei maestri comunali e di diversi circoli democratici, è escluso dalle liste per le elezioni comunali della Capitale: questa seconda delusione elettorale segna di fatto il suo allontanamento dai gruppi radicali. 1890 Inizia la corrispondenza con Friedrich Engels (marzo), cui invia il testo della Prolusione di tre anni prima e quello della conferenza Del socialismo, e con Filippo Turati. Con quest’ultimo collabora alla stesura dell’indirizzo di saluto dei socialisti italiani al congresso socialdemocratico di Halle (ottobre). In maggio, la lettera aperta Proletariato e Radicali, indirizzata al presidente del Circolo radicale Ettore Socci, segna la rottura ufficiale con la «politica borghese» e l’approdo al movimento operaio. Approfondisce lo studio sistematico dell’opera di Marx e di Engels, iniziando a trattare nei suoi corsi universitari la concezione materialistica della storia. 1892 Intensifica la corrispondenza con Engels, cui invia molti articoli di giornale, appunti e commenti. Si dedica ad una ricerca meticolosa dei volumi di Marx ed Engels, raccogliendo in pochi anni una cospicua biblioteca sul socialismo scientifico. In polemica con

l’«ecletticismo» di Turati, cui non perdona tra le altre cose l’eccessiva fiducia nei confronti di Achille Loria ed Enrico Ferri, e con l’ingenuità degli «antilegalitari» (anarchici), rifiuta di partecipare al congresso socialista di Genova (agosto): la rottura con gli anarchici e la fondazione del Partito dei lavoratori italiani lo indurranno in parte a ricredersi, ma non ad intraprendere una vera militanza attiva all’interno del partito. Svolge un ruolo attivo nello scoppio dello scandalo della Banca Romana (dicembre), facendo pervenire al deputato radicale Napoleone Colajanni alcuni documenti compromettenti. 1893 Desideroso di incontrare nuovamente Engels, in agosto partecipa al Congresso internazionale socialista di Zurigo in qualità di delegato del Circolo socialista di Napoli. Pochi giorni dopo redige un manifesto in risposta alle manifestazioni nazionalistiche anti-francesi suscitate dall’eccidio di operai italiani ad Aigues-Mortes (17 agosto). Si adopera per costruire attorno al movimento dei Fasci sicialiani – «primo atto» del socialismo italiano, scrive in novembre ad un corrispondente – un’ampia solidarietà internazionalista. 1894 Di fronte alla violenta repressione dei moti anarchici e alle leggi speciali volute da Crispi (luglio), assume una posizione moderata che, a seguito del coinvolgimento dei socialisti nella politica repressiva del Governo (ottobre), prelude di fatto all’alleanza elettorale fra democratici e socialisti dell’anno successivo. A partire da ottobre, e fino al maggio dell’anno seguente, pubblica sulla «Leipziger Volkszeitung» dieci corrispondenze sulla politica italiana. 1895 Vincendo le proprie esitazioni, scrive In memoria del Manifesto dei comunisti (aprile). Il saggio, che raccoglie il plauso di Engels a poche settimane dalla morte (5 agosto), compare dapprima in traduzione francese ne «Le devenir social» (giugno-luglio); nelle stesse settimane «Critica sociale» ne pubblica alcuni estratti in italiano; l’edizione italiana integrale appare poco dopo per l’editore Loescher, seguito da una prima ristampa a cura degli Uffici di Critica sociale. S’intensifica la corrispondenza con Benedetto Croce, la cui collaborazione si rivela assai preziosa, in questa fase, nell’opera di edizione dei Saggi sulla concezione materialistica della storia.

1896 In gennaio commemora l’amico Engels, scomparso nell’estate precedente. Scrive e pubblica il saggio Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare (marzo). Esce su «La Cultura» la recensione a M. Kauffmann, Immanente Philosophie, e al primo volume della «Zeitschrift für Immanente Philosophie». A partire dall’estate, in alcune lettere allude ad una fase di «pausa» nello sviluppo del movimento socialista e al progressivo spostamento dei traffici economici dall’Atlantico al Pacifico. In ottobre «Le Devenir social» anticipa, nella traduzione di Alfred Bonnet, un estratto del secondo saggio. Il 14 novembre, in occasione della riapertura dell’Università, tiene alla Sapienza il discorso L’Università e la libertà della scienza, che suscita aspre polemiche e di cui Croce si fa editore per conto dell’autore. Dall’autunno si manifestano i primi sintomi di un tumore alla laringe. 1897 In seguito all’insurrezione degli abitanti di Creta contro la dominazione ottomana (febbraio), manifesta il proprio sostegno ai ribelli greci e si dichiara favorevole ad un’eventuale espansione coloniale italiana in Tripolitania. Esce, preceduta da una Préface di Georges Sorel, la traduzione francese dei primi due saggi. Allo scopo di rispondere alle difficoltà sollevate da Sorel e da altri recensori, scrive in forma di scambio epistolare con lo stesso Sorel il terzo saggio: Discorrendo di socialismo e di filosofia (aprile-settembre). Su «Critica sociale» è pubblicata la replica alle osservazioni di Antonino De Bella (giugno) ed un’anticipazione della Lettera VIII del nuovo saggio (dicembre). 1898 Esce la prima edizione italiana di Discorrendo di socialismo e di filosofia (gennaio). In maggio è sorpreso dai violenti moti sociali che attraversano l’Italia: li definisce in un primo momento «prova generale di rivoluzione» (lettera al figlio Alberto Francesco, 8 maggio), salvo poi derubricarli a manifestazioni di «anarchismo spontaneo» strumentalizzate dal Governo come pretesto per la repressione (lettera a Luise Kautsky, 18 maggio 1899). Dichiara a più riprese l’intenzione di scrivere un quarto saggio sui temi affrontati nel corso di Filosofia della storia 1897-1898 e ne confida a Croce il possibile titolo: Sociologia, filosofia della storia e ricerca storica. 1899 Esce Socialisme e philosophie. Lettres à G. Sorel, edizione

francese del Discorrendo, che, accanto a molti interventi di revisione della precedente edizione italiana, presenta una Prefazione (31 dicembre 1898) polemica con Sorel ed un Postscriptum (10 settembre 1898) in cui l’autore risponde alle obiezioni mosse da Croce nella memoria Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del Marxismo (novembre 1897). Il 1 maggio pubblica in francese su «Le mouvement socialiste» e in italiano sull’«Avanti!» una lettera aperta A proposito del libro di Bernstein (datata 15 aprile), in cui ridimensiona le polemiche relative all’opera dell’amico e corrispondente (di cui aveva apprezzato in una nota del Discorrendo gli articoli sulla «Neue Zeit») ma lascia intendere la propria contrarietà a tentativi di revisionismo che riducano la dottrina di Marx ad uno sterile dibattito teorico. In giugno, sulla «Rivista italiana di sociologia», pubblica A proposito della crisi del marxismo, in cui, polemizzando aspramente con l’opera di T. Masaryk e con le speculazioni giornalistiche, che ritiene frutto di un vero complotto internazionale ai danni del socialismo, ribadisce con forza la proprie posizioni antirevisionistiche. 1900 Il 15 febbraio, alla vigilia del terzo centenario della morte sul rogo di Giordano Bruno, tiene una conferenza pubblica nel cortile della Sapienza, prima di una serie di “lezioni straordinarie” inserite nell’ambito del corso annuale di Filosofia della storia sul Destino storico di Giordano Bruno. 1901 L’aggravarsi della malattia gli impedisce progressivamente di tenere oralmente le proprie lezioni. Fra agosto e settembre, rielaborando gli appunti del corso di Filosofia della storia sulle caratteristiche del secolo XIX appena concluso, redige il frammento incompiuto intitolato Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi, cui l’autore premette di suo pugno la dicitura «Saggi intorno alla concezione materialistica della storia IV». 1902 In un’intervista apparsa sul «Giornale d’Italia» (13 aprile) torna sui temi della politica estera e dell’espansione coloniale. In luglio è trasferito alla cattedra di Filosofia teoretica della Sapienza, da cui, in autunno, svolge un corso sulla psicologia delle funzioni operative. Dalla primavera cura una nuova edizione dei tre Saggi intorno alla concezione materialistica della storia, annunciando l’uscita di un

quarto volume di Appunti polemici che non vedrà mai la luce. A causa del male che lo affligge è costretto a subire un intervento di tracheotomia (21 luglio): da quel momento, non potendo più contare sulla sua voce, sarà costretto ad avvalersi per i corsi universitari della lettura ad opera di uno studente. Prepara per il successivo anno accademico un corso di Filosofia della storia incentrato sui rapporti fra materialismo storico, filosofia della storia e sociologia: parte dei materiali del corso sarà poi edita da Croce nel 1906 con il titolo Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico. 1903 In gennaio interviene in merito al dibattito sul divorzio, attaccando gli oppositori del disegno di legge discusso in Parlamento. Dal mese di maggio è costretto a sospendere l’insegnamento universitario per l’aggravarsi della malattia. Scrive a Croce (7 settembre) di avvertire dietro il nuovo successo idealistico l’avvento di una «reazione» contro lo «storicismo» e lo «spirito scientifico», che si mescola con lo «spirito borghese decadente» ed il «cattolicesimo rinato». 2 febbraio 1904 In seguito ad un secondo intervento chirurgico alla gola, muore presso l’Ospedale germanico di Roma. È sepolto nel cimitero acattolico di Roma.

NOTA EDITORIALE

La presente raccolta si propone di mettere a disposizione di un pubblico il più vasto possibile un quadro sufficientemente completo della produzione teorica di Antonio Labriola, riproponendo, in una visione d’insieme, testi la cui ultima edizione disponibile risale, in alcuni casi, a diversi decenni fa, e scritti individuati solo in anni più recenti, non inclusi pertanto nelle raccolte di Opere o Scritti realizzate in passato. D’altro canto, come ogni antologia, anche questa risponde ad un criterio di selezione dei testi che, per quanto soppesato ed applicato nel senso più inclusivo possibile, si presta pur sempre ad essere discusso, tanto più nel caso di un autore in cui l’elaborazione filosofica, la riflessione pedagogica, la partecipazione alla vita politica e civile, costituiscono di fatto aspetti di un unico impegno intellettuale. Senza volersi sostituire in alcun modo al lavoro di edizione critica intrapreso dal Comitato scientifico per l’Edizione Nazionale delle Opere, si è cercato di coniugare la finalità divulgativa del volume con una particolare attenzione filologica. Le note riprodotte a piè di pagina sono unicamente quelle dell’autore; quelle del curatore (L.S.), volte ad agevolare la comprensione del testo o ad esplicitare rimandi interni all’opera, sono collocate in coda al corpus di scritti labrioliani. Ciascuna delle sezioni in cui è suddiviso il volume è preceduta da una Nota introduttiva (L.S.) che ha prevalentemente il compito di fornire indicazioni relative alla storia del testo, alla forma e ai suoi contenuti generali. Per un’interpretazione critica d’insieme si rimanda al Saggio introduttivo (L.B.), nonché alla Postfazione gentilmente offerta da Biagio de Giovanni. Si è privilegiata la riproposizione di opere edite, il cui testo è stato verificato sull’ultima, e nella maggior parte dei casi unica, edizione pubblicata in vita dall’autore, salvaguardandone l’integrità e l’articolazione interna, rispettando il più possibile la grafia dei nomi, l’uso del maiuscolo e quello del corsivo, ed intervenendo unicamente per uniformare graficamente l’accentazione delle parole secondo le convenzioni odierne, o per sanare evidenti sviste tipografiche. Si è rispettato l’uso, per la verità non sempre agevole e spesso irregolare (cfr. il ricorso alla virgola prima del «che» dichiarativo, in analogia con il «dass» tedesco), che l’autore fa della punteggiatura, intervenendo unicamente laddove fosse ragionevole sospettare un errore di composizione tipografica o, ma solo in

rarissimi casi, risultasse altrimenti compromessa la comprensibilità del discorso. La revisione dei testi è stata condotta con la preziosa collaborazione di Martina Puca. I testi apparsi in lingue diverse dall’italiano sono stati pubblicati nella forma originale seguita dalla traduzione a fronte, per la cui revisione siamo grati a Maria Sole Steardo. Laddove, come nel caso di À propos du livre de Bernstein, fosse disponibile anche una versione italiana evidentemente di mano dell’autore (nello specifico, si tratta con ogni probabilità dell’originale da cui è stata ricavata la traduzione francese), si è pubblicata solo quest’ultima. Nel caso di opere inedite al momento della morte dell’autore, si è riprodotta la trascrizione già disponibile (Dal Pane, Miccolis-Savorelli) dei soli manoscritti completi, o comunque dei principali (cfr. le Note introduttive a ciascuna sezione), astenendosi da un’edizione delle varianti (con l’eccezione di pochi casi, potenzialmente rilevanti però ai fini dell’interpretazione del testo, in Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza) e avendo cura di restituire il testo nella forma più agevole per il lettore. Lo stesso criterio è stato adottato anche nel caso della commemorazione Giordano Bruno. Nella ricorrenza del 3° centenario dell’arsione in Campo de’ Fiori, di cui si è riprodotto il manoscritto relativo alla redazione stenografica dell’orazione. La sola eccezione, in questo senso, è costituita dal testo edito da Croce con il titolo Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico, che, pur risultando da una selezione postuma degli appunti per il corso di Filosofia della storia del 1902-1903, resi ora finalmente disponibili dall’edizione critica, si è ritenuto di riproporre fra le altre opere labrioliane nella forma in cui apparve nella raccolta crociana di Scritti varii (1906), ritenendola una fonte ormai autonoma e storicamente significativa per la comprensione del pensiero di Labriola e per lo studio della sua fortuna. L’edizione dei Saggi intorno alla concezione materialistica della storia, il nucleo certamente più noto e ristampato della produzione labrioliana, è stata approntata riproducendo fedelmente l’edizione Loescher del 1902, comprensiva di tutte le appendici previste dall’autore (affiancate, nel caso della traduzione del Manifesto, dell’estratto dall’Antidühring e della Préface soreliana, rispettivamente dai testi originali in tedesco e da una traduzione italiana). In questo senso, conformemente alle indicazioni più recenti della critica, non si è inteso tanto stabilire una priorità dell’ultima sulle precedenti edizioni, che confidiamo siano presto fruibili in una compiuta edizione critica (con particolare riferimento alla prima edizione italiana e all’edizione francese del Discorrendo), quanto colmare una mancanza da troppo tempo presente nel panorama editoriale, in cui i Saggi sono stati a lungo riproposti senza le rispettive appendici o separati

da esse, oppure con l’aggiunta di testi non previsti dall’autore (compreso il frammento del “quarto saggio”). Laddove, come nel caso di Una risposta alla prolusione di Zeller o della polemica con il De Bella della Lettera VII di Discorrendo di socialismo e di filosofia, è parso che la comprensione delle pagine labrioliane potesse trarre giovamento dal confronto puntuale con scritti oggi non facilmente reperibili, si è proceduto a riprodurli nelle note esplicative. Per il testo di Significato e compito della teoria della conoscenza di Eduard Zeller, si è grati ad Alberto Meschiari, che ha voluto gentilmente rendere disponibile la propria traduzione (cfr. «Studi di filosofia, politica e diritto», 7, 1982, pp. 3-18), appositamente rivista per l’occasione. Nel predisporre l’apparato bibliografico (L.S.) si è creduto opportuno fare tesoro del minuzioso lavoro realizzato dal prof. Nicola Siciliani de Cumis in occasione della terza edizione, riveduta e corretta, dei Saggi sul materialismo storico a cura di Valentino Gerratana e Augusto Guerra (Editori Riuniti, Roma 1977), integrandolo con le pubblicazioni apparse da quella data ad oggi e con una sintetica descrizione dei soli manoscritti relativi agli inediti qui raccolti, condotta sulla base del catalogo delle Carte Labriola del “Fondo Dal Pane” custodito presso la Società Napoletana di Storia Patria, pubblicato, a cura di Oreste Trabucco, nel primo dei Quaderni per l’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Labriola. Ci sia consentito infine ringraziare quanti con il loro aiuto ed incoraggiamento hanno consentito questo lavoro: i professori Giovanni Reale, Massimo Cacciari e Giuseppe Girgenti dell’Università Vita-Salute “San Raffaele” di Milano; Michele Ciliberto ed Alessandro Savorelli della Scuola Normale Superiore di Pisa; Lorenzo Calabi, Marcello Montanari e Nicola Siciliani de Cumis, rispettivamente dell’Università di Pisa, Bari e “La Sapienza” di Roma; Giuseppe Vacca, Presidente della Fondazione Istituto Gramsci. Per il prezioso confronto sui contenuti trattati dalla monografia introduttiva si ringraziano: Mario Adinolfi, Università di Cassino; Beatrice Centi, Università di Parma; Angelo Chielli, Università di Bari; Diego Fusaro, Università “San Raffaele”, Milano; Fabio Frosini, Università di Urbino; Giorgio Galli, Università di Bologna; Francesco Giasi, Fondazione Istituto Gramsci; Marcello Mustè, Università “La Sapienza”, Roma; Luigi Punzo e Giancarlo Schirru, Università di Cassino; Pasquale Serra, Università di Salerno; Oreste Trabucco, Università “Suor Orsola Benincasa”, Napoli. Siamo grati anche ad Alberto Bellanti per la cura editoriale del volume e ad Alessandra Matti per la supervisione. L’immagine di copertina, realizzata dal fotografo Francesco Tassara per

gentile concessione dei coniugi Petrachi-Dal Pane di Bologna, riproduce il noto ritratto a carboncino e pastello dipinto da Frieda Menshausen, nuora del filosofo, ai primi del Novecento. Per le indicazioni relative all’ubicazione del ritratto si è grati a Marco Lattanzi. Un pensiero di sincera gratitudine, infine, va alla memoria di Stefano Miccolis, grazie al cui prezioso lavoro le conoscenze sulla vita, l’opera e l’epistolario di Antonio Labriola hanno potuto compiere, negli ultimi decenni, passi fondamentali. LORENZO STEARDO LUCA BASILE

Antonio Labriola

TUTTI GLI SCRITTI FILOSOFICI E DI TEORIA DELL’EDUCAZIONE

Sezione prima

GLI INEDITI GIOVANILI

Gli scritti raccolti in questa sezione sono accomunati dal fatto di non aver conosciuto una vera e propria pubblicazione – videro al massimo una circolazione limitata alla figura del maestro, Bertrando Spaventa, e a pochi altri compagni di studio del giovane Labriola – se non per iniziativa postuma di Benedetto Croce e addirittura, nel caso di Della relazione della Chiesa allo Stato, solo per intervento della critica più recente (Miccolis). Dietro questo dato di fatto è legittimo immaginare non solo la logica conseguenza di una produzione giovanile ed occasionale, ma anche una scelta consapevole dell’autore, che si decise ad inviare al giovane Croce i due «manoscritti preistorici» ancora in suo possesso solo nell’agosto del 1896 (cfr. Carteggio, IV, p. 171), ad otto anni scarsi dalla sua morte e a dieci esatti dall’uscita degli Scritti varii (1906). Si tratta, nondimeno, di scritti maturi quanto alla consapevolezza che il loro autore ha delle proprie capacità analitiche e della profonda autonomia critica con cui egli si confronta, per un verso, con la lezione spaventiana, da tenere sempre presente in questi scritti quale riferimento teorico implicito, per l’altro con il pensiero di Hegel, richiamato ora con riferimenti quasi puntuali ai testi, ora, invece, nel quadro della discussione critica sui suoi presupposti e sulla sua eredità nel pensiero contemporaneo, rispetto alla quale Labriola rivela da subito una posizione articolata. D’altro canto, sarebbe sbagliato ritenere che tali scritti esauriscano gli interessi e l’attività di ricerca labrioliane alla metà degli anni Sessanta: basti pensare al progetto di uno studio «sul Cristianesimo primitivo» cui allude la lettera del 10 aprile 1865 alla fidanzata Rosalia von Sprenger (cfr. Carteggio, I, p. 147), alla mole di letture che questo presuppone, ad esempio, in relazione agli sviluppi della scuola di Tubinga e, in generale, l’attenzione per la più aggiornata produzione storico-filosofica in lingua tedesca di quegli anni. Le supposizioni lasciano il posto all’evidenza, se si considerano gli appunti e i materiali preparatori rinvenuti fra le Carte Labriola del “Fondo Dal Pane”, ora custodito presso la Società Napoletana di Storia Patria. Rispetto a tali scritti, che pure hanno legami talvolta importanti con i testi qui riprodotti, e all’eventualità di una loro edizione, è parso corretto non inserirli in questo volume (ad eccezione di alcuni brevi estratti riportati in nota), optando per la riproposizione di testi che, per quanto da tempo bisognosi dell’adeguato inquadramento filologico che l’edizione critica promossa dall’Edizione Nazionale delle Opere saprà certamente fornire, costituiscono unità già in sé compiute quanto ai contenuti teorici che veicolano, e con la cui complessità, nell’ottica di una ricostruzione evolutiva del pensiero labrioliano, la critica si è da sempre dovuta confrontare. Conformemente ai criteri seguiti dalle edizioni Dal Pane e Miccolis, si è

deciso di rispettare la grafia dei nomi propri e delle altre parole, come anche il ricorso al corsivo (corrispondente al sottolineato del ms.), intervenendo a modificare il testo unicamente di fronte a palesi sviste ortografiche o incongruenze nella punteggiatura. Si è osservato il più possibile anche l’uso delle iniziali maiuscole: nel caso della recensione a Zeller tuttavia, dove Labriola vi ricorre con particolare frequenza, è parso opportuno limitare in parte questa scelta, per non gravare eccessivamente sul lettore. Ad eccezione di alcuni sporadici interventi nei luoghi più problematici della memoria spinoziana, segnalati a piè di pagina e risolti in ogni caso attingendo alle sole varianti riscontrate da Dal Pane collazionando i manoscritti, si è proceduto solo in due casi (infra, pp. 462 e 499) ad integrare in via congetturale il dettato labrioliano evidentemente lacunoso (nel primo caso raccogliendo il suggerimento già avanzato dall’edizione crociana), includendo le aggiunte fra parentesi angolate.

Una risposta alla Prolusione di Zeller riproduce con minime differenze, volte ad agevolare la lettura, il testo stabilito da Dal Pane sull’unico manoscritto a noi noto: un fascicolo cucito di trentotto pagine autografe, non numerate, attualmente custodito presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria (“Fondo Dal Pane” 22.22, secondo la recente catalogazione delle Carte Labriola proposta dai Quaderni per l’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Labriola, I, 2010), e coincidente, con molta probabilità, con quello utilizzato a suo tempo da Croce (Sv, pp. 3-33), che preferì tuttavia mutarne il titolo in Contro il “Ritorno a Kant” propugnato da Eduardo Zeller, a riecheggiare evidentemente la formula «Difesa della dialettica di Hegel contro il ritorno a Kant iniziato da Ed. Zeller» con cui lo stesso Labriola allude a questo suo primo scritto in Discorrendo di socialismo e di filosofia (v. infra p. 1457). La testimonianza di Croce, che si riferisce allo scritto come ad un inedito, è da ritenersi attendibile. Non ha mai trovato conferma, infatti, la notizia di un’anticipazione seppure parziale dello scritto su una non meglio precisata rivista torinese, riferita dall’autore in una lettera a Plechanov del 21 aprile 1899, e smentita, d’altro canto, dallo stesso Labriola, che, nella missiva a Croce del 15 agosto 1896 che accompagnava l’invio dei manoscritti della replica a Zeller e del saggio su Spinoza al loro futuro editore, aveva precisato che il «fascicoletto cucito» su Zeller era rimasto a lungo fra le carte di Bertrando Spaventa (si può supporre, fino alla morte di quest’ultimo, nel 1883), «dopo che Ferri (Luigi), allora direttore di una Rivista (?) dell’Istruzione (?) a Torino l’ebbe respinto» (Carteggio, IV, p. 171). La lettera a Plechanov appena ricordata suggerisce anche un altro elemento: lo

scritto, come nel caso del successivo saggio spinoziano, potrebbe essere stato redatto per un concorso bandito dalla dalla Facoltà di Lettere dell’Università di Napoli, i cui professori – questo potrebbe spiegare la giacenza fra le carte di Spaventa –, valutati i lavori più meritevoli, «ne comunicavano qualcosa alle riviste» (Carteggio, V, p. 54). Un’ulteriore questione, per quanto sufficientemente chiarita dalla critica (cfr. da ultimo A. ZANARDO, Antonio Labriola 1863-1867. Appunti sulla documentazione più recente, in «Parénklisis», 2, 2004, pp. 107-122) è posta dalla datazione dello scritto. La data riportata nell’ultima pagina del ms., 3 maggio 1862, apparentemente confermata dal passo menzionato del Discorrendo, è certamente erronea, in quanto la prolusione di Zeller fu pronunciata il 22 ottobre 1862. La menzione della recensione di Karl Ludwig Michelet, apparsa all’inizio dell’anno seguente, induce d’altro canto a non collocare la datazione dello scritto anteriormente ai primi mesi del 1863. Attribuendo ad una semplice svista l’incongruenza relativa alla data, non è da escludere che la redazione finale del testo risalga effettivamente al 3 maggio del 1863 (la puntualizzazione relativa all’orario «ore 9 a. m.» potrebbe confermare l’ipotesi di uno scritto concorsuale, cfr. A. ZANARDO, Labriola contro Zeller: 1863, in «Critica marxista», 2-3, 1998, pp. 65-78: 77). Concepito in forma di recensione alla prolusione Über Bedeutung und Aufgabe der Erkenntniss-Theorie, ovvero sul significato e sul compito – significativamente però Labriola rende il tedesco «Aufgabe» con «problema» – della teoria della conoscenza, che Eduard Zeller tenne ad Heidelberg il 22 ottobre 1862, il testo di Labriola propone numerose citazioni in traduzione e ampie parafrasi del testo zelleriano (di qui la nostra scelta di riprodurne quasi integralmente in nota il testo, gentilmente concesso da Alberto Meschiari) che il ms. segnala apponendo all’inizio e al termine dei rispettivi periodi un trattino lungo (—): espediente grafico che si è ritenuto di mantenere anche nella presente edizione, preferendo sostituirlo, per non generare confusione, con il trattino medio, quando utilizzato per segnalare un inciso (laddove questo fosse segnalato già dalla presenza di parentesi tonde, lo si è cassato); con il trattino medio (–) o con la virgola, quando impiegato per separare singoli termini; con la sottolineatura, quando anteposto all’incipit di singoli capoversi per porne in rilievo il titolo. Non sfugge come, sebbene l’autore si dichiari «lontano dal proponimento di approfondirle», il disegno di «sottoporre ad esame le vedute dello Zeller» tradisca nei fatti l’intenzione di entrare nel merito delle questioni teoriche e, in particolare, nel merito del legame – evidentemente carico per Labriola di implicazioni legate alla propria formazione spaventiana – fra l’eredità kantiana e

l’evoluzione del successivo idealismo tedesco nella filosofia di Hegel; filosofia un tempo «professata» anche da Zeller, formatosi alla scuola di Tubinga, ed ora rigettata a favore di un «ritorno a Kant» che, con il pretesto di consentire alla filosofia di uscire dalla situazione di impasse seguita alla perdita del proprio «esclusivo dominio» rispetto ai nuovi sviluppi delle scienze storiche e naturali, si limita di fatto a soddisfare la «coscienza del tempo». Dopo una sezione introduttiva volta a richiamare al lettore i più noti lavori di storia della filosofia greca riconducibili a Zeller e a prendere le distanze, sulle orme dell’hegeliano Michelet, dalle sue «nuove vedute», Labriola individua due questioni principali, cui dedica le due sezioni centrali dello scritto: «la teorica della conoscenza considerata come fondamento della logica» e la «determinazione speciale del problema della teorica della conoscenza». Al primo punto corrisponde l’accusa rivolta a Zeller di favorire, dietro la rivendicazione di una distinzione più marcata fra l’ambito della logica e quello dell’ontologia, cioè dietro il rifiuto del tentativo di Hegel (per il quale la logica conserva comunque anche una valenza formale) di concepire una logica speculativa che abbia per oggetto il «valore reale della forma nella funzione logica», il ritorno ad una logica unicamente formale, intesa come «presupposto astratto e formale d’ogni ricerca scientifica». Confondendo ciò che rientra per esigenze pedagogiche e gnoseologiche fra le possibilità della scienza (separare il contenuto empirico dalla forma logica) con l’avanzamento della scienza stessa (la «costruzione sistematica della realtà» che si ha solo quando la forma logica si determina successivamente del proprio contenuto ideale, ovvero quando la filosofia fa di questa forma il contenuto del pensiero), Zeller ha frainteso il rapporto fra teoria della conoscenza e logica, omettendo di considerare il pensiero «come primo elemento d’ogni realtà» e quindi di cogliere la logica «come una con l’ontologia e tuttavia distinta». Incapace di chiarire il rapporto tra forma e contenuto, dunque tra il piano soggettivo e quello oggettivo, Zeller finisce per porsi davanti ai processi conoscitivi come di fronte ad un dato empirico, cioè nei termini di una semplice «descrittiva psicologica» che non può fornire alla conoscenza e al suo metodo alcun fondamento assoluto. Al contrario, nella «sintesi originaria» e a priori fra soggetto ed oggetto Labriola coglie il nucleo più fecondo di quel criticismo kantiano che il “ritorno” auspicato da Zeller rischia invece di falsificare: quell’unità originaria fra ciò che è dato e ciò che è spontaneamente prodotto dal soggetto, fra essere e pensiero, in cui il secondo paragrafo della dissertazione coglie l’acquisizione più significativa con la quale l’idealismo tedesco opera di fatto un passo ulteriore rispetto alla contrapposizione, propria di tutto il pensiero precedente, fra intellettualismo ed empirismo. Pur ricostruendo nella propria prolusione la storia

di quest’alternativa, Zeller si dimostra agli occhi di Labriola incapace di superarla, in quanto ne condivide la stessa tendenza immediatistica: la tentazione di pensare «l’originario come opposto al dato», tralasciando la mediazione operata dallo spirito che Kant, con i suoi giudizi sintetici a priori, ha intuito, e su cui Hegel – più critico appare il giudizio di Labriola sulle «esagerazioni» della sua scuola – ha fondato la propria idea di sapere assoluto.

Segnalato da Carlo Fiorilli (1843-1937) nella commemorazione Antonio Labriola: ricordi di giovinezza, apparsa su «Nuova Antologia» nel marzo del 1906 (pp. 59-63), Della relazione della Chiesa allo Stato fu pubblicato per la prima volta da Miccolis che ne rinvenne il manoscritto (quattro fogli divisi in otto facciate, per un totale di sei pagine scritte, ciascuna siglata dall’iniziale “L”), da lui riconosciuto «senza alcun dubbio» come autografo, fra le carte appartenute a Fiorilli e infine confluite nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma (Carte Fiorilli, 58a). Il testo qui riprodotto segue, pertanto, quello edito dal compianto studioso di Labriola alla metà degli anni Ottanta del Novecento (S. MICCOLIS, Un inedito giovanile di Labriola sui rapporti Stato e Chiesa, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXIV, gennaio-aprile 1985, pp. 97-104: 102-104; cfr. sempre per cura del medesimo, A. LABRIOLA, Lettere inedite (18621903), Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1988, pp. 412-414). Lo scritto costituisce di fatto il corpo di una lettera non datata, indirizzata da Labriola ad un certo Angarano (sebbene sia confermato da Miccolis che nel ms. si debba leggere piuttosto «Angarana») che la critica recente ha identificato in Giovanni Angarano, laureatosi in giurisprudenza nel 1864, ma rimasto perlomeno per altri due anni a frequentare i corsi dell’Ateneo napoletano in attesa di una collocazione accademica: a lui sarebbero riconducibili alcuni appunti relativi a nove lezioni del corso tenuto nell’anno accademico 1864-1865 da Bertrando Spaventa (cfr. Ibidem, pp. 97-98, e A. SAVORELLI, Le Carte Spaventa della Biblioteca Nazionale di Napoli, Bibliopolis, Napoli 1980). Le attente analisi di Miccolis e Savorelli, unitamente alle indicazioni di D’Orsi sul contenuto dei corsi universitari spaventiani di quegli anni (cfr. la sua Introduzione a B. SPAVENTA, Lezioni di antropologia, D’Anna, Messina-Firenze 1976) hanno consentito di ricostruire con ragionevole attendibilità le condizioni nelle quali il testo vide la luce. Se noto è infatti l’argomento del corso di Spaventa per l’anno 1864-1865 (una ripresa delle tematiche affrontate anni prima in Del principio della riforma religiosa, politica e filosofica nel secolo XVI), gli appunti di Angarano s’interrompono esattamente davanti alla

trattazione del concetto di Stato e di Chiesa nello spirito del mondo moderno. Dal momento che la lettera di Labriola esordisce per l’appunto rispondendo ad una richiesta di chiarimenti da parte dello stesso Angarano, è plausibile che questo «lavoro schematico» – così lo definiva a ragione Fiorilli – fosse rivolto proprio a chiarire i contenuti del prosieguo del corso: conclusione che, vista la possibilità di datare con relativa sicurezza gli appunti di Angarano a novembredicembre 1864, consente di ricondurre il lavoro labrioliano alla fine del 1864 o agli inizi dell’anno successivo. Si tratta dunque di uno scritto che pone Labriola direttamente a confronto con la lezione spaventiana (cfr. il già citato Del principio della riforma religiosa, politica e filosofica nel secolo XVI con i relativi Chiarimenti aggiunti all’edizione del 1867, ma anche la digressione sulla relazione fra Stato e Chiesa ne La dottrina della conoscenza di Giordano Bruno, apparso proprio nel 1865), non meno che con la matrice hegeliana di quel pensiero (si vedano i richiami quasi letterali ai paragrafi § 270 dei Lineamenti di filosofia del diritto e § 552 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio del 1830), e che tuttavia, se da un lato non vede mai una diretta menzione del maestro, dall’altro, rivela un tono decisamente sicuro di sé: si veda, ad esempio, il ricorso ad affermazioni in prima persona, inizialmente al condizionale («io lo determinerei così…»), quindi, ripetutamente, con il tono assai più assertorio conferito dall’indicativo («Io distinguo…, fo questa distinzione…, ecc.»). Dopo alcune righe introduttive, in cui l’autore dichiara la natura schematica – pertanto ad uso personale, o quantomeno interno alla cerchia dei compagni di studi – dello scritto, che si propone di tracciare un «disegno» che il destinatario sia poi in grado di sviluppare, l’argomentazione labrioliana si articola in quattro paragrafi, concisi nella loro formulazione ma completi quanto al ragionamento che l’autore intende sviluppare. Nel primo s’individua «il punto di partenza della questione»: la necessità di muovere dal concetto di Chiesa e di Stato in quanto «forme della vita etica», ovvero di non confondere la Chiesa, intesa qui come associazione «visibile e gerarchica», che «conserva e perpetua il contenuto d’un’idea religiosa» all’interno della società civile, con la «libera intuizione del destino della vita universale» che la Chiesa «invisibile», intesa cioè come concetto teologico e «sopramondano», si propone di rappresentare. A questa considerazione preliminare fa seguito, nel secondo paragrafo, la definizione del concetto di Stato quale vertice della costituzione etica dello spirito dopo il livello della famiglia e della società civile, cui consegue, nel paragrafo successivo, l’affermazione della subordinazione ad esso della Chiesa, concepita «nello Stato» e detentrice di una «esistenza giuridica» che non risiede però nel «principio religioso» (affermazione di cui non sfugge a Labriola la

sostanziale inconciliabilità con il Cattolicesimo, che pretenderebbe di identificare l’unità religiosa dei suoi fedeli con la «comunità esterna» dei suoi aderenti), come invece è il caso del principio di libertà religiosa, implicito nell’idea stessa di coscienza religiosa di per sé comprensiva di formulazioni simboliche e cultuali diverse. Sulla base di queste premesse, il quarto ed ultimo paragrafo imposta la questione della relazione fra Chiesa e Stato come necessariamente connessa ad una ricostruzione del processo storico di costituzione della Chiesa («come gerarchia, diritto canonico e disciplina»), nonché delle vicende interne (i movimenti di riforma) ed esterne (gli avvenimenti politici e i pronunciamenti del diritto positivo) che hanno contribuito a determinare storicamente tale rapporto, demandando ad altri (forse alle competenze storico-giuridiche dello stesso Angarano) il compito di sviluppare ulteriormente il tema.

A differenza degli altri due scritti raccolti in questa sezione, le cui edizioni sono state condotte sugli unici rispettivi manoscritti autografi a noi noti, nel caso di Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza l’impossibilità di misurarsi al di là di ogni ragionevole dubbio con un testimone completo e attendibile della redazione definitiva del testo (l’originale, un tempo custodito presso l’Archivio dell’Università di Napoli, andò quasi certamente perduto a causa delle distruzioni belliche) pone l’editore nella difficile condizione di dover stabilire un testo sulla base di due distinte redazioni della memoria vera e propria – una prima, riconducibile, a quanto pare, ad una copia di altra mano, e spesso imprecisa, della versione finale del lavoro; ed un’altra costituita dall’insieme di due manoscritti autografi, recanti una stesura preparatoria delle due parti in cui risulta suddiviso lo scritto, certamente attendibile quanto all’originalità dei contenuti e al valore teorico, ma non necessariamente conforme alla volontà ultima dell’autore – più una serie di appunti e minute relative a parziali stesure anteriori o ad integrazioni poi scartate. In attesa di disporre di un’edizione critica aggiornata rispetto ai criteri, non sempre condivisibili, seguiti a suo tempo nel primo volume delle Opere (cfr. le osservazioni mosse già allora da A. ZANARDO, Metodo storico e motivi realistici nel giovane Labriola. A proposito dello scritto su Spinoza, in «Rivista storica del socialismo», 7-8, 1959, pp. 463-500), si è scelto qui di riprodurre il testo stabilito da Dal Pane sulla base del manoscritto (13 fogli sciolti, per un totale di 52 pp., non attribuibili alla mano di Labriola) da lui indicato con il numero 2 (“Fondo Dal Pane” 20.10, secondo la recente catalogazione delle “Carte Labriola”) in quanto unica copia “in pulito” ad offrire una redazione presumibilmente

integrale del testo. Soluzione che si pone in continuità con le precedenti edizioni: da quella di Croce – vi sono buone ragioni per affermare che sia questo il manoscritto, «di carattere ignoto» e «con qualche lacuna» a detta dello stesso Labriola, inviatogli insieme a quello della replica a Zeller nell’agosto del 1896, cfr. Carteggio, IV, p. 171 –, a quella curata in anni recenti da Marzio Zanantoni (Ghibli, Milano 2004), che ripropone anche quattro delle quindici minute preparatorie pubblicate nel 1959, passando per l’appunto per il lavoro capitale di Dal Pane che, oltre a trascrivere il contenuto del «manoscritto di altra mano» e degli altri materiali inediti, riprodusse nelle note al testo principale numerose varianti, riconducibili ad una prima e travagliata stesura del saggio, ricavata dai manoscritti da lui indicati con i numeri 3 e 4 (ovvero “Fondo Dal Pane” 20.12 e 22.27, rispettivamente di 34 e 56 pp.). Rispetto all’operazione condotta nel primo volume delle Opere, ripresa solo in parte dall’edizione Zanantoni, che riproduce il testo collazionato da Dal Pane ma alleggerito di gran parte dell’apparato e degli altri segni grafici che ne compromettevano non poco la leggibilità, si è inteso qui fare un passo ulteriore nel senso della piena fruibilità dell’opera da parte del lettore, cercando, per un verso, di restituire in forma agevole la versione del testo che è dato immaginare più vicina a quella ormai perduta, e per l’altro, nei casi in cui questa si fa visibilmente incerta o erronea, di privilegiare anzitutto la coerenza e la comprensibilità d’insieme del discorso labrioliano. In altri termini: in assenza di lacune o particolari problemi testuali, si è dato credito al testo collazionato da Dal Pane sulla base del manoscritto principale (qui indicato come T), omettendo di riprodurre la mole di varianti per lo più trascurabili (si segnalano solo le più rilevanti) e correggendo direttamente sviste ortografiche o incongruenze facilmente risolvibili sulla base del contesto; laddove questo risulta invece lacunoso o palesemente scorretto, non si è esitato ad intervenire in senso ricostruttivo, evitando di appesantire il corpo del testo con parentesi o altri segni grafici (dell’unica integrazione congetturale, riportata fra parentesi angolate, si è già detto), attingendo in alcuni casi alle varianti dei due manoscritti (qui indicati come α e β) contenenti la stesura preparatoria del saggio, decisamente più attendibili quanto al senso generale dei passi in cui la versione del copista risulta poco affidabile. Di questi interventi ricostruttivi, e delle poche altre varianti ritenute utili ai fini della comprensione del testo, si è dato conto a piè di pagina in un apparato essenziale, che consente di considerare la scelta operata dal curatore e le alternative riferibili rispettivamente all’altra redazione manoscritta (α-β, o T nei casi in cui ci si sia distaccati da questa) e alle corrispondenti soluzioni adottate dall’edizione crociana (Sv). Le difficoltà connesse alla ricostruzione del testo, ovvero all’evolversi della

sua redazione, si riflettono negli interrogativi legati alla sua datazione. Per una rassegna completa degli elementi disponibili a formulare delle ipotesi, si rinvia agli studi di Zanardo (cfr. Antonio Labriola 1865-1867: appunti sulla documentazione più recente cit.) e Zanantoni (cfr. l’Introduzione dell’edizione appena menzionata e ID., Il giovane Labriola e il saggio su Spinoza. Un problema di datazione¸ in L. PUNZO, Antonio Labriola: celebrazioni del centenario della morte, Cassino 2006, pp. 173-180), rispetto ai quali è qui sufficiente segnalare la tendenza della critica più recente a posticipare la datazione suggerita originariamente da Croce (1865) e parzialmente corretta da Dal Pane (1866), fino a collocare il termine presunto della stesura definitiva del lavoro nella seconda metà del 1867 e dunque al di là dei termini che l’autore stesso, inviando il manoscritto a Croce, aveva ricostruito approssimativamente: «1865 o 1866?» (cfr. Carteggio, IV, p. 171). Redatto ai fini di un concorso bandito dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli per l’anno accademico 1866-1867, forse su suggerimento dello stesso Spaventa – autore in quegli stessi mesi di considerazioni su Spinoza confluite ne Il concetto di infinità in Bruno (1866) e ne Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo (1867), rispetto ai quali, tuttavia, è possibile misurare anche il progressivo distanziarsi dell’allievo –, il saggio di Labriola conosce uno studio preliminare che potrebbe risalire alla seconda metà del 1865 (il ms. 10 secondo la numerazione Dal Pane, 22.23 secondo la catalogazione più recente, è datato «agosto 65»), attraversa il 1866 (il ms. 4, ovvero il 22.27, reca la data del 29 dicembre 1866) e culmina con la redazione definitiva del testo protrattasi perlomeno fino all’estate del’anno successivo (dalla corrispondenza con Rosalia si evince che nel giugno 1867 la stesura è ancora in corso, cfr. Carteggio, i, p. 211). Il termine ante quem è fornito dalla relazione con cui Bertrando Spaventa motiva l’attribuzione al saggio labrioliano del primo premio, il cui manoscritto, individuato da Masini nel 1959 e pubblicato da A. Zanardo, Filosofia e Socialismo, Editori Riuniti, Roma 1974 (pp. 58-72), è datato 24 marzo 1868. È evidente, tuttavia, che l’individuazione di questi estremi cronologici non consente più di tanto di far luce sulle diverse fasi dell’elaborazione del testo: resta la difficoltà oggettiva di giustificare tempi così ampi per una redazione che, se si accetta che il ms. 20.10 riproduca in effetti la versione finale del lavoro, e si assume per valida la datazione autografa del ms. 22.27, deve ritenersi sostanzialmente conclusa già alla fine del 1866. Lo scritto – il più ampio di questa sezione e assolutamente significativo dell’articolazione teorica che già caratterizza questa prima fase della riflessione labrioliana, vissuta, confesserà l’autore nel Discorrendo, «con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza» – si apre inquadrando il tema della trattazione (da altri

manoscritti si evince l’intenzione dell’autore di sviluppare questi temi in una più ampia Prefazione): «la natura e l’origine delle passioni» in relazione al «bisogno di unità ed interna conciliazione» che esse pongono alla ragione nel suo sforzo di identificare, prima che norme di ordine morale, il «principio naturale della vita». È su questo terreno che la filosofia di Spinoza, guardata con pregiudizio a causa delle categorie di fatalismo e panteismo cui è stata sovente ridotta, rivela agli occhi dell’autore la propria «singolare novità», assente nella filosofia antica, in cui il problema della libertà è risolto nel «sagrifizio dell’individuo al benessere dello Stato» o nell’idea stoica dell’«abnegazione», e inaccettabile per il Cristianesimo, che se da un lato nella propria concezione del peccato pone lo «spirito» nella condizione di «massima opposizione colla natura», dall’altro però, ammettendo la possibilità di passioni positive che abbiano Dio per oggetto, prefigura una «più larga e più profonda spiegazione della natura umana». Segue una Introduzione articolata in quattro paragrafi (due dei quali, a loro volta strutturati per punti) in cui Labriola – «con intendimento di innamorato», confesserà anni dopo nel Discorrendo (vedi infra, p. 1431) – illustra i principi fondamentali dello spinozismo: il «motivo etico» che ne guida la riflessione ovvero l’«elevazione dello spirito alla contemplazione dell’ordine necessario delle cose»; l’identificazione del divino con la sostanza o natura naturans, da cui sono esclusi «arbitrio e finalità»; la definizione dell’attributo e del modo che consentono di comprendere il rapporto fra la causa prima e la natura naturata nonché la relazione fra mente e corpo. La parte centrale dello scritto è costituita da una trattazione in diciannove paragrafi intitolata Le passioni dell’anima che, muovendo dalla nozione di conatus e di uomo come res particularis, definisce le forme primitive degli affetti (tristitia e laetitia), identifica nell’appetito l’«essenza dell’uomo come cosa particolare» che «si sforza di conservare la sua esistenza», e nella cupiditas la coscienza che l’uomo può avere di questa sua stessa essenza. Ad essa seguono due sezioni più brevi, rispettivamente dedicate a Gli affetti attivi, ovvero allo sforzo «determinato e condizionato dall’intima natura dello spirito in quanto modo del pensiero», e ad una nuova considerazione del problema Della libertà umana, ora finalmente comprensibile come possibilità per l’uomo, detentore di una conoscenza adeguata, di «appetire la perfezione» e raggiungere così l’amore intellettuale di Dio. Nella breve Conclusione (anche di questa, come già nel caso della Prefazione, è conservata un’altra redazione manoscritta che fu però volutamente scartata dall’autore) Labriola ribadisce la centralità della «teorica delle passioni» rispetto al sistema di Spinoza in quanto «base naturale dell’amore di Dio», in cui l’egoismo, «principio permanente e regolativo della natura umana», costituisce

di fatto l’unico orizzonte nel quale si renda possibile concepire un’idea del bene. Richiamando le analoghe critiche mosse da posizioni deterministiche all’«antiquato concetto del liberum arbitrium indifferentiae» (Hobbes, Hume, Priestley), l’autore conclude rimandando al nuovo piano su cui la questione della libertà del volere viene a porsi dopo la separazione kantiana fra la dimensione fenomenica e quella della cosa in sé.

UNA RISPOSTA ALLA PROLUSIONE DI ZELLER Sul Significato ed il Problema della Teorica della Conoscenza

[1863]

Zeller, il dotto storico della filosofia greca, chiamato a professore nell’Università di Heidelberg, lesse al cominciamento di questo anno scolastico una conferenza accademica Sul Significato ed il Problema della Teorica della Conoscenza1 nella quale, dichiarandosi decisamente contro Hegel, esige un ritorno a Kant, per liberare lo Spirito filosofico della Germania dallo stato «d’indecisione e di traviamento», cui trovasi attualmente ridotto2. È bene supporre che lo Zeller sia stato spinto da sincera convinzione a dichiararsi contro la dottrina già un tempo da lui professataa: ond’è che fo obbietto del presente scritto l’esame critico delle sue nuove vedute, per quanto lo comporta il carattere sempre troppo generale d’una conferenza accademica. Il Michelet un poco con gli argomenti, ed un poco più con l’ironia, ha respinto questa esigenza dello Zellerb; io, nell’esame che imprendo a farne, son lontano sì dal considerarla un’apostasia come dal ritenerla per un’accettabile riforma3. Stando ai fatti, è innegabile che lo Spirito filosofico abbia perduto quell’esclusivo dominio su tutte le direzioni dell’investigazione scientifica, che esercitava in Germania al cominciamento di questo secolo; e che il campo delle quistioni filosofiche sia tenuto, o da seguaci dei grandi sistemi che cercano sostonersi con la vicendevole critica, o da novatori acutissimi nelle ricerche particolari, ma privi della profondità dei grandi filosofi che si succedettero in tanto breve tempo. È ben altro però ricercare le cause di questa situazione, e tratteggiarne le relazioni con tutto il movimento scientifico, che si va allargando con nuove e sempre più ricche scoverte su tutto il campo della Storia, e con tutto il movimento religioso e politico; in una parola, è altro fare di questa situazione obbietto d’una ricerca filosofica, altro è esigere una filosofia che soddisfi la coscienza del tempo. Pare che la seconda considerazione abbia preoccupato lo Zeller, prima ch’egli siasi deciso ad esigere un ritorno a Kant; sicché in questo esame critico della sua prolusione mi propongo rispondere alle quistioni da lui mosse, e «sottoposte alla publicità perché altri vi rivolga la propria attenzione»4, e non potrò che far cenno alla seconda: quali sono le cause dello stato attuale della coscienza filosofica? – considerazione, che può esser fatta obbietto di separata dissertazione, e nella quale può toccarsi un altro problema, ossia: qual è l’indirizzo che dobbiamo seguire in Italia, ora che presso di noi va allargandosi il pensiero germanico? Sottoponendo ad esame le vedute dello Zeller, son lontano dal proponimento d’approfondirle. Non potrei senza lungo lavoro rispondere al primo problema che esse suscitano, circa la relazione, e l’unità di Ontologia e Logica nell’Hegellismo; né, senza fare una storia del pensiero filosofico della Germania, o almeno un accurato esame delle tre Critiche, risolvere il secondo: se la

direzione idealistica per Fichte, Schelling, ed Hegel intende e risolve il problema di Kant, o si fonda sul lato erroneo del Criticismo. E di più, un lavoro serio non s’addice all’esame critico d’una prolusione, ch’è sempre generale ed imprecisa, e nella quale si è spesso costretti a soddisfare l’esigenze del publico. Il presente scritto adunque, esponendo nei suoi punti principali la prolusione, dichiarerà d’una maniera generale: 1) il significato della relazione tra Logica e Ontologia; 2) che la relazione tra Logica e Teorica della Conoscenza non ha alcun valore sistematico, se queste due scienze sono come Zeller le intende; e 3) che Zeller pretendendo di tornare a Kant, ne travisa il significato storico. Farò insieme l’esposizione e la critica, dividendo la dissertazione in due paragrafi.

1. La Teorica della Conoscenza considerata come fondamento della Logica Avendo Zeller partitamente designato nei programmi il contenuto del suo corso, che è la Logica e la Teorica della Conoscenza, in questa prolusione intende mostrare esser sua convinzione, non siano queste due scienze indipendenti l’una dall’altra, ma che la Logica ad «acquistare consistenza scientifica» debba fondarsi su la teoria della conoscenza, e questa solo nella Logica possa trovare il suo compimento. Così è scopo della prolusione fissare questa relazione, ed esporre alcune «generali osservazioni sul significato ed il problema della Teorica della Conoscenza»5. Con una certa inesattezza, perdonabile ad una conferenza accademica, lo Zeller dichiara che per ben duemil’anni s’intese per Logica «il tutto delle ricerche che si riferiscono all’attività come tale del pensiero, fatta astrazione da ogni contenuto determinato, e che essa dovendo esporre le forme e le leggi del pensare, niente possa attestare sugli obbietti che per quelle forme e leggi vengono conosciuti»6. — Hegel e i suoi seguaci contrapposero a «quest’antichissima logica» una nuova, nella quale vengono considerate non solo le forme del pensiero, ma il reale ch’è obbietto del pensiero; essa è in una parola «Logica e Metafisica, e per ciò chiamasi speculativa in opposizione alla comune ch’è puramente formale»7. — Zeller respinge questa unificazione della Logica con l’Ontologia, ed agli argomenti che si mettono innanzi per sostenerla, ossia «che forma e contenuto non possano separarsi, e che le pure forme logiche non hanno validità oggettiva se in esse non si pensano le determinazioni fondamentali dell’essere, che come concetti oggettivi formano l’essenza delle cose», egli risponde «che il pensiero è l’essenza delle cose, perché questa essenza è oggetto del nostro pensare, ma non che sia pensiero in sé stessa immediatamente; essa è conosciuta da noi, ma non ha in noi la sua esistenza, e non è prodotta da noi» etc8. — E fatta pure concessione, che le forme logiche siano sempre commiste ad un contenuto determinato, ciò non impedisce che la forma logica possa esser fatta oggetto di separata ricerca, e quando si fa ciò, non si considera qualcosa di non reale, come non può obiettarsi alla Matematica d’essere una scienza falsa, perché considera le proprietà dei numeri facendo astrazione dal numerabile, e le relazioni della configurazione spaziale senza considerare le qualità fisiche dei corpi. Come la Matematica separa dagli altri alcuni lati del reale, e ne fa obbietto di separata ricerca, così la Logica considera il pensare «questo fatto della vita dello Spirito dal punto di vista della forma, e non del contenuto»9. — Da quello

che ho esposto fin qui, vedesi chiaro, che Zeller non solo rigetta l’unità di Logica ed Ontologia nel senso hegelliano, ma vuol proprio una Logica formale. Non vi ha veramente bisogno di dimostrarne la possibilità, perché la Logica formale, fu già una realtà bella e buona per duemil’anni, come lo Zeller pretende! Ma che significato ha questa pruova della possibilità della Logica formale? Separare la forma logica dal contenuto (empirico) in cui essa è implicata, e farla oggetto di ricerca speciale, è facilitare la scienza, non aver fatto la scienza. Così astrarre dall’immediato contenuto intuitivo alcune forme generali che si riferiscono all’attività pratica dell’uomo, e descrivere astrattamente i caratteri della proprietà, del libero arbitrio, del contratto e così via, è una preparazione alla scienza del dritto, ma non è ancora il sistema, ossia, la contemplazione della connessione reale del contenuto pratico dello Spirito. Questa possibilità di pensare in abstracto quello che nell’uso comune dell’intelletto pensiamo in concreto (come si esprimeva Kant), è una delle condizioni, uno dei gradi della vita dello Spirito, ma non quello che veramente merita il nome di scienza. Quello che importa non è, dimostrare la possibilità della Logica formale, ma ricercare il valore oggettivo della forma logica. Questa ricerca quando è connessa alla Teorica della Conoscenza deve fornirne d’una Teorica del pensiero, che ne autorizzi ad una costruzione sistematica della realtà, e quando si vuol farla storicamente, bisogna vedere come la separazione della forma logica dal contenuto, abbia facilitato l’investigazione scientifica, finché questa forma determinandosi successivamente, è venuta ad acquistare un nuovo contenuto, il contenuto ideale. Ora, dimostrare questa possibilità può accennare a due direzioni: 1) separare la pura forma dell’intelletto dal contenuto determinato (il contenuto empirico) nel quale essa è implicata, e 2) poi fare di questa forma il contenuto del pensiero, ossia la vera originaria natura del pensiero. Zeller, mostrando la possibilità della Logica formale e fissandola poi così per sé, non ne fa una scienza, ma un semplice presupposto astratto e formale d’ogni ricerca scientifica, come vedremo più innanzi. I caratteri che lo Zeller attribuisce alla Logica di Hegel sono molto imprecisi, come anche troppo indeterminate le ragioni ch’egli dichiara solite a porsi innanzi per sostenerla. Nell’unità di Logica ed Ontologia bisogna distinguere due unità. Altro è dire che i concetti oggettivi, ossia le determinazioni universalissime delle cose siano determinazioni del pensiero, altro è dire che le determinazioni del pensiero, ossia le forme logiche (certamente le forme logiche sono determinazioni, specificazioni del pensiero proprio nella sua originarietà) siano predicati, concetti oggettivi, determinazioni universalissime comuni a tutte le cose. Non si tratta infine, né di assorbire la Logica nella Metafisica,

dichiarando le forme logiche semplici determinazioni reali, né di assorbire la Metafisica nella Logica, dichiarando le determinazioni reali semplici produzioni del soggetto pensante; ma di considerare la Logica come una con la Metafisica, ed insieme distinta. Lo Zeller, come abbiamo visto di sopra, si sforza a mostrare la possibilità della Logica formale. Se fosse questa una quistione pedagogica, andrebbe tutto bene, ma dove trattasi della relazione della Logica al sistema della scienza, ossia, del valore reale della forma della funzione logica, il problema resta tutt’affatto non risoluto. Ma come s’è elevato Hegel al concetto della Logica speculativa? Criticando forse l’incompiutezza della Logica formale, e quindi dal considerare che queste forme sono sempre implicate in un contenuto determinato s’è egli deciso dar loro per contenuto tutto il reale ch’è obietto del pensiero, perché avessero valore oggettivo? Niente affatto. Perché si faccia oggetto della ricerca scientifica quella forma logica ch’è il giudizio, non fa d’uopo discorrere per tutti i generi della realtà, e raccogliere così tutti i contenuti determinati, cui è implicita quella forma. Ma perché io consideri il giudizio nella sua necessità razionale, nel suo valore oggettivo, debbo intendere che grado esprima del pensiero, che relazione abbia all’identità, alla qualità, alla quantità, e così via; infine, debbo sapere che realtà sia il giudizio, e non posso saperlo altrimenti, che osservandolo nella sua genesi da altre determinazioni, che ne sono il contenuto. Il contenuto della Logica è adunque, le stesse forme logiche come contenuto a sé stesse, e con tutto ciò la Logica resta sempre una scienza formale, se per opposto di forma s’intende il contenuto determinato. A me pare una maniera d’esprimersi troppo vaga, dire, che Hegel per dare valore oggettivo alle forme logiche, abbia fatto tutt’uno delle stesse, e del reale che per esse vien conosciuto. Qui sarebbe a proposito parlare della relazione della Logica con la filosofia della Natura, e dello Spirito, per determinare la differenza tra il Sistema della Logica, e la Logica del Sistema, se ciò non mi traesse fuori dei confini che mi fissai. Il valore oggettivo delle forme logiche, e l’idealità delle determinazioni reali – due opposte direzioni della ricerca scientifica, – si conciliano nel concetto della Logica, come scienza delle determinazioni pure del pensiero, che si espone come produttivo a sé stesso del suo proprio contenuto. Questo punto di vista, questa maniera di considerare il pensiero come primo elemento d’ogni realtà, è giustificato anzi determinato dalla Teorica della Conoscenza intesa secondo la mente dell’Hegel. Questa scienza deve esporre, secondo l’Hegel, il processo spontaneo della coscienza, che attraversa tutti i suoi gradi dall’immediata certezza sensibile fino al sapere assoluto, sviluppando insieme, il contenuto (l’oggetto), e la forma (il soggetto

che si determina diversamente) della conoscenza, per risolvere quello in assoluta idealità, e questa in conoscere per concetti, ed ambedue insieme in pensiero reale. Così, il reale ch’è il contenuto della Logica, non è più il reale opposto al pensiero (il reale conosciuto), ma la realtà tutta concentrata nella forma del pensiero (la forma logica); e le forme logiche che immediatamente appariscono come assolutamente separate dall’oggetto, sono reali, ossia, esprimono la natura intima dell’oggetto in quanto pensiero. Io non posso qui veramente mostrare, come si operi questa trasformazione nella Teorica della Conoscenza, ma quello che ho detto, serve tanto a conservare il valore della Logica speculativa, quanto a non ritenere per qualcosa di tutt’affatto immaginario la Logica formale; – ossia, a distinguere la forma logica come opposta al contenuto (la forma in quanto conoscenza), dalla forma logica come conciliata con lo stesso. Così la Logica, considerata come una con l’Ontologia (e tuttavia distinta), non pruova essa stessa l’identità d’essere e pensare (l’identità di forma e contenuto), ma la presuppone pruovata dalla Teorica della Conoscenza; la quale scienza, facendo delle forme logiche pensiero reale, è necessario che queste abbiano a contenuto le determinazioni ontologiche, nel carattere astratto di forma logica, e che esse stesse siano predicati reali. — Lo Zeller, dopo aver dimostrato così in generale la possibilità della Logica formale, la dichiara indispensabile per ogni ricerca scientifica; perché, essendo impossibile d’intraprenderne alcuna, senza aver prima determinato «le condizioni e le forme del processo scientifico», ed essendo la Logica appunto quella dottrina «che deve determinare queste condizioni e forme», essa come metodologia è il presupposto d’ogni scienza10. Così è anche il presupposto dell’Ontologia; la quale scienza non può trattarsi con successo, senza avere anticipatamente determinato se in essa debba usarsi il metodo a priori, l’aposteriori, o la costruzione dialettica. — «L’Ontologia considera le determinazioni universalissime di tutte le cose, e la Logica solo le forme dell’attività conoscitiva.»11 — A questo modo d’intendere la relazione del metodo al contenuto scientifico, non voglio rispondere con certe frasi (i concetti più profondi spesse volte diventano frasi), di cui si fa un poco d’abuso, vale a dire, che il metodo debba essere il ritmo stesso della cosa, e simiglianti. Ma domando solo: intesa così la Logica, come presupposto formale d’ogni ricerca scientifica, è essa stessa una scienza? No, certamente; perché, come tale, presupporrebbe la determinazione del metodo da un’altra scienza, e questa da un’altra, e così all’infinito. Che cosa mai è dunque la Logica? Pare che la risposta a questa domanda, dovesse attendersi dall’esposizione del concetto della Teorica della Conoscenza, ma vedremo più innanzi quanto sia arbitraria la

relazione di questa Teorica alla Logica, intesa secondo la mente dello Zeller. Questi dice di trovare nella Logica di Hegel precisamente distinto il problema della Logica da quello dell’Ontologia; «perché la maggior parte delle categorie sono determinazioni dell’oggettività, senza alcuna prossima relazione alle forme del pensare; mentre al contrario quelle che contengono una descrizione delle funzioni del pensare solo artifiziosamente possono applicarsi all’oggettività»12. In ciò avrebbe ragione se intendesse, come io mostrai dinanzi distinta dalla Ontologia la Logica, ed insieme una con la stessa, considerando sempre le forme logiche come determinazioni universalissime del reale; dico però le forme, e non le funzioni logiche, ché queste entrano nella Psicologia, e non sono predicati. Più avanti risposi affermativamente alla quistione circa la possibilità della Logica formale, ben’inteso però, che sia enunciata come una determinata relazione della coscienza, verso l’oggettività (nella Teorica della Conoscenza). Concedo anche che la Logica formale abbia un valore pedagogico. Ma se quella possibilità si fissa come necessità, se di quella separazione assoluta della forma dal contenuto se ne fa il perfetto concetto della Logica, vien rimossa assolutamente ogni comprensione della realtà. E questo non è vero solo rispetto al modo di contemplare la realtà secondo questi, o quei filosofi, ma rispetto alla filosofia in generale; tanto che quei sistemi i quali sembrano fondati su la Logica formale, in realtà hanno sempre un fondamento diretto o indiretto nella Psicologia, nella Teorica della Conoscenza, o nella Ontologia, perché possa venir corretto il difetto della Logica formale. Zeller, rigettata l’adeguazione di Logica ed Ontologia, non si è potuto certamente dissimulare le difficoltà che ne provengono, e la impossibilità di mai più pruovarsi ad una comprensione della realtà; perché resta sempre non risoluto il problema: che valore hanno queste forme; come possono applicarsi all’oggettività, se esse risultano solo dall’attività soggettiva del pensiero? O, a dirla altrimenti, com’è possibile che io intenda la funzione logica, se prima non intendo la forma che la determina? E che cosa sarebbe l’Ontologia? — Zeller non sa negare che la Logica formale manchi d’un «fondamento reale», ma in luogo della Ontologia, «è la Teorica della Conoscenza che deve prestarle questo fondamento»13. Restando sempre la Logica una scienza formale, come la Matematica e la Grammatica, pure le forme logiche diventano «qualcosa di vivo», quando noi sappiamo «qual servigio esse ci prestano nella conoscenza del reale». Come appunto la Teorica della Conoscenza, è quella scienza che «deve descrivere gli elementi universali della conoscenza, e le condizioni del nostro Spirito, per opera delle quali noi ci formiamo rette rappresentazioni delle cose» ad essa deve rincondursi la Logica14. — Ciò viene enunciato dallo Zeller come

una novità, perché l’Ontologia com’è una «determinata contemplazione scientifica dell’oggetto», non può servire di fondamento alla Logica, presupponendo il metodo (ossia, la Logica)15. Ma in che consiste la novità? Non ha forse Hegel costituita la Logica su la Teorica della Conoscenza, e non è questa scienza che ne determina il concetto preliminare, ed il punto di partenza? Veramente la novità sta in questo, che la Teorica dello Zeller non è Teorica. Quando questa Teorica deve «esporre gli elementi universali della conoscenza, e le condizioni del nostro Spirito attraverso delle quali noi ci formiamo rette rappresentazioni delle cose», io non intendo che bisogno ha la Logica di venir dopo della Teorica della Conoscenza, né in che consiste questa vita che acquistano le forme logiche. Se si trattasse di esporre la necessaria produzione (e questa è la vera Teorica) che fa lo Spirito a sé stesso della conoscenza reale; ossia della conoscenza, che immediatamente è antitesi verso il conosciuto, trasformata in pensiero, allora le forme logiche otterrebbero valore oggettivo. Esse sarebbero la virtualità assoluta d’ogni sapere scientifico. Ma dove non si considera altro che la rettitudine della conoscenza, non la conoscenza reale, la Logica può venire sì prima che dopo; anzi, stando alle definizioni dello Zeller, sarebbe giusto che stesse prima, affinché prestasse la determinazione del processo alla Teorica della Conoscenza, e questa desse alle forme logiche il contenuto determinato di cui mancano, perché infine, la rettitudine del pensare, che vi è anche quando la conoscenza è falsa, si ravvalori con la rettitudine della conoscenza. Nel seguito di questo esame, si vedrà meglio che la Teorica della Conoscenza dello Zeller, non ha alcun carattere di necessità razionale, ma è una semplice descrittiva, o meglio, un’empirica purificazione della conoscenza. Dall’esposizione e critica che ho fatto fin ora, risulta che queste due scienze, con tutta l’apparenza d’intima connessione che loro vuol dare lo Zeller, sono indifferenti quanto alla loro originazione. La Logica è una descrittiva del retto pensare; e la Teorica della Conoscenza è una descrittiva psicologica per conseguire la rettitudine della conoscenza. Dopo aver così determinata la relazione della Logica alla Teorica della Conoscenza, Zeller, passa ad esporre il significato speciale di questa Teorica. Ciò sarà oggetto del mio secondo paragrafo.

2. Determinazione speciale del problema della Teorica della Conoscenza Questo secondo paragrafo dovrà giustificare quello che ho detto nel primo, del niun valore sistematico, della dipendenza della Logica, dalla Teorica della Conoscenza, intesa secondo le vedute dello Zeller. Dai brevi cenni su la storia di questa Teorica, dal modo com’è caratterizzato il ritorno a Kant e dalla enunciazione anticipata dei risultati che si otterranno per questo nuovo metodo, si farà chiara l’imprecisione di quella dipendenza, ed insieme, che per la rimozione d’ogni necessità razionale dalla Teorica della Conoscenza, il ritorno a Kant è una falsificazione del Criticismo. — La Teorica della Conoscenza ha un significato indipendente dalla relazione con la Logica. Essa deve «prestare le ultime e compiute norme del retto metodo alla filosofia, anzi alla scienza in generale». Noi non possiamo procedere a guadagnare «rette rappresentazioni», se non, «in conformità delle condizioni del nostro Spirito, cui si rannoda la loro formazione». Ora la Teorica della Conoscenza deve studiare queste condizioni, e poi determinare se, ed in vista di quali presupposti, lo Spirito umano è capacitato alla conoscenza della verità16. — Enunciare così la Teorica della Conoscenza, è già toglierle il carattere di Teorica; e in questo modo è impossibile di tornare a Kant. — Zeller dice che questo bisogno s’è imposto alla coscienza filosofica, fin da quando in Socrate si manifestò la necessità d’un processo metodico, guidato da una determinata convinzione su la natura del sapere. «Ma solo in Bacone e in Descartes, fondatori della filosofia moderna, apparve nel suo vero significato, e fu determinato più acutamente questo problema»17. — Zeller espone sommariamente i punti principali della storia della Teorica della Conoscenza fino a Kant, per le due opposte direzioni dell’empirismo e del razionalismo. Hobbes, poggiandosi sul presupposto di Bacone, «che ogni conoscenza derivi dall’esperienza», fece il tentativo di dedurre tutto, e rappresentazioni e concetti, dalle impressioni sensibili; e Locke, polemizzando arditamente 18 le idee innate, ridusse quel presupposto, e quel tentativo a sistema; perché l’esperienza interna, ed esterna sono le due fonti d’ogni conoscenza per Locke. La seconda direzione si espose compiutamente in Leibnitz, perché questo filosofo, sostenendo contro Locke l’innatismo cartesiano, si spinse fino al punto dove era giunto Spinosa19, a sostenere infine, che tutte le «rappresentazioni affluiscano dal nostro Spirito, e quantunque rispetto al tempo s’incontrino, e convengano coi fenomeni esterni, quanto alla loro intima natura, non ne derivano»20. «Insiememente Leibnitz, distinguendo le

rappresentazioni in chiare ed oscure, coscienti ed incoscienti, ed ammettendo vari gradi nello sviluppo dello Spirito, poté accettare in questo sviluppo tutta l’esperienza, e le impressioni sensibili chiarificandole dalla sua posizione» (ossia, chiarificandole con l’originarietà della conoscenza)21. L’empirismo lockiano (la prima direzione) si allargò in Francia a materialismo, e da esso uscì in Inghilterra (dovrebbe dire, come risultato negativo) l’idealismo di Berkeley, e lo scetticismo di David Hume, cui la filosofia scozzese non sa contrapporre altro che l’esigenze della coscienza non filosofica22. L’innatismo (la seconda direzione) era arrivato in Germania, allo stesso punto, poi che lo spiritualismo di Leibnitz erasi ripiegato presso Wolfio in un formalismo logico, il quale «naturalmente solo nell’esperienza potea trovare il suo compimento»23. Così pei novatori francesi, e specialmente per Russeau, l’ultima misura della verità riposava «in certe convinzioni pratiche, presupposto assoluto di ogni ricerca scientifica»24. – — «Il merito immortale di Kant», segue lo Zeller, «è di aver liberato la filosofia da questo dommatismo, non solo riponendo in campo la quistione, ma risolvendola d’una maniera più fondamentale, e comprensiva». «Gli ultimi filosofi aveano dedotto le rappresentazioni, o solo dall’esperienza (empirismo), o solo dal nostro Spirito (intellettualismo).» «Kant conobbe che derivano da ambedue le fonti, non nel senso che una parte ne derivi da una fonte, ed un’altra parte derivi dall’altra fonte, ma nel senso che «in tutte trovansi i due elementi.» La sensibilità ci dà la materia, la forma la diamo noi stessi, anche quando non crediamo di far altro che raccogliere. «Il nostro Spirito conforme alle leggi che gli sono immanenti, rannoda ad intuizioni e concetti la materia che la sensibilità gli presta». Kant dava così ragione all’empirismo, ed al razionalismo, ma non fissando uno dei punti di vista con l’esclusione dell’altro; «egli, distinguendo la materia e la forma nelle nostre rappresentazioni, seppe conciliare ed insieme superare le due posizioni (direzioni) concependo tutte le rappresentazioni come prodotto comune dell’oggetto, e della nostra autocoscienza»25. — A me pare, che se deve caratterizzarsi d’una maniera generale la Teorica della Conoscenza prima di Kant, bisogna darle il nome d’immediata. Quando la conoscenza (la realtà cosciente – lo Spirito) non fa che andare, o solo dal particolare all’universale (empirismo – metodo induttivo) o solo dall’universale al particolare (intellettualismo – metodo deduttivo – e quindi l’applicazione delle categorie al contenuto indeterminato dell’intuizione, il principio d’identità, e così via via) lo Spirito non è che un immediato, lo Spirito non è la vera unità (la mediazione) di sé, e dell’altro. L’unità d’essere e

pensare, nella filosofia di quel periodo, è sempre parziale, sempre unità nella forma della differenza, unità immediata. Allora il vero merito di Kant, è di aver inteso la conoscenza (lo Spirito) come risultato di due elementi, e perché questi elementi sono la conoscenza stessa, il merito di Kant è di avere intesa la conoscenza come risultato di sé stessa. Il difetto di Kant è di aver inteso questo nuovo concetto della conoscenza, questo nuovo concetto dello Spirito, solo parzialmente; ma di questo parleremo più sotto. — Zeller, dopo aver determinato il valore di Kant, rispetto alla filosofia che lo precede, passa a considerare «quali erronee conseguenze trasse Kant da quei presupposti», per le quali erronee conseguenze, «lo Spirito filosofico della Germania s’è poi messo per una via falsa, ed insicura non ostante la splendidezza che ha mostrato nel suo sviluppo». Queste erronee conseguenze «derivano dalla duplice origine della conoscenza nel kantismo»: 1) se tutto deriva dall’esperienza, non si può conoscer niente, che trascenda la sfera della stessa; 2) e se in ogni conoscenza il soggetto presta la forma, è chiaro che io non posso conoscere le cose, che in quanto sono per me (in queste mie forme conoscitive), ossia in quanto sono fenomeni non cose in sé26. — Zeller, dopo di ciò, fa vedere la derivazione dei sistemi di Fichte, Schelling ed Hegel, il cui fondamento storico è l’errore di Kant, non quello che vi ha di vero in Kant. Perché Fichte (stando a quello che ne dice lo Zeller) si sarebbe elevato al concetto che ebbe della filosofia, solo criticando l’errore di Kant. Fichte diceva «se io non so ciò che siano le cose in sé, non posso neppure sapere se vi siano le cose in sé». Io ho le cose solo nella mia coscienza, ed è la natura stessa della mia coscienza che mi costringe a porre le cose fuori di me: «quindi il problema della filosofia è di concepire le cose, il mondo, il non-Io come fenomeno dell’Io, come momenti del suo sviluppo»27. — Prima che io segua ad esporre questi cenni storici dello Zeller, mi fermo alquanto a dichiarare il significato della teoria della conoscenza di Kant, perché io possa dare una risposta al presunto traviamento dello Spirito filosofico in Fichte, Schelling, ed Hegel. E ciò serve anche a valutare quanto sia schietto e storicamente fedele il ritorno di Zeller a Kant. Io qui non posso fare una storia della filosofia moderna fino a Kant. È chiaro però dagli stessi cenni dello Zeller, infedeli un poco in certi punti, o almeno troppo generali, che la Teorica della Conoscenza era sempre parziale, o come suol dirsi unilaterale, perché fissava tutto il valore della conoscenza in una delle sue due forme fondamentali (recettività ed apriorità) con esclusione dell’altra. Per questo dominio esclusivo d’una forma su l’altra, per questa parzialità della direzione, può darsi il nome d’immediatismo a quel modo di concepire la

conoscenza; che fa lo stesso quanto dire che quel periodo filosofico avea un concetto immediato dello Spirito. O che la conoscenza sia un risultato induttivo della sensazione (empirismo), o una genesi deduttiva dell’intelletto (intellettualismo), lo Spirito è sempre un immediato, non passaggio, processo, sviluppo da una forma all’altra. L’immediatismo è così spiccatamente la caratteristica di questo periodo filosofico, che né Spinosa né Leibnitz superarono questa posizione, questo naturalismo psicologico, quantunque il primo avesse fatto già un gran passo per uscire dall’esclusivismo cartesiano (ordo rerum – ordo idearum), ed il secondo si fosse aperto la via ad accettare la direzione opposta, ammettendo vari gradi nello sviluppo delle rappresentazioni. Ora qual è il valore storico del Criticismo? Kant ha risoluto l’opposizione dell’empirismo e dell’intellettualismo, ma non componendo insieme le due direzioni e lasciando loro in fondo quello che aveano di comune, ossia d’essere immediate. Kant non ha l’occhio di Wolfio da un lato; e quello di Locke dall’altro, ma ha un solo, e nuovo occhio (si perdoni la metafora). Questo nuovo intuito della realtà è il nuovo concetto dello Spirito, come autogenesi e mediazione. Non basta dire: Kant ha trovato che ogni conoscenza abbia la forma «dal nostro Spirito» e la materia dalla sensibilità, perché il «nostro Spirito» e la sensibilità sono lo stesso Spirito. Questa conciliazione di Kant è uno dei lati di Kant, e direi quasi l’esordio della nuova filosofia, l’introduzione al nuovo concetto dello Spirito; è, in una parola, la critica ancora esterna della parzialità delle due direzioni. Egli non avrebbe potuto veramente conciliare e superare le due direzioni, senza un nuovo concetto dell’apriori, o in altri termini, senza un nuovo concetto dello Spirito. Il vero merito di Kant è il concetto della sintesi originaria, del nuovo a priori. In Kant bisogna distinguere due originari. Il 1° è l’originario come opposto al dato, al puramente dato, e ch’è pur anche duplice (le due forme di tempo e spazio nell’intuizione, le categorie nell’intelletto); e qui sta la vera critica dell’empirismo. Il 2° originario, il vero apriori kantiano, è la sintesi dell’originario e del dato; o meglio la sintesi della duplice natura dell’originario. Questa è la vera scoverta, la vera novità in Kant; quello che Kant enuncia come: problema della possibilità del giudizio sintetico apriori. Questo problema, inteso nella sua verità, suona così: ammesso l’originario, che come semplice originario è un immediato, ed ammesso il dato ch’è un altro immediato, com’è possibile la conoscenza? Ossia, come è possibile che la conoscenza sia unità di universale e particolare (di pensare e d’essere)? L’esperienza kantiana non è la recettività, e non è neppure la semplice spontaneità, come quella che raccoglie ed elabora il dato, ma è appunto questa

unità dell’originario e del dato, della recettività e della spontaneità, infine lo Spirito è per Kant, non un composto di senso e d’intelletto, ma unità vera, sintetica, a priori, di senso e d’intelletto, di particolare ed universale, d’essere e pensare. Questo nuovo concetto dello Spirito contiene non solo la critica della Metafisica wolfiana, e dell’empirismo lockiano, ma il germe, della nuova filosofia, della nuova contemplazione della realtà. Kant non ha risoluto il problema: spiegare la conoscenza come unità di particolare e d’universale, spiegare lo Spirito come vera unità d’essere e pensare; ma ha aperto la via per la vera spiegazione. Dopo di Kant, non potea più considerarsi la conoscenza come producentesi da uno dei suoi elementi, ma bisognava spiegare la sintesi originaria, che si espone come contrapposizione con sé stessa. Kant s’è travagliato lungamente alla soluzione di questo problema, stimolato sempre dal bisogno di raggiungere la conoscenza dell’obbietto razionale; ma non l’ha risoluto, perché i dati storici del problema erano parziali, ed in conseguenza di ciò, anche parziale la posizione del problema. Sicché il kantismo è falso, quando si accetta il risultato dommatico del Criticismo come vera soluzione del problema. Ora, che valore ha Kant per Zeller? di aver solo ammesso che la conoscenza è risultalto dell’azione mista del soggetto e dell’oggetto. Ma si è contentato Kant di questa spiegazione? Non resta sempre a risolvere il problema: se ogni conoscenza risulta dall’impressione (recettività), e dalla produzione (spontaneità), che cosa è mai la conoscenza, questa unità ch’è in sé differenza, questo universale (pensiero) ch’è in sé particolare (essere)? Kant, come ho detto di sopra, ha inteso il valore di questo problema, ma non l’ha risoluto perché era posto parzialmente, e lo era per la situazione storica. Il difetto non è nell’esigenza, ma nella soluzione, onde, gli «errori fondamentali» del kantismo, non dipendono dalla esagerazione del Criticismo, ma dal non essere stato Kant tanto critico, quanto la natura ed il valore del problema lo esigevano. Kant cercava la necessità razionale nella conoscenza, cercava la cosa in sé, ossia, la vera cosa per noi. Zeller rimpicciolisce il significato storico del Criticismo, perché dire che la conoscenza derivi da due fonti, non è superare veramente la parzialità delle due direzioni, che aveano questo di comune, d’essere una soluzione immediata; ma quello che supera veramente l’immediatezza è l’esigenza d’un nuovo concetto dello Spirito, l’esigenza della mediazione. — Zeller espone sommariamente lo sviluppo storico della filosofia per Fichte, Schelling ed Hegel. Fichte avea detto: il problema della filosofia è di «concepire

il mondo, il non-Io, come fenomeno dell’Io», come produzione della coscienza. Ora, ammesso anche che l’Io, come opposto al non-Io, sia qualcosa di dedotto dall’Io assoluto, noi non siamo coscienti che nell’opposizione d’Io, e non-Io, noi non siamo soggetto, che in opposizione all’oggetto. L’Io assoluto adunque, quell’Io che sta innanzi a questa antitesi d’Io e non-Io, non è né Io, né non-Io, ma Indifferenza d’Io e non-Io. Schelling «fa allora in due il concetto che aveva Fichte dell’Io assoluto; da una parte pone l’identità ed indifferenza assoluta d’Io e non-Io (il soggetto-oggetto, l’Assoluto), e dall’altra parte pone le due forme fenomenali d’Io e non-Io, di soggetto ed oggetto, di Natura e Spirito. La filosofia deve conciliare col pensiero questi due lati, spiegare il dedotto dall’originale, «spiegare la Natura e lo Spirito spiegando l’Assoluto»28. — — «Pieno di animo, ma sempre con metodo manchevole, ed in mezzo all’inquieta vicenda della forma, e delle espressioni, Schelling s’è spesso pruovato alla soluzione del problema». Hegel, con la pazienza ed il lavoro del pensiero, con rigore e stringatezza sistematica, s’è nuovamente pruovato29. — Ecco, secondo Zeller, quali furono i «fondamentali pensieri», coi quali Hegel tentò una «costruzione dialettica dell’universo». — Se l’Essenza assoluta si manifesta nella Natura e nello Spirito, questa «manifestazione deve appartenere alla pienezza del suo essere; la Natura e lo Spirito debbono essere fenomeni essenziali dell’Assoluto, momenti inevitabili della sua vita eterna. Ed essa stessa, l’essenza assoluta, deve divenire Spirito assoluto, muovendosi attraverso le antitesi del finito, e sviluppandosi attraverso la Natura e lo Spirito finito». Questa manifestazione deve rispondere ad una legge, perché l’accidente è inconcepibile nell’Assoluto. Colta la formula di questa legge, s’intende come il mondo si produca dall’Assoluto. E dove altro può trovarsi questa formula, se non «nella legge dello sviluppo attraverso le antitesi»? Come l’Assoluto deve incedere necessariamente nella forma della Natura, della finitezza e dell’esteriorità, «per apprendersi come Spirito», così quello sviluppo segue la stessa legge. «Quello che si sviluppa deve divenire un altro, per tornare a sé, e comprendersi come uno con sé nel suo stesso estrinsecamento.» Il metodo dialettico non è che la «copia di questo processo reale, e questo metodo deve riuscire a riprodurre scientificamente, il prodursi del mondo dall’Assoluto»30. — Zeller tributa l’elogio di «grandioso» a questo «tentativo», concede che vi sia del «giusto e del vero», e che sia «meraviglioso per le molteplici applicazioni» di cui è capace: ma dopo «la più spregiudicata pruova» è costretto a confessare, che non sia riuscito. Anzi nol poteva; «perché Hegel trascende le condizioni dell’umana conoscenza, e vuole quasi ad un tratto da su in giù afferrare l’ideale del sapere, a cui solo lentamente, attraverso la più

intrigata fatica, ed andando da giù in su noi potremo accostarci». Il metodo dialettico pure è un risultato «dell’idealismo uscito da Kant» e quando si guarda «dal punto di vista storico, sta al suo posto». Però, esso non soddisfa più, ed è impossibile «di romperne il cerchio magico se non s’investigano di nuovo le basi che ha comuni coi sistemi precedenti»31. Oltre a ciò, Zeller si dichiara scontento di tutti i tentativi fatti fin ora per migliorare l’Hegellismo, o per sostituirvi un nuovo sistema; come anche dichiara aver ragioni sufficienti per non accettare la dottrina di Herbart, quantunque egli onori grandemente questo filosofo, che «stato contemporaneo di Hegel, seppe opporsi a tutta la nuova filosofia tedesca»32. Ecco come Zeller motiva e caratterizza il ritorno a Kant. È innegabile che la filosofia sia arrivata ad una di quelle epoche del suo sviluppo, in cui o si trasforma o si dissolve interamente. È deplorevole che ora, in luogo dei grandi sistemi, non vi ha che «indecisione e traviamento». Le ricerche particolari occupano il posto dei sistemi, la filosofia non si studia con interesse, e dai cultori delle altre scienze, è considerata come qualcosa che loro arreca impaccio, e perturbazione. Che bisogna fare? Macchiavelli dicea, «che gli stati di tanto in tanto debbono ricondursi ai loro princìpi»; e lo stesso bisogna fare della filosofia quando si è a certe epoche — Kant ha iniziato il nuovo periodo filosofico, e proprio con la Teorica della Conoscenza: ora «chiunque vuole migliorare la nostra filosofia (è Zeller che parla) deve tornare ad investigare i problemi che Kant si proponeva, e farlo nello spirito del Criticismo, ed, istruito dall’esperienza scientifiche del nostro secolo, evitarne gli errori»33. Io non avrei dinanzi esposto, quei pochi cenni storici che dà lo Zeller, se non mi fossero serviti a mettere in luce una grave contradizione. Metto da banda qual sia il merito intrinseco del kantismo, ché la restrizione arrecatavi dallo Zeller sarà meglio intesa fra poco; ma domando: quale è il merito di Kant per Zeller? Che egli riconobbe la doppia origine della conoscenza. E quali l’erronee conseguenze? Aver negato la conoscenza della cosa in sé. A me pare però che la filosofia posteriore non abbia più parlato di cosa in sé, anzi la conoscibilità assoluta del reale s’è andata siffattamente sviluppando, da riuscire ad «una costruzione dialettica dell’universo». La filosofia posteriore adunque ha rimosso gli errori di Kant, ha mostrato che la cosa in sé è la vera cosa per noi; ha risoluto con una nuova Teorica della Conoscenza (in Hegel) questo di là, questo inconoscibile in una progressiva limitazione attraverso tutte le forme soggettive, finché non si esprima come assoluta fenomenalità, come quello che apparisce, e si manifesta assolutamente. Veramente i filosofi che succedettero a Kant non mossero dal solo

presupposto della duplice origine della conoscenza, ma dal concetto, imperfetto in Kant, della sintesi originaria. Questa sintesi si presenta nella Teorica della Conoscenza dell’Hegel, come geminazione originaria della coscienza in soggetto ed oggetto; e nella progressiva esperienza dei due lati, tanto più apparisce l’oggetto, e sparisce il soggetto, quanto più si determinano, per finir, quello come assoluta idealità, e questo come conoscere per concetti, ossia pensiero reale. Ma la sintesi originaria è quello che vi ha di veramente nuovo in Kant, e Zeller mettendola da parte, e riducendo tutto il merito di Kant ad aver riconosciuta come duplice l’origine della conoscenza, ricade nel più empirico psicologismo quando vuol determinare il metodo della sua Teorica della Conoscenza. Zeller è preoccupato dall’indecisione che domina attualmente la coscienza filosofica, ma io non posso credere ch’egli sia seriamente convinto che il tentativo di Hegel abbia fallito. Io domando: che intende Zeller «per ritorno a Kant»? Forse rivedere storicamente nel principio kantiano tutto lo sviluppo posteriore della filosofia, e decidersi poi per una di quelle molte direzioni, che tanto ostinatamente pretendono essere state derivazioni di Kant? Questo lo accorderei. Ma tornare a Kant, spogliandolo di quanto ha di veramente nuovo, non è tornare a Kant, ma accettarne un lato, e forse uno dei meno rilevanti. Lo Zeller avrebbe dovuto pronunziarsi altrimenti, dichiarando voler fare un nuovo tentativo per risolvere il problema della conoscenza, e poscia accettare alcune determinazioni del kantismo. Per convalidare anco di più che il ritorno di Zeller a Kant è una falsificazione dello spirito del Criticismo, esporrò quello che Zeller enunzia anticipatamente su i risultati che si otterranno mediante il suo metodo. Così crederò d’aver soddisfatto ai tre assunti di questa dissertazione. Origine delle rappresentazioni. Zeller conviene con Kant nelle «determinazioni fondamentali» quanto all’origine delle rappresentazioni. Non vi ha rappresentazione alcuna, «il cui contenuto non derivi dall’esperienza o immediatamente, o mediatamente». Se si accettasse il contrario non si potrebbe intendere come «l’anima si formi questo contenuto»; né si potrebbe «spiegare il fatto innegabile» che noi troviamo «in ogni rappresentazione le vestigia dell’esperienza, e che non abbiamo rappresentazioni o concetti di quello che sfugge all’esperienza». E come mai noi potremmo ritenere per vere «quelle rappresentazioni, che non fossero né ridestate né prodotte da un’azione dell’oggetto»34? Il secondo punto in cui Zeller conviene con Kant è che le rappresentazioni non si producono altrimenti che mediante la «nostra attività», mediante le «forme conoscitive che ci sono intime». Quello che ci dà «immediatamente

l’esperienza» sono le «impressioni particolari come fenomeni della nostra coscienza», ed anche la guisa come le riceviamo è condizionata dalle leggi delle nostre facoltà sensitive. La «nostra cooperazione si vede più manifestamente, quando raccogliamo in immagini comuni più impressioni particolari», quando noi astragghiamo i concetti dalle percezioni, ed inferiamo dai fenomeni alle cause che loro stanno in fondo35. Infine, Zeller accetta che le rappresentazioni «in tutti i gradi del loro sviluppo» sono prodotto comune dell’impressione dell’oggetto e della facoltà rappresentativa del soggetto. Come questi elementi cooperino a formare la conoscenza, e quali siano le leggi della facoltà rappresentativa, deve attendersi dal corso ch’egli ha intrapreso36. Accettare questo è accettar molto poco di Kant, almeno quando non sia di stimolo a proporsi nuovamente il problema, e con gli elementi che prestano queste determinazioni. È vero che per Kant il contenuto viene dalla recettività, la forma dalla spontaneità (Zeller dice esperienza e facoltà rappresentativa), ma la recettività così per sé non è l’esperienza kantiana. Questa è l’unità della recettività e della spontaneità, e la conoscenza non è per Kant qualcosa di dato che bisogna descrivere, ma quello che deve intendersi è appunto la sua produzione. Ammesso quello che dice lo Zeller, che il contenuto delle rappresentazioni derivi dall’esperienza, perché la forma è sempre qualcosa di soggettivo, l’esperienza non può intendersi mai come l’azione immediata dell’oggetto, ma sempre come qualcosa che si determina attraverso le forme soggettive. Zeller accetta la conoscenza come un fatto, direi quasi, come una condizione naturale dello Spirito: pare che la scienza non debba far altro che analizzarlo. Vediamo le conseguenze. Verità delle rappresentazioni. Determinata l’origine delle rappresentazioni, nasce subito la quistione «circa la loro verità». Essendo esse «sempre una nostra maniera d’intuire, e di rappresentare», e l’oggetto essendoci «sempre dato in queste nostre forme» conoscitive, può domandarsi: «è mai possibile di conoscere la cosa in sé»? Kant risponde negativamente, e secondo Zeller «senza dimostrarlo»! «Questo è l’errore fondamentale del kantismo, ed in esso è contenuto il germe dell’idealismo fichtiano», e di tutto il traviamento della filosofia tedesca. Perché le cose ce le rappresentiamo noi, bisogna inferirne «che non ce le rappresentiamo nella loro verità»? Non è forse «probabile» che le nostre facoltà rappresentative furono «disposte dalla natura a farci vedere rettamente le cose»? Zeller dice, che ciò ci parrà vero, se noi consideriamo, ch’è un solo «ordine naturale» (un solo cosmo) quello a cui noi e le cose appartengono, e dal quale «derivano i fenomeni oggettivi, e da questi le nostre

rappresentazioni»37. — Ammetto perfettamente, che determinata l’origine delle rappresentazioni come fa Zeller, nasca la quistione «circa la loro verità»; ma i dati del problema sono tali che esso non sarà mai più risolubile. Kant ha il grande merito d’aver sentito la necessità di liberarsi da questo punto di vista psicologico; e col concetto della sintesi originaria (imperfetto ancora) esordì la vera Teorica della Conoscenza. Accettando le determinazioni dello Zeller, che le rappresentazioni siano prodotto comune dell’azione degli oggetti sopra di noi, e delle forme onde noi riceviamo quelle impressioni, non è più possibile di avere la conoscenza dell’obbietto razionale (la verità della conoscenza). Allora la Teorica della Conoscenza, non può esser’altro che un’empirica purificazione delle nostre rappresentazioni da tutti i difetti soggettivi onde n’è condizionata la formazione. Quello che Zeller dice dell’unico «ordine naturale» è un semplice presupposto, e quando si vuol provarlo, bisogna concepire altrimenti, che non fa Zeller, la relazione della conoscenza all’oggettività. — Ecco, secondo Zeller, come debbono depurarsi le rappresentazioni dagli elementi soggettivi; per ottenere «la cosa nella sua verità». Finché noi prendiamo a considerare «alcuni fenomeni particolari», perché i due elementi sono «uniti immediatamente», è impossibile avere la retta conoscenza degli oggetti. Ma «paragonando diversi fenomeni», osservando che «diversi oggetti hanno una rappresentazione comune», o gli stessi oggetti «diverse rappresentazioni»; quando noi troviamo che non solo i sensi, ma le distinte percezioni ed il pensiero «ci attestano lo stesso», è facile discernere quello che vi ha di oggettivo nella conoscenza, e così ottenere gli oggetti nella loro verità38. — Tutto ciò che cosa vuol dire? Che l’oggetto sta lì fisso, immobile, inalterato, e che si sente, si percepisce, si pensa, e quando tutte le forme dello Spirito attestano lo stesso, esso vien conosciuto nella sua verità. Ma sentire, percepire e pensare non sono determinazioni più o meno intime al soggetto? E l’oggetto già sentito non è qualcos’altro nella percezione, e nel pensiero? Io concedo che la conoscenza sia recettività, e spontaneità; ma l’esperienza stessa non è questo doppio elemento? Ora la Teorica della Conoscenza consiste proprio a fare, che l’esperienza si liberi da questo doppio elemento, e trasformi l’oggetto falsamente conosciuto in vero oggetto. — Zeller pretende che vi sia un altro mezzo, per conseguire la verità della conoscenza, ossia fare delle ipotesi, per la qual via la Matematica, e le scienze fisiche raggiunsero quel grado di certezza che hanno attualmente39. Ciò veramente non merita critica, perché le ipotesi sono il contradittorio assoluto della conoscenza filosofica. Zeller per conchiudere, dice ch’egli non è né dommatico, né empirico, ma

critico. Il primo passo che bisogna fare nella scienza, «è osservare». Con l’osservazione si separano gli «elementi oggettivi dai soggettivi nella conoscenza», e si fissano i fenomeni reali nella loro originalità ed indipendenza dalle forme soggettive. Poi bisogna trovarne le cause, «e qui comincia veramente la scienza», per far la quale, bisogna servirsi dei metodi che la Logica deve fissare40.

Io non mi proposi di far la critica della Teorica dello Zeller, perché non presi ad esaminare che quelle poche generalità che la sua prolusione contiene. Io volli far vedere che Zeller, si dichiari pure critico e non dommatico o empirico, certamente non è kantiano; se pure non si voglia ritenere per seguace d’una dottrina, chi ne accetta certe determinazioni elementari. Non ostante che la prolusione non contenga che generalità, pure vi è tanto, da far vedere quanto a torto lo Zeller si dichiari restauratore del vero spirito del Criticismo. La Teorica della Conoscenza dello Zeller, è una disciplina puramente empirica, una descrittiva psicologica; in conseguenza della quale, e della Logica formale, si otterranno esatte ricerche, ma non un sistema filosofico. Che lo Zeller manifesti più chiaramente le sue convinzioni, e non si nasconda sotto il nome di Kant. Qui mi fo una domanda: da che dipende questo abbandono dell’Hegellismo? A me pare che l’impotenza sia nella scuola, e non nel principio. Anzi la scuola è stata l’esagerazione del principio. Hegel intese per sapere assoluto, che la conoscenza è in sé tutto il conoscibile; ma il conoscibile certo non è ora attualmente tutto conosciuto. Lo Zeller ha ragione che la scienza sia un ideale, ma è un ideale che ha un’esistenza, e si fissa come questa o quella produzione scientifica, questa o quella intuizione fondamentale d’un sistema. Noi non faremmo mai la scienza, falsa che sia, se guardassimo da lungi questo ideale, se non sentissimo d’averlo in noi. Così il vero bene, il bene assoluto è un ideale, è qualcosa che ha da esser sempre non vi è ora non vi è stato una volta, ma noi non faremmo né vorremmo il bene, senza la presenza di quell’ideale in noi, senza la convinzione di doverlo possedere. Solo per questa immanenza dell’ideale in ogni esplicazione storica, la scienza è necessità razionale; solo per la coscienza di questa immanenza vi può essere un metodo assoluto. E così la scienza; può essere, non un giuoco soggettivo, ma la consapevole ed intima contemplazione della vita reale dell’universo; e perché si adegui non si dilegua mai. a

Zeller apparteneva alla scuola heghelliana di Tubinga.

b

Cfr. il giornale «der Gedanke», fascic. del Dicembre 1862.

DELLA RELAZIONE DELLA CHIESA ALLO STATO [1864–65]

Mio Caro Angarano1. Non potrei soddisfare convenientemente la tua richiesta, senza lunghissimo lavoro, eccedente troppo il tempo che mi concedi e la mia coltura. Ti esporrò in brevissimi tratti ed in forma aforistica il concetto che io mi fo di questa relazione, tracciando i punti principali per cui dovrebbe condursi la quistione e tu potrai con la tua solerzia eseguire il mio disegno. Raccomando alla tua benevolenza la poca profondità delle mie vedute, in considerazione delle svariate attinenze giuridiche e storiche della quistione proposta.

1. Fissare il punto di partenza della quistione Quando si domanda «qual è la relazione della Chiesa allo Stato», la maniera che ci si offre più opportuna a cogliere questa relazione sta nel fissare il concetto di queste due forme della vita etica e poi derivarne la relazione dal concetto stesso. Spesso si confonde Chiesa e Religione, e per tale confusione si colloca arbitrariamente la Chiesa al di sopra dello Stato, assegnando a quella uno scopo infinito e sopramondano ed a questo uno scopo tutto finito e mondano. Vi ha un altro errore che consiste nel fissare tutto il valore dello Stato in una delle sue principali, o in molte delle accessorie sue funzioni, onde vien limitata la sfera delle relazioni ch’esso deve abbracciare, e così resta al di sotto della Chiesa, che come espressione esterna d’un sistema religioso, le abbraccia tutte. Il primo di questi errori ha il suo fondamento. Essendo sempre la Chiesa un’associazione e spesso una gerarchia destinata a «conservare e perpetuare il contenuto d’un’idea religiosa», si presume elevata a quello stesso grado di assolutezza ch’è proprio della religione. Così si accorda alla Chiesa quella superiorità che compete alla Religione come libera intuizione del destino della vita universale, riguardo allo Stato, ch’è l’ultima espressione della libertà umana nella sfera del dritto e del costume (ossia della mondanità). Il secondo errore, che scaturisce da una maniera troppo limitata di considerare lo Stato, si connette a certe teoriche sia religiose sia schiettamente individualiste, che esagerando troppo o la coscienza, o l’intimità, o la personalità, riescono a riabbassare il valore dello Stato, come comunità giuridica, ed etica. Lo Spirito pratico (che ha la sua ultima espressione nello Stato) è mondanità, ma tale che è base, fondamento e presupposto della vita assoluta e sopramondana. Il punto di partenza della quistione io lo determinerei così: «Distinguere la Chiesa dalla religione», o se si vuol mantenere il duplice significato della parola Chiesa, distinguere la Chiesa visibile e gerarchica dalla Chiesa invisibile, unità non accidentale ed estrinseca ma assoluta ed intrinseca degli spiriti: – e quindi assegnare alla Chiesa (visibile) il posto, le garanzie, e la libertà che le competono nell’organismo della Società civile.

2. Dello Stato Io distinguo la Chiesa dalla Religione, 1° perché ho schietta convinzione della superiorità della Religione nel contenuto puramente Etico. E con ciò, non nego che la religione riposi sul sentimento etico della coscienza umana, ma è tale il sentimento Religioso, che non ha più per contenuto le relazioni degli uomini come persone, ed enti morali (la mondanità dello Spirito) ma ha per contenuto la destinazione ultima degli spiriti come uni con l’essenza assoluta (mediante il culto e l’adorazione) e ci mena alla comunità universale ed all’eterna Beatitudine. 2° – E fo questa distinzione, in vista del concetto che ho dello Stato. Lo Stato non è la semplice unione degl’individui per la garantia o sostentamento reciproco (uno dei caratteri o funzioni dello Stato) né questa o quella forma politica dello Stato (il lato giuridico e Storico dello Stato); ma in generale chiamo Stato «tutto il complesso delle relazioni etiche (l’attività pratica) che sviluppandosi attraverso la famiglia, la società civile e le classi, si conformano a poteri, diritto interno, ed esterno». Lo Stato vero è così tutta la sostanza etica d’un popolo che si esprime come persona, e la relazione dei molti Stati (dritto internazionale) come civiltà, Spirito d’un’epoca, ed in generale Spirito del Mondo (filosofia della storia). Nello Stato così concepito, la Chiesa non può stare che in una relazione di subordinazione, perché quantunque la Chiesa sia riflesso d’un sistema religioso, come corporazione, associazione e possesso rientra nella sfera delle relazioni giuridiche ed Etiche che sono espresse nella persona dello Stato.

3. Della Chiesa Non solo dal punto di vista dell’interesse politico, e del concetto dello Stato, ma anche da quello della Chiesa stessa, se ne rileva la subordinazione allo Stato. La Chiesa sorge nello Stato, e quello che le dà un’esistenza giuridica non è il principio religioso. O che una Chiesa sia posta in uno Stato già costituito e ne abbia accettato il giure, o che sia sorta contro una determinata costituzione politica, ed abbia prodotto rivoluzioni nello Stato esistente, sempre la Chiesa ha un’esistenza esterna e come consorzio, associazione, polizia, possesso ed amministrazione, è una forma di società civile, ha una esistenza giuridica e sta in quella sfera dello Spirito che dicesi mondano. Questo principio intendo bene che sia in opposizione del Cattolicesimo, nell’indole della qual religione è la confusione dell’unità e comunità degli Spiriti in quanto consapevoli della loro unica essenza (la Chiesa mistica, invisibile) con la comunità esterna dei credenti in un simbolo, e che essi mantengono e si sforzano di propagare. Questo modo che io ho d’intendere la Relazione della Chiesa allo Stato, riposa sul principio della libertà religiosa, non come concezione d’un potere legislativo, ma come emergente dalla stessa coscienza religiosa. La vera Chiesa è così le molte Chiese, espressioni diverse d’un solo principio, nella forma accidentale del simbolismo, e del culto.

4. Della relazione Determinato e sviluppato il concetto dello Stato (teorica dello Stato), come ultima espressione della libertà umana nella sfera giuridica (la libertà reale, mondana) e determinato il concetto della Chiesa in relazione alla Religione in generale, ed alle forme Storiche della Religione in particolare) resta a fare due cose onde specificare la subordinazione della Chiesa allo Stato. [1°] Esporre Storicamente la formazione della Chiesa, come gerarchia, giure canonico e disciplina, e studiarne la progressiva relazione con lo Stato. [2°] Quanto alla quistione pratica, servendosi della luce che hanno arrecato i rivolgimenti politici, le riforme religiose e le discussioni parlamentari, bisogna determinare ad un per uno i diritti della Chiesa p. es. come riunione o consorzio, come possesso, come propaganda, insegnamento, liturgia, e Disciplina Ecclesiastica. Non posso esporre lo sviluppo che dovrebbe prendere la trattazione perché sono ignaro del dritto positivo.

ORIGINE E NATURA DELLE PASSIONI SECONDO L’ETICA DI SPINOZA [1866–67] Humanas actiones, atque appetitus considerabo perinde, ac si quaestio de lineis, planis, aut de corporibus esset. SPINOZA, Eth. III, Praef.1



La ricerca su la natura e la origine delle passioni, è principalmente motivata dal bisogno di unità e d’interna conciliazione con noi medesimi, che è il tema di tutti gli sforzi dello spirito, sì nell’attività pratica come nella teoretica. La filosofia ha in tutti i tempi tentato d’intendere, come potesse mai trovar luogo nella natura umana un tanto dissidio, quale è quello fra gli elementi riluttanti della ragione e della passione; ma preoccupata quasi sempre dagl’ideali morali ed estetici, e studiandosi di ricercare piuttosto una norma della condotta, anziché il principio naturale della vita, s’è soventi volte preclusa anticipatamente la via che potesse condurla a considerare le leggi dalle quali dipendono* nelle loro normalità e costanza, le passioni umane. Sotto questo riguardo la teoria di Spinoza, studiata nell’insieme del suo sistema, e messa a raffronto coi progressi del naturalismo moderno, ci presenta una singolare novità, degna tuttora della più seria considerazione. La filosofia antica non ha dato a questo problema una soluzione soddisfacente, perché non essendo arrivata mai ad una critica della coscienza, che facesse approfondire in tutte le sue antinomie il concetto della libertà, si accontentò ben presto di trovare la unità che cercava, o nel sagrifizio dell’individuo al benessere dello Stato, o nel presupposto morale dell’abnegazione. Questa seconda soluzione divenne una norma della vita nei tempi della decadenza, e fu il principio dell’apatia che caratterizza lo Stoicismo. Nella sfera della coscienza religiosa del Cristianesimo la posizione dello spirito in questa ricerca ha tutte le apparenze di aver peggiorato. La passione infatti diviene peccato; e nel posto della ragione subentra il dono soprannaturale della grazia. Lo spirito soggetto ad un doppio martirio, alla coscienza della colpa, ed alla confessione della propria impotenza ad espiarla, si trova nella massima opposizione colla natura, ed esposto quasi a perdere per sempre di vista il legame che a quella lo ricongiunge. Nulladimeno, sebbene con poca evidenza, la passione ha qui guadagnato importanza maggiore. Se la sua natura è d’esser peccato, tutte le volte però che, cambiato oggetto, si volge a Dio, diviene carità ed amore. In questa semplice affermazione del sentimento religioso è contenuto il germe di una più larga e più profonda spiegazione della natura umana: dico soltanto il germe, perché riposando il Cristianesimo sulla fede nella rivelazione positiva, dovea prima, con la eliminazione di questa fede, trovarsi il centro proprio di gravità della coscienza, perché lo spirito compenetrandosi per proprio impulso della nuova idea, riconoscesse e ritrovasse in sé stesso e nella sua spontaneità, la ragione del dissidio, ed il principio della riconciliazione. Queste osservazioni, che son dette qui senza veruna pruova, mi son servite di guida per intendere senz’ombra di pregiudizio la teorica di Spinoza. Le ovvie parole, di fatalismo, di panteismo, e così via, con le quali si suole ordinariamente

caratterizzare una filosofia per tante ragioni poco intelligibile, non son certo le più atte a designare l’intimo valore di un sistema straordinario, e direi quasi unico, qual’è quello di Spinoza. Ed io dal canto mio, non credo poter mettere in chiaro in che consista la novità del concetto che Spinoza ha della origine e natura delle passioni umane, se non preponendo alla mia esposizione un breve riassunto dei concetti fondamentali dello Spinozismo. *

dipendono α | T: lac.| sono governate Sv.

INTRODUZIONE I PRINCIPI FONDAMENTALI DELLO SPINOZISMO I Motivo etico della filosofia dello Spinozaa Tutti i beni al conseguimento dei quali noi generalmente aspiriamo nella vita, possono ridursi a tre, la voluttà, la ricchezza e gli onori. Tratti incessantemente dalle tendenze della nostra natura ad agognarne il godimento, non v’ha ostacolo che valga a rattenerci dal fare ogni sforzo, perché le nostre voglie sien paghe. Ma quale è intanto l’effetto che consegue dal possesso di questi beni? La voluttà, che ardentemente bramiamo, ottunde il desiderio, ed affralisce le forze. La ricchezza e gli onori che ricerchiamo a tutta possa, non ci soddisfano mai pienamente, anzi esca a nuovi desiderii, mettono il nostro spirito in un continuo travaglio, e l’invogliano a sempre più appetirne. L’ambizione non ci lascia mai soddisfatti a pieno, e rendendoci soggetti alle circostanze, ci costringe ad operare a senno altrui. E in pari tempo, le ricchezze e gli onori già conseguiti, non sono per noi un possesso sicuro, perché il timore di perderli ci tiene continuamente perplessi. I beni adunque della vita, tutt’altro che beni, sono mali; noi diveniamo per essi servi degli affetti ed incapaci di raggiungere quella felicità che da essi c’impromettiamo. Noi invece vogliamo possedere un bene imperituro che non soggiaccia a corruzione e che ci procuri una gioia che non ammetta disinganno. Qual’è la via per raggiungerlo? Ed abbiamo noi tanta forza che basti a vincere tutti gli affetti che ci legano alle cose fugaci del mondo per raccogliere tutte le nostre potenze al conseguimento e godimento del sommo ed unico bene? Solo una risoluzione può renderci da tanto, quella cioè di rinunziare ai beni del mondo, penetrati della loro nullità. Questa risoluzione non si compie in un istante; perché le passioni e le abitudini antiche fanno continua guerra al nuovo proposito, ma siccome lo spirito guadagna a po’ per volta nella via della libertà arriva finalmente a concentrarsi tutto nella contemplazione di quel bene che appaga assolutamente, senza lasciar luogo a desiderio o dolore. La radice dell’umana servitù sono le passioni e queste consistono nell’amore che portiamo alle cose particolari. L’uomo nella sua imaginazione subordina il valore delle cose al criterio del suo interesse; l’uomo in una parola è egoismo. Ma l’amore per l’essere assoluto ed eterno ci libera dall’egoismo, perché noi

contemplando le cose nel loro ordine e nella loro necessità, vinciamo l’egoismo. La meta dunque della vita è l’elevazione dello spirito alla contemplazione dell’ordine necessario delle cose, la congiunzione, cioè, della mente con l’ordine necessario della natura. Quando noi consideriamo l’uomo nelle sue passioni per le cose particolari, egli è lontano dalla vera beatitudine, come la conoscenza falsa è lontana dalla vera. Le passioni per le cose fugaci riposano sopra idee false, o come Spinoza dice, inadeguate, il godimento del vero bene riposa nelle idee adeguate. Dimostrare scientificamente questa elevazione dello spirito dalle idee inadeguate, false ed oscure, alla contemplazione dell’ordine assoluto delle cose, all’amore di Dio, questo è il problema dell’Etica. Ma qual’è in somma la differenza di queste due forme della conoscenza? La conoscenza inadeguata considera le cose isolatamente, come oggetti dei nostri desideri, come stimoli dei nostri appetiti, come mezzi dei nostri fini; le considera infine ex communi naturae ordine. La conoscenza adeguata consiste nella riproduzione della vera natura delle cose, come parti dell’ordine assoluto della natura; conoscere adeguatamente è contemplare le cose sub specie aeternitatis. Il nostro* motivo della filosofia di Spinoza, come si vede, è esclusivamente etico. La ricerca alla quale debbono metter capo tutti gli sforzi della vita è quella dell’assoluto dominio sulle passioni e della compenetrazione dell’individuo con l’ordine eterno della natura. Quale sia quest’ordine, s’intenda teoricamente, e come lo spirito possa elevarsi allo stesso in guisa da vincere una volta per sempre l’egoismo; tutto questo costituisce il contenuto della filosofia di Spinoza. Di qui si vede, come la ricerca intorno all’origine ed alla natura delle passioni sia, in questa filosofia, il punto centrale della speculazione.

II Dio come Natura La filosofia dev’essere la fedele riproduzione di quel nesso assoluto che rappresenta la costanza dell’ordine naturale. Da questa affermazione emerge come immediata conseguenza, che la filosofia debba tenere un metodo tale nella sua ricerca che corrisponda alla natura di quel nesso assoluto e che esprima nella forma del sistema il sistema stesso della natura. Ora siccome l’ordine della natura riposa, secondo Spinoza, nella legge causale, ed in nient’altro che nella legge causale, il metodo non può esser altro che il sintetico, secondo il quale posta la definizione si procede dal condizionante al condizionato, dalla causa all’effetto. In questa intima relazione fra il principio filosofico ed il metodo che serve ad esporlo, deve cercarsi la ragione, perché Spinoza si valga della dimostrazione geometricaa. Prescindendo nondimeno dal nesso delle dimostrazioni e dalla forma esterna delle proposizioni, cercherò di seguire l’andamento dei concetti nei punti principali. 1. La sostanza. Le cose particolari sorgono e periscono per l’azione incessante delle cause finite. Le cose sono una serie di cose, delle quali l’una procede dall’altra, e l’una produce l’altra. Se noi penetriamo col pensiero questa serie e ci facciamo ad intenderne il fondamento e la ragione ultima, noi troviamo che il condizionato non può stare senza l’incondizionato, nel quale è riposta la sua condizione positiva ed assoluta. Questo concetto dell’incondizionato è espresso nella causa prima, la quale non ha altra causa innanzi a sé, ed è causa sui (Eth. I, def. I). Questa causa in quanto si concepisce in sé e per sé, senza il concetto di altra cosa è la sostanza (Eth. I, def. III); che non essendo limitata da altro, è assolutamente infinita (Eth. I, def. VI: Deus ens absolute infinitum)4. Questo concetto della sostanza non è dedotto da quello di altra cosa, ma è evidente per sé nella cognizione intuitiva (Eth. II, prop. XL, schol. II). Tutte le cose, che vi ha nella sfera dell’esistenza, o sono in sé, o sono in altro (Eth. I, ax. I). Ora come non vi è che una sola sostanza, cioè un solo oggetto che sia in sé e per sé (Eth. I, prop. XIV, ed Ep. XLI5), tutte le cose sono adunque in Dio (= Substantia) e procedono da lui (Eth. I, prop. XVI, coroll. I-III). Questi concetti determinano in una maniera generale la relazione che passa fra Dio e le cose particolari. Toccando solo al primo la esistenza immediata,

contenuta necessariamente nella sua essenza, le altre non possono esistere che mediatamente, cioè in quella che non ha condizione veruna innanzi a sé. Il concetto della sostanza è egli* identico a quello della causa infinita. 2. La sostanza come causa. Le cose tutte procedono ma non sono prodotte da Dio, che in conseguenza è la causa immanente, ma non trascendente delle cose (Eth. I, prop. XVIII, ed Ep. XXI6). Nessuna cosa esiste per sé, né può concepirsi per sé; Dio è la causa non solo della esistenza, ma della essenza delle cose (Eth. I, prop. XXIV-XXV). Dio come causa sui non ha altro innanzi a sé, non è quindi suscettivo di coazione, ed effettua liberamente (Eth. I, prop. XVII, coroll. I e II). Nondimeno questa libertà non è arbitrio. Dio è libero perché non costretto da altro ha in sé il principio dell’azione, ma come la vera libertà consiste nell’operare secondo le leggi della propria natura (Eth. I, def. VII). Dio opera necessariamente. L’azione di Dio è libera necessità (Ep. LXII ed Ep. XXIII7). L’opera in Dio non è distinta dalla sua essenza, anzi l’essenza stessa di Dio non è che la sua attualità causale (Eth. I, prop. XXXIV). Dio come causa sui assolutamente libero è immediatamente effetto, ed in questa immediatezza dell’esistenza della causa nell’effetto riposa il concetto dell’eternità (Eth. I, def. VIII). Il procedere delle cose di** Dio non è dunque temporale, ma eterno ed immediato (Eth. I, prop. XVII, schol.). 3. Dio come assolutamente indeterminato. Dio è l’essere nella sua assolutezza e perfezione, incapace di qualunque limite. Ora, siccome determinazione è limite, perché dice delle cose quello che le manca, in Dio non vi può essere determinazione (Ep. XLI8). Da ciò consegue che Dio è impersonale, e come tale non ha né intelletto né volontà (Eth. I, prop. XVII, schol.)9. L’intelletto e la volontà sono modi del pensiero, ed appartengono alla natura naturata, alle cose particolari cioè, che come prodotti determinati hanno in sé medesime il loro limite (Eth. I, prop. XXXI). Dio come causalità infinita è incapace della determinazione della volontà e dell’intelletto che è proprio delle cose finite (Eth. I, prop. XXXII, coroll. II) e non opera quindi secondo volontà (Ibidem, coroll. I). L’ordine delle cose, come effetto della infinita causalità è assolutamente determinato ed incapace di trascendere sé stesso; il nesso causale che vi presiede è incapace d’interruzione (Eth. I, propp. XXVI-XXIX), e non ammette accidente (Eth. I, prop. XXXIII). In questa attualità immediata della causalità infinita nell’effetto, consiste la perfezione divina (Ibidem, dem.) la quale non è prodotta dall’arbitrio, né soggetta all’idea del bene come scopo e meta dell’azione (Ibidem, schol. II). In breve Dio è per Spinoza la causa immanente della essenza delle cose, libera da coazione esterna, che attua sé stessa per l’intima necessità

della sua natura: l’ente assolutamente indeterminato, senza volere e senza intelletto ed incapace di eseguire fini determinati. Questo Dio che non trascende la essenza delle cose, ma che anzi ne è la causa immediata e positiva, non è altro se non la natura stessa delle cose considerate nella loro infinità ed eternità; l’essenza del mondo come natura naturans. Il concetto immediato della causa sui ha la sua espressione concreta nella infinità della natura naturans.

III Gli attributi infiniti di Dio Considerare Dio come causa immediata dell’esistenza, ed escludere da questo concetto l’arbitrio e la finalità, ecco la prima ed importante affermazione dello Spinozismo. Ma in che cosa consiste il valore effettivo di questa causalità, e come si esprime ed attua la potenza di Dio? Dal chiaro concetto della natura di questa causalità dipende principalmente la interpretazione del sistema di Spinoza: e la mancanza di questo concetto chiaro è la vera ragione di molte false opinioni sullo Spinozismo, che non cessano tuttora di trovare seguaci. La sostanza, come causa immanente delle cose, non trascende o eccede il contenuto delle cose stesse. La potenza della causalità è espressa tutta nell’effetto, e contiene in sé l’essenza di tutti i suoi prodotti. Nella causa quindi sono contenute le condizioni primitive della natura dei suoi molteplici effetti, la causa è, in altri termini, una infinità di potenze. Sotto questo riguardo, la causa è realmente causa. Questa molteplicità di potenze, sono gli attributi che nel loro complesso adeguano la totalità della sostanza (ved. la def. dell’attributo, Eth. I, def. IV, e conf. con la def. VI e la prop. XIX: Deus sive omnia Dei attributa)10. L’attributo come potenza determinata, è la sostanza stessa come determinata in una forma particolare. Il concetto quindi dell’attributo, non si deduce, ma si ha immediatamente; è un concetto singolo che non può inferirsi da altro (Eth. I, prop. X)a. La sostanza e gli attributi sono equivalenti. Nel concetto di quella è posto il principio originario dell’esistenza, l’infinità della causa sui: nel concetto di questi è data l’efficienza del principio causale, in tutta la sua molteplice attitudine. Ma quali sono questi attributi determinati, che esprimono nella sostanza l’infinita potenzialità di tutto quello che in quanto prodotto è l’ordine della natura ed in una parola l’universo? Spinoza parla in molti luoghi d’infiniti attributi di Dio e mette questa infinità quantitativa degli attributi così accentuatamente in rapporto con la infinità della sostanza come causa immanente dell’universo che non può minimamente dubitarsi, ch’egli non avesse la coscienza chiara della sua affermazione (Eth. I, def. VI; Eth. II, prop. VII, schol. ed Ep. LXVI12). Ma positivamente nell’Etica egli non parla che dei due attributi dell’estensione e del pensiero, e questi solo gli son sufficienti, per spiegare l’intero ordine della natura. Questa contradizione è stata variamente interpetrata

dagli espositori di Spinoza che la considerano come uno dei punti più difficili del suo sistema. Ma siccome, a mio parere, questa difficoltà riguarda solo il nesso formale delle definizioni e niente mette o toglie al valore intrinseco dello Spinozismo, così facendone interamente astrazione, io non credo che questa mia sommaria esposizione debba soffrirnea. Cosa sono intanto gli attributi dell’estensione e del pensiero, i soli di cui Spinoza si valga per spiegare l’attualità causale di Dio nel mondo? L’attributo, dice Spinoza, è quello che l’intelletto concepisce in sé e per sé come costituente l’essenza della sostanza (Eth. I, def. IV). L’estensione adunque ed il pensiero sono le potenze infinite che rappresentano nella sostanza le condizioni primitive della esistenza dei corpi e delle idee (Eth. II, propp. I-II). Fanno uno, in quanto l’essenza di tutte le cose è una, ma sono distinti in quanto la produttività dell’uno non è condizionata da quella dell’altro, ed i prodotti di ciascuno hanno il limite della loro effettività nelle condizioni dalle quali procedono (Eth. II, propp. V-VI; prop. VII, schol.). In questa chiara coscienza della identità della sostanza nella distinzione degli attributi, consiste il caratteristico della dottrina di Spinoza. La sostanza come punto neutrale ed indifferente ed al tempo stesso come principio della specificazione e distinzione, è un progresso immenso sul dualismo cartesiano, ed è una vittoria completa sopra ogni presupposto di trascendenza. Soltanto sotto questo riguardo può dirsi che il principio di Spinoza sia il naturalismo, ma questa affermazione non deve indurre in equivoco, come avviene tutte le volte che si va in cerca di non so quanti confronti con tutte le specie di panteismo, che possono trovarsi nella storia della Filosofia. Nel concetto dell’attributo è in somma determinata la essenza di Dio come potenza attiva e positiva. La reale manifestazione poi di questa potenza, anzi la sua esistenza stessa, è espressa immediatamente nel mondo nella natura naturata che forma il terzo concetto fondamentale dello Spinozismo.

IV I modi ossia la Natura Naturata Nel concetto di Dio come causa immanente delle cose che in quanto attributi infiniti* è immediata attività, è contenuta tutta la metafisica di Spinoza. Ora bisogna intendere quale sia la natura delle cose che sono i prodotti di questa causalità immanente, ed infinitamente attiva. 1. Abbiamo veduto che tutte le cose, o sono in sé o sono in altro (Eth. I, ax. I) e che la sostanza (sive omnia ejus attributa) è il solo soggetto** che sia in sé e che per sé si concepisce. Tutto quello adunque che non è sostanza, è in altro e si concepisce per altro. Questo è il concetto generico del concetto finito***, di quello cioè che è l’opposto dell’infinito. La sostanza come infinita non ha altro fuori di sé, quindi non ha termine. Il carattere essenziale di quello ch’è l’opposto della sostanza è d’essere terminato. L’opposto dunque della sostanza è il finito (Eth. I, def. II) che si concepisce nella sostanza, perché essendo la sostanza il solo oggetto che si concepisce in sé, è naturale che tutto quello che si concepisce in altro si concepisca nella sostanza. Spinoza chiama modo il finito in quanto non può concepirsi che nella sostanza (Eth. I, def. V). Il carattere di quello che si concepisce in altro è d’essere determinato, mediante altro; i modi dunque sono modificazioni certae et determinatae della sostanza (passim); e come non ne adeguano la infinità sono accidenti (Ep. IV)14. Non portando in sé la ragione della loro esistenza sono puramente effetti, e come effetti determinati sono contingenti (Eth. II, prop. XXXI, coroll.). La infinità, la libertà, la indeterminazione sono i caratteri della sostanza; gli opposti sono quelli del modo. Questa opposizione culmina nella differenza di causalità finita ed infinita. La sostanza in quanto causa è l’attuazione immediata ed incondizionata di tutta la sua potenza che adegua interamente la sua essenza. Non così i modi: la legge che presiede alla loro produzione è la causalità finita; i modi quindi non sono res libera ma res coacta. Ma che cosa sono i modi nel loro complesso, se non l’effetto della potenza della sostanza? E trascende forse questa potenza il contenuto del suo prodotto? La sostanza in quanto causa è necessariamente ed immediatamente effetto nella totalità della sua potenza. I modi dunque nel loro complesso come serie di tutte le cose particolari sono anche essi infiniti e necessari, mentre le cose singole sono finite ed accidentali. Sotto questo riguardo Spinoza distingue due aspetti nel concetto del modo: il modo finito e l’infinito. Quello rappresenta le cose particolari che non procedono direttamente ma mediatamente da Dio (Eth. I, app.); e questo il nesso di tutte le cose particolari che esprimono, ed adeguano la

potenza della sostanza (Eth. I, propp. XXI-XXIII; prop. XXVIII. dem. e schol.; app.). Il nesso di tutti i modi dell’attributo estensione (i corpi), ordo rerum, il nesso di tutti i modi del pensiero (idee), ordo idearum, ed i due ordini insieme, facies universi, sono infiniti e necessari perché procedono immediatamente dalla causalità infinita. Nel concetto del modo e nella differenza di modo infinito e finito è dato il principio della cosmologia di Spinoza. Gli estremi fra i quali si aggira sono, la sostanza come incondizionata ed indeterminata, ed il modo che è condizionato e determinato. Il condizionato e determinato non può essere prodotto da quello che non ha in sé veruna condizione: la sua natura è quindi di essere terminato da altro che a sua volta è terminato da altro, e così all’indefinito. Questa o quella cosa non è un prodotto diretto da Dio. Ma Dio è la condizione positiva di tutte le cose; la sua effettività sta nell’effettuarsi. L’effetto dunque di Dio nel suo complesso è infinito, come la causa che lo produce. Il mondo in conseguenza non è un prodotto accidentale, una derivazione, una creazione di Dio, ma la sua immediata attuazione. Questa è la natura naturata, l’ordine infinito dell’universo che sta alla natura naturans, non come alla sua premessa o al suo correlativo*15. 2. Anima e Corpo. Nel concetto del mondo è determinata la natura dell’anima e la sua relazione col corpo. Il nesso delle idee ed il nesso dei corpi sono la manifestazione distinta ed indipendente dei due attributi del pensiero e dell’estensione, perché questi si esprimono nei loro effetti finiti ed infiniti, senza relazione causale (Eth. II, passim e segnatamente propp. V e VI e coroll.). Nondimeno siccome gli altri attributi non sono che le potenze infinite della sostanza che è la loro identità essenziale, così gli effetti dell’uno corrispondono a quelli dell’altro. L’ordine quindi ed il nesso delle idee, e l’ordine ed il nesso dei corpi sono la stessa essenza sotto due aspetti (esse formaliter et esse objective). Il modo infinito dell’attributo pensiero che è il nesso e l’insieme di tutte le idee particolari, corrisponde al modo infinito dell’attributo estensione che è il nesso e l’insieme di tutti i corpi singoli (Eth. II, prop. VII, coroll. e passim). Per questa stessa identità essenziale ogni idea singola corrisponde ad un corpo singolo, in guisa che di tutte le cose può dirsi che sieno animate (Eth. II, prop. XIII, schol.). Ora l’anima dell’uomo non è che un’idea singola ed un anello nella serie delle idee che formano l’intelletto infinito (Eth. II, prop. XI coroll.), e corrisponde quindi ad un corpo singolo (Eth. II, prop. XIII). Io non posso seguire Spinoza in tutto lo svolgimento della sua psicologia, e mi basterà soltanto di notare i seguenti punti: 1° che l’anima in quanto idea del

corpo riproduce in sé le affezioni del corpo; 2° che l’anima mercé le affezioni del corpo ci rappresenta le cose esterne e nelle rappresentazioni che ne ha, ha coscienza di sé come idea dell’idea del corpo; 3° che la conoscenza è inadeguata ed adeguata, secondo che procede dall’anima con la cooperazione del corpo, o dalla stessa unicamente come modo del pensiero. a

Conf. il Tractatus de Emendatione Intellectus. Kuno Fischer è stato il primo che abbia riconosciuta l’importanza di questo frammento per intendere nel suo intimo motivo la filosofia di Spinoza (ved. Geschichte der neuern Philosohpie, 2a ed., vol. 1°, par. 2°, pp. 168-183)2. Ma già prima di lui lo Schaarschmidt avea saputo trarne gran profitto per determinare i presupposti metodici e propedeutici del sistema (Ved. Descartes und Spinoza, Bonn, 1850, pp. 74-90)3 *

nostro T | α, Sv: manca. Kuno Fischer ha sottoposto ad un esame profondo la relazione fra il principio filosofico e la

a

dimostrazione matematica nel sistema di Spinoza (op. cit., pp. 215-237). * egli T | così α, Sv **

di T, Sv | da α

a

Io non ignoro che questa maniera d’intendere l’attributo è esposta a delle serie difficoltà tanto più perché è rigettata dall’Erdmann (Vermischte Aufsätze, pp. 145-152, ed anche nella Storia della filosofia moderna che io non ho vista)11. Questi considera l’attributo né più né meno come una forma dell’intelletto, che niente ha che fare con l’essenza della sostanza. Non essendo questo il luogo di criticare la interpretazione dell’Erdmann noterò soltanto che il modo come io intendo l’attributo in Spinoza è il solo che sia giustificato dall’esame critico del testo e che abbia fondamento nello spirito di tutto il sistema (Ved. su questo riguardo Kuno Fischer, op. cit., pp. 270-277). a Il Jacobi (Briefe über die Lehre des Spinoza, Werke, vol. 4°, nella nota della p. 189-191)13 trova la ragione di questa contradizione nella maniera come Spinoza pone le definizioni. Secondo lui la definizione a priori della sostanza importa necessariamente che essa consti d’infiniti attributi, mentre infatti la considerazione dei prodotti reali della sostanza non lascia luogo che ai due attributi del pensiero e dell’estensione. Questa spiegazione è stata presso a poco seguita da Kuno Fischer (op. cit., pp. 283-286) che non cita il Jacobi. * attributi infiniti α | attributi T | attributo Sv **

soggetto T, Sv | oggettoα del concetto finito T, Sv | del finito α

*** *

non come alla sua premessa o al suo correlativo T | non come alla sua premessa o al suo presupposto, ma come al suo correlativo α | come alla sua premessa o al suo correlativo Sv

LE PASSIONI DELL’ANIMA I La Cupiditas come essenza dell’uomo 1. Res particulares. Le cose particolari come abbiamo veduto non procedono direttamente dagli altri attributi* di Dio, e non sono gli effetti immediati e necessari degli stessi. Ogni cosa è l’effetto di un’altra cosa, che a sua volta è l’effetto di un’altra, e così all’infinito. Gli attributi, ossia le potenze di Dio nella loro infinità si attuano soltanto nel complesso di tutte le cose particolari, in quanto nesso assoluto di tutte le cose, e non già in quanto questa o quella cosa. Mentre il nesso o l’insieme delle cose sia come ordo rerum (motus et quies) sia come ordo idearum (intellectus absolute infinitus) e come i due ordini insieme (facies totius universi) è l’effetto necessario della causalità infinita della sostanza, le cose singole sono accidentali, contingenti, e soggette a svanire e perdersi ogni istante. 2. Conatus. Ma Dio è la causa efficiente della essenza delle cose. Dio non è causale che mediante gli attributi e le cose particolari non sono che modi i quali esprimono in una maniera determinata gli attributi di Dio, cioè la potenza di Dio (Dei essentia = Dei potentia). Ogni cosa particolare adunque in quanto è posta come questa cosa determinata, è un effetto determinato e definito. Questa precisione di** individualità della cosa non trascende sé stessa. Il nesso con le altre cose è riposto solo nell’attività infinita dell’attributo e nella sostanza come ultima identità di tutte le cose. Ogni cosa quindi come atto particolare è in sé perfetta. Ora in quanto determinata e perfetta è energia di esistere, e di escludere da sé quello che l’è contrario (Eth. III, prop. VI). Solo in questa energia di rimanere eguale a sé stessa di escludere ogni perturbazione che le venga estrinsecamente dalle altre cose, essa è nella sua attualità, come modo di Dio. Spinoza chiama questa energia conatus (Eth. III, prop. VII) che definisce quale attualità della cosa particolare (rei actualis essentia). Questa energia di esistere non si estende ad un tempo finito, anzi come energia è indefinita (Eth. III, prop. VIII: involvit tempus indefinitum)16 perché qualora avesse in sé un termine oltre al quale non potesse perdurare, la cosa perirebbe per un principio ingenito di corruzione e non sarebbe più modo di Dio cioè effetto determinato attualmente perfetto, e capace di perire soltanto per l’azione delle altre cose, in comunità delle quali esiste, e con le quali forma il nesso infinito. 3. Homo res particularis. Bisogna innanzi tutto osservare, che per intendere quello che Spinoza dice dello Spirito, bisogna aver rinunziato a due

rappresentazioni, o come egli direbbe, a due pregiudizii, a quello che considera l’uomo come libero, e a quello che considera il mondo come un sistema di fini. Sì l’uno come l’altro di questi pregiudizi ha la sua origine nella imaginazione e questa è riposta nella considerazione delle cose ex communi naturae ordine. Considerare le cose come esse sono in verità, è considerarle come un sistema di cause e di effetti, non già come l’una mezzo dell’altra, o trascendente l’altra. Posto ciò (e non v’ha idea nella quale Spinoza insista maggiormente) lo spirito non è né più né meno che cosa fra le cose (Eth. I, app.; Eth. III, prop. II, schol.; Eth. IV, praef., ecc.). Quella energia che è propria di tutte le cose e che è contenuta nella loro stessa determinazione di cose particolari (Definitio rei essentiam affirmat sed non negat)17, è propria anche dello spirito. Lo spirito è anch’esso un modo particolare di un attributo di Dio, è un modo del pensiero. Lo spirito come modo si sforza di esistere e di esistere senza termine finito, esclude da sé tutto quello che ne disturba, ne minaccia, ne altera la esistenza, ed in questa energia è vera attualità, vera esistenza (Eth. III, prop. IX). Il conatus dello spirito è in generale la volontà (voluntas). Lo spirito è idee adeguate, e sì come l’uno che come l’altro è sempre voluntas. Ma lo spirito umano non sta da sé come modo del pensiero, anzi non esiste realmente che come idea del corpo umano. In quanto è idea del corpo vive in una intima relazione col corpo, le affezioni di quello divengono in esso rappresentazioni, cioè affetti, quello che il corpo patisce, cioè le affezioni passive del corpo, divengono in esso passioni. La natura umana adunque, in quanto questo complesso di due modi, può considerarsi anch’essa come un modo, cioè come cosa particolare. In questa cosa particolare che è l’uomo, il conatus existentiae e l’ingenito istinto della conservazione. Or come lo spirito è necessariamente consapevole di se stesso (Eth. II, prop. XXIII) è consapevole anche del suo appetito. Lo spirito in quanto coscienza dell’appetito è cupiditas.

II Le forme primitive degli affetti (Tristitia et Laetitia) Il corpo umano è soggetto a subire continuamente l’influenza degli altri corpi; e tanto più, perché la sua complicata conformazione lo rende suscettivo di subirla multiformemente (vedi i lemmi ed i postulati dopo la prop. XIII della pars II). Queste influenze possono in fondo ridursi a due specie, a quelle che migliorano, aumentano e promuovono la potenza del corpo, e a quelle che la deteriorano, la diminuiscono e la limitano. Ora lo spirito in quanto è l’idea del corpo, deve necessariamente rappresentarsi le modificazioni che il corpo subisce (Eth. II, prop. XII); e nell’atto che se le rappresenta, parteciparvi. L’anima dunque secondo che il corpo migliora o deteriora, passa ora ad uno stato, ora ad un altro, e la coscienza di questo o di quello stato è espressa nella laetitia o nella tristitia. La laetitia è la passione per la quale l’anima passa da una perfezione minore ad una maggiore, e la tristitia quella per cui l’anima passa da una maggiore ad una minore perfezione (Eth. III, prop. XI e schol.).

III Le passioni come forze elementari In questi brevi cenni ho segnato i punti dai quali parte Spinoza per dedurre e classificare gli affetti. Ed in vero, queste definizioni non assegnano semplicemente il carattere generale degli affetti, o il punto comune nel quale tutti convengono, ma ne determinano la natura e la origine. Gli affetti dell’anima non sono più false percezioni com’era per Cartesio, distinte dalla volontà, a questa opposte, e capaci d’esserne vinti e superati. Le passioni nelle loro forme fondamentali, nei loro elementi originari, sono attività, percezioni e volizioni al tempo stesso, percezioni e volizioni non accidentali ed arbitrarie, ma necessarie. L’appetito è la stessa essenza dell’uomo come cosa particolare. Nel concetto dell’uomo come unità di due modi (mens et corpus, mens idea corporis) è contenuta come determinazione essenziale quella dell’appetito che è la origine di tutti gli affetti. Come Spinoza non riconosce all’anima altra coscienza di sé, se non quella che ha mediante le affezioni del corpo (Eth. II, prop. XXIII) in quanto se ne distingue, così non riconosce alla natura umana altro principio, se non quello ch’è riposto nella coscienza dell’appetito. La cupiditas è l’appetito cum ejusdem conscientia18. Possiamo nello spirito, ed in parte con le parole di Spinoza fissare il concetto degli affetti. La natura umana, in quanto si sforza di conservare la sua esistenza è appetito, in quanto è coscienza di questo appetito è cupiditas. Unita al corpo come all’oggetto del quale è l’idea riproduce incessantemente in sé le alterazioni del corpo, ed in questa riproduzione passa ora ad uno stato di maggiore ora di minore perfezione. Nel primo caso l’anima è laetitia, nel secondo è tristitia. Si tratta dunque di ricercare la derivazione di tutti gli affetti da queste tre forme fondamentali, fuori dalle quali Spinoza non riconosce altro affetto primitivo (praeter hos tres nullum alium agnosco affectum primarium: Eth. III, prop XI, schol.)19.

IV Amore ed Odio Tutte le volte che il corpo umano subisce l’azione di un altro corpo, lo spirito contempla come presente il corpo esterno, fino a che la successiva azione d’un altro corpo non venga ad escludere l’esistenza e la presenza (Eth. II, prop. XVII). E parimenti quante volte lo spirito imagina come presente un corpo esterno, il nostro corpo è affetto come se quello effettivamente agisse su di esso. Ora quando lo spirito si rappresenta o quello che accresce e promuove, o quello che, diminuisce e limita la perfezione del corpo, vede necessariamente o accresciuta e promossa, o diminuita e limitata la sua propria potenza. Ma l’essenza dello spirito consiste nell’istinto della propria conservazione. Ogni qualvolta adunque si rappresenta le cose che promuovono o limitano la potenza del corpo deve necessariamente sforzarsi o di conservare quelle rappresentazioni o di rimuoverle con altre di natura opposta (Eth. III, propp. XIIXIII). In questa forma determinata del conatus consistono gli affetti dell’amore e dell’odio che Spinoza definisce: laetitia et tristitia concomitante idea causae externae (Eth. III, prop. XIII, schol.)20. L’amore e l’odio sono gli stessi affetti della gioia e della tristezza in quanto accompagnati dalle rappresentazioni della causa esterna.

V La simpatia e l’antipatia La memoria non è per Spinoza vera conoscenza. Il nesso delle idee in essa non esprime il nesso reale delle cose (Eth. II, prop. XVIII e segnatamente lo schol.). Le cose possono essere cause di svariate affezioni del corpo e presentarsi così alla mente come connesse, anche quando fra esse non v’ha veruna relazione effettiva. Ricordate per la concatenazione accidentale che hanno come causa delle affezioni del corpo, il nesso che loro impronta la memoria, non è che il nesso dell’imaginazione, tiene intimamente all’arbitrario di questa, e non rivela per niente la congiunzione della mente con l’ordine necessario della natura. Ogni qualvolta dunque lo spirito è affetto da una cosa esterna può contemporaneamente rappresentarsi un oggetto che in nessuna guisa è causa di passione ed associare le due rappresentazioni in un nesso imaginario, che la memoria va riandando quando contempliamo come presente l’oggetto che è causa efficiente di passione (Eth. III, propp. XIV-XV). In questa connessione puramente accidentale della memoria è riposta la ragione degli affetti della simpatia e dell’antipatia che Spinoza considera come laetitia et tristitia associata alla rappresentazione di una causa esterna per un nesso la cui origine c’è impossibile d’assegnare, e che ci rimane ignota. Altra causa di questi affetti è la simiglianza. Quando lo spirito si rappresenta un oggetto come simile a quello che è causa efficiente di laetitia o di tristitia, la rappresentazione che ne ha è necessariamente patetica. Così ogni oggetto può essere per accidente causa di laetitia e di tristitia e conseguentemente la simpatia e l’antipatia possono derivare dalla simiglianza (Eth. III, prop. XVI). Questo nesso accidentale che la memoria mediante la imaginazione stabilisce fra gli oggetti che sono causa efficiente di passione, e quelli che sono indifferenti serve di norma alla cupiditas, in quanto è diretta al possesso di un oggetto che promuove la nostra potenza ad un oggetto del nostro amore. Di qui procede il desiderio (desiderium) che noi proviamo di tutte quelle particolarità che circondavano l’oggetto del nostro amore, delle quali se rimaniamo privi, proviamo necessariamente dolore (Eth. III, prop. XXXVI e coroll.).

VI Speranza, timore, ecc. In quanto lo spirito si rappresenta un oggetto la rappresentazione ha sempre la stessa natura, o che l’oggetto sia presente, o passato o futuro (Eth. II, prop. XVII). E del pari se la rappresentazione esprime il passaggio ad una maggiore o minore perfezione del corpo è sempre laetitia o tristitia o che la cosa sia presente o passata o futura* (Eth. III, prop. XVIII ed il I schol.). La laetitia e la tristitia in quanto associate alle cose passate o future sono di loro natura incostanti, perché secondo che la cosa passata diventa presente o la futura passata, la passione cangiato il nesso con l’oggetto che ne è la causa efficiente passa nell’opposta. Di qui hanno origine gli affetti della speranza (spes) che è laetitia incostante sorta dalla imagine di una cosa futura o passata del cui esito dubitiamo; il timore (metus) che è la tristitia incostante sorta dalla rappresentazione di una cosa incerta e, rimosso il dubbio, dalla speranza viene la sicurezza (securitas) e dal timore la disperazione (desperatio). Che se al contrario la speranza fallisce o il timore è rimosso nascono allora degli affetti, che sono l’opposto estremo dei precedenti: al timore succede l’esultanza, ed alla speranza l’angoscia (conscientiae morsus) (Ibidem, schol. II). La laetitia e la tristitia possono associarsi alle rappresentazioni delle cose passate o future, anche per un legame accidentale, per quello della memoria, mediante la imaginazione o pel rapporto della somiglianza. La speranza, il timore e tutti gli altri affetti che ne dipendono, qualora traggono origine da questo rapporto arbitrario, ingenerano la fede nei buoni e nei cattivi auguri, fondamento della superstizione. Sopra questi dati della imaginazione riposa tutto l’edifizio dell’umana credulità (Eth. III, prop. L).

VII Conseguenze dell’amore e dell’odio Noi sappiamo che amore e odio sono la gioia e la tristezza, associate alla rappresentazione di una causa esterna. Noi sappiamo in che consiste l’essenza dell’uomo: nell’istinto della conservazione, nell’affermare cioè quello che promuove e nell’escludere quello che deteriora la nostra perfezione. Poste queste due condizioni, noi vediamo sorgere dall’amore e dall’odio una serie d’affetti, la cui natura è necessariamente determinata dall’azione delle cause esterne, e dalla reazione che il nostro istinto di conservazione (cupiditas) esercita sulle stesse. 1. L’amore consiste nello sforzo di conservare quello che arreca gioia. In conseguenza quante volte noi imaginiamo che l’oggetto del nostro amore possa essere distrutto noi proviamo tristezza, come al contrario proviamo gioia quando ci rappresentiamo quello che può conservare l’oggetto del nostro amore. Se l’oggetto del nostro amore è affetto da gioia o da tristezza noi proviamo gioia o tristezza e questo sentimento riflesso è sempre in ragione dell’intensità del nostro amore. Poiché siccome l’amore ha per suo motivo fondamentale la rappresentazione di quello che migliora la nostra natura e la esclusione di quello che la deteriora, così noi nel contemplare l’oggetto amato trasportiamo in noi medesimi la sua gioia e la sua tristezza e sentiamo così promossa e limitata la nostra perfezione. E se questa gioia o tristezza è prodotta da un altro nell’oggetto amato noi l’amiamo e l’odiamo: perché partecipando noi alla gioia o alla tristezza dell’oggetto amato, questi sentimenti associati alla rappresentazione della causa esterna divengono amore ed odio (Eth. III, propp. XIX-XXI e XXII). Le passioni che risultano dagli stati dell’oggetto amato e dalla rappresentazione delle cause che ingenerano quegli stati, sono dunque le seguenti. Tristezza che sorge dal danno dell’oggetto amato, commiserazione (commiseratio). Gioia che sorge dal bene goduto dall’oggetto amato: congaudio. Gratitudine (favor) verso colui che giova l’oggetto amato; indegnazione contro colui che gli nuoce (indignatio). 2. Gli affetti contrari derivano dall’odio. Nell’odio la nostra potenza è limitata e deteriorata, perché noi siamo costretti a rappresentarci quello che impedisce la nostra perfezione. L’istinto della conservazione, l’interesse di promuovere la nostra potenza reagisce. E quando questo contrasto si associa alla rappresentazione delle cause esterne, noi proviamo gioia di quello che distrugge l’oggetto del nostro odio, ci rallegriamo di vederlo in tristezza, ci rattristiamo di

vederlo in gioia; noi estendiamo il nostro odio o il nostro amore alle cose che noi ci rappresentiamo come cause della gioia e della tristezza che avviene nell’oggetto del nostro odio (Eth. III, propp. XX-XXIII-XXIV). Spinoza comprende tutti questi affetti che derivano dall’odio sotto il nome d’invidia (invidia) (Eth. III, prop. XXIV, schol.). 3. Fondamento di tutti questi affetti apparentemente disparati è l’interesse di conservare ad ogni costo quello che ci procura gioia e di escludere quello che ci procura tristezza, di affermare cioè l’oggetto amato e di negare l’oggetto odiato. Ora se noi desideriamo di conservare quello che migliora e promuove la nostra perfezione e di escludere quello che la deteriora e limita, la nostra natura è originariamente egoismo: nella sfera della nostra individualità noi cerchiamo la nostra soddisfazione. Noi sentiamo noi stessi innanzi a tutte le altre cose e ci sforziamo sempre di rappresentarci quello che massimamente favorisce la nostra individualità (Eth. III, propp. XXV-XXVI). In questa imaginazione consiste la superbia (superbia) per la quale noi sognando ad occhi aperti portiamo alle cose che favoriscono la nostra perfezione, una stima superiore al loro merito ed alle cose che la limitano, una stessa inferiore al loro merito. Il fondamento della superbia è dunque la laetitia in virtù della quale l’uomo sente di sé più del dovere e da questa rampollano la stima (existimatio) ed il disprezzo (despectus) pei quali affetti stimiamo le cose più o meno del loro valore (Eth. III, prop. XXVI, schol.).

VIII Imitazione degli affetti Tutti gli affetti fin qui esposti ci presentano le varie forme della laetitia e della tristitia che in quanto associate alla rappresentazione delle cause esterne promuovono o limitano direttamente la nostra potenza e stimolano il nostro istinto di conservazione a determinarsi svariatamente. Abbiamo così percorsa una serie di atti che risultano dall’incontro di due elementi, dall’azione delle cause, e dall’incessante sforzo di stabilire l’integrità della nostra natura. Ora passiamo a considerare un altro lato di questa attività, le forme cioè che essa assume sotto la influenza di quelle rappresentazioni le quali né favoriscono né disturbano direttamente la nostra potenza. Nel dare a questa specie d’affetti il nome di imitazione, io cerco di fissare in una categoria una espressione usata da Spinoza solo incidentalmente. Le affezioni del nostro corpo esprimono nel tempo stesso la natura del corpo che le subisce e quella delle cose esterne che le producono (Eth. II, prop. XVI). Il nostro spirito riproduce nelle rappresentazioni questo doppio elemento e contempla gli oggetti dai quali risulta (Eth. II, prop. XVII). Ora le cose esterne che affettano il nostro corpo sono moltissime e fra queste vi ha anche di quelle che ci rassomigliano e le quali soffrono. Fra le affezioni dunque del nostro corpo, alcune ritraggono l’elemento della passività ch’è contenuto nelle cose che concorrono a produrle e che si trovano nei diversi stati della laetitia, tristitia ecc. Come si comporta il nostro spirito nel riprodurre queste affezioni del corpo? Riproducendole esso si rappresenta necessariamente le passioni di quelle cose esterne come se fossero sue, perché l’oggetto esterno essendo simile in questo caso al corpo umano, i due elementi dell’affezione sono equivalenti (Eth. III, prop. XXVII). In questa riproduzione che, come si scorge, non è indifferente, ma per sé stessa passione, è riposto un nuovo impulso della cupiditas, ed è contenuta la ragione dei seguenti affetti. 1. Compassione e benevolenza. Se per la imitazione degli affetti noi siamo portati a rappresentarci un oggetto a noi simile che si trova in tristezza, allora sorge la compassione (commiseratio), cioè una tale partecipazione alla sofferenza altrui che limita la nostra potenza (Eth. III, prop. XVII). Noi reagiamo contro questo stato d’imperfezione, e ci sforziamo necessariamente di affermare quello che escluda da noi un tale sentimento deprimente. E noi ristabiliamo in fatti la nostra laetitia col rimuovere la causa dell’altrui tristitia. La cupiditas in questa forma è benevolenza (benevolentia) cioè lo sforzo di migliorare noi

medesimi, col rimuovere le cause dell’altrui sofferenza (Eth. III, prop. XXVII, coroll. III e schol. II). 2. Emulazione, umanità, ecc. Agire è per noi attuare la nostra natura, secondando l’impulso ingenito che ci determina alla perfezione. Ora nel partecipare alle affezioni dei nostri simili, noi siamo stimolati ad imitarne gli sforzi, perché nella rappresentazione che ne abbiamo la nostra cupiditas trova immediatamente un elemento analogo alla sua naturale tendenza. Questo è il fondamento dell’emulazione (Ibidem, schol. I). Operando noi conforme all’appetito degli altri uomini non facciamo che attuare il nostro egoismo. Da questo sforzo nasce quello che Spinoza chiama umanità (humanitas) che è propriamente l’imitazione degli altrui appetiti, che riconosciamo favorevoli alla nostra potenza. Da essa traggono origine la lode (laus) e la riprovazione (vituperium) che sono la laetitia o la tristitia con la quale consideriamo le azioni che sono degne o indegne d’imitazione. L’umanità è ambizione, qualora il nostro sforzo è diretto a fare o non fare qualcosa per piacere agli altri, ove anche ci sia il nostro o l’altrui danno (Eth. III, prop. XXIX). Da tutto questo si raccoglie che l’altrui sofferenza o l’altrui gioia intanto possono interessarci alla compassione e alla imitazione, in quanto che le rappresentazioni che ne abbiamo agiscono direttamente sul nostro istinto di conservazione, che è il medio di tutti gli affetti e l’organo di tutte le azioni. Spinoza senza dimenticare un solo istante la legge naturale dell’egoismo, subordina alla stessa quegli affetti che ordinariamente sogliono considerarsi come una vittoria da noi riportata sull’egoismo.

IX Conseguenze della imitazione 1. Siccome noi proviamo la laetitia e la tristitia che affettano gli altri qualora a questi sentimenti possiamo associare le rappresentazioni delle cause esterne, queste devono necessariamente diventare oggetto del nostro amore e del nostro odio (Eth. III, prop. XXVII, coroll. I). Ora se noi medesimi siamo causa della laetitia o della tristitia altrui contemplando gli altri in questi affetti, dobbiamo necessariamente associarvi la rappresentazione di noi medesimi come di cause efficienti (Eth. III, prop. XXX). Di qui sorgono gli affetti della gloria (gloria), della vergogna (pudor), della soddisfazione (acquiescientia in se ipso), e del pentimento (poenitentia) che rappresentano il modo come noi ci consideriamo in rapporto agli affetti che ingeneriamo negli altri (Ibidem, schol.). 2. L’amore che abbiamo veduto è lo sforzo di conservare l’oggetto della laetitia. Intanto per la imitazione degli affetti, noi siamo incitati ad amare ed odiare quello che i nostri simili amano ed odiano. Posto ciò, se noi vediamo che gli altri amano, odiano, o appetiscono le stesse cose che noi amiamo, odiamo o appetiamo, i nostri affetti sono raddoppiati. Che se invece, essi amano quello che noi odiamo, e viceversa, allora andiamo soggetti all’incertezza (animi fluctuatio). E perciò noi ci sforziamo che tutti gli altri amino quello che noi amiamo e che vivano conforme ai nostri desideri. Questo sforzo è l’ambizione (ambitio) per la quale, ogni uomo cerca di piegare gli altri alle proprie voglie in guisa che tutti si arrecano vicendevolmente imbarazzo e volendo ciascuno esser lodato tutti si odiano (Eth. III, prop. XXXI, coroll. e schol.). 3. Noi amiamo quello che gli altri amano e ci sforziamo di farlo nostro. Ma se l’oggetto di quell’amore non può essere posseduto che da uno solo, sarà massimo il nostro sforzo per conseguirlo, e qualora ne rimaniamo privi, la tristitia che noi proviamo si determina come invidia (Eth. III, prop. XXXII). Il fondamento adunque della benevolenza e della invidia, che sembrano due passioni affatto diverse è lo stesso, se non che l’uomo è più inclinato alla seconda che alla prima.

X Amore ed odio che derivano dall’imitazione Quando noi ci rappresentiamo qualcuno che è affetto dall’odio siamo presi dallo stesso sentimento, cioè proviamo la tristitia associata alla rappresentazione di una causa esterna. Ora se noi siamo oggetto di odio per un altro, senza avergliene dato motivo, noi siamo costretti a provare tristitia, che associata alla rappresentazione di colui che ci ha in odio, diviene anche essa odio. Se noi invece sappiamo di aver dato argomento dell’odio, allora proviamo vergogna (pudor). Se colui che ci odia senza nostra colpa ci arreca male, noi vogliamo rimeritarlo con un altro male, e ciò dà luogo alla passione della vendetta (vindicta). Il desiderio di far male a colui che odiamo è la passione dell’ira (Eth. III, prop. XL, schol. I e II e coroll. II). Per la stessa legge se noi vediamo d’essere amati senza averne dato motivo, riamiamo dal canto nostro. Che se invece sappiamo d’averne dato motivo, allora proviamo la passione della superbia. Lo sforzo di rimeritare l’amore che gli altri ci portano è la passione della gratitudine (gratia) (Eth. III, prop. XLI, schol. I). Da tutto ciò emerge che quante volte noi sappiamo d’essere amati dall’oggetto del nostro odio, e odiati dall’oggetto del nostro amore, allora cadiamo nell’incertezza (animi fluctuatio). Quando l’odio prevale e noi ci determiniamo a far male a chi ci porta amore, allora si ha la passione della crudeltà (crudelitas) (Eth. III, prop. XL, coroll. I; prop. XLI e schol. II).

XI Amore vicendevole e conseguenze che ne derivano Gli affetti che hanno il loro fondamento nella imitazione ci hanno mostrato l’attività della cupiditas nella relazione fra uomo ed uomo. Noi siamo così passati dalle forme generali dell’amore e dell’odio, a quegli affetti che hanno il loro termine in qualcosa di simile alla natura di quello da che procedono. Nella passione che Spinoza dice humanitas ci si mostra il riflettersi del principio efficiente dell’esistenza da individuo ad individuo21. Ora l’amore e l’odio ci si mostreranno in una serie di condizioni che sono necessariamente determinate dalla vicendevolezza degli affetti. 1. L’amore come già sappiamo consiste nello sforzo di rappresentarsi quello che è causa di laetitia. Ma se questo oggetto ci è simile, allora può essere anche scopo della nostra ambizione, stimolandoci a ridurlo in quello stato di passione che noi subiamo. Così dalla simultanea azione dell’amore e dell’ambizione nasce il bisogno d’essere riamato. Questo bisogno che noi non possiamo provare che per il nostro simile riposa sopra un doppio elemento: sullo sforzo di affermare l’oggetto dell’amore, e sulla tendenza che abbiamo ad uniformare l’altrui sforzo al nostro, per stabilire fra noi e gli altri la equivalenza degli appetiti (Eth. III, prop. XXXIII). 2. La certezza di essere riamati aumenta il nostro benessere, perché noi nella coscienza di diventare per l’oggetto amato causa di laetitia proviamo dal canto nostro una seconda laetitia. Il primitivo sentimento dell’amore è raddoppiato, e noi non solo consideriamo con gioia l’oggetto del nostro amore, ma associando a questa gioia la rappresentazione di noi medesimi in quanto causa dell’amore altrui ci gloriamo (Eth. III, prop. XXXIV). 3. Ma se al contrario noi siamo costretti a rappresentarci l’oggetto del nostro amore nell’atto che si stringe ad altri per vincoli di maggiore affetto, allora il nostro sentimento del nostro benessere è limitato e noi soffriamo la passione della tristitia, ed associando poi questa alla rappresentazione dell’oggetto amato e di quello cui esso rivolge il suo amore, noi sentiamo odio per ambedue (Eth. III, prop. XXXV). Questa è l’origine della gelosia (zelotypia) che è odio unito all’invidia o meglio incertezza d’animo sorta dal contrasto fra l’odio e l’amore, ed accompagnata dalla rappresentazione della persona cui portiamo invidia. La misura della gelosia è riposta nel grado di compiacenza che la persona amata accorda ad un altro, perché noi siamo sempre più costretti ad unire nella nostra rappresentazione l’imagine delle due persone. In guisa che la gelosia tocca il massimo grado per l’amore nella donna.* (Ibidem, schol.).

4. Noi siamo spinti a beneficare l’oggetto del nostro amore dal bisogno di esserne riamati, o dal desiderio di ottenerne lode. Nel caso quindi che noi non siamo contraccambiati di amore né ricompensati colla lode, andiamo soggetto alla passione della tristitia.

XII Azione dell’amore sull’odio e viceversa La tristitia siccome limita la nostra potenza è incompatibile con la nostra essenza, che consiste nell’affermare tutto quello che ci è favorevole e ci migliora. Lo sforzo perciò della nostra natura è necessariamente diretto ad eliminarla a tutta possa, crescendo sempre in ragione della sua intensità. La laetitia, al contrario, siccome accresce e promuove la perfezione umana, dev’essere affermata, facendo noi sempre tale uno sforzo per conservarla che corrisponda alla sua intensità. Ora se l’amore e l’odio sono forme della laetitia e della tristitia, ed affetti quindi che promuovono o deprimono la nostra potenza, lo sforzo che facciamo per conservarli o rimuoverli è sempre proporzionato alla loro forza (Eth. III, prop. XXXVII). Questa legge regola l’azione dell’amore sull’odio e viceversa. 1. Nell’affetto dell’odio noi ci sentiamo depressi e limitati. Intanto se cominciamo a divenire oggetto di amore per quello che abbiamo in odio noi proviamo laetitia che associata alla rappresentazione della causa esterna si determina come amore. E sforzandoci noi di rimuovere quello che ingenera limitazione alla nostra potenza, avviene che l’odio rimane vinto e l’amore che gli succede è sempre di tal natura da superare nel grado di forza l’odio che lo precedeva (Eth. III, propp. XLIII e XLIV). 2. Nell’amore al contrario noi ci sforziamo di tener presente l’oggetto che è causa della nostra laetitia e vogliamo esserne riamati. Ma se quello comincia ad esser causa di tristitia, questa seconda passione sarà tanto più intensa quanto più grande era la prima. Costretti allora a considerare l’oggetto del nostro amore come causa d’un sentimento deprimente noi passiamo ad odiarlo e finiamo per portargli un odio che supera l’amore che lo precedeva (Eth. III, prop. XXXVIII).

XIII Cause che limitano l’odio nelle sue conseguenze 1. Siccome nella passione dell’odio noi ci sentiamo depressi e deteriorati consegue necessariamente dalla stessa il bisogno di rimuovere e distruggere le cause che la producono. Ma pure non avviene sempre che noi ci mettiamo a far male a quello che c’è in odio, perché raffrenati dal timore di non andare incontro ad un male maggiore, rimaniamo incerti ed incapaci di decisione. Spinoza chiama timore (timor) questo affetto in forza del quale si vuole e non si vuole al tempo stesso quello che si desidera, ed in vista di un male avvenire. Che se questo male è la vergogna (pudor), allora il timore che si sente è la verecondia (verecundia). Qualora poi al timore di un male avvenire fa contrasto quello di un male presente in guisa che non si sa più quello che si voglia, allora si cade nella costernazione (consternatio) (Eth. III, prop. XXXIX, schol.). 2. La gioia che proviamo per la distruzione o per la sofferenza di quello che c’è in odio è limitata anche sotto un altro riguardo, perché noi abbiamo necessariamente compassione delle sofferenze del nostro simile. La gioia dunque che sentiamo del danno dell’oggetto odiato, non va mai scompagnata dalla passione della tristitia (Eth. III, prop. XLVII).

XIV Estensione dell’amore e dell’odio Quando consideriamo le cose come connesse dal legame della simiglianza le subordiniamo ad un criterio comune che è un prodotto della imaginazione. Nella sfera intanto delle passioni noi non siamo altro che conoscenza inadeguata, ossia imaginazione. Considerando dunque questo o quello individuo come tutt’uno con la classe o la nazione alla quale appartiene estendiamo l’odio o l’amore che gli portiamo a tutta la classe o a tutta la nazione (Eth. III, prop. XLVI).

XV Aumento e limitazione degli affetti in generale Siccome nella sfera delle passioni noi consideriamo le cose mediante la imaginazione, cioè ex communi naturae ordine così non le conosciamo nel loro nesso assoluto come modificazioni necessarie della sostanza infinita. Crediamo quindi libere le cose che sono necessarie e liberi gli uomini che sono non meno che le altre cose, soggetti alla necessità della natura. Questa falsa credenza intanto favorisce in noi gli affetti dell’amore e dell’odio; giacché siccome solo quella cosa è libera che per sé stessa è causa dei suoi affetti, così, credendo libera questa o quella cosa le riconosciamo maggiore importanza come causa di laetitia o tristitia e l’amiamo o l’odiamo quindi di più (Eth. III, prop. XLIX). Se invece noi consideriamo come necessarie le cose che sono oggetto del nostro amore o del nostro odio, costretti allora ad associarne la rappresentazione a quelle delle altre cose alle quali sono connesse, sentiamo limitate nella loro potenza le nostre passioni (Ivi). Da ciò proviene che gli uomini credendosi liberi rivolgono più volentieri il loro amore o il loro odio agli altri uomini, che alle cose naturali (Ibidem, schol.). Questa illusione della libertà che è un prodotto della imaginazione eleva in sommo grado gli affetti della soddisfazione e del pentimento i quali come abbiamo veduto sorgono dalla laetitia e dalla tristitia altrui in quanto le associamo alla rappresentazione di noi medesimi come cause efficienti (Eth. III, prop. LI, schol. in fine).

XVI Cessazione dell’odio e dell’amore L’odio e l’amore consistono nell’associazione della imagine di un oggetto esterno con gli affetti della tristitia o della laetitia. Tutte le volte adunque che lo spirito dissocia la rappresentazione della causa da quella della propria passione cessa di amare e di odiare in guisa che col riconoscimento della fallacia di quell’associazione finiscono gli affetti dell’odio e dell’amore (Eth. III, prop. XLVIII).

XVII Ammirazione, disprezzo ecc. La memoria associa le rappresentazioni dei diversi oggetti che noi consideriamo tutti ad una volta. Ricordandone uno si riproduce la serie degli altri, secondo il nesso nel quale abbiamo riposto questo o quello oggetto. Qualora dunque uno di essi ci si ripresenta noi non insistiamo a rappresentarcelo vivacemente perché la sua imagine richiama tutta la sequela delle altre alle quali va connessa mediante la memoria. Ma se invece c’incontriamo in un oggetto che niente ha di comune con gli altri che già conosciamo e che quindi non si riattacca ad una serie di altre rappresentazioni, noi ci arrestiamo a contemplarlo singolarmente e non possiamo rimuovere la nostra attenzione (Eth. III, prop. LII). 1. In questo stato dello spirito ha luogo l’ammirazione (admiratio) la quale se concerne un oggetto che ci mette timore è la passione della costernazione (consternatio) perché alla vista del male che ci minaccia, rimaniamo incapaci di risolverci in nessun modo. Se quello che ammiriamo è l’ingegno, l’abilità o altra dote pregevole d’un uomo, l’ammirazione è allora venerazione (veneratio) e se invece è l’odio, l’ira o altra cosa simile, l’ammirazione è orrore (horror). Da ultimo se l’ammirazione è rivolta ad una persona che amiamo, allora è devozione (devotio). Spinoza osserva che l’ammirazione può anche associarsi alla speranza, all’odio e a tutti gli altri affetti, dando luogo a tante altre passioni che non hanno nome nel linguaggio comune (Ibidem, schol.). 2. All’ammirazione è opposto il disprezzo (contemptus). Quando vediamo che taluno ammira, teme o ama qualche cosa, siamo necessariamente portati a rivolgerle i medesimi affetti. Anche la simiglianza che passa fra un oggetto degno di ammirazione, di amore o di timore, ed un altro qualunque può indurci ad ammirare, temere o amare. Ma se noi avendo presente l’oggetto, e considerandolo più a fondo lo riconosciamo indegno di ammirazione, di amore o di timore, allora siamo costretti a rivolgere la nostra attenzione a quello di che difetta e prendiamo quindi a disprezzarlo. Ed a quel modo che la devozione ha origine dall’ammirazione per l’oggetto amato, e la venerazione da quello che rivolgiamo all’ingegno ed all’abilità di una persona, così l’irrisione (irrisio) procede dal disprezzo dell’oggetto temuto, ed il disdegno (dedignatio) dal disprezzo dell’altrui stoltezza (Ivi).

XVIII Amor proprio, umiltà e loro conseguenze 1. Lo spirito umano è incessantemente inteso a raggiungere la perfezione accrescendo la propria potenza ed escludendo tutto quello che può arrecare disturbo o limitazione. La moltiforme attività delle cause esterne rafforza o indebolisce ogni istante la potenza dello spirito, sollecitando la cupiditas ad assumere diverse forme. Ma questa, in quanto è l’essenza stessa dello spirito, non può ammettere se non quello che favorisce la perfezione e si sforza quindi di tenerlo sempre presente eliminando il contrario (Eth. III, prop. LIV). Per questo contrasto fra l’azione delle cause esterne e l’intima energia della natura umana, avviene che lo spirito nella coscienza che ha di sé stesso nelle rappresentazioni delle affezioni del corpo, varia al variar di queste, ora elevato a contemplarsi nella sua potenza, ed ora a contemplarsi e nella sua impotenza. Nel primo caso lo spirito sente laetitia e nel secondo tristitia (Eth. III, propp. LIII e LV). La lode o la riprovazione altrui accrescono la potenza di questi affetti, perché noi siamo costretti non solo a sentirci potenti o impotenti, ma a considerarci anche come causa della laetitia o tristitia degli altri (Eth. III, coroll.i delle prop. LIII e LV). 2. La laetitia che esprime il sentimento della nostra perfezione è l’amor proprio (philautia) e la tristitia che esprime il sentimento contrario è l’umiltà (humilitas). Siccome noi proviamo ogni istante questi sentimenti, perciò desideriamo di narrare e di magnificare le nostre azioni, e lodando le doti dell’anima e del corpo ci siamo vicendevolmente molesti. Di qui procede ancora che ciascuno gode dell’altrui imbecillità e si rattrista nella considerazione del merito altrui (Eth. III, prop. LV, schol.). La laetitia che accompagna la coscienza della nostra perfezione è tanto più grande per quanto possiamo avere una rappresentazione più distinta e individualizzata di noi medesimi (Eth. III, prop. LIII). Perciò desideriamo divenire oggetto di una lode che non riconosca in noi un merito che possiamo aver di comune con gli altri. Per tutte queste ragioni la coscienza della nostra inferiorità ci rattrista e noi cerchiamo di vincere il sentimento deprimente con le tante interpetrazioni che facciamo delle azioni altrui e con l’adornare le nostre (Eth. III, prop. LV, schol.). Né può dirsi che l’ammirazione che tributiamo alla virtù sia in opposizione con tutto questo; giacché siccome l’ammirazione riposa nella singolarità

dell’oggetto, noi non possiamo sentire invidia per quello che non subordiniamo al criterio della somiglianza con noi (Eth. III, prop. LV, coroll. II e schol.).

XIX Della differenza degli affetti 1. Della differenza che deriva dalla natura degli oggetti. La laetitia e la tristitia con tutti gli altri affetti che ne derivano sono passioni. Lo spirito è suscettivo di passioni solo in quanto vive nelle idee inadeguate, le quali riproducendo le affezioni del corpo esprimono al tempo stesso la natura dei corpi esterni e quella del corpo umano. In ogni nostra passione, perché suppone le idee inadeguate, è sempre contenuta la natura d’un oggetto esterno. La laetitia o la tristitia sorgendo dagli oggetti A, B, C, ecc., devono necessariamente contenere la loro natura. Vi è dunque tante specie di laetitia e tristitia, ed in conseguenza di amore, odio, speranza ecc., per quanti diversi oggetti esistono fuori di noi. Ora essendo la cupiditas l’essenza stessa dell’uomo in quanto è determinato secondo la sua speciale costituzione a far questo o quello, così avviene, che siccome la laetitia e la tristitia variano, varia anche la cupiditas. Tante sono dunque le differenti forme degli affetti fondamentali e di tutti gli altri che ne derivano per quante differenze presentano gli oggetti esterni che agiscono sopra di noi (Eth. III, prop. LVI). Le forme principali sono la lussuria, l’ebrietà, la libidine, l’avarizia e l’ambizione che rappresentano le diverse specie di amore e di cupiditas, in rapporto al mangiare, al bere, alla ricchezza, alla gloria (Eth. III, prop. LVI, schol., ecc.). Spinoza osserva che queste passioni non hanno opposti, perché la temperanza, la sobrietà, la castità ecc. che siamo soliti di contrapporre alle stesse, non possono considerarsi come passioni, rivelando la potenza dello spirito in quanto idee adeguate (Ivi). 2. Della differenza che deriva dalla natura degl’individui. (Il carattere). Tutti gli affetti risalgono nella loro origine alla cupiditas, alla tristitia ed alla laetitia. La cupiditas è la essenza dell’individuo, in quanto il suo sforzo è determinato di una maniera piuttosto che di un’altra. Nella differenza naturale adunque di ciascuno individuo è riposta la ragione perché l’appetito di un uomo sia dissimile da quello di un altro. Gli affetti della laetitia e della tristitia come già sappiamo rialzano e deprimono la potenza dello spirito cioè promuovono o limitano il conatus, ch’è identico all’attualità stessa dell’individuo. Sotto questo riguardo la laetitia e la tristitia sono la stessa cupiditas, in quanto sotto l’azione delle cause esterne è promossa e limitata in guisa che questi due affetti sono capaci di tanta differenza per quanta è svariata la natura di ciascuno individuo.

Di qui si scorge che ridotte le tre forme fondamentali di tutti gli affetti a rappresentare nelle loro variazioni le differenze naturali degl’individui, il carattere di ogni uomo è dato immediatamente dalla natura che pone necessariamente i suoi affetti e non ammette né arbitrio né accidente (Eth. III, prop. LVII e conf. prop. LI e schol. e Eth. II, passim). Nell’immediata coscienza della propria natura, ciascuno gode della sua vita, e questo gaudio è l’anima stessa dell’individuo (Eth. III, prop. LVII, schol.). *

altri attributi T | attributi β, Sv di T | ed β, Sv * o futura β, Sv | T: manca. * per l’amore nella donna T | nell’amore per le donne β | nell’amore nella donna Sv. **

GLI AFFETTI ATTIVI 1. La conoscenza è di due forme: inadeguata quando riproducendo le affezioni del corpo dipende dalle accidentali impressioni dello stesso che mette insieme nel nesso arbitrario dell’imaginazione, della memoria ecc., ed adeguata quando per la via delle nozioni comuni si eleva alla coscienza dell’ordine necessario della natura (pars II, passim). La indipendenza o dipendenza dello spirito dall’accidentalità delle affezioni del corpo segnano il limite della passività ed attività degli affetti. Lo spirito è essenzialmente cupiditas, sforzo cioè di raggiungere la perfezione attuando la propria natura. Se questo sforzo è determinato e condizionato dalle cause esterne, per modo che lo spirito agisce solo parzialmente, in quanto il corpo colle sue affezioni coopera alle azioni dell’anima, allora si hanno le passioni. Ma se invece lo sforzo è determinato e condizionato dall’intima natura dello spirito, in quanto modo del pensiero, allora si hanno gli affetti attivi. In somma lo spirito è azione o passione* secondo che si comporta come causa adeguata o inadeguata dei suoi affetti (Eth. III, propp. I e III con lo schol. e conf. le def.i). 2. Lo spirito come già sappiamo gode di contemplare la propria potenza. In quanto è conoscenza adeguata ha una chiara rappresentazione di se stesso, e deve quindi contemplarsi necessariamente con l’affetto della laetitia e sforzarsi di perdurarvi (Eth. III, prop. LVIII). Come causa adeguata dei suoi affetti non ammette limitazione e perciò contemplandosi nella conoscenza adeguata è incapace dell’affetto della tristitia. Le forme fondamentali adunque degli affetti attivi, cioè di quelli che lo spirito produce come causa adeguata sono due soltanto, la laetitia e la cupiditas (Eth. III, prop. LIX)22. 3. Gli affetti attivi che sono un prodotto adeguato dello spirito formano quello che Spinoza dice fortezza (fortitudo) che consiste nella cupiditas determinata dalla ragione. Se il nostro sforzo secondo il dettame della ragione è diretto a promuovere il nostro benessere si ha l’affetto del coraggio (animositas), e se invece è rivolto a fare il bene degli altri si ha l’affetto della generosità (generositas). Sono specificazioni del primo affetto la temperanza, la sobrietà, la presenza d’animo nei pericoli e del secondo la modestia, la clemenza ecc. (Ibidem, schol.). *

azione o passione β | passione o azione T, Sv.

DELLA LIBERTÀ UMANA Il riassunto dei principii fondamentali della filosofia di Spinoza che ho premesso a questa esposizione m’è valso ad intendere i presupposti metafisici e psicologici ai quali si appoggia la sua teoria delle passioni. Nell’esporla poi mi sono sforzato di riprodurre il carattere della deduzione, dalla quale più che da qualsiasi riflessione esterna apparisce come Spinoza non esca dalla sfera del naturalismo, dalla considerazione, cioè, delle cose, giusta il principio causale. Noi siamo in pieno determinismo e minacciati quindi di veder recisa la possibilità della morale, se è vero che questa non possa fondarsi che nel principio del libero arbitrio, e della finalità, principii che Spinoza non nega accidentalmente, ma esclude dalla sfera della considerazione filosofica, come prodotti della conoscenza inadeguata ed imaginaria. Dov’è dunque la possibilità di elevarsi alla completa libertà, alla beatitudine che dev’essere la meta della vita?23 E non deve forse dirsi che Spinoza si contradica tutte le volte che parla della libertà dello spirito dopo averla decisamente negata? Questi dubbi, secondo me, non possono sorgere se non nel caso che taluno, preoccupato dai criterii estranei all’oggetto che prende in considerazione, non cerchi di mettersi* nello spirito di Spinoza per intendere nella sua verità il concetto ch’egli avea della libertà umana. Perché infatti questo concetto tutt’altro che contradittorio è di una perfetta conseguenza ed evidenza. I concetti generici dice Spinoza sono tutti falsi perché nascono dalla riduzione a dati semplicissimi dei molteplici caratteri che la percezione scorge nelle cose e che la memoria va riproducendo arbitrariamente secondo il nesso accidentale che hanno col nostro spirito mediante le affezioni del corpo. La volontà quindi come facoltà generica è un prodotto dell’imaginazione non meno degli altri concetti generali. Quello che c’è in natura sono le volizioni determinate, che esprimono lo sforzo dell’anima, in quanto è condizionato dalle cause motrici in ogni istante. Questo sforzo non è arbitrio, perché l’arbitrio fa supporre una interruzione della legge naturale della causalità, ed è ammettere un imperium in imperio la più grande violazione che l’orgoglio umano possa arrecare alla regolarità e necessità della natura24. Negata la volontà come facoltà generica, e come atto incondizionato, le volizioni singole non sono nella loro essenza che semplici atti di affermare e negare, sono insomma lo stesso che le idee. L’idea, e Spinoza lo dice espressamente, non è una pittura muta in un quadro, una percezione qualsiasi,

ma un concetto che lo spirito forma in quanto attività25. L’affermazione e la negazione non sono una conseguenza ed un ampliamento, ma il carattere essenziale dell’idea. Ogni idea, in quanto è presente allo spirito, tanto nella conoscenza inadeguata, come nell’adeguata, è immediatamente affermazione di sé, e negazione del suo opposto. C’è dunque perfetta equazione fra idea e volizione, ambedue sono atto di negare e di affermare, ed in questa equazione, e nel concetto che Spinoza ha dell’idea è riposta la possibilità della libertà. L’essenza dell’uomo è riposta nella cupiditas, nello sforzo cioè di esistere e di migliorare la propria perfezione. Nella sfera della conoscenza inadeguata questo sforzo è condizionato dalle rappresentazioni che riproducono le affezioni del corpo e da esse derivano le passioni. Le passioni sono dunque parzialmente prodotto dell’anima perché ne esprimono l’attività solo in quanto è limitata dalla comunione con le altre cose. Quando l’anima invece è causa adeguata dei suoi affetti, non è passione, ma azione, e nella sfera della conoscenza adeguata non può essere altro che azione. Il volere ch’è funzione della conoscenza adeguata cioè l’affermazione e la negazione che sono espresse nell’idea in quanto adeguata, è la libertà umana, né vi è per Spinoza altra libertà se non questa che è il prodotto naturale o necessario della conoscenza adeguata. La cupiditas sive conatus existendi cum ejusdem conscientia è la condizione essenziale sì delle passioni come delle azioni dell’anima26. Ove l’anima ha raggiunto la conoscenza adeguata, la considerazione cioè dell’ordine necessario delle cose nella intuizione di Dio conformando il suo sforzo al grado della sua cognizione si manifesta in tutta la sua potenza e questa potenza è la virtù. Nel vivere adunque conforme alla ragione (ex ductu rationis) giusta l’impulso della cupiditas determinata dalla conoscenza adeguata consiste la libertà umana. A questo concetto che nelle sue conseguenze presenta un sistema di morale cui la pietà religiosa e la vera filosofia di tutti i tempi non ha che obbiettare, Spinoza è arrivato per la via del naturalismo, senza interruzione delle leggi costanti dell’universo, e senza introdurre il concetto del libero arbitrio. Qui si vede che il problema della relazione fra anima passiva ed attiva non è sciolto da Spinoza col dualismo, né col presupposto morale dell’abnegazione. Perché noi siamo liberi, dobbiamo appetire la perfezione ed in questo sforzo sta la nostra virtù. L’affetto della conoscenza dev’essere tanto potente da vincere tutti gli altri affetti. Questa vittoria non si compie ad un tratto, ma è difficile, lenta, e perciò naturale. Non è sviluppo perché non è andare dal presupposto del fine al fine, ma una semplice conseguenza, che ha la sua condizione positiva nella lotta tra il volere e l’espressione della conoscenza adeguata. Dove vinca il

primo, lo spirito è servo delle circostanze, e vive sotto la pressione del timore, della speranza, dell’odio, dell’invidia, di tutti gli affetti che Spinoza chiama negativi: ché se invece l’amore della conoscenza domina tutti gli altri affetti, lo spirito interamente libero esclude da sé tutti gli affetti deprimenti e negativi per agire soltanto. Nel primo caso si ha la servitù dello spirito, e nel secondo la libertà. Spinoza valendosi di questo concetto come di criterio determina il valore delle passioni, in quanto ciascuna di esse ha un carattere negativo o positivo rispetto alla virtù, ma non è qui il luogo di esporre la sua teoria. Con un solo esempio credo poterla mettere in chiaro. La compassione come abbiamo veduto sorge dalla impressione trista che produce in noi l’altrui sofferenza ed ingenera necessariamente la benevolenza. Ora, nella sfera della libertà, l’uomo non ha bisogno della passione per essere benefico. La cognizione dell’ordine necessario delle cose esclude da una parte la possibilità della compassione, e il desiderio della perfezione fa dall’altra necessariamente tacere un sentimento deprimente e negativo. Operando l’uomo ex ductu rationis la beneficenza è un atto della virtù, che si compie pel desiderio del benessere che è condizione essenziale della concordia fra gli uomini. Questo stato nel quale lo spirito non ammette negazione, ma nella piena coscienza del bene, afferma la sua perfezione, ed opera secondo ragione, è la beatitudine, l’amore intellettuale di Dio, la meta della vita. *

mettersi β | mettere T, Sv.

CONCLUSIONE La teorica delle passioni non è nel sistema di Spinoza un punto accessorio e nemmeno un’applicazione speciale di una veduta generale. Gli affetti sono per lui il centro stesso del sistema, perché rappresentano tutta la vita dell’anima, e sono la base naturale dell’amore di Dio nel quale si esaurisce il problema dell’Etica. Il principio permanente e regolativo della natura umana è l’egoismo e questo non svanisce com’è la veduta ordinaria dei moralisti innanzi ad una idea preconcetta*, ma è il solo elemento nel quale l’idea del bene si forma e prende consistenza. In questo, secondo la mia opinione, consiste la novità e l’importanza della teorica di Spinoza e se la soluzione da lui data al problema della relazione fra l’anima passiva ed attiva non è né la più completa né l’ultima espressione del pensiero filosofico, ha certamente il pregio di non presupporre altro se non che l’uomo come potenza naturale senza il presupposto metafisico del bene come qualcosa di sostanziale e senza la pretensione di predicar morale là dove parla la legge della natura. Questi chiarimenti debbono anche valermi di giustificazione per avere sorpassato con questa memoria i termini fissati dalla Facoltà di Lettere e Filosofia nel dare la tesi. Mi rimane ancora a fare un’osservazione. Spinoza è stato l’avversario più dichiarato del libero arbitrio. Riposando tutta la sua filosofia sul concetto causale, la libertà del volere gli è sparita dagli occhi come un fantasma dell’imaginazione. Hobbes contemporaneo di Spinoza e posteriormente Hume, Priestley ed altri filosofi del secolo scorso hanno anche criticato il concetto della libertà del volere dal punto di vista della legge causale27. Tutta questa critica in quanto è diretta contro l’antiquato concetto del liberum arbitrium indifferentiae conserva tutt’ora il suo valore almeno come una critica preparatoria che può avviare al giusto concetto della libertà. Ma dal momento che Kant ha dimostrato che il concetto di causalità non sia applicabile alla cosa in sé e che ha posta la distinzione fra l’elemento trascendentale ed empirico del carattere, la quistione della libertà del volere è stata messa sopra un altro piede; e sotto questo riguardo può dirsi ancora: lis sub iudice est28.

*

una idea preconcetta T | un ideale preconcetto del bene β | un’idea preconcetta Sv.

Sezione seconda

IL SOCRATE E GLI SCRITTI DEL CONFRONTO CON L’HERBARTISMO

Gli scritti qui raccolti coprono in maniera piuttosto uniforme il decennio 1870-1880, uno dei più fecondi sul piano della quantità dei testi prodotti (nei primi anni Settanta l’autore è ancora alla ricerca di una collocazione accademica), ma anche dei più significativi quanto allo spessore teorico dei medesimi. I contenuti si possono ricondurre a due assi di ricerca principali. Da un lato, muovendo dai precedenti studi intorno al problema del determinismo nel pensiero di Spinoza, Labriola sviluppa la propria indagine intorno ai temi della filosofia morale, misurandosi con la genesi dell’etica socratica e affrontando quindi, in modo più esplicito, il confronto con la scuola di Herbart e le questioni aperte nell’ambito della morale post-kantiana. A questo primo filone di ricerche si può far risalire anche l’approfondimento della pedagogia herbartiana, che trova riscontro nel concorso per la cattedra di Filosofia morale e Pedagogia de “La Sapienza”, vinto da Labriola nel gennaio del 1874, e che si svilupperà poi lungo tutto l’arco del decennio successivo. D’altro canto, si assiste ad un’ulteriore maturazione del rapporto con il pensiero hegeliano, destinata a trovare sul terreno della filosofia della storia, e più precisamente nella polemica con l’interpretazione “ortodossa” (incarnata dall’opera di Augusto Vera) del legame fra Idea e storia, un punto di particolare attrito. Espressione di questo secondo filone d’interessi è, oltre alla recensione a Vera qui riprodotta, la dissertazione Se la filosofia della storia possa fondarsi sull’idealismo, redatta nella primavera del 1871 per l’esame di libera docenza in filosofia e di cui sopravvive solo un manoscritto preparatorio (“Fondo Dal Pane”, ms. 9.3) parzialmente edito da L. DAL PANE, Antonio Labriola: la vita e il pensiero, Edizioni Roma, Roma 1934, pp. 54-55, 113-123. L’importanza per la successiva riflessione labrioliana del confronto con l’interpretazione hegeliana, filtrata da Spaventa, della razionalità del reale nella forma della storicità è fin troppo evidente. Non meno importante e duraturo, tuttavia, è il lascito dell’indagine sui temi della morale e del determinismo, ripresi più volte nei successivi corsi universitari. Alcuni luoghi del carteggio con Croce attestano addirittura, sul finire degli anni Novanta, il progetto mai realizzato di «ristampare integralmente quei […] due scritti sul determinismo (Della libertà morale e Del concetto della libertà, ndr) premessavi una introduzione lunghissima, che sarebbe un nuovo saggio a fondo – un saggio che riallacci quei due scritti allo stato presente delle questioni, lasciandoli del resto quali sono» (cfr. Carteggio, V, p. 10). Un riconoscimento della piena validità dei temi trattati allora, che nel novembre del 1902, a poco più di un anno dalla morte, spinge ancora Labriola a parlare del suo Della libertà morale in questi termini: «ci tengo ancora… lo considero attualmente mio» (Ibidem, p. 403).

Scritto sotto molti aspetti preliminare a buona parte dei nodi teorici sviluppati nella riflessione successiva, La dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele rappresenta indubbiamente una delle opere più riuscite ed apprezzate di Labriola, tanto da essere definita da Croce, nell’Avvertenza alla ristampa del 1909, «il solo ampio lavoro d’insieme, che la letteratura italiana possegga intorno a Socrate», e da essere riproposta, ancora in anni recenti, quale interessante contributo per un’interpretazione del profilo di Socrate attraverso le fonti antiche, ed in primo luogo attraverso la ricostruzione senofontea (cfr. SENOFONTE, Memorabili, con un saggio di A. Labriola, a cura di A. SANTONI, BUR, Milano 1989). Il testo qui raccolto riproduce quello dell’unica edizione apparsa, vivente l’autore, per i tipi della Stamperia della Regia Università di Napoli nel 1871 e pubblicato come «Estratto dal vol. VI degli “Atti” della Regia Accademia di Scienze Morali e Politiche». A dare ragione di questa collocazione è l’Avvertenza a cura dell’autore, dove si precisa che la memoria, redatta per il concorso bandito dall’Accademia nel gennaio del 1869, e nella sostanza «già condotta a termine nell’autunno» di quell’anno, fu poi presentata nel giugno del 1870 senza particolari rifiniture, ed essendo risultata vincitrice del primo premio, fu data alle stampe senza «modificazione alcuna», in ossequio al privilegio di pubblicazione accordatole. I termini e le citazioni in caratteri greci presenti sia nel testo che nelle note di Labriola sono stati riprodotti conformemente all’originale, inserendo, nel primo caso, la traslitterazione e la traduzione italiana di singole parole direttamente nel testo, fra parentesi quadre; nel secondo, riportando la traduzione italiana nelle note del curatore, collocate nella parte finale del volume. Per ragioni di spazio non si è proceduto ad esplicitare i numerosi riferimenti a fonti antiche presenti nelle note dell’autore (per lo più, rimandi facilmente individuabili all’opera di Platone), se non in presenza di citazioni dirette dal testo greco. Si è mantenuto infine l’espediente grafico, un asterisco fra parentesi tonde (*), utilizzato da Labriola per segnalare le note «di seconda mano», ovvero riferimenti bibliografici non verificati in prima persona dall’autore. Il saggio delinea in undici capitoli il profilo biografico e intellettuale di Socrate. L’architettura dell’opera, al contempo nitida ed in grado di restituire la complessità del soggetto trattato, così come lo stile semplice ma curato, e l’uso sapiente delle fonti, rivelano uno studio ed un lavoro di preparazione più accurati di quanto l’autore vorrebbe far credere: elementi che inducono a riconoscere in questo lavoro, compiutamente monografico, un chiaro salto di qualità rispetto

alla produzione precedente. Intento dell’autore è anzitutto restituire la figura di Socrate al proprio tempo e al proprio contesto, ma in relazione ad essi anche alla propria specificità, depurando la ricostruzione del suo pensiero da ogni idealizzazione o dalla sovrapposizione di modelli e concetti della filosofia successiva, che, a partire dalla lettura platonica del contributo del maestro (assunta come riferimento da Schleiermacher e da parte della critica tedesca), avevano finito per distaccarsi troppo dalla verità storica della sua vicenda e del suo insegnamento, così come invece traspare dalla «posizione pratica» che caratterizza il Socrate di Senofonte (cfr. l’importante Osservazione che chiude il cap. I). Si spiega così la valenza, per nulla accessoria o improntata a mera erudizione, della trattazione della «personalità storica» di Socrate (cap. I), volta ad impostare una comprensione genetica del suo pensiero – espressioni come «processo genetico» o «indagine genetica», ricorrenti nel testo, assumono un interesse particolare alla luce della successiva maturazione del pensiero labrioliano – che tenti di far luce sulla formazione della sua «coscienza» e, di contro, sul ruolo esercitato dal suo «carattere», intesi (anche in questo caso non mancano importanti analogie con i successivi “scritti herbartiani”) come «orizzonte» imprescindibile per comprendere il valore della riflessione filosofica che si sviluppa al suo interno. Centrale, in questo senso, risulta il legame con la tradizione religiosa (cap. II), da cui il pensiero di Socrate ricaverebbe, da un lato, l’idea di un ordine provvidenziale che governa tutte le cose, dall’altro, la centralità dell’anima intesa come dimensione irriducibile del soggetto, chiamato a rispondere in quella sede della fondatezza delle proprie conoscenze e a perseguire, con la massima consapevolezza possibile, ciò che avverte intimamente come il bene. Su questa base Labriola entra nel merito della filosofia socratica (capp. III e IV), mostrando come in essa non si dia un concetto astratto del sapere, ma piuttosto uno «stato rudimentale» della ricerca filosofica, in cui l’esigenza crescente di rigore logico conduce alla definizione di un metodo operativo incentrato sull’esame, all’interno del confronto dialettico, di ciò che è dato dall’esperienza, sul conseguente reiterarsi dell’«interrogazione sospensiva» (il noto tì estì, “che cos’è?”, socratico) e sulla progressiva acquisizione di definizioni evidenti e condivise. Analogo approccio storico-genetico caratterizza, nei capitoli successivi, lo studio dell’insegnamento etico di Socrate: la sua definizione a muovere dall’esigenza di una «determinazione esatta dei concetti etici» che segna la distanza dalla deriva sofistica ma non implica per questo il costituirsi in disciplina autonoma, in quanto ad essa non corrisponde ancora, come Hegel ha saputo osservare, il porsi di un’esigenza logica e astratta dell’universalità

morale; il suo fondamento nella ricerca naturale della felicità (l’eudaimonìa) e la definizione del bene non come realtà estrinseca, metafisicamente dedotta, bensì come certezza intrinseca alla valutazione dell’utile che il soggetto opera dentro di sé (cap. V); la conseguente equazione di volere e sapere, che trova espressione nell’arte della maieutica e nella rivisitazione socratica del “conosci te stesso”, in cui cogliere – qui il differenziarsi dalla prospettiva hegeliana e l’avvicinamento all’herbartismo, assorbito attraverso la lettura di Strümpell, si rendono più che mai evidenti – non la forma generale della soggettività libera, ma l’esame della «natura reale dell’individuo», delle sue doti e dell’educazione ricevuta, e quindi la possibilità di una pedagogia della «consapevolezza» (cap. VI); l’effettiva applicazione di questo tipo d’indagine alla vita del cittadino della polis ed una valutazione realistica della sua valenza riformatrice, non equiparabile a quella di una teoria sociale (cap. VII); la complessa questione della nozione socratica di virtù e della sua identificazione formale con il sapere, chiamata a misurarsi con l’assenza di una vera teoria psicologica (cap. VIII). I concetti introdotti nella trattazione vengono poi ripresi ed approfonditi nella sezione conclusiva dell’opera, che, prima di procedere ad un riepilogo (cap. XI), si sofferma nuovamente sulla concezione eudemonistica dell’etica socratica e sul legame fra evidenza logica ed evidenza morale (cap. IX), nonché sul carattere assolutamente originale della religiosità socratica, in cui le idee di divinità ed anima rimandano a quella visione compiutamente monoteistico-provvidenziale che non è correlato estrinseco all’etica di Socrate, ma è «una sola e medesima cosa» con la sua filosofia (cap. X).

I tre successivi scritti, apparsi fra il 1873 ed il 1878, costituiscono, come è stato più volte osservato, un complesso tendenzialmente omogeneo sul piano tematico. Il saggio Della libertà morale, edito dalla tipografia Ferrante di Napoli nella primavera del 1873, è la sede in cui la riflessione labrioliana intorno ai problemi della morale si dispiega nel modo più ampio ed articolato. Inviandone una copia ad Eduard Zeller, il 24 aprile 1873, Labriola afferma che il libro «è concepito nel senso dell’etica e della psicologia herbartiana» ma aggiunge che, «per quanto riguarda il modo di trattare il problema e la connessione con le questioni pratiche», percorre una «propria strada» (cfr. Carteggio, I, p. 326). L’autore lo presenta come risposta – data poi alle stampe «con la medesima sollecitudine con la quale si suole stampare gli articoli di giornale» (si ricordi che il periodo compreso fra il 1871 ed il 1873 vede Labriola direttamente impegnato nell’attività pubblicistica) – all’amico Arturo Graf, che, fresco di letture herbartiane, lo sollecitava intorno al problema del rapporto fra moralità e

teorie della “motività”, ovvero fra la pura coscienza dell’ideale e quel complesso di processi interiori che, anche sulla base della specifica conformazione individuale che le singole risoluzioni hanno contribuito a plasmare, contribuiscono a produrre nel soggetto un’effettiva determinazione della volontà. Dopo aver esposto le definizioni più ricorrenti di libertà ed aver mostrato i limiti intrinseci ad un’idea di quest’ultima intesa unicamente come «potenza indefinita» (cap. I), l’autore argomenta il proprio rifiuto sia della dottrina tradizionale del liberum arbitrium indifferentiae (cap. II) che delle teorie improntate al più rigido determinismo (cap. III), mostrando come il presunto «dilemma» fra il fatalismo dei meccanicisti e l’indeterminismo assoluto degli spiritualisti finisca per distogliere l’attenzione da ciò che il volere determinato «ha dietro di sé» e che «lo mette in essere»: da quella «storia interiore che costituisce l’individualità», cioè, in cui è data «una maniera di attività diversa da quella che si dice naturale» e in cui la libertà si rende comprensibile come «possibilità di volere secondo motivi» (cap. IV). Ne deriva, in continuità con la lezione herbartiana, la necessità di riconoscere l’inadeguatezza di una filosofia che si limiti a concepire la libertà morale «come un semplice postulato nella libertà del volere», riservandosi, come avviene in Kant, di fare del «semplice atto intelligibile del determinarsi del volere, in quanto libera, piena, assoluta autonomia» il presupposto trascendentale dell’agire morale (cap. V), o riducendo la determinazione del volere, come nel caso di Socrate, ad un processo puramente intellettuale, senza curarsi di far luce sull’effettivo processo che può portare un’«intellezione morale» a determinare una «volizione morale» (cap. VI). Su questa base, e sulla scorta della psicologia herbartiana, i capitoli centrali (capp. VII-IX) del saggio affrontano l’insieme dei processi interiori che, muovendo dalle singole rappresentazioni e facendole interagire con sentimenti ed appetiti pregressi, ossia con le rappresentazioni (appercezioni) di precedenti esperienze del soggetto, portano ad esercitare il volere in una sequenza di determinazioni che, coordinate in un abito, definiscono il carattere: quella «particolare maniera di volere abituale, rispetto alla somma degli elementi costitutivi dell’io storico dell’individuo» che può consentire al soggetto, giunto ad un sufficiente grado di maturità, di «dominare il processo meccanico dell’appetito», dando quindi effettivo fondamento alla libertà «come stato psicologico», ossia come «facoltà di disporre liberamente di sé». Si coglie in questo modo il legame intrinseco che associa la descrizione psicologica delle condizioni che danno luogo alla formazione del carattere morale all’interrogativo propriamente etico circa la qualità morale del volere e il problema della responsabilità, nonché al problema pedagogico della possibilità

di un’educazione morale: complesso di temi su cui l’autore si sofferma nella parte finale del saggio (capp. X-XII), prima di riassumere in modo puntuale gli esiti dell’intera ricerca (cap. XIII).

Nell’estate del 1873, ancora una volta per i tipi della tipografia Ferrante di Napoli, vede la luce Morale e religione, «dissertazione per concorso» – si legge sul secondo frontespizio del fascicolo che l’autore pubblicò in vista del concorso per la cattedra Filosofia morale e Pedagogia dell’Università “La Sapienza” di Roma, di cui sarebbe poi risultato vincitore – che ben riflette nello stile e nella struttura serrata dell’argomentazione (si veda il ricorso all’elenco e all’esempio) il carattere accademico dello scritto, concepito per resistere alle obiezioni dei «contraddittori». Alle esigenze dettate da questa particolare circostanza allude, d’altro canto, una postilla inserita nel testo (alla fine del cap. III), in cui l’autore fa riferimento ad un precedente progetto «intorno al concetto del lecito», poi abbandonato per la vastità dell’argomento e per lo stile «non rispondente al carattere di una dissertazione». Il testo, preceduto da una citazione tratta dalla Fondazione della metafisica dei costumi di Kant, si apre precisando il proprio intento introduttivo rispetto al tema trattato. Scopo del lavoro è «tratteggiare […] i diversi aspetti sotto i quali si può discorrere dei rapporti fra la morale e la religione», analizzando i «caratteri propri e distintivi» di queste due realtà, gli elementi che ne sanciscono la separazione e quelli che possono giustificarne la complementarietà (cap. I). D’altro canto, preoccupazione dell’autore è escludere da subito, in questa sede, considerazioni di ordine politico in merito ai rapporti fra Chiesa e Stato. La trattazione prosegue con la discussione di tre casi, esemplificativi delle diverse posizioni in merito al rapporto fra morale e religione: chi ne presuppone la perfetta identificazione; chi ne separa di fatto gli ambiti, pur non sapendone spiegare le ragioni; chi, infine, fa di tale distinzione «oggetto di esame», avendo fatto esperienza del carattere incondizionato della moralità e volendo indagarne scientificamente il principium essendi (cap. II). Dopo aver articolato l’oggetto di tale ricerca in una serie puntuale di interrogativi ed illustrato i tratti ad essi comuni (cap. III), l’autore ne imposta le relative risposte, concentrandosi sulle nozioni di coscienza e giudizio morale, e soffermandosi infine sul diverso tipo di fondamento ideale che contraddistingue morale e religione (cap. IV). La dissertazione si conclude con un’analisi dell’idea etica di «benevoglienza» e con il confronto fra questa ed il precetto religioso della «beneficenza» (cap. V).

Il terzo ed ultimo dei saggi, Del concetto della libertà: studio psicologico, apparve nel quarto fascicolo dell’annata 1878 dell’«Archivio di Statistica» e, in estratto, presso la Tipografia Elzeviriana di Roma. A differenza dei due precedenti scritti, il testo non è suddiviso in capitoli numerati, ma in sezioni graficamente distinte dall’inserzione di un rigo bianco: espediente utilizzato spesso dall’autore d’ora in poi, che presenta tuttavia il limite di ingenerare possibili errori nel lavoro di edizione (un paio di casi, riscontrati nell’edizione Dal Pane, sono stati qui emendati) qualora tale separazione cada in corrispondenza del cambio di pagina e possa essere dunque confusa con un semplice “a capo”. Le circostanze della composizione del saggio sono suggerite dal testo della lettera datata da Roma, 26 maggio 1878, che figura in apertura dello scritto. Rivolgendosi a Luigi Bodio, direttore della rivista, Labriola dichiara di aver potuto esaudire solo in parte la richiesta del noto studioso che, reduce dalla lettura di Della libertà morale, lo aveva pregato di affidare ad un articolo le proprie considerazioni circa la statistica morale: tema che l’autore si riserva in quella stessa lettera di affrontare più specificamente in un nuovo articolo, che però non fu mai scritto. Il saggio si apre riproponendo, questa volta in chiave più marcatamente polemica e con tono a tratti sarcastico, il rifiuto della posizione dilemmatica cui il dibattito contemporaneo fra naturalisti e spiritualisti vorrebbe ricondurre il problema della libertà. È in particolare la polemica antipositivistica a segnare fortemente l’apertura dello scritto (in cui ricorre un primo chiaro riferimento alla teoria di Darwin), al punto da indurre lo stesso autore a rigettare ogni possibile sospetto di un sostegno alla «mitologia bella e buona» degli spiritualisti. Ribadita la natura della propria ricerca intorno alla libertà intesa non «come causa, efficienza, facoltà o formale precorrenza degli atti volontari», bensì come indagine su «questi atti medesimi, in quanto assumano il carattere peculiare a volta di liberi, a volta di non liberi, entro certi limiti e in un certo modo» – dunque come indagine sul processo psicologico della deliberazione e sulle sue condizioni –, Labriola propone un lungo ed articolato esempio ricavato dalla propria deliberazione di scrivere il saggio cui si sta dedicando. Correlato significativo della ricostruzione del processo deliberativo sviluppata nelle sezioni successive è, accanto al rinnovato rifiuto della dottrina del libero arbitrio intesa come condizione formale e alla puntuale riproposizione della teoria dell’appetizione e del carattere già esposta nei precedenti scritti, la tematizzazione del lavoro come «campo entro del quale [il soggetto] può muoversi liberamente, ossia con accorgimento chiaro di quel che al presente fa, e che saprà e potrà fare in altro tempo e luogo».

La conclusione del saggio ripropone le considerazioni dell’autore circa la nozione «polisenso» di libertà, irriducibile ad un «concetto primo ed universale» da cui dedurre poi tutte le sue possibili applicazioni, e rinnova la polemica contro quanti – è plausibile che l’autore si rivolgesse idealmente proprio ai lettori dell’«Archivio di Statistica» – pretenderebbero di escludere «come punto compatibili con la presente serietà del sapere positivo» gli interrogativi «di difficilissima soluzione» intorno alle condizioni e ai limiti della libertà morale cui la metafisica è chiamata a rispondere.

La selezione di sei Recensioni raccoglie testi apparsi fra il 1870 ed il 1877. Non si tratta che di una parte – una seconda selezione chiude la sezione del volume dedicata agli anni della transizione verso la compiuta formulazione del marxismo labrioliano – delle recensioni, firmate o attribuite con ogni evidenza a Labriola, apparse fra gli anni Settanta ed Ottanta dell’Ottocento e riconducibili a due principali aree d’interesse: la filosofia, ed in particolare il confronto con la psicologia, l’etica e la sociologia coltivate dalla scuola herbartiana; e la pedagogia, terreno ancora una volta praticato dagli herbartiani ma rispetto al quale le recensioni labrioliane non disdegnano anche l’esame di questioni molto concrete, legate alla pratica didattica e all’organizzazione scolastica (si ricordi che Labriola ricoprì l’insegnamento di Filosofia morale e Pedagogia dal 1874 e che nel 1877 fu designato dal Ministero come Direttore del Museo d’Istruzione e di Educazione). Il criterio seguito nella scelta dei testi ha privilegiato il carattere più marcatamente teorico delle recensioni filosofiche, che non si riscontra invece nella maggior parte delle recensioni di argomento pedagogico (per un raccolta completa delle quali, si rimanda a A. LABRIOLA, Scritti pedagogici, a cura di N. SICILIANI DE CUMIS, Utet, Torino 1981). È bene ribadire, tuttavia, che quella operata in tal modo vuole essere una distinzione di carattere formalecontenutistico, e non intende stabilire gerarchie d’altro tipo all’interno della riflessione di Labriola. L’attenzione dell’autore per la coeva produzione filosofica e scientifica proveniente dalla Germania è pienamente confermata dalle scelte operate in veste di recensore. Delle sei recensioni pubblicate in questa sezione, cinque hanno per oggetto volumi in lingua tedesca e due apparvero direttamente in tedesco su uno dei più noti periodici della scuola herbartiana: la «Zeitschrift für exacte Philosophie im Sinne des neuern philosophischen Realismus», pubblicata fra il 1861 ed il 1896 sotto la direzione di Friedrich Allihn e la condirezione, dal 1883, di Otto Flügel. Per queste ultime, oltre a verificare, come per tutte le altre,

il testo già edito da Dal Pane con quello apparso originariamente nei rispettivi fascicoli della «Zeitschrift» e di «Nuova Antologia», si è provveduto a riprodurre il testo in lingua originale seguito, a fronte, dalla traduzione italiana frutto di una revisione di quella pubblicata a suo tempo da Dal Pane. Come si evince dalla prima recensione a Lindner, la familiarità con la «Zeitschrift» e con alcuni degli autori più nominati e recensiti da quest’ultima, non è da considerarsi un dato occasionale, ma il risultato di letture e di un costante lavoro di approfondimento, in cui non è difficile riconoscere legami e richiami alla riflessione che l’autore veniva elaborando negli stessi anni intorno ai temi della psicologia e dell’etica. Di tale sforzo sono espressione la stessa recensione a Lindner, in cui si tematizza il problema del rapporto tra virtù e felicità e la portata del concetto di bene morale all’interno della prospettiva herbartiana; la recensione del manuale di Volkmann Ritter von Volkmar, in cui Labriola ha modo di ribadire il merito di Herbart e della sua scuola nell’aver collocato la psicologia nel posto che le spetta «fra le scienze positive», e questo «per un sano e corretto intendimento dei rapporti che legano la ricerca empirica alla speculativa» in quest’ambito; infine, la severa critica al tentativo di Frohschammer di opporsi alle acquisizioni della scuola herbartiana, ponendo al centro del proprio «monismo relativo» una teoria in ultima istanza metafisica della fantasia. Il confronto con l’eredità herbartiana permea d’altro canto anche l’interesse labrioliano per la pedagogia, caratterizzato, come testimonia la breve recensione al libro di Kern, dalla preoccupazione di non scindere le diverse declinazioni specialistiche e applicazioni della disciplina da un impianto teorico generale che è merito della scuola di Herbart aver posto all’attenzione degli studiosi e che l’autore auspica possa essere meglio conosciuto anche dal pubblico italiano. Una considerazione a parte meritano le recensioni dell’opera di Augusto Vera e dello studio di Lindner sulla psicologia sociale. Apparse entrambe nel secondo semestre del 1872, esse testimoniano di una maturazione della riflessione labrioliana intorno alla storia e ai fenomeni sociali che avrà importanti risvolti sulla produzione successiva. Nel recensire per i lettori della «Zeitschrift» la raccolta di lezioni di Filosofia della storia di Vera curata da Raffaele Mariano, Labriola si trova a ribaltare il giudizio entusiastico sulle sorti dell’hegelismo italiano espresso da Karl Rosenkranz, responsabile, fra l’altro, d’aver associato in un’unica considerazione autori d’idee e levatura assai diverse, come nel caso di Bertrando Spaventa che Labriola si preoccupa in nota di preservare, insieme al «critico» De Sanctis e ad Antonio Tari, dalla critica impietosa rivolta contro l’inconsistenza scientifica degli altri italiani ivi menzionati. Per ottenere il suo scopo, Labriola

non risparmia di mettere in ridicolo le contraddizioni e le ingenuità del testo recensito, di cui all’occorrenza traduce alcuni passi in tedesco (ricondotti qui, in sede di traduzione, come già nell’edizione Dal Pane, all’originale italiano). Per il resto, l’argomentazione labrioliana fa leva sulla mancanza di chiarezza e sulla necessità, disattesa da Vera e più in generale dai fautori di una filosofia della storia che pare più il prodotto di una «moda» che di una sincera rielaborazione della lezione hegeliana, di una «ferma delimitazione dei concetti»: necessità che il generico riferimento ad una concezione organicistica della storia non può più permettersi di eludere, tanto meno sacrificando nel «vortice dell’idealismo assoluto» quei «fatti del sapere storico» che la linguistica, la mitologia, la storia del diritto e la statistica, ma anche l’«etica storica e comparata», vengono acquisendo di giorno in giorno alla scienza. Analoga preoccupazione per la definizione del concetto, in contrapposizione all’uso comune ma potenzialmente equivoco di termini come «spirito pubblico» ed «opinione pubblica», emerge nella recensione del volume di Lindner sulla psicologia sociale: la più ampia fra le recensioni di Labriola che, senza risparmiare critiche anche severe al volume e più in generale al progetto stesso di redigere il manuale di una disciplina «non ancora così bene sceverata e dichiarata», si sofferma a lungo su alcune delle questioni da esso affrontate, evidenziandone i punti di continuità con gli assunti della psicologia herbartiana ma dando conto anche dell’articolarsi di posizioni diverse nel dibattito intorno ad essa. È il caso della differenza, che non sfugge a Labriola, fra la Völkerpsychologie di Lazarus e Steinthal, intenta a condurre «indagini speciali su le singole forme della coscienza sociale nei periodi preistorici e storici», ed una psicologia sociale che, stabilendo un’analogia con le funzioni della psicologia individuale, intende porsi come ricerca del «fondamento psicologico del convivere sociale», ovvero di quei «motivi generali […] riposti nelle forme della coscienza e della volontà» di cui la politica e l’economia sono espressione.

LA DOTTRINA DI SOCRATE SECONDO SENOFONTE PLATONE ED ARISTOTELE [1871] Memoria premiata dalla R. Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli nel Concorso dell’anno 1869

Omnia meliora fuere, cum minor copia Plin. Histor. Natur. XXXV, 501

AVVERTENZA Nel gennaio del 1869, la Sezione di Scienze Morali e Politiche della Società R. di Napoli stabilì per tema di concorso: «La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele», assegnando il mese di giugno 1870 come termine per la presentazione dei manoscritti. Questa monografia, che ora vede la luce negli Atti dell’Accademia stessa, ha avuto in sorte di ottenere la più gran parte del premio, e di essere anteposta ai lavori di sei altri concorrentia; della quale determinazione noi rendiamo qui pubblica testimonianza di gratitudine alla Sezione, che ci ha onorati col suo favorevole giudizio. Questo lavoro intanto, quantunque premiato e giudicato degno della stampa, non risponde pienamente a quello che avevamo in animo di fare; ché in molti luoghi è difettoso e degno di correzione, e quanto alla forma dovea essere rimaneggiato da capo a fondo. La spontanea confessione che facciamo ci autorizza a produrre le nostre scuse. Del tempo assegnato dall’Accademia buona parte andò per noi perduta, e gli ultimi mesi appunto, nei quali era nostro proposito di rivedere a parte a parte la bozza già condotta a termine nell’autunno del 1869, per introdurre nello scritto maggiore uniformità di colorito e più gran copia di erudizione, e per portarlo ad una forma letteraria più accettabile. Nella stampa poi non ci siamo permessa modificazione alcuna, perché, avendo l’Accademia col premiarlo fatto suo il nostro lavoro, non ci era lecito pubblicarlo negli Atti in una nuova forma. Nel dare dunque alla luce un lavoro, che a nostro parere dovea essere corretto, colorito e migliorato, nel darlo in somma quasi come l’avevamo abbozzato circa due anni fa, speriamo che i lettori non vogliano usare con noi una critica troppo scrupolosa, e che guardino con indulgenza i difetti parziali del nostro libro. La più gran parte dei lavori letterari, storici e filosofici, che più o meno direttamente si riferiscono a Socrate, sono stati da noi o letti o consultatia; e ci è parso conveniente di segnare con l’asterisco le note di seconda mano. Nella stampa sono corsi diversi errori, specialmente nella punteggiatura, perché la correzione è stata molto disugualmente curata, e non è sempre proceduta dalla stessa mano. Si veda in fine l’errata-corrige, nella quale sono raccolti gli errori più gravi. a

Conf. Rendiconto dell’Accademia ecc. anno X, quad. da gennaio a marzo, pp. 24-28, Napoli 1871. L’Accademia ha accordata una parte del premio ad uno dei concorrenti, il Prof. Brofferio di Milano; senza

concedergli il dritto della stampa negli Atti2. a

Il lavoro del Volkmann, Die Lehre des Sokrates, Prag 1861 non c’è riuscito averlo, per quante ricerche ne avessimo fatte.

I

LA PERSONALITÀ STORICA DI SOCRATEa 1. Socrate e gli Ateniesib L’anno 1° dell’Olimpiade 95a nel mese Targelione (maggio del 399 a. C.) moriva nel desmoterio ateniese Socrate figlio di Sofronisco, condannato a bere la cicuta, qual reo di violata religione e corruttore della gioventùc. Gl’intimi di lui, che rimaneano privi dell’uomo più prudente e più giusto fra quanti fossero a quel tempod, aveano invano tentato di sottrarlo a così trista fine, offerendosi dapprima mallevadori di una multa di trenta minea, e cercando, poi che la sentenza era stata pronunziata, procacciargli con la fuga albergo e riposo in più sicura stanzab. Socrate, che a mala pena s’era indotto ad offrire la multa, rigettò recisamente il consiglio della fuga; e rimase tranquillo in carcere fino al giorno della morte, ch’egli incontrò con religiosa rassegnazionec. La divinità gli vietava di fare altrimenti! Egli era convinto che sfuggire le conseguenze del processo era come violare la legge, la cui santità dee rimanere inalterata, anche quando gl’interpreti di essa siano ingiusti e parziali. La sua coscienza non ammetteva incertezza o titubanza fra una moltitudine di beni possibili, riposando su la infallibilità del giudizio morale, il cui fondamento costante è la retta cognizioned. Socrate era al servigio della divinità, e la coscienza della missione affidatagli era in lui tanto viva e potente, che, ove l’avesse lasciata inadempita, egli avrebbe stimato di commettere un’azione riprovevole ed irreligiosae. Era quello un tempo di restaurazione politica, e gli Ateniesi, che dal fastigio della gloria e della potenza, per una serie d’errori e d’ingiustizie, erano caduti nel più basso fondo d’ogni umiliazione, scacciati i trenta tiranni, e ristabilita la forma popolare, intendevano a tutt’uomo a purgare la città di tutti quegli elementi, che per un verso o per un altro avessero corrotto e snervato, o reso inoperoso e svogliato il popoloa. E quest’opera fu intrapresa con moderazione, generosità e costanza. La vendetta, lo spirito di parte, le ambizioni e gl’interessi personali offesi non vennero punto a regolare la condotta dei restitutori della libertà, che, intesi a ristabilire la costituzione fondamentale dello stato, dettero pruova di quanto fossero valse le recenti sventure a mitigare lo spirito violento della democrazia ateniese. L’arcontato di Euclide coronò gli sforzi della restaurazione, e fece per poco sperare che i tempi di Cimone e di Pericle non fossero del tutto finiti. Ma quest’opera di civile rinnovamento, per quanto fosse

stata compiuta con intenzioni umane e disinteressate, non riuscì a ricomporre in perfetta armonia gli spiriti già travagliati da profonde collisioni, perché l’apparente conciliazione non avea di che nudrire gli animi già stanchi e dimentichi delle antiche virtù. La religione tradizionale era stata violentemente scossa nei tempi della sfrenata libertà democratica, e tutto avea cospirato a smuoverla dalle sue fondamenta. Le gravi sventure sofferte aveano favorito due opposte tendenze: dispregio della religione tradizionale in alcuni, superstizione eccessiva negli altri, stimando quelli che l’insuccesso nelle imprese guerresche avesse sbugiardato gli dei, mentre questi, al triste spettacolo della patria in decadenza, ed alla perdita del sereno possesso delle tradizionali e virili virtù dei padri, non sapeano cercare altrove un riparo, che in un abbandono angoscioso nelle braccia delle divinitàb. La mania dei processi politici, frenata per poco dal bisogno di calma e tranquillità che la restaurazione avea indotto negli animi, si fece nuovamente imperiosa; e quattro anni appena erano trascorsi dal ristabilimento della libertà, quando la democrazia fece di Socrate la vittima innocente di un esagerato principio di conservazione politica. Questo doloroso spettacolo di una rinnovata democrazia, che si macchia del delitto di una ingiusta condanna col toglier la vita ad un uomo di virtù eccezionali, che avea consacrato sé medesimo al miglioramento dei suoi concittadini, è stato argomento di somma maraviglia sì negli antichi tempi come nei modernic; e questa maraviglia ha fatto sì, che le circostanze tutte che prepararono ed accompagnarono quella tragica catastrofe fossero studiate con indagini severe e minuziosea. Il risultato di queste ricerche è stato, non certo la giustificazione, ma bene la spiegazione della condotta degli Ateniesi verso Socrate; e quel processo e quella condanna non possono ora più considerarsi come opera del fanatismo religioso, o del furore partigiano, o degli artifizi di certi uomini invidiosib, perché il loro fondamento era riposto nell’inevitabile contrasto fra i principi conservativi della democrazia ateniese, e la ricerca poggiata sul criterio del convincimento personale, della quale Socrate s’era fatto l’apostoloc. Questa maniera di considerare la posizione di Socrate in Atene non importa punto che deva sagrificarsi la testimonianza dei discepoli di Socrate, su la purezza delle intenzioni, e sullo spirito profondamente retto e religioso del loro maestro, all’esigenza di una giustificazione assoluta del popolo ateniesed; ma vale certamente a farci valutare più intimamente il valore storico della persona di Socrate, ed agevola la intelligenza netta della sua dottrinae. L’esame di questa quistione non può entrare nei limiti del nostro lavoro; ed a noi basterà di notare i tratti più notevoli della personalità di Socrate, solo perché apparisca necessario il contrasto con la democraziaa.

Socrate non avea niente di comune coi partiti che agitavano Atene, e le sue personali relazioni non aveano niente a fare con le varie tendenze politiche dei contemporanei. Sebbene Carmide e Crizia fossero stati suoi uditori, e Teramene e Caricle suoi amici, egli non era stato per ciò fautore del loro dispotismo, anzi Crizia, ad onta dell’antica amicizia, gli avea proibito di tener discorsib. Cherefonte suo amico, e s’è lecita la parola suo apostolo, tornava appunto dall’esilio coi fautori del governo popolare, poco prima che Socrate fosse condannatoc, e con lui Lisia, che, se non discepolo o amico, secondo una probabile tradizione, era nel numero degli ammiratori di Socrated. Alcibiade infine, ch’era continua minaccia e spauracchio dei trenta, e che allora i reduci democratici cercavano ricondurre in Atene quando l’oro di Sparta il fece spegnere, era stato il più intimo dei suoi uditori; quello che, per la sua naturale leggerezza e mutabilità, avea più d’ogni altro sentita la potenza educatrice del carattere di Socratee. Tutto quello che formava la vita il benessere e la felicità dell’Ateniese, il continuo agitarsi per le pubbliche faccende, e la brama di divenire influenti nelle adunanze con l’arte della parola, non occupava l’animo di Socrate, che uso ad appagarsi dell’intimo compiacimento della propria coscienza, non volle mai scendere su l’arena delle dispute politiche. Ai contemporanei egli appariva un uomo strano e singolaref, ed a ragione uno storico ha detto, ch’egli non apparteneva a nessuna classe di cittadinig. Abbandonata in fatti ben per tempo l’arte paterna della scoltura, non intese mai più ad apprenderne un’altra, che lo fornisse dei mezzi necessari per la sussistenza. Come cittadino non manca di adempiere i doveri di pritane, anzi sfida il furore popolare, e sa volere e far volere il giustoa; ma egli non cerca per ciò di acquistarsi influenza col suo ingegno, anzi pare che distorni i cittadini dalla vita pubblica, col richiamarli alla meditazione, e si attira così la taccia di fuorviare i giovani. A Potidea, a Delio, ad Amfipoli combatte da valoroso soldatob, e fa nascere in tutti una straordinaria ammirazione per la costanza con la quale soffre ogni sorta di privazioni e d’intemperie; ma con tutto ciò non fa che adempiere il dovere d’onesto cittadino, e ricusando la corona che il suo coraggio gli avea fatta meritare, la cede ad Alcibiade cui avea salvata la vita. Un bel giorno quest’uomo singolare muoverà dei dubbi sul concetto che gli altri si fanno comunemente del coraggio, e metterà in imbarazzo anche coloro, che, fatte avendo delle campagne, e riportate delle vittorie, non sanno dire cosa sia il coraggioc. La sua estrema povertà lo costringe a vivere dei doni spontanei degli amici, ma mentr’egli forse rigetta con superbia l’invito di principi stranieri che lo invitano alla loro corte, sdegna il nome di maestro stipendiato, anzi non vuole essere tenuto per maestrod. E come poteva essere maestro; – e di che? Egli

sapeva solo di non saper niente; e per questa ragione appunto l’oracolo di Delfo lo avea dichiarato il più sapiente fra gli uomini. Il suo sapere appariva nella forma di un giudizio sospensivo, di una bella domanda – τὶ ἐστι; [tì estì: che cos’è?] che smascherava il ciarlatano, imbarazzava il prosuntuoso, ed irritava il sofista di mestiere, e che spesso, col suscitare il bisogno dell’esame, non menava ad un risultato positivo. I settant’anni della vita di Socrate passarono fra l’epoca più fortunata e gloriosa della repubblica ateniese, ed il periodo infausto della irreparabile decadenza. Nato dieci anni dopo la battaglia di Platea, nella sua prima età Temistocle moriva in esilio, e Cimone reduce dall’esilio raccoglieva gloria con le imprese della guerra, e con le proficue arti della pace. Nella età virile di Socrate Pericle fu a capo dello stato, moderatore e sovrano dell’opinione, con quella grandezza e nobiltà di propositi, che gli facea vedere nello splendore della patria la sodisfazione della propria ambizione, ch’era intesa ad armonizzare le cure dello stato ed il godimento dell’arte. La guerra del Peloponneso, la spedizione di Sicilia, la caduta della libertà, l’oligarchia, i trenta, il ritorno del partito popolare, – tutta questa svariata e rapida vicenda passò sotto gli occhi di Socrate, che stando da mane a sera nell’agora e in su le pubbliche vie, e frequentando la bottega dell’armiere e dello scultore, del pari che la casa della meretrice e degli ottimati, con le sue aride domande, col suo perpetuo γνῶθι σαυτόν [gnôthi sautón: conosci te stesso] e τὶ ἐστι; parea ignorasse le glorie e le sventure della patria. E pur nondimeno Socrate era un prodotto naturale della coltura e della vita ateniese; e se il suo carattere, e le sue convinzioni etiche e religiose ci fanno apparire la sua persona come molto staccata e distinta dal fondo comune della vita dei suoi contemporanei, deve pur dirsi, che la facilità con la quale egli seppe formarsi una cerchia d’amici devoti ch’erangli stretti da religiosa pietà, e da arrendevolezza senza pari, non può avere la sua ragione soltanto nel prestigio straordinario ch’egli esercitava, ma eziandio, e forse principalmente, nella natura dei tempi. Una società nuova, più angusta e al tempo stesso più intima e compatta, si andava allora formando nel seno della grande società; e spezzato il filo tradizionale della patria educazione, e varcati i limiti dell’ethos popolare si preparava al raccoglimento, mentre gli elementi dell’antica vita entravano in lotta fra loro, per poi alterarsi, e dissolversi. Socrate non è il cosciente iniziatore di questo movimento, né il solo; anzi, come è sempre avvenuto in tutte l’epoche di rinnovamento o di riforma morale e religiosa, egli, che con le sue esigenze ricercative si allontanava tanto dall’etica puramente tradizionale ed abituale dei suoi concittadini, fu così poco inclinato a credersi un riformatore, che considerò come preordinato dalla divinità, ed inteso dalla sapienza dei legislatori quello

che era risultato della sua personale investigazione. Egli rimase quindi greco, anzi ateniese tutta la vita, e con la stessa morte confermò la costanza ed armonia della sua coscienza. Il Socrate umanitario dei filosofi del XVIII secolo è un prodotto di fantasia, che non ha fondamento nella storia; e le opinioni di certi eruditi del nostro secolo, che hanno fatto di Socrate un rivoluzionario, non meritano altro nome, che quello di dottrinali aberrazioni. Intendere come Socrate, che fu vittima di una accusa che facea di lui un innovatore della religione e della pubblica morale, non fosse stato né un rivoluzionario né un ozioso ricercatore, ed evitare al tempo stesso l’errore di coloro che ne fanno il rinnovatore di non so che antica morale, senza pensare che una morale non potea esservi prima della ricerca sofistica e socratica, è forse tanto difficile per la critica moderna, per quanto era ardua cosa pei contemporanei di dischiudere la deforme statua del Sileno, per trovarvi dentro quella vera e viva immagine, che rendeva perplesso l’incostante e volubile Alcibiadea.

2. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate Imparare a leggere, e recitare poi a memoria le sentenze degli antichi poeti; assuefarsi alla modulazione ed al canto, ch’era destinato a formare nell’animo il senso dell’armonia; esercitare il corpo con la ginnastica, per isviluppare con la regolarità dei movimenti l’accordo dell’esterno con l’interno, ed il senso dell’euritmia: in questi tre capi consisteva l’educazione dell’Atenieseb. Solone, istitutore di questo sistema di educazione, ne avea affidata la vigilanza al venerando consesso dell’Areopago, assicurando in tal guisa alla coscienza ateniese l’inviolato possesso di una preziosa eredità morale. Gli Ateniesi, tuttoché rimutassero più volte le forme politiche della loro costituzione, riguardarono sempre con pietosa venerazione gli ordini di Solone; e gli stessi restauratori della libertà, dopo la cacciata dei trenta, li tennero qual sicuro fondamento della vita civile. La riforma di Efialte, col porre dei limiti all’autorità dell’Areopago, lo avea privato della vigilanza su la educazione, entrando in quella vece i Sofronistia a funzionare da moderatori di quegli antichi istituti. La pochezza dei mezzi per la diffusione letteraria, e la vita ristretta in più angusti confini, rendeano allora necessaria la concentrazione degli elementi educativi che la coltura e la tradizione poteano offrire; sicché lo sviluppo dell’individuo, favorito dalla limitata istruzione, era di una grande svariatezza e libertàb, e tanto più intenso, per quanto meno sussidiato da una larga preparazione di scuola. I primi anni della vita di Socrate precedettero la riforma di Efialte, e non è a dubitarsi ch’egli s’ebbe l’istruzione legalmente stabilita fin dal tempo di Solone. Senofonte, e qualche reminiscenza socratica presso Platone fanno fede della educazione affatto ateniese di Socrate; e fra gl’indizi non è di poco valore quello che può desumersi dalle frequenti citazioni di Omero di Esiodo di Teognide e di Simonidec, che, secondo la tendenza invalsa a quell’epoca, serviano di occasione a delle analisi morali dei precetti che potessero esser contenuti in questo o in quel luogo. Da questa prima istruzione, che se non è esplicitamente attestata in persona del giovanetto Socrated, non c’è dubbio che abbia avuto luogo per lui come per ogni altro Ateniese, fino al momento che informato già a solide convinzioni egli appare su la scena pubblica, come autore di una dottrina determinata e precisa nel suo carattere e nel suo valore, come siasi sviluppato, e quali siano state le diverse fasi del suo pensiero, e le sue lotte coi contemporanei e con sé stesso, la critica storica non è più in grado di saperloe. La leggenda in vero ha conservato finanche i nomi dei maestri di Socrate, e gl’indizi della loro

influenza; ma alla luce della critica tutte queste varie tradizioni sono apparse vuote di certezza, avendo esse per fondamento, o certi presupposti dottrinali, o delle combinazioni equivoche di dati storicia. E del pari non si ha ragioni sufficienti, per riconoscere in certe altre tradizioni la lontana ricordanza delle lotte sostenute da Socrate, per raggiungere quello stato di perfetta costanza continenza ed equanimità, che tanto ammiravano in lui i testimoni contemporanei; perché quelle tradizioni, o sono del tutto inventate, o furono escogitate con l’intento di supplire con la congettura il difetto della storiab. Ed in fatti, la vita d’un Ateniese di mediocre stato, che privo d’ogni arte e d’ogni pubblico ufficio visse nelle più grandi strettezze, e quasi povero, non potea svilupparsi dapprima che nell’oscurità; e quando egli ebbe raggiunta con la maturità degli anni una convinzione chiara ed intensa della sua missione, l’antitesi dichiarata in cui si pose contro tutte le tendenze pratiche e teoretiche dei contemporanei valse tanto ad attirargli amici ed inimici, che l’importanza dell’uomo adulto dovette far perdere di vista la storia del suo sviluppo. Quello ch’egli ha potuto pensare prima di fermare definitivamente l’orizzonte della sua coscienza, e quali impulsi naturali dovessero esser riposti nel suo temperamento e nel suo carattere per determinarlo ad abbandonare ogni pratica occupazione, e darsi interamente ad esaminare l’animo e le morali intenzioni di quanti gli venissero innanzi, e come poi continuasse con religiosa convinzione l’opera intrapresa, certo di non poterla intermettere senza venir meno alla voce della divinità che l’avea scelto e chiamato; tutte queste domande non possono altrimenti toccare una sodisfacente risposta, che per via di una congettura, forse psicologicamente verosimile, ma non per questo equivalente ad una notizia storica. Cercheremo innanzi tutto di mettere in piena luce alcuni dati molto importanti. Poco tempo dopo l’impresa contro Delio, quando Socrate toccava il 45° anno dell’età suaa (424 a. C.), Aristofane fece di lui su la scena il rappresentante tipico di tutta la classe dei Sofisti e dei filosofi naturali, e col suo squisito umore rilevò vivamente il contrasto fra l’antica virtù, e il nuovo principio della ricerca individuale. Non è qui il luogo di esporre i motivi estetici e politici dell’opera singolare di Aristofane, né di tratteggiarne i caratteri i contrasti le peripezie e la catastrofe. A noi importa solo di notare, che a quel tempo Socrate era di già un nome tanto popolare in Atene, che la satira di lui potea offrir materia alla comedia, innanzi ad un pubblico uso a vedere sulla scena le persone più eminenti della repubblicab. Le Nuvole di Aristofane, se non sono un documento storico su la cui autorità devasi accettare o rigettare come genuino questo o quel principio della dottrina socratica, perché in esse è troppo evidente l’erroneo concetto che

Aristofane s’era fatto di Socrate il μεριμνοφροντιστής [merimnophrontistē´s: meditabondo]16, attribuendogli tutte le opinioni dei filosofi naturali, e tutte le più strane conseguenze che la satira avesse potuto desumere dalla riflessione sofistica, sono bene una testimonianza storica della influenza che Socrate esercitava già in quel tempo, e del valore reale della sua persona nella società ateniese. Il suo convivere coi giovani, il suo perpetuo ragionare, la sua preoccupazione logica, e fino la relazione con Cherefonte vi appariscono come cose già note a tutti; e tali, che, senza essere caratterizzate con fedeltà storica, si prestavano a rappresentare vivamente su la scena una personalità già stata argomento di molti discorsi nel pubblicoc. Quanto lavoro e quante lotte non ha dovuto sostenere Socrate, per raggiungere una forma di coscienza così pronunziata; e quanti motivi non han dovuto esercitare la loro azione sul suo animo, dal momento che abbandonata la bottega del padre cominciò egli a vivere nella sua beata e laboriosa ἀπραγμοσύνη?18 I testimoni autentici ed immediati della dottrina socratica non ci forniscono di notizie sufficienti, per poter noi con l’aiuto delle stesse, se non rifare minutamente, almeno adombrare in parte le successive fasi che ha dovuto percorrere la coscienza di Socrate, prima di presentare alla considerazione degli Ateniesi dei caratteri così notevolmente spiccati, che l’occuparsi di lui fosse come toccare un argomento che tenea desta l’opinione generale. Senofonte e Platone erano appena nei primi anni della loro vita, quando le Nuvole di Aristofane furono rappresentatea; e questa sola circostanza dovrebb’essere ragione sufficiente, perché noi, senza più interrogarli su lo sviluppo della coscienza del loro maestro, ci appagassimo di quanto hanno raccolto dei detti e degli atti di Socrate già maturo, e dimentico delle lotte della sua prima gioventù. Oltre di che, la natura stessa dei loro scritti, e l’epoca in cui furono redatti doveano di necessità indurli a mettere sotto gli occhi dei lettori l’immagine completa e perfetta del loro eroe, la cui incontestabile vittoria su le viete opinioni professate dal comune degli uomini, e su i riluttanti elementi della cultura ateniese, non che essere invalidata, era stata rifermata e consacrata da una morte, per quanto ingiusta, altrettanto gloriosa. La data della rappresentazione delle Nuvole d’Aristofane, e la maniera come Senofonte e Platone ci rappresentano il loro maestro già nel pieno possesso d’intime convinzioni, che aveano acquistato la forza e la potenza d’istinti naturali, sono due fatti dalla cui combinazione critica dee risultare evidente l’opinione di coloro i quali affermano, che Socrate avea nei primi anni della guerra del Peloponneso già in gran parte fissato l’orizzonte della sua coscienzaa. E a volere esprimere nella forma più semplice la natura ed i limiti di

quell’attività scientifica, basterà dire su la testimonianza di Aristoteleb, ch’egli fu il primo che si rivolgesse a ricercare la natura delle relazioni etiche, seguendo il filo logico della epagoge e della definizione. Tale era la sua occupazione, quando in mezzo ad una schiera di giovani d’ogni classe sociale, e conversando con quante persone gli venissero innanzi, metteva in mostra nell’età sua provetta i pensieri maturati nell’intimo dell’animo suo, e mosso da un invincibile bisogno di richiamare i suoi interlocutori ai motivi intrinseci della convinzione e della certezza, rigettava i pregiudizi, mediante il concetto rettificava l’opinione, e, con l’invogliare alla continenza ed all’esercizio cosciente di ogni virtù, affermava di adempiere una missione affidatagli dalla divinità la cui voce gli si era fatta palese nella coscienza fin dai suoi primi anni, finché l’oracolo di Delfo non venne a confermarlo nel suo proposito. Tutta questa ricchezza di pratiche attitudini, e di capacità teoretica, che non è certamente espressa dalla caratteristica troppo astratta di Aristotele, è esposta con plastica evidenza nel ritratto senofonteo, e in tutti quei luoghi di Platone che portano l’evidente impronta di una storica reminiscenza. Ma, avendo escluse come infondate tutte le tradizioni conservate dagli scrittori di un’epoca assai posteriore, e sforniti come siamo dei ragguagli dei testimoni autentici, dovremo forse deciderci a negare ogni connessione fra l’attività scientifica di Socrate, e tutti i tentativi fatti prima di lui e durante la sua vita, per escogitare dei principi atti a spiegare la natura delle cose, e l’ordine intrinseco dell’universo? Che influenza insomma hanno esercitato sul suo spirito le opinioni delle varie scuole filosofiche dei due punti estremi del mondo greco, le colonie dell’Asia e dell’Italia? E non si è forse ripetutamente insistito su la derivazione di alcune convinzioni di Socrate dal principio della filosofia di Anassagora; e la più o meno grande simiglianza, che s’è voluta scorgere fra lui ed i Sofisti, non s’è cercato più volte spiegarla con la diretta influenza della costoro propaganda? La esposizione critica di tante svariate opinioni non può punto riguardarci in questo momento: e se ci siamo fermati alquanto su questa quistione, è stato solo nell’intento di chiarire nettamente la posizione di Socrate in Atene, e nello sviluppo della coltura greca; ed eziandio per giustificare il divario che passa fra la nostra esposizione della dottrina socratica, ed alcuni dei lavori che hanno preso a trattare dello stesso argomento. Esporremo dunque brevemente l’opinione che ci siamo formata con lo studio delle fonti. La prima elementare istruzione, tenuta per legalmente obbligatoria nella repubblica ateniese, non è sufficiente a spiegare l’attitudine filosofica e la efficacia pratica del carattere di Socrate; perché, sebbene rimanga dubbio fino a che punto egli abbia potuto valersi della tradizione letteraria come mezzo di coltura, il carattere delle sue vedute, e l’influenza che esercitarono, mostrano

chiaramente quanto quelle fossero radicate nei bisogni e nella coltura del tempo. Sotto questo riguardo, tutte le molteplici tendenze ricercative delle varie scuole filosofiche hanno potuto esercitare una influenza più o meno diretta su lo sviluppo della sua coscienza, e disporlo a quel bisogno incessante di esaminare con certezza scientifica i fenomeni interni della vita etica, che la profondità del suo carattere, e la perfezione del suo sentimento morale gli venivano offrendo alla riflessione con insolita evidenza. E si è anche in grado di arguire dai Memorabili di Senofonte, e dall’Apologia di Platone, di che natura fosse quella influenza, se si prende per poco ad esaminare con quanta cura nei primi abbia l’autore cercato di tratteggiare l’antitesi che correa fra Socrate e le opinioni di diverse classi di cittadini e di addottrinati, e come nell’altra Platone, nell’intento di appressarsi quanto più poteva alla verità storica, abbia solo leggermente idealizzato lo svolgimento della coscienza socratica in rapporto coi vari elementi politici ed educativi del tempo. All’epoca di Pericle, e molto più dopo la sua morte, Atene era divenuta il centro di tutta la coltura ellenica, e quanto s’era prodotto di poesia, di storia, di filosofia, e d’invenzioni artistiche e tecniche in tutti i punti del mondo greco avea trovata facile accoglienza in quella città, cui la prosperità materiale del popolo e i larghi possessi aveano sotto tutti i riguardi disposta ad essere il pritaneo della civiltà. Filosofi e ciarlatani, oratori ed arruffapopoli, poeti e guastamestieri, maestri e novatori della musica, della mimica, del ballo, della educazione, dell’architettura, della tattica, e della strategica veniano a trattenersi ed a far propaganda e scuola in Atene, ove la mobilità del carattere congiunta ad un nobile patriottismo, e ravvivata dalla ricordanza delle recenti glorie avea così slargati e resi incerti i confini dell’opinione, che l’individuo potea a sua posta allontanarsi dalle credenze e dalle convinzioni comuni e tradizionali. Il contrasto fra le nuove tendenze, e la vita antica dette ben presto luogo ad una profonda collisione nel seno della società ateniese; e questa tanto più apparve grave e pericolosa, perché andò per molti lati congiunta al disfacimento della democrazia e della pubblica morale. L’immagine completa di questo contrasto può desumersi dal confronto della satira di Aristofane, con l’addolorato e sdegnoso racconto di Tucidide. Ora è in quest’epoca agitata da tanti interessi, e ricca di tanto bisogno di ricerca, che Socrate acquistò la coscienza della sua missione educativa. Che egli abbia potuto raccogliere qua e là qualche nozione dei principi delle varie scuole filosofiche, apparisce chiaro da Senofonte, che sebbene voglia mostrarcelo in opposizione assoluta coi ricercatori delle cose naturali, pure lo fa apparire informato delle loro vedutea. Ma, dall’ammettere questo come vero, all’accettare come storiche tutte le discettazioni che Platone immagina avvenute fra Socrate e

i diversi rappresentanti delle scuole filosofiche ci corre molto; e a noi pare, che la persistenza con la quale certi critici tornano continuamente a mettere in una diretta relazione Socrate coi filosofi Ionici ed Eleatici, ed a dedurne le convinzioni dal principio di Anassagora, non merita di essere nuovamente criticata. Il ritratto ideale di Socrate presso Platone può fino ad un certo punto ravvivare e rendere evidente il contrasto dell’epoca sofistica con l’antica colturab, per quanto il misticismo platonico il consente, ma non è per ciò storicamente fedele. Le condizioni della coltura ateniese, ed il risultato esclusivo cui pervenne Socrate con le sue ricerche costituiscono un’antitesi così pronunziata, che rimane sempre vero quello che si è detto ripetutamente di lui, esser egli stato maestro a sé medesimoa. E che questa opinione non deva condurci a farne un uomo dotato di qualità mistiche e profetiche, parrà chiaro dall’osservazione che aggiungiamo. L’oggetto e la natura della ricerca socratica sono affatto nuovi, ed ignoti ai filosofi della Ionia, e d’Italia, checché possa andarsi a rintracciare di elementi etici e logici nei loro principib. Questo nuovo interesse e questa nuova maniera di filosofare non apparisce in Socrate come qualcosa di teoreticamente intenzionale, ma deriva intimamente dai suoi bisogni etici e religiosi, ed è il risultato di un esame che egli ha esercitato su sé medesimo, fino al punto di obbiettivare in una intuizione etica dell’universo le esigenze dell’animo suo. Questo lavoro egli ha dovuto compierlo reagendo continuamente contro tutte le tendenze opposte e divergenti dei contemporanei, e quanto fossero esatte le sue conoscenze intorno ai principi filosofici di quelle scuole, che direttamente o indirettamente aveano influito a modificare l’etica della società ateniese, noi non siamo più in grado di saperlo. Volerne quindi dedurre i principi dai predecessori, con non so quale idea schematica di una necessaria derivazione dei sistemi filosofici, è sconoscere in lui l’elemento più originale ch’egli s’avesse, la sua originale personalità, e dimenticare al tempo stesso, che in un uomo straordinario come Socrate, gli elementi che han potuto servire a svilupparlo doveano trovarsi in una grande incongruenza col risultato stesso dello sviluppo. Con ciò noi non neghiamo, che Socrate sia appunto l’uomo in cui convergono per la prima volta le varie fila della coltura greca, per raggrupparsi insieme e formare una più complicata e più mirabile tela; ma come abbiamo posto in chiaro, che le fonti non ci autorizzano a metterlo in relazione coi suoi predecessori per la via di una tradizione dottrinale, così vogliamo non si perda mai di vista, che la sua filosofia, o meglio quello che noi troviamo di filosofico in lui, è stato non il risultato di una indagine più o meno teoretica e dottrinale, ma un bisogno personale che si è fatto dottrina.

3. Il carattere di Socrate Le pagine tutte di Senofonte e Platone sono una perpetua testimonianza dei sentimenti di riverenza e di ammirazione, che Socrate era capace di suscitare nell’animo di quanti l’avessero avvicinato; e l’interna vitalità, ond’era animato ogni suo atto ed ogni sua parola, è improntata in esse come in indelebile monumento. Un organismo di perfetta costituzione, assuefatto ad ogni sorta di sofferenze e d’intemperie, gli avea reso agevole l’esercizio della più rigorosa temperanza e sobrietà. La sua maniera di vivere era così, a lungo andare, divenuta la espressione costante di una volontà, che coscientemente governava e indirizzava gl’istinti naturali al fine della conservazione e del benessere. Il lungo abito, mercé il quale egli era divenuto attento e minuzioso osservatore di quanto avvenisse nell’animo suo, col renderne sempre più perfetto il giudizio morale, e con avergli assuefatto l’intelletto all’esercizio dell’arte ricercativa, lo avea al tempo stesso condotto ad una certa astrazione dal mondo esterno, che per un Greco, e molto più per un Ateniese, era cosa tutt’altro che comune. Ma questa non può dirsi ascesi, perché non tenea ad un ordine speciale di convinzioni o di pratiche religiose, né menava alla formazione di una setta o di una associazione mistica; rimanendo sempre in Socrate vivissima la coscienza di tutti i doveri della vita pubblica e privata, quali erano generalmente accettati e riconosciuti dal comune degli Ateniesi. Rassegnandosi alla voce della coscienza, e scovrendo così il valore vero dell’uomo nell’intimità dell’animo, egli non cercava di compiere un atto di astrazione teoretica, né andava all’esigenza di una perfezione assoluta. Il suo bisogno di consapevolezza non lo menò mai alla negazione delle forme concrete della vita etica, e la quiete interna dell’animo, che in lui risultava dalle abitudini temperate e dal continuo esame di sé medesimo, fu ricca degl’impulsi pratici più vivi e più efficaci. Socrate quindi, tuttoché fosse estraneo ad ogni pratica occupazione, e scevro di ambizione, visse continuamente occupato nell’esaminare l’animo e le intenzioni dei suoi amici e conoscenti; esercitando l’arte difficile, e fino allora ignota, del cosciente educatore. Tutti questi tratti caratteristici dell’animo suo si conciliavano in una perfetta armonia, e facevano di lui un conoscitore perfetto degli uomini e della vita. Non estraneo al godimento di nessuno fra i piaceri, eccitava stupore per la moderazione, e per la presenza d’animo che non l’abbandonavano mai; scontento della falsa scienza e della presunzione dei suoi interlocutori, non prendeva mai il tono dell’esortatore, ma condiva di attica urbanità fino il

discorso che fosse diretto a smascherare l’altrui ignoranza; animato in fine dal religioso sentimento di una divina vocazione, non perdette mai di vista le reali condizioni della vita esterna, e lavorò incessantemente a suscitare in quanti l’udivano il bisogno di una scrupolosa consapevolezza dei propri doveri, e delle proprie capacità. In lui in somma ha ad ammirarsi uno dei più perfetti esemplari di quella plastica armonia, che costituisce l’ideale dell’arte antica; e per questo i suoi seguaci lo lodavano, come l’uomo più tranquillo e beato fra quanti mai fossero stati al mondoa.

OSSERVAZIONE Le fonti della dottrina di Socrate: Senofonte, Platone, Aristotele Senza entrare in indagini specialia, intendiamo di esporre qui brevissimamente i criteri che abbiamo seguiti, nell’usare della testimonianza di Senofonte, Platone, ed Aristotele. 1. Non attribuiamo a Socrate nessun principio, massima, o opinione che non sia, o esplicitamente riferita, o indirettamente accennata da Senofonte. I critici che hanno rigettata la testimonianza di Senofonte sono incorsi nel grave errore di non avvedersi, che in tal guisa, non solo la interpretazione della dottrina socratica diviene impossibile, ma che, tolta di mezzo la posizione pratica del Socrate senofonteo, tutta la storia della filosofia greca non può più intendersi. Non bisogna quindi ammettere, né che Senofonte fosse stato incapace d’intendere Socrate (Schleiermacher), né che avesse voluto restringere nelle angustie del suo personale criterio le vedute più larghe del maestro (Brandis). Le accuse mosse contro Senofonte, per quel che concerne la lealtà del carattere, e la sincerità dello scrittore (Niebuhr, Forchhammer) sono infondate. I Memorabili sono scritti senza riserve, e senza restrizioni; e sono un documento insigne della pietà e riverenza dello scrittore verso il maestro. E in essi solamente deve cercarsi la dottrina di Socrate (Hegel, Rötscher, Hermann, Zeller, Kühner, Breitenbach, Hurndall ecc. 2. Escludiamo la testimonianza di Platone, tutte le volte che importi negazione o alterazione dei principi e del carattere del Socrate senofonteo, o presenti un colorito che rivela la intrusione della teoria delle idee, e dello schema della psicologia platonica. Ammettiamo contro gl’ipercritici (Ast, Schaarschmidt) l’autenticità dell’Apologia platonica, e del Critone; ed in gran parte ne riconosciamo il valore storico (Zeller, Steinhart ecc.). In generale consideriamo come equivalenti la testimonianza di Senofonte, e quella di Platone quando si tratti solo di determinare la movenza dialettica del dialogo socratico (Hermann, Strümpell), e i motivi di reazione contro le opinioni sofistiche (Strümpell); ma non ammettiamo, che il dialogo platonico rappresenti davvero l’orizzonte storico nel quale Socrate s’aggirava (Alberti), perché questa opinione ci forzerebbe a ritenere, che Socrate fosse stato fornito di una coltura filosofica, che Senofonte non gli attribuisce. 3. Ci valghiamo della testimonianza di Aristotele solo in quanto è limitativa, ma non sappiamo ammetterla come fonte originaria (Brandis), perché essa non è che una derivazione di Senofonte e Platone.

4. Essendo lo scopo dei Memorabili apologetico (Cobet) e non dottrinale, la testimonianza di Senofonte dev’essere rimisurata ad una stregua più larga; e questa ci vien fornita dalla storia generale della coltura greca (Strümpell, Nägelsbach, Hermann, Grote ecc.). a

La caratteristica più completa e più perfetta della personalità di Socrate si trova nella History of Greece di Grote, vol. VIII, pp. 551-684. Lo Zeller, Die Philosophie der Griechen, 2a ed., vol. II, pp. 38-52 e 130-165, ha esposto con brevità, e con molto gusto critico i tratti più notevoli della vita, e del processo di Socrate. Il libro di Lasaulx, Des Sokrates Leben Lehre und Tod, München, 1858, non è che una congerie di particolari falsi, e di giudizi stravaganti – vedi specialmente pp. 5-26, 54-122. Il libro dell’Alberti, Sokrates, Göttingen, 1869, per la pretensione di voler ristabilire l’autorità storica del dialogo platonico, e per la forma imprecisa ed incolore dell’esposizione, è un lavoro sfornito d’ogni pregio critico e letterario, vedi pp. 41-55, 115-149, 156 e sgg. Il Curtius, Griechische Geschichte, vol. III, p. 89 e sgg. ha caratterizzato molto bene dal punto di vista storico la posizione di Socrate. Le monografie di Ueberweg, Die Bedeutung des Sokrates in der Bildungsgeschichte Der Menschheit, «Protest. Monatsblätter», vol. XVI, fasc. 1, p. 39 e sgg.; e dello Steffensen, Ueber Sokrates, ibid., vol. XVII, fasc. 2, p. 76 e sgg. contengono un ritratto vivace ed animato. Il breve scritto di Schmidt Sokrates, Halle, 1860, non ha importanza di sorta. b

Su la posizione di Socrate in Atene conf. sovrattutto Köchly, Sokrates und sein Volk, Akademischer Vortrag, riprodotto negli Akademische Vorträge dello stesso autore, Zürich vol. I, pp. 221-386, il quale scritto, quantunque metta a profitto alcuni particolari poco storici solo per colorire il quadro (e l’autore stesso non ignora questa circostanza, v. p. 242, nota 2a), è una riproduzione molto fedele delle condizioni del tempo. c Per questa data, che risulta dalla combinazione critica di diversi ragguagli, confronta lo Zeller op. cit. p. 39, not. 1a. L’accusa riferita da Senofonte Memor. I, 1, 1 è presso a poco autentica ( non differisce che per l’espressione

invece di

), e

dalla forma nella quale la Apol. 24 B, ma la fa

riporta Favorino presso Laerzio (II, 40)3. Platone la riferisce con altra disposizione,

4 precedere dall’ , vedi Stallbaum ad locum ed. IV, e Cron, Einleitung in die platonische Apologie, ed. 3, § 31 e 54. d Vedi le parole del Fedone in fine: Ἥδε ἡ τελευτή, ὦ Ἐχέκρατες, τοῦ ἑταίρου ἡμῖν ἐγένετο, ἀνδρός, ὡς ἡμεῖς φαῖμεν ἄν, τῶν τότε, ὧν ἐπειράθημεν, ἀρίστου, καὶ ἄλλως φρονιμωτάτου καὶ δικαιοτάτου5. a Apol. 36 A - 38 B. La contraria testimonianza dell’apologia falsamente attribuita a Senofonte (§ 23)

non ha alcun valore6. Sul carattere apocrifo di quello scritto conf. la dissertazione di Arnold Hug, Die Unächtheit der dem Xenophon zugeschriebenen Apologie des Sokrates, riportata in fine del succitato libro del Köchly, p. 430 e sgg. b Crit. 44 B - D, e 44 E - 46 A. c

Mem. IV, 8, 2; e Phaed. 58 A e sgg. Vedi la bella discussione nel Critone 46 C - 48 B, e segnatamente 47 C: καὶ περὶ τῶν δικαίων - ἢ

d

οὐδέν ἐστι τοῦτο;7 e 48 A, nel quale luogo bisogna sempre fare astrazione della differenza troppo accentuata che v’è posta fra l’opinione ed il sapere, ch’è di carattere platonico. e Conf. le formule: εἰ ταύτῃ τοῖς θεοῖς φίλον, ταύτῃ ἔστω, Crit. 43 E; τοῦτο μὲν ἴτω ὅπῃ τῳ θεῷ φίλον, Apol. 19 A; ἀναγκαῖον ἐδόκει εἶναι τὸ τοῦ θεοῦ περὶ πλείστοῦ ποιεῖσθαι, Ibidem, 21 E8. Quanto al Grote

che attribuisce a Socrate op. cit. p. 654 e sgg. un proposito troppo dichiarato di affrontare la morte nell’interesse dei suoi principi, ed a conferma delle sue opinioni, vedi le giustissime osservazioni in contrario dello Zeller op. cit. p. 133. a

Intorno a questo periodo molto oscuro e complicato della storia ateniese conf. Curtius op. cit. vol. III, pp. 53-118. b Sul carattere di questa reazione religiosa conf. specialmente il Roscher, Leben des Thukydides, p. 215 e sgg. c È inutile accennare tutti i giudizi, più o meno patetici, degli antichi retori e degli umanitari moderni, perché, né gli uni, né gli altri sono stati in grado d’intendere le ragioni storiche di quel complicato avvenimento. a Il Fréret è stato il primo che nelle sue Observations sur les causes et sur quelques circostances de la condamnation de Socrate, ved. «Mem. de l’Académie des Inscriptions», vol. 47, p. 217 e sgg., abbia cercato d’indagare, dal punto di vista storico e giuridico, le ragioni e lo sviluppo di quel processo. b Vedi su molte di queste opinioni riprodotte anche in libri recenti lo Zeller op. cit. p. 140 not. 5a. c

Questo contrasto è stato per la prima volta rilevato dall’Hegel, Geschichte der Philosophie, vol. II, pp.

81-105, con vivacità di colorito e con una certa precisione storica9; ma è stato poi tanto esagerato dal Rötscher, Aristophanes und sein Zeitalter p. 247-271, che guadagnando molto in estetica efficacia, ha perduto interamente il carattere di una determinazione storica. d Questa giustificazione è l’intento del libro del Forchhammer, Die Athener und Sokrates, die Gesetzlichen und der Revolutionär, Berlin 1837, nel quale non sai se hai più ad ammirare l’ostinazione fanatica in un falso concetto, o la derisione d’ogni criterio storico. Delle molte monografie cui ha dato occasione lo scritto del Forchhammer non c’è riuscito di procurarcene alcuna. Quella dell’olandese Limburg Brouwer, Apologia Socratis contra Meleti redivivi calumniam, Groning. 1838 tanto lodata dallo Stallbaum, v. proleg. ad Apol. Plat. ed. IV, è considerata dallo Zeller, op cit. p. 152, nota 2, come un lavoro superficiale. e Per sobrietà di giudizi ed accorgimento critico l’esposizione che fa lo Zeller op cit. pp. 138-165, dei motivi dell’accusa, e della relativa giustizia della condanna, non lascia a desiderare di meglio. In generale il Köchly op. cit. passim fa troppo avvertire, che egli era preoccupato dal pensiero di giustificare gli Ateniesi. a

Conf. Curtius op. cit. e segnatamente pp. 90-92, e 114-118. Vedi Mem. I, 2, 32-38. c Ved. Mem. I, 2, 48; Plat. Apol. 20 E e sgg. d L’aneddoto riferito da Val. Mass. VI, 4, 2, da Cic. de orat. I, 54, da Quint. Instit. II, 15, 30; XI, 1, 11, e da Stobeo Floril. 7, 56, che Lisia avesse offerto a Socrate una orazione apologetica, non ci pare possa b

essere affatto sfornita di fondamento10. e La caratteristica che Platone mette in bocca ad Alcibiade in fine del Symp., p. 215 e sgg., ritrae al vivo questa situazione psicologica. f Τὸ δὲ μηδενὶ ἀνθρώπων ὅμοιον εἶναι μήτε τῶν παλαιῶν μήτε τῶν νῦν ὄντων, τοῦτο ἄξιον παντὸς θαύματος, Sym. Plat. 221 C11. g

Curtius, op cit. vol. III, p. 90. A proposito del processo contro i capitani vincitori della battaglia alle Arginuse conf. Sen. Mem. I, 1, 18; 2, 31 e sgg. e IV, 4, 2; Id., Hist. Graeca i, 7, 15; Platone Apol. 32 A. Su quell’importante avvenimento a

conf. Grote, vol. viii, pp. 238-285. b Conf. Plat. Symp. 219 E e sgg., Apol. 28 E, Lache. 181 A.

c

Sen. Mem. IV, 6, 10, e conf. I, 1, 16. Il concetto del coraggio costituisce l’argomento del Lachete, il quale, se anche non appartenesse a Platone come vuole lo Schaarschmidt, Die Sammlung der Platonischen Schriften, p. 406 e sgg., contiene ad ogni modo lo sviluppo dialettico di un pensiero socratico. d Plat. Apol. 33 A: ἐγὼ δὲ διδάσκαλος μὲν οὐδενὸς πώποτ᾽ ἐγενόμην12. a

Platone, Symp. 215 A e sgg. Platone, Protag. 325 D - 326 C, e le note dei commentatori. Alleghiamo questo luogo solo come

b

testimonianza storica, prescindendo dai giudizii che Platone fa pronunziare a Protagora. Conf. Schoemann, Griechische Alterthümer, vol. I, p. 518, e sgg., ed. 2a; ed Hermann, Griechische Privatalterthümer, 2a ed., § 34 e sgg., con le autorità ivi addotte; e vedi le note dei commentatori d’Aristofane Nub. vv. 963-972 ed Equit. vv. 188, e 992, e specialmente Th. Kock, nell’ed. di Weidmann, Berlino 1862-1867. a Ved. Curtius op. cit. vol. II, p. 137. b

Vedi il discorso che Tucidide fa pronunziare a Pericle, lib. II, § 3713, e conf. i luoghi addotti dallo Schoemann op. cit. vol. I, pp. 515-517. c P. es. Mem. I, 2, 56-58; III, 1, 4; IV, 6, 15 ecc. Nella citazione di Simonide presso Platone nel Protagora 339 A può anche ammettersi una reminiscenza socratica; conf. Strümpell, Geschichte der praktischen Philosophie der Griechen, p. 52. d Potrebbe veramente addursi come testimonianza il Critone 50 B. Conf. Alberti op. cit. p. 45. e

Questa impossibilità, già indistintamente accennata da questo o quello scrittore, è stata per la prima volta messa in chiaro dall’Hermann, De Socratis magistris et juvenili disciplina, Marburgi 1837; e conf. dello stesso autore: Geschichte und System der platonischen Philosophie, Heidelberg 1839, lib. I, p. 50, e note 94-98, lib. II, p. 233 e sgg. a Vedi queste false tradizioni raccolte dallo Zeller op cit. p. 41 e sgg.; e specialmente la succitata dissertazione dell’Hermann. b Vedi a questo proposito il succitato Zeller p. 53 e sgg. Il Lasaulx ripete senza scrupoli tutti i vecchi errori op cit. p. 6 e sgg. Né il Volquardson14, Die Genesis des Sokrates, «Rhein. Museum», vol. XIX, p. 514 e sgg. né l’Alberti op cit. pp. 41-55, son riusciti ad invalidare il risultato critico dell’Hermann, con tutti gli sforzi che hanno fatti per ristabilire la genesi della coscienza socratica. a La data della rappresentazione delle Nuvole risulta dall’ipotesi 5a; ved. Kock, Einleitung in die Wolken, Berlin, 1862, § 24. b Socrate fu argomento di satira per molti comediografi, p. es. Ameipsia nel Conno, ved. Meineke, Frag. Com. I, p. 403 e sgg. Eupoli nei Bapti, ved. Fritzsche, Quaestiones Aristophaneae, e notatamente: De Socrate veterum Comicorum, pp. 99-297; e aggiungi la recentissima dissertazione del Peters, De Socrate qui est in Atticorum Antiqua Comoedia, Lipsiae 1869. La stessa Apologia di Platone considera Aristofane come organo di una opinione più generale, perché, oltre a parlare sempre di πρῶτοι κατήγοροι, come di quelli che aveano educato il popolo (παραλαμβάνοντες) ad una falsa opinione intorno a Socrate, quando passa a riassumere in forma di un’accusa le opinioni correnti, 19 C, soggiunge: τοιαύτη τίς ἐστι· (ἡ γραφή) ταῦτα γὰρ ἑωρᾶτε καὶ αὐτοὶ ἐν τῇ Ἀριστοφάνους κωμῳδίᾳ15, conf. 18 B. c Lo Zeller op. cit. p. 143 e sgg. ha raccolta e criticata una gran parte da recenti giudizii su le Nuvole di Aristofane; ed il Köchly op. cit. p. 233, e sgg. ne ha, a nostro parere, meglio di qualunque altro critico esposti i motivi e lo sviluppo. Di tutte le false opinioni cui ha dato luogo la commedia di Aristofane, nessuna è tanto nociva allo spirito del Socratismo, quanto quella che fa supporre Socrate inteso nella sua prima età agli studi della filosofia naturale. E ci par strano veder ricomparire questa infondata opinione

nell’ultimo libro del Brandis, Die Entwickelungen der Griechischen Philosophie, Berlin 1862, vol. I, p. 23617. a L’opinione comune, che riporta la nascita di Senofonte all’anno 445 a. C. (o fino al 450 secondo la notizia di Stesiclide presso Laerzio II, 56)19 è stata su le tracce del Cobet, Novae Lectiones (*) p. 535, dimostrata falsa dal Bergk, Philologus vol. XVIII20, p. 247, che fa discendere la data al 429 a. C. Questa opinione, che ha in suo favore l’esatta interpetrazione dell’Anabasi III, 1, 25, è stata seguita anche dal Curtius op. cit. vol. III, p. 496, e nota alla p. 772; e dall’Alberti op. cit. p. 8. a

Zeller op. cit. p. 46. Metaph. XIII, 4: Σωκράτους δὲ περὶ τὰς ἠθικὰς ἀρετὰς πραγματευομένου, καὶ περὶ τούτων ὁρίζεσθαι

b

καθόλου ζητοῦντος πρώτου… εὐλόγως ἐζήτει, τὸ τί ἐστιν. […] Δύο γάρ ἐστιν ἅ τις ἂν ἀποδοίη Σωκράτει δικαίως, τούς τ᾽ ἐπακτικοὺς λόγους καὶ τὸ ὁρίζεσθαι καθόλου21. a Mem. I, 1, 11, e 14; IV, 7, 6 ecc. b

È l’Alberti op. cit. p. 37 e sgg. che principalmente ha insistito sul fondo storico del dialogo platonico, e che s’è tanto lambiccato il cervello per rimettere in onere l’antica opinione, che Socrate fosse stato discepolo di Archelao, senza venire a capo di provare qualche cosa. a Ved. la citata dissertazione dell’Hermann p. 49; e dello stesso autore: Geschichte ecc., lib. II, p. 230. b



Il lavoro dello Schneidewin, Ethische Gedanken der Vorsokratiker, nelle «Philosophische Monatshefte» di Bergmann, vol. II, pp. 429-45722, non ci ha punto convinti, che contro l’autorità di Aristotele possa farsi risalire l’origine della scienza etica ad un’epoca anteriore a Socrate. Lo Schneidewin riesce tutto al più a dimostrare, che nei principi dei vari filosofi che precedettero l’epoca sofistica c’è una tendenza etica sempre crescente, ma da questo alla ricerca ci corre molto. E del pari sono poco convincenti i due precedenti articoli dello stesso autore su lo sviluppo della teoria della conoscenza prima di Socrate, Ibidem, pp. 257-271, e 345-368. a

Abbiamo stimato inutile addurre i luoghi di Senofonte e Platone, perché di lodi a Socrate sono ripieni

tutti i loro scritti. a Nel metter mano a questo lavoro scrivemmo dal bel principio una lunga dissertazione su le fonti della dottrina socratica, che poi per mancanza di tempo non potemmo trascrivere nella copia sottoposta all’esame dell’Accademia. E di ciò non siamo ora dolenti, perché i risultati della nostra indagine critica si trovano già in gran parte rifusi qua e là in tutto il lavoro, e il difetto di un capitolo speciale su le fonti non nuoce alla nostra esposizione, anzi ci fa sfuggire la taccia di una inutile ripetizione.

II

ORIZZONTE DELLA COSCIENZA SOCRATICA La nostra indagine, intorno allo sviluppo della coscienza scientifica di Socrate, ci ha menati ad un risultato quasi affatto negativo; e noi ci siamo trovati nella impossibilità di determinare storicamente quali fossero gli elementi della coltura tradizionale, che esercitarono influenza sul suo animo, e di assegnare con precisione le diverse fasi che egli dovette percorrere, prima di chiudersi nel fermo proposito di rinunziare ad ogni pratica ambizione, e di consacrarsi del tutto al miglioramento dei suoi concittadini. Il carattere perfetto ond’egli era dotato, e ch’era l’elemento più chiaro ed evidente della sua personalità, gli avea ben per tempo fatto sentire, quanto le reali condizioni della vita politica fossero lontane dal poter recare soddisfazione, a chi, non inteso ad acquistar gloria ed onori, guardasse sovra tutto al valore intrinseco delle convinzioni, ed a mettere in pieno accordo l’attività pratica con gl’interni dettami della coscienza. Ma come questo proposito potea bene non andar congiunto a quella ricchezza di pratiche attitudini, che egli addimostrò nella sua attività pedagogica e dialettica, anzi dovea indirettamente attenuarla ed indebolirla, se altri motivi non l’avessero alimentato, non è in questa posizione negativa che si possa cercare la spiegazione dell’importanza storica del nostro filosofo. E infatti, motivi molto svariati ed esigenze molto diverse s’erano combinate in lui, ed aveano preparato il suo animo ad essere un ricchissimo argomento d’indagini etiche, al tempo stesso che la intrinseca evidenza delle sue convinzioni religiose avea già stabilito in lui un limite fisso, oltre il quale la ricerca logica non potea arbitrariamente vagare. Cerchiamo ora di metterci sott’occhi l’orizzonte della coscienza socratica, prima di fare il tentativo di esporre e dedurre, nella forma sistematica di una dottrina, quei pronunziati filosofici che la tradizione ci ha trasmessi come genuini.

1. Posizione di Socrate nella storia della religione greca Uno dei lati meno intesi, e meno approfonditi della storia della coscienza ellenica è quello che concerne lo sviluppo del sentimento religioso, ed il processo del concetto della divinità, dalle forme più semplici del mito, fino agli ideali etici e metafisici, nei quali lo spirito, con maggiore consapevolezza, riuscì ad obbiettivare le esigenze di una spiegazione dell’universo, poiché s’era liberato dalle arbitrarie ed accidentali associazioni psichiche, che sono il primo ed unico fondamento della mitologia popolarea. Per intendere insomma, come, sotto l’influenza di una nuova motivazione, la coscienza di Eschilo di Pindaro di Sofocle e via dicendo, senza punto elevarsi all’orizzonte filosofico, e conservando tutto lo schema della tradizione mitica, sia divenuta produttrice d’un nuovo concetto della divinità, le indagini sono poco progredite; per non dire che, salvo rare eccezioni, la più parte dei critici, o non ha ancora avvertita la natura speciale del problema, o ha cercato trattarlo con vedute estranee ed incongruenti al soggetto. Ora noi abbiamo una storia della filosofia e della coltura greca, ed una mitologia, ma ignoriamo ancora il preciso sviluppo della religione greca, e quando riuscirà di determinarlo, molti fatti fin ora classificati in un’altra categoria verranno naturalmente a prendere il loro posto nella storia del sentimento religioso, ove solamente possono toccare una soddisfacente spiegazione. La storia stessa della filosofia deve slargare l’orizzonte delle sue indagini, e non partire dal presupposto assoluto, che la riflessione scientifica sia riuscita in un dato momento ad isolarsi dalla religione popolare, contrapponendosele nella coscienza dei suoi motivi, perché solo così può veramente intendere e valutare i pochi elementi scientifici della filosofia antesocratica. La religione popolare è invece da considerare in tutta la larghezza del suo sviluppo, come quella che approfondendosi sempre di più, ed acquistando maggiore intimità e valore etico, venne a costituirsi e fermarsi in una ricca immagine del mondo morale, che sollecitò la ricerca scientifica all’indagine su la natura dell’uomo, ed a fare una metafisica che fosse spiegazione etica dell’universoa. Platone stesso, benché sia innegabile che poggi con sicurezza su l’elemento logico del sapere, non è fuori di questa storia religiosa, anzi ne segna l’estremo confine: e tutto quello che in lui s’è chiamato misticismo, ed entusiasmo poetico, sebbene deva essere studiato con cautela, perché non faccia perdere di vista il valore schiettamente filosofico della sua ricerca, non può neppure mettersi da banda, quasi fosse un fuor d’opera, o un adornamento artistico, come non raramente hanno pensato gli espositori

moderni. La più grave difficoltà di questo studio è riposta appunto in uno dei tratti più caratteristici di quel processo religioso, ch’è l’apparente uniformità delle sue manifestazioni; perché le rappresentazioni comuni delle divinità popolari rimasero lungamente come vaga espressione delle nuove esigenze, senza che si avvertisse la incongruenza delle nuove idee alle antiche forme, sicché il movimento intrinseco non dovette riflettersi in un pratico tentativo di riforma. Socrate occupa un posto importantissimo nella storia della religione grecab. La immediatezza religiosa è un fatto innegabile nella sua coscienza, e costituisce il personale presupposto di tutte le sue indagini; quello mercé il quale la sua capacità e virtù ricercativa si trovò naturalmente determinata alla cognizione etica, ed alla pratica pedagogica. E appunto perché i limiti della sua ricerca sono precisati dal concetto di quello ch’egli riteneva come termine d’ogni umana conoscenza, la chiara ed evidente consapevolezza della propria destinazione, non si può ammettere, che tutti gli altri postulati e tutte le altre esigenze che troviamo espresse nelle sue affermazioni, non siano altro che un fuor d’opera rispetto all’elemento dottrinale, e fa d’uopo ridar loro l’originale significazione immediata e religiosa. Tutto quello che trascende in Socrate la sfera limitata del sapere etico, corrisponde al largo campo che per noi forma l’oggetto delle indagini metafisiche. Raccogliendo da Senofonte i pronunziati autentici di Socrate sul concetto della divinità, su la sua efficacia creativa, sul valore etico dell’uomo in relazione con l’ordine della natura, noi ci avvediamo che quell’immagine concreta del cosmo, per quanto possa rivelare le tracce di una intenzionale subordinazione alle esigenze logiche, non è il risultato di un cosciente lavoro di deduzione scientifica, ma l’espressione di una esigenza religiosa più profonda di quella che s’appagava della mitologia tradizionale; e che essa quindi occupa un posto intermedio fra gl’ideali etici e religiosi, che la coscienza artistica avea già espressi nel dramma e nella lirica, e i primi tentativi di una comprensione metafisica del mondo morale. La sfera dell’attività umana è nettamente definita dalla consapevolezza della quale siamo forniti, per la scelta dei mezzi che ci conducono al conseguimento del benesserea. In questa perfetta congruenza del sapere col fine dell’attività umana, che esclude da un canto ogni intervento miracoloso e straordinario, e preclude dall’altro la via ad ogni indagine su tutto quello che è fuori dei limiti della nostra pratica destinazioneb, è segnato il limite normale del valore della vita, e il termine assoluto ed impreteribile della perfezione, e della felicità. Socrate in questa guisa, mentre era inteso ad escludere come empia ed irreligiosa

ogni ricerca su l’origine delle cose naturali, riusciva a fermare recisamente la natura e i limiti della vita etica, ed a determinare approssimativamente il mondo della libertà umana; perché la chiara coscienza ch’egli s’avea della perfezionabilità dell’uomo era riposta nella certezza, che il nostro sapere è perfettamente congruente a tutti i fini che siamo destinati ad attuare. Il termine comune di tutti questi svariati fini è l’εὐδαιμονία [eudaimonía: felicità], al cui conseguimento ci ha disposti l’ordine intero della natura, che nella sua bellezza ed armonia ha come ultimo scopo l’umana felicità: ma questo fine non si raggiunge per caso o per fortuite circostanze, né la sua misura sta in arbitrio dell’uomo, perché il conseguimento n’è coordinato alla esatta cognizione della propria capacità in relazione con l’ingenito bisogno del benessere, ed il limite n’è predeterminato dalle reali condizioni della vita. Tutte queste vedute raggiungono il loro punto culminante nel concetto della divinità, come intelligenza autrice e reggitrice del mondo, la cui presenza nell’ordine naturale è rivelata dalla perfezione con la quale tutte le cose sono disposte, in una serie di perfetta finalità. E qui di nuovo il sapere e l’attività sono congruenti; perché la natura, che è inaccessibile alla scienza umana, è conosciuta solo da Dio, che ha la potenza di produrla. Questa nuova intuizione della divinità, che è determinata dal concetto del valore etico della sua attività nel mondo, non può intendersi come semplice prodotto di una volontaria reazione contro le tendenze speculative, e affatto meccaniche dei filosofi precedenti; perché l’elemento precisamente individuale della esigenza religiosa, che v’è così evidente, non troverebbe più alcuna spiegazione, e quei pronunziati perderebbero ogni valore storico. Socrate ebbe tanta poca consapevolezza del valore filosofico di queste sue vedute, e le tenne per così opposte ad ogni indagine su l’origine e la natura del mondo, che, mentre poneva l’intelligenza come principio dell’universo, e fissava un nuovo punto di partenza ad ogni ulteriore progresso nelle indagini speculative, rigettò come empia la filosofia naturale; e nel modesto concetto che avea di sé medesimo, e della natura umana in generale, fece atto di rassegnazione alle intime esigenze di un convincimento, che a lui non appariva qual risultato di una pruova teoretica, ma qual termine assoluto di una religione perfetta. E di questa esigenza stessa egli non fece qualche cosa di distinto dalla religione tradizionale, anzi tutto il nuovo fu da lui appercepito nella forma antica; e di qui procede, che mentre il concetto monoteistico, in virtù di tutto il progresso della coltura ellenica, tendeva a chiarirsia, ed a riassumere in sé le forme politeistiche, Socrate credette di stare pienamente d’accordo con la tradizione, e stimò non allontanarsi da nessuna delle credenze accettate. Le riserve infatti, o per dir meglio le distinzioni che egli introduceva nella pratica religiosa, se all’occhio volgare poteano sembrare lesive

del valore letterale del culto e del rito, non aveano in se stesse niente che accennasse a tendenze eretiche, o ad innovazione pratica delle forme tradizionali. E quando Socrate diceva, che non bisogna vivere nell’illusione, che la divinità ignori quello che tenghiamo celato nell’intimo dell’animoa, e che il sagrifizio non ha valore se la coscienza non è purab, e pronunziava altre simiglianti opinioni, che aveano l’intento di rilevare l’intrinseco valore della coscienza, egli non dicea cosa affatto nuova, e che ogni colto Ateniese non avesse, più o meno direttamente, potuto apprendere dalle sentenze di Eschilo, di Sofocle, o di qualunque altro poeta, su la cui pietà religiosa non s’era mai sollevato dubbio alcuno. La grossolana rappresentazione delle divinità, come di persone finite e limitate, potea forse trovarsi in contradizione con questa nuova veduta, e stimarla empia e profana: ma ciò non vale a persuaderci, che Socrate non sia stato davvero quale Senofonte ce lo presenta, persuaso cioè, che le sue convinzioni non fossero affatto divergenti da quello che legalmente era riconosciuto come religione dello statoc. Confutare l’opinione di coloro, che in tutto questo non vogliono veder altro che lo sforzo apologetico di Senofonte, o la sua incapacità filosofica, non crediamo sia né conveniente né necessariod. Sotto questa nuova luce l’attività socratica ci apparisce più chiara, e l’efficacia pratica di che fu capace acquista una maggiore evidenza. La sua importanza nella storia generale della coltura greca è appunto riposta in questa ricchezza di motivi istintivi ed immediati, che aveano tanta relazione con tutto lo sviluppo della coltura artistica contemporanea, e riflettevano i bisogni, e la sociale agitazione di quell’epoca profondamente creativa. Se noi prescindiamo non solo da tutte le moderne investigazioni sul valore metafisico della causa, del fine ecc., ma anche dalla mediazione logica, in cui questi ed altri analoghi concetti appariscono nella filosofia greca da Platone in poi, misurando l’intuizione socratica alle condizioni della coltura dell’epoca periclea, l’indole sua affatto immediata e religiosa diviene assolutamente innegabile. Quei concetti infatti, che abbiamo di sopra accennati, non appariscono ancora come gli estremi termini d’un procedimento metafisico, e molto meno come le conclusioni induttive di un’analisi psicologica; ma sono lì tutti ad un tratto, nella loro armonia e perfetta trasparenza; e mentre sono il risultato di un lavoro interno di purificazione dell’animo, la loro obbiettivazione è istantanea, e plastica, non discorsiva, e dimostrativa. E quando le esigenze logiche del dialogo vengono a collocarli nel termine estremo di una pruova, allora si vede chiaro, quanto il nuovo motivo della dimostrazione sia inferiore all’esigenza pratica del convincimento religiosoa. Fare di Socrate un astratto concettualista è un’opinione tanto erronea, quanto quella che lo riteneva per un moralista

popolareb; ed una simile supposizione menerebbe di certo a trovare incongruente, ed inconseguente del tutto la caratteristica di Senofonte. Socrate avea il fermo convincimento di adempiere il dovere di una missione divina; e la finezza del suo giudizio, congiunta all’abito costante dell’osservazione morale, gli avea fatto avvertire la prossimità del divino, nella forma speciale di una personale relazionec. Correggere, rettificare, e esaminare le opinioni altrui eragli imposto dalle religiose esigenze dell’animo, che non ammettevano esercitasse l’arte della parola, come espressione di un dilettantismo dottrinale. Il divieto della divinità, che lo tenea lungi dalle faccende dello stato, gl’imponea una completa rassegnazione alle inevitabili conseguenze della sua missione. Ma erano queste opinioni il risultato di una fantastica considerazione del mondo, ed assumevano esse forse il carattere di un’arbitraria pretensione di riformare ad ogni costo l’ordine stabilito della società, per modellarlo secondo i dettami di una speciale rivelazione? Nulla di tutto questo. Socrate visse sempre in pieno accordo con tutti, e non mancò mai di adempiere né i doveri del culto, né le pratiche della legale εὐσέβεια [eusébeia: pietà]; le sue massime non l’indussero mai durante la lunga vita di 70 anni ad entrare in una guerra dichiarata con le forme tradizionali, come aveano fatto Diagora ed Anassagora, Gorgia e Protagora suoi contemporanei. Il suo Dio era qualche cosa di affatto etico; ma già altri prima di lui, senza destare sospetti, e nella massima buona fede, aveano introdotto tacitamente nelle forme religiose mitico-tradizionali una nuova motivazione, ed Eschilo, Pindaro, Sofocle ecc. aveano incarnato nei nomi di Zeus, Apollo, le Eumenidi ecc. un nuovo concetto del divino, della pena, dell’espiazione, della legge e della coscienza moralea. Socrate insomma non fece che obbiettivare, nei limiti molto oscillanti, e nelle forme riconosciute della patria religione, un processo psicologico ed etico affatto individuale; la quale libertà intanto era possibile, perché, mancando ai Greci un ordine speciale di uomini destinati a conservare i veri religiosi, ed essendo già la tradizione mitica passata attraverso alle molteplici alterazioni, che furono conseguenza della varietà delle stirpi e dello sviluppo della coltura, il difetto di una chiesa, e d’una dommatica rendea difficile il criterio dell’ortodossia, e della eresiab. E se vuol dirsi, come altri ha fatto, che il figlio di Sofronisco fu un ereticoc, bisogna allargar tanto questo concetto, da far sparire ogni misura di religione tradizionale presso i Greci; la qual cosa quanto sia infondata può vedere ognuno, che abbia una conoscenza esatta dei loro monumenti letterari. Anzi, noi siamo tanto lungi da una simile opinione, da credere, che Socrate con le sue vedute si riavvicini di molto a quella profonda reazione religiosa, che, cominciata in sul mezzo della guerra del Peloponnesso, finì per guardare come pericolosa tutta la scienza che

avea divagato in ricerche arbitrarie ed individuali, e che non è improbabile abbia trovata un’espressione artistica nelle ultime produzioni di quell’Euripided, il quale già prima avea tanto lavorato, ad accrescere l’influenza della irreligiosità sofistica. E che questa nostra opinione non possa essere invalidata con l’argomento dell’accusa di Meleto, può intendersi di leggieri da chiunque rammenti, di quanti equivoci dello stesso genere offra esempi la storia.

2. Elementi della coscienza di Socrate Cerchiamo ora di riassumere in breve i motivi, ed i risultati di quel processo, che poc’anzi abbiamo indicato. 1. Socrate visse tutta la vita in un’epoca d’illuminatia, e quando già si tentava per la prima volta di costituire delle scienze speciali, e di subordinare a delle regole costanti la pratica della vita, e l’esercizio tecnico delle arti. Il principio del sapere, quantunque non fosse ancora espresso in una determinazione logica esplicitamente formulata, esercitava già negli animi la sua influenza, ed era una forza che spingeva lo spirito in una direzione determinata. A prescindere dalle ricerche nel campo della natura, che cominciavano ad avere la consistenza di una metodica osservazione, la lingua offriva già materia a delle indagini grammaticali, e l’oratoria assumeva la forma di un’arte costituita mediante precetti. La nuova esigenza del sapere non s’era in vero isolata dalla pratica della vita, ed era ancora tutt’una cosa con l’esercizio effettivo delle arti cui si riferiva. La vita pubblica stessa risentiva gli effetti della nuova tendenza, e fino il teatro comico ne traeva argomento per mettere a raffronto, nella vivacità di un personale contrasto, i nuovi elementi di coltura, e l’antica semplicità. Socrate è uno dei rappresentanti di questo movimento; ma le speciali condizioni dell’animo suo lo tennero lungi dal fare della ricerca, nel suo puro valore teoretico, lo scopo esclusivo della vita: sicché, mentre il sapere, la conoscenza, la consapevolezza sono elementi necessari della sua intuizione religiosa e filosofica, appariscono sempre come coordinati al fine pratico, e da esso governati. 2. Le immagini della vita etica, che erano espresse nel mito e nella leggenda, e poste in una relazione tipica con certi nomi e certe tradizioni, non erano più capaci di soddisfare la coscienza, e s’era costretti ad introdurvi una nuova motivazione (p. es. Euripideb). Il contrasto era palese, ma non assumeva il carattere di una riforma, perché mancava la chiesa ed il domma. A questa tendenza partecipava anche Socrate, che secondo il costume d’allora, sotto il simbolo di una leggenda religiosa, o di un racconto poetico esponeva una sua convinzione, che esprimesse, per via di una situazione o di un paragone, un principio etico. Di qui procedeva ancora, che l’interpretazione degli antichi poeti era fatta nell’intento di scovrirvi le nuove idee, e questa alterazione del senso preciso delle antiche opinioni avea luogo in tutta la buona fede dell’interpretea. 3. Nella pratica della vita le tendenze degl’individui, delle classi, e dei partiti aveano preso a seguire direzioni divergenti, e di tale una intrinseca differenza ed opposizione, da presentare il triste spettacolo di una morale pubblica, che precipita pel declivio di una sicura rovinab. Tutto piglia una piega arbitraria, ed

in una sfera più alta assume il carattere di una ricerca, che non mira ad altro che alla piena soddisfazione del criterio personale, è soggettiva, diremmo noi nel nostro linguaggio (i Sofisti)c. Socrate, che era pure penetrato dal bisogno di valutare alla misura della convinzione il merito od il demerito degli uomini, reagì contro le tendenze arbitrarie con la sicurezza del metodo ricercativo, e con l’aver fissata la misura costante delle azioni in una stregua più alta, e di un carattere incondizionato, quello della obbiettività della legge nell’ordine delle cose naturali, e delle relazioni sociali. Egli va d’accordo con lo spirito del tempo, e non se ne avvede; perché la maggiore intimità delle sue convinzioni lo avea fornito dei mezzi per reagire. 4. Il sentimento religioso degl’individui, senza entrare in un contrasto vivo e dichiarato con la tradizione, perché troppo nudrito dell’ammirazione pei poeti e per le arti, e perché favorito dall’indeterminatezza del mito, andava assumendo un carattere più preciso d’intimità e di riflessionea. Un’umanità più larga si formava a lato, ed in latente opposizione con l’umanità greca, ed un orizzonte più ampio di aspirazioni e di desideri compensava in pochi la perdita irreparabile dell’antica schiettezza. Socrate, col suo concetto della divinità come intelligente autrice del mondo, rinforzò il valore etico dell’intimità religiosa; ed insistendo continuamente sul criterio della consapevolezza, nel giudizio che deve portarsi su le azioni della vita privata e pubblica, influì ad accelerare l’esclusivismo teoretico, ed a preparare lontanamente l’indifferentismo politico, e le tendenze cosmopolitiche delle epoche posteriorib. L’intima compenetrazione di tutti questi svariati e molteplici motivi, nella persona di un uomo in cui la pietà, la moderazione, e la temperanza erano siffattamente immedesimate con le abitudini della vita, da sembrare tutt’insieme un’opera artistica di plastica evidenza, offriva ai contemporanei argomento alle più svariate opinioni, ed è stata in gran parte cagione dei giudizi spesso divergenti, che i critici moderni hanno pronunciato intorno a Socrate. Noi avremo a quando a quando occasione di tornare su questi elementi generali della sua coscienza, per correggere il troppo o il poco che può dirsi, o si è detto sul valore e la positiva importanza dei suoi principi scientifici; e per ora aggiungiamo una osservazione. Socrate come semplice filosofo è un parto d’immaginazione, non solo perché in generale non s’ha ragione di prescindere dalle reali condizioni in cui una dottrina s’è svolta, quando i motivi ne siano noti e palesi, ma perché in questo caso speciale, la natura ed il carattere delle testimonianze autentiche non consentono, che si proceda con sicurezza all’esposizione della dottrina, come se fosse per se stessa isolata ed evidente. La determinazione del valore filosofico di Socrate si avvicina più alla natura d’un

problema, che all’analisi d’un fatto. a

Il Dronke (v. Die religiösen und sittlichen Vorstellungen von Aeschylos und Sophokles, Leipzig, 1861)

lamentava ancora pochi anni addietro questo difetto della letteratura filologica; ed osservava che, malgrado l’impulso dato dal Welcker e dal Bernhardy, non s’era fatto un solo passo in questa sorta d’indagini (Ibidem, pp. 4-5). Della Nachhomerische Theologie del Nägelsbach, Nürnberg, 1857, che pure è il solo libro che tratti estesamente lo sviluppo della coscienza religiosa dei Greci, non può dirsi che sia un lavoro molto atto a ridestare il gusto per simili ricerche, perché ha più l’aria di una teologia cristiana, che la fisonomia di un’indagine storica. Fra i recenti lavori speciali merita somma lode il libro del Buchholtz, Sittliche Weltanschauung des Aeschylos und Pindaros, Leipzig, 1869, che alla squisitezza del senso critico accoppia un gusto perfetto di esposizione plastica. a Questa esigenza è stata specialmente avvertita dai recenti interpreti di Sofocle, p. es. Schneidewin, Nauck, Ritter. b Questo lato della sua coscienza non è stato studiato sodisfacentemente da nessuno, e lo stesso Strümpell op. cit. p. 117, che pure ha accordato tanta importanza alle convinzioni religiose di Socrate, parla con una certa circospezione di quello che potrebbe nella sua persona chiamarsi religione. a Mem. I, 4, 16. … τοὺς θεοὺς τοῖς ἀνθρώποις δόξαν ἐμφῦσαι ὡς ἱκανοί εἰσιν ε ὖ καὶ κακῶς ποιεῖν…23 b

Nei Mem. I, 1, 6 e sgg., questa duplice limitazione è espressa con somma evidenza. Conf. su questo argomento lo Zeller, Die Entwickelung des Monotheismus bei den Griechen, ristam. nei Vorträge und Abhandlungen ecc. dello stesso autore, Leipzig, 1865, pp. 1-30. a Mem. I, 1, 19: οὗτοι (parlando del volgo) μὲν γὰρ οἴονται τοὺς θεοὺς τὰ μὲν εἰδέναι, τὰ δ᾽οὐκ εἰδέναι: a

Σωκράτης δ᾽ἡγεῖτο πάντα μὲν θεοὺς εἰδέναι, τά τε λεγόμενα καὶ πραττόμενα καὶ τὰ σιγῇ βουλευόμενα, πανταχοῦ δὲ παρεῖναι καὶ σημαίνειν τοῖς ἀνθρώποις περὶ τῶν ἀνθρωπείων πάντων24. b Mem. I, 3, 2, e sgg., e IV, 3, 17. c

Mem. I, 1, 3. Specialmente il Forchhammer nel citato libro ha cercato di mostrare, che i giudizi di Senofonte fossero

d

parziali ed infondati. a Vedi più innanzi il cap. X, dove sono raccolti i luoghi a conferma di questa nostra opinione. b

Zeller, che ha molto felicemente criticata questa falsa opinione op. cit. pp. 73-75, non è poi riuscito a fuggire l’opposto errore. c Qui intendiamo parlare, tanto della missione che Socrate credea di dover adempiere, quanto della sua fede speciale nel δαιμόνιον [daimónion: demone]. Intorno a questo secondo punto ved. lo Zeller op. cit. pp. 61-70. a Quanto ad Eschilo Pindaro e Sofocle ved. i citati libri del Buchholtz, e del Dronke; più il Lübker, Die Sophokleische Theologie und Ethik, Kiel, 1853-1855. b Questo speciale carattere della religione greca è stato molto vivamente rilevato dal Köchly nello scritto: Ueber Aeschylos’ Prometheus, rist. nei Vorträge ecc. pp. 3-46. c

In questo modo lo considera il Cousin, Fragments de Philosophie ancienne, 2a ed. pp. 137-138, e conf.

dello stesso autore: Traduct. de Platon, vol. I, p. 55. d Questa opinione è del Roscher op. cit. p. 273 nota 3; ma è stata contrastata, ved. specialmente Pfander, Euripidides’ Bakchen, Berlin, 1870, fasc. 1, pp. 13 e 27. a Su la coltura ateniese dell’epoca socratica vedi il Curtius op. cit. vol. II, pp. 221-280, e vol. III, pp. 5389.

b

Vedi Curtius op. cit. vol. III, pp. 65-78, e Steinhart, Euripides’ Charakteristik und Motivierung im Zusammenhang mit der Culturenwickelung des Alterthums, nell’«Archiv für Litteraturgeschichte» del Gosche, fasc. 1, pp. 1-47. a Questa tendenza non avea niente di comune con la interpretazione razionalistica della mitologia rappresentata da Metrodoro, sul quale vedi Zeller op. cit. vol. I, 3a ed., p. 831. b

Tucidide libro III, § 8325. c Ved. sul significato generale dei Sofisti nella storia della coltura greca Hermann, Geschichte und System ecc. pp. 217-231, e Zeller op. cit. vol. I, 3a ed., pp. 938-953. a Intorno al predominio del culto apollineo vedi Göttling, Die delphischen Sprüche, nelle Gesammelte Abhandlungen, München, 1857, p. 245 e sgg. b Noi non intendiamo di dar ragione con ciò a Cicerone, Quaest. Tuscul. V, 37, il quale considera Socrate come un cosmopolita26; perché il cosmopolitismo cominciò appena nell’epoca macedonica, v. Curtius op. cit. III, p. 540.

III

DEL VALORE FILOSOFICO DI SOCRATE Una coscienza informata alle più intime convinzioni religiose, che riposano sul concetto dell’intelligenza come autrice e provvidente reggitrice del mondo, ed animata dal vivo bisogno di correggere e migliorare le opinioni altrui, non è ancora precisamente quello, che noi siamo usi di chiamare coscienza filosofica. La energia personale del carattere, congiunta alla rettitudine del giudizio morale, e ravvivata da una incessante lotta con tutti gli elementi più pronunziati della vita sociale ed artistica dei contemporanei, sarebbe bastata per fare di Socrate quello che ci è apparso finora; e per improntare nella sua persona quel carattere di dignità e di costante abnegazione, che la sua vita e la sua morte rivelano egualmente. Egli potea bene divenire un moralista popolare, un riformatore dello Stato, o qualcosa di simile; e pure non rivelare nelle sue convinzioni quel lavoro di esame e di ricerca, che costituisce la natura della scienza: egli potea in somma rimanere un eroe di moderazione e di costanza, senza essere un filosofo. Ma la concorde testimonianza dell’antichità fa di lui l’autore di un nuovo indirizzo nelle ricerche filosofiche; e per quanto la divergenza dei ragguagli possa far nascere dei dubbi sul carattere preciso delle sue opinioni, egli è innegabile, che tolto di mezzo Socrate dalla tradizione filosofica dei Greci, non solo tutto lo svolgimento della filosofia da Platone in poi, ma lo stesso dialogo platonico come monumento letterario diviene inesplicabile. Fare del valore filosofico di Socrate una quistione, può invero sembrare ozioso ed inopportuno; e basta forse guardare un poco le storie della filosofia, e le molte monografie concernenti questo soggetto, per persuadersi, che nessuno più mette in dubbio il valore scientifico, e l’importanza filosofica di lui. Tuttavia, se si pon mente alla circostanza non punto lieve, che appena in sul cominciamento di questo secolo si è detto sul conto di Socrate qualcosa che mostri, come la ricca immagine storica e leggendaria della sua persona si presti ancora a venir ristretta negli angusti limiti di una valutazione meramente scientificaa, e che nulladimeno gli errori ed i malintesi continuano ancora, la nostra quistione non parrà né affatto superflua, né del tutto tardiva. Molti parlano infatti della filosofia di Socrate come d’un insieme di verità belle ed assodateb, e poi disposte nell’ordine metodico di un sistema; e sconoscono in tal guisa la originalità della sua coscienza, e come in lui l’attività scientifica, essendo più un risultato che un proposito, rimanesse sempre nei limiti di un impulso personale.

Da un’altra parte s’è voluto procedere in questa indagine dalla supposizione, che tutte le inconseguenze dovessero rimuoversi, e che certi concetti appena appena accennati dovessero completarsi mediante la congettura; sicché, misurando il valore di questo o quel pronunziato alla stregua speculativa della filosofia moderna, si è giunti a formare un Socrate immaginario il quale corrisponde, o molto poco, o affatto nulla a quello della storia. E in ultimo, come l’ammirazione che s’ha per Socrate si riferisce in gran parte alla morale perfezione del suo carattere, molti hanno stimato cosa naturale, rigettare come apocrifi quei pronunziati che sono inconciliabili con le nostre convinzioni morali; e, confondendo due criteri disparatissimi, son riusciti a falsare la storia per adattarla alle proprie vedute. Sovra tutto l’opinione, che il bene e l’utile siano identici, ha talmente imbarazzato alcuni critici, che, per paura di non degradare Socrate, hanno finito per rigettare la testimonianza di Senofontea. Noi ci siamo facilitata la soluzione del problema, col modo come abbiamo tratteggiata la coscienza di Socrate, ed esposti i vari motivi che lo determinavano alla sua attività correttiva e pedagogica; ed abbiamo così evitato l’inconveniente di prender le mosse dalle qualità formali o speculative del suo ingegno, per dedurne poi tutte le conseguenze dottrinali che i testimoni autentici ci hanno trasmessob; perché qui non si tratta di un lavoro coscientemente compiuto, per raggiungere la certezza teoretica mediante l’analisi e la critica delle altrui opinioni. Il motivo unico ed intrinseco di quella attività era il bisogno etico della certezza, e la convinzione, che questa non si acquisti se non mediante la conoscenza chiara ed evidente. Cerchiamo ora di caratterizzare sotto questo aspetto il valore filosofico di Socrate.

1. Formalismo logico Senofonte e Platonea mettono in bocca agl’interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch’egli solesse ripeter sempre le medesime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il libero corso all’esposizione dell’avversario. Socrate in fatti non sapea esprimere il suo pensiero in un discorso concepito in forma oratoria, alla maniera di Gorgia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera sdegnosa e virulenta di Callicle e Trasimaco: una certa innata sobrietà di spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi uditorib. Questo fare era monotono, ed avea l’aria di pedanteria: tanto più, perché rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione oratoria, non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche faccende dipendeano dall’arte della parola. Ma tornava forse Socrate di continuo all’affermazione di questa o quella massima morale, per ripeterla ogni istante, ed improntarla nell’animo degli uditoric? Era egli forse un moralista bello e compiuto, che catechizza e predica; o tenea forse in serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di quistioni? Nulla di tutto ciò. Il suo discorso cadea sopra oggetti disparatissimi; e quali l’occasione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta degli argomenti potea disporre il suo animo alla ripetizione monotona delle medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di pronunziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne più tardi, le relazioni morali nell’astratta universalità della massima, o formulare nettamente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i germi che avean raccolto dalle accidentali conversazioni del maestro, che a discutere sul valore positivo di questo o quel principioa. Quella monotonia notata dagli avversarii non concerneva che l’esigenza della formale evidenza e certezza del discorso; ed era quindi l’intenzionale ritorno ai medesimi presupposti, nel lato formale d’ogni quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall’oggetto della ricerca, e come presente alla coscienza del filosofo per sé ed obbiettivamente; perché agisce solo come reale esigenza di colui che, ragionando, avverte per la prima volta che il ragionamento dev’essere conseguente, fondato, ed evidente.

La maniera corretta e cosciente del ragionare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo ovvia, e la nostra educazione ci fornisce ben presto dello schema logico della definizione, della pruova ecc., in guisa che possiamo al tempo stesso indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver coscienza della forma logica per se stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore: ma tutto ciò era allora impossibile. In Socrate l’esigenza del sapere esatto e formalmente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un bisogno intrinseco di certezza, e di acquiescenza alla normalità di una opinione chiaramente concepita, un lavoro che si compie per la necessaria coefficienza dei varii elementi etici della coltura e della tradizione, e non può ancora presentarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi ci sforziamo per poco di rappresentarci il mondo, secondo l’imagine che la coscienza anche più colta dei contemporanei di Socrate ne avea espressa nella storia, nella poesia, nelle leggende, nelle massime e nei detti dei sapienti; e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed inconsapevolezza d’intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammirazione, perché è pruova evidente della energia, con la quale egli seppe avvertire la necessità di correggere ad una stregua costante tutte le incertezze della conoscenza ordinaria, e fermarsi poi ed insistere tutta la vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le quistioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella definizione29; e noi cercheremo in seguito di esporre il modo, come queste due funzioni si sono spiegate in quell’orizzonte scientifico che Socrate s’era tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello spirito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza precisa ed inalterabile delle condizioni in cui deve trovarsi la conoscenza, perché possa dirsi certa, ed evidente. Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceverare dalla natura immediata, e dalle condizioni incerte e fluttuanti del soggetto pensante, apparisce nella sfera della ricerca socratica come qualcosa di affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricercava; e senza isolarsi dai motivi che l’aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio efficace in Socrate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore attività scientificaa.

2. Determinazione del valore del formalismo logico La caratteristica, che noi abbiamo data dell’attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a quello che già s’è detto da altri; e che non serva se non a rifermare un’opinione corrente, secondo la quale Socrate sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del sapereb. Si è infatti detto più volte, che l’idea del sapere sia la scoverta di Socrate, e che cessando per opera sua la esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell’idea, del soggetto, dello spirito e così viaa. Senza la pretensione della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perché attribuiscono a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch’egli s’avesse, e perché devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell’etica socratica. Basterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che Socrate avesse avuto coscienza del sapere preso per se stesso, come forma o attività in generale, non solo si cade nell’inconveniente di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che confermi questa opinione, ma si è poi obbligati a fare una quistione oziosa su la natura empirica o a priori del sapere socratico, che non c’è motivo al mondo per proporsela; e in ultimo, si è poi costretti a ritenere che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all’eticab; mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un risultato dei criterii logici che applicava, ma invece come una prima e semplice esigenza delle sue convinzioni religiose. Abbiamo invero detto che il valore filosofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo; ma la forma limitativa, con la quale abbiamo espressa questa opinione, esclude di fatto tutte le caratteristiche alle quali può in apparenza sembrare che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza determinata, e serva a correggere l’opinione e la tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complicazioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia raggiunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confronto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storicac, si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi; perché dal giudizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto.

Il valore filosofico di Socrate sta in relazione diretta con l’orizzonte della sua coscienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti motivi di natura più immediata, più complessa, e più personale di quelli che conducono esclusivamente alla conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca della sua attività ci fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la congettura il processo genetico della sua coscienza filosofica, che è stato impossibile d’intendere su la semplice testimonianza delle fonti storiche. Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercé l’accettazione o la critica di una tradizione teoretica; e per questa ragione stessa non arrivò all’affermazione astratta del principio logico della certezza, come regolativo della ricerca, e correttivo del conoscere comune ed inconsapevole. Le condizioni speciali del suo carattere lo aveano predisposto a sentire profondamente il bisogno di una religione intima, e depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi, e delle opinioni correnti: e quella naturale predisposizione toccò il suo sodisfacimento in un concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e la libertà umana come predeterminata al bene. La costanza, la fermezza d’animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose perché riconosciuto provvidenziale, – tutte queste tendenze sollecitarono la sua intelligenza, predisposta alla riflessione, a cercare una norma costante dei giudizi, e trovatala egli persistette ad applicarla come stregua alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli, che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual’era raccolto nella lingua e nella tradizione, ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei, se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti condizioni della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare entrare nell’animo altrui l’intimità, e lo spirito di conseguenza lo fece divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In questa nostra maniera d’intendere l’attività filosofica di Socrate trovano un posto naturale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono, e che altrimenti non sarebbero spiegabili; ed oltre a ciò molte quistioni che si son sollevate su la dottrina socratica rimangono escluse di fatto. Toccheremo alcuni di questi punti.

OSSERVAZIONI a) Limitazione del sapere umano Molti espositori della dottrina di Socrate non hanno sufficientemente intesa l’importanza di quella opinione riferita da Platone, e indirettamente confermata da Senofontea, la quale concerne la limitazione del sapere umano, e la sua assoluta inferiorità al sapere divino. Anzi si è giunti fino a negare, che questo principio sia stato pronunziato con seria convinzione; ed alcuni hanno voluto spiegarlo con certe ragioni di convenienza, le quali, se pure riuscissero a chiarire qualche cosa, non si sa quanto lascerebbero di genuino nella dottrina socratica. Quel principio invece, non solo è schiettamente pensato, ma sta tanto in cima di tutta la filosofia socratica, che per sé solo basta a caratterizzarla. Il sapere socratico è essenzialmente identico al fare; e questo convincimento non è il risultato di una equazione, stabilita per via di una serie di deduzioni più o meno fondate sopra un’anticipata conoscenza logica e psicologica, ma è qualcosa d’immediato nella coscienza di Socrate, il quale era arrivato all’esigenza del sapere, spinto appunto dal bisogno di rendersi evidente e certo il giudizio morale. L’esigenza etica ed il bisogno religioso, combinandosi insieme e coadiuvandosi vicendevolmente, lo menarono a riconoscere la limitazione del sapere umano, perché il sapere del quale egli avea notizia era quello appunto che determina a fare; e nello stesso tempo gli fecero ammettere la superiorità del sapere divino, come quello che era impulso ad una più larga sfera di azioni, e ad una produzione più ampia e più perfetta. Non può negarsi che tutti questi concetti sono espressi da Senofonte con tale una semplicità, e diremmo quasi infantile ingenuità, da non potere per sé soli formare una teologia razionale, sicché rimangono inferiori di gran lunga, non solo alla teologia cristiana, ma benanche a quella di Platone e degli Stoici; ma questa stessa forma immediata e semplice è una pruova ancora più convincente della loro autenticità. E misurando alla stregua della coltura greca d’allora il principio socratico della superiorità dell’intelligenza divina su l’umana, si scorge bene, che esso segna un gran progresso nella storia della religione e della filosofia; ed a persuadersene basterà confrontarlo col concetto affatto meccanico dell’intelligenza presso Anassagoraa. b) Socrate e i Sofisti Abbiamo già visto, che ammettendo in Socrate il principio del sapere, come concepito in abstracto e nella sua generalità, non potrebbe più spiegarsi perché mai avess’egli dovuto limitarsi all’etica, e rigettare come empia ed infruttuosa la ricerca naturale. Ma il concetto che s’era formato della

limitazione del sapere umano vale anche ad intendere, sotto che riguardo egli differisse dai Sofisti essenzialmente, e pei motivi e pel fine della sua attività scientifica; per tacere ora di altri punti più determinati, che toccheremo in seguito. La coscienza sofistica esprimeva l’incontro di due tendenze, che aveano seguito lungamente il proprio cammino, ciascuna per se stessa, senza incontrarsi e combinarsi nei medesimi individui. Le ricerche su la natura e l’origine del mondo naturale aveano condotto ad una serie d’ipotesi, e queste a porre certi principi, come fondamento e spiegazione del cosmo: e la successione non interrotta dei tentativi avea quasi esaurita ogni possibilità di nuovi principi. Tutta quella tradizione era al tempo di Pericle, e poco appresso, rappresentata da vari seguaci delle diverse scuole, che tentavano di trovare un’ultima soluzione, nella conciliazione di vari principi finallora tenuti per repugnanti tra loro. Sotto questo riguardo i Sofisti, sebbene nessuno di essi fosse stato capace di elevarsi ad una concezione organica dell’universo, rappresentavano ancora la filosofia naturale, perché giovandosi tutti di questa o quella supposizione filosofica, la metteano a profitto come generale elemento di coltura. L’altra tendenza poi, che era in essi più efficace, era quella che risultava dalla dissoluzione dell’aulica morale tradizionale, e che cercava una espressione adequata dei nuovi bisogni nella ricerca individuale, poggiata sul criterio della convinzione personale. L’incontro di queste due tendenze non è stato qualcosa di arbitrario e di elettivo nella posizione dei Sofisti; e su ciascuno di essi un motivo diverso ha potuto esercitare maggiormente la sua influenza, mentre gli effetti che produssero furono quasi identici. E questa sola circostanza può spiegare, come quegli uomini di tempra affatto diversa, di tendenze divergenti e qualche volta opposte, essendo nati nei punti più diversi nel mondo greco, e trovandosi solo accidentalmente qualche volta insieme, sapessero esercitare una svariata e grande influenza come esortatori dei principi e consiglieri delle radunanze popolari; e senza un proposito prestabilito, e senza unità di dottrina, potessero concorrere tutti a produrre le medesime conseguenze; ed in nome d’un sapere universale e con certe massime riformatrici fossero stati capaci di gettare sfiducia ed irrequietezza negli animi, e di eccitare il gusto per tante svariate discipline. Il nome comune di Sofisti che fu loro dato, e che dapprima non importava una nota di riprovazione, è un indizio sicuro dell’effetto che erano in grado di produrre. Il loro significato nella storia generale della coltura greca è di gran lunga superiore al loro valore filosofico; e appunto perché non furono dei filosofi, nello stretto senso della parola, divennero istrumenti di propaganda scientifica, e creatori di molte discipline positive. Le ricerche grammaticali e retoriche furono da essi intraprese nel fine pratico del corretto parlare, e della persuasione oratoria; e le loro

indagini influirono in gran parte a fare avvertire le condizioni formali del ragionamento, e favorirono la formazione della logica. La loro attività pratica, e gl’interessi politici che ne regolavano la condotta, li determinarono a ricercare la natura delle relazioni etiche, ed il valore delle virtù nella famiglia e nello stato. L’esame delle dottrine sofistiche non ha che fare col nostro argomento; tanto più che se volessimo toccarlo solo di passaggio, tutto l’andamento del nostro lavoro dovrebb’essere cangiato. Qui vogliamo solo notare, che Socrate per molti riguardi può dirsi s’aggirasse nel medesimo orizzonte dei Sofisti; tanto che all’occhio volgare egli apparve tutt’uno con quelli. Questa identità consiste principalmente nell’interesse pratico, che era impulso alle indagini scientifiche dell’uno e degli altri, e che aveali egualmente condotti alla ricerca ed alla determinazione dei concetti etici. Sotto un risguardo più generale, Socrate ed i Sofisti coincidevano nell’interesse comune di una consapevole maniera di ragionare. Ma tutta questa apparente identità sparisce, quando si prendono ad esaminare i motivi della ricerca socratica, che risultavano appunto da un bisogno affatto etico e religioso, e poi si confrontano con la posizione del tutto arbitraria dei Sofisti, che usando l’arte della parola come mezzo estrinseco di persuasione, ed accettando in gran parte come legittima la morale ordinaria del popolo, non si elevarono mai ad una perfetta e schietta intelligenza della natura umana. Ma la differenza e la opposizione apparisce maggiormente in quel principio di Socrate, che poc’anzi abbiamo esaminato. Socrate, con l’ammettere la limitazione del sapere umano, non pronunziava solo una massima di morale rassegnazione, o di religiosa riverenza verso la divinità, ma esprimeva eziandio con maggiore evidenza il bisogno di un criterio di assoluta certezza. Il sapere diveniva così non solo formalmente certo, ma intrinsecamente predeterminato ad uno scopo, nel quale dovea attuare, e necessariamente esaurire la propria attività e potenza. E sebbene sembri, che la relazione, che Socrate stabiliva fra il sapere umano ed il sapere divino, importi una degradazione del primo, e che da essa possa desumersi la relatività e la contingenza della scienza umana; pure, se si guarda più addentro, si vede, che la superiorità di Socrate su i Sofisti consiste appunto nella chiara coscienza che egli s’ebbe della intrinseca misura del sapere, e del modo come essa era predeterminata da tutto l’ordine della natura. Il sapere umano da un canto, ed il divino dall’altro, appariscono come due sfere affatto diverse; ma in fondo, come la loro differenza non consiste nella diversa natura dei soggetti intelligenti, ma sì bene nel grado di attività e nella diversa sfera d’azione, così s’intende perché Socrate sia stato non solo capace di dare un largo impulso alle ricerche logiche ed etiche, ma eziandio alla metafisica. Tutti ora ammettono la differenza fra Socrate e i Sofisti; ma la più parte dei critici nell’assegnarla s’è principalmente fermata alla differenza dei risultati

dottrinali, guardandola sotto l’aspetto della certezza logica. Noi veramente non sappiamo intendere, come Socrate avrebbe potuto sfuggire l’eristica e l’antilogistica dei Sofisti, e sentire vivamente il bisogno di un sapere normale ed obbiettivo, se prima le esigenze religiose della sua coscienza non lo avessero disposto ad ammettere nell’intelligenza, come principio dell’universo, una misura assoluta ed intrinseca dell’intelligenza umana, come relativa e predeterminata all’attuazione del fine individuale e sociale del benessere. E come non può ritenersi, che Socrate adoperasse nella critica dei Sofisti un istrumento di cui non avea notizia, intendiamo dire la logica come scienza formalmente costituita; ed essendo del rimanente innegabile, che dall’attività filosofica di Socrate procedette la critica della Sofistica, che occupa tanta parte del dialogo platonico, per non cadere nell’inconveniente, o d’identificare Socrate con Platone, o di riavvicinare talmente Socrate ai Sofisti, da farli coincidere assolutamente nell’esigenza affatto formale della ricerca senza termine obbiettivo, bisogna ammettere che Socrate fosse premunito contro le divagazioni di una ricerca arbitraria, mercé una chiara ed evidente convinzione intorno al valore etico dell’uomo e della divinità. E questa posizione è quella appunto che apparisce chiara in Senofonte; sebbene i Memorabili, per la loro natura affatto apologetica, e per la poca intenzione filosofica dell’autore, non facciano sempre rilevare l’antitesi tra il principio socratico e la coscienza sofistica. E qui cade in acconcio di osservare che il concetto, che noi ci siamo formati del valore filosofico di Socrate, è indirettamente confermato dalla grande varietà dei risultati scientifici delle varie scuole fondate dai suoi seguaci; perché, sebbene un insegnamento affatto orale, e quasi occasionale qual’era quello di Socrate, dovesse di necessità lasciare un largo campo all’influenza della persona, e limitare quella precisa ed esatta trasmissione della dottrina, che può emergere solo dalla comunicazione scritta, pure la natura stessa delle convinzioni del maestro avea dovuto lasciare nell’animo degli ammiratori e seguaci tracce tanto diverse, per quanto era varia in essi la capacità, o di fermarsi alla riverenza per la persona, o di valutare la importanza delle convinzioni etiche, o di sapersi avvantaggiare della tendenza logica per costituire la scienza. c) Pretesa soggettività del principio socratico Alcuni hanno considerato Socrate come quello che per la prima volta ha determinato il principio della soggettività; perché egli, si dice, riducendo tutto il sapere al valore logico della definizione, e valendosi per determinar questa dell’esperienza interna del soggetto, ossia dell’induzione, ha riconosciuto nell’esame della conoscenza il principio d’ogni sapere concreto, ed affermato, che il pensiero umano nelle sue normali

condizioni è la misura di tutte le cosea. Questa soggettività socratica è stata celebrata con una certa pompa di espressioni, che aggiunge niente, se non toglie molto alla semplicità e spontaneità del filosofo atenieseb. Altri poi, insistendo sul termine reale della ricerca socratica, e partendo dalla supposizione, che la costanza con la quale Socrate prese a determinare i criteri della certezza non potea essere scompagnata dalla convinzione, che quella fosse la via per intendere e comprendere la realtà delle cose, hanno affermato che la sua filosofia fosse affatto oggettivac. Questo contrasto di opinioni ha ora perduto ogni importanza, e nessuno crederà più, che con termini d’un valore tanto generico, e di un significato, che varia troppo spesso secondo le opinioni di coloro che li adoperano, possa esprimersi completamente una caratteristica storicad. Quello che importa è di sapere, fino a che punto Socrate abbia avuto coscienza del suo principio ricercativo, e in che rapporto stesse questa sua consapevolezza con la natura dei problemi ch’egli s’era proposti; e noi abbiamo su questo argomento già discorso a lungo, e tanto da escludere indirettamente la opinione di coloro, che fanno di Socrate il creatore del principio della soggettività. Aggiungiamo ora alcune osservazioni. Socrate non differisce dagli altri filosofi che lo precedettero solamente per l’oggetto della ricerca, ma eziandio e principalmente per la maniera seguita nel ricercare, e per lo scopo della ricerca. I motivi individuali prevalsero in lui siffattamente, e la tendenza arbitraria ch’era invalsa in quell’epoca, di subordinare tutto al criterio personale, lo preoccupò tanto, ch’egli fu al tempo stesso rappresentante di un nuovo principio, ed iniziatore di una reazione assoluta contro le opinioni relative e soggettive dei sofisti. Ma il principio del sapere non può dirsi gli fosse presente alla coscienza, in un valore incondizionato, e nella sua assoluta indifferenza rispetto al contenuto ed al fine dell’attività umana. In conseguenza può dirsi, che Socrate abbia influito ad approfondire la natura del soggettoa, ed a preparare tutta la filosofia idealistica che venne dappoi; ma questo non importa che il suo principio fosse quello della soggettività. Anzi non è inopportuno ricordare, che in tutta la filosofia antica il progresso che ci è, dalle rudimentali spiegazioni del mondo fisico fino all’idea platonica ed all’entelechia aristotelica, concerne sempre lo studio, l’analisi, e la deduzione della realtà, qual’essa è stata percepita ed appresa dal soggetto, senza che il filosofo si elevi a contrapporre il soggetto preso per se stesso all’oggetto in quanto estrinseco; perché la stessa scepsi filosofica intende la contradizione, solo come uno stato erroneo della rappresentazione, non mai come fondata in una reale ed essenziale opposizione di soggetto ed oggetto. La scepsi socratica, che

in seguito esporremo, non ha niente a fare con la generale quistione su la conoscibilità delle cose; e rimane sempre predeterminata dal fine pratico, che ha il suo fondamento nella relazione dell’uomo con la divinità. Che se per questa ragione vuol dirsi che la filosofia di Socrate è oggettiva, una simile opinione ci par giusta solo fino al punto, che non si attribuisca a lui più consapevolezza di quella che s’avea; ed a condizione si ammetta, che tutta la filosofia greca è oggettiva: perché non è che una successiva e lenta esplicazione della ricerca, sul dato della tradizione e su l’imagine concreta del mondo, che non supponeva un ideale metafisico-religioso, come quello che il cristianesimo ha lasciato in eredità alla filosofia moderna, con tutta la evidenza di una profonda opposizione fra Dio e mondo, spirito e natura. d) Preteso misticismo di Socrate La fisonomia della ricerca socratica è tanto originale, ed esprime così al vivo la spontaneità e le personali esigenze di colui che ricercava, che a molti è sembrato naturale di scorgere in Socrate una certa natura di spirito mistico e profetico, che non consente venga egli considerato come uomo d’ingegno e di tendenze speculative. L’immediatezza mistica e religiosa, che non va ristretta nei limiti della schietta filosofia, si sarebbe appalesata in lui come in un apostolo ed in un profeta; sicché molte delle sue massime, più che il risultato di un’attività scientifica, sarebbero l’espressione di uno spirito affatto religioso, e dotato del misterioso dono dell’ispirazione. Questa opinionea, che non ha certo la sua conferma nelle testimonianze autentiche, per quanto possa apparire e sia invero strana e paradossale, ha un certo fondamento nella difficoltà che si prova a concepire ed intendere tutto quello che c’è di nuovo nella coscienza filosofica di Socrate, se si prende solo a considerare la semplice tradizione teoretica, e si prescinde dalle speciali condizioni della sua persona e della sua coscienza religiosa. E da un’altra parte, la poca o niuna conoscenza dello sviluppo della coscienza religiosa dei Greci può indurre in molti la falsa opinione, che tutto quello che contradice al grossolano concetto della mitologia sia qualcosa di straordinario, mentre invece non è che una delle fasi del normale sviluppo della coscienza ellenica. I tratti storici, che possono desumersi da Senofonte e Platone, valgono tanto ad intendere il sano sentimento religioso di Socrate, il quale non ha niente di non ellenico, che non c’è punto bisogno di supplire con avventate congetture un elemento del quale la storia ci fornisce con tanta evidenza, e di svisare Socrate, ch’era Greco anzi Ateniese, per farne qualcosa di simile ai profeti dell’Antico Testamento, o ai mistici cristiani.

a

Schleiermacher, Ueber den Werth des Sokrates als Philosophen. Questa dissertazione letta all’Accademia di Berlino il 1818 è stata poi riprodotta nelle opere complete dell’autore, sez. III, vol. II, p. 293 e sgg. La determinazione del valore filosofico di Socrate ha raggiunto un certo grado di consistenza scientifica solo per opera di Hegel, op. cit. vol. II, pp. 39-44, e 51-8127, e di Hermann, Geschichte ecc. libro II, pp. 231-263. La più gran parte delle monografie posteriori rivelano l’influenza di Schleiermacher, di Hegel, o di Brandis, che solo in certi punti modificò le opinioni del primo; mentre le vedute dell’Hermann, che risultavano da una profonda conoscenza di tutta la coltura greca, sono rimaste o trascurate o fraintese. Il lavoro più originale su la dottrina di Socrate è, a nostro parere, quello dello Strümpell, il quale, mentre nella Geschichie der theoretischen Philosophie der Griechen, p. 103, era rimasto indeciso su quello che dovesse pensare del nostro filosofo, ha poi nella Geschichte der prakt. Philosophie ecc., pp. 23-181, esposta in tutta la pienezza dei suoi motivi, e in tutta la larghezza del suo svolgimento, la dottrina socratica. Noteremo qui che, oltre ai libri già citati, abbiamo avuto presenti Hurndall, De Philosophia Morali Socratis, Heidelbergiae 1852; Böhringer, Der philosophische Standpunkt des Sokrates, Carlsruhe 1860; Ditges, Die epagogische Methode des Sokrates, Köln 1864; Kittel, Die Lehre des Sokrates, Eger 1860; Rossel, De Socratis Philosophia, Göttingae 1837; il lavoro di Brandis, Ueber die Lehre des Sokrates nel «Rhein. Museum» I, p. 122 e sgg. le due storie generali della filosofia greca del Brandis stesso, e quelle di Schwegler, e di Ueberweg, ed altre piccole monografie che citeremo ove cada in acconcio. Nel giro di questa esposizione ci asterremo, quanto più ci riuscirà possibile, da ogni polemica. b Per tacere dei citati libri dell’Alberti e del Lasaulx, osserveremo qui che il recentissimo lavoro del Montée, La Philosophie de Socrate, Paris 1869, che ha ottenuta la mention honorable de l’Institut, è quanto ci possa essere di più barocco, di più antiquato, e al tempo stesso di più pretensioso. L’autore, che ha avuto tempo di raccogliere citazioni di Holbach, Pascal, Huet, S. Teresa, S. Bonaventura e via dicendo, non s’è presa punto la briga di vedere che cosa si fosse detto dai critici intorno a Socrate, e senza scrupolo di sorta ha raccolto da Platone tutto quello che gli andava ai versi, e l’ha messo insieme come dottrina socratica. a La quistione è cominciata col Dissen, De Philosophia morali in Xenophontis de Socrate commentariis tradita, dissertazione ristampata nelle Kleine Schriften dello stesso autore pp. 57-88, Göttingen 1839. Il Brandis è stato quello, che in virtù di certe preoccupazioni dottrinali, ha più di ogni altro frainteso i concetti fondamentali del Socratismo. b Per tacere degli altri, noteremo che questo difetto è principalmente notevole nel Brandis, il quale anche nel suo ultimo lavoro, Die Entiwickelungen ecc., prende le mosse dal concetto astratto del sapere, per determinare il valore filosofico di Socrate, v. Ibidem, p. 232 e sgg. a

Sen. Mem. IV, 4, 6; Plat. Gorg. 490 E. Lo Strümpell fa rilevare molto vivamente la differenza che correa fra i Sofisti e Socrate, nell’uso del ragionamento formale v. in generale op. cit. cap. II, pp. 72-115. c Lo Zeller ha molto bene criticata l’opinione ordinaria, che fa di Socrate un moralista popolare op. cit. b

vol. II, p. 73; ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore filosofico del dialogo socratico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui recisamente, per evitare ogni ulteriore polemica. a Vedi su questo punto Hermann, Geschichte ecc., p. 257 e sgg.; e lo stesso autore: Prof. Ritter’s Darstellung der sokratischen Systeme, Heidelberg 1833. Hegel è stato uno dei primi a riconoscere l’importanza delle scuole socratiche per la determinazione del principio filosofico di Socrate op. cit. vol. II. p. 105 e sgg.28, e conf. Biese, Die Philosophie des Aristoteles, vol. I, p. 28 e sgg. a

«Indem die Philosophie des Sokrates kein Zurückziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des Gedankens, sondern aus einem Stücke mit seinem Leben ist, so schreitet sie nicht zu einem Systeme fort» ecc. Hegel op. cit. p. 5130. Da questo e da altri luoghi può scorgersi come

Hegel avesse un concetto più schietto della filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti scrittori posteriori, non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non volerlo, parla sempre in una maniera troppo astratta del principio del sapere, e ricade nell’errore di Schleiermacher e di Brandis. b P. es. Schleiermacher op. cit. p. 300. a

La forma più esagerata è quella del Rötscher, il quale parla di Socrate come d’un filosofo moderno, op.

cit. passim. b

Vedi specialmente il Böhringer op. cit. p. 2 e sgg. L’Alberti specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una piena coscienza del proprio valore

c

storico; e non potea evitare un simile errore, dal momento che s’era proposto di seguire il dialogo platonico come un documento biografico; ved. op. cit. p. 13 e sgg. a

Plat. Apol. 23 B, e conf. Sen. Mem. IV, 6,7. Ved. Hermann, Geschichte ecc., II, p. 238, e note 295-97, il quale mostra come Schleiermacher, Rötscher, Brandis e Ritter non abbiano inteso il valore di questa massima; e conf. dello stesso autore: Prof. Ritter’s Darstellung ecc. p. 24 e sgg. a

L’Hoffmann, in uno scritto che ha per titolo: Die Gottesidee des Anaxagoras, des Sokrates und des Platon, Würzburg 1860, ha voluto attribuire un tale carattere teosofico, e mistico alle idee teologiche di Anassagora, e di Socrate da far loro perdere tutta la primitiva ingenuità, che le distingue da ogni posteriore svolgimento delle idee religiose. Per quello che concerne Anassagora specialmente, l’Hoffmann non s’è fatto scrupolo di considerarlo come un teista bello e compiuto. La teologia socratica di quello scritto non corrisponde per niente ai modesti principi espressi da Senofonte, e dall’Apologia platonica. a

Vedi in generale Hegel op. cit. p. 40 e sgg.31; e molto più Rötscher, Aristophanes und sein Zeitalter, p.

245 e sgg. b Specialmente dal Rötscher loc. cit. e molto più nella sua critica del Brandis loc. cit. p. 388. È difficile trovare un altro scrittore, che sia capace quanto il Rötscher di perder di vista l’oggetto proprio della quistione, per abuso di frasario filosofico. c Vedi Brandis, «Rhein. Museum», II, p. 85 e sgg. in una violenta critica del libro del Rötscher. Lo stesso Brandis nel libro già citato: Entwickelungen ecc., p. 232, pretende niente meno trovare in Senofonte Mem. III, 8, 3, una pruova esplicita, che il concetto socratico supponga il reale come suo termine obbiettivo. d

Vedi su la natura del sapere socratico l’esatta e scrupolosa indagine dello Strümpell op. cit. pp. 152-

159. a

Ved. Zeller op. cit. vol. II, p. 82. Per tacere di molti scrittori dei secoli passati, citerò l’Hamann, e specialmente Op. compl. vol. II, p. 32 42 , ed il Volquardson, Das Dämonium des Sokrates, Kiel 1862, e spec. p. 71. a

IV

DEL METODO DI SOCRATE La esplicita testimonianza di Aristotelea, che Socrate fosse stato il primo ad introdurre l’induzione e la definizione, è di un valore storico incontrastabile; e nel suo carattere limitativo, esprime nettamente la posizione e l’importanza di Socrate nello sviluppo delle ricerche logiche. Ma bisogna pure osservare che per Aristotele il concetto della logica è di una natura affatto determinata; sì perché egli ha escogitato ed esposto un complesso di forme e di principi così ricco ed esteso, da esaurire quasi del tutto l’argomento; come perché ha avuto una coscienza netta della funzione logica in tutte le branche del sapere concreto: in conseguenza di che la sua testimonianza, assottigliando troppo in una forma schematica ed astratta il risultato dell’attività scientifica di Socrate, non vale a riprodurre i motivi, la genesi, e lo sviluppo. Se il dialogo senofonteo e platonico non fossero lì sotto i nostri occhi, per attestare l’impressione genuina che la conversazione socratica lasciava nell’animo degl’interlocutori, e per rappresentare al vivo, e con drammatica evidenza i contrasti, ed i pratici motivi che determinavano Socrate a ricercare la definizione mediante il discorso, l’affermazione di Aristotele non sarebbe valsa ad altro, che a tenerci in generale informati della norma che quello avea seguita nelle sue indagini. Oltre di che, era Aristotele tanto inteso a mettere le ricerche logiche in armonia coi suoi postulati sistematici, e con le formali esigenze della sua metafisica, ed avea raggiunta una così piena e perfetta notizia della funzione dimostrativa, che non potea farsi più un concetto delle esigenze psicologiche, ed etiche che aveano preparata, e determinata la definizione socratica. A molti degli espositori moderni è sembrato cosa naturale di asserire in genere, che Socrate sia stato il primo fra i filosofi, che abbia avuta una coscienza netta del valore del metodo, senza che si dessero alcuna briga di esporre, nella sua forma originale ed autentica, il carattere genuino del metodo socraticoa. Il concetto ovvio della induzione, come di quel procedimento logico secondo il quale si risale dal particolare all’universale, dal noto all’ignoto e così via, è stato spesse volte applicato al metodo socratico, con tanto poco gusto e poco lodevole facilità, che ci è parso davvero strano come non si sia generalmente notato quanto fosse inverosimile che Socrate avesse acquistata una coscienza netta e chiara di un procedimento, che tuttora non è dei meglio determinatib. E inoltre questo procedere dal particolare all’universale, che è facile ed ovvio nella nostra

coltura scientifica, perché ben per tempo siamo assuefatti a pensare i concetti nelle loro generali determinazioni, non si può capire come potesse immediatamente acquistare nella coscienza di un uomo il valore di una regola costante, ed appresa in astratto, mentre le condizioni reali in cui si è svolto non erano punto favorevoli alla generalizzazione logica. E se noi ci limitassimo a pronunziare un giudizio sul metodo di Socrate, che fosse espresso nella breve e succinta affermazione, che egli si sforzava di determinare analiticamente il valore di un concetto, per fermarne inalterabilmente la natura mediante la definizionec, dovremmo ben presto avvederci, che questa determinazione dice molto poco, ed è al tempo stesso difettosa, perché assume come mezzo di spiegazione quello che dee appunto cercarsi di spiegare. Prescindere da ogni anticipata teoria psicologica e metafisica, e seguire attentamente la genesi del dialogo, questa è la sola via che possa tenersi, con la speranza di riprodurre fedelmente le condizioni reali nelle quali si produsse la definizione socratica.

1. Presupposti storici e psicologici L’imagine della vita, che mercé la percezione e la incosciente riflessione si ferma e sviluppa nella coscienza comune ed incolta, consiste in una mutabile e perpetua vicenda di rappresentazioni e sentimenti, su la quale le leggi del meccanismo psichico esercitano il loro assoluto ed esclusivo dominio. Solo l’interesse individuale della propria conservazione, e la ripetizione di certi atti abituali possono imprimere nell’insieme delle rappresentazioni, che sono successivamente presenti alla coscienza, degli impulsi per certe direzioni costanti; mercé i quali si stabilisce il predominio di alcuni elementi della vita psichica su tutti gli altri, ed in conseguenza di questo predominio, essa si costituisce in tutte le sue specificazioni, come carattere, costume, ed abito. Nella sfera della valutazione questa costanza assume la forma di opinione, e viene espressa come giudizio tradizionale di una classe, di una casta, o di un popolo. Questa opinione tanto più è parziale, ostinata, ed esclusiva, in quanto che, poggiandosi sul meccanismo naturale della vita psichica, non ammette la libera scelta dell’individuo, e non lascia a tutti gli elementi dell’anima il campo libero, per coadiuvarsi e fortificarsi. La coscienza dell’individuo in questo primo e più semplice stato della vita psichica, obbiettivando imperfettamente, riesce a considerare come qualcosa di esterno e di assolutamente immodificabile il limite intrinseco della propria attività, e confondendo le proprie condizioni con quelle della natura, naturalizza sé stessa nel mito, nella parola tradizionale, e nel costume. Questo stato primitivo della coscienza umana, sebbene corrisponda all’epoca della prima formazione della società, si continua e perpetua anche nei periodi posteriori della storia, perché acquista un carattere sostanziale nei costumi, e ferma la sua espressione nei miti, e nella poesia primitiva. Il sorgere successivo ed il lento sviluppo della riflessione, che sono determinati da cause molto complesse, e varie secondo gl’individui, non riescono ad escludere tutto ad un tratto le diverse manifestazioni di quella coscienza primitiva ed irriflessa, e la trasformazione degli antichi elementi, in concetti coscientemente appresi e pensati, non avviene che per la via d’un lungo processo, e di una lotta assidua, incessante, e secolare. Questo processo di trasformazione non ha luogo solo per l’azione di quei motivi intrinseci di esame e di critica, che possono dirsi teoretici; ma emerge necessariamente dalle collisioni pratiche fra la volontà dell’individuo e l’opinione tradizionale espressa nel costume, e più tardi assume il carattere d’una lotta sociale fra classe e classe, individuo e individuo. Nella storia di questa lotta quello fra gli elementi della vita primitiva che offra più

materia al contrasto, e che persista con maggiore tenacità, è la lingua, che nell’epoca delle tradizioni primitive e della poesia popolare esprime per tutti egualmente dei criteri costanti di valutazione, e che conserva nelle epoche posteriori l’apparenza di una norma alla quale tutti gl’individui debbano necessariamente ed inevitabilmente adattarsi. Ma quando gli uomini hanno cessato di trovarsi istintivamente d’accordo in quello che deva chiamarsi giusto, virtuoso, onesto, lecito, santo, empio ecc. e che hanno perduta la fede in quei tipi astratti del mito e della leggenda, nei quali la fantasia primitiva avea espresso ed ipostatato i comuni criteri della valutazione morale, allora sorge necessariamente nell’individuo il bisogno di rifarsi da sé quella certezza, che prima avea nell’acquiescenza in un criterio comune e naturale, e dice τὶ ἐστιa? La storia delle trasformazioni della coscienza etica è espressa nella letteratura greca in una forma monumentale: ed ora riesce ancora possibile al critico ed al filosofo di seguirla in tutte le sue fasi, e di notarne minutamente le gradazioni e lo sviluppob. Le relazioni etiche, gli affetti dell’animo, le passioni, i giudizi morali passano successivamente per una serie di determinazioni sempre più profonde, e più ricche, finché la divergenza dei criteri individuali non arriva a suscitare il bisogno dell’indagine, dell’esame, e della critica, e ad esigere che la ricerca ristabilisca coscientemente, nella forma riflessa del sapere scientifico, il criterio della certezza. I Sofisti rappresentano, come filosofi e come organi della coltura generale, questo stato di morale inquietezza, che esercitava tanta influenza nella vita pubblica, e fino nelle produzioni dell’arte drammatica; ma nessuno di essi fu dotato dell’energia morale, che era necessaria per rifare con la scienza quello stato di certezza intrinseca, che la coscienza etica esige come condizione essenzialec.

2. Motivo e sviluppo del metodo socraticoa Quali motivi di pratica certezza spingessero Socrate alla ricerca etica, e quali elementi d’intima convinzione morale avess’egli riposti nella eccellenza e bontà del suo carattere, non abbiamo più bisogno di ripetere. E se noi diciamo, che il metodo era per lui un bisogno individuale; o meglio, che l’esigenza pratica della determinazione esatta dei giudizi morali dovea assumere in lui la forma di una costante e normale ripetizione di un certo processo intellettuale, non crediamo, per le cose dette innanzi, di pronunziare un giudizio infondato, e che deva essere inteso come restrittivo della importanza filosofica del dialogo socratico. La pratica e la teoria, l’arte e la scienza, non appariano ancora in quel tempo come attività perfettamente distinte; e l’esercizio di una naturale inclinazione potea raggiungere un grado anche molto elevato di perfezione, senza che l’individuo fosse consapevole delle formali condizioni nelle quali l’arte si svolgeva: sicché può dirsi, senza difficoltà, che la logica stessa, come naturale attitudine e pratica esigenza, s’è per la prima volta costituita e fermata come qualche cosa d’istintivo e di naturaleb. Seguiamo ora, per quanto è possibile, lo svolgimento del metodo nei limiti del dialogo socratico, a conferma della nostra opinione. Tutto quello che gli uomini ordinariamente pensano intorno al carattere delle virtù, e intorno ai beni, come mezzi al conseguimento della felicità, deriva solo dall’abito, dalle sociali convenienze, dalla incosciente ripetizione dei medesimi atti, e dalla falsa opinione che s’ha delle proprie forze, e della propria missione. E quando i criteri cominciano a divergere, e il bisogno di riflettere è divenuto imperioso, perduta la fede in quella misura costante, ch’era riposta nella tradizione e nei costumi, e mancando l’attitudine a riprodurre la certezza mediante la scienza, l’uomo non sa più cosa voglia, e non voglia, e che deva lodare, o biasimare. E chi è interrogato e deve assegnare la natura di quello che suole chiamare bene, male, piacevole, utile, e così via, non ha un punto certo al quale s’appoggi, e non resiste alla tentazione di perdere ogni fede nella esistenza di una costante misura dei valori etici. L’unità estrinseca della parola, che nel costante valore fonetico serba una certa apparenza di uniformità, non vale che ad accrescere la confusione e l’incertezza; perché, mentre dapprima siamo vinti dall’illusione, che le stesse parole esprimano le medesime rappresentazioni, a lungo andare la convinzione che acquistiamo della profonda differenza che passa fra i nostri e gli altrui concetti diviene più evidente di quella illusione, e finisce per bandirla del tuttoa. Nella pratica della vita queste difficoltà teoretiche della coscienza morale menano alla divergenza delle opinioni, e all’incertezza assoluta

sul valore etico di tutti i predicati che possono concernere la lode o il biasimo; e di qui procedono le inimicizie e l’attrito, che alterano, e corrompono le sostanziali relazioni della famiglia, e dello statob. Lo spirito ha bisogno di una certa energia per liberarsi da quella illusione di apparente uniformità; e d’una anco maggiore, per determinarsi, mediante una interrogazione sospensiva, alla ricerca del valore costante che è espresso nel predicato etico. Questo è il primo e più elementare stadio della ricerca di Socrate; il quale, nel bel mezzo d’un discorso che può concernere l’elogio di un’azione, o il giudizio pronunziato sopra una relazione, o sopra una forma costante della vita etica, con una recisa e sospensiva domanda dice τὶ ἐστι? Le parole non possono chiarirsi se non col mezzo delle parole; e la possibilità di determinare il valore di una di esse, mediante quello di un’altra, riposa su la supposizione di una costante ed identica associazione d’idee, nell’animo di colui che parla e di colui che ascolta. Finché questa supposizione non diviene convinzione, non si sa fino a che punto qualcosa di realmente pensato risponda all’espressione estrinseca, che ha luogo mediante la parola. Questo stato dell’animo, in cui si cerca di pensare realmente quello che deva essere costantemente inteso e contenuto in una rappresentazione, costituisce l’aporia; l’incertezza cioè che occupa l’individuo, nell’atto che s’avvede della propria insufficienza ad afferrare e comprendere il valore intrinseco della propria opinione: e questa aporia è appunto lo scopo dell’interrogazione socratica. I suoi interlocutori son costretti ad affermare il loro imbarazzo, ed a confessarsi ignoranti; perché in essi, insieme con l’aporia, è sorto il bisogno del vero sapere, ed una certa anticipata notizia della possibilità della certezza. Ma l’abito contratto già prima di cadere nell’aporia, l’abito di aggiustar fede al valore delle proprie convinzioni, tuttocché non fossero state mai né esaminate né riformate dalla interna esperienza, riprende il disopra, e li fa ricadere nell’illusione. Essi credono di sapere cosa sia il giusto, il santo, l’utile, il bello, perché l’imagine concreta dei tribunali, o delle religiose tradizioni, dei propri bisogni soddisfatti, o dei sensi appagati fa loro ritornare nell’animo l’antica opinione; ed essi credono di conoscere davvero il valore etico che si cerca, perché nei casi speciali, e nelle particolari contingenze della vita ne hanno avuta una notizia apparentemente completa. E qui bisogna che l’interrogazione si molteplichi, e divenga tante domande, per quante sono le rappresentazioni addotte a chiarire, e ad esemplificare il concetto che si cerca. Questa nuova esigenza porta con sé un allargamento dell’indagine, e un apparente allontanarsi dalla quistione primieramente proposta. Il dialogo s’impiglia in molte e svariate difficoltà, una certa inquietezza s’impadronisce degl’interlocutori, il risultato diviene incerto, e si è

quasi ad un passo dall’eristica ed antilogistica dei Sofistia. E, quasi ad accrescere le difficoltà ed a renderle invincibili, Socrate confessa la propria ignoranza; e nella piena coscienza dell’altrui presunzione ed insufficienza manifesta uno dei tratti più notevoli della sua natura, l’ironia. Il filosofo in fatti non può, in quella condizione in cui s’è messo, non confessare la propria ignoranza, perché il suo sapere è pura esigenza, o meglio consiste solamente nella coscienza dell’attuale incertezza. Quello che egli cerca deve ancora trovarlo; né basta che l’abbia ottenuto una volta, perché lo formuli in una maniera generale, e lo tenga in serbo per mostrarlo a quando a quando. Il motivo dialogico, che è il solo movente della quistione, varia secondo le occasioni, e porta l’indagine sopra oggetti ed argomenti sempre diversi; sicché si tratta sempre di eccitare nuovamente il bisogno dell’aporia, perché questa invogli alla ricerca, e fissi implicitamente la natura del processo. E di qui procede ancora, che Socrate, non avendo una notizia anticipata di quello che cerca, e mettendo in opera la sua attività formale sempre nei limiti precisi e determinati di un dialogo, comincia dall’ammettere negli altri una piena scienza di quello che si cerca, e dalla loro confessione che nulla sappiano, o dall’incertezza con la quale pronunziano le loro opinioni è indotto all’ironia, che in lui assumeva la forma costante di un abito filosoficoa. Pur tuttavia, il semplice interrogare, che menava all’aporia ed alla sospensione d’ogni giudizio definitivo, era già un momento della scienza; e sebbene la confessione della propria ignoranza potesse sembrare una esclusione anticipata d’ogni certezza da parte di colui che interrogava, in fondo non era che un atto di rassegnazione alla intrinseca necessità dello sviluppo del dialogo. La domanda τὶ ἐστι; circoscrive tutta la ricerca sul valore di un concetto, alla evidente determinabilità di quello che in esso si pensa. Il contenuto, che a prima vista sembra espresso nella semplice denominazione, bisogna che sia davvero posto e determinato nella sua inerenza ed identità; e questo processo non può compiersi da sopra in sotto, o, come diremmo noi, deduttivamente, perché manca ancora in coscienza di un valore logico incondizionato ed assoluto. La determinazione del contenuto costante di una rappresentazione, in altri termini, la elevazione della rappresentazione a concetto, avviene nel dialogo socratico mediante il movimento ascensivo o epagogico della incertezza delle opinioni comuni, a quella costanza ed evidenza di affermazioni, che risulta dall’esaurire tutte le comuni accettazioni della parola in quistione. Nella nostra coltura logica apparisce cosa facilissima determinare la inerenza e la vicendevole comprensione delle note d’un concetto, perché l’attività intellettiva è anticipatamente fornita d’una moltitudine di elementi astratti ed universali, dei

quali si serve come di organi; ma, dal punto di vista storico, quel procedimento socratico era di una somma difficoltà, perché la coscienza non avea ancora alcuna notizia della universalità del concetto, e non avea innanzi a sé che una molteplicità di rappresentazioni, tutte apprese nella loro pratica incertezza e fluttuazione. Questo processo formativo dei concetti costituisce l’induzione socratica, che abbiamo visto prender le mosse dall’interrogazione. Mediante questa la rappresentazione, di cui è parola in questo o in quel dialogo, passa successivamente per tutte le sue più ovvie significazioni; ed in questo passaggio riesce agevole a coloro che ricercano di notarne i caratteri più costanti, e di raccoglierli, e comprenderli insieme nell’identità di una forma comune. La rappresentazione, così determinata nel suo valore costante, deve esser tale che possa funzionare da predicato in questo o in quel giudizio, senza che apparisca contradizione o incongruenza. Ma in virtù di questo postulato, che è implicito nella ricerca, apparisce nuovamente l’aporia; perché il concetto (il nome) già determinato non esprime tutto il valore della cosa che deve designare, e riesce spesso inadeguato alle reali relazioni in cui l’obbietto preso a definire si trova con altri obbietti analoghi o diversi. Quella determinazione bisogna sia allora corretta. Tutti i casi speciali, nei quali la rappresentazione si presenta nel discorso, costituiscono il largo campo dell’esperienza del filosofo, che cercando qua e là i punti costanti ed evidenti, nei quali l’oggetto che si cerca è presente alla coscienza, se ne vale come di addentellati per progredire con movimento ascensivo verso la sintesi dei vari tratti caratteristici della significazione. Il discorso equivale così ad un reale processo di separazione e di riassuntoa, e mette termine nell’adeguata comprensione del concetto cercato. Il punto di partenza, ossia il nome, che nella sua semplice unità fonetica era dapprima il centro della ricerca, diviene in ultimo l’estremo termine del pensiero, quello cui si va a metter capo col farne consapevolmente l’espressione di un contenuto evidentemente pensato; e le imagini concrete, che dapprima s’aggruppavano incertamente intorno alla vaga denominazione, non reggendo più alla nuova sintesi, devono scomporsi e prendere un nuovo posto: e solo il nuovo elemento, che s’è ottenuto mediante la ricerca, il contenuto costante della rappresentazione, raccolto via via mediante l’induzione, può determinare la coordinazione e subordinazione nella quale le imagini devono coesistere, mentre il concetto si costituisce nella certezza ed inalterabilità dei suoi limiti. Questo lavoro non è una scoverta ma una creazione; perché non determina la natura di un fatto più o meno remoto dalla immediata percezione interna, ma esprime la produzione lenta e metodica di un nuovo stato nella natura delle rappresentazioni. Il risultato dell’indagine socratica, il concetto definito,

acquista, poi che è stato determinato e costituito, il carattere dell’assoluta identitàb; e serve così a correggere la rappresentazione e la parola. Ma come l’attività socratica non riuscì mai ad isolare il formalismo logico dalle condizioni reali in cui s’era sviluppato, così l’interesse dialogico dell’induzione e della definizione non si manifestò che in una forma concreta ed occasionale, come bisogno etico e pedagogico: e non potette, per questa ragione appunto, obbiettivarsi in un’ipostasi metafisicac. Nulladimeno, per quanto il concetto socratico sia lontano da ogni idea metafisica, non può sconoscersi che esso sia stato il primo motivo, e la prossima occasione delle idee platoniche.

OSSERVAZIONI Questa nostra esposizione del metodo socratico è attinta genuinamente dallo schema generico del dialogo senofonteo e platonico; ed è stata ravvivata da una indagine genetica su i motivi dell’aporia e dell’interrogazione sospensiva. Senofonte e Platone hanno per noi lo stesso valore, quando si tratta di assegnare il carattere formale solamente, e non le conclusioni positive del dialogo socraticoa; perché solo nella diversità di queste è riposta la novità del platonismo, che cercava ricavare dall’induzione l’assolutezza ed il carattere incondizionale delle idee. Ed abbiamo così evitata la posizione erronea di coloro, che prendendo le mosse dal concetto astratto del metodo, hanno poi cercato di applicarlo alla investigazione del dialogo socratico. Cercheremo ora di completare con alcune osservazioni quella immagine complessiva che abbiamo delineata. a) Imprecisione formale del metodo socratico Nello svolgimento dialogico, che abbiamo esposto, non può sconoscersi la costanza di un formalismo, che si ripete in condizioni fisse ed impreteribili. Quello che noi abbiamo espresso in uno schema generico è stato desunto e raccolto da una molteplicità di casi speciali, che se non tutti rivelano una formale compitezza, pure nell’insieme s’integrano in una imagine complessiva. La ripetizione dei medesimi motivi, e la incertezza dei criteri nei giudizi morali producevano sempre la medesima esigenza di una verificazione coscenziosa del contenuto normale dei concetti. Ora può domandarsi fino a che punto Socrate avesse acquistata l’astratta consapevolezza delle condizioni costanti della ricerca, o a dirla più esplicitamente: sapea egli di seguire un processo teoretico ed universale, e ne avea nell’animo uno schema generale? Su questa quistione non possiamo più stare a sentire con pari credenza Platone e Senofonte, perché il primo avea già raggiunto una più perfetta notizia del problema logico, e s’era formato un concetto astratto del sapere, che il secondo è molto lontano dal volere attribuire al comune maestro. Né può dirsi che Senofonte non avesse avuto sufficiente coltura filosofica, per intendere ed approfondire i pronunziati di Socratea; perché in questo caso, non solo bisognerebbe rigettarne assolutamente la testimonianza, ma rinunziare per sempre a qualunque indagine su i limiti che corrono tra la filosofia socratica e la platonica. E pure, senza insistere di soverchio su la incapacità filosofica di Senofonte, la sua testimonianza a noi pare sufficiente per determinare negativamente il grado di consapevolezza logica che Socrate avea raggiunto; il quale consistea nella

normale, ma sempre pratica convinzione, che solo colui che possiede la notizia esatta delle generali condizioni di una pratica attività potesse convenientemente e saggiamente condursi nell’esercizio delle proprie funzionib. Questa logica consapevolezza è ancora tutt’una cosa con la pratica esigenza del retto operare; ed il filosofo, che avea abbandonata ogni indagine su gli oggetti che non concernono immediatamente il benessere umano, per la stessa posizione che s’era fatta, non potea astrarre il concetto del sapere dalla concretezza del saputo. In conseguenza di ciò, tutte le differenze, che la speculazione posteriore ha scorte nel processo dimostrativo, appariscono nella persona di Socrate come governato ancora da una psicologica motivazione; e si sviluppano nella pienezza della loro formale natura solo nel caso concreto del dialogo speciale. E a questa determinazione, come già altri ha notatoc, non fa eccezione quello che Senofonte riferisce: aver Socrate tenuta per norma sicura del ragionamento il prender le mosse dalle opinioni generalmente accettated; perché questa, più che una regola logica, è una semplice riflessione sul fatto stesso del dialogo. Né deve far meraviglia che Aristotele ora dica, che il merito di Socrate consista nell’avere fermato il concetto della definizione e dell’induzione, e poi un’altra volta si limiti ad accennare la definizione solamentea; perché questi due processi erano l’uno il risultato dell’altro, o meglio l’uno c’era solamente in ragione dell’altro. Rimane ora a sapere, se, anche con l’esclusione di una dichiarata coscienza logica, il dialogo senofonteo non mostri indizi sicuri di una attività logica più larga di quella che può riassumersi nelle due forme dell’induzione e della definizione. E in fatti non può negarsi, che l’esigenza della divisione, che fu poi tanto approfondita da Platone, vi è evidente, sì nella determinazione del valore intrinseco del concetto, come nell’applicazione di esso qual predicato nel discorso. Lo stesso concetto della pruova comincia a chiarirsi, nei suoi rapporti col valore normativo del concetto; e spesso la varietà empirica delle note del concetto, che erano state raccolte via via nel dialogo, è messa a profitto per determinare un giudizio speciale mediante un sillogismo di analogiab. La ricchezza e lo sviluppo del dialogo socratico contiene in germe tutti i momenti logici del processo induttivo; ed è in virtù di quell’impulso che in un’epoca posteriore si costituì la teoria astratta della scienza. b) Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio d’identità La esplicita distinzione fra il sapere e l’opinione, e fra il concetto e la rappresentazione, è stata frutto della speculazione platonica. Ora ad alcuni è sembrato conveniente farla risalire fino a Socrate, perché la forzata

interpretazione di questo o quel luogo di Senofontec pareva potesse confermare l’autorità di quei dialoghi platonici, che comunemente son tenuti per socraticid. Ma se si va a vedere un po’ meglio, quella interpetrazione non regge affatto, e l’autorità di Platone non prova niente. Ad altri è sembrato naturale fare di questa quistione un postulatoa, affermando che nello spirito del Socratismo era inevitabile la chiara coscienza di questa distinzione, perché essa ne determina la certezza intrinseca, ed il valore scientifico. Noi invero non sappiamo negare, che l’esigenza della distinzione è data in tutto il dialogo socratico; ma, nel difetto di una precisa testimonianza, non sapremmo dare il carattere storico di un fatto ad una semplice supposizione, per quanto essa possa essere verosimile. E lo stesso diciamo del principio d’identità, del quale non sapremmo riferire a Socrate la determinazione esplicita, sebbene sia innegabile che costituisca il valore positivo della sua coscienza logica, e si manifesti molte volte nel dialogo senofonteo. E come Platone è stato il primo che l’abbia formulato chiaramente, non possiamo negare, che in quella formula egli non ha fatto altro che esprimere un criterio pratico e costante del dialogo socratico. Qui cade ancora in acconcio di osservare che quando si è detto la definizione socratica esser tale, da esprimere la realtà dell’oggetto e non la veduta soggettiva del pensatore, in questa opinione non si è detto niente che caratterizzi il valore filosofico di quel processo dialogico. La ricerca scientifica era tanto lontana a quel tempo, da una generale quistione sul valore soggettivo o oggettivo della conoscenza, che qualunque caratteristica espressa con questi termini non definisce né il valore storico, né il grado di perfezione sistematica di una dottrina filosofica. a

Ved. il succitato luogo Metaph. XIII, 4; e conf. Ibidem, I, 6; e XIII, 9; e De part. ani. I, 1. Nessuno prima dello Strümpell avea tentato di spiegare in concreto lo sviluppo dell’induzione

a

socratica; e noi stimiamo inutile rilevare qui gli errori o le inesattezze delle precedenti esposizioni. b Questo difetto è sommamente notevole nel lavoro del Ditges, Die epagogische Methode des Sokrates, Köln 1864. Quell’autore trova confermata l’induzione socratica dall’autorità dei moderni scrittori di logica v. p. 13. c Come hanno fatto molti fra gli espositori. a

In questa domanda è riposto l’interesse logico di Socrate. L’autore di questo scritto raccoglie da molto tempo i materiali per una storia dell’etica greca, che sarà

b

esposta dal punto di vista della tradizione letteraria, e dello svolgimento generale della coltura. c Vedi in generale Strümpell op. cit. pp. 72-115, le cui opinioni del resto non sono per noi tutte accettabili. a L’autore di questo scritto ha cercate di mettere sott’occhi l’imagine completa del dialogo socratico, e s’è valso dei Memorabili di Senofonte e di alcuni degli scritti di Platone, facendo in questi astrazione dalla teoria delle idee; e non addurrà i passaggi perché, se volesse farlo, dovrebbe copiare gl’interi libri. Anche

molte delle cose dette innanzi su lo sviluppo storico della definizione, sebbene abbiano un colorito moderno, sono ricavate da Platone. b V. Steinthal, Geschichte der Sprachwissenschaft bei Griechen und Römern p. 118. a

Ved. questo pensiero espresso nel Phaedr. 263 A: Ὅταν τις ὄνομα εἴπῃ σιδήρου ἢ ἀργύρου, ἆρ᾽ οὐ τὸ αὐτὸ πάντες διενοήθημεν; – Τί δ᾽ ὅταν δικαίου ἢ ἀγαθοῦ; οὐκ ἄλλος ἄλλῃ φέρεται, καὶ ἀμφισβητοῦμεν ἀλλήλοις τε καὶ ἡμῖν αὐτοῖς;33 b Ved. questo pensiero espresso nell’Euthyphr. 7 C da περὶ τίνος - D πάντες; nel qual luogo sono principalmente notevoli le parole: οὐ δυνάμενοι (gli uomini) ἐπὶ ἱκανὴν κρίσιν αὐτῶν (cioè dei predicati etici) ἐλθεῖν ἐχθροὶ ἀλλήλοις γιγνόμεθα34. a Noi risentiamo tuttora nella lettura di Senofonte e di Platone quello stato di incertezza, e rimaniamo sospesi fino alla fine del dialogo; se pure, come in molti casi avviene, la conclusione stessa del dialogo non è equivoca e dubbia. Fra tutte le esposizioni dei dialoghi platonici quelle del Bonitz riproducono, a nostro parere, con la maggiore lucidezza ed efficacia possibile l’impaccio, le difficoltà, ed il travaglio dell’indagine socratica; ved. Platonische Studien, 1° e 2° fasc., Wien 1858-60. a

Lo Zeller op. cit. p. 89, col quale in gran parte ci accordiamo nel concetto dell’ironia, ha riportato i

vari giudizi profferiti da altri scrittori su quella forma o momento che voglia dirsi della conversazione socratica. Il citato libro del Lasaulx (pubblicato dopo il lavoro dello Zeller) contiene una determinaziane del concetto dell’ironia, ch’è veramente speciosa. Secondo quell’autore (v. p. 23) Socrate avea una doppia coscienza: la comune ed ordinaria, che hanno tutti gli altri uomini, e quella tutta sua speciale, che era riposta nella ispirazione religiosa; sicché, ogni volta che gli avvenisse di conversare o di disputare, dal confronto delle due coscienze veniva fuori il sentimento dell’ironia (!?). a Ved. il notevole luogo dei Mem. IV, 5, 12: ἔφη δὲ καὶ τὸ διαλέγεσθαι ὀνομασθῆναι ἐκ τοῦ συνιόντας κοινῇ βουλεύεσθαι διαλέγοντας κατὰ γένη τὰ πράγματα35. b Noi intendiamo dire che il concetto socratico ha il carattere dell’identità, non che Socrate avesse avuto coscienza del principio d’identità v. in seguito. c Aristot. Metaph. XII, 4: ἀλλ᾽ ὁ μὲν Σωκράτης τὰ καθόλου οὐ χωριστὰ ἐποίει οὐδὲ τοὺς ὁρισμούς36. a

L’Hermann osserva giustamente: Geschichte ecc. p. 326 nota 305, che la differenza del concetto socratico dall’idea platonica non è riposta nel carattere logico del processo. a Opinione del Brandis. b

Mem. IV, 2, 26: οἱ μὲν γὰρ εἰδότες ἑαυτοὺς τά τε ἐπιτήδεια ἑαυτοῖς ἴσασι καὶ διαγιγνώσκουσιν ἅ τε δύνανται καὶ ἃ μή· καὶ ἃ μὲν ἐπίστανται πράττοντες πορίζονταί τε ὧν δέονται καὶ εὖ πράττουσιν37. c Zeller op. cit. p. 83. d

Mem. IV, 6, 15: ὁπότε δὲ αὐτός τι τῷ λόγῳ διεξίοι, διὰ τῶν μάλιστα ὁμολογουμένων ἐπορεύετο, νομίζων ταύτην τὴν ἀσφάλειαν εἶναι λόγου, la quale opinione Socrate cercava di rifermare con l’autorità di Omero. Od. VIII. v. 17138. Conf. Sen. Oecono. XIX, 15, e Dionys. Halic. de arte reth. XI, 8. a

Conf. Metaph. XIII, 4, con Metaph. I, 6, e XIII, 9. Mem. II, 2, 1 e sgg.; e III, 3, 2. Lo Strümpell ha troppo insistito su la precisione logica del Socratismo,

b

e specialmente su la dimostrazione analogica: la quale non sarebbe, a parer nostro, difficile di ridurre alla forma generica dell’appercezione, perché non vi sappiamo scorgere il carattere della sussunzione sillogistica. c Specialmente Mem. IV, 2, 33. Vedi Brandis, Geschichte der römisch. Philosoph. II, p. 36, e la critica dello Zeller op. cit. p. 77, alla quale ha risposto Brandis rimanendo nella sua prima opinione: Entwickelungen ecc., p. 235. d

P. es. Men. 98 B.

a

Questa è l’opinione dello Strümpell.

V

DELL’ETICA SOCRATICA IN GENERALE, E DEL CONCETTO DEL BENE Fra tutti gli oggetti conoscibili nessuno offre tante difficoltà alla determinazione teoretica, quanto quel complesso di relazioni che riposano su i nostri giudizi di approvazione o di riprovazione, mediante predicati che esprimono la repugnanza o il compiacimento, e che costituiscono la sfera etica della nostra interna attività. Per isolare quei predicati nella forma di una definizione non basta seguire un procedimento ricercativo, che concerna la distinzione e l’analisi di un dato costante, chiaro alla nostra coscienza nella forma di una rappresentazione estrinsecamente evidente; ma bisogna che essi siano innanzi tutto praticamente da noi prodotti, ed appresi nella loro efficacia positiva, perché divengano termini costanti della ricerca. Quello che sia buono, e quindi riducibile alla forma astratta del concetto del bene, bisogna che sia precedentemente appreso e voluto come tale nelle reali e costanti condizioni della vita, e che serva già di norma ai giudizii di valutazione, che noi naturalmente esprimiamo. L’etica, in somma, suppone la coscienza morale, non solo come oggetto, ma come criterio e norma costante del giudizio teoretico. Ma da altra parte, la ricerca scientifica non può anticipatamente ammettere che i limiti dell’investigazione le siano belli ed assegnati dalle naturali condizioni della vita; perché, siccome è proprio della ricerca, che essa non deve ammettere se non quello che il corso spontaneo dell’esame porta con sé come legittima conseguenza, una qualunque anticipazione dei risultati apparisce lesiva dell’indipendenza e libertà dell’indagine. Questa doppia esigenza ha esercitata una così decisiva influenza nel campo delle ricerche etiche, che essa appunto è stata precipua cagione di tutti quei falsi scrupoli, che hanno spesse volte menato i filosofi, o a sagrificare la spontaneità del giudizio morale ai postulati del dottrinarismo logico e metafisico, o a degradare la scienza per farne un organo secondario rispetto a quella che s’è chiamata naturale coscienza del bene. E la difficoltà è divenuta ancora più grave, quando s’è voluto rimuoverla con tutto quell’apparato d’ipotesi psicologiche, che ha dato luogo alle speciose teorie di un’anima divisa in attiva e passiva, o moltiplicata all’infinito in una strana varietà di riluttanti potenze e facoltà, le quali tuttora, volere o non volere, danno fastidio a molti che si sforzano di ricondurre l’armonia nel concetto dello spirito.

Nella prima epoca della scienza etica, quando essa non avea ancora sorpassati i limiti di una ricerca rudimentale, si era molto lontani da tutte queste complicate e difficili quistioni che abbiamo accennate, ed allora si era tanto sforniti di uno schema psicologico e metafisico, che i concetti generici del volere e dell’intelletto, e i termini astratti di causalità, finalità ecc. non poteano esercitare un’influenza anticipata su la natura delle indagini, e molto meno determinarne i formali presupposti. Improntare ai concetti tradizionali un valore assoluto ed incondizionato, o sostituire a quelli degli altri che fossero più coscientemente appresi, ma non meno evidenti ed immediati nella loro pratica applicazione, e coordinare poi tutti questi varii concetti nell’insieme di una veduta razionale; – questo era allora il problema dell’etica. I Sofisti e Socrate s’aggiravano nel medesimo orizzonte sociale e letterario; e sì gli uni come l’altro erano intesi ad esaminare la natura ed il valore dei giudizii etici, che veniano loro trasmessi dalla tradizione, o imposti dalle reali condizioni della vita. Ma le personali condizioni della coscienza di Socrate erano state tanto potenti, per rivolgerne tutta l’attività alla ricerca di una norma costante dei giudizii etici, e l’avevano tanto allontanato da quei bisogni di pratica sodisfazione, che governano la condotta dei Sofisti, che sebbene fossero vissuti nelle medesime condizioni, e fossero stati sollecitati da motivi identici, solo a Socrate può attribuirsi il merito di aver fondata la scienza; mentre dei Sofisti non può dirsi, se non che essi, nella versatilità della loro natura, avvertirono molto vivamente il bisogno della ricerca etica, senza aver prodotto niente che possa dirsi d’un valore intrinseco e durativo. Non il bene ma i beni formano oggetto della prima ricerca eticaa. Perché possa ridursi ad un solo concetto generale, e si riesca a sostanzializzare una relazione ed un predicato che dapprima si presenta in una molteplicità di situazioni concrete, bisogna non solo che l’attività logica abbia raggiunto un alto grado di perfezione, ed una più intrinseca virtù, ma che l’individuo sia eziandio riuscito ad isolarsi maggiormente dalla tradizione e dalla società, in guisa che rifletta nei risultati delle sue indagini l’ideale isolamento della propria coscienzaa. L’identità del concetto del bene si presenta per la prima volta alla coscienza solo nella denominazione comune dei molteplici oggetti che sono termine o mezzo all’attività; e quello che impronta all’apparente identità un certo carattere di definizione etica consiste soltanto in quella simiglianza di sentimenti di riprovazione o di lode, che costituiscono la naturale coscienza morale. Da questa semplice identità, che esprime la costanza di un giudizio abituale, alla determinazione obbiettiva ed incondizionata di un valore etico ci corre molto; e noi non sappiamo intendere come siansi potute applicare tante vedute, che

risultano dall’ulteriore progresso della scienza etica, all’esame di quei pochi pronunziati che formano la dottrina di Socrate, senza che apparisse chiara la incongruenza del criterio. Per Socrate era tanto impossibile che intendesse la natura del bene, preso per sé ed isolatamente come un concetto di valore assoluto, per quanto abbiamo visto essere inverosimile che egli si proponesse la quistione del sapere in abstracto, ed oggettivamente. La sua ricerca etica è qualcosa d’intermedio fra la comune riflessione morale, e la indagine sistematica poggiata su la norma costante di un sapere logico; sicché segna appunto il termine fra le due sfere, ed il primo passaggio dall’una nell’altra. Questo cercheremo di chiarire. Nella storia della coltura ellenica non si rinviene indizii evidenti di una ricerca etica prima dei tempi sofistici e socraticib. È vero che da Omero ai Tragici, da Talete ad Anassagora, dalle leggende popolari alla severa storia di Tucidide si scorge un continuo progresso nell’imagine della vita etica; e che essendo le tradizioni mitiche ogni giorno più assorbite dalle esigenze religiose, e che allargandosi incessantemente l’influenza dei motivi pratici ed individuali, i Greci pervennero ad esprimere e rappresentare l’insieme delle relazioni morali in una serie di concetti determinati, e di poetiche invenzionic. I concetti della colpa, dell’espiazione, della coscienza morale, della provvidenza presentano un ampio sviluppo, che può tuttora seguirsi nella più gran parte dei suoi momenti, e che può offrire materia ed argomento a lunghe ed interessanti indagini. Ma tutto questo processo lento e spontaneo, che rivela l’influenza di una più larga coscienza pratica, sorta dall’attrito delle stirpi e delle classi, e mostra al tempo stesso indizii chiarissimi di un progresso avvenuto nella riflessione individuale, mercé l’azione di nuovi motivi pratici ed artistici, non può dirsi ancora né ricerca né scienzaa. Il mondo delle relazioni morali era ancora intuito come qualcosa di plastico, era un ordine dato immediatamente nei suoi caratteri essenziali, e che presentava la medesima ferrea ed ineluttabile necessità del mondo naturale. Il primo apparire della ricerca etica non può certo assegnarsi con precisione cronologica, perché fu determinato lentamente da cause successive, che non manifestarono la loro azione in un prodotto istantaneo; e sotto questo riguardo può ammettersi, che la riflessione etica sia più antica dei tempi sofistici. Ma per via di esclusione può e deve dirsi, che i Sofisti e Socrate furono i primi che si proponessero l’esame dei giudizi etici, e che da quel tempo in poi la ricerca etica cominciò a divenire il motivo determinante non solo della filosofia, ma anche di tutta la coltura scientifica ed artistica. La ricerca etica di Socrate non si è incarnata in una teoria sistematicamente esposta, e trasmessa alla posterità in un lavoro letterario. Questa circostanza, che

non è accidentale, e che ha tanta intima relazione con l’altro fatto molto notevole, che la letteratura dei Socratici fu affatto dialogica, avrebbe dovuto mettere in guardia molti critici ed espositori, contro la falsa esigenza di voler trovare in Socrate più di quello che egli potea offrire. L’orizzonte delle sue ricerche rimase sempre qualche cosa di affatto personale, essendo la proiezione di un lungo ed intimo lavoro, diretto allo scopo di compensare con la certezza intrinseca del convincimento l’equilibrio morale ch’era proceduto dalle tendenze arbitrarie dei contemporanei. E per far questo, egli dovette produrre una nuova imagine del mondo, contrapponendo, in un’antitesi insolubile, il campo dell’attività umana alla sfera dell’azione divina nella natura, e distinguendo due ordini di realtà che corrispondessero ai due gradi di conoscenza che gli erano evidenti; quello che concerne il fine pratico del benessere, e quello che riguarda la produttività divina. Questa differenza, appresa in una forma ingenua ed elementare, determinò per la prima volta il valore intrinseco del bene, e valse a predisporre gli spiriti ad un maggiore raccoglimento nella ricerca del valore incondizionato del giudizio etico; ma non per questo dobbiamo noi giudicare Socrate alla stregua delle indagini posteriori. E da un altro canto, le convinzioni religiose trascendevano in lui gli angusti confini dell’etica tradizionale, perché gli offrivano una stregua più larga alla quale potesse misurare i risultati della sua indagine logica. Nondimeno queste convinzioni non possono chiamarsi né i presupposti né le conclusioni metafisiche dell’etica, perché non segnano le estreme diramazioni di svariate ricerche, ma si presentano come prodotto simultaneo ed immediato di una coscienza ricca di attività morale, che impronta nelle diverse direzioni dello spirito un carattere di uniformità e di analogia. Sotto questo riguardo non può dirsi che Socrate abbia coscientemente fatto un’etica, come disciplina speciale e distinta dalla metafisica e dalla religione, ma che essendo arrivato a proporsi la quistione di una determinazione esatta dei concetti etici, riuscì ad isolare la sfera morale dalla naturale, ed a precisarne i caratteri più essenziali e le forme più comuni. Non è senza ragione che siamo tornati su l’argomento della coscienza socratica in generale, perché, ad ogni passo che facciamo nell’esposizione, troviamo qualcosa che non è dottrina; e siamo costretti a confessarci che nella persona di Socrate la filosofia non ha ancora acquistata la potenza di fare dall’un capo all’altro il processo scientifico, e che deve poggiarsi sopra presupposti di una natura affatto immediata. L’etica di Socrate ha radice nell’esigenza naturale della εὐδαιμονία, e mette capo nella rappresentazione della provvidenza come preordinatrice della natura al fine del benessere umano; e dubita tanto poco di questi presupposti, che non ne fa mai oggetto della investigazione scientifica. E di qui procede ancora che il Socrate platonico presenta una maggiore intimità,

perché in quella imagine è espresso il risultato di una consapevolezza logica più approfondita. Ma fino a che punto può ammettersi che con Socrate cominci la scienza etica, se abbiamo tanto insistito su i presupposti non scientifici delle sue convinzioni? La risposta a questa domanda l’abbiamo già data nei due capitoli precedenti, ne’ quali abbiamo espresso nettamente il significato del metodo socratico, non perché fossimo convinti che quello schema logico stesse così isolato e per sé stesso, ma ma perché volevamo assegnare l’elemento speculativo dell’etica socratica. Anzi quella forma non è che forma del contenuto etico; ed il dialogo, che non cadeva mai su la definizione dell’animale o della pianta, del sole o della luna ecc., seguiva lo sviluppo che abbiamo esposto solo nell’intento di determinare i mezzi che conferiscono al conseguimento dell’εὐδαιμονία (definizione dei beni), o le attività morali generatrici delle azioni (natura delle virtù), o gli abiti che ne sono conseguenza (stati della vita). Fino a che punto poi Socrate venisse a modificare molti dei concetti tradizionali, in conseguenza dello sviluppo dell’induzione, e giusta le esigenze della definizione, potrebbe solo vedersi in una storia generale della coltura greca; e a noi basterà notare, che egli non si proponeva altro, se non determinare coscientemente il valore dei predicati e dei giudizi etici. Il risultato della definizione contiene in sé tutto il valore scientifico dell’etica socratica. L’incertezza dei criteri nella valutazione di un bene, nella determinazione del concetto di una virtù ecc., soggiace a tutto quel processo di rettificazione che abbiamo esposto. Nella definizione è data una nuova condizione, un nuovo stato nella vita dello spirito; una certezza superiore alle fluttuazioni dell’opinione è espressa nella cosciente enumerazione delle note costanti d’un concetto. Questa certezza ha il carattere di morale acquiescenza; perché la sodisfazione, invano cercata nella rappresentazione ordinaria di un bene, si ottiene per la prima volta nella evidenza e perspicuità del significato costante del concetto. Il dialogo socratico si esaurisce nella isolata definizione, mercé la quale l’impulso razionale si appaga di un sapere che risponde alla pratica esigenza del momento; senza che lo spirito cerchi ancora di coordinare insieme diverse definizioni, per distinguere in un complesso di risultati speculativi le conseguenze dottrinali dai motivi pratici. La definizione guardata nel suo lato concreto presenta diversi caratteri: l’identità e l’esclusione di ogni altro elemento che possa alterarne e svisarne la natura: la possibilità che venga applicata come sicura norma nell’esame delle umane azioni, con la certezza che quanto vi può essere d’inadeguato alla stessa sia erroneo e falso: la sua immancabile attività, come forza che agisce in un dato senso e per una direzione costante. Sotto quest’ultimo riguardo la definizione è il punto di partenza di tutte

le conclusioni dell’etica socratica. L’esame psicologico degli elementi appetitivi e conoscitivi della natura umana ha da gran tempo cambiata la fisonomia dell’etica, ed ha messo i filosofi nella condizione di cercare in una sfera più larga l’elemento etico del bene. Questa è invece la proprietà essenziale dell’etica socratica, che prendendo essa le mosse dalla rettificazione delle rappresentazioni mediante il dialogo, nella conclusione logica del dialogo stesso trova la natura del bene; ed essendo la ricerca coordinata all’intuizione immediata della natura umana come tendente all’εὐδαιμονία, la conclusione logica è appresa come tutt’una cosa con la potenzialità del bene, ossia con l’energia morale e con l’efficacia pratica che producono la vita perfetta. E da questo presupposto procede quella opinione paradossastica di Socrate, che chi conosce il bene non può non volerlo, e deve necessariamente rigettare il malea. Noi scorgiamo in questa affermazione tutta l’erroneità di un concetto parziale della natura umana; ma pure essa era una naturalissima conseguenza del supposto, che cercando l’uomo il suo benessere non possa rigettarlo quando l’abbia ritrovato.

OSSERVAZIONI Prima di entrare nella specializzata esposizione dell’etica socratica, vogliamo qui aggiungere alcune osservazioni di un valore generale. a) Socrate è stato forse il primo che abbia chiaramente inteso, come il bene non consista in qualcosa di estrinseco, stato condizione o possesso che sia, ma nella coscienza del bene, come mezzo certo per appagare l’esigenza della felicità. Egli ha in tal guisa formolato ed espresso il bisogno dell’intimità, che costituisce il valore personale dell’uomo. Le abitudini, le tradizioni, le doti personali, gli stati e le forme della vita sociale non devono ricevere i predicati etici dall’opinione, ma bisogna che se li facciano improntare, secondo la norma costante del concetto, da una ricerca approfondita e formalmente certa. Questa nuova esigenza è non solo di un gran valore nella storia della filosofia, ma segna eziandio un gran progresso nella coscienza etica in generale, perché ha determinato approssimativamente il valore intellettivo della coscienza morale, riponendo nella consapevolezza l’impulso principale al ben fare. b) Questo bisogno di elevare il concetto del bene ad una più alta potenza, coll’isolarlo dalle forme concrete e storiche, importava solamente una maggiore consapevolezza e normalità nella valutazione dei beni in particolare, non una esclusione o modificazione dell’ethos popolare, dal punto di vista di un ideale di pratica riforma. La sfera dell’etica scientifica non è ancora distinta da quella dell’etica pratica, e tutte le relazioni concrete della vita sociale ricadono nella definizione del bene, conservando le loro proprietà storiche ed elleniche, senza che Socrate tenti d’innovare positivamente l’ordine costituito. c) Ma l’esigenza della consapevolezza avea acquistato in lui tale predominio, e governava sì fattamente le sue pratiche abitudini, che egli facea dipendere il riconoscimento delle forme reali della vita, e di tutte le concrete determinazioni etiche della famiglia e dello Stato da una cosciente adesione risultato dell’esame, mercé la quale l’intrinseca energia dell’animo dev’essere disposta ad una serie di atti conformati tutti inevitabilmente al conseguimento dell’εὐδαιμονία. d) Come la ricerca socratica non raggiunse mai la universalità ed astrattezza del concetto, per questa ragione appunto rimase molto lontana dalla ipostasi metafisica del bene, che Platone determinò in seguito. La natura etica del Dio di Socrate è un prodotto spontaneo dell’esigenza religiosa, ed un risultato in gran parte naturale ed incosciente della coltura ellenica, che non porta con sé, come legittima conseguenza, la equazione fra il concetto di Dio e quello del bene, o la determinazione dell’uno mediante l’altro. Il concetto del bene rimane così limitato come l’esperienza cotidiana ce lo fa apprendere e concepire in tutte le svariate condizioni della vita, ed il nuovo elemento della consapevolezza vale

solo ad approfondire l’intenzionalità dell’individuo nella ricerca del suo meglio, non a cambiare intrinsecamente la relazione fra il soggetto e la obbiettiva natura del bene. e) Essendo la ricerca motivata in tutto e per tutto da una pratica esigenza, e sussidiata da una coscienza logica ancora elementare ed imperfetta, non poté compiere tutto il giro sistematico di un’etica scientifica, e cadde spesso in inconseguenze, o scese ad affermazioni di una natura affatto popolare. Quest’ultimo lato è quello che la tradizione precettistica dei secoli posteriori, per la deficienza di coltura storica e filosofica rilevò con maggiore interesse, finché si finì per attribuire a Socrate tutte quelle massime che sembravano coerenti all’imagine di un uomo moralmente perfettoa. a

In questa determinazione è dato il limite della ricerca socratica. P. es. Platone. b È inutile entrare in polemica coi sostenitori della contraria opinione. c La storia dell’ellenismo non è stata ancora approfondita in questo lato, che pure è uno dei più ricchi e a

dei più attraenti; conf. quanto abbiamo detto a p. 25 e sgg. a Il solo libro completo su questa quistione è il già citato del Nägelsbach, Nachhomerische Theologie, Nürnberg 1857. a Mem. III, 9, 4; IV, 6, 6. a

Molte massime di questo genere sono state raccolte dallo Zeller op. cit. p. 121.

VI

CONOSCERE E VOLERE L’elemento costitutivo dell’etica socratica abbiamo visto esser riposto nella certezza logica ottenuta mediante la definizione. La forma più elementare della ricerca, l’interrogazione sospensiva τὶ ἐστι, va a conchiudersi nella determinazione intrinseca del concetto cercato; e la definizione, come adeguata espressione della consapevolezza, contiene in sé la norma sicura d’ogni pratica attività. Che quel processo ricercativo non uscisse mai dai limiti della vita etica, e s’aggirasse sempre in quella sfera di rappresentazioni tradizionali, nelle quali è espresso un giudizio favorevole o sfavorevole intorno alla volontà ed alle azioni, è cosa che la concorde testimionanza dell’antichità non permette di revocare in dubbioa. L’avversione di Socrate contro la ricerca naturale è uno dei dati storici che più d’ogni altro determina il valore intrinseco della sua coscienza, e l’importanza limitativa della sua filosofia. Ma questa esclusione della natura del campo delle investigazioni venne implicitamente a limitare la ricerca etica, perché la restrinse agli angusti confini di una certezza immediata, la cui pratica applicazione fosse incontrastabile; e fu causa precipua di tante false conseguenze già notate da Aristotele, e che noi possiamo giustificare solo come necessarie fasi storiche del pensiero filosofico. Socrate in fatti non avea coscienza della vera e prima origine d’ogni elemento etico, che è riposta nella naturale costituzione dell’anima; ed avendo limitato le sue indagini a rettificare quei giudizi ed a determinare quei concetti, che erano già evidenti nella coscienza riflessa per la loro morale e pratica importanza, ignorò del tutto quel lato della vita dello spirito che non va immediatamente soggetto ad un giudizio morale, e che costituisce l’oggetto della psicologia. Quando mercé il dialogo egli arrivava alla definizione, avea coscienza della sua vittoria su le riluttanti opinioni degli interlocutori, solo in quanto le sue vedute poteano essere espresse in un giudizio, che servisse di norma alla vita, e di termine a tutte le aporie della ricerca. Egli si lasciava dietro, come indegno d’ogni esame, tutto quell’errare che facea il dialogo in una serie di svariate ed erronee affermazioni, poggiate o sopra arbitrarie associazioni d’idee, o su l’autorità della tradizione; e non si preoccupava punto di tutto quel lato oscuro dell’anima, che vien costituito dallo stato incerto e fluttuante delle rappresentazioni e delle volizioni, prima che offrano materia ed argomento

all’analisi scientifica. Il risultato quindi, sebbene ottenuto per via d’una indagine che avea a superare tante difficoltà e tante incertezze, si presentava in fine come qualcosa di spontaneo, d’immediato, e direi quasi di naturale; perché, inteso come era il filosofo a chiarire dialetticamente il convincimento ch’egli s’era già formato, ed a suscitarlo negli altri, non s’avvedea d’avere innanzi a sé le diverse forme della vita dello spirito, e come in quella varietà fosse appunto riposta la cagione dell’errore. E così avveniva che la logica precorreva la psicologia, anzi l’ignorava del tutto. Tutti quei molteplici stati della vita dell’anima, che precedono la certezza che s’ottiene mediante la definizione, erano da Socrate subordinati all’incerta rappresentazione dell’ignoranzaa; il cui campo era tanto vasto per quanto è svariata ed immensa la moltiplicità dei giudizi e delle azioni umane, che non dipendono dalla consapevolezza del valore e del fine dei concetti ottenuti mediante l’esame. Questa rappresentazione dell’ignoranza non esprime in fondo che l’antitesi generica del sapere; non è un concetto positivo, i cui caratteri siano studiati nella loro natura psicologica e storica, e che valga a precisare scientificamente il valore di quella forma dello spirito che costituisce il sapere. Da questa posizione procedono tutte le conseguenze dell’etica socratica che toccheremo in seguito, e le affermazioni, che la virtù consista nel sapere, che la consapevolezza costituisca per se stessa un valore eticob, e così via; nelle quali non sappiamo scorgere, come altri ha fatto, la influenza del dottrinarismo logico, perché abbiamo già esclusa la opinione di coloro che ammettono in Socrate una coscienza esplicita del principio logico; ma siamo costretti a ravvisarvi le estreme conclusioni di una tendenza pratica di natura affatto esclusiva. Né bisogna che torniamo nuovamente a discorrere dei motivi dell’attività socratica, dei quali abbiamo parlato tanto a lungo, che il nostro modo di vedere non ha più bisogno di chiarimenti.

1. Equazione fra volere e sapere (γνῶθι σαυτόν) L’elaborazione dialogica dei concetti costituisce l’elemento del sapere, il principio della verità. Ma che intendeva Socrate per sapere, e per verità; e che valore attribuiva egli a queste due nozioni? Questo punto bisogna sia chiarito. Con la esclusione delle ricerche naturali, Socrate venne ad affermare due caratteri essenziali del concetto ch’egli s’era formato del sapere. Conoscere quello che non si può produrre, non è conoscere davvero, perché la conoscenza porta con sé l’attitudine al fare; e il sapere umano è quindi sempre coordinato al fine dell’εὐδαιμονία, perché l’uomo sa solo quello che egli ha fatto, fa, o può fare. La natura del sapere non dipende dunque dalla ricerca, e non ne è un risultato; non sta lì sotto gli occhi del filosofo, come un dato che egli prende ad esaminare, per farne un’analisi e ricavarne una teoria. Questo sapere adunque, perché ha un limite costante nella rappresentazione della felicità come fine della vita, non può vagare fra molti oggetti conoscibili, per attuarsi e concretarsi; e non divenendo pratico per elezione del filosofo, ma essendo di sua natura pratico, ha una sfera né più larga né più angusta di quella dell’attività umana, nella quale trova la sua manifestazione, ed il suo contenuto. Di qui procede che Socrate, identificando assolutamente il sapere col fare, ripose nel primo la norma del secondo, ed affermò che tanto l’uomo fa quanto egli sa, e spingendo la cosa più innanzi, disse che l’uomo è tanto e tale, quanto e quale è il suo saperea. E guardando solamente alla natura intrinseca di quelle conoscenze, che si esprimono in giudizi praticamente applicabili, confuse in una sola denominazione generica tutto quello che l’uomo pensa e fa inconsapevolmente, contrapponendo alla sfera del sapere quella dell’ignoranza. Questa identificazione del sapere e del fare, ove si prescinda per poco dalla testimonianza autentica di Senofonte, e si chiuda gli occhi su le condizioni storiche della coltura ai tempi di Socrate, può dare facilmente luogo ad una opinione erronea, come se egli avesse inteso di conciliare coscientemente l’intelletto e la volontà, e rimettere in armonia la scienza con la pratica. Il valore di queste espressioni era allora troppo generico, e non avea ancora raggiunta quella sostanzialità, che rese più tardi così chiari i termini psicologici, da farli apparire nella filosofia aristotelica come gradi, forme o potenze della vita dell’anima. La mancanza di ogni scienza psicologica, e la maniera affatto popolare come questi concetti sono espressi nel dialogo senofonteo, non consentono si ammetta, che Socrate avesse avuto coscienza della opposizione di due sfere dello spirito, e poi tentato ricondurle alla sintesi mediante il

ragionamento. Col porre immediamente il sapere come principio dell’azione, egli non facea, per dirla in linguaggio moderno, che stabilire una relazione analitica fra i due termini, e non mirava ad identificazione sintetica. Poco dopo Platone cominciò a fissare normalmente le diverse forme del sapere, e come analoghe a queste, le diverse parti dell’anima; o pose termine alla indeterminatezza del linguaggio comune, che Socrate non avea superata. Esclusa la cosciente identificazione dei due elementi del sapere e del volere, non solo s’intende bene il valore affatto pratico di questa sintesi, che non è riposta in una teoria psicologica e molto meno dipende da una costruzione metafisica, ma viene eziandio messa in chiaro la natura della verità socratica, che non ha né oggetto né motivo teoretico. Le azioni umane sono tali quali le conoscenze, perché il fine comune dell’εὐδαιμονία cui tutti aspiriamo è variamente inteso, secondo che son varie le nostre tendenze, e diverse le relazioni della vita in cui ci mettiamoa. Quel fine non ha bisogno di esserci insegnato o proposto, perché la natura stessa ci dispone a raggiungerlo. Il vario appagamento del naturale bisogno del benessere, dipende dalla opinione che abbiamo delle cose, da noi credute degne o indegne della nostra approvazione, e dal vario indirizzo che diamo alla nostra attività. Nella opinione che abbiamo di noi medesimi, e delle cose che possono appagarci è riposto il punto di partenza di quel che facciamo e vogliamo; e se l’opinione è falsa, erronea, imperfetta, la nostra attività non può essere degna di approvazione, e merita quindi d’essere corretta. E per uscire da quella incertezza, nella quale ha potuto gettarci una falsa opinione di noi medesimi, bisogna che ci valutiamo più giustamente, e che sappiamo meglio conoscerci. L’antica massima dell’oracolo di Delfo: γνῶθι σαυτόν, che la tradizione avea interpetrata con tante variazioni e commentia, acquistava così per opera di Socrate un significato più profondo e più intimo; e da semplice precetto di religiosa rassegnazione diveniva espressione adeguata di tutta una pratica tendenza, informata all’intrinseco valore della consapevolezza e del convincimento. Questa massima, che spesso occorre nei dialoghi socraticib, ha dato luogo a svariate interpretazioni, ed è in gran parte stata argomento di quella opinione, che fa di Socrate il creatore del principio della soggettività. Nel γνῶθι σαυτόν s’è voluto rinvenire l’affermazione più o meno esplicita della universalità del sapere scientifico, in opposizione col particolarismo empirico e col criterio individuale; e si è in conseguenza detto, che Socrate s’era elevato al concetto dell’umanità, e dell’assoluta libertà del soggetto, contrapponendosi alla storia, alla tradizione, ed all’oggetto naturalec. Senza punto entrare a discutere il merito di una simile posizione, che per alcuni è il cardine della speculazione moderna, e la legittima

conseguenza del Cristianesimo, a noi pare sufficientemente assodato, che essa ripugni del tutto al carattere storico della dottrina socratica, e non sia confermata dalla interpretazione schietta dei testi. Ed accettando in tutto e per tutto l’opinione di uno dei più felici espositori dell’etica grecad, non vediamo in quella massima altro se non l’esigenza, che l’uomo sottoponga la sua capacità e le sue doti naturali al più rigoroso esame, per acquistare una piena consapevolezza dell’indirizzo che deve seguire nella vita. Il valore intrinseco di quella esortazione non cessa d’avere una grande importanza, perché noi escludiamo quella interpretazione, che ha falsamente creduto improntarle un carattere più universale e più filosofico. Richiamando l’individuo all’esame di se stesso, ed a vincere i pregiudizi di stato o di occupazione, Socrate riusciva a sostituire la potenza del convincimento alla educazione tradizionale, ed a suscitare il bisogno dell’intimità, perché invogliava ad un’attività che fosse sempre accompagnata dalla consapevolezza. L’oggetto di quel sapere ch’egli insinuava, il σαυτόν [sautón: te stesso], non era la forma generale e teoretica dell’io, ma la natura reale dell’individuo; e, come questa è sempre coordinata al fine dell’εὐδαιμονία, egli stabiliva per la prima volta il concetto positivo della libertà, ed i limiti della responsabilità. La conoscenza di sé stesso non ha luogo mediante un’apprensione immediata, ma è un risultato dell’esame. Bisogna dapprima cadere nell’aporia, e mettere in discussione il concetto esatto di quello che si prende a seguire, come termine e oggetto della propria attività. La discussione percorre tutti gli stadi che abbiamo esposti parlando del metodo in generale; ed una volta che il concetto è stato fermato mediante la definizione, e determinato chiaramente in tutte le sue attinenze, si tratta in fine di vedere se l’individuo adegui o pur no con le sue personali attitudini le reali condizioni del fine propostosia. La conoscenza di sé medesimo diviene così per l’individuo il reale convincimento della propria attitudine; e mette termine nella consapevolezza del fine cui deve tendere, e dei mezzi per conseguirlo. L’apparente universalità logica del precetto sparisce innanzi alle reali condizioni nelle quali si svolge, e diviene in fine una esigenza pedagogica; mercé la quale il filosofo, suscitato dapprima il bisogno dell’esame, conduce il suo interlocutore a sottostare all’intrinseca virtù della convinzione.

2. Fondamento della pedagogia socratica Nel convincimento dell’assoluta identità del sapere col volere è riposta l’attività educativa di Socrate, che senza contrapporsi dichiaratamente, e mercé un pratico tentativo, alla morale ed alla politica tradizionale, riuscì a portare nel seno della società una tendenza riformatrice, che più tardi s’andò concretando in molte e diverse scuole filosofiche. Socrate avea, già prima di comparire su la scena pubblica, esercitato sopra sé medesimo quel lavoro di esame, che posteriormente consigliava agli altri; ed era arrivato a convincersi della sua incapacità nelle faccende dello stato. Il bisogno di accertare e chiarire il fine della propria opera, e di acquistare una notizia sicura ed infallibile dei mezzi da applicarvi, era divenuto a lungo andare un impulso all’indagine, su i mezzi di che gli altri faceano uso nell’esercizio delle proprie facoltà. E facendo la propria educazione, Socrate era divenuto educatore. Ma come l’esigenza della ricerca non ammette dei risultati improvisati, o imposti semplicemente dall’autorità, egli era continuamente inteso a riprendere la quistione nei suoi primi elementi, tutte le volte che l’occasione gli offrisse materia a discutere di questa o quella capacità e virtù. L’Apologia platonicaa è un documento storico di somma importanza, per ravvisare questo curioso fenomeno di Socrate che educa educandosi, e nell’atto che è incerto di tutto, mediante l’analisi della propria incertezza, produce per sé e per gli altri il criterio della convinzione. Questa attività pedagogica, che era avvalorata dalla personale influenza di un carattere moralmente perfetto, non avea niente di simile con l’arte dell’insegnare, e non era né parenesi né insinuazione retorica. L’esempio, la citazione storica, l’autorità dei poeti e della tradizione, la rappresentazione simbolica e mitica poteano più o meno arricchire e corroborare il dialogo; ma la sua principale efficacia era di natura tanto diversa da quello che comunemente chiamavasi persuasione, che Platone non ha saputo altrimenti caratterizzarla, che dandole il nome di arte ostetriciab. Quella maieutica, che Socrate avea ereditata dalla madre Fanarete, non era che un’arte sussidiaria della natura; atta sì a sostenere e coadiuvare lo sforzo ingenito della produzione, ma non destinata a produrre per sé stessa, o a migliorare i naturali difetti. La consapevolezza della propria capacità o incapacità era la meta cui Socrate volea condurre i suoi interlocutori; e se poniamo mente alla notevole circostanza, che la più parte dei suoi discorsi cadeano o sopra la scelta di una via a seguire, o sul giudizio a portarsi sopra un’azione compiuta, sopra cose insomma che riguardavano immediatamente il benessere dei suoi interlocutori, s’intende bene come la certezza logica che ne emergeva, per la sua novità, e per la sua pratica

occasione dovesse produrre un’impressione molto superiore a quella che altri ha voluto scorgere nel dialogo senofonteoa. E questa attività pedagogica era a quel tempo qualcosa di affatto nuovo, e la sua influenza, presa intensivamente, era di gran lunga superiore a tutto quello che noi generalmente intendiamo per riforma educativa. L’educazione greca s’era trovata fino a quel tempo in piena armonia con la tradizione politica e religiosa, e tutte le modificazioni che avea subite erano state tacitamente introdotte, senza che mai l’individuo si fosse proposto di far predominare le sue personali convinzioni a discapito delle sostanziali relazioni della vita sociale. Tutte le innovazioni artistiche e politiche furono fino al tempo di Pericle così spontanee e naturali, da non far risentire l’influenza individuale, come qualcosa di opposto alle opinioni comuni. La stessa filosofia naturale non era mai uscita dalla sfera di certi uomini privilegiati, e sebbene fosse indizio di un decadimento non lontano della mitologia e della religione, pure non venne mai ad assumere il carattere di un tentativo di riforma pratica. Primi furono i Sofisti, che si servirono delle ricerche filosofiche come d’istrumento educativo, e senza fare dei sistemi scientifici perfetti e conseguenti, perché nessuno fra loro si elevò ad una intuizione originale dell’universo, riuscirono a suscitare il bisogno di una correzione, o di una conferma delle opinioni tradizionali mediante la riflessione. Ricercare, criticare, analizzare, correggere diviene per opera loro oggetto della vita, e materia di un’arte speciale: e, perché mancavano di uno scopo determinato ed evidente, riuscirono maggiormente a far nascere il desiderio delle formali esigenze della ricerca. E da quel tempo l’occupazione filosofica divenne un mestiere; e la società cominciò a scindersi in due campi, stando nell’uno i sostenitori della tradizione, e nell’altro i novatori. Socrate non sopravvisse a questo periodo storico; e, sebbene partecipasse al movimento degl’innovatori, reagì in gran parte contro di essi con la solidità delle sue vedute. Non fu filosofo di mestiere, ma certamente pedagogo, anzi come Aristofane lo chiamava a quel tempo ψυχαγωγός [psychagōgós]a; e facendo della sua vita un problema educativo, con l’educare sé medesimo e gli altri al tempo stesso, mentre poneva termine al dilettantismo sofistico, impedì che la filosofia tornasse ad essere mera ricerca dei fenomeni naturali. La formale esigenza della certezza, divenendo massima pedagogica nel γνῶθι σαυτόν, fermava un punto solido nel quale la ricerca toccava una norma superiore ad ogni divagazione dottrinale. a

Sen. Mem. I, 1, 11; IV, 7, 6. Aristot. Metaph. I, 6. Σωκράτους δὲ περὶ μὲν τὰ ἠθικὰ πραγματευομένου περὶ δὲ τῆς ὅλης φύσεως οὐθέν – e de part. ani. I, 1, τὸ δὲ ζητεῖν τὰ περὶ φύσεως ἔληξε39. Quanto all’opinione contraria dello Schleiermacher, del Brandis, del Ritter, del Süvern, e del Kirsche (*), v. Zeller op. cit. p. 93 e sgg.

a

Ἀμαθία, ved. Mem. I, 2, 49-50; II, 3, 18; IV, 2, 22, ovvero μανία, che una volta è considerata come opposta alla σοφία (ID., III, 9, 6, 7), ed un’altra come diversa dall’ἀμαθία (I, 2, 50)40. b Mem. IV, 2, 19, e sgg. a Mem. IV, 6, 7: ὃ ἄρα ἐπίσταται ἕκαστος τοῦτο καὶ σοφός ἐστιν41. a Mem. IV, 1, 2. a Vedi su questa massima il Göttling nella citata dissertazione Die delphischen Sprüche. b Sen. Mem. IV, 2, 24; III, 9, 6. Plat. Charmid. 164 D; Alcib. I, 124 B. c Stimiamo inutile discutere le opinioni di Schleiermacher, Brandis, Hegel e Rötscher. L’Hermann, Geschichte ecc., p. 240 è molto indeterminato nell’analisi di questo concetto. d Lo Strümpell op. cit. p. 136 e sgg. a Vedi in generale il bel dialogo con Eutidemo, Mem. IV, 2. a Ved. specialmente 20 C - 24 A. b Plat. Theaet. 150 C. In questo luogo la più gran parte dei critici ammette una diretta reminiscenza storica; ma ciò non cambia per niente la nostra affermazione. a Schleiermacher op. cit. p. 295 ha trovato superficiale il dialogo senofonteo, o lo ha stimato incapace di produrre quell’effetto, che Platone fa da Alcibiade attribuire al discorso di Socrate Symp. 215 E e sgg., perché non ha saputo ravvisarvi il carattere concreto e positivo delle cause che lo determinavano. a Aristoph. Av. v. 155542. Ved. sul valore della parola (ψυχαγωγία) «Rhein. Museum», vol. XVIII, p. 473.

VII

LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA Socrate non fu né il capo di una setta, né il fondatore d’una scuola. Vissuto in un secolo di larga produttività artistica e pratica, ed in mezzo ai più svariati elementi di coltura, conservò sempre la fisonomia individuale e precisa di un perfetto ateniese; senza allontanarsi punto da quella maniera di vivere, che, secondo l’opinione dei suoi concittadini, costituiva il pregio ed il buon nome d’una persona lodevole in tutte le private e pubbliche relazioni. Egli non fu dunque quello che comunemente suole intendersi per un riformatore: un uomo, che in virtù d’un individuale convincimento, o in nome d’una divina vocazione tenda a sconvolgere l’ordine costituito della società, per riformare a sua posta le istituzioni, le leggi, e i costumi. Le sue solide convinzioni lo aveano troppo predisposto a riconoscere nell’ordinamento sociale la prudenza e saggezza, che aveano informato l’animo dei legislatori, ed a guardare con animo tranquillo e rassegnato le conseguenze dell’umana corruzione, o, come avrebbe egli detto nel suo linguaggio, dell’umana ignoranza, perché potesse venirgli in mente di farsi riformatore, e rinnovatore dei costumi. Oltre di che, la natura e l’indole stessa della coltura greca non ammetteva che l’individuale genialità si manifestasse in un immoderato tentativo di pratica riforma; perché mancava di quell’elemento arbitrario di trascendenza, che nelle religioni orientali, ed in gran parte nel Cristianesimo stesso ha tanto favorito l’esquilibrio fra la coscienza dell’individuo e la norma costante dell’etica sociale, esaltando troppo la sublimità del precetto, o l’intensità del sentimento, a discapito della sostanzialità e costanza delle forme naturali della vita. La coltura greca era ancora animata dal giovanile abbandono al naturale impeto delle passioni, e dal misurato criterio della prudenza e del benessere; e sebbene in Atene la coscienza riflessa avesse già cominciato a prevalere, e ad assumere un carattere universale, astratto, e ricercativo, pure non avea mai perduto il colorito indigeno, spontaneo, e popolare. Il pensiero s’era svolto in tanta buona armonia con tutto il progresso della coltura, che Socrate, come abbiamo già visto, malgrado le profonde collisioni cui dette motivo, non s’avvide di quanto si discostasse dalle tradizionali convinzioni, e non volle mai essere riconosciuto né come maestro, né come filosofo. Da tutto quello che abbiamo detto innanzi apparisce chiaro, come fosse impossibile, che Socrate riuscisse a determinare obbiettivamente un complesso

di verità scientifiche; e che i pochi pronunziati etici di lui, che la tradizione ci ha trasmessi, non costituiscono per sé stessi né un sistema, né uno schema di scienza morale. E questa posizione affatto relativa delle sue indagini mette più in evidenza, come egli non si proponesse e non avesse coscienza di essere un riformatore; perché la natura delle sue convinzioni non scendeva deduttivamente da un presupposto teoretico ed esclusivo, ma stava in una pratica ed incessante relazione con tutti gli elementi svariati e concreti della vita morale. E se noi cerchiamo di raccogliere e mettere insieme i diversi concetti, che Socrate avea delle varie forme o attività della vita, l’imagine complessiva che si ottiene in fine ha più l’aspetto plastico di un quadro, che la natura di uno schema formale. Ma vorremo noi forse con questo giudizio rigettare come interamente falsa l’opinione che fa di Socrate un riformatore? E sarebbe forse questo il modo, come spiegare ed intendere il gran movimento, ed il gran progresso che egli produsse in tutte le pratiche discipline? La nostra maniera di vedere non è così esclusiva, e noi abbiamo inteso solamente limitare il valore di una affermazione troppo incondizionata, e che non risponde alla natura ed al genuino carattere della coltura ellenica; e metteremo ora più in chiaro il nostro concetto. Le diverse forme della vita privata e pubblica, e le diverse sfere dell’attività umana non erano ancora a quel tempo divenute argomento d’indagini scientifiche, che ne fermassero l’origine, la natura, ed il normale concetto in definizioni d’un valore intrinseco, ed attinte alle costanti condizioni dei fatti. È a Socrate che tocca la lode di un primo tentativo, per acquistare una coscienza precisa e determinata di tutte quelle svariate attività, e di quei molteplici fini che costituiscono nel loro insieme la vita pratica. Non v’ha forma della vita, o relazione etica, che egli non abbia toccata nei suoi discorsi; nei quali sforzavasi, in virtù del suo istinto etico e logico, di chiarire e definire la famiglia ed i suoi elementi, la relazione dell’individuo verso lo stato e verso la legge, le diverse funzioni della vita pubblica, l’esercizio delle arti e dei mestieri. In un tempo, quando non s’avea pur sentore di quello che potess’essere l’economia privata e pubblica, la scienza del dritto, dello stato, o dell’amministrazione, e la tecnica delle arti, era naturale che l’esigenza di determinare i concetti pratici s’avvertisse solo dal punto di vista dell’utilità, e che si spiegasse unicamente nella sua immediata ed occasionale natura. Ed è così appunto che Socrate comincia a tentare una cosciente rettificazione dei concetti di quelle relazioni, che sono termini o forme dell’attività umana; e, prendendo egli le mosse dal bisogno di disporre l’individuo al cosciente riconoscimento della propria attitudine, finì per fissare e caratterizzare alcune differenze obbiettive. Ma, perché il criterio del giudizio non era obbiettivato scientificamente, la determinazione rimase sempre nei limiti già fissati dal linguaggio comune; e la stessa valutazione

dell’importanza relativa delle diverse sfere della vita, fu da lui in gran parte accettata dalla tradizione. Ed è qui appunto che maggiormente apparisce lo stato rudimentale del Socratismo. Da un canto l’impulso scientifico è evidente, e comincia tanto a precisarsi che assume quasi la forma di uno schema logico; il quale, sebbene non sia presente alla coscienza obbiettivamente, pure è un presupposto in conformità del quale il filosofo si sente costretto a procedere: e da un altro canto, tutta la ricchezza dell’immediato contenuto della coscienza etica, sul quale la ricerca si aggira, sta lì disgregata in tutto il suo particolarismo empirico innanzi all’animo del ricercatore, che riesce solo a subordinarlo all’angusto criterio di una formale definizione. Delle due sfere che indicammo innanzi, quella del sapere e quella dell’ignoranza, la prima era troppo angusta e non ancora approfondita e studiata in tutti i suoi elementi, e l’altra troppo larga ed indeterminata, perché segnava solamente un termine generico di opposizione, il cui contenuto era ignoto. Ora, in questa sfera appunto che Socrate chiamava in genere ignoranza, e che noi diremmo della coscienza non ancora riflessa e scientifica, sono riposti i primi elementi ed i naturali presupposti di tutte le relazioni e di tutte le attività etiche, prima che divengano argomento delle indagini scientifiche; e ciò è vero, non solo per quel che riguarda l’individuo, ma ancora, e forse più, per quel che concerne la stirpe, ed il popolo. L’opposizione fra i due termini non s’è palesata a Socrate che in virtù del carattere pratico delle sue esigenze; in guisa che, inteso a cogliere la natura delle forme etiche col semplice criterio di una definizione praticamente e formalmente chiara, egli sconobbe tutto quello che era inadeguato al criterio precedentemente stabilito, perché non cercava altro che la norma costante delle azioni. Come egli fosse poi costretto ad ammettere in parte gli elementi extrarazionali delle virtù vedremo in seguito. Questo lato oscuro della ricerca, che in Socrate era un campo vastissimo, s’è andato poi a poco a poco restringendo; fino a ridursi a qualcosa di puramente puntuale, ch’è espresso nella filosofia moderna dal concetto preciso e determinato della naturalità dell’anima incosciente. Ritornando ora su l’argomento della riforma socratica, ci par chiaro che essa sia doppiamente limitata: e perché le tendenze pratico-religiose del nostro filosofo non consentivano ch’egli sconoscesse la sostanzialità della morale privata e pubblica; e perché la poca perfezione della sua attitudine logica non gli permetteva di determinare intrinsecamente il valore obbiettivo delle forme etiche. Risvegliare la riflessione volontaria ed acuire l’intenzionalità, – ecco lo scopo genuino di quella riforma: e quando da altri s’è detto che Socrate avesse il chiaro presentimento di una teoria sociale, mercé la quale facesse d’uopo di

riformare e regolare col criterio della consapevolezza tutte le diverse attività della vitaa, s’è avuta la fretta d’identificare un risultato più o meno possibile con un semplice impulso individuale e generico. Platone fu invero il filosofo della riforma, ed è in gran parte su la sua autorità che è stata foggiata quella opinioneb. A noi basterà dire che non sconosciamo l’influenza socratica nella tendenza riformatrice del Platonismo; la quale, se pure può accennare all’avvenire o aver l’aria di voler ripristinare il passato, in fondo non è che la naturale esplicazione di quella esigenza socratica, che facea necessariamente dipendere l’attività dal sapere. Abbiamo visto che il precetto deifico γνῶθι σαυτόν non ha un valore esplicitamente filosofico, ma bensì pratico e pedagogico. Nei dialoghi socratici occorre spesso di trovare che le varie direzioni seguite dalla volontà degl’individui sono fatte oggetto di un esame scrupoloso, e che dal riconoscimento della consapevolezza si fa dipendere il criterio fondamentale di ogni giudizio portato su le relazioni etichea. Il lento esame delle contradizioni, che emergono dal falso concetto della propria attività, si esaurisce nella definizione dei caratteri costanti che formano quella determinata sfera in cui s’aggira il capitano, il corazziere, il pittore e così via; ed a questo processo è analogo un altro, mercé il quale si determina l’attitudine dell’individuo, in rapporto con l’opera ch’è termine della sua attività. Queste due ricerche fanno insomma una sola ricerca; in quanto che la rettificazione del volere è implicita in quella del concetto del voluto, perché l’uomo vuole appunto ciò che conosceb. Da questa posizione procede: a) che nel Socratismo non v’ha un valore morale, appreso indipendentemente dalla determinazione concreta delle funzioni pratiche. Quello che noi siamo soliti di chiamare moralità dell’azione è implicita nel giudizio logico, ed ha ancora il carattere di una equazione formale fra il volere ed il sapere. L’esigenza di determinare il grado dell’intimità morale è manifesta solo nel suo elemento intellettuale. b) e che Socrate non sentì il bisogno di determinare in abstracto il concetto dell’εὐδαιμονία; perché la sua significazione gli era evidente solo nel relativismo delle varie sfere dell’attività umana. E per questa ragione appunto egli non riuscì a stabilire una gradazione nelle forme della vita, col preferirne una all’altra: e mentre suscitava il bisogno della consapevolezza, non fece della scienza il solo elemento della felicità; potendo essa, come ogni altra forma di attività, portare con sé il malessere e l’infelicità. Nelle scuole socratiche cominciò a determinarsi più nettamente il concetto dell’intima relazione fra l’εὐδαιμονία e la scienza; finché Platone ed Aristotele non posero la contemplazione come meta d’ogni

umano sforzo, esagerando dottrinariamente una relazione sola della vita a discapito delle altre.

1. L’individuo e le sue relazioni domestiche Il concetto etico del Socratismo non può misurarsi alla stregua dell’intimità moderna; né deve mettersi nel novero di quei tentativi di natura affatto esclusiva, che anche nel seno della civiltà antica hanno avuto di mira la sostituzione di una morale trascendente ai bisogni concreti della vita. Da questa semplice premessa, che abbiamo già cercato di approfondire in tutto il suo valore, procede il carattere indigeno e relativo dell’etica speciale di Socrate. L’opinione quindi ch’egli s’era formata dell’individuo perfetto era in gran parte attinta dalle reali condizioni della vita; e non tendeva a contrapporre alle tradizioni ed alle pratiche del costume una posizione arbitraria. Socrate in vero insisteva sul bisogno della continenza, come sicuro fondamento d’ogni virtùa; e consigliava l’astinenza dai piaceri, perché essi ci rendono scontenti della vita, ed incapaci di affrontare i pericoli per conseguire gloria ed onori. La vera libertà consistea per lui nel fare astrazione dai piaceri del corpo, e nell’esercitare tutte le funzioni della vita in vista dell’interno benessere, che consiste nell’equazione fra gli atti esterni e le interne convinzioni. E rassomigliando egli lo stato dell’uomo che seconda l’appetito naturale dei piaceri a quello dello schiavob, e riponendo poi la libertà nella consapevolezza e nell’amore del saperec, rilevava tanto chiaramente l’importanza intrinseca della coscienza individuale, da stabilirla come criterio costante, e come punto di partenza d’ogni morale valutazione. Ma se da un’altra parte consideriamo che questo rialzare l’individuo al riconoscimento interno della propria destinazione non escludeva il principio affatto ellenico della subordinazione allo stato, e non importava l’esercizio di virtù speciali distinte dal pratico scopo dell’attuazione concreta dei vari bisogni della vita, apparisce chiaro, come il criterio etico di Socrate non fosse che quello della moderazione, intesa quale pratica efficienza. La misura, la chiara coscienza dei limiti dell’individuale capacità e responsabilità, – ecco tutta la morale che può ricavarsi dai detti socratici, che concernono la vita dell’individuo. E Socrate stesso, che senza farsi trascinare dall’attrattiva de’ piaceri, e vivendo nel bel mezzo d’ogni sorta d’uomini godea della mensa e del simposio, della conversazione dell’etera, e della συνουσία [synousía: convivenza] di giovani lussureggianti per dovizie e bellezza, era il più perfetto modello di quella morale moderazione e misuratezza, che cercava poi la sua teoretica manifestazione nel sano criterio di una felice riuscita, o di un imperturbato benessere individuale. Questa morale, che ignora ancora ogni ascetica e mistica tendenza, al tempo stesso che condanna come servile, pericolosa ed ignava, la ricerca degli onori e

delle ricchezze, perché ne può derivare scontento e individuale malessere, è un naturale prodotto della vita ellenica, l’espressione ultima e più riflessa di quel sentimento limitativo e prudente della natura umana, che avea fatto riconoscere nell’ὕβρις [hýbris: tracotanza] la radice ed il principio d’ogni infelicità, e d’ogni morale degradazionea. Sotto questo riguardo, noi non sappiamo con che ragione alcuni insistano su la poca purezza morale di questa idea fondamentale del Socratismob. Dal punto di vista che abbiamo assegnato, non era da aspettarsi che Socrate portasse una notevole riforma nel concetto delle relazioni domestiche, mettendosi in opposizione con le vedute tradizionali. L’eguaglianza di capacità che egli accordava alla donnac non lo indusse a modificare il concetto ovvio fra i Greci, che lo scopo del matrimonio fosse riposto nella generazioned; la quale opinione a noi non pare sia tanto caratteristica, da doverci invogliare a discutere quello che secondo il dialogo senofonteo Socrate pensava delle donne. A quei tempi s’era molto lontani dalla quistione astratta sul valore giuridico della donna, ed ancora più dal sentimentalismo moderno, che a furia di esaltare la nobiltà ed eccellenza del sesso muliebre ne ha resa più difficile la morale emancipazione e dignità: e se ad alcuno fosse venuto in mente d’emancipare le donne, si sarebbe attirata la pubblica riprovazione, come avvenne dei fantastici innovatori messi in satira nelle Ecclesiazuse di Aristofane. È sotto un altro riguardo che Socrate influì ad approfondire il concetto della famiglia, perché a lui indubitatamente compete la lode d’avere pel primo occasionato quelle indagini su la domestica economia, che, con tanta evidenza di socratica dialettica, e tanto studio di pratiche utilità, si trovano poi raccolte in uno dei più originali lavori di Senofonte, l’Economicoa. Il concetto della vita dipendeva per Socrate, in tutto e per tutto, dal principio della consapevolezza; e la costante applicazione di questo criterio non poteva in qualche punto non contradire al naturale sentimento della domestica pietà. Egli in fatti non rifuggì dalla pericolosa opinione di far dipendere la filiale riverenza dal grado di capacità o d’intelligenza, che il figlio può presumere nel padre, autorizzandolo a non sacrificare la propria intellettuale capacità al principio istintivo del rispetto e dell’ubbidienzab. Da questa ambigua posizione seppe trarre partito Aristofane nella interessante catastrofe delle Nuvolec, per improntare nel suo dramma quel carattere di morale severità, che lo eleva dalla sfera ordinaria di un contrasto comico alla estetica dignità di una profonda antitesi etica e pedagogica. Ma se noi consideriamo che il sapere socratico non era quello a difesa del quale Feidippide si ribellava alla paterna autorità di Strepsiade, e che Socrate non volea, come l’aerobato di Aristofane44, mettere in

su i giovani con le vanità di metriche e retoriche disquisizioni, e con le vuotaggini di una metereologia da chiappanuvole; se in somma poniamo mente alla natura affatto pratica del sapere socratico, ed alla naturale modestia dalla quale era sostenuto ed animato, intenderemo un po’ meglio quella massima pericolosa, e non la misureremo alla stregua di un effetto patetico e drammaticod. Il dritto paterno presso gli Ateniesi era altrettanto lontano dal rigorismo romano della patria potestas, per quanto si discostava dal sentimalismo moderno: il concetto della tutela ne costituiva l’elemento essenziale, e a quella potea essere in molti casi sostituita la più ampia e più generale tutela dello Stato. Le leggi positive limitavano così strettamente l’autorità del padre, che non senza ragione un profondo conoscitore del dritto greco ha saputo ridurla al semplice concetto di una funzione educativae. L’opinione adunque di Socrate non era estremamente contraria al concetto comune, e non facea che amplificare, nella forma speciale delle nuove esigenze filosofiche, la limitazione tradizionale dell’autorità paterna. E con ciò non abbiamo inteso giustificare, ma solo spiegare l’origine di quella massima pericolosa; ed a persuadersi del suo valore relativo basterà osservare, come Socrate in altra circostanza ritenesse per obbligatoria in tutti i casi la riverenza verso la madrea. L’attività pedagogica di Socrate portava necessariamente con sé l’abito del convivere (la συνουσία) coi giovani, ed offriva argomento ad una ricerca su la natura dell’amore. La relazione affettiva fra persone del medesimo sesso, che è tanto estranea alla coscienza moderna, era presso i Greci ammessa e riconosciuta dall’opinione generale, e non solo celebrata nel suo lato patologico ed estetico dai poeti e dalle poetesse, ma in alcuni luoghi determinata dalle leggi positive dello statob. Quell’affetto era considerato nella sua pratica efficacia come uno degli elementi del vasto concetto dell’eteria, che formava uno stato intermedio tra la famiglia e lo stato45 e, non essendo assolutamente escluso dalla lode e dall’etica approvazione, come avviene nel mondo moderno, si prestava a tutta quella gradazione di perfezionamento estetico, che in molte altre passioni dell’animo ora non si trova difficoltà di ammettere. Socrate non ha saputo rigettare, ma solo correggere questa comune opinione; e, sebbene il Simposio di Platone sia lì a glorificazione della morale temperanza di lui, pure noi non possiamo negare che l’elemento patologico dell’amore, ed il compiacimento estetico nella συνουσία coi giovani costituisse un elemento integrale della conversazione socratica. Egli in vero, applicando i suoi concetti etici, volea esclusa dalla relazione erotica ogni intemperanzac, e stabiliva come criterio del vero amore la ricerca dell’altrui bene, l’abnegazione, e la rinunzia al fine interessato del proprio compiacimento; ma con tutto questo non escludeva a

nostro parere il carattere affettivo della relazioned, e non condannava in principio una tendenza; che poi nella letteratura socratica venne a spiegarsi in tanto lusso d’estetica perfezione. è sotto un altro riguardo che Socrate approfondiva il concetto della relazione fra persone del medesimo sesso; determinando cioè la natura dell’amicizia, e facendola consistere nell’incondizionata ricerca dell’altrui bene, e dipendere dalla inevitabile condizione di una virtù appensata ed abitualea. L’ἔρως [érōs] da un canto e l’amicizia dall’altro pare che tendano ad unificarsi nel criterio comune della benevoglienza; ed a noi che possiamo, in tanta scarsezza di notizie, cogliere solo il lato logico della definizione, rimane oscuro il carattere preciso della prima relazione, perché nella nostra morale coltura siamo generalmente sforniti del criterio ellenico dell’assoluto compiacimento esteticob.

2. L’individuo e lo Stato Nel concetto che Socrate s’era fatto dello stato apparisce più vivamente che in qualunque altra delle sue definizioni, il contrasto che correa fra la novità delle sue filosofiche esigenze, e la naturale tendenza alla conservazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal convincimento religioso, e da una profonda abnegazione. Il principio normativo della consapevolezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti, potessero costituire la capacità dell’individuo a trattare le faccende dello statoc. Solo la piena coscienza della propria capacità, e la speciale conoscenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l’individuo ad una legittima ambizione politicad; e questa diviene per se stessa un dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento che l’attitudine e la specifica intelligenza dell’individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. All’attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta notizia degli obblighi speciali che spettano a questo o a quello fra gli amministratori dello stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio, che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L’importanza di questa massima innovatrice ci fa apparire l’attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca, perché in virtù di essa, il dritto ereditario della monarchia, e dell’aristocrazia, ed il concetto democratico della maggioranza erano recisi nella loro radice, e subordinati alla necessità di una generale rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevolezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tanto oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto questo l’esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sapere di cui parlava Socrate non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie universali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la costituzione di uno stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere sociali fossero determinate dal concetto psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha colorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esigenze della vita per regolarle a sua posta, ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la originalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui procede che, malgrado l’apparenza di una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l’ubbidienza alle leggi come impreteribilea, e, fedele all’antico

principio ellenico della sostanzialità dello stato, fece dipendere il bene dell’individuo da quello della comunitàb, e considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento che la condanna pronunziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione dell’attività dello statoc. L’opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e l’esigenza di una personale sodisfazione nello stato si chiarì maggiormente nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non deve essere inteso, né come ripristinazione dello stato doricod, né come un segno precursore del Cristianesimoa, ma conviene sia spiegato come un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell’esercizio speciale delle diverse arti che conferiscono al pubblico bene, o al mantenimento delle sociali relazioni. Una sola è l’idea fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui l’attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell’individuo all’acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l’arconte, il marinaio ed il generale ecc., per quanto varie le loro occupazioni, e diversi i fini cui sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell’esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo, perché in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola conclusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo che abbia nettamente formulata l’esigenza di una tecnica speciale delle arti, e ravvisata la necessità che a capo di ogni pratica occupazione deva esser collocata la riflessione normativa: e, per le cose già esposte, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero, perché altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teoria, l’arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare che la meraviglia con la quale molti hanno riguardato il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodotab non ha fondamento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione di Socrate fosse la ricerca dei concettic, né può essere inteso come interamente derisoriod, perché l’ironia è un momento generale della conversazione socratica, mostra a nostro parere che il mestiere della meretrice potesse anch’esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio socratico di un esercizio normale e riflesso.

Quell’arte non destava allora gli scrupoli esagerati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettisticaa; anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado di coltura superiore di gran lunga a quello della donna legalmente ritenuta nelle angustie del giniceob. E a terminare questo schizzo della coscienza politica e sociale di Socrate osserveremo, che egli, col rilevare l’importanza dell’attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli elementi costitutivi dello stato e della famiglia. Questa veduta era allora qualcosa di nuovo, perché diretta a reagire contro un pregiudizio fondato nella costituzione sociale dell’antica Grecia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna dell’uomo libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole Senofontec, o per ingiusta come vuole Platoned, l’offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti dai vari espositori noi non sappiamo affermaree. Ad ogni modo l’autorità di Senofonte ci parrebbe da preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata, e priva di ogni verosomiglianzaf. a

Strümpell op. cit. pp. 137 e 142. Lo Strümpell crede in fatti op. cit. p. 36 necessario valersi principalmente dell’autorità di Platone,

b

come di colui che più ha inteso il valore riformatorio di Socrate; ma non è forse questo un circolo vizioso? a Mem. III, 6, e IV, 2. Conf. Apol. Plat. 21 C e 29 E. b

Mem. IV, 6. 7: ὃ ἄρα ἐπίσταται ἕκαστος τοῦτο καὶ σοφός ἐστιν43. a Mem. I, 5, 4. b Mem. I, 5, 3; Id., 6, 5; II, 1, 11, ecc. c Mem. IV, 5, 6. a Conf. Dronke op. cit. p. 42; Pfander op. cit. p. 28; e ved. Steinthal nella «Zeitschrift für Völkerpsychologie», vol. II, p. 303. b P. es. Zeller op. cit. p. 108. c

Sen. Symp. 2, 9. Mem. II, 2, 4. a Ved. Strümpell op. cit. p. 145, il quale a nostro parere è stato il primo che abbia messo in piena luce l’elemento filosofico e socratico degli scritti di Senofonte op. cit. pp. 482-509. b Mem. I, 2, 49-55. c Nub. dal v. 1320 in poi. d Questo difetto c’è nel Köchly op. cit. passim. e Hermann, Privatalterthümer, § 33, 2a ed. a Mem. II, 2. b Ved. il citato Hermann, § 29. d

c

Sen. Symp. 8, 12 e sgg. e conf. Mem. I, 2, 29 e sgg. 3, 8; e II, 6, 31. Questa è anche l’opinione dello Zeller op. cit. p. 58. a Mem. II, 4, 6 e sgg.; Id., 6, 21-29. b Ved. il Jacobs, Vermischte Schriften, vol. II, p. 251: «Jene Sitte enthält eben so, wie die Liebe zum d

andern Geschlechte, alle Elemente des Edelsten und des Nichtswürdigsten, der Tugend und des Lasters, des Besten und des Schlechtesten in sich»46. c Mem. III, 5, 21; e 9, 10; e conf. Ibidem, I, 2, 9; e Plat. Apol. 31 E. d

Mem. III, 6; e IV, 2, 6 e sgg. Mem. IV, 6, 6. b Mem. III, 7, 9. c Mem. IV, 4, 4; Plat. Apol. 34 D e sgg.; e conf. Phaed. 98 C e sgg. d Come vuole l’Hermann. a Come vuole il Baur. Ved. su questa quistione lo Zeller, Der Platonische Staat, in seiner Bedeutung für die Folgezeit, nei cit. Vorträge ecc., pp. 62-82. b Mem. III, cap. 11. c Come fa lo Zeller op. cit. p. 75 not. 2a. d Questa è l’opinione di Brandis, Entwickelungen ecc., p. 236, not. 49. a Vedi su questo argomento l’Hermann, Privatalterthümer, § 29, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John, The Hellenes, the history of the manners of the ancient Greeks, Londra 1844, vol. II, p. a

42. b

Ved. Jacobs, Vermischte Schriften, IV, p. 379 e sgg. Mem. II, 6, 35 e conf. III, 9, 8. d Crit. 49 A e sgg. e conf. Rep. I, 334 B e sgg. e Questa è anche l’opinione dello Zeller op. cit. p. 114. f Il Meiners, Geschichte der Wissenschaften, II, p. 456 (*)47, pone una distinzione arbitraria fra il male c

arrecato sensibilmente all’inimico, e quello che può toccare il suo benessere interno, negando che quest’ultimo sia incluso nel κακῶς ποιεῖν [kakōs poiêin: fare del male] di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il pensiero di Socrate. Conf. lo Strümpell op. cit. p. 179, che ha tentato supplire Senofonte col Gorgia 481.

VIII

DELLE VIRTÙ Le svariate relazioni etiche in cui s’impronta la volontà, e che costituiscono le diverse forme della vita privata e pubblica, si trovano già distinte e fino ad un certo punto precisate e valutate dal linguaggio comune, prima che la riflessione filosofica imprenda a spiegarle e definirle. Ed in quello stato puramente tradizionale ed immediato Socrate le avea colte, per astrarre dall’imagine concreta alcuni tratti notevoli, e fermarli poi in un concetto che esprimesse il risultato del processo dialogico. Questo risultato non può dirsi ancora scienza positiva dello stato, del dritto, dell’economia ecc., perché sfornito di quelle obbiettive relazioni che emergono dal valore ideale dei concetti, il quale s’ottiene solo quando non s’ha tutte le volte a ricominciare il lungo ed intricato cammino dell’induzione. Socrate in somma riuscì solo ad avvertire il bisogno della determinazione, ma non fece né poteva fare l’etica nelle sue concrete determinazioni, a quella stessa guisa che non avea potuto elevarsi al concetto astratto del sapere. Ma oltre a queste forme concrete della vita etica, che s’impongono alla considerazione con certi limiti determinati, perché in esse effettivamente s’aggira tutta l’umana attività, v’ha altre rappresentazioni elementari che esprimono un valore etico, e son quelle che costituiscono le diverse virtù. Già prima che apparisse in Grecia la ricerca scientifica, quelle rappresentazioni aveano occupato l’animo de’ poeti, degli oratori e degli storici; ed aveano assunto nelle loro sentenze il carattere preciso di una costante valutazione, che esprimeva, o nella forma entusiastica della fantasia poetica, o nella gravità d’un giudizio morale, in che conto fossero tenuti gli abiti virtuosi come predeterminanti l’esito buono o cattivo delle imprese. Non è questo il luogo di esporre, nemmeno sommariamente, il ricco sviluppo del concetto delle virtù nella letteratura greca innanzi Socrate; ma bisogna pur nondimeno escludere un falso concetto, che s’ha comunemente della coscienza ellenica da tutti coloro che partono dalla supposizione che le nostre idee morali debbano servire di assoluta norma nella interpretazione degli antichi. La parola ἀρετή [aretē´] vuol dire in generale virtù, come forza, capacità, attitudine, disposizione, senza che implichi originariamente una valutazione favorevole. Questo significato primitivo è evidente in Omeroa, e sebbene si fosse posteriormente modificato fino ad esprimere un valore strettamente morale, la

parola conservò sempre il senso largo ed indeterminato che avea dapprimab. Ora in questa storia estrinseca della parola è espresso l’approfondirsi successivo della coscienza, che, creando un nuovo valore, l’appercepisce nella forma antica e con l’antico istrumento. Lo sviluppo della significazione ha un doppio aspetto: da un lato la virtù, come naturale attitudine, viene distinta in una doppia serie di predicati esprimenti approvazione o riprovazione; e dall’altro, il sentimento inerente alla rappresentazione di questa e quella virtù acquista una sempre maggiore intensità, a misura che la coscienza del valore intrinseco dell’uomo diviene più intima. Cogliere il primo lato di questa progressione nei diversi scrittori è facile dal punto di vista puramente critico e filologico; ma determinare il secondo è cosa molto ardua, perché importa una ideale riproduzione del tenore e del colorito proprio e specifico di una data intuizione della vita, che non può ottenersi sempre senza l’intrusione di elementi estranei. Studiare sotto questo riguardo lo svolgimento dell’etica greca è cosa che supera di troppo le forze separate dei filologi e dei filosofi; mentre è questo un problema di somma importanza non solo per la storia della morale, ma per la psicologia in generale. Il significato incluso nei diversi nomi delle virtù era già divenuto al tempo di Socrate qualcosa di preciso, e la coscienza era già assuefatta a vedere in esse dei caratteri costanti, ed a stabilire diverse relazioni fra le varie virtù, per esprimere in una veduta generale il valore della vita nella sua perfezionec. Ma, oltre a questa coscienza volgare, un’altra tendenza più riflessa cominciava a governare gli spiriti, e ridestava il bisogno di escludere l’intervento soprannaturale, per spiegare le azioni umane come prodotto necessario delle umane passioni. Nella letteratura extrafilosofica basta por mente a Tucidide, per persuadersi di quanto poco valore s’accordasse più al destinoa; per non dire di Euripide, che la più gran parte dei critici considera piuttosto come un organo volontario della Sofistica, anziché come espressione spontanea di un nuovo progresso nella riflessione morale. La quistione esplicitamente dottrinale su le virtù comincia coi Sofistib. Il movente della quistione era in essi il bisogno pratico dell’insegnamento e della propagandac. Piegare l’uomo all’esercizio di certe arti o discipline mediante la persuasione, la quale riposava in gran parte nell’abilità oratoria del maestro a saper mettere sotto gli occhi i vantaggi di questa o quella scelta, era uno dei capi principali dell’attività sofisticad. In questa tendenza, che assumea i caratteri tanto diversi della insinuazione, della passione politica, della esercitazione retorica, e della parenesi morale, si specchiano luminosamente tutte le gradazioni di quella classe d’uomini speciosi, i quali, se pure non hanno fatto fare un sol passo alla coscienza morale, hanno indubitatamente il merito di avere ventilate delle

quistioni affatto nuove, e di averle trattate con pratica efficacia. L’incarnazione tipica delle virtù nelle forme del mito e della leggenda, avea perduto molto del suo valore; e la democrazia ateniese avea distrutta la cieca fede nei pregiudizi di casta, che consideravano come ereditarie le virtù. Il bisogno del tempo era di ritrovare nei generali elementi della natura umana i caratteri costanti dell’animo, che costituiscono la natura e l’esercizio delle virtù; e come già s’era tentato più volte di stabilire fra le diverse attitudini dell’uomo un legame di dipendenza e di derivazione, bisognava ancora fare il tentativo di coordinarle in uno schema formale. Vediamo come Socrate abbia corrisposto a queste esigenze.

1. Il concetto della virtù nell’orizzonte socratico La determinazione del concetto della virtù dipende nell’orizzonte socratico in tutto e per tutto dalle condizioni logiche della ricerca, ed ha un termine fisso nella rappresentazione dell’εὐδαιμονία. Il processo dialogico, tutte le volte che il discorso cade su le virtù, prende le mosse dalle concrete relazioni della vita nelle quali esse si manifestano, e cerca di coglierne i caratteri costanti, escludendo successivamente le false determinazioni che provvengono dall’intrusione di elementi accidentali, o dall’intervento di una falsa valutazione. Le virtù divengono quindi tanti oggetti di ricerca, ai quali viene applicato il metodo di rettificazione che più sopra abbiamo descritto. La volontà, come termine esprimente una potenza dello spirito, o una determinata funzione dello stesso, è estranea alla ricerca socratica; la quale considera le svariate attitudini che costituiscono le virtù solo nella loro concreta attualità, la giustizia nelle forme giuridiche dello stato, il coraggio nella guerra ecc. L’attività umana segue sempre in tutte le sue svariate manifestazioni certe vie più o meno determinate, che hanno per fine questa o quella sfera della realtà, e tutte insieme hanno per termine l’aspirazione al benesserea. Questa molteplicità non è ancora ridotta da Socrate al concetto della potenza unica (il volere), ed egli non fa astrazione dal termine reale in cui questa o quell’attività va a compiersi; perché il suo intento non era quello di spiegare ma di definire solamente la virtù, in quanto abito determinato, e direzione costante. L’esigenza avvertita già dai Sofisti, che dovesse tentarsi la definizione delle virtù, era in Socrate modificata non solo dalla costanza e normalità del metodo ricercativo, ma eziandio dal carattere più intimo della sua coscienza, avendo egli nell’intensità dei suoi religiosi convincimenti rialzato di molto il valore intrinseco della moralità. Ora questo accento di maggiore intimità, che ha la sua ragione in un concetto più profondo dell’importanza dell’uomo e della religiosità della vita, non ha bisogno di essere messo in chiaro con l’autorità di questo o di quel passaggio, perché è troppo evidente nel Socratismo. Questa personale intensità del proposito e questa più chiara convinzione della importanza della normalità nelle azioni non fecero di Socrate un precettista, perché la sua coscienza era estranea ad ogni predominio della soggettività.

2. Identificazione della virtù e del saperea Abbiamo già mostrato come Socrate sconoscesse tutto il lato irriflesso della vita dello spirito, per dar valore solo a quello che trova la sua espressione nel sapere. Il concetto quindi della virtù non gli è apparso in tutta la sua larga sfera psicologica, ma solo negli angusti limiti della formale determinazione. Questa è la cagione del principio tante volte ripetuto nei dialoghi socratici, che la virtù consista nel sapere, e che possa apprendersib: il cui correlativo è che il vizio sta nell’ignoranzac. Così il complicato concetto della virtù non rivela nella dottrina socratica che un suo lato parziale, quello appunto che colpiva maggiormente l’attenzione da quel punto di vista della ricerca. Correggere la falsa opinione che gl’interlocutori potessero avere di sé medesimi, e richiamarli al riconoscimento di una stregua costante nella valutazione della propria opera e del fine della propria attività, questo costituiva il significato morale del dialogo. Una volta raggiunta, mediante la definizione, la evidente conoscenza dell’attività o del fine in quistione questo conoscere chiaro diviene di necessità una nuova condizione per tutto il processo pratico incluso nella norma formale. Esclusi quindi i motivi accidentali, che possono determinare all’azione nella sfera dell’ignoranza, non v’ha che delle condizioni necessarie ed impreteribili, giusta le quali l’attività dell’uomo determinata ad un certo fine deve esplicarsi. Tutte queste condizioni coincidono in un carattere comune, che è quello del sapere, come sicura vittoria su l’incertezza dei criterii pratici, ch’è inseparabile dall’ignoranza; sicché tutte le virtù fanno uno nel concetto del sapere. Ma questa riduzione, che c’è lì come esigenza di colui che ricerca, non si obbiettiva in uno schema di relazioni, che esprimano la reale connessione e coordinazione delle attività etiche nell’animo, o nel mondo dell’attività umana: perché quel sapere non è per sé stesso attivo come forma o funzione. E quindi quando Socrate dice che la giustizia è la conoscenza di tutto quello che in ordine allo stato costituisce l’utile, il benessere e la concordiaa, e che la pietà è la conoscenza di tutto quello che costituisce la vera relazione fra l’uomo e la divinitàb, il termine che deve chiarire la cosa non è per sé stesso evidente ma attinge la sua concreta determinazione dalla cosa stessa. La pretesa identità di tutte le virtù pare così che si sciolga in una molteplicità di virtù, che sono tante quante le definizioni che risultano dal dialogo, tutte le volte che esso è rivolto ad analizzare e determinare un dato gruppo di azioni. Ogni virtù diviene un complesso di conoscenze chiare ed evidenti, relative alla specializzata attività del capitano, del giudice, dell’economo ecc. Ma questa

oscillazione fra l’unità e la molteplicità è superata con una concreta determinazione secondo la quale, non essendo la σοφία [sophía: sapienza] o la σωφροσύνη [sōphrosýne: saggezza] una virtù speciale, ma l’armonica compenetrazione di tutte le virtù nell’individuo perfetto, rimane aperto e libero il campo a ciascuno per l’esercizio speciale di questa o quella virtùc. Questa posizione e difficoltà pratica del problema non ci consente di tentare sul serio, come s’è fatto da altrid, una classificazione delle virtù cardinali e tutto al più si può ammettere che, essendo già stata precedentemente espressa nei monumenti letterarii e nei detti della sapienza volgare una certa enumerazione e coordinazione delle virtùa, quelle forme approssimativamente schematiche avessero implicitamente determinato come termini costanti il dialogo socraticob. E quindi avviene, che non senza ragione noi scorgiamo ancora la coincidenza delle definizioni socratiche con certe classificazioni delle virtù che allora erano comuni, e che possiamo ridurre le definizioni delle virtù nella dottrina di Socrate a tre fondamentali, la continenza (ἐγκράτεια [enkráteia]c), il coraggio (ἀνδρία [andría]d), e la giustizia (δικαιοσύνη [dikaiosýnē]e). Ma questa classificazione, che non è per niente sistematica, non abbraccia la totalità delle virtù di cui è parola nei dialoghi socratici, come è quella p. es. dell’εὐσεβής [eusebē´s: pio], che consiste nella conoscenza esatta di tutto quanto si deve agli Dei. Il concetto della virtù socratica ha una doppia misura. Avendo Socrate riposta l’essenza della virtù nella consapevolezza, ed ammettendo che la conoscenza è divinamente predeterminata al bene, egli riusciva a stabilire una più larga valutazione dell’elemento morale del volere, perché quello che apparisce buono nella sfera comune della vita intanto può essere corretto alla stregua della conoscenza, in quanto che questa nella sua intima natura corrisponde ad un fine superiore ad ogni umano arbitrio. Socrate quindi, mentre conservava in gran parte quell’imagine plastica ed immediata della vita, che la comune maniera di vedere gli avea trasmessa, accennava al bisogno di una maggiore intimità; e, sebbene portasse nelle sue convinzioni teleologiche tutte le vedute relative dell’utilitarismo, non può negarsi, che, con l’avere allargato il problema dell’etica ad una generale intuizione della divinità e del mondo, ha in parte predeterminata una più profonda cognizione del bene. Il compiacimento incondizionato nella bontà della virtù è stato formulato per la prima volta da Platonef, il quale fu guidato da un senso più estetico alla soluzione del problema etico.

3. Ignoranza degli elementi naturali La perspicuità formale del concetto della virtù esaurisce tutto l’interesse scientifico di Socrate, e segna il limite della sua ricerca. In questa posizione si scorge evidentemente un difetto cardinale, che consiste nella insufficienza del concetto del sapere per spiegare ed intendere che cosa sia la virtù, e come si formi e si sviluppi; e da questo difetto deriva una necessaria inconseguenza in certe determinazioni speciali. Il difetto è stato già notato da Aristotelea, e l’inconseguenza apparisce chiara a chiunque legga i Memorabili di Senofonte. L’esigenza regolativa della definizione apparisce a Socrate come la sola via sicura, per raggiungere la cognizione certa e costante del concetto delle virtù. Questo punto di vista era storicamente e psicologicamente determinato dal bisogno di correggere normalmente le ambiguità della coscienza comune. Ma, per un equivoco non infrequente nella storia della filosofia, Socrate si trovò indotto a confondere l’istrumento di cui si serviva con l’oggetto al quale l’applicava, ed obbliando la concreta varietà delle naturali attitudini e delle favorevoli o sfavorevoli circostanze, come la virtù gli era palese nella sfera del sapere evidente, disse che la virtù consiste nel sapere. L’esclusivismo di questa veduta non può dirsi dottrinario, perché Socrate non avea coscienza del sapere obbiettivamente, ma è certo la forma più spontanea ed immediata di quel dottrinarismo, che fu limite insuperabile della coscienza filosofica degli antichi. Solo quando si voglia prender le mosse da una larga esperienza dei fenomeni psichici si può riuscire a determinare la normale formazione, ed il graduale sviluppo dei concetti etici; la cui energia come impulsi all’azione è innegabile, senza che per ciò possa dirsi che l’attività non è che l’estrinsecazione della conoscenza. L’incongruenza logica fra le due sfere dell’azione e del sapere è tanto patente, che Socrate stesso, e forse senza avvedersene, fu costretto ad ammettere degli elementi extrarazionali, affermando che ogni virtù derivi dall’eserciziob, ed ammettendo che le naturali disposizioni conferiscano molto alla virtù del coraggioa. Ma come mancavagli ogni notizia del problema psicologico, e l’uso affatto occasionale dell’induzione non l’avea fornito di un istrumento logico completo e perfetto, così avvenne, che l’osservazione positiva di queste circostanze reali non divenne argomento per correggere la falsa ed astratta opinione che la virtù sia identica al sapere. Aristotele, che col suo consueto accorgimento ha notato il difetto della dottrina socratica, fu inteso a spiegare psicologicamente l’origine di quella coscienza difettosa etica, che Socrate avea appercepita col termine generico d’ignoranza; e, come fu il primo ad avvertire la necessità di uno studio scientifico della vita dell’anima, portò nel

campo etico tutto lo schematismo della psicologia. E pur nondimeno, la distinzione fra l’intelletto attivo e passivo, e tutto l’apparato delle facoltà dell’anima, non valsero a salvarlo dal falso dottrinarismo logico di che abbonda la sua eticab. a

Ved. Döderlein, Lexicon Homericum, n. 536; e per l’etimologia il Curtius, Griechische Etymologie, p.

317. b

Così anche presso gli scrittori posteriori a Socrate, p. es. Platone, ved. Ast, Lexicon Platonicum, s. v. ἀρετή, e segnatamente Crito. 117 B; Rep. I, 335 B; Ibidem, 353 B; Gorg. 506 D, ecc. c Il Göttling, nella citata dissertazione Die delphischen Sprüche, ha cercato di mostrare come i sette famosi proverbi, che erano scritti alla porta del tempio delfico, formassero già un insieme di vedute etiche, una specie di catechismo delle virtù cardinali, un eptalogo insomma dell’ellenismo. Conf. in generale il Nägelsbach, Nachhomerische Theologie, p. 229 e sgg. a

Conf. specialmente Wigand, Das religiöse Element in der geschichtlichen Darstellung des Thukydides, Berlin 1829. b Conf. le parole caratteristiche di Platone, Rep. X, 600 E, e risc. Prot. 118 E, e Gorg. 520 E. Quanto all’opinione contraria dello Schneidewin loc. cit. non stimiamo opportuno farne qui argomento di polemica. c

Plat. Men. 91 B, 95 B; Gorg. 519 C; Soph. 223 A. Su la dottrina delle virtù secondo i Sofisti ved. Zeller op. cit. vol. I, 3a ed., p. 910 e seg; e Schanz, Die

d

Sophisten nach Plato, Göttingen 1867, pp. 118-12248. a Conf. Mem. IV, 1, 2 e sgg. a

La dissertazione del Dittrich, De Socratis sententia «Virtutem esse Scientiam», Brunsbergae 1858, contiene una larga raccolta di luoghi di Platone e di Aristotele; ma le illazioni di quello scritto hanno poco a fare col Socrate della storia. b Sen. Mem. III, 9, 5: ἔφη δὲ καὶ τὴν δικαιοσύνην καὶ τὴν ἄλλην πᾶσαν ἀρετὴν σοφίαν εἶναι49 e sgg. Ibidem, II, 6, 39. c

Plat. Lach. 194 D: ἕκαστος… ἃ δὲ ἀμαθής ταῦτα δὲ κακός. La definizione ch’è presso Diogene

Laerzio raccoglie in una forma più concisa il pensiero socratico, ved. II, 31: ἔλεγε δὲ καὶ ἓν μόνον ἀγαθὸν εἶναι, τὴν ἐπιστήμην, καὶ ἓν μόνον κακόν, τὴν ἀμαθίαν50. Non crediamo né opportuno né necessario imprendere una polemica contro coloro, che, mettendo da banda la testimonianza di Senofonte e di Aristotele (Eth. ad Nicom. VI, 13, 3; Ibidem, VII, 13, 5; Eud. I, 5; conf. Nicom. III, 8, 6) si sono sforzati di mostrare che Socrate riponesse in una istintiva e divina ispirazione il fondamento della virtù. Ved. special. il Mehring, il quale nel suo articolo Sokrates als Philosoph, che è una recensione del libro di Lasaulx, nella «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», vol. 36°, fas. 1°, pp. 81-119, fondandosi sopra una falsa interpetrazione del Protagora, e sopra un luogo molto equivoco del Menone, nega che Socrate tenesse la virtù per cosa che possa apprendersi conf. Ibidem, p. 100 e sgg. a

Mem. IV, 6, 6. Mem. IV, 6, 4, 6. c Sul concetto della σωφρσύνη ved. Mem. III, 9, 4; IV, 3, 1. Conf. Zeller op. cit. p. 99. d P. es. Kühner, Proleg. ad Xenoph. Memor., 2a ed., Gothae 1857, pp. 4-10; Hurndall op. cit. p. 29 e sgg. b

ecc. a

Ved. il citato Buchholtz, pp. 84-94.

b

Ved. Strümpell op. cit. p. 93 e sgg. Mem. I, 5, 5; II, 1, 19; IV, 5, 9. d Mem. IV, 6, 10-11; III, 9, 2. e Mem. IV, 4, 16. f L’Allihn, Die Grundlehren der c

Ethik, p. 277, vuol trovare i primi germi della valutazione incondizionata nella dottrina socratica. Noi non sappiamo seguire la sua opinione; la quale del resto è espressa con molta sobrietà. a Aristot. Eth. Nicom. VI, 13, 5: Σωκράτης μὲν οὖν λόγους τὰς ἀρετὰς ᾤετο εἶναι· ἐπιστήμας γὰρ εἶναι πάσας· ἡμεῖς δὲ μετὰ λόγου51; conf. Eth. Eud. I, 5: διόπερ ἐζήτει τί ἐστιν ἀρετή, ἀλλ᾽ οὐ πῶς γίνεται καὶ ἐκ τίνων52. b Mem. II, 6, 39: ὅσαι δ᾽ ἐν ἀνθρώποις ἀρεταὶ λέγονται, σκοπούμενος εὑρήσεις πάσας μαθήσει τε καὶ μελέτῃ αὐξανομένας53. a Mem. III, 9, 1. E in un altro luogo le convinzioni religiose sono considederate come eccitamento alla virtù: I, 4, 19. b

Ved. Hartenstein, De psychologiae vulgaris origine ab Aristotele repetenda; e lo stesso: Ueber den wissenscahftlichen Werth der Ethik des Aristoteles ristamp. nelle Historisch-Philosophische Abhandlungen dello stesso autore, Leipzig 1870, pp. 107-127, e 240-305

IX

DI NUOVO DEL BENE, DELLA FELICITÀ, E DEL SAPERE Dopo aver riguardato il lato logico della dottrina di Socrate, ed aver mostrato come egli procedesse alla rettificazione formale dei concetti etici, per costituirli in una indipendenza assoluta dalle anormali fluttuazioni del vedere comune, e raccoglierne il significato nella trasparenza di una nozione riflessa, dobbiamo ora toccare un altro punto non ancora trattato. Tutta questa disamina ci fa essere ancora incerti sul valore positivo dei concetti fondamentali dell’etica socratica, e ci fa sentire il bisogno di domandare quale fosse il preciso significato di certi termini concreti, che quella ricerca considerava come punti fermi d’ogni umana attività. E in fatti, se noi vogliamo sapere cosa sia il bene nel suo valore positivo, e quale il contenuto dell’εὐδαιμονία, non basterà dire, che quello sia il risultato dell’abito virtuoso, e che questa dipenda dal cosciente esercizio delle naturali attitudini, nell’intento di conseguire la propria sodisfazione in una determinata sfera della vita, perché queste determinazioni importano né più né meno che una semplice tautologia. Lo stesso concetto del sapere non vale a chiarire per niente i concetti che vorremmo veder determinati; perché abbiamo già mostrato, che la sua natura dipende nel Socratismo dal fine pratico della ricerca, e non può quindi col suo proprio contenuto chiarire la sfera del concetto del bene, perché l’adegua perfettamente. I tre termini adunque, che così spesso abbiamo adoperati in questa esposizione, il bene, l’εὐδαιμονία ed il sapere devono essere meglio chiariti, perché valgano di finale dilucidazione al nostro lavoro.

1. Del bene Se vogliamo cogliere il significato genuino del concetto del bene secondo l’opinione di Socrate, bisogna che procediamo per via d’esclusione; perché altrimenti saremmo fuorviati da quei criteri, che nella nostra coltura più sviluppata, e più moralmente approfondita segnano la norma dei nostri giudizi pratici. Altri critici ed espositori, incapaci di arrendersi alle esigenze di una giusta valutazione storica, o hanno condannato Socrate per avere confuso, come essi dicono, il bene e l’utilea, o, temendo di profanare la veneranda figura del filosofo che tutto il mondo onora quale modello di morale perfezione, hanno rigettata la testimonianza di Senofonte, come quella che più chiaramente conduce alla presunta confusioneb. A nostro parere quella definizione socratica del bene che Senefonte riferisce non avrebbe dovuto eccitare tanto stupore nei filosofi moderni, perché in fondo, essendo essa la prima definizione se non completa almeno parzialmente vera che siasi data del bene, bisogna più tosto considerarla come una scoverta, che rigettarla come prodotto di una coscienza imperfetta. Socrate in fatti non potea, con un atto istantaneo di astrazione teoretica, produrre un valore etico, la cui determinazione dipende da un lungo processo storico e psicologico; e se è riuscito a definirne uno degli elementi, o a rilevarne almeno la pratica importanza, questo solo atto di energia intellettiva vale molto più che un certo falso misticismo, il quale a furia di metter su concetti sublimi e trascendenti, non sempre riesce a correggere le formali condizioni del pensiero. La morale socratica era in tutti i suoi principi e in tutte le conseguenze eudemonisticac, e riconosceva nella ricerca del bene l’ingenito appetito del benessere in ogni sfera della vita. Ma bisogna notare che quella posizione il filosofo non se l’era fatta arbitrariamente, escludendo quei criteri di morale valutazione che sono agli occhi nostri di una natura più intima e più vera; perché, non avendo egli mai perduto di vista il termine concreto della vita pratica, ch’era scopo delle sue indagini, non potette elevarsi alla considerazione della norma etica nel suo valore incondizionato, e l’apprese quindi dal fatto stesso della vita. Né vale ricorrere all’argomento della morale perfezione del carattere di lui, per rigettare il concetto eudemonistico dei Memorabilia, e perché non si può misurare alla stregua della coscienza personale il grado di attività scientifica dell’intelletto, ed eziandio perché Socrate non ha mai detto e fatto cosa, che accennasse ad una indifferenza positiva pei motivi della felicità. a) L’etica socratica non è fondata su l’imperativo del dovere. L’impulso

naturale ad agire nell’interesse della propria conservazione, e nello scopo del proprio miglioramento v’è riconosciuto come qualcosa d’ingenito, che ha solo bisogno di essere rettificato nel suo esercizio; sicché esso non va soggetto a quelle collisioni, all’apparire delle quali la volontà dell’individuo si trova inadeguata alla generalità ed universalità del precetto. La coscienza greca procedette in un modo assai diverso dalla coscienza ebraica, la quale, per avere spinta troppo in alto la sublimità e la trascendenza del precetto, finì per trovare incongruenti fra loro il volere umano ed il divino, e riuscì all’esigenza della redenzione. Quello che noi chiamiamo dovere apparisce a Socrate nella forma relativa del miglior partitob, perché era in lui così vivo il convincimento che l’uomo non possa volere il proprio male, che, posta la natura determinata del bene come termine dell’azione, l’equazione fra l’intelletto e la scelta del proprio meglio gli sembrava inevitabile. Anche noi esigiamo una perfetta equazione fra la volontà e la scelta, nel concetto etico del dovere: ma al tempo stesso non ignoriamo, che il dovere, come fenomeno psicologico, si aggira in una vasta sfera di contrasti che ne rendono difficile l’attuazione. Nel concetto socratico l’acquiescenza immediata nel criterio del bene come utile, e del miglior partito come scelta obbligatoria ha un carattere affatto immediato e plastico; e come la vita stessa di Socrate è la più perfetta applicazione di questa veduta, così avviene che il ritratto lasciatoci dai testimoni autentici, delle sue lotte e del suo martirio, eccita la meraviglia, senza scuotere il nostro animo. b) Il bene adunque è l’utilea, cioè quello che favorisce la nostra natura, e fortifica in noi il sentimento della felicità. Le due sfere di questi concetti non sono precedentemente determinate nella loro opposizione, e poi ridotte all’identità logica del giudizio, per degradare il valore del bene a vantaggio dell’utile. Quella relazione sorge spontanea nella coscienza, e noi dobbiamo por mente più all’importanza dell’identità stabilita, perché determina logicamente il valore d’un concetto che prima era incerto ed impreciso, anziché insistere su quello che secondo le nostre vedute costituisce la differenza fra l’utile e il bene. Per noi, a voler parlare il linguaggio di Socrate, è bene tutto quello che influisce a farci conseguire l’εὐδαιμονία; ma come nella sfera dell’ignoranza non siamo capaci di costanza e di certezza nei propositi, perché sconosciamo noi stessi e la natura di quelle cose che devono servirci di termini o mezzi all’attività, così avviene, che solo nella consapevolezza di noi medesimi e delle sfere della nostra attività acquistiamo la notizia esatta del vero bene. Questo bene è l’utile, perché è quello che realmente conferisce al miglioramento della nostra natura. L’etica non s’è arrestata e non poteva arrestarsi a questa elementare determinazione; ma non è questa una ragione perché noi dovessimo sconoscere

il gran merito del creatore della scienza, valutandolo agli ulteriori progressi del sapere filosofico. Da questa prima ed elementare determinazione del concetto del bene, fino all’esigenza kantiana ed herbartiana dell’incondizionata valutazione, il progresso è stato immenso: ma bisogna pur confessare, che le divagazioni non sono state poche, e che spesso la superiorità delle indagini posteriori è stata efimera, quando si è voluto ricorrere alle infondate supposizioni di una volontà sconfinata (libero arbitrio), o di una coscienza morale organo inappellabile, ed a tante sottigliezze di un’analisi minuziosa delle intenzioni umane studiate nell’interesse settario e sofistico della chiesa e della scuola. c) Questo bene che è l’utile non si confonde col piacevolea; perché la determinazione del suo concetto importa una necessaria e successiva esclusione di tutti i criteri accidentali di una valutazione meramente individuale, finché divenga una norma costante alla quale come a stregua sicura possano misurarsi le particolari azioni, e gli arbitrari giudizi. Quell’utile adunque non equivale alla sodisfazione immediata dell’individuo in tutta la naturalità dei suoi istinti e dei suoi bisogni, ma segna invece un termine all’attività dell’uomo, a raggiungere il quale egli deve prima educarsi per intendere in che cosa consista la vera utilità, la quale è tante volte così lontana dal piacere, che può arrecare i massimi dolori e fino la morte. In questa guisa l’equazione logica stabilita fra l’utile e il bene viene rivalutata alla stregua di una maggiore intimità, che afferma implicitamente l’universalità del bene, sebbene non la formuli e determini in una maniera precisa ed astratta. d) La natura affatto pratica della sfera scientifica del Socratismo non consentiva che la determinazione del concetto del bene fosse intesa nella sua assolutezza, perché, nella deficienza dei mezzi logici che concorrono a formare e costituire il valore tipico di un concetto, il filosofo era spesso costretto a seguire l’incerta guida del linguaggio comune, ch’è poggiato su le opinioni correnti. E questa circostanza facea sì che il concetto del bene apparisse spesse volte nella sua forma più contingente e relativa, e che potesse ad un bene venir contrapposto un altro, o che quello che sembra bene in un caso fosse detto male o inutile in un altrob. La inconsistenza logica della nozione non era però lesiva di quella universalità che abbiamo più sopra accennata, perché è innegabile che Socrate abbia intesa la inferiorità dell’arbitrio individuale alla invincibile natura del criterio della convinzione, al tempo stesso che non ha saputo e potuto evitare il particolarismo nella definizione di questo o quel bene. Coloro che vanno a cercare nel Socratismo l’idea assoluta del bene, come superiore ad ogni incertezza opinativa, riescono a falsarne la schietta ed originale fisonomia storica, ed a farne una forzata anticipazione del Platonismoc.

2. Della felicità Abbiamo già visto che il concetto dell’εὐδαιμονία non ha un contenuto suo proprio, e che la sua generica significazione non esprime un valore concreto, o un termine qualunque dell’attività etica dell’uomo. Non v’ha insomma per Socrate un qualcosa, una sfera della vita, una maniera di vivere che determini e precisi la felicità, perché essa, come termine generale cui approda ogni nostro desiderio, sta in uno svariato rapporto con le diverse tendenze degli individuia. Così avviene che nel dialogo senofonteo, tutte le volte che si tratta di provare la necessità d’una certa maniera di vivere, e di definirne l’indole e la natura dal punto di vista eudemonistico, quello che sia l’εὐδαιμονία per sé stessa non è punto accennato. Noi possiamo dire solo approssimativamente che, non avendo Socrate avuto in mente di subordinare le diverse sfere della vita pratica al criterio di una gradazione schematica, era impossibile che si preoccupasse della definizione dell’εὐδαιμονία, perché quel termine non esprimeva altro, che il generale sentimento di sodisfazione interna, che l’uomo prova nell’adempimento dei doveri insiti alla sua natura, e determinati dalle sue speciali occupazionib. Ma questa imprecisione stessa del concetto dell’εὐδαιμονία era un progresso molto notevole rispetto a quelle rappresentazioni più o meno fatalistiche che erano ancora dominanti in quel tempo; e mentre Socrate si preoccupava tanto di ravviare gli uomini al sentimento della responsabilità escludeva una volta per sempre la fantasia poetica dall’interpretazione del destino umano, ed alle collisioni fra la volontà dell’individuo ed il decreto del fato, che l’arte drammatica avea tratteggiate con sublime evidenza, sostituiva il placido e tranquillo lavoro della riflessione, che nel regolare gli atti della vita non ha altra meta che il naturale appagamento d’un bisogno anch’esso naturale. Qui cade in acconcio di osservare, che la indeterminatezza del valore etico dell’εὐδαιμονία era in parte precisata dal concetto che Socrate s’era formato dell’ἐγκράτεια, come virtù cardinale, e della σωφροσύνη, come abito costante di pratica saggezza; perché queste due concrete determinazioni esprimevano già l’esigenza di una costante norma psicologica, alla quale fosse possibile di misurare la varietà e molteplicità di quegli atti, che possono andar soggetti ad un giudizio di valutazione favorevole. E da quella esigenza procedettero tutte le ulteriori definizioni della felicità, come di quello stato dell’animo che risulta dall’abito costante della vita contemplativaa.

3. Del sapere Noi ci siamo sforzati di far vedere che Socrate non avea coscienza del sapere, come di un elemento psicologico astrattamente considerato e studiato nelle sue normali condizioni; e che quel concetto invece, più che essergli chiaro ed evidente nella sua universale natura, non era che la generale espressione di quelle pratiche doti le quali costituiscono e determinano l’esatto e normale esercizio di una data capacità o funzione etica. Posto ciò, non ci pare opportuno di sollevare la quistione già fatta da altri, se mai quel sapere fosse empirico o a priori, perché ogni indagine di tal natura deve ora apparire supervacanea per tutte le cose dette innanzi, e mancherebbe di ogni fondamento. L’autorità male intesa di un luogo di Aristoteleb è stata per alcuni sufficiente pruova per asserire, che il sapere socratico fosse di natura affatto empirica: mentre è sembrato ad altri, che la normalità del processo dialogico, che spesso tornava a riformare certe generali esigenze metodiche, non potesse attingere la sua qualità di procedimento esatto, se non dalla consapevolezza del valore affatto ideale della conoscenzac. Noi non vogliamo punto entrare nei particolari di una quistione che abbiamo recisa dal bel principio; ma stimiamo ad ogni modo importante di notare, che, prescindendo da ogni altra testimonianza posteriorea, la natura del dialogo socratico è tanto intimamente legata alle condizioni immediate della ricerca, da non lasciare in alcun modo supporre, che Socrate potesse aver mai pensato a rendersi conto della natura psicologica e del valore teoretico del sapere. Che se poi dovessimo caratterizzare dal punto di vista moderno la natura di quel sapere socratico, bisognerebbe dire, che in esso l’attività empirica della ricerca etica, con tutti gli elementi che andava raccogliendo dalla cotidiana esperienza della vita, o dall’autorità della storia e dei poeti, era immediatamente elevata alla dignità generica di una norma costante; sicché il criterio della certezza diveniva tutt’una cosa col principio a priori della definizione normativa. Ora questa indeterminatezza teoretica del sapere getta una gran luce sopra una massima paradossale che Senofonte attribuisce a Socrate, secondo la quale, chiunque fa il male coscientemente si trova in un’assai migliore condizione di colui che fa il bene inconsciamenteb. Se il sapere socratico fosse quello che noi ora intendiamo per coscienza teoretica e scientifica, e se nella sfera etica del dialogo senofonteo fosse minimamente accennato il concetto del volere, come d’una potenza a sé più o meno subordinabile alle regole astratte del convincimento razionale, quel paradosso sarebbe non solo moralmente falso, ma anche logicamente inesplicabile. Invece, posti i concetti del bene e del sapere come abbiamo cercato di determinarli, e posto il convincimento che la relazione fra volere ed agire è espressa in una equazione assoluta, quella massima

socratica vuol dire né più né meno che colui che fa il bene inconsciamente non produce alcun valore etico, perché il bene sta nella coscienza del fine che vuole prodursi, mentre chi fa il male coscientemente si trova in una migliore condizione, perché sa di violare la norma che deve seguire in questo o in quell’indirizzo della vita. Ci rimane in ultimo a notare, che il principio della consapevolezza importava una chiara distinzione del concetto della riuscita, secondo che questa non fosse altro se non l’esito fortunato (εὐτυχία [eutuchía]), ottenuto mediante le favorevoli ma fortuite coincidenze del caso, ovvero il ben meritato successo (εὐπραξία [eupraxía]), che è sempre conseguito da colui che agisce nella piena coscienza dei mezzi che adopera, e del fine che prende a seguirea. Questa distinzione molto semplice, e al tempo stesso congruente ai principi fondamentali espressi innanzi, non sappiamo intendere come abbia potuto dare argomento a tanti scrupoli e dottrinali disquisizioni, quanti occorre trovarne in parecchie esposizioni della dottrina socraticab. a

Specialmente il Dissen nel citato scritto pp. 59-88. Questa opinione è stata indirettamente favorita dallo Schleiermacher op. cit. p. 290 e sgg. e poi messa

b

tanto in onore dal Brandis, che per molti anni ha esercitato la critica dei filosofi e dei filologi. Il Brandis dal suo primo lavoro («Rhein. Museum», 1827) fino all’ultima storia che ha scritto della Filosofia Greca (Die Entwickelungen ecc., 1862) non si è potuto mai liberare da una falsa valutazione della testimonianza di Senofonte. Uno dei più dichiarati avversari del Socrate senofonteo è il Ribbing, ved. Genetische Darstellung der platonischen Ideenlehre, Leipzig 1863, p. 40 e sgg., dove l’autore si sforza di redarguire d’inconseguenza tutti gli altri espositori del Socratismo. Noi qui osserviamo che la critica storica non si può fare coi postulati alla mano, e che non sappiamo vedere col Ribbing nel Socrate senofonteo l’espressione sistematica dell’immoralità. Conf. dello stesso autore: Om Sokrates, Upsala 1846, e spec. p. 43 e sgg., il quale libro non abbiamo potuto bene esaminare, per esserci arrivato troppo tardi. c Lo Zeller ha raccolto tutti i luoghi che mettono in chiaro questo concetto op. cit. pp. 101-106, ma ha poi sagrificato al suo proprio criterio soggettivo la ragione storica della posizione socratica; su la quale ha finito per pronunziare giudizi in gran parte sfavorevoli. a Argomento sul quale molti critici sono tornati da Schleiermacher in poi. b

Stimiamo inutile addurre i molti luoghi dei Memorabili dai quali risulta questa determinazione; basti ricordare il concetto dell’εὐπραξία (III, 9, 14), il quale manifestamente rivela come la indeterminata rappresentazione del benessere, del ben vivere, del buon esito, che era espressa dall’εὖ fosse determinata dalla costanza della πρᾶξίς, in quanto diversa dall’εὐτυχία54. a Mem. III, 8, 1 e sgg. a

Il Brandis ed il Dissen hanno ammessa questa confusione nel Socrate senofonteo, contro la esplicita testimonianza di Sen. Mem. IV, 5, 10; Ibidem, 6; e 8, 11. Conf. Hermann, Geschichte ecc., p. 335, nota 348; e Hurndall op. cit. p. 37. b Mem. IV, 6, 8 e sgg. c L’Alberti op. cit. p. 100 e sgg. parla del concetto della perfezione morale, della educazione completa

dell’uomo al principio assoluto della moralità, dell’idea sostanziale del bene, e di altre cose simili, che sono tutte estranee al Socrate della storia. a Ved. specialmente Mem. IV, 1, 2. b

In questo concetto ci accordiamo interamente con lo Strümpell op. cit. p. 134. Non è questo il luogo per sviluppare un concetto tanto complicato qual’è quello dell’εὐδαιμονία nella

a

storia della coltura greca; e ci limiteremo ad osservare, che ci pare affatto infondato il giudizio dello Zeller, il quale op. cit. p. 103 not. 4a, parla del concetto della felicità come di quello che nella sua generalità costituiva l’ideale di tutti gli antichi filosofi. Quanta diversità non corre solo fra Socrate e Platone? e molto più fra questo ed Aristotele? b Eth. Nicom. III, 8, 6: Δοκεῖ δὲ καὶ ἡ ἐμπειρία ἡ περὶ ἕκαστα ἀνδρεία εἶναι: ὅθεν καὶ ὁ Σωκράτης ᾠήθη ἐπιστήμην εἶναι τὴν ἀνδρίαν55. In questo luogo è chiaro che la parola ἐμπειρία [empeirìa: esperienza] appartiene al testo di Aristotele, e non alla sentenza socratica che v’è riferita. È l’Hurndall op. cit. p. 28 che principalmente ha insistito a voler provare, che il sapere socratico sia empirico. c Specialmente il citato Brandis, la cui opinione è stata recisamente rigettata come arbitraria dall’Hermann, Geschichte ecc., p. 251. a

Vedi su la falsa interpretazione di Aristotele fatta dall’Hurndall loc. cit.; Strümpell op. cit. p. 159. Mem. IV, 2, 19 e sgg. a Mem. III, 9. b In questa determinazione abbiamo seguito la facile e naturale interpretazione dello Strümpell op. cit. p. 138, ch’è pure quella dell’Hermann, Geschichte ecc., p. 253, e nota 340, senza impacciarci in una quistione astrusa sollevata dal Brandis, «Rhein. Museum», I, p. 136; conf. Entwickelungen ecc., p. 237 e sgg., ed Hurndall op. cit. p. 39. b

X

IL CONCETTO DELLA DIVINITÀ E DELL’ANIMA UMANA NELL’ORIZZONTE SOCRATICO Noi torniamo ora al punto donde abbiamo in prima preso le mosse. Il mondo era agli occhi di Socrate un sistema di fini, e rivelava in ogni sua parte l’impronta di una intelligenza autrice, e provvidente. In questa convinzione abbiamo visto esser riposta la differenza che passava fra Socrate e tutti gli altri filosofi precedenti, come anche il principio normativo dell’attività socratica, la quale, benché fosse ricercativa come quella dei Sofisti, non cadde mai nell’eristica e nell’antilogistica, perché limitata, frenata e corretta da un costante criterio di obbiettività incondizionata. In quella intuizione generale dell’universo, che conteneva in sé i germi di una nuova filosofia della natura e di una possibile teologia razionale, l’elemento d’opposizione contro le forme riconosciute della religione patria non era così spiccato e preciso che dovesse trasmodare in una riforma positiva, o assumere il carattere di una manifesta rivoluzione. Anzi, se Socrate si fosse arrestato a queste generali affermazioni, non avrebbe fatto che segnare un nuovo passo nella storia generale della coltura greca, per avere maggiormente approfondito e depurato quel concetto monoteistico, al quale tendeva da più tempo tutto lo sviluppo della coscienza ellenica anche per opera di quegl’individui che erano i più lontani da ogni speciale occupazione filosofica; e noi non potremmo tener conto delle sue vedute in un’indagine scientifica. Quello che ora importa non è più di stabilire in una maniera generica l’orizzonte della coscienza socratica, e di assegnare la caratteristica di quella intuizione teleologica, che ne fissava bene i confini sì rispetto alle convinzioni comuni, come in rapporto alle spiegazioni meccaniche dei filosofi naturali, ma di vedere fino a che punto i concetti di Dio, del mondo e dell’anima umana, gli oggetti in somma della metafisica, potessero già allora venir subordinati all’esigenza della dimostrazione dialettica. E conviene ancora osservare che siamo stati lungamente in dubbio se dovessimo far entrare questa quistione nello svolgimento del nostro tema; perché, non ammettendo noi che quelle vedute teleologiche fossero in Socrate un risultato delle convinzioni etiche, ed avendo invece cercato di mostrare che la filosofia e l’intuizione religiosa faceano in lui una sola e medesima cosa, abbiamo dapprima creduto fosse inutile ripresentare

in una nuova forma quello che c’è servito a determinare dal bel principio il tenore ed il contenuto della coscienza socratica. Noi intendiamo quindi di mostrare, solo limitativamente, come l’impulso logico si fosse cominciato a chiarire anche in quella sfera, che Socrate non ammetteva fosse accessibile al sapere umano.

1. Il concetto della divinità Nei Memorabili di Senofonte v’è un luogo nel quale Socrate è introdotto a dimostrare, mediante l’analogia, l’esistenza della divinità, e la sua natura intelligente e provvidentea. Socrate stabilisce dapprima un paragone fra la intelligenza ch’è capace di produrre esseri viventi, e quella che conduce a termine delle imagini pittoriche e scultorie; per arguire dalla sproporzione dei prodotti il maggiore e più alto grado di perfezione che v’ha da essere nel produttore degli oggetti naturali. E come il suo interlocutore non può rigettare il paragone, e le conseguenze che ne derivano; e da altra parte non sa persuadersi del concetto dell’intelligenza autrice delle cose naturali, perché gli rimane nell’animo il dubbio che esse possano essere nient’altro che un prodotto del casob, Socrate è costretto a provare che l’intelligenza, ossia il proposito, e non il caso possa e deve produrre le cose. E qui il concetto della finalità, come di quella norma secondo la quale tutto è conformato allo scopo dell’utilità, è il principio determinante della pruova; non potendosi in vista dello stesso revocare in dubbio la esistenza di un proposito nell’ordine della natura, perché solo l’intelligenza, in quanto mira ad uno scopo, può produrre in ragione dell’utilitàa. In questo luogo apparisce chiaramente, come la tendenza logica cominciasse già a farsi la via, per subordinare alle sue esigenze ed al suo formalismo anche quell’ordine di oggetti, che Socrate volea sottratto alle umane indagini per le convinzioni affatto religiose che nudriva. In questa che può dirsi la forma più elementare della pruova cosmologica e fisico-teleologica della esistenza di Dio è espresso il primo e più spontaneo sforzo della teoria, per dedurre e dimostrare scientificamente quel concetto dell’incondizionato, dell’originario, del divino che la coscienza adulta dell’umanità suppone di possedere per un atto immediato ed istantaneo d’intuizione, ma che in fondo ha raggiunto in conseguenza di un lungo lavoro psicologico, di cui ha perduto le tracce e la reminiscenza. Ma è in questo caso la pruova che produce il concetto; o è la rappresentazione già matura e completa che spinge la coscienza all’esigenza dimostrativa? Se noi volessimo arrestarci al carattere formale della dimostrazione dovremmo ammettere che il concetto della divinità fosse per Socrate di natura affatto scientifica; ma pure è tanto vero, che la natura teoretica di quella pruova è intimamente legata ai presupposti immediati di una coscienza religiosa, che la sua logica certezza è sproporzionata alla ricchezza intuitiva del contenuto psichico ed etico obbiettivato nella rappresentazione della divinitàb. E primieramente il punto di vista del filosofo nel determinare il concetto della divinità rimane qualche cosa

d’incerto e di oscillante. L’indeterminatezza politeistica ricomparisce ad ogni piè sospintoc, e che questa sia appunto quella della religione tradizionale non v’ha dubbio di sorta, quando si considera la costanza di Socrate nell’adempiere le pratiche del culto stabilitoa. Ma la molteplicità politeistica trova già di fronte a sé la chiara coscienza dell’unità di Diob; ed in questa duplicità di vedute ha la sua spiegazione la differenza posta fra il reggitore del mondo, visibile nella sua incessante attività ed invisibile nella sua potenza direttrice, e gli altri deic. Il valore quindi che psicologicamente rispondeva all’indeterminata espressione, ora politeistica ed ora monoteistica, rimane qualcosa ch’è solo approssimativamente certo, e che può essere fermato solamente in rapporto a quello che l’intimità individuale di Socrate concepiva e pensava come costituente la natura del divino. La divinità è per lui invisibile, onnisciente, onnipresente, onnipotente; e pur nondimeno tutti questi attributi non lo forzano ancora ad abbandonare le pratiche del culto, la fede negli oracoli, e negli altri esterni presagi. Or questa che abbiamo chiamata ricchezza intuitiva è stata da altri intesa come forma popolare del concetto del divinod; e, misurata poscia alla stregua dell’ulteriore progresso filosofico, è stata considerata come qualcosa d’imperfetto e di superficiale. A nostro parere, come Socrate non intese mai di fare né la teologia né la filosofia della natura, e fu spinto solamente dalle sue personali esigenze a tracciarsi un nuovo orizzonte religioso ed etico, tutti questi concetti sono di una grande portata nella storia generale della coltura antica, e la loro forma popolare ed immediata non deve essere misurata al criterio della certezza filosofica, ma al precedente sviluppo della coscienza religiosa. Sotto questo aspetto essi fanno apparire in una luce più chiara quell’opposizione, che da molto tempo s’era preparata nel seno del politeismo greco, fra il particolarismo delle molte e svariate divinità e l’esigenza di una assoluta obbiettivazione del concetto dell’unità del divino; e, se la cosa non ci portasse fuori dei limiti di questo lavoro, saremmo in grado di mostrare, senza punto entrare nella storia della filosofia, che per sé sola la poesia lirica e drammatica basta per scorgere ed intendere il processo monoteistico. Il concetto adunque che Socrate avea del divino, se era popolare, non era tale per volontaria restrizione dell’esigenza filosofica, ma perché originato e prodotto dal lento sviluppo della coscienza spontanea ed irriflessa del popolo; e a noi pare strano di vedere, che lo stesso autore, il quale ha tanto rilevato il carattere popolare di quelle vedute si contradica poi col dire, che derivavano da un individuale bisogno religiosoa; perché è sotto questo riguardo appunto che la loro superiorità su tutti i precedenti tentativi filosofici è incontrastabile.

Senza quindi tornare su la quistione dei concetto del bene, che da Socrate era appreso nella forma relativa dell’utile, a noi pare, che, malgrado la ristrettezza di questo criterio, che ai nostri occhi è di un valore subordinato, tutte quelle considerazioni in virtù delle quali Socrate ammetteva la presenza del divino nel mondo, solo perché segnano il primo apparire della riflessione teleologica, nella stessa loro forma superficiale e volgare esprimono un profondo progresso della coscienza scientifica. La divisione del giorno e della notte, l’acqua, il fuoco e l’aere di che la natura abbonda, e gli animali domestici che tanto sono proficui all’uomo, il naturale appetito della riproduzione, l’amore dei figli, il timore della morte, le intellettuali attitudini, la lingua, la memoria e così via – tutti questi fatti e relazioni naturali erano per Socrate indizi ed argomenti della divina potenza e provvidenzab. Ora, per quanto imperfetta, superficiale ed utilitaria fosse la sua veduta, solo perché animata dal bisogno di chiarire alla riflessione il dato immediato della fede nel divino, esprimea il bisogno filosofico di una nuova e profonda cognizione della divinità; al tempo stesso che, obbiettivando un imperfetto schema teleologico, fondava il concetto metafisico della natura. E così viene rifermato quanto dicemmo innanzi, che Socrate, tuttoché reagisse contro la ricerca naturale, dischiuse involontariamente la via ad una conoscenza più profonda della natura. L’indeterminatezza fra le forme politeistiche e l’esigenza monoteistica era di tale una potenza nell’uso della lingua greca, e tanto inerente alle condizioni della coltura, da dover noi rimanere affatto incerti sul valore che Socrate attribuiva al concetto della divinità, se per valore vogliamo intendere il grado d’intimità col quale la coscienza apprendeva e sentiva l’importanza e la gravità del nuovo concetto. La tradizione stessa non è un criterio sufficiente per determinare questo o quel valore in un dato periodo, perché essa non era dommatica e sacerdotale, ma frammentata in una gran molteplicità di tendenze artistiche e dottrinali. Solo per via di esclusione noi possiamo asserire, che prima di Socrate nessuno avea sentito con pari intimità e chiarezza il bisogno di riconoscere la divinità nella sua attività produttrice, e nella sua natura intelligente. Ma siccome la vittoria del concetto monoteistico non è avvenuta mai nell’antichità greca in una forma definitiva ed esplicita, perché non fu contrassegnata dal carattere di una riforma pratica simile a quella ch’ebbe luogo nel levitismo e nel nabismo ebraico; così avvenne, che Socrate, favorito dall’indeterminatezza della posizione religiosa, in virtù di un processo psicologico che non cade qui in acconcio d’illustrare, lasciò apparire più evidente su l’estremo limitare della coscienza il concetto dell’unità divina, senza fargli guadagnare il predominio assoluto di un principio regolativoa.

E per questa ragione stessa sarebbe supervacaneo domandarsi, che concetto Socrate si facesse della inerenza dei vari attributi nel concetto della divinità, perché quei predicati segnano solamente gli estremi termini di una ricca intuizione etica, non i presupposti di una costruzione metafisicab. In quella posizione il filosofo non sentiva punto bisogno di chiarirsi scientificamente un concetto per sé stesso evidente ed intuitivo, e solo il criterio dell’analogia poteva in parte spiegare la sua efficacia. Così vediamo che Socrate appercepisce la relazione fra Dio ed il mondo come identica a quella che passa fra l’anima e il corpoc: ed afferma che, come in questo si scorgono i visibili effetti della invisibile potenza di quella, così il cosmo rivela la invisibile potenza della divinità; ed estendendo poi il criterio dell’analogia, rassomiglia l’assoluto potere della divinità nel mondo, e la sua onnipresenza al predominio dell’anima sul corpo, ed alla sua relativa vastità nella comprensione ed apprensione delle cose più remote. Ma tutto questo sforzo di penetrare la natura della divinità dal punto di vista dell’analogia non fa sì che noi potessimo ammettere che quel concetto abbia acquistata una metafisica consistenza; e questa incertezza ed elasticità della nozione favoriva appunto in Socrate l’illusione, che egli non si fosse discostato dalle opinioni comuni. La relazione quindi fra l’uomo e la divinità, che rimaneva imprecisa, era ristabilita con le forme tradizionali dell’oracolo, della preghiera e del sagrifizioa; nell’uso delle quali pratiche Socrate non introduceva alcuna modificazione, fuori quella di rinforzare il principio della consapevolezza correggendo il formalismo letterale. Il concetto adunque della divinità rimaneva qualcosa d’impreciso, e nel valore intrinseco della sua determinazione e nella natura dei suoi rapporti con l’ordine della natura. Nondimeno, questa che può dirsi imprecisione rispetto al problema filosofico, era una idea più che precisa in confronto col precedente sviluppo della coscienza greca; ed era un gran progresso in rapporto alle intuizioni religiose che erano state espresse nei monumenti letterari fino all’epoca periclea. Racchiudere in una veduta complessiva tutto il mondo dell’attività umana, e determinarlo in antitesi col mondo della natura, e fermare poi da un’altra parte il concetto dell’intelligenza provvidente, come supremo termine d’ogni umana indagine, fu tale un atto d’energia spirituale, che, sebbene espresso ed appreso in una forma immediata, e diremmo quasi volgare, riuscì fecondo di una più intima considerazione, e di una più larga soluzione del problema su l’origine delle cose. L’influenza del Socratismo su la dottrina platonica non è stata, sotto questo rispetto, sufficientemente avvertita.

2. Il concetto dell’anima Allo stesso modo che Socrate non seppe elevarsi al concetto della teologia razionale, non ebbe del pari notizia del problema psicologico. Questo difetto è stato da noi già avvertito nel giro di questa esposizione, e ce ne siamo valsi come di ragione sufficiente per spiegare la inadequatezza ed imperfezione di quel criterio logico, che, subordinando tutti i fenomeni della vita etica alla formale esigenza di una valutazione immediatamente cosciente, non riuscì a spiegarne l’origine e le naturali condizioni. Le varie rappresentazioni, che istintivamente sorgono nella coscienza, e che devono esprimere la causa dei diversi fenomeni della vita interna, aveano già al tempo di Socrate occupato un posto importante nelle ricerche dei filosofi naturali; che intesi a trovare un principio generico, che spiegasse l’origine delle cose, aveano riposto o nell’aria, o nel fuoco, o nel numero, o nel sangue la causa dei fenomeni psichici. Ma al tempo stesso la tradizione religiosa, rappresentata dagli innovatori della lirica e dai creatori del dramma, nell’approfondire il concetto dell’uomo e della sua relazione con la divinità, e coll’avere più intimamente rilevato il valore morale della coscienza, produsse una nuova esigenza, quella di ricercare in una causa soprasensibile l’origine dei fenomeni psichicia. Questa esigenza, non ancora formulata in un problema filosofico, divenne più tardi un postulato di pratica sapienza; e determinò il concetto dell’anima come immateriale, partecipe della natura divina ed immortale. Ora a noi non riesce di accertare per quali influenze tradizionali Socrate fosse arrivato a farsi un concetto dell’anima, ch’egli teneva per immateriale e partecipe della natura divinab. Bisogna ad ogni modo osservare, che, avendo egli rinunziato ad ogni indagine su la natura e l’origine del mondo fisico, e non permettendosi di indagare quelle cose che solo la divinità può sapere, perché le ha prodotte e le governa, il concetto che s’era formato dell’anima non può tenersi per un risultato di una investigazione dottrinale, e deve essere riavvicinato nella sua origine storica alla interpretazione di quei poeti, che nell’intimità delle loro tendenze religiose aveano rialzato il valore della coscienza. Quell’affermazione infatti pare non sia altro che il risultato di una esigenza etica, perché non risulta dal precedente di una dimostrazione. E rimane del pari dubbio, se la natura divina dell’anima dovesse necessariamente importare la sua immortalità. A risolvere questa quistione le fonti non ci forniscono di argomenti sufficienti. Attribuire a Socrate la dimostrazione del Fedone sarebbe quanto dire che egli sapesse la teoria platonica delle idee, e che avesse studiato il Pitagorismo. Nell’Apologia invece

Platone mette in bocca a Socrate un’argomentazione dilemmatica, nella quale è detto, che la morte è sempre un bene, sia che ci privi in tutto della coscienza, o che porti dopo di sé un’altra vitaa; il quale dilemma è molto sorprendente di ritrovare in bocca al moriente Ciro in fine di quella Ciropedia, che Senofonte ha modellata più su l’ideale della socratica perfezione che su la genuina tradizione storicab. Da questo incontro delle due fonti può arguirsi con molta verosimiglianza, che forse Socrate non abbia mai superato scientificamente quel pratico dilemma, sebbene gli argomenti prodotti nella Ciropedia stessa in favore dell’immortalità non manchino di un certo colorito filosofico. Rimane nondimeno sempre accettabile l’opinione di coloro che attribuiscono a Socrate la fede nell’immortalità dell’animac, se si considera che quella maniera dubitativa, come è espressa la quistione nei due luoghi dell’Apologia e della Ciropedia, tiene molto intimamente al carattere oratorio dell’uno e dell’altro discorso; e se poi si pon mente all’altra circostanza, che in alcuni dialoghi platonici, che sono generalmente ritenuti per più prossimi alla maniera socraticad, il concetto dell’immortatità è presentato in una forma più popolare di quella che assume nel Fedone, non è improbabile che Socrate non avesse saputo improntare un carattere scientifico al suo personale convincimento, come più tardi fece Platone, ma che nondimeno lo avesse nudrito. a

Mem. I, 4, 2-19. In questo luogo è notevole che Socrate sia spinto dall’incredulità di Aristodemo a

tentare una pruova dell’esistenza della divinità (καταμαθὼν γὰρ αὐτὸν οὔτε θύοντα τοῖς θεοῖς οὔτε μαντικῇ χρώμενον, ἀλλὰ καὶ τῶν ποιούντων ταῦτα καταγελῶντα)56; la qual cosa mostra chiaramente quanto sia fondata la nostra opinione, che egli non si fosse punto proposto di allontanarsi dal concetto tradizionale della religiosità positiva, perché era alla conferma delle pratiche del culto che mirava la dimostrazione. Conf. Sext. Emp. adv. Math. IX, 92 e sgg. Tutti i luoghi dei Memorabili che concernono la teologia di Socrate sono stati raccolti dall’Hummel, De Theologia Socratis in Xenoph. Comment. tradita, Gottingae 1839; col quale autore noi non ci accordiamo quanto all’interpretazione. b La difficoltà di Aristodemo è formulata nelle parole: εἴπερ γε μὴ τύχῃ τινί, ἀλλ᾽ ὑπὸ γνώμης ταῦτα (ossia le cose naturali) γίγνεται, I, 4, 457. a

La dimostrazione socratica dal bel principio formula il suo risultato nelle parole: Πρέπει μὲν τὰ ἐπ᾽ὠφελείᾳ γιγνόμενα γνώμης ἔργα εἶναι I, 4, 558. b Questo nostro concetto apparisce chiaro sì dalla varietà degli elementi intuitivi che fanno parte della dimostrazione nel suo largo sviluppo, come dall’intento pratico di rettificare una falsa rappresentazione della santità e del culto religioso. c Mem. I, 1, 19: … ἡγεῖτο πάντα μὲν θεοὺς εἰδέναι… I, 3, 3: … οὔτε τοῖς θεοῖς ἔφη καλῶς ἔχειν… I, 4, 11 e sgg., ove si discute della provvidenza della divinità (οἰ θεοί); e IV, 3, 3. In altri luoghi è adoperato semplicemente θεός: I, 4, 13, 17; IV, 3; 6, e τὸ θεῖον: I, 4, 18. a

Mem. I, 1, 2 e seguenti e conf. IV, 3, 16. Mem. I, 4, 5: ὁ ἐξ ἀρχῆς ποιῶν. Ibidem, 7: ἔοικε ταῦτα (le cose naturali) σοφοῦ τινος δημιουργοῦ καὶ

b

φιλοζῴου τεχνήμασι (γίγνεσθαι) Ibidem, 17: τὴν δὲ τοῦ θεοῦ φρόνησιν… τὸν τοῦ θεοῦ ὀφθαλμὸν; IV, 3, 13: ὁ τὸν ὅλον κόσμον συντάττων καὶ συνέχων59. c

Mem. IV, 3, 13. Quanto al Krische, Forschungen ecc. p. 220 (*) che considera apocrifo il luogo, ved. Zeller op. cit. p. 118 n. 2. Il Dindorf nell’edizione di Oxford 1862, e nella 3a ed. di Lipsia, Teubner 1865, ha rigettato come apocrifo l’intero capitolo, ma le sue ragioni sono stato bene ribattute dal Breitenbach nella 3a ed. dei Memorabili, Berlino 1863. Introd. pp. 8-10. d

Zeller op. cit. p. 116-120. Zeller o. c. p. 117 e 110. b Vedi tutto il citato luogo Mem. I, 4, 2 e seguenti. a Quelli che non hanno intesa l’importanza di questa posizione storica sono stati costretti ad ammettere, a

che Socrate seguisse una doppia maniera di esposizione, adattandosi per convenienza alle forme politeistiche p. es. Hummel, o. c. p. 10, e Denis, Histoire des idées morales dans l’antiquité (*) I, p. 79. Conf. Zeller o. c. p. 120, che rigetta questa falsa interpretazione. b Hummel o. c. p. 14 e sgg. ha voluto condursi con troppo spirito di conseguenza nel mettere insieme i predicati della divinità, che si trovano qua e là nei Memorabili. c

Mem. I, 4, 8, e 17 e seguenti e IV, 3, 12 e seguenti. Mem. I, 1, 6; 3, 4; 4, 14; 7, 6; II, 2, 14; IV, 3, 12-14 ecc. a Vedi p. es. su la psicologia di Pindaro e di Eschilo il citato libro del Buchholtz, pp. 17-39, e pp. 131a

146. b

Mem. IV, 3, 14: ἡ ψυχή, ἥ, εἴπερ καὶ ἄλλο τῶν ἀνθρωπίνων, τοῦ θείου μετέχει60. a Apol. p. 40 e sgg. b Cirop. VIII, 7, 19 e sgg. c Ammenoché non si affermi così apoditticamente come fa il Brandis, Entwickelungen ecc. p. 244. d Gorgia 523 e sgg. Lo Strümpell op. cit. p. 181 ha voluto con troppa sicurezza inferire da questo luogo, che la convinzione dell’immortalità fosse a quel tempo qualcosa di tanto nuovo, da dover eccitare la maraviglia.

XI

RIEPILOGO E CONCLUSIONE Il lavoro, che ora ci disponiamo a compiere, è stato condotto con un certo criterio che ne ha esteso i limiti e lo sviluppo oltre i termini assegnati dall’Accademia. Questa maggiore estensione, che abbiamo data allo svolgimento dell’esposizione, non ci par tale che debba apparire un fuor d’opera; perché essa è stata una naturale conseguenza del modo come abbiamo intesa e concepita la dottrina socratica. Se ci fossimo invece limitati a raccogliere i pronunziati autentici di Socrate, per poi disporli secondo lo schema di questa o quella filosofia, non avremmo certo fatto cosa che rispondesse alla natura del compito che ci eravamo assunto. Se siamo o no riusciti a mostrare, che la dottrina di Socrate scaturisca naturalmente dalle condizioni personali dell’autore, e rimanga a quelle così strettamente congiunta, da coincidere interamente con le pratiche esigenze che l’aveano prodotta; questo non è in noi di affermare: e basterà dire, che avevamo in mente di esporre e mettere in chiaro questo nostro concetto. Misurando alla stregua delle attuali condizioni del sapere filosofico i pochi risultati scientifici della ricerca socratica, non è senza un certo sentimento di compiacimento che si fa la pruova di ricomporre nel loro valore genuino e nel loro vero significato quei primi rudimenti della scienza. La teoria della conoscenza, che nelle sue svariate attinenze con la psicologia, la logica e la metafisica ha occupato ed occupa un posto tanto importante nella filosofia moderna da Cartesio in poi, è nella persona di Socrate ancora un semplice conato pedagogico, e non giunge ad isolare in uno schema formale l’elemento del sapere logico dalla sfera della conoscenza concreta. L’etica, che da Platone e da Aristotele in poi è divenuta un sistema complicatissimo di giudizi e di deduzioni su l’elemento empirico dell’attivita volitiva, sollevando tanta varietà di quistioni sul criterio morale delle azioni, sul principio intrinseco della valutazione e via dicendo, ci apparisce in Socrate in uno stato affatto rudimentale, quando la riflessione ha appena appena cominciato a scomporre e penetrare l’imagine tradizionale della vita, per cogliere una determinazione razionale nelle forme e nelle relazioni della vita etica. E questa prima ricerca ha già innanzi a sé una larga sfera di problemi, ed avverte molte di quelle difficoltà da cui la filosofia pratica non si è ancora liberata. Tutta questa attività infine, che fu ricca di tanta influenza scientifica, non ha ancora l’aria di essere scienza, e non si chiude in uno stretto organismo di formali deduzioni; anzi rimane qualche cosa di privato

e d’individuale, ed ha tale un’aria schietta, disadorna e modesta, che non è lecito celebrarla con encomi e parole pompose. Rifacciamo qui in breve, ed in forma di riassunto, la nostra esposizione; per compendiarne in pochi tratti lo sviluppo e le conclusioni. Nella personalità di Socrate due sono gli elementi più pronunziati: la rettitudine della coscienza morale, che riposava sopra convincimenti di natura affatto religiosa, e la dichiarata tendenza pedagogica. Noi abbiamo scorta l’impossibilità di rifare la genesi storica delle sue convinzioni, ed abbiamo mostrato come gli elementi che costituiscono la sua coscienza sono così strettamente collegati fra loro, nell’atto che egli acquista un’importanza pubblica, che non si può in alcun modo assegnarne lo sviluppo. E solo dal punto di vista della congettura abbiamo cercato di affermare, come l’attività ricercativa fosse in lui un risultato dell’esigenza pratica di una certezza morale, che la intrinseca bontà dell’animo gli facea desiderare e non trovare nelle ordinarie condizioni della vita. E di qui abbiamo visto procedere, che le virtù private e pubbliche, delle quali egli era dotato, divennero un’invincibile abitudine, ravvivata dal sereno convincimento di una perfetta conformità al precetto divino. La convinzione intima della presenza della divinità nel mondo e nella coscienza, e la persuasione che l’attività umana, corretta e guidata dalla conoscenza, deve naturalmente e necessariamente tendere al bene, esprimevano in una forma più teoretica ed universale i risultati di una scrupolosa osservazione del proprio animo, divenuta in fine una pratica costante di accorgimento e di prudenza. Da questa larga e solida base di personali convinzioni emerge l’attività per la quale Socrate ha un valore filosofico, e che consiste nel principio e nella certezza della dimostrazione dialogica, mediante la vittoria sulla contradizione. Il metodo socratico è la vita che diviene ricerca, l’esigenza etica della costanza nelle azioni, e della certezza nella condotta della vita che si manifesta come rettificazione dialettica dei concetti, siano falsi siano incoscientemente, e quindi imperfettamente, pensati: e mentre ha il suo cardine in una coscienza intimamente morale e religiosa, tocca il suo termine e la sua conclusione nel reale convincimento, che la conformità delle azioni ai concetti, e della pratica alla coscienza costituisca lo stato dell’umana perfezione. In questa logica determinazione di equivalenza è data la intrinseca natura del bene, come mezzo e termine delle azioni; e il suo effettivo valore è riposto nella equazione fra il grado di assoluta consapevolezza dell’individuo, e la reale natura degli oggetti o degli atti che servono d’istrumenti al conseguimento della felicità. Il bene è quindi l’utile: la quale determinazione non è sintetica, come se il filosofo pronunziasse un giudizio, che deva stabilire un’eguaglianza fra due concetti già distinti dalla coscienza, e precedentemente appresi nella loro opposizione, ma è

invece analitica, perché esprime nella forma logica di un giudizio la più semplice ed elementare distinzione di quel processo psichico che costituisce la coscienza del bene; e la genesi di quei due termini, che infine si covrono e spiegano vicendevolmente, è affatto determinato dalle condizioni pratiche e personali del problema. Questo concetto del bene non è ancora isolato dall’imagine concreta della vita, né è obbiettivato in un termine assoluto ed irrelativo, che serva di stregua ai particolari giudizi etici: anzi i beni sono tanti quante le concrete relazioni che offrono materia, e danno occasione alla ricerca. Questa stessa relatività ed imprecisione è inerente al concetto dell’εὐδαιμονία; e sebbene la identica denominazione presenti le apparenze di una determinazione logicamente certa, pure in fondo non è che un termine comune, la cui intelligenza dipende dalle reali condizioni nelle quali si svolge il dialogo. Così l’etica di Socrate non è che un primo e rudimentale tentativo, per delineare all’occhio della mente le varie relazioni della vita sociale, col raccogliere nella evidenza di una definizione i tratti più notevoli delle singole forme. Questa circostanza impronta in tutta la ricerca un carattere esclusivamente logico, e la fa apparire in tutto e per tutto dottrinaria e teoretica. Di qui procedono le accuse mosse da Aristotele contro il Socratismo, le quali se noi abbiamo tenute per giuste e fondate, non è stato nell’intento di valercene come di norma per apprezzare i motivi della dottrina socratica, ma per assegnarne i limiti scientifici. La sfera della coscienza socratica ci è al tempo stesso apparsa più larga di quel lavoro scientifico che ne fu il risultato. Il concetto della divinità, e della relazione di questa col mondo, come tutte le altre convinzioni che noi siamo usi di far derivare dalla conoscenza metafisica, entrano solo indirettamente sotto l’influenza della dialettica. Il contenuto di quei concetti non risulta dal lavoro induttivo della definizione, ma è posto immediatamente dalla coscienza: sicché in questo caso, l’attività teoretica esprime l’estremo sforzo dell’immediatezza religiosa per assumere una forma consapevole ed evidente, e non rassomiglia per niente ai tentativi fatti in altri tempi, e specialmente nella filosofia moderna, per rifare mediante il ragionamento quella obbiettività dell’ideale religioso, che è venuta meno nella fede e nel sentimento. Tutto questo elemento extradialettico, con tutte le pratiche conseguenze che ne derivarono, costituisce il largo campo della personale influenza di Socrate, la cui efficacia era riposta nella pienezza di una intuizione etica dell’universo, che a quando a quando seguiva una direzione meramente ricercativa. In Platone i due elementi, l’immediatezza religiosa e la riflessione logica, cominciarono a divergere maggiormente, ed a contrapporsi in un’antitesi manifesta, finché la spontanea produzione artistica e religiosa da un canto, e la coscienza logica dall’altro, non divennero due campi distinti. In quest’atto di precisa ed evidente distinzione è riposto il fondamento del primo

tentativo fatto da Platone, per subordinare tutto il contenuto della coscienza al principio della dimostrazione. Come in Aristotele si fosse poi compiuto questo lavoro, e la forma logica fosse riuscita ad isolarsi completamente dal contenuto concreto della conoscenza, non è qui il luogo di ragionare. L’intuizione socratica fa parte della storia generale della coltura greca; e l’imagine del mondo che ne risulta è in un’intima relazione con tutto quello sviluppo delle convinzioni etiche e religiose, le cui tracce sono tanto evidenti nei monumenti dell’arte, della poesia e della storiografia. Ma nondimeno, sebbene essa risulti per una lunga mediazione storica da tanti svariati precedenti, nella coscienza di Socrate ha un carattere affatto immediato, il cui valore non è interamente espresso in quello che può chiamarsi dottrina, o scientifica elaborazione. E questa immediatezza e spontaneità apparisce ancora più palese, se per poco si pon mente a considerare gli svariati germi di ricerche scientifiche, che i pronunziati di lui fruttarono nell’animo degli uditori. Sotto questo riguardo deve dirsi che l’esposizione della dottrina di Socrate ha sempre l’apparenza di rassomigliare ad un’analisi artificiale, e diremmo quasi arbitraria; perché si riesce a mettere in evidenza un solo lato della sua coscienza, isolandolo dall’altro cui va strettamente congiunto: e di qui procede eziandio, che questo soggetto tante volte trattato ha conservato e conserva tuttora l’attrattiva di una ricerca non mai esaurita61.

DELLA LIBERTÀ MORALE [1873] In nullius potestate est velle quae velit Leibnitz in epistola de fato1

AL MIO CARISSIMO AMICO DOTT.RE ARTURO GRAF

Io non ho in animo di scrivere qui una prefazione. Gli autori, pare a me, non sogliono d’ordinario scriverle per altro motivo, se non per quello di chiarire al pubblico il pensiero loro, e di disporlo ad intendere ciò che dicono, per l’appunto così come essi desiderano che venga inteso. Ora un motivo di tal fatta non c’è qui per me, che non intendo di pubblicare questo lavoro; anzi, dal primo istante che l’ho dato a stampare, ho contato non avessero a vederlo che i miei pochi amici, essi soli. Agli amici, dunque, ai quali offrirò in dono questo lavoro, io rivolgo qui una preghiera: che essi, cioè, vogliano essermi cortesi di leggerlo, ove loro paia di spenderci un’ora, con la medesima disposizione di animo, con la quale leggerebbero una mia lettera confidenziale, scritta tanto per dire alla buona un pensiero, non altrimenti che si usa di fare in una conversazione amichevole. L’amico mio, del quale si legge il nome nella pagina qui innanzi, sarà un due mesi, mi fece per lettera questa interrogazione: come pensi tu si deva conciliare il concetto psicologico del motivo più forte, con le esigenze della morale? Egli avea letto di fresco alcuni trattati di psicologia e di etica della scuola herbartiana, per l’appunto, mi pare, il Waitz ed il Nahlowsky; e mi faceva quella interrogazione, così per provocarmi a scrivergli la mia opinione, come ho soluto e soglio fare spesso con lui2. Dopo di averci pensato su qualche giorno, mi avvidi che non era il caso di una lettera, e mi misi a scrivere le cose che si trovano qui in seguito; non certo con la pretesa di fare un trattato. E le ho fatte poi stampare, con la medesima sollecitudine, con la quale si suole stampare gli articoli di giornale: perché non ho avuto in animo altro fine, nel metterle a stampa, che di veder moltiplicato in più copie il mio manoscritto, da poterne far dono agli amici, e da poterci io medesimo a più bell’agio ripensar sopra, meglio di certo che non potrei su di una bozza informe. E questa circostanza mi pare anche sufficiente a scusare il tipografo, degli errori molti che sono capitati nella stampa: perché davvero io l’ho tormentato, l’ho messo proprio in croce, perché facesse presto. Ho fatto aggiungere in fine la errata-corrige, per serbare ossequio all’uso generale: ché del resto, mi pare, la fretta deva bastare a spiegare come accada si stampi approsimativo, o costanza per sostanza, o reattività per ricettività, o precisione per previsione, ed altre corbellerie di simil fatta; e come si metta tante virgole e accenti e apostrofi dove non vanno, e non si mettano dove vanno.

So bene che fare un libro è tutt’altra cosa. Ma io davvero stimo di non esiger troppo dalla cortesia degli amici, se chiedo loro di ritenere per sincera la confessione che faccio: che io non conto, cioè, di offrir loro a dirittura un libro, né buono né mediocre. Il lettore s’avvedrà da sé, che io mi attengo alla psicologia ed all’etica dell’Herbart. Gli chiedo però in grazie di credere: che se io non ho alcuna pretesa di essere, o di poter divenir mai un pensatore originale, grande o piccolo che si voglia; non faccio nemmeno voto di chiudermi in un sistema, come in una sorta di prigione. Come ho scritto, tutto d’un fiato, quello che avevo in mente prima di mettermi a scrivere, le poche citazioni che si trovano a piè di pagina, le ho aggiunte via via su le strisce di stampa: il che scusa la scarsezza loro, che è grande. Napoli, 1 aprile del 1873

I 1. Gli uomini sono naturalmente inclinati a riporre il maggior pregio della vita nella libertà: e questa inclinazione loro s’è fatta, e si va tutto giorno facendo più viva, più intensa, più efficace, col crescere di quei mezzi che comunemente si suole raccogliere e compendiare nel concetto, o nel nome di civiltà. Il difetto della libertà pare a molti scusa sufficiente del poco, o del male che fanno: e quasi tutti si ripromettono dall’accrescimento di essa, un grande, un validissimo incremento dell’attività propria. Sotto questo riguardo – cioè dire, in quanto la libertà è considerata come quella che rimuove gl’impedimenti dell’attività – essa è tenuta in conto di un bene: anzi del maggior bene della vita. In verità, perché da cotesta opinione si potesse riuscire ad un qualche concetto chiaro e definito, bisognerebbe innanzi tutto dire, in che cosa per l’appunto la libertà consista; perché il suo nome non indica alla prima se non questo: assenza d’impedimento, e non positivo accrescimento di attività. Parrebbe dunque che non ci sia, non ci possa essere una libertà sola: ma che le libertà siano tante, quanti possono essere gl’impedimenti all’attività umana; e che l’uomo ritragga solo dal pregio, dal valore ossia di questa, il pregio ed il valore suo. Ma comunemente accade il contrario. Un indistinto sentimento del benessere che consegue all’assenza degl’impedimenti ha formato nella mente di molti questa vaga opinione: che nella libertà, così astrattamente intesa come si fa d’ordinario, sia come a dire riposto il più alto fine della vita. Or questa opinione s’è andata mescolando, in molte parti dell’Europa civile, con infinite esigenze del vivere pratico: e ne ha ritratto, o ha improntato in esse quell’indirizzo speciale degli animi e delle menti, il quale si designa o si lascia designare sotto il nome di liberalismo; la cui somma, per tutti quelli che non ne abbiano altro più distinto concetto, e siano incapaci di ogni altra più adeguata conoscenza della natura della società e dello stato, è questa: che bisogna, anzi sia dovere di concedere a gli uomini, a tutti gli uomini indistintamente, eguale facoltà di disporre delle proprie inclinazioni, e di manifestarle in ordine alla vita sociale come loro paia e piaccia: ed egual dritto di concorrere con la propria volontà a formare quel volere più generale e più complesso, che si nomina stato: il cui concetto, come era naturale, s’è andato via via così rimutando, da uscirne negli animi di molti capovolto, e storpio. In questa tendenza fa d’uopo distinguer bene due aspetti: che chi confonde non può non riuscire a mettere siffattamente sossopra ogni idea morale, che

l’ordine sociale non ne esca guasto dalle fondamenta. Il primo aspetto è questo: che gli uomini sono così fatti di loro natura, che, ove nello sviluppo delle loro capacità abbiano raggiunta una certa misura, in ragione della quale essi si presumano in grado di attribuirsi responsabilità piena degli atti loro, non possono, non vogliono più stare sotto la tutela altrui, e se questa fa pruova d’imporsi di viva forza, essi vi si ribellano: e questa ribellione chiamano manifestazione legittima dei loro dritti. Questa esigenza è tutt’una cosa con lo sviluppo della personalità: che è quanto dire col raggiungimento di quello stato di pieno possesso di noi medesimi, che noi chiamiamo autarchia o autonomia individuale. Ogni individuo raggiunge, o, meglio, presume di raggiungere questo stato: e rispetto a quelle persone che pigliavano verso di lui una posizione di sovraeminenza o di tutela, presto o tardi egli stesso assume una posizione decisa di indipendenza: il quale affermarsi rispetto agli altri designa l’età matura, come diversa da quella in cui la naturale impotenza esige governo, balia o tutela. Or qui non accade di dire fin dove e in che misura ciascuno individuo, preso separatamente, o gl’individui tutti, possano errare in questa opinione loro: in quanto cioè essi s’attribuiscono, pel solo fatto della maturità, la facoltà di disporre bene di sé medesimi. Il certo è, che questo momento arriva, e deve arrivare: e spesso l’entrarvi è così naturale, che sfugge alla osservazione interna di chi v’entra, ed alla esterna osservazione altrui: spesso invece ha più l’aria d’una crisi che d’un naturale passaggio: e la intensità della crisi, la violenza dello entrarvi e la rapidità nell’uscirne, predispongono assai più cose nell’avvenire d’un uomo, di quello che egli medesimo, o chiunque altro l’osservi, possa a prima giunta determinare o prevedere. L’educazione, si dice, deve provvedere appunto che questo passaggio sia normale; non sia, non possa essere, non debba nemmeno sembrare una crisi: che sia invece come l’uso regolare di una capacità acquistata per lo innanzi; non violenta rottura, ma naturale vicenda. Ma l’educazione sta all’uomo reale, come ogni ideale sta al reale: questo vi si avvicina, non lo raggiunge mai. E gli uomini di fatti la licenza di tenersi per tali se la pigliano spesso da sé, senza avere alcuna considerazione alla capacità loro: ed oggi così, come due migliaia d’anni fa, Socrate potrebbe tenersi pago, di non trovare che pochi pochissimi discepoli e fidi amici, ai quali la sua massima: che tanto l’uomo vale quanto egli sa, andasse a sangue e non ribellasse la vanità e la prosunzione. Questo naturale sviluppo per cui l’uomo diviene, o si crede divenuto autonomo, piglia diverse forme nella vita privata e pubblica. Il figlio p. es. desidera dapprima, e poi vuole sottrarsi, e poi si sottrae di fatto all’autorità paterna: il discepolo a quella dell’educatore, e così via. Lo stesso, in più grandi

proporzioni, è avvenuto nella vita sociale. Gl’individui, in più gran numero o tutti, si sono andati attribuendo molte di quelle facoltà che prima pochi pochissimi, con tacito o espresso consenso di tutti gli altri, esercitavano: e in questo esercizio ripongono, o la speranza della loro felicità, o il possesso di essa, o la maggiore, la più alta dignità della loro vita. E questo è anche naturale. Essi possono errare, ed in gran parte errano di fatti: perché l’esperienza prova che disponendo assai più di sé medesimi, non dispongono per ciò solo sempre meglio: spesso per ciò stesso peggio. Ma se errano nella credenza che hanno che il disporre di più e più liberamente, sia lo stesso che disporre meglio e più ragionevolmente, nessuno potrebbe dire che questa lotta per la libertà sia ingiusta, od irragionevole. Perché quale è in fatti l’uomo, la classe, il ceto privilegiato, che possa dire: io solo, noi soli dobbiamo disporre, e gli altri ubbidire: e in questa ubbidienza è tutta la dignità umana, la bontà dell’animo, la perfezione della vita? Se nella maggioranza degli uomini è entrata la opinione, che tutti o la maggior parte di quelli che si muovono e vivono, devano, possano regolarsi da sé: per non piccola parte ha contribuito a formare in essi questa convinzione, il discredito in cui erano venuti, tutti quelli che s’erano per lo innanzi creduti essi soli in dritto di guidar gli altri. Sotto questo riguardo si dice che la libertà, intesa in senso negativo, è un bene: ma non è forse preferibile il dire che essa sia la possibilità del bene? Gli uomini hanno ad essere buoni, cioè onesti, cioè benevoli, cioè decenti, cioè rispettosi del dritto altrui e così via, in quanto trovano in sé medesimi l’impulso ad esserlo: non perché loro s’imponga, si ordini, s’insinui, si prescriva per mille artifizi di riguardi e di paure. Ma saranno tali di fatto, perché si dice loro che possono esser tali? Qui sta, dunque, nascosto il principio di una quistione assai grave: o, a discorrere in forma più rimessa, qui comincia un dubbio, e cade appunto sopra il secondo aspetto di quel vago sentimento della libertà, che la popolare teoria del liberalismo mette a fondamento della morale pubblica, e della condotta dello stato. Si dice, da molti o da pochi, poco monta; per convinzione o per abito nulla monta: che la libertà possa, debba produrre da sé il frutto suo, che è quello di rendere gli uomini migliori, che è quanto dire che essa faccia tutt’una cosa con la moralità: o stia a questa come impulso che non manca, non può mancare mai di produrre il suo effetto. E quindi gli animi sono diventati più alieni dalla credenza, che l’uomo si debba guidarlo; che il bene, il vero bene morale sia ardua cosa a raggiungere, difficile a conservare: e che alla più parte degli uomini bisogni mostrarlo, e visto che l’abbiano tenerglielo continuamente innanzi agli occhi, e stimolarli ad averlo come norma continua dei loro atti. Lo stato, la più grande istituzione umana, minaccia così di decadere: perché la forza sua non può

consistere che nel dominio dell’ottimo: e qui, pare, si comincia a perdere ogni opinione dell’ottimo, o si crede che l’eccellenza sia così naturale in ogni uomo, che tutti debbano poterla trovare da sé. Questa opinione non ha ancora prodotto tutti i cattivi effetti che doveva, perché ha trovato nella società stessa una grave resistenza a tradursi in atto: ché ad ogni passo che si faccia in essa si vede, che ha bisogno di esser retta, e che quella somma di mezzi che prima si credeva, per natura, per divina volontà o per qualsiasi altra ragione, concentrata nelle mani di quei pochi che reggevano lo stato, non può come si sia venir meno affatto, senza che in pari tempo venga meno l’uso di quella stessa libertà la quale si decanta come il maggior pregio dell’uomo. Il problema è intricato assai più che non si creda. I molti sono stati chiamati a partecipare a quel governo dello stato, che prima era in mano ai pochi: e questo passaggio s’è fatto in un luogo in modo più normale, in altro luogo sotto forma di violenta crisi; ma nell’un caso e nell’altro non ha mancato, col volger del tempo, di produrre i medesimi effetti; che i molti, cioè, appunto perché tali, hanno sollevata la moltitudine dei desideri alla dignità di un volere presuntivamente meritevole d’ogni rispetto, e prosciolti da ogni legame hanno spesso obbliato ogni misura di ragionevole. Or qui stiamo innanzi ad una quistione di fatto. La lotta per la libertà non si può né rimuovere né spegnere: e pure coloro che n’escono vincitori hanno bisogno di esser retti, che in questo caso è quanto dire, di reggersi. Alla loro volontà si deve porre un freno: o essa lo troverà da sé, se lo porrà spontaneamente? E donde si prenderà la materia di questo freno: se tutti si credono egualmente chiamati a reggersi? e chi darà autorità al freno stesso, se l’uomo inclina solo ad attribuire a se stesso, a quella che si chiama comunemente ragionevolezza, il dritto d’imporgli qualcosa? Noi siamo davvero lontani dall’immaginare una repubblica ideale, nella quale gli uomini, tutti gli uomini, non si facciano lecito se non quello che è ragionevole: e pongano freno ai disordinati desideri, alle brame ardenti e soverchievoli, in virtù della ragionevolezza loro; per forza di rassegnarsi, come si dice, ai dettami del loro pensiero, o della retta cognizione. Ma se pure un così fatto stato di perfezione fosse da raggiungere, quella società ideale potrebbe essere spoglia di ogni vita morale interna: potrebbe bene rassomigliare più ad un sepolcro imbiancato, che ad un vero tempio col santuario inviolabile. Ché in verità gli uomini possono essere ragionevoli, senza essere virtuosi: perché la ragione, intesa nella sua generalità come si fa d’ordinario, è forma e niente più: forma indifferente che può pigliare quel contenuto morale od immorale, che i bisogni o le circostanze dettano: che spesso adula la nostra impotenza morale con la lusinga che noi sappiamo essere industriosi; e il più delle volte col suo

consiglio non va più in là di quello che il nostro interesse non indichi, non prescriva, non predisponga. Ora una buona parte, una gran parte, del gran conto che si fa dei benefizi della libertà, intesa in un senso puramente estrinseco, riposa sul supposto di questa ragionevolezza, che si dice disugualmente distribuita in tutti gli uomini, ma che pur si dice e si suppone in sufficiente proporzione in ciascuno di essi. L’uso di questa ragionevolezza, così si presume, non può non menare tutti gli uomini, o la più gran parte di essi, a produrre una somma di beni sociali proporzionata allo sforzo di tutti e di ciascuno, che è quello appunto che tutti s’impromettono dall’uso della libertà. L’egoismo fa il suo ufficio di suggerirci quello che ci torni utile; e l’onestà è ancor essa utile: e l’egoismo altrui, limitando il nostro, ci assegna i confini della nostra attività, dalla quale se usciamo c’è chi ci tiene a segno: perché l’interesse di tutti reclama che nessuno offenda quello degli altri. Lo stato è appunto questo gran tutore e curatore degl’interessi di tutti: e lo stato non è che una istituzione, o un complesso d’istituzioni giuridiche. Se gli uomini desiderano, vogliono, aspirano ad altro se lo veggano da sé: hanno la loro propria coscienza, la quale ha modo di manifestarsi in altre forme – la scienza, la religione, la speculazione – e d’acquistare in qualcuna di esse una attuazione esterna, pratica, più rispondente a quei più intimi bisogni che essi per avventura possono sentire. Se non che, l’esigenza va più innanzi: sia che lo consigli la considerazione stessa di quel meccanismo sociale, nel quale la libertà di ciascuno si desidera garantita e limitata dalla libertà di tutti; sia che una voce più riposta della coscienza richieda che il volere sia altrimenti limitato che dal volere altrui. Questa limitazione, si dice, il volere deve trovarla in se stesso; in questo consiste la vera libertà. Noi ci dilungheremmo troppo per tempo dal punto di vista pratico al quale vogliamo tenerci per ora: cioè dire dal considerare come il concetto della libertà morale possa sorgere dai dati stessi dell’esperienza, se volessimo esaminare la possibilità che il volere si limiti da sé. Egli è chiaro però, che anche dal punto di vista dell’esperienza comune, quel concetto deve parere, se non impossibile, d’assai difficile intelligenza. La libertà, questo è il supposto, è la stessa potenza dell’uomo: e il contrario di essa è l’impotenza. Come l’individuo quando è adulto si conduce da sé, e con ciò crede d’aver raggiunto non un bene tra gli altri, ma il massimo dei beni; così gl’individui in quanto membri della società, ora che nella maggior parte si credono adulti, cioè divenuti maturi al governo della cosa pubblica, v’aspirano tutti e vi si conducono, quando possono, nel condurla, così come è nella potenza loro di fare. Or questa potenza, che è tutt’una cosa con la natura umana, ha per un certo rispetto un carattere

d’indefinito, così nella scienza come nelle arti, così nel pensiero come nella tecnica. Questa potenza si presume come lo stesso dritto dell’uomo, e chi dice dritto dice qualcosa d’inviolabile: l’essenza stessa della persona. Dove può trovare l’individuo una misura alla sua volontà, fuori di quella ragionevolezza che mette confine all’arbitrio nel riconoscimento stesso dell’utile proprio, in quanto limitato dall’altrui? Se non che, a chi s’arresti a quel punto, deve ricorrere per forza nella mente un’idea, una reminiscenza confusa, di quel complesso di esigenze, di postulati, di precetti, che in ragione di brevità si suole chiamare coscienza morale, e che poco importa donde si faccia derivare, a che principio inerente o superiore alla vita umana si tenti ricondurre, c’è nell’ambiente della nostra vita interna; posto, dato, formato che sia. Or questo complesso d’idee, di postulati, di precetti non è chi possa dire che sia tutt’una cosa con quella potenza del volere, che si deve attuare nella libertà di tutti e di ciascuno, e che è esigenza di molti si debba attuare. Esso può spesso riuscirci incomodo: non rare volte molesto. Perché se di fatti non è infrequente il caso che ne proceda una spinta all’accrescimento del volere: dove la esigenza sua sia quella del fare, e ad essa non risponda il volere dell’individuo stesso cui l’eccitamento è rivolto; non è, del pari, infrequente il caso, che ne derivi una esortazione al non fare, cioè dire una sospensione nella attività che si celebra come il maggior pregio dell’uomo. Dunque nella libertà, come semplice potenza, come piena intera potenza, non è tutto il pregio dell’uomo. Quel concetto, quindi, della libertà come massimo dei beni ha bisogno di essere corretto, e l’esigenza pratica che se ne fa derivare non è così incondizionatamente ammissibile, indiscutibile, lodevole come sembra. Di fatti chi dice uso della libertà in tutti e per tutti, se egli non è stolto o matto, esige al tempo stesso ordine e disciplina. Il supposto che egli fa, è forse questo: che ordine e disciplina si trovino da sé, quando faccia d’uopo; o che nascano come funghi nel campo assai vasto della attività umana. Ma qui la quistione è assai diversa se uno si ponga dal punto di vista dello stato, o da quello dell’individuo. A questo, si dice, bisogna concedere il massimo della libertà che sia conciliabile con la libertà di tutti gli altri, perché egli troverà da sé la regola, o meglio la misura dell’attività sua: a quello d’altra parte bisogna concedere il massimo dell’autorità che sia conciliabile con la libertà di tutti e di ciascuno, perché rimetta in freno tutti quelli che della facoltà concessa loro facciano più abuso che uso. Chi non vede che qui c’è una contraddizione, egli ha gli occhi della mente del tutto spogli della facoltà del vedere. La contraddizione è questa. L’individuo può, deve manifestarsi liberamente: e

in questa manifestazione sta la potenza sua. Lo stato d’altra parte può, deve rimettere a segno chi abusa di questa facoltà. Or chi dice abuso dice insiememente limite: e nel limite dell’attività, ove esso non si confonda col termine nel quale la potenza cessa, è implicito il concetto di norma. Lo stato ha dunque questa facoltà: definire la norma, in ragione della quale le azioni sono lecite, e trapassata la quale le azioni sono illecite. Ma donde toglie esso questa facoltà: se negl’individui non si suppone che la libertà come potenza? Lo stato apparisce qui non solo più che gl’individui, in quanto potenza; il che non può parere strano tenuto conto della estensione e somma delle attribuzioni sue; ma che gli avanzi di gran tratto in dignità. Ora quella dignità come è data negl’individui stessi: se loro non s’attribuisce altro che la potenza, e in questa potenza sola si ripone la loro eccellenza, che è quanto dire la dignità loro? Non c’è via di mezzo. Quella esigenza della libertà, secondo la comune opinione, è mal posta: manca anzi di ogni fondamento razionale, e d’ogni fine morale. Sarà bene chiarirsi meglio. Chi dice che la libertà sia lo stesso che la potenza, e poi attribuisce a tutti gli uomini il diritto della libertà; egli non dice né più né meno di quello che le parole suonano. Or queste parole suonano così: l’uomo ha il bisogno della libertà: egli tende incessantemente a rimuovere i limiti che la natura frappone all’attività sua, e si sforza di allargare il dominio suo su quella. Questa tendenza fa parte del suo destino: anzi è la conditio sine qua non dell’esser suo: il principio dell’attività sua. Ma, uomo e molti uomini non è la stessa cosa: perché dati i molti uomini, è data in ciascuno di essi la possibilità non solo, ma la necessità della reazione contro gli altri, contro tutti gli altri. Di qui il meccanismo sociale: del quale fa parte la necessità della neutralizzazione delle forze di ciascuno in una forza superiore a quella di tutti presi a parte: un limite cioè alla potenza di ciascuno. Ma lo stato è più che la coscienza di questo limite: esso è norma morale. Or donde si toglie questa norma? Egli è dunque necessario che in tutti gl’individui, in ciascuno degl’individui, questa norma sia apparsa: e che in essi, non la potenza sola costituisca la libertà, ma la coscienza della necessità morale della norma: la quale se si vuol dire che è doppia, secondo che s’attinge dal bisogno di limitarsi rispetto agli altri, o da quello di limitarsi rispetto a sé medesimi, si dice in fondo che è sempre un atto della vita interiore. Se la difficoltà si risolve, come deve risolversi, nel concetto della libertà come limitazione della potenza, si vede che il concetto della potenza è vuoto senza la moralità che le dia vita, calore ed anima; e la moralità, il più delle volte, consiste più nel dir no che sì, più nel restringersi che nell’allargarsi, più nel frenarsi che nell’eromperea.

2. Davvero la quistione si può, si deve pigliare più ab alto. Se la libertà, come semplice potenza del fare, non ha in se stessa tutto il pregio che le si attribuisce, si dirà: dove sta il pregio suo; o meglio, in che consiste quello che le dà pregio? Noi siamo soliti di contrapporre l’interno all’esterno, e di attribuire a quello precedenza di grado su questo: solo perché interno, o meglio intimo. Interno ed esterno possono essere maniere di discorrere, e null’altro: ma possono, devono, significare qualcosa di più. Nel caso nostro si può dire: la libertà interna è più che l’esterna: perché questa si riduce al semplice concetto della potenza, e quella alla potenza aggiunge la dignità. Or dunque l’uomo veramente libero è quello che somma in sé le due libertà, e le mette, poi che le ha sommate, d’accordo. Questo davvero è un ideale: ma perché sia un ideale perfetto bisogna prescindere dalla relazione che è espressa nel concetto di somma e di armonia, e sostituirle la relazione di principio e di conseguenza; chiamare principio la libertà interna, conseguenza l’esterna: attribuire in fine all’una dignità morale incondizionatamente, all’altra solo condizionatamente. I teologi hanno, sotto questo riguardo, precorso i filosofi; e pensano tuttora di precorrerli; ma non è difficile provare, che essi hanno ingarbugliata la quistione in luogo di risolverla. La gran forza loro, in somma, consiste in questo: che essi, cioè, si fondano sul sentimento religioso, che è quello il quale ha più generale presa su gli animi, ed è il più universale, il più accomunitativo che si dia fra gli uomini: ma è pur vero, che essi il più delle volte si dipartono ben presto da questo lor primo fondamento, o v’elevano su un così alto ed intricato edificio, che chi v’entra vi si smarrisce come in laberinto. Fornito l’edificio, il fondamento non si riconosce, non si ritrova più, in nessuna maniera. La religione, invece, guardata nella sua pura forma, ha questo di speciale rispetto alla lotta per la libertà esterna; che essa fa per ciascun uomo della vita interna di lui la quistione capitale. Esser libero internamente, cioè dire, avere una volontà conforme ad una regola (un ideale) riposta nella interiorità dell’animo stesso, in ciò sta tutta la felicità, la beatitudine dell’uomo: l’aspirarvi costituisce il massimo dei suoi doveri, il riuscirvi il massimo pregio suo. Chi è religioso, semplicemente religioso, può ignorare, anzi il più comunemente ignora, in virtù di che, per quale impulso egli pensi per l’appunto così: e questa sua tendenza gli può apparire come venuta dal di fuori, come imposta da tutt’altro che non sia la propria natura dell’animo umano; da un essere, da molti esseri trascendenti, nella loro origine e natura, i limiti della umanità e della mondanità. La religione si ricongiunge al mito: spesso lo crea per proprio impulso, spesso lo riceve d’altronde e lo trasforma e lo idealizza: e da ultimo spesse volte finisce per impigliarvisi in siffatta maniera, che la stessa natura umana v’appare capovolta,

e quello che essa da sé medesima s’impone come sua interna norma, riesce a parere legge venuta ab extrinseco, nella più rozza, nella più superficiale forma di obbiettività. Questa obbiettività è la materia prima su la quale hanno lavorato i teologi, mescolandovi ogni sorta d’ingredienti formali del ragionamento: dai quali, quella obbiettività stessa avrebbe dovuto ritrarre consistenza di sistema, e non ne ha in fatti ritratto altro che schematica disposizione di elementi disgregati, e sforniti d’ogni possibilità d’interiore organamento. I teologi hanno quistionato del libero arbitrio e della grazia: e di quello in quanto integro, o corrotto, o in parte o in tutto, e di questa in quanto dispone, predispone, determina, predetermina o assiste. E la mente libera di spaziare in così fatte disquisizioni, alle quali mancava la materia prima di un argomento certo e ben definito, v’ha preso lo svago: e s’è spesso ostinata, tanto è grande la prosunzione umana, a credere, che cotesto svago fosse bella e buona occupazione seria. La critica s’è ridestata; ed ha chiesto dapprima, come era naturale, il quid facti di tutti quei concetti, i quali erano in gran parte mere supposizioni, e dal quid facti è risalita al quid juris: ed al postutto, dove la teologia non s’è rassegnata a pensare, lo svago è rimasa occupazione così seria come quella di baloccarsi con le ragnatele. Ma dallo svago teologico, che è finito spesso in mera vacuità di formalismo dottrinale, alla intimità del sentimento religioso, ci corre molto. Sarà falso che l’uomo è corrente a trasgredire la legge morale, perché il primo uomo, lui proprio, ha trasgredito il primo precetto d’un Dio che avea visto de visu: sarà falso che la legge morale stia lì come un precetto, come una esterna imposizione di una persona altra dalla umana: e sarà falso che un esterno aiuto, una esterna riparazione siano sufficienti a ravviare l’uomo, a redimerlo dalla corrente del peccato. Falsità quella che procede da un intelletto corrente a costruire su i dati dell’immaginazione un mondo fantastico, rispetto al quale la vita umana non dovrebbe essere che parvenza ed ombra. Ma non sarà falso, non è punto falso, che l’uomo nella miglior parte di sé medesimo, si chiami essa testimonio inappellabile della coscienza, o altrimenti, riprova gli atti, una gran parte degli atti suoi, e che la coscienza della propria debolezza è in lui così viva come è viva quella coscienza della parte migliore di sé medesimo: e che il rimordimento è frequente e la carne è debole, e che il bisogno del pieno interno accordo con noi stessi è così intenso, come quello che è il più intimo, il più profondo nella natura umana. Qui non accade dire come e in che guisa cotesti sentimenti d’interna repugnanza si siano andati ordinando e disponendo in quella compagine così multiforme di opinioni, di massime, di postulati, che comunemente s’addimanda religione. Noi siamo lontani dal credere di poter fare qui, a modo d’incidente,

una filosofia della religione. Non è inutile però osservare che in essa, come in ogni altra complicata forma dell’attività interiore dell’uomo, non è agevole sceverare il primo nocciolo, dalle molte svariate contesture nelle quali esso s’è andato mano mano sviluppando; e che il suo nocciolo vero non è, né può essere quella intricata tela di deduzioni, quella schematica astratta di concetti che si dice teologia. Ogni teologia, come ogni speculazione religiosa, è una combinazione teoretica dei dati immediati della fede, i quali alla volta loro sono la combinazione di mille e mille proiezioni ed obbiettivazioni dei dati immediati o mediati della vita interiore: della quale è gran parte questa distinzione che fa l’uomo in se stesso, fra parte superiore e parte inferiore di sé medesimo: fra parte che comanda e parte che ubbidisce, o che dovrebbe ubbidire e non ubbidisce, il che gli dà tormento e fastidio, e bisogno quindi di libertà interiore. Egli è una quistione capitale nella scienza etica, il ricercare: se tutta la morale si possa fondare sul concetto del precetto o della legge; o se quello che appare legge o precetto sia da risolvere in elemento più semplice, da cui, per via di varie complicazioni, si riesce al concetto di legge, nell’astrazione scientifica, ed all’imperativo del dovere, che appare alla coscienza comune come un solo, un semplice atto immediato. Ma qui non è nostra intenzione di fare l’etica: di ricercarne cioè di proposito i fondamenti, e di esporne il sistema: e ci pare per fino indifferente, che altri, secondo il suo particolare modo di vedere, pensi che la quistione della libertà sia da porre a capo dell’etica, o nei corollari di essa. Or come si sia di quella quistione – nella quale, a dirla per incidente, non sappiamo essere se non con quelli i quali si risolvono per la seconda spiegazione – egli è chiaro, che noi, in quanto ci osserviamo internamente, alla prima ci sentiamo distinti in questa doppia natura o maniera d’essere. Se ad una di essa concediamo eccellenza e dignità, è perché da essa procedono esortazioni, che l’altra si suppone, o che debba e possa, o che debba e non possa secondare. Noi sogliamo chiamare quella parte superiore, o coscienza morale, o sentimento del dovere, o imperativo, o legge morale: e l’altra, così come suggerisca il grado di nostra coltura, la somma dei concetti, o dei preconcetti, o dei pregiudizi che la educazione, la religione, la buona o cattiva coltura filosofica hanno messo, o ridestato, o ingenerato in ciascuno di noi. La religione ha ritratto da questa osservazione interna, così sommaria come si fa il più comunemente, gran parte, la maggior parte di quella complicazione di opinioni e di sentimenti, che si raccolgono intorno al concetto di una volontà, di sua natura impotente, o divenuta tale, a secondare l’impulso della più riposta coscienza di noi stessi: e la teologia ne ha ricevuto l’impulso a discorrere in un vasto campo d’ipotesi e di congetture, con più o meno di cognizione approssimativamente esatta dell’animo umano. Essa ha per fino così fraintesi talvolta i limiti della impotenza, da

includervi, non solo il volere in quanto esecutore della legge, ma la legge stessa, con strana ironia della natura umana, ridotta in tal guisa ad essere esecutrice passiva d’una legge assolutamente estrinseca alla concezione suaa. Ora questa distinzione immediata di noi medesimi in due maniere d’essere – in quella che potremmo dire superiore, e nell’altra che si può dire inferiore – sta tutto il segreto d’ogni forza esortativa, che ci venga di fuori o di dentro. Perché a noi pare che ci comandiamo, che c’imponiamo qualcosa, e che noi stessi siamo gli esecutori del comando nostro: il che torna ad essere, nei suoi tratti generali, il fondamento della idealità umana, come opposta alla semplice naturalità, la quale dall’istinto fino al più complicato volere noi ci raffiguriamo come oggetto di noi medesimi; oggetto, or ribelle or docile, e per ciò stesso sovente assai difficile ad intendere. Questa idealità di certo è data in noi, e chi è religioso l’avverte immediatamente; sebbene presto la tramuti in obbietto essa stessa, come quella che stia dinanzi alla coscienza più come oggetto, che come norma sua. Ma non è essa stessa parte della natura umana: e per ciò stesso non s’è essa formata via via? Qui sta l’addentellato per una quistione teoretica, intorno all’origine delle idee morali, su la quale non vogliamo ora fare alcuna anticipazione. Teniamoci dunque al punto di vista comune. Nell’uomo c’è la esigenza di esortarsi, di biasimarsi, di pentirsi: e da questa esigenza la religione cava la virtù sua su gli animi: la teologia gran parte della sua materia. Nella osservazione comune di noi medesimi, questa duplicità di vita interiore ci appare così chiara, come ogni altra cosa che si vegga o si tocchi con mano: se non che i concetti in cui essa s’esprime possono essere, e sono il più delle volte problematici, e quanto al valore loro discutibili. Quello che importa però è questo: che noi siamo arrivati per una opposta via, ad una veduta più intrinseca. Se la lotta per la libertà esterna gonfia di tanta vanità ed orgoglio l’animo umano, che esso vi perde di vista il pregio della libertà stessa; così che cerca nel semplice accrescimento della volontà la dignità ed eccellenza della vita, con pericolo di perdere ogni speranza d’intendere come la libertà stessa sia da correggere e contemperare nella norma del giudizio morale: qui per l’opposto questo giudizio morale ci si presenta come la stessa natura umana, nella sua pienezza e verità, a cui si contrappone, in quanto le sta dinanzi come oggetto o materia, la forza naturale che dicesi volere, nelle sue svariate e multiformi attitudini. Che cosa bisognerà fare? Domarlo, piegarlo, o spegnerlo affatto? La religione non ha mancato di aspirare qualche volta a questo ultimo postulato: ed il quietismo l’è pullulato intorno, o le si è accasciato addosso. Ma il quietismo ripugna alla natura umana; né ogni religione è quietismo. E se pur fosse; è pur vero che la religione non è tutta la natura umana.

Se non che la quistione non è da guardare sotto questo aspetto. Chi dice che nell’uomo c’è una parte migliore, la chiami pure come gli talenta, dice al tempo stesso che da essa procede una esortazione, una spinta cioè al fare; il che, se non è da intendere assolutamente nel senso, che non ci sia, né ci possa essere una esortazione al non fare; è pur vero che il non fare, in quanto sospensione di azione, risponde ad un fare più interno e più riposto. Or qui è chiaro che, perché il postulato si tramuti in principio d’azione, è necessario si generi un volere che risponda al postulato stesso; o nella ipotesi che il volere (secondo il concetto comune: la volontà) non sia che uno, si pieghi, si ammodi al postulato. Il che importa, che la libertà apparisca non come la pienezza del volere stesso, ma come l’esigenza d’un volere lodevole. La posizione della quistione s’è dunque cambiata. La critica del concetto della libertà esterna, intesa come attività o potenza, ci ha menati al concetto della libertà interna: e questa, dal canto suo, alla esigenza di un volere che corrisponda alla norma che sta al di sopra di esso. In verità pare che noi ci aggiriamo in un circolo vizioso: da una parte si afferma come dato quello che poi si dice doversi porre per la prima volta. Il dato dapprima è il volere, che corre per la sua via, come se non avesse altro né innanzi né dietro di sé: e poi il dato è la parte migliore di noi medesimi, che ci esorta ad un volere conforme all’esigenza sua: la qual cosa importa che quel volere così corrente per la via sua, o non c’è, come appare, o se c’è non ha valore. Il circolo vizioso però può essere solo nella mente altrui; non è certo nella nostra. Noi, se siamo stati abbastanza chiari, non abbiamo ancora detto nulla che uscisse proprio dal capo nostro come opinione nostra. La tendenza degli uomini ad esser liberi, ed a magnificare la eccellenza di se stessi quando si mettono per la via della libertà a briglia sciolta, sta lì e non l’abbiamo fatta noi: e c’è con tutta la tenacità di cui l’umana ostinazione è capace. Ma dal concetto stesso di quella libertà si deduce la necessità della limitazione: la quale consiste in quella più o meno chiara somma di esigenze che si compendiano nel concetto della coscienza morale; la quale è ancora essa lì, senza che noi avessimo fatto nulla del nostro per metterla in essere. Se la sua esigenza è questa per l’appunto: si può dire che noi siamo riusciti ad un problema diverso da quello di prima? Abbiamo detto la prima volta: come è possibile che il volere si limiti? ora diciamo: come è possibile che la coscienza morale s’incarni in un volere che le corrisponda? Questo, per chi guardi bene, è uno e medesimo problemaa. 3. Per chi si fermi ad osservare quello che accade nella coscienza comune, rispetto alla esigenza della libertà morale, deve esser chiaro questo: che

l’antinomia fra volere, come potenza indefinita, e dovere come postulato d’un volere lodevole, ossia determinato e circoscritto, dà luogo a molte contraddizioni nell’opinione, a molte collisioni nella pratica. La riflessione scientifica ha cominciato appunto da queste contraddizioni e collisioni, e spesso vi si è impigliata da non potersene più districare: con la giunta di tutte quelle difficoltà che essa s’è creata per via dei concetti astratti di potenze attive e passive dell’anima, o di estrema opposizione fra intelletto e volere, fra volere e sentimento; e simili. La vita interiore dell’anima può riuscire così ad un bellum omnium contra omnes; senza speranza di mutua intelligenza, o di pacifica composizione. Nella stessa sfera della coscienza comune c’è però l’esigenza di eliminare queste contraddizioni e collisioni. In fatti quando si dice che l’educazione deve formare il carattere buono, o la volontà buona, l’antinomia è risoluta almeno nella esigenza. La opposizione fra volere e postulato del dovere non si suppone come data una volta per sempre, in immagine; ma come tale che si deva porre per la prima volta nell’individuo, in quella disposizione antecedente dell’animo per cui la scelta fra bene e male è preformata nel proposito del volere buono. Ordinariamente accade questo: dei postulati morali se ne fa un catechismo, e s’affida alla memoria, perché lo tenga in serbo: e si spera che il volere vi si uniformi quando accada, e quando faccia d’uopo. Quello è certo un gravissimo errore: ma è un errore che procede dall’ignoranza della natura dell’animo umano: l’esigenza non ne rimane punto invalidata. In questa esigenza è riposta tutta la quistione della libertà morale. Perché il volere si può dire libero sotto due aspetti: in quanto si guarda o ai suoi effetti (le azioni), al più o al meno cioè di restrizione che esso trova nel campo della sua manifestazione estrinseca; o alla sua origine, cioè ai sentimenti, ai giudizi, agl’ideali che lo determinano. Nel primo caso la libertà riguarda il volere solo a parte post, in quanto l’elezione di esso si conforma o non si conforma alla cognizione del possibile: nel secondo caso lo concerne a parte ante, in quanto cioè esso è già dato come libero, come superiore ai bassi istinti, ed agli incerti e riprovevoli appetiti; libero non quanto al suo modo d’apparire, ma per la sua intrinseca qualità morale. Se tutto questo sia possibile, non può sapersi che dalla scienza dell’anima. Così l’etica in quanto scienza, come il sentimento morale in quanto dato immediatamente nell’uomo, non possono riuscire ad altro che all’esigenza della libertà interiore; non mai alla dimostrazione della sua reale possibilità.

II 1. Voi siete dunque determinista? mi pare sentirmi a dire da chi ha letto le pagine che stanno qui innanzi. La domanda è naturale. Se finora non s’è discorso che del volere, in quanto trova la sua limitazione in qualcosa che gli è superiore e lo giudica; e s’è poi accennato alla possibilità che il giudizio morale determini in noi la nascita di un volere corrispondente all’esigenza sua, s’intende che qui non si vuol punto dire che la quistione s’aggiri intorno al libero arbitrio, o intorno al volere che determina spontaneamente se stesso, e trova, in questa spontanea determinazione, la norma sua, ma invece della possibilità che il volere venga determinato, e del come un volere determinato moralmente possa nascere. La quistione della libertà morale è questa, e non può essere altra; e chi pensa altro è in errore: cioè a dire, egli non può intendere né che cosa sia il volere, né che s’abbia ad intendere per volere morale; e cerca quello che non c’è, né ci può essere, e non si può quindi concepire in un pensiero necessario, per la ragione appunto che non c’è, né ci può essere. Ma chi ha saputo questo, ha saputo poco più che niente: perché determinismo ed indeterminismo non stanno lì innanzi alla mente, come bianco e nero stanno innanzi agli occhi, che aprendoli se ne ha, per quello almeno che si presume, una impressione, precisa, ed identica: ché anzi la storia del pensiero filosofico ha raggruppato intorno a queste due parole una così grande e svariata discussione, che non è guari possibile raccapezzarcisi alla prima. Quello che davvero importa nella scienza, è di esporre il problema, e di trovarne la soluzione, provandola: non già di dire a prima giunta con quale parola o frase la soluzione si deva formulare. L’indeterminismo ed il determiniamo hanno avuto molte forme: e il giudizio che si può portare su ciascuna di esse, deve fondarsi sul complesso delle dottrine metafisiche, o psicologiche, religiose o etiche, che ne sono state occasione. Nell’indeterminismo inteso genericamente, come dottrina che prescinde dalla considerazione dei motivi nell’atto della decisione, non è da trovare né verità psicologica, né possibilità di un concetto esatto della necessità morale: ma la quistione non si può dire con ciò risoluta. Il determinismo per esser vero, deve tener conto in egual misura delle esigenze tutte della morale, e delle leggi tutte della vita interiore: e qui sta la quistione. Cerchiamo un primo addentellato nel concetto della libertà, come semplice potenza del fare. 2. L’uomo, si dice, è libero quando può fare quello che egli vuole. In generale a questa affermazione non c’è obbiezione a muovere. Tutti gli uomini sanno, che

la natura e la società stanno loro dinanzi, come due campi aperti all’attività loro; e che nell’una e nell’altra trovano ogni istante molti impedimenti a superare, molte difficoltà a vincere, e per questo lavorano; e se il lavoro riesce al fine al quale è rivolto, il sentimento della soddisfazione che provano essi chiamano sentimento della libertà. Il quale sentimento si può provare in anticipazione, se l’esperienza ha mostrato fin dove l’attività può giungere a toccare la meta; e se in conseguenza ciascuno si rassegna ad essere attivo quel tanto solo, che può riuscire all’esecuzione, e in quella misura e modo che l’effetto ne consegua con certezza. Questa esperienza non è agevole: e molti vi si smarriscono prima di essersene condotti a termine, e sono per ciò appunto infelici, perché vogliono più di quel che possono, o di quello che è possibile; e la somma dei voleri concepiti che rimangono senza attuazione, è come un interno impedimento al sentimento del benessere, della tranquillità, della felicità, della soddisfazione. Se non che, se ci si pensa bene, si vede che quel volere che non si traduce in atto, perché in nessuna maniera si potrebbe tradurlo, non merita cotesto nome. Volere l’impossibile, si dice, è contrario alla saggezza; volere l’incerto è contrario alla prudenza. Il fanciullo ignora questa regola, e vuol (almeno per quel che immagina) tutto quello che desidera: e se non ci fossero gli altri, più esperti di lui, che gli assegnano un confine ai desideri, e lo manoducono nello sceverare il possibile dallo impossibile, e lo educano all’acquisto di quei mezzi che possono conferire al raggiungimento di un fine superiore alla possibilità immediata, ogni fanciullo che nasce ora ricomincerebbe da capo tutto il lungo viaggio che il genere umano ha percorso nel cammino della storia. Ma il fanciullo è aiutato ora a divenire uomo, da quelli che sono divenuti uomini prima di lui: e può, ove sia aiutato bene, divenire uomo per tempo, cioè acquistare una notizia esatta della differenza fra desiderio e volere, e conformare l’attività sua a quella notizia, e mettersi come norma del volere appunto il potere. Questo momento della vita deve arrivare, perché sia possibile, non solo la moralità, ma ogni altra regolata pratica, ogni altro normale esercizio: e chiunque abbia avuto uno sviluppo regolare della coscienza ed una educazione approssimativamente buona, egli sa come e quando sia nato in lui il proposito di volere appunto quello che può, e di procurare di potere quello che vuole. Ora se si guarda il volere, solo da questo lato, si vede chiaro che non erra chi dice che l’attribuirgli libertà sia un pronunziare una semplice tautologiaa; perché davvero, se io dico che la volontà è libera, io non dico altro qui, se non che è libero quello che è libero. Né al desiderio, né alla brama, né all’appetito, né alla voglia compete quel predicato: mancando loro la condizione necessaria, che chi si trovi in quello stato di desiderare, bramare ecc. abbia la coscienza della eseguibilità del desiderio, della brama ecc., mentre per l’opposto nella volontà

questa coscienza si presume sempre. Ogni uomo in quanto individuo determinato è una determinata somma di attitudini peculiari, nelle quali è data la somma delle sue possibilità all’agire. Ciascuno deve volere quello che gli è possibile: e se desidera più di quello che può, deve accrescere i suoi mezzi; ché se fa altrimenti è infelice, e se s’affligge della impotenza sua, senza cercare d’accrescere la potenza egli è stolto e peggio. Non si può dunque chiamare volere quello che è semplice desiderio: perché è elemento essenziale del concetto suo, la coscienza della possibilità della esecuzione: ossia la coscienza del limite rispetto al semplice appetire. La coscienza però della potenza cambia, non solo col crescere o decrescere di essa nelle diverse età e condizioni della vita, ma col cambiare della esperienza stessa; e il limite suo s’allarga o si restringe, secondo che il campo di quella è maggiore o minore; e la prudenza sta appunto in questo, che si sappia intendere dove sia l’occasione di cambiare il desiderio in volere, o di porre termine ad un determinato volere, per gl’impedimenti che si frappongono alla esecuzione sua. Il volere dunque, in quanto c’è già, senza guardare alla origine sua, si dice libero esternamente quando s’esegue, e chiunque sappia volere solo quello che è eseguibile egli è libero, perché tanto vale qui esser libero, quanto scegliere quello che si può: ossia non volere che quello che è lecito volere. È chiaro in conseguenza che il volere non è quella potenza indefinita, che pare a molti; perché oltre ad essere circoscritto dai limiti della nostra organizzazione, e dalle resistenze naturali o sociali che ciascuno di noi trova innanzi a sé, le quali sono tanto varie per quanto è varia la posizione che ciascuno piglia nel mondo con l’attività sua: esso ha questo limite, più intrinseco all’indole sua peculiare, che è riposto nell’antecedente coscienza dei relativi confini della capacità di ciascuno. Quella libertà, dunque, riguarda l’agire, e non il volere: e chi considera questo nella sua origine interiore non può non tenerlo per un risultamento delle condizioni psichiche che lo mettono in essere: perché c’è un punto dal quale comincia, e prima del quale quello che c’è, non è volere. Volere ed appetito, in quanto già sono distinti, sono tutt’altra cosa, che quando s’hanno ancora a distinguere. Ora se si guarda alla storia dell’individuo, la prima forma del volere è appunto l’appetire, come semplice appetire: e da questo si vanno mano mano sviluppando le volizioni abituali, le quali, quando l’individuo è già maturo, si trovano fissate in lui come abito, come proposito, come predisposizione in genere all’agire. Chi dice: io voglio, già dice che egli non appetisca, o desideri, o brami semplicemente: ma che in un solo e medesimo atto della vita interna, coscienza ed appetito fanno uno. Il volere è l’appetito accompagnato dalla coscienza, e reso stabile dall’abito. Ora se da una parte nell’individuo, in quanto si forma, c’è una naturale

selezione degli appetiti, dall’altra parte nell’individuo in quanto è già formato c’è l’elezione del volere, che può conseguire all’appetito; in quanto il volere è dato semplicemente in immagine prima della risoluzione. In che cosa consiste questo atto della elezione? 3. È una maniera quasi popolare d’intendere la scelta, come atto della vita interiore, e come principio della libertà, quella che si riduce ad ammettere, che nell’uomo, in ogni uomo, è data naturalmente la possibilità di volere o non volere, questo o quello, l’uno o l’altro, questo e l’opposto di questo, nell’atto stesso della decisione. Cotesta opinione s’è concentrata, o per dir meglio, s’è sostanziata in quel particolare concetto che si dice libero arbitrio: cioè dire, facoltà naturale dell’uomo di decidersi fra due o più motivi indifferentemente, senza che nella natura dei motivi, nel loro grado di forza o di intensità, ci sia niente che debba rendere necessaria la decisione. Chi ammette il libero arbitrio si dice indeterminista (questa è una delle forme dell’indeterminismo); sebbene non tutti quelli che lo ammettono, siano d’accordo nel dire in che cosa esso debba davvero consistere: e come, dato che ci sia, si debba poi intendere che l’esigenza morale possa divenire obbligatoria, come si presume nell’imperativo del dovere. Innanzi tutto come nasce questo concetto? Perché davvero non c’è nessuno il quale si sia colto proprio in flagranza di libero arbitrio; e pure molti parlano del libero arbitrio, come di un concetto che trova un equivalente di fatto in una reale condizione della nostra vita internaa. Ci par chiaro che chiunque discorra del libero arbitrio, abbia in fondo della mente questo: ogni atto determinato, ossia ogni atto realmente voluto, è preceduto da una decisione; ora chi dice decisione, dice due cose: atto del decidersi, ed agente della decisione; l’atto e l’agente non possono fare uno, perché l’agente è più che l’atto, questo è uno, e quello è la possibilità di esso e di molti altri. Questo agente ci deve essere, e la sua natura non può essere quella stessa dell’atto determinato, perché se così fosse, tutti gli atti dovrebbero rassomigliarsi, e pure gli atti sono assai diversi. Ora l’agente deve avere in sé qualcosa per cui sia la possibilità degli atti differenti, e pure quanto alla sua propria natura, deve essere indifferente rispetto a tutti gli atti presi in particolare. Questo agente è il liberum arbitrium indifferentiae. L’escogitazione è fatta; poi viene la volta di trarne partito, e qui a travagliarsi il cervello per trovare fra la escogitazione gratuita e l’atto determinato, che è il solo in verità che si trovi in natura, un passaggio naturale: e l’imbroglio è stato appunto questo, che il passaggio non s’è mai trovato. Chi osserva se stesso nell’atto della determinazione, prima e dopo di quell’istante in cui la decisione si puntualizza, ha quasi sempre nell’ambito della coscienza la rappresentazione di una possibilità eccedente l’atto determinato al quale si decide. Poniamo che in me, mentre sto qui a scrivere, sorga ora il vago

desiderio di fare altro. Questo desiderio può passare nel mio animo quasi inavvertito, né fermarvisi né starci potentemente. Ma per una serie di complicazioni, con altre rappresentazioni o sentimenti che io sono solito di associare alla rappresentazione di quello che ora comincio a desiderare, può nascere in me un determinato appetito, che sospende in me l’atto che sto compiendo. La penna mi cade di mano, i pensieri che mi correvano per la mente non si presentano più così agevolmente come prima. La mia coscienza è come occupata dal nuovo impulso. Io però ho campo di riflettere: perché in me la voglia dello scrivere non è del tutto cessata, ma solo sospesa o limitata: e se io rifletto, vedo sorgere in me due serie di rappresentazioni in luogo della unica serie che io aveva dinanzi a me, prima che sorgesse il desiderio nuovo. Queste due serie, poniamo, tengono ora tutto il campo della mia coscienza. Io devo pigliare una decisione. Qui non c’è un terzo termine fra le due serie, né ci può essere: e la decisione nasce naturalmente dal prevalere di una delle due serie, secondo che si complichi con altre mie precedenti abitudini, o che trovi stimolo ed eccitamento nei sentimenti che io soglio associare alla rappresentazione dello scrivere, o di quello che desidero ora di fare. La decisione avviene: cioè, in una delle due serie si genera un volere determinato, che trova la sua esecuzione nella rispondenza organica di quei movimenti corporei che sono destinati a servire le diverse decisioni dell’animo: e quando è avvenuta c’è in me luogo a pentirmene o a compiacermene, non c’è più luogo a decidermi una seconda volta. Però avvenuta che sia la decisione, in qualunque dei due stati io mi trovi in seguito, se mi ricorre alla mente la rappresentazione dello stato opposto, io dico: era anche possibile di fare il contrario. Certo era possibile: ma se mi fossi deciso contrariamente, era anche possibile l’opposto; ma che faccio io ora di questa possibilità? Tutto al più mi potrà servire a questo, che io accresca in me l’amore dello scrivere, se la decisione che ho presa m’è stata cagione di pentimento: se mi potrà o no riuscire di accrescere talmente questo amore che sia sufficiente a resistere alla lusinga opposta, io lo saprò un’altra volta che avrò a decidermi; ma quella semplice possibilità non mi giova né punto né poco. Davvero la teoria del libero arbitrio non è che il mito di questa possibilità: un mito filosofico e teologico, come tutti gli altri che sono nati da una scorretta esperienza della vita interiore; dalla fretta di concentrare in concetti generici gli stati reali della vita psichica; e dalla pretesa di attribuire a questi concetti generici una virtù generativa degli atti particolari dai quali sono stati astratti. La possibilità di una decisione opposta a quella che s’è presa di fatti c’è come astrazione della nostra mente: ma non come elemento reale della decisione stessa, in quanto atto particolare: perché nessuna cosa o atto è se stesso più la possibilità sua. Ché se quella possibilità ha da essere qualcosa di più che una

semplice possibilità, deve specificarsi in tanti e tali motivi efficienti, quanti possono essere i criteri pratici coi quali si valuta la decisione presa per la prevalenza degli appetiti: e qui sta tutto il problema. Quello a cui non si guarda ordinariamente, è questo: che in qualunque decisione si pigli, fra le molte che erano possibili in un determinato momento, si dice sempre: io voglio. Ora quell’io che si accenna in genere nell’espressione: io voglio, può essere molte cose; sentimento o coscienza dell’utile, o del piacevole, o dell’onesto; totalità dell’io in quanto si riferisce a quella particolare specie d’attività su la quale cade la decisione, o particolare forma di esso in quanto massima, proposito, abito, bisogno e così via. Innanzi ad una così svariata possibilità di dati, quanti son quelli che si presentano come fattori di ogni singola risoluzione, chi potrà dire che tutto il gran segreto stia riposto nella sottigliezza del libero arbitrio? Se il concetto del libero arbitrio manca d’ogni forza di resistenza a queste due interrogazioni: quid facti, quid juris? non è a dire nemmeno che sia una pia ed utile invenzione in servizio della morale. Se si dice ad un uomo: tu sei dotato della facoltà di volere, e di volere questo ed il contrario di questo, in ogni tua particolare decisione; e poi gli si dice: tu devi esser buono; se si guarda bene a quel che si dice, si vede che si riesce ad un non senso, perché l’imperativo del dovere, al quale s’appellano pedagoghi e maestri di religione, moralisti e giuristi, precide dalla radice quella vuota possibilità, o la fa per uno dei suoi lati, per quello di volere il contrario di quello che si deve, affatto spoglia d’ogni legittimità, e diritto. L’imperativo della morale è anche esso vuoto, se chi lo annunzia non tiene conto della reale condizione del soggetto cui è rivolto: e qui davvero si corre pericolo di annegare tutta la morale in due vuoti; in quello del libero arbitrio ed in quello del dovere. 4. Il concetto del libero arbitrio è nato storpio al mondo. I teologi che pei primi l’escogitarono, non viveano in quell’ambiente scientifico e morale nel quale viviamo noi: ed avevano innanzi a sé una intuizione del mondo diversa della nostra. Se non fosse così non sarebbe spiegabile come accordassero il concetto del libero arbitrio, con quello dell’imperativo della legge, e della necessità di qualcosa di superiore che sorregga e redima l’uomo. Il libero arbitrio in gran parte per essi c’era stato: non era una attuale attività dell’uomo: era una potenza più o meno alterata e corrotta dal peccato: e di qui il bisogno della grazia. La teologia cristiana, col concetto del peccato o della grazia s’è avvicinata alla verità empirica e speculativa assai più di quello che non abbia fatto col concetto puro e semplice del libero arbitrio: il quale sarebbe in sé la negazione d’ogni morale e d’ogni religione. Il meccanismo naturale della coscienza non ha niente in sé a prima giunta, per cui il motivo morale debba

prevalere nella determinazione: e l’esserci o no il libero arbitrio non decide niente più niente meno su la moralità umana. 5. È chiaro però che dal punto di vista della esperienza comune sono molti gli uomini le cui azioni si sottraggono ad ogni previsione di regola, prudente o morale che si sia. Questi uomini, e non son pochi, ed in una certa età della vita son molti, e del pari molti in certe condizioni sociali, s’intende che son quelli i quali sommettono la ragione al talento; e nell’atto che si ribellano alla regola che si vuole insinuare loro nell’animo, sogliono dire: io faccio quello che voglio, non quello che debbo. Molti sognano che in cotesto arbitrio consista la eccellenza della vita, e che il ribellarsi alla regola, sia come un dar prova del maggior pregio che s’abbia l’uomo. In verità però, chiunque pensa così egli è in errore se crede che il suo volere sia libero, perché si sottrae alle regole, che gli altri tengono per utili, per prudenti, o per morali: sarà il piacere che lo domina, e la tendenza al piacere può essere rinforzata eziandio dal piacere che nasce dalla voglia di sottrarsi alle regole, e d’esaltarsi nell’eccesso dell’arbitrio. Ma qui il motivo – pessimo come esso è – c’è sempre: ed il tiranno il quale si sarà fatta una regola del non dovere in alcuna maniera fare mai cosa alcuna che la sagacia altrui abbia a prevedere come naturale, è lo schiavo di questa regola, che a lui pare mezzo di maggiore libertàa. 6. In riassunto, per intendersi sul modo come il problema della libertà interiore s’ha da porre: bisogna guardare ai seguenti diversi significati del concetto della libertà. Noi siamo liberi esternamente, quando possiamo fare quello che vogliamo; quando all’atto interiore che s’esprime: nell’io voglio, corrisponde la condizione del potere. Non si arriva alla coscienza di questo rapporto che per via dell’esperienza: il che importa che nell’uomo è sempre data una reale somma d’impedimenti al sentimento della libertà, un principio di servitù rispetto al complesso di quello che è semplicemente volibile, e che rimane nell’animo allo stato di desiderio, non soddisfatto, o di appetito non attuato. Nella massima: bisogna volere quello che si può, è espressa in generale l’esigenza su la quale si fonda la prudenza; e nella quale al tempo stesso riposa la condizione negativa della libertà morale. In questa condizione, si suppone: l’io voglio. Ma il volere è dapprima semplice appetire, desiderare, bramare: è un volere in immagine, un volere puramente nella rappresentazione. Il divenire volontà è quello che si dice decisione: la quale, nell’atto che avviene, è determinata da quello che c’è nell’io: perché nell’io voglio c’è appunto l’io che vuole (Herbart diceva: io voglio è lo stesso che io divengo: ich werde9). Ora il valore psicologico della quistione sta appunto in questo, che si sappia come avviene questo decidersi che è espresso

nell’io voglio: ed il valore morale di essa sta nella cognizione di quello che fa, che l’io voglio sia un volere morale. Quella che si dice comunemente indifferenza, come punto di passaggio fra il decidersi ed il volere, è una pura astrazione, che esprime niente altro che l’impotenza appunto alla decisione, il difetto di essa: e non è da confondere con la indifferenza del giudizio morale, che non è indifferenza perché volere indifferente, ma è indifferenza in quanto non è volere. Il volere è dunque determinato da quello che ha dietro di sé, da quello che lo mette in essere: e la differenza fra volere morale ed immorale sta appunto nel giudizio sul volere, non nel volere stesso: che se non fosse così il massimo della libertà umana consisterebbe appunto nell’arbitrio: in quello cioè che nel concetto del carattere si esige che non ci deva punto essere.

III Noi avremo più tardi occasione di mostrare più chiaramente donde proceda quella illusione, che fa della semplice possibilità della decisione opposta, una potenza stabile e costante nella natura umana; o, come si dice, una facoltà originaria dell’anima: e vedremo anche come quella illusione si riproduca in altre forme, tutte le volte che l’atto assai complicato della decisione, si tenta riferirlo tutto intero all’io come semplice io, o al volere come semplice volere. Ora abbiamo a metterci in guardia contro una equivocazione, nella quale non è difficile incorrano parecchi di quelli, che della pura e semplice facoltà del libero arbitrio sono usi a fare il fondamento più sicuro della morale deliberazione. Oltre di che, c’è qui modo per noi di riannodare il nostro discorso, a quella speciale maniera d’intendere il problema della libertà, che è nata ed è prevalsa in un recente particolare indirizzo delle scienze sociali. 1. Ora la prima impressione che fa in molti il sentire a dire che non c’è libero arbitrio, è questa: o noi siamo in pieno fatalismo, o siamo prossimi ad arrivarci. Posto che non ci sia – così si ragiona – un termine di mezzo fra i due o più motivi, cioè dire fra le due o più serie di rappresentazioni, che in un determinato momento sono come la materia della scelta nell’atto della decisione, la decisione, avviene così come è predeterminato nella natura dei motivi stessi che essa avvenga, e comunque avvenga è sempre necessaria. E qui la mente – si soggiunge – è libera di spaziare in una serie infinita di supposizioni, e di estendersi tanto nella considerazione delle cause ultime di cotesti motivi, da riuscire ad una intuizione cosmologica nella quale non c’è più posto per la libertà, e nella quale le azioni umane devono tutte apparire così rigorosamente necessarie come i processi naturali che noi sogliamo comunemente credere diversi dai processi interni, principalmente per questo, che negli uni supponiamo predomini la necessità, e negli altri la libertà. Di certo c’è chi guarda le azioni umane sotto questo aspetto: ed è fondato il timore, che dalla cruda negazione del libero arbitrio si corra difilato all’affermazione pura e semplice dell’ordine assoluto della natura; nel quale non c’è posto, né per la libertà, né per la deliberazione. Un pensiero però che s’abbandona così presto a queste conseguenze estreme, senza ripensarci più sopra, è per lo meno un pensiero immaturo: cioè a dire un pensiero incapace d’attendere che da tutto quello che l’esperienza gli offre, e che esso può combinare e collegare per via dei concetti, gli stia spiegato chiaramente dinanzi. Se si guarda però a questo, che la deliberazione, morale od immorale che si sia, è

un atto così peculiare della vita interna, da non trovare riscontro in nessuno dei processi così detti fisici, non c’è a temere che il pensiero debba qui necessariamente cadere nella semplice, nella nuda concezione causale. La tendenza al fatalismo è di assai vecchia data nello spirito umano, e v’ha preso forme sempre varie, e sempre nuove. In fondo non consiste in un peculiare indirizzo della mente, ma in una fantastica combinazione dei dati di una più o meno larga esperienza, in una immagine complessiva e raccorciata dell’universo. Perché un pensiero anche appena iniziale può involgere nella confusa rappresentazione di una necessità cosmica, tutto quello che avviene che è avvenuto o che avverrà, e fermandosi ad un apparente primo ed ultimo termine di una presunta serie causale, negare in essa, in quanto si suppone completa, la possibilità che alcuna delle sue parti sia altra da quello che appare, come elemento della serie stessa. Quello che c’è c’è: è la regola di questa maniera di rappresentazione. Se non che il pensiero etico si ridesta: e l’uomo, quando è giunto alla pienezza, sia storica sia individuale, dell’attività sua, intende che egli può proporsi dei fini e raggiungerli, e che con questi suoi fini particolari egli altera una più o meno grande parte di quell’ordine che gli sta dinanzi. La coscienza di questa attività sua si riflette nella rappresentazione di quello che dapprima appariva come impenetrabile unità della serie dei fenomeni, e impronta in essa lo stesso suo carattere di volontà e di elezione. Quello che c’è c’è, si cambia nel concetto: quello che c’è, è stato voluto. Qui è inutile andare più innanzi: ché il farlo sarebbe come un voler tentare di riassumere tutta la storia del determinismo meccanico, in quanto si ricongiunge alla rappresentazione religiosa o non religiosa di una serie causale assoluta, che abbia o non abbia termine in una volontà, superiore all’umana, e più o meno cosciente predeterminatrice della volontà umana. Quello che importa però è questo: che bisogna guardarsi dal pregiudizio che sia inevitabile pel pensiero, quando si rivolge a studiare gl’intrinseci motivi dell’attività interiore dell’uomo, l’anticipare e confondere in una sola immagine, tutto quello che l’esperienza gli dà come vario e distinto. Perché il volere non è lì tutto d’un pezzo: né come essenza che non cambi mai natura: né come attività che non muti mai indirizzo: esso c’è, e non c’è, e c’è ora in un modo ora in un altro, e quando c’è, non corre così in linea retta come mobile spinto, ma si piega innanzi alle esterne resistenze, e si muta per le interne esigenze. Chi dice, dunque, che nell’atto della determinazione, non c’è, non ci può essere altro, da quello in fuori che nell’anima è dato, in quanto unità reale dei processi che le son propri, egli non dice, né pretende dire, che da questo ad una affermazione pura e semplice di quella maniera di sistema, sia religioso sia filosofico, che ha nome di fatalismo, non ci sia che un passo.

2. Ma qui c’è altro. Il determinismo meccanico ha trovato negli ultimi tempi nuovo impulso in quell’insieme di vedute che si suole raccogliere nel concetto, o nella esigenza di una fisica sociale; ossia di una serie di studi fatti col metodo delle scienze naturali intorno alla organizzazione sociale; ed al modo come gl’individui si muovono e vivono in essa, per naturale condizione di azioni e reazioni. Erano di certo in grave errore gli antichi deterministi meccanici, quando per via di considerare l’individuo da un canto separatamente, e l’oggetto naturale, il semplice oggetto naturale, dall’altro canto, riuscivano a tener quello come semplice conseguenza di questo. Fra l’individuo come è ora, e la natura c’è di mezzo la società: e l’individuo non vive che in questa, ed ha da questa – dalla storia, dalla tradizione, dalla educazione – la più gran parte dei concetti, dei sentimenti, delle volizioni che egli, secondo la sua speciale capacità è atto a ricevere; e nel corso di tutta la vita rimane come legato a quell’ordine, a quella forma sociale in cui si trova, o che elegge. Nell’assiduo ricambio delle forze sociali, non c’è posto per nulla che si presuma debba eccedere la misura di quello che c’è realmente, e che nel suo insieme rappresenta la somma delle reali forze di tutti e di ciascuno. Se togli la soddisfazione dei primitivi bisogni animali, tutta la rimanente attività umana è frutto di questa vita sociale che l’uomo s’è fatta nel processo della storia, e nella quale sono riposti tutti i moventi delle sue volizioni, ed i mezzi di soddisfarle, e la possibilità di quella forma di soddisfazione in cui si vanno a compiere. Finché dunque non sarà fatta questa grande storia naturale dell’uomo (così ragionano alcuni), in quanto essere sociale, non è punto possibile di venire a capo di nulla in ogni quistione che riguardi l’individuo in particolare, in quanto egli è da considerare come limitatamente o illimitatamente capace di libertà. E parecchi di quelli che inclinano a credere che cotesta scienza naturale dell’uomo, come essere sociale e storico, sia in via di farsi, o prossima già a compiersi, sono venuti in questa opinione: che l’individuo è affatto determinato dalle cause sociali che agiscono sul suo volere, e che in questo, quanto alla sua nascita, o alla maniera di attuarsi, e quanto ai criteri donde la decisione procede, non ci sia nulla che non sia dato anticipatamente nella società stessa. Certamente in tutto questo c’è del vero: ma non son punto vere tutte le illazioni che cotesta maniera di considerare l’uomo, cava da certe esigenze giuste. Il vero è questo: che l’individuo come è ora non è semplice potenza naturale, ma insieme potenza storica e sociale, e che la realtà sociale e storica si riflette in lui, in quanto il carattere e l’indole non sono dati solo naturalmente, la forza per agire secondo o contro l’indole non è data solo naturalmente. Il concetto dunque dell’uomo s’è allargato. L’uomo non è solo da considerare come essere animale e razionale, ma come essere sociale e storico; perché la sua

vera natura sta in questo: che egli s’è spiegato e si spiega in quella varietà di manifestazioni che sono la vita sociale e storica. Ma tutto ciò non cambia per nulla il valore della libertà in generale, della libertà come atto della vita interiore di ciascuno individuo preso a parte. Ogni individuo che viva in una società progredita, che è il risultato d’un lungo processo storico, differisce profondamente, quanto alla qualità ed alla complicazione della vita interna, dall’uomo che vive, come si dice, nello stato di natura. Il volere, come forza naturale, è in lui immensamente cresciuto, la coscienza dei limiti di esso è immensamente sviluppata, la somma dei motivi etici, estetici e religiosi in virtù dei quali si può reagire contro la forza naturale degli istinti, è ordinata, e consolidata: ma in fondo la quistione della libertà lo riguarda sempre come individuo: e appunto perché sviluppato di più, lo riguarda nella parte più intima della individualità sua. In fondo non c’è l’uomo storico e l’uomo come individuo, l’uomo come singolo e l’uomo come elemento della organizzazione sociale: ma c’è solo l’individuo come semplice individuo, più o meno modificato dall’azione degli altri individui che lo hanno preceduto in ordine al tempo, più o meno limitato e modificato dall’azione degl’individui che gli sono attorno in ordine allo spazio. Tutto quello che c’è nell’individuo, derivi dalla natura, dalla società, o dalla storia, non ha valore per lui, se non in quanto egli è per l’appunto individuo: in quanto cioè è data in lui quella somma di stati particolari che costituiscono la sua realtà, e nei quali s’ingenera quella duplicità di elemento determinante e di elemento determinabile, su cui riposa la elezione buona o cattiva, la semplice libertà, e la libertà morale. 3. Ci pare opportuno di chiarire questo concetto con un esempio, sembra a noi, calzante. La statistica, come tutti sanno, è una scienza principalmente descrittiva. Essa non ha immediatamente uno scopo morale: e molti, la più gran parte di quelli che vi si occupano, non pensano di metterla in servizio delle scienze morali. Notare quanti uomini nascano e muoiano, e come muoiano, quanti matrimonii si contraggano, e in quali condizioni, quanti delitti si commettano e di che natura, quanti suicidi e in che modo: e tutto questo avuto riguardo agli anni entro il corso dei quali cotesti fatti accadono, e della proporzione dei fatti stessi con gli abitanti di un determinato stato, provincia o città: – ecco in breve l’ufficio della statistica. Se non che di questi fatti, altri son di quelli che noi siamo soliti di chiamare naturali, p. es. la nascita e la morte, altri son di quelli che si riferiscono nella loro origine alla volontà umana, come a causa efficiente più o meno diretta. Ora se il raccogliere, e classificare questi ultimi può menare alla conclusione, che in essi si riveli una certa costanza di proporzioni, tenuto conto delle

condizioni in virtù delle quali si può presumere che si generino, e della proporzione numerica fra gli agenti loro, e tutti quegli altri individui che trovandosi nelle medesime condizioni, possono supporsi come possibili agenti analoghi, egli è chiaro che la statistica può riuscire ad essere la scienza della costante produzione degli atti tenuti presuntivamente per liberi. A cotesta parte della statistica si è dato il nome di statistica moralea. Se si guarda ai risultati ottenuti finora, non può negarsi che il tentativo è stato coronato da un gran successo. La costanza, negli atti umani così detti arbitrari, è maggiore, massime in alcuni di essi, di quella che si riveli in alcuni dei fatti così detti naturali. Il numero p. es. dei matrimoni contratti in un determinato periodo di tempo, tenuto conto della proporzione di esso col numero degli abitanti di un determinato paese, è più costante del numero dei casi di morte che si avverano nelle stesse condizioni. Gli atti così detti arbitrari rivelano, dunque, maggiore costanza: il che potrebbe dar luogo a questa opinione; che la causalità, in quanto agisce su l’uomo, come essere cosciente, ossia in quanto essa è legge della motività, ha un effetto più certo di quello che s’abbia su l’uomo stesso come essere naturale. Però, si noti bene, la statistica morale, per assodare cotesta costanza, ha bisogno di due condizioni: cioè dire, di poggiare la sua osservazione sopra un numero di casi abbastanza grande, e di tener conto di questo: che gl’individui, presi nel loro insieme come associazione regionale o politica, si trovino a parità più o meno certa di condizione fra loro. Se la prima condizione manca, cioè dire, se il numero degl’individui su i quali l’osservazione cade si rimpiccolisce, la proporzione dapprima ricavata dalla enumerazione si altera, o cade nell’incerto: se la parità di condizioni manca, la proporzione riesce altra da quella osservata su gl’individui messi in diverse condizioni. Ora non è a negare che in questi risultati della osservazione statistica sia riposto un grande incintivo a parecchie escogitazioni: le quali possono essere più o meno fondate, secondo la natura dei concetti psicologici o morali ai quali si riportano. Fra quelli in fatti che si son messi a studiare cotesti risultati della statistica morale, sono stati parecchi che non hanno saputo integrare il loro studio con un altro ordine di concetti, e che si son quindi risoluti a trarre dalla isolata osservazione dei fatti meramente statistici, tutto un particolare sistema di antropologia o di psicologia che voglia dirsia. Ecco la prima illazione falsa che essi traggono. — Il numero degli abitanti di una determinata regione è questo, il numero p. es. di quelli che v’hanno contratto matrimonio è questo: dunque il secondo numero rappresenta la media reale di coloro i quali sono capaci di compiere quell’atto; di attuare in esso l’istinto reale

del matrimonio. Tutti gli altri abitanti della stessa regione, avranno sentito allo stato d’immaginazione, ossia d’istinto fittizio, lo stesso bisogno; ma il fatto prova che essi non lo sentivano davvero. Qui, come si vede, dalla costanza del numero degli atti compiuti, si deduce tutta la possibilità di un determinato atto, senza tener conto di questo: che il volere come semplice volere ha un limite nella potenza, e che la volontà in quanto atto compiuto deve esser preceduta da una risoluzione, ossia da un altro atto interno, la cui natura è così complessa, e così varia nei diversi individui, da non potersi riassumere nel concetto indeterminato di un istinto. Fra coloro che non contraggono matrimonio ve ne sarà di certo molti che non hanno alcuna voglia, né reale né immaginaria, di contrarne mai; ma son pure molti quelli, nei quali alla voglia fa ostacolo la potenza, o qualunque altra di quelle ragioni per cui noi ci astenghiamo dal tradurre in atto un proposito, o dal soddisfare una esigenza. D’altra parte, chi sa quanti siano i matrimoni contratti in un determinato periodo di tempo, in una determinata regione o paese, egli sa solo questo: che il numero degli atti compiuti in rapporto a quella forma di convivere umano che si dice matrimonio, è tanto; ma egli non sa nulla di più intorno ai motivi speciali di ciascuno di cotesti atti, e molto meno intorno ai motivi che agiscono in senso opposto su tutti quegli altri uomini che si trovano in quella età nella quale il matrimonio è possibile. Se la scienza psicologica ci guadagna questo: che essa, nella indagine intorno ai motivi delle azioni degli individui singoli, deve tener conto, e non piccolo, delle particolari condizioni sociali nelle quali gl’individui vivono, alla conoscenza delle quali condizioni contribuisce non poco la statistica, al tempo stesso è assai chiaro di per sé che il concetto della libertà individuale, in quanto atto determinato di decisione, o pluralità di atti che fanno uno, torna ad essere il medesimo. Ma la esigenza sistematica di cotesta statistica morale va ancora più innanzi. L’osservazione, si noti bene, offre un numero determinato, poniamo di delitti, sopra un determinato numero d’individui d’una certa provincia o paese, in un certo elasso di tempo. Se le condizioni rimangono le stesse, questo numero è costante. Qui è il caso d’istituire un calcolo di probabilità, e di arguire per mezzo suo quanti individui, in ragione delle proporzioni raccolte per l’innanzi, si può presumere che in un determinato periodo di tempo devano essere per l’avvenire autori di un pari numero di delitti. C’è chi ripete qui lo stesso che accade pei matrimoni; che cioè vi sia una tendenza naturale al delitto in un certo numero d’individui, la quale si manifesta in proporzioni costanti. Ma questo è poco male: perché di cotesto istinto nessuno s’è davvero avveduto mai, ed è assai poco difficile il provare che non può esistere, perché tendenza al male suona lo stesso che negazione del male, non potendosi intendere per volontà cattiva se non quella che coscientemente si ribella al bene. Ma si dice inoltre: questa media dei

delitti rappresenta il prodotto di quei tanti e tali individui di una determinata regione o paese, che tutti concorrono, in quanto vivono insieme, a predeterminare quella somma di motivi, che si rivelano negli atti particolari, visibili, e numerabili. Donde proceda questo errore è chiaro. Il numero, poniamo, dei delitti, dei matrimoni, dei suicidi e così via, sta al numero degl’individui che vivono in una data regione, in una relazione determinata: or questa relazione si esprime dapprima col tanto per cento o per mille, il che dà una frazione costante di quel numero che s’è dapprima trovato costante come semplice unità. Questa operazione si protrae nel senso, che a ciascuno individuo si attribuisce una frazione minima di quel numero complessivo p. es. di delitti, che sono accaduti in mezzo a quel più gran numero d’individui che sono gli abitanti di quella determinata regione di cui si discorre. Qui comincia l’immaginazione a lavorare. Della pura e semplice relazione numerica si fa l’espressione di un rapporto reale: il numero complessivo, si dice, è una quantità reale composta dalle quantità minori distribuite in tutti gl’individui: i quali non sono più presi come semplice unità che deve fare da dividendo della cifra complessiva, ma come reali fattori di essa. Certo non può negarsi che in una determinata società, c’è un concorso reale di circostanze per cui le azioni di ciascuno debbano o possano tenersi per risultante effettiva della quantità effettiva di azione per cui gli altri individui influiscono sopra di lui. Se Tizio commette un delitto, entrano nella spiegazione dell’atto delittuoso la sua condizione economica, e sociale, gli esempi che hanno agito sopra di lui, la sua educazione, il grado di favorevole o sfavorevole pressione che esercitano sopra di lui le istituzioni dello stato in cui vive. Ma queste influenze non vanno all’infinito: né trovano la loro reale espressione nei numeri della statistica. Solo chi conosce Tizio da vicino, chi ne ha seguito la storia e ne ha analizzato il carattere, può dire con certezza in quale misura la somma degli agenti sociali abbia contribuito a formargli quell’indole peculiare, che ha predeterminato in lui la disposizione, o meglio la possibilità dell’atto criminoso: ma il numero degli abitanti del paese, della regione, della parte del mondo in cui Tizio vive, non sta in alcuna reale relazione con l’atto particolare che egli compie. Se qui abbiamo toccato alcune delle illazioni che un pensiero incompleto è in grado di ricavare dallo studio empirico dei fatti sociali, non abbiamo con ciò ancora detto tutto. Quella integrazione per via di altri concetti, il cui difetto noi deploriamo qui, è stata fatta con altri mezzi che non siano quelli di una osservazione più o meno diretta, ma più larga, e più spregiudicata dei fatti stessi. La negazione della libertà, come atto peculiare della vita interna, per molti importa diretto ed esplicito riconoscimento di una gran legge cosmica, in ragione

della quale il nesso universale della causalità è da concepire come così perfetto e compiuto in sé, da non ammettere alcuna interruzione, sospensione, o eccezione nel corso suo. L’uomo, si dice, non è che una parte minima di questo grande ordine, parte determinata affatto dalla somma delle cause naturali che ne generano, predeterminano, e soddisfano il volere: così minima rispetto alla grandezza dell’ordine stesso, che non c’è verso d’intendere come esso possa in alcuna maniera o per alcuna via alterare quell’ordine generale di cui è elemento, risultato, o anelloa. Uno degli ultimi espositori sistematici dei risultati della statistica morale, ha espresso cotesto pensiero in una immagine veramente grandiosab. Poniamo, egli dice, che in uno stato retto a tirannia il despota stabilisca anticipatamente quanti individui fra quelli che gli son soggetti, debbano in un determinato periodo di tempo compiere un determinato atto, il matrimonio p. es. o altro; e che cotesto tiranno rimetta alla sorte la scelta di quegli individui ai quali è da affidare il mandato di eseguire questa legge, il cui adempimento è parte integrale della esistenza dello stato stesso, e s’avrà un’immagine approssimativa di quello che avviene tutto giorno nell’ordine sociale, per opera delle leggi costanti della economia naturale. Qui si noti, quello che manca di fatto, è il tiranno, la legge da lui imposta, e la estrazione a sorte; perché la natura non si può personificare, e le leggi sue son molte e non una, e gl’individui i quali compiono questo o quell’atto determinato non sono quello che si rivelano come agenti, che in quanto rappresentano una somma di condizioni determinate, non una delegazione accidentale delle medesime condizioni, considerate solo allo stato di possibilità, negli altri individui che realmente non compiono i medesimi atti. Il paragone, per quanto efficace a risvegliare nella coscienza una rappresentazione indirettamente adeguata, e se si vuole anche dolorosa della normalità relativa degli atti umani, è altrettanto disadatto ad avviare alla conoscenza diretta di questa normalità stessa: nella quale la determinazione non è da intendere come semplice predeterminazione: ma come reale appropriazione da parte di ciascuno individuo preso isolatamente, della somma degli eccitamenti che gli si parano dinanzi, e come peculiare reazione dell’individuo stesso contro la stessa somma di eccitamenti: il che come avvenga non è a dire in due parole, se prima l’occhio della mente non si rivolge a studiare tutta quella serie di processi interni, i quali, o che ci sia o che non ci sia l’anima come reale principio di essi, non c’è fisica sociale, o antropologia fatalistica che possa provare che s’abbiano ad intendere come analoghi in tutto e per tutto ai fatti così detti, o più propriamente detti, naturali.

IV 1. La più parte di quelli che si dicono deterministi, si arrestano alla ricerca delle cause esterne; sociali o naturali che esse si siano, e poi sentenziano: ogni uomo è tale, quale queste cause, col loro concorso, lo determinano ad essere. Ma che cosa vuol dir causa: che cosa è uomo? Qui comincia l’imbroglio. Secondo l’opinione comune – e molti materialisti e naturalisti non vanno più in là della opinione comune – tanto è causa quanto cosa, o successione di cose: anzi giustaposizione di cose. Date le cause sono dati gli effetti. Ma come accade che gli effetti sono così diversi? L’errore loro è assai grossolano, ma non è meno grossolano l’errore di parecchi recenti spiritualisti, ai quali è parso naturale che la quistione fosse da porre così: fra determinismo meccanico, ed indeterminismo c’è un dilemma. Se l’uno è falso, l’altro deve essere vero. Ma perché questo dilemma? Molti non sanno fare altro, da questo in fuori, che essi lo pongono gratuitamente: e poi non badano alle conseguenze, non badano cioè a questo: che se l’esigenza loro è quella di salvare la morale libertà dell’uomo, dall’indeterminismo del libero arbitrio non si riesce punto né alla morale, né al carattere, né alla responsabilità. La morale esige un volere conforme a quello che in noi è dato come assoluta regola del giudizio etico: il carattere riposa sopra una costante coordinazione delle singole volizioni in un volere complessivo: la responsabilità in fine non ha fondamento se non si può attribuire l’atto particolare ad un volere che è la reale espressione dell’antecedente attività dell’individuo. Per quel dilemma non c’è dunque luogo nella scienza: esso è mal posto: e con esso non si riesce ad alcuna ragionevole soluzione del problema della libertà. 2. Se non che, qui sono necessarie alcune distinzioni: a. È ben altro, che il determinismo si concepisca come predeterminismo, o come semplice determinismo; b. è ben altro che il determinismo si concepisca come assoluta successione di cause e di effetti, immediatamente data in una intuizione generale del mondo, o come esigenza conoscitiva da un canto (quello che avviene dentro di noi deve essere conosciuto secondo le sue proprie leggi), e come esigenza morale dall’altro canto (in noi ci ha da essere un volere morale). Finché si enuncia in generale il principio di causalità, esso è così chiaro di per sé, come criterio conoscitivo, che non c’è obbiezione a fare. Ma chi vuol conoscere, non gli basta sapere che le cose, che tutte le cose, sono da pensare col

sussidio di questa o quella forma del pensiero: egli vuole appunto sapere la natura delle cose stesse, e come s’abbia ad applicare, in modo peculiare, nell’intenderle, questo o quello fra i criteri conoscitivi. Ora il meccanismo esterno, o naturalismo che voglia dirsi, fa dell’uomo un puro, un semplice essere naturale; ed applicando, grossolanamente, il concetto di causa pronunzia la sentenza: nell’uomo tutto è determinato. L’uomo ha però questo di peculiare, che egli è coscienza, e non solo coscienza come l’animale, ma eziandio coscienza riflessa; ossia coscienza che al tempo stesso è distinzione di sé da altro, e di sé da se stesso. L’uomo rappresenta sé a se stesso: e in questa sua rappresentazione si considera rispetto alla natura come libero; ossia capace di determinare, nella somma degli elementi che compongono la sua intimità, una serie nuova di movimenti – cause ed effetti – diversa da quella serie di cause e di effetti che si dice naturale, della quale è parte in quanto essere naturale; e diversa dalla serie stessa immediata degli elementi che gli stanno dinanzi come semplice coscienza – le rappresentazioni. Né questo è tutto. L’uomo sottopone la rappresentazione sua, del suo volere e della sua azione, a molti criteri di valutazione (il conveniente, l’utile, l’onesto), e giudica della conformità, o non conformità del suo volere a quei criteri, e ne prova compiacimento o ripugnanza; e loda e biasima gli altri secondo che le volizioni o le azioni loro sono conformi o non conformi a quei criteri. In virtù di questi giudizi si generano voleri nuovi: i quali possono raggiungere un alto grado di efficacia su la rimanente vita interiore, ed ordinarsi in una antecedente disposizione dell’animo, che costituisca una somma di reali resistenze contro tutte le cause esterne. Come tutto questo accada è ufficio della psicologia darne ragione: e la psicologia, come scienza fondata su l’esperienza, deve riuscire, non può non riuscire, a trovare le leggi che determinano le forme le quali son proprie dell’oggetto che essa ha dinanzi a sé. Ora in questo sono molti, ed assai complicati aspetti, e bisogna vederli ed esaminarli tutti. Chi cerca la libertà in un punto dell’anima, come se fosse una dote peculiare, riposta non si sa dir dove, in che nascosa parte di essa, davvero non viene a capo di niente. Perché l’atto interiore del determinarsi, sia come atto peculiare, sia come risultante dalle condizioni dalle quali dipende, sia come valutazione della conformità o non conformità sua alle esigenze dei giudizi pratici, è così complicato, ed ha un così vario significato e valore, che chi si provi di riassumerlo nella semplice relazione di causa e di effetto, non può riuscire ad intender niente. Quello che si dice causa è ora l’abito, ora la convinzione; ora l’immagine fantastica, ora il concetto; ora il sentimento dell’utile, ora quello del piacevole; ora il proposito antecedente, ora il desiderio subitaneo; ora la massima morale, ora il basso appetito. Chi potrebbe

mettere qui termine a questa enumerazione? 3. Spesso accade però che di questa ricchezza della vita interna, che può dar luogo a tante svariate volizioni, a tante forme diverse del volere abituale, a tanta complicata possibilità di libera riflessione interna, dalla quale può procedere, spesso deve procedere, la piena, la intera soggezione del volere alle esigenze della morale, si faccia come un punto; e in questo punto solo si cerchi tutto quello che realmente non si trova, non si può trovare, che nella vita stessa dell’anima. La critica del concetto della libertà interna, che spesso si ripete dai materialisti, e dai naturalisti, non concerne ordinariamente che questo punto astratto, nel quale si crede debba consistere, o si debba far consistere la libertà. P. es. si dice: il tratto caratteristico dell’uomo è la coscienza, la consapevolezza di quello che avvien dentro e fuori di lui. Nella consapevolezza, come semplice atto del sapere quello che avviene fuori o dentro di noi, non c’è niente che ci autorizzi a tenerci come capaci di una determinazione libera. La coscienza non è che una appendice della natura umana: un occhio interno, inteso a ricevere notizia di quello che pare avvenga dentro di noi, ma che non ha altra origine ed altra occasione se non quelle stesse cause naturali che agiscono sul nostro corpo. Se io voglio dunque intendere davvero quello che pare avvenga dentro di me, io devo mettermi fuori di me: nell’oggetto, è questo doppio, naturale e sociale; e in quanto esso è così fatto, come una pura scienza oggettiva me lo deve rivelare, esso solo mi deve spiegare tutto quello che pare avvenga dentro di me, solo perché io ho coscienza. Qui, a prescindere dall’errore teoretico, in cui cadono tutti quelli che dall’oggetto, dato confusamente come semplice oggetto naturale, pretendono risalire alla spiegazione del soggetto: la vera difficoltà sta in questo, che non solo le idee morali, ma tutti i concetti pratici non si possono più intendere. Perché in questi c’è sempre una presunzione: che cioè io non deva contentarmi di sapere come le cose sono, ma come le azioni devano essere; quei concetti sono dati, in somma, solo nel soggetto come soggetto, non possono in alcuna maniera procedere dalla esperienza esterna. Tutta la pretesa novità dei nuovi critici della coscienza, dal punto di vista del metodo oggettivo, è di assai vecchia data. Considerare la coscienza come semplice appendice della natura umana, e negare in virtù di cotesto concetto la libertà in generale, e la libertà morale in particolare, è uno dei punti principali della dottrina di Spinosa. Se la pietra, che abbandonata a se stessa cade, diceva Spinosa, avesse coscienza di se stessa, immaginerebbe di essere libera: e l’uomo appunto perché ha coscienza immagina di esser libero12. Se non che non c’è chi sappia pensare che cosa sarebbe una pietra, se all’esser pietra aggiungesse la

coscienza di esserlo: di essere cioè se stessa. Perché l’uomo non si può considerare come la somma di uomo e di coscienza di uomo. Egli davvero si considera come tale, solo in quanto ha coscienza di sé: il che se non dice – come non può dire – che la coscienza sia la sua stessa essenza (nel senso metafisico); perché la coscienza suppone altro; suppone cioè le reali condizioni dalle quali risulta (l’anima come semplice anima, e il corpo come molteplicità di atomi, e come unità organica), non dice nemmeno che essa sia una giunta, indifferentemente appicicata al contenuto naturale, come sarebbe il caso di una pietra alla quale si venisse aggiungendo a capriccio la coscienza di esser tale. In Spinosa veramente c’era altro: la esigenza cioè di un pensiero comprensivo della realtà – la metafisica propria di lui – destinato a spiegare come cotesta coscienza fosse parallela e non subordinata alle leggi fisiche del corpo: in quanto corpo ed anima sono diversi modi dei diversi attributi della stessa sostanza. Quindi in lui il principio che ordo et connexio rerum idem est ac ordo et connexio idearum13; il quale principio lo mise in grado di riuscire per altra via al concetto della libertà, che avea negata come atto della coscienza morale; al concetto dell’atto della cognizione che si uniforma liberamente all’ordine della natura. In Spinosa c’era una esigenza assai giusta, una esigenza nuova pel tempo suo, quella cioè di fare a meno del concetto astratto delle forme dell’anima, come determinate forze efficienti, e il bisogno quindi di spiegare, come quello che si presume dato, si faccia – p. es. il volere: ma a questa esigenza sua non corrispondeva né un giusto né un adeguato concetto delle funzioni psichiche, anzi essa fu perturbata da una imperfetta considerazione della natura umana: e dalla opinione che nell’insieme delle idee e dei sentimenti morali non sia altro che una confusa mescolanza di pregiudizi, che il concetto adeguato dell’ordine assoluto della natura, non può in alcuna maniera accettare come stregua della cognizione reale dell’uomo. I recenti oggettivisti, non si trovano ora più innanzi di tanto: anzi hanno fatto un passo indietro. 4. Ci può essere un altro modo di assottigliare il concetto della libertà: quando cioè si dice che l’anima è libera in quanto essa è sostanza spirituale, regolata da leggi affatto diverse da quelle della materia, e dotata quindi di una assoluta facoltà di cominciare da sé un nuovo processo, altro da quello che è proprio della natura. Davvero chi dice spirito, non dice più di questo; dice una parola: e se si arresta alla semplice distinzione di natura e di spirito, non può fare un solo passo innanzi. La rappresentazione comune riannoda alla parola spirito un significato di originaria eccellenza e superiorità: cosicché il corpo, si dice, deve ubbidire allo spirito, ed essergli subordinato. E siccome l’uomo, in quanto individuo reale, si considera appunto come la somma di materia (corpo) e spirito (anima),

si suppone che la perfezione stia appunto riposta nel dominio dell’una su l’altro, come di quella che è per sé più degna. Donde la rappresentazione comune abbia tratta questa opinione, non è qui il luogo di ragionare: non si può però omettere di notare, che essa non è immediata così come pare, ma è invece il risultato di un processo complicato: di una psicologia popolare e di una psicologia riflessa, che fanno uno e si compendiano nella coscienza religiosa. Nella religione cristiana, che è stata preceduta nel suo elemento speculativo da un lungo processo teoretico, è avvenuto questo: che lo spirito si è considerato come limitato dalla materia, ossia l’anima dal corpo, come se senza di questo l’uomo potesse vivere interamente libero e beato. Se non che si vede subito che questa è una illusione, se si considera che nella nostra attività morale, quello che noi abbiamo a vincere per essere buoni sta in noi stessi in quanto ci rappresentiamo come spirito, sta cioè nei nostri istinti, e nei nostri appetiti. Or chi dice istinto ed appetito dice atti della vita dell’anima, non atti semplicemente del corpo: perché il corpo non c’è per me che in quant’io lo sento: né io saprei veramente dire come e in che misura io sarei uomo senza il corpo. La rappresentazione religiosa ha trovato il suo complemento in questo concetto: che a spiegare l’antitesi che c’è fra anima e corpo, ha dovuto porre come data una precedente corruzione; la qual cosa se c’è chi possa credere, non è chi possa provare. L’anima come semplice anima non è data nell’esperienza. Quello che l’esperienza interna ci offre è una molteplicità di condizioni, una vicenda continua nella maniera d’essere di noi stessi, in quanto consapevolezza, sentimento, e volere. Il concetto dell’anima è una necessaria induzione fondata su i dati dell’esperienza: è un necessario complemento dell’esperienza nel pensiero dell’esperienza stessa. Per uscire dall’anima come semplice anima, io ho bisogno per l’appunto dell’esperienza interna: di esaminarmi come quella molteplicità di stati che sono io, in quanto mi osservo. Di certo io non sarei quello che sono, se io non fossi appunto anima e corpo: ma sono quello che sono in quanto anima e corpo mi appariscono in quella molteplicità che sono le mie rappresentazioni. Il volere in generale (l’appetire ed il volere propriamente detto) è un prodotto dell’attività dell’anima: non c’è nell’anima come semplice anima. E dove non è volere, non è possibilità né di determinazione, né di elezione. Il concetto dunque della libertà non può riguardare l’anima come entità metafisica, ma l’anima in quanto attività rappresentativa e volitiva: come vita reale. Cominciare dallo spirito come semplice spirito: e porre in esso la libertà come una qualità inerente alla natura sua, non è dire altro che questo: lo spirito come semplice spirito è distinto dalla natura. Da questa semplice distinzione io non cavo niente: perché quello che cade sotto la mia esperienza, i processi interni, sono spiegabili per via di quella distinzione, ma non si riducono a quella

semplice distinzione. Se dunque il dilemma fra determinismo meccanico, ed indeterminismo è mal posto, la presunzione teoretica di assodare il fondamento della libertà nella natura (metafisica) dell’anima è infruttuosa. Quello che si cerca nell’esigenza della libertà morale, non può avere il suo fondamento di là da quel punto nel quale nella vita interiore sono dati quei diversi stati, che si dicono rappresentazione, sentimento, e volere: determinati così e così come coscienza, memoria, giudizio, sentimenti piacevoli e spiacevoli, volizioni istantanee o abituali, e così via. In questa reale composizione delle varie forme della vita interiore è riposto il segreto della elezione, il fondamento del carattere, il principio della moralità. 5. Sarà bene di riassumere il cammino che abbiamo percorso: L’indeterminismo, come s’intende comunemente, non spiega l’atto della determinazione, perché si riduce ad ammettere la mera possibilità del contrario; e di cotesta possibilità pura e semplice fa, per via d’ipostasi, una facoltà determinata, una specifica potenza dello spirito: Il determinismo meccanico, o esterno, trascura la specifica natura dell’uomo in considerazione di una necessità assoluta, la quale o si riduce semplicemente ad una generica esigenza del pensiero: la legge di causalità; o mette capo in una rappresentazione del mondo, come assolutamente determinato dalle leggi costanti che si dicono naturali: Nello spirito, in quanto somma dei processi interiori, è data una maniera di attività diversa da quella che si dice naturale: in quanto lo spirito è coscienza non come semplice attenzione o ricognizione di quello che gli sta dinanzi, ma come memoria, e giudizio, e riflessione, e formazione dell’io; e soprattutto come valutazione (estetica e morale): cioè dire in quanto storia interiore che constituisce l’individualità, e in quanto possibilità di determinare il valore dell’attività secondo le presunzioni che sono implicite nei giudizi di valutazione: La libertà consiste quindi nella possibilità di volere secondo motivi: e non solo secondo gli accidentali impulsi che sono occasionati dal corso naturale delle cose. Nella possibilità del volere secondo i motivi, è riposto il fondamento del carattere; cosicché: La possibilità della morale è tutta fondata sulle condizioni di ricettività della coscienza rispetto alle idee morali, e sul supposto che queste agiscano come motivi determinanti del volere. Ci servirà di guida a quello che viene in seguito questa osservazione: che la legge della motività non vuol dire che i motivi (sentimenti approbativi o riprobativi – sentimenti morali ed interessi – moralità ed egoismo) agiscano direttamente sopra un volere permanente, che è il risultato o l’espressione di una

facoltà peculiare dello spirito; ma che essi agiscono sopra le volizioni determinate che nascono in certi determinati gruppi rappresentativi, associati a certi sentimenti che sono loro propri: sicché la lotta interna che noi sentiamo nell’atto della risoluzione, non è il combattere di una facoltà dell’animo con un’altra facoltà, ma il contrasto di determinati processi psichici, i quali tendono a predominare nella coscienza, e vi predominano secondo leggi determinate.

V 1. Nella comune esperienza della vita, noi intendiamo chiaramente questo: che gli uomini agiscono e vogliono secondo l’indole loro, e che gli atti particolari di ciascuno non s’intendono adeguatamente, e pienamente, se non quando si riferiscono all’indole stessa, come al principio reale donde procedono. Nella vita noi siamo tutti deterministi: e su questo supposto si fonda per l’appunto tutto quello che noi chiamiamo conoscenza degli uomini, ed arte di guidarli: la prudenza da un canto; la educazione e la politica dall’altro canto. Il volere da questo punto di vista non è che la volizione semplice, o la coordinazione delle volizioni singole nell’abito del volere (il carattere): e noi sogliamo chiamare accidentale quella volizione che non si può spiegare con gli antecedenti della persona stessa, da cui procede: naturale invece quella che ha una piena ed adeguata spiegazione negli antecedenti della persona: in quello che forma il suo io, in quanto abito, o carattere, o proposito, o ideale. Ma noi non ci fermiamo a questo: a considerare cioè gli atti singoli e le volizioni singole come prodotti della natura stessa dell’individuo: perché noi di giunta giudichiamo praticamente gli atti stessi, in quanto li confrontiamo con le esigenze delle idee morali; e spesso, anzi il più frequentemente, presumiamo che gli atti dovevano essere diversi da quello che la esperienza stessa ce li presenta. Questo confronto riesce ordinariamente spiacevole: e molti di quelli che v’insistono, con l’assottigliare da un canto l’ideale, e con l’aguzzare troppo dall’altro canto il senso critico, finiscono spesso per essere pessimisti: perché il pessimismo, in fondo, si riduce a questa contraddizione: che l’ideale si tiene come non realizzabile, e pure si continua ad esaminare coi criteri suoi la comune realtà della vita umana. Questa presunzione però, che gli atti devano essere diversi da quello che sono realmente: non ha alcun valore, se nella persona che si esamina, in quanto agisce e vuole, non si suppone quella stessa facoltà del giudizio morale, che noi usiamo come criterio nostro nell’esame degli atti suoi. E ciascuno in fatti questa presunzione la fa rispetto a se stesso, in quanto si giudica semplicemente. La libertà del giudizio non è chi possa negarla: essa è la nota più distintiva della natura umana. Ora deve parer chiaro questo: che nella libertà del giudizio deva cercarsi l’ubi consistam della possibilità della morale: l’antecedente psicologico di quello che si dice carattere morale, come piena compenetrazione delle esigenze etiche nell’attività interiore che dicesi volere. Noi possiamo rappresentarci in idea un volere perfetto, un volere che sia la

piena attuazione di quello che noi esigiamo appunto si debba volere: di quello che deve assolutamente essere. Ora se questa immagine si confronta con la comune realtà della vita, se si confronta cioè con la somma di tutto quello che realmente si vuole, dal confronto può nascer questo: che rispetto al più gran numero degli atti volitivi si pronunzii un giudizio di riprovazione; un giudizio che si esprime così: questo doveva non essere. Il correlativo si esprime così: il contrario doveva essere. Di qui nasce il concetto comune del dovere: che esprime, rispetto alla persona singola, la esigenza di un doveressere nel volere suo. La libertà del giudizio si converte così, all’impensata, nella libertà del volere; perché si dice: tu devi volere, che è quanto dire: tu devi volere il volere: un non senso cioèa. Perché, si noti bene: quando il giudizio morale mi dice che questi o quegli appetiti sono riprovevoli, mi dice in fondo questo, che io dovrei volere il contrario. Ora se io voglio il contrario: la libertà mia sta nella attualità di una volizione conforme alla esigenza del mio giudizio: ma questa volizione stessa non può nascere, quanto alla sua maniera di farsi dentro di me, in altro modo da quello che nasce ogni altra volizione, cioè determinata da quello che c’è nell’io. Se invece mi metto innanzi una persona reale come m’è data nell’esperienza, e dico semplicemente: tu devi volere così e così, io dico né più né meno che questo: tu devi volere il volere. La riflessione scientifica è spesso caduta in questo errore, di fare della libertà morale un semplice postulato nella libertà del volere: il quale concetto erroneo riposa sopra una confusione fra relazione del volere con l’ideale, e qualità naturale del volere stesso. 2. Sono molti quelli i quali ritengono che questa libertà, come pura e semplice libertà del volere, sia data nella esperienza interna come un fatto di coscienza; e riescono quindi, o a confondere questo concetto con quello del libero arbitrio, o ad ammettere nell’anima una doppia facoltà del volere: due facoltà originariamente distinte; a porre, in altri termini, come dato anticipatamente quello che deve farsi per la prima volta mediante l’esperienza interna, che si forma e si specifica via via nel corso della vita. Perché originariamente non c’è appetito in un punto, e volere libero in un altro punto: passione da un canto, azione dall’altro: un’anima che viene determinata da altro, ed un’anima che si determina da sé: ma in ogni atto volitivo, lodevole o biasimevole, buono o cattivo, c’è sempre attività: il farsi, il mostrarsi, l’attivarsi dell’anima in quanto vuole. Chi dice invece che c’è un volere libero, come semplice volere, fa del volere una essenza non una semplice esistenza: e deve a dirittura rinunziare alla formazione del carattere, alla esigenza della educazione, al concetto della responsabilità: deve adirittura correre alle conseguenze, o meglio inconseguenze dello Schopenhauer, che fa del volere l’essenza stessa dell’uomo.

3. Ci pare opportuno chiarire il concetto della libertà del volere, come semplice immediata libertà nel volere stesso, con l’esempio della libertà trascendentale secondo Kanta. Innanzi tutto è da notare che per Kant il concetto della libertà del volere non è, né un fatto di coscienza – un dato cioè immediato della cognizione – né una ipotesi teoretica fondata sopra una induzione più o meno estesa dei fatti interni: per Kant la libertà del volere è un semplice postulato. Dal punto di vista dell’esperienza interna, diceva Kant, dentro di noi tutto è determinato. Le azioni di ogni uomo sono la conseguenza naturale del suo carattere, e chi avesse piena cognizione di questo, potrebbe, data che gli fosse la conoscenza di tutte le condizioni esterne, sotto l’azione delle quali l’uomo può agire, prevedere per filo e per segno la natura delle azioni stesse. Ma d’altra parte l’esigenza morale del doveressere è data anche in noi: e noi giudichiamo conforme ad essa, e su la maggior parte delle azioni umane abbiamo questa opinione: che esse dovrebbero essere altre da quello che sono. Questa esigenza sta in noi nella forma d’un comando: l’imperativo categorico; il quale ha appunto questa natura, d’essere il contrario della semplice successione causale (il determinismo interno): una pura esigenza non ricavata né ricavabile dalla comune esperienza, un atto puramente intelligibile. Questo comando, soggiungeva Kant, non esprime una legge naturale – un doveressere che è semplice coazione (müssen) – ma è un doveressere che è semplice presunzione (sollen) di quello che costituisce la moralità del volere. Ora qui pare che potere e dovere si contraddicano: perché il dovere suppone la pura, la semplice libertà del volere: ed il potere, come è dato nell’esperienza, fa del volere un semplice prodotto di quello che n’è condizione. Per intender bene come Kant sia arrivato al postulato della libertà del volere, bisogna tener presenti due cose: la distinzione tra fenomeno e cosa in sé, risultato della sua ricerca teoretica: e la pura esigenza d’una morale spoglia d’ogni riguardo eudemonistico, fondamento della sua ricerca pratica. Questa esigenza è una delle più grandi glorie di Kant: perché a lui la scienza etica deve la prima chiara dimostrazione della assoluta indipendenza della morale da ogni riguardo di utilità, da ogni fine di benessere, da ogni relazione con l’ideale religioso. Se non che, questa stessa esigenza posta immediatamente a capo di tutta la morale, fu d’impedimento a Kant perché egli riuscisse ad una ricerca intorno ai caratteri distintivi di quell’ideale etico che s’esprime nel doveressere. Kant fondava tutta l’etica sul concetto del dovere: sul semplice concetto cioè di quello che è il correlativo del comando espresso nell’imperativo. Eliminati i riguardi estrinseci della relazione del volere col motivo esterno dell’utile, o del bene (la

ricerca del bene sarebbe essa stessa eteronomia), non rimane che il volere come semplice forma: il volere che non ha altro innanzi a sé che sé stesso: che è autonomo nell’imporre a se stesso la legge sua. Ma dove trovarlo questo volere, se nella sfera dell’esperienza tutto è determinato da altro, e qui si tratta appunto di un volere che non è determinato da niente altro che da se stesso? Questo volere non è dunque dato nella esperienza: e se la morale esige che ci sia, non gli rimane altro posto che la sfera extratemporale nella quale non c’è più causalità, perché il concetto di causa non s’applica che al fenomeno. In questo postulato del volere intelligibile è dato insiememente il fondamento della morale, e la soluzione del problema teoretico della libertà morale. I momenti, se c’è permesso di dire così, formativi del concetto kantiano della libertà trascendentale, sono tre: esigenza pura e semplice di quello che deve assolutamente essere (la ragione pratica che nella sua assolutezza è legge): antinomia fra questa esigenza e la pura e semplice determinazione causale che è data nella esperienza interna: risoluzione dell’antinomia nel postulato della libertà trascendentale, come puro, come semplice atto intelligibile del determinarsi del volere, in quanto libera, piena, assoluta autonomia. Ora se si guarda ai tre momenti si vede dove sta la ragione ed il torto della deduzione kantiana: e si può trovare il vero punto di vista per la ricerca del concetto della libertà. Innanzi tutto nel concetto di legge, o d’imperativo, c’è già il volere. Nel punto di partenza, dunque, si pone già anticipatamente quello a cui si vuole arrivare. Perché se il punto di partenza per chiarire l’antinomia deve essere questo: che si sappia che una gran parte degli atti volitivi non sono come dovrebbero essere, cioè non corrispondono a quello che in noi è dato come esigenza del doveressere (del sollen), quello per mezzo di che cotesta esigenza si fa chiara in noi, non può essere esso stesso volere (legge-comando) ma deve essere un semplice antecedente (possibile) del volere stesso. Sarà certo un difficile problema per la psicologia l’intendere come s’arrivi al concetto della legge (morale): ma quello che deve esser chiaro alla prima è questo; che il giudizio che si esprime nel doveressere è giudizio semplicemente, e non è volere: e quindi non è immediatamente legge. Se si pone dal bel principio come legge non si fa più un solo passo innanzi. Perché chi ci autorizza a ritenerla come degna di rispetto (Kant stesso fondava sul rispetto disinteressato la nota caratteristica della morale in quanto dovere), se la legge stessa non si giudica? Vuol dire in somma che la più elementare forma della morale deve esprimersi in una teorica del giudizio morale, innanzi a qualunque altra intrusione del volere stesso. Kant non riuscì in fatti che ad una astrazione, quando costruì l’imperativo morale su i dati della

universalità e razionalità della massima. Né la universalità né la razionalità danno al volere in quanto legge dignità morale: perché questa non può consistere che nel pieno riconoscimento da parte del soggetto del valore della norma stessa in quanto è intesa come l’ideale d’un volere possibile. In secondo luogo: quando si dice che nell’esperienza interna tutto è determinato: in che senso s’ha da pigliare questa assoluta determinazione? Determinazione vuol dire qui semplice passività (l’anima come semplice unità dei processi interni, in quanto consapevolezza di essi); o anche libera reazione del soggetto, e possibilità quindi che questa reazione contro i motivi, in quanto semplicemente dati, sia anche reazione morale? Non è l’anima essa stessa attività: e in quanto tale non è essa capace di una libera determinazione: cioè di una determinazione indipendente dai motivi in quanto dati meccanicamente? La libertà, in somma, che si cerca in un punto dell’anima, non è da cercare nell’insieme dell’attività sua? Soprattutto poi: il concetto di un volere che determina se stesso, è esso pensabile? Lockea, il quale voleva riserbato il predicato della libertà solo all’azione in quanto risultato del volere antecedente, perché la volizione in quanto tale, è motivata nella sua origine, considerava come contraddittorio un volere che determina se stesso, perché tanto è dire determinazione di sé nel volere, quanto dire volere il volere. Ora qui dice Schopenhauerb nasce una serie infinita inevitabilmente: il volere del volere suppone un altro volere il volere, e così via. Dove troveremo in fondo la ragione della determinazione prima: della suicoazione17 del volere: nel concetto forse della causa sui? L’Herbartc in fine ha ampiamente criticato il concetto di un volere che determina se stesso. Qui, egli dice: si fa questa supposizione, che la determinazione di sé, sia uno sfuggire al concetto di causa esterna. Ora chi dice determinazione di sé, dice o precedente inerzia, o precedente attività. Nell’un caso, puro e semplice passaggio dall’inerzia nell’attività, nel secondo, passaggio da una certa maniera di attività in un’altra. Ora il passaggio dall’inerzia nell’attività si dice movimento, e l’intelletto cerca d’ordinario la spiegazione del movimento nella causa: sicché qui o si deve supporre una causa esterna che agisca sul volere per determinarlo a determinarsi, o si deve supporre nel volere stesso un’altra determinazione di sé, la quale cade sotto lo stesso dilemma, e così all’infinito. Nell’altra ipotesi che la determinazione di sé sia un passare da una maniera d’attività in un’altra, è chiaro che si torna allo stesso dilemma, o della causa esterna, o d’un’altra determinazione di sé, e così all’infinito. Un concetto così contraddittorio non può essere fondamento della morale: perché, pare a noi, qui si concentrano nel solo volere tutte le difficoltà che sono

proprie della risoluzione nell’individuo concreto, in quanto molteplicità di stati interni; ed in cotesta concentrazione, tutte le difficoltà riescono insolubili. Da ultimo, l’atto della determinazione di sé nel volere, diventa un impedimento a quella stessa morale in ragione della quale si postula. Se è vero che nella sfera dell’esperienza, o come diceva Kant, del fenomeno, il volere è sempre determinato, e che l’atto della libertà, ossia l’atto del volere che si determina da sé è un atto trascendente la sfera finita del sapere umano; tanto è dire questo, quanto è dire che la moralità di ciascuno, guardata nella sua natura extratemporale, è affatto predeterminata; che il carattere cioè non è quello che apparisce nella sfera della esperienza, determinabile, ossia educabile, ma dato, assolutamente dato. È noto come Kant sia riuscito al concetto del male radicale; il quale concetto riapparisce nel pessimismo di Schopenhauer, e nella opinione che ha lo stesso filosofo, che il carattere si debba intendere come essenzialmente dato innanzi ad ogni attività cosciente. Determinismo causale nella sfera dell’esperienza, predeterminismo nella sfera dell’incondizionato, compiono il fondamento teoretico della morale Kantiana. La distinzione dunque che Kant voleva posta fra la morale e la teoria, fra la ragione teoretica e la ragione pratica, rimane come annullata, nel postulato della libertà trascendentale. Ma nella dottrina di Kant, erano i germi di queste quistioni: Se il volere non è volere morale che in quanto semplice forma del volere, non in quanto esso ha termine in questo o in quel voluto, quali sono le forme primitive del volere (le relazioni sue) nelle quali esso è oggetto del giudizio morale; e quanti e quali sono i giudizi morali primitivi che si possono dedurre da coteste forme? Se il volere per essere buono deve essere autonomo, quale è la maniera d’essere del volere, in cui esso merita il predicato di libero, e come cotesta libertà morale prescindendo dal concetto di una causa sui che non si può pensare, è da mettere d’accordo col meccanismo interno? Ossia come stanno assieme motivo e morale? Nel carattere che cosa è dato, che cosa si pone via via, che cosa si può porre volontariamente? Rispetto a queste quistioni la filosofia ha preso due indirizzi, che riescono, se m’è lecito di dire così, da un canto al concetto della libertà nel senso macrocosmico, dall’altro canto al concetto della libertà nel senso microcosmico: al problema cosmologico della libertà, ed al problema strettamente psicologico e morale. L’Herbart, sotto il secondo riguardo, è quello che ha più chiaramente inteso le esigenze che erano incluse nell’indirizzo pratico della filosofia Kantiana.

VI 1. In verità, tutte le quistioni scientifiche intorno alla libertà interiore dell’uomo, hanno a loro primo fondamento questo fatto: la presunzione che c’è in ogni uomo, d’una certa età s’intende bene, di potersi regolare da sé negli atti della vita, e di poter quindi assumere sopra di sé la responsabilità piena degli atti stessi. Facoltà di poter fare a modo proprio, con la presunzione di poter far bene: e in conseguenza sentimento della responsabilità degli atti che procedono da cotesta facoltà; questi sono i tratti caratteristici della personalità sviluppata. Se l’individuo presume tutto ciò, la società, in quanto si manifesta come semplice sentimento o opinione pubblica, accorda appunto all’individuo quella facoltà che egli presume, e da questo riconoscimento immediato le leggi hanno ritratto i primi elementi di quelle definizioni le quali determinano il carattere giuridico della personalità rispetto allo sviluppo della età, e in conseguenza l’attribuzione degli atti alla persona: ossia la responsabilità della persona rispetto agli atti suoi particolari. Le leggi non sono nate perfette: anzi hanno spesso errato in coteste determinazioni, sia che facessero proprio e confermassero con l’autorità loro un falso concetto della opinione generale intorno allo sviluppo della persona, sia che intendessero male i gradi e le forme dello sviluppo, sia in fine che ignorassero la maniera propria di manifestarsi della persona nei singoli atti che son propri di essa in diversa maniera, secondo che è più o meno stretto il legame che intercede fra la riflessione propria di ciascuno individuo, e la risoluzione che precede l’atto che può cadere sotto il criterio della responsabilità e della conseguente pena. Queste imperfezioni delle leggi non cadono qui in discorso. Le leggi hanno di certo bisogno del sussidio della scienza, per correggere quel concetto della persona che esse presumono libera entro certi confini di età e di condizioni interiori: ma questa correzione fino ad un certo punto la trovano praticamente in quella forma di esperimentazione che si dice processo, il cui ufficio principale è questo: di elevare logicamente l’atto peculiare di un determinato individuo fino alla regola giuridica che concerne la personalità in astratto in uno dei suoi momenti generici, e di tener conto delle note specifiche dell’atto, come determinazioni del concetto generico. Come si sia di questo processo storico delle leggi, egli è chiaro che il loro supposto psicologico – a prescindere dagli altri criteri politici e di tutela che hanno concorso a formarle – è questo: che gli uomini, entro un certo numero di anni dalla loro nascita, acquistano la capacità di regolarsi da sé, ossia acquistano rispetto agli altri, e rispetto alla società come complesso d’istituzioni, la

responsabilità degli atti loro; la quale capacità e conseguente responsabilità rimane la stessa, quando cause straordinarie od impreviste, estranee in una certa misura all’individuo stesso, non ne perturbino l’esercizio. Questo supposto psicologico delle leggi, si fonda sopra un altro supposto psicologico che fa il sentimento pubblico rispetto a ciascuno individuo preso in particolare, ed il supposto del sentimento pubblico si riferisce in ultimo ad un supposto che fa l’individuo rispetto a se stesso. L’individuo veramente può ingannarsi sul valore suo proprio; può avere cioè in se stesso una somma di resistenze contro gli appetiti, inferiore a quella che egli dovrebbe per credersi affatto libero nell’atto che si dichiara tale: ed i pregiudizi religiosi e sociali, ed i preconcetti erronei intorno all’umano destino, possono perturbare, alterare, falsare il sentimento della responsabilità, o diminuirlo ed attenuarlo in varia misura e modo. Al postutto però si vede questo: che dal punto di vista del sentimento giuridico dell’individuo e della società, il concetto della libertà umana si fonda sopra una base assai più larga di quella che s’è andato cercando di attribuirgli in parecchi sistemi scientifici. La libertà da questo punto di vista non è qualcosa di puntuale nella vita dell’anima, qualcosa di dato immediatamente in essa, una facoltà astratta e generica, ma è invece una condizione di essere determinata, il che vuol dire: una condizione che risulta da un complesso di forme della vita interiore, considerate in rapporto fra loro. Questa condizione si può riassumere nominalmente nel concetto dell’individuo compos sui19. In questo concetto della consapevolezza sono due aspetti: da un canto l’atto puro e semplice del sapere, ossia la coscienza in genere, e dall’altro canto la presunzione che cotesto sapere sia forza pratica, ossia somma di reali resistenze, contro un’altra forza che è quella, come si dice, dei bassi istinti o dei voleri disordinati e spesso ribelli al freno della legge morale. L’essere io semplicemente consapevole di quello che avviene dentro di me, non è che un atto puramente teoretico allo stesso modo che c’è una consapevolezza di quello che avviene fuori di me nel mondo naturale e sociale: il quale atto teoretico può accompagnare ogni mia volizione o azione, in quanto la osserva ed esamina, e in quanto la ricorda, senza che perciò in esso ci sia nulla che costituisca resistenza o contrappeso alla forza delle volizioni, senza che ci sia reazione o rimedio alle conseguenze delle azioni stesse. Ma in quel supposto che fa ciascuno individuo rispetto a sé stesso, e in conseguenza la società rispetto a tutti gl’individui c’è di più: c’è appunto la presunzione che quella consapevolezza del volere, non sia semplice atto teoretico, ma atto pratico, insiememente azione cioè della consapevolezza sul volere, possibilità della sospensione, o soppressione di questo mercé quella, correzione degli atti dell’uno mediante gli atti dell’altra. Nel supposto c’è dunque la coscienza, come coscienza teoretica e pratica al

tempo stesso, non come io che guarda internamente quello che avviene nella coscienza, ma come io che è al tempo stesso attività pratica, ossia volere. Come accade questo? o c’è in questo supposto una grave confusione? Esaminiamo meglio il supposto. Esso può concernere l’uomo in generale: o l’atto particolare della risoluzione. Nel secondo caso è più chiara la pretesa del supposto. Ogni uomo, in quanto agisce, in quanto cioè si determina a fare qualcosa, o a non fare qualcosa, può trovarsi in cotesta condizione di decidersi per molte e svariate ragioni. Egli potrà essere costretto dalle condizioni stesse della sua vita a pigliare in un determinato momento una determinata risoluzione, perché in quel caso è appunto necessario che egli prenda partito pel fare o pel non fare, o pel fare in un modo o nell’altro. Potrà anche accadere che questa occasione del decidersi gli sia porta, così per dire, accidentalmente, da una condizione estranea alla sua maniera ordinaria d’esistere, o in fine può nascere dal particolare stimolo che esercita sopra di lui il sorgere di un particolare appetito, o di una particolare voglia che nasce dalle sue abitudini o dalle condizioni in cui si trova. In tutti questi casi però, ove la decisione non nasca dall’affetto subitaneo, o non sia suggerita dalla passione abituale, ove, cioè, s’abbia campo di riflettere, la libertà si suppone riposta appunto nell’atto della riflessione, che precede la risoluzione, il quale atto della riflessione fa che l’atto del risolversi, e la conseguente azione sia propria dell’individuo nel più largo senso della parola. Ora nell’individuo, come esso è realmente, è data la possibilità – ossia si dice la facoltà – del riflettere: ed in questa riflessione sta tutta la sua libertà. Si noti però che cotesta riflessione che si ammette come possibile in tutti, perché si avveri in ciascuno bisogna fare astrazione da molte reali condizioni della vita interna che le possono riuscire d’impedimento: l’affetto p. es. o la passione, cosicché quante volte per l’affetto p. es. o per la passione la facoltà del riflettere va soggetta o a totale soppressione, o a parziale sospensione e limitazione, gli atti che conseguono dal volere non si possono dire liberi. L’affetto o la passione paiono spesso scusa naturale degli atti riprovevoli: impedimento alla lode incondizionata che si tributa agli atti i quali si presumono nati da una riflessione piena, e pienamente libera, attribuendosi a questa, ed al modo suo di fungere liberamente, la reale possibilità di un atto interamente proprio dell’individuo, e per ciò degno della lode o del biasimo incondizionato. Se non che, questa maniera abbastanza chiara e distinta di spiegare gli atti umani, può venire presto perturbata dalla considerazione dell’uomo in generale, cioè dire in tutto il corso della sua vita. Se l’affetto, la passione, o altra cagione che perturbi l’atto del riflettere in una risoluzione particolare pare impedimento o scusa secondo che accada, o si consideri meglio o peggio, più a fondo o più superficialmente la risoluzione stessa; d’altra parte se si guarda all’individuo

stesso come a quello in cui l’affetto erompe, o la passione predomina, sorge la domanda: fin dove e in che misura l’affetto o la passione sono imputabili come affetto e come passione? All’erompere dell’uno, come volizione determinata ed al predominare dell’altra come volere abituale non ha preceduto un atto del riflettere, e non poteva precedere? Qui si può correre pericolo di cadere in una serie infinita; si può risalire dall’esame di una risoluzione, a quello di un’altra che si suppone ne sia stata antecedente cagione, e così via, senza speranza di trovare più un punto fermo dal quale cominciare. È utile però distinguere bene le due maniere d’intendere la cosa dal punto di vista pratico, prima di spendersi inutilmente a rimuovere innanzi tempo la serie infinita delle risoluzioni che si considerano come facenti una serie causale. In quel concetto della riflessione, come atto della vita interna che precede l’apparire del volere determinato che è principio reale dell’azione, è dato un punto di partenza ben solido per la determinazione scientifica del concetto della libertà: ove si badi bene, non si confonda cotesto atto del riflettere con la possibilità astratta di volere il contrario di quello che realmente si vuole, e non si allarghi presto a tutta la vita dell’uomo, oltre un termine nel quale non è più da cercare né la scelta né la libertà. Dal valutare il grado di libertà di cui l’uomo può essere dotato in certe normali condizioni, al valutare la vita di un determinato individuo in complesso ci corre molto: e questa seconda quistione può essere intorbidata molto dalla pretesa d’intendere dal punto di vista della libertà tutto il problema del destino umano. La libertà interna, ossia la possibilità della determinazione cosciente e riflessa, è data in date condizioni: perché essa stessa è un atto complesso, non un punto, o una generica facoltà: quindi è naturale che essa cominci da un certo modo d’essere della vita interna prima del quale non c’è: ed abbia poi gradi e forme diverse. Questo dice l’esperienza. D’altra parte nella esigenza morale dell’uomo, c’è appunto questo, che si debba mettere ogni opera che questa possibilità diventi stabile, e che essa venga quanto più è possibile garentita contro tutte le cagioni che possono perturbarla. Dal fatto empirico da una parte, e dalla esigenza morale dall’altra, nasce un’altra quistione, che è quella intorno al destino morale dell’uomo, la quale se la religione e la metafisica possono concorrere a chiarire, non è a dire però che si possa piantare dal bel principio come quella che debba risolvere ogni difficoltà psicologica, ed ogni problema morale. 2. Dunque tornando al supposto che c’è nella opinione che l’uomo, in certe date condizioni sia pienamente libero: atto cioè a pigliare con la riflessione sua propria la risoluzione migliore, il che impronta nella sua azione il carattere della responsabilità, si vede che questa supposizione si fonda tutta sul concetto della

consapevolezza, come atto teoretico e pratico al tempo stesso. Noi possiamo prescindere, come si prescinde nel supposto che esaminiamo, dalla formazione di questa consapevolezza teoretica e pratica, e considerarla come il limite dietro del quale ogni responsabilità è impossibile. Si comincia dunque da questo: percezione interna dell’apparire di una determinata volizione; riflessione su questa volizione; valutazione di essa secondo i criteri che si presumono dati nell’individuo. Questi tre momenti sono nell’atto della riflessione pratica completa; che qui si suppone per astrazione la più completa che si possa, ossia la più evidente. Ora comunemente si viene in questa conchiusione: che dovunque ci sia un atto così completo, la riflessione non possa non terminare nella risoluzione migliore; perché il bene, si dice, ha presa su l’animo più di ogni altro concetto o sentimento; esso è l’assoluto prius di ogni atto del risolversi. Ma perché? Nella vita questa supposizione è bene ci sia; perché senza di essa la responsabilità non sarebbe mai quel sentimento complesso che appare nella più parte degli uomini, quel correttivo alle mancate buone risoluzioni che trova la sua immediata espressione nel sentimento della resipiscienza, e la sua più perfetta manifestazione nel proposito di cambiar vita. Ma l’ammettere il fatto, e lo spiegarlo son due cose affatto diverse; e in quel supposto è data la posizione del problema, non punto la soluzione sua. D’altra parte chi può negare che in un gran numero di casi gli uomini si risolvono male: cioè pigliano quel partito che essi medesimi moralmente non approvano, né possono approvare? E in questi casi, nei quali la riflessione c’è stata intera e completa, diremo che sia intervenuto nella riflessione un motivo estraneo alla riflessione stessa? Chi dunque dice che nella riflessione è data la possibilità della morale dice, pare, semplicemente questo: che finché nell’uomo è dato l’atto del percepire internamente il sorgere di quelle volizioni che sono preparazioni alle azioni determinate, e questo atto si può spiegare intero e chiaro in lui, egli rimane responsabile: perché davvero le azioni conseguenti sono realmente sue; non accidentalmente sue, come avviene in chi si determini per subitanea risoluzione, o per coazione altrui. 3. Dell’atto della riflessione, come preparazione alla risoluzione, s’è fatto nell’astrazione scientifica questo concetto: che esso sia una facoltà data che si chiama intelletto, o intelligenza, o ragione, opposta alla facoltà del volere, che deve abbracciare sotto di sé, in forma generale o potenziale, tutta la somma di quegli impulsi più o meno chiari, più o meno abituali, più o meno costanti, mercé dei quali l’attività nostra è condizionata nella sua origine, quanto al suo

manifestarsi di dentro e di fuori. Nell’intelletto si ripone la somma delle nostre conoscenze, e per conseguenza anche la somma dei criteri regolativi della pratica: per operare bene, si dice, bisogna si sappia che cosa sia bene e male; perché questa conoscenza possa determinare in noi la somma di quei criteri coi quali la volontà può diventare buona. Il concetto quindi dell’azione dell’intelletto su la volontà ha cambiato col cambiare del concetto di quello e di questa: attribuendosi a questa azione un significato diverso, a seconda del diverso modo come s’è concepita la natura dell’intelletto. Se la morale avesse avuto ad attendere, che la fine di una così fatta quistione le assicurasse il fondamento suo, a quest’ora non avrebbe fatto un passo innanzi. Chi pensa così astrattamente la relazione fra intelletto e volere non può venire a capo di niente: perché intelletto e volere sono astrazioni, e di fatto non c’è che intellezioni e volizioni: e chi suppone che nell’atto del riflettere consista tutta la possibilità della libertà morale, deve appunto spiegare come avvenga che una intellezione morale possa, deva anzi onninamente determinare una volizione morale; perché accada il più delle volte il contrario; e in che misura è approssimativamente concepibile che in date condizioni sia da tenere per immancabile quella determinazione. La storia dell’etica è cominciata appunto così. Quelle che noi chiamiamo qui intellezioni etiche, sono le definizioni che Socrate traeva dal dialogo, e dopo d’averle tratte credeva fossero da tenere come regolativi infallibili della condotta pratica. I motivi della ricerca socratica sono noti: rettificare mediante il dialogo il concetto dei fini pratici della vita degli individui nei quali s’imbatteva, e dei criteri coi quali essi giudicavano di cotesti fini e dei modi di raggiungerli; e riassumere poi il risultamento della disamina in una definizione chiara, le cui note erano state raccolte via via nel dialogo stesso. Compìto questo lavoro, la definizione diveniva agli occhi di Socrate un regolativo pratico per la persona cui il discorso era rivolto; e di qui la massima: che il potere sta nel sapere. Ma non è forse vero che gli uomini, nelle risoluzioni concrete, si conducono spesso in opposizione del risultato stesso della riflessione, e fanno appunto il contrario di quello che dovrebbero? Questo c’è: ed è noto come Socrate riferisse indistintamente al concetto dell’ignoranza tutta quella somma di volizioni che noi chiamiamo cattive: o fosse poi costretto a ricorrere ad alcuni dati puramente empirici nel determinare il concetto pratico della virtù. Dal punto di vista di Socrate si può mano mano risalire ad un certo numero di idee morali, atte a rappresentare nel loro insieme la somma dei criteri regolativi della vita; o come si dice, la morale perfezione dell’uomo. In Platone in fatti c’è un concetto approssimativamente esatto della libertà interna: in quanto essa è considerata come la perfetta armonia del volere di un individuo con tutto quello

che l’individuo stesso deve considerare come norma delle sue azioni; armonia cioè fra cognizione e volere. Questo concetto è un ideale: è l’ideale del carattere virtuoso, nel quale non si può concepire se non quella volizione, che è appunto rispondente alla somma delle disposizioni interne che costituiscono il sentimento complesso della coscienza morale. In Socrate non c’era tutto questo. La natura accidentale del dialogo socratico non poteva menare che ad un risultato per l’appunto accidentale; alla definizione cioè di quella particolare forma di attività nella quale il suo interlocutore si volesse mettere, ed alla eliminazione di tutte quelle vaghe opinioni che la rappresentazione comune piglia per tutt’una cosa col concetto. In Socrate non è da trovare neppure il più lontano germe della dottrina psicologica della morale: cosicché il concetto che egli cercava, la semplice intellezione morale, gli appariva come causa immediata di una volizione immediata. 4. Molti di quelli che ripongono tuttavia in questo semplice atto del riflettere la morale deliberazione, non si trovano più innanzi di Socrate, che era appunto ai primi elementi del problema morale. Essi dicono, e con essi la maggioranza degli uomini così detti colti: chi riflette non può che trovare il bene, perché questo è dato nella natura umana, e solo quando l’empito della passione o dell’affetto si oppone, la naturale coscienza del bene manca di manifestarsi. Quello che c’è di vero in tutto questo si riduce all’affermazione, che la coscienza del bene è davvero data nell’uomo, non viene, non può venire d’altronde: ché nessuna sorta di educazione potrebbe crearla se essa non potesse formarsi da sé; né alcuna rivelazione o altra forma di sentimento religioso ridestarla, se per sé stessa non ci fosse; né alcuna altra maniera di cognizione riflessa concorrere a fortificarla se essa non avesse per sé forza e presa su l’animo. Ma non ha gradi di chiarezza e di evidenza cotesta coscienza? Non si dice già che la cattiva educazione l’addormenta; il cattivo esempio la infiacchisce; l’ambiente sociale la deprime o la innalza; la buona coltura, e la pratica del lavoro e della disciplina la rinforzano? Non è d’altra parte vero, che nel semplice atto della riflessione, non è dato immediatamente il prevalere della coscienza o del sentimento morale che voglia dirsi? Non c’è una conseguenza logica nel volere il male così precisa, e forse più precisa, di quella che c’è nel volere il bene: non c’è un carattere logicamente conseguente nell’una forma come nell’altra? Chi dice dunque che nel poter riflettere sta la libertà, se egli non vuole andare fino alle estreme conseguenze di un intellettualismo teoretico, dal quale non c’è verso di ricavare alcuna morale efficacia, o viva ed attuosa coscienza del bene, non può dare altro significato alla sua opinione se non questo: che nel riflettere

sta il limite ultimo della responsabilità, perché non c’è libertà oltre il punto dal quale l’uomo comincia ad essere realmente tale: e che qualunque sia il grado d’evidenza e di efficacia al quale siano arrivati i concetti morali, dovunque ci sia posto alla riflessione piena, c’è attribuzione dell’atto all’individuo che lo compie; che la risoluzione sua sia buona o cattiva, lodevole cioè o biasimevole. In che misura poi questa possibilità venga limitata o sospesa da cause eccezionali, è da specificarsi col sussidio della psicologia. 5. La opinione che sorge quasi istintiva nell’animo, intorno all’ufficio della riflessione nell’atto della determinazione morale, si è convertita poco per volta nella opinione, che fa del limite della libertà il fondamento suo. Il riflettere in verità è un atto che può essere spontaneo: e consiste nel rivolgere l’attenzione sopra quello che avviene dentro di noi, poi che una somma sufficiente di attività interiore ci ha forniti della capacità di porre noi stessi come oggetto di noi stessi. Questo atto diventa, con l’andar del tempo, da spontaneo volontario; e noi possiamo rivolgere la nostra attenzione sopra noi stessi in una certa misura e modo, così come porta la nostra naturale capacità, e il grado di nostra educazione. Senza di un grado, per quanto si voglia piccolo di questa attività, che pure è tanto variamente distribuita negli uomini, non è possibile la volontaria osservazione interna, che è il principio di ogni miglioramento morale. Qui, si noti bene, la riflessione è frutto della volontà, e tiene come questa allo sviluppo regolare della vita interna. Chi si deve osservare internamente, deve non solo esercitare l’atto della naturale attenzione, ma volerlo; il che è frutto della esperienza. Ora è accaduto questo: che del mezzo s’è fatto il fine. La cattiva scuola, come la cattiva predicazione mirano ad aprire innanzi agli occhi dell’individuo lo spettacolo della vita interna; ed aggiungono che bisogna riflettere, e trarre dalla riflessione ogni consiglio e partito. Di qui procede quella tendenza ragionatrice nella morale, che ne guasta ogni fondamento: e lo strano è, che maestri, predicatori ed esortatori, non si avveggono che discorrono o predicano al deserto. L’importante nella vita è di ridestare il giudizio morale, e di ammodarlo a diventare regola delle azioni; di trasformarlo cioè in sentimento stabile, in principio costante dell’io che si presume debba appropriarsi la risoluzione nell’atto del riflettere; di fare che quell’io sia appunto il sentimento morale. La riflessione tradotta in ragionamenti è il principio della morale casuistica, e della morale del tornaconto. In questo punto il confessionile, e la volgare democrazia si danno la mano.

VII 1. Dunque par chiaro questo: che senza la coscienza in certe determinate condizioni non c’è né possibilità della libertà, né fondamento della responsabilità; ma che dal concetto stesso della coscienza, come atto immediato e come atto riflesso (la riflessione volontaria), non si può desumere in nessuna maniera la certezza del valore morale della decisione; se prima non si sa in che misura nella riflessione stessa prevalga la coscienza morale. La sentenza del video meliora proboque sed deteriora sequor20, che si trova in bocca di tutti, è l’espressione di una opinione quasi generale fra gli uomini, l’espressione genuina e schietta di questo sentimento: che il vedere, il semplice vedere il meglio, non costituisca principio reale di resistenza contro la forza di quei voleri o di quegli appetiti che noi riproviamo, e che pure hanno virtù sufficiente per trascinarci all’opera, a posta loro. Né giova aggiungere che questo semplice vedere possa essere un vedere morale, o affatto perfetto, o perfetto relativamente alla condizione di capacità dell’individuo: perché nell’atto teoretico del vedere e del sapere non c’è forza, e la forza sta solo nel volere. C’è dunque bisogno di un volere morale che reagisca contro il volere non lodato né lodabile, di un volere che sia appunto l’espressione della coscienza morale: questa stessa coscienza tradotta in morale efficacia. Comunemente si trova la soluzione di questa difficoltà nel concetto del sentimento: il che è un approssimarsi alla verità, sebbene sia presto un allontanarsene, il confondere che si fa del sentimento con l’affetto. In somma, l’ambiguità che risulta dall’ammettere la riflessione come fondamento della libertà, e dalla frequente incongruenza del risultato della riflessione con l’esigenza morale, si deve risolvere in questa distinzione: che libertà nel senso psicologico non è lo stesso che libertà nel senso morale: e che se fanno uno nella radice comune della riflessione, non fanno uno nel contenuto della riflessione stessa. 2. Qui c’è bisogno di fare un esame psicologico. Se il minimum della libertà umana si riduce alla potenza, alla semplice elementare potenza del distinguersi dal processo obbiettivo dell’appetito; questa prima distinzione ha questo antecedente: che nella vita interna è dato, da un certo punto in poi, un biforcarsi della sua attività. Da un canto c’è l’apparire degli appetiti, che tendono alla soddisfazione, e ne trovano i mezzi nella esperienza antecedente delle forze organiche atte a procurarla: dall’altro canto c’è la coscienza, consapevolezza, o percezione che voglia dirsi dell’apparizione obbiettiva dell’appetito. Questo atto non è di un solo modo, ma è vario: perché

lungo il corso della vita il percepire degli atti interni, associato al percepire dei fatti esterni, costituisce una somma di appercezioni determinate, mercé le quali il sorgere dell’appetito è limitato, è regolato, è condotto a termine dalla somma delle esperienze anteriori. In questo stato elementare della reazione contro gli appetiti, l’uomo e l’animale si confondono. Non dico qui l’uomo, e l’animale in genere; l’uomo cioè e tutti gli animali; ma l’uomo e quegli animali nei quali la osservazione è riuscita a provare una determinata attività reattiva contro il processo dell’appetito; la qual cosa, dal punto di vista comune, si riassume nel concetto del giudizio, proprio di quegli animali. Nessuno di certo è disposto ad accordare agli animali il sentimento morale: sebbene in alcuni di essi, massime in quelli delle specie superiori, l’esperienza provi che ci ha lo sviluppo normale di certi affetti abituali, i quali sono come il primo elemento del sentimento morale. Come si sia però di cotesto sviluppo psicologico degli animali; è chiaro che in molti di essi è data la possibilità di qualcosa che rassomiglia a quello che noi nella sfera umana chiamiamo educazione: la possibilità cioè di sospendere il corso naturale dell’appetito, in vista di una antecedente esperienza, la quale rendendo chiari in anticipazione gli effetti della soddisfazione dell’appetito, ed i relativi sentimenti piacevoli o spiacevoli, fa nascere un impulso conforme alla natura di quei sentimenti. L’addomesticazione di certi animali suppone appunto come data in essi questa possibilità. La quale possibilità, si noti bene, non è istinto; perché il concetto esatto dell’istinto si fonda sopra la supposizione di una disposizione organica nell’animale, rispondente affatto alla somma dei bisogni dell’animale stesso; la quale rispondenza se ci sia o no, rimane sempre un grave dubbio, o meglio un problema. E come non è istinto, è appunto riflessione: perché è sospensione cosciente di quello che comunemente si dice istinto. Per rendersi chiari i limiti della libertà nell’animale addomesticato, bisogna mettersi innanzi agli occhi la differenza che corre fra il processo puramente obbiettivo dell’appetito, quando esso non trovi ostacolo o limitazione nell’atto della coscienza che lo appercepisce: e l’apparizione dell’ostacolo, che genera una volizione opposta a quella la quale dovrebbe risultare naturalmente dal processo dell’appetito. Nell’uno e nell’altro caso c’è meccanismo di forze interne; con questa differenza però, che nel primo c’è meccanismo come complesso di forze che agiscono in un senso determinato, che noi possiamo rappresentarci come linea retta, e nell’altro c’è un distrarsi subitaneo delle stesse forze in altra direzione, l’apparire cioè di una forza nuova che agisce in altro senso.

Rappresentiamoci un caso assai comune di processo obbiettivo dell’appetito, nell’animale. Un canea legato alla catena riceve l’impressione di un odore, e questa fa nascere in lui, per via di associazione, la rappresentazione di un determinato cibo. In che modo il cane sia arrivato, per precedente esperienza, ad associare a questa rappresentazione, la rappresentazione della soddisfazione della fame, qui non accade esporlo. Ora quell’appetito si riproduce: cioè, alla rappresentazione del cibo che il cane immagina, si associa la rappresentazione dello stato nel quale esso è riuscito altra volta a possederlo, con tutti quei sentimenti di soddisfazione che son propri di quello stato. Il cane si slancia, ma la forza organica che esso sviluppa sotto l’impulso dell’appetito non si spiega nella sua pienezza, perché trova un impedimento nella catena che arresta l’uso della forza. Quello che dapprima era chiaro nella coscienza, cioè dire la rappresentazione del cibo, ed il sentimento della soddisfazione che succede all’uso di esso, trova un oscuramento (un impedimento) nella sensazione dapprima dell’ostacolo, e poi nella rappresentazione dell’oggetto che è cagione dell’ostacolo. L’appetito perdura; anzi si rinforza per l’ostacolo che prova, contro al quale è forza che il cane lotti. Dapprima i tentativi che fa, di spezzare la catena, di allungare il corpo il più che possa, di distrarre le membra in varie parti, sono tutti motivati dal perdurare dell’appetito. Poco per volta però la rappresentazione dell’impedimento si fa così potente, da predominare nella coscienza sua. Il suo sforzo è allora diretto contro l’impedimento; e questo sforzo ingenera un nuovo appetito, quello cioè di rimuovere l’impedimento. Qui comincia un nuovo processo. Le antecedenti esperienze hanno fornito il cane di una coscienza approssimativa delle sue forze rispetto a quella della catena, e di una notizia del modo come questa si può sciogliere o rompere: la somma di queste esperienze ingenera una corrispondente somma (successione) di sforzi. Può darsi che in uno di questi sforzi il successo risponda all’aspettazione: il cane è libero. La soddisfazione immediata dell’impedimento superato rigenera nella memoria la rappresentazione di quello che era stato causa dello sforzo: e dell’appetito che andava unito a quella rappresentazione. L’impedimento non c’è più: e l’appetito trova la sua soddisfazione nel possesso del cibo agognato. In questo processo, che è uno dei più elementari che si possano dare nella sfera degli appetiti coscienti, non interviene niente, che non sia puramente e semplicemente dato nel corso naturale dell’appetito stesso. Se qui c’è interruzione del primo appetito, e sopraggiungere d’un nuovo appetito; il secondo sta al primo come mezzo a fine: e se c’è un momento che la soddisfazione del secondo pare occupi intera la coscienza, è perché lo sforzo impiegato a rimuovere l’impedimento, oscura momentaneamente le rappresentazioni che sono centro del primo appetito, il quale torna in piena

evidenza appena rimosso l’impedimento. Noi però possiamo supporre un altro caso, quello cioè nel quale l’impedimento alla soddisfazione dell’appetito è dato nell’animale stesso, come motivo abituale, che ha sede nella memoriaa. Se quello stesso cane p. es. fosse abituato a limitare i suoi appetiti rispetto alla rappresentazione dell’uomo che è suo padrone, esso andrebbe soggetto ad un altro processo. La rappresentazione del padrone va congiunta alla ricordanza delle molte battiture e dei maltrattamenti che il cane ha subito le molte volte che s’è abbandonato al corso naturale dell’appetito: e quella ricordanza produce in lui una volizione opposta all’appetito che sta per vincerlo. Si sa che questa forza di resistenza, che è riposta nella memoria, non è data immediatamente: ché anzi bisogna svilupparla mano mano nella coscienza dell’animale che si vuole educare, e renderla superiore in tutti i casi alla forza dei suoi naturali appetiti. Questa si dice obbedienza rispetto al padrone, e si è inclinati ad attribuirle un significato morale. Dal punto di vista psicologico è indifferente che sia forza morale o no: il certo è, che è forza: cioè somma d’impulsi ingenerati da un nesso costante fra rappresentazioni e sentimenti: fra le rappresentazioni del padrone, del suo viso sdegnato, delle minacce, delle battiture; ed i sentimenti di paura, di dolore, di rammarico che s’ingenerano in quelle rappresentazioni. Il cavallo p. es., l’elefante, il cane da caccia sono in massimo grado capaci di raggiungere un tale interno organamento di rappresentazioni e di sentimenti, da risultarne una stabile somma di abituali resistenze contro gli appetiti. Il cane da caccia che sta alla posta, dalla vista della selvaggina è immediatamente eccitato a slanciarsi, così come avviene al cane nello stato affatto di natura. La vista del cacciatore però sospende immediatamente in lui il naturale processo dell’appetito: perché a quella rappresentazione va associata una somma di reminiscenze, coi relativi sentimenti, che l’abito ha poco per volta raccolto in una rappresentazione ed in un sentimento complessivo, cui noi sogliamo dare il nome di obbedienza. Il cane si slancia contro la selvaggina allora per l’appunto che il cacciatore gli fa cenno: il che corrisponde da una parte allo sprigionarsi libero dell’appetito del correr dietro e dell’afferrare, e dall’altra alla eliminazione di quella volizione opposta dell’arrestarsi, che era ingenerata da un’altra somma di rappresentazioni. Qui non è il luogo di esaminare più addentro i gradi di cotesta possibilità della sospensione dell’appetito, nei diversi animali, ed i limiti entro i quali l’appercezione dell’appetito può essere chiara ed evidente, e quindi più o meno atta a limitarne lo sviluppo meccanico. Quello che importa invece è di assodare quale sia il più semplice fondamento del dominio della riflessione su l’appetito, comune all’uomo ed a certi animali; in quanto semplice complessione immediata

di rappresentazioni, sentimenti ed appetiti. Questo fondamento semplice si riduce: Alla esperienza interna del processo naturale dell’appetito: ossia all’appetito accompagnato dalla coscienza. Ad una somma di rappresentazioni e di sentimenti che costituisce la coscienza antecedente (storica) dell’animale stesso; ossia un impedimento all’allargarsi dell’appetito in tutto il campo della coscienza, nell’atto che esso tende a svilupparsi. Questa somma di rappresentazioni, le quali costituiscono gli antecedenti della percezione dell’appetito determinato, forma la condizione della così detta appercezione. 3. L’uomo, si dice, è infinitamente diverso dall’animale; e sta bene. Nessuno può negarlo: e per quanto si faccia sforzi per ridurre ai minimi termini la differenza specifica fra l’uomo e l’animale, sotto il riguardo organico, rimane sempre vero che la differenza sotto il riguardo spirituale è quasi incommensurabile. Ma qui, si guardi bene, bisogna astenersi dal fare di questa spiritualità una anticipazione nella realtà come si fa nel concetto: perché in quel caso si cade nell’errore di desumere la differenza che è nota, da qualcosa che è ignoto, poi che nell’ignoto si è riposto in forma generica tutto quello che costituisce l’insieme dei tratti caratteristici del noto. Ci spieghiamo meglio. L’uomo è, per quello che ci appare nella pienezza del suo sviluppo – moralità, religione, stato, scienza – infinitamente diverso da quello che ci appare l’animale più perfetto. Ora, sia che si cerchi la spiegazione di questa differenza in una serie indefinita di svolgimenti successivi dall’animale fino all’uomo, o che si riponga in una particolare struttura dell’uno in quanto originariamente diverso dall’altro, più o meno si è costretti ad uscire dai limiti dell’esperienza immediata. La fantasia – e nella scienza ce n’è spesso non meno che nella poesia – accorcia il lavoro; e per via di una falsa obbiettivazione raccoglie e condensa in due peculiari immagini tutti i dati empirici della differenza, in due somme cioè di antecedenti predisposizioni, o facoltà, o potenze elementari, le quali chiama natura umana e natura animale; e molti credono che in cotesta differenza, così raccorciata in due immagini astratte, sia data la spiegazione della differenza reale. In fatti l’uomo perché sia capace di tutto quello per cui differisce dall’animale, deve esserlo da un certo punto in poi della sua potenza interna: le sue rappresentazioni, i suoi sentimenti, i suoi appetiti, devono differire in una certa misura e grado da quelli di ogni altro animale, o di certi animali; ma che cosa si guadagna nell’aggiungere a cotesti processi la designazione di umani, se non si guarda alla loro maniera di esplicarsi? Ora questa maniera nei suoi tratti più

generali non è punto diversa da quella che è propria degli animali, se non in quanto in cotesta maniera nell’uomo, oltre al suo essere animale, è predeterminato il suo essere umano, il suo vivere umanamente: il che torna ad essere una tautologia. Chi si desse la fretta di cercare la ragione della differenza in una intelligenza superiore all’umana; senza far concorrere nel concetto di questa intelligenza tutti i dati dell’esperienza, nella massima estensione sua, correrebbe pericolo di ricadere nel mito, anche quando la sua esigenza fosse apparentemente quella di fare la scienza. 4. Per ricominciare dal punto più chiaro del nostro assunto, diciamo che il meccanismo psicologico, che nei suoi elementi più generali si atteggia nel tripartirsi di rappresentazione, sentimento ed appetito, funziona dapprima nell’uomo assai rozzamente, come nell’animale. Il fanciullo comincia appunto cosi: l’appetito che dapprima ha semplicemente sede nelle rappresentazioni sensibili, ed è regolato nella sua nascita e nel suo sviluppo dai sentimenti piacevoli o spiacevoli, tende in lui alla soddisfazione; ed il raggiungimento di questa è condizionata dalle cause esterne, e dalla successiva esperienza dei movimenti che sono destinati a tradurlo in atto. Gli appetiti crescono, e si complicano variamente con le rimanenti rappresentazioni che si vanno mano mano sviluppando nell’animo suo: e si fissano come tali e quali appetiti, secondo la somma delle disposizioni interne o esterne che li determinano. In capo ad un certo tempo è data già nel fanciullo quella prima biforcazione dell’attività interiore, per cui il processo naturale dell’appetito, che pure è in lui, apparisce a lui come oggetto. La possibilità di ciò sta nella somma dei processi psichici antecedentemente soggettivati, che costituiscono nel loro complesso il primo nocciolo della individualità (il primo io: poco importa che il fanciullo dica o non dica già io): e rispetto ai quali gli ulteriori processi sono come il nuovo rispetto al vecchio, il nuovo che deve essere appropriato e soggettivato dal vecchio. Questa prima forma appropriativa della coscienza è anche essa naturale: anzi per essere più esatti, non è che una selezione naturale delle rappresentazioni possibilmente occasionate dall’ambiente nel quale il fanciullo si trova, ed una selezione anch’essa naturale degli appetiti che si possono ingenerare in quelle rappresentazioni, secondo il nesso più o meno intrinseco in cui entrano fra loro, secondo la somma e la qualità dei sentimenti che si aggruppano intorno ad essi. L’uso volontario della riflessione è un fatto posteriore nella vita dell’uomo; e qui comincia davvero la differenza reale e non più formale fra lui e l’animale. La riflessione volontaria, cioè dire la condotta dell’attenzione tanto esterna che interna, la quale risulta da antecedente volontà, è condizionata da molteplici esperienze che qui non accade esporre. Questo nuovo sviluppo della riflessione, in quanto volontaria, ha forme e gradi; ed arriva un momento in cui l’uomo si

dichiara tale: capace cioè di esaminarsi internamente, non solo in quanto egli è naturalmente dotato di quella attività interiore che dicesi coscienza (l’io - ed il suo oggetto; cioè dire le sensazioni nuove, le volizioni nuove, ecc.); ma in quanto è in grado di condurre volontariamente questa coscienza, cioè capace della sana, ordinata, regolare condotta degli atti propri. Egli non patisce più freno, e si adombra nell’immaginazione della sua maturità. Tutto sta però a vedere che cosa egli abbia portato in questa maturità; di che qualità sia la somma delle rappresentazioni che si sono raccolte e condensate nell’io, il che costituisce in generale i dati della sua riflessione; e quale sia la somma dei suoi sentimenti ed appetiti, il che costituisce gli elementi propri del suo carattere. Egli si appaleserà quello che è, volendo: volendo cioè liberamente: il che vuol dire, volendo come l’uomo in quanto uomo può e deve volere, sia che egli voglia bene, sia che egli voglia malea.

VIII 1. Comunemente si fa questa distinzione: tutti gli uomini sono più o meno dotati di un certo grado d’intelligenza, ma non tutti sono forniti di carattere; e si crede quindi che il carattere costituisca un grado, come a dire, superiore di vivere umano, una cotale intrinseca eccellenza nell’individuo da trovar posto soltanto in pochi. Nella pratica spesso avviene questo, che ove si lodi l’intelligenza, l’acume, la perspicacia, per fino la bontà d’un uomo, presto si soggiunga: ma costui non ha carattere. Di qui nasce quella opinione quasi popolare, la quale fa del carattere una qualità peculiare, distinta affatto da tutte le rimanenti doti dell’individuo: il che torna ad essere una nuova maniera di assottigliare quelle differenze interiori, intorno alle quali la comune psicologia popolare s’è travagliata, ed il cacciarsi quindi in un nuovo imbarazzo. Di certo, né l’intelligenza, né la perspicacia, né la bontà, né altra qualunque qualità dell’animo, lodevole o biasimevole, costituisce da sola il carattere: nel senso cioè dire, pieno della parola. Ma sarà esso perciò da concepire come una semplice giunta? Non è d’altra parte vero, che chi parla del carattere, vuole intendere che c’è un carattere buono o cattivo, fondato su l’intelligenza, o su la perspicacia, o su l’industria e così via? O ci sarà un uomo di carattere, puramente di carattere, senza bontà o malignità, senza intelligenza e perspicacia? Il carattere in verità non è una giunta alle rimanenti qualità dello spirito, né un privilegio speciale di certi individui. Esso è, a dirla in generale, una particolare maniera di volere abituale, rispetto alla somma degli elementi costitutivi dell’io storico dell’individuo; e nasce da una serie di propositi ricollegati fra loro dalle leggi di associazione, in quella forma speciale di memoria che s’è chiamata memoria del volerea: ma per peculiare che si sia, ha sempre la sua materia nella somma delle rappresentazioni, dei sentimenti e degli appetiti (voleri) che si sono via via andati sviluppando nell’individuo, e che ad un dato momento della vita ne costituiscono la coscienza antecedente, la condizione cioè reale della successiva assimilazione. Sotto questo riguardo si può dire che ogni individuo ha carattere, e che non tutti gl’individui hanno carattere, se si tien conto del dictum simpliciter e del dictum secundum quid24. Perché in fatti quando si dice che pochi uomini hanno carattere, si deve con ciò intendere, che sono pochi gl’individui nei quali la coscienza riflessa, o volontaria che voglia dirsi, è riuscita a condensare nell’io una somma di antecedenti propositi, che ricollegati insieme dalla memoria costituiscono quella volontà complessiva, o quell’io pratico che è l’equivalente psicologico del concetto del carattere buono o cattivo:

mentre è pur vero che in tutti gl’individui di una certa età c’è una certa quantità di rappresentazioni le quali costituiscono gli antecedenti di ogni peculiare decisione o scelta, i presupposti d’ogni manifestazione, o maniera di comportarsi dell’individuo stesso. A rigor di termini questa più generale disposizione dell’individuo che va distinta dalla somma dei propositi antecedenti, ossia dal reale fondamento del concetto del carattere, si deve dire piuttosto individualità o complesso delle note caratteristiche dell’individuo: con questa giunta però, che cotesta distinzione fra individualità in genere e carattere in ispecie, non deva menare ad intendere in tal maniera il carattere, che riposando esso sopra la somma dei voleri antecedentemente concepiti, e poscia raccolti e condensati nell’io, non si riesca ad una serie infinita di propositi generati da propositi e così via, perché così si ricadrebbe di nuovo nel concetto della causa sui, ossia del volere che determina se stesso. C’è un momento in cui l’individualità può divenire carattere: ed il determinarlo in ispecie è ufficio della scienza, il saperlo nel caso particolare è debito dell’educatore: ma né la scienza né la pratica possono supporre che il carattere sia una giunta o dote particolare, perché fondandosi esso sopra una scelta fra volere e non volere, e sopra una serie di propositi che sono principi di massime, il suo fondamento reale sta tutto nella individualità; in qualcosa cioè che è la possibilità della determinazione volontaria, non ancora la realtà di essa. D’altra parte, se si parla dell’uomo in genere, e si cerca la ragione in lui della scelta o della risoluzione, non è punto inesatto il dire che ogni uomo si determina secondo il suo carattere: il che da un lato vuol dire che egli si determina secondo la somma di quelle note caratteristiche che costituiscono la individualità; e da un altro lato, indica che in ogni uomo, in quanto quella somma appunto di rappresentazioni, di sentimenti e di appetiti (voleri) che lo fanno tale, è data la possibilità di antecedenti propositi circa il volere e il non volere; la qual cosa è il principio del carattere. Se questo invece si piglia in un senso affatto ideale: o meglio se si guarda al carattere come ideale, fra esso e la individualità naturale la differenza può apparire così grande, da riuscire affatto impossibile l’andare dall’una all’altro per gradia. 2. Fatto questo chiarimento possiamo tornare al punto al quale eravamo arrivati: cioè dire al concetto dell’individuo che presume la facoltà di disporre liberamente di sé, in quanto in lui quello sdoppiarsi della vita interna che comincia da un punto in cui l’uomo e l’animale si rassomigliano per molti rispetti, è arrivato ad un tale grado di maturità, che la riflessione volontaria può dominare il processo meccanico dell’appetito. In questo in fondo è riposta la libertà, come stato psicologico: e si noti bene la libertà in genere, non semplicemente quella che si può e si deve dire morale.

In che cosa consiste la individualità: che è quella appunto che si suppone qui come fondamento della libertà in genere? Noi possiamo considerare la individualità sotto due aspetti; o in quanto la esaminiamo come oggetto, cioè come semplice somma e disposizione di elementi psichici: o in quanto la riguardiamo come soggetto, ossia come prevalere nella somma degli elementi psichici di quella peculiare reazione per cui l’individuo come tale si considera come io: cioè come identico a se stesso nella molteplicità dei suoi stati. In primo luogo si deve tener conto della particolare natura delle rappresentazioni, le quali possono essere da individuo ad individuo assai diverse: e devono quindi distinguersi quanto alla qualità loro. È naturale si pensi qui alla razza, al popolo, alla condizione sociale, alla vita dei genitori, alle occupazioni abituali, come ad altrettante cause o occasioni delle differenze qualitative delle rappresentazioni. La disamina però delle cause o occasioni non ci riguarda in questo luogo. Cotesta prima specificazione qualitativa può avere due aspetti; secondo che si guardi ai particolari sentimenti o appetiti che nascono nelle peculiari rappresentazioni: od all’indirizzo predominante della riflessione che costituisce la disposizione teoretica dell’individuo alla elezione pratica di una occupazione o d’una maniera di vivere. È chiaro che i sentimenti e gli appetiti che acquistano un certo predominio sono predeterminati dalle rappresentazioni predominanti: ed hanno quella qualità che è propria di esse. In secondo luogo in ogni individuo la quantità delle rappresentazioni è varia; il che costituisce in genere da una parte la capacità sua, e dall’altra la sua maggiore o minore ricettività rispetto alle rappresentazioni nuove. La quantità delle rappresentazioni può quindi guardarsi sotto due aspetti, sotto quello cioè della estensione, il che vuole dire della somma e moltiplicità, e sotto quello della intensità: e come dall’una e dall’altra relazione quantitativa può risultare un vario atteggiarsi dei sentimenti e degli appetiti, questi saranno più o meno numerosi e più o meno intensi, secondo che nel corso naturale della selezione di essi, le rappresentazioni che ne potevano essere o sede o occasione, siano più o meno largamente, più o meno intensamente prevalse nell’animo. Se si guarda a quello che c’è già nell’animo, in quanto nesso delle rappresentazioni e determinato indirizzo dei pensieri, cioè dire della riflessione, sorge in terzo luogo un terzo momento caratteristico della individualità; che è quello della varia assimilazione delle nuove rappresentazioni, secondo che nell’individuo stesso è data una diversa disposizione, o un diverso coordinamento delle rappresentazioni antecedenti. In fondo l’assimilazione riposa su la condizione di eccitabilità delle rappresentazioni antecedenti, e sui gradi e forme di essa. Questi tre momenti che costituiscono quello che comunemente si dice

capacità, coltura o talento dell’individuo, non stanno da sé. L’individuo concreto, come unità di processi psichici e di processi fisiologici, ha nella natura particolare degli ultimi un’altra fonte di differenziazione. Quanto al caso nostro particolare i processi fisiologici che determinano la natura dell’individuo, si possono riassumere sotto tre punti di vista; secondo che si guardi in generale al sentimento complessivo che accompagna la peculiare struttura interna di ciascuno, il quale sentimento, che è dato nell’anima per via d’una complicazione di molti sentimenti speciali, dà luogo ai così detti temperamenti, intorno ai quali la dottrina scientifica dell’anima ha vagato e vaga ancora in molta incertezza; o più particolarmente al ritmo dei processi interni in quanto conseguenza della maggiore o minore pressione somatica; o finalmente a quello che si dice risonanza fisiologica dei processi psichici, cioè dire al più o meno lungo perdurare degli effetti fisiologici delle interne commozioni dell’animo, ed in conseguenza al più o meno lungo tempo che è necessario a ricondurre l’animo in quello stato di equilibrio che esprime la condizione statica del temperamento. Il complesso delle condizioni psichiche che costituiscono l’individualità, e la varia quantità e qualità loro, e il vario grado di relazione coi processi fisiologici, determinano l’individuo come c’è dato, o meglio come è posto innanzi a noi come semplice oggetto. Ma questo oggetto è per sé soggetto, ed in tanto l’individuo si sa come oggetto di sé: in quanto c’è in esso la doppia natura di soggetto e di oggetto. L’uomo, o si sente, o si sa, o si comprende, o si studia come quella somma di stati determinati che lo fanno individuo, e come quella somma di peculiari relazioni col corpo suo, e con quello che lo circonda: e in qualunque di quegli stati più o meno complicati di riflessione dice: io. Nel caso peculiare della scelta egli dice: io mi determino, io scelgo, io mi risolvo; ed è disposto a trovare nell’io la causa, la ragione, il principio reale di essa, ed in conseguenza il fondamento della libertà e della responsabilità. Spesso accade che in luogo di io dica: questa o quella cosa mi ha determinato; ha fatto cioè che io determinassi me stesso, o fossi trascinato a questa o a quella determinazione: col quale chiarimento s’intende il più delle volte trovare scusa a quella determinazione non degna di lode, intorno alla quale la voce della coscienza s’è ridestata troppo tardi. Ma dove comincia quest’io che ha così larga potestà – almeno per quello che si presume – su tutto il rimanente della vita interiore? Non è chiaro che esso cominci da un certo punto a funzionare, e che la sua funzione è condizionata da quello da che nasce, e in cui nasce? o è invece da supporre che sia esso stesso la condizione, la qual cosa tornerebbe a farne il puro e semplice incondizionato? Dal punto di vista dell’esperienza comune, l’una e l’altra opinione si confondono in una immagine confusa dell’io. Da una parte pare si dica: io mi

determino così e così, in quanto sono appunto in tale e tale condizione di vita, fornito di tali e tali elementi di attività interiore (capacità, coltura, educazione ecc.). Qui l’io è dato, è determinato affatto. D’altra parte pare si dica: io mi determino in quanto sono semplicemente io: in quanto mi metto al di sopra di ogni motivo. La scienza dal canto suo ha preso rispetto al concetto dell’io una posizione doppia: è altro, s’è detto, vedere come l’io è dato nell’esperienza, altro è spiegare la possibilità sua. Nell’esperienza è dato come quel tale io determinato così e così; come soggetto rispetto a quella somma di stati e di condizioni che formano l’ambiente della osservazione interna ed esterna dell’individuo. Ma d’altra parte è necessario intendere come sia possibile che cotesto sdoppiamento nasca, e quando e in che condizioni nasca. Se non che l’errore logico di falsa generalizzazione ha spesso preoccupato il terreno della ricerca, ed ha fatto nascere un problema dell’io come semplice atto del sapersi, indipendentemente da ogni atto concreto del sapersi; il quale problema così come era posto non poteva riuscire ad alcuna soddisfacente soluzione. Or quanto alla possibilità della libertà in genere, e della libertà morale in ispecie, è chiaro che essa si fonda su questo supposto dell’io come dato, e che non s’ha punto bisogno di risalire più in alto per intenderla; perché l’anima come semplice anima, in quanto antecedente dell’io, precede così nell’ordine reale, come nell’ordine del processo scientifico, quella complicazione psichica su la quale cade la nostra osservazione, e dalla quale procede, o può procedere in noi l’atto del sentirci liberi. Se non che, anche da questo punto di vista è necessario intendere in che senso debba essere preso il soggetto come opposto all’oggetto, nell’atto che dicesi risoluzione; e in tutta quella seguela di atti, i quali si riassumono nel concetto della personalità, come matura e capace di libertà. Ora, esclusa la serie infinita dell’io, che in quanto si determina è preceduto da un altro io che si determina, e così senza fine: quello che importa è di vedere in che consista più particolarmente quell’atto che si dice risoluzione, e in che punto esso ci lasci, per dir così, sorprendere l’io che lo compie. 3. Sia dato dunque in un individuo determinato, quel pieno sviluppo interiore che si dice, secondo i tratti enumerati più su, individualità: ossia, somma di condizioni qualitative e quantitative delle rappresentazioni; coordinamento di esse, nell’abito; e disposizione (abituale) alla possibilità di certi determinati sentimenti ed appetiti (voleri). Poco importa che in cotesta individualità si supponga o no quella particolare giunta che si crede sia il carattere; perché questo vogliamo attendere ci si manifesti nell’atto della risoluzione stessa, che abbiamo ad esaminare. L’individuo che si suppone qui, bisogna concepirlo nella

condizione statica propria di lui; la quale condizione statica non è da intendere come assoluta quiete, ma come situazione media di equilibrio: – ciò che si dice comunemente tranquillità dell’animo, ossia assenza di affetti o di passioni che perturbino, ed evidente consapevolezza della interiore attività. Qui s’intende bene che la consapevolezza non può concernere altro, da quello in fuori che realmente c’è nella coscienza; il cui ambiente è sempre di una determinata estensione, e non è da confondere con la somma degli stati peculiari dell’individuo in tutta la distesa del tempo della vita sua: i quali stati possono, per via della riproduzione (memoria), entrare nella coscienza, ma non sono di fatto ogni istante in essa. Noi dobbiamo supporre di giunta che in cotesta condizione statica, espressa qui in una media ipotetica, cominci a nascere una inquietezza. In un punto particolare (una rappresentazione) s’ingenera un appetito; – questo è il modo più comune di dire. A discorrere più esattamente, quello che dicesi appetito, è inquietezza nella condizione statica: cioè sforzo di una rappresentazione a tradursi in volizione; o meglio sforzo in una rappresentazione per occupare il campo della coscienza, e riuscirne come volizione. Poco importa, in un caso come questo, inteso cioè genericamente, di sapere da che parte proceda la occasione a quella inquietezza nella condizione statica che diciamo appetito. S’intende bene che si deve supporre come occasione più o meno diretta una disposizione o un abito organico, se si tratta di un appetito che abbia sede in una rappresentazione sensibile; o una antecedente fruizione o il presentimento di una fruizione, se si tratta di un appetito che abbia sede in una rappresentazione non sensibile; o una precedente esperienza ed associazione se si tratta di un appetito che abbia sede in una rappresentazione sensibile per una fruizione non sensibile, o in una rappresentazione non sensibile per una fruizione sensibile: e così via. Possiamo anche omettere di determinare, se la rappresentazione sia occasionata dall’intuizione reale di un oggetto, o dalla riminiscenza di esso, o dalla fantasia: perché quello che importa è di sapere che cosa avverrà, poi che la inquietezza è incominciata, mercé la quale nell’uomo come nell’animale è possibile un processo affatto meccanico, il tradursi cioè dell’appetito in volizione con la semplice consapevolezza come giunta; può accadere nell’uomo come in certi animali una sospensione dell’appetito per precedenti esperienze, che hanno sede nelle rappresentazioni appercipienti; può accadere nell’uomo quello che non accade nell’animale, cioè la negazione dell’appetito per reale atto di volontà. La rappresentazione in cui l’appetito s’ingenera non può stare da sé. Nell’atto che essa si sforza per elevarsi nell’ambiente della coscienza, è mestieri, perché continui a starci, che si riconnetta ad altre rappresentazioni: e riproduca tutte quelle che possono avere con essa una qualunque relazione di associazione; il

che accade anche per gli analoghi sentimenti. Può accadere che in questo processo di riproduzione e di associazione, tutte quelle rappresentazioni che tendono ad elevarsi assieme alla prima, che era entrata allo stato di appetito, si ordinino, rispetto ad essa, come mezzi rispetto al fine, e si parino innanzi alla coscienza appunto come serie. L’atto dell’appercezione può alcune volte cadere semplicemente sul valore delle serie, in quanto mezzo pel conseguimento del fine che è presegnato dall’appetito; e può accadere anche, che intorno alla rappresentazione che è sede dell’appetito, per una antecedente molteplice esperienza si generi un gran numero di serie, che stiano all’unica rappresentazione, come molteplicità di mezzi ad unicità di fine. Quello che qui si suppone è questo: che nell’atto che la serie o le molte serie rappresentative, le quali possono riprodursi intorno a quella rappresentazione che è primo principio dell’appetito, tendono a svolgersi e ad occupare il campo della coscienza; in questa si trovi in quel momento stesso, o si riproduca un’altra serie rappresentativa che costituisca il centro d’appercezione di quel nuovo atto interiore, che è la formazione ed evoluzione dell’appetito. In questo caso di piena appercezione del nuovo mediante il vecchio, s’intende che debba essere riposta la possibilità della elezione: la quale non può aver luogo se il processo dell’appetito è di tal natura, che nella evoluzione sua non incontri impedimento alcuno. Ora accade questo. La trasformazione dell’appetito in volizione non dipende più dalla sola evoluzione della serie o delle serie in cui ha sede, ma dalla contemporanea evoluzione di quelle serie che costituiscono l’appercezione. Qui cessa la determinazione obbiettiva dell’io, e comincia quello che si chiama determinazione di sé: cagione di tanti equivoci ed occasione di tante false teorie. Qui, s’intende bene, quando è messa in moto tutta quella quantità di rappresentazioni che nel caso speciale può servire all’appercezione dell’appetito nuovo, si ha la contrapposizione reale di soggetto e di oggetto. Qualunque possa essere la risoluzione alla quale si riesca, è l’io che ha dato per dir così il tracollo alla bilancia; perché solo nel caso che l’io manchi ha ragione il determinismo naturalistico, o puramente obbiettivo che voglia dirsi. Nell’incontro dunque della serie o delle serie che sono centro dell’appetito, con l’io, sta il segreto della elezione. S’intende che questo incontro può dar luogo a parecchie relazioni. La serie che fa l’ufficio di appercepire può essere congruente a quella che fa da sede dell’appetito; e quindi può procederne un accrescimento di forza rispetto all’appetito stesso, ed una appropriazione di esso dalla parte dell’io. L’appetito diventa volere, in quanto che la somma delle rappresentazioni che esprimono l’io (come antecedente coscienza), sta rispetto all’appetito stesso come forza appropriativa: e nell’atto del soggettivarsi

dell’appetito, la risoluzione si riduce a semplice appropriazione. Ma fra la somma delle rappresentazioni che servono ad appercepire, e quella delle rappresentazioni in cui ha sede l’appetito ci può essere incongruenza; dalla parte del soggetto quindi parte una reazione contro l’appetito. L’appetito è una forza determinata: e l’appercezione è anch’essa una forza determinata. In ciò consiste il momento reale della riflessione. Ora se in seguito di questa si riesce alla vittoria dell’appercezione su l’appetito, si dice che l’io s’è comportato liberamente rispetto ad esso; nel caso contrario si dice di no. Perché? Torniamo un po’ più sopra. Abbiamo detto che la evoluzione obbiettiva dell’appetito resterebbe affatto meccanica, si risolverebbe in una volizione proporzionata alla somma delle antecedenti esperienze implicite, e si tradurrebbe in un atto adeguato alla precedente disposizione organica, ed alla associazione degli analoghi atti psichici, se non trovasse nelle antecedenti disposizioni della individualità già formata una somma di rappresentazioni che costituisce l’appercezione dell’appetito, e la possibilità quindi che esso ne riesca rinforzato, o sospeso o eliminato. Ora quello che si dice io, ossia la somma delle rappresentazioni appercipienti in quanto già date, si può guardare da due lati: prima, cioè, e dopo della risoluzione. Di fatti, nell’atto che l’appetito è in via di evoluzione, e l’appercezione del pari; l’individuo che ha a risolversi, in quanto egli è semplice consapevolezza o notizia che voglia dirsi di altre precedenti risoluzioni, o di molte risoluzioni possibili, può immaginare e dire: io potrei fare questo o quello, cioè l’uno e l’altro. Si è detto, e non senza ragione, che cotesta espressione è da tradursi cosìa: «si potrebbe fare l’uno o l’altro». Di fatti l’io si prende in un senso inesatto: perché quello appunto che deve risolvere è l’io come antecedente disposizione alla risoluzione, e non l’io come semplice immaginazione o vaga rappresentazione di molte possibili risoluzioni. Finché il risolversi non è avvenuto, il significato del si è dubbio: cioè dire non si sa ancora come apparirà il sé su cui deve cadere il peso della risoluzione, e pure l’immaginazione se lo raffigura come assoluta antecedenza (l’immaginazione traduce il si in io) di quello che c’è come risoluzione e come giudizio sopra di essa. Avvenuta poi questa, se il caso è che l’appetito la riporti vinta su quella somma di rappresentazioni (l’appercezione) che deve essere il centro di reazione contro di esso, è chiaro che intanto l’appetito si è tradotto in volere, in quanto in un dato momento il soggettivarsi dell’appetito è accaduto in contraddizione di quella presunta possibilità; ma è pure accaduto secondo l’io, perché intanto si

vuole in quanto si dice: io faccio mio l’appetito, in quanto cioè l’io traduce l’appetito in volizione chiara e cosciente: ed in questo atto appunto consiste la libertà umana, e la superiorità di essa al semplice meccanismo animale. Niente toglie che in altra occasione quell’io appunto che deve decidersi, o, per dire più esattamente, che deve dare il tracollo alla decisione, trovi nell’esperienza antecedente un rinforzo contro il risorgere dello stesso appetito, e che la disposizione sua sia altra da quella di prima. Perché ciò s’avveri bisogna che accadano due cose: che la volizione che è succeduta al prevalere dell’appetito sia giudicata, e che dal giudizio sia proceduta una massima, o meglio un proposito possibilmente capace di resistere al risorgere dell’appetito, una forza, in somma, la quale rispetto alla evoluzione dell’appetito stesso stia come motivo negativo.

IX Noi siamo qui a mezz’aria fra l’etica e la psicologia; e potremmo vagare lungamente nell’una e nell’altra scienza senza venire a capo di niente: perché il problema che ci sta dinanzi, guardato da solo ha appunto questa difficoltà: che esso si deve risolvere col sussidio dell’etica e della psicologia, senza che si discorra in tutto il campo dell’una o dell’altra scienza. Chiariamoci meglio il punto al quale siamo giunti. Noi abbiamo percorso criticamente questi momenti: – condizione semplicissima della libertà è la consapevolezza: – la consapevolezza è un risultamento dell’attività interna, in quanto essa si sdoppia in soggetto ed in oggetto, e ad un determinato punto il soggetto sta come antecedente o predisposizione rispetto ad ogni singolo atto di decisione. Quando questa avviene può sembrare che avvenga contro ogni previsione dell’io; ma non c’è niente che dica come nell’atto del risolversi ci sia qualcosa che non dipende dall’io, se questo non si prende in un senso che non è proprio dell’atto stesso, cioè come semplice disposizione al giudizio su la decisione, e predisposizione (possibile) alle future risoluzioni. Tutta questa situazione psicologica si può riassumere nel concetto della motività. 1. Il Leibnitz è stato il primo, per quel che pare a noi, il quale abbia chiaramente concepito il rapporto fra motivo e volizione. Se nel suo filosofare il concetto di ragion sufficiente aveva acquistato quella prevalenza che tutti sanno, è chiaro che egli non potesse non venirne indotto ad una concezione esatta della motivazione del volere. D’altra parte la monade, su cui si fonda tutta la sua teoria psicologica, esclude da sé il determinismo meccanico; sicché deve sembrar naturale che egli ricorresse al concetto della motività, che è, a dirla con lo Schopenhauer, la causalità guardata da dentro in fuori, o meglio la legge che spiega la successione dei fenomeni affatto intensivi25. Non si può dire di certo che il Leibnitz avesse quel concetto chiaro intorno alle funzioni psichiche, che è stato il portato di una scienza più progredita; e che egli non si fosse spesso imbrogliato in una fraseologia scolastica intorno al volere ed all’intelletto come predisposizioni generiche, o facoltà: malgrado che Spinosa in un senso più metafisico, e Locke in un senso più empirico, avessero già per l’innanzi dimostrata tutta l’erroneità di quelle astrazioni. Nondimeno il Leibnitz ha enunciato pel primo questo profondo e fecondo concetto: che ogni atto di determinazione accade sotto l’influenza del motivo più forte. Il concepire

il contrario, diceva il Leibnitz, sarebbe lo stesso che ammettere che lo spirito agisca contro sé stesso, cioè altrimenti da quello che è disposto ad agire, perché tanto suona motivo quanto disposizione dell’animo, e come in tutti i casi il motivo, ossia la disposizione, costituisce il movente dell’azione, è chiaro che quello fra i motivi predomina che è il più forte. D’altra parte è chiaro che l’agire è sempre proprio dell’anima stessa, in quanto il motivo non sta ad essa come il peso sta alla bilancia, che la fa pendere da un lato; ma è in essa come sua propria maniera di esserea. Qui non accade di discorrere di proposito della inconseguenza che c’è in Leibnitz: il quale da questo concetto così chiaro ed esatto non è riuscito a cavare tutte le illazioni che poteva e doveva. Egli, in più luoghi delle sue opere discorre in modo da non lasciare bene intendere se ammetta quello che dicesi libero arbitrio, come indifferente punto d’incontro dei motivi, o se lo neghi affatto: e spesso pare che nel complesso ricada in uno stato d’incertezza rispetto al giusto punto di vista che ha raggiunto nel concetto del motivo più forte. Un’altra volta poi il Leibnitz riesce ad ammettere che il motivo inclini e non necessiti la volontàb: la quale opinione non è a dire quanto sia incerta ed infruttuosa. Si è osservato che, se si riduce a questo punto il concetto del motivo, esso non è più veramente motivo, ma semplice stimolo: – stimolo rispetto al quale il volere potrebbe spiegare più o meno di attività reattivac. Ma chi potrà dire motivo del volere uno stimolo che non lo determini? Lo Schopenhauer ha biasimato, con tutta l’acrimonia della quale egli era capace, la inconseguenza del Leibnitz; e nella sua maniera d’ordinario piccante ha detto: se si ammette che una determinata forza agisca come causa, posto che essa trovi resistenza, è chiaro che basterà accrescere la intensità sua perché la resistenza cessi «cosicché, colui che non è stato sedotto con dieci ducati, lo sarà di certo con cento»a. Bisogna però, a giustificazione del Leibnitz, ed a maggior chiarimento della posizione nostra, notare qui: che se il Leibnitz ha torto, non l’ha che nel complesso della sua dottrina, non in questa peculiare contraddizione. Se si dice, come egli ha detto: che ogni decisione dipende dal motivo più forte, in quanto i motivi sono le disposizioni all’agire, date nello spirito stesso e non esternamente poste da altro, si pronunzia di certo una grande verità. Ma in questa così semplice affermazione non è dato niente che spieghi quale sia la natura dei processi psichici, mercé dei quali le così dette disposizioni dello spirito divengono moventi reali delle azioni speciali, e nella loro coordinazione complessiva, fondamento stabile della individualità e del carattere. Il difetto dunque di una psicologia esatta ha fatto che il Leibnitz balzasse a quell’estremo,

nel quale volere e motivo, per via di una astrazione fittizia, stanno l’uno rimpetto all’altro come i soli dati o antecedenti della risoluzione; e come nell’esperienza è chiaro che nell’individuo, in quanto tale, è data successivamente una diversa forza di reazione rispetto ai motivi, il Leibnitz ha finito per attribuire al volere sic et simpliciter, quello che è proprio dell’individuo, in quanto complesso e serie di diversi e molteplici stati interiori. Da questa inconseguenza o imperfezione della dottrina Leibniziana, si può desumere una utile osservazione; che cioè, come dalla storia della filosofia appare, la grande occasione ad escogitare l’indeterminismo, e le molte incertezze dalle quali il determinismo è stato circondato, sono dipese da questo: che s’è temuto quasi sempre, che dal determinismo si dovesse inevitabilmente cadere nel predeterminismo. L’impaccio la speculazione scientifica se lo è creato da sé stessa: con l’avere cioè presunto che il volere sia da intendere come dato una volta per sempre. Perché ammesso questo, ed ammesso che il motivo necessiti e non inclini soltanto, si andrebbe dritto alla conclusione, che in un semplice atto di risoluzione è espressa la condanna di un individuo a rimaner sempre tale, quale egli s’è addimostrato in una peculiare circostanza. 2. Dalle cose però che abbiamo detto innanzi, deve apparir chiaro, che il volere che consegue all’atto della risoluzione, è un volere che appunto non c’è prima del risolversi: e che si fa in esso e per esso. Niente quindi esclude un volere diverso o opposto in altra circostanza: perché tutto dipende dal sapere in quali condizioni l’individuo si troverà quando egli abbia nuovamente a decidersi, e che cosa sarà l’io appunto, il quale non è dato una volta per sempre, come non è dato una volta per sempre il volere. Senza questa certezza implicita nell’esperienza più ordinaria, sarebbe stato inutile escogitare qualunque sistema educativo – e sia quello più particolare della scuola, e sia quello più generale della chiesa e dello stato – perché educare vuol dire né più né meno che mettere l’individuo in condizione, che la motività si mostri in lui, quale secondo il nostro supposto religioso, morale o politico, presumiamo che debba essere. I pedagoghi, i maestri di religione, e gli uomini politici, sono stati, tutte le volte che hanno avuto ingegno non comune, di assai più per tempo ragionevoli deterministi, che non i filosofi ed i psicologi in ispecie: e solo una filosofia che abbia riguardo a quella più larga e sana esperienza che è data nel complesso dei concetti sociali, pedagogici e religiosi può trovare un addentellato ben solido alla determinazione scientifica della libertà interiorea. Nello Schopenhauer, che abbiamo citato più su, si vede a quante conclusioni inesatte deva condurre il fare astrazione soverchia e soverchiamente per tempo dalla base solida della esperienza. Lo Schopenhauer è stato uno dei critici più sottili della dottrina del liberum arbitrium indifferentiae; ed è a confessare, che il

ridicolo che egli sparge a larga mano su le meschine preoccupazioni che hanno indotto i volgari moralisti ed i volgari teologi a dotare l’uomo della inconcepibile facoltà, del poter fare il contrario sempre di quello che fa, nell’atto stesso della peculiare decisione, non tiene solo all’acredine propria dell’indole sua, ma alla grande genialità filosofica della quale egli era dotato. Lo Schopenhauer ha tentato di arrivare, per via dell’analisi dell’esperienza interna, al concetto della motività, come a quello che è la sola norma certa per intendere la ragion d’essere degli atti umani: ed il suo tentativo è riuscito perfettamente. Ma d’altra parte è vero che lo Schopenhauer, quanto al modo d’intendere la motività, prescinde da ogni riguardo particolare su la condizione reale degl’individui, e su la natura e successione dei processi che li costituiscono tali; cosicché riesce infine ad assottigliare tutta la quistione della libertà nella pura e semplice relazione fra motivo e volere. Si sa che per Schopenhauer il volere è dato: anzi è dato tanto, che è il principio stesso, il reale principio della sua metafisica: e che rispetto ad esso il conoscere (la coscienza) sta come derivato rispetto ad originario, come fenomeno rispetto ad essenza. Solo in quanto c’è la coscienza, c’è la possibilità che il volere umano venga determinato dai motivi – i quali sono la causalità stessa in quanto saputa ab intrinseco – e che esso non sia semplice nisus [sforzo, ndr] come la forza nell’ordine fisico. Il volere però come esso è, è dato sempre. Il carattere, nella dottrina dello Schopenhauer, non è quello che pare d’ordinario, ed è in fatti, una somma di condizioni parte acquisite, parte originarie, parte mutabili, parte immutabili, ma è invece una condizione di essere extratemporale, staremmo per dire eterna, se nel concetto di eterno non si presumesse l’infinità immaginaria che deriva dalla rappresentazione di un tempo senza termine, il che contraddice al concetto della soggettività del tempo, secondo la dottrina dello Schopenhauer. Ecco come il determinismo, che per sé è fondato, diventa falso quando si traduce in predeterminismo: specialmente quando il predeterminismo non riposi sopra una semplice affermazione generica, ma si deduca da tutto un complesso di dottrine metafisiche, frettolosamente messe a base di una concezione psicologica imperfetta e superficiale. Posto il carattere come assolutamente dato – questo è il concetto dello Schopenhauer – quello che a noi pare risoluzione, non è che semplice compenetrarsi del motivo dato nella coscienza, col volere in quanto predisposto ab eterno. Il carattere si mostrerà sempre e in ogni caso, quello stesso che s’è mostrato una volta; e non c’è mezzo di migliorarlo o di correggerloa. Ora questo concetto dello Schopenhauer intorno alla originarietà assoluta del carattere, contraddice alla più comune esperienza. Tuttogiorno noi vediamo gli uomini formarsi sotto i nostri occhi; e ci è lecito scorgere, come il complesso

dell’attività loro interna pigli quegl’indirizzi e quelle predisposizioni che sono date, o occasionate o imposte dall’ambiente sociale in cui vivono. Quando poi negl’individui comincia la libera reazione contro gli esterni stimoli e contro le interne disposizioni, la reazione è così varia, come è varia la natura delle riflessioni morali, estetiche, religiose o politiche che in essi si sono via via ingenerate. Di certo, non da tutti i giudizi che sono il frutto di quelle riflessioni, nascono volizioni o predisposizioni al volere la cui efficacia deva essere infallibile rispetto all’apparire degli appetiti nuovi: ma è pur vero che da molti di quei giudizi, associati ad una precedente esperienza, ed occasionati sia dagli effetti delle azioni altrui, sia dalle conseguenze delle azioni proprie, nascono delle predisposizioni al volere nella cui somma è dato il carattere presuntivamente allo stato fisso, possibilmente variabile. Bisogna fare onninamente astrazione da quella varietà empirica della coscienza umana, che con diverso nome si dice coscienza religiosa, o politica, etica o estetica degl’individui, per assottigliare in siffatta maniera la relazione fra volizione e motivo, che ne riesca ridotta ad una semplice puntualitàa. 3. Ora, per tornare al Leibnitz, come a quello che ha inteso pel primo dove stesse riposta la ragione della determinazione, in vano cercata in un meccanismo esteriore, o in una eccezionale facoltà di un cominciamento assoluto nel soggetto stesso; deve parer chiaro dalle cose dette innanzi, che quelle che Leibnitz chiama disposizioni all’agire (i motivi), non sono da intendere come tutte date in quanto voleri possibili ab origine, ma in quanto si dispongono in serie nella vita. Le disposizioni si fanno e si sviluppano: e gli stessi appetiti che ci stanno dinanzi come oggetto, nell’atto della determinazione, intanto sono possibili, in quanto procedono dalle antecedenti disposizioni. L’uomo non si può dire libero, nel senso che egli, per dir così, sospenda l’attività propria nel vivere; ma perché l’appetito, che è principio d’inquietezza nella sua condizione statica, prima di tradursi in atto, deve passare attraverso le resistenze che trova negli antecedenti della vita interiore che formano l’io, e riuscirne come volere (come precedente dell’atto) in quanto l’io fa suo il fine dell’appetito. L’io come semplice io (come s’intende nell’astrazione) non è capace di determinarsi: e del pari il volere come semplice volere. E quello che si dice atto del determinarsi intanto ha luogo, in quanto nella reale attività dell’anima è data una molteplicità di stati, rispetto ai quali quello che si dice io, ha una virtù appropriativa più o meno intensa, più o meno certa. Ma sarebbe un grande errore il voler dedurre dall’analisi speciale di una determinazione questa conseguenza: ammesso che il motivo più forte è sempre quello che piglia il posto dell’io, nell’atto del volere; non c’è libertà, se non nel senso che rimane nella coscienza una maggiore latitudine alla riflessione

posteriore, di quella che ci sia nella riflessione che accompagna l’atto della risoluzione. Nell’analisi che abbiamo fatta più sopra dell’atto del risolversi, sono due momenti da distinguer bene. Da una parte abbiamo supposto che l’io si trovi in quella condizione statica, nella quale la somma delle rappresentazioni, dei sentimenti e delle volizioni antecedentemente soggettivate, possa interamente tenersi in equilibrio, e sviluppare all’uopo tutta la potenza reattiva di cui è capace: dall’altra parte abbiamo detto che il sorgere dell’appetito importa una inquietezza in quella stessa condizione statica, la quale inquietezza dipende dalla tendenza a prevalere di quelle rappresentazioni in cui l’appetito ha sede. Ora l’appetito che si traduca in atto prima di essere appercepito da quella peculiare serie rappresentativa che gli si può riferire, non entra punto in discorso, perché di quello che accade allora non è quistione nella sfera della libertà. Se dall’atto dell’appercezione comincia la possibilità dell’esser liberi, è chiaro che nella natura dell’appercezione stessa è riposta una maggiore o minore libertà: e che il peso della quistione cade più su gli antecedenti, che sul semplice atto del determinarsi. Si è visto che i casi principali possono essere tre: che l’appercezione cioè non contenga nulla che reagisca contra il sorgere dell’appetito, e qui accade la risoluzione senza contrasto; che l’appercezione contenga un antecedente motivo di repulsa, e che la intensità di questo sia tale che l’appetito ne rimanga sospeso; e da ultimo, che l’appetito sia più forte del motivo che si presume debba fargli resistenza, e che esso quindi si traduca in volere malgrado la ripugnanza più o meno grande che trova negli antecedenti dell’io. Ora è appunto da quest’ultimo caso che nasce il più comunemente la sollecitazione alla ricerca intorno alla origine della morale ed intorno alla determinazione di sé, ossia intorno alla libertà del volere. Supposto che l’appetito sia qui un appetito immorale, e l’appercezione una precedente massima morale, impotente a resistergli, si dice subito: dove si troverà più il principio della responsabilità, se in questo caso l’appetito è irresistibile? Dunque bisogna supporre nell’uomo una facoltà assoluta di fare il meglio: e bisogna dotarlo di una particolare inclinazione al bene, e così via. Ma in fondo non c’è dunque che tenga: perché nella vita nostra interiore non c’è che questo: lo sdoppiarsi di essa in soggetto antecedente, ossia in somma di rappresentazioni, volizioni ecc. ed in processo obbiettivo di appetiti che tendono a divenire voleri. D’altra parte, non è forse affatto gratuita la supposizione, che il nuovo appetito che si mostra irresistibile deva essere immorale, e morale invece lo sforzo opposto di resistenza? Non può invece accadere che nel nuovo appetito ci sia la possibilità di un volere morale, e che esso si mostri irresistibile rispetto ad

una antecedente massima immorale? Chi vuole convertire altrui, chi vuole migliorare un individuo guasto o prossimo a guastarsi, chi vuole sostituire in sé od in altri una buona ad una cattiva abitudine, non fa appunto assegnamento su questo: che gli riesca d’ingenerare in una determinata rappresentazione o in un determinato gruppo di rappresentazioni quello sforzo a divenire volere, che è il carattere in genere dell’appetito; e non conta egli per l’appunto su la irresistibilità del nuovo volere, rispetto al volere antecedente, o alla somma dei voleri antecedenti che costituiscono l’io pratico dell’individuo? Ora si vede chiaro che nei tre casi dell’io che s’appropri il nuovo appetito, che lo repella, o che lo subisca, è data semplicemente la possibilità psicologica della scelta e della risoluzione, non è data alcuna predeterminazione morale: né la morale perché trovi posto nell’uomo ha bisogno di altro. Può darsi bene che nel primo caso, cioè in quello dell’io che si appropria la nuova voglia, la fa sua e la traduce in atto, ci sia tanto un io immorale, quanto un io morale: che cioè il combaciamento fra antecedente soggetto e nuovo appetito, nell’atto del volere, dia luogo alla lode od al biasimo. Così del pari può accadere che l’appetito repulso sia il principio di una volizione morale repulso da un io in cui prevale la massima immorale, od il principio di una volizione immorale repulso da un antecedente proposito morale; e nel terzo caso, come abbiamo già notato, il nuovo appetito che si mostra irresistibile può essere così morale come immorale, e si può, secondo che accada, trovare lodevole o biasimevole che riesca a vincere gli antecedenti dell’io. La esigenza dunque della libertà morale, non importa né può importare che la natura umana sia altra da quello che essa veramente è: perché basta che nei limiti di quella attività interna del distinguersi prima, e dopo, e durante l’atto della risoluzione, sia data appunto la possibilità della volizione morale, del formarsi cioè di un volere conforme alle esigenze del giudizio morale. Egli è chiaro che questa volizione non deve essere istantanea, né suggerita dall’accidente, o da alcuna considerazione estrinseca: perché deve in verità procedere dal più intimo della persona; da quella somma appunto di voleri concentrati nell’io, che predeterminano l’appropriazione o la ripulsa dei nuovi appetiti, e prevengono o sospendono l’apparire di essi. La piena libertà morale consiste nel carattere morale; ossia in una somma di predisposizioni racchiuse e concentrate in una serie di massime, che in quanto si riferiscono ad un volere possibile, costituiscono i propositi antecedenti: ma non ci sarebbe mai verso di venire a capo di cotesto carattere, né in pratica né in teoria, se il concetto del carattere in genere non fosse di più grande estensione; e se la libertà nel senso psicologico non riposasse in confini più larghi di quelli nei quali è mestieri che la morale s’adagi.

X 1. Da questo punto si può riuscire a tre ricerche; e son queste: Che cosa è quello che si dice qualità morale del volere: in quante e quali idee è riposto: in quante relazioni si specifica: in che modo queste idee e relazioni si possono integrare nel sistema della scienza? Quali sono le condizioni peculiari della vita interiore che danno luogo alla formazione del carattere morale, come cosciente attività rivolta alla preformazione del volere, negli antecedenti del volere stesso? Tutti gli uomini, i quali siano capaci di libertà in genere, sono anche capaci di libertà morale: cioè dire tutti gli uomini sono moralmente educabili? Questa ultima domanda è, come si vede, più particolarmente pedagogica; se si vuole intendere per pedagogia, come si deve, così quella che concerne l’individuo in particolare nel sistema della educazione, come quella più generale che esercitano lo stato e la chiesa in quanto alle funzioni sociali. Queste tre domande si risolvono in tre scienze: nel sistema dell’etica: nella teoria psicologica del volere: nei principi fondamentali della pedagogia. Noi non possiamo qui che indicare sommariamente, e come in lineamenti generali, la soluzione che le tre domande sopraindicate trovano nelle tre scienze dell’etica, della psicologia e della pedagogia: non possiamo di certo riuscire ad una esposizione completa delle tre discipline stesse, nella totalità dei loro svolgimenti. Il problema nostro si risolve dunque in una molteplicità di problemi: rispetto ai quali la psicologia ha l’ufficio di offrire la schematica generale; l’etica ha da precisare l’esigenza della libertà nella esposizione dell’ideale morale; la pedagogia (la politica?) ha da studiare l’approssimazione reale fra il doveressere dell’esigenza morale, e la pura naturalità dell’attività psicologica. Ora per quel che riguarda la seconda e la terza ricerca, si può partire da due punti: da quello della comune esperienza, e da quello della semplice esigenza morale. Chiariamo meglio questa duplicità del punto di partenza. 2. Se alcuno, mettendosi dal punto di vista della esperienza comune, avesse facoltà di conoscere addentro tutti gli uomini, o moltissimi uomini in particolare, egli avrebbe forse occasione d’intendere che essi non differiscono fra loro, quanto al grado di libertà interna, meno di quello che differiscono per ogni altra dote dell’animo, o per la forma del corpo. Non in tutti è data una eguale somma di rappresentazioni, e questo s’intende da sé; ché la differenza è così grande, come può esser quella che intercede fra il minimum di capacità, ed il maximum

di coltura. Né in questa somma di rappresentazioni, così diversa per quantità, la qualità corrisponde sempre ai gradi quantitativi, né il ritmo della vita interna è lo stesso in tutti; e, quel che più monta, nella peculiare struttura della intimità di ciascuno, così diversa per quantità e per ritmo, non è data né una realtà eguale né una eguale possibilità di quella speciale maniera d’essere che si dice carattere, ossia volere abituale (la somma delle volizioni come predisposizioni stabili all’agire). Su questa varietà empirica fa prova di fondarsi quella che dicesi fisica sociale; ed a coglierne i tratti fondamentali si mette la così detta statistica morale: cercando l’una e l’altra disciplina di riuscire a questa conclusione: che tutto quello che c’è, è affatto determinato, né può essere altro da quello che è. Di certo il grado di libertà di ciascuno non si può determinare a priori, perché ciascuno è libero quel tanto che egli può; e secondo la somma reale di resistenze che costituisce l’io, o l’antecedente soggettività di lui. Questa verità di fatto, ridotta a regola vuol dire: che la libertà umana ha un limite nella possibilità. Ma chi ci può dire davvero quanta e quale sia questa possibilità in ciascuno: o sarà forse mestieri di barattare la morale, perché da una osservazione parziale si ricava una imperfetta regola generale? Ché qui in fatti non c’è esperienza che tenga, perché l’esperienza stessa è criticata dall’esperienza. Il limite di cotesta possibilità di certo non è sempre lo stesso: anzi varia in ciascuno individuo assai variamente, nelle varie età della vita; ed è diverso nei diversi individui, di diverso sesso, stato e condizione. L’educazione lo allarga o lo ristringe, secondo che essa è larga o ristretta, buona o cattiva: la religione lo riempie di forza o di debolezza, secondo che è forte o debole l’ideale su cui si fonda, maggiore o minore la presa su gli animi e la efficacia di coloro che hanno ad insinuare l’ideale: l’esempio della vita pubblica contribuisce più o meno a tener vivo e desto in ciascuno individuo il sentimento totale della propria facoltà di disporre nel limite peculiare della possibilità specifica, ed a determinare in quel sentimento una somma ben definita di sentimenti particolari, rispondenti alla somma delle relative occupazioni e del modo di vivere: la scienza da ultimo, in quelli che arrivano fino ad essa, a quell’orizzonte cioè che nei confini della potenza umana è il più alto e perciò stesso il più largo, può fare che gl’individui raggiungano il più alto grado possibile di attenzione riflessa, donde può procedere, spesso procede, la maggiore predeterminazione possibile rispetto agli atti singoli. L’esperienza dunque dei singoli individui prova solo questo: che in ciascuno di essi il grado di libertà è determinato dalla somma di tutte le condizioni che li fanno tali; e che queste condizioni sono in parte mutabili sempre, in parte mutabili solo dentro certi limiti di età, altre immutabili affatto da un certo punto della vita in su: il che non importa però, che quello schema di attività interiore

che la psicologia ricava in astratto dall’atto della risoluzione, sia da considerare come una mera finzione, perché in quello schema è espressa una reale condizione di essere di tutti e di ciascuno. Le azioni umane le quali siano l’espressione della volontà, come atto reale di risoluzione, si riferiscono tutte all’io della persona stessa: ed in tanto sono azioni umanamente concepite ed eseguite, in quanto è sempre l’io che dà la predisposizione nella somma degli elementi che lo costituiscono, ed il reale impulso alla decisione; nell’appropriazione del motivo più forte. Noi abbiamo accennato agli errori che nascono dalla ipotesi di un io come semplice io, o di un volere come semplice volere, e dalla pretesa di attribuire all’una o all’altra astrazione la potenza tutta della libertà e della risoluzione, che è propria solo dell’individuo, in quanto reale somma, coordinamento e successione di stati interni. Ma anche chi guarda la quistione della libertà da questo punto di vista, che è il solo che l’esperienza psicologica ammetta e possa ammettere, può cadere in un grossolano errore: che è quello di scambiare il limite della libertà, in quanto emerge da un paragone fra gli individui e l’ideale del carattere, col limite che è proprio di ciascuno individuo rispetto agli atti suoi particolari. Quando si dice che in ogni uomo ci è un grado maggiore o minore di libertà, si deve intendere tre cose: Che questo grado si riferisce alla diversa potenza di ciascuno individuo preso a parte, in quanto reale capacità: Che il grado può essere diverso nei diversi individui, rispetto alla possibilità della formazione del carattere, come peculiare preformazione del volere nei limiti della individualità. Che da ultimo questo grado può variare nello stesso individuo nelle diverse e successive condizioni psicologiche di lui: la quale diversità è da intendere come comune a tutti gli individui, per quanto varia possa essere la loro capacità, ed il loro carattere. Ora accade questo. Si piglia da un lato un ideale, vero o falso che sia, dell’uomo; un ideale politico, o religioso, o meramente morale; e dall’altro lato si piglia l’individuo così grossolanamente come è dato nella superficiale esperienza comune: e come dal confronto dell’ideale con l’individuo risulta per via di relazione un concetto di limite, si fa di questo limite un dato assoluto nell’individuo stesso, un principio di reale impotenza. D’altra parte c’è nell’ideale questa esigenza appunto che esso esprima quello che l’individuo deve essere: cosicché quello che nell’individuo reale manca in quanto si confronta con l’ideale, apparisce come un difetto di realtà (della morale si fa una realtà, e si distribuisce per gradi).

In vero tutto sta a vedere se l’ideale è esattamente concepito, e in che misura l’ideale deva servire di norma nel giudizio dell’individuo. Un ideale tutto raccolto e concentrato in una massima sola, è un ideale falso: perché le massime morali possono e devono ricondursi a molti giudizi fondamentali, i quali dal canto loro si riferiscono a molti sentimenti primitivi, ed appunto perché tali irriducibili l’uno all’altro. Nell’ideale della morale entra di certo il concetto del volere perfetto; cioè di un volere il quale paragonato con qualunque altro sia assolutamente degno di lode, in quanto semplice forza ed efficacia: ma non è vero anche che sotto tutti gli altri rispetti questa relazione quantitativa non ha valore? In somma la libertà, come condizione psicologica (la determinazione cosciente nell’individuo) è sufficiente ad accogliere dentro di sé quella quantità di morale, della quale ciascuno individuo è capace nei limiti suoi: e sebbene l’uomo, circa alla quantità del fare abbia una potenza maggiore o minore, questo non toglie che per quanto egli ha potestà di fare sia nel senso generale libero, e possa essere moralmente libero. Il soldato non ha a decidere del piano di battaglia: egli però è libero quando sa di voler combattere, perché nell’io suo così angusto e ristretto quanto a capacità rispetto a quello del generale, c’è una somma di antecedenti disposizioni per le quali egli può fare interamente suo l’atto che compie, perché lo vuole: ed è moralmente libero quando nel suo io per l’appunto è nato e s’è formato quel concetto del dovere che costituisce il coraggio come morale efficacia. Se il soldato è messo al posto del generale egli diventa meno libero, anzi non libero affatto: perché gli manca l’insieme di quelle attitudini le quali costituiscono gli antecedenti psicologici della risoluzione, e conseguentemente quella somma di sentimenti morali, e quel grado di sviluppo dell’idea del dovere, che si deve presumere in quella posizione nuova. L’esperienza comune non può dunque decider nulla circa la relativa moralità dell’uomo, se confonde i limiti della capacità, con quelli della morale: perché non si può dimenticare che la scienza e la pratica devono dar ragione all’adagio tanto popolare per quanto profondo: age rem tuam, il quale trova il suo complemento nell’altro: mala electio est in culpa29. 3. Se si guarda invece alle esigenze che sono contenute ed espresse nell’ideale etico, la quistione che si aggira intorno alle due domande indicate più sopra, si può pigliare da un altro lato. Nella disamina che abbiamo fatto finora del concetto della libertà, come facoltà della risoluzione e dell’appropriazione del volere da parte dell’io, non c’è niente che decida su la morale stessa: donde dunque, si può dire, uscirà la morale? L’esigenza che è inclusa nell’ideale etico, non è pregiudicata dal supposto che essa deva diventare motivo più forte della scelta; il che è un farla dipendere dall’accidentale compagine psichica

degl’individui, piuttosto che dalla sua intrinseca dignità ed eccellenza? La morale – così pare – diventa forza; cioè dire, l’opposto della morale. Una quistione di tal fatta è una quistione mal posta. Chi mettesse in dubbio che le verità geometriche siano assolute ed eterne, solo perché v’ha al mondo molti stolti che non possono intenderle, sarebbe egli stesso uno stolto. Ma questo forse vuol dire, che chi insegna le verità geometriche deva predicarle invece di dimostrarle, o deva recitarle invece d’imprimerle nella mente altrui? Questo imprimere, si noti bene, sarebbe impossibile se la mente non fosse capace di produrle da sé: perché tanto è imparare quanto produrre da sé con l’aiuto altrui. E qui per l’appunto è riposto il problema dell’educazione. Ora rispetto alla morale, accade ordinariamente il contrario. Chi ne ha, o pretende d’averne più degli altri, si mette a predicarla; e crede con ciò d’assolvere il debito suo. Ma gli uomini fanno i sordi alla predica! – è il solito lamento –; e perché? Ad uscire da cotesto imbroglio, o si ricorre al noto mezzo di risolvere i giudizi morali in altrettanti precetti fondati sopra ragioni estrinseche alla morale stessa, o si fa conto di poggiarsi sopra gli stimoli ed i coefficienti di esterna intimidazione o di riguardi eudemonistici, i quali guastano dalla radice ogni efficacia di sentimento, ogni libertà interiore. Ma chi non s’avvede qui, che il problema è tutt’altro: che tutto, in somma, consiste a formare il volere morale, cioè il proposito interiore, fondato nella intimità dell’io stesso; ed a rendere in tutti i casi irresistibile la coscienza del bene? A questo di certo non si arriva per riguardi estrinseci; perché la morale non si può fondare che su la stima incondizionata di quello che per se stesso è incondizionatamente degno di stima. Perché, se l’ubbidienza è il più alto grado della maturità del volere, l’ubbidienza verso quello che si stima moralmente ed incondizionatamente; quello che io, in quanto uomo, devo stimare, non può stare che in me stesso; io lo devo trovare in me, nella mia propria natura: né c’è arte, o artifizio, o paura, che possa persuadermi della eccellenza di quello che è fuori di me o lontano da me, se io stesso non trovo in me il criterio della eccellenza sua. La formazione del volere morale, che è il gran problema della educazione umana, non può sottrarsi alle ordinarie leggi della vita interiore: e non ritrae dalla eccellenza del giudizio morale, che ne è il fondamento ultimo, alcun privilegio di origine, ma solo il privilegio della dignità. 4. Qui è il punto di distinguere esattamente la libertà nel senso psicologico, dalla libertà nel senso morale. Nell’ordine logico la prima sta alla seconda, come il generale al particolare: – la libertà morale è un caso specifico della libertà psicologica. Realmente la prima sta alla seconda, come condizionante a condizionato: – l’uomo non potrebbe esser libero moralmente, se in lui la libertà non fosse una condizione interiore

possibile in un senso più lato, di quello che si presume nell’esigenza morale. Le sfere, dunque, dei due concetti, non si adeguano: – non ogni uomo libero, è moralmente libero. Perché l’io, come antecedente di ogni singola risoluzione, può essere determinato da una somma di elementi, che contraddicano alle esigenze morali. Questo è il fatto. Ma questo fatto si può guardare a parte post, ed a parte ante30. A parte post, la possibilità dell’adeguazione fra libertà morale e libertà psicologica, si può perdere in una infinita differenziazione, fino ad un grado minimo di resistenza morale nell’individuo: fino ad una quasi totale assenza di volere morale. Non c’è niente però che dica, che un individuo, per quanto arrivato a questo estremo, non sia correggibile: perché totale assenza di sentimento morale è un non senso; e dato il sentimento morale è data la possibilità di una lenta trasformazione del sentimento in giudizio, e del giudizio in forza (volere); di una graduale trasformazione cioè del carattere. A parte ante, tutti gl’individui possono essere moralmente liberi; perché in tutti è data la reale capacità di elevare mano mano il sentimento morale ad effettiva predisposizione al volere, nel soggetto che predetermina in sé gli antecedenti delle peculiari risoluzioni. Il grado di libertà morale di ciascuno individuo è vario non meno che il grado di libertà psicologica. Il massimo non si può determinare a priori, ma è certamente presegnato nell’ideale della virtù: e quanto al caso concreto tutto si riduce ad una successiva approssimazione. L’individuo reale però – come serie nella vita – non possiede se stesso nella totalità sua, in nessuno dei momenti della vita stessa. Quindi nessuno può dire: io voglio esser libero (moralmente), e riporre in questa semplice volizione un reale principio di libertà; perché il voglio suppone il soggetto. Ora quel voglio può significare due cose: o la semplice esigenza (nella rappresentazione), ed allora fa mestieri cominciare da più punti, per preparare la disposizione morale nel soggetto stesso: o l’attualità già realizzata del volere morale, ed allora è una semplice tautologia. Ma l’individuo non è quello che è, solo in quanto io e volere: perché esso è somma di molteplici stati interni, e punto d’incontro di molteplici rapporti nella vita (esterna). C’è quindi nell’individuo una possibilità di molti coefficienti (religione, condizione sociale e doveri che ne emergono, esempio altrui, coltura e suoi gradi) che concorrono a preformargli il volere morale: cosicché, se la responsabilità sua, rispetto al complesso dell’attività morale, non si può puntualizzare nel semplice atto dell’io voglio, di certo si specifica e si risolve in una successione e molteplicità di momenti, i quali costituiscono in complesso la responsabilità reale. Di qui deriva l’esigenza della educazione: la quale ha da fare in modo, che la

responsabilità complessiva si concentri in una stabile predisposizione; in una volontà antecedente nel soggetto, capace di un maximum di resistenza contro l’azione successiva degli appetiti. Il quale maximum ha la sua espressione nel carattere (morale) come assoluta determinazione, che è assoluta libertà: assoluta determinazione in quanto il volere è tutto compenetrato dell’esigenza morale; assoluta libertà, in quanto quel volere è, nel soggetto stesso, anticipazione di repulsa di ogni appetito che sia in contraddizione della coscienza moralea. La responsabilità, dunque, nel senso morale, non coincide con la responsabilità nel senso psicologico. A questo i giuristi non badano ordinariamente. Perché responsabilità nel senso psicologico vuol dire attribuzione dell’atto alla persona (al volere), in quanto conscia dell’esecuzione sua, nel momento che lo vuole. Ma perché la responsabilità nel senso psicologico, adegui la responsabilità nel senso morale bisogna paragonare il volere, che è principio dell’azione, con la somma delle idee che formano la coscienza morale dell’agente; ed in questo confronto non si può riuscire ad altro risultato, se non a questo: che la responsabilità morale di ciascuno si perde in una infinitesimale differenziazione da individuo a individuoa.

XI Ripigliamo l’analisi dell’atto del risolversi, che abbiamo cominciata qui innanzi. 1. In quell’analisi c’è, in fondo, un’astrazione. Noi non vogliamo dire che astrazione suoni qui lo stesso che invenzione, o immaginazione; ma l’astrazione sta certo in questo, che pare si voglia in essa ridurre a schema fisso, tutto quello che nella molteplicità indefinita dei casi particolari si presenta con indicibile varietà di processi antecedenti, contemporanei e successivi. Noi abbiamo supposto l’io antecedente, come quello che dà il tracollo alla decisione; e l’abbiamo indicato appena, senza dire se la serie o le serie rappresentative destinate ad appercepire (reagire od appropriare) il peculiare appetito che occasiona la deliberazione, siano semplicemente immagini (rappresentazioni), o sentimenti e rappresentazioni fusi insieme e variamente complicati e coordinati in forma di massime; o se finalmente siano propositi precedenti, nati nella rappresentazione di voleri possibili, o da anteriori esperienze degli atti propri e degli atti altrui. Quello che importava a noi era di determinare in genere il soggettivarsi (o non soggettivarsi) del nuovo appetito; il quale soggettivarsi fa che il volere successivo sia proprio dell’io che lo produce. S’intende bene che quando si parla di decisione secondo il motivo più forte, non è indifferente sapere, se quello che dalla parte dell’io dà il colpo della decisione, sia uno o l’altro degli stati interni, che si dicono immagini, o giudizi, o sentimenti, o massime, o propositi. Ora in questa differenza riposa il grado di maggiore o minore libertà interiore degl’individui singoli, e dello stesso individuo nelle singole situazioni della vita. Il maggior grado di libertà sta nell’antecedente proposito morale: perché in questo l’atto del dir no (la repulsa dell’appetito) è predeterminato dall’assoluta adesione del soggetto (dell’io) alla massima morale, e dal concretarsi di essa nel volere come carattere (la convinzione). Noi possiamo attingere dall’esperienza stessa una prova incessante dell’alto grado di dominio su la rimanente vita interiore, al quale può giungere l’antecedente volontà, nel proposito e nella convinzione: ed appunto dai tratti sparsi dell’esperienza noi ricostruiamo in idea l’immagine del carattere moralmente perfetto. Se non che, il soggetto, come semplice riflessione sopra sé stesso (quando non è ancora volere), può spesso ingannarsi nel giudizio che fa sul suo proprio valore; in quanto crede d’avere allo stato reale di proposito quello che non ha che allo stato di massima o di semplice sentimento: dalla qual cosa procede, che soventi nella vita gli uomini

appaiono a sé stessi ed agli altri da meno di quello che pretendono. Il difetto sta principalmente nell’educazione: perché comunemente essa è rivolta a stabilire nella rappresentazione delle massime ipotetiche di un volere possibile, in luogo di formare nel volere stesso la congiunzione reale fra l’esigenza categorica del giudizio morale, e la effettiva ripugnanza del soggetto per tutto quello che contraddica alla esigenza stessa. Tocca alla pedagogia di approfondire questa quistionea. 2. Oltre a ciò, quell’atto del risolversi, che si fissa e determina in astratto, non è incessante nella vita: né gli uomini stanno in punto di decidersi, per tutto quello che essi facciano ogni istante. Molte risoluzioni passano allo stato di abito, molte sono appena avvertite: altre infine sono più complicate di quella così semplice che si può astrarre dalla condizione media d’una vita normale. Di qui procede che alla libertà non si può in verità arrivare che per gradi, nel corso della vita stessa: e che nella media condizione statica della riflessione, della osservazione, della ricerca, della meditazione, dello studio, dell’adorazione e così via, l’uomo si può, si deve formare gli antecedenti reali del volere buono: perché quello che si dice comunemente libertà morale, ossia capacità del soggetto di determinarsi secondo il bene, non può puntualizzarsi nell’atto della risoluzione; e chi s’ha a risolvere, il più comunemente s’è già risoluto per l’innanzi le mille volte potenzialmente, in quanto ha raccolto nella soggettività sua tutti i dati possibili di ogni concreta risoluzione. Sarà utile fare le debite distinzioni: Si può cominciare dal caso in cui l’appetito che si traduce in atto, non è punto appercepito, perché manca il mezzo affatto d’appercepirlo: cioè manca l’antecedente soggetto. In questo stato di rozzo meccanismo psichico, che è il punto di coincidenza fra l’animale in genere ed il fanciullo, manca del tutto qualsiasi filo conduttore della vita interiore, ogni precedente centralizzazione che stia rispetto al nuovo come determinata capacità reattiva ed appropriativaa. Molti animali escono da questo stato perché addomesticati; e tutti i fanciulli, appunto perché divengono uomini. Il determinismo meccanico sconosce questa verità di fatto, e presume che nell’uomo, in quanto tale, si continui quello stato di inevitabile trasformazione di appetiti in atti determinati, che costituisce la condizione media degli animali, considerati come semplice meccanismo psichico, senza possibilità di quello sdoppiamento interiore che pone una differenza stabile fra soggetto ed oggetto, nel soggetto stesso. È da notare però, che anche nel processo della vita, che si dice propriamente umana, c’è una gran quantità di atti che sono la conseguenza meccanica degli appetiti, con nessuna o poca forza di reazione da parte del soggetto, con nessuna

o assai leggiera appercezione. Gli uomini non stanno ogni istante in punto di decidersi, per tutto quello che riguardi gli atti peculiari della vita; sia come soddisfazione dei bisogni organici, sia come abituale coordinamento della loro attività, nel giro delle ore e dei giorni. Gran parte degli atti ordinari della vita si compiono meccanicamente; perché gli appetiti già precedentemente sviluppati e soggettivati si trovano ridotti ad una condizione di fissità abituale, e non incontrano il più delle volte nel soggetto stesso alcuna resistenza, o ragione di resistenza, dalla quale possa nascere quella particolare tensione interna, che mena alla scelta, e quindi poscia alla decisione. Nondimeno rispetto a tutti questi atti la decisione è sempre possibile, in determinate condizioni. Noi infatti non abbiamo ogni istante bisogno di deliberare, impegnando una piccola o grande somma di rappresentazioni antecedenti, una maggiore o minor parte dell’io, per deciderci al lavoro od all’ozio, a comunicare o a non comunicare altrui i nostri pensieri, in un modo o nell’altro, a serbare questo o quel contegno, a desinare o a vestire in questa o in quella guisa, a sdraiarci o a stare in piedi, a parlar forte o piano, adagio o in fretta, a passeggiare o a sedere, e così via. Ma se rispetto a tutti questi atti abituali, che a giudicarli comunemente appaiono indifferenti, nel soggetto c’è una antecedente somma di opinioni e di sentimenti circa il conveniente e lo sconveniente, fissata così e così nell’animo, e circonstanziata bene, può accadere che da indifferenti che sono o che sembrano, cadano sotto il dominio della massima, e siano argomento di una deliberazione; e spesso il non averla fatta a tempo c’è causa di vergogna o di rammarico, più o meno profondo, secondo che la massima è più o meno radicata, e l’atto c’è parso più o meno contraddittorio ad essa. L’essere sorpresi in uno di questi atti indifferenti, c’è spesso causa di vergogna, se la massima è viva, e se essa non concerne che il conveniente: ma può accadere anche che il meccanismo di quegli atti indifferenti sia sospeso da più intime ragioni, quando le nostre massime si fondino sul concetto dell’utile, o dell’onore, o del dovere: e che da esse derivi una esortazione al fare in un modo o nell’altro, la quale esortazione si è fissata nel nostro ambiente interiore in immagini diverse di voleri possibili. Di qui procede la prima esigenza della educazione, che si fonda sopra il concetto della costumatezza (più volgarmente questa si dice educazione); la quale è questa: che rispetto alla più gran parte degli atti, nei quali c’è una naturale disposizione al meccanizzarsi, ci sia nel soggetto una somma di resistenze consolidate internamente nelle immagini del conveniente (la decenza). Se c’è cosa che provi immediatamente, quanto possa esser grande nell’uomo la capacità del distinguersi dal processo meccanico dell’appetito, e del contrapporgli un antecedente proposito, desunto da una immagine del lodevole; è appunto questa della cotidiana esperienza della educazione, secondo i criteri del

decoroso. E cotesta esperienza rincalza l’opinione che la educazione morale deva mirare appunto a questo ideale: che il dominio, cioè, su l’appetito sia dato in un completo combaciamento fra soggetto ed esigenza estetica: in qualcosa, in somma, che escluda il rigorismo del doverea. I Greci, nel più bel fiore della loro civiltà politica ed artistica, disegnarono cotesta immagine della perfezione senza coazione, nella rappresentazione del kalokágathos. 3. Qualunque sia però la massima precedente all’atto, che deve appercepire l’appetito; o, a discorrere più generalmente, qualunque possa essere nel soggetto la disposizione all’appercepire, può sempre accadere che l’appercezione non avvenga. I casi di mancata appercezione sono stati classificati come segueb: L’assenza di appercezione può procedere dalla debolezza dell’appetito, o dalla debolezza dell’appercezione. Nel primo caso, le rappresentazioni nelle quali l’appetito risiede sono così fugaci o deboli, che non hanno né tempo, né forza di riprodurre tutte le altre alle quali dovrebbero andar connesse, per risvegliare nel soggetto quella inquietezza, che è principio dell’esame che sta a capo dell’atto del risolversi. Gli esempi sono assai comuni. Nell’atto che noi siamo intesi a leggere, o occupati nel parlare, possiamo soddisfare tanti altri piccoli bisogni nostri, senza spendere in essi alcuna parte della nostra riflessione: appena leggermente agitati nel complesso della nostra attività; con piccolo sentore di piacevole o spiacevole sentimento. Nel caso poi che l’appercezione manchi, per difetto di forza nelle rappresentazioni che dovrebbero esserne sede, il difetto di forza può dipendere da diverse ragioni. In primo luogo, può accadere, che nell’insieme del sentimento vitale, per condizione organica o periodica o accidentale, avvenga un tale abbassamento nella attenzione interna, che la forza di reazione da parte del soggetto non abbia luogo di spiegarsi. Quando p. es. cominciamo a sentire il bisogno del sonno, noi cadiamo in molte distrazioni – questo è il modo di dire comune: cioè cadiamo in uno stato d’impotenza relativa, rispetto a quei bisogni che siamo soliti ordinariamente di dominare. Se in questo stato ci troviamo di compiere meccanicamente un atto qualunque; appena dopo che l’atto è compiuto, e che ha prodotto negli astanti, realmente o per quello che noi possiamo presumere, una cattiva impressione, per l’effetto della vergogna che sentiamo, si ridesta in noi tutta la somma delle rappresentazioni che avrebbe avuto ad appercepire il sorgere del bisogno, e che l’appercepisce così tardi. Le cause di cotesta sbadataggine possono esser molte. Alcune di esse sono ordinarie e periodiche, altre ordinarie e non periodiche, altre infine del tutto anormali: e da ciò dipende, che la prudenza c’impone di non pigliare alcuna risoluzione grave, quando non

siamo in quella condizione di evidenza interiore, mercé la quale tutto intero il nostro io può fungere allo stato completo di attività. La situazione esterna in cui la persona si trova, può agire su la sua decisione, nel senso che essa accada prima del sorgere di quelle rappresentazioni che dovrebbero appercepirla. Come l’oratore, abituato a dominare la parola ed il gesto innanzi ad un pubblico che gli è familiare, può cadere in uno stato di assoluta impotenza innanzi ad un pubblico affatto nuovo; così il bravo soldato di mare, messo a combattere in terra ferma, può esser colto dal panico e fuggire, prima che egli abbia avuto tempo di sviluppare tutte intere nell’animo quelle rappresentazioni e quei sentimenti, che sono ordinaria sede in lui del concetto del dovere che gli è peculiare in quanto soldato. La vigliacca risoluzione, nata dalla paura, è già accaduta, prima che essa sia stata appercepita come tale; ed in quel caso non si può a dirittura discorrere di un volere radicato nell’io della persona, perché non c’è davvero né un voluto né un volibile determinato liberamente. Nella sorpresa accade lo stesso. Chi è messo dalla forza altrui, o da inevitabili condizioni, nella necessità di pigliare una decisione, può trovarsi ridotto al punto di pigliarne una che non corrisponda interamente a quella che egli presume d’ordinario come possibile o ragionevole; perché il tempo necessario alla riflessione gli è venuto meno. In tutti i casi di sopra menzionati, meno in quello del puro meccanismo sia accidentale sia abituale, c’è questo in fondo: che l’appetito non tocca l’io (storico) della persona fino a quel punto, nel quale la riproduzione delle rappresentazioni può riportare nell’ambiente della coscienza quelle appunto, che possono servire ad appercepirlo; la qual cosa può accadere, o per la debolezza dell’appetito stesso, o per la condizione del soggetto, il quale per esser poco desto, o per trovarsi la persona né in luogo né in tempo da potersi decidere, rimane vinto dal meccanismo naturale degli appetiti che si sviluppa fino in fine, nell’atto della risoluzione, e nell’azione contraddittoria alle abituali disposizioni dell’individuo stesso. In tutti questi casi «si suppone che il carattere della persona poteva contenere il principio di una maniera di agire opposta» (Herbart)31. 4. Non si deve trascurare un’altra circostanza, la quale può essere d’impedimento all’appercezione. Noi abbiamo finora insistito su questo punto essenziale; che, cioè, la deliberazione, morale o immorale che essa si sia, debba intendersi come dipendente dalla reale forza accumulata nel soggetto, in quanto individualità e carattere, e non si possa ridurre all’astratto concetto della riflessione, come a quella che debba da sola, rintracciare e fissare il criterio della decisione. Non può però negarsi che il più delle volte le massime fondate sul

conveniente, su l’utile, su l’onesto e via dicendo, acquistano un più o un meno di estensione (logica) nel soggetto stesso: il che importa che il valore pratico della massima, in quanto imperativo, trovi un maggiore o minore addentellato nella coltura e capacità dell’individuo. Nel corso della vita si vede tutto giorno quanti errori nascano appunto dalla imperfetta nozione delle massime, non bene ricollegate con tutta la somma dei sentimenti peculiari che devono essere ridotti ad esse. Al maestro, che dava in su la voce ad un fanciullo perché mentiva, il fanciullo rispondeva: ma mio padre m’ha detto, che quando il maestro mi rimprovera io devo scusarmi. Questo pare una puerilità; come sarebbe anche il caso d’un fanciullo cui si dicesse: non devi rubare; e che egli non intendesse che lo spilluzzicare la roba altrui sia anche esso un rubare. Ma non deve parer questa una puerilità, se si guarda al non piccolo numero di uomini che si trovano in questa condizione d’insufficienza logica rispetto alla massima morale: che essi pur credono d’avere abbastanza evidente nell’animo. Gli esempi sono frequenti nella vita pubblica: nella quale molti si abituano a farsi una morale a partita doppia; distinguendo, con assai sottile sofistica, la onestà privata dalla pubblica, e stimando a volta a volta lecite e illecite le medesime azioni. Chi non sa oramai che le massime morali, del non mentire, del non denigrare, e per fino quella del non rubare, paiono a molti da non estendere alla vita pubblica? Questa opinione è certo segno e frutto di corruzione pubblica: ma non è piccola parte della corruzione stessa la insufficienza logica rispetto alle massime. In tutti i casi di mancata appercezione, enumerati più su – enumerati appena, ché ad esporli sistematicamente farebbe mestieri di rifare tutta la psicologia – gli atti si dicono non liberi, non in quanto il soggetto (la persona) non sia e non possa essere affatto libero, ma in quanto esso non è interamente attivo rispetto all’atto particolare. Da ciò dipende, che non sempre a questa assenza parziale di libertà corrisponda totale assenza di responsabilità; in quanto si può presumere nel soggetto stesso una antecedente trasgressione, o malvolere, o disattenzione che fa dell’atto non libero, un atto imputabile rispetto agli antecedenti suoi. (Quello che i giuristi chiamano causae in culpa). 5. Dopo questa eliminazione, si può vedere più chiaramente, a quali casi sia applicabile quello schema della libertà, intesa nel più largo senso psicologico, che risulta dall’analisi di una risoluzione perfetta. Perché quella libera elezione, che consiste nell’appropriazione del motivo, ossia nel soggettivarsi di esso, non ha luogo che in determinate condizioni: nelle quali si può dire che la libertà non ha che un senso tautologico, perché in esse tanto vuol dire libertà, quanto compiutezza dell’attività pratica dell’io. Se non che, c’è anche altro da osservare. Noi abbiamo supposto il caso, nel

quale il soggettivarsi dell’appetito, o il non soggettivarsi di esso riposino onninamente sopra un contrasto di forze, nel quale da parte del soggetto non c’è che una serie sola, o più serie omogenee di rappresentazioni; le quali, in una qualunque forma di massima, di giudizio, di opinione intorno all’utile, al conveniente, all’onesto, siano atte a reagire, o non atte a reagire, contro la nuova forza che dicesi appetito, o voglia e così via. Il più delle volte, però, accade che nel soggetto le serie rappresentative, che devono far da centri di reazione, non siano omogenee; e che in uno e medesimo individuo, in quanto egli si considera e come uomo p. es. sic et simpliciter, e come cristiano, e come cittadino, e come pubblico funzionario e via dicendo, il soggetto che funge come attività reattiva ed appropriativa, sia come distinto in tante masse non omogenee di rappresentazioni (e relativi sentimenti): la qual cosa costituisce gli antecedenti psicologici delle così dette collisioni dei doveri. In quel caso, si noti bene, può accadere; o che il coordinamento delle diverse masse non omogenee sia già dato nel carattere – il quale riposa, non solo su gli antecedenti voleri, ma su la loro subordinazione –; o che sia dato nel valore stesso del nuovo appetito, che attira sopra di sé l’attenzione, nei limiti che son propri della peculiare natura sua. Può anche però accadere, che la deliberazione concerna appunto il rapporto dell’appetito o della voglia, con le diverse masse non omogenee che costituiscono nel loro insieme l’io della persona. Quando ciò accade, il processo della decisione diviene più complicato; in guisa, che se l’educazione dell’individuo non ha raggiunto quel grado di maturità che ordinariamente si presume, e che ordinariamente non c’è, non è infrequente il caso di decisioni che rispondono all’io parziale della persona, come questa o quella peculiare parte di essa, e non all’io totale, che in essa bisogna presumere. Di fatti, se un uomo intendesse a questo modo la massima cristiana del perdono, che egli, come giudice o come giurato, non debba condannare il reo; quest’uomo, se pur credesse di porsi al posto di Dio, in cui si presume l’infinita potenza del perdono: verrebbe meno al concetto etico del compenso, che è il fondamento della penalità. Ma quest’uomo è a dirsi ineducato, ossia immaturo: perché l’interna struttura dell’animo suo non ha raggiunta quella regolare coordinazione, in virtù della quale gli sarebbe agevole distinguere, che l’ufficio del punire, che gli è dato dalla società, non è da confondere col sentimento del perdono, il cui opposto non è la pena, ma la semplice vendetta. In queste collisioni psicologiche, delle masse appercipienti non omogenee, s’incontrano due difetti: il mancato coordinamento della vita interiore, e la dificiente intelligenza logica della estensione e del contenuto della massima. 6. A completare il concetto di quell’atto puro e semplice della scelta, su cui cade tutto il peso della responsabilità, e dal quale si desume la cognizione

immediata dell’individualità, in quanto libera; farebbe mestieri di esaminare anche l’atto della scelta rispetto alla elezione dei mezzi, quando il fine è già dato: cioè, quando da parte del soggetto non c’è ripugnanza per quella attività che è presegnata dall’appetito, ma solo incertezza circa i mezzi più atti a raggiungere il fine stesso. Se avessimo qui a fare un trattato di psicologia intorno al volere, l’esame della scelta dei mezzi ci dovrebbe tenere lungamente occupati, anzi avrebbe dovuto tenerci occupati dal bel principio. Cotesta disamina non fa però al caso nostro. Noteremo solo alcune cose. L’individualità, in tanto si dice tale, in quanto in una somma di condizioni interiori è data in essa una stabile selezione di rappresentazioni (e sentimenti analoghi) e di voleri; la quale costituisce il nocciolo della personalità. Nell’insieme della esperienza peculiare di ciascuno, è data già una cognizione relativamente perfetta dei mezzi che concorrono ad un determinato fine; e quindi la possibilità delle volizioni rivolte ai mezzi, che formino il volere complesso che è rivolto al fine. L’attività dell’uomo si dice tanto più perfetta e complessa, in quanto essa può raccogliere ed ordinare intorno ad un determinato fine, una più o meno grande somma di voleri parziali, disposte, e preordinate al fine unico. Il limite di questa capacità non è da assegnare a priori: ma la capacità stessa è così comune, che senza di essa non è possibile di condurre innanzi la più lieve occupazione, arte o mestiere. Si può dire che dato il fine, è data una generazione spontanea delle volizioni dei mezzi; che sono come i prodotti naturali delle singole intellezioni, coordinate alla intellezione completa del fine unico. Una così fatta generazione spontanea delle volizioni singole ha il suo fondamento nella capacità intellettuale dell’individuo; la quale costituisce nel suo insieme il sistema della tecnica del volere, così varia come è varia la infinita molteplicità degl’indirizzi dell’attività umana. Su la tecnica del volere si fonda l’educazione specializzata; e la differenza di essa dalla semplice educazione generica. Però può accadere, assai di frequente accade, che la scelta cada appunto su i mezzi, anche quando il fine è già dato; sia che il fine sia nuovo; sia che da parte del soggetto manchi l’abito della coordinazione dei mezzi al fine; sia, in fine, che nuovi criteri di valutazione abbiano allargata la sfera delle nostre massime, e ci facciano portar giudizio su i mezzi, anche quando il fine non cada più in discussione. Dal punto di vista puramente psicologico, l’esame dei mezzi si aggira intorno alle molte serie rappresentative (le quali costituiscono le serie dei mezzi rispetto ai fini); e riposa nella somma dei criteri precedentemente soggettivati, i quali devono costituire i centri d’appercezione. Compiuta la risoluzione, può accadere che l’io consideri come possibile una decisione opposta; in quanto esso, come semplice rappresentazione, omette di tener conto dell’abito o della disposizione antecedente, che ha determinata la scelta secondo

la legge del motivo più forte. Nel mezzo scelto c’è però, rispetto agli atti consecutivi, una forza maggiore di quella che ci sarebbe nel mezzo stesso, se fosse scelto come unico possibile in rapporto al fine determinato cui si pensa di raggiungere; perché nell’atto della elezione (selezione) è condensata contemporaneamente la cognizione degli altri mezzi possibili; la quale cognizione si riflette (pesa) nella somma totale delle forze, che costituiscono il volere determinato. Ora il soggetto si trova rispetto ai mezzi, in quanto appetiti speciali, nella stessa condizione nella quale si trova rispetto all’appetito unico: che, cioè, nella decisione è sempre la intrinseca qualità di esso, che dà il tracollo alla bilancia. Se non che, il giudizio su i mezzi può sospendere o differire l’appropriazione di quell’appetito che costituisce il fine: e porta sul soggetto che ne presceglie uno, una quantità di responsabilità, pari alla somma di attività che esso può spiegare nello esaminare i mezzi stessi. La massima: – il fine giustifica i mezzi – è la più erronea che possa darsi: perché essa confonde il giudizio che si porta sul fine, con quello che si deve portare su i mezzi; e nega quindi al soggetto la latitudine che esso ha di riflettere su i mezzi stessi, come se lo sceglier questi fosse tutt’una cosa con l’approvazione del fine. Di certo, nella scelta dei mezzi può accadere, che la fretta, la mancata riflessione, e tutti gli altri casi esaminati più su, scusino nel soggetto la mala scelta; ma ammessa la condizione psicologica di elezione libera, il soggetto è così responsabile nella scelta dei mezzi, come in quella del fine. Nella esigenza della morale c’è questo: che il fine il più onesto deva essere abbandonato, quando i mezzi possono andar soggetti a biasimo; della qual cosa non è a dire quanto si deva tener conto nella educazione; massimamente ora, che la sofistica della riflessione minaccia di voler pigliare essa sola il posto del vivo ed efficace sentimento del bene. 7. L’atto perfetto della risoluzione, che è da considerare come una astrazione, se si paragona con tutte le volizioni abituali ed indifferenti della vita giornaliera; e che spesso si presume senza ragione certa per ammetterlo, è reale in tutti quei casi di grave deliberazione, nei quali l’individuo si prepara, con fini lodevoli o biasimevoli, a compiere un’azione di gran conseguenza per l’avvenire suo, o di grande effetto nella opinione degli altri. Così colui che commette un delitto, come quegli che compie un atto di gran sagrifizio, si trova appunto nella condizione d’impegnare tutto l’io nell’atto della deliberazione; di far cioè pesare in essa tutta la somma delle sue antecedenti opinioni e massime, tutta la forza dei suoi sentimenti e dei suoi giudizi. In questi atti, su i quali il più comunemente cade il giudizio morale, non è semplice presunzione, ma piena realtà la intera libertà dell’individuo; perché l’individuo, nel risolversi, risolve gran parte di sé nell’atto stesso: vi trasfonde la sua propria indole, nel più alto grado di attività.

Per quanto è vero, che nel più gran numero delle risoluzioni nostre, la fretta c’entra per una gran parte, e la sollecitazione al deciderci procede da un confuso sentimento di qualcosa che ci preme, e da cui vogliamo esser liberia; altrettanto è vero, che in certi solenni atti della vita, né la fretta ci spinge, né il confuso sentimento della inquietezza ci tormenta, ma la natura nostra è tutta impegnata (è attiva) allo stato di piena libertà. Spesso accade, che nella risoluzione che precede l’atto, o per mancata esperienza, o per difettosa previsione, non sia data in anticipazione tutta la somma dei sentimenti, che possono derivare dalla osservazione dell’atto stesso, in tutte le sue conseguenze; cosicché la consapevolezza dell’atto compiuto può, secondo la peculiare natura sua, rincalzare o indebolire i sentimenti di ripugnanza o di compiacimento, che erano tutti insieme confusi nell’atto del risolversi. Da ciò procede, che il pentimento per gli atti consumati, è più profondo di quello che si possa mai provare per le semplici intenzioni; e che lo stesso accada per le buone azioni, dalle quali risulta un morale compiacimento: perché nell’un caso e nell’altro, la coscienza del valore del nostro volere, trova nuovo pascolo nella intuizione delle reali conseguenze di esso. Nelle azioni complete si suppone appunto il carattere, come antecedente somma di voleri coordinati nell’io: ed è appunto nel carattere che sta riposta la maggiore libertà dell’uomo, il maggior grado della potenza sua. 8. Noi abbiamo già detto, che individualità e carattere non sono da considerare come così distinti nella realtà, come sono distinti nella scienza. In ogni individualità è data la reale possibilità del carattere; ed in ogni atto suo, il quale riveli un volere passato allo stato di antecedente proposito, c’è carattere rispetto a quell’atto stesso, che cade in discorso. Bisogna quindi distinguere nell’individualità la semplice tecnica del volere, dalla somma delle elezioni di un volere possibile, sotto il punto di vista delle massime: e poi la concrezione e compenetrazione di più massime nel proposito; nei quali due ultimi tratti consiste il carattere approssimativamente perfetto. In generale il carattere si può definire: una formazione della vita interna, circa il volere o il non volere. Alla selezione, la quale nella individualità si suppone semplicemente data, si aggiunge da parte del soggetto una serie di coscienti elezioni, le quali, quanto alla qualità del volibile, riescono alle due forme della omogeneità e della costanza: due forme che possono riassumersi in quella più complessiva della memoria del volere (fondamento della pedagogica). Le disposizioni date nella individualità, quando questa arriva ad essere carattere, vanno sottoposte ad un processo tutto peculiare; che ha origine dalla riflessione volontaria, e si esprime in una serie di cambiamenti volontariamente operati nelle disposizioni stesse. Da quello che avviene in seguito di questo processo

nasce la conseguenza nel volere, che può arrivare fino ad una perfetta sistematica; nella quale la legge della motività è tutta compenetrata nei singoli atti della persona. Rispetto a questa sistematica, però, il lato soggettivo della individualità serba sempre la sua indipendenza: in quanto che, nell’elemento soggettivo del carattere, è data la somma delle massime, allo stato di semplici appercezioni dei voleri possibili. Queste massime possono essere diverse, secondo l’indole di quello donde procedono: massime, cioè, che procedano dal peculiare indirizzo degli appetiti, ossia massime delle passioni: massime che procedano dal diverso atteggiarsi del sentimento rispetto al piacevole, od allo spiacevole: massime che nascano dalla riflessione puramente intellettuale, ossia di prudenza: massime, in fine, che procedano dalla disposizione al giudizio libero di valutazione incondizionata, ossia moralia. 9. Aristotele ha detto, in un bellissimo luogo della Poetica: che la poesia conferisca più della storia a fornirci di un concetto esatto della natura umana32. Il luogo di Aristotele fa molto al caso nostro. Perché è appunto nella poesia, e massime nella drammatica, che i tratti del carattere, che l’esperienza ci porge assai confusi nei diversi individui, ed assai disugualmente distribuiti in tutti loro, s’integrano in una immagine unica e complessa; in una piena trasparenza della legge di motività. Così l’eroe del bene, come quello del male, ci appare in essa non altrimenti determinato, che come assoluta ed indefettibile anticipazione nell’io, d’ogni reale determinazione: come immancabile compenetrazione di soggetto e di motivo, nell’atto del volere. A questo ideale corrisponde assai di rado la comune esperienza della vita: nella quale non è dato il più delle volte niente altro, che la semplice possibilità del carattere, estenuata, per dir così, dalle molteplici vicende del corso ordinario delle cose, e sopraffatta, prima del suo normale sviluppo, dal meccanizzarsi degli appetiti o degli interessi, nella vita di tutti i giorni. Sotto questo riguardo è a dire: che negli uomini, come sono realmente, c’è un più o un meno di libertà, come c’è un più o un meno di carattere reale; e che il maximum della libertà è determinato dal maximum possibile del carattere. Se non che, se ben si guarda a quello che abbiamo detto più sopra; se di questo difetto, cioè, che c’è in ogni uomo, in quanto si paragona con l’ideale del carattere, non si fa una privazione o difetto reale, si potrà venire a questa conclusione: che sebbene nel carattere sia il massimo della libertà, nondimeno in ogni individuo, preso alla condizione normale, c’è quella parte di libertà che è sufficiente a costituirlo innanzi a sé come libero nel corso della vita, e come responsabile negli atti suoi particolari. Perché, in fondo, non tutti gli uomini hanno a trovarsi nella posizione di tutti gli altri, né hanno a decidere ogni istante

sopra tutto il fattibile, preso e sommato assieme; anzi ciascuno ha, nella tecnica speciale del suo volere, la quale costituisce la reale capacità, una antecedente esperienza; e nella formazione peculiare del carattere, inteso in una maniera generale, l’assidua presenza dell’io in ogni atto peculiare. La scienza non può andare più in là di questo: perché la scienza non può, né sperdersi nella moltiplicità dei casi particolari, né ripiegare ad un bel punto tutta la somma dei processi formativi del carattere e della individualità, e premerli, per dir così, e condensarli in un sol punto; per farne quell’antecedente assoluto, che si è detto io, o carattere che determina incondizionatamente se stesso (la libertà trascendentale). Ci preme di venire alla conclusione.

XII Può sembrare, deve sembrare a qualcuno una cosa a dirittura assai strana, che noi, fino a questo punto, ci siamo astenuti dal discorrere in particolare della morale; mentre in uno scritto che s’occupa appunto nella disamina della libertà morale, il concetto che l’autore s’è fatto della morale stessa, può parere naturale si metta a capo, si esponga, cioè, in principio della ricerca medesima. Una siffatta obbiezione avrebbe però ragione e fondamento, se qui si fosse trattato di ricercare: come sia possibile di riuscire ad un volere, il quale corrisponda a quella morale, che altri può stimare sia da intendere come riposta in un dato catechismo (in un complesso di leggi o di precetti), ad un volere, staremmo per dire, tutto a sé, tutto peculiare; altro dal volere che emerge dalle condizioni psichiche della vita individuale e sociale, ed assume nel carattere quella costanza sistematica, che costituisce, a parer nostro, il più alto punto della umana libertà. Noi andremmo troppo per le lunghe, anzi, ci dilungheremmo a dirittura dal proposito nostro, se avessimo qui ad esporre tutto il processo storico della morale scientifica, per venire a quelle conclusioni, alle quali l’etica in quanto scienza è riuscita storicamente. Ci proveremo di esser brevi. 1. Il problema etico si può pigliare da due punti di vista: e questi due punti di vista bisogna tener ben distinti, se non si vuol cadere in grossolani errori. Da una parte bisogna guardare a questo, che in ciò che noi chiamiamo morale, è una somma di esigenze intorno a quello che deve assolutamente essere: una somma d’idee riferibili ad un volere possibile, che stanno rispetto ad esso, come modelli della perfezione sua. Su queste idee si fonda la scienza dell’etica; sia che essa guardi al volere singolo dell’individuo, sia che guardi al volere complesso della società. Queste idee riposano sopra giudizi categorici; il cui valore incondizionato, appunto perché tale, non dipende punto dal riconoscimento di questo o quello fra gl’individui ai quali siano o possano essere esposti, o al cui esame (accidentale – passaggiero – istantaneo – soggettivo) possano essere sottoposti; perché hanno una intrinseca evidenza che s’impone al soggetto, indipendentemente da ogni arbitrio suo. La scienza etica, in quanto semplicemente tale, cioè in quanto scienza, non può tener conto delle reali condizioni del soggetto empirico, nel quale le idee morali possono o devono tradursi in massime ed in propositi: perché l’ufficio suo è di depurare i giudizi stessi da ogni altra mescolanza di riguardi soggettivi, e di esporli nella loro

purezza. Per quello che riguarda il caso nostro; l’etica, in quanto scienza, non può andare più in là di questa affermazione: che, cioè, la libertà morale consiste nella piena armonia del volere con la convinzione etica; in quanto convinzione e volere si presumono come dati assolutamente in una costante relazione, che riscuote in tutti i modi, e sotto tutti i rispetti, una incondizionata approvazione. Il suo ufficio rispetto a tutte le altre idee morali è lo stesso: perché a costituirle le basta la semplice nozione dei rapporti ideali d’un volere possibile, o con sé stesso, o con altro volere possibile, dai quali rapporti si possa desumere quei particolari concetti della benevoglienza, del dritto, della perfezione, della equa rimunerazione, che stanno in fondo ad ogni nostro più complicato giudizio intorno alle azioni umanea. La scienza etica, rimanendo anche tale, cioè scienza semplicemente del giudizio morale, può fare ancora un passo più innanzi: può costruire quei concetti più complessi del bene, del dovere, della virtù, nei quali, non solo è data la somma dei puri e semplici giudizi primitivi, ma eziandio la coordinazione di essi nell’idea di un volere personale, che li fa suoi, come norme attuali ed attuose della sua maniera di comportarsi. Nel concetto del bene morale è concentrata la somma delle relazioni del volere buono, in quanto essa è considerata come oggetto incondizionato del volere della persona singola: nel concetto del dovere è data la somma del doveressere, come corrispondente ad una stabile relazione fra soggetto che comanda, come insieme di massime, e soggetto che ubbidisce come attuazione delle massime: nell’ideale della virtù, in fine, è data la piena adeguazione del soggetto, in quanto reale persona, con la somma dei postulati che emergono dalla cognizione astratta dei rapporti puramente morali d’un volere possibilea. L’etica, dunque, come scienza del giudizio morale, primitivo e derivato, non ha nulla a vedere nella psicologia e nell’antropologia; le quali due scienze studiano appunto l’uomo come esso è dato in natura, in tutta la varietà empirica del suo essere morale od immorale. Qui comincia l’altro punto di vista della quistione morale. Non c’è concetto della coscienza morale, intesa astrattamente, che tenga innanzi alla verità empirica della necessaria formazione della individualità e del carattere; con tutta la varietà e moltitudine degli elementi naturali, sociali e storici, che costituiscono la reale maniera di essere dell’uomo. La psicologia, dunque, deve indagare il punto nel quale, nella sfera del sentimento, si generano quegli stati interiori, i quali sono il primo nocciolo dei predicati di compiacimento o di ripugnanza, cioè a dire, i reali equivalenti psichici delle idee

su le quali la morale come scienza si fondab: e deve eziandio mostrare la reale genesi di quell’atto interiore della determinazione di sé, nel quale è possibile che la libertà morale trovi posto, e nel quale può accadere anche il contrario. Nella sfera della osservazione psicologica, sia individuale sia sociale, accade l’opposto di quello che si vede nella morale pura e semplice: accade, cioè, che l’assoluto doveressere vi appare subordinato alle reali condizioni del soggetto, nel quale è necessario si svolga, perché costituisca l’eccellenza del carattere (morale). La morale, dunque, si può cogliere in tre momenti: In quanto, nello sviluppo interiore della vita di ciascuno, sorgono quei peculiari sentimenti di approvazione o di riprovazione, riferiti in particolare a certe determinate relazioni del volere; i quali sentimenti costituiscono nel loro insieme il sentimento morale: In quanto, per via dell’astrazione scientifica, quei sentimenti si convertono in predicati di relazioni possibili del volere; e sono elevati, come tali e quali predicati, a principi generali di giudizio incondizionato sopra le possibili relazioni del volere: In quanto, in fine, quei predicati divengono norme del volere reale, ossia massime concentrate nell’io della persona, allo stato di antecedenti propositi. Quest’ultima maniera di considerare la morale, è quella che prevale principalmente nelle scienze che hanno a dirsi pratiche per eccellenza, e massime nella pedagogica (la politica?); nella quale la quistione nostra cade per la principal parte. Ora, nel giro della storia è accaduto questo: che spesso la evidenza del giudizio morale, nella sua massima astrattezza, s’è ridestata nella coscienza assai prima che una sufficiente conoscenza riflessa dell’animo umano, nella sua generalità e in tutte le sue specificazioni, avesse posto in grado i moralisti d’intendere, come e in che misura la reale ricettività dell’individuo fosse da mettere in rapporto coi postulati del doveressere, i quali sono inclusi nei concetti etici. Una falsa obbiettivazione dei postulati stessi, in una antecedente coscienza reale del bene, ha menato a questa conseguenza, che si cercasse poi l’opposto di essa (il male), in un mitico dirimersi del semplice, in sé ed in altro. Tutte le investigazioni cosmogoniche e teosofiche intorno alla origine del male, ripetono la loro origine da questo supposto: che l’antinomia fra assoluto doveressere, e realtà psicologica, non possa trovare altrove una spiegazione, che in un antecedente assoluto distinguersi della coscienza, in quanto puramente libera, nella duplice sua maniera d’essere, come coscienza mala e come coscienza buona. Il mito della caduta dell’uomo in parecchie religioni popolari, contiene in embrione questa tendenza teologica e metafisica, la quale si è poi venuta giù giù concentrando in un grande apparato sistematico, dagli Gnostici

fino allo Schelling ed al Daub33. D’altra parte, una volgare riflessione, popolare assai nel secolo scorso, e tornata ora a galla per opera di parecchi rimpastricciatori di libri, fatti ad uso e commodo dei lettori spensierati, fermandosi alla buccia della quistione, ha messo ogni sforzo a provare: che ideale morale non ce n’è punto, perché alla fin fine gli uomini si regolano in tutte le loro faccende secondo l’interesse loro, e tutto il resto è mera invenzione dei moralisti. Gran verità è quella di certo! Tanto farebbe che uno si provasse a dimostrarci che musica non ce n’è, né ce ne possa o deva essere al mondo, perché molti di quelli che canticchiano per le vie stonano tutto il santo giorno. Dalle meretrici non si va certo a pigliar lezione di pudore, né dagli usurai ammaestramento di carità. Questo è certissimo. Ma sarà proprio vero, che si nasca usuraio o meretrice, eroe o codardo? Il gran disinganno di cotesta falsa riflessione sta nella posizione che essa deve pigliare innanzi a se stessa, ed innanzi alla realtà di fatto. Chi dice che le azioni umane sono regolate soltanto dall’interesse (in senso peggiorativo), s’egli non è del tutto sfornito di ogni luce di ragione, deve avvedersi di questo: che la definizione sua dell’interesse suppone appunto quello che s’intende negare. Perché in verità l’interesse c’è sempre, anche nell’atto più eroico: l’interesse di essere conseguenti alla riposta voce della coscienza. Ma chi dice interesse, dice pure interesse basso ed alto, interesse immorale e morale; grettamente individuale e nobilmente sociale: dice in somma interesse e disinteresse. E per ripetere l’esempio: se non si va dalla meretrice a pigliarne lezione di pudore, né dall’usuraio a riceverne esempio di carità, è appunto perché la meretrice è meretrice e l’usuraio è usuraio: e sono definiti appunto dal volere loro, non rispondente all’ideale del volere buono. Nel secolo scorso non fu del tutto un atto di leggerezza, né una prova di sciocca ribellione, la critica che si fece della coscienza morale. Allora si faceva per la prima volta il tentativo di ricondurre ad un principio naturale, ad un principio dato nell’uomo stesso, la moralità che si era fatto credere dovesse discendere dal settimo cielo della immaginazione mitica e religiosa. Il tentativo non riuscì a buon fine, per la imperfezione dei metodi, e per la scarsezza d’ingegno e di forza filosofica in quelli che lo fecero. Ma ora, nel secolo nostro, è a dirittura un dar prova di scemità volontaria, il ripetere che si fa da certi positivi, o positivisti, o esperimentalisti, dei vieti argomenti contro la moralità; a circa un secolo dalla grande riforma Kantiana, su la quale si può dire ancora, con le debite eccezioni, s’intende bene, quello che diceva il Fichte a tempo suo34, che una parola calzante non è stata per anche pronunziataa . Del resto, chi gli fa comodo, imbestialisca pure a suo bell’agio.

3. Individualità naturale e doveressere non stanno uno lì e l’altro qui; ma sono l’uomo stesso: ed il gran problema pedagogico e sociale sta appunto nel far sì, che il doveressere non rimanga semplice giudizio, ma divenga efficacia del sentimento, ed attuosità del volere. Chi sogna che la libertà sia data ab origine, non può cavare le mani dagli imbrogli di questo mondo; perché l’uomo bisogna farlo, bisogna educarlo. Abbandonarsi al corso naturale delle cose, è la filosofia dei pigri36: predicare il dovere, è la mania dei preti e dei democratici. Ma per gran fortuna del mondo, la società non è composta solo di pigri e di matti; e quegli i quali hanno buonvolere, possono adoperarsi, devono adoperarsi a formare il volere buono. Or questo è appunto il principale ufficio dello stato: perché lo stato, nel suo ideale, è scuola, è diffusione dei lumi, è benevoglienza, è legittimo sistema di rimunerazione: e come è ora, è già in parte così; ed in parte deve esserlo meglio. La repubblica ideale di Platone è un semplice sogno per tutti quelli, che dalla comune realtà della vita non sanno elevare l’occhio della mente, alla realtà più intima che siamo noi stessi. E quando diciamo repubblica di Platone, non intendiamo dire, a dirittura, le fantasie tutte dei dieci libri che portano quel nome; ma il primo, il più antico concetto dello stato ideale, senza del quale concetto non ci sarebbe, non ci potrebbe essere in noi la spinta alla formazione dello stato reale. Perché lo stato è un prodotto della natura che può, che deve divenire un prodotto della volontà conforme alle idee: come l’individuo è un prodotto della natura, che può, che deve divenire un prodotto della volontà riflessa; in quanto che l’uomo, nella formazione del carattere, è artista.

XIII Raccogliamo qui, in fine di questo lavoro, in forma, come a dire, di aforismi, i risultati della nostra disamina, ed al tempo stesso alcuni concetti generali che emergono dall’esame della deliberazione e della libertà morale: i quali concetti devono, a parer nostro, trovare il loro naturale svolgimento nelle scienze peculiari della psicologia individuale e sociale, nella filosofia dello stato, e nella pedagogia. 1. Nell’uomo non c’è assoluta libertà; né come indifferenza ai motivi (il libero arbitrio); né come assoluto cominciamento, o suiposizione d’una serie di fenomeni (volitivi), della quale si trovi un punto che sia semplice antecedente, senza esser punto conseguente. 2. Il libero arbitrio non spiega, né il singolo atto del risolversi, né la varietà degli atti stessi: e non è nemmeno una escogitazione utile per la morale; perché questa non può fondarsi su la pura possibilità del contrario di quello che si fa (ordinariamente), ma ha invece bisogno di un non potersi fare altrimenti: cioè di una inevitabile determinazione conforme alla sua natura categorica. 3. Chi cerca nell’uomo un assoluto principio di una successiva serie di fenomeni, di un principio che sia semplice antecedenza, senza essere in alcuna maniera conseguenza di altro, non può trovarlo nell’esperienza interna; perché questa non va di là da quel punto, nel quale le volizioni sono già determinate da una coscienza antecedente. Chi assottiglia il concetto dell’io o del volere, in maniera da farne il più semplice principio di quell’atto del determinarsi, che è dato nella persona come tale, riesce ad una contraddizione; perché volere ed io non sono il principio reale della vita interiore, e quando appaiono, sono già dati come tale volere e tale io. D’altra parte, non è risolvere il problema il riportarlo al semplice io, od al semplice volere: perché nell’uno o nell’altro caso si attribuisce all’io od al volere quella molteplicità di condizioni che è propria dell’individuo come reale somma di più stati interiori: la qual cosa è un assottigliare il problema, non è un renderlo più facile. 4. Quando dall’esigenza di un assoluto cominciamento, che non è dato nell’esperienza, si fa un semplice postulato metafisico (Kant, Fichte), non si fa nulla che agevoli la possibilità della morale. Perché, se la trasformazione della esigenza morale in un postulato metafisico, può sembrare che dischiuda un orizzonte più largo alla speculazione, in fatti non riesce se non questo: a trasportare, cioè, in immagine in una più alta sfera del sapere (?) un problema che è semplicemente dato nell’esperienza nostra interna. E come questa non va

di là dal punto nel quale noi ci distinguiamo come soggetto ed oggetto, nell’atto del saperci; così avviene, che chi pone l’io come semplice io o il volere come semplice volere, e intende poi spiegare il determinarsi come semplice atto del porsi come sé ed altro, riesce ad un concetto contraddittorio, quale è quello della causa sui. 5. Accade anche peggio, quando di cotesto assoluto porsi come sé ed altro, in una speculazione teosofica si fa lo stesso problema della cosmologia e della teologia; perché allora del distinguersi internamente, che è dato solo nella esperienza nostra, si fa un dato assoluto: e come l’esigenza è appunto di spiegare il distinguersi, si riesce ad ammettere la contraddizione come assolutamente data. In questa falsa obbiettivazione, la quale fa di quello che è dato solo nella esperienza interna, un dato assoluto, sta tutto il segreto della teosofia dagli Gnostici fino ai giorni nostri. 6. Il problema della libertà è un problema affatto psicologico. L’uomo è libero, in quanto si sa come internamente distinto: ed in quanto egli è molteplicità di stati interiori. La sua libertà non ammette un regresso all’infinito, né risale fino ad un punto nel quale tutto quello che c’è in seguito, sia posto liberamente. L’apparire della libera determinazione è subordinata alla formazione normale della personalità; alla possibilità, cioè, che nell’atto della scelta l’individuo si determini secondo l’antecedente io, ossia secondo la reale somma delle sue esperienze interiori, le quali costituiscono i centri d’appercezione d’ogni nuovo impulso al fare, che si generi negli appetiti. 7. Dato l’io, come reale forza, fissata in una quantità di rappresentazioni di carattere qualitativo anch’esso determinato, è data la possibilità della scelta libera: ossia della volizione preceduta dall’appropriazione che fa il soggetto dell’impulso contenuto nell’appetito. Il determinarsi dell’io, non è un dirimersi del semplice in sé ed in altro: ma un concrescere assiduo della individualità nella successiva appropriazione dei motivi – nella soggettivazione di essi. 8. L’individualità può raggiungere un alto grado di sviluppo, nella formazione di quel volere antecedente ad ogni atto particolare di decisione, che deve, nella decisione stessa, rappresentare o la reale forza di resistenza contro i nuovi impulsi, o la reale appropriazione di essi. Nel carattere, come somma di antecedenti voleri concentrati nell’io, è data la massima libertà dell’uomo: perché nel carattere è data la possibilità di una determinazione, che sia del tutto rispondente alla natura stessa dell’io. 9. Il carattere è un ideale. Quello che s’incontra più di frequente è la tecnica del volere; allo stato di parziale libertà dell’individuo, rispetto alle sue abituali occupazioni. Ma in un certo senso ogni uomo ha carattere, nella sua peculiare maniera d’essere; ed in ogni uomo è data la possibilità di uno sviluppo parziale,

dalla individualità fino al carattere, ed in conseguenza fino al carattere morale. Perché il carattere non è dato; ma si forma: e le predisposizioni naturali dell’individuo sono assai piccola cosa in paragone dei tratti acquisiti, nella reale somma di elementi interiori, che costituiscono l’individualità ed il carattere. 10. Sotto un certo rispetto si può dire, che tutti gli uomini sono liberi, e che pochi sono veramente liberi. Liberi tutti, in quanto in tutti è dato un certo soggetto, attraverso del quale il motivo agisce perché si traduca in volere: liberi veramente pochi, in quanto in pochi il soggetto stesso è dato a quello stato di solidità, e di interiore certezza, che può e deve dirsi veramente carattere. 11. La psicologia riesce dunque a questo: che la libertà non è da puntualizzarsi in un solo momento della vita dell’anima, in un attimo della sua reale evoluzione, ma è invece da cercarsi in tutto il processo della vita stessa; il che mena alla conclusione: che in ogni uomo c’è una reale possibilità di libera determinazione, la quale possibilità ha diversi gradi nell’abito, nella massima, nel proposito, nel carattere. 12. In questi confini fa d’uopo che la morale s’adagi: perché la possibilità che i suoi ideali divengano forze reali della vita, non sta in altro, se non nella possibilità stessa dell’abito, della massima, del proposito, del carattere morale. 13. La morale, come è data immediatamente nell’animo allo stato di sentimento, non è sufficiente a costituire la libertà piena dell’individuo. Né il ridurla a giudizio, come si fa nella riflessione comune, né il ridurla a sistema, come si fa nella scienza, può menare alla efficacia reale del volere buono. Questo volere è appunto quello che s’ha a formare. Su questa esigenza si fonda in principio la pedagogica; ed in essa bisogna che lo stato riponga gran parte della efficacia sua. 14. Gli uomini non sono tutti fatti per arrivare fino alla coscienza piena dell’ideale etico; sebbene tutti abbiano, allo stato di sentimento, i primi germi della valutazione etica. Per ciò fa mestieri che nella società gl’individui trovino una moltitudine di eccitamenti al risvegliarsi del giudizio morale: e nella religione una moltitudine di reali coefficienti per la formazione del buonvolere. Perché, se tutti non possono essere eccellenti, cioè dire, capaci di un carattere morale interamente lodevole, trovino almeno un sufficiente appoggio alla scarsezza del loro giudizio morale, in tutta la rimanente vita interiore; in quanto essa si esprime nei vari criteri dell’utile, del benessere, della stima sociale – nella speranza d’una vita avvenire – nella efficacia del sentimento religioso. 15. Perché, se non c’è cosa che nell’uomo sia più degna o eccellente del volere buono, lo stesso volere buono, che è tale solo in quanto uniforme affatto ai postulati della morale, non è agevole formarlo in tutti; tenuto conto della immensa complicazione della vita sociale, e della tanto varia attitudine

intellettuale ed estetica degli uomini tutti. La morale però, come tale, non ha nulla a vedere in cotesti riguardi di convenienza e di eudemonismo: ed è dovere sommo di tutti quelli nei quali il giudizio morale sia apparso nella sua purezza, d’imprimerlo evidentemente nelle opere loro, e d’inculcarlo nell’animo altrui, con quanta maggior forza sappiano e possano. 16. L’intermedio reale fra la morale, come regola astratta, ed il volere come cieca forza, è dato nel sentimento. L’educazione del sentimento è l’ideale della morale: del sentimento come condizione stabile che costituisce l’anima bella. Perché gli uomini non devono dovere, ma devono solo volere quello che la educazione perfetta ha sviluppato nell’animo loro, come sentimento del bene. La perfetta morale libertà è estranea ad ogni coazione, e si riduce al naturale esplicarsi della buona coscienza, nel volere preordinato a tradurla in atto (kein Mensch muss müssen – Lessing37). 17. Se questo è un ideale, lo sforzo di ciascuno deve consistere appunto nel tentativo di approssimarvisi. Questo desiderio deve perciò tradursi in volontà organizzatrice di tutte quelle istituzioni, le quali possano conferire a sviluppare il buonvolere, ad accrescere la conoscenza del bene, a mantener vivo nel sentimento morale di ciascuno quella forza reale di reazione contro le lusinghe degli appetiti, la quale è primo avviamento al carattere buono. 18. Perché di fatti il concetto della libertà morale, come può essere dato dalla scienza, sta rispetto alla moltitudine degl’individui, come un ideale. Ma fra questo ideale e gl’individui stessi c’è la società come intermedio. Ora la società è scuola, è chiesa, è sistema punitivo e retributivo, è governo, è pubblica opinione, è diffusione dei lumi, è incessante accrescimento dei mezzi tecnici e scientifici che conferiscono ad accrescere il benessere e ad acuire l’intelligenza: – e nella somma di tutti questi mezzi è data per la educazione una quantità reale di possibili miglioramenti dell’uomo. 19. La libertà politica, dalla quale abbiamo preso le mosse, non ha, dunque, valore senza la morale efficacia del carattere: e quando lo stato non è, o non si adopera ad essere somma e coordinamento d’istituzioni educative, la libertà riesce alla negazione di sé stessa. 20. La religione, in fine, non ha fondamento, se essa, in luogo di acuire il sentimento morale, e di sviluppare la forza reale del carattere, trasporta in un mondo di là l’ideale della perfezione: e trasforma l’impotenza dell’individuo rispetto all’ideale stesso, in una mitica genesi del peccato. Perché la forza vera della religione non può consistere che in questo: che essa, cioè, presenti nella idea della divina perfezione, e nella rappresentazione della ideale figura del salvatore, nell’immagine, cioè a dire, di un volere assolutamente perfetto, uno stimolo reale alla umana impotenza.

a

Questa critica di una opinione popolare concerne indirettamente una falsa concezione scientifica: quella cioè che, nella storia dell’etica moderna da Hobbes a Fichte, è riuscita alla separazione assoluta del dritto dalla morale. a Perché non paia che io qui esageri, bisogna ricordare che nella storia della teologia cristiana s’è riusciti a due opposte conclusioni circa il modo d’intendere il rapporto fra l’assolutezza del bene e la divina onnipotenza. Secondo Duno Scoto p. es. il bene è bene solo perché Dio lo vuole3. Dio è qui l’assoluto arbitrio. Lo stesso dice Calvino, Inst. chr. rel. 3, 23, 2: «Adeo enim summa est justitiae regula, Dei voluntas: ut quidquid vult, eo ipso, quod vult justum habendum sit». Occam dice: «Ea est boni et mali moralis natura, ut cum a liberrima Dei voluntate sancita sit ac definita, ab eadem facile possit emoveri et refigi, adeo ut mutata ea voluntate, quod sanctum et justum est possit evadere injustum»4. S. Tommaso in vece: «Scimus enim, quod Deus, quidquid vult, vult sub ratione boni; ideo quicunque vult aliquid sub ratione boni, habet voluntatem conformem voluntati divinae»5. a

Se ho preso ad esaminare la coscienza religiosa, come occasione alla ricerca del postulato pratico della libertà morale; non è perché intendessi dire che nella religione sola si trovi cotesto postulato, e che la religione non sia, né possa essere altro, che semplice esigenza morale. Se c’è quistione che concerna l’uomo in generale, senza tener conto d’ogni altro riguardo teoretico o pratico, è questa appunto che s’aggira intorno alla sua libera determinazione conforme a quello che in lui è dato come assoluta esigenza morale: se c’è concetto umano, nel più stretto senso della parola, è quello della morale. Io non ho inteso dunque di fare altro, se non questo: cogliere in uno dei punti più culminanti della coscienza umana, nel sentimento religioso, l’esigenza morale, così come essa si presenta da sé, nella più riposta intimità dell’individuo stesso. La religione è altro nel suo insieme: perché oltre ad essere una maniera speciale di rappresentarsi l’ordine dell’universo, essa è soprattutto bisogno della felicità. L’aspetto suo eudemonistico è quello che più ordinariamente prevale nella comune esperienza: e la stessa speculazione teologica del cristianesimo è stata per la più gran parte rivolta a ricercare i fondamenti teoretici e i criteri pratici del lato eudemonistico della religione. a Allihn, Die Grundlehren der allgemeinen Ethik, p. 91. Lo Schopenhauer nel libro Ueber die Freiheit des Willens, spiega molto bene l’origine ed il significato di questa tautologia. a Il Cartesio in verità diceva: Prin. philos. I, § 41: «Libertatis autem et indifferentiae, quae in nobis est, nos ita conscios esse, ut nihil sit, quod evidentius et perfectius comprehendamus» È utile riscontrare l’acuta critica che fa il Leibnitz di questo concetto cartesiano, ved. Teod. I, § 50; e III, § 2926. Bisogna però notar questo, che nel concetto cartesiano si confondono tre cose: il fatto empirico della deliberazione, l’incertezza dell’uomo sul valore morale della decisione, l’imparzialità del giudizio morale. Che il Cartesio stesso non considerasse il libero arbitrio come fondamento sicuro della morale si vede dal seguente notevolissimo luogo: Med. IVa «Indifferentia, quam experior, cum nulla me ratio in unam parte magis quam in alteram impellit, est infimus gradus libertatis: et nullam in ea perfectionem, sed tantummodo in cognitione defectum testatur; nam si semper quid verum sit, clare viderem, nunquam de eo quod esset indicandum vel eligendum, deliberarem»7. Il Cousin dà in vero prova di una ingenuità senza pari, quando afferma che il libero arbitrio è un fatto di coscienza che non si può revocare punto in dubbio, conf. Cours d’histoire de la philosophie pp. 19 e 20: «Pourquoi, dice il Cousin, démontrer ce qu’il suffit de constater?», ibid. p. 508. a

Drobisch, Die moralische Statistik, und die menschliche Willensfreiheit, p. 63.

a

Io mi attengo qui al citato libro del Drobisch, intorno alla statistica morale, Lipsia 1867.

a

Qui alludo principalmente al Quetelet10.

a

Si può ammirare nei libri oramai famosi del Büchner e del Moleschott il più alto grado d’ingenuità nella espressione di cotesta concezione causale11; conf. soprattutto Fischer, Die Freiheit des menschlichen Willens und die Einheit dar Naturgesetze, Lipsia 1871. b Adolf Wagner, Statistische Untersuchung der Gesetzmässigkeit der scheinbar willkürlichen menschlichen Handlungen, p. 44. a Leibnitz diceva: «In nullius potestate est velle quae velit», ved. episto. de fato pubbl. dal Trendelenburg nelle Historische Beiträge, II, p. 18814. a

È inutile citare qui dei passaggi. Non si può però non ricordare che lo scritto del Kant nel quale si trova

espressa con più freschezza ed originalità la riforma etica che egli aveva in mente, è quello che ha per titolo Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (Opere della nuova ed. dell’Hartenstein, vol. IV, p. 235 e sgg.). a

Saggio ecc., l. II, cap. 21 e 2515.

b

Ueber die Freiheit des Willens, p. 6 e passim16.

c

La critica del concetto della libertà del volere si trova in più luoghi delle opere di Herbart, ved. specialmente Einleitung in die Philosophie, § 12818. a Questo esempio lo tolgo dal citato libro dell’Allihn, p. 94. a Conf. Flügel, Von der Freiheit des Willens nella «Zeitschrift für ex. Philosophie», X, 2. a Il malinconico autore della Imitatio Christi, ed il pessimista Schopenhauer s’incontrano in questo punto. Il primo dice: «occasiones hominem fragilem non faciunt, sed, qualis sit, ostendunt»21; ed il secondo dice: «solo in quello che noi facciamo abbiamo esperienza di quel che siamo (durch das was wir thun, erfahren wir bloss was wir sind, op. cit. p. 60)»22. a

Per quanto io sappia, il primo che ha usata questa espressione è stato l’Herbart; ved. Allgemeine Pädagogik, p. 302 (Opere, vol. X, p. 117 e sgg.)23. a Su la distinzione fra individualità e carattere si può riscontrare la lucida esposizione dello Strümpell nella Vorschule der Ethik, pp. 128-166. a

Flügel loc. cit. p. 141.

a

Cito qui un luogo del Leibnitz, che ha fatto il giro di tutti i libri intorno alla libertà del volere. Egli dice (nella V lettera al Clarke): «les motifs n’agissent point sur l’esprit comme les poids sur la balance; mais c’est plutôt l’esprit qui agit en vertu des motifs, qui sont ses dispositions à agir. Ainsi vouloir… que l’esprit préfère quelquefois les motifs foibles aux plus forts, et même l’indifférent aux motifs, c’est séparer l’esprit des motifs, comme s’ils étoient hors de lui, comme le poids est distingué de la balance; et comme si dans l’esprit il y avoit d’autres dispositions pour agir que les motifs, en vertu desquels l’esprit rejetteroit ou accepteroit les motifs. Au lieu que dans la vérité les motifs comprennent toutes les dispositions que l’esprit peut avoir pour agir volontairement; car ils ne comprennent pas seulement les raisons, mais encore les inclinations qui viennent des passions ou, d’autres impressions précédentes. Ainsi, si l’esprit préféroit l’inclination foible à la forte, il agiroit contre soi-même et autrement qu’il est disposé d’agir»26. b

Ved. soprattutto Nouveaux essais ecc., II, 21, 827.

c

Drobisch loc. cit. p. 77.

a

Loc. cit. p. 1528. Questo è il caso appunto della psicologia e della pedagogia dell’Herbart. a Non è qui il luogo di provare in quante contraddizioni s’impigli lo Schopenhauer quando tenta di a

fondare la morale sul concetto della compassione. C’è però un punto nella sua dottrina che accenna a qualcosa di meglio: quando cioè egli esige nel quietivo del volere un parziale dominio della consapevolezza sul volere come dato. a I giuristi, i psicologi, ed i fisiologi hanno di recente discusso molto su l’argomento del volere paradosso: del volere cioè che è irresistibile, anche quando sia accompagnato da una piena coscienza nel soggetto, e da una intera o parziale ripugnanza morale. La quistione riguarda principalmente la medicina forense: e si aggira intorno a molte condizioni anormali di psicopatia e di patologia ordinaria, che qui non cadono in discorso. Si può conferire l’elegante e succoso scritto del Knop, Die Paradoxie des Willens, Lipsia 1863. a Ved. Herbart, Briefe über die Freiheit des Willens, passim (Opere, vol. IX e specialmente p. 365 e sgg.). a Conf. Geyer, Betrachtungen aus dem Gebiete des Strafrechtes nella citata «Zeitschrift für ex. Philosophie», II, p. 225 e sgg. a Sotto questo rispetto io non so altra pedagogia la quale meriti il nome di scienza, da quella dell’Herbart in fuori. Si può conferire l’elegante trattato dello Ziller, Grundlegung zur Lehre vom erziehendem Unterricht, e segnatamente i §.i 12-15. a Herbart, VI, p. 198 (conf. § 125-128 della Psychologie als Wissenschaft). a

Il primo fra i moderni, che abbia inteso vivamente il bisogno di ricondurre alla semplicità dell’armonia estetica l’esigenza morale, è stato lo Schiller. L’Herbart ha poi compiuto scientificamente il riavvicinamento dell’etica all’estetica. b Vedi Flügel loc. cit. p. 136, il quale rimanda a molti luoghi notevoli dell’Herbart. a

La teoria dei sentimenti ha fatto negli ultimi tempi dei grandi progressi, per le ricerche del Waitz, del Lotze e del Nahlowsky: e massime nella parte dei sentimenti così detti vaghi, o formali. a Conf. Strümpell op. cit. pp. 154-166. a

Io mi riporto qui all’etica dell’Herbart; la quale ha oramai una ricca letteratura. Perché oltre agli scritti dell’Herbart stesso (vol. VIII e IX delle Opere complete), ed ai citati lavori dell’Allihn e dello Strümpell; la esposizione sistematica di essa si trova nel libro dell’Hartenstein, Die Grundbegriffe der ethischen Wissenschaften, Lipsia 1843, che è un vero modello di rigorosità e di precisione scientifica: e nel recente lavoro del Nahlowsky, Allgemeine praktische Philosophie pragmatisch bearbeitet, Lipsia 1871, che va contraddistinto dalla grande chiarezza sua. Per tacere dei molti articoli illustrativi e polemici che si trovano nella citata «Zeitschrift für exacte Philosophie», e del breve scritto del Tepe, Die praktischen Ideen nach Herbart, Emden 1861; nel primo volume della Religionsphilosophie del Taute, 1840, si può leggere una esposizione compendiosa dell’etica herbartiana. Soprattutto poi il libro del Thilo, Die theologisirende Rechts und Staatslehre, Lipsia 1861, il quale, dalle origini del moderno dritto di natura fino allo Stahl, espone e critica tutti gli errori a cui si è riuscito, per aver separato il dritto dalla morale, o per aver confuso questa con la religione, è da ritenere come il più acconcio per orientarsi nella grande incertezza che domina attualmente nelle discipline etiche. a Si può conferire il citato Hartenstein, pp. 318-355. b Su questo argomento si può vedere il Drobisch, Empirische Psychologie, p. 176184; il Waitz, Lehrbuch der Psychologie, pp. 388-415; il Nahlowsky, Das Gefühlsleben, e segnatamente pp. 197-207; e soprattutto il Resl, Bedeutung der Reihenproduction für die synthetischen Begriffe und ästhetischen Urtheile, nella «Zeitsch. für ex. Philosophie», VI, pp. 146-190 e 225-252. a Non potrà certo illudersi d’averla pronunziata ai nostri giorni il Sarchi di Milano: Esame della Dottrina di Kant, 1873. Il Sarchi è scandalizzato, è inorridito dell’oltraggio che fa alla coscienza umana il sofista di

Königsberg, con l’attribuirle la facoltà di una morale indipendente, cioè propria di essa. Che bel progresso in Italia! Trenta anni fa qui a Napoli il Colecchi intendeva e comentava per bene il Kant, e lo intendevano allora, come potevano, ma onestamente sempre, il Galluppi ed il Rosmini (il Gioberti certo no, che con tutto il suo genio, della storia della filosofia ha inteso presso che niente). Lo Spaventa per tanti anni s’è speso a dileguare dalle menti, con brave ragioni e con parecchi eccellenti lavori, i pregiudizi nostri nazionali: ma pare che esse siano divenute più buie di prima35.

MORALE E RELIGIONE DISSERTAZIONE PER CONCORSO [1873]

Es ist überall nichts in dar Welt, ja überhaupt auch ausser derselben zu denken möglich, was ohne Einschränkung für gut könnte gehalten werden, als allein ein GUTER WILLE. KANT1

I Il titolo che metto in capo alla pagina designa l’argomento, intorno al quale io faccio conto di invitare per la mia parte alla disputa quelli che mi toccherà in sorte di avere a contraddittori. Né dico a caso, ma deliberatamente: designa l’argomento; perché io non ho punto in animo, né in fatti potrei, di esporre qui, nel giro di queste poche pagine, i lineamenti generali della morale scientifica e i caratteri essenziali, la origine, lo sviluppo e le diverse forme della religione – a far la qual cosa un ben grosso volume sarebbe appena appena sufficiente – ma mi propongo soltanto di tratteggiare, il più brevemente che io mi possa, i diversi aspetti sotto i quali si può discorrere dei rapporti fra la morale e la religione; perché sia messo in chiaro, così come si può in termini generali, quale sia, a parer mio, l’indole propria dell’una e dell’altra, e sia fatta ragione alle opinioni, per avventura diverse o opposte, che siano, dei contraddittori miei, di entrare, ove accada, nella disputa. Di primo tratto metto qui un chiarimento; il quale, spero, non vorrà sembrare supervacaneo, ma sì bene un modo come tenere la disputa nei limiti propri dei concetti su i quali è mestieri si aggiri. A me pare, dunque: che a serbare l’animo spoglio da qualsiasi preoccupazione, da quelle massimamente, le quali traggono la origine loro dal collidere delle opinioni in mezzo alla vita giornaliera; ad ovviare, cioè, che la molteplicità e la complicazione dei problemi schiettamente pratici non renda difficile, anzi impossibile, il risalire fino alla peculiare ed intima natura dei concetti, sia mestieri qui fare astrazione, così da quelle quistioni meramente politiche, le quali hanno ad occasione la ricerca dei rapporti fra la chiesa e lo stato, come da ogni altra sorta di considerazione di fatto intorno alle speciali forme concrete della vita sociale. Perché, dovunque c’è luogo ad una ricerca, la quale implichi da un canto la nozione storica di quelle forme politiche o sociali intorno alle quali la disputa per lo appunto è nata, e da un altro canto una più o meno gran parte di criteri meramente pratici, circa la convenienza, la opportunità e via dicendo; quivi, o s’è ancora molto lontani dai concetti che sono argomento proprio della scienza, o se di cotesti concetti ve n’è mai stato alcuno, esso s’è poi via via andato sperdendo, o, almeno, così variamente colorando in mezzo alle lotte della vita, da non ravvisarsi in alcuna maniera più. In fatti chi ha a condurre una società, o ad accomodarne una ad un’altra, o a provvedere all’accordo degli elementi che

ne compongono una o due, ha da porre mente a molte altre cose, le quali non sono a dirittura incluse, né prima né poi, negli astratti concetti di dritto, di morale, di religione; perché è forza che egli riferisca i concetti stessi alla concreta realtà di fatto, così come le circostanze naturalmente esigono: se pure non vuole cadere nel grossolano errore di supporre, che la molteplicità, la svariatezza e la complicazione della vita non sieno che il pallido riflesso delle idee che egli s’è andato via via formando nel capo, non rare volte a controsenso della immediata esperienza. Né c’è chi possa dubitare, che ove si discorra dello stato e della chiesa, dell’associazione, cioè, religiosa e politica, e si ponga mente alle quistioni che nascono in seno all’una o all’altra, col fine di determinarne i rapporti, ossia il modo d’essere di ciascuna quanto a sé ed il modo di comportarsi di ciascuna inverso l’altra; quivi si ha fra mani dei problemi di fatto, i quali non si può dire si decidano sempre ad un modo, perché il modo della decisione è per ogni volta indicato dalle necessità reali in cui si trovi chi gli abbia a decidere. Di certo, la luce dei concetti generali, se ce n’ha dei chiari, precisi e definiti a dovere, può influire per non piccola parte su la natura della decisione; ed è a desiderare appunto che ci sieno, perché si cansi una pratica cieca, la quale riponga il supremo criterio suo nella semplice convenienza. Ma come la convenienza, la opportunità e simili, sono essenziali elementi di ogni legislatura e di ogni gestione politica, perché nell’una e nell’altra è necessario che la molteplicità delle condizioni di fatto sia riconosciuta così come essa è, e come ti si para innanzi; è grave il pericolo, che chi ponga mente ai criteri pratici della legislatura o della gestione politica soltanto, e cerchi poi in quella parte sola della esperienza il fondamento dei concetti generali, non riesca a fare della convenienza, dell’adattamento e simili dei criteri assoluti, per modellarvi su a sua posta i concetti. Ora io qui non discorro di ciò: e mi sarebbe anzi assai grato, che altri non mi forzasse, per voglia di menarmi sopra un terreno a dirittura pratico, ad uscire dai limiti che io stesso mi assegno; i quali limiti, a dirli per tempo, son questi: che io vado in cerca dei caratteri propri e distintivi che differenziano la morale dalla religione; perché sia agevole intendere fino a che punto l’una possa stare separata dall’altra, o l’una possa e debba, o sia desiderabile che debba trovare complemento nell’altra. Il che io faccio con intento scientifico, non punto per fissare un qualche criterio pratico circa il modo di soluzione di questa o di quella contestazione politica o legislativa. Di certo io non voglio con ciò dire che la pratica non debba in alcuna maniera trar vantaggio dalle dichiarazioni, che possono essere i risultamenti naturali di una indagine scientifica condotta bene; ma avuto riguardo al fine che mi propongo nello scrivere, e a quello che i contraddittori miei avranno a proporsi nell’obbiettare, mi pare che la esclusione

che faccio deva rispondere al caso perfettamente. La quistione non è nuova; per converso, anzi, è tanto antica, per quanto è antica la collisione della tradizione religiosa e statuale, con la libera investigazione scientifica dei fondamenti ultimi dell’etica. Io non intendo però di esporla storicamente, e mi asterrò dall’addurre qualsiasi autorità, anzi per fino dal citare; parendomi conveniente lasciare alla perizia dei miei contraddittori, che essi ravvisino, come non potrà mancare che facciano a segno, a quale filosofo o scrittore, a quale concezione morale o religiosa io alluda più particolarmente in un luogo o in un altro.

II Ora io faccio per un momento la ipotesi, che la quistione, non che chiarita o risoluta, non sia stata per anche posta; e che io ne abbia quindi a rintracciare gli elementi primi, e per la prima volta. Rifacendomi così da basso, mi sarà più agevole il causare l’intrusione di tutti quei concetti, i quali, non essendo al caso, sarebbero solo atti a snaturare l’indole peculiare di quelli che devono qui chiarire tutto il resto. 1. Se in fatti si comincia di là dove è necessario che la quistione trovi il suo naturale addentellato, cioè a dire, dalla comune esperienza della vita, è chiaro che in essa ti si para innanzi questa triplice relazione fra morale e religione: a. Che in alcuni uomini, cioè, religione e morale fanno così perfettamente una e medesima cosa, che per quanto tu aguzzi la riflessione per penetrare nella intima struttura dell’animo di ciascuno di essi, non sai ravvisare quale delle due sia fulcro all’altra, o se ambedue si tengano così strette insieme, che tu non possa togliere qualcosa ad una, che all’altra tu non la tolga in pari tempo: b. Che in altri invece la distinzione ha cominciato a precisarsi in guisa, che tu possa per filo e per segno designare i confini dell’una e dell’altra, e dire fin dove in quegli uomini per lo appunto la coscienza morale stia da sé, e fin dove la coscienza religiosa; sebbene essi medesimi non siano in grado di risalire più in alto nella indagine delle ragioni della distinzione, e spesso neghino (teoreticamente) quella distinzione la quale è pur di fatti evidente nell’animo loro: c. Che in fine in altri la distinzione stessa è divenuta oggetto di esame; sia che quegli uomini si trovino nella necessità pratica di dovere o volere, e pur non potere accordare la loro morale convinzione con la religione positiva che si trovano innanzi; sia che essi si propongano di rintracciare e di assegnare il principio della differenza, e intendano questa pei diversi gradi della differenza o distinzione semplice, o della opposizione, o contrarietà, o contraddizione che sia. In cima a tutto questo può esserci l’esigenza dell’accordo razionale; la quale difficilmente troverai immediatamente chiarita e naturalmente capace di soddisfazione in nessuna di quelle tre classi di uomini, se non assumi di giunta come sussidiaria la disamina scientifica, la quale altri invano cercherà supplire con qualsiasi naturale istinto o felice tatto. 2. Ora, se pigli ad esaminare partitamente ciascuna delle combinazioni, la

prima ravviserai frequentissima nelle forme elementari, più rara, o per lo meno assai variamente graduata, nelle forme più elevate e più complicate della società. Perché allo sviluppo di essa corrisponde necessariamente il prodursi nella vita interiore di una molteplice motivazione, la quale dissocia, per via della differenziazione, tutto quello che originariamente era o appariva immediatamente implicito o grossolanamente complicato: al che si aggiunge, che dal moltiplicarsi dei rapporti dell’attività sociale è inevitabile venga fuori una tale e tanta varietà di elementi per la riflessione, che non può non nascerne una serie di collisioni. Ma fatta astrazione dalla graduazione, la quale può poco per volta riuscire alla seconda forma, che è quella della distinzione; se si pon mente a quello stato della vita interna, in cui religione e morale si equilibrano in guisa, che non c’è luogo a differenza di sorta, cosicché tanto c’è nell’una di doveroso quanto c’è nell’altra di legislativo, e il soggetto singolo fa rispetto a sé questa supposizione: che la regola, cioè, del suo volere, circa il fare o il non fare, in un modo o in un altro, debba esattamente adeguare la somma dei suoi sentimenti e delle sue opinioni circa a quello che merita incondizionata fiducia, riverenza e adorazione; parrà inevitabile che cotesta morale, la quale è morale e religione a un tempo, deva onninamente assumere, e tutta, il carattere di legge. Chi è a quel punto riconduce tutti i suoi concetti di lode o di biasimo, circa il volere o il non volere, tutte le sue esigenze, circa il fare o il non fare, alla semplice supposizione della conformità ad una legge data in un ordine immediatamente ammesso come ottimo; sia che l’immagine di cotesto ordine s’incentri, più o meno esplicitamente, nel concetto di una volontà singola, autrice dell’ordine stesso; sia che la rappresentazione oscilli ancora incerta fra la molteplicità e la unità del divino. Quale grado di perfezionamento (estetico?) sia capace di raggiungere una così fatta intuizione della vita, la quale equilibra in un solo ordine di concetti le esigenze morali circa il volere o il non volere, con la nozione di un ordinamento dell’universo che è predisposizione al trionfo del volere, almeno presuntivamente, buono, non è a dire in generale; e chi voglia porre mente alle differenze, le quali sono molte e assai spiccate, può provarsi a mettere a raffronto l’ebraismo, il quale si chiude in una legislatura statuale sino a riuscire alle formalistiche astrazioni del farisaismo, con la intuizione socratica, che aguzza l’intelletto alla ricerca dei concetti etici sotto la motivazione di una legislatura universale predeterminante al bene; o può paragonare l’arbitrato della grazia divina, che dignifica, nelle migliori forme del protestantismo, l’intimità della fede, con la grossolanità dell’opus operatum del cattolicismo in via di degenerazione. In tutti i casi però è chiaro questo: che quante volte cotesto equilibrio non sia liberamente posto dalla riflessione, ma si accetti invece come dato

immediatamente dal costume, dalla pratica, dalla tradizione, si è sempre a pericolo che la morale si riduca a mera legalità; e che essa, in conseguenza, non assuma, né possa assumer mai il carattere della intimità e del disinteresse. Perché, come non tutti gli uomini possono agguagliare in profondità di animo quelli che sono stati istitutori o rinnovatori delle religioni; nei quali t’è dato di scorgere chiaramente, che tanto il concetto di legge si proietta e si obbiettiva nella fede religiosa, per quanto è vivo ed intenso l’interiore suggerimento morale: dovunque la religione si trovi a tal punto, che essa si trasmetta e si accolga come un tutto già bello e formato di dommi e di precetti, di costumanze e di riti, può accadere, anzi è inevitabile accada, che la coscienza individuale l’accetti per intero a discapito della morale stessa, e che la efficienza di questa si estenui nella pura formalità di quella. Oltre a ciò, se la religione abbraccia, come deve, la vita in complesso, non può non riuscire a motivare una intuizione generale del mondo, e non può non apparire qual termine al quale approdi, come a finale soddisfazione, l’aspirazione alla felicità: cosicché, se la morale fa ancora tutta una cosa con essa, è inevitabile che degeneri in pretto eudemonismo; e che il bene, quindi, si chiami anche sommo, non si raccomandi che come l’appetibile per eccellenza: il che torna ad essere, né più né meno, che una identificazione immediata, o meglio confusione, del bene con la felicità. Le esigenze morali (estetiche?) circa il fare o il non fare, complicate con la rappresentazione di una volontà da cui si presume dipendano come altrettante manifestazioni legislative, riducono la coscienza dell’individuo a puro recipiente: e da ciò inevitabilmente procede, che di mezzo al giudizio etico ed alla volizione singola si cacci la casistica della riflessione, la ricerca circa le massime prudenziali, e la indagine, starei per dire giuridica, del più e del meno quantitativo della bontà dell’opera. Arrogi che ove nella esperienza della vita si faccia palese, come non può non farsi, l’incongruenza che c’è fra il corso naturale delle cose e l’aspirazione alla felicità, la quale è ingenita nell’uomo, e a questa tocchi molta parte di disillusione nel confronto con quello; la convinzione morale è messa a mal partito se fonda la sua legittimità sulla certezza di un ordinamento, in cui la fede da un canto e la brama del benessere da un altro canto si sieno accomodate a raffigurarsi in idea una predisposizione universale al trionfo del buono, così immediatamente e rozzamente identificato col benessere. Di qui procedono ancora due difetti di cotesta posizione, e sono: che mentre la vita si complica, si specifica, si diversifica, l’opposto del buono e del bene si trasforma in reale forza del male, la quale forza l’immaginazione poco per volta è inevitabile si raffiguri come antitetico cosciente e volente: mentre, per un altro verso, il naturale va pigliando via via il carattere del concessivo, e a misura che questo si allarga, si fa tanti buchi nella legge, che essa ne rimane infine esausta.

Ora la scienza non può arrestarsi in presenza di cotesta elementare confusione della morale con una religione data; perché essa può, anzi deve, è naturale che debba innanzi tutto domandare: se nel caso speciale di una stirpe o di un popolo, o di un individuo, che raccolga e comprenda in un solo concetto la morale e la religione, sia davvero sorto quel bisogno della intimità che è il segno distintivo della maturità dell’una e dell’altra; o se invece lo statuale ed il formale della religione non ottenebri, non opprima, non esaurisca il germe della morale stessa. Ove la quistione sia posta per la prima volta, nascono naturalmente delle domande, come quelle che seguono: È lecito coonestare con la religione quello che è moralmente riprovevole? e quando sia nata circa il lodevole ed il riprovevole una notizia più chiara e più intima di quella che la religione (positiva) dà immediatamente, da qual parte sta la ragione? e se non è a dubitare che la ragione non possa stare che da un lato solo, non è a dire che quella religione è imperfetta, la quale può, anzi deve, patire la correzione del giudizio morale? Se la moralità è nettamente posta in concetti chiari e definiti, che esprimano esigenze rispetto al doversi volere o al non doversi volere; non sarà chiaro che la semplice intimità della convinzione e la energica, conseguente ed ordinata uniformità della volontà a quella, costituiscano la moralità effettiva; e che la religione che a lei si complica, se ha, come ha di fatti, una peculiare origine ed una natura propria, sarà bene coefficiente ma non principio della morale stessa? Sicché è di una imperiosa necessità il raccogliere e fissare le due forme della vita interiore in concetti tanto chiari, che così l’una come l’altra v’appaia nei suoi caratteri distintivi; onde sia lecito scorgere in una coscienza singola, individuale o nazionale che siasi, in che consista il nocciolo proprio dei concetti morali, e in che quello dei concetti religiosi; e in quale misura gli uni sieno, o possano, o devano essere di stimolo agli altri, o di complemento. Di certo, se alcuno si trovi innanzi ad una coscienza già fatta in tal modo, che in essa morale e religione si compenetrino perfettamente nel concetto di una legislazione tutta incentrata in un determinato intuito della vita, ed abbia di giunta a condurre praticamente cotesta coscienza; è giusta la esigenza che egli ne rispetti le naturali fattezze, e non si arbitri a supporre ipoteticamente nella coscienza che ha a manodurre una distinzione, che sarà bene sua, ma non è punto di quella. Perché può accadere che il male che fa sia maggiore del bene che presume di poter fare; ove si lasci vincere dalla illusione, di ritenere per risolvibile quello che di fatti è così fuso, da non mostrare ancora indizio alcuno di possibile distinzione. Se invece nel caso speciale è evidente che il giudizio morale è arrivato a tale maturità, da resistere alla prova della separazione, allora solo è possibile che la distinzione si faccia senza pericolo, e si tenti poscia di

riuscire ad un tale concetto della morale, che sia per sé stesso correttivo della religione. Perché in questo sta davvero la imperfezione di quella forma della coscienza, nella quale morale e religione si confondono ancora in uno, che non c’è mai positiva guarentigia che questa non discenda giù giù dal puro formalismo fino alla pecoraggine, e che quella, chiusa che sia nei deboli confini della conformità alla legge, non degeneri in pura legalità, e poi, spoglia com’è già di ogni intimità, non s’acconci alla volgare casistica, che associa, per via del lecito e del permissivo, al puramente legale, il naturale, l’immediato, l’egoistico, l’interessato. Soprattutto poi, come cotesta immediata indistinzione di morale e di religione, non può avere fondamento che in un sentimento etico ancora immaturo, cioè a dire imperfetto; tutte le volte che alcuno si metta a formularla come che sia, è inevitabile riesca ad un circolo vizioso: perché, mentre da un canto si proverà a fare regola del volere umano qualcosa di superiore ad esso, sarà da un altro canto costretto a fissare il concetto di cotesta superiorità nella nozione legale di una volontà preordinatrice dell’universo; dovrà cioè fare regola della volontà un’altra volontà, non l’ideale stesso del bene. Sanno tutti in che ginepraio di quistioni siasi impigliata la teologia cristiana, quando ha tentato – e davvero per la sua posizione stessa non poteva non tentare – di mettere in armonia i due concetti, della assolutezza delle norme morali, e della infinità dell’arbitrio divino. Sicché, per conchiudere, cotesta prima forma è legittima solo quando è ingenua, illegittima non appena la riflessione cominci a risvegliarsi, e ad esigere di tenere il posto suo accanto alla fede; quando cioè cominci a farsi evidente, che non è più possibile che in un solo atto immediato la coscienza apprenda l’incondizionato della moralità, e lo elevi in pari tempo a preordinazione cosmica nell’ideale religioso. Anzi, se la coscienza comincia ad entrare in dubbio su la validità di questo, la morale stessa, come si vede accadere in tutti i gravi momenti di rivoluzione ideale, pericola col vacillare del fulcro cui teneasi attaccata. 3. Se in vece si assume come punto di partenza della ricerca quella maniera di relazione, la quale è evidente in quelli i quali distinguono la morale dalla religione, senza potere essi medesimi assegnare la ragione della differenza; è chiaro che il semplice fatto della distinzione contenga una indicazione assai significativa per la scienza, sebbene la distinzione stessa, appunto perché immediatamente data, non sia scientificamente accettabile. Il fatto è questo: che son molti quelli nei quali le presunzioni morali circa il volere o il non volere, circa il fare o il non fare, sono arrivate a tale precisione,

che si prestano a farsi racchiudere e fissare nella forma di una definizione o di un giudizio, di una massima o di una sentenza, indipendentemente da ogni altra sorta di considerazione, quale espressione del valore etico della coscienza. La riflessione del comune intendimento può poggiarsi su cotesto elemento, sceverarlo poco per volta dal complesso della vita interiore e incarnarlo poi, come a dire, nell’immagine di una vita perfetta; nella quale predomini, secondo che accada, o il carattere della legalità, o quello del conveniente, o quello del decoroso, o quello del dovere e della virtù. La saggezza pratica dei giureconsulti e dei moralisti di tutti i tempi, di quelli intendo dire che non abbiano con la riflessione loro raggiunto il livello del sapere filosofico, riposa appunto sul supposto della separabilità dei giudizi etici da ogni altra sfera della vita interiore, e nel sottinteso che la evidenza e la validità loro non dipenda dalla evidenza e dalla validità di ogni altra riflessione o speculazione sul problema generale della vita. Il quale problema dal canto suo può essere inteso in una maniera o in un’altra, più largamente o più angustamente, più o meno intimamente, senza che la evidenza e la validità dei giudizi etici ne scapiti per alcun rispetto. Se non che, è tutt’altra cosa che nello esame di cotesta relazione si guardi solo all’astratta separabilità dei giudizi etici, ed alla ideale riduzione di essi nella immagine complessiva di una vita moralmente lodevole, o che in vece si ponga a un tempo mente alla condizione complessiva della vita politica o religiosa di quegl’individui nei quali cotesti giudizi etici si prestano a lasciarsi scindere, per via della riflessione, dal terreno in cui sono nati e si sono prodotti. A chi guardi pel sottile deve parer chiaro, che cotesta separazione sarà dubbia fino a che non si riesca a darle un fondamento scientifico certo e ben definito; perché, se la riflessione può distinguere quanto a sé, ossia logicamente, l’una cosa dall’altra, non è a dire per questo, e nemmeno a supporre, che essa possa sempre afferrare nettamente il criterio della distinzione. Perché qui possono accadere molte cose; p. es.: O che colui il quale distingue la morale dalla religione faccia di questa il reale sottinteso di quella; in quanto egli attinga il criterio del principio e della conseguenza dall’apparente prima e dopo della empirica formazione della coscienza degl’individui: O che presenti la distinzione in una forma ipotetica, che ha poi il suo complemento in un’altra ipotesi, la quale dignifichi di maggiore dignità, nell’ordine superiore della religione, quello che è già tenuto degno di dignità propria nell’ordine reale della vita pratica (alla quale poi, in ragione dell’antitesi, si dà il nome di terrena, di contingente, e così via). Il che può dar luogo, come di fatti ha dato, al supposto di una giustizia umana che ha di rincontro una giustizia umanamente concepita, ma in sé sovrumana, e a

tutte le caricature a foggia neoplatonica di un soprabbene, di una sopravvirtù, di un sopraddovere; per via delle quali esagerazioni si riesce infine a perdere di vista il concetto proprio della morale stessa, la quale, di rincontro all’incondizionato suo, non ammette né può ammettere un più o un meno di perfezione. Sicché, dunque, quando la separazione è data semplicemente, senza esser posta dalla scienza, non c’è alcuna guarentigia che sia data a dovere. Perché, se alcuno si ponga a distinguere quello che è morale semplicemente da quello che è semplicemente religione, in questa o in quella coscienza individuale o nazionale; e si provi a pigliare come criterio della distinzione i confini empiricamente dati nella costituzione propria di quella coscienza, potrà di leggieri cadere nell’incerto, e considerare poi come evanescente la distinzione stessa. Nessuno in fatti potrebbe dire in che misura in un dato individuo, poniamo ad esempio morale, per quello almeno che pare dalle opere sue, i motivi delle azioni che sembrano lodevoli siano affatto morali, o morali e religiosi a un tempo; anche quando a guardarne la coscienza alla superficie si possa presumere legittimo un giudizio formulato così: quell’uomo sarebbe tanto morale quanto è ora, anche nel caso non fosse religioso. La peculiare struttura di una coscienza singola è troppo complicata cosa, perché si presti agevolmente a cotesta anatomia; e chi si prova a farla non deve, non può mai tenersi sicuro di averla fatta davvero bene. E dove la distinzione, così della morale dalla religione, come della morale stessa dai motivi giuridici e sociali, e dai riguardi pratici dell’utile, del piacevole, del decoroso, del conveniente, è data dalla riflessione tanto su gli atti proprii quanto su gli atti altrui; c’è certo in ciò il primo avviamento alla spiegazione scientifica della reale distinzione fra morale e religione, ed alla circoscrizione esatta della moralità stessa rispetto agli altri criterii pratici, ma non l’elemento scientifico della distinzione stessa. Di fatti, quando in un certo periodo della vita, per fortunate condizioni di educazione, o per qualsiasi altra cagione, alcuni individui o molti riescono ad acquistare una nozione chiara del categorico, dell’impreteribile, dell’indiscutibile di quelle massime morali che in essi si erano come si sia sviluppate lentamente per lo innanzi; in questi individui, i quali, dal semplice confronto fra la rappresentazione di un volere determinato con la regola, o norma, o ideale che siasi di quello, desumono ogni consiglio circa il fare o il non fare, il dover volere o il non dover volere, è data di certo quella evidenza della moralità, che ammette l’assoluta distinzione di essa da ogni ideale o supposto religioso. La coscienza morale, come si dice ordinariamente, o, a rigor di termini, la somma delle interne presunzioni circa il volere o il non volere, in quanto dipendenti da un giudizio inappellabile di approvazione o di riprovazione, è già formata sino a tale un

punto, da stare come forza rispetto al complesso delle interiori movenze, le quali variamente specificate si addimandano desideri, volizioni, voleri, propositi, piani od altrimenti: e la evidenza psicologica di essa può essere così grande, che paia agli altri, ed al soggetto medesimo nel cui ambiente cade, una potenza irresistibile. Ma come è nata cotesta potenza irresistibile? Quale è il suo principium essendi, se il suo principium cognoscendi è chiaro? Non rimanda cotesta evidenza stessa della coscienza morale ad una origine più riposta; e chi si proponga d’intenderla non è implicitamente rinviato ad un problema più generale, quale è quello, come ordinariamente si dice, della metafisica; ossia dell’ordine e del fine generale delle cose, in quanto pensate nella loro assoluta connessione e finalità? Se una quistione di tal fatta sia bene o mal posta, la coscienza comune non può deciderlo: ed è mestieri appunto che la scienza faccia convergere intorno a questo punto tutte quelle diverse serie di concetti, le quali possono valere a metterla in chiaro, perché se ne venga approssimativamente a capo. Da cotesta riflessione comune, dunque, la quale distingue morale e religione pel fatto solo, che i giudizi morali in questi o in quegli individui appariscono chiari, distinti e sceverati dal rimanente della vita interiore, non si riesce immediatamente ad una teoria scientifica, ma solo alla esigenza di essa. Perché, ove il fatto c’è, poniamo in un individuo o in più individui di una determinata forma religiosa, che la distinzione sia divenuta chiara; in fondo la distinzione non cade che sul confronto fra una religione data ed una morale data, non sul concetto generale dell’una e dell’altra forma dello spirito. Si sa come questa quistione sia più volte nata nel seno di una confessione religiosa. La confessione importa che in correlazione di quel particolare intuito teologico o antropologico che sta in fondo ad essa, ci sia una speciale deduzione del complesso delle esigenze le quali costituiscono rispetto al volere singolo l’ha da essere morale. Ora il positivismo religioso, se non vuole essere la semplice ripetizione della naturale immediatezza morale e pratica, si fonda inevitabilmente, o sul supposto diretto della rivelazione, o su le derivazioni mediate di una ipotetica rivelazione. La fonte donde la verità religiosa si deriva sta, dunque, sempre più in su di quello che si deriva; ossia più in su della coscienza umana: questo è almeno il supposto. Rispetto dunque alla morale nasce questa quistione: è essa così fatta che tutti si debba derivarla da quell’unica fonte religiosa della fede, sicché solo quegli che adegui le esigenze di questa s’abbia a dire morale; o se invece il supposto è questo: che fuori della rivelazione e del positivo religioso la natura umana basti da sé ad elevarsi alla morale stessa, indipendentemente dai dati obbiettivi della rivelazione e dai dati subbiettivi della fede religiosa, come si

metterà d’accordo cotesta possibilità con la presunta supposizione dell’al di là, che la religione consacra nella trascendenza del miracolo e della rivelazione? Tutti sanno come queste due tendenze, tenuta l’una per più razionale, per più ortodossa l’altra, si siano lungamente combattute in seno alla teologia cristiana; finché nel secolo scorso non si riuscì ad assottigliare di tanto il concetto del soprannaturale, che quello del naturale ne divenne vastissimo. E qui la quistione è ricominciata da capo: perché la ricerca scientifica intorno a quello che costituisce il carattere distintivo della moralità, rispetto agli altri criteri pratici che spesso con essa si confondono, rinviando alla determinazione della idealità umana, ed in conseguenza alla investigazione dei diversi modi come la idealità stessa si specifica e si esprime, rinvia al tempo medesimo alla designazione dei rapporti che intercedono fra la morale e la religione; così sotto il riguardo pratico della vita, come sotto il riguardo della subordinazione o coordinazione scientifica delle due forme dell’attività interiore. L’antitesi qui è data: ed in questo punto si trova quella terza classe di uomini, ai quali ho accennato più su; quelli, cioè, i quali, per essere divenuta in loro chiara la distinzione fra morale e religione, cercano, praticamente o teoreticamente che siasi, i rapporti delle due forme della vita interiore. Se in cima a tutto questo sta il bisogno dell’accordo, è chiaro che accordo qui vuol dire una esigenza o teoretica o pratica, che non è né meramente morale né meramente religiosa, ma che può essere l’una e l’altra cosa a un tempo, e può anche non essere né l’una né l’altra. 4. Per chi dunque stia nel punto della distinzione, di quella cioè che non è semplicemente data, ma è posta dalla libera riflessione, i gradi e le forme di cotesta maniera di relazione possono esser molti e di vario significato. Il confronto fra una morale data ed una religione data, o fra una morale data e la semplice esigenza della religione, o fra la esigenza (pratica o teoretica) della morale e la religione positivamente data, può menare a concepire diversamente i rapporti fra l’una e l’altra forma dello spirito, e indurre quindi ad un vario concetto della subordinazione o coordinazione loro. Il caso frequente al tempo presente, il quale potrebbe anche dirsi, senza tema di errare, il più grossolano, è questo: che la religione s’intenda nel senso più esterno di conformità legale, canonica, gerarchica ad un dato complesso di opinioni, ad una determinata intuizione già circoscritta nei limiti di una legislazione statuale; e che chi la guardi in cotesta esteriorità e la confronti coi suggerimenti intimi della coscienza etica, la tenga per inferiore alla morale, e spesso per pregiudizievole ad essa. In fatti può accadere, e noi ne abbiamo le prove sotto gli occhi, che la religione siasi pietrificata in guisa nel rito, nella

liturgia, nella pratica esterna, e siasi tanto accasciata sotto la prepotenza dell’autorità chiesastica, che la moralità individuale paia di rincontro ad essa come l’emanciparsi della libera soggettività cosciente da uno stato affatto naturale ed immediato della vita: cosicché, spesso, di fronte allo statuale della religione la coscienza morale si pone, nell’atto che si ribella a quella, come espressione più adeguata del rigorismo etico. Si sa bene dalla esperienza cotidiana della vita, massime nei paesi dell’Europa del mezzogiorno, quanto sia frequente il caso di una morale individuale (alcuni la dicono soggettiva, il che è erroneo, perché quello che si mette a raffronto di essa, la religione positiva cioè, non è oggettiva punto), la quale sia l’ultimo rifugio delle anime elette, in seno ad una comunità religiosa nella quale la esteriorità del precetto, e la legale conformità a questo estenuano ogni intimità del volere buono. Se non che, ove in considerazione di cotesta condizione di fatto si riesca al concetto della mera opposizione, e poi dopo dell’assoluta contraddizione fra morale e religione, si cade facilmente nell’errore di fare di quella forma religiosa la quale è data immediatamente nella esperienza una cosa sola col bisogno religioso in generale, e coi motivi naturali della religione stessa. E qui sta il difetto radicale di ogni razionalismo che neghi l’incondizionato, l’assoluto, l’impreteribile del sentimento religioso, per via della critica della religione positiva, in una delle sue forme storiche: difetto dal quale vanno immuni quei soli sistemi filosofici, i quali meritano davvero il nome di speculativi. Perché di fatti una critica della religione, la quale cada semplicemente sopra di una forma storica di essa, non tocca mai fin l’ultimo punto della religione in sé: e la eliminazione del sentimento religioso in ragione della opposizione fra una forma data della religione stessa, e le esigenze di una morale intima, riesce al paradosso di spogliare la vita dello spirito di ogni più alta e più riposta attività di quella che non concerna direttamente la subordinazione del volere alle regole o agli ideali etici; i quali finiscono poi poco per volta, appunto perché violentemente scissi dal complesso della idealità umana, per essere subordinati essi stessi alla comune concezione eudemonistica. In verità, se cotesta opposizione ha da essere intesa nel suo vero significato, non si può assumerla che come prova indiziale, o meglio come esigenza di quello che abbia ad essere una religione, la quale non subordini la libertà morale e la intimità personale alla esteriorità della legge o del precetto, e non ottenebri la evidenza del giudizio etico nelle supposizioni trascendenti del miracolo e della rivelazione. Sicché, ove la morale sia data come elemento determinante della coscienza, e la religione positiva si trovi in dissenso con essa, o a controsenso di essa, può nascere, è naturale anzi nasca, la esigenza di una religione migliore; e tanto

migliore per quanto la morale che si suppone data si avvicini di più all’ideale del puro giudizio incondizionato, e del puro volere disinteressato. Qui si vede assai più chiaramente che la religione e la morale sono indipendenti l’una dall’altra; perché l’una patisce il giudizio dell’altra, senza che derivi proprio dall’altra; il che sarà dichiarato meglio a suo luogo. E per converso può accadere che la esigenza della morale scaturisca appunto da una elevata concezione religiosa; ossia da un sentimento ideale del fine generale del mondo, il quale s’incentri in un intuito della vita, poggiato affatto sul disegno di una finalità ab intrinseco, che sia impellenza alla purificazione della coscienza. Qui non si tratta punto della immediata immedesimazione della religione con la morale, in quanto dipendenti affatto dal concetto estrinseco della legislatura divina (ebraismo-cattolicismo); ma di una assidua impellenza religiosa ad un volere purificato dagli interessi egoistici, e dai motivi immediati dell’utile e del piacevole: come accade tutte le volte che la concezione del divino sia di tal fatta, che assorba nel positivo principio dell’amore l’estrinseco della legge, e faccia di questa un semplice momento rispetto alla interna finalità di quello (cristianesimo - concetto speculativo dell’amore). Ora, se si trattasse qui in questo luogo, di classificare per filo e per segno le diverse combinazioni, cui può dar luogo il supposto di una coscienza in cui la distinzione fra morale e religione corra per gradi fra i termini della differenza semplice, della contrarietà, della opposizione e della contraddizione, è chiaro che se ne arriverebbe a trovare moltissime, secondo il relativo grado d’intimità religiosa o morale, e secondo che la decadenza di una delle due forme della vita interiore aggiunga stimolo all’altra, in questo o in quel modo, perché si migliori. Cosicché di fronte ad una religione ridotta agli estremi dell’estrinseco e dello statuale, ci può essere un rigorismo morale praticamente e teoreticamente ateo; o una intenzionalità morale tanto acquiescente in sé stessa, che escluda da sé ogni ingerenza del sentimento religioso; o una intenzionalità morale chiara quanto a sé, ma che cerchi in una religione più intima il combaciamento fra le esigenze etiche, e l’ordinamento dell’universo; o in fine una idealità religiosa tanto intensa ed efficace, che agisca su la concezione morale della vita, non in quanto la subordini alle esigenze di una legislatura estrinseca, ma in quanto dignifichi la bontà del giudizio e dell’opera in una intuizione etico-teleologica del mondo.

III La scienza ha però il debito di pigliare più ab alto la quistione: essa deve, cioè, elevare cotesti punti di vista empirici, o meglio ricondurli a quelli più chiari e più determinati, i quali hanno il fondamento loro nel contenuto, vale a dire nella qualità dei concetti stessi, e nei rapporti funzionali di questi nella vita dello spirito. La molteplicità empirica del vario rapporto fra la morale e la religione, è già per sé un immediato incentivo alla ricerca della natura peculiare dell’una e dell’altra. E poi nella sfera pratica della vita è quasi inevitabile l’imbattersi in cotesta quistione; per la ragione appunto, che le forme principali della relazione, e la varia specificazione loro, sono di continuo impulso a considerare, sotto quale punto di vista s’abbia a trattare la educazione o la condotta dello stato, la legislazione positiva o la coltura generale. Però, non c’è verso di cavare dalla osservazione empirica e dalle esigenze pratiche un ordine ben definito di concetti; se prima la quistione non si ponga in termini generali, e non si faccia poi luogo ad una più elevata specie d’indagini, circa le condizioni psicologiche, le quali differenziano la morale dalla religione, e circa i fini generali della educazione e dello stato, in rapporto allo sviluppo etico e religioso della coscienza individuale. Ora la indagine, per chi volesse condurla a segno – ché qui noi l’accenniamo tanto per poter dare la spinta alla disputa – avrebbe innanzi tutto a pigliar le mosse da una ricerca storica e critica, intorno ai motivi della identificazione della morale e del dritto, con l’ideale religioso cristiano, in tutta la teologia medioevale, e nella riproduzione di essa nella restaurata scolastica del protestantismo, durante i secoli decimosesto e decimosettimo. Per via di cotesta ricerca storico-critica si farebbe chiaro: che il supposto mitico-religioso della naturale impotenza dell’uomo al bene, in ragione del peccato, necessitava un intuito antropologico e teologico, nel quale tanta parte si faceva alla ricettività morale di lui, per quanta gliene venisse accordata nell’ordine soprannaturale della rivelazione e della grazia. Se non che, poco per volta, il concetto di una giustizia naturale, o di una naturale coscienza del bene, andò guadagnando terreno, così nel campo pratico, come in quello della concezione scientifica; finché si è in fine giunti alla persuasione: che tutto il sistema delle presunzioni etiche abbia il suo proprio fondamento nella natura umana, e sia circoscrivibile in limiti affatto indipendenti dalla religione non solo, ma da ogni altra concezione generale dell’universo. Cotesta storia critica, la quale in ipotesi io

qui immagino non fatta, ha da provare, come un’etica la quale si fondi sul supposto di un qualcosaltro (religione o intuizione filosofica del mondo) che dia direttamente valore alle norme su le quali essa si fonda, non può arrivare mai alla concezione schietta della moralità; non può, cioè, farsi superiore alla ordinaria concezione pratica, la quale fa della bontà tutt’una cosa con la semplice conformità al fine. Perché sotto qualunque punto di vista si tenti di subordinare l’etica ad una data concezione religiosa o filosofica, si fa questa supposizione: che per elevare il volere umano dalla sfera immediata del semplice appetire, per farne, cioè dire, volere buono, sia necessario presegnargli in un determinato ordine di oggetti, o in un oggetto, il fine in cui trovi acquiescenza, il quale fine, per sottinteso, si presume sia la somma di quello che è moralmente degno di essere voluto. Cosicché, ove davvero cotesto fine concentri in sé l’insieme tutto del moralmente volibile, ci cade nella impotenza di una teoria scientifica della morale; perché questa, se ci ha da essere, non può non cominciare appunto dalla disamina dei criteri della moralità stessa. La quale non può, non deve consistere né in uno né in più oggetti determinati; ma può, e deve consistere solo nell’animo col quale si vuole; nella bontà, cioè, del volere. Chi si volesse provare ad approfondire la quistione, avrebbe a considerarla sotto i diversi aspetti, che io qui enumero: 1. Innanzi tutto, è egli possibile, che dal fatto immediato della coscienza morale si risalga alla nozione scientifica di quello che le impronta validità, inappellabilità e carattere categorico? E dove si tenti cotesta ricerca, è necessario che la scienza invochi l’intervento della religione, per improntare nelle norme che essa statuisce il carattere appunto che devono avere di norme? Qui, come si vede, la quistione si aggira su la possibilità di una morale scientifica, che non ricorra punto alla religione, come a sussidiaria diretta dell’autorità sua; la quale possibilità scientifica rimanda alla ricerca della semplice separabilità della morale da ogni riguardo religioso. 2. Se si prende ad esaminare la religione per sé stessa, è chiaro o no che i motivi suoi sono di natura diversa da quelli della moralità; ossia che si prestano ad essere scientificamente distinti e circoscritti per sé stessi? Cioè a dire, è chiaro che l’attività religiosa dello spirito ha fondamenti e motivi, non identici del tutto alla moralità; perché procede da bisogni più generali, e d’indole così peculiare, che non capono tutti nella sfera etica? La quale distinzione rimanda a due ricerche: 3. A quella, cioè, che concerne la natura peculiare dei sentimenti religiosi, e l’obbiettivarsi di essi nella concenzione religiosa della vita e del mondo. 4. Ed a quella che concerne i rapporti naturali fra i sentimenti morali e i religiosi, e la coefficienza degli uni e degli altri nella formazione della coscienza

morale, come essa ci appare empiricamente condizionata. Tutte le quali indagini hanno un triplice aspetto; che si cerchi: a. da un canto (teoreticamente) le note caratteristiche della moralità; perché si scorga fino a che punto sia possibile stabilirne i principi scientifici, non solo indipendentemente da ogni religione positiva, ma eziandio da ogni tendenza, o aspirazione, o bisogno religioso; b. che da un altro canto si cerchi, non la conformità di una morale data ad una religione data, ma le ragioni ultime psicologiche, per le quali è sempre accaduto, che nello svolgimento concreto delle forme pratiche della vita morale e religione si siano andate avvicinando, o sorreggendo a vicenda; cosicché dalla comunione loro è nata quella che ordinariamente dicesi coscienza morale, la quale non è, nella empirica struttura sua, l’elemento appunto sul quale deva fondarsi l’etica in quanto scienza costruttiva; c. dalla quale motivazione psicologica può dedursi quale sia la funzione completiva della religione rispetto alla morale, quando non si pigli quella nel senso empirico, di una dommatica già data, che contenga o possa contenere in sé un principio di latente negazione di ogni libera moralità cosciente e razionale. Donde deriva per la pedagogica, in quanto teoria scientifica della educazione, questa esigenza: che essa, cioè, abbia ad assodare teoreticamente, entro quali confini l’impreteribile della religione debba e possa accordarsi con la formazione schietta del sentimento morale; senza che ne rimanga pregiudicata la originalità e la indipendenza coi sottintesi di una estrinseca legislatura, o che se ne attenui il carattere categorico in una diretta accomodazione al comune sentimento della felicità. Nelle pagine che seguono tratterò brevemente queste diverse quistioni, in quell’ordine e con quella forma che m’è parso rispondessero meglio al fine che mi son proposto nello scrivere questa dissertazione: nella supposizione, cioè, che non essendo questo il luogo di esporre il sistema dell’etica, e i principi della filosofia della religione e della pedagogica, bastasse il limitarmi ad enunciare per sommi capi i punti di vista generali ai quali le quistioni stesse rinviano; perché i miei contraddittori, messe a raffronto le cose dette qui innanzi in una forma più empirica con quelle che dirò in seguito in una forma più scientifica, potessero riferirle da per sé al complesso delle dottrine filosofiche nelle quali hanno fondamento, e fossero poi in grado di portare la critica, secondo che sembri loro più naturale, o sugli enunciati miei, o su quello che dà agli enunciati stessi carattere e valore scientifico. Non mi pare inutile aggiungere qui un’avvertenza.

Alcuni mesi prima di scrivere questa dissertazione, io avevo ideato di farne un’altra, la quale avrebbe dovuto contenere una ricerca ampia e minuta intorno al concetto del lecito. Lo studio della quistione dal punto di vista dell’etica, mi condusse via via ad una ricerca intorno al concetto del lecito stesso nel dritto positivo, e poi dopo nel dritto naturale da Grozio in giù. I materiali mi vennero però crescendo fra mani in tale misura, ed i punti di vista ai quali bisognava li riducessi mi si vennero moltiplicando di tanto, che messo che mi fui a scrivere, in un numero di pagine di poco inferiore a quello di questa dissertazione, appena appena mi riuscì di esporre una terza parte della quistione. Mi parve allora più conducente di fare altro uso di quel mio lavoro; sembrandomi non rispondente al carattere di una dissertazione, che è destinata a muovere una disputa, la esposizione ampia e particolareggiata di tutto un corpo di dottrine: non già perché per essere ampia e particolareggiata si sottragga alla critica, ma perché questa, nel caso presente, tanto si fa meglio, per quanto lo scritto che la promuove lasci luogo a dire molto di nuovo nel giro della disputa stessa.

IV 1. Della coscienza morale si ha per l’ordinario un’idea molto confusa. Infatti il concetto suo, ora si estende a tutta la somma dei criteri pratici, i quali possono valere da regolativi di una qualsiasi distinzione fra il doversi o il non doversi fare, e il doversi fare in un modo o in un altro; ora si assottiglia ad un punto infinitesimale, nel quale si cerca e si ripone quei criteri soli, in ragion dei quali il volere è dignificato del carattere della bontà, e va quindi contraddistinto da ogni altro riguardo di piacere o di utile, di decoro o di convenienza, e così via. E poi di nuovo cotesta coscienza, ora viene intesa come suggerimento, ora come reale impellenza al ben volere ed al ben fare, ora come tardiva resipiscienza, ora come finale giudizio; e chi la cerca nell’intelletto e chi in vece nel sentimento; chi la vuole originaria, chi la dice acquisita via via. Una psicologia che intenda essere scienza esatta dell’anima, deve, come fa per ogni altra nozione che si riferisca alle forme ed agli stati della vita interiore, depurare eziandio questa della coscienza morale, dalla strana mescolanza di arbitrarie rappresentazioni, che la tradizione religiosa e la concezione mitica delle facoltà o potenze dello spirito le hanno messo attorno. Il concetto esatto della coscienza morale importa questo: che essa non venga considerata, né come una facoltà peculiare, originariamente data, né come un’accidentale formazione storica; né come semplice attività, né come somma di giudizi teoretici. Essa non è originaria, nel senso immediato, materiale, temporale della parola, perché nello spirito, dalla sua genesi in fuori, non v’ha nulla di originario; e pure è necessaria, perché è parte essenziale della genesi dello spirito stesso. Non è accidentale formazione storica, e pure non è fuori della storia; perché, in tanto si forma e c’è storicamente, in quanto è condizione impreteribile di ogni valutazione la quale abbia ad oggetto suo il volere. Né ha fondamento la dimanda, se essa sia da considerare come mera attività, o come mera teoria; perché è l’una e l’altra cosa, secondo il punto nel quale si guardi la indefinita serie delle complicazioni, cui può dar luogo l’associarsi e il comporsi insieme dei vari processi, i quali inesattamente vengono, dal bel principio ed una volta per sempre, designati in immagine come una cosa sola, nella nozione collettiva della coscienza morale. Questo deve essere chiarito: 2. Data che sia in un individuo la nozione di quello che egli vuole o non vuole, del come vuole, del perché vuole, e del fin dove vuole; ove non accada che l’impulso al volere (il che succede nel caso della passione, e in quegli analoghi

ad essa) si traduca in atto, prima che la rimanente attività interiore siasi messa in moto, in quella misura e in quel modo che è mestieri, perché il volere sia espressione adeguata della deliberata elezione; è necessario, è inevitabile, che di rincontro alla rappresentazione della volizione sorga, o la rappresentazione di un giudizio possibile, o la esigenza di un giudizio, o proprio un giudizio su quella determinata movenza interiore. Ora l’insieme di tutti quegli atti interiori, i quali si contrappongono alla immagine del volere, o come giudizi attuali, o come esigenze di giudizi, può, in mancanza di ogni altra espressione, trovare la sua designazione collettiva nel concetto di coscienza, o meglio di attività valutativa. Né mi si obbietti che io discorra qui in forma quasi empirica di cotesta coscienza valutativa; perché, se da un canto deve esser chiaro che la distinzione fra valutare e conoscere è da fissarsi in prima empiricamente, da un altro canto a me par lecito di supporre che solo chi ignori affatto la storia dell’etica possa avere ancora un dubbio su la importanza della distinzione fra conoscere e valutare, che due pensatori di prima riga (l’uno però più esplicitamente dell’altro) hanno messo a fondamento della differenza fra le scienze teoretiche e le pratiche2. Nel valutare consiste la nota più caratteristica della natura umana; ed in esso ha il suo fondamento ultimo, e per ciò immediato ed evidente, tutto il sistema dell’etica. Ora per chi lo giudichi, il volere acquista un valore o un non valore; cioè a dire esso è o lodato o biasimato; è tenuto, in somma, degno o non degno di essere attuato. Il fissare bene cotesta posizione del valutare, è quanto dire un assegnare esattamente il punto dal quale è mestieri pigliar le mosse, così nella trattazione dell’etica in generale, come in quella di ogni peculiare disciplina pratica, avendo l’una e le altre questo di comune fra loro: che non devono essere intese a spiegare la natura, la origine, lo sviluppo e le forme reali della volontà individuale e collettiva, ma devono invece determinare i criteri della bontà del volere stesso, e in conseguenza i regolativi del doversi volere o non volere; così o così; ora o poi. Per via dell’astrazione si può da cotesta determinazione del valutare, in quanto distinto dal conoscere, riuscire al concetto della coscienza pratica, come a quello di una nozione collettiva che abbracci sotto di sé tutta la somma dei giudizi circa il doversi volere o non volere; fatta però astrazione dalle differenze qualitative dei criteri stessi, e soprattutto dal presupposto, che a cotesta nozione collettiva deva corrispondere una facoltà peculiare, la quale anticipi originariamente in re la complicazione effettiva dei rapporti ideali da cui il valutare stesso risulta. Ora cotesti giudizi pratici s’ha ad esaminarli sotto a due diversi aspetti; sotto a quello, cioè, del loro diverso modo di fungere, e sotto a quello del contenuto peculiare dei predicati pei quali è possibile che fungano. Dovunque il giudizio ci sia già, c’è luogo a supporre la possibilità che esso

agisca come forza; ma nondimeno non si ha ragione di indurre da cotesta semplice possibilità, che in questo o in quello individuo agisca appunto come forza (ossia come volizione determinata). Se poi davvero agisce come forza, in quel caso si fissa rispetto al volere futuro come presunzione, e rispetto al volere già recato in atto come critica. Il che importa, che in correlazione della sua varia maniera di fungere, la interiore movenza, per cui il soggetto si apprende come soddisfatto o come non soddisfatto nella totalità della sua condizione normale, si atteggi variamente; e percorra, dalla semplice immediata compiacenza o repugnanza, fino al pentimento, all’orrore ed alla disperazione, o fino all’incondizionata fruizione estetica, tutta la scala del sentimento. La quale interna movenza, complicata con la memoria degli atti precedenti, e riferita alle varie rappresentazioni delle volizioni, dei propositi, e delle intenzioni, può costituirsi in una reale attività d’impellenza stabile o periodica, di normale resipiscienza, o amozione. Cotesta determinazione della coscienza pratica importa due cose: essere, per primo, infondata la supposizione che s’abbia a dedurla da un principio unico, perché concetto collettivo non è il medesimo che unità reale; e poi questo, che la coscienza morale propriamente detta, non che consistere originariamente in sé medesima, ripete invece la origine sua da una peculiare maniera di valutare pratico, il cui distintivo è nella qualità dei criteri del valutare, non nel contenuto naturale del volere. Ciò rimanda al secondo aspetto della disamina dei giudizi pratici. In fatti, se si guarda non alla maniera di fungere del giudizio pratico, ma alla natura dei predicati per cui il giudizio funge, è mestieri che la designazione del valore dei predicati stessi sia fatta a rigor di logica, in ragione cioè del quid che si pensa in ciascuna classe di essi. Cosicché la determinazione dell’utile, del piacevole, del conveniente, del costumato, del decoroso, dell’onorevole, del moralmente buono, suppone una ricerca logica, la quale fissi il contenuto di ciascun concetto in ragione di ciò che in esso si pensa, indipendentemente dalla funzione psicologica del riferirsi dei concetti medesimi alle volizioni che possono andar soggette a giudizio. Esaurite queste due ricerche propedeutiche, rimane fissato il punto dal quale bisogna che la morale scientifica prenda le mosse; rimane cioè fissato il suo principium cognoscendi, o il punto di partenza di una peculiare teorica, che non errerebbe di certo chi la chiamasse del gusto morale. Sarà bene formulare brevemente l’indirizzo che una siffatta ricerca propedeutica deve seguire. Chi pigli le mosse dallo esame della coscienza morale (empirica) si troverà innanzi ad una complessione psichica, la quale, non che servire da criterio della

ricerca scientifica, ha bisogno essa stessa della correzione della scienza. Cotesta complessione, la quale varia non solo materialmente (pel contenuto, cioè, delle massime), ma eziandio formalmente (per la disposizione, cioè, teleologica delle massime) da individuo a individuo, è mestieri risolverla nei suoi elementi, i quali in generale son questi: giudizi possibili messi a rincontro di un volere possibile (la pura riflessione morale); giudizi morali messi a rincontro di un volere reale (la deliberazione); giudizi divenuti forze (massime, propositi, primi elementi del carattere); giudizi divenuti presunzioni (il sistema dei doveri); giudizi divenuti attuosità (il sistema delle virtù). E poi da capo cotesta coscienza agisce come spinta o come remora, come suggerimento o come amozione, come critica o come efficacia. Il carattere di unità che le impronta il nome suo, ha da essere scientificamente risoluto nei vari stati della vita interna, i quali danno luogo al vario atteggiarsi del giudizio pratico. E poi in fine il giudizio stesso ha da essere esaminato per il contenuto dei vari predicati su i quali riposa; cioè, in ragione del climax di valore che è in fondo alla varietà empirica della predicabilità pratica. Cotesta ricerca propedeutica riesce a questa esigenza: Fra tutte le forme di giudizi pratici è a dirsi fondamento della morale solo quella, la quale esprima il maximum di distanza fra il valutare e la movenza dell’appetire; ossia quella che si costituisce rispetto all’oggetto suo (il volere determinato) come presunzione di un valore incondizionato, il quale è espresso da un predicato di un contenuto irrelativo. Cioè a dire: la possibilità di una trattazione scientifica dell’etica non è riposta, né nella immediatezza della coscienza morale (empirica), né nella immediata evidenza dei sentimenti che corrispondono ai predicati pratici; ma soltanto nella legittimità di una costruzione a priori del giudizio di valutazione, che abbia come materia sua, da un canto la nozione del volere e dall’altro la nozione di un predicato di approvazione incondizionata. Non è qui il luogo di provare come cotesti giudizi motivino necessariamente delle idee, o meglio degli ideali; ossia delle relazioni assolute, che stanno di rincontro alla volontà naturale come espressione del doveressere. ESEMPIO – La benevoglienza, diciamo tutti, è lodevole, biasimevole invece la malevoglienza. Se alcuno, nella disamina del concetto della benevoglienza, pigli le mosse dalla comune coscienza morale, potrà considerarlo sotto l’aspetto della funzione e sotto a quello del predicato mercé del quale la benevoglienza è giudicata. In questa affermazione: il voler bene altrui è lodevole, è espressa semplicemente la valutazione in genere rispetto ad un volere possibile. Nel giudizio invece: Tizio è lodevole, perché ama il prossimo (perché vince, cioè,

l’egoismo), c’è confronto fra un giudizio reale ed un volere reale. Nella massima: si deve volere bene al prossimo, c’è una presunzione rispetto al volere naturale (il doveressere specificato come dovere determinato). Nel giudizio: Tizio ha la virtù della carità inverso il prossimo, è espressa l’opinione che il volere singolo (di Tizio), in quanto abito riflesso, adegua l’esigenza della benevoglienza. Di più, ove l’egoismo ci vinca, e c’induca a non essere benevoli, il giudizio che noi portiamo sopra di noi medesimi, apparisce come pentimento; il quale poi, appunto come forza determinata, può agire di nuovo come impellenza. E poi se si guarda al giudizio pratico sotto il rispetto del valore intrinseco del predicato, ci può essere chi dica: la benevoglienza è piacevole, o utile, o conveniente, o decente, o onorevole; ma in nessuna di queste affermazioni è espresso il valore incondizionato della benevoglienza stessa. A costituire il concetto etico di essa bisogna, per via di esclusione, provare la insufficienza di quei predicati, il che mena alla esigenza di costruire l’idea della benevoglienza, come quella che sta di rincontro al volere come uno dei criteri incondizionati del suo valore, ossia dell’avere ad essere. 3. Egli è un errore, starei per dire, tradizionale nella scienza della morale, che essa sia stata quasi generalmente trattata, o come dottrina del sommo bene o come dottrina delle virtù, o come esposizione del concetto del dovere; cioè a dire, che la più parte di quelli, che si son messi a cercarne i principi e i fondamenti, siensi arrestati a delle forme derivate, o secondarie che voglia dirsi, della concezione etica, a quei concetti cioè, i quali, per la loro natura stessa, contengono piuttosto la indicazione del problema anzi che la soluzione sua. In fatti chi dice dovere, dice due cose in uno: un volere che ha da essere, ed un qualcosa, che rende imperativo l’ha da essere. Questo qualcosa che si pone innanzi al volere particolare, non può esserne norma, se non in quanto il volere stesso sia forzato dalla convinzione, che opera sopra di esso, ad agire così e così. Il dovere, dunque, suppone la nozione del moralmente buono, perché abbia luogo quella suicoazione3, la quale generi fra le molte volizioni ripugnanti, la volizione conforme all’ha da essere. Il principio della suicoazione sta quindi più in su del dovere stesso. Perché nasca la coscienza del dovere, bisogna che il giudizio morale presegni in immagine un volere lodevole, e che abbia poi di rincontro la grezza materia delle volizioni naturali, a vincere le quali l’impellenza sua faccia apparire la vita come un compito. Cotesto compito già assoluto è quello che dicesi virtù. Se la virtù, nella massima idealità sua, potesse realizzarsi tutta in una persona singola, il dovere finirebbe di avere per essa un qualsiasi valore; perché in tanto c’è dovere, in

quanto nel soggetto che deve c’è un ha da essere, il quale non è ancora. Se non che il contenuto della virtù è lo stesso che il contenuto del dovere; e pure il dovere è in fieri, mentre la virtù è in actu. Ciò prova che nessuno dei due concetti può essere il fondamento primo della morale. Pare dunque sia più ragionevole incominciare dal bene. Ma il bene, si dice comunemente – né si può dir di meglio, fino a che si prenda le mosse dall’oggetto del volere, e non dalla coscienza valutativa di quello che è degno di essere voluto – è l’appetibile, cioè quello che è degno di essere appetito; cosicché, anche quando se ne depuri la nozione dai riguardi accidentali dell’utile e del piacevole, rimane sempre oggetto del volere, ossia degno non di dignità propria, ma solo in quanto voluto. Qui c’è certo pericolo di cadere in un imbroglio. Le cose degne di essere volute son molte (chi non sa già che son molte le cose piacevoli, utili, convenienti, onorevoli, dilettevoli, etc.?) e pure, o son poche quelle le quali son degne di dignità morale, o davvero non ve n’ha alcuna immediatamente tale; perché il valore morale non può consistere in nessuna cosa, ma deve e può consistere solo nella maniera del volere, nella motività morale dell’atto del volere. Dunque il carattere distintivo della moralità bisogna cercarlo più in su che non nella sfera delle cose stesse: anzi in quello solamente che dignifichi le cose di dignità morale. Si è rimandati quindi alla ricerca di quello che costituisce il pregio del volere assolutamente lodevole; e il criterio di ciò non si può trovarlo nella cosa che è termine del volere (l’appetibile). Si è, cioè, di nuovo rimandati alla necessità di una costruzione scientifica della coscienza morale; ossia alla designazione e specificazione del complesso dei giudizi, i quali costituiscono gli antecedenti assoluti delle presunzioni morali del volere. La propedeutica, e la critica dei comuni concetti del bene, del dovere e della virtù rimandano, dunque, alla necessità di una costruzione ideale, la quale o giustifichi, o corregga, o completi la coscienza morale empirica. Da questa posizione scientifica del problema dell’etica non è questo il luogo che io passi alla esposizione costruttiva dell’etica stessa; cioè alla deduzione delle fondamentali relazioni, alle quali è mestieri che ogni nostro più complicato giudizio si riduca. 4. Ma la religione? O che io corra, per avventura, pericolo di allontanarmi dall’argomento che mi son proposto? A me pare di no. Ora, se per caso ci fosse alcuno, il quale opinasse che tutto quello in che riposa l’esame psicologico e logico dei concetti morali, e poi dopo la costruzione (a priori) delle idee normative dell’etica, non abbia ragion d’essere, e non possa avere fondamento sicuro, fuori del sussidio della religione positiva, a costui io

non saprei rispondere altrimenti che col tacere; perché egli è, a dirittura, le mille miglia lontano dal potere intendere, che cosa sia la morale, e che cosa abbia ad essere una teoria della morale. Basterebbe, in fatti, notare soltanto questo: che in fondo non c’è, né ci può essere, che una morale sola, e che le religioni invece son molte, e che qualcuna di esse ha rivestito nel corso dei secoli forme così diverse l’una dall’altra, da potersene a mala pena ravvisare la origine comune; perché fosse subito chiarito, come dal punto di vista della scienza una opinione di quella fatta non abbia, né possa avere valore di sorta alcuna. La religione positiva si è fatta nel corso della storia, e va quindi innanzi tutto soggetta alla critica storica; e in quanto essa è complesso di dommi va poi soggetta alla critica speculativa. Sicché, al postutto, ove se ne discorra in termini generali, non ne rimane dal punto di vista della scienza che questo: che essa è una delle forme storiche, in cui è andato a metter capo uno dei più intimi e dei più profondi bisogni della natura umana. Vorrà dunque dire, che la quistione è tutt’altra: che si tratta, in somma, di sapere, se la morale sia possibile anche quando non ci sia punto religione, tanto come morale pratica, quanto come morale scientifica. Bisogna però evitare che la quistione non sia posta male. Un cervello bislacco cui cascasse in mente di domandare: avrebbe mai l’uomo potuto ideare lo stato e la navigazione, qualora egli non fosse stato capace di concepire p. es. l’arte e l’astronomia, dovrebbe rimanere senza risposta; perché la domanda non ha valore reale, e di giunta sposta una quistione per sé assai seria. Che cosa in fatti rispondergli, se non questo: che l’uomo è l’uomo; cioè che il domandare se la somma delle efficienze proprie di una data natura corrisponda, o no, alla totalità della natura stessa, sia porre una quistione cui non si può altrimenti rispondere che con una tautologia. Cosicché qui è chiaro, che la domanda non debba esser posta in questi termini strani; come è parso a qualcuno fosse naturale di fare. Perché, in fatti, chi vuole avere una nozione esatta intorno ai rapporti che corrono fra la morale e la religione, intende appunto parlare della relazione dei loro concetti, e non già porre la strana quistione, se l’uomo, guardato astrattamente nella generalità della sua natura, sia eguale alla somma appunto delle efficienze, le quali, elevate logicamente a note caratteristiche, ne costituiscono il concetto. Chi dice religione dice molte cose; e pure, sotto a queste molte cose, ci ne dice una sola. Chi dice religione (a guardarla nelle sue forme complesse, quali si hanno al presente) dice domma, culto, speranza della vita avvenire, fede nella personalità di Dio, aspirazione al sommo bene, consolazione degli afflitti, sollievo dei caduti, sprone ai dubbiosi, correttivo ai peccanti, lenitivo ai contriti – ma dove finirla? Tutte queste cose, le quali si fondano su la coscienza della

umana limitazione, e sul prodursi, in corrispondenza di essa, della rappresentazione di una o più cause, che completino nella trascendenza le imperfezioni della esperienza, suppongono nell’uomo la capacità ad elevarsi dalla sfera immediata della concezione materiale del mondo, suppongono cioè la idealità umana; e da ciò è proceduto, che alcuni si sieno data la fretta di scorgere in cotesta idealità stessa il primo germe della filosofia, nella supposizione che la filosofia debba e possa essere una intuizione, come si dice, organica dell’universo. Ora, nella idealità per lo appunto è il fondamento del giudizio morale; ossia il principio della possibilità sua. Ma idealità è concetto generico, non punto indicazione di una immediata condizione di fatto; e chi dice che la idealità è il principio della religione, della filosofia, della morale, dell’arte e dello stato, dà di certo nel segno, ma solo fino a che ei non faccia della idealità, che assume come principio, una anticipazione in re, la quale voglia chiamare originaria facoltà delle idee soprasensibili, apriorismo, cioè, che è una cosa con l’innatismo. Nella sfera della nostra attività interiore c’è di certo una maniera di reagire contro il corso ordinario della vita psichica, la quale può essere designata come superiore, rispetto al complesso dei processi puramente sensibili e puramente meccanici. Ma in cotesto ordine superiore di reazioni non c’è nulla, che accenni immediatamente ad una anticipazione reale di facoltà, date appunto come superiori. Di rincontro alla rozza materia degli interessi, al giro monotono dei sentimenti ordinari della vita giornaliera, alla ricerca del benessere materiale e del quieto vivere, alla soddisfazione dei bisogni animali ed immediati, c’è una vita, la quale può dirsi, in mancanza di altra più adeguata espressione, ideale; ed in essa, come in concetto collettivo, è compresa così l’etica come la religione, così l’arte come la scienza, così l’adorazione come la meditazione. Ma non appena s’intenda passare dalla designazione collettiva, alla ricerca dei caratteri specifici di quelle diverse forme dell’attività interiore, le quali a prima giunta sieno state analogicamente caratterizzate come identiche nel criterio comune della idealità, se non si ha l’animo di persuadersi di questo, che origine reale non è il medesimo che classificazione logica, si cade presto o tardi, ma inevitabilmente, nella definizione tautologica. Ora, il bisogno appunto di ricondurre così l’etica come la religione, al principio comune della idealità, ha fatto sì che molti non avvertissero, come innanzi tutto fosse mestieri di sceverare l’idealità morale dalla religiosa, per poi tentare, se è possibile, di ricongiungerle nella posizione concreta del soggetto, in quanto abito, carattere, virtù e così via; e di qui è proceduto, che le diverse quistioni, alle quali ho accennato poco innanzi, sieno state spesso confuse, e poi confusamente risolute insieme. Sarà utile che io mi riporti ad alcuni punti di

vista ben definiti, perché possa poi dire la mia opinione partitamente. a. In primo luogo: è fondato il concetto di una certa maniera di filosofare, la quale, considerata la religione nella sua più compiuta forma di sistema teologico, o la mette più in su della morale, o ne fa il presupposto metafisico di essa? E se questo concetto del principium essendi della morale è niente altro che una supposizione, o una anticipazione senza fondamento, in che consiste la differenza psicologica degl’immediati elementi della morale e della religione? b. Ove si cerchi di costituire quella forza stabile del carattere, la quale ha il fondamento suo nella nozione di una legislatura morale; in qual punto del sistema dell’etica la religione può essere accettata come coefficiente o come complemento della moralità? c. Dal punto di vista propriamente pratico, come si devono considerare i rapporti fra la morale e la religione? Le tre quistioni hanno, come si vede, un diverso significato; perché la prima è principalmente speculativa, la seconda è affatto psicologica, la terza è meramente pedagogica; e la diversa indole loro esige che la risposta sia di natura distinta. 5. Fra tutte le filosofie, le quali sieno state intese a considerare le diverse forme della vita dello spirito, come gradi della genesi dello spirito stesso, ve n’ha una, la quale di certo, per rigore di sistema e per profondità speculativa, va di gran tratto innanzi a tutte le altre; e cotesta filosofia ha della religione questo concetto, che essa stia più in su della morale (dello spirito pratico) perché è una delle forme della concezione dell’assoluto. È fondata cotesta opinione? Perché cotesta opinione potesse essere messa in sicuro da ogni contraddizione, bisognerebbe, mi pare, assodare in prima, che la religione ed il teologismo religioso sieno dal principio e sempre una e medesima cosa; perché in tanto quella filosofia sostiene la superiorità della religione su la morale, in quanto che considera quest’ultima come una delle forme della concezione dell’assoluto. Ora la religione non arriva fino a questo punto, se non quando, ai motivi originariamente religiosi, si va mano mano associando la riflessione sul principio, su l’ordinamento e sul fine dell’universo; una preparazione, cioè, o una alterazione storica di quello che pare a molti intuizione scientifica del mondo. La speculazione religiosa non è, dunque, la religione immediata; essa è invece filosofia della religione. Ciò apparisce massimamente chiaro nel Cristianesimo. Se invece si considera la religione dal punto di vista dei processi psichici che la occasionano, e si fa astrazione dalla complicazione posteriore dei motivi religiosi con la rimanente attività speculativa, che prepara un intuito

religioso del mondo, apparisce chiaro che la idealità religiosa non sta né più in su né più in giù della idealità morale, e che la differenza psicologica dell’una dall’altra non dà ragione ad alcun concetto di subordinazione. Si pigli ad esempio la storia della religione cristiana. Innanzi tutto bisogna distinguere in essa la fede immediata nell’idea messianica, dalla speculazione teologica, la quale, associando via via la filosofia antica alla primitiva motivazione della fede, ha compiuto, nell’insieme dei domini, un intuito generale della vita e del mondo. Qui è il sapere (scientifico?) che completa la fede, e ne armonizza i postulati in una concezione dell’universo: non è la fede che si proietti immediate in un intuito della vita. Di giunta, donde si attinge la materia di quella concezione dell’universo che si dice teologica, se non dalla motivazione morale, che si trova in disaccordo col corso immediato delle cose? In fatti, non appena la religione abbia cessato di essere semplice personificazione delle forze naturali, motivata dal timore e dalla speranza, o dai bisogni non soddisfatti della vita animale, e l’uomo, raccolto nella vita di famiglia, e messe le prime fondamenta del convivere sociale, abbia cominciato a subordinare il suo volere alle esigenze di una concezione morale, è appunto dall’insieme delle rappresentazioni etiche che egli toglie gli elementi costitutivi dell’immagine che si fa del divino, del modo suo di agire, e dei rapporti che corrono fra noi e la divinità. Una considerazione spregiudicata della cosa deve, dunque, menare piuttosto alla persuasione, che la morale e la religione corrano nel corso della storia in linee, ora parallele, ora divergenti, ora opposte; e che non sieno, né originariamente né assolutamente, l’una subordinata all’altra. Si è quindi rimandati da cotesta così detta considerazione obbiettiva ed assoluta, a quella affatto psicologica. Che cosa, dunque, chiamiamo noi religione nella sfera psicologica? Cioè quale è la natura dei sentimenti religiosi; e in che differiscono essi da quelli i quali sono il primo fondamento dei giudizi morali? Si formano insiememente, o possono stare separati, e senza legame di sorta alcuna? In somma, quale è la loro relazione immediata e la mediata? I sentimenti religiosi hanno questo di comune coi sentimenti etici ed estetici, che, a differenza di quelli i quali diconsi vaghi, rispondono necessariamente a dei determinati gruppi rappresentativi, e stanno in una naturale e costante relazione con essi. V’ha sentimenti etici, estetici e religiosi, tutte le volte che certe determinate rappresentazioni sieno messe a raffronto di altre rappresentazioni, e per via del vario rapporto che intercede fra loro, la interiore movenza dell’apprendersi del soggetto nella totalità della sua condizione, sia forzata ad una costante equivalenza nella valutazione del compiacimento e della

repugnanza. Se non che, i sentimenti etici hanno questo di peculiare, che la materia loro (i gruppi rappresentativi) è data immediate nel soggetto stesso, ed in forme nettamente circoscrivibili e classificabili. Perché, non appena lo sviluppo dell’attività interiore sia arrivato a tale maturità, che dalla molteplicità dei rapporti reali della vita esterna, e dalla riproduzione di essi nelle astratte immagini delle loro forme concrete, si possa risalire ad una certa generalizzazione, la somma delle relazioni su le quali può cadere il giudizio etico (equivalenza logica dei sentimenti) è data in una maniera fissa ed inalterabile. Per converso i sentimenti religiosi suppongono altro; suppongono, cioè, così una certa idealità etica, come la formazione di certe rappresentazioni determinate le quali non sono date immediatamente, perché si generano via via per mezzo di una proiezione lenta di varie esigenze pratiche e di svariate movenze dell’attività interiore. La religione è inevitabile che cominci dal mito, e non se ne separa mai del tutto. I sentimenti morali, per converso, passano tutti nella forma del concetto, e da questa in quella affatto riflessa delle idee normative. Dovunque l’uomo abbia motivo a dolersi, a pentirsi, a compiacersi, a sperare, a temere, quivi c’è posto per un sentimento religioso; ove, però, di rincontro al sentimento si formi la rappresentazione stabile di una o di più forze (la personificazione) intese come autrici, direttrici, e creatrici dell’ordine naturale, che ci sta innanzi. I sentimenti religiosi sono, dunque, coordinati alla produzione rappresentativa di un mondo di obbietti trascendenti la sfera immediata della esperienza; e seguono la sorte appunto delle rappresentazioni che costituiscono l’insieme di quel mondo trascendente. Quando poi, nel corso del tempo, alla motivazione pratica del benessere non soddisfatto, o dell’interno scontento, si va mano mano accoppiando lo stimolo della ricerca sull’ordinamento delle cose; la fede e l’intelletto si danno la mano per costruire un intuito dell’universo, il quale completi in una immagine armonica le discrepanze della immediata esperienza. La morale stessa è assorbita da cotesto processo; cosicché, in fine, gl’interni suggerimenti suoi sono capovolti in una preordinazione universale, nella quale si riduce a legge il sentimento. Questo processo psicologico arriva a tale una complicazione, che in fine gli elementi primitivi di esso non paiono più ravvisabili; ed in una forma assai sviluppata della società umana, la obbiettivazione della morale nell’ideale religioso sembra un fatto tanto indiscutibile, che vi si pianta su una metafisica del bene. I sentimenti morali, analoghi dunque sotto un certo rispetto ai religiosi, se ne differenziano per queste ragioni: Che essi, cioè, sono sempre riferibili a relazioni reali delle rappresentazioni, e

non vanno, né più in qua, né più in là di tanto; Che tutte le volte che si complichino con la rimanente attività interiore, sono ravvisabili per via dell’analisi; perché, in tanto si dicono sentimenti morali, in quanto si riferiscono a delle determinate relazioni del volere; Che essi, in fine, non danno luogo ad una intuizione della vita, come i sentimenti religiosi; sebbene sieno diretti coefficienti ed elementi essenziali di un qualunque intuito generale della vita e del mondo. I sentimenti religiosi, per converso, sono indefiniti; perché da un canto, nella più bassa forma della vita dello spirito, corrispondono al bisogno della felicità, ed alla brama del benessere, e su fino in cima alla scala corrispondono alla inevitabile collisione fra il maximum di aspirazione etica ed il minimum di corrispondenza che c’è nell’ordine delle cose. Se la personificazione, che è la materia propria su cui s’aggira e in cui trova riposo il sentimento religioso, vien meno, nel posto vuoto del sentimento stesso s’ingenera un’altra sorta di sentimenti dolorosi, i quali possono esquilibrare la vita interiore, qualora il proposito morale della rassegnazione non compensi la mancata religione. Da un punto all’altro, dunque, della serie delle forme religiose, la religione stessa sta fuori dei sentimenti morali; sebbene abbia in essi un elemento naturale ed un valido coefficiente. 6. La possibilità di una morale indipendente dalla religione non è chi possa metterla in dubbio. Il fatto stesso che si cerca la relazione fra l’una e l’altra forma dello spirito, prova, appunto, che in verità si ha dell’una e dell’altra questo concetto, che esse sieno concepibili distintamente. Ma c’è altro. La moralità non concerne che il volere. Cioè non v’ha morale fuori del volere buono; e tutto sta a sapere che cosa è quello che fa che il volere si dica buono. Più in giù o più in su di questo non c’è luogo, né al giudizio, né al sentimento, né all’esigenza, né al postulato, né all’ideale morale; perché dove manchi la nozione del volere, manca la materia rispetto alla quale l’idea, il giudizio etc. hanno valore. E pure il volere, per sé, non è che forza; forza naturale che nasce spontanea dal meccanismo della vita interiore, e che non ha, alla prima, alcun significato né buono né cattivo; perché, appunto come forza, può stare in servigio di quella buona o cattiva disposizione dell’animo che lo mette in essere. Dove non c’è volere (nella natura p. es.) non c’è morale; e pure nel volere come tale non c’è indizio alcuno che esso possa essere norma morale a sé stesso. La norma sta fuori di esso; e pure la norma non è tale, se non in quanto è esigenza appunto di un volere possibile, che ha a diventare reale. Ci ha dunque nella scienza due problemi distinti, e sono: a. Designare dapprima in che consista quello che fa che il volere si dica moralmente buono;

cioè, esporre le norme ideali del buono, in quanto i sentimenti sono elevati via via a giudizi, e questi ad idee normative; e in ciò consiste l’ufficio proprio dell’etica come teoria costruttiva (del giudizio estetico): b. Trovare poi i fondamenti psicologici dei concetti del dovere e della virtù, perché si possa costituire (almeno in idea) i presupposti di quella suicoazione, la quale genera, di rincontro alle volizioni naturali, la volontà per eccellenza; la volontà, cioè, che anticipa nel proposito conforme alle norme, la potenza effettiva del bene, e l’amozione degli appetiti contrari. E qui c’incontriamo di nuovo con la religione. Non è già che i concetti morali, i quali stanno in fondo ai giudizi, che sono i principi della suicoazione, dalla quale deriva poi il dovere, ossia l’esigenza della virtù, non possano stare da sé; perché, appunto in quanto concetti, hanno a pensarsi per quello che ne forma il contenuto, ossia indipendentemente da tutto quello che non ne costituisca il carattere specifico. Nulladimeno la suicoazione stessa, come attività psichica, ha leggi proprie, che non ripetono la loro ragion d’essere dalla formale natura delle idee morali. Poniamo ad esempio, che alcuno sia persuaso (formalmente) che il mentire ripugni al sentimento morale. Scientificamente si può provare, anzi è stato provato di fatti, che la menzogna è un vizio, che ha contro di sé tutte le idee morali, le quali possono essere messe a fondamento dell’etica. Questa convinzione può costituirsi in un sentimento stabile, che sia principio di giudizio riprobativo della menzogna; ma pur di un giudizio, che può rimanere semplice criterio di riprovazione, senza agire come forza amotiva del mentire stesso. La paura, l’interesse, la fiacchezza, i falsi rispetti sociali, tutte le ragioni, in somma, le quali agiscono come motivi determinati della menzogna, possono rimanere efficaci in un dato individuo, anche quando sia in lui chiaro il concetto della bellezza della veridicità. La quantità reale di forza di quel convincimento rimane, dunque, sproporzionata alla quantità opposta de’ motivi che determinano a mentire. E pure noi diciamo: non si deve mentire, ed è virtù lodevolissima la veridicità. Nell’idea del dovere è data l’esigenza della suicoazione, che ha come ideale innanzi a sé appunto la rappresentazione della virtù; ossia del volere che realizza in actu quello che nel dovere si pone come un ha da essere. Ora, facendo astrazione dai casi speciali, e da tutte le peculiari condizioni storiche ed individuali, non può negarsi essere legittima dal punto di vista rigorosamente scientifico una quistione posta nei termini che seguono: che ufficio può avere la religione nella preparazione alla suicoazione? S’intende già che la religione non possa pretendere di porre essa stessa il contenuto morale della coscienza. Questa ne è ricettiva in quanto capace di sentimenti e di giudizi morali; e in quella misura che permettono le sue

condizioni di sviluppo etico. Ma agisce la religione come coefficiente? In generale può dirsi solo questo: che atrofia totale di sentimento religioso equivale a totale atrofia di sentimenti morali. Perché, parallelamente al venir meno di ogni sentimento religioso, scade dall’animo la intenzionalità ideale; cosicché manca in parte la forza che è principio generativo del dovere. Ma ove il sentimento religioso metta capo in un intuito determinato della vita, in una dommatica, cioè, ed in una precettistica, può accadere che influisca su la coscienza per riguardi estrinseci a quelli della morale stessa; il che è un avviare alla suicoazione etica, con pericolo che la motività stessa non sia etica. La storia del mondo ha percorso cotesta via già molte volte; e gl’individui quasi tutti rifanno lo stesso cammino. Ma è mestieri che lo facciano, perché è assai difficile che la convinzione morale ingeneri in tutti egualmente, per naturale e propria forza, una efficace amozione di tutti i cattivi istinti e di tutti i pervertimenti della passione e dell’interesse; e la religiosità del sentimento, la quale santifichi la nozione del moralmente buono, è coefficiente potentissimo dell’idea del dovere. Il che importa, in somma, che alla sana, ed ordinata, e piena efficacia del convincimento morale concorre la religione assai potentemente, e forse più di ogni altra attività interiore; senza che aggiunga per ciò al convincimento stesso nessuna parte nuova di valore intrinseco e di eccellenza. Dal punto di vista dell’esperienza comune non è agevole farsi un concetto esatto di questo postulato scientifico: che morale perfetta, cioè, voglia dire astrazione da ogni altro criterio che non sia schiettamente morale. Perché nell’esperienza comune l’attività nostra è tanto irta di difficoltà, tanto piena di fastidi, tanto ricca di disinganni, che l’occhio della mente diventa assai frequentemente cieco per quello che gli sta proprio innanzi, ossia pei criteri della idealità morale; cosicché non pochi uomini son forzati a gettarsi capo fitto nella illusione di un di là che compensi le miserie e i dolori della vita. La scienza non ha nulla a decidere su cotesto argomento. Perché una scienza che voglia essere esatta, si guarderà da due errori assai frequenti, e son questi: che i concetti, cioè, della immortalità dell’anima, della vita avvenire, e della esistenza di Dio, si debba farli derivare dalle immediate esigenze pratiche del benessere e della moralità; e che sia poi in potere della intelligenza umana di afferrare, sia con l’intuito, sia con altra più alta o più riposta attività spirituale, il principio unico da cui si derivi tutto l’ordine delle cose, e in cui si armonizzi la discrepanza che c’è fra la piena intenzionalità morale, e il corso naturale delle cose, del quale è parte l’uomo stesso nella immediata naturalità dei suoi appetiti. L’etica, in quanto scienza del giudizio morale, termina ove termina l’ideale del volere perfetto; e l’etica come costruzione dei concetti regolativi della vita pratica (il dovere, la virtù, la coscienza morale etc.) può accogliere dentro di sé

tanta parte della religione, quanta è ammissibile che contribuisca (psicologicamente) alla formazione di quella efficacia interiore del volere buono, che ha principio, dalla primitiva intenzionalità del ben fare, ed ha compimento nella virtù. Esigere che la scienza, col sussidio della religione, concili, in una immagine armonica del mondo, i postulati etici con le esigenze del successo della felicità, è lo stesso che esigere che essa sorpassi il suo proprio compito. Il quale è questo: che essa intenda le cose come sono, e fin che può; dove si tratti poi di prescriver norme (la logica, l’etica, l’estetica) lo faccia entro i limiti nei quali, così il principio della norma, come l’applicazione di essa, siano chiari e distinti. Se la fede religiosa si spinge più in là di questo, gli è appunto perché essa è fede e non scienza; ed ha di certo ragione piena, in quanto fede, di coordinarsi alle altre attività dello spirito, a condizione però, che in una dommatica artifiziosa, non pregiudichi l’idealità morale e non ottenebri il senso scientifico. 7. Se non che le scienze pratiche, cioè quelle le quali mirano a stabilire i principi generali della condotta degl’individui e della società (la pedagogica, la politica, la scienza della legislazione) devono considerare sotto un punto di vista del tutto particolare il problema dei rapporti fra la morale e la religione. Coteste scienze, di certo, poggiano tutte sul supposto dell’ideale etico; perché tentano di stabilire i regolativi della pratica, ossia, le norme in virtù delle quali la volontà individuale e la volontà collettiva possono riuscire conformi ai postulati ideali della ragione pratica. Ma esse, oltre a tener conto di cotesta esigenza ideale, hanno anche a porre mente alla varietà empirica delle reali condizioni della società; e devono, quindi, accomodare le esigenze etiche alla natura propria dell’obbietto che si trovano di avere innanzi. Per ciò non sono, né possono essere scienze costruttive a priori, come la teoria ideale dell’etica e dell’estetica, come la logica e la metafisica: e per questo rispetto appunto non andrebbe errato chi le designasse per scienze miste; perché esse, mentre ritraggono dall’etica l’idealità del fine, cercano nell’empirismo psicologico (psicologia individuale, nazionale, e storica) la materia peculiare delle loro costruzioni. Dalla qual cosa poi procede, che oscillano e variano; di rincontro alla immutabilità p. es. della logica e dell’etica formale. Nella educazione p. es. e nella condotta dello stato bisogna tenere egualmente conto dell’ideale etico, e della necessità di conformare i mezzi naturali, al fine generale dello sviluppo della coscienza umana nella sua universalità. Sotto a questo riguardo è a dirsi monca quella educazione, la quale intenda ad atrofizzare il sentimento religioso, o non curi di svilupparlo in quella misura, che la integrità della vita dello spirito esige si sviluppi; come sono a ritenere per

imperfetti quello stato e quella legislazione, che si propongano d’impedire il libero sviluppo delle idee religiose, nella società cui son destinati a reggere o a regolare. Perché la piena libertà dello spirito non può consistere che nel pieno sviluppo, e nell’armonica coefficienza di tutte le forze, e di tutte le funzioni di esso. Or come le idee religiose hanno un terreno proprio, in cui nascono e in cui si mantengono – e vi si possono ben mantenere, lasciando pur libera la rimanente attività spirituale, e non usurpando alcuna materia o ufficio alle altre funzioni – è mestieri, che così la educazione individuale come la educazione nazionale conservino allo spirito la facoltà di espandersi religiosamente, del pari che scientificamente e moralmente. L’equilibrio delle funzioni spirituali le corrobora tutte in pari tempo, e le circoscrive, fortificandole, nei confini propri e naturali di ciascuna di esse. Una tendenza religiosa, la quale si espanda nello spirito a svantaggio della scienza e della morale, è, di certo, viziosa e nociva. Ma una religione, la quale stia nella rimanente attività dello spirito, come parte essenziale ben circoscritta di essa, può sempre influire a tener vivo ed efficace nell’animo il succo vitale della idealità, ed impedire che la coscienza, rallentato il freno all’egoismo ed ai volgari istinti, non cada, ora o poi, nei bassi riguardi della utilità e del piacere. L’idealità umana però non ha fine e ragion d’essere, se non in quanto è impellenza assidua al volere buono; cosicché, in conseguenza, la educazione e la legislazione devono principalmente mirare a coordinare tutta la interiore attività, al fine ultimo della dignificazione della volontà individuale e collettiva nell’ideale etico. Il quale, mentre alla scienza che lo esamina si para innanzi come una costruzione formale, di fatti non è che un riflesso interiore della vita pratica, e deve rifluire in essa, qual nuova e salda sostruzione, che subentri a quella tutta naturale dei bisogni immediati, i quali hanno inconsciamente motivata la formazione primitiva della società e dello stato. Di certo la natura che ci sta immediatamente innanzi, la nostra stessa natura (i nostri istinti, cioè, e le nostre passioni) si piega e si uniforma, né facilmente né sempre, alla volontà normalizzata dalle idee etiche; e la natura universa che ci circonda è tutta indifferente alla volontà nostra, anzi estranea affatto agl’ideali nostri. La religione si è provata, e con essa anche la scienza, a supplire, con un’altra sorta d’idealità, il difetto d’accordo che c’è fra le nostre esigenze etiche e la natura in mezzo alla quale viviamo; e l’una e l’altra attività spirituale han messo, continuano, e continueranno a mettere ogni opera, per eliminare, per varie vie e con vari mezzi, la disarmonia che c’è fra gl’ideali e la realtà empirica. Ma né l’una né l’altra han potuto, possono, o potranno mai aggiungere alcuna parte, e si voglia anche minima, di valore morale al volere; perché, né la

rappresentazione di un Dio provvidente e sommamente perfetto, né la concezione ideale dell’ordinamento dell’universo, possono mettere o toglier nulla alla qualità intrinseca del volere buono, del quale il filosofo più grande di tutti i tempi ha detto: non esserci cosa alcuna nell’universo, la quale, non che lo superi, lo agguagli solo in eccellenza4.

V Mi par bene di esemplificare, qui in fine, il mio concetto; di riferire, cioè, tutto il mio ragionamento ad un caso particolare, applicando ad una peculiare idea etica quello che innanzi ho detto della morale in universale. 1. Tutti gli uomini hanno una rappresentazione più o meno chiara della benevoglienza e della beneficenza; e dell’una e dell’altra poi questa opinione, che siano lodevoli per sé, assai più se messe a raffronto della malevoglienza e della maleficenza. Distinguere esattamente l’una dall’altra non è agevole, per chi non sia arrivato a tale maturità della riflessione, da essere, o proprio nella scienza, o prossimo ad essa; anzi, non rare volte accade se ne faccia una e medesima cosa, nella incerta rappresentazione di una interna movenza, che ci spinge alla produzione di sentimenti o di atti che sono, come a dire, una vittoria dell’amor per gli altri sull’ingenito amore di noi medesimi. Ma come appena la distinzione si cominci a fare, è naturale che la riflessione ricerchi dietro alla beneficenza la benevoglienza, e si provi ad indagare in che consista la natura propria dell’una e dell’altra. Nella coscienza degli uomini colti può allora ingenerarsi una distinta rappresentazione di quell’atto interiore, che è il volere altrui bene (la benevoglienza); il quale, nella sua generalità, si riduce al convergere nel medesimo soggetto della rappresentazione del volere che gli è proprio, con la rappresentazione di un altro volere, inteso per lo appunto come volere altrui, e nel corrispondente sentimento di compiacenza incondizionata a consacrare il proprio all’altrui volere. Mentre, per converso, nella semplice beneficenza l’atto interiore della benevoglienza può esserci e non esserci, nell’animo di colui che è benefico; e può farne eziandio astrazione colui che osservi come spettatore indifferente la beneficenza altrui. Ora, posto che l’analisi dei due concetti sia stata fatta a dovere, che il concetto della benevoglienza sia stato sceverato da quello della beneficenza, e che si abbia una rappresentazione esatta di tutti quegli atti interiori, i quali stanno in fondo ad ogni movenza del voler bene altrui; si può, a questo riguardo, ripigliar da capo il problema dei rapporti fra la morale e la religione, facendolo ripassare pei diversi punti di vista che ho toccato innanzi, i quali a me pare sieno tutti. Si potrà quindi cominciare dalla considerazione empirica, per poi tener conto, così delle esigenze scientifiche, come dei bisogni pratici. 2. Ora, se alcuno si fermi alla classificazione empirica, troverà esser molti

quelli, nei quali la interiore movenza del voler bene altrui combacia immediate con la nozione di una legislatura (religiosa), in virtù della quale quell’atto stesso è reso doveroso dalla supposizione di un comando, che implica a un tratto, in una immagine sola la bellezza morale della benevoglienza, e la conferma potestativa di essa in una volontà che la pone come moralmente bella. E per converso son pur molti gli uomini, ai quali pare evidente, che la interna movenza del benvolere stia da sé, ed abbia un valore tutto suo proprio, sebbene coordinabile o subordinabile alla nozione di un volere inteso come perfettissimo; il quale sia, nel medesimo tempo, autorità morale e personale potestà sul mondo. Sono in fine molti quelli, che, a ricontro dei problematici ed ipotetici concetti del divino e della provvidenza, affermano l’incondizionata natura di quel giudizio morale, il quale fa del voler bene altrui un principio ultimo e non più risolvibile di tutta quella serie d’imperativi, intorno ai quali si raggruppa tutta la somma dei doveri sociali. In tuttatre cotesti casi puramente empirici, non si è però ancora in chiaro sul significato scientifico della quistione; la quale consiste in quel che segue: Se la benevoglienza, in quanto idea morale, è circoscrivibile in un concetto preciso, distinto ed adeguato, indipendentemente da ogni altra nozione religiosa o metafisica, è forza sia chiaro: che l’etica, in quanto scienza, non deva né possa assumerla come criterio direttivo di una più o meno gran parte delle costruzioni sue, se non in quel grado e in quella misura, che l’idea stessa, intesa nella sua massima evidenza, lo consenta. E l’etica di fatti ha appunto l’ufficio di definirla, di circoscriverla, e di sceverarla dai concetti apparentemente affini (la simpatia, e la compassione), e di trovarne la più elementare, la più convincente, la più calzante espressione; di là dalla quale è inutile sospingersi, perché ogni ricerca intorno alla benevoglienza cessa di avere ogni significato, dal momento che si abbandoni il terreno proprio dell’idea stessa, cioè i termini che la costituiscono. Determinarne, dunque, gli elementi, coglierne il riflesso interno nella movenza del sentimento, e definirne l’incondizionato valore; ecco tutto l’ufficio dell’etica, in quanto scienza formale del giudizio morale. Se poi dalla nozione astratta della benevoglienza si passa alla deduzione dei doveri e delle virtù, che cadono appunto sotto il criterio del benvolere, è chiaro, che nella esposizione del concetto concreto della personale moralità, l’idea ha di rincontro a sé la grezza materia dei fini egoistici ed immediati, la quale è mestieri vincere, perché si riesca al concetto attuale della virtù. Cotesta esposizione corre fra questi termini: dalla semplice suicoazione, fino alla virtù. In tutto ciò, come si vede chiaro, la religione non entra né punto né poco. Perché è realmente benevole solo colui, il quale abbia il volere abituale (il carattere) ordinatamente conforme alla idea della benevoglienza, che in lui si è

formata via via per la impellenza del giudizio sul volere proprio e sul volere altrui, e che si è stratificata e condensata nell’assiduità del benvolere. Quello che è fuori di tutto ciò, o sta più in giù della benevoglienza stessa (l’egoismo – l’interesse individuale in lotta con l’interesse altrui, con tutti i vizi che ne derivano), o sta più in su della benevoglienza stessa; come accade, quando l’occhio della mente s’affisi nell’ordinamento generale delle cose, e pretenda scorgervi, e vi scorga, bene o male che sia, o non riesca a scorgervi, il fine al quale l’universo è rivolto o si rivolge. Se alcuno però, per essere benevole, volesse prima riuscire a farsi una nozione esatta dell’ordinamento dell’universo, potrebbe arrivare assai ben tardi col suo benvolere e col suo ben fare; perché, se a secondare l’impulso al ben volere ed al benfare, sentisse il bisogno di convincersi in prima che l’opera sua possa o debba essere una necessaria o utile commessura nella fabbrica dell’universo, potrebbe ben differire l’opera buona fino al giorno del giudizio. La bontà del volere non ha nulla a vedere nel corso prospero o infausto delle cose; perché essa, in quanto bontà, non consiste né può consistere nella conformità al fine, in quanto noto o presunto nella infinita serie del processo delle cose; ma recede solo a parte subiecti, fino al punto in cui il giudizio morale (estetico) sul volere definisce incondizionatamente lodevole il voler bene altrui. 3. Se non che la religione accorcia la quistione in luogo di risolverla; perché essa disegna in immagine un ordinamento del mondo, in cui per lo appunto, in una rappresentazione trascendente, combacino bontà morale del volere e rispondenza del volere al fine. Ora, se c’è chi possa sostenere che cotesta supposizione aggiunga stimolo al benvolere; non è chi possa dire che ne accresca o rincalzi in nessuna maniera la bontà intrinseca. Perché, nella ipotesi di una religione che sia semplicemente legislativa, la massima: tu hai da essere benevole perché Dio lo comanda, non ha valore morale che per la prima parte sola, e la seconda accresce sì l’impulso della volontà, ma non migliora né può migliorare la qualità del sentimento morale: del quale la coscienza è ricettiva in quella misura soltanto che le sue condizioni di sviluppo etico consentono. Se invece poi la coscienza in tanto è ricettiva della massima, in quanto il complemento religioso di essa: perché Dio lo vuole, è il solo elemento determinante della suicoazione, la quale è il fondamento psicologico del dovere; in questo caso davvero si è le mille miglia ancora lontani dalla schietta moralità. Perché nessun volere può essere norma morale di un altro volere; e dalla soggezione di un volere ad un altro volere non risulta in nessuna maniera la moralità del volere soggetto. D’altra parte, la concezione di un Dio benevole non suppone per lo appunto la

nozione chiara della benevoglienza? e non sarà essa stessa tanto più pura, schietta ed elevata, per quanto più pura schietta ed elevata la nozione del benvolere? Se per contrario poi la religione si concepisce, non come semplice legislazione, ma come preordinazione teleologica del creato nel creatore; in guisa che la libertà umana s’intenda come un indefinito dirimersi dal primo principio, in una indefinita approssimazione all’ideale etico-religioso: cotesta concezione (la quale per me metafisicamente zoppica) non cambia il punto di vista della moralità; perché questa non c’è che dal punto in cui, di ricontro al volere, sorga la nozione dell’ha da essere. Ora la scienza dell’etica non può andare più in là di questo; che essa, cioè, definisca e specifichi gli elementi dell’ha da essere. Sicché, per venire in fine di questo chiarimento, se l’etica decide su quello che s’ha a chiamare benevoglienza, e su quello che costituisce il carattere benevole, gli è perché la materia delle sue costruzioni è data nelle relazioni del volere, le quali costituiscono rispetto all’attività dell’individuo singolo il tipo, o modello che voglia dirsi, della perfezione; ed una delle relazioni è appunto quella della benevoglienza. Di là dal punto ove la relazione è data, non c’è ricerca legittima sul fondamento della benevoglienza; ed il pretendere il contrario sarebbe quanto dire che ci possa esser luogo alla lode ed al biasimo, fatta astrazione dall’oggetto che si loda, cioè a dire, dal volere. Il che non toglie però, che da questa, come da ogni altra idea morale, si possa riuscire al concetto religioso; perché, mentre da un canto l’esigenza stessa della benevoglienza è uno degl’incentivi alla ricerca dell’ordine e del fine generale delle cose, da un altro canto l’insuccesso stesso del benvolere, di rincontro alla ferrea necessità delle cose, può indurre nell’animo il bisogno di ricercare l’ordinamento generale del mondo, e di raffigurarselo in idea come predisposizione alla riuscita del volere buono. Cosicché, se è vero che la religione ha il suo fondamento in alcuni bisogni peculiari, non può però avere altro criterio della bontà, da quello in fuori che è proprio del giudizio etico; ed è segno certo di pervertimento in un individuo o in un popolo, che i termini di cotesta relazione sieno stati scambiati. 4. Di certo la quistione si può invertire. Perché, in luogo di indagare che cosa sia la benevoglienza, si può andare in cerca dei mezzi mercé dei quali gli uomini possano diventare benevoli. Cotesta quistione pedagogica ha bisogno di un elemento nuovo, altro, cioè, da quello puramente astratto dell’etica formale, perché a risolverla c’è mestieri della cognizione concreta del normale sviluppo dell’animo umano, a fine di potere intendere, se sia necessario o no, che alla produzione della nozione morale della benevoglienza, ed alla formazione del

carattere conforme ad essa, debba concorrere il concetto dell’ordine provvidenziale, e del legislatore assoluto. Qualunque possa però essere la opinione psicologica e pedagogica intorno a così fatta quistione, deve sempre parer chiaro questo: che il ricongiungere la nozione morale della benevoglienza alla rappresentazione della personalità di Dio, non possa, non debba, non sia desiderabile che possa, o debba pregiudicare la originarietà del giudizio morale; per forzare l’animo renitente alla moralità, a riceverla ab extrinseco, come mezzo che avvii ad un altro bene, e sia anche a quello della nozione religiosa o metafisica del fine dell’universo. Tanto colui che vuol bene, quanto colui che fa bene, è forza riconosca che l’ordine universale delle cose è troppo grande, perché si pieghi sempre al nostro volere. Ma, o che egli riesca a riconoscere in cotesto ordinamento la presenza della provvidenza, o che si rassegni a non osare d’indagarlo, dovrà sempre essere persuaso di questo: che l’indirizzo religioso o teoretico della mente non può aggiungere alcuna minima parte di valore alla moralità del benvolere. Napoli, 20 luglio 1873

DEL CONCETTO DELLA LIBERTÀ STUDIO PSICOLOGICO [1878]

Carissimo prof. Bodio, Voi leggeste, ora è già qualche mese, un mio libro stampato a Napoli nel 1873, nel quale si tratta della libertà morale per molti aspetti, e si tocca anche della statistica; e mi pregaste di scriver qualcosa pel vostro Archivio, che fosse come il compendio delle mie opinioni su tale argomento. Foste così gentile e così insistente nel chiedere, che io mi trovai impegnato prima che avessi avuto, direi quasi, tempo da pensarci; del che ora in qualche modo mi dispiaccio, perché, se è di pochissimi il saper rendere attraente la filosofia, io non sono nel numero di costoro, e temo perciò che questo articolo sia per riuscire noioso a molti lettori dell’Archivio. Voi direte certo di no; perché avete l’abito di tutti gli animi gentili, di portar cioè, giudizio assai favorevole su’ vostri amici. Del resto della questione, cioè della statistica morale, fo conto di occuparmi quanto prima in altro articolo1. Roma, 26 maggio 1878 Vostro A. L.

A SEGUIRE l’andazzo, converrebbe che io cominciassi a dirittura dall’organismo, dagli elementi varii della sua composizione, dalle funzioni che gli son proprie, dalla maniera di sviluppo, ond’esso viensi a mano a mano costituendo. E che parlassi dei muscoli striati e dei lisci, e del come gli uni e gli altri siano variamente distribuiti; e dei nervi di moto e di senso, e donde comincino e dove mettan capo; e per ciò del cervello ancora e del midollo spinale, e per che rispetto l’uno e l’altro insieme differiscano dal gran simpatico. E messomi su quell’andare tirar poi fuori tutta la fisiologia sino in fine! Né dovrei tenermi pago d’esserne in qualche modo pratico e di dar saggio della mia perizia, quale ch’essa siasi, ma lodare, anzi magnificare le scienze naturali, e, per maggior risalto dell’eccellenza loro, buttar giù la metafisica come usa d’un cencio vecchio; e, cacciando Darwin in principio, in mezzo e in fine, rifar l’uomo ab origine con la scimia, e la cernita, e gli abiti di accomodazione e l’atavismo2 Ma faccio subito punto per tema di non cascare in polemica. E mi preme di dire che non è questa la via, che conviensi a me di tenere; non già perché mi piaccia di pigliarne un’altra così per elezione, o per ispirito di sistema, ma perché le questioni scientifiche, non altrimenti che le altre cose tutte del mondo, han la lor propria indole e natura, che non si può venir mutando e rimutando a capriccio per amor di novità o per inclinazione di moda. Né si creda che io abbia in dispregio alcuna scienza, né alcuno dei metodi, di cui si giovano o cui si attengono; o, che io pensi che la filosofia segni non so che altezza dello spirito, dalla quale non sia poi lecito di discendere nelle basse sfere dell’esperienza. Ma tengo semplicemente alla massima tanto antica, e pur sempre vera e tanto calzante, dell’age rem tuam; la quale, non che degna di rispetto per chiunque voglia vivere in qualche modo da galantuomo, può servire agli scienziati di opportuna avvertenza, perché non divengano ciarlatani e guastamestieri. Ed a pigliarla poi per la più corta, a me sembra che chiunque discorre di muscoli lisci e di striati, di movimenti riflessi e di volontarii, e di tutte le consecutive differenze dei varii abiti, che da tali prime condizioni derivano, assuma per l’appunto qual nozione presupposta quella della volontà, come di causa, dirò tanto per ispiegarmi approssimativamente, spirituale e psichica. E mi par perciò eziandio chiaro che chi pigli ad esaminare cotesta causa nella sua estensione, nel suo valore, nelle sue modalità e nel suo svolgimento, pur avendo riguardo alle occasioni, che prime ne suscitano nella mente il concetto, debba al tempo medesimo riconoscere i limiti di cotali occasioni, per non confondere problemi e metodi, fra i quali corre non piccolo divario. E qui temo che i così detti spiritualisti possano, chi sa mai, mostrarsi lieti della

mia confessione, ed impromettersi che, tenendo io dalla loro, sia per accampar dio sa che occulte e misteriose qualità dell’anima, che valgano come di argomento per mettere in salvo la responsabilità e la moralità; perché è loro usanza, che di cose così universalmente suggerite dall’esperienza e dal sentimento assumano la difesa e il patronato, come avvocati e come protettori. Non so in verità se la mia persona parrà loro da tanto, che meriti la pena d’esser guadagnata alla causa, che calorosamente sostengono, se pur non sempre da valorosi; ma per torli al più presto d’impaccio, m’affretto a dire che i miti, che pur mi piaccion molto nei poeti, massime se antichi, mi fanno grandemente uggia nei filosofi, specie se moderni, e che cotesta scienza che vantano è, a mio credere, della mitologia bella e buona. I muscoli, in verità, e con essi i nervi, e poi i ganglii e poi il cervello non mi dan ragione della coscienza, del sentimento, dell’appetizione, dell’elezione, della volontà e così via; ma a credere che di tutte coteste ed altrettali cose s’intenda di molto e meglio a buttar lì le parole di anima e di facoltà spirituali, ci vuole della buona fede grandissima; e, quando questa faccia difetto, ci vuol dell’altro, che è peggio. Perché l’anima sarà bene un concetto cui si giunge a dar valore di entità e di sussistenza per via di lunga e laboriosa argomentazione, che venga tratta dall’insieme dei fatti interiori e dai loro rapporti; anzi, a rimuovere l’espressione dubitativa, l’anima è ben qualcosa di reale. Ma a scienza fatta però, e non così alla prima; perché non è un dato d’intuizione e di esperienza, non una forza di valore noto od assegnabile per esperimento; non è, insomma, tutt’una cosa col noi o con l’io, che assumiamo come termine di relazione nel definire la vita interna e nel contrapporla a tutto ciò che chiamiamo corpo e mondo esterno: ma sì la sostanza o il subietto di scientifica escogitazione, cui diam valore di sostrato per rispetto a quella molteplicità ed a quella vicenda d’immagini, di fantasmi, di ricordi, di appetiti, di volizioni, in cui consiste il sentirci abitualmente presenti a noi medesimi. In cotesta molteplicità e in cotesta vicenda è la materia prima e certa che la psicologia deve chiarire, analizzare e ridurre a spiegazione. Ma non così come fanno gli spiritualisti, i quali assumono la generalizzazione del fatto qual precorrimento formale ed incondizionato del fatto medesimo, e dando a quello che nella loro mente chiamano potenza il carattere della realtà, ragionan poi così: ecco, il volere è qui, e lì è l’intelletto, e più in qua il senso e più in là l’immaginazione, e poi l’una cosa opera su l’altra e talvolta s’accordano e tal’altra lottano, ma tutte poi si contemperano e si armonizzano. Ed alcuni quasi credono d’aver descritto un Olimpo spirituale, senza avvedersi d’avere a fare con potenze ribelli ad ogni freno di legge, appunto perché create da una fantasia ex lege. Ma lasciamoli pur stare; ché sono il più delle volte ingenue vittime di sé medesimi, e perciò, senza addarsene, rendono meccanico quello che vorrebbero

idealizzare ad ogni patto. Ma si dirà: se non siete né naturalista né spiritualista, come tratterete voi il vostro argomento; cioè come potrete discorrere e del volere e della sua natura, ossia della libertà? O si è con quelli che tengono per l’assoluta antecedenza della facoltà, o si è con quelli che tengono per la pura conseguenza delle cause fisiche; questo è il dilemma. Ed io dal canto mio rispondo, che se l’interrogatore non avrà fretta e se avrà anche pazienza di leggere, potrà vedere che qui non c’è proprio bisogno di cotali dichiarazioni o di cotali professioni di fede, come quelle che usa in altro genere di questioni. E di fatti se io dicessi che sono empirista, dovrei poi diffondermi in molti particolari di chiarimento, per mostrare come empirismo non possa voler dire maniera di pensare, ma solo maniera di procedere nel ricercare; né possa essere inteso quale applicazione pura e semplice di un angusto canone d’investigazione e di riprova, ma sì invece come una certa cautela logica a non accampar problemi incompatibili con la natura dei fatti, e non suggeriti dal bisogno di venirli spiegando entro i limiti del pensiero. Ma quante volte poi la spiegazione non va più in là dei fatti medesimi? e ciò non è facile di mettere in chiaro con due parole di programma logico e metodologico. Or quello che noi – e dico di me e del lettore – dobbiam qui ricercare, non è la libertà intesa in genere come causa, efficienza, facoltà o formale precorrenza degli atti volontarii, ma questi, proprio questi atti medesimi, in quanto assumano il carattere peculiare a volta di liberi, a volta di non liberi, entro certi limiti e in un certo modo; e quindi il perché e il come di tutto ciò. E per atti non s’intende soltanto quelli, che susseguono alla volontà dalla deliberazione in giù, ma quelli precipuamente che son più in dentro, che precedono cioè la volontà dalla deliberazione in su. E, poiché l’esempio giova il più delle volte alla chiarezza di una posizione scientifica, comincerò da un fatto concreto e determinatissimo; e a non trarlo dal passato per artificio di combinazione memorativa, mi fermerò primieramente ad esaminare la mia presente condizione di persona, che opera volendo. Io incomincio a buttar giù, anzi a scarabocchiare un articolo da rivista, sopra di un argomento scientifico, che m’è abbastanza familiare. Faccio perciò poca, o quasi nessuna fatica, perché mi accingo a mettere in carta pensieri già più volte discussi e vagliati, sia che studiassi, sia che ragionassi con me medesimo o con altri; e mi preparo ad isvolgerli precisamente nell’ordine che ho ideato già un tratto innanzi di pigliar la penna. Io ho voluto, insomma, scrivere, ed ora compio, operando, un atto già disegnato nella mente. Nel mio disegno è una varia e complessa tessitura logica di pensieri, già ridotti

nei limiti ed alle forme, che convengono ad un genere particolare di composizione. Ma quello che fa sussistere il disegno non è solo negli elementi logici, grammaticali e materiali, che occorrono alla trattazione; perché tutti cotesti elementi son tenuti fermi e si trovan ricollegati tra loro in una forma particolare, appunto per via del proposito che io ho di tradurre il mio interno in operazione esteriore, che acquisti carattere significativo per l’arte dello scrivere. In ciò è la somma del mio modo d’essere in questo momento; di quel modo d’essere, per cui io sono in funzione di operare come persona, che si governa volendo. E il mio modo d’essere, appunto perché complesso, si presta all’analisi. Studiamoci di farla. Io seggo perché n’ho bisogno per la operazione che ora intraprendo; e, sedendo, io conservo il mio corpo in una particolare condizione di equilibrio, in cui certi movimenti son possibili con una certa determinata quantità di energia. Nel muovere la mano io la conduco per varie direzioni, governate dalle immagini di quei segni che a me conviene di usare a significazione dei miei pensieri. Or codesto dominio del corpo, se ben ci si pensa, non è per nulla fondato sulla cognizione né di quello, onde il corpo medesimo è composto, né delle funzioni che son proprie delle parti e del tutto, ma sì sul sentimento complessivo che lega le sensazioni organiche alle muscolari, e tien ferme e coordina quest’ultime in servigio delle rappresentazioni. Il corpo, che in sé medesimo è tutt’altra cosa che una macchina, per me, per rispetto al mio disegno, funziona come macchina, né più né meno di così; perché con l’atto della deliberazione io me ne impossesso e me ne valgo come d’istrumento familiare a me per l’uso, ignoto però nella struttura. Due soli punti mi son chiari in tutto ciò: dall’un capo, cioè il mio disegno, dall’altro capo la traduzione che ne fa la mano in movimenti ordinati; ma io operando non so nulla di tutto quello che accade di mezzo. Avrà qui alcun valore il concetto della libertà? ed è il caso di servirsene a designare un fatto od un fenomeno, che dir si voglia, di natura peculiare? Il disegno che io ho in animo di recare in atto, non è, come dicevo, un semplice concatenamento di dati materiali della conoscenza e di formali rapporti logici e grammaticali; giacché di simiglianti riconnessioni dei pensieri mi accade di farne soventi, anche quando io mediti, o ripensi alle cose meditate, o discorra e conversi e discuta con gli altri, senza avere in animo il proposito di comporre una scrittura. E qui gli è per l’appunto un proposito che governa, modera ed ammoda la riconnessione dei pensieri, in quanto che li riferisce ad atti di esterna esecuzione, nei quali io sento e percepisco me medesimo, come quello che pone a sé un fine, e ne cerca i mezzi, e, presupponendo in qualche modo di raggiunger quello per via di questi, si afferma deliberato a fare. Or questa circostanza, che

cioè gli elementi tutti del disegno, pur esistendo altrimenti in me in altro tempo ed in altre condizioni, ora assumono una maniera di coordinamento, che dicesi proposito di scrivere, definisce nel suo aspetto più generale la volontà, come atto di deliberazione. Cosa è dunque che specifica la natura di questo atto, che riposando nei pensieri, onde risulta, non consiste soltanto in questi medesimi pensieri, quando si voglia intenderli tale e quale come semplici pensieri? Nel fatto stesso c’è una prima avvertenza. La volontà, che io sappia e che io possa sapere, non nacque in me tutta ad un tratto, né mi si rivelò come forza di scatto o di esplosione, né mi apparve qual congegno che pigliasse ad elaborare la materia della mia conoscenza. – È lì tutta di un pezzo, sì: ma come un tutto che ha dentro di sé un qualcosa, che io in altra circostanza chiamo o desiderio, o appetizione, o bisogno; come un tutto che ha, e di dentro, e di sopra, e d’intorno a sé, più altre cose, che io chiamo, o riflessione, o elezione, o consapevolezza, o accorgimento o in altri ed altri modi. Che cosa mai son tutti codesti fenomeni, che m’è giuoco forza di designare con parole, che mentre chiariscono offuscano, mentre rivelano occultano? e c’è poi modo di esprime in concetti la vera natura, o essenza che dicasi, cansando così e le ombre e i chiaroscuri del parlar comune, sempre vario, multiforme e perciò d’interpretazione dubbia e mutevole? Perché se ciò è possibile ci sarà ben la storia naturale del fenomeno, e ci sarà poi modo di sceverare in esso il nocciolo dalla corteccia; se pur non è vero che al mondo niente è l’uno o l’altro separatamente, ma tutto è l’una e l’altra cosa insiememente. Ed ecco un ricordo, cui posso appigliarmi come a mezzo di orientazione. Una certa inquietezza era in me prima che io mi fossi risoluto a scrivere; e in quella inquietezza era del travaglio e del lavoro; se non che, come appena questo veniasi precisando, quello perdeva di efficacia e di evidenza. Dei termini di relazione, pare almeno, non mancano, i quali mostrando come il medesimo fenomeno corra per varie forme e gradi accennano in certa guisa al concetto della trasformazione; e se questa si avvera e si prova, vuol dire che la volontà non sarà una potenza originaria di valore costante, non un semplice trapasso subitaneo dall’inerzia all’energia, ma una tal quale maniera di combinazione di quei medesimi elementi, che appariscono altre volte nella coscienza in altre svariatissime condizioni. Importa perciò di fissar bene il primo apparire di quell’interno travaglio, che ci rende inquieti, perché si possa vedere in che modo esso vengasi via via attenuando, per trasformarsi da ultimo nella precisa deliberazione. Senza di ciò la parola libertà sarà vuota d’ogni senso; non potendo essa allogarsi altrove, che nello spazio che intercede fra l’inquietezza e la deliberazione.

Ma per non perdersi nell’indefinito bisogna tornare all’esempio, e fermarvi su l’attenzione per un tratto ancora. L’esame che facevo poc’anzi e che faccio tuttavia mi è reso agevole da quella condizione dell’animo, che diciamo tranquilla, perché né gli affetti ci turbano, né gli appetiti ci sollecitano, né il bisogno è così prepotente da indurci ad atti inconsiderati, precipitosi ed inevitabili. La stessa operazione dello scrivere, in cui si va attuando il mio disegno, limita poco o quasi niente affatto la mia capacità di riflettere su me medesimo; perché gli è una pura e semplice applicazione meccanica dell’abito acquisito, di cui non avvertirò la gravezza se non ad un certo punto, per l’esaurimento delle forze impiegate nell’esecuzione, quando cioè, mi sentirò stanco. Quello che chiamiamo organismo è adunque, come a dire, meccanicamente preordinato a servir d’istrumento alla volontà; il che fa che a volizione matura noi accolliamo al corpo l’esecuzione degli atti interiori in linea di svolgimento fisico, e, pur governandoci con un sentimento complesso della nostra signoria sul corpo medesimo, nulla sappiamo dalla sua maniera di funzionare. Se non che, cotesta correlazione di movenze psichiche e di fisiche operazioni non è fin dal nascere proprio così, come appare al presente; che anzi all’incontrario, soggetta com’è a condizioni di sviluppo, si forma poco per volta, dapprima per accidente, e poi per particolari esperienze, finché da ultimo si fissa negli abiti multiformi del vivere. E conseguita da tutto ciò la prima maniera di libertà; se pur piace di significare con questo nome l’uso che facciamo del corpo, come di organo esecutivo della volontà: il quale uso s’acquista per via degli adattamenti e delle esperienze, che per noi ed in noi si vengono formando, quando non siamo ancor capaci di riflessione, ma solo di movenza fantastica ed appetitiva. I giuochi dell’infanzia, non paia detto per celia, sono il primo principio e il primo fondamento di tutta la serietà della vita; come quelli che, servendo d’immediata scarica e di sfogo naturale alle movenze interiori, danno via via luogo a varii atti di accorgimento, e ad un lento trapasso da una in altra più complessa forma della consapevolezza. Al colmo di questa nasce poi l’illusione che il dominio acquisito sia originaria potenza e causa costante di quei visibili effetti, di cui s’ha e noi e gli altri l’evidenza obbiettiva nelle operazioni. Di cotesto dominio di noi su noi medesimi, ossia della interiore movenza sulla mobilità del corpo, l’esperienza ci mostra varii gradi d’incremento e di decrescenza, varie maniere d’intreccio e di correlazione con altre ed altre forme della coscienza e dell’esistenza, dalle quali modalità derivano sentimenti di stato normale e di stato anormale, a seconda che cambiano con l’età e col tempo a periodi o a salti le condizioni generali e particolari dell’organismo e della

fantasia. I dati di quei varii rapporti son quasi sempre analizzabili, ma non così i rapporti medesimi; per cui noi, oltre ad essere individuati in natura, cioè agli occhi d’un che ci osservi e ci esamini, ci sentiamo pur tali per noi medesimi, ma immediatamente sempre. La mediazione è di là dai limiti della coscienza. In così varie forme e in così varii gradi del dominio di noi su noi medesimi, la libertà, se così vogliam chiamare l’immediata sintesi dell’individuazione, non è indefinita, anzi limitata dalle condizioni del corpo, che riflette, a mo’ di dire, i suoi contorni nella coscienza, e ne limita la virtù operativa, circoscrivendola entro i termini della capacità fisica. Ed atti come siamo ad impossessarci di alcune forze naturali, come di prolungamenti e di ampliamenti della capacità fisica dell’organismo, noi ci avvezziamo via via al lavoro; il che delimita per ciascun uomo in particolare il campo entro del quale può muoversi liberamente, ossia con accorgimento chiaro di quel che al presente fa, o che saprà e potrà fare in altro tempo e luogo. Ma sarebbe grave errore a credere che la libertà del fare sia una e medesima cosa con la somma delle operazioni nostre e degli altri, che tuttodì cadono sotto l’esperienza. Perché esaminando e i nostri e gli atti altrui, quelli cioè che formano il complesso dell’esistenza operativa, è forza confessare che la libertà d’ordinario degenera in abito meccanico, onde si divien poi capaci d’impiegare le forze acquisite, senza far ricorso a deliberazioni peculiari, che costino energia volitiva, evidentemente spiegata e spesa. Il dominio dello spirito primieramente sul corpo, e poi su tutto quello ancora, che è come prolungamento ed ampliamento del corpo stesso, meccanizzandosi nell’operazione ordinata dà luogo all’arte, all’abito, alle costumanze, al coordinamento sociale del lavoro, le quali cose tutte sono altrettanti vantaggi del vivere civile, consistenti principalmente nel fatto che l’esercizio dispensa un po’ per volta dallo sforzo della deliberazione. Né sarebbe perciò appunto inesatto l’affermare, che per rispetto alla somma delle operazioni cotidiane la libertà del fare è il più delle volte d’un valore puramente eventuale e presuntivo. Ma perché noi, pur non usandone, ne conserviamo vivo il sentimento per la memoria dei primi tentativi, che costarono sforzo e per la riflessione, che portiamo sopra di noi medesimi, quando confrontiamo le varie operazioni, cui ci tocca d’attendere in varie circostanze, ci affermiamo liberi in genere; il che è quanto dire che diciamo d’esser tali, prescindendo dalla necessaria sequela degli atti in cui consiste l’abito. In ciò, pare a me, è da cercare l’origine psicologica di quella falsa generalizzazione, che trovasi come a capo di tutte le opinioni e di tutte le teorie, le quali fanno del concetto astratto della possibilità un punto fisso, una forza certa, un movente

originario, assoluto, incondizionato, che chiamano arbitrio. In tali limiti s’aggira la libertà operativa o del fare che voglia dirsi, che, cieca nelle origini, più tardi si naturalizza nell’abito, e nei punti intermedii corre per variabilissimi gradi di chiarezza e di evidenza. Dal che sarebbe agevole dedurre non poche conseguenze di grande importanza, fra le quali queste due sopra tutte le altre notevolissime: che cioè i meriti e i demeriti son di fatto assai minori di quello che non paia; e che l’energia morale, per quanto intensa, profonda e radicata, non può mai né vincere, né superare, né eliminare l’oscuro fondo della natura, cui deesi primieramente accomodare per tradursi in operazioni esterne, e in cui assai di soventi s’adagia come in meccanico sostrato dell’abito e del costume. Ma in che cosa mai consiste codesta energia morale, che, per non confondere il fatto generico col caso speciale, vuol dirsi più correttamente libertà interiore? E come, e quando, e per che vie, e in quali forme si manifesta, e per quali gradi corre e si svolge? Qui è il più riposto e il più difficile della questione. Ed anche qui la moda vorrebbe la parte sua, giacché è oramai costume che di nulla si parli se non con la storia alla mano; e poi dio sa che storia! Difatti a cosa mai giova il mettere come in ischiera le varie opinioni e i varii concetti relativi ad una determinata questione, se non si è prima in grado di assegnare e di quelle e di questi i motivi e le origini; il che del resto costa non piccola fatica, se pur si riesce. E per ciò i più si accontentano di tenersi alla comune denominazione, e senza badare ai tempi, alle circostanze e alle diversità del linguaggio e delle scuole, raccolgono opinioni varie, come se facessero serie da sé per la sola omogeneità dei termini. Il metodo corretto della scienza richiederebbe il contrario; cioè dire prima la chiarezza dei concetti e poi la loro storia: ma del resto non è questo il luogo per simili discussioni, e perciò torniamo al fatto nostro. Discorrere della libertà del volere gli è ben altra cosa che assegnare i limiti della libertà di operare. In quest’ultima la volontà c’è qual semplice presupposto, e perciò di quello che siasi per sé medesima si sa poco o nulla. Oltre di che, la volontà stessa può concepirsi in maniera che l’operazione esteriore non le aggiunga né le tolga nulla d’essenziale; massime se si ha unicamente riguardo alla compitezza formale del disegno, guardato nell’insieme e nelle parti. Ma è poi la volontà qualcosa di così semplice e di così immediato come parrebbe a far giudizio dalla parola? – Non sembra così: se pur si considera che ora la designamo come libera or come non libera, talvolta come morale talaltra come immorale, e che con tali indicazioni accenniamo a non ammetterla come indirizzo, o forza, o movente costante, ma sì come funzione complessa, il che è

quanto dire correlazione di elementi. In fatti, in fondo ad ogni nostra particolare affermazione, che concerna la volontà, c’è sempre il sentimento, che la sua nascita sia in qualche modo legata a condizioni del tutto speciali; anzi, appunto perché noi passiamo di soventi dalla considerazione teoretica delle cose alla pratica attività e viceversa, la volizione ci si para innanzi come fenomeno determinato. Che se mai di ciò si volesse avere una prova palpabile, si pensi per poco a quei due stati estremamente opposti della vita, quali sono l’esecuzione meccanica dall’un canto e la pura meditazione dall’altro. Ridotti codesti due stati a serie assoluta, in cui non abbia luogo alcuna alterazione o discontinuità, il concetto del volere sparisce; perché non v’ha più nulla che interrompa o faccia intoppo alla monotonia dell’operare ed al fluire del pensiero. Ma in quella vece noi non persistiamo in nessuna di quelle due condizioni se non per un certo tempo determinato, e per ciò sappiamo d’essere alcuna volta in istato di volere. Difatti, senza la percezione particolare del nascimento delle volizioni a rincontro dell’operazione meccanica e della semplice meditazione, non sorgerebbe in noi il concetto empirico della volontà in genere, e la ricerca scientifica essa stessa mancherebbe d’ogni fondamento. E perciò torniamo all’esempio. Gli oggetti tutti che or trovansi raccolti nella mia stanza, furono già una volta da me appetiti e voluti ad uno ad uno, perché io potessi, e ricercarli, ed acquistarli e farli miei. Ma in questo momento, che ho l’animo tutto rivolto a scrivere, non ve n’ha pur uno, che io voglia o appetisca. Quando io per poco cesso di scrivere per riposare, il mio occhio vi scorre su tranquillo, e se accade che io porti l’attenzione or su questo or su quello, m’è dato di percepir di tutti e le forme e il colore ed il collocamento; alle quali cose s’associano varii sentimenti, che hanno origine dalla maniera in cui gli oggetti medesimi sono disposti al presente. Io posso, senza nulla appetire, rappresentarmeli distintamente e provarne un vario effetto di gradevoli e sgradevoli emozioni. Termini già un tempo di appetizione, or giacciono innanzi a me come nuda materia della percezione e della riflessione; il che però non toglie che da un momento all’altro possan ridiventare appetibili, se m’occorre d’usarne. Di qui la prova di fatto che l’appetizione, senza esser la medesima cosa che la rappresentazione, sia che questa s’associ al sentimento, sia che ne rimanga disgiunta, non ha mai luogo dove degli oggetti non ci facciamo una certa rappresentazione, associata ad una certa maniera di emozioni. E alla prova. – Se mentre attendo al mio lavoro mi vien meno per caso la chiarezza del ragionamento, sia per difetto nelle nozioni che io creda d’aver già raccolte ed elaborate convenientemente, sia per dubbio sopraggiuntomi in risguardo all’uso ed alla proprietà delle parole, io smetto di scrivere, perché colto

da appetizione nuova. Ma non rimarrò lunga pezza in tale stato, perché di libri n’ho in copia, ed a trarne profitto sono sufficientemente avvezzo. In guisa che l’appetizione, trovando un sollecito sfogo negli abiti acquisiti, che son quelli in che consiste la mia coltura, non mi mette in necessità di deliberare con travaglio d’animo e con energia di volontà. Non così però se, appena sorta l’appetizione, mi si parasse innanzi la difficoltà di soddisfarla, perché riferita ad oggetto lontano da me o non guari accessibile. Ché allora sarei preso da quella inquietezza, che consiste nel sentimento del difetto e al tempo medesimo nella rappresentazione dell’oggetto, dal quale potessi ripromettermi soddisfazione, ma che pur m’apparisse come impedito. Ed ecco quello che più di solito chiamiamo appetizione, per esser le altre così facili a soddisfare, che poco o nulla se n’ha consapevolezza. Date queste prime condizioni, i fenomeni volitivi si svolgono poi grado a grado e si complicano con la rimanente attività interiore; ma non è cosa punto facile il dire precisamente come e in che misura competa loro il predicato della libertà. I dati generali del caso speciale vogliono esser meglio chiariti. Non v’ha obbietto per sé medesimo appetibile, quando non se n’abbia in qualche modo la rappresentazione (ignoti nulla cupido); ma dalla semplice rappresentazione non s’ha ragione dell’appetito. Conviene per lo meno che all’atto incipiente di rappresentar l’oggetto s’associ l’avvertenza di un qualche impedimento, e che il sentimento sia d’inquietezza. E qui proprio a questo punto non è chi possa parlar di libertà, perché da principio noi siamo quel che ci troviamo d’essere; e appunto perché specificati dal sesso, dall’età, dalla razza, dalla naturale capacità, dalle varie forme della vita civile, appetiamo in vario modo ed avvertiamo in noi medesimi una moltitudine di tendenze e di bisogni, che non furon messi in essere né dalla riflessione, né dalla volontà. Ma quel sentimento d’inquietezza gli è raro che vinca l’animo nostro in maniera da farci, come a dire, sprofondare nella disperazione. Perché, oltre alla consapevolezza di quel che ci manca per conseguire una cosa, uno stato, una maniera d’essere, si trovano in noi stessi al tempo medesimo tante altre nozioni già acquisite, formate, chiarite ed ordinate dall’esperienza, le quali, riavvivate che siano, impediscono si cada nell’appetizione passionata, e all’appetizione medesima prestano aiuto, indirizzo e regola. Cotesto abito di riferimento si acquista poco per volta. L’osservazione interna e l’attenzione portata su le operazioni nostre e su le altrui concorrono in egual misura a formarlo. Per ciò accade che la rappresentazione dell’oggetto appetito trovi modo di ricongiungersi a molte altre, che appariscono atte ad agevolarne il

conseguimento; e dall’ordine e dalla disposizione procedenti da tali incontri vien fuori la distinzione fra mezzi e fine. In questo lavorio interno è anche una certa maniera di libertà, giacché, a misura che ci sprigioniamo dalla passività pura e semplice, a misura cioè che ovviamo al pericolo di soggiacere all’appetito senza alcuna reazione, noi ci veniamo man mano elevando a quello stato che diciamo di riflessione e di esame. Di fatti nella riflessione e nell’esame di cotal forma comunissima consiste la libertà umana nel significato più generale della parola; come quella, cioè, per cui siam capaci di raffigurarci l’appetito e di farne argomento di studio, al contrario di quanto accade quasi ordinariamente negli animali; se pur sono in realtà, e tutti, e sempre quel che ci pare e quel che crediamo. E c’è di più ad osservare. La libertà, che invano si cercherebbe nel volere a guisa di proprietà naturale o di necessario predicato, non consiste da principio e generalmente che nell’attitudine a riflettere per poi volere; di maniera che da ultimo si vuole così come si riflette. Il concetto del motivo non ha altra origine se non questa per l’appunto, di esprimere, cioè, in forma universale la varietà degli elementi che, assunti nella riflessione come determinativi, concorrono ad isviluppare la volizione in forma di disegno. Il rapporto di necessità fra il motivo ed il volere, che alcuni levano a cielo come un grande trovato ed altri biasimano come pernicioso errore, si riduce alla fin fine ad una mera tautologia, che suona così: volontà a = alla somma degli elementi che la compongono. Or questa libertà del riflettere, non che essere puntuale, non che esprimere una forza unica e costante a legge data, non che appalesarcisi omogenea in tutti gli uomini, gli è sempre proporzionata alla maniera di vivere di ciascuna persona; né solamente variabile nella quantità, ma di molte e molte specie e forme nella qualità. Per un solo aspetto essa è sempre la medesima in tutti e in ogni circostanza; per questo, cioè, che l’appetito vi apparisce, ora però con maggiore ed ora con minore evidenza, qual processo nuovo al cui svolgimento si può assistere e concorrere, il che non accade nel meccanismo delle operazioni di puro istinto e di semplice abitudine. Ma cotesta, dirò, interiore apprensione dell’appetito è di tali e tante varie maniere, a seconda che son varii gli elementi che la determinano ed a seconda che la capacità di percepire e di elaborare la materia dell’esperienza è maggiore o minore, che gli atti di riflessione si rivelano come indefinitamente graduati e complicati, e perciò pigliano nomi diversi, come a dire di elezione, di deliberazione, di ragione, ecc. Tutti questi fenomeni non s’incontran sempre in ogni atto di volontà, salvo che di questa non si faccia una pura astrazione scientifica. Perciò son molte le illusioni psicologiche, alla cui influenza non è cosa facile il venirsi interamente sottraendo. Facciamo ancora dell’analisi. Senza di quella capacità psichica

universalissima sopra tutte le altre, che dicesi associazione, la riflessione pratica non sarebbe possibile in alcun modo. Ma perché l’associazione, come tutti sanno, è di tante e tante guise, la riflessione medesima è di molti e molti modi. Così, ad esempio, la quantità delle rappresentazioni è varia, e si accumula, e si ordina, e si classifica nelle singole persone in maniera assai diversa. La cerchia naturale e sociale, entro la quale si vive, e le occupazioni, cui abitualmente si attende, influiscono a render varia la qualità delle rappresentazioni. Da questi e da altri dati risultano tutte le indefinite differenze, che per la imprecisione del linguaggio comune denominiamo con espressioni assai vaghe, parlando ora d’indole, ora di temperamento, e poi di carattere, e d’individualità, e così di seguito. In tutte codeste designazioni vi ha un concetto di comune, che cioè il fondo o la materia della riflessione è sempre data in qualche modo dalla esperienza e dalla vita anteriore, a un certo grado di elaborazione, e con una certa classificazione degli elementi in stabili e transitorii, in quelli di efficacia duratura e in quelli di azione passeggiera. Dal che desumesi a ragione il principio che la materia della riflessione può ben mutarsi a gradi nel corso della vita, per via di nuove esperienze, ma non mai soggiacere a repentina innovazione per istantaneo atto di volontà. Sarebbe assai malagevole il voler qui enumerare e definire tutte le particolari forme della riflessione pratica, ma non si può a meno di insistere in quello che ne rivela più vivamente il carattere essenziale. Quando l’appetito è, per dir così, guardato in viso, tutto quello che lo spirito presenta di affine, di analogo, di simile, assume via via il valore di mezzo. L’autonomia della volontà, a rincontro di quel che diciamo passività dell’intendere e del sentire, consiste principalmente in questo, che quando cioè si è in grado di riconnettere all’immagine della cosa appetita parecchie rappresentazioni già familiari per l’uso che ne abbiamo, allora solo si dice voglio, cioè: io farò entrare nella sfera più intima delle mie condizioni interiori quella rappresentazione, che ora mi apparisce come stretta da varii impedimenti, a vincere i quali la mia esperienza mi presta i mezzi. Perciò è falsa la credenza che l’attività e la passività formino termini fissi ed inalterabili di opposizione costante, perché i medesimi elementi possono dar luogo or all’uno ed or all’altro fenomeno. Per cominciare a riflettere è mestieri di rappresentarsi l’appetizione come distinta da ogni altra vaga emozione. L’obbietto che si vuol possedere gli è come assente, e perciò difficile ad avere od a maneggiare; ma pur se n’ha una certa immagine viva e insieme ad essa le immagini delle altre cose che v’abbiano relazione. Per cotali associazioni si forma come un sentimento a volte chiaro a volte oscuro della possibile soddisfazione; ma non mai così vivo ed efficace da rimuovere la coscienza degli impedimenti. Oscillando l’animo per la

rappresentazione del conseguimento possibile e la continua avvertenza degli impedimenti, l’inquietezza vien poco per volta analizzandosi in una o in molte serie di spazio e di tempo, che esprimono in via indiretta la quantità di energia che è mestieri di spiegare per giungere alla soddisfazione. Una esperienza antecedente degli sforzi che fan di mestieri per percorrere quelle serie è indispensabile, perché la riflessione divenga chiara e precisa. Egli è solo allora che si avverte distintamente il fenomeno determinato della volontà, come di un riferimento dell’appetizione all’io; dal che poi accade che il primo impulso, la coscienza degli impedimenti, l’energia che occorre per vincerli e il sentimento piacevole della soddisfazione facciano come uno, sebbene siano per sé forme ed atti qualitativamente diversi e quantitativamente discontinui. Non si ferma però qui la riflessione pratica. Perché assai di rado l’analisi dell’inquietezza si va facendo sopra una direzione direi lineare; anzi il più delle volte si svolge in molteplici elementi disposti in varie serie, a percorrer le quali si risica di cadere in confusione, perché da ciascuna vengon fuori di qua e di là dei rami secondarii, che poi si intrecciano e si complicano fra loro. E per ciò occorre di lottare con nuove difficoltà; il che fa che il contenuto della riflessione pratica divenga in un certo modo più ricco, e che la volontà apparisca di poi, non come semplice svolgimento sopra una linea data, ma come il ridestarsi nella memoria di un primo proposito, riferito sempre ad una possibile soddisfazione, attraverso ad impedimenti svariatissimi. Ma in che consiste quella che dicesi elezione del volere? Il fenomeno per dir vero è già implicito nelle cose dette innanzi; se non che vuol essere più specialmente chiarito. Tutti intendono, per quel che io credo, che l’appetizione, così per sé, non è chi l’elegga. C’è, quando c’è: ed appartiene perciò ai fenomeni immediati, cioè dire, a quelli che la riflessione etica e teoretica può ben preparare indirettamente e di lunga mano, ma non mai porre direttamente ed alla prima. Spesso si svolge sino in fine delle operazioni, quasi ignara di sé medesima, massime nei fanciulli, e negli uomini ancora, quando siano per alcun rispetto fanciulli. Ma data l’esperienza e con essa l’abito del lavoro la coscienza di noi medesimi in quanto somma di condizioni acquisite e di bisogni abituali, l’appetizione si rivela qual fenomeno obbiettivo di valore assegnabile. Egli è allora che non trascorrendo precipitosa in atti di esecuzione, anzi toccando in più punti la memoria, o l’io, o l’animo che dicasi, e suscitandovi l’esame, assume il carattere di una materia, su cui debbasi portar giudizio. Dalla qualità degli elementi, che preesistono nella coscienza e come abiti, e come bisogni, e come massime, e come principii, risultano i varii predicati di quel pratico

apprezzamento, che chiamiamo atto di elezione, cui siam soliti per una quasi necessaria illusione psicologica di aggiustar valore, non che di coefficiente, di vero e proprio efficiente della volontà. Ma qui non si vogliono confondere due cose, che più in là appariranno nella lor vera natura; giacché gli è ben altro che l’elezione si consideri come la forma in genere di quel giudizio, per via del quale ci appropriamo l’appetizione, o che nel definirla si abbia riguardo anche alle massime ed ai principii, che, operando a guisa di remora e di spinta, generano alla lor volta degli impulsi e delle inclinazioni. Se non che vi ha un punto chiarissimo alla prima in tutto ciò, ed è che la coscienza dell’uomo adulto, presa allo stato normale di temperamento equabile, non è mai un canale od una via, attraverso della quale l’appetizione passi e si svolga, direi così per sè, per impulso insito alla sua stessa natura. Due sono le ragioni, per che ciò non accade; l’esperienza anteriore che si converte in sistema di impedimenti; e il fatto ancora che già si vuole o non si vuole in un certo modo per certi bisogni, e per certi abiti, e per certe elezioni già compiute. Cosicché la libertà non solo non consiste nel volere come tale, il che già si disse innanzi, ma nemmeno in quelle riflessioni solamente, le quali preparano alla deliberazione. In tutti gli atti di volizione, già resi abituali, è come una specie di impedimento messo all’appetizione, che per ciò non può sempre spaziare ed espandersi. I propositi antecedenti che, per dir così, assorbirono l’attività interiore, dandole meta certa e sicuro indirizzo, son la vera e propria sede della capacità a reagire contro tutto quello che stia per mettere in forse la serietà acquisita e il tranquillo possesso di una ordinata maniera di pratica esistenza. Da quel che già siamo dipende in gran parte che delle nuove appetizioni siano impedite a tramutarsi in compiuti atti di volontà. Cioè, diventati di un certo modo, siamo per ciò stesso incapaci di diventare altri da quel che siamo; in guisa che in una relativa incapacità di nuova elezione consiste in gran parte l’attitudine a volere ed operare ordinatamente. E se così non fosse, la libertà morale non potrebbe mai avverarsi; e l’arbitrio renderebbe impossibile il carattere, inefficace l’educazione e vuota di ogni senso l’idea del dovere. Al punto dove siam giunti è oramai lecito di indicare alcune conseguenze delle generalità già toccate innanzi. Noi non siam capaci di osservarci interamente nell’età della fanciullezza, e ancor giovani siam poco atti a dominarci, ossia a tenere intero il governo di noi medesimi. Ma diventati poi adulti l’una e l’altra cosa ci riesce agevole. Non sempre, è vero, perché si va pur di quando in quando soggetti ad una certa passività, che esclude l’osservazione ed il dominio interno, per condizioni assai

variabili così dell’animo come delle occupazioni. Ma tutte le volte che non si è assorbiti dal lavoro meccanico, né svagati nelle novità, né passionati per qualcosa di esclusivo gradimento, noi ci osserviamo e dominiamo all’interno, in altro modo sì, ma con la medesima energia con cui osserviamo e dominiamo gli avvenimenti esterni. Cotesto fenomeno frequente, anzi ovvio, dà luogo a false generalizzazioni teoretiche, come se l’osservante e la cosa osservata, non che contraddistinti dalla posizione degli elementi, ripetessero la differenza loro da una originaria qualità caratteristica dell’io, che perciò si ammette come quello, in cui l’osservazione ha naturalmente sede. Ma non è così: ché in verità nessuno sa addurre e provare la esistenza di una qualcosa che faccia permanentemente e sempre allo stesso modo da organo dell’osservazione, e cui stia per ciò a riscontro la variabile materia della conoscenza e dell’appetire, come quella che non abbia altro ufficio se non d’essere osservata. L’esperienza non offre altro alla considerazione nostra, se non la somma delle rappresentazioni e dei sentimenti più specialmente divenuti familiari, che riassunti nella forma dell’io, si contrappongono al nuovo, all’insolito, al non ancora elaborato ed assimilato. Or pure ammettendo che quel certo senso complesso della personale identità, che diciamo io, non si spieghi agevolmente con l’esame genetico della materia in cui si appoggia e in cui consiste, non è poi da credere che a considerarlo come una potenza originaria ci si guadagni gran cosa. Perché quando noi ci sentiamo fatti in due dentro di noi medesimi, e, riferendo le impressioni nuove e gli appetiti nuovi al nostro io, su questi e su quelle portiamo giudizio, e quindi eleggiamo e rigettiamo, l’io non è poi altro se non la somma delle esperienze acquisite, in cui trovasi la materia degli apprezzamenti. Or, data quella condizione complessa di osservazione interiore, per cui di parecchie appetizioni già assimilate e ridotte ad abito diciamo che sono più propriamente nostre, il che poi ci rende facile l’appercezione del nuovo, noi designiamo nell’insieme codesto stato col nome di libertà. Nelle intermissioni della operazione e del lavoro, il sentimento generico della libertà, così intesa, ci apparisce quale attitudine determinata e qual forza d’un certo grado; e per ciò siamo in condizione di sapere quello che in date circostanze sarem capaci di volere e di condurre a termine. Ma quel che tutti non vedono gli è questo, che cioè la libertà qui accennata non esiste che a patto di diventar natura, ossia necessaria ripulsa di quel che all’animo non convenga, per aver esso scelto di già la sua via, e per aver fatta la elezione delle volizioni, in cui abitualmente si dispiega e si rivela. Or codesta natura acquisita, contro la quale bisogna che le appetizioni nuove cozzino con isforzo maggiore o minore per farsi strada, gli è appunto il nocciolo di tutta quella serie d’interiori complicazioni, che diciamo

indole, personalità e carattere. E il più delle volte tutto l’insieme dei rapporti vien designato col nome di volontà, per esser questa come il riassunto degli atti interni, che precedono la deliberazione e la prima spinta alle esterne operazioni. E allora non è infondato il dire che la volontà è libera. Ma come si potrebbe assai di leggieri cadere in errore sul modo d’intendere la natura di tale libertà, è d’uopo aver presenti tutte le condizioni reali, che furono toccate innanzi. Perché essendo la riflessione pratica l’aspetto formale generalissimo della libertà interiore ed essendo la volizione definita un particolare effetto della libertà medesima in ordine alle appetizioni singole, accade naturalmente che, accumulandosi nel subietto più e più maniere di volizioni acquisite, vi si formi come un sistema di tendenze di bisogni, d’impulsi, di elezioni in cui la mobilità spirituale si fissa e direi quasi si naturalizza. E per ciò accade anche qui come per rispetto al dominio sul corpo, che la libertà cioè apparisca come qualcosa di eventuale, e aggiungerei quasi di transitorio, se tal parola non fosse per ridestare il pensiero dell’inefficace e dell’insignificante. Se non m’inganno sin qui è la cosa, il fatto stesso, che è venuto via via rivelandoci l’esser suo. Né importava per fermo di addurre le nominali definizioni della volontà, della elezione, della riflessione e così via: ma occorreva invece di mettere in chiaro le condizioni ed i rapporti, che dan luogo a tali parole ed ai concetti che a queste corrispondono. E per ciò non sarà difficile di assegnare con qualche precisione il valore di altri concetti, che d’ordinario nascono dalla riflessione sul problema della libertà, o che la comune esperienza ci suggerisce e c’impone. L’individualità allo stato immediato, ossia qual somma di volizioni accumulate e rese abituali, è quello che d’ordinario dicesi carattere; se non che pare a me più corretto, o per lo meno più conforme alle intrinseche necessità del linguaggio scientifico di significare con quest’ultima parola un ordine più complesso di fenomeni, di cui si terrà parola più in là. Or quando l’individualità formata e sviluppata già sino ad un certo segno, sia divenuta riferimento stabile delle azioni e dei pensieri alla forma comune dell’io, l’atto della volontà assume i due aspetti della deliberazione e della risoluzione. La volizione determinata, come s’è in qualche modo dimostrato, non è che l’appetizione, resa per dir così consapevole di sé medesima per due rispetti, così perché chiaramente appercepita, come anche perché ricongiunta agli elementi, che, a guisa d’aiuti, valgono a far nascere il presentimento della soddisfazione. Quando si dice: voglio, non si è già in possesso di quel che forma oggetto dell’appetizione, ma si è per lo meno in grado di percorrere e di abbracciare col pensiero in uno sguardo

complessivo tutto un insieme di rapporti, a termine dei quali la soddisfazione si presenta con una certa evidenza. A disegno già fatto noi diciamo d’esser deliberati, perché facendo attenzione allo stato subiettivo dell’animo nostro ci sentiamo in possesso dell’energia che crediamo sufficiente a raggiunger l’intento; e ciò chiamiamo anche risoluzione, perché il nostro calcolo su le difficoltà, che occorre di vincere è fatto circostanziatamente per rispetto al tempo, al luogo ed alle varie resistenze. E da questo punto incomincia quel che dicesi azione, che quando sia rivolta alle cose esteriori, appoggiandosi al meccanismo degli abiti corporei, si traduce in varie serie di movimenti, previsti già tutti in qualche modo, se non per filo e per segno, nell’atto stesso della deliberazione. Delle altre conseguenze si vuole ora venir notando. E primieramente l’attività e la passività non riposano in particolari sostrati o forme della vita interiore, come sarebbe il caso qualora a fondamento dell’una e dell’altra stessero rappresentazioni e sentimenti specificatamente diversi. Se non che il divario dall’una all’altra, sebbene non originario nel senso che è proprio di certe teorie, non è perciò a credere di poca importanza; perché a misura che noi ci andiamo sviluppando internamente, e in pari tempo accomodando alle varie occupazioni, l’insieme delle nostre volizioni, siano attuali, siano possibili, si vien come delimitando a rincontro di tutto quello che è per noi semplice materia di percezione, di osservazione o di meditazione, e che, per ciò appunto, non muove a desiderii di sorta alcuna. Gli è in questa somma di appetizioni precisamente così delineate che riponiamo la personalità, contraddistinguendola da tutto quello che ci accontentiamo d’intuire soltanto e di esaminare, o di lasciar fare agli altri secondo il gradimento di ciascuno. Nel mondo, cioè dire nella vita pratica, quando si dice io, e tu, e lui, e noi, e voi, e loro, s’intende di designare non l’astratto subietto, non l’identità formale della coscienza, ma la particolare energia in cui consiste la persona e da cui le opere necessariamente scaturiscono. E si parla ancor qui di libertà, anzi è questo il significato, che più generalmente cade in discorso nei rapporti reali della vita, perché la parola vien riferita a quello che ciascuno di noi è, o vuol essere, o crede di dovere e di poter essere per rispetto agli altri. Ma la personalità o l’io pratico, che altri dica, non è da un dato momento in su qualcosa di così costituito e di così formato una volta per sempre da non ammetter più alcuna mutazione; perché in quello che chiamiamo passività, ossia nella percezione, nell’intelligenza, nello studio, nell’esame, nel giudizio, nella meditazione son sempre elementi nuovi, che concorrono a modificare il sostrato della personalità, cosicché l’opposizione fra attivo e passivo corre per molti termini di trasformazione durante la vita, e per ciò non può esser mai considerata

come qualcosa, non dirò di assoluto, ma nemmeno di originario. E qui si dee avvertire che ciò che dicesi responsabilità non d’altronde deriva né in altro riposa, se non in certi particolari rapporti dei fenomeni fin qui sommariamente chiariti. Quando si attribuisce altrui la responsabilità d’un atto già consumato, si cerca innanzi tutto di determinare la quantità di volere che fu spesa nell’operazione, di cui si vedono gli effetti in complesso. Ma si va poi più in là e più addentro di così; perché ove occorra di precisare il valore della volontà, si cerca di verificare la quantità e la qualità degl’interiori processi che primi la misero in essere, e per ciò si ricerca in che misura la riflessione sia stata estesa, prolungata, chiara ed evidente, e quanta e quale la capacità in genere ad eleggere in vista di criterii più o meno precisi, e di maggiore o minore intimità. E perché non ogni atto procede sempre allo stesso modo da un’intensa volontà, che metta in moto tutto l’animo e impegni tutta la capacità del riflettere per un tratto di tempo abbastanza esteso, così la responsabilità apparisce come qualcosa di variabile, anzi di infinitamente graduale e spessissimo per rispetto ai particolari casi non è agevole trovarne misura che sia non che esatta, approssimativa almanco. Or tutti siam capaci di ripetere cotesto processo d’indagine per rispetto a noi medesimi; anzi avendo sopra alcuni punti una maggiore consapevolezza, quantunque di altri ci sfugga assai facilmente la vera natura. Né c’è bisogno qui di diffondersi in particolari. Gli atti volitivi, i quali sian pieni e completi, non isfuggono alla riflessione, per esserne come a dire una naturale conseguenza. E perché l’io, qual formula generale d’ogni riferimento degli appetiti al subietto preesistente, è lì a capo d’ogni atto di volontà, gli è chiaro che la serie dei fatti consecutivi alla deliberazione si presti ad esser poi come ripiegata, e quindi riportata al subietto che ne fu causa. Ma non è poi allo stesso modo, quando si tratti di operazioni, le quali procedano per molto intreccio di conseguenze da una volontà remota che siasi meccanizzata negli abiti, o che abbia per necessità di posteriori svolgimenti fatto nascere un gran numero di nuove e particolari volizioni in qualche modo lontane dal primo e principalissimo fine. Perché in cotal caso l’analisi non si fa che faticosamente, e pur se ne viene a capo, se non con molta precisione di particolari, con qualche evidenza al certo del sentimento complesso che accompagnò le volizioni seconde derivate dalla prima. Gli è qui il caso d’osservare come tra i fenomeni notevoli per gl’indizii che portano in sé medesimi circa la natura della vita interiore, quello della responsabilità meriti particolare attenzione, perché rivela come nell’animo non v’abbia né gradi fissi, né potenze immediate, né stratificazioni di processi, ma in certo modo trasformazione continua, se pur questa parola bastasse a riassumere e caratterizzare i fatti psichici.

Il sentimento della responsabilità fa nascere un nuovo accorgimento interiore e quindi il pentimento; e ciò non solo per rispetto agli atti interamente voluti per prossima deliberazione e poi valutati con qualsiasi criterio di pratico apprezzamento, ma anche per rispetto a quelli che procedendo da volizioni remote, divenute già in qualche modo abituali, dian luogo a tardiva resipiscenza. Per via di cotali ravvedimenti noi ci appercepiamo, cioè riflettiamo sopra le nostre opere e sopra le nostre volizioni con maggiore estensione e con maggiore profondità di criterio, e da ciò procedono quei peculiari impulsi, che possono via via ingenerare il carattere, nel senso più proprio della parola. Che il carattere non sia una condizione naturale e per ciò immediata dello spirito gli è cosa già riconosciuta da tutti quelli che ne levano a cielo l’importanza, come usa dei fatti eccezionali, e insistono perché s’abbia in mira di venirlo formando per mezzo dell’educazione. L’ammirazione estetica che nasce naturale nell’animo nostro alla vista di una straordinaria energia, accoppiandosi al pregiudizio del libero arbitrio, degenera assai facilmente in opinione fantastica; e di qui procede che si sente assai spesso a parlare del carattere come di una qualità miracolosa, che vinca, anzi assoggetti, ogni naturale istinto ed ogni maniera d’immediati bisogni. E per fermo su questo non cade dubbio alcuno, che non s’è uomini di carattere se non a patto di voler esser tali; perché qui si tratta appunto di fenomeni riflessi, a produrre i quali concorrono le più alte e le più complicate energie dello spirito. E per ciò una volontà che miri al carattere come a meta d’ogni suo sforzo non nasce, né in tutti, né in moltissimi; e i più si dipartono dal mondo senza avere il più lontano sentore di così nobile aspirazione. Corre perciò un grandissimo divario dalla mera individualità naturale alla pienezza del carattere nel più alto senso della parola. Ma chi si ferma ai termini estremi della differenza, senza aver alcun riguardo alle gradazioni intermedie, non intende nulla della genesi del carattere; il quale, appunto perché s’avvera in alcuni uomini, non può non avere nella natura umana in genere il suo primo e stabile addentellato, e per ciò non isfugge alla legge generale di causalità. Le forme della vita interna, delle quali s’è data fin qui la sommaria indicazione, sono, per rispetto al carattere, non solo i primi presupposti, ma la materia stessa donde esso si viene gradatamente svolgendo. E di fatti tutto quel che accade nella coscienza pratica, dalla semplice appetizione fino al più complicato sentimento della personale responsabilità, forma oggetto e materia del carattere. Ma non basta; avvegnaché non si cominci ad essere uomini di carattere, se non quando apparisca il proposito di tener ferma una parte di quella materia e di ordinarla poi tutta secondo regole e secondo principii, che facciano

da costante criterio di scelta e da norma di ogni particolare affermazione e negazione. È di mestieri insomma che la materia la quale costituisce l’individualità venga elaborata secondo criterii e norme, che partendo dall’interno, dal subbietto, dall’io, indirizzino e governino le naturali disposizioni. Or donde nasce cotale elaborazione? Di dove si tolgono i criterii, le regole, le norme ed i principii? Perché a credere che alla natura immediata se ne sovraimponga un’altra per atto di arbitrio, o che di sotto alla individualità sbuchi fuori non si sa che attività riposta o trascendente, ci vuol davvero un grande sforzo di fantasia, il che è sempre a scapito della serietà scientifica. Procuriamo perciò d’indicare le differenze. La semplice persistenza in una data maniera di volontà noi la chiamiamo caratteristica della persona, ma non per ciò costitutiva del fatto specifico che si dee designare col concetto vero e proprio del carattere; perché ad ammetter questa nozione c’è di mestieri ancora di una massima relativa alla persistenza, onde la persona operando di proposito si senta capace di reagire contro tutto quello che possa in qualunque modo metterla fuori di via. La omogeneità qualitativa delle volizioni e la corrispondenza di queste ai bisogni ci paiono nell’insieme i tratti distintivi dell’età matura, ma non per ciò l’elemento determinativo del carattere; perché ad ottener questo occorre che l’omogeneità e la convenienza risultino dalla risoluzione di condursi secondo regole per dati fini, in modo che la vita appaia, o come compito da assolvere, o come molteplicità di compiti da coordinare. Quando la volontà già pienamente concepita e disegnata si ridesta attraverso ad una serie d’impedimenti, noi riconosciamo in ciò un elemento importantissimo della elezione, anzi il fondamento d’ogni maniera ordinata di vivere; ma perché il carattere si venga poi sviluppando occorre che un principio sia a capo della memoria volitiva e la determini secondo un indirizzo presignato. Da questi aspetti positivi del carattere risultano anche i negativi, in quanto che nel concetto che ce ne facciamo dee ancora entrare la capacità di negare, di eliminare e di respingere l’opposto alla regola, quello che aliena dal raggiungimento del fine e il contraddittorio del principio. E quando tutto ciò accade, la vita interna si vien come distribuendo per gradi, e ordinando per sistemi, non a caso, anzi per elezione; e noi sappiamo di voler così e così, non solo perché siamo di un certo modo, ma ancora perché ci conformiamo di proposito e con energia ad un certo ideale, cui miriamo, non solo come a meta finale, ma eziandio come a norma infallibile. Or, per non cader qui nel paradosso di una volontà che ponga anzi crei sé medesima, il che poi in fondo non spiega nulla, e per intendere insiememente come tutto ciò accada in virtù delle forme razionali, che consideriamo come

sopra tutte le altre eccellenti, ma pur sempre in via naturale ed in virtù delle leggi generali della vita dello spirito, bisogna entrare in un altro ordine di considerazioni. Col nome di ragione usa ordinariamente di significare il complesso delle potenze superiori dell’animo, mercé le quali, allontanandoci noi, anzi separandoci in qualche modo dagl’istinti di natura immediata e della pura recettività conoscitiva, raggiungiamo un certo grado di interiore eccellenza spirituale, contrassegnata precipuamente dalla piena consapevolezza così dell’opera come del pensiero. Il linguaggio comune distingue ancor di più; poiché alla ragione così astrattamente intesa contrappone la coscienza morale, come quella che più direttamente operando su la volontà ci assegna la meta e l’indirizzo della vita, secondo regole e secondo criterii per ogni rispetto superiori alla passione e all’egoismo. Il più degli uomini si accontenta di così poco; né a torto: poiché, sebbene ei sia fuor di questione che ad un certo punto del nostro svolgimento interno ci sentiamo come distinti in parte superiore e in parte inferiore di noi medesimi, anzi in nobile ed in ignobile, come di cotesto fatto stesso non è poi dato a tutti di ritrovare un’adequata spiegazione, naturalmente accade si ricorra a designazioni puramente nominali, e che di queste altri si appaghi. Se non che la semplice differenza, che come fatto e come indizio non può esser revocata in dubbio, non vale per sé sola a giustificare gli errori, che per avventura procedano da frettolose teorie o da presupposti scientifici punto verificabili. E per fermo nel corso della vita noi non siam limitati a produrre le immagini delle cose, che ci sian fatte palesi dal sensi, e a far poi rifluire su la natura esteriore i movimenti, che siano immediato effetto delle appetizioni nostre. Né siamo nemmanco limitati alla produzione di quegli stati di più complessa natura, che chiamiamo memoria, fantasia, aspettazione, ecc., a quello insomma in che trovasi come raccolta la materia della coscienza. Anzi da cotesta materia medesima si vanno po’ per volta distaccando le molteplici forme di evidenza raziocinativa, di efficacia logica, di ordinamento metodico e di estetica convenienza, che nell’insieme chiamiamo ragione e pensiero; la qual cosa però non accade se non per via di svolgimenti graduali, in guisa che mai ci si rivela l’esistenza di una causa, di un agente per dir così riposto, che sviando lo spirito dalla sua genesi naturale ne capovolga i termini. Il pensiero è così fatto di natura sua che non ci si appalesa mai, né qual vero e proprio incremento di cognizione diretta, né qual nuovo aspetto della realtà; anzi in quella vece qual semplice correzione formale e qual nuova disposizione delle conoscenze già innanzi acquisite, cui per ciò nulla si toglie e nulla s’aggiunge di quel che è materia

propriamente detta. Chi opina in altro modo è costretto a fare dell’hysteron proteron, ossia d’un errore, il canone della logica. Nulladimeno quando si afferma che il pensiero non è da considerare qual facoltà peculiare di conoscenza diretta, non vuolsi con ciò aver detto che alla vita dello spirito non ne venga incremento di sorta alcuna. L’incremento consiste appunto negl’intimi riferimenti delle cose alle forme, per via dei quali lo spirito si va facendo anticipazioni di regole, definizioni di leggi e determinazioni di principii; atti cotesti che costituiscono nell’insieme loro la superiorità della ragione, e, a dirla più esattamente, la libertà sua, perché essendo di pura forma universale sottraggono entro certi limiti l’animo nostro all’influsso dei primi appetiti, che sono immediati e per ciò stesso inevitabili. A due punti vuol farsi principalmente attenzione, cioè alla varietà delle forme, che per non esser tutte ad un modo non pare possan procedere da un primo principio per naturale derivazione; e poi anche alla maniera onde le forme medesime vengonsi sviluppando in atti volitivi, cioè in tendenze capaci di reagire contro le immediate appetizioni. E per ciò occorre di analizzare. E primieramente le riflessioni e le altre funzioni pratiche, di cui si discorse brevemente innanzi, non sussistono in realtà se non in varie maniere di sviluppo e di complicazione, secondo che mutano le interiori condizioni da cui derivano, cioè secondo che nell’animo siano apprezzamenti, intellezioni e atti di pensiero di maggiore o di minore estensione ed intimità. Corre per ciò grandissimo divario da un atto all’altro di riflessione anche nella medesima persona, in diversa età però e in diverse circostanze, e la libertà massima consiste appunto nel poter tenere a molta distanza dall’io l’obbietto appetito, in guisa da farne giudizio per molti aspetti, con tranquillità e spassionatamente. Né ciò è necessario accada soltanto per rispetto ad una certa maniera determinata di appetizioni e di occupazioni, potendo queste in certe date condizioni del processo interiore divenir tutte materia di esame obbiettivo e andar tutte soggette all’influsso degli elementi formali della ragione. Ora gli aspetti di questa sono, non dirò indefiniti, ma molteplici al certo. In due principalissime categorie possono esser ridotti; il che, quando si faccia speciale attenzione alle differenze qualitative dei fenomeni stessi, dà poi luogo alla suddivisione della ragione in pratica ed in teoretica. Di fatti v’ha dati razionali riferibili soltanto alla maniera d’essere e di svolgersi delle cose, ed altri che contengono valutazioni di pregio o designazioni del contrario. Nel primo caso il dato formale distingue il vero dal falso, la causa dall’effetto, il mezzo dal fine e così via; nel secondo caso serve non che a sceverare soltanto, a discriminare eziandio l’utile, il conveniente, il buono, l’onesto dai loro contrarii, il che fa che i concetti così discriminati si dican poi propriamente criterii. Gli uni

e gli altri dati concorrono insiememente, ma non in egual misura, a formare la libertà morale. Poiché, se in astratto è vero che la coscienza intellettiva e la valutativa non sono il medesimo, nei fatti poi concreti della vita questa non esiste mai scompagnata da quella, né potrebbe, per esser molti i casi, in cui la semplice evidenza dell’apprezzamento a nulla giova senza il concorso del pronto e sicuro riferimento logico delle operazioni alle forme. Cosicché le due specie di ragione s’immedesimano nell’atto pieno e completo della morale elezione. Ma, per rimanere nei limiti del mio assunto e per venirne a termine con qualche brevità, sarà bene che io mi fermi a considerare sommariamente le condizioni speciali della ragion pratica, pretermettendo quelle che son proprie della ragione teoretica esclusivamente. La materia cui la ragione pratica si riferisce è propriamente quella del volere, la cui nozione sia stata già in qualche modo astratta dalle altre emozioni e ridotta in qualche termine di chiarezza. Viensi essa sceverando per via di ripetute esperienze di quello che abbiam fatto, o siam prossimi a fare, e di quello che vediam fare agli altri. L’intelligenza vi si può esercitare come in ogni altro obbietto, il che accade per l’appunto, quando ci limitiamo ad esaminare semplicemente il fine e l’energia di una data volontà, senza aver riguardo ad estimazione di sorta. Ma come appena l’apprezzamento siasi rilevato, si vede tosto che implica di necessità dei sentimenti varii di gradimento e di spiacenza, assegnabili tutti per chiarimento, punto dimostrabili con argomentazioni. Corrono cotesti apprezzamenti per varii gradi a cominciare dal puro piacere che insieme al contrario è implicito nelle primitive sensazioni e nei loro più semplici aggruppamenti, fino alle idee morali ed estetiche che sorgono a rincontro di alcuni determinati rapporti della volontà, come norme da cui s’originano impulsi e ripugnanze. I gradi stessi son contrassegnati dalla maggiore e dalla minore distanza che intercede fra la materia del volere e gli atti d’interna apprensione valutativa: essendo quella alcune volte così legata a questi, che non è facile tenernela separata, ed altre volte poi così ben distinta che, pur mutando essa stessa nei suoi particolari aspetti, all’apprezzamento in genere rimane sempre il medesimo carattere di norma infallibile. Si faccia a mo’ d’esempio attenzione alle note che contraddistinguono il conveniente estetico a rincontro del piacevole, che diciamo sensibile, e poi a quello onde l’uno e l’altro diversificano dall’utile. Del piacevole propriamente detto non è dato a noi di renderci conto se non presenti le cose che ne suscitano nell’animo il sentimento, e, rimanendo esso necessariamente congiunto a queste, non si può mai, non che universalizzarne, nemmeno astrattamente esprimerne la nozione; come a fuggire il contrario occorre di evitare le cose, che sian capaci di

produrre in noi una dolorosa impressione. Non accade così del conveniente estetico, il quale, pur consistendo in alcuni particolari rapporti delle cose che ci rappresentiamo, dà luogo all’astratta nozione formale dei rapporti medesimi, e perciò a criterii generali che seguono la misura ed il valore degli obbietti materialmente mutabili. Egli è perciò che possiamo volerlo e ricercarlo, perché è di natura tale da governare la maniera della nostra concezione e l’opera che da questa conseguiti. Quando poi si faccia attenzione al concetto dell’utile, si vede subito come esso sia onninamente subordinato all’esistenza di un’appetizione, perché niente dicesi utile se non in quanto sia mezzo per raggiungere un fine, cui la volontà sia stata già indirizzata ed applicata. Il che importa che tal nozione non si ottiene se non da una tranquilla considerazione di quegli obbietti che in certe determinate condizioni di tempo e di luogo possono servire al raggiungimento di un fine, a procacciare cioè una soddisfazione presegnata già dall’atto della volontà. E per ciò appunto l’utile è relativo, ma in maniera diversa dal piacevole puro e semplice, perché non manca dei caratteri della universalità e non è immediato come questo. Ora le forme della valutazione pratica, di cui s’è voluto addurre qui un qualche esempio, appunto perché molteplici e di vario grado, impegnano assai diversamente le funzioni dell’animo, di cui si tenne parola innanzi dall’appetizione in su; offrendo loro in modi assai varii criterii, regole, spinta e mezzi di riprova. Ed essendo forme, proprio, così e non più che tali, assumono via via, ma necessariamente il carattere di predicati per rispetto a quelle appetizioni le quali, per non esser passionate, dian luogo all’esame e divengano materia di giudizio. In questi sommi capi consiste il fondamento della volontà razionale, della quale però rimane a dire così per la natura in genere, come per le principali conseguenze. S’è accennato qui innanzi ai riguardi di convenienza estetica, come a quelli che più direttamente rivelano un’idea di pregio capace d’ingenerare nel subbietto una libera adesione non turbata da interessi appetitivi. Ora le idee morali, delle quali non si può qui di certo discorrere con l’estensione che all’argomento si converrebbe, sono per l’appunto forme di cotesto genere, cioè tali che necessariamente nascono a rincontro di certe determinate relazioni del volere e al riprodursi di queste anch’esse si riproducono, movendo l’animo ad una adesione punto logica, anzi di natura affatto diversa. Per la ripetizione di coteste associazioni, delle idee morali cioè con le relazioni del volere, cui naturalmente si riferiscono, vengonsi po’ per volta sviluppando tutti quegli atti d’interna discriminazione, in virtù dei quali le appetizioni ricevono, per via di altrettanti

giudizii dei predicati ora di approvazione, ora di riprovazione, che le riducono come in varie classi. Con la frequente ripetizione di tali giudizii si genera il contrasto del nobile e dell’ignobile, dell’alto e del basso, dell’umano e del bestiale e di altrettali contrarii, cosicché da ultimo la vita interiore rimane come spartita in due gradi, con molte varietà intercalate fra gli estremi di opposizione massima. La discriminazione, che dapprima si applica alle appetizioni già rese potenti dall’impeto naturale delle forze interne e dalla urgenza del bisogno, s’estende poi poco per volta anche a tutte le movenze che preparino di lontano la volontà, cosicché da ultimo con la coscienza del doversi fare e del non doversi fare si precorre di gran tratto al pentimento. Le quali cose non accadono però in tutti con la medesima evidenza. L’attività umana di fatti non procede a fil di logica, per esservi assai frequenti le ragioni dell’occupazione del tutto meccanica, molte le urgenze del vivere cotidiano, e poco men che infinite le illusioni dell’egoismo, dell’amor proprio e della vanità; per le quali ragioni accade poi di soventi che la passione e l’abito ingenerino la sofistica delle scuse e la pigrizia dei tiepidi accomodamenti. Procede da ciò che la luce delle idee morali rischiari più securamente e più prontamente le altrui anziché le nostre proprie operazioni, essendo assai malagevole il ridurre quest’ultime a quella evidenza obbiettiva, per la quale l’animo è mosso agli schietti giudizii di apprezzamento disinteressato. In guisa che non è a maravigliarsi se dal giudizio morale non sempre conseguiti la libertà del volere e dell’opera in quella maniera e in quella misura, che stimeremmo corrispondenti all’indole stessa della ragion pratica. Ma quando la meditazione, e poi l’esame e lo studio di noi medesimi ci mettano in grado di considerare le nostre appetizioni e le nostre opere per quei medesimi aspetti di obbiettività, che agevolano i giudizii su la volontà altrui, allora sì che dall’idea morale procede, non che la tardiva resipiscienza, un preciso impulso anzi un vivo bisogno di antivenire gli appetiti con una forza che sia loro superiore d’intensità e di pregio. E ciò fa che si neghi o si affermi l’appetizione medesima, secondo che corrisponda all’idea o che quella si riveli contraria. Si svolgono poi di qui via via le regole, le massime, le norme, i principii dell’operazione, che non sono in verità atti puramente teoretici, come molti credono, ma bensì volizioni di carattere generale, costitutive di forza or positiva, or negativa, secondo che venga richiesto dalle varie esigenze dei particolari casi della vita. La misura ed il limite della morale libertà gli è perciò riposta in quel principio che dicono del motivo più forte. Si vuol però notare esser manifestamente erronea l’opinione di quelli, i quali fanno delle massime, delle regole e dei principii tutt’una cosa con la morale, o

per lo meno col carattere in genere, come se questo non potesse consistere in altro sostrato, né d’altronde attinger la sua energia se non dagli etici convincimenti. L’assoluta evidenza che di questi è propria, induce molti nella credenza che il male sia da considerare qual semplice negazione o deviazione, e per fino quale assoluto accidente. Il motivo di cotal credenza è riposto in questo, che cioè della superiorità immediata del pregio si fa una originaria superiorità di efficacia causale. Ma il fatto mostra appunto il contrario; perciocché non dalle idee morali soltanto, ma da tutti i loro opposti e contrarii ancora s’ingenerano degl’impulsi, e da questi poi tutte le massime, tutte le regole e tutti i principii della riprovevole elezione, che danno al carattere perverso quell’impronta di energia, che muove così di soventi a paura e a raccapriccio. Il carattere in una parola è tale, quale lo vadano facendo i motivi che lo governano, e per ciò non segna esso medesimo il più alto grado della morale libertà, ma solo la funzione pratica più complessa, cui la volontà possa giungere nei suoi svolgimenti. Non è però necessario che da coteste riflessioni si proceda diffilato alla negazione della responsabilità e ad attenuare poi in conseguenza il significato delle idee morali. Perché quella e queste, sebbene limitate od impedite dalle condizioni speciali dalla capacità di ciascuna persona in particolare, non cessano mai di significare forme ed esigenze universali della coscienza umana. Il giudizio morale, in fatti, per quanto tardivo o imperfettamente sviluppato, o mal riferito agli atti particolari non è provato che manchi mai in alcun uomo, il quale sia capace di volontà. E ciò basta perché la responsabilità non rimanga limitata al riconoscimento dell’opera come propria di chi l’ha voluta, ma si appalesi qual vivo sentimento ancora di quello che nell’atto medesimo possa esservi di riprovevole. Se non che codesto sentimento è indefinitamente graduato non solo da uomo a uomo, ma da caso a caso nella medesima persona, secondo che cambiano le particolari circostanze della vita: e gli è perciò che non v’ha mai perfetta congruenza fra la responsabilità morale e quella che alla legge positiva importa di ammettere, qual presunzione giuridica, fondata sopra concetti di qualche valore approssimativo, ma lontani sempre dal cogliere pienamente il vero. Né può dirsi che l’interiore eccellenza delle idee morali venga invalidata od attenuata dalla esistenza del male, e dalle continue anzi inevitabili limitazioni che la natura pone allo svolgimento della libertà. Perché non solamente è vero che il pregio di idee così incondizionate come son quelle della morale non può crescere o diminuire a seconda che cresca diminuisca il numero dei casi, in cui vadansi esemplificando, ma c’è ancor questo di notevole, che gl’impedimenti, cioè, son tutti assegnabili così per l’origine come per l’intensità; cosicché lo sforzo impiegato a rimuoverli non può mai parere opera vana. L’attività morale

si converte a un certo determinato punto in lotta interiore dell’uomo con sé medesimo, nella qual lotta non la certezza del trionfo, che non è in poter di nessuno, ma la volontà decisa di combattere fino in fine gli è quella che mantien viva l’energia, e contribuisce in certo qual modo al sentimento del benessere. La passione e l’egoismo sono i nomi, che di solito vengono adoperati a designare collettivamente quelle inclinazioni dell’animo, le quali ostacolano l’espansione delle idee morali, o limitano il dominio, che esse abbiano già in qualche maniera conseguito. E di fatti sotto il nome di passione può intendersi qualunque appetito di tensione massima, che divenuto abituale ed imperioso non dia più luogo sopra di sé all’azione riflessa della ragione; e l’egoismo consiste per l’appunto in una somma di tendenze e di bisogni accettati, riconosciuti ed appropriati prima che si fosse stati in grado di farne giudizio con tranquillità e con pienezza di criterio. Ora degli effetti dell’uno e dell’altra la vita nostra è piena: e non è a credere che le idee morali possano eliminarli con subitanei atti d’immaginaria energia, come son quelli che usarono e usano di fantasticare i novatori d’ogni tempo e d’ogni luogo. Ma non è perciò opera vana l’energia morale per sé stessa: né tale che debba farsene come la qualità eccezionale dei pochissimi, cui si dà a titolo di ammirazione il nome di virtuosi. Poiché, non mancando ad alcun uomo le occasioni del riflettere sulle proprie e sulle opere altrui, e insiememente la capacità di astrarre da tali riflessioni delle vedute generali, non è persona al mondo, che in qualche modo non possa moralizzar sé stessa, e che per qualche rispetto non vi si provi. Nella varietà dei casi interiori, cui dan luogo i tentativi, le lotte, e le cadute, han la radice loro tutti quei sentimenti or religiosi, or d’altra natura, per cui si è quando a quando come colti da un pauroso avvertimento dell’esser nostro. Accade per ciò che la libertà interiore apparisca come a varia altezza nelle varie condizioni della vita, e che incontri rarissimamente la malvagità assoluta nel pieno senso della parola. La stessa eccellenza del carattere morale, che concepiamo in idea come completa attuazione della ragion pratica per via della volontà costante ed ordinata, non è però tal privilegio che alcuna persona, che ne sia o se ne creda in possesso, rimanga come sottratta al bisogno della lotta, ed ai pericoli dell’egoismo e della passione. L’individualità prima ed immediata è già sviluppata d’un buon tratto, quando comincia per la prima volta ad apparire la volontà regolata dalle idee morali; e per quanto questa operi per modificare di sopra in sotto le naturali inclinazioni arriva sempre abbastanza tardi, perché la natura non debba offrirle resistenza perfino invincibile per certi rispetti. L’egoismo e la passione, massime se sussidiati dalle esperienze della vita, mantengono la forza loro anche di rincontro ai più alti prodotti della riflessione

morale, e ostacolano l’allargarsi di questa a tutta l’attività interiore. Il fondo immediato, anzi animalesco e brutale della coscienza, per quanto già discriminato dal giudizio etico e frenato dalla volontà, si solleva di quando in quando manifestando il suo potere or qual causa di subitanee emozioni, ed or qual remora ai più nobili tentativi, se pur non spiega l’influenza sua in maniera più pericolosa per via cioè di sofistiche insinuazioni. In guisa che raramente accade che l’attività morale si dispieghi libera di sé in una serie non interrotta di atti, ordinati tutti al medesimo fine; anzi qual forza destinata a vincere un sistema complicatissimo di resistenze corre per vie lunghe ed intricate, ed è assai spesso costretta a rifar più volte il medesimo cammino. L’ideale della volontà morale, che ci par di vedere come racchiuso e compendiato nella forma universale della virtù o della santità, si discioglie in molteplici rapporti di dovere, che sono come altrettanti ripieghi della morale attività, diretti a vincere i varii impedimenti dell’indole e delle esterne circostanze. Ma appunto perché non tutti i singoli uomini si trovano a lottare coi medesimi impedimenti, né a tutti è imposto dalle circostanze di operare allo stesso modo, la libertà morale, che pare una ed indivisibile, assume caratteri svariatissimi di doverose inclinazioni e di virtuose energie. E c’è ancor di più, che cioè accade assai di rado che il problema della libertà si appalesi come quello in cui tutti gli altri problemi della vita trovino il loro riassunto e la loro universale e compendiosa espressione. Perché è cosa rara che le condizioni pratiche e teoretiche della riflessione sian tali da spronar l’animo a tener fermo nelle idee morali, non che come a precise norme dei casi particolari, come ad assoluto termine d’ogni aspirazione. Nei pochissimi casi che ciò s’avvera han luogo dei profondi travagli delle coscienze, che trovan poi la soluzione loro o nell’eroismo o nell’ascetismo, forme coteste egualmente nobilissime, che è vano assoggettare ad un giudizio di preferenza. All’incontro nei casi ordinarii la libertà si rivela come a frammenti, perché il più degli uomini trovan modo di alternare le comode massime del benessere con quelle più rigorose della moralità, e per la scarsezza e la rarità degli ideali risentimenti, della vita in complesso non si fanno alcun concetto, né han meta o fine a cui mirino costantemente, salvo che il pungolo del pentimento o il dolore inaspettato non adergan l’animo a momentanea altezza. Ed ora non mi rimane se non di toccare ancora d’un altro aspetto della questione. La nostra vita non consiste solamente in quelle interiori funzioni che si è venuti fin qui illustrando, a cominciare dalla semplice appetizione e a finire con la ragion pratica. I fatti procedenti dalla coesistenza sociale sono aspetti

notevolissimi della vita umana, massime se si vuole aver riguardo alle condizioni reali che occorrono per tradurre in effetti di operazione ordinata le forze morali dello spirito. La nostra vita non è mai d’individui isolati, ma sì di gruppi di famiglia, di società e di stato, per entro ai quali si formano come tanti ambienti determinati dall’azione, che ciascuna persona spiega sulle altre, e che dalle altre al tempo stesso patisce. In cotesti ambienti si sviluppano speciali inclinazioni ed abiti speciali, e coloramenti varii dell’indole e del carattere, e poi coordinamenti e subordinazioni di forze, sia di diritto, sia di fatto, di necessità assoluta, di necessità relativa, e poi motivi d’imitazione e risguardi di onore, e scambi d’influssi, e poi attrattive e ripulse. In tutto cotesto complesso di rapporti consiste la lotta che a ciascuno tocca di sostenere per vivere, e per valere secondo sua possa. La vita interna ritrae dalla lotta medesima maggiore o minore ricchezza di contenuto, e vario ritmo e varia pieghevolezza. E perché a ciascuno è imposto dalle circortanze stesse di sopportare in vario modo la pressione sociale, non solo le operazioni esterne, ma anche le interne vengono ad esserne in diversa maniera limitate e modificate. Da cotesto insieme, che tanto attenua la personale indipendenza, procedono pur anche parecchi alleviamenti dell’attività, perché l’opera comune dispensa da non pochi sforzi di energia individuale. Di fatti, adagiandoci noi po’ per volta nelle ovvie forme del costume, e accomodandoci via via ai dettami della opinione e della tradizione, a nostra insaputa ci troviam poi da ultimo in possesso di moltissime virtù del vivere civile, in guisa da risolvere mezzanamente sì, ma con poco sforzo parecchi problemi della vita morale, anche quando non si offra resistenza se non scarsissima alla corrente del tempo, cui ci siamo abbandonati. La libertà interiore viensi così in qualche maniera come meccanizzando nella pratica del buon costume, la quale, per quanto sia punto meritoria, non cessa per ciò d’essere validissimo aiuto e continuo eccitamento alla morale riflessione. I molti freni dell’egoismo e della passione, che da tali risguardi sociali naturalmente risultano, fanno sì che la morale s’accomodi anch’essa alle vedute eudemonistiche del benessere, e da ciò procede che anche alla critica più rigorosa riesca difficile di arguire dagli esterni effetti della volontà la quantità di energia morale, che fu spesa a produrla. Da tutte le cose, che furono qui innanzi esposte per sommi capi, può indursi una generale affermazione, che cioè sotto il nome di libertà si celi quel che in logica con parola proprio barbara dicesi un polisenso. Di fatti non si giunge mai ad un concetto primo ed universale, dal quale altri e poi altri vadansi naturalmente svolgendo, per necessaria successione di conseguenze. E son per

ciò molteplici le considerazioni, cui dà luogo l’esame della libertà, e non guari facili a ridurre a criterii precisi a guisa di quelli, che tengono ad un ordine particolare di fatti, esattamente circoscritti dall’esperienza stessa. Le molte teorie, che intorno a questo argomento furono escogitate, trovano a mio avviso, un’adeguata spiegazione nella natura stessa dei fatti; i quali son di tal natura da dar luogo in certi punti a generalizzazioni apparentemente convincenti, che si trovan poi false, quando si tratti di armonizzare tutti gli aspetti della questione. Senonché quantunque la più parte di cotali generalizzazioni, che mirano a riassumere fenomeni così svariati sotto concetti astrattissimi, sian prive di fondamento ed infruttuose per l’indagine scientifica, non si può però negare che sotto a quei fenomeni medesimi si celi un problema di carattere universale, che di per sé s’impone e s’imporrà sempre alla ragione. Nel continuo apparire e sparire della interiore autonomia, nella perpetua trasformazione del meccanismo in riflessione pienamente conscia di sé medesima, e nel ricadere che questa fa di bel nuovo nel meccanismo, è un’ampia materia di dubbio e di ricerca, che s’impone a tutti quelli che abbiano rettitudine di pensiero scientifico e vivo interesse pei problemi della vita morale. Da quei dubbii per l’appunto s’ingenerano parecchi degl’impulsi ideali, che talvolta spingon l’animo nostro a cercare acquiescenza in convincimenti superiori ad ogni fluttuazione di appetiti, e tal’altra stimolano l’intelletto alla ricerca dei concetti, che siano atti a risolvere le contraddizioni inerenti alla empirica cognizione delle cose. I quali problemi può ben darsi che paiano di dubbia anzi di difficilissima soluzione a quelli, che ci si siano seriamente travagliati attorno, ma che è cosa men che puerile il voler rigettare alla prima, come punto compatibili con la presente serietà del sapere positivo. Gli è anzi qui per l’appunto e in altrettali questioni che ha la sua ragion d’essere quella metafisica, della quale è oramai usanza si discorra con fastidioso dispregio da molti, che, con buona pace loro, ne son pratici come i ciechi dei colori. Ma oramai uscirei dai termini del mio argomento, e faccio punto per questa volta.

RECENSIONI [1870-77]

[1] GUSTAV ADOLPH LINDNER, Das Problem des Glücks. Psychologische Untersuchungen über die menschliche Glückseligkeit, Verlag von Carl Gerold’s Sohn, Wien 1868. Das Erscheinen eines neuen Werkes des Prof. Lindner, dessen Leistungsfähigkeit auf dem Gebiete der philosophischen Didaktik längst bekannt und in dieser Zeitschrift mehrmals berücksichtigt worden ist, darf von den Freunden der exacten Philosophie nicht ohne theilnehmende Aufmerksamkeit aufgenommen werden. Und um so mehr muss das hier angezeigte Werk Interesse erregen, als es nicht nur eine verhältnissmässig wissenschaftliche Lösung des betreffenden Problems bietet, sondern hauptsächlich durch anziehende und fesselnde Darstellungsart, und damit innigst verbundenes Menschlichkeitsgefühl sich auf das Vortheilhafteste auszeichnet. Das Buch ist auf die Popularisirung der ethischen Ideen berechnet, und von diesem Gesichtspunkte aus muss es, nach unserem Dafürhalten, beurtheilt werden. In dieser Hinsicht bietet es der Philosophie einen unermesslichen Reichthum von Anknüpfungspunkten an die Lebensprobleme; und wegen des scharf ausgesprochenen und nüchternen Liberalismus des Verfassers, und seines scharfen Blickes auf die Zeitverhältnisse im Gebiete der ökonomischen, rechtlichen und constitutionellen Fragen, kann es als Lectüre einen läuternden Einfluss ausüben. Der Verfasser, und besonders darin besteht sein Verdienst, lässt die Frage aus dem Leben selbst hervorgehen, und als ob kein System der Philosophie im Voraus für ihn vorhanden wäre, sucht er die Lösung nicht gezwungen mit den Schemata der Psychologie zu Stande zu bringen, sondern von den psychologischen Grundbegriffen so viel Gebrauch zu machen, als von dem betreffenden Problem erfordert wird. Der Verfasser stellt sich zuerst auf den Standpunkt, wie die Frage gewöhnlich aufgeworfen wird, ob die Begriffe von Tugend und Glück gegenseitig sich decken. Die logische Erledigung der Frage besteht darin, dass der Umfang der zwei Begriffe verschieden, und der Inhalt identisch ist, somit dass das Verhältniss synthetisch und nicht analytisch ist. Diese logische Determination der Begriffe ist von keinem erheblichen Einfluss auf die weitere Entwickelung der Frage, die nachher rein psychologisch, und stellenweise ethisch behandelt wird. An die Ausschliessung von einem höchsten Gute – für dessen Erlangung religiöser Fanatismus und falsche pantheistische Vorstellungen das Menschengemüth gestimmt haben – knüpft sich für den Verfasser die

Nothwendigkeit einer speciellen Untersuchung über die Güter, im Verhältniss zu den verschiedenen seelischen Zuständen an. Die verschiedenen Seelenzustände, von dem Vitalsinn bis zum Charakter, werden von dem Verfasser im Sinne des Realismus betrachtet, und in Bezug darauf der Begriff des Glücks entwickelt. Die Betrachtung schliesst keineswegs den Begriff einer Potenzirung des Glücksgefühls, im Verhältniss zur Complication des Seelenlebens aus, aber diese Potenzirung will keinen stufenweise sich ausbildenden, und die niedrigen Sphären aufhebenden Begriff herbeiführen. Die Stasis der Vorstellungen in ihrem Gesammteffect muss immer den psychologischen Hintergrund des Glücks bilden, – sei es dass sie als Harmonie der elementaren Empfindungen im Vitalsinne erscheine, deren Correlat und Ausdruck das sich Wohlbefinden ist, – oder dass sie als gedankenmässig erfasster Plan in einem Charaktermanne sich ausbilde, dessen Correlat die Objectivirung einer Idee im praktischen Leben ist. In diesem Zurückführen der Frage auf die psychologischen Grundbegriffe – welche, wie natürlich, nicht systematisch erörtert werden – besteht der wissenschaftliche Werth des Buches, und zugleich seine Schwäche. Was hier vorausgesetzt wird ist das psychologische Princip der Einheit aller psychischen Vorgänge im Vorstellungsleben, aber diese Voraussetzung geschieht hier auf Kosten der philosophischen Präcision. Das Buch macht hier und da den Eindruck als ob Phantasie, Begehrung u.s.w. besondere Seelenvermögen für den Verfasser wären, aus deren gegenseitigen Verhältnissen die verschiedenen Zustände der Seele hervorgingen; und das ist aus dem Capitel über die Phantasie besonders ersichtlich. Wenn dem Verfasser einer mit pädagogischem Tact ausgeführten Propädeutik nicht zuzumuthen ist, dass er sich irre, so ist doch diese uncorrecte Ausdrucksweise jedenfalls nicht zu loben. Es ist endlich zu bemerken, dass es dem Verfasser nicht gelungen ist ganz consequent zu bleiben, da, während er anfangs (Cap. III) in oppositionelle Richtung gegen Schopenhauer sich stellt, und durch das ganze Buch hindurch das Glücksgefühl als inneren Zustand des Vorstellungslebens betrachtet, am Ende, wenn er zur Betrachtung des Zusammenlebens der Menschen übergeht (Cap. XVIII) auf Schwierigkeiten stösst, die den Eindruck machen, sehr pessimistisch gefärbt zu sein, so dass der Verfasser zum Vagen der Fortschrittsidee seine Zuflucht nehmen muss. Während der romantische Weltsschmerz noch in der Welt herumspukt, sollte die Philosophie von der ethischen Warnung nicht abstehen!

[2] AUGUSTO VERA, Introduzione alla Filosofia della Storia: lezioni. Raccolte e pubblicate con l’approvazione dell’autore da Raffaele Mariano, Le Monnier, Firenze 1869. Philosophie und Geschichte – zwei Begriffe, die lange Zeit hindurch ihre historische Entwickelung ganz unabhängig von einander durchlaufen haben – werden heutzutage von einer leichtfertigen Allweisheit, ohne grosse Mühe und Anstrengung, in einen scheinbaren Zusammenhang gebracht, und zu einem über alle Fragen des historischen und philosophischen Wissens dominirenden Phantom nicht selten umgebildet. Die Erfindung ist nicht ganz neu. Es ist schon einige Zeit her, dass diese monströse Verbindung zu Tage kam; und trotz der mancherlei Zurückweisungen, die im Namen der Wissenschaft und des sittlichen Gewissens gemacht wurden, fährt sie fort als ein Blendwerk die Meinungen zu verwirren. Was die Wissenschaft aus dieser anfangs erst leise angebahnten und nachher zu einer Dogmatik des Jahrhunderts erhobenen Philosophie der Geschichte zu gewinnen habe, ist Manchem dunkel geblieben, freilich ist es nicht leicht sich darin zu orientiren. Das steht jedenfalls fest, dass kein wissenschaftlicher Fortschritt da wahrzunehmen ist, wo die erste und unabweisliche Bedingung aller Wissenschaftlichkeit fehlt: die Klarheit der Aufgabe und eine scharfe Umgränzung der Begriffe, die zu bearbeiten und anzuwenden sind. Die Geschichte als ein Ganzes sich vorzustellen, auch da, wo die beträchtlichen Zusammenhänge der menschlichen Bestrebungen und Satzungen es nicht nothwendig fordern, ist zu einem stehenden Vorurtheil geworden; und der neue deus ex machina ist ziemlich häufig – wir wissen nicht, ob zum Ergötzen oder zum Bedauern der lieben Zuschauer – aus den Wolken herbeigerufen worden. Ob damit die Wissenschaft gefördert; – das ist besser zu verschweigen! Und wer noch meint, dass man die Sache ganz ruhig auf sich beruhen lassen dürfe, und wer mit dem banalen Sprichwort de gustibus non est disputandum bequemerweise sich trösten wollte, dem muss man in Erinnerung bringen, dass es sich kirr um eine Sache handelt, die höchts gefährlich ist, und die manchmal das gute Gewissen der Menschheit zu stören, und an die Stelle von gelösten oder ungelösten ethischen und religiösen Problemen das herakleitische πάντα ῥεῖ zu setzen drohet, eine Unterschiebung, die keinen Trost mit sich bringt. Nicht ohne Grund haben wir diese Betrachtungen unserer Recension des oben angezeigten Buches vorausgeschickt, und ob wir damit schon ein Urtheil ausgesprochen, wird sich im Folgenden bestätigen.

Das Werk ist gewiss der Beachtung nicht unwerth, wenn man die – verdiente oder unverdiente – Berühmtheit des Verfassers in Betracht zieht, um deren Verbreitung in Deutschland ein deutscher Professor sich der Mühe unterzogen hat, ein Buch zu schreibena. Der Verfasser, der so viel für das Verständniss von Hegel gethan, und bisher als Erklärer und Uebersetzer sich Ruhm erworben, hat hiermit zum ersten Male eine freie Bearbeitung eines Stückes der Hegel’schen Philosophie versuchtb. Wir wollen es mit einem Worte sagen: diese Arbeit wird den Ruhm des Verfassers nicht erhöhen, und wollte er damit sein Renommé bethätigen, so ist er darin sehr unglücklich gewesenc. Und somit wollen wir mit dem Verfasser über seinen speculativen Standpunkt nicht besonders streiten; dass er ein strenggläubiger Hegelianer ist, wussten wir längst, und die Wichtigkeit jenes philosophischen Standpunktes in seinen erkenntnisstheoretischen Motiven und seiner logischen Wichtigkeit wollen wir dahingestellt sein lassen. Man kann, im guten Glauben, in speculativen Vorurtheilen so befangen sein, dass einem die Kritik nichts anzuhaben vermag, und wir gestehen hartnäckigen Köpfen gern das Vorrecht zu, keine Belehrung anzunehmen. Aber wenn wir sehen, dass Jemand meint, die Realien des historischen Wissens, um deren kritische Sichtung und wissenschaftliche Aufstellung so viele strebsame Disciplinen arbeiten, liessen sich mit ein Paar Zauberworten in den Strudel des absoluten Idealismus hineinbringen, und dass er sich ferner über alle Fragen der Sprachforschung und Mythologie, der Rechtsgeschichte und Statistik, der historischen und vergleichenden Sittenkunde hochmüthig hinwegzusetzen weiss: so meinen wir, solches Gebahren streift fast an Vermessenheit, oder wir müssen uns alles Rechts begeben, über die Gewissenhaftigkeit eines Schriftstellers ein Urtheil zu fällen. Referent sollte sich eigentlich die Mühe ersparen, in die Einzelnheiten des Buches näher einzugehen, da sich darin durchaus kein wissenschaftliches Streben, in die Schwierigkeiten der historischen Wissenschaft einzudringen, kundgibt. Mit ermüdender Wiederholung zieht sich von einem Ende zum andern der allbekannte Refrain: die Idee ist Alles, und Alles ist Idee, und auf jede Aufforderung zur Rechtfertigung dieses philosophischen Standpunktes verzichtet man, wenn man vernimmt, wie der Verfasser, welcher seine Wissenschaft gegen die Skeptiker (welche? Referent) in Schutz nehmen will (s. 1), die Frage über die Möglichkeit der Philosophie der Geschichte sehr leicht mit der Bemerkung abzufertigen weis, dass, während Nichts vom Zufall abhängen kann und der Geist Gesetze hat, so muss auch die Geschichte solche haben (s. 23). Er geht auch ein wenig weiter, und weis sehr erbaulich sich bis zu der Aeusserung zu versteigen, dass die Wissenschaft mit einem Glaubensact, mit

einem Postulat anhebe (s. 3). Weiter sagt er: «Es ist nothwendig, an die Möglichkeit der Erkenntniss zu glauben, d. h. der Erkenntniss der Principien. Dieser Glaube hat jedenfalls seine Wurzeln im Verstande selbst. Verstehen bedeutet so viel als Erkennen, und die Erkenntniss ist das Leben des Verstandes selbst; so dass dieser nach jener wie nach seinem eigenen und natürlichen Objecte sich richte (! s. 3-4)». Man könnte sich hierbei leicht an die «philosophia pigrorum», von welcher der ehrwürdige Kant irgendwo spricht, erinnern, und dann ruhig das Buch schliessen ohne weiter zu lesen. Referent muss jedoch aufrichtig gestehen, dass er die Geduld hatte, das ganze Buch zu lesen, um zu sehen, was der Verfasser über zwei Punkte, die Referentem besonders wichtig schienen: – die Begriffsbestimmung der Geschichte und die Grenzen des Fortschrittsbegriffes – sagt; und er will jetzt den Lesern dieser Zeitschrift – in deren Hände das betreffende Buch vielleicht nicht gefallen, denen aber der Ruhm des Professors Vera durch die Rosenkranz’sche Lobrede zu Ohren gekommen ista – einige ergötzliche Aeusserungen nicht verschweigen. Nach des Verfassers Meinung ist der Gegenstand der Philosophie der Geschichte nicht genau zu bestimmen, wie sonst der Gegenstand von jeder Wissenschaft (s. 13), was ihn nicht hindert zu sagen, dass «die Philosophie der Geschichte eine Anwendung der Philosophie (?) auf die Geschichte sei» und dass «der Philosoph, indem er die Principien der Geschichte betrachtet (wo? Referent), die Principien, welche die Geschichte ausmachen, bestimmt» (sic! s. 14). Die Geschichte als eine vollständige Organisation hat ihre Wanderungen, Veränderungen und Wandelungen (s. 33), was selbstverständlich ist, wenn man sieht, mit welcher langweiligen Ueberschwänglichkeit der Verfasser ihre Elemente zu bestimmen sucht. Das erste Element ist die Logik (s. 87 u. f.), – die absolute wohl vorausgesetzt – weil, wenn es nicht so wäre, man z. B. nicht verstehen könnte, dass die Racen verschieden sind, da nur in der Logik die Verschiedenheit als nothwendig bewiesen wird (s. 89). Das zweite Element ist die Natur (s. 98), die Täuschung des Geistes, die zugleich keine Täuschung ist (s. 91 u. f.). Das Erstaunliche ist, dass «der Geist das dritte Element der Geschichte» sei (s. 95), welche nichtssagende, und selbst groteske Meinung so gemodelt wird, dass der Geist als ein Künstler in die Natur arbeite (s. 95 u. f.). Die Geschichte ist selbstverständlich ein System, als Theil eines universellen Systems, welche Stelle sie auch darin einnehme (sic! s. 101); sie ist nicht nur systematisch sondern auch concret (! s. 102). So wird zu dem Beweis eingeleitet, dass die Geschichte eine Einheit bilde, und dass die sogenannten verschiedenen historischen Welten in einander übergehen, in der Weise, dass von allen thatsächlichen Schwierigkeiten, unter dem Vorwand, dass «die historischen

Verhältnisse in der Idee der Geschichte begründet sind» (s. 112) abgesehen wird. Dass die Methode der Geschichte die dialektische sein müsse, wird tautologisch aus dem Begriffe der Geschichte bewiesen, die als Bewegung und Erstwickelung schon an sich selbst dialektisch ist (s. 118-125); aus welcher Erörterung das tiefsinnige Philosophem zu entnehmen ist, dass die Verschiedenheit der Nationen ihren Grund in der Logik habe, nach welcher das Eine das Viele nach sich zieht (s. 121). Referent will nun zeigen, was der Verfasser über den Fortschritt sagt. «Die Geschichte (die hier natürlich nur um die Aufgabe zu erleichtern personifieirt wird, Ref.) strebt nach der Verwirklichung ihrer eigenen Idee (womit denkt die Geschichte nun? Ref.). Dieses Streben bringt die Bewegung der Geschichte hervor. Und weil die Geschichte sich nach dem Endziele einer absoluten Vollkommenheit bewegt (die Geschichte ist nichts weniger als bescheiden! Ref.), macht sie wiederholte Anstrengungen, und in dieser Weise zeugt sie, immer neue Principien, neue Interessen, neue Bedürfnisse und neue Gedanken (s. 211)». Weiter fragt der Verfasser, woher und wohin sich Geschichte bewege, und welcher der Inhalt dieser Bewegung (!) sei: und mit diesen Fragen glaubt er das Problem des Fortschrittes formulirt zu haben. Referent meint, dass, wenn Jemand so tief in den Intentionen der Geschichte erfahren ist, so wird er gewissenhafterweise das Problem des Fortschrittes nicht aufstellen können: er besitzt schon, was er zu suchen glaubt. Jedenfalls hat der Verfasser, der nicht derselben Meinung mit Referentem ist, diese Frage lang und behaglich discutirt. Der Glaube an den Fortschritt ist eine für den Verfasser feststehende Thatsache (für den Pessimisten v. Hartmann und für andere Nichtpessimisten gewiss nicht, Ref.), die manchmal den Philosophen verschiedener Gründe wegen in Verlegenheit setzt, und besonders weil er das unbeweglich Seiende mit dem beweglich Seienden (!) zu vereinen hat (s. 211-213). Der Verfasser, der in dieser Frage sehr behutsam sein zu wollen verspricht (s. 212), ist nie zu einer klaren Definition des Fortschrittes gelangt, und er ist durch seine breiten und zugleich oberflächlichen Untersuchungen über Bewegung und Zweck im abstractmetaphysischen Sinne und über Moralität, Glück u. s. w. keineswegs dahin gekommen (s. 212 u. f.). Wir erfahren in der That, dass der Fortschritt begrenzt und relativ sei (s. 237-243), und dass zwei Factoren desselben – das Individuum und die Nation, in dem dritten – der Menschheit aufgehen sollen (s. 249); ferner dass er eigentlich im Geist und in der Idee bestehe (sic! s. 252-260). Aber das Einzige, was wir am Ende wissen, besteht darin, dass die Wissenschaft die Substanz des Fortschrittes ausmache (s. 261-273). Wenn man die sogenannten Stufen des Geistes nach und nach als unvollständig aufgehoben hat, ist es sehr natürlich, dass die Wissenschaft als die einzige Weltsubstanz zurückbleibe!

Referent will nun noch einige Curiosa hinzufügen, die er zufällig hier und da gefunden hat. S. 383. «Die Idee war vor Adam und Eva, und sie hat Adam und Eva erzeugt». S. 11. «Christus mit der Menschwerdung ist in die Geschichte (sic!) hinabgestiegen; und darum lies er im individuellen Bewusstsein den Gedanken der Menschheit entstehen». S. 29 wird gegen die Meinung Montesquieu’s, dass die Tugend die Grundlage des Staates bilde, bemerkt: «Von welcher Tugend spricht er? Von der kriegerischen, von der Mässigkeit oder von der Moralität?» (ist die Moralität eine besondere Tugend? Ref.). S. 24 «Der Gedanke ist nicht, wie man gewöhnlich glaubt, leer, er ist Form und Materie (was bedeutet Materie? Ref.) von Allem». S. 8 «Der Geschichtschreiber darf partheilos nur insoweit sein, als er partheiisch ist, weil er partheiisch sein muss, um Geschichtschreiber zu sein». Ob Hegel, wie Rosenkranz im angeführten Buche meint, durch Vera’s Leistungen verständlicher wirda, muss Jeder, der etwas Geschmack für die logische Gedankenbildung besitzt, leicht ersehen. Referent glaubt genügende Belege angeführt zu haben, um sein Urtheil nicht als unbillig und seine Verstimmung gegen die gänge und gäbe Philosophie der Geschichte nicht unbegründet erscheinen zu lassen.

[1] GUSTAV ADOLPH LINDNER, Das Problem des Glücks. Psychologische Untersuchungen über die menschliche Glückseligkeit [Il problema della felicità. Ricerche psicologiche sulla felicità umana], Verlag von Carl Gerold’s Sohn, Wien 18681. La pubblicazione di una nuova opera del prof. Lindner, la cui produzione nel campo della didattica filosofica è nota da tempo ed è stata più volte presa in considerazione in questa rivista, non può essere accolta senza un’attenzione partecipata dagli amici della filosofia esatta2. Tanto maggiore interesse susciterà l’opera qui trattata, la quale non solo offre una soluzione relativamente scientifica al problema in questione ma, grazie ad uno stile coinvolgente ed appassionato, si distingue per un sincero e sentito senso di umanità. Il volume è concepito per la divulgazione popolare delle idee etiche e, a nostro parere, proprio da questo punto di vista deve essere giudicato. A questo riguardo si offre alla filosofia una smisurata abbondanza di nessi con i problemi della vita; e grazie al liberalismo decisamente perspicace e sobrio dell’autore, e al suo sugardo acuto sull’attualità nel campo delle questioni economiche, giuridiche e costituzionali, può risultare una lettura dall’influsso chiarificatore. L’autore, qui il suo merito maggiore, lascia che il problema scaturisca dalla vita stessa e, come se non fosse mai esistito per lui alcun sistema filosofico, cerca di giungere alla soluzione non attraverso i rigidi schemi della psicologia, ma facendo uso dei concetti piscologici nella misura richiesta dal problema in questione. L’autore imposta da principio il problema nel modo consueto, domandandosi se i concetti di virtù e felicità coincidano. La soluzione logica della questione sta nel fatto che l’estensione dei due concetti è diversa, ma il loro contenuto identico, così che la loro relazione è sintetica e non analitica. Questa determinazione logica dei concetti non incide in modo rilevante sull’ulteriore svolgimento della questione, che viene poi trattata da un punto di vista puramente psicologico e a tratti etico. Alla negazione di un sommo bene – al cui raggiungimento il fanatismo religioso e false rappresentazioni panteistiche hanno predisposto l’animo umano – si collega per l’autore la necessità di una specifica ricerca sui beni in relazione ai diversi stati psichici. I diversi stati dell’anima, dalla vitalità al carattere, vengono trattati nel senso del realismo e, sempre su questa base, viene sviluppato il concetto di felicità. La riflessione non esclude affatto il concetto di un potenziamento del senso di felicità in rapporto al farsi via via più complessa

della vita interiore, ma tale potenziamento non intende in alcun modo implicare un concetto che si formi per gradi e annullando le sfere inferiori. La stasi delle rappresentazioni nel suo complesso deve sempre costituire lo sfondo psicologico della felicità, sia che essa appaia come armonia delle sensazioni elementari nei segni vitali, il cui correlato e la cui espressione è il benessere, sia che si estrinsechi nel carattere umano come un piano concepito razionalmente, il cui correlato è l’oggettivazione di un’idea nella vita pratica. In questo ricondurre il problema ai concetti psicologici fondamentali – che, com’è naturale, non vengono discussi sistematicamente – sta il valore scientifico del libro e, al contempo, la sua debolezza. Ciò che qui viene assunto è il principio psicologico dell’unità di tutti i processi psichici nella vita rappresentativa, ma questo presupposto va a scapito della precisione filosofica. Il libro suggerisce qua e là l’impressione che fantasia, desiderio e così via, siano particolari facoltà dell’anima, dai cui reciproci rapporti deriverebbero i diversi stati dell’anima, e ciò è particolarmente evidente nel capitolo sulla fantasia. Senza imputare all’autore di una propedeutica condotta con attenzione pedagogica un simile errore, questa scorretta formulazione è comunque tutt’altro che da elogiare. Bisogna infine notare che l’autore non è riuscito a mantenersi del tutto conseguente: perché, mentre in principio (cap. III) si oppone a Schopenhauer e, per tutto il libro, parla della felicità come di uno stato interno della vita rappresentativa, alla fine, quando giunge alla riflessione sulla vita in comune degli uomini (cap. XVIII), s’imbatte in difficoltà che sembrano avere una forte coloritura pessimistica, sicché l’autore è costretto a rifugiarsi nel vago dell’idea di progresso. Mentre ancora nel mondo si aggira il dolore cosmico romantico, la filosofia non dovrebbe rinunciare all’esortazione etica!

[2] AUGUSTO VERA, Introduzione alla Filosofia della Storia: lezioni. Raccolte e pubblicate con l’approvazione dell’autore da Raffaele Mariano, Le Monnier, Firenze 18693. Filosofia e storia – due concetti che per lungo tempo hanno avuto il loro sviluppo storico indipendentemente l’uno dall’altro – vengono oggigiorno, senza troppa pena e fatica, messi in un’apparente connessione da una facile onniscienza e non di rado trasformati in un fantasma che incombe su tutti i problemi del sapere storico e filosofico. L’invenzione non è del tutto nuova. È già qualche tempo che questa mostruosa congiunzione è venuta alla luce e, nonostante le varie confutazioni che ne furono fatte in nome della scienza e della coscienza morale, continua, come un miraggio, a confondere le idee. Ciò che abbia da guadagnare la scienza da questa filosofia della storia, introdotta inizialmente sottovoce e in seguito elevata fino a costituire una dogmatica del secolo, ai più è restato oscuro, e in verità non è facile orientarsi in questo campo. Ad ogni modo una cosa è certa, che non può aversi alcun progresso scientifico dove manca la prima e irrinunciabile condizione di ogni scientificità: la chiarezza del compito ed una netta delimitazione dei concetti che sono da elaborare ed applicare. È divenuto stabile pregiudizio il rappresentarsi la storia come un tutt’uno, anche laddove i considerevoli legami fra le aspirazioni e le norme umame non lo richiedano di necessità; e il nuovo deus ex machina è abbastanza spesso – non sappiamo se per la gioia o il dispiacere degli spettatori – fatto calar giù dalle nuvole. Meglio sorvolare sul vantaggio che ne verrebbe alla scienza! A chi ancora pensa che si debba lasciar correre, e a chi vorrebbe comodamente consolarsi col banale proverbio de gustibus non est disputandum, bisogna ricordare che si tratta di una cosa assai pericolosa, che a volte minaccia di turbare la buona coscienza dell’umanità e di porre, al posto dei problemi etici e religiosi risolti o meno, il πάντα ῥεῖ4 eracliteo: una sostituzione che non conforta per niente. Non senza ragione abbiamo premesso queste riflessioni alla nostra recensione del libro, e se con ciò abbiamo già pronunciato un giudizio, risulterà da quanto segue. Quando si guardi alla fama, meritata o immeritata che sia, dell’autore, per la cui divulgazione in Germania un professore tedesco si è preso la briga di scrivere un libro, l’opera non è certo indegna di esamea. L’autore, che tanto ha fatto per la comprensione di Hegel e ha acquistato fama fino ad ora come

commentatore e traduttore10, con questo libro ha tentato per la prima volta una sua libera trattazione di una parte della filosofia hegelianab. Vogliamo dirlo in una parola: questo lavoro non accrescerà la reputazione dell’autore e se egli avesse voluto così consolidare la propria fama, in questo è stato decisamente sfortunatoc. Non vogliamo disputare in particolare con l’autore in merito al suo punto di vista speculativo: che egli fosse un hegeliano di stretta osservanza, lo sapevamo da tempo; e non vogliamo esaminare l’importanza di quel punto di vista filosofico nei suoi motivi gnoseologici e nel suo valore logico. Può capitare, in buona fede, di essere così presi da pregiudizi speculativi, che la critica non possa farci nulla; e noi concediamo volentieri alle teste ostinate il privilegio di non far proprio alcun insegnamento. Ma quando poi vediamo qualcuno ritenere che si possano prendere i fatti del sapere storico, alla cui ricerca critica ed elaborazione scientifica tante discipline lavorano, e con un paio di parole magiche gettarli nel vortice dell’idealismo assoluto, e che si possa inoltre passar sopra con arroganza a tutte le questioni della ricerca linguistica e della mitologia, della storia del diritto e della statistica, dell’etica storica e comparata, riteniamo che un tale comportamento sfiori la temerarietà o dovremmo altrimenti astenerci da ogni diritto di giudicare della coscienziosità di un autore. Chi scrive potrebbe risparmiarsi la fatica di esaminare il libro nei dettagli, dal momento che non vi si manifesta alcuno sforzo scientifico di addentrarsi nelle difficoltà della scienza storica. Con ripetizioni fastidiose, ricorre dall’inizio alla fine il ritornello arcinoto «L’idea è tutto e tutto è l’idea», e si rinuncia ad ogni pretesa circa la giustificazione di questo punto di vista filosofico quando si veda come l’autore, che vuole prendere le parti della propria scienza (p. 1) contro gli scettici (quali?), sa sbarazzarsi molto alla buona della questione circa la possibilità della filosofia della storia, osservando che, se nulla dipende dal caso e lo Spirito ha le proprie leggi, così anche deve averle la storia (pp. 2-3). Egli si spinge anche un po’ più in là e, in modo edificante, giunge ad affermare che la scienza comincia con un atto di fede, con un postulato (p. 3). Più oltre dice: «È necessità credere alla possibilità della cognizione e della cognizione dei principii [delle cose]. Questa fede per altro trova la sua radice nella intelligenza stessa. Perché intendere vuol dire conoscere, e la cognizione è la vita stessa dell’intelligenza; onde questa a quella s’indirizza come al suo obbietto proprio e naturale» (! pp. 3-4). Si potrebbe qui facilmente ricordare quella philosophia pigrorum di cui il degno Kant parla da qualche parte, e chiudere tranquillamente il libro senza leggere oltre12. Chi scrive deve però confessare in tutta franchezza di aver avuto

la pazienza di leggere l’intero libro, per vedere ciò che l’autore dice su due punti che sembrano al sottoscritto di particolare importanza: la determinazione concettuale della storia e i limiti del concetto di progresso; non si vuole pertanto privare i lettori di questa rivista – nelle cui mani forse il libro di cui si parla non è capitato, ma che pure devono essere venuti a conoscenza della fama del prof. Vera attraverso il panegirico del Rosenkranza – di alcune amene affermazioni. Secondo l’opinione dell’autore, l’oggetto della filosofia della storia non si può esattamente determinare, come del resto l’oggetto di ogni scienza (p. 13); il che non gl’impedisce di dire che «la filosofia della storia è un’applicazione della filosofia (?) alla storia» e che «il filosofo, mirando ai principi della storia (dove?), determina i principi che fanno la storia» (sic! p. 14)13. La storia come un’organizzazione perfetta ha le sue peregrinazioni, variazioni e trasformazioni (p. XXXIII): cosa facilmente comprensibile quando si considera con quale noiosa verbosità l’autore cerchi di determinare i suoi elementi. Il primo elemento è la logica (p. 87 e sgg.) – quella assoluta, beninteso –, perché, se così non fosse, non si potrebbe comprendere, ad esempio, che le razze sono diverse, poiché soltanto nella logica la diversità è dimostrata come necessaria (p. 89). Il secondo elemento è la natura (Ivi), l’illusione dello Spirito, la quale al contempo non è illusione (p. 91 e sgg.). Ciò che sorprende è che lo Spirito sia «il terzo elemento della storia» (p. 95)14: opinione vuota ed anzi grottesca, formulata in modo tale che lo Spirito lavori come un artista nella natura (p. 95 e sgg.). La storia, si capisce da sé, è un sistema in quanto parte d’un sistema universale, quale che sia il posto che in esso possiede (sic! p. 101); essa non è soltanto sistematica, ma anche concreta! (p. 102). Si apre così la strada alla dimostrazione che la storia formi un’unità, e che i cosiddetti diversi mondi storici trapassino l’uno nell’altro, in maniera da prescindere da tutte le difficoltà di fatto, con il pretesto che «i fatti storici sono fondati nell’idea della storia» (p. 112)15. Che il metodo della storia debba essere quello dialettico è dimostrato tautologicamente per mezzo del concetto della storia, la quale, come movimento e svolgimento, è già in se stessa dialettica (pp. 118-125); spiegazione da cui si desume il profondo filosofema che la diversità delle nazioni abbia il proprio fondamento nella logica, secondo cui l’uno porta con sé il molteplice (p. 121). Vogliamo mostrare ora ciò che l’autore dice a proposito del progresso. «La storia (che qui, naturalmente, viene personificata soltanto per facilitarsi il compito) tende alla realizzazione della sua propria idea (e con che pensa ora la storia?). Questa aspirazione produce il moto della storia. E dal momento che la storia si muove verso il punto finale di una perfezione assoluta (la storia non si accontenta di poco!), compie ripetuti sforzi e in questo modo genera sempre

nuovi principi, nuovi interessi, nuovi bisogni e nuovi pensieri» (p. 211)16. Più oltre l’autore domanda donde e a che si muova la storia e quale sia il contenuto di questo movimento (!): e con queste domande egli crede di aver formulato il problema del progresso. Chi scrive ritiene che quando uno è penetrato così a fondo nelle intenzioni della storia, non può in tutta coscienza porre il problema del progresso: egli possiede già ciò che crede di cercare. Ad ogni modo l’autore, che non è della stessa opinione di chi scrive, discute a lungo e con ogni comodo la questione. La fede nel progresso è per l’autore un fatto indiscutibile (non certo per il pessimista von Hartmann e per altri non pessimisti!), che talvolta mette però il filosofo in imbarazzo per varie ragioni, e specialmente perché egli deve riunire l’essere immobile con l’essere in movimento (pp. 211-213). L’autore, che promette di essere molto cauto in tale questione (p. 212), non è giunto mai ad una chiara definizione del progresso, e non vi è pervenuto affatto attraverso le proprie ricerche ampie e al contempo superficiali intorno al movimento ed al fine in senso astratto-metafisico, e in merito alla moralità, alla felicità e via dicendo (p. 212 e sgg.). Noi apprendiamo infatti che il progresso è limitato e relativo (pp. 237-243), e che due fattori di esso, l’individuo e la nazione, debbono trapassare nel terzo: l’umanità (p. 249); inoltre, che esso consiste propriamente nello Spirito e nell’Idea (sic!) (pp. 252-260). Ma la sola cosa che sappiamo infine consiste in questo: che la scienza forma la sostanza del progresso (pp. 261-273). Quando i cosiddetti gradi dello Spirito sono stati superati uno dopo l’altro come imperfetti, è assai naturale che la scienza resti l’unica sostanza delle cose! Vogliamo aggiungere ancora alcuni tratti curiosi che chi scrive ha trovato per caso qua e là. P. 383: «L’idea era prima di Adamo ed Eva, ed è quella che ha generato Adamo ed Eva». P. 11: «Il Cristo incarnandosi scese nella storia (sic!), […] e quindi fece sorgere nella coscienza individuale il pensiero della umanità». A p. 29, contro l’opinione di Montesquieu, che la virtù sia il fondamento dello Stato, si osserva: «Di qual virtù parla? Forse della virtù guerriera, ovvero della temperanza e della moralità?» (È forse la moralità una virtù speciale?). P. 24: «Il pensiero non è poi vuoto come si crede di solito…, è la forma e la materia (che cosa significa materia?) d’ogni cosa»17. P. 8: «Lo storico può essere imparziale solo nella misura in cui è parziale, in quanto deve essere parziale per essere uno storico»18. Se Hegel, come Rosenkranz sostiene nel libro citato, sia stato reso più intelligibile dai lavori del Veraa, vedrà facilmente chiunque ha un po’ di senso per la connessione logica dei pensieri. Chi scrive ritiene di aver recato prove sufficienti perché il suo giudizio non

appaia ingiusto e la propria ripugnanza contro questa filosofia della storia, che ora va tanto di moda, infondata.

[3] GUSTAV ADOLPH LINDNER, Ideen zur Psychologie der Gesellschaft [Idee per una psicologia della società], Gerold, Wien 187119. Ora si sente ogni istante a discorrere dello spirito pubblico, della opinione pubblica e del sentimento pubblico: o da coloro, i quali sostituiscono alla parola pubblico la parola sociale, si discorre di uno spirito sociale, di una opinione sociale, e di un sentimento sociale, come di cose diverse e spesso opposte allo spirito, alla opinione ed al sentimento che son proprii di ciascun individuo preso a parte. Né v’è scritto che di tali termini o di simiglianti non sovrabbondi: e chi non gli adopera, e n’usa in vece di più rimessi o comuni, ha l’aria di non riuscire ad esprimere e colorire adequatamente ed efficacemente il pensiero suo. Oramai che cosa c’è di vero e di reale in fondo in fondo a cotesta terminologia nuova? Ci rivela essa un aspetto nuovo della vita sociale, indicato appena appena, e per la prima volta, dal linguaggio: o è invece un semplice parlar figurato, una maniera d’intendersi per via di metafore? E se davvero c’è da scovrire nella società umana fatti e rapporti non ancora esplorati, i quali siano diversi dagli economici e giuridici, e da quelli che più propriamente si dicono politici; come si farà a raccoglierli e descriverli? Basterà pigliare come filo conduttore della ricerca i termini detti innanzi, o si dovrà invece verificar prima se essi esprimano davvero o no qualcosa d’effettivo? A queste domande bisognerà certo rispondere: e la risposta dovrà provare, se nel complesso dei fatti sociali, i quali danno argomento alle diverse scienze positive del dritto, della economia, della politica e via dicendo, ve ne sia dei non esplorati ancora, e pur così distinti, che si possa agevolmente circoscriverli e farne argomento di una scienza speciale, o d’una parte speciale d’una scienza più generale. Perché, se ve n’ha di quelli che corrispondono ai termini indicati più su, la loro natura non può essere che psicologica: e non deve tenersi per difficile il ricavarne un trattato speciale col titolo annunziato qui innanzi. L’Autore del libro, di cui discorriamo ora, ha dunque il merito d’aver tentato pel primo di scrivere un trattato di Psicologia sociale, ossia d’essersi provato a rispondere alle domande da noi or ora accennate. Il Lindner è un herbartiano: non certo di quelli che si sono segnalati nella scuola per averne accresciuto il capitale scientifico con un ricco tributo proprio, ma pur notevole per molti lavori degni di non poca lode20. Il Lindner è un giovane cultore e professore delle discipline filosofiche, che s’è lungamente limitato alla parte più elementare di esse, a scrivere cioè dei manuali per le scuolea, reputati eccellenti per l’indirizzo didattico che v’è seguito, e per la

grande precisione e freschezza della forma e del colorito. Appena due anni fa egli si provò a varcare il limitare della scuola, quando mise alla luce un libro intorno al Problema della felicitàb, assai ben concepito quanto all’insieme, e scritto meglio; ma pur lontano assai da quella rigorosa maniera d’esposizione scientifica, per la quale gli herbartiani vanno tanto innanzi a tutti gli attuali cultori della filosofia, e ripieno perciò di non poche incoerenze e contraddizioni. Questo nuovo libro del Lindner è destinato, secondo l’intenzione dell’Autore, a completare il primo; a mostrare, cioè, che il problema della psicologia sociale, ove esso si presti ad una soluzione scientifica, completa la precedente soluzione del problema della felicità. Ora, a dirla a prima giunta, questo nuovo libro del Lindner ha un difetto capitale, ed è questo: di non essere, come dovrebbe, una ricerca nel senso schietto e proprio della parola. Ha l’aria invece d’un manuale, d’una scienza già bella e compiuta nei suoi lineamenti generali ed in tutti i suoi particolari, e compartita già in capitoli e paragrafi. Manca quindi d’una parte essenziale, della propedeutica sua propria; la quale avrebbe avuto a provare l’esistenza, e ad assegnare il carattere ed il valore scientifico dei concetti che possono formare argomento di una psicologia sociale; e riesce per ciò impreciso per la soverchia precisione che presume nell’argomento suo, senza altra prova. Così composto come è il libro, divaga ogni istante dal fine che gli è proprio: così che a leggerlo tutto d’un fiato spesso non ci si raccapezza il filo della esposizione. L’Autore ha cominciato, pare, per soverchia fretta, dal dare come compiuto l’edifizio, quando avea invece a cercarle il primo fondamento. Il disegno del libro è tolto ad imprestito dallo schema comune a tutti i trattati di psicologia della Scuola herbartiana, con la giunta della parola sociale alle categorie che son proprie di quelli: donde procede che raramente l’individualità della nuova scienza vi si scorga a pieno, e d’ordinario appena vi s’intravvede. Del resto vediamo più da vicino come il libro è condotto. Nella Prefazione (pp. I- VIII) l’Autore indica il compito che s’è assunto: che è quello di dare un significato ed una spiegazione scientifica ai concetti ed alle rappresentazioni che si riferiscono ai rapporti sociali, guardati dal punto di vista psicologico. Determinare le funzioni spirituali del convivere sociale, a quella stessa guisa che l’economia determina le funzioni del ricambio materiale dei beni, della loro produzione, distribuzione e consumazione: questo è il compito della psicologia sociale. Ma come s’ha a farla cotesta scienza? L’Introduzione (pp. 3-28) risponde a questa domanda assai imperfettamente. L’Autore si diffonde, senza alcun pro, a fare intendere come la coscienza dell’individuo sia un risultamento del lavoro storico del genere umano, ed un riflesso delle condizioni sociali, nelle quali

l’individuo stesso vive. Discorre poscia della maggiore celerità del processo della storia umana, in confronto del processo naturale; la qual differenza deriva dalla maggiore mobilità delle rappresentazioni, che sono il principio reale della vita psicologica: ed accenna alla difficoltà inerente alla nuova scienza che egli imprende a trattare, che è quella di tutte le scienze, le quali, come l’antropologia, la geografia fisica ecc., non hanno a loro proprio ed esclusivo argomento una determinata parte della realtà naturale o sociale, ma considerano sotto un diverso aspetto una parte della realtà, che è pur studiata in pari tempo da altre scienze. La psicologia sociale è una parte della sociologia. In questa, quando si prenda a guardarla nel suo complesso, la statistica corrisponde alla generale ricognizione dei fatti immediati; di quei fatti similari, che è possibile raccogliere in tutta la distesa dello spazio e del tempo. Quei fatti, raccolti che sieno, danno luogo a due specie di problemi: perché altro è indagare quali siano le azioni reciproche degli individui, dalle quali procedono le leggi dello scambio economico; altro è sapere su che fondamento riposi lo scambio delle forze psichiche degl’individui, in quanto coscienza, sentimento e volere. Questa seconda sorta di problemi costituisce l’oggetto proprio ed esclusivo della psicologia sociale. Ma c’è una società, così per sé, fuori degl’individui? – e d’altra banda, una parte assai notevole degli elementi onde la coscienza individuale si compone, non è frutto della società stessa? Dovrà, dunque, la psicologia sociale accettare come sua unica norma le leggi della psicologia individuale; o dovrà cercarne invece delle nuove? E volendo, ove potrà rintracciarle, se non negl’individui stessi? L’Autore si cava fuori di tutte queste difficoltà col pigliare ad interpretare il senso delle parole, con le quali nelle opere di Herbart si trova accennata la possibilità della psicologia sociale; e dopo averne ritratto un costrutto, che è diverso di gran lunga dalla comune interpretazione, viene in questa conclusione: – Posta l’ipotesi che in una determinata società la forza di coesione sia giunta a tal punto di sviluppo, che gl’individui siano in grado d’influire gli uni su gli altri, in guisa che in essi si determini un principio di azione reciproca, analogo a quello donde procede l’azione reciproca degli stati psichici nella coscienza di un individuo preso singolarmente; applicando a questi fatti sociali le norme e le categorie della psicologia individuale s’avrà una scienza che può dirsi psicologia sociale (p. 18)23. – Di qui si vede che l’Autore non è riuscito a provar quello, che pure avrebbe dovuto provare: che, cioè, la psicologia sociale ha una ragion d’essere – e che non è riuscito nemmeno a fare intendere chiaramente, come, non essendovi in realtà che individui singoli, pure vi sia posto a due scienze, delle quali questa nuova, che egli espone, differisce dalla psicologia così

detta individuale, in quanto studia nell’individuo i fatti che sono risultato dell’azione sociale, e pur rimangono sempre individuali. Così che nel corso del libro accade frequentemente che non s’intenda in che misura i termini di coscienza sociale, di volontà sociale ecc., siano adoperati in senso proprio o metaforico, e fino a che punto l’Autore sia arrivato ad ottenerli per via dell’induzione, o della semplice analogia. Né aggiunge molta chiarezza a questa Introduzione la definizione che l’Autore dà della società, in quanto forma oggetto della psicologia sociale. Egli dice che non intende discorrere di una particolar forma, o di tutte le forme storiche della società, ma della società presa in astratto, nei suoi lineamenti generali e comuni, e più particolarmente in quanto stato. La sua scienza differisce dalla Psicologia de’ popoli, che trattano lo Steinthal ed il Lazarus, perché questa fa indagini speciali su le singole forme della coscienza sociale nei periodi preistorici e storici, non formula in maniera generale il fondamento psicologico del convivere sociale24. Rispetto all’economia ed alla politica, la psicologia sociale sta come l’interno all’esterno, perché essa non prende a studiare le leggi del ricambio materiale dei beni, né quelle che sono fondamento dell’arte di governo; ma delle une e delle altre indaga i motivi generali che sono riposti nelle forme della coscienza e della volontà. Tutto questo è assai vago ed impreciso. A dare il primo fondamento alla teoria della coscienza e della volontà sociale, l’Autore comincia da un breve saggio di fisiologia della società (pp. 29-87); dal discorrere, cioè, della società come organismo naturale: in quanto essa c’è come semplice fatto, senza altro concorso d’idee morali; non per opera della libera scelta, ma per sola concomitanza di cause naturali. La formazione della società riposa su i due principii dell’individuazione e della combinazione: conseguenza quella della superiorità dell’uomo su i rimanenti animali, ai quali manca la varietà di disposizioni e di tendenze che sono fondamento dell’individualità; conseguenza questa della individuazione stessa, perché il principio della differenziazione fra gl’individui della specie umana porta con sé lo sforzo verso l’associazione. Nell’incontro di questi due principii ha fondamento il processo della civiltà. Dal bisogno di vincere gli ostacoli naturali ha origine il lavoro; e da questo la coordinazione degl’individui secondo la capacità che hanno a prestarne: ma come vivendo assieme fa mestieri che gli uomini si aiutino a vicenda, dalla combinazione risulta un miglioramento nell’individuazione stessa, fino a che l’intelligenza non piglia in mano la condotta della società. I fondamenti naturali dell’associazione, cioè il suolo ed il clima, predeterminano lo sviluppo dei rapporti economici, finché la formazione dei centri dell’organismo sociale, facilitando le relazioni, non arrivi a stabilire fra

gl’individui quei rapporti che riposano sul semplice commercio intellettuale. Mezzo diretto di questo nuovo commercio è la lingua; la quale comincia da una molteplicità di tipi individuali, finché, per via del continuo concentrarsi ed aggrupparsi degl’individui in società, non si fissa in alcuni tipi più generali e più comuni. E quando, in fine, col procedere della combinazione l’individualità s’è fatta più ricca e più potente, nasce il bisogno di concentrarla in una forma stabile, che è lo Stato con le sue varie funzioni. Tutti questi momenti della formazione della società hanno un doppio aspetto, fisico l’uno e psichico l’altro; e nel secondo ha suo fondamento la coscienza sociale. Questa coscienza è dunque funzione o risultante – l’Autore non esprime così chiaramente il pensiero suo – dell’organismo sociale, la cui formazione s’è accennata innanzi. Questo organismo – che ha tal nome, perché, come ogni altro organismo, è composto di elementi diversi che esercitano un’azione reciproca l’uno sull’altro, con leggi costanti di attrazione e repulsione in raggi determinati – sta alla coscienza sociale, come il corpo sta all’anima individuale. L’organismo sociale è per molti aspetti analogo al corpo organizzato: lo scambio economico corrisponde alla vita vegetativa, le vie al sistema nervoso, le città centrali ed i mercati ai ganglii, la capitale alla testa, il coordinamento delle attribuzioni sociali al cervelletto, le istituzioni al cervello, il danaro al sangue. Dal protoplasma, che sono gl’individui, si formano via via i tessuti speciali, le particolari associazioni cioè per borgate e per tribù, e si costituiscono poscia i centri di attrazione e di assimilazione, finché non si fissa la totalità organica per rimanere identica a se stessa, nella grande varietà degl’individui che la compongono; a quella stessa guisa che il corpo organizzato si conserva nella continua mutazione delle molecole onde è composto. Argomento del i Libro è l’esposizione della Teoria della coscienza sociale (pp. 88-235). Dato l’organismo sociale, è data in pari tempo e di fatto la possibilità della coscienza sociale (pp. 88-96). Questa è un risultamento naturale del processo dell’organismo sociale; perché, come in ogni individuo è costante il sentimento della parte che egli prende alla vita sociale, la coscienza di ciascuno si colorisce d’una tinta comune. Quando i mezzi di relazione sono favorevoli, a mano a mano si forma nei diversi membri della società una certa massa di rappresentazioni comuni, la quale consiste nella somma di tutti gli stati psichici che sono il risultamento dell’azione reciproca degli individui l’uno su l’altro, e che nell’insieme ha il nome di coscienza sociale. Questa non esiste specialmente in nessun degl’individui che fanno parte della società, ma è in tutti come in tanti varii esemplari: e come ciascuno vi partecipa in varia misura, dal diverso grado di partecipazione dipende il coordinamento ideale dei membri della società, e la

loro varia importanza ed influenza. Con la luce di questo concetto l’Autore rischiara tutti i fatti che si riferiscono alla coscienza pubblica, in una esposizione in cui predomina il criterio dell’analogia con le funzioni della psicologia individuale, secondo i principii dell’Herbartismo. La coscienza sociale riposa sul principio della pubblicità (pp. 97-107), che consta di atti e di parole, ed ha la sua manifestazione immediata in tutti quei segni esterni del culto, della moda e delle forme architettoniche, in cui si fissa la fisonomia sociale. Ma in fondo in fondo la distinzione tra coscienza individuale e coscienza pubblica non è che illusoria (p. 101): perché in realtà non c’è che una sola coscienza. Ora della coscienza individuale, o privata di ciascuno, quella parte sola che v’occupa un posto eminente tocca il limitare (Schwelle) della pubblicità, e si mantiene in essa e vi si fissa come elemento integrale; poi che, per via di eliminazione (Hemmung) degl’interessi meramente individuali, le quantità residue della coscienza privata sono entrate nell’ambiente della coscienza pubblica. Dalla quale l’individuo può trovarsi fuori per due ragioni: o per quella parte puramente personale della sua coscienza – sentimenti, interessi, ecc. – che non raggiunge mai il livello della pubblicità; o per la novità stessa dei suoi concetti, che non trovano posto nell’ambiente pubblico, e per pigliarvene uno hanno bisogno della lotta. L’analogia che corre fra la coscienza pubblica e la individuale (pp. 108-111) è assai evidente. La coscienza pubblica consta di una molteplicità di determinazioni interiori, ossia di rappresentazioni, i cui esponenti di differenziazione sono gl’individui, i quali per via dell’azione reciproca si determinano a vicenda. Queste determinazioni interiori dispongono di un ricco sistema di mezzi esterni di comunicazione; e per via dell’affinità o del contrasto si fortificano e si eliminano, e da ultimo si complicano e si fondono nella più perfetta forma dell’unità sociale che è lo Stato: e generano per via di fusione e di complicazione una gran quantità di prodotti secondarii, più ricchi di contenuto. Se non che l’organismo sociale non è così docile istrumento della coscienza pubblica, come il corpo dell’anima: donde procede che lo svolgimento delle rappresentazioni nella coscienza pubblica è assai meno celere di quello che avviene nella coscienza individuale, e non l’agguaglia mai in fatto d’intimità. Ma la differenza fra l’una e l’altra sorta di rappresentazioni è anche qualitativa: perché quelle che risultano dalla elaborazione di molti individui, si spogliano del carattere di rappresentazioni semplici e prendono quello invece di concetti od idee; che è quanto dire, nell’Herbartismo, di rappresentazioni risultanti dalle rappresentazioni semplici. Il mezzo e l’espressione di questa elaborazione delle rappresentazioni è la lingua (pp. 112-126): la quale, nell’atto

che tende ad individualizzare, finisce sempre per fissare gli stati interni dell’appercezione, nella forma di concetti generali. Essa progredisce col moto della civiltà; ed è il segno plastico, al quale si riconoscono i suoi diversi stati e forme. Determinato così il concetto della coscienza sociale, bisogna intendere come le nuove idee si generino e si propaghino (pp. 127-135). Nell’ambiente della coscienza pubblica non c’è posto per la creazione. Il genio non è che una felice individualità, la quale chiarisce e determina il sentimento generale e latente delle masse: e si pone come centro di un moto sociale, il quale, quando i mezzi esterni di comunicazione sono atti a riceverlo, si diffonde perifericamente in forma di onde. La somma delle idee esistenti nella coscienza pubblica rappresenta la condizione statica della stessa, e costituisce il fondamento stabile di quella che dicesi educazione sociale: ma quando le idee nuove si manifestano, un moto di oscillazione si propaga per mezzo loro nelle masse rappresentative già esistenti, e da quel moto procede la loro irradiazione e la fusione con gli elementi che si trovano innanzi. La forma onde le idee si fissano nella coscienza pubblica è doppia: o per fede, il che accade più generalmente; o per convinzione razionale, il che accade più raramente. L’insieme delle idee che sono fissate nell’ambiente della coscienza pubblica, si obbiettiva nella fisonomia sociale. Ma come nella psiche individuale quelle rappresentazioni che non si associano con le altre si smarriscono, così nella coscienza pubblica le idee si perdono se non si fissano in molti individui, che per via di associazione le accettano, esprimono e confermano in comune. L’associazione (pp. 136-145) corrisponde al fenomeno psicologico della fusione (Verschmelzung). Per via dell’associazione le idee acquistano un coefficiente di forza, il quale risulta dal numero degl’individui, in cui risiedono. Di qui procede che l’autorità sociale non consiste nella razionalità delle idee, ma nel numero delle persone che fanno da esponenti delle idee. Dal complesso di queste, in quanto costituiscono il sostrato di una determinata forma della coscienza pubblica, risulta l’autorità sociale, alla quale solo in pochissimi individui si contrappone la consapevolezza razionale. Le masse, o complessi di rappresentazioni, che esistono nella coscienza pubblica formano l’appercezione sociale (pp. 146-153), ossia il mezzo costante onde la coscienza pubblica accoglie e valuta le idee nuove che vi si fanno strada. L’appercezione ha il suo fondamento negl’individui che accettano certe determinate idee, e le confermano col loro numero. Non è agevole sottrarsi così tutto ad un tratto all’azione dei principii determinati dell’ordine pubblico e della educazione pubblica, che sono appunto le masse di appercezione, perché le nuove idee hanno bisogno di una lunga e penosa elaborazione per sostituirsi

mano mano alle antiche. Questa sostituzione ha luogo per due vie: o per quella della riforma, che è la più naturale; o per quella della rivoluzione, che è la meno naturale, e i cui effetti sono meno duraturi. Né le idee, che costituiscono le antiche masse di rappresentazioni, cessano di esistere affatto per l’introduzione delle nuove: perché esse si conservano lungamente come forme esteriori, come ombre o apparenze d’idee, che voglia dirsi. Del saggio che l’Autore dà in seguito dello svolgimento delle idee nella società, prendendo ad esempio l’idea religiosa, l’idea politica e l’idea economica (pp. 154-174), non discorriamo punto, perché questa è la parte più debole del libro. Come nella sfera della psicologia individuale v’ha un’associazione esterna delle rappresentazioni, la quale riposa su l’unione meccanica dei prodotti psichici in ragione della contemporaneità e della successione, ed un’associazione interna, la quale risulta dalla somiglianza e dal contrasto delle rappresentazioni stesse, così v’ha anche nella sfera della psicologia sociale una doppia associazione. L’esterna (pp. 175-180) ha tre fondamenti: spaziale l’uno, e da esso dipende l’associazione sotto il rispetto geografico; temporale il secondo, e da esso deriva l’associazione sotto il rispetto della successione storica; abituale il terzo, che è principio dei rapporti costanti fra segni e cose significate per mezzo della lingua. Dalla varia influenza di questi principii di associazione esterna derivano il municipalismo, il provincialismo e la nazionalità: le quali forme diverse della coscienza pubblica hanno a loro fondamento masse diverse di appercezione, e diversi segni esterni di associazione psichica. L’associazione interna (pp. 181-184) è invece determinata affatto dalle relazioni di contenuto delle rappresentazioni stesse: essa è libera da qualsiasi limitazione di tempo e di spazio, e costituisce il fondamento naturale della ricerca della verità. Questa forma dell’associazione è sempre in lotta con la forma esterna: e sta a quella, che è sempre reale, come un ideale che non si realizza, né si può mai realizzare pienamente. La coscienza pubblica ha la sua particolare forma di attenzione (pp. 185-189), in quanto accoglie e fa sue le rappresentazioni che son proprie degl’individui singoli. Ogni individuo tende a farsi riconoscere, con la somma di rappresentazioni che gli è propria, in quanto coefficiente sociale. Perché ciò avvenga, c’è bisogno del concorso di cause speciali, che son queste: il contrasto e l’associazione fra le rappresentazioni. Queste cause costituiscono un sistema di mezzi (Hilfen), per cui, a guisa di quel che avviene nella coscienza individuale, quando le idee nuove vi trovano un addentellato per fermarvisi, nella coscienza pubblica c’è la disposizione ad accogliere il tributo delle idee individuali. Per questo sistema di mezzi o d’ausiliari dell’attenzione, riposa anche la

memoria pubblica (pp. 190-195), che è quanto dire la coscienza storica. Perché questa ci sia, non basta che i dati cronologici siano vivi nella memoria, perché c’è anche bisogno che gli avvenimenti abbiano lasciato nella coscienza pubblica delle tracce reali. Le quali tracce sono più o meno evidenti e riconoscibili: perché quelli che noi chiamiamo fatti storici non sono che le risultanti di parecchie serie causali, delle quali altre si perpetuano, altre si complicano, altre si disperdono. L’individuo preso nella sua singolarità non sopravvive mai nella memoria storica; perché egli con la morte rimane come sommerso sotto le onde che ha messe in moto con la sua attività: e dalla coscienza di questa naturale limitazione nasce appunto il desiderio dell’immortalità. Il capitolo seguente, che parla della fantasia sociale (pp. 195-202), è debole in guisa, che non vale la pena di farne menzione. Ma la coscienza sociale ci può essere come fatto, senza che gl’individui lo sappiano. Il saperlo costituisce l’autocoscienza sociale (pp. 203-213), la cui espressione è la rappresentazione del noi come opposta a quella dell’io. L’egoista non arriva fino all’autocoscienza sociale, perché egli considera se stesso come distinto dalla coscienza pubblica, ed ignora come una gran parte della sua propria coscienza non è che un risultato di quella. L’individuo invece che arriva fino ad un’autocoscienza sociale piena, rimane tutto penetrato dalle idee che dominano nell’ambiente sociale; e considera l’organismo sociale, in cui vive, come il suo proprio corpo. Perché l’individuo arrivi fino all’autocoscienza sociale, ha bisogno d’un certo grado abbastanza alto d’intelligenza, per comprendere la connessione propria dei fatti sociali, e di una certa elevazione morale per vincere l’egoismo. Questa vittoria non è però mai completa, perché nell’egoismo ci si ricade sempre: essendo la massa delle rappresentazioni (gl’interessi) che lo costituiscono sempre superiore a quella delle rappresentazioni che concorrono a formare l’autocoscienza sociale. Nell’autocoscienza sono molti gradi – famiglia, gente, provincia, Stato; – e molte forme diverse, – autocoscienza politica e razionale, – che s’incrociano, e spesso si contrastano. Dall’autocoscienza deriva l’autosentimento sociale, che ha per termine d’opposizione quello che è opposto al noi, la rappresentazione limitativa dello straniero. Nell’autocoscienza sociale entra come elemento integrale la rappresentazione che ciascuno individuo ha degli altri individui che compongono la società (pp. 214-224). Noi guardiamo tutti gli altri individui come forze, dalla combinazione delle quali risulta quell’insieme che dicesi società; e ne abbiamo una rappresentazione diversa – più o meno viva cioè – secondo che gl’individui stessi si sono più o meno elevati sul livello della coscienza pubblica, e più costantemente vi si mantengono. Perché le rappresentazioni che noi abbiamo

degli altri individui soggiacciono alla sorte di tutte le altre rappresentazioni; d’essere, cioè, eliminate o mantenute vive nella coscienza, secondo l’ordinario andamento dell’attività psichica; cosicché, come nell’ambiente della nostra coscienza individuale c’è sempre un limitare, di qua dal quale non c’è consapevolezza, questo limitare (Schwelle), in quanto si riferisce alla vita pubblica, segna il confine della importanza e della influenza sociale degl’individui. L’elevarsi fino a questo limitare costituisce la rispettabilità degl’individui, il principio psicologico dell’onore: il quale non riposa sul merito guardato razionalmente, ma sopra un complesso di circostanze reali, le quali s’incrociano e si connettono fra loro. Tutti tendono all’onore: e chi non ne ha, o non ne può avere per se stesso, s’associa all’onore che si fa agli altri, per prepararsi nella attenzione altrui come una specie di mezzo mnemonico, onde gli altri abbiano a ricordarsi di lui. Dalla distribuzione degli uomini su la scala della rispettabilità sociale ha origine l’aristocrazia. Da questi dati psicologici risulta la legittimazione dell’ordinamento sociale (pp. 225-235). Gl’individui che entrano a far parte dell’organismo sociale sono sparsi sopra un vasto territorio, diversamente fornito di mezzi di comunicazione. Dalla loro azione reciproca risultano quegli stati interni della vita dell’anima, che sono il fondamento della coscienza sociale. Questa nuova consapevolezza non è un semplice riflesso della consapevolezza di ciascuno, ma è come il campo o l’arena, su la quale gl’individui contendono per pigliare una posizione eminente che desti l’attenzione altrui. Le leggi psicologiche dell’oscuramento e dell’elevazione delle rappresentazioni determinano i gradi di relativa elevazione degl’individui sul livello della coscienza sociale; donde procede che molte rappresentazioni rimangono oscurate, ossia che molti individui non raggiungono nella coscienza comune quel grado d’evidenza, per cui si è parte della consapevolezza sociale. Un principio di servitù è dunque elemento integrale d’ogni società: giacché pochi possono passare quel livello che segna il confine dell’attenzione pubblica, e quei pochi costituiscono l’aristocrazia. Ad evitare che questa degeneri in oligarchia od in tirannia, non c’è altro mezzo se non quello d’accrescere le piccole associazioni ed i piccoli centri; e in ciò ha fondamento il principio politico delle autonomie locali, e il principio economico della concorrenza. Nel III Libro (pp. 236-350) l’Autore esamina un altro lato della psiche sociale: la volontà; e questa parte egli intitola Psicologia politica. Nell’organismo sociale il rapporto fra le idee e la volontà (pp. 236-244) è questo: che gl’individui stanno alla coscienza sociale, in quanto si estrinseca per via degli atti della comunità, come i muscoli stanno ai nervi ed al cervello nell’organismo individuale. I bisogni sono il movente immediato, e le idee sono

le norme dell’azione. Ma come si forma un volere sociale? Non è egli vero che gli uomini di natura loro sono inclinati a far ciascuno centro da sé; e come arrivano essi a coalizzarsi in un volere solo? Nello stato di natura ogni individuo cerca l’utilità propria, e sta a tutti gli altri individui come un atomo agli altri atomi. L’influenza di ciascuno però si espande in direzioni opposte ed in raggi determinati; e quella predomina che ha più energia e forza intrinseca. Da questa maggiore influenza deriva il predominio di alcuni pochi su la massa; la qual cosa costituisce uno stato di violenza sociale. Perché questo stato cessi, bisogna che più individui s’uniscano per uno scopo comune; avendo in animo un’idea comune. Questa è l’origine naturale della volontà collettiva, la uniformazione dipende affatto da un bisogno istintivo dell’equilibrio dei voleri (pp. 245-249) senz’altro intervento d’idee etiche. Il bisogno della condizione statica dei voleri s’ingrandisce e si fortifica col crescere dell’antagonismo fra i diversi componenti della società, ed ha la sua massima e piena attuazione nello Stato (pp. 250-263). Perché si arrivi a quella condizione statica dei voleri, dalla quale deriva la loro coalizione, c’è bisogno di due mezzi; esteriore l’uno, che è quello, il quale riposa su i rapporti reali fra gl’individui; interiore l’altro, ed è la coscienza sociale. C’è dunque una diversa coalizione dei voleri, secondo che è più o meno grande la facilità dei rapporti fra gl’individui, e più o meno esteso l’ambiente della coscienza sociale. Quando però una società è molto sviluppata, non c’è più bisogno della diretta influenza di un individuo su l’altro, bastando la semplice rappresentazione che ciascuno ha degli altri individui, perché da quella nasca l’impulso al volere sociale. La volontà sociale ha un’intensità varia: e si può dividere in intensità reale, in ragione dell’energia individuale, della coerenza nelle volizioni (carattere) e delle quantità dei voleri singoli; ed in apparente, in ragione del numero degl’individui che noi ci rappresentiamo come esponenti numerici di un determinato volere, e dei mezzi dei quali essi dispongono. Perché nella società questo volere apparente ha tanta efficacia quanto il volere reale, anzi ne ha spesso di più, donde procede che l’adattarsi dei più al volere di quei pochi che hanno mezzi per farsi valere, è una condizione inevitabile della vita sociale, dalla quale risulta la coordinazione e subordinazione degl’individui. L’associazione dei voleri tocca l’apice nella costituzione dello Stato. Lo Stato, perché sia un organismo perfetto, ha bisogno di un’assoluta libertà interna ed esterna, ed a questa condizione non può riuscire se non per via della eliminazione degl’interessi personali. Cosicché il volere sociale è destinato ad esercitare una pressione più o meno grande sul volere dei singoli individui; e la esercita infatti in doppia maniera: in quanto gl’individui rinunziano ad una parte

dei loro dritti, o in quanto lo Stato stesso si sostituisce all’esercizio dei dritti individuali. La seconda specie di pressione, che è quella che può dirsi strettamente politica, è meno sensibile, perché riesce ad una maggiore garenzia della libertà individuale; mentre la prima si avverte di più, perché lede più direttamente gl’interessi degl’individui presi a parte. La coscienza però dell’alto scopo, cui lo Stato è rivolto, mitiga negl’individui il sentimento spiacevole della propria limitazione: e può menarli alla persuasione che lo Stato non ci può essere, se non in quanto molti interessi individuali rimangono eliminati, e solo le quantità residue dei voleri individuali, che si sommano nella coscienza pubblica, riescono a prevalere, con la esclusione di tutte quelle volizioni che non possono entrare a far parte della volontà collettiva. Come dai voleri singoli, per via d’eliminazione e di combinazione, nascono i voleri collettivi, anche questi dal canto loro venendo in collisione hanno bisogno di nuove eliminazioni; finché non si generino quei voleri più generali e più complessivi che predominano costantemente sul livello della coscienza pubblica. Questi voleri si dicono norme, in quanto i voleri individuali vi si adattano, ed hanno la loro espressione nelle leggi (pp. 264-273), le quali sono il volere universale reso obbligatorio. Si dicono naturali, se nate da accordo implicito; positive, se da una intesa esplicita: ma nell’uno e nell’altro caso nascono dal popolo, sebbene la maniera del nascere non possa mai esser quella di una intelligenza generale ottenuta per via di una convenzione fra tutti i membri della società. Il modo onde gl’individui partecipano al volere sociale, è diverso nei diversi stadi della società. Le donne, i fanciulli, i vecchi, gl’infermi, o gl’impotenti per qualsiasi altra ragione naturale, rimangono sempre esclusi dal parteciparvi. A mano a mano che il volere di un individuo si eleva e si mantiene sul livello della coscienza pubblica, esso diventa norma per gli altri. Se è un solo l’individuo che arriva a far prevalere il suo volere su quello degli altri, s’ha il principato; se son parecchi invece i voleri che si conservano attivi dopo la eliminazione che è risultato del convivere sociale, si ha l’aristocrazia. Ove infine la totalità degl’individui riesce a prevalere, si ha la democrazia, la quale non è mai perfetta, perché lascia sempre luogo al prevalere di alcune volontà che si conservano più efficaci sul livello della coscienza pubblica, e per via dell’aggrupparsi e dell’eliminarsi a vicenda ripigliano la tendenza centripeta, che è fondamento della monarchia. Il predominio esclusivo di una di queste tendenze conduce sempre alla tirannia: per la qual cosa quella sola forma di Governo può dirsi perfetta, la quale riposa sopra un compromesso stabile fra queste tre tendenze. Il volere sociale non è sempre lo stesso. Il suo cambiamento costituisce il progresso nella vita pubblica (pp. 274-278). La prima causa del cambiamento è

affatto naturale. Con lo sparire d’una generazione, uomini nuovi vengono su la scena pubblica per pigliarvi parte. L’educazione e le leggi tendono a costituire una continuità di fatto in mezzo al cambiare delle generazioni; ma né l’una né le altre possono far sì che la condizione statica dei voleri non muti: così che l’educazione e le leggi devono cambiarsi con l’andar del tempo. Ora, ad ovviare che il cangiamento degeneri in rivoluzione, bisogna trovar modo che le persone destinate a rappresentare la coscienza sociale mutino col mutare del sostrato organico della società. Questo è il fondamento razionale del sistema rappresentativo, sul quale riposa il vero progresso dello Stato. Ma non basta. Le leggi che governano l’associazione umana sotto il riguardo economico, sono una naturale conseguenza dei bisogni umani, e non fa mestieri che alcuno le faccia quali esse sono e si sforzi di tenerle in vigore. Non così le leggi che regolano l’associazione politica. Queste hanno bisogno di chi le esegua e le interpreti, e la esecuzione ed interpretazione loro esige un organo stabile e speciale. Quest’organo speciale è il Governo, braccio ed occhio della legge (pp. 279-288). Dalla concentrazione però delle forze in mano a pochi può procedere l’abuso della forza stessa; onde è mestieri di circondare il Governo di quelle guarentigie che lo tengano chiuso in certi confini. Nessuno però dei sistemi finora escogitati, per circondare d’una guarentigia stabile l’autorità del Governo, si può dire sia riuscito a risolvere pienamente il problema. Perché il Governo, in quanto ordinamento gerarchico, ha da avere la sua propria coscienza distinta da quella della società, cui può e non può in alcuni casi corrispondere. Quando la coscienza del Governo non corrisponde a quella della società, presa nel suo complesso, lo Stato entra in condizione patologica. Come in generale le malattie dell’anima derivano dalla sostituzione di un io artificiale all’io storico dell’individuo; così l’io governo, distinto ed opposto all’io società, è il principio dell’alterazione patologica dello Stato. A questa malattia sempre rinascente nell’organismo dello Stato non c’è altro rimedio da opporre, se non quello della sana educazione del popolo. Le forme dominanti della coscienza individuale sono la condizione statica delle rappresentazioni, e la eccitabilità delle masse rappresentative. Nella prima, mercé la costanza delle masse appercipienti, predomina la tranquillità; la quale consiste nelle obbiettività del conoscere, e nel dominio dell’individuo sopra di se stesso (il carattere). Queste due forme si trovano anche nello Stato. Alla eccitabilità corrisponde lo stato di natura, nel quale non v’è posto per quell’equilibrio costante dei voleri, da cui procedono le leggi. Per contrario, nello stato sociale già costituito, l’equilibrio dei voleri, ottenuto per via dell’eliminazione degl’interessi personali, costituisce l’orizzonte comune della coscienza sociale, al quale gl’individui s’elevano per primeggiare. Se ad un solo

individuo riesce d’ottenere il predominio su tutti gli altri, lo Stato corrisponde a quella condizione dell’animo che dicesi passione: perché, come in questa la coscienza individuale rimane sopraffatta da una sola massa rappresentativa, che non lascia libero il posto alla ragione, la quale risulta appunto dalla libera circolazione di tutte le rappresentazioni; così nella società retta a monarchia assoluta, il predominio d’un solo individuo impedisce il naturale attrito degli elementi che sono riposti nella coscienza pubblica. Invece lo Stato retto dalla legge rassomiglia alla condizione statica dell’anima ragionante, in cui tutte le forme della vita interiore circolano, si collidono e si compongono liberamente. Ora lo Stato razionale non è più una semplice risultante delle forze istintive dell’associazione. A formarlo e mantenerlo in piedi contribuiscono le idee etiche: e di queste l’Autore passa a discorrere (pp. 200-350), attenendosi ai principii generali dell’etica herbartiana. La prima idea etica che esercita la sua influenza su la società, è quella della perfezione (pp. 300-308). Ogni uomo è in grado di paragonare l’energia del proprio volere con quella del volere altrui, e si trova quindi, per naturale condizione di cose, spinto ad accrescere la propria. Perché, avendo l’uomo una individualità più ricca e più complessa di quella di ogni altro animale, la varietà stessa dei voleri individuali è incentivo alla vicendevole imitazione, ed è fondamento del progresso per via dell’associazione. La legge costante dell’attuazione dell’idea etica della perfezione è quella della conservazione dell’ottimo nella lotta per l’esistenza, per mezzo della selezione naturale. Da questa tendenza ha origine l’impronta etica dell’organismo sociale, come sistema della coltura. La tendenza alla perfezione non può fare però che tutte le cagioni di contestazione fra gl’individui rimangano eliminate. Se non che la contestazione ripugna, e dalla ripugnanza nasce il bisogno di dirimerla. Quello che dirime le contestazioni è l’idea del dritto (pp. 309-320), la quale nasce dapprima come condizione di fatto, in quanto all’individuo non è lecito d’invadere la sfera della libertà altrui. A mano a mano si va poi confermando per mezzo dell’apparato sociale delle istituzioni giuridiche: finché alla condizione di fatto non subentra la persuasione che la contestazione, perché ripugna al sentimento etico, deve essere onninamente evitata. Per via di questa persuasione si costituisce il sentimento legale della conservazione. Quando ogni individuo s’astiene da tutte le contestazioni, meno da quelle che non risvegliano alcuna ripugnanza etica, e lascia a tutti gli altri il godimento del loro stato presente, la base giuridica della società è data di fatto. Il consentire agli altri l’esercizio pieno dei loro dritti su tutte quelle cose, su le quali noi non ne esercitiamo alcuno, legittima l’occupazione e la converte in dritto di disporre, ossia in proprietà. Il processo dell’idea del dritto nella società corre per diversi gradi, i cui estremi sono

l’accettazione di una condizione di fatto in principio, la sanzione positiva in fine. Ma l’esserci questa sanzione non toglie, che nella società retta dal sentimento giuridico i diversi dritti non entrino in collisione; e che spesso l’idea del dritto non sia altro se non una maschera destinata a nascondere l’assoluta assenza d’ogni convinzione morale. L’idea del dritto è dunque insufficiente a mantenere l’ordine morale della società. Il dritto può essere violato, e quando la violazione è fatta per dolum, essa risveglia una ripugnanza che ha il suo correlativo pratico nella esigenza della riparazione. Da questa esigenza nasce l’idea etica della retribuzione (pp. 321-330); la quale ha un doppio aspetto, secondo che è diretta a colpire il male col male, od a compensare il bene col bene. Ma come si farà a retribuire il male col male, senza ledere la sfera del dritto altrui; ossia, senza commettere un’ingiustizia? Non c’è anche l’idea della benevoglienza, che contraddice all’esigenza della pena? Ora perché la società abbia il dritto di punire, bisogna che questo dritto le sia preventivamente riconosciuto da tutti, e che tutti siano d’accordo nell’ammettere, che il motivo della retribuzione mitiga la ripugnanza morale che risveglia in noi l’offesa fatta per via della pena ai principii del dritto e della benevoglienza. Cosicché, come il dritto ha da essere impreteribilmente tutelato, ed è parte della tutela di esso l’impedire che altri lo violi nell’avvenire, l’idea della retribuzione diventa, mediante la sanzione penale, una minaccia pei futuri violatori del dritto: e in quanto essa sola determina la misura della pena, impedisce anche che questa degeneri in una nuova violazione del dritto. Se non che, come la coscienza pubblica raramente arriva fino all’idea della retribuzione, così avviene che la pena si consideri generalmente più come tutela del dritto, che come attuazione dell’idea del compenso: donde procede che le leggi penali spesso degenerano in leggi di terrore. Anche sotto un altro aspetto l’idea della retribuzione è un correttivo di quella del dritto. I dritti di ciascuno sono il risultato delle concessioni di tutti a ciascuno: rassomigliano quindi ad un benefizio, e per ciò esigono una retribuzione. Questa non può consistere in altro che in una concessione fatta a ciascuno, perché possa sviluppare liberamente l’attività sua, per ottenere in giusta proporzione una determinata somma di dritti e di beni. Quando questa esigenza è posta dagli aventi nessun dritto, ossia dai proletari, i quali si propongono di rovinare i dritti esistenti per ottenerne essi dei nuovi, l’idea del dritto si fa più potente nella coscienza pubblica; per cui quando si vuole ottenere di viva forza delle concessioni, la società che ha innanzi tutto il bisogno di conservarsi, per naturale reazione tende alla tutela dei dritti storici, anche quando essi siano contrarii all’idea della retribuzione.

Assai più gravi sono le esigenze che pone alla società l’idea della benevoglienza (pp. 331-341). Essa pretende non solo che tutti i dritti siano rispettati, ma che tutti i voleri siano soddisfatti. Ove le sue esigenze livellatrici venissero adempite affatto, la società sarebbe distrutta. La società è organismo, ossia compromesso stabile fra gli elementi che la compongono, i quali pur debbono conservare nella composizione la loro indipendenza. Per contrario l’idea della benevoglienza tende a rimuovere ogni differenza fra l’io e il tu, per farne tutta una cosa nella rappresentazione del noi; a convertire cioè la società in comunità. L’Autore però, dopo aver mostrato a quali false conseguenze meni l’esagerazione della benevoglienza, finisce per non assegnare in che misura essa possa e debba esercitare la sua influenza su la società umana, senza alterarne le condizioni statiche. Nell’ultimo capitolo l’Autore discorre della società come d’un tutto organico animato da una coscienza razionale perfetta (die beseelte Gesellschaft, pp. 342350). Questo concetto della società corrisponde a quella idea etica, cui Herbart dà il nome di libertà interiore, nella sfera della morale individuale. La società, come s’è visto innanzi, è dapprima un’opera della natura, un semplice fatto. Essa risulta dall’equilibrio dei voleri, al quale gl’individui arrivano per via dell’azione spontanea dell’associazione. A mano mano però che le masse appercipienti si costituiscono, la coscienza sociale si forma e si conferma: e da essa ha origine ogni virtù politica. Ora perché la società potesse raggiungere quello stato di libertà interna che è il massimo grado di perfezione dell’individuo, farebbe mestieri che nella coscienza sociale ci fosse una piena equazione fra la convinzione etica comune a tutti, e la volontà di ciascuno: cioè, che la somma del voleri sociali corrispondesse pienamente alla somma delle idee raccolte e condensate nell’ambiente della coscienza comune. Se una simile condizione si potesse raggiungere, la società si direbbe animata; essa cioè non sarebbe sotto nessun aspetto e per nessuna delle sue parti l’effetto del caso o del fato, ma tutto un prodotto della libertà interna: nel suo insieme sarebbe come una sola coscienza morale. Questo concetto è però un semplice ideale, cui la società reale s’approssima più o meno, senza raggiungerlo mai; e nel grado di approssimazione è riposta la maggiore o minore perfezione della società stessa. Dalla imperfezione della società umana ha origine la formazione di un altro ideale più perfetto: e questo è il fondamento della religione (pp. 351-366). La coscienza individuale non può trasfondersi tutta nella coscienza sociale, né l’io può mai tramutarsi affatto in noi: cosicché la società apparisce piuttosto come limite che come termine dell’attività umana. La società in cui ora viviamo, quella in cui vivono in altri luoghi i contemporanei nostri, o quella in cui sono

vissuti gli uomini di altri tempi, non è che una parte minima dell’universo: è limitata ed imperfetta, ed ha sempre in se stessa un principio di servitù e d’infelicità. La coscienza della limitazione spinge al desiderio di una società più perfetta e più ideale, il cui territorio è l’universo, il cui centro è Dio. A questo mondo ideale pur bisogna che corrisponda qualcosa di reale in questo mondo nostro: e di qui procede l’associarsi nella credenza dell’ideale fantastico, ossia il culto, la gerarchia e la Chiesa. I deboli sono attirati più dei forti in questa associazione, perché essa ha origine dalla coscienza della limitazione umana; sicché a misura che nell’uomo diminuisce la coscienza della propria limitazione, diminuisce la forza di quell’associazione che dicesi Chiesa: ma la sua influenza non finirà mai affatto, perché non potrà mai formarsi nell’uomo la coscienza piena dell’assoluta indipendenza da ogni limitazione naturale. La sua base naturale è l’autorità, la quale deriva dalla fede comune in qualcosa di non raziocinabile; e che non può mai venir meno assolutamente, perché è impossibile che tutti gli uomini si elevino alla coscienza razionale. L’Autore discorre in ultimo brevemente della opposizione fra Chiesa e Stato, ed esprime il desiderio che la Chiesa finisca per risolversi nelle libere comunità religiose. Dal sunto che abbiamo fatto del libro del Lindner, i lettori potranno vedere da se stessi, se noi, nel giudicarlo fin dal principio di questa rassegna come poco rispondente al fine che l’Autore s’è proposto, abbiamo dato nel segno. Nell’insieme il libro non è che una esposizione dei punti principali della dottrina dello Stato, sotto l’aspetto psicologico: ma non riesce a stabilire i principii della psicologia sociale, come parte della psicologia generale, o come fondamento delle dottrine positive dell’economia, della legislazione e del diritto pubblico. Per imperfetto che sia questo tentativo, esso è nondimeno però degno di molta lode. Se fra i cultori delle scienze filosofiche ve n’ha uno che voglia o possa mettersi a ricercare i principii generali della psicologia sociale, quest’uno troverà nel libro del Lindner una gran copia di cose buone da raccogliere. Ma vi troverà anche un avvertimento a non darsi la fretta di scrivere un manuale di Psicologia sociale; perché la somma delle idee che una così fatta disciplina dovrebbe esporre, non è ancora così bene sceverata e dichiarata, che si possa fin d’ora chiuderla nei confini di una vera e propria scienza.

[4] HERMANN KERN, Grundriss der Pädagogik [Compendio di pedagogia], Weidmann, Berlin 187325. L’Autore di questo libro è noto ai cultori della Pedagogia per avere diretto per molti anni i «Pädagogische Blätter» di Coburgo, rivista scolastica assai pregevole; e per avere accreditati nelle scuole della Prussia i principii didattici della pedagogica herbartiana, della quale egli è seguace26. Ma ora senza dubbio il dottore Kern aggiunge con questo libro un titolo assai notevole alla sua fama di cultore della Pedagogia; perché il lavoro merita di essere considerato come un vero modello di compiutezza e di concisione, di rigore scientifico e di eleganza espositiva. La scuola, secondo i principii della quale questo manuale è scritto, non contava ancora nel numero dei suoi prodotti un libro che compendiasse in breve volume la somma delle dottrine pedagogiche. Infatti, i maestri di scuola ed i direttori degli Istituti normali non potevano agevolmente farsi un’idea esatta dei risultati della vasta letteratura pedagogica degli Herbartiani, mancando un libro, in cui fossero raccolti, come un prospetto, la somma dei principii e l’insieme delle regole. Opere di lunga lena e riviste voluminose da riempire le biblioteche non sono certo i mezzi più acconci a popolarizzare una dottrina. Basti ricordare che il Trattato dello Ziller (Grundlegung zur Lehre vom erziehenden Unterricht), che abbraccia la sola sezione della teoria dell’istruzione educativa, è di ben due volumi in ottavo27. Né è a dire che l’Autore siasi limitato a scrivere un sommario quale che siasi delle dottrine altrui. Perché il libro che qui annunziamo ha fisonomia propria, ed ordito di lavoro originale. L’Autore ha scelto, secondo un concetto suo proprio, quello che più si convenisse alla forma di un manuale; rimandando, in brevi accenni bibliografici, alla ricca letteratura della scuola, cui appartiene. Nell’ordinamento formale del libro egli segue lo schema comune ai trattati di Pedagogia della scuola herbartiana; così che il compendio è diviso nelle due principali sezioni di pedagogica generale e di pedagogica speciale. La prima tratta del concetto e del fine della educazione in generale, del governo dei bambini, della istruzione educativa e da ultimo della disciplina morale: la seconda s’occupa più brevemente dell’ordinamento delle scuole. Ma di cotale schema egli ha usato con libertà, correggendo o completando opportunamente le altrui teorie, ed invertendo talvolta l’ordine delle questioni per accomodarne la trattazione alla forma del libro. I pregi del quale non potrebbero essere notati partitamente che in una rivista,

la quale s’occupi specialmente di Pedagogia. A noi basterà qui di raccomandarlo a tutti coloro, cui tocca d’occuparsi in questa specie di studii; perché essi vi troveranno una esposizione compiuta e facile delle teorie pedagogiche della scuola herbartiana, il cui principale merito è stato quello di sostituire una scienza all’insieme indigesto di osservazioni e di espedienti che ordinariamente, massime fra noi, usurpa il titolo di pedagogica.

[5] WILHELM FRIDOLIN VOLKMANN RITTER VON VOLKMAR, Lehrbuch der Psychologie vom Standpunkt des Realismus und nach genetischer Methode [Manuale di psicologia dal punto di vista del realismo e secondo il metodo genetico], 2 voll., Schulze, Cöthen 1875-187628. Di un’opera così estesa, che nello spazio di mille e più pagine tratta e risolve tutti i problemi della psicologia, con ampio risguardo alla storia della scienza medesima, non è certo agevole dar conto esatto e coscienzioso, ove non si voglia scrivere una serie di articoli speciali, nei quali all’esposizione venga acconciamente intrecciata la discussione. Il che certo non si può fare in questo luogo; e basterà perciò notare i caratteri e i pregi principali dell’opera, per attirarvi su in qualche maniera l’attenzione del pubblico, cui non ne sia altrimenti arrivata la notizia, per via delle Riviste speciali del nostro paese od estere. Al qual proposito ci è grato notare, come indizio di risveglio degli studii speculativi fra noi, che un’opera così voluminosa, e bisogna pur dirlo, costosa di Psicologia abbia trovato in più parti d’Italia uno smercio notevole, non solo presso quelli che fan professione di studii filosofici, ma anche presso quelli, che, attendendo ad altri studii morali o naturali, cercano in così fatti libri un semplice complemento della loro coltura speciale. L’Autore, che da molti anni insegna nell’Università di Praga, tiene un posto assai notevole nella Scuola herbartiana29. Il Compendio di Psicologia, che ei pubblicò il 1857, fin dal primo momento che venne alla luce fu considerato come uno dei migliori manuali di cotal scienza, ed assicurò all’Autore la fama di ricercatore esatto, e di compìto espositore30. Con l’opera che ora qui s’annunzia, il Volkmann ha non solo arricchita la letteratura scientifica di un libro più esteso, più minuto e più elaborato di quello che egli pubblicò venti anni addietro; ma ha eziandio offerta agli studiosi una sicura scorta per la ricerca psicologica, ed insiememente una enciclopedia storica e critica di tutte le opinioni e di tutte le teorie che si riferiscono alla psicologia. Si cadrebbe certo in errore a dar giudizio del carattere del libro dal solo titolo, che è di Psicologia dal punto di vista del Realismo, come se si trattasse, diremmo, d’un’opera di partito, di una specialità di scuola, di un libro insomma, in cui l’osservazione venga anticipatamente sacrificata ad uno schema preconcetto, e dove la difficoltà, perché non potuta risolvere, o rimanga celata o sia negata. Ché anzi è così fatto, che chi lo pigli a leggere con interesse vi spazia dentro come in un vasto campo di ricerca, v’impara il metodo di ben condurre

l’indagine, e v’acquista ricchezza di risguardi in ogni sorta d’indirizzo. I quali effetti sull’animo del lettore derivano da due circostanze: e dalla cautela che l’Autore usa nel mettere in evidenza i fatti, prima di ridurli alla spiegazion teoretica, e dalla ricchezza delle notizie storiche, che, mettendo in chiaro le difficoltà, ne suscitano un così vivo senso nella mente, da disporla a valutare l’importanza, non che delle scuole filosofiche antiche e moderne, di tutti gli studii fisiologici, morali e sociali che abbiano qualche attinenza con la psicologia. La lettura del libro riuscirà più vantaggiosa se fatta in due volte. Gli 85 paragrafi del primo volume e i 159 del secondo possono formare obbietto di una prima lettura seguìta del testo, in cui s’ha tutta intera la teoria psicologica. Possono formare obbietto di un secondo studio più speciale le copiose note aggiunte a ciascun paragrafo, nelle quali o si dà chiarimento al testo, o si offrono i materiali per la ricerca, o si espongono le opinioni degli altri scrittori, dai tempi antichissimi ai giorni nostri, con esatta indicazione dei libri, dei paragrafi e delle pagine delle opere loro. Lo studio di coteste note basta per sé solo ad agevolare la ricerca, non che nel campo delle questioni generali, in quello dei più minuti particolari psicologici. Gli è cosa oramai saputa, che primieramente per opera di Herbart e della sua scuola la psicologia ha preso posto fra le scienze positive, ricercative o prammatiche che voglia dirsi. Il che del resto non è accaduto per dimenticanza o per ignoranza delle difficoltà speculative inerenti alla ricerca psicologica, come pur troppo si nota in parecchi empiristi tedeschi ed inglesi degli ultimi tempi, ma per un sano e corretto intendimento dei rapporti che legano la ricerca empirica alla speculativa, nel campo della psicologia. Per questo rispetto il libro del Volkmann meriterebbe già l’attenzione degli studiosi, che vi troveran raccolto, discusso ed ordinato tutto il sapere, di una insigne ed originale scuola di psicologia, se esso non meritasse ancora più l’approvazione dei dotti per la libertà, con la quale l’Autore, uscendo dai confini della scuola stessa, ha saputo mettere assieme tutte le dottrine accertate, tutte le teorie o certe o probabili, in un’opera veramente colossale. Cosicché in ogni parte dell’esposizione il lettore trova il più completo riassunto del passato, e la spinta ad ogni ulteriore ricerca. E si vuol notare un pregio speciale del libro per rispetto ai lavori più recenti della scuola, cui l’Autore appartiene. In essa era prevalso non è guari l’indirizzo empirico nella trattazione dei problemi psicologici; il che, se pur non importava dimenticanza assoluta delle ragioni speculative della ricerca, non rare volte metteva in una falsa posizione così lo scrittore come il lettore. Nel libro del Volkmann i concetti speculativi son nuovamente introdotti nel corpo della

dottrina psicologica, sia per fare da criterio di riduzione, sia per servire da regola di spiegazione. Al lettore riesce per tal via agevole il passaggio dalla considerazione dei fatti a quella dei principii assunti per ispiegarli; e nel movimento del pensiero si ha pur sempre una chiara e distinta apprensione degli elementi speculativi, in quanto messi a riscontro dei fatti e degl’intrecci loro. Or quando si è detto di un libro di psicologia che esso presenta tanti lati e racchiude in sé tanti pregi, non si può aver difficoltà di soggiungere che non vi ha altra opera al presente che gli stia a paro. In esso, infatti, si rinviene, con giusta economia delle parti e con molto accorgimento d’esposizione, quanto v’ha di più accertato nell’esperienza e nell’esperimento, di più dichiarato nell’erudizione, di più accettabile nella riduzione speculativa, di meno discutibile nella espressione matematica. In Germania si è stati concordi nel riconoscere i singolari pregi del libro, e già la fama n’è giunta in Inghilterra, ove ad un articolo della «Westminster Review» si è vista succedere la promessa di una traduzione31. Non sarebbe del pari opportuna una versione italiana? Da noi l’interesse per la ricerca psicologica è venuto crescendo di molto in questi ultimi anni; e di ciò s’ha non pochi indizii dai lavori, o per lo meno dalle inclinazioni dei giuristi e dei naturalisti. E il libro del Volkmann è proprio acconcio a mettere sulla buona via, perché chi riuscisse ad orientarsi nelle cose psicologiche con la scorta sua sarebbe per sempre assicurato dal non cadere in vane divagazioni. Perciò se un editore si mettesse all’impresa di pubblicarne una traduzione, ei farebbe opera davvero meritoria; e giova a tal proposito di notare che il testo, sebbene scritto nei termini più rigorosi della scienza, non presenta difficoltà di stile che sieno di rilievo, il che rende di certo più agevole l’opera del tradurre. È nostro proposito di toccare dei particolari del libro in luogo più acconcio, non parendoci opportuno di pigliare in ispeciale esame le questioni della psicologia, in una rivista destinata a fini più generali di coltura. Nondimeno ci par bene d’indicare la partizione del libro, perché ne sia chiara in qualche maniera approssimativa la composizione a tutti quelli, cui può importare d’averne notizia prima di farne acquisto. Come s’è detto, l’opera è divisa in paragrafi di testo, ed in note illustrative. Ne rimane agevolata la lettura dall’indice analitico, che offre come il prospetto delle questioni; e dal registro per materie si può cavar partito per ogni sorta di riscontro. L’Introduzione (vol. I, pp. 1-53) tocca tutte le questioni che si riferiscono al concetto ed al metodo della psicologia. Il posto che a tale scienza si compete nel sistema filosofico, è ampiamente illustrato col riscontro del concetto che ce ne facciamo nel considerarla come dottrina empirica. I termini d’induzione, di

esperienza e di esperimento, in quanto applicabili alla psicologia, vengon ridotti al loro giusto valore. Segue poi (pp. 53-212) l’esposizione di quei concetti che sono come gli elementi conoscitivi della considerazione psicologica. Si assegna perciò il concetto speculativo dell’anima, e si dà conto delle ragioni fisiologiche per ammetterlo; si discutono le varie opinioni dello spiritualismo, del materialismo, del dualismo e del monismo, e da ultimo si fissa il concetto della rappresentazione, come del fenomeno fondamentale psicologico, da cui s’argomenta che tutti gli altri s’originino per varia derivazione e combinazione. Stimiamo in questa prima parte come principalmente notevoli due punti: la dimostrazione, cioè, che il concetto dell’anima è un necessario complemento dell’osservazione fisiologica, e la delimitazione del campo proprio della psicologia per rispetto alle ricerche fisiologiche ed antropologiche in generale. Si discorre poscia dei fatti elementari della sensazione e del movimento (pp. 213331). Nel trattare della sensazione in generale si riduce in giusti termini il valore della legge psico-fisica del Fechner32. Si espongono poi le varie forme della sensazione. Dei dati fisiologici si tien conto, ma con sobrietà, quel tanto, cioè, che importa a dichiarare le questioni che sono psicologiche nello stretto senso della parola. Messi in evidenza gli elementi della vita psichica, in quel che rimane del primo e poscia in tutto il secondo volume si procede alla esposizione genetica di tutti i fatti che conseguono dalla presenza delle rappresentazioni nell’anima, e dal vario modo di elidersi e di combinarsi che esse tengono. Così la teoria della eliminazione della fusione e del moto delle rappresentazioni (pp. 331-394) spiana la via a spiegare i fatti di riproduzione che vengon trattati in tutta l’importanza loro (pp. 394-481). Nel secondo volume poi la teoria dei fatti elementari riceve il suo complemento nella spiegazione dell’intuito delle cose, in quanto proiettate fuori di noi, e considerate per gli aspetti dello spazio e del tempo (pp. 1-156). Dopo di ciò si passa ai fenomeni della coscienza e del pensiero, cioè a dire l’io, l’appercezione e le forme logiche (pp. 156-288). In questa parte il libro del Volkmann presenta molti lati nuovi, anche per rispetto alla scuola, da cui son derivate le dottrine fondamentali. Il rimanente del volume (pp. 289-526) è consacrato alla teoria del sentimento, dell’appetizione e della volontà. In tutta la esposizione il rilievo dei concetti principali mette in evidenza i molteplici lati della ricerca, cosicché a tempo e luogo opportuno i problemi che concernono, per esempio, la lingua, la coscienza sociale, il sogno, l’illusione, la responsabilità e così via via, trovano la loro soluzione in conveniente proporzione con l’insieme delle teorie fondamentali. Una osservazione ancora.

In più luoghi del libro c’è parso di scorgere un vuoto. La letteratura filosofica italiana vi è presa in assai scarsa considerazione, il che è notevole massime per rispetto a Rosmini. Se all’Autore toccasse in sorte di pubblicare una nuova edizione, ci parrebbe opportuno che egli colmasse cotesta lacuna.

[6] JAKOB FROHSCHAMMER, Die Phantasie als Grundprincip des Weltprocesses [La fantasia come principio fondamentale del processo del mondo], Ackermann, München 187733. Il titolo parla chiaro. Qui difatti non si tratta di prendere ad esame la fantasia, in quanto facoltà, potenza, grado o forma dello spirito che dir si voglia: ma sì di elevarla a principio di spiegazione del processo universale delle cose; di assumerla, insomma, a primo e principale obbietto della filosofia, se sotto cotal nome s’intende il sistema delle conoscenze per rispetto all’ordinamento ed alla genesi del cosmo. Ma in questa chiarezza del titolo non è tutto l’intendimento dell’Autore. Perché la fantasia, sebbene intesa così, non è poi a mente sua il primo principio e l’ultimo termine del conoscibile; non l’unità primigenia ed universale nel cui svolgimento, come dicesi, organico, la ricerca filosofica debba riporre ogni sua opera ed ogni suo appagamento. Ché anzi per l’opposto in tutto il libro campeggia l’idea, che a questa prima ricerca debba tener dietro un’altra, di carattere più peculiarmente metafisico; diretta, cioè, a mettere in armonia il principio cosmologico, che qui si viene spiegando, col concetto di Dio, in quanto potenza, intelligenza e volontà. Il monismo professato dall’A. gli è adunque di carattere relativo; consistendo per l’appunto nel tentativo di ridurre ad un principio unico di spiegazione tutti i fatti d’ordine antropologico e cosmologico, senza che per ciò si voglia anticipatamente pregiudicare tutto quello che alla coscienza si appresenta come trascendente, e che per la sua stessa trascendenza può contenere in sé una più intima ed una più riposta significazione. Guardata la cosa per le generali, non si può certo muovere appunto all’A., perché ei siasi posto in così fatto punto di vista. Di tentativi fatti per dare ordine sistematico alle diverse conoscenze, per via di un concetto assunto in forma di principio universale, se ne conta oramai parecchi; e la natura stessa di cotesta esigenza speculativa, che non ha fondamento certo e definito nell’esperienza, porta con sé che le modalità e le combinazioni sistematiche cui può dar luogo siano svariate assai. Né può dirsi che sia cosa affatto contraddittoria ed infondata la distinzione adottata dall’A. fra il principio assunto a spiegare la genesi del mondo, e quello di Dio o dell’Assoluto che voglia dirsi; potendo quest’ultimo, nel suo proprio e peculiare significato, ritenersi come non affatto equivalente alla somma dei dati empirici della natura e dello spirito. Se non che, però, a veder come l’A. confronti assai di soventi il suo sistema con quelli di Hegel e di

Schopenhauer, di Spinoza e di Fichte, che furono monisti tutti d’un pezzo, e tennero per ciò appunto 1’idea od il volere, l’infinita sostanza o l’io, per affatto identici con l’Assoluto, non s’intende se egli siasi messo per una via che spunti, e se del suo monismo relativo s’abbia egli stesso un’idea ben chiara e definita. Per chi non lo ricordasse, o per chi non lo sapesse a dirittura, va qui detto che il Frohschammer tiene da parecchi anni un posto considerevole fra quei cattolici di Germania, che con le opere e con gli scritti si son fatti propugnatori del principio della libera ricerca. Nato ad Ilkofen nel 1821, fece i suoi studi nel ginnasio di Ratisbona e poi più tardi nell’università di Monaco. Prete e poi più tardi parroco, tenne per molti anni l’ufficio di predicatore in quella stessa università, nella quale fu dapprima professore nella facoltà teologica e poi da ultimo nella filosofica. Nei suoi svariati scritti di argomento dommatico, storico e filosofico ei fu sempre sostenitore ardito delle ragioni della scienza contro le pretese della teologia chiesastica, e in pari tempo dei diritti della fede contro l’incredulità sistematica34. Chiamato nel 1862 a ritrattarsi si negò; e più tardi alla condanna dei libri tenne dietro la sospensione a divinis. Le persecuzioni e la pubblicazione di una rivista polemica e filosofica gli dettero credito e considerazione tra i cattolici di Germania. E della portata della influenza del Frohschammer si può trarre argomento anche da questo, che cioè il Sillabo fa particolare menzione delle dottrine sue35. Nel libro che qui si annunzia non v’ha la più piccola traccia di coteste lotte e persecuzioni: – non l’ombra nemmeno del rancore, non la più piccola allusione. L’assunto, in somma, lo svolgimento e le prove del sistema, stanno nei termini se si vuol larghi, ma pure accettati ed accettabili della ricerca filosofica; e di questo tentativo si può tener conto in qualche maniera analogo a quello che si dee fare dell’Hartmann, filosofo, per qualità e quantità d’ingegno, certo di gran lunga superiore al Frohschammer, ma che con l’ipotesi sua dell’inconscio non ha fatto ad ogni modo progredire la ricerca scientifica. Non siamo qui certamente nel campo dei principi dimostrati o dimostrabili coi rigorosi canoni della scienza, ma in quello invece delle ipotesi più o meno felici od ingegnose, il che è quanto dire di maggiore o minore esplicazione ed applicazione formale. Perché rigettare così alla prima la fantasia, che, ammessa come principio plastico ed organizzatore dell’universo, può rendere i medesimi servigi dell’inconscio? Già lo Schelling nei suoi perpetui travagli intellettuali, diretti a ritrovar quello che parevagli, ora prima idea, ora primo fatto, ora primo germe, ora primo accidente delle universe cose, dette più volte di cozzo nella fantasia, per non dire che se ne servì quasi sempre senza avvedersene. Ma non omnes possumus omnia!36 Schelling fu un genio, e pur pensando il falso ne dette

idea agli altri in opere piene d’ingegno e di vita. Il Frohschammer, non che un genio, non è nemmeno un pensatore di gran lena intellettuale; e perciò l’opera che ci presenta, tenuto conto delle condizioni attuali della scienza e del carattere un po’ tardivo dell’indirizzo presovi a seguire, non può a meno di produrre sull’animo d’un lettore di gusto un sentimento assai vivo di fastidio e di noia. Ad ogni modo vediamone la tessitura: Prescindendo dalla prefazione, dalle appendici che trattano alcune speciali questioni, come a dire la statistica sociale, il sogno ed il sonnambulismo ecc. e da altri amminicoli di ripetizioni e di riassunti, la somma dell’opera è racchiusa in tre libri, scompartiti alla lor volta in infiniti capitoli e paragrafi con titoli speciali. In tutta cotesta schematica l’A. rivela l’intento suo di dare opera alla dimostrazione coi mezzi più sicuri e più corretti della scienza. L’assunto del libro non rimane per ciò provato; come può pensarsi da chiunque abbia una qualche idea delle presenti condizioni delle scienze naturali e morali, e si fermi per poco nella ipotesi di ridurne e la genetica successione e l’interna significazione al concetto della fantasia. Anzi l’evidenza esteriore dello schema, e la continua pretesa della dimostrazione esatta, concorrono a rendere visibile l’insufficienza della ipotesi, assai più che non accadrebbe qualora se ne vedesse resa ragione in una serie di aforismi che lasciassero trasparire un pensiero geniale. La ricerca e l’esposizione s’aggirano per intero su i due termini di fantasia obbiettiva e subiettiva. S’intende per quella la potenza produttiva e plastica dell’ordinamento cosmico dalle forme elementari della materia sino all’apparire delle sensazioni, e s’intende per questa il principio psichico nelle forme della coscienza. Corrispondono a questa partizione il secondo libro che tratta della cosmologia, ed il terzo che tratta della psicologia propriamente detta. Ma all’uno e all’altro è preposta una ricerca preliminare, che a mo’ di propedeutica è rivolta a provare come la fantasia possa essere assunta qual principio adeguato di spiegazione dei fatti antropologici e naturali, e ciò forma obbietto del primo libro. In questo (pp. 1-218) l’A., dopo avere in prima accettato il concetto della fantasia come di una fra le potenze o facoltà dell’anima, si sforza poi di provare che tutte le altre vengono da essa aiutate nell’esercizio loro. Non v’ha né senso, né percezione, né intendimento, né volizione, né sentimento, né processo logico, né opera di volontà, né arte, né produzione alcuna che nascano, si producano, si attuino, senza il concorso di quel moto, o di quella forza d’associazione e di combinazione, o di quella simbolica, o di quella creazione che diciamo fantasia. All’A. non viene punto in mente di domandarsi, se cotesto trapasso di una in altra forma della vita spirituale non rimandi necessariamente ad una spiegazione più naturale, più concreta, più empirica se si vuole dei processi interiori, anzi che

all’ipotesi d’una fantasia generatrice della vita dell’anima in universale. Il principio apparisce qui come nudo presupposto. Altrettanto frettolosa ed indimostrata è la seconda ipotesi, che cioè la natura esteriore presenti fatti evidentemente analoghi a quelli della vita interiore, dal che s’induce che la fantasia sia principio adeguato per ispiegarli. Il principio unico è accettato qual canone assoluto di scienza; e dell’analogia fra interno ed esterno si parla per via di simboli e d’indizi, che il più delle volte sono frasi belle e buone. Il secondo libro (pp. 221-341) comprende un trattato di cosmogenia, in cui si presume di spiegare e la successione, e l’ordine e la significazione dei fatti naturali, dai rapporti inorganici sino alla sensazione animale, col supposto che la fantasia sia un principio plastico che operi teleologicamente. Né del concetto di cotesta teleologia, né delle operazioni del principio attivo, che è la fantasia, l’autore si rende alcun conto che sia in qualche maniera preciso. Il monismo rimane attenuato e circoscritto per due rispetti, e perché l’A. considera la materia qual sostrato non deducibile dalla fantasia, e perché esclude provvisoriamente il problema metafisico, di cui tratterà in altra occasione. In che modo egli pensi di accordar poi questi dati della materia e della fantasia col concetto di Dio, non è lecito intravvederlo dall’opera che abbiamo sott’occhi. In questo secondo libro vengon prese in esame parecchie questioni attinenti alle scienze naturali, e l’A. vi si appalesa competente, per quanto importa alla ragione filosofica del suo scritto. Rigetta il Darwinismo, e preferisce una teoria della trasformazione che si fondi sul concetto di un processo affatto interiore, del tutto procedente dalla virtù intrinseca del principio plastico. L’uomo non è fuori della serie naturale, e come tutte le cose create nasce a condizioni date ed a tempo dato, per virtù intrinseca delle forze cosmiche. V’ha in questo libro gran copia di cose interessanti e molte belle osservazioni tendenti a ribattere gli opposti principi del materialismo e del teologismo. Del terzo libro basterà dire che esso contiene una psicologia tutt’affatto fondata sul presupposto che i fenomeni della vita interiore sieno forme e gradi della fantasia, la cui maggiore evidenza subbiettiva è nei più alti prodotti della coscienza, della ragione e del volere. Il problema della coscienza è trattato ampiamente. Non siamo riusciti ad intendere in che modo l’A. concili con la sua ipotesi monistica la teoria delle facoltà dell’anima, per quanto s’affanni a ripetere che la pluralità delle potenze non pregiudichi l’unità del principio, e per quante buone ragioni adduca contro Herbart e i suoi seguaci. Non metterebbe conto di entrare qui in altri particolari. Nell’insieme quest’opera merita una certa attenzione avuto riguardo agli antecedenti scientifici dell’A. La filosofia non può considerarla né come un progresso né

come un regresso; se pure non si vuol mettere a conto di guadagno la persuasione che s’acquista nel leggerla, che cioè ai tempi che corrono cotesta sorta di tentativi è a dirittura un frutto fuor di stagione. a

Hegel’s Naturphilosophie und die Bearbeitung derselben durch den italienischen Philosophen A. Vera, von Karl Rosenkranz, Berlin 1868. Referent will hier beiläufig bemerken, dass ihm hierin die nachfolgenden Sätze sehr auffallend erschienen. «Es war ein interessantes Schauspiel, zu beobachten, wie das Hegel’sche Deutsch in der italienischen Sprache wieder erstand. Mamiani, De Sanctis, del Zio, Trani, Vincenzio Luca, Spaventa, Rafaele Mariano und so viele Andere drückten die Hegel’schen Gedanken mit einer Treffrichtigkeit und Leichtigkeit aus, die man in Deutschland zehn Jahre zuvor noch für unmöglich gehalten hätte (s. 3)». Dieses interessante Schauspiel hat wohl bis jetzt keine Zuschauer gefunden, und so weit Referent unterrichtet ist, von Obengesagten nicht bekannt. Es ist jedenfalls unbillig, den Professor Vera fast zum Mittelpunkt einer vermeintlichen philosophischen Bewegung zu machen, und Mamiani, dessen Ruhm als Dichter und Schriftsteller gewiss nicht auf Anerkennung deutscher Denkweise sich gründet, zu einem Hegelianer zu stempeln. Man hat ferner kein Recht, den Professor Spaventa, der echt wissenschaftlichen Geschmack besitzt, und vieles Bedeutende geschrieben hat, auf dieselbe Linie mit del Zio, de Luca und Mariano zu stellen, Leute, die wohl keine Legitimation in der wissenschaftlichen Welt erlangt haben. De Sanctis endlich ist nie Philosoph und immer ein Kritiker gewesen, und der Professor Tari, der hier Trani genannt wird, will kein Hegelianer sein. Quot verba, tot errores! b

Das Werk Vera’s ist mit dessen Bewilligung von seinem Schüler Mariano herausgegeben worden, und mit einer Vorrede und Anmerkungen versehen, welche von Schmeicheleien über den Autor wimmeln. c Der Recensent des Centralblattes, 1870 Nr. 15, lässt sich von dem Ruhm unseres Verfassers freilich zu viel verblenden, und darum lässt er das Rhetorische und Oberflächliche des Buches auf die Schuld der Romanen fallen! a Im andern B. S. 5 «Vera ist der strengste Systematiker, welchen Hegel bisher gehabt hat, der ihm mit Hingebung auf Schritt und Tritt nachgeht». a S. 9 «Wer jetzt noch klagen sollte, dass er Hegel in der deutschen Sprache nicht zu verstehen vermöge, dem kann man nunmehr Vera’s Uebersetzung empfehlen. Diese muss er verstehen, versteht sich, wenn er den zur philosophischen Erkenntniss überhaupt nöthigen Verstand mitbringt». a Hegels Naturphilosophie und die Bearbeitung derselben durch den italienischen Philosophen A. Vera, von KARL ROSENKRANZ, Berlino, 18685. Io voglio qui osservare di passaggio che mi sono sembrate molto strane le seguenti affermazioni: «Era uno spettacolo interessante osservare come il tedesco di Hegel fosse rinato nella lingua italiana. Mamiani, De Sanctis, Del Zio, Trani, Vincenzio Luca, Spaventa, Rafaele Mariano e tanti altri hanno espresso i pensieri hegeliani con una giustezza ed una facilità che in Germania dieci anni fa sarebbe stata tenuta impossibile» (p. 3). Questo spettacolo interessante, per quanto io ne so, non ha trovato finora spettatori e, per quanto risulti a chi scrive, non è noto neppure ai personaggi sopra nominati. In ogni caso è ingiusto fare del prof. Vera quasi il centro di un preteso movimento filosofico, e attaccare l’etichetta di hegeliano a Mamiani, la cui fama di poeta e di scrittore non si fonda su cognizione o stima ch’egli abbia del pensiero tedesco6. Non si ha inoltre alcun diritto di porre il prof. Spaventa, che possiede un autentico senso scientifico ed ha scritto molte cose notevoli, sullo stesso piano di Del Zio, De Luca e Mariano, gente che non ha alcuna legittimazione nel mondo della scienza7. Il De Sanctis, infine, è stato sempre un critico e non un filosofo; ed il prof. Tari, che qui è chiamato Trani, non vuole essere un hegeliano8. Quot verba, tot errores!9 b

L’opera del Vera è stata pubblicata col suo permesso dal suo scolaro Mariano, che vi ha aggiunto una prefazione e note che pullulano di adulazioni verso l’autore. c Il critico del Centralblatt, 1870, n. 15, si lascia senza dubbio troppo abbagliare dalla fama del nostro autore, e per questo motivo mette in conto ai popoli latini ciò che del libro è retorico e superificiale!11

a

Op. cit., p. V: «Vera è il più rigoroso sistematico che Hegel abbia mai avuto; egli segue Hegel con devozione, passo per passo». a Op. cit., p. 9: «A chi ancora volesse lamentarsi di non poter capire Hegel in lingua tedesca, si può ormai raccomandare la traduzione del Vera. Questa egli deve capirla, e si capisce, se ha la necessaria intelligenza per le cose filosofiche». a Questi manuali sono tre: 1. Einleitung in das Studium der Philosophie; 2. Lehrbuch der formalen Logik; 3. Lehrbuch der empirischen Psychologie als inductiver Wissenschaft, stampati in più edizioni dal Gerold a Vienna21. b Das Problem des Glücks. Wien, 1869. Di questo libro ho fatta una recensione nella «Zeitschrift für exacte Philosophie», vol. IX, fasc. II22.

Sezione terza

SCRITTI DI TEORIA PEDAGOGICA

I due scritti raccolti in questa sezione costituiscono solo una parte della produzione specificamente pedagogica che, in parallelo con i corsi universitari di Filosofia morale e Pedagogia tenuti con continuità a partire dal 1874, vede Labriola particolarmente attivo negli anni 1874-1876 e 1888-1889. D’altro canto, come è stato più volte osservato, sarebbe sbagliato fare dei lavori pedagogici momenti occasionali della riflessione labrioliana, in cui motivi legati al ruolo dell’educazione e della scuola – nelle diverse accezioni del termine, compresa quella negativa di “scolasticismo” –, alla formazione etico-politica e alla centralità del sistema scolastico nella costituzione della società moderna (dunque anche nell’Italia post-unitaria), sono di fatto sempre presenti. I testi che qui si ripropongono hanno la caratteristica di far emergere in modo più diretto di altri i presupposti della teoria labrioliana dell’educazione, soffermandosi meno, anche se non prescindendo mai del tutto, da quegli aspetti applicativi, legati alla prassi didattica, alla statistica e all’ordinamento degli studi, che pure sono parte integrante della ricerca labrioliana in materia pedagogica. Si tratti di collaborare attivamente ad una riforma del sistema scolastico italiano, come negli anni della direzione del Museo d’Istruzione e di Educazione, o di impegnarsi per una “scuola popolare” che renda accessibile un’istruzione adeguata anche ai ceti più umili, come nella successiva collaborazione con la Società di mutuo soccorso fra gl’insegnanti di Roma ed il Circolo Pedagogico, l’attenzione di Labriola ai temi della pedagogia risulta sempre proiettata verso la dimensione politica e sociale, confermando così, ancor prima della compiuta adesione al marxismo, una precisa idea del rapporto fra teoria e prassi.

Dell’Insegnamento della Storia uscì per i tipi dell’editore Loescher nel 1876, primo di una serie di «Studi pedagogici» che, nelle intenzioni dichiarate nell’Avvertenza, avrebbe dovuto «trattare in una serie alquanto estesa di monografie alcune delle questioni più importanti della pedagogica generale e speciale». È plausibile che tale dichiarazione d’intenti rispondesse anzitutto alla necessità per l’autore di acquisire i titoli e la visibilità necessari ad ottenere la nomina a docente ordinario di Pedagogia, conseguita in effetti l’anno successivo (cfr. Carteggio, I, pp. 562-563). Resta il fatto che questo volume, che pure segna un evidente salto di qualità nella produzione labrioliana (se si esclude il Socrate, apparso fra gli «Atti» dell’Università di Napoli, si tratta della prima monografia pubblicata dall’autore presso quello che sarà d’ora in poi il suo editore di riferimento), rimase il primo ed unico della serie.

A lasciar cadere il progetto di una serie di studi pedagogici, come del resto quello della pubblicazione di un manuale cui Labriola allude a più riprese negli anni seguenti (cfr. Carteggio, I, pp. 635-636; II, pp. 132, 289), è possibile abbia contribuito la scarsa risonanza di quello «studio primo» e la generale convinzione dell’arretratezza del pubblico italiano, che «di scienza pedagogica – si legge in una lettera a Francesco Bonatelli, di poco successiva all’uscita del volume – non ne vuol sapere» (cfr. Carteggio, I, p. 574). Lo stesso Labriola pare non curarsi troppo delle sorti dell’opera una volta pubblicata: sul finire degli anni Ottanta, volendo riprenderne alcuni contenuti nei corsi universitari di Pedagogia, sarà costretto a rivolgersi ad amici e colleghi per recuperare almeno una copia del libro, di cui era rimasto sprovvisto (cfr. Carteggio, II, pp. 355, 429). Il profondo legame che unisce questo studio alla più vasta ricerca condotta negli stessi anni dall’autore è dichiarato fin dall’Avvertenza. Pur evitando di discutere nel merito l’«indirizzo che in coteste scienze egli ha preso principalmente a seguire», e in cui non è difficile riconoscere ancora una volta la lezione herbartiana, Labriola rivendica il merito di «mettere in chiaro […] quali sieno le vedute generali pedagogiche» da cui muove, volendo occuparsi di pedagogia «in quanto disciplina filosofica, e per ciò appunto fondata su l’etica e sulla psicologia». I dieci capitoli seguenti sviluppano, in una forma che per chiarezza e rigore espositivo ricorda quella di Morale e religione, la «dissertazione per concorso» di tre anni prima, il tema prefissato: la storia «in quanto materia da usarsi nell’insegnamento», prescindendo dunque, per quanto ciò sia possibile, da quella «regione di problemi in cui si origina la filosofia della storia» e che trovano sovente una soluzione inadeguata in concetti ed ipotesi “di scuola” «intorno alle leggi dell’evoluzione o del progresso storico». D’altro canto, preoccupazione dell’autore è ribadire il carattere «affatto universale» del lavoro pedagogico e della finalità etico-culturale che lo anima. Il concetto dell’educazione, si legge nel primo capitolo, non esprime un’idea generica di «rapporto di uomo ad uomo», bensì una relazione autenticamente umana, resa possibile dalla peculiare condizione in divenire dell’educando e dalla trasmissione, da parte di chi educa, di un «concetto della vita e del mondo» atto a «promuovere i principi interiori della retta scelta e della retta operazione», che rende tangibile il profondo legame fra etica e psicologia al centro delle indagini labrioliane di quegli anni. Da qui, nella tripartizione di matrice herbartiana che l’autore fa propria, il primato dell’istruzione sulle altre parti dell’educazione (la disciplina e l’hodegetica), ma anche l’impostazione del rapporto fra didattica speciale e «compito pedagogico» che ha il suo correlato

nell’analisi dell’«interesse» e del rapporto fra esperienza e «simpatia», su cui si soffermano il secondo ed il terzo capitolo. Alla trattazione dei «concetti preliminari» nei primi tre capitoli, segue nei capitoli quarto, quinto e sesto l’esame specifico dell’insegnamento della storia e delle questioni didattiche ad esso connesse: dalla considerazione della capacità intrinseca allo studio della storia di migliorare la capacità di discernere la realtà circostante e del suo ruolo nella maturazione di una «immagine della vita sociale», alla scelta dei contenuti adatti al conseguimento del fine educativo e al valore dell’interdisciplinarietà. Con il capitolo settimo riprende la trattazione dei concetti generali: la discussione del metodo, che è altra cosa dalla «tecnica dell’insegnare» e che deve conformarsi agli effettivi «stati della coscienza che si producono nell’animo dell’educando»; il «piano didattico» ovvero la progressiva organizzazione dei contenuti da far apprendere (capitolo ottavo) e l’«ordinamento scolastico», con particolare riguardo all’istruzione elementare (capitolo nono). Il decimo capitolo presenta un’ampia sintesi dei contenuti precedentemente esposti e ne illustra alcune possibili applicazioni, per poi concludere sulla finalità etico-politica della pedagogia e sulla necessità di non scindere la tecnica didattica dagli «elementi generali» che la devono informare: la pedagogia scientifica, ribadisce Labriola, è «disciplina filosofica».

Le successive Lezioni di pedagogia, qui pubblicate con minime differenze rispetto al testo stabilito da N. SICILIANI DE CUMIS, Antonio Labriola, la scuola popolare e l’«Avvenire dei maestri elementari» (1888-1889), in «Critica marxista», novembre-dicembre 1972, pp. 240-264, e riproposto dal medesimo negli Scritti pedagogici, Utet, Torino 1981, pp. 526-556, non costituiscono un’opera labrioliana in senso stretto. La redazione del testo, infatti, non è di Labriola (di cui non si può comunque escludere un’opera di revisione), bensì di un collaboratore del Circolo Pedagogico presieduto dallo stesso Labriola a partire dal 1889, Emilio Taramasso, che si fece carico di curare la pubblicazione a puntate del corso labrioliano di pedagogia, tenuto alla Sapienza nell’anno accademico 1888-1889, nell’«Avvenire dei maestri elementari». I trentuno riassunti apparvero sotto il titolo di Lezioni di pedagogia nella Regia Università di Roma con il seguente ordine: lezioni 1, 2, 3, nel fascicolo del 25 dicembre 1888 – 10 gennaio 1889, pp. 68-70; lezioni 4, 5, 6, 7, 8, nel fascicolo del 10-25 febbraio 1889, pp. 123-125; lezioni 9, 10, 11, 12, 13, nel fascicolo del 25 febbraio – 10 marzo 1889, pp. 131-133; lezioni 14, 15, 16, 17,

nel fascicolo del 10-25 aprile 1889, pp. 165-167; lezioni 18, 19, 20, nel fascicolo del 25 aprile – 10 maggio 1889, pp. 181-182; lezioni 21, 22, 23, nel fascicolo del 10-25 maggio 1889 pp. 215-217; lezioni 24, 25, 26, 27, nel fascicolo del 10-25 giugno 1889, pp. 227-230; lezioni 28, 29, 30, 31, nel fascicolo del 25 giugno – 10 luglio 1889, pp. 242-244. La scelta di un periodico come l’«Avvenire dei maestri elementari» non risulta affatto casuale. La testata, diretta da Giovanni Merighi, si proponeva infatti da tempo quale organo di diverse associazioni di maestri della Capitale, impegnate per il riconoscimento dei diritti della scuola primaria pubblica, la libertà d’insegnamento e il miglioramento delle condizioni morali e materiali del personale docente. Su di essa avevano trovato eco la celebre conferenza labrioliana del 22 gennaio 1888, Della scuola popolare, ed il ciclo di lezioni tenute per la “Società di mutuo soccorso fra gli insegnanti romani”, ma anche qualche accenno critico della redazione, che auspicava da parte di Labriola, sempre più al centro delle cronache e del dibattito politico della Capitale (sono questi, del resto, gli anni cruciali per l’avvicinamento e poi la brusca rottura con il movimento radicale) una presa di posizione politicamente più netta a sostegno delle istanze avanzate dal giornale. A quindici anni dalla pubblicazione di Dell’Insegnamento della Storia, Labriola torna sui concetti già formulati nel suo «studio pedagogico», lasciando trasparire nuovamente il proprio debito con la scuola herbartiana. Alle considerazioni sulla natura e le finalità dell’educazione (lezz. 1-3), sul metodo (lezz. 15-18) e sulle questioni di teoria della didattica (lezz. 22-24) e all’organizzazione degli studi (lezz. 25-28), unisce però anche l’esperienza maturata riflettendo sul progetto di una «scuola popolare» che incarni nel senso più alto la finalità etica e politica del lavoro pedagogico (lezz. 4, 7, 8, 10 sgg.). Fra gli altri temi affrontati, si segnalano in particolare il profondo legame che unisce l’istituzione della «scuola popolare» all’affermarsi della «democrazia moderna» e della mobilità delle classi (lezz. 8 e 11), il significato sociale della sua obbligatorietà (lez. 13) e la rivendicazione della sua laicità, intesa come neutralità rispetto sia alle pretese confessionali che alle istanze anticlericali (lezz. 11, 13-14).

DELL’INSEGNAMENTO DELLA STORIA STUDIO PEDAGOGICO [1876]

AVVERTENZA L’autore di questo saggio si propone di trattare in una serie alquanto estesa di monografie alcune delle questioni più importanti della pedagogica generale e speciale; tuttavia di maniera che ciascuna appaia pienamente chiara ed intelligibile per sé medesima, senza che occorra di leggerle tutte, e in quell’ordine precisamente in cui verranno pubblicate. Ei non pone alcun termine fisso alla stampa dei lavori che son destinati a tener dietro a questo che vede ora per il primo la luce; perché, sebbene tenga così in pronto le materie da poter metter fuori d’un tratto più d’una monografia, gli è pur d’uopo che abbia considerazione all’accoglienza che a questo saggio sarà fatta dal pubblico che piglia interesse alle questioni pedagogiche, per potersi risolvere con fondamento o a seguire la via presa, o a cambiare a dirittura di stile. Nel trattare di un argomento così speciale come è quello dell’insegnamento della storia, l’autore ha procurato di mettere in chiaro, come meglio si potea fare senza cadere in divagazioni, quali sieno le vedute generali pedagogiche da cui piglia origine la sua maniera particolare d’intendere le questioni didattiche. Il lettore non maraviglierà che il ragionamento si derivi da una regione piuttosto alta di speculazione scientifica, ove sappia come l’autore si occupi nello studio della pedagogica in quanto disciplina filosofica, e per ciò appunto fondata su l’etica e sulla psicologia. Né cadrebbe in acconcio di discutere in questo luogo dell’indirizzo che in coteste scienze egli ha preso principalmente a seguire. Ché del resto ogni lavoro scientifico, per breve e conciso che siasi, deve muovere a persuasione senza che il lettore si preoccupi gran fatto delle vedute generali dell’autore; né queste per esser derivate da una o da un’altra scuola di filosofia daran mai efficacia alle cose che non l’abbiano per sé medesime. Importa però si noti, che in questi saggi non si vuol fare delle compilazioni, e che l’autore userà della massima libertà, come porta appunto l’indole dei lavori monografici. Gli è un pezzo che egli pensa di pubblicare un trattato completo di pedagogica. A raggiunger più facilmente l’intento, come appena cominciò ad insegnare l’etica e la pedagogica nell’Università di Roma, procurò di dare alla esposizione di quest’ultima disciplina quella forma che gli parve più adatta a preparare poco per volta la composizione di un manuale. Ma preso consiglio con alcuni editori, ai quali si rivolse con un programma particolareggiato dell’opera da pubblicarsi, gli fu forza persuadersi che l’impresa non affida molto1. Difatti la scolaresca che s’occupa nello studio della filosofia è assai

scarsa; né all’autore è venuto mai in mente di scrivere un trattato per quelle scuole inferiori in cui è d’uso una certa disciplina, che non sempre a ragione piglia nome di pedagogica. Gli è per ciò che si è risoluto a scrivere delle monografie, nella speranza che trovino più facilmente dei lettori.

I In questo scritto si discorrerà della storia, in quanto materia da usarsi nell’insegnamento, pei fini educativi della coltura generale. Importa per ciò, che io procuri prima di ogni altra cosa di circoscrivere l’obbietto della ricerca, con l’escludere quelle maniere di considerazione delle cose storiche che non han rapporto certo con la didattica; e che dei fini della coltura tenga discorso piuttosto esteso, per assegnare con qualche precisione i concetti generali pedagogici, dai quali derivasi il mio particolare intendimento nel trattare e nel risolvere le questioni dell’insegnamento. E giova in primo luogo di notare, come non accada qui di esaminare la natura dei fatti umani, che nell’insieme loro danno argomento alla ricerca storica, per venirne a parte a parte assegnando, e l’indole peculiare, e la varia forma di origine e d’intreccio. Fino a che punto la scienza sia venuta in chiaro su le gravissime questioni, che hanno ad argomento la natura ed il corso degli umani accadimenti, e con qual successo le varie scuole si sien provate a dar loro interpretazione certa ed ordinamento speculativo accettabile, non metterebbe conto di discorrerne in uno studio pedagogico; per essere così fatti argomenti speculativi di molto estranei ai compiti pratici dell’educazione. Di certo all’educatore colto, cui prema di adempier bene e con pienezza d’intelligenza l’ufficio che gli è proprio, non parrà cosa superflua di spinger lo sguardo in su, fino a quella regione di problemi in cui si origina la filosofia della storia; ma s’apporrebbe a dirittura male chi gli suggerisse di cercare la ragion pratica dell’arte sua nei concetti o nelle ipotesi, che intorno alle leggi dell’evoluzione o del progresso storico dalle varie scuole furono formulati. Né occorre d’indicare e di definire le varie discipline che si travagliano nell’appurare e raccogliere, nel determinare ed ordinare, nell’interpretare e giudicare i fatti umani, e di mostrar poi di quali sussidi di metodo combinatorio e di quali attitudini d’intelletto e d’animo si debba far uso, perché coi risultamenti di quelle si riesca a dare alla narrazione storica quel carattere d’interezza, che alcuni ora dicono obbiettività dell’esposizione. Basterà ricordare, che sebbene fra i metodi di coteste discipline corra non piccolo divario, pur nondimeno i risultamenti, cui si giunge per mezzo loro ad ottenere, si prestano ad esser di volta in volta elaborati in quelle speciali forme di esposizione; che per uso antico ma non retto di denominazione i più chiamano esclusivamente storie, o libri storici. E all’educatore di certo non mancherà modo di attinger nei libri che ei verrà usando come fonte di studio, una qualche notizia certa e precisa dei vari

problemi che hanno la loro origine nelle ricerche storiche, e dei metodi che s’usa nel risolverli; tanto più che son molte le discipline, che senza avere ad obbietto l’indagine storica, traggono da essa la occasione prima delle loro peculiari investigazioni dottrinali, o trovano in essa l’opportunità di sottoporre alla riprova del confronto e dell’analogia le conclusioni cui sieno altrimenti giunte per le vie interiori della speculazione. Ma il far ricerche su le cose umane accadute nel corso dei vari svolgimenti storici, usando di criteri certi di metodo, perché l’indagine proceda a segno ed il risultamento che se ne ottiene possa essere espresso e comunicato altrui con chiarezza e con efficacia, gli è in fondo l’ufficio e il compito peculiare di quei pochi che fan professione di eruditi, di ricercatori o di filosofi della storia. In quella vece l’educazione, che è ciò che s’ha d’avere soprattutto in animo quando si discorre dell’insegnamento di una o di un’altra disciplina, non si confonde mai coi fini scientifici di alcuna di esse, per essere affatto universale il fine di coltura cui si vuole ottenere educando. E gli è così, che a dare alla questione che ci occupa in questo scritto la sua propria denominazione, conviene considerarla come parte della didattica, che è la disciplina pedagogica, la quale non appura, definisce, chiarisce o elabora le materie del conoscere, ma n’usa, poi che sieno state appurate, definite, chiarite od elaborate, come di mezzi per suscitare quelle inclinazioni dell’animo, che nell’insieme loro costituiscono il carattere della persona colta. Queste prime indicazioni non son del tutto sufficienti ad ovviare alla confusione, che soventi si fa delle questioni pedagogiche con tutte le altre che per avere ancor esse del metodico possono facilmente con le pedagogiche essere scambiate. Così v’ha nell’ordine degli studi superiori non poche discipline, nell’insegnamento delle quali occorre proporsi lo scopo pratico di preparare negli studiosi una sicura attitudine ricercativa, perché essi divengano utili ed efficaci continuatori del lavorio scientifico. E in generale accade, che per rispetto ad ogni maniera d’insegnamento, e per rispetto a diverse forme della manifestazione scritta o orale del pensiero, si affacci la pretesa che i risguardi educativi non devano essere del tutto negletti. Or chi lasciandosi trarre in inganno da coteste analogie del linguaggio, si foggiasse nel capo un concetto così lato dell’educazione, che ogni sorta d’influsso che la scienza bene insegnata e bene esposta può produrre su la mente e su l’animo dovesse in esso esser compreso, finirebbe per perdere a dirittura di vista i concetti che son proprio e naturale obbietto della ricerca pedagogica. I quali concetti, quanto al contenuto han la lor propria delimitazione nel bisogno della coltura dell’animo in universale, e quanto all’applicazione di cui son capaci non trascendono certi limiti di età, che sebbene vari secondo i tempi, i luoghi e le circostanze, pur sono

a un dipresso indicati dal fatto, che in un certo momento della vita si passa per necessità di cose dalla istruzione generale nell’esercizio di un’arte o di una professione. Dalle quali cose tutto si può arguire, come ad avere una nozione esatta delle speciali questioni didattiche che concernono l’insegnamento di una o di un’altra disciplina, faccia di mestieri dichiarare il concetto generale dell’educazione, e le principalissime conseguenze pratiche che da cotesto concetto si derivano per via della riflessione scientifica. Il concetto dell’educazione esprime un’idea di rapporto; non però di rapporto generico di uomo ad uomo, in quanto l’uno sia capace di influire di proposito o per accidente su la condizione d’animo dell’altro, ma sì bene specificato precisamente, così dalla differenza di età e di coltura che corre fra l’educatore e l’educando, come dall’intenzione che è nel primo di spiegare l’attività sua su l’altro, come in obbietto da elaborare. Ove si ponga mente alla natura specifica del rapporto, si vede che in esso sono diversi lati, che offrono materia a svariate considerazioni. E in prima l’educatore non merita cotal nome, se non ha nell’animo un certo concetto della vita e del mondo, che gli si appresenti come meta a raggiunger la quale l’educando debba essere ammaestrato. Cotesto concetto o ideale, per quanto varia l’indole e l’origine sua, costerà ad ogni modo d’un insieme di rapporti pregevoli del pensare e del sentire che si avrà in mente di trasfondere nell’animo dell’educando, perché lo informi e lo governi. E pure, appunto come ideale, che assume nella mente dell’educatore una certa forma d’interiore evidenza teorica, non si trova in alcuna diretta relazione causale con l’individualità naturale dell’educando; dentro della quale è mestieri accadono più maniere di svolgimenti, perché di lui si faccia una persona capace di uniformarsi liberamente all’ideale stesso. Il processo educativo non va quindi considerato come semplice effettuazione causale; e rassomiglia piuttosto ad una peculiare maniera di mediazione, i cui caratteri e le cui modalità sono il proprio obbietto della scienza pedagogica. E gli è per ciò che il concetto dell’educazione rimanda a più maniere di ricerca scientifica, e non al semplice appuramento di uno o più concetti generali, dati i quali si possa venir cavando conseguenze per via della deduzione. Ché in fatti le nozioni varie che si riassumono nel comune concetto della pratica educativa son dapprima del tutto disparate, e non connesse da naturale relazione causale o finale. La materia educabile è l’animo, poniamo, di un giovanetto, animo che non è semplice ricettività, ma naturale individuazione psichica, in via di svolgersi in varie combinazioni di atti intellettivi, volitivi e di sentimento. Quali sieno i caratteri di cotesta individuazione, e in quali limiti essa sia capace di

formazione interiore, e di quella specialmente che piglia aspetto proprio nella personale autonomia, tocca alla psicologia di venirlo indagando; il che non è detto di una psicologia che si accontenti di raccogliere i disgregati particolari di un grossolano empirismo, ma di quella che si argomenta di potere scovrire col sussidio della speculazione le leggi e le forme di processo della vita interiore. Né basta. Perché se per educare fa di mestieri avere in animo un ideale di vita pregevole, cui voglia vedersi conformato lo spirito dell’educando, non può esser lecito che cotesto ideale ciascuno se lo foggi nel capo a posta sua. Esso ha in vero da essere qualcosa di incondizionalmente valevole, tale cioè che esprima una piena conformazione della persona ai criteri della morale perfezione, che è quello che comunemente dicesi virtù; ossia, per dirla in termini più propri, l’idea dell’attività personale, che sebbene varia nelle esteriori manifestazioni d’intenti e di fini, nel suo nocciolo interiore si rivela come piena e costante adequazione del volere all’intendimento etico. Il concetto, in somma, dell’educazione rimanda ai due ordini di ricerca che piglian forma di scienza nell’etica e nella psicologia; e gli è per ciò che la pedagogica, come studio riflesso dell’educare, è disciplina che dipende dalle dottrinali conclusioni di ambedue quelle scienze. Ma qui sorge ben presto una difficoltà, la quale mette sufficientemente in chiaro, come l’educazione non sia da considerare qual fatto che altri prenda ad esporre o ad esaminare, ma sì bene qual problema che si dee risolvere, o meglio qual compito che si ha da assolvere. L’educando, in quanto per le condizioni peculiari dell’età e della capacità sua va soggetto all’azione educativa, non è ancora uomo maturo, ossia capace di esprimere in pensate operazioni l’intimo suo; e pur noi educandolo ci proponiamo di farne tale un uomo, che la naturale individualità di lui rimanga dignificata dei pregi del valore personale. Quando quegli che ora si educa sarà divenuto uomo nel senso pieno della parola, userà di sé nella vita assai variamente, secondo che la sua individualità entrerà in uno o in un altro rapporto con l’insieme degl’intrecci di attività che costituiscono il convivere sociale; e intorno a ciò non è chi possa fare delle ragionevoli previsioni. Ma noi ci pensiamo che in quanto uomo educato ei dovrà essere in grado di far prevalere nelle decisioni sue gl’interessi ideali, e di difenderli dagl’istinti antimorali ed antisociali, col dar loro sicura e stabile espressione nelle operazioni sue, per quanto queste possano e devano esser varie nel contenuto e nei fini. Non è in tutto ciò una evidente contraddizione? Perché in fatti non si è uomini degni e stimabili, liberi cioè di morale libertà, se non s’entra nella vita che dicesi autonoma già forniti di certe spirituali attitudini, e pure della personalità non si fa uso certo e pieno che nella vita stessa. In che cosa potran consistere le operazioni educative se devono formare per la vita quando questa non si può

ancora viverla nella pienezza sua? Rimuovere anzi risolvere cotesta contraddizione gli è il vero e proprio fine della pedagogica. Or senza entrare qui nella particolareggiata esposizione di quello che occorre per risolvere il problema – la qual cosa del resto non si può fare a mo’ d’incidente – basterà che io indichi quel tanto di nozioni generali pedagogiche che fa di mestieri per intendere il valore scientifico delle questioni didattiche, e di quella poi che specialmente tratto in questo opuscolo. Il passaggio dall’età della vita in cui l’educazione è d’ordinario tenuta per cosa possibile, a quella in cui l’uomo piglia stato e comincia a spendersi in opere personali, non è propriamente fissato in una precisa preordinazione organica; anzi risulta dal combinarsi delle varie condizioni esteriori della società, con gli svolgimenti interiori dello spirito, che sono del pari variati e complicati. Non è repentino, perché preparato a grado a grado dal trasformarsi delle interne movenze dell’animo in principi attivi di operosità. Non consta di varie facoltà spirituali, ma sì bene consiste nel complessivo atteggiarsi delle movenze interiori nella forma precisa delle volizioni coscienti e deliberate. Or la materia di queste e la formale connessione loro in quella qualità dell’animo che chiamiamo carattere, si vengono a mano a mano preparando nei diversi stati psichici d’intellezione e di sentimento, che si formano ad uno ad uno e variamente si combinano e si complicano fra loro nel periodo di tempo che precede la gioventù piena e fiorente. In tutto cotesto processo gli è come una molteplicità di condizioni, non il semplice svolgimento continuativo di una forza unica, data a movimento costante. In queste generalità rimane a parere mio sufficientemente indicata la possibilità dell’educazione, e il valore proprio dell’istruzione come mezzo educativo. Perché istruire non vuol dire ammaestrare teoricamente circa i possibili casi della vita, né comunicare le massime cui le particolari operazioni devano essere in seguito conformate, né tampoco coartare la volontà a divenire docile istrumento di passiva esecuzione, ma invece adoperarsi perché nello svolgimento interiore, che mette capo nella personale autonomia, prevalgano quegli appunto fra gli elementi della vita spirituale, nei quali si prepara il predominio dell’ideale etico. Le operazioni educative sono adunque indirette, in quanto che non si ha in mira di ottenere per mezzo loro il nudo effetto dell’imitazione, ma sì di promuovere i principi interiori della retta scelta e della retta operazione. Attività ordinata, rivolta a produrre attività, ecco il preciso assunto del compito educativo. S’intende da sé, che coteste nozioni generali raggiungono un più alto un grado di precisione quando vengan trattate in una speciale introduzione alla

pedagogica; e massime se chi le espone possiede tutta intera l’etica e la psicologia, che sono le due scienze fondamentali, col sussidio delle quali i problemi pratici acquistano precisione di contorno ed evidenza di soluzione. Ma non potendo io approfondirle di vantaggio, senza rischiare d’allontanarmi di soverchio dal mio particolare argomento, mi basterà d’averle indicate, e di trarne come conseguenza che il compito pedagogico è tripartito, e che una delle parti è rappresentata appunto dall’istruzione. E la ragione della tripartizione è in ciò; che mentre coll’istruzione si educa lo spirito per l’avvenire, fa pur di mestieri reprimere quelle inclinazioni che una volta fissate come abiti possano presentare ostacolo all’influsso morale delle convinzioni, ed al tempo stesso addestrare la volontà alla operazione retta, ordinata, onesta, sociale, per quanto è consentito dagli angusti limiti della sfera d’azione in cui l’educando si aggira. Ma di queste tre parti l’istruzione è senza dubbio la più importante di tutte, se si considera il compito educativo non per rispetto alla condizione presente dell’educando, ma per rispetto a quello che di lui si vuol fare perché divenga uomo. Ed in fatti la disciplina e l’hodegetica2 – ché io così chiamo le altre due parti dell’educazione – son l’una e l’altra dal più al meno di efficacia temporanea, mentre le operazioni veramente destinate a produrre effetti duraturi son quelle che si riassumono nel concetto della didattica.

II Chi voglia fare della didattica una ordinata ed efficace funzione del compito pedagogico, e cansare ad un tempo il pericolo d’impigliarsi in vuote disquisizioni di metodica astratta, dee prima di ogni altra cosa riconoscere, che nelle materie delle diverse scienze e discipline, in quanto vengono considerate come nudo obbietto del sapere e del pensare, non havvi alcun particolare criterio di eccellenza o di pregio educativo. Per ciò la didattica, coordinata come essa è alle altre funzioni del compito pedagogico, non può desumere i criteri della scelta e le norme della trattazione delle materie, dalla natura direi obbiettiva di esse; e deve necessariamente cercare e l’una e l’altra cosa nella ragion dell’uso che delle materie si ha a fare per raggiungere il fine dell’educazione. E consistendo questo nella formazione degli stati dell’animo in cui si preparano di lunga mano i moventi del volere, gli è chiaro che tutte le questioni circa la scelta e l’uso delle materie didattiche trovi la sua norma certa e la sua adeguata espressione nel concetto dell’interesse, come di quella movenza interiore in cui il conoscere e l’operare sono ancora implicati l’uno nell’altro, perché fanno uno nelle apprensioni, nei giudizi e negli apprezzamenti che lo spirito, sotto l’influsso della coltura, viene poco per volta formando dentro di sé come per viva ed ingenita virtù propria. Ciò vuol essere più particolarmente chiarito. Le operazioni riflesse, ordinate e successive, che si riassumono nel generale concetto dell’educare, sono per la maggior parte rivolte ad influire direttamente su l’animo, cioè a dire, a promuoverne e governarne a un tempo medesimo l’attività; perché in essa si formino così gli stati abituali del conoscere e dell’apprezzare esatto, come i moventi del retto volere. Ma l’azione educativa non comincia ab origine, perché ha innanzi a sé l’animo dell’educando che è già in una certa maniera preformato, così in alcuni primi abiti conoscitivi che riflettono il modo d’intendere e di godere lo spettacolo della vita circostante, come in alcune prime inclinazioni ad apprezzare variamente le forme del convivere sociale, in quanto capaci di destar sentimenti di simpatia e di avversione. Or mentre le esigenze disciplinari vogliono si eserciti su l’animo dell’educando una certa pressione, perché in esso non s’ingenerino di quelle tendenze che possono per avventura presentare ostacolo alla vera e propria azione educativa, questa dal canto suo deve a poco a poco venirsi esplicando in operazioni che dieno certa, sicura e stabile forma alle movenze interiori del conoscere e del simpatizzare. In ciò consiste l’uso delle materie d’istruzione per

il fine educativo; uso che non si confonde col semplice addestrare e con l’ammaestrare. La natura stessa del fine educativo importa, che cotesto uso non deva esser qualcosa di speciale nel senso della divisione del lavoro, perché per principio è forza avere in mira di suscitare in ciascun individuo il senso vivo e complesso di tutto quello che umanamente è nobile e degno. Ma non può nemmeno esser qualcosa di universale, nel senso della collettività di tutti i particolari attinenti al conoscere ed all’operare, perché di tal guisa si perderebbe di vista il fine più intimo e principalissimo della coltura educativa, che è la personale autonomia morale. L’universalità dunque consisterà non negli obbietti, ma nelle forme interiori che indicano nel subietto il vario atteggiarsi dello spirito nel conoscere e nel simpatizzare; ed a questa universalità si conserverà il carattere dell’individuazione, in quanto che si avrà di mira la persona, come quella in cui i diversi aspetti dell’interesse conoscitivo e simpatetico han da essere altrettante funzioni con cui l’animo si eserciti nelle cose. In questi principalissimi concetti è tutto il compito didattico; cioè dire che si debba per mezzo dell’istruzione suscitare l’interesse immediato, multiforme e concentrato per le cose del mondo interiore ed esteriore. E lo diciamo immediato, perché a formare le attività interiori dell’intendere e del sentire, in guisa che più tardi si tramutino in principi d’impellenza al fare, è mestieri s’istruisca in modo da suscitare quell’interesse che consiste nell’adesione diretta e libera dell’intendimento e del sentimento agli obbietti conosciuti e pensati, prima che questi divengano per rispetto alla volontà operante semplici mezzi pei fini della utilità. Lo diciamo multiforme, perché nella varia maniera in che lo spirito si atteggia in quanto conosce, pensa, sente, gode o apprezza gli obbietti, sono alcune forme fondamentali, per le quali non v’ha criterio naturale di riduzione o di subordinazione. Ma come non nelle cose in quanto esistenti fuori di noi, ma in noi in quanto le conosciamo e le apprezziamo, è la cagione dei vari interessi, così l’unità personale del subietto determina il terzo carattere, che è quello della concentrazione. Posta l’insignificanza educativa delle materie del conoscere, in quanto guardate obbiettivamente, e la necessità di adoperarle come mezzi per muovere ed esercitare l’interesse, non si può omettere di ricordare che questo, sebbene multilaterale, non è per ciò indefinito. Perché ogni nostra maniera di comportarci verso le cose, si riduce alla conoscenza del loro modo d’essere e d’operare, ed alla inclinazione di appropriarcele in ispirito come parti o punti di relazione del nostro sentire. E il conoscere si addimanda empirico se si aggira su la indicazione, connotazione ed intuizione degli obbietti, razionale se concerne la considerazione dei nessi causali e finali, estetico se mira a sceverare e

circoscrivere le varie forme di bellezza e dei suoi contrari. E l’appropriazione poi dicesi semplicemente simpatia, se rimane limitata alla riproduzione dei sentimenti degli esseri capaci di averne, e diventa socialità se suscita nell’individuo il vivo senso della dipendenza correlativa che è fra i membri di una convivenza umana. Ma come nel conoscere e nel simpatizzare è una continua occasione a proporsi dei problemi d’inadeguazione e d’incongruenza, sorge naturale nello spirito una nuova forma d’interesse, che può dirsi religioso o speculativo, secondo che metta capo in conclusioni di fede o di scienza. Usare delle materie dell’insegnamento per promuovere, chiarire e fermar bene nell’animo coteste sei forme dell’interesse spirituale, gli è il vero e proprio ufficio dell’istruzione educativa.

III Non v’ha istruzione, per elementarissima che siasi, la quale, come s’è detto, non trovi già in qualche maniera preformato l’animo dell’educando, così per rispetto all’esperienza delle cose circostanti, come per rispetto alla partecipazione simpatetica per quelle fra esse che sien capaci di muovere il sentimento. Or dovendo l’istruzione educativa esser rivolta ad ingenerare le varie forme d’interesse spirituale, onde la materia del conoscere si tramuti in obbietto immediato e multiforme di attività interiore, gli è chiaro che l’azione didattica debba principalmente consistere nel precisare, nel correggere, nell’allargare e nel completare così l’esperienza come la simpatia. Si cercherà dunque nelle condizioni naturali e nelle primissime forme dell’una e dell’altra il proprio addentellato dell’azione educativa della didattica, non nell’ordine interiore o sistematico che voglia dirsi del sapere scientifico. L’esperienza e la simpatia però, sebbene distinte in qualche modo per rispetto agli obbietti cui si applicano, quanto al loro modo di muoversi dentro dell’animo non si separano mai assolutamente l’una dall’altra, anzi lo governano tutt’insieme. Cosicché quando si voglia offrire allo spirito materia d’interesse immediato per via dell’istruzione, e dare a cotesta materia ordine e precisione, stabilità e connessione, convien correggere, allargare e completare ad un tempo medesimo così l’esperienza come la simpatia. Nella coscienza riflessa ed elaborata delle persone adulte ed in qualche modo colte, i concetti di natura e di spirito formano le due universalissime categorie cui ogni nozione di cosa particolare si riduce, in quanto differenziata per via dei criteri di causalità fisica e di movenza interiore, o altrimenti. Nella coscienza dei fanciulli e dei giovanetti, che sono per l’appunto la materia subjecta3 dell’azione educativa, non accade così; perché in essa tanto si specifica e si determina la materia conoscibile, per quanto è mutevole l’attrattiva della novità, multiforme l’affigurazione fantastica delle cose e delle persone, varia la movenza istintiva dei sentimenti e delle appetizioni, che improntano nelle cose il carattere della simpatia e dell’antipatia. Ad ingenerare e fissar bene nell’animo la nozione del naturale e dello spirituale c’è bisogno dell’ammaestramento, il che nessuno vorrà credere si possa convenientemente fare con definizioni a fil di logica. Difatti mal s’apporrebbe l’educatore, che a specificare e determinare le materie dell’insegnamento, ricorresse ai termini astratti o alle classificazioni scientifiche onde si derivano le differenze delle varie discipline della fisica e della psicologia, dell’etica e dell’antropologia, della logica e della chimica e via

dicendo. Coteste denominazioni e classificazioni in tanto han valore e significato, in quanto che la mente, per via della riflessione, si e già creati gl’istrumenti concettuali che occorrono ad interpretare e sistematizzare la esperienza naturale e spirituale, entro i limiti della considerazione scientifica. Ma l’obbietto, in quanto è presente all’animo e vi suscita vari interessi, non consiste in esso come sistematica di concetti, sì bene come varia affigurazione, conformazione, successione e connessione di fatto. Correggere ed ampliare nei giovanetti che si prendano ad educare, così la esperienza come la simpatia, vuol dire in somma, metterli in grado di usare di una più larga e più precisa intuizione e degli uomini e delle cose, e renderli atti a muoversi per rispetto alle parti della intuizione medesima, con impulsi di viva apprensione. Nondimeno si sa, come nel campo della prima intuizione diretta del mondo s’ingeneri, non per arbitrio né per influsso di riflessione scientifica, ma per naturale svolgimento dell’attenzione interiore, una generalissima distinzione di cose naturali ed umane; in quanto che l’animo è forzato ad avvertire, come non sempre sia lecito associare alla conoscenza la simpatia, nella rappresentazione degli obbietti singoli. L’obbietto naturale in fatti per quanto primieramente implicato con la simpatia per via della rappresentazione mitica e poetica, poco per volta si specifica come rigido, resistente, inaccessibile alla commozione e per ciò inesorabile, a rincontro dell’obbietto umano, che consistendo nell’operazione intelligente, sentita ed affettuosa dei circostanti, si mostra pieghevole, commovibile, esorabile4, e per ciò capace di diventare intimo nella conversazione e nell’amore. L’educatore troverà in questa prima e naturale distinzione la norma giusta per classificare le materie dell’insegnamento. Il naturale e l’umano han da essere i due grandi obbietti della istruzione educativa; ma con questa differenza però, che essendo in uno dei due elementi una maggiore capacità a suscitare nello spirito tutte le forme dell’interesse che non sia nell’altro, conviene che alla considerazione delle cose umane si dia la preponderanza su quella delle cose naturali. E quando si dice cose umane si dice storia. Si è disputato non poco, anzi di soventi, dai teorici della pedagogia, se la storia possa esser considerata qual materia utile d’insegnamento; e i pratici non han mancato di muovere dal canto loro delle serie obbiezioni, or poggiate sopra considerazioni morali, politiche o religiose, or derivate dall’esame delle difficoltà tecniche dell’arte dell’insegnare. Non è il caso di esporre e di ribattere in questo luogo tutte coteste obbiezioni. Ricorderò soltanto che se per istoria s’intende la nuda narrazione dei fatti per ordine cronologico, come si usa nei manuali, o il discorso astratto dei filosofi e dei politici su gli accadimenti umani, non è chi possa aspettarsi dall’insegnamento di essa un qualche frutto educativo;

per non dire delle difficoltà intrinseche a qualsivoglia istruzione puramente formale e scientifica, durante il periodo di tempo che d’ordinario si consacra alla coltura generale. Ma lo stesso accade di ogni altra materia d’insegnamento, se intesa come nudo obbietto di considerazione scientifica. Dove è più la forza educativa della poesia, se questa si riduce allo studio metodico della composizione; dove più l’efficacia delle lingue classiche se vengono considerate come nudo obbietto di disquisizione grammaticale; dove più l’effetto dello spettacolo delle cose naturali, se considerato come semplice concatenamento di cause meccaniche? Or la storia che importa d’insegnare pei fini dell’educazione non consiste nella disposizione metodica dei fatti e delle date, né è da considerare quale ordinamento sistematico delle cause generatrici degli avvenimenti umani. Essa ha da essere come il complemento dell’esperienza attuale con la narrazione dei fatti che la precedettero e la prepararono, deve arricchire la immagine del variato spettacolo delle cose umane presenti con la esposizione delle assenti e delle passate, deve presentare all’animo il vivo dei rapporti sociali fuori delle fluttuazioni dell’empirismo giornaliero; in una parola vuol essere il vario del vivere umano destinato a suscitare il vario degli spirituali interessi. Posto ciò, ed intesa in cotal maniera larghissima l’esposizione storica, s’intende come l’essenziale della questione che mi son proposta non possa consistere nell’indicazione estrinseca dei libri, o delle maniere che si devon tenere nel comunicare la notizia storica, e non nei precetti da osservarsi nell’esporre successivamente le varie parti della storia. Perché in ogni questione pedagogica non bisogna mai dimenticare che il punto d’incidenza dell’azione didattica è nell’individualità dell’educando; e che questa per essere in istato di continuo sviluppo entra in sempre nuovi e sempre variati contatti col mondo circostante, per via del conoscere e del sentire, il che porta una continua variazione negli addentellati che il moto interiore dell’animo offre all’opera dell’istruire e dell’educare. Cotesto processo interiore vuol esser tenuto presente in ogni sorta d’insegnamento, e massime in quello della storia, che è destinato non ad antivenire con morali riflessioni la pratica della vita, non a comunicare l’attitudine tecnica ad operare in un modo o nell’altro, ma sì bene a fornire lo spirito di una ricca e multiforme attività di concezione e di apprezzamento delle cose tutte che riguardano l’uomo in quanto volontà individuale e sociale. Con l’affermazione che tutta la materia dell’insegnamento educativo si riduca alle due grandi categorie della cognizione naturale e della storica, non è mia intenzione di sostenere che l’insegnamento non debba poi venirsi a grado a grado specificando nelle varie discipline che piglian nome di fisica e di etica, di logica e di antropologia, di grammatica e di estetica, o altrimenti, e assume così

a mano a mano i contorni formali che son propri di quelle. Ma cotesta specificazione vuol essere intesa come sussidio e non come obbietto dell’istruzione educativa. Perché per educare non giova che questa o quella nozione pigli il nome di psicologica o di grammaticale, di estetica o di fisiologica, mentre importa grandemente che le distinzioni scientifiche facciano da sussidio metodico e certo per la formazione del vivo senso delle cose, in quanto capaci di muovere lo spirito interessandolo. Per ciò a rincontro della cognizione naturale si colloca la cognizione delle cose umane e storiche; sotto la qual denominazione rientra ogni sorta di nozione etica, estetica e psicologica, che mal si apporrebbe chi volesse dal bel principio presentare in forma astratta e come disciolte dai legami che le stringono alla immagine viva dell’uomo in atto di sentire di volere e di operare. Né è di ostacolo a questo concetto la considerazione del fatto, che son molte le cose che bisogna apprendere praticandole, così perché il praticarle è l’unico mezzo per bene impararle, come perché importa per ragioni di utilità preparar nell’animo insieme ai dati ideali della coltura certe attitudini peculiari al fare. Ma oltre che parecchie di coteste attitudini tecniche hanno il loro reale fondamento nella coltura dello spirito, non si dee mai confondere i risguardi dell’utilità con quelli dell’educazione interiore dell’animo. Così, ad esempio, la grammatica, in quanto occorre all’uso pratico del parlare e dello scrivere, si ha da insegnarla come arte; ma perché serva di mezzo educativo per suscitare il senso logico ed estetico, bisogna metterla in relazione con le lettere, ossia con quello studio che è destinato a risvegliare l’interesse immediato per il vero e per il bello. In somma le varie discipline si verranno a mano a mano specificando nel corso dell’istruzione educativa, per ragioni di disposizione didattica e di ordinamento metodico di studio; ma non è già nella specificazione loro che è riposto l’obbietto dell’educazione.

IV La difficoltà che io provavo a definire con qualche chiarezza il significato che alla storia si conviene attribuire, perché faccia ufficio di materia in che l’attività educativa possa venirsi opportunamente esercitando, mi ha come forzato a pigliar da punti un po’ lontani la trattazione dell’argomento. Di ciò spero trovare facile scusa, essendo risaputo quanto ei sia malagevole il tener discorso di un tema speciale di scienza, fuori dell’ordine interiore della disciplina cui esso propriamente appartiene. Per precisare ora i fini cui l’insegnamento della storia deve esser rivolto, discorrerò particolarmente del come cotesta materia quando sia convenientemente narrata ed esposta, possa muovere in vario senso l’animo, e suscitarvi quindi gli svariati interessi spirituali, in cui dee consistere il proprio e duraturo sostrato della coltura. Il primo e più elementare ufficio dell’istruzione educativa gli è quello di correggere, di precisare e di completare le immagini delle cose circostanti o attinenti alla vita dei giovanetti, che si sien presi ad ammaestrare; perché coteste immagini, o rappresentazioni che voglia dirsi, son tutte in origine imprecise e confuse quanto al contenuto loro, incerte ed accidentali quanto ai limiti ed alle relazioni, e spesso così fatte che vi si trovano rimescolati insieme e gli elementi conoscitivi e i risguardi della individuale simpatia. L’attività educativa ha da esser per rispetto a ciò tuttaffatto dichiarativa; e come tale si dispiega in quelle forme d’insegnamento, che sono a un di presso e il metodo così detto intuitivo, e la nomenclatura, e la correzione della parola, della proposizione e del periodo, e il sussidio prestato alla manifestazione del sentimento, col venirlo ora amorosamente interpretando, ora a tempo e luogo reprimendo. Fare che si distinguano e si denominino gli obbietti singoli, che si assegnino con precisione le parti loro e i più generali aspetti delle intuibili relazioni, che si riconoscano i più immediati nessi di causa e di effetto, di fine e di mezzo, che si usi rettamente della parola per la espressione delle cose intese e per la significazione dei sentimenti concepiti; in queste ed in altrettali forme consiste la somma di quello che col metodo dichiarativo dell’insegnamento importa di ottenere. Cotesta maniera d’istruzione, la quale, per ragioni che qui non accade di esporre, si deve usare per avviare ad ogni sorta di studio, non è per ciò da intendere come quella, che facendo da primo grado, sia destinata a dar soltanto accesso alle forme così dette superiori del precetto e dell’ammaestramento. Ché anzi in qualsivoglia grado di studio o di scienza gli è nell’esperienza ben dichiarata soltanto che si può ritrovare la materia prima d’ogni elaborazione intellettiva; e tanto questa

cresce d’intensità e d’intimità, quanto il campo di quella si allarga e si precisa. Or la storia è innanzi tutto destinata ad offrire spettacolo variato delle opere dell’uomo, fuori dei limiti della esperienza personale; non così però che le notizie delle cose assenti e passate non piglino nello spirito il carattere dell’intuibile, poiché gli devono essere appresentate di maniera, che esso possa bene esercitarvisi, come in materia viva di osservazione. L’appicco naturale a cotesta narrazione viva delle cose assenti e passate è da cercare, come si dirà meglio in seguito, nel bisogno di portar correzione e di dar complemento alle immagini che alle cose presenti si riferiscono. Ma non appena l’occasione sia stata sufficientemente messa a profitto, si andrà più innanzi di così: perché a dar pieghevolezza alla mente, a fornir l’animo di molta varietà d’aspetti, ed a prepararvi la materia in cui e per cui tutti gli altri interessi spirituali possono con ordine venirsi svolgendo, bisogna anzi tutto suscitare il gusto della curiosità ed esercitarlo, poi che sia nato, su le immagini ora isolate or ricongiunte degli uomini in atto d’operare e delle operazioni diverse che da essi procedono; avuto riguardo al divario dei colori e a tutte le specificazioni d’intreccio che la multiforme ragione dei tempi e dei luoghi porta necessariamente con sé. L’interesse empirico, che appunto per rimanere immediato non può mai confondersi con la considerazione della possibile utilità pratica delle conoscenze che si vanno acquistando, consiste principalmente nell’agevolezza con che la fantasia va spaziando in un campo di estensione massima e così fatto, che le molteplici e mutevoli parti sue possano risvegliare una varia vicenda di attenzione, ed un facile trapasso da una in altra affigurazione delle cose umane e dei rapporti loro. La notizia dalle cose passate ed assenti, che dapprima si cercherà d’introdurre via via nello spirito con la opportuna dichiarazione delle cose presenti, conviene si fissi da ultimo in esso con tutte le specifiche qualità che son proprie dei fatti accaduti altrove ed in altro modo che non si sia soliti di vedere. Ciò importa che la esposizione si faccia a grado a grado capace di mettere gli obbietti a tal distanza dall’intelligenza di chi li apprende, che questa se li vegga innanzi come in disposizione di prospettiva. E in verità il valore educativo dell’interesse empirico non consiste punto nel semplice fatto, che delle cose in gran copia siano introdotte nello spirito e vi si conservino, come si direbbe, nella memoria; ma sì bene in questo, che la varietà loro divenga un continuo e vario eccitamento all’attenzione per l’aspetto della differenza, con che la curiosità corretta dal bisogno di osservare gli obbietti in quanto distinti, multiformi e mutevoli, si tramuta in primo elemento d’intellettuale libertà. Quando l’interesse che dico empirico sia stato opportunamente suscitato e poscia largamente esercitato, una non lieve difficoltà si presenta all’educatore.

Nella varietà dei fatti gli è come un naturale allettamento a pigliar lo svago. Di cosa in cosa si passa non che volentieri con diletto, e l’animo può da ultimo diventare incapace di fermarsi in alcuna di esse, perché travolto dalla molteplicità degli aspetti e dei colori nelle lusinghiere ed inquiete attrattive del fantasticare. Non si dovrà per ciò lasciare in arbitrio dei giovanetti, cui vogliamo con la coltura dar forma d’animo educato, che essi piglino diletto del semplice racconto e vi si svaghino a lor talento. Anzi gli è forza dare alla esposizione storica un indirizzo, che possa poco per volta temperare l’interesse della varietà, col bisogno di fissar l’attenzione ora in questa ora in quella cosa principalmente, come per rispondere a delle domande che la riflessione produca di mano in mano, a guisa d’intoppi al facile fluire della fantasia e della memoria. D’altra parte la maraviglia che s’ingenera naturale nell’animo alla spettacolosa vista dei forti, dei potenti e dei fortunati, non di rado risveglia dei fantastici assentimenti e dei desideri d’imitazione, i quali, non che deprimere od offendere, possono affatto spegnere i sentimenti della giustizia e i moti generosi della benevolenza. E quando cotesta inclinazione si combini con l’altra dello svago capriccioso della curiosità, può bene accadere che la narrazione storica finisca per avvezzare lo spirito, non altrimenti che accade della leggenda e del romanzo, alle irragionevoli ammirazioni, agli ambiziosi disegni, all’arrogante dispregio dei limiti naturali delle opere umane, e degli apprezzamenti morali cui quelle devono onninamente andar soggette. Ad ovviare a così fatti inconvenienti, che derivano dall’interesse empirico quando sia stato esclusivamente coltivato, gli è d’uopo usare dell’insegnamento della storia, come d’istrumento per suscitare nello spirito il senso delle connessioni causali dei fatti umani. Perciò deve poco per volta passare nella forma prammatica, che mette in evidenza le naturali derivazioni di cosa da cosa, e i legami che ai motivi ed ai fini le operazioni e i mezzi strettamente congiungono. Le condizioni naturali, che preparano la scena nella quale l’uomo nel corso della vita storica più tardi si travaglia, devono esser largamente indicate e dichiarate, come per introdurre alla dichiarazione ed alla intelligenza dei nuovi rapporti, che la vita sociale dentro il corso del tempo vien poscia sovraimponendo alla natura esteriore. La considerazione di tutte le forme sociali di adattamento e di convivenza servono come a chiudere in giusti confini lo spettacolo multiforme delle cose narrate ad una ad una. E quando l’animo siasi abituato ad intendere in che consista il concorrere di più uomini al medesimo fine, e quali limiti alla volontà di ciascuno impongano e la natura esteriore e la società in quanto sistema di rapporti, il distacco delle persone notevoli sul fondo comune dei contemporanei, perdute le vane attrattive poetiche della leggenda, finisce per assumere le giuste proporzioni della drammatica evidenza.

Gli è adunque necessario di sviluppare di pari passo con l’interesse empirico il sentimento critico ed il pensiero; e in ciò consiste la seconda forma del conoscere, che alla didattica educativa importa di produrre e fissar bene nell’animo. L’interesse razionale non è però da confondere col talento formale del ragionamento astratto, né con l’inclinazione logica al generalizzare, e molto meno col gusto della discussione morale intorno ai motivi delle umane azioni. Perché esso dee consistere nel bisogno diretto, anzi immediato, di ricollegare i fatti di più persone fra loro, perché appariscano evidenti i limiti che la natura peculiare di una data società pone all’opera separata di ciascuno, ed i motivi comuni si rivelino come cause vere onde si deriva la dipendenza correlativa di tutti. Il senso retto e pieno delle naturali e delle sociali necessità opera su lo spirito come forza che riduce nei giusti termini della causale connessione il vario delle figure umane e le modalità delle azioni; ed avvezzando alla esatta discriminazione della follia dall’eroismo, dell’arroganza dall’energia morale, della prosunzione dalla virtù, mette nella persuasione che l’opera di ciascuna persona particolare è come legata ad impreteribili condizioni di fatto sociale, che la fantasia non può a sua posta rimutare. All’immediatezza dell’interesse razionale, che viensi naturalmente svolgendo ed esercitando nella considerazione dei fatti accaduti nel corso delle cose storiche, si tenterà invano di sostituire l’astratta precettistica della logica, della morale e della psicologia; perché, oltre ad essere contrario al retto senso educativo l’incominciare di là dove è mestieri per l’appunto di finire, non vi ha precetto che possa metter salda radice nell’animo, quando questo non si muova nello spettacolo delle umane cose con discernimento certo degli elementi e dei rapporti che lo compongono. Né ciò è tutto. Perché l’interesse razionale che scaturisce vivo e potente dalla considerazione dei nessi prammatici delle umane cose, forma nello spirito dei saldi criteri per distinguere il merito dalla necessità, la virtù personale dalle fortunate circostanze; ed a rincontro dei desideri baldanzosi e delle audaci intraprese suscita il sentimento di tutto quello che nei fatti è superiore ai fatti stessi, ossia l’idea del bene che urge sempre l’umana possa, senza definita speranza di totale appagamento. L’esposizione storica, appunto perché rivolta a mettere in evidenza la multiforme vicenda delle umane cose, dovrà dare altresì notizia dei sentimenti, degli affetti e delle passioni che mossero l’animo di quelle persone notevoli di cui importerà narrare i casi partitamente. Per ciò la materia storica non varrà soltanto a suscitare l’interesse empirico e l’interesse razionale nel modo che si è detto, perch’ella è atta eziandio a muover l’animo di quelli che l’apprendono, ad una viva imitazione degli affetti altrui, e ad una sentita partecipazione simpatetica per la fortuna or felice ora avversa di tutti coloro di cui si venga

narrando la vita. Né l’educatore vorrà perder di vista cotesto importantissimo aspetto della storia, avendo egli a porre nel novero dei suoi uffici anche quello di coltivare i sentimenti simpatetici, che sono fra i primi e principali fondamenti del vivere sociale. E a ben coltivarli a due cose bisogna attendere; a rendere, cioè, chiare le relazioni di fatto che devono destare or la gioia, ora il dolore, or l’ammirazione or la compassione, ed a tenere in giusti limiti cotesti sentimenti, perché rimanendo forze vive d’interiore apprezzamento non trasmodino in passionate agitazioni del volere. Nell’ambiente sociale, nel quale l’educando vive e si move, sono senza dubbio assai frequenti le occasioni che possono stimolarne l’animo alla produzione dei sentimenti simpatetici. Gli adulti e i coetanei che lo circondano usano di molti mezzi naturali od acquisiti per atteggiare ed esprimere le movenze interiori degli affetti: cosicché l’animo infantile, nel riceverne le impressioni, vi associa naturalmente le emozioni proprie. Ma ciò d’ordinario si fa a caso, senza che alcuna norma affidi della esattezza della riproduzione e della permanenza della simpatia, la quale in prima si rivela come rozzo meccanismo di sensazioni immediate. Di più la varietà degli umani casi è tale e tanta, e le situazioni sociali del vivere son così multiformi, che non è possibile vederle tutte riassunte nella breve cerchia dell’esperienza diretta dei fanciulli. Cosicché, se bisogna venir preparando in essi, assieme agli altri istrumenti della vita spirituale, anche quello della pronta interpretazione dei molteplici aspetti della gioia e del dolore, perché ei vi si associno di proprio impulso, nessuna specie di ammaestramento astratto potrà concorrere più efficacemente della storia a produrre cotesto effetto. E appunto perché essa mette nell’animo una così grande ricchezza d’interesse empirico e razionale, si può sperare con fondamento, che i sentimenti simpatetici che verran suscitati da una ingegnosa e vivace narrazione, saran tanto vari e multilaterali da dare al cuore duttilità e pienezza ad un tempo. Le situazioni, che nello svolgimento della storia sono come preparate dall’incontro del carattere col corso esteriore o generale degli avvenimenti, non dispongono meno efficacemente di quel che faccia la poesia, alla compartecipazione sentita ed attiva dello spettatore. Anzi la storia ha un vantaggio su la poesia, di poter cioè esercitare le emozioni su fatti chiari, precisi ed individuati; mentre è difficile che assai l’arte non dia nell’astratto dei tipi, per essere infrequente il caso che lo scrittore tocchi quel grado di perfezione, che ci fa ammirare ad esempio nei drammi di Shakespeare la naturalezza di una perfetta genesi psicologica. Si sa del resto come niente inclini tanto fortemente l’animo dei giovanetti a pigliar gusto alla narrazione, quanto l’emozione che lor vien procurando la simpatia per le persone nuove, insolite e di sorte mutevole, i cui casi sieno

narrati con vivacità di colore. Non si può negare, che negl’infiniti intrecci del vivere contemporaneo un esame giudizioso dei caratteri e delle situazioni può scovrire parecchi casi di analogia coi fatti, che la storia dei tempi passati ci ha tramandati per memoria. Ma oltreché coteste analogie son difficili a scovrire e raccogliere, si sa quanto sia ardua cosa il farsi degli avvenimenti attuali un’idea così imparziale, che lo spirito possa fermarvi su l’attenzione, come in obbietto d’immediato interesse conoscitivo. I pregiudizi di famiglia, di classe, di partito, di nazione sono come tanti impedimenti al retto discernimento simpatetico degli stati d’animo dei contemporanei; per non dire che, mentre la notizia di quello che essi veramente sentono e vogliono, in quanto operano, arriva assai confusa ai più, i pochi che ne han concetto esatto usano di tenere per lunga pezza in sospeso l’apprezzamento loro, per tema di errare. Perciò, se importa avvezzar l’animo a muoversi in una larga cerchia di associazioni simpatetiche, perché la facile apprensione di quello che vive e s’agita nei cuori altrui divenga mezzo educativo per vincere le angustie dell’egoismo, bisogna usare dei fatti storici con molta perspicuità di caratteristica psicologica, perché il sentimento si formi senza trascendere in commozioni. Le associazioni simpatetiche di cui si tiene qui parola non vogliono esser confuse con le immagini astratte e tipiche della natura umana nei suoi vari aspetti; né è in queste che si deve cercare la norma dell’educazione. Anzi io son così lontano dal credere che i tipi astratti delle cose e degli uomini siano atti a produrre alcun effetto educativo, che bandirei assai volentieri dall’insegnamento della storia ogni sorta d’interpretazioni moralistiche; onde tutto lo sforzo si concentri nel dare idea di uomini vivi e reali, palpitanti dei moti degli animi loro. Quando l’emozione sia stata opportunamente prodotta, l’apprezzamento verrà a grado a grado da sé, ed è colpa il prevenirlo con inutili cautele di giudizi morali, quando l’animo dei giovanetti, per non esser ancor guasto dall’uso della volontà pei fini egoistici del benessere, vuol liberamente espandersi nella partecipazione simpatetica. Dove manchi una fantasia mobile – i psicologi lo san bene – manca la prima fonte della morale benevolenza. L’interesse simpatetico, sviluppato così alla vista delle varie condizioni del vivere umano, ma di maniera che il risguardo dell’utilità non vi s’immischi, diviene da ultimo un istrumento sicuro per appercepire con grande evidenza i casi tutti della vita giornaliera, e mezzo da potervisi muovere dentro con molta pieghevolezza di affettuosi contatti, con gran fermezza di sentite repugnanze. E ciò importa non solo a dar colore e moto alla rigida nozione dei fatti, ma eziandio a temperare l’astrattezza dei giudizi etici con la considerazione dei multiformi aspetti dell’umano destino. A misura che la coltura avanza si va più oltre di così.

Accade di fatti, che quando la simpatia si è sufficientemente esercitata su l’immagine viva delle persone prese ad una ad una e su i vari casi del viver loro, via via cominci di proprio impulso a spiegarsi su gli aggruppamenti sociali, che sono delle più complesse forme di coscienza, in cui gl’individui, a guisa di elementi, entrano in rapporti di reciproca dipendenza. L’immagine della vita sociale non si forma, in verità, né presto né agevolmente; e per ciò è mestieri di venirla po’ per volta elaborando con l’azione educativa. Perché lo spirito non può concepirla con evidenza, se non dopo avere acquistato l’uso retto e pieno dell’interesse empirico e del simpatetico, e quando si trovi di già in grado di percorrere, con vivace e rapida alternativa d’intuizione e di analisi, tutto il vasto sistema di rapporti e di complicazioni da cui risulta la compagine sociale. Né si può far ricorso allo spettacolo della vita circostante, perché questa è tanto intralciata e complicata, e spesso così intorbidata dalle passioni che dentro vi si agitano, da non esser cosa facile l’acquistarne una nozione esatta, obbiettiva e spassionata; a meno che non s’entri come parte attiva nelle cose del mondo, con molta preparazione di coltura ideale. Per ciò conviene usare della storia per portare l’attenzione dell’educando nel bel mezzo del lavorio sociale; attesoché l’obbietto su cui la riflessione pratica può in cotal caso fermarsi, si trovi a tanta distanza dallo spirito dell’osservatore, che questi, libero affatto da qualsivoglia considerazione di personali interessi e scevro di passioni, vi si può esercitare all’acquisto di nobili sensi e all’ammirazione spassionata delle virtù sociali. E come l’educando, per le condizioni peculiari dell’età sua e per l’angustia del campo in cui vien facendo uso della volontà, non è ancora in grado di operare in conformità dei sentimenti che prova e delle virtù che ammira, ei potrà più opportunamente formarsi nell’intimo dell’animo un ideale di vita sociale, che gli valga in seguito di sicura scorta in ogni pratico apprezzamento. Or son di due specie i fatti storici, che convenientemente esposti e dichiarati possono efficacemente contribuire a svolgere nell’animo il sentimento sociale, nelle molteplici specificazioni sue. Appartengono alla prima tutti quelli che riguardano le emigrazioni ed immigrazioni dei popoli, le fondazioni delle città, le rivoluzioni feconde di morale immegliamento, le guerre coraggiosamente sostenute in difesa della patria, i grandiosi moti di religiosa o di politica riforma. Le quali cose tutte, mettendo quasi in aspetto di drammatica evidenza il concorrere di moltissimi individui al conseguimento dei medesimi fini, fanno, per dir così, toccar con mano la coscienza sociale, in quei momenti in cui per atti insoliti di coraggio, di tenace perseveranza, di nobile abnegazione essa rivela tutta intera la ricchezza e la potenza dell’esser suo. Il che, se è spettacolo nobilissimo per le ammirazioni estetiche che ne conseguitano, gli è al tempo

medesimo forte spinta a vincer l’egoismo, e mezzo sicuro da innalzar l’animo con la calda ammirazione delle civili virtù. Ma assai più di cotesti fatti singolari, di cui la memoria si trova viva e potente nei documenti della letteratura poetica e massime nell’epica, giovano a formare il retto senso delle sociali necessità tutte quelle forme del vivere umano, mercé le quali l’arbitrio degl’individui rimane vincolato ed assoggettato alle esigenze della legge e del costume. Tutte le nozioni intorno all’ordinamento della vita sociale, che di solito si raccolgono in forma di speciali discipline in quei libri, che hanno ad obbietto la storia dei costumi, delle leggi, delle istituzioni, del rito e del culto, devono esser messe a profitto per presentare, come in viva immagine, l’insieme delle condizioni normali, dentro delle quali le opere individuali si generano e si compiono. E ciò non solo importa ad allargare la sfera dell’interesse empirico, ed a render più mobile e più variato l’interesse razionale, ma eziandio a metter lo spirito dell’educando in diretta relazione con gli abiti costanti della vita, in cui, come in forme prestabilite, l’opera degl’individui si riversa. Così solo ei potrà esercitare il senso della socialità sotto l’aspetto della osservazione disinteressata. Le forme di subordinazione e di coordinazione, con le regole, gli uffici e i doveri che ne derivano, ingenerano poco per volta l’idea dell’ordine pubblico; e da questa procede poi il sentimento della dipendenza sociale, che è come destinato a temperare l’impressione quasi sempre spiacevole delle personali disuguaglianze. Ma sopra ad ogni altra cosa conviene che emerga l’idea della legge, qual comune guarentigia ideale degli ordini, e quella dello stato che è la potenza e la forza esecutrice della legge. Le necessità naturali di esso, che sono spesso in lotta con le ideali esigenze della coscienza, non possono altrimenti essere intese che col mezzo della storia. E questa, mostrando come la sorte dei popoli sia stata più o meno prospera, secondo che ai costumi e alle leggi siasi serbato maggiore o minore ossequio, e secondo che gli animi sieno stati più o meno pronti al sagrifizio, più o meno capaci di discernere il merito dalla fortuna, indurrà nell’animo la persuasione, che non nella discussione dei principi astratti di governo, non nella ricerca del singolare e dell’insolito, ma nella virtù dei cittadini dee riporsi il fondamento primo d’ogni materiale e morale prosperità del vivere civile. Non essendo però ufficio dell’educazione di preparare all’esercizio di alcuna arte speciale, e meno che ad ogni altra al reggimento della cosa pubblica, non si vorrà ridurre a forma di precetto gli ammaestramenti sociali che si verranno via via raccogliendo dall’esposizione storica; perché basterà farli emergere, come per naturale conseguenza di riflessione, dallo spettacolo vivo delle cose umane, cui si dee dar forma di rigorosa connessione, non frastagliando il racconto con

inopportune disquisizioni dottrinali. In somma il gran sistema della vita sociale, che racchiude dentro di sé tanti particolari sistemi e mette capo nell’autorità dello stato, non sarà presentato alla considerazione dei discenti come ordinamento astratto di concetti, ma sì bene come viva immagine di naturali e di morali necessità. E in presenza di cotale spettacolo l’arbitrio individuale sparirà come vana ombra; perché tanto v’ha di merito e d’importanza nelle singole persone, per quanto il vivo senso dei sociali rapporti abbia ingenerato in esse l’amor di patria, la sincera modestia, lo spirito di sagrifizio e a volte il bisogno della rassegnazione, a volte gl’impulsi animosi del coraggio. La storia, che è materia idonea ad isviluppare nell’animo le inclinazioni sociali, per cui si trionfa dell’egoismo, gli è altresì efficace ad ingenerare gli abiti di concezione estetica, che vincono la natia rozzezza e dan forma di gusto all’apprezzamento degli uomini e delle cose. In verità la rozzezza dei sentimenti non fu mai doma da misure disciplinari, né da precetti freddamente comunicati all’intelletto. Si vuole per ciò ingenerare via via il gusto, col portare l’attenzione sui fatti in cui le forme di bellezza sono di facile discernimento. Ora una parte assai notevole degli avvenimenti storici ci è stata tramandata in opere monumentali, la cui forma di composizione è atta per sé medesima a suscitare e coltivare il sentimento estetico. Ma i fatti umani, in quanto argomento di narrazione viva ed ordinata, bastano da soli ad offrire nella varietà degli aspetti, degli intrecci e delle situazioni loro materia più che sufficiente agli apprezzamenti estetici; perché muovono naturalmente l’animo a sceverare e circoscrivere le forme elette del nobile, del sublime, del bello, del grazioso, del conveniente, e quelle degli opposti che sono spregevoli. E s’ha da rivolgere l’esposizione storica a cotesto fine, perché non nel discorso su la ragion dell’arte, non nella ricerca speculativa sull’origine del bello, ma nell’apprensione diretta e viva delle forme veramente consiste il gusto estetico. Il quale, quando sia stato una volta suscitato e in qualche maniera esercitato, diventa criterio certo di elezione, facoltà di discernimento, forza che può costantemente governar lo spirito così nelle spassionate compiacenze, come nelle disinteressate repugnanze. Ad ottenere che l’esposizione storica serva a cotesto intento, importa osservare le due regole che seguono. E in prima bisogna rifuggire dall’uso delle forme astratte, adoperando i vivi colori del linguaggio animato del sentimento e dell’affetto. Di tal guisa l’immaginativa è mossa dall’apprensione degli atti notevoli, a darsi come un abito di fantastica imitazione, che poi mette capo in quelle forme tipiche, in cui l’interesse estetico stabilmente riposa. Di più bisogna fare in modo, che la caratteristica degli stati interiori dell’animo acquisti nell’esposizione la medesima chiarezza, che alla descrizione della scena esteriore è mestieri si dia, per promuovere l’interesse empirico e razionale.

L’evidenza psicologica di quello che accade negli animi altrui, prima che l’intimo loro si riveli in opere esteriori, quando vada congiunta all’immagine chiara e vivida della scena in cui la volontà si viene esplicando, conduce l’attenzione a fermarsi su quegli aspetti formali d’interiore e d’esteriore convenienza, in cui han fondamento tutti i giudizi estetici. Le immagini multiformi dei fatti, già frenate ed ordinate dagli altri interessi, trovano così nel sentimento del bello come un nuovo centro intorno a cui si dispongono in varia gradazione di estetica importanza. Accadrà il medesimo per rispetto agli apprezzamenti etici: perché questi nella prima origine non sono che giudizi di estetica convenienza, da cui per via di complicati processi derivansi le presunzioni pratiche della coscienza morale. Or come l’animo con lo studio degli umani fatti si viene poco per volta avvezzando al discernimento ed all’elezione delle forme pregevoli, così forma dentro di sé ma, a grado a grado la nozione di quello che alla volontà si convenga perché non ecciti repugnanza, anzi risvegli nello spettatore disinteressato una schietta compiacenza. E perché ciò accade naturalmente, quando le passioni ed i personali interessi non perturbino il giudizio, basterà esporre con chiarezza e con efficacia i vari rapporti del volere, per eccitare sicuramente lo spirito alla produzione dei sentimenti morali. Nondimeno a render questi non solo stabili, ma di facile applicazione ai casi particolari, il che importa molto al retto uso della coscienza pratica, conviene esercitarli nell’apprezzamento delle complicate forme del vivere sociale. La precettistica morale gli è cosa del tutto superflua, perché non è nella forma intellettiva della massima che sia riposta la forza regolatrice del volere. E come la memoria di questo consiste nel pronto riferimento del giudizio morale alle appetizioni, perché la loro convenienza o sconvenienza etica apparisca incontanente palese; così la morale non si dee altrimenti insegnare che col metter l’animo in condizione di produrre i sentimenti di apprezzamento, e di usarne, poi che sien nati, come di criteri discriminativi del valore delle azioni. Per ciò conviene formare quegli stati della coscienza che diconsi convinzioni. Ed a ciò offrirà non poca materia lo studio spassionato degli accadimenti umani, che ingenera nello spirito non gli astratti concetti del giusto, del diritto, della benevolenza, ma le vive forme, ossia le idee del bene, intorno a cui devono ordinarsi tutti i moti dell’animo, così quelli di assentimento come quelli di repugnanza. Ma non termina qui la serie degl’interessi spirituali, che si vuole ingenerar nell’animo con l’insegnamento, ossia con gli abiti dello studio e della riflessione; rimanendo ancora quella forma che si è detto consistere nei problemi d’incongruenza, che la considerazione delle cose suscita naturalmente nella

coscienza, quando il sapere e la simpatia abbiano raggiunto un certo grado di maturità. In cotesta forma per l’appunto sono i primi germi della speculazione e della religione, cioè dire, di tutte quelle tendenze dello spirito, che mirano al ritrovamento di un concetto o di un ideale, in cui la coscienza possa riposarsi, quando sia travagliata dalle contraddizioni che scovrirà nelle cose e dai dissidi che avvertirà in sé medesima. Importa per ciò che l’insegnamento raggiunga un cotal grado di elaborazione, da metter nell’animo dei discenti la notizia del valore e dei limiti precisi di cotesti problemi, e in pari tempo le attitudini dell’intelletto e dell’animo che occorrono a risolverli. Non è questo il luogo di discorrere della posizione che all’educatore si conviene di assumere, per rispetto alle questioni pratiche della religione positiva; perché di fatti l’interesse che io dico religioso e speculativo, preso nella universalità sua, non è il medesimo che una profession di fede. Anzi gli è forma generale dello spirito, superiore ad ogni vicenda storica di confessioni religiose, perché consiste nel discernimento di tutto quello che il mondo contiene di contraddittorio e di doloroso, per cui l’animo è forzato a trascendere l’esperienza, per rimettere in giusto equilibrio la contemplazione delle cose. Per ciò non c’è bisogno di cercare degli argomenti speciali per provare, come all’educatore incomba il dovere di promuovere anche questa tra le altre forze della vita spirituale; massime poi nell’insegnamento della storia, che offre nello spettacolo delle umane cose tanta occasione di dubbio e di dolorose riflessioni. E primieramente l’interesse empirico, col metter sott’occhi la forma varia e variabile del vivere umano, spinge l’intelletto alla ricerca del primo principio e dell’ultimo termine di tutte quelle cose che si vengono a parte a parte esaminando. L’interesse poi che io dico razionale, provandosi ad interpretare le successioni e le connessioni degli avvenimenti, suscita assai di frequente il dubbio su l’umana sorte, per non essere il più delle volte intelligibili le cause genuine dei fatti e le maniere dei loro intrecci. Le forme estetiche e simpatetiche dell’interesse, dando dal canto loro il carattere del pregevole e dello spregevole agli atti umani, rendono avvertito l’animo delle disarmonie della vita, e muovono a dolorose riflessioni su i casi non infrequenti di disaccordo fra il merito ed il successo. Da ultimo l’interesse sociale, quando sia vivamente coltivato, non può a meno di risvegliare nell’animo delle tragiche emozioni, per la rovina degli stati, per il disfacimento delle società, per l’immeritato insuccesso delle nobili imprese. Per le quali cose importa che l’educatore, non col proposito di catechizzare in una maniera speciale, o di adattare il suo insegnamento alle convenienze esteriori della società in cui vive, ma per il retto intendimento dell’ufficio suo, usi della narrazione schietta dei fatti storici, per dar forma precisa alle

inclinazioni di dubbio e di dolore che lo spettacolo delle umane cose ingenera naturalmente in chi abbia pronta la simpatia ed acuto lo sguardo del conoscere. Perché se dipende in gran parte dalle condizioni peculiari della società e dei tempi in cui si vive, che ai problemi su l’umano destino si dia or una or un’altra soluzione, sarà sempre imperfetta quella istruzione che non procuri di metter lo spirito in condizione di proporseli con piena evidenza. E qui ha termine l’esposizione dei fini cui bisogna mirare nell’insegnamento della storia. Del come si possa raggiungerli anche con l’uso delle altre materie dell’insegnamento, non cade in proposito di parlarne in questo scritto. Giova però di ricordare che la loro efficacia educativa non consiste nell’enumerazione e nella partizione che io son venuto facendo in forma teoretica. Importa invece che l’educatore abbia elaborata nell’animo suo la materia dell’insegnamento, in maniera da poterla far passare ora in una, ora in un’altra forma dell’interesse, con molta agevolezza di movimento intellettivo, senza ch’ei faccia ricorso agli estrinseci sussidi del meccanismo metodico, o ad una forzata interpretazione del valore e del significato degli accadimenti storici.

V Da quello che si è detto innanzi, intorno al fine che bisogna proporsi di raggiungere nell’usare della storia come di materia d’insegnamento ordinato, vengon fuori due notevoli conseguenze didattiche, che io ora piglierò partitamente a considerare. La prima è questa: che avuto riguardo ai fini già indicati, non tutti i fatti che si trovan riferiti e raccolti nei libri storici possono diventar mezzo sicuro d’istruzione educativa; e l’altra poi: che a produrre per l’appunto i complessi fini della coltura la narrazione storica riesce insufficiente, tutte le volte che venga condotta senza alcuna relazione con le altre discipline che possono darle chiarezza e compimento. L’educatore, cui prema di assolver con frutto il compito che gli è proprio, deve usare non di una ma di due stregue nello svolgere ordinatamente le diverse parti dello studio; di quella, cioè, che si desume dal concetto generale dell’educazione, e di quella che viene indicata dallo sviluppo normale dell’attività interiore dell’educando. Le due cose non sono, come ben si sa, connesse necessariamente fra loro; perché nello sviluppo dell’attività interiore non è alcun preordinamento naturale per rispetto al fine della coltura; e questo dal canto suo non opera su gli animi per via d’influsso causale. Nel tenere ben distinti i due ordini di fatti, e nel trovar modo che nell’uno s’ingeneri, direi, naturalmente l’altro, consiste il difficile e l’attraente insieme dell’arte didattica; la quale, quando sia riguardata così, assume il carattere di rigorosa disciplina scientifica, non che nelle questioni più gravi del metodo, perfino in quelle apparentemente insignificanti dei libri di testo, degli orari, della divisione delle materie per anni e per corsi. Or dunque, a produrre con l’insegnamento i fini educativi che furono già esposti, la materia storica non può essere accettata così senz’altro dai manuali, dai trattati e dalle collezioni, in cui si trova raccolta; e bisogna invece venirla convenientemente scegliendo ed elaborando. La scelta e l’elaborazione importan bene che si narrino le cose realmente accadute, ma non si può far uso di tutte quelle che accaddero, e non si dee sempre seguir l’ordine in cui naturalmente si svolsero. In parecchie serie di accadimenti, non havvi materia e forza sufficiente da suscitare i multiformi aspetti dell’interesse spirituale; e spesse volte per fare intender l’ordine in cui le cose realmente si svilupparono bisogna tenere delle vie indirette, che al processo interiore dell’attenzione siano convenientemente conformate. La materia storica, in somma, che si trova sparsa negl’infiniti libri e

documenti, nei quali noi siam soliti di leggerla e di studiarla, dee passare per lo spirito dell’educatore come attraverso ad un processo di elaborazione, e pigliarvi la forma nella quale conviene ch’ei la venga a parte a parte comunicando ai discenti. Cotesto processo non vuol dire modificazione o interpretazion dei fatti secondo un dato preconcetto, ma sì bene scelta giudiziosa che si faccia in vista del fine educativo, e poi ordinamento delle parti che si devon succedere nell’esposizione. Il quale ordinamento dee pigliare i criteri direttivi dalla considerazione dello svolgimento normale dell’animo dei discenti. Solo a questo modo essi potran poi poco per volta usare da per sé delle materie storiche, come di mezzi certi di coltura; quando sieno già forniti dell’abito intellettuale di dar rilievo alle cose secondo i vari interessi che muovono, e secondo l’ordine in cui si svolgono. Di fatti, se si è detto che si deve cercare nell’esperienza delle cose presenti il primo addentellato alla esposizione delle cose assenti e passate, e poi render queste in qualche modo intuibili perché muovano l’interesse empirico, gli è naturale che non potendosi di tutti i fatti accaduti altrove ed in altri tempi dar conveniente e piena dichiarazione ai giovanetti, non d’ogni sorta di storia è lecito usare pei fini educativi della coltura generale. E quando manchi l’intuibilità del fatto mancherà tutto il resto, perché farà difetto la materia dalla quale si trae occasione a suscitare successivamente la riflessione razionale, i moti simpatetici, il senso estetico e così di seguito. Bisogna adunque rigettare tutte le classificazioni che desumono le norme della scelta dai concetti cronologici o dai risguardi di generale connessione causale; perché dovendosi combinare i criteri obbiettivi delle materie con quelli che vengon suggeriti dai fini peculiari dell’educazione, conviene che i nessi causali e l’ordinamento cronologico s’ingenerino nello spirito con processo dalle parti al tutto e non viceversa. Occorre ricordare, a maggior chiarimento di queste generalità, che l’intuibilità delle cose storiche, per esser del tutto relativa al vario grado di coltura, non ha termine fisso negli obbietti conoscibili. Può darsi quindi che nel corso degli studi che son destinati a formare la coltura generale, si vengano preparando nell’animo dei giovanetti tutti i mezzi intellettuali che abbisognano per intendere ogni sorta di storia di ogni tempo e d’ogni luogo; massime se le lettere, la geografia e la filosofia sieno apprese con diligenza, se alla cognizione della matematica e della fisica sia fatta una parte conveniente, e se si darà agio di leggere ogni sorta di libri, che conferiscano ad allargare l’orizzonte ed a sviluppare l’intendimento. Ma non si vorrà per ciò credere che l’insegnamento storico debba dal bel principio esser condotto sopra un ordine prestabilito di schemi cronologici, come s’usa quando dai tempi antichissimi si scende giù giù

ai moderni; quasi che l’intelligenza dei fatti proceda con quel medesimo ordine col quale essi si son venuti la prima volta producendo. L’intelligenza delle cose, che all’educatore importa di promuovere, gli è quella che si sviluppa per interiore virtù di successive apprensioni; cioè a dire per naturale applicazione degl’interessi alla materia conoscibile. Vi ha dunque fatti storici che per sé medesimi e senza che ci si metta dello sforzo, son materia propria d’istruzione educativa; ed altri invece che solo ad educazione compiuta possono diventare obbietto di ricerca, per quelli che abbiano agio ed inclinazione di attendere agli studi come a speciale esercizio dottrinale. Così la storia degli antichissimi Imperi di Babilonia e di Ninive, le grandi rivoluzioni dell’Asia Centrale, le dinastie dell’Egitto e della Cina, ed altrettali cose che solo la rigorosa ricerca scientifica, cioè a dire una vasta erudizione combinata col talento filologico e critico, può rendere in qualche modo intuibili ad una piccola schiera di dotti, difficilmente diverran mai materia certa d’istruzione educativa, e bisogna guardarsi bene dall’introdurle frettolosamente nei programmi didattici, perché si rischia di guastare il concetto della coltura generale. Né cotesta esclusione è da intender solo per rispetto ai fatti che son remoti per ragion di tempo. Anche nell’epoca medioevale e moderna v’ha non poche serie di svolgimenti storici, che per quanto sia cosa utile percorrerle rapidamente da un capo all’altro, per acquistar notizia di parecchi nessi causali e di alcuni movimenti che preparano da lontano i fatti su i quali l’attenzione deve poi principalmente fermarsi, pure non potran mai muovere tutt’intero lo spirito, o perché manchi la chiarezza intuitiva della cosa, o perché ottenutala con qualche sforzo gli altri interessi non conseguitano naturalmente. Si pensi a mo’ d’esempio alla storia dell’impero Bisantino dal settimo secolo in giù, o al disfarsi del Califato poi ch’ebbe raggiunto in Harun el-Raschid5 il massimo di sua potenza, o alle perpetue guerre della feodalità in Germania, o alle cotidiane sommosse delle minori repubbliche italiane, o alla serie dei Viceré di Napoli e ad altrettali maniere di accadimenti. In un insegnamento completo bisognerà bene tener conto in qualche modo di tutte coteste cose; sia che giovi indicare il primo e l’ultimo termine di complicati svolgimenti, sia che si voglia dare varietà di tinte al quadro dei fatti umani, come per indicare l’abbassarsi delle grandi idee e il venir meno dei nobili conati e delle magnanime imprese. Nondimeno non si vorrà mai credere che insistendo nelle narrazioni di cotali casi si possa ottenere gli effetti educativi che di certo si conseguono colla narrazione estesa p. es. delle guerre persiane e puniche, della vita e delle imprese di Cesare e di Carlo Magno, o della storia delle Crociate, della Lega Lombarda, della Riforma, della rivoluzione inglese e francese, e via così.

Ecco adunque i criteri principali che a mio avviso devono regolare la scelta delle materie storiche: Che i fatti sien tali, in ogni grado d’istruzione, da poter essere convenientemente chiariti, o col confronto dell’esperienza attuale, o col sussidio degli altri studi che si vengono di pari passo facendo; Che appena chiariti, per la stessa intuibilità loro possano offrire materia certa di narrazione ordinata; ed esser poi riprodotti dai discenti, cioè rappresentati con precisione nelle parti e raffigurati con viva immaginazione nell’insieme; Che contengano, senza che altri li accomodi a suo talento, quella varietà di aspetti che importa a suscitare i molteplici interessi; la qual cosa in parte risulta dall’evidenza della narrazione, in parte dal valore o contenuto che voglia dirsi delle cose narrate; Che sieno principalmente quelli nei quali rivelasi la potenza sociale che si spiega in opere comuni, anziché quelli nei quali l’individuale arbitrio prepondera su la serietà della vita. Vogliono esser fatti, in somma, nei quali la perspicuità dei caratteri che muovono a simpatia rimandi naturalmente alla considerazione delle cause e dei fini sociali; Che sien fatti all’intelligenza dei quali si debba far concorrere in larga misura il gusto; cosicché, data la notizia degli interiori moventi e delle circostanze esteriori, lo spirito sceveri ed elegga senza sforzo le forme di estetica convenienza. Cotesti generali criteri di scelta possono ricevere una maggiore specificazione, quando si voglia aver considerazione alla cerchia sociale entro della quale il compito educativo si piglia ad assolvere, od alla nazionalità dell’educatore e dell’educando. E per fermo, come non v’ha regole generali che sieno adattabili ad ogni caso speciale, così la norma pedagogica, per quanto esatta e precisa, non sarà mai sufficiente, a risolvere tutte le questioni particolari. Chi potrà mai ottenere che i fatti storici non assumano una varia importanza nei diversi paesi, quando questi si deversificano per l’appunto, per la varia civiltà loro e pei modi di apprezzarne le forme di svolgimento? Non sarà sempre vero che sull’animo, poniamo di un Tedesco e di un Italiano, la storia della Riforma dee produrre un effetto diverso, per quanto sforzo si metta per dare alla narrazione un carattere obbiettivo? Ma non si dovrà da ciò indurre che la educazione, e per conseguenza la didattica, devano esser governate da criteri esclusivamente desunti dalla considerazione dell’interesse politico, nazionale o regionale. Non vale si educhi lo spirito per raggiunger dei fini così esclusivi, ed è solo in quello che la coltura offre di più umano nel senso universale della parola, che bisogna cercare la viva fonte dell’istruzione. Nulladimeno le differenze di condizione, di stirpe e di

razza son qualche cosa di così naturale, che come nessuna arte le può creare, così nessuna arte le può del tutto distruggere. Importa adunque averne considerazione nella scelta delle materie, perché le naturali inclinazioni dell’animo, agevolando la chiarezza e la prontezza dell’intendere, affidino in qualche maniera dell’esito finale dell’istruzione. In somma, nella scelta delle materie storiche e letterarie, bisognerà avere qualche riguardo ai casi speciali, non per ragioni estrinseche di pratica utilità; ma perché, essendo varie in natura le inclinazioni conoscitive e simpatetiche, non si può usarne capricciosamente, per serbare rigoroso ossequio ai precetti di carattere troppo generale.

VI Di non minore importanza è la seconda delle due conseguenze generali che derivano dal fine dell’insegnamento storico; che non si possa, cioè, condurlo innanzi con fondata speranza di durevole effetto, se non si procura di tenerlo connesso con tutte le discipline, che in qualche modo posson dargli chiarezza e compimento. Or nell’ordine dell’arte didattica vi ha due specie di connessioni; quelle cioè che vengono, per così dire, imposte dalle attinenze delle materie che importa di comunicare per via dell’istruzione, e quelle che son suggerite dai risguardi formali delle funzioni interiori dell’intendere, ai quali risguardi l’educatore deve attribuire non poca importanza, se vuol dare all’istruzione sufficiente efficacia quanto al presente, stabilità di effetto quanto all’avvenire. Del rimanente cotesta distinzione, che è di gran rilievo nella esposizione teorica della didattica, perde il suo valore nel fatto pratico dell’istruzione; perché in tutti i modi basta che l’educatore sappia opportunamente governarsi, nel mettere le discipline didattiche in convenienti rapporti fra loro, senza che ei debba darsi gran pensiero delle ragioni speciali di ciascun di essi. Delle connessioni che si riferiscono all’insegnamento della storia parlerò brevemente. Nell’insegnamento della geografia, – del cui peculiare significato didattico non è opportuno parlar qui di passaggio – si ha di continuo occasione a suscitar nell’animo dei discenti una viva curiosità per tutte le cose naturali e storiche, che in modo permanente, periodico o successivo pigliarono e piglian posto su la superficie della terra. E ciò importa grandemente alla coltura geografica, perché giova a render ricca e viva l’intuizione della terra; onde non accada che l’orientazione, per rispetto alla forma generale ed alle principalissime divisioni del globo, rimanga come rinserrata in una nozione astratta dello spazio, cui manchi il complemento del mobile e variato spettacolo delle cose naturali ed umane. Per fermar bene nell’animo le nozioni geografiche, e per fare che esse ricorrano facilmente alla memoria tutte le volte che si parla di piante, di animali, di minerali, di paesi e di città, bisogna che l’immagine della superficie della terra pigli quasi colore e varietà di tinte, ed aspetto di rilievo e di sfondo, con facile associazione della figura dei luoghi alle differenze del clima ed alle periodiche disuguaglianze dei giorni e delle notti. Ma tutto ciò importa del pari all’insegnamento ordinato della storia; per esser cosa indispensabile l’associazione degli umani fatti con la rappresentazione viva della scena in cui si vennero o si vengono svolgendo. Le naturali differenze della pianura e

dell’altura, della vallata e della spiaggia, dei luoghi coltivabili e dei non coltivabili, e poi la distribuzione delle acque per bacini e versanti, e da ultimo la configurazione esteriore ed interiore dei continenti, son cose che devono esser tutte esposte partitamente ed a riprese, perché s’ingeneri nello spirito una piena intuizione della plastica del suolo, come di campo a cui l’uomo viene faticosamente sovraimponendo i prodotti dell’operosità sua. Oltre di che, a render chiari i fatti di emigrazione e d’immigrazione, il corso delle conquiste e delle guerre, il propagarsi della civiltà, e le varie maniere di tecnica, che furono escogitate per vincere le esteriori difficoltà della natura, è cosa di somma importanza il tener congiunte le immagini della umana operosità a quelle dell’ambiente esteriore, onde si misurino gl’impedimenti e gli aiuti che essa v’abbia trovati. Ma a preparar bene l’intuizione di tutti cotesti rapporti ed a conservarli stabilmente nella memoria, bisogna cansare ogni sorta di generalità dottrinali, e di anticipazioni inopportune. Quindi, secondo che le esigenze metodiche del chiarimento e dell’esposizione rimanderanno all’una o all’altra nozione, converrà svolgerle tutte con pienezza di evidenza; e l’effetto sarà di tanto più certo e più duraturo, per quanto minore ossequio si sarà serbato alle convenienze formali dei libri e dei trattati. Di molto affini alle nozioni geografiche son quelle di etnografia e di antropologia, che giovano a dare idea degli esteriori aspetti degli uomini, e della distribuzione delle razze e delle stirpi su la superficie del globo. Coteste nozioni in due maniere possono essere utilmente adoperate; cioè a dire, o a completare l’immagine concreta delle persone e dei popoli di cui si narri la storia, o a colmare le lacune che si lasciano nel corso della narrazione quando si vuol fermare l’attenzione su quei fatti, i quali appariscano maggiormente idonei a muover tutti quanti gl’interessi spirituali. Per ciò si vorrà di volta in volta indicare tutte le esteriori differenze del corpo, degli abiti, dei costumi, delle lingue, delle religioni, che occorrono a far viva la rappresentazione delle naturali disposizioni e delle peculiari condizioni sociali dei diversi popoli. E soprattutto poi quando s’abbia ad interrompere la narrazione, per concentrar l’interesse sopra un’epoca notevole, gioverà di riempiere il periodo intermedio con una caratteristica generale degli abiti del vivere, che faccia da surrogato alla deficiente nozione del moto degli accadimenti. La notizia di questi, come si è detto, non dovrà mai consistere nella semplice narrazione dei casi particolari, per quanto notevoli le persone cui si riferiscono. Il bisogno di coltivare l’interesse razionale ed il sociale esige per ciò, che si dia specialmente rilievo alle abitudini del vivere comune, perché l’occhio della mente spazi con sicurezza sul movimento generale. Bisogna adunque dare una qualche nozione intuitiva degli esteriori costumi

della vita giornaliera, delle forme architettoniche delle città, delle case e dei pubblici edifizi, che son destinati a raccogliere i cittadini o nelle funzioni del culto od a spettacolo di festa, e dei monumenti, in fine, che rivelano in maniera caratteristica la potenza del genio artistico delle varie epoche, ed il mutare delle forme estetiche secondo i popoli e la civiltà. Tutte coteste cose, quando non si possa altrimenti, saran poste sott’occhi in libri figurati, e poi descritte e chiarite a tempo e luogo opportuno, or per mettere principalmente in vista gli aspetti di bellezza, ora per dare orientazione spaziale al racconto che si venga facendo in ordine di tempo, ora in fine per assegnare con evidenza il grado di coltura tecnica cui si sia giunti nelle diverse epoche della vita storica. Ma non v’ha opera di tecnica o d’arte, che agguagli la lingua e le lettere nel dare idea diretta e viva, e altresì precisa e duratura del genio delle persone e dei popoli. Né per lingua e per lettere s’ha da intender qui la precettistica della grammatica e della retorica, che per ragioni di pratica utilità entran pur esse nel novero delle materie didattiche. Invece si ha da intendere la testimonianza diretta di quel che sentirono e pensarono gli autori principali degli avvenimenti storici, in quanto ci viene dalle scritture dei contemporanei, o di quelli che ai contemporanei furono più vicini di tempo. I poeti, gli oratori, gli storiografi, i polemisti, i filosofi che più largamente accolsero nello spirito loro gli elementi vivi della civiltà nazionale, ed elaboratili in vario modo ne lasciarono documento monumentale in opere di artistica composizione, vogliono esser considerati come la fonte diretta delle conoscenze storiche, che debbono comunicarsi per muovere l’animo potentemente, e per dargli ampiezza di vedute, pieghevolezza di modi, facile discernimento del bello, agevolezza di simpatetiche inclinazioni. Gli è grande errore a credere che all’insegnamento della storia possa darsi un valore educativo, quando si usa di spiegare e di far poi leggere dei manuali e dei trattati compilati alla men trista da mediocri collettori ed ordinatori di notizie. Libri di tal genere, quando sien fatti con sufficiente discernimento della successione cronologica e del sincronismo, giovano tutto al più a dare come in prospetto generale una certa riconnessione agli avvenimenti, che sieno stati studiati ad uno ad uno, e che poi si voglia percorrer tutti, ora in linee ascendenti e discendenti, ora in linee parallele. Ma come la notizia prima dei fatti conviene che sia viva e colorita, e direi attinta direttamente dalla coscienza di quegli uomini che furono principali autori e spettatori degli avvenimenti, si userà con molta cautela dei trattati generali, che per la uniformità del loro colorito, per la monotonia della lingua, e per la schematica del loro ordinamento, in luogo di promuovere deprimono gl’interessi dell’intelletto e della simpatia. La storia consiste nelle molte storie; e queste s’ha da apprenderle con quella specificazione di tono e di colore, da cui propriamente derivasi l’apprensione

piena dei fatti, nel loro valore e nel loro significato genuino. È per ciò mestieri di usare quanto più si possa degli autori originali, e dove ciò non sia agevole per difficoltà materiali ed estrinseche, o per difetto intrinseco d’intelligenza, di quei libri almeno che furon composti col preciso intento di dare all’esposizione una forma congeniale a quella dei grandi scrittori. E di così fatti libri s’ha al presente degli esempi veramente splendidi nella letteratura scolastica dei paesi stranieri. Nondimeno cotesto espediente delle rifazioni degli autori classici sarà abbandonato, tutte le volte che le favorevoli condizioni della coltura permetteranno di tener lo studio della storia in più stretta relazione con quello delle discipline filologiche, che dan mezzo di giungere alla interpretazione dei documenti. Le lingue di fatti non son da considerare quale istrumento esteriore del pensiero, perché in esse è una manifestazione piena dello spirito nazionale; e nei caratteri e nelle modalità loro trovasi come il tesoro di tutto quello che un popolo ha prodotto di normale, di vero, di bello nel corso della sua vita storica. Di qui deriva il loro significato educativo; che mal si appone chi crede di ritrovare nel semplice valore formale degli abiti grammaticali. La conoscenza piena e completa della storia non s’attinge che dai documenti letti nelle lingue originali; e di qui piglia origine un importante canone didattico, che tanto cioè si sa di storia quanto s’intende di lingua, e che la conoscenza di quella non mette radice salda nell’animo, ove non s’appoggi al pieno possesso di questa. Una simile affermazione, per quel che spero, non darà luogo a credere che io abbia in mente l’opinione paradossale, che nei limiti assai ristretti del tempo, che di solito si consacra alla coltura generale, si possa dare a leggere e a studiare da un capo all’altro tutti i documenti storici di maggiore importanza, che abbiamo ereditato dalle epoche passate. Perché si vorrà intendere come qui si affermi soltanto questo; che, cioè, non v’ha manuali, trattati o collezioni storiche che possano formar nell’animo dei lettori e degli studiosi idee così vive, chiare, e proprie degli uomini e delle opere loro, come son quelle che si ottengono dalla lettura e dalla interpretazione di alcuni importantissimi scrittori, delle cui opere si può usare o a brani o per intero, secondo che porti il caso. Su due punti ancora bisogna che l’educatore venga in chiaro, per rispetto all’insegnamento delle materie storiche. Il lavoro della ricerca nel campo delle cose umane è incessante, cosicché di giorno in giorno si fanno nuovi acquisti, si trovano nuovi rapporti e si chiariscono fatti speciali e nessi causali, né visti né preveduti per l’innanzi. Per cotesto lavorio perpetuo d’indagine parecchi fatti entran nuovi nel dominio delle cose accertate, e parecchi altri n’escono perché provati falsi o per insussistenza di documenti, o per intrinseca inverosomiglianza, o per incoerenza con quelli che sieno stati riconosciuti per indubitabilmente veri. Or bisogna che l’educatore, per quanto vario il grado di

sua coltura, e varie le inclinazioni intellettuali che ei possiede, sappia ad un tempo medesimo far uso della critica quanto a sé, e tenere una via risoluta nell’esporre e nel narrare la storia ai discenti. Lo spirito di critica o di esame si dee produrre in questi, per applicazione naturale dell’ingegno ad una materia abbastanza estesa di conoscenze ricevute con sicurtà di animo; perché ove si faccia il contrario di così, in luogo di sviluppare il senso razionale della ricerca, si mette nell’animo l’abituale incapacità a fissar bene le nozioni dei reali accadimenti. A misura poi che la coltura avanzi crescerà da per sé il sentimento critico. E come questo è di molte specie, nel corso della coltura generale converrà svilupparne una forma sola, che è quella la quale risulta dal bisogno di trovar nei fatti l’intima verosomiglianza, e la coerenza intrinseca dei rapporti loro. La critica che cade specialmente su la validità dei documenti, per essere materia peculiare di studio professionale, rimarrà esclusa dal campo della didattica generale. Da ultimo non si farà mai della mitologia un uso maggiore di quello che occorre per dichiarare le credenze delle età passate, e le pratiche che da quelle derivano. L’esposizione sistematica dei miti, che un tempo s’è usata nelle scuole, contraddice non solo alla natura dei fini educativi, ma eziandio al retto intendimento dell’interpretazione mitica. I miti, di fatti, non ebber mai nella coscienza popolare il significato di una ordinata dommatica; e vissero vita assai mutabile nelle tradizioni locali, nelle scuole dei poeti e degli artisti, e poi nei tentativi di ordinamento, stati fatti dai prammatici cultori delle antichità, per fini tuttaltro che religiosi.

VII Or che del fine educativo dell’insegnamento della storia s’è data ragione in qualche maniera sufficiente, e dal concetto stesso del fine si son poi indotte alcune importanti conseguenze, circa la scelta delle materie e circa i rapporti in cui bisogna tener queste con le altre discipline, gli è d’uopo occuparsi in ispecial modo a definire il metodo che nella pratica dell’istruzione si deve seguire. Ma come cotesta parola del metodo assume significazioni molto diverse nelle varie discipline, e soprattutto dà frequente occasione ad interpretazioni equivoche nel campo della pedagogica, conviene spiegar bene con che intendimento io l’usi in questo luogo. Primieramente è necessario distinguer bene il metodo dalla tecnica dell’insegnare, la quale consiste propriamente nell’uso giudizioso delle varie forme di esposizione e di trattazione, che adoperate con opportunità affidano e dell’efficacia e dell’esito dell’istruzione. Si disputa assai di frequente dai pratici, se all’una o all’altra di coteste forme si debba dare la preferenza; e come sogliono chiamarle metodi, così si sente a discutere, se convenga principalmente usare dell’espositivo o catechetico, del dialogico o socratico, dell’indicativo, del ricercativo e via dicendo. In verità quando la question del metodo vien posta in cotal maniera, non si giunge mai a conclusioni persuasive e soddisfacenti. Perché fra coteste forme non è alcuna che possa tenersi per preferibile sotto ogni rispetto a tutte le altre; e per ciò l’educatore, che abbia sufficiente considerazione alla varietà delle materie, alle differenze di età e di antecedente coltura dei giovanetti, alla loro maggiore o minore svegliatezza d’ingegno e soprattutto al fatto di grandissimo rilievo che non è il medesimo istruirne un solo o più, in iscuola o privatamente, deve riconoscere che conviene usar di ciascuna con giudizioso discernimento delle opportunità di tempo e di luogo. Vi ha cose in fatti che vogliono essere esposte dall’educatore per filo e per segno, senza che il discente vi metta di suo un lavoro speciale; bastando che egli ascolti e ricordi bene. Ve n’ha altre invece, che devono, per così dire, nascere dal discorso, con la dichiarazione dei dubbi che le domande opportunamente fatte abbiano suscitati nell’animo dell’educando. Ma non si deve per ciò credere che cotesta forma sia sempre atta a tener desto lo spirito, più di quel che facciano le altre; perché si vede pur troppo che il dialogo può anch’esso cadere nel convenzionale e nel meccanico. È certamente giusto e ragionevole il desiderio che lo spirito della ricerca si venga a grado a grado sviluppando con l’azione dell’insegnamento ordinato; ma nessuno vorrà persuadersi che i giovanetti possan meditare fra sé e

sé e discutere in dialogo, prima che delle nozioni in gran copia sieno state loro comunicate, spiegate e ripetute in maniera da diventare come un fermo e stabile acquisto per la coscienza che si vien formando. Cosicché, in somma, le forme che impropriamente diconsi metodi, ossia, l’indicare, il mostrare, l’ammaestrare, il catechizzare, e poscia il dar la spinta al dialogo per via della interrogazione, e il convertir questa in istimolo di ricerca, in quanto mezzi diversi che vogliono esser subordinati al medesimo fine, son da adoperar tutte, o alternativamente o successivamente, secondo che porti il caso, l’indole delle materie, l’età dei giovanetti e la difforme capacità di ciascun di essi.

Ma appunto perché la tecnica didattica ha bisogno di mezzi così svariati, si rischia di toglierle il valore ed i pregi di un’arte ordinata, tutte le volte che si piglia a trattarne senza aver considerazione ai fini di coltura spirituale cui l’insegnamento è indirizzato. Or come la coltura consiste in una certa forma peculiare delle interiori attività, l’educatore non può a meno di rivolger seriamente l’attenzione sua al procedimento che coteste attività seguono nel normale sviluppo loro, se ei vuol trovare il naturale addentellato della tecnica didattica. Anzi nel saper mettere in conveniente rapporto l’azione educativa con le forme proprie e naturali dello svolgimento interiore, bisogna che ei faccia consistere l’insieme dei pratici risguardi da cui piglia origine il concetto del metodo pedagogico. Inteso così, esso non ha niente di comune coi procedimenti che piglian nome identico nella logica e nella teorica della conoscenza, perché nel caso della didattica non indica i momenti della induzione e della deduzione per rispetto alla ricerca ed alla dimostrazione della verità, ma sì bene le forme e i gradi dell’azione educativa, in quanto coordinati alle forme ed ai gradi dello sviluppo interiore, in ragion del quale la materia del conoscere si converte in vivo elemento di attività spirituale. Se la tecnica non si può confondere col metodo, perché gli è solo nella nozione scientifica di questo che essa trova il suo fondamento certo, è chiaro altresì che qui non si voglia discorrere della maniera, che è come la specificazione affatto individuale che l’arte dell’insegnare riceve dalle peculiari attitudini di ciascuna persona che v’attenda. E come si è soliti di comprendere sotto il nome generico di maniera tutte le indefinite differenze del porgere, dell’esprimersi, dell’esporre, dell’atteggiarsi dei singoli insegnanti, non si sa intendere che per rispetto a tutte coteste cose particolarissime si possa dare delle regole scientifiche di carattere generale. La pedagogica, in quanto disciplina scientifica, è tanto estranea a coteste minute discussioni pratiche, da doversi rassegnare a permettere che ogni educatore usi delle sue naturali attitudini nel miglior modo ch’ei sappia, purché non offenda le esigenze metodiche della didattica razionale. Escluso il significato estrinseco, che si suol dare al metodo didattico da quelli che ne discorrono con poca competenza scientifica, conviene ora determinare il valore intrinseco che s’intende qui d’attribuirgli. E ricordo primieramente che i diversi aspetti dell’attività didattica, per esser tutti destinati a dar forma di coltura a quelli cui si vuole istruire, devon trovare la norma del loro svolgimento nello studio degli stati della coscienza che si producono nell’animo dell’educando, per l’influenza successiva delle materie che a grado a grado gli s’insegnano. In altri termini, come i fini dell’educazione non si raggiungono altrimenti che col promuovere nella coscienza una certa determinata forma di

attività, la tecnica esteriore dell’insegnamento piglia aspetto di metodo quando sia perfettamente ordinata a suscitar le forze in cui quella forma di attività ha principio certo e duraturo. Quando si comincia ad istruire si procura primieramente di volgere e di spiegare tutta intera l’attenzione del discente sopra un qualche obbietto particolare, come se lo spirito avesse ad immergersi o a profondarsi in quello. Ma come appena l’obbietto abbia occupato tutto il campo della coscienza, o buona parte di esso, accade per moto naturale dell’attività psichica che lo spirito si trovi come in istato di accorgimento; il che è come un dar distacco e rilievo all’obbietto, in cui l’attenzione s’era dapprima a un di presso immersa. Dall’una forma all’altra ha luogo un continuo e facile trapasso di movenza psichica, tutte le volte che l’apprensione prima dell’obbietto riesca di tale precisione e di tale intensità, che lo spirito raggiuntane l’evidenza si muova poscia per intrinseca virtù ad appercepirlo. I due stati del profondarsi dell’attenzione, e del raccogliersi della coscienza, che a un di presso corrispondono alla percezione ed all’appercezione, portan con sé la chiarezza della cosa intuita e la facile associazione di essa con altri obbietti; il che nell’insieme dà luogo all’agilità di moto spirituale che di solito chiamiamo fantasia. In tutto ciò non è niente di estrinseco e di aggiunto per rispetto alla cosa che si deve imparare. Di fatti ogni cosa particolare deve essere innanzi tutto intuita, distinta, percepita, appresa; e ciò importa che dapprima si faccia astrazione dai rapporti in che può entrare per rispetto ad altre cose. Compiuto un atto particolare di attenzione, la chiarezza stessa che ne conseguita porta con sé il distaccarsi dell’obbietto dalla coscienza che vi si era come profondata dentro; e nell’accorgimento del distacco è la possibilità della connessione e dell’associazione con altro. Dati più atti di cotesto genere, per rispetto ad una materia omogenea o composta di cose omogenee, nasce poco per volta l’immagine del sistema, ossia il ricongiungimento di più atti di chiarezza e di associazione. Ma il sistema stesso, che è presente allo spirito come totalità di parti omogenee, soggiacendo ad una continua alternativa d’intuizione chiara e di appercezione viva, finisce per distaccarsi e per pigliar rilievo di obbietto; e quando la coscienza si comporti per rispetto ad esso in atto di libera appercezione, lo possiede allora in pensiero, ossia lo conosce con metodo, in quanto ne produce le forme ed i rapporti. A cotesti momenti interiori, nei quali, come in proprie e naturali forme di svolgimento, la materia conoscibile piglia posto e si adagia, bisogna che l’educatore ponga mente, se ei vuole che i fatti e gli accadimenti che narra ed espone divengano elementi certi e stabili di coltura spirituale. E questa di certo non consiste nell’acquisizione di un determinato numero di nozioni o di fatti, per

non esservene di tali che assolutamente possano considerarsi come indispensabili a sapersi. Le movenze dell’interesse, che son quelle in cui la coltura consiste, non han luogo però se una certa materia conoscibile non passa per lo spirito attraverso alle forme della chiarezza, dell’associazione, del sistema e del metodo. Il procedimento formale dell’apprendere è il medesimo nei fanciulli e negli adulti, con questo divario però, che le nozioni di cui s’ha piena chiarezza da quelli che si trovano in età matura son tante, da render pronta l’appercezione, e quindi agevole il passaggio da uno in un altro atto di attenzione piena; dal che conseguita la facilità del sistema e del metodo. Nei fanciulli invece la scarsezza delle nozioni acquisite, e la necessità di farne acquistar di molte, rendon necessario il far ricorso ai mezzi della tecnica didattica; perché i momenti del processo interiore dell’intendere si svolgano opportunamente su le materie che devono via via insegnarsi. Per ciò l’insegnamento, che è indirizzato a produrre la coltura spirituale, dee procedere indicando, collegando, ammaestrando, sviluppando, perché in prima si passi facilmente dall’intuizione piena dell’obbietto all’associazione, e poi si acquisti la cognizione ordinata di più cose, e da ultimo si eserciti la virtù spirituale di muoversi in esse, ordinandole. Il metodo consiste, in somma, nell’attività didattica rivolta a produrre nel discente la cognizione metodica delle cose, cioè dire gli ordinati movimenti dell’animo che fan di quelle un sistema di rapporti. Non è cosa né agevole né opportuna il mostrare qui, in che modo coteste nozioni generali intorno al metodo possano applicarsi alle due grandi forme dell’attività spirituale, che si è detto consistere nel conoscere e nel simpatizzare; e specificarsi poscia per rispetto alle peculiari discipline che formano la materia dell’insegnamento. In un trattato generale di pedagogica conviene dapprima esporre partitamente coteste applicazioni e specificazioni, e dimostrar poi, col sussidio della scienza psicologica, per via di quali interiori svolgimenti le varie forme dell’intellezione, appunto perché momenti di attività, si tramutino in moventi di volizioni ed in principi di operazioni. Ma a rendere in qualche maniera più chiare le generalità qui innanzi enunciate, dirò, come la pedagogica non riconosca per legittima alcuna forma di metodo, da quella in fuori che dicesi genetica; la quale consiste non nella comunicazione ma nella produzione delle forme dell’intendere. Dovendosi di fatti cercare il naturale addentellato dell’istruzione nelle prime inclinazioni conoscitive e simpatetiche dell’educando, conviene che per usar di queste in maniera da svolgere pienamente gli abiti di spirito che costituiscono la coltura, il metodo si consideri come la forma generale dell’azione didattica, in quanto è diretta a regolare la genesi interiore della coscienza, in tutta l’estensione del suo valore.

Consegue naturalmente da tutto ciò, che per correggere e per completare la sfera della conoscenza, e per muovere in vario senso sopra il più gran numero di obbietti l’interesse simpatetico, l’azione didattica debba svolgersi nelle due principalissime forme della dichiarazione e dell’ampliamento; che è quello che d’ordinario, ma non sempre con giusta significazione, si dice analisi e sintesi. Ma come l’ampliamento si ottiene per due vie, cioè per quella dei rapporti che le cose direttamente intuibili hanno con gli obbietti passati ed assenti, e con quella dei rapporti che le cose in qualunque maniera rappresentabili hanno con le forme e con le leggi escogitate dal pensiero, così accade che la suddivisione della seconda forma dia luogo a tre aspetti principali del metodo, che sono la dichiarazione, l’esposizione e lo svolgimento o sviluppo che voglia dirsi. Nell’applicazione di cotesti criteri generali alle sei specie dell’interesse spirituale, avuta considerazione alla differenza delle materie che riguardano il mondo naturale e di quelle che riguardano il mondo umano, consiste il vero compito della metodica razionale; della quale basterà aver dato qui come un accenno generale. Torniamo ora al nostro argomento speciale. Tutto il gran complesso di accadimenti umani, che pigliando nella mente delle persone colte forma certa di successione e di coordinazione si dice storia, non è materia per sé stessa intuibile, o che divenga mai in alcun modo esperimentabile. E nondimeno, perché entri nello spirito di quelli che l’apprendono e vi rimanga evidente ed ordinato per sempre, bisogna che in qualche modo pigli il carattere di cosa intuibile, su cui il talento di osservazione possa opportunamente venirsi esercitando. Da ciò deriva l’esigenza didattica, che le notizie storiche debbano primieramente esser riconnesse alla viva rappresentazione delle cose presenti; il che da principio si fa col dare chiarimento a quelle fra le serie di avvenimenti attuali, che naturalmente rinviano al concetto di una successione nel tempo, il cui primo termine non è mai caduto sotto la osservazione del discente. Da qualunque parte si cominci, cioè a dire, qualunque sia l’occasione che faccia da prima spinta alla curiosità, sarà sempre agevole muovere lo spirito dei giovanetti nella direzione di una qualche linea ascendente, qualora i punti che devono comporla possano esser tutti chiariti per ragione di analogia con le cose osservate. Quando lo spirito è in grado di percorrere alcune di coteste serie, di cui per lo meno il termine ultimo sia materia di osservazione diretta, l’addentellato della fantasia e della memoria storica è dato una volta per sempre. Nondimeno cotesta agevolezza di moto intuitivo delle linee ascendenti e discendenti del tempo, non basta da sola a preparare l’esposizione piena delle cose storiche. Occorre eziandio che le varie forme dell’interesse sieno state sufficientemente esercitate su la materia intuibile del mondo circostante, perché facciano da punti fermi a cui l’esposizione trovi modo d’appoggiarsi. Quando si sia già tanto innanzi in

cotesta esercitazione delle varie forme dell’interesse, che l’intuizione delle cose presenti abbia preso nello spirito il carattere della connessione, della successione e dell’intreccio, gli è allora che si dee cominciare l’esposizione delle cose passate, in quanto connesse, successive ed intrecciate. Il passaggio dalla dichiarazione all’esposizione si fa così del tutto naturalmente; e fattolo si ha sempre mezzo di rimettere a confronto e di riportare a contatto con l’osservazione la notizia delle successioni e degl’intrecci passati, che per avventura non fossero immediatamente evidenti. Dopo di che l’esposizione potrà spaziare con molta libertà in un campo abbastanza esteso di narrazione; così perché la forma generale della successione è già formata, come perché l’assente ed il passato possono ogni istante esser ridotti in aspetto di cosa intuibile. Superate con la dichiarazione le prime difficoltà dell’intendere, come la narrazione piglierà il carattere di una ordinata esposizione, conviene che essa trovi le norme ed i limiti suoi nella natura dei vari obbietti che successivamente cadranno in discorso. Ciò importa che i fatti, appunto perché capaci di risvegliare le diverse forme dell’interesse, non vengano mai capricciosamente distratti dai loro nessi naturali; cioè dire che essi devono essere presentati nell’ordine proprio dei rapporti, in cui la prima volta si vennero producendo. L’esposizione deve adunque pigliar forma viva, continuativa, connessa, e andar sempre congiunta alla dichiarazione di tutte le materie che le danno precisione e colorito. Gli è in ciò che hanno la loro ragion d’essere gli abiti didattici della spiegazione, della ripetizione, del rinvio alla lettura continuata, del riassunto delle cose che furono già ad una ad una apprese e mandate a mente. L’esposizione, in somma, facendo uso dei sussidi formali degli abiti didattici, e di quelli materiali delle carte e dei libri figurati, mira a comunicare la notizia precisa di tutte le cose assenti e passate, in cui l’interesse conoscitivo e simpatetico può esercitarsi, ed insieme a metter nell’animo quell’agilità di moto fantastico per cui i vari accadimenti possono esser intuiti e percorsi, secondo che porti la natura delle successioni e delle connessioni loro. Ma a produrre intero l’effetto educativo della storia, la forma espositiva si mostrerà col tempo non del tutto sufficiente. Conviene allora che l’insegnamento pigli nuovo aspetto in quella forma, che in mancanza d’altra espressione tecnica si è detta innanzi di svolgimento o di sviluppo. L’occasione ad usarne è in questo, che essendo molti i fatti da narrarsi, e non bastando narrarli ordinatamente perché lo spirito si muova per rispetto ad essi come in atto di ordinarli, conviene insegnare in modo che l’attività ordinatrice dell’educatore divenga cagione di potenza ordinatrice nel discente, ossia che la metodica produca il metodo. Se non si potesse giungere a cotesto punto, non si avrebbe mai ragione di credere, che persona alcuna al mondo possieda intera la

conoscenza della storia, in quella forma che importa alla coltura della mente e dell’animo. Cotesta conoscenza in vero consiste nel sicuro possesso di un gran sistema d’intrecci, da cui a volte a volte l’attenzione cava fuori e mette in rilievo alcuni fatti particolari, per pigliarli nuovamente in esame; col vivo sentimento però della fisonomia e del colore che son propri di ciascuno, con la chiara intuizione della serie di tempo che intercede fra loro, con la piena appercezione dei nessi prammatici che li ricongiungono ad altri avvenimenti, con la rappresentazione precisa delle linee parallele di sincronismo. Lo schema o scheletro di tutto ciò si trova disegnato nelle tavole cronologiche e sincronistiche degli accadimenti, e nei quadri figurativi del movimento storico. Ma le tavole e i quadri non sono che collezioni ordinate di segni mnemonici, in cui non è da trovare alcuna sorta di caratteristica, quando lo spirito non si sia già, con le varie forme dell’attenzione, dell’appercezione, della riproduzione e della combinazione come creati al di dentro i mezzi significativi della reale importanza degli accadimenti; cosicché questi possano esser presenti alla coscienza, come in sistema di culminazioni e di abbassamenti, e di serie principali ed accessorie. In somma lo schema che importa di possedere è quello che si produce dalle parti al tutto, per virtù intrinseca della materia appresa, e che per ciò ne significa la composizione, la successione, l’intreccio ed il valore. Occorre, adunque, che quando di molti avvenimenti particolari si sia data la dichiarazione e l’esposizione, si vengan poi fissando alcuni nomi ed alcune date importanti, come punti fermi in cui l’attenzione culmini. Cotesti punti fermi non possono essere arbitrari o convenzionali, perché han da essere dati reali e significativi anziché semplici date cronologiche; in somma caratteri d’uomini e di cose notevoli, da suscitare tutte insieme le forme dell’interesse, perché insoliti, e singolari, ossia atti a lasciar nell’animo duratura impronta di sé. Cotesti dati presi a due a due determinano i periodi dentro dei quali, come fra altezze in cui l’attenzione culmini, si svolge un moto di fatti che han fra loro una certa omogeneità di colore e di significazione. Più punti messi in relazione fra loro determinano un sistema, in cui lo spirito si muove con varia vicenda di attenzione e di appercezione, sviluppando e percorrendo da un capo all’altro delle molteplici serie, così nel senso delle linee ascendenti e discendenti, come in quello delle linee accessorie e laterali. Quando poi l’intuizione di quel che intercede fra i punti culminanti dell’attenzione, vengasi naturalmente associando ad altre serie, che esplicansi contemporaneamente in altra parte dell’orizzonte geografico, il moto del pensiero nel guardar la storia piglia forma di scena mobile in cui è uno svolgimento sincronistico di varie maniere di umana operosità. Lo schema si forma così, anzi si elabora nel fatto, ossia per virtù del fatto stesso; che vi piglia per ciò posto e vi si adagia dentro come per impulso

ingenito all’indole sua particolare. Ora che è dichiarato il preciso concetto del metodo didattico, nel rigoroso senso della scienza, si potrebbe bene e partitamente discorrer delle conseguenze tecniche che da cotesto concetto naturalmente derivano. Ma non è il caso di far qui l’esposizione della metodica tutta intera, poiché per l’intelligenza di quello che avrò a dire in seguito, non importa discendere ai minuti particolari della tecnica didattica. Sarà per ciò sufficiente che io indichi brevemente in che cosa l’educatore debba principalmente far consistere la sua maniera d’insegnare, perché egli produca un effetto sicuro ammaestrando. Prima di tutto, quando si voglia insegnar la storia pei fini e col metodo che poc’anzi furono indicati, bisogna esservi specialmente preparati, o per lo meno trovarsi in grado di prepararsi da sé, con l’uso della coltura che di già si possiede. La cognizione dei fatti e di tutte le cose che occorrono a dichiararli deve esser viva, pronta, intuitiva. Di più l’educatore deve muovervisi dentro facilmente, in guisa che nel darne comunicazione ai discenti la metodica funzioni piena e libera in ogni parte della sua esposizione. E come a dare idea precisa e piena di quello che innanzi si è chiamato sistema, bisogna che lo spirito sia in grado di produrre sempre di nuovo e con freschezza gli elementi ed i rapporti in cui consiste; occorre per ciò che l’insegnante stesso sia così interessato alle cose che espone, da offrire esempio nella sua persona di tutti i momenti di processo interno che nei discenti si vogliono fissare. Quindi la chiarezza, l’associazione, il sistema ed il metodo dovran palesarsi nel suo discorso, come vive forme per cui la narrazione naturalmente passa. E del pari bisogna che l’insegnamento metta di continuo in evidenza le varie serie degli avvenimenti, i loro intrecci e le loro diramazioni. Da queste considerazioni generali bisogna che l’educatore desuma i criteri più particolari, coi quali conviene che egli si governi nell’avvicendare la narrazione continuata col discorso a forma d’interrogazione, e nel fissare i confini di ciascuna lezione, le pause dell’insegnamento, le ripetizioni ed i riassunti. La lingua da usarsi nell’insegnare dev’essere adattata ai casi, viva, intuitiva. Per ciò bisogna fuggire la monotonia, evitare le espressioni del ragionamento astratto, non interrompere a capriccio l’intonazione presa. La lettura degli storici antichi offre il migliore esempio di tutto ciò. La storia vuol essere principalmente narrata, e la lettura del libro deve per ciò essere come preparata da una esposizione orale, che comunichi l’intonazione di spirito di che bisogna usare per intendere le scritture classiche. E come non importa che la lingua dell’insegnante sia per sé stessa pregevole come opera d’arte, perché il pregio suo principale deve consistere nella bontà dell’effetto; così basterà che egli parlando muova la curiosità e l’alimenti poi col dialogo, e

che al tempo stesso dia rilievo ai fatti colla fedele caratteristica di quei momenti essenziali, da cui può risultare il moto variato degl’interessi in chi ascolta. Da ultimo bisogna, che per promuovere l’interesse simpatetico ed il sociale l’insegnante li provi vivamente dentro di sé, e che s’abitui all’esatto discernimento delle cose che possono provocarli e promuoverli negli altri. La storia, in somma, deve essere nello spirito dell’educatore quella cosa viva che nell’animo dell’educando si vuole che divenga; il che non è da intendere nel senso di una conoscenza vasta e precisa di tutti i fatti particolari, ma in quello di una coltura generale, in cui l’interesse principale sia per l’appunto pedagogico.

VIII Si discorrerà ora del piano didattico, che all’educatore conviene di formarsi in mente dapprima e di seguir poi esattamente in pratica, quando voglia insegnar la storia con precisione e con ordine, durante il periodo di tempo che ei deve spender l’opera sua nell’esercizio della funzione pedagogica. Si fa qui la ipotesi, che così nell’educatore come nell’educando si diano tutte le condizioni favorevoli, da cui dipende che la didattica si spieghi nella pienezza delle sue forme e con sicurtà di effetto. Non si tiene per ciò conto di alcuna di quelle cause perturbatrici, che portando impedimento allo sviluppo dell’educazione, inducono qualche volta nella necessità di far ricorso agli espedienti. E ciò del resto è affatto naturale, trattandosi di dover fare un disegno generale, tale cioè, che metta pienamente in evidenza l’ordine perfetto dell’insegnamento completo. Si tratta, in somma, di rispondere alla seguente interrogazione: con che ordine bisogna procedere nell’insegnamento della storia, perché si giunga ad ottenerne gli effetti educativi e le forme di conoscenza metodica, che innanzi furono indicati come fini a cui si deve principalmente mirare? Premetto un chiarimento. Il concetto del piano didattico non è proprio la medesima cosa che il programma della scuola, o la distribuzione delle varie parti di una disciplina in un certo numero di corsi annuali e semestrali. Coteste regole pratiche della scuola non son che conseguenze o specialissime applicazioni dei principi generali del piano didattico, il quale, considerato in sé medesimo ha un significato più esteso e al tempo medesimo, più specialmente scientifico. Esso consiste nel complesso delle vedute pratiche, che determinano il punto di partenza e l’ultimo termine dell’azione educativa, e per conseguenza il modo più acconcio per isviluppare con metodo, entro a un certo periodo di tempo, le materie didattiche, avuta la debita considerazione alle regole di successione e di sincronismo nell’uso degli studi che son destinati a produrre la coltura. L’educazione, come s’intende bene, non può avere un corso indefinito, e per ciò importa di menarla a termine compiutamente, prima che le necessità pratiche spingano alle occupazioni utili i giovani già divenuti in qualche maniera padroni di sé. In ciò consiste il valore scientifico dell’ordinamento didattico. Lo studio del piano didattico è, adunque, parte importantissima della pedagogica generale. Ha per obbietto le questioni che seguono. Innanzi tutto precisare, col sussidio dell’esperienza e coi risultati scientifici della psicologia, quali seno nell’animo dei fanciulli i primi addentellati, che la movenza interiore

offre all’azione riflessa dell’arte dell’educare. Determinare poscia, in modo razionale, in che consista il passaggio dall’età in cui l’educazione è possibile a quella in cui l’autonomia personale pone un limite insormontabile agl’influssi esteriori, che vogliano spiegarsi su l’animo nei modi ordinati dell’attività pedagogica. Tenuto conto di cotesti due termini, e degli svolgimenti interiori dell’animo che cadon di mezzo ad essi, stabilire le regole con le quali le materie didattiche debbano essere successivamente svolte, affinché si adattino convenientemente e naturalmente agli stati della coscienza; i quali, seguendo un moto ascendente ma assai complicato, si riassumono poi in quel pieno possesso di noi medesimi che diciamo personalità. Ma oltre alle regole della successione conviene stabilir pur quelle della contemporaneità; perché essendo molte le materie che devono insegnarsi, e molti ancora gli abiti pratici che devono formarsi, si sappia in che modo si possa tenere opportunamente insieme le varie cose che s’hanno a comunicare, perché corrispondano alle forme che occorre di sviluppare. Non è certo cosa del tutto agevole lo scindere dalla considerazione generale del piano didattico le riflessioni pratiche e speciali, che hanno più diretta relazione con l’insegnamento della storia. Poiché, nel trattare specialmente di questo, può accadere si perdano di vista le considerazioni che risultano dall’esame dell’efficacia complessiva delle materie, che son destinate ad influire contemporaneamente su lo spirito e ad ingenerarvi gl’interessi intellettivi e simpatetici, per via del graduale acquisto della conoscenza metodica degli obbietti. Per ciò stimo cosa opportuna ricordare qui alcune generalissime conclusioni, cui si giunge nello studio del piano didattico, e sono le seguenti: non doversi mai separare la considerazione delle cose umane da quella delle cose naturali e viceversa, perché non accada che lo spirito pigli indirizzo esclusivo nella maniera d’intendere il mondo; non doversi mai coltivare una o più forme d’interesse a svantaggio delle altre, perché l’animo non pigli di quelle inclinazioni che escludono la libertà interiore; doversi dare ai diversi interessi aspetto di unità nel sentimento vivo e complesso dell’autonomia spirituale; cosicché, nel tenere insieme le varie materie dell’insegnamento, conviene che non s’abbia esclusivamente riguardo all’indole obbiettiva delle discipline, dovendosene avere ancora di più alle condizioni dell’animo che preparano l’apprensione viva e la facile appropriazione. E per venire ora al nostro argomento speciale, cioè dire, per trattare del piano didattico in rapporto alla storia, noterò in prima, che ogni speciale fatto storico, quando sia ben dichiarato e bene esposto, può suscitar tutti, o quasi tutti, gl’interessi spirituali, ed offrire occasione a muover l’animo in molti sensi. Nulladimeno non deve credersi, che gl’interessi spirituali possano stabilmente

fermarsi in esso e diventarvi poi sicuri istrumenti di attività, quando non sieno stati esercitati e svolti sopra un largo campo di cose storiche, in guisa che il lungo uso dello studio abbia assicurata l’efficacia loro, per la facile e pronta connessione coi molteplici aspetti dei fatti. Di tal che il piano didattico, che si deve seguire nell’insegnamento, ha una doppia stregua; quella, cioè, della gradazione intrinseca alla natura speciale dei vari interessi, e quella che è propria della materia, la quale non può essere insegnata in ordine continuativo, perché si deve aver riguardo al movimento ed al progresso naturale delle inclinazioni conoscitive e simpatetiche. Nel combinar bene i due criteri, di maniera che, dall’intuizione dei fatti immediatamente osservabili, a grado a grado si risalga fino alla piena intuizione del sistema dei rapporti storici, e dall’interesse empirico delle cose particolari, e dal simpatetico per le persone singole, si arrivi fino al vivo senso speculativo dell’ordinamento generale del mondo, consiste quello che io dico ordine, o piano didattico dell’insegnamento. Dalla descrizione, in somma, fino al filosofare, dalla chiara notizia di un fatto, fino alla movenza metodica dello spirito per entro ad un sistema di accadimenti, son due maniere di sviluppo dell’animo, che pur si compiono per l’azione di una medesima materia conoscitiva, e in fondo fanno uno nella formazione completa della coscienza. Premesso ciò, passerò ora ad indicare l’ordine che nell’insegnamento della storia si deve tenere. In questo insegnamento speciale, allo stesso modo che accade in quello di ogni altra materia di studio che si adoperi come mezzo educativo, non è un cominciamento preciso ed assoluto, che possa essere puntualmente assegnato. In fatti quella che dicesi puntualità del cominciare è qualità esclusivamente logica delle scienze già belle e fatte; delle scienze, cioè, in quanto vengon considerate in sé medesime, come esposizione rigorosa e come trattazione metodica dei concetti, che furono acquistati per mezzo della elaborazione intellettiva delle materie del conoscere. Ma nel campo della didattica non ha luogo cotesta maniera assoluta di cominciamento; perché alla coltura si dà principio secondo i casi, cioè secondoché le speciali condizioni della esperienza e della simpatia dei giovanetti da educarsi, offrano un diverso addentellato alle dichiarazioni metodiche della istruzione che si faccia con ordine. Quando però si considera, che dalla prima forma del tutto occasionale dell’istruzione bisogna pur passare a quella che si esercita con piena coscienza, e con chiarezza di propositi educativi; quando si pensa, in somma, che dalla immediata maniera dichiarativa si deve risalire all’esposizione ed allo svolgimento, è forza riconoscere che il trapasso dall’una cosa all’altra non possa esser fatto a caso, perché è d’uopo mettervi dell’arte, ed usare di molto

discernimento. In fatti, nel saper fare convenientemente cotesto trapasso, consiste la principale difficoltà dell’insegnamento ordinato; e quando questa sia stata davvero vinta, il corso ulteriore degli studi piglia quasi l’andamento di una evoluzione naturale. Ad agevolare il trapasso occorrono alcune generalità di coltura, che devon fare come da nuovo intuito delle cose interiori ed esteriori, che l’arte educativa sostituisca a quello il quale s’ingenera naturalmente nell’animo, per l’influenza diretta ed immediata delle cose circostanti. Coteste generalità son tali, che mentre alcune preparan l’animo a ricevere ogni sorta d’insegnamento, le altre non fanno che agevolare l’intelligenza di alcune materie soltanto. E ciò dipende dalla natura stessa della dichiarazione, la quale non può fare di ogni obbietto empirico una materia capace d’ingenerar nell’animo qualunque maniera di conoscenza riflessa. Per dare esempio di ciò, noterò particolarmente, come la dichiarazione dei fatti naturali e quella dei fatti umani trovino dapprima una occasione comune nella nomenclatura generale; allo stesso modo che nella prima orientazione per rispetto alla forma ed alle divisioni principali del globo è una preparazione, che avvia in pari tempo così allo studio della storia come a quello della geografia. Ma come appena la nomenclatura generale ceda poco per volta il posto all’analisi speciale delle forme grammaticali, l’obbietto naturale e l’obbietto umano spariscono dal campo della dichiarazione delle parole, alla stessa guisa che la considerazione peculiare delle linee e delle forme geografiche distrae l’attenzione dallo studio dei fatti storici. Dal che dipende, che a misura che l’insegnamento piglia il carattere della esposizione continuata dei fatti e della spiegazione razionale dei rapporti, le discipline si vadano specificando, come materie peculiari del compito didattico. Esse poi vengono nuovamente a ricongiungersi, ma in forma diversa da quella di prima, allorquando si vuole agevolare con l’esposizione l’intuito pieno e vivo delle cose assenti e passate o quando con lo svolgimento razionale si vuol metter lo spirito in condizione di muoversi metodicamente per entro a un esteso sistema di rapporti. L’insegnamento della storia deve adunque, con l’andar del tempo, pigliar posto nel corso dell’istruzione educativa come materia distinta e peculiare; il che non è da intendere nel senso che è proprio degli studi professionali, ma ad ogni modo importa che la esposizione storica assuma carattere specifico, e preciso rilievo, non appena una certa preparazione generale abbia disposto l’animo all’intelligenza della narrazione. Per ciò, come prima la nozione delle opere umane individuali e sociali abbia acquistato nello spirito dei giovanetti una sufficiente precisione e consistenza, conviene che l’attenzione loro venga fissata su lo studio della storia, come in obbietto fornito di carattere e di fisonomia propria, per quanto vari possano essere i rapporti che alle altre materie del

conoscere lo tengono congiunto. Le generalità didattiche che agevolano lo studio dei fatti storici son le seguenti: Fra le cose che cadono sotto l’osservazione diretta, son moltissime quelle che furon prodotte in altri tempi, o per lo meno in conseguenza di operazioni non mai state osservate dai fanciulli. Nella cerchia della vita domestica si conservano parecchie memorie di cose passate, che di quando in quando vengon ripetute e raccontate con qualche ordine, cosicché l’animo infantile s’abitua poco per volta a concepire l’immagine di uomini vissuti ad una certa distanza di tempo, con varia successione e con vario intreccio di operosità. L’educatore che sappia trar profitto da coteste generalissime abitudini intellettive, potrà prolungare in vario senso le serie di tempo, e colorirle e specificarle con la narrazione di più casi che dentro ad esse ei faccia opportunamente muovere. La descrizione geografica delle diverse regioni, in che il mondo è diviso, non può mai scompagnarsi dal racconto delle mutazioni che alla forma del suolo furon portate dall’azione civile degli uomini, dovendosi per fine di chiarimento indicare i vari aspetti dei paesi, in quanto colti o incolti, popolati di molta gente o di poca, e andati soggetti nel corso del tempo a molte modificazioni per l’opera successiva degli abitanti. A questo modo l’immagine, direi, rigida, della superficie terrestre viene poco per volta a partecipare del moto delle cose umane, che v’imprimono come una varia fisonomia nel corso della civiltà. Nell’esercizio dichiarativo dei nomi e degl’istrumenti delle varie arti, e in quello degli uffici e delle dignità sociali, non si può a meno di notare, oltre al significato attuale, anche l’aspetto storico delle forme della tecnica e delle varie maniere di professioni e di arti. Per via di coteste dichiarazioni s’ingenera l’abito d’immaginare altri tempi, in cui gli uomini vissero come non si costuma più al presente. Di più, cotesti chiarimenti fanno intendere i primi e principalissimi rapporti del vivere sociale, in quanto indicano cosa significhi il re ed il suddito, il capitano ed il soldato, il pubblico funzionario ed il subordinato, il sacerdote, lo scienziato, il tecnico, l’artista, l’artigiano e così di seguito. Ma è cosa assai difficile che i giovanetti si rendan conto con chiarezza degli stati d’animo delle persone storiche, e v’associno i propri sentimenti per simpatetica emozione. Conviene quindi abituarli alla interpretazione di quel che accade nell’animo delle persone circostanti, in quanto vien loro significato dai gesti, dalle parole, dagli atti di quelle. Senza di che la narrazione storica, non trovando un mezzo di appropriazione simpatetica nella coscienza di coloro che devono apprenderla, rimarrà pura esercitazione della memoria su fatti sforniti di qualsiasi significazione. E poi dopo, a render facile l’applicazione dei sentimenti simpatetici all’immagine degli uomini vissuti in altri tempi ed in altri luoghi,

bisogna narrare poco per volta dei fatti isolati della vita di più persone storiche o leggendarie, ed usare nel racconto di quella maggior chiarezza e precisione che son mai possibili. Questo concetto non è da confondere con la opinione di quegli scrittori pratici, i quali suggeriscono che l’insegnamento della storia s’incominci dalla biografia; perché questa è anch’essa un sistema di accadimenti, che in un caso solo s’intende a pieno, quando cioè la vita di una persona notevole vien considerata in relazione con la natura dei tempi dei quali sia in qualche modo una caratteristica espressione. Data cotesta preparazione generale, si passa poi senza grandi difficoltà, alla esposizione storica, intesa nel senso proprio della parola. Il sincronismo degli studi, che è di somma importanza nella disposizione del piano didattico, porta con sé che cotesta esposizione cominci alloraché nell’educando l’intelligenza e l’uso della lingua parlata e scritta abbiano raggiunto un grado di maturità che affidi dell’attitudine a concepire un discorso per periodi e ad intendere la lettura continuata di più pagine di un libro. Inoltre occorre che l’orientazione geografica abbia raggiunto una qualche precisione ed una certa maniera di colorito, cui s’accoppi la sicura conoscenza dei principalissimi obbietti naturali. Ma ciò non basta. I fatti isolati e le favole e gli apologhi che si sia andati raccontando, non son sufficienti a preparare l’animo dell’educando alla intelligenza di una esposizione fatta estesamente, con molto intreccio di circostanze, e con varia combinazione di serie principali ed accessorie. Perciò bisogna concentrare l’attenzione tutta intera su qualche esteso racconto, accessibile all’intelligenza e variato negli elementi suoi, ma tale che presenti un qualcosa di così centrale, da render pronta la riduzione degli interessi e facile la riconnessione delle diverse serie della narrazione. Cotesta storia o racconto non s’inventa a capriccio, né si escogita dal primo venuto. Bisogna che viva da un pezzo nella coscienza tradizionale del paese, e che abbia trovato, in persona di uno scrittore notevole, una forma di esposizione in cui sia l’imperitura impronta dell’importanza classica. E come non tutte le letterature hanno di così fatti libri, si farà ricorso a quelle che offrono i migliori esempi. Quale libro p. es. in tutte le letterature del mondo civile è paragonabile al Robinson Crusoe, come lettura primissima pei fanciulli6; e dove si trova qualcosa che rassomigli ad Omero, che può essere ben presto adoperato in un secondo o terzo anno di studio ordinato? Del resto non accade che io determini ancora di più il mio concetto. Perché, a fare altrimenti, mi converrebbe discorrere assai minutamente della maniera di adoperare cotesti libri, e dell’uso che delle leggende popolari si può fare, per avvezzar l’animo alla pronta intelligenza della narrazione viva, estesa e complicata. Date le condizioni tutte che occorrono ad intendere l’esposizione della storia

vera, cioè dire così quelle delle preparazioni generali, come quelle della pronta apprensione di un racconto complicato, bisogna che le molteplici materie storiche, che nel loro insieme costituiscono le grandi epoche, vengano insegnate con un certo ordine, dentro ad un certo periodo di tempo. Il risultato di cotesto studio deve consistere in questo, che il discente finisca per possedere tutta intera la gran tela degli avvenimenti storici, che dai tempi antichi fino ai presenti si sono svolti con qualche relazione di continuità fra loro, e che egli possa muoversi con metodo nel considerarne il sistema. E qui da capo i punti di partenza son vari, perché, oltre a doversi aver riguardo allo sviluppo graduale delle inclinazioni dell’animo, ed agli altri studi che si fanno contemporaneamente a quello della storia, bisogna pur considerare che questa ha in sé medesima tanta varietà di aspetti, da non trovarsi in ogni sua parte egualmente vicina allo spirito di chi deve apprenderla. Procurerò di precisar meglio. Nell’esposizione storica si può pigliar le mosse da due punti principalmente. Chiamo ascendente quel processo di narrazione, che traendo occasione dalla descrizione geografica dello stato presente del mondo, venga a mano a mano indicando, in che modo e con quale ordine i diversi paesi raggiunsero la loro presente forma sociale, per che via si stabilirono i rapporti commerciali che fanno di essi come una grande società mondiale, e con quale svolgimento la civiltà siasi andata propagando dall’uno all’altro. Con cotesta esposizione a linea ascendente, o regressiva, si può giungere fino al cominciamento dall’età moderna, cioè fino alla scoverta dell’America, alla rinascenza letteraria ed artistica del Quattrocento, alla riforma religiosa ed alla costituzione delle grandi monarchie. Fan da mezzo diretto d’intuizione e da sussidio dichiarativo le carte geografiche, in cui sieno indicate le variazioni storiche degli stati, e poi i libri di lettura delle diverse lingue moderne, che si vanno in pari tempo studiando; nei quali si trova occasione ad analizzare i principali rapporti della vita e le forme più importanti della coscienza sociale. L’altra linea progressiva o discendente va dai tempi della storia greca accertata, fino alla caduta dell’impero di Occidente. I sussidi dichiarativi e i mezzi intuitivi son da cercare nello studio delle lingue e delle letterature antiche, greca e romana, e in tutte quelle conoscenze geografiche, etnografiche ed archeologiche che posson dare evidenza ed efficacia al racconto. Vi ha ragioni che inducono a dare una certa prevalenza alla storia greco-romana su quella del Medio Evo e dei tempi moderni. In primo luogo la distanza in che quella si trova per rispetto ad ogni sorta di fini pratici, fa sì che lo spirito possa esercitarvisi come in esclusiva materia d’interesse intellettuale; il che difficilmente accade dei fatti medioevali e moderni, che troppo di soventi eccitano delle passionate

inclinazioni, pei rapporti che hanno con le opinioni politiche e religiose di noi tutti. D’altra parte lo studio delle lingue e delle letterature classiche, che per ragioni da non discutersi qui deve occupar gran parte della coltura generale, danno occasione favorevole allo svolgimento pieno della storia; mentre in quella del Medio Evo i documenti sono inaccessibili nel periodo degli studi generali, e nella moderna non è facile usare estesamente delle fonti. I rapporti storici dei tempi antichi hanno poi una maggiore evidenza di quelli dell’epoca medioevale e della moderna, perché risultano da condizioni sociali più semplici, e perché se ne ha memoria dalle opere di scrittori, la cui forma di composizione muove più facilmente lo spirito a spiegarsi in ogni maniera d’interesse. Vuolsi da ultimo osservare, che nella storia antica si trovano assai più facilmente le serie ordinate degli avvenimenti, perché essa è più specialmente nazionale, ed è regolata da principi direttivi, che presentano una maggiore evidenza e coerenza che non quelli del mondo moderno. A ricongiungere le due linee, occorre poi fermarsi sul Medio Evo. L’intelligenza ne è in qualche maniera preparata dall’istruzione religiosa; ché di fatti in quel periodo di tempo l’elemento cristiano ebbe il predominio su la civiltà occidentale. Non sono per ciò egualmente dichiarabili tutti gli altri aspetti della storia medioevale, vuoi perché le fonti storiche e letterarie della civiltà araba non sono alla portata di tutti, vuoi perché dei libri che possono dare idea diretta e viva della feodalità e della cavalleria non si può fare un uso esteso e continuato, vuoi, da ultimo, perché, nelle presenti condizioni delle diverse società europee, gli avanzi della vita medioevale esercitano una difforme influenza su lo spirito delle persone colte. Quando la materia storica sia stata sufficientemente elaborata, nel senso di coteste tre serie, e con l’uso perfetto delle forme metodiche che furono indicate innanzi, i giovanetti potranno agevolmente percorrerla da un capo all’altro, alternando la lezione ordinata con la lettura continuativa, la ripetizione orale col sunto scritto a schema cronologico e sincronistico. Tutto ciò deve svolgersi in costante parallelismo con gli studi delle lingue, delle lettere, della matematica, della fisica, e col sussidio, in fine, della logica e della psicologia; in guisa che si possa da ultimo toccare un tale grado di coltura storica, che i fini educativi sieno per mezzo suo perfettamente raggiunti. Indicherò i criteri che danno idea di cotesto maximum di coltura per rispetto alla pedagogica; il quale maximum si converte poi in minimum di conoscenza, quando si voglia attendere ex professo7 allo studio erudito e scientifico delle cose storiche. Conviene adunque che lo spirito abbia acquistata una perfetta attitudine a muoversi per entro alle materie storiche, spiegandovi su, con prontezza, tutte le forme dell’interesse conoscitivo e simpatetico, di maniera, che il possesso pieno

delle notizie faccia poscia da istrumento sicuro di esatta discriminazione e di giudizioso apprezzamento di tutte le umane cose. Inoltre la capacità ad usare dei libri storici, come di mezzo per far progresso nella coltura, deve aver raggiunto tale precisione e tanta consistenza, che la critica nasca spontanea nell’animo; e con essa il retto discernimento dei nessi causali, delle convenienze di tempo e di luogo, e della psicologica verosomiglianza di ogni nuova narrazione. Le differenze dei vari periodi e delle varie epoche, in quanto indicate dal colore del tempo, dalle notevoli mutazioni, dalle segnalate opere degli uomini grandi, come da altrettanti segni caratteristici, bisogna che abbian ricevuto tale e tanta specificazione nella coscienza, da dar forma di viva funzione alle date della cronologia e dei quadri sincronistici. Cotesti criteri formali importano, che un certo numero di conoscenze sia considerato come indispensabile. Eccone la sommaria indicazione. Prima di ogni altra cosa occorre che l’orientazione geografica sia così completa, da dar nozione esatta dello stato di tutte le razze e di tutti i popoli, che al presente abitano le diverse parti della terra. E come v’ha paesi abitati da uomini, che vivono in istato selvaggio od in istato di barbarie, la dichiarazione dei costumi loro giova a dare idea di quel che furono, nelle prime origini, i vari popoli, delle cui opere civili si ha poi notizia dalla esposizione storica. D’altra parte, per rispetto a parecchi paesi di già avanti molto nella civiltà, ma, non che remoti da noi, estranei affatto al movimento della storia nostra, la semplice cognizione geografica dello stato presente contiene tutto quello che alla coltura generale può importare (p. es. l’estremo oriente compresa l’India). Della storia di cotesti paesi si darà poi notizia, in qualche maniera ordinata, solo quando occorra di metterla in relazione coi fatti che son materia propria d’istruzione generale (p. es. la conquista di Alessandro rimanda alla storia dell’India antica, la scoverta del Capo di Buona Speranza a quella dell’India medioevale; l’invasione unnica rimanda alla storia della Cina, la scoverta dell’America allo stato di civiltà del Messico e del Perù, e così via). In somma, si può a tempo e luogo riconnettere la storia, che è materia speciale di coltura, a tutta quella che rimane esclusa dal campo degli studi ordinati; per quanto però importa perché lo spirito si muova con qualche facilità nella direzione delle linee accessorie e parallele degli accadimenti umani. I termini estremi di barbarie e di civiltà, con le gradazioni che stan di mezzo, non giovano soltanto a specificare la notizia dello stato presente delle cose umane, perché devono eziandio ricorrere in tutta la esposizione storica, come mezzo opportuno ed efficace per completare il quadro degli avvenimenti, che si vadano specialmente narrando. Così p. es. le conquiste di Alessandro, dei

Romani, degli Arabi e via così, rimandando alla descrizione dei paesi successivamente percorsi, han bisogno, per maggior chiarimento dei fatti, del complemento geografico ed etnografico. Quando poi cotesti termini delle varie forme di civiltà e di barbarie, sieno ben fissati nella mente, la narrazione delle cose storiche propriamente dette piglierà da sé precisione e rilievo. La storia dell’antico Egitto e delle monarchie di Babilonia e di Ninive, non potendo, per difetto di mezzi critici e filologici, diventare intuitiva nel periodo della coltura elementare, sarà tracciata, come in lineamenti generali, per quel tanto che importa a chiarire la nozione dei fatti biblici, o a mettere in evidenza le origini ed il movimento della civiltà greca. E come gli è in questa per l’appunto che bisogna primieramente metter piede fermo, così della storia più antica basterà aver nozione in linea regressiva, fino a che il certo delle notizie non si perde nell’indefinito della ricerca. La storia greca, dai tempi accertati fino alla morte di Alessandro, si dee sapere in tutta la varietà dei suoi aspetti; e lo stesso è a dirsi della romana fino a Costantino. Il continuarsi della civiltà greca nei successori di Alessandro basterà che sia toccato, come in prospetto generale, tanto per chiarire l’allargarsi della potenza romana e l’incontro di essa coi regni di Egitto, di Siria e così via. La formazione poi e lo sviluppo del Cristianesimo, ove non formino materia speciale dell’insegnamento religioso, vogliono essere esposti come in linea accessoria a quella dell’impero romano, fino a che con essa non s’incontri nella persona di Costantino. Fra Costantino e la storia medioevale bisogna interporre il quadro etnografico delle invasioni barbariche, ed il prospetto delle nuove formazioni politiche e sociali. Nella storia poi del Medio Evo le linee direttive han da essere le seguenti: decadenza continuata dell’Impero Bisantino; le monarchie germaniche; il Papato; l’Impero occidentale risorto; il Maomettanismo; le Crociate; i Comuni. Dalla caduta dell’impero d’Occidente in poi, bisogna che la storia pigli aspetto di sincronismo; cosicché, fissate le linee principali, si possa poi percorrere le accessorie, con facile moto di attenzione ascensiva e discensiva (p. es. a proposito delle Crociate, i Turchi che s’insediano nell’impero arabo e lo trasformano). Nella storia moderna continua la forma sincronistica, con questa differenza però, per rispetto a quella del Medio Evo, che accanto ai fatti generali (papato, impero, riforma religiosa, grandi scoverte geografiche, tecniche, e scientifiche) bisogna specialmente accentuare il moto interiore della vita sociale, e la formazione dei grandi stati. Dal Settecento in poi piglian predominio le idee di libertà politica e religiosa, la cui manifestazione, meno che nelle grandi rivoluzioni, è da studiare nei moti lenti e successivi della vita sociale, che ci han

menati alla presente condizione di civiltà, promettitrice di maggiori avanzamenti per il tempo avvenire.

IX Fin qui non è accaduto che io facessi menzione una volta sola, non che delle varie forme degli istituti scolastici, della scuola in generale, come di mezzo per recare in atto i precetti didattici che venivo esponendo. Ciò, in verità, non è fatto a caso; né è da intendere come dimenticanza. A mio avviso, chiunque voglia trattare i problemi pedagogici con evidenza scientifica, e con qualche speranza di giungere a delle conclusioni in certa maniera soddisfacenti, deve primieramente astenersi dal pigliare in ispeciale considerazione la varia natura degl’istituti scolastici, e fermarsi nella supposizione, che il compito educativo si assolva tutto intero in persona di un educando solo, nel quale il pedagogo trovi le condizioni favorevoli che, per portare a compimento la coltura vera e piena dello spirito realmente occorrono. La qual cosa non vuol dire, che si debba foggiarsi nel capo un ideale posticcio, e poi presentarlo a guisa di modello all’ammirazione altrui; ma sì bene che ci convenga di dare al concetto dell’opera educativa quella precisione scientifica e quella compitezza formale, che invano si cercherebbe di ricavare dallo studio empirico delle varie maniere di scuola. Né cotesto modo di considerare, direi in forma assoluta, il concetto dell’educazione, ci mette a dirittura fuori della realtà delle cose; perché di certo non mancano esempi di coltura perfetta, ottenuta in persona di giovanetti istruiti con tutti i mezzi della buona pedagogia, e col progresso della civiltà si vede che cotesti esempi vanno tuttodì crescendo. D’altra parte bisogna aver mente a dirittura angusta, per credere, che le scuole, prese così come ci si presentano immediatamente nell’esperienza che ne abbiamo, sieno da considerare come gli organi esclusivi dell’attività pedagogica, quasi che nell’ordinamento loro s’avesse già come la piena attuazione pratica delle esigenze della didattica razionale. Perché esse, nate come sono da rozzo empirismo pratico, anzi spesso per semplice bisogno di disciplina esteriore, adoperate poi, ma non sempre bene, a servire ai fini della coltura generale e al tempo medesimo a quelli della utilità pratica o tecnica che si voglia, sviate il più delle volte dalle inclinazioni utilitarie dei genitori e dalle tendenze esclusive dell’insegnanti, nel tutt’insieme lascian posto assai scarso, o per lo meno insufficiente, all’attività educativa; e per ciò, anzi che essere l’espressione reale della pedagogica, son da considerare come soggette al giudizio ed alla correzione sua. S’intende bene che le scuole, in quanto son parte del gran complesso degl’istituti sociali, trovano quasi sempre la loro spiegazione nelle relative condizioni dei tempi; il che importa, che per fino le imperfezioni

dell’ordinamento e i difetti della pratica possono in qualche maniera essere giustificati. Chi però si mettesse a studiarle come obbietto, da cui devansi ricavare i concetti della pedagogica, finirebbe a dirittura per perdere il senso della ricerca scientifica; perché non è certo nella media dei casi reali che si possa trovare la ragione ultima dei precetti, né sono gli espedienti quelli che danno idea precisa delle pratiche necessità. La pedagogica, in somma, non è la scienza della scuola. Anzi tanto questa è da considerare come ben costituita e come ben condotta, per quanto è capace di ricevere dentro di sé l’influenza della didattica razionale, e di tradurne poi in pratica i concetti ed i precetti. Ciò importa però, che questa, per diventare regolativo di scuola, deve adattarsi alle varie esigenze sociali, che a mo’ d’impedimenti limitano l’azione educativa nel campo degl’istituti scolastici. Da cotesto adattamento dei concetti generali pedagogici alla varia natura degli istituti conviene derivare i regolamenti, i programmi, la compartizione delle materie in anni ed in semestri, e da ultimo gli orari, i libri di testo e le maniere esteriori dell’insegnare; cose tutte le quali non hanno mai norma certa in sé medesime. In fatti, nel sapersi render conto esatto di tutte coteste minute questioni, senza però perder di vista i concetti generali, consiste, il compito della pedagogica speciale; il che è quanto dire di quella parte della scienza dell’educazione, che riferisce ed adatta alle varietà delle condizioni sociali i concetti intorno alla coltura. Per ciò, a dar regola certa alle scuole, occorre che i pratici ricorrano alla scienza, e che i cultori di questa sappiano mettersi in condizione da intendere le difficoltà reali e positive degli ordinamenti e dei congegni scolastici; ed è vano credere che l’opera dello stato possa spiegarsi sicura ed efficace nella via delle riforme, quando manchino coteste condizioni essenziali della buona coltura pedagogica. Or non è il caso di esaminare in questo luogo tutte le diverse maniere di scuola, che han preso forma stabile negli ordinamenti dei vari paesi civili, per venirle poi giudicando sotto il risguardo pedagogico, o come classificando per rispetto ai frutti educativi che se ne ottiene. Si vuole però avvertire, che la didattica speciale non è da considerare come l’applicazione pura e semplice dei concetti pedagogici che furono esposti innanzi, come si trattasse in essa, di dividere in parti un piano didattico generale, e di venirle poi assegnando ad una ad una ai diversi istituti scolastici. Gli è questione di ben altro che di semplice applicazione. E la ragione è questa, che le scuole sono e saran sempre intrinsecamente varie; perché varie sono le condizioni sociali, perché i bisogni della vita non permettono che tutti i giovanetti vengano istruiti allo stesso modo, e perché, in fine, per quanto studio si metta a creare degl’istituti di coltura generale, non si può mai fare che gl’interessi professionali non vi s’insinuino in

qualche modo, come per piegare l’intelligenza a divenir al più presto possibile istrumento pratico di utilità. Coteste riflessioni non menano diritto alla conclusione, che convenga lasciar correre le cose come corrono; e non darsi alcun pensiero dell’ordinamento scolastico, pur di conservare alla pedagogica la forma di una perfetta scienza ideale. Anzi è debito di chiunque abbia una opinione certa e definita intorno ai problemi dell’educazione, che ei sappia usare delle sue conoscenze, come di mezzo per migliorare e per correggere gli ordinamenti ed i congegni scolastici. Ma bisogna pur guardarsi da quelle facili illusioni, che fanno assai spesso della pedagogica una occasione per fantasticare a vuoto; il che procede dal non aver mente usa a riconoscere i limiti della teoria, e dal non posseder tanto di talento pratico, da potere intendere quel che c’è di vario, di condizionato e di mutabile in tutte le questioni che agli ordinamenti sociali si riferiscono. Astrattamente parlando, la coltura generale, che è quella alla definizione della quale la pedagogica è principalmente rivolta, deve informare l’ordinamento pratico delle scuole in maniera che chiunque prenda a frequentarle possa acquistarvi, non solamente le attitudini che sono di qualche utilità per la vita, ma eziandio l’insieme delle inclinazioni interiori, da cui risulta il sentimento umano nella pienezza della parola, e quindi la capacità ad operare con rettitudine di mente e di cuore. Cotesto ideale non è cosa del tutto nuova nel mondo, e la società, nel lungo corso della vita civile ha fatto di molti tentativi per avvicinarvisi, ne fa ora e ne farà dei maggiori nell’avvenire. Ma non devesi però dimenticare che i problemi pratici non si risolvono col solo aiuto di un ideale ben concepito e ben disegnato, perché bisogna aver molta considerazione alla materia in cui si vuole che esso pigli forma stabile di attuazione. E per cotesta ragione bisogna pensare che le condizioni reali della società presentano grandissimo ostacolo al concetto di una coltura generale comune a tutti; perché oltre ad esser molti quelli che non possono frequentare alcuna sorta di scuole, son pur molti quelli che frequentandone, vi rimangono per assai poco tempo, a causa delle arti manuali, al cui esercizio devono al più presto attendere. D’altra parte, come l’esercizio delle professioni scientifiche esige una larga preparazione di studio, e questa si fa d’ordinario con l’insegnamento di svariate discipline, che non sempre son ben congiunte fra loro da fondate ragioni pedagogiche, la difficoltà di ordinare la scuola sul concetto educativo s’incontra anche in quegli istituti, in cui la scolaresca non è distratta dall’esercizio tecnico delle arti, o dal bisogno di attendervi presto. Da coteste ragioni combinate con le difformi tradizioni generali o nazionali della coltura, nascono tutte quelle diverse maniere di scuola elementare, complementare, professionale, reale, classica, o come altro si chiamino, che al

presente si vedono istituite nei diversi paesi civili. In parecchie di esse si va più in là di quello che alla coltura generale non giovi; in altre si rimane indietro, per difetto di mezzi materiali e soprattutto per la ristrettezza del tempo. Dare ordine a tutte coceste scuole, di maniera che ciascuna di esse adempia in qualche modo l’ufficio suo proprio, e al tempo medesimo si conformi alle esigenze della retta educazione, non è cosa del tutto agevole; e da ciò dipende che nel campo pratico si facciano tanti tentativi e tante discussioni, che spesso non recano frutto e non menano a conclusione. La difficoltà, che sopra a tutte le altre vuol essere qui specialmente ricordata, è questa, che spesso non si sa bene se ad ogni forma di scuola si debba dare ordine, come per disporle tutte in linea ascendente, o non piuttosto in maniera che ciascuna possa adempiere l’ufficio suo con relativa compitezza. Nel primo caso deve parere agevole il compartire tutto il piano didattico in tante sezioni, per quanti sono gl’istituti, portando una qualche leggera modificazione ai concetti generali pedagogici per ragioni di pratica convenienza. Ma tanto è dir ciò, quanto è dire, che i diversi istituti fanno una scuola sola, dalla più elementare del giardino d’infanzia fino all’insegnamento filosofico di un liceo bene ordinato. Se si pensa però da quali fortunate, anzi da quali straordinarie condizioni dipenda, che pochissimi giovanetti possano ordinatamente attendere agli studi dalla prima età fino all’esercizio di una professione libera, si dee riconoscere che è cosa più naturale ammettere, che le diverse scuole abbiano ad ordinarsi in maniera che al tempo medesimo che fan da gradi successivi, facciano anche da istituti, in cui una certa parte della scolaresca riceva una coltura relativamente completa. Senza dubbio ci ha da essere negli ordinamenti scolastici un primo grado d’istruzione, che si chiami elementare. Cotesta designazione però, accennando ad un grado superiore d’istruzione, può fare che la scuola riesca poco utile a quelli che dovranno nel più breve termine possibile abbandonare gli studi per addirsi alle arti manuali. È difficile, in fatti, che essi vi trovino quei mezzi di coltura che danno allo spirito delle inclinazioni certe nell’intendere e nel sentire, in maniera che s’entri poi nella vita con una orientazione sufficiente. Ad ovviare a così fatti inconvenienti, a fare cioè che la scuola elementare possa dare una certa coltura completa alle classi sociali che attendono ai minuti lavori, non pare si sia finora riusciti interamente bene in nessun paese del mondo civile, e da ciò dipende, che mentre la scuola popolare, nel vero senso della parola, non si trova ancora perfettamente attuata, gli altri istituti superiori di studio cerchino di preparare i loro futuri frequentatori, in iscuole elementari di carattere speciale. Ciò solo basterebbe a fare intendere come la pedagogica debba rischiarare le questioni della scuola coi concetti suoi propri; e che invano si vuol farne un

semplice complemento dell’esperienza scolastica. V’ha un altro grado d’istruzione generale o elementare che si voglia, che sta più in su di quello detto innanzi; perché destinato a soddisfare i bisogni intellettuali di tutta quella parte della gioventù, che dovendo pur rimanere più tardi fuori della cerchia degli studi scientifici, si trova però in condizione di attendere alla coltura per un più lungo periodo di tempo, perché non dovrà occuparsi nelle arti manuali, né in quelle che esigono una speciale preparazione tecnica. Per contrario la necessità di preparare a quelle professioni tecniche per l’appunto, nelle quali non basta l’esercizio, anzi è mestieri di possedere una speciale coltura, fa nascere tutte le diverse maniere di scuole professionali, a varia gradazione ed a vario tipo, che si vedono al presente; per rispetto alle quali la pedagogica si trova spesso nella condizione poco favorevole di dovere abbandonare buona parte delle esigenze sue. Queste, in verità, trovano tutte le condizioni favorevoli nelle scuole che diconsi secondarie, o classiche, o ginnasiali o liceali, perché le tradizioni delle quali cotesti istituti vivono, gli studi che in complesso si usa di farvi, e le condizioni stesse dei frequentatori, che per la maggior parte sono in grado di attendere alla coltura senza preoccupazioni pratiche, fanno sì che le materie didattiche possano diventare istrumento educativo in mano all’insegnante, ed obbietto, quindi, in cui l’interesse immediato si eserciti direttamente. E appunto per ciò è bene che cotesti istituti facciano assai per tempo la cerna dei loro frequentatori, con l’avere delle scuole elementari preparatorie affatto speciali. Or nel paragrafo seguente procurerò d’indicare in che modo le idee intorno all’insegnamento della storia, che furono fin qui esposte, possano applicarsi alle diverse maniere di scuole, tenuto conto della riduzione di esse ai quattro tipi normali di elementarissima, di elementare, di professionale e di classica.

X E per cominciare dalla scuola elementarissima, o popolare che voglia dirsi, noterò innanzi tutto, che il principio a cui bisogna che l’ordinamento suo venga conformato, non è da cercare esclusivamente nel concetto della preparazione ai gradi superiori dell’insegnamento. Cotesto principio ha la sua norma certa nel bisogno oramai comune a tutti i paesi civili, che si debba, cioè, nel più breve periodo di tempo fornire di una qualche coltura ordinata e precisa tutti i giovanetti, che ben presto avran mestieri d’addirsi all’esercizio delle minute arti dell’agricoltura, del commercio e dell’industria. D’ordinario si ammette, che le generalissime attitudini del leggere, dello scrivere e del far di conti sieno indispensabili ad ogni sorta di persone; e di qui deriva il concetto dell’istruzione generale, che piglia poi il carattere di obbligatoria, quando sia messa in rapporto coi diritti e coi doveri che allo stato in quanto potestà politica si attribuiscono. Se non che si è poi costretti a riconoscere, che in quelle attitudini formali non è alcun valore intrinseco, quando non sieno adoperate come mezzi per formar nell’animo dei giovanetti quegli abiti dell’intelletto e del sentimento, i quali danno speranza che essi potranno non soltanto spingere lo sguardo loro di là dalla cerchia della piccola arte cui dovranno attendere, ma fare eziandio in seguito qualche avanzamento nella conoscenza delle cose del mondo, con l’uso dei libri alla cui intelligenza sieno stati preparati. Guardata sotto cotesto aspetto, la questione della coltura prima, o popolare che si dica, diventa assai grave, e la soluzione di essa non può sembrar cosa facile a chi abbia una qualche notizia esatta delle condizioni della società, e di quanto sia ardua cosa il menarla innanzi nelle vie della coltura spirituale. Di fatti è cosa del tutto priva di significato il parlare della coltura popolare, quando non si è ancora in grado di ordinar le scuole in maniera da ingenerare nei giovanetti l’attitudine ad esaminare con occhio sicuro le cose del mondo interiore ed esteriore; di ordinarle, cioè, in guisa, che l’istruzione produca una orientazione certa dell’intelligenza ed un regolato moto dell’animo nell’apprezzare i beni della vita. In una parola non merita il nome di scuola popolare un istituto, nel quale non si trovi modo di assolvere tutto intero il compito educativo; per quanto breve il tempo dell’istruzione, per quanto ristrette le materie didattiche e scarsa la elaborazione che è lecito di dar loro con l’esercizio della riflessione. Concepita che sia in tal maniera la scuola elementarissima, bisognerà poi, quando si voglia procedere all’ordinamento pratico, aver considerazione al

divario notevolissimo che corre fra il contado e la città, ed a tutte quelle condizioni sociali ancora, che inducono a tener scuola piuttosto di sera che di giorno, a classi ridotte piuttosto che a classi complete, o disposta in maniera da poter essere frequentata piuttosto dai giovanetti che dagli adulti, o viceversa. Ad ogni modo non v’ha scuola di cotal genere, nel cui piano didattico non si debba fare una parte notevole alla conoscenza delle cose umane; il che è quanto dire alla storia, nel più largo senso della parola. Bisogna però considerare, che nel breve periodo di sei anni o poco più (il che segna il massimo del tempo, nel quale si comprende così il giardino d’infanzia, come le classi che d’ordinario diciamo elementari) in cotesta scuola elementarissima si devono insegnare molte cose, ed in pari tempo dare esercizio a molte attitudini pratiche. Nella prima categoria entrano principalmente le nozioni esatte della geografia e le più semplici spiegazioni dei fatti naturali più importanti; e nella seconda poi l’esercizio dello scrivere, del far di conti, della ginnastica e del canto. In guisa che allo studio della storia, nel senso ristretto della parola, rimane assai poco spazio, per non esservi tempo sufficiente da farne materia d’insegnamento speciale, che correndo per gradi, dalla narrazione dei fatti più semplici fino a quella degli avvenimenti più complicati, prepari lo spirito alla piena intelligenza di tutte le cose umane, ed all’uso d’ogni sorta di libro storico che possa in seguito capitar fra mani. In cotesta scuola, adunque, conviene trar partito dai libri di lettura, dalla esposizione geografica, dall’insegnamento religioso e da tutte le altre materie che offrano argomento alla dichiarazione, per avvezzar lo spirito dei discenti ad una certa limitata ma pur precisa riflessione su la varietà delle umane operazioni, e ad un certo intendimento di quelle serie causali storiche, il cui contenuto sia proporzionato al relativo grado di coltura di ciascuna classe. In fondo non è difficile il dare sviluppo a tutte le forme dell’interesse, in quanto funzioni con che lo spirito si esercita su lo spettacolo delle cose umane; ma mancando di cotesto spettacolo la conoscenza esatta, minuta e particolareggiata, che si ottiene solo dalla piena notizia di tutto il corso della civiltà, quelle forme stesse non si fisseranno stabilmente nello spirito, come istrumenti atti ad elaborare tutta la materia grezza delle impressioni. Per ciò conviene di compensare la deficiente nozione delle cose umane in ordine al tempo, con una larga esposizione delle cose umane in ordine alla disposizione geografica; in guisa, che mancando la notizia delle varietà storiche, non manchi poi del tutto la materia dell’interesse e l’attitudine ad usarne come di elemento di giudizio. In coteste scuole elementarissime si può qualche volta andare ancor più innanzi di così, nell’insegnamento della storia; a patto, però, che non si pigli per regola quello che ha da essere inteso come eccezione, e che non si voglia

convertire in principio generale di programma quello che si dee far dipendere dalle favorevoli circostanze. Di certo un insegnante valoroso può fare il tentativo di dar connessione ed ordinamento prammatico ad un certo numero di fatti particolari, che sieno stati già tutti dichiarati a parte a parte; massime poi nel caso che la scuola sia frequentata dagli adulti. Due possono essere in cotesta scuola i mezzi di riduzione dei fatti storici, ad una qualche forma di ordinamento generale; cioè a dire, o la narrazione continuata di quel che accadde in vari tempi in una città notevole, che abbia esercitato una grande influenza su la vita nazionale, o il complesso dei racconti del Nuovo e dell’Antico Testamento, in quanto messi in rapporto con l’idea della Redenzione, e col perpetuarsi dell’opera di essa nell’organismo della Chiesa. Di molto diversa dalla condizione della scuola elementarissima è quella dell’istituto, che in mancanza d’altra espressione propria io dico d’istruzione elementare. È ufficio suo il dar coltura piuttosto estesa a quei giovanetti, che pur dovendo rinunziare più tardi alla professione dello studio, per la condizione agiata delle loro famiglie e per la natura più libera delle arti cui dovranno in seguito addirsi, sono in grado di attendere agli studi fino ai quindici o ai sedici anni, in maniera da allargare la cerchia delle loro conoscenze, e da confermare gli abiti intellettivi e morali del loro animo. I frequentatori di cotesta scuola, avendo vinte nelle classi elementarissime le prime e le più gravi difficoltà dell’intendere i libri, dell’usare della lingua con qualche correttezza, così nel parlare come nello scrivere, del far di conti speditamente, e del servirsi della caria geografica, e possedendo in oltre un ricco patrimonio di nomenclatura ed una sufficiente notizia dei principali fenomeni naturali, potranno attendere allo studio ordinato della fisica, della chimica e della cosmografia, esercitarsi al gusto delle forme estetiche delle materie letterarie, ad usarne poi in quelle maniere di composizione, in cui comincia a rilevarsi l’arte, lo stile ed il giudizio. Or come da coteste cose conseguita naturalmente una maggiore pieghevolezza dell’animo, ed un più sicuro dominio dell’intelletto su i fatti e su i rapporti loro, c’è ragione a credere, che nella scuola elementare si possa fare un gran posto allo studio della storia; così sotto il riguardo formale dell’esercizio retto e pieno degl’interessi spirituali, come sotto a quello materiale dell’accogliere nello spirito una gran copia di notizie e di ordinarle in serie ascendenti, discendenti e parallele. Nel termine di tre o quattro anni, che in fondo bastano a cotesto grado di studi, quando esso sia convenientemente connesso a quello della scuola elementarissima, la storia nazionale potrà essere largamente insegnata, in tutta la ricchezza degli aspetti suoi; massime se la lettura darà materia sufficiente allo sviluppo dell’interesse empirico e del simpatetico, e se la suppellettile scientifica

darà largo eccitamento alla curiosità per le cose assenti e passate. I libri di testo han da essere, non le solite compilazioni, ma delle riproduzioni e delle riduzioni vive e colorite delle grandi opere originali, ora tradotte, ora rifatte, ora riassunte. Si cercherà poi di usare più tardi dei manuali a disposizione cronologica e sincronistica, come di complemento e di riconnessione formale delle notizie apprese ad una ad una. Per cotal maniera di riduzione accade che lo spirito s’abitui a spingere la sua curiosità anche su i fatti più antichi, e su quelli in generale che non vennero insegnati; in guisa che da ultimo l’uso dei libri più estesi può riuscire non solo agevole, ma di grande e di sicuro giovamento. Di cotesta maniera d’istruzione, che io chiamo elementare, si ha esempio pratico in quegli istituti che in Germania chiamano scuole di complemento o borghesi, ed eziandio nella nostra scuola tecnica, la quale è tutt’altro che tecnica, nel senso preciso della parola, ed è del resto ordinata in maniera da non dare accesso agli studi superiori. La natura di cotesti istituti, che son destinati a soddisfare ai bisogni generali della coltura, ma in maniera assai diversa da quel che si faccia nei ginnasi ed in ogni altra specie di scuole medie, è tale che tutte le regole metodiche innanzi esposte possono trovare in esse una pratica attuazione; in guisa che se nella scuola elementarissima, e per la ristrettezza del tempo e per la scarsezza delle materie, conviene di fermarsi principalmente al metodo dichiarativo, in questo grado superiore di scuola elementare si può usare di tutte e tre le maniere di metodo, esercitandole sopra una materia estesa di cognizioni storiche. Ed essendo oramai indispensabile che nelle scuole destinate alla coltura delle classi medie si dia insegnamento di qualcuna delle principali lingue moderne, gioverà non poco ad agevolare ed a confermar nell’animo la conoscenza delle cose storiche, la lettura di quei libri stranieri che abbiano, oltre al pregio letterario, un qualche valore educativo. Nel corso, in somma, degli studi che si fanno nella scuola elementare di complemento, o superiore che si voglia dirla, si può venire a questo risultamento; che gli alunni, cioè, acquistino in riguardo ai principali aspetti della vita umana una orientazione completa, almeno quanto alla forma degl’interessi spirituali. In cotesto grado di scuola non si giunge di certo alla elaborazione scientifica delle materie conosciute, ma nondimeno si dispone di tanti sussidi formali di scienza (p. es. grammatica, aritmetica, geometria, uso e disegno delle carte geografiche, primi esperimenti di fisica e di chimica) quanti occorrono a dare un certo equilibrio alle diverse specie dell’interesse, ed alle varie inclinazioni metodiche dell’intendimento. I limiti materiali dell’insegnamento storico sono indicati dal fatto stesso che manca l’aiuto delle lingue classiche, e che quello delle lingue moderne è assai scarso. Per ciò l’orientazione storica sarà chiara e piena solo per rispetto ai fatti della vita

nazionale; ad ottener la qual cosa occorre assegnare all’insegnamento della storia una parte notevolissima nel programma didattico di cotesta specie di scuole. Per necessità di cose sociali, accanto alla scuola elementare superiore sorge quella che dicesi professionale. Corrisponde ad una specificazione della scolaresca, che si fa quasi naturalmente, dopo assolti gli studi delle classi elementarissime. Di fatti son molti i giovanetti, che trascorso un qualche tempo dalla fine degli studi della prima scuola devono addirsi all’esercizio delle arti. Ma come fra queste ve n’ha di molte, che esigono preparazione più o meno lunga di studio teorico e pratico, così è necessario, che a quelli che vi si devono applicare si dia mezzo d’istruirsi in iscuole appositamente ordinate al fine della coltura tecnica. Dai pratici si discute che è un pezzo della maniera più conveniente di ordinare coteste scuole. Si è disputato, in fatti, e si disputa tuttora, se la preparazione di coltura, che in esse si vuol dare, riesca più sicuramente col pronto sussidio dell’officina, del podere modello, dell’esercitazione agraria, ippica, nautica e così via, ovvero con lo studio, parte generale, parte speciale, di alcune discipline, che pur disponendo all’esercizio pratico con esso non si confondano del tutto. Or lasciando da parte coteste questioni di ordinamento, che possono toccare una soluzione molto diversa, secondo i paesi e le circostanze, o secondo che è vario il grado di coltura di coloro cui incombe di risolverle, gli è chiaro che tenuto conto delle varie specie di tecnica, cui si deve abilitare, v’han da essere tre gradi d’istituti professionali. Il grado infimo è destinato a dar preparazione di coltura all’esercizio di quelle arti, che riposano nella esatta imitazione e riproduzione di una tecnica già esistente; come è il caso di tutti gli operai che costruiscono arnesi, utensili e macchine. Il grado medio è quello che è destinato a preparare all’esercizio di quelle professioni, in cui la tecnica è governata da principi generali di scienza pratica; il che importa una qualche estensione di conoscenze, ed una certa autonomia del carattere e delle abitudini morali in coloro che devono esercitarle. Il grado superiore è poi quello, che è destinato a formar nell’animo la capacità dell’invenzione tecnica o dell’iniziativa che si voglia dire, la qual cosa si ottiene per via degli studi fisico-matematici, seguiti con interesse schiettamente scientifico; come è il caso delle scuole in cui si preparano i costruttori, gl’ingegneri e simili. Or, trovandosi cotesto grado superiore al medesimo livello dell’università, anzi potendosi con essa confondere affatto (come accade dei politecnici) gli è naturale che non si possa farlo rientrare nel dominio della didattica pedagogica, la quale è difficile, se non impossibile, che dia regola agli studi di così fatta maniera. Gli è dunque su gli altri due gradi che la pedagogica può estendere l’influenza sua. E questa deve principalmente consistere nel far da contrappeso

alla prevalenza dell’elemento tecnico; perché il sentimento ideale della vita non ne rimanga del tutto depresso. Ciò importa, in somma, che non potendosi nell’esercizio dell’arte perdere del tutto di vista il senso umano del valore dell’arte stessa, la coltura preparatoria debba formare in certa maniera gl’interessi spirituali. Nel grado infimo d’istruzione professionale, che è quello presso a poco delle scuole d’arti e mestieri, si può dare, a mio avviso, un insegnamento storico e letterario eguale a quello della scuola elementare; cioè di complemento per rispetto alle classi elementarissime, così in riguardo all’estensione della materia, come in riguardo alla forma interiore degl’interessi. Ma come è necessario che in coteste scuole si dia la prevalenza agli studi tecnici generali, come il disegno, la geometria pratica e così di seguito, importa perciò che si procuri di compensare il difetto del tempo con la intensità dello studio. A metter dunque, assai di buon’ora, nell’animo dei discenti quegl’interessi spirituali, che devono più tardi temperare le triste conseguenze dell’esercizio delle arti manuali, cioè a dire l’egoismo e l’esclusivismo, bisogna tener così ben congiunto l’insegnamento della storia alla lettura dei libri classici di più facile intelligenza, che lo spirito v’acquisti freschezza d’intuito, ricchezza di simpatia, e sentimento vivo delle sociali convenienze. I limiti esteriori vogliono essere qui, come nella scuola elementare, quelli appunto della storia nazionale. Il sussidio delle lingue straniere non dee mancare. Sarà in tutti i modi lodevole l’opera di quell’insegnante, che sappia in coteste scuole comunicare ai discenti un vivo senso dei rapporti sociali, ed un’idea precisa dell’ordine pubblico. Il grado medio della scuola professionale piglia forme abbastanza diverse, secondo che gli studi di essa vadano e non vadano congiunti all’esercitazione pratica; secondo che l’ordinamento delle classi sia o non sia distribuito in corsi di coltura generale ed in corsi di coltura speciale; e secondo che si trovi o non si trovi modo di tener congiunto l’istituto ai gradi superiori dell’insegnamento universitario. In tutti i modi l’insegnamento di cotesta scuola suppone in massima gli studi delle classi elementari superiori, e solo per eccezione gli studi speciali degl’istituti professionali d’arti e mestieri. Or la prevalenza degli studi fisico-matematici e dei giuridico-economici, i quali per l’appunto specificano il carattere tecnico di coteste scuole, che son destinate a dar preparazione all’esercizio delle professioni meccaniche, industriali ed agricole, riducono in assai modesti confini l’azione educativa della coltura storica e letteraria. Per ciò bisogna usare della massima diligenza, per dare a coteste materie di studio tanta efficacia, che suscitando nell’animo tutti gl’interessi conoscitivi e simpatetici, facciano da contrappeso alle influenze esclusive delle discipline tecniche. Ed a riuscire nell’intento o bisogna non

soltanto dare una certa estensione allo studio della storia propriamente detta ed a quello delle lettere, ma trarre eziandio partito da ogni altra disciplina perché concorra nel medesimo effetto. Di fatti, in questa specie d’istituti, lo studio della lingua nazionale deve andar congiunto a quello di due o tre lingue moderne, e della lettura dei libri classici deve farsi uso in maniera, da sviluppare in larga misura la riflessione logica ed estetica. C’è dunque ragione a credere, che in cotesta specie di scuole si possa abbracciare tutta la storia moderna, con sufficiente rinvio a quella del Medio Evo e dei tempi antichi, per quanto importa a stabilire nella mente il senso della connessione causale, ed a suscitarvi l’interesse per la lettura. Mancando però l’insegnamento delle lingue classiche, non si vorrà fare della storia antica un obbietto di studio speciale. Bisognerà quindi proporsi principalmente quel che segue: dar rilievo alla connessione dei fatti umani; indicare con qualche precisione il moto del progresso; analizzare gli elementi della vita sociale; rischiarare la condizione presente delle cose del mondo, con la notizia di quelle che le precedettero in ordine di successione prammatica. Il che non solo è cosa utile, ma eziandio di facile attuazione, perché l’uso del ragionamento astratto viene ad essere in coteste scuole favorito dallo studio della fisica e della matematica; e dalla considerazione poi dei fatti economici, giuridici e statistici nasce naturalmente l’inclinazione allo studio metodico delle cose umane. In una parola, lo studio della storia, che sia fatto di pari passo con quello delle lingue e delle lettere, e venga sussidiato da quello delle altre discipline, potrà essere condotto innanzi con piena elaborazione metodica, rimanendo limitato solo per rispetto all’estensione materiale. Così in questo, come nel grado antecedente di studio professionale, bisogna che la specificazione delle materie si cerchi nella virtù metodica dell’insegnamento, non nella forma esteriore della compilazione dei trattati. Per ciò i manuali dovran prestare ufficio di prospetto riduttivo, ma non saran mai adoperati come fonte diretta della coltura storica. Nelle tre forme di scuola, di cui s’è tenuto parola fin qui, l’insegnamento storico-letterario non si spiega in tutta l’estensione materiale ed in tutta l’efficacia formale di cui è mestieri, perché i fini educativi della coltura spirituale vengano per mezzo suo raggiunti. Non accade però il medesimo nell’istituto classico, o nel ginnasio o liceo-ginnasio che voglia dirsi, nel quale gli studi, che sono atti a promuovere con durevole effetto tutta intera la coltura dell’intelletto e dell’animo, vengon fatti con ordine e con precisione, attraverso a molti anni consecutivi. In cotesto istituto d’istruzione si dà, in fatti, un pieno svolgimento agli studi classici; i quali, nell’atto che operano in maniera formale su la condizione dello

spirito, dischiudono altresì l’orizzonte della storia passata, e lo rendono meno chiaro nei contorni e preciso nei particolari, soprattutto pei sussidi che si vanno attingendo dalle conoscenze elementari dell’archeologia e delle antichità. Di pari passo con lo studio delle lingue e delle lettere procede ancor quello della grammatica e dello stile, che oltre ad aguzzare l’intendimento logico, rende certo e preciso il discernimento delle forme estetiche. D’altra parte nel corso progressivo degli studi della medesima scuola si sale di grado in grado dal calcolo elementare dell’aritmetica pratica fino alla conoscenza dell’analisi; la qual cosa, quando vada in ultimo convenientemente congiunta allo studio della logica e della psicologia, diventa un mezzo potentissimo per ispingere lo sguardo oltre la cerchia della esperienza comune, e per inviluppare in pari tempo così il gusto della ricerca razionale, come l’abito intellettivo a riferire la esperienza delle cose alle forme escogitate dal pensiero. Le influenze troppo esclusive di cotesti abiti formali vengon poi, in qualche maniera, temperate e corrette dalla descrizione naturale, e dall’uso dell’induzione nello studio elementare della fisica generale. In coteste scuole secondarie, in somma, c’è posto per ogni sorta di metodo, per ogni maniera di esposizione, per qualunque specie di obbietti in cui l’intelletto e la simpatia possano esercitarsi; cosicché l’animo dei discenti v’è elaborato in ogni senso e di maniera eziandio che riesce facile il dare ai molteplici interessi una conveniente concentrazione. Conseguita da tutto ciò, ossia dalla natura particolare di cotesto istituto scolastico, che il piano didattico dell’insegnamento storico vi trovi posto adatto per essere svolto nella pienezza dei suoi momenti. Né si vuol dimenticare di considerare anche il tempo abbastanza esteso degli studi; ché di fatti i corsi ginnasiali non possono durare meno dei sette o degli otto anni, né vi trova accesso chi non abbia già assolti gli studi della scuola elementarissima. Degli otto anni di studio, che è lecito accettare come indicazione normale, i tre primi possono essere utilmente destinati a continuare le preparazioni generiche di cui si sia cominciato a fare uso nelle classi elementari. I due anni consecutivi possono essere impiegati alla esposizione della storia antica; due altri poi nella esposizione della storia medioevale e della moderna; l’ultimo, in fine, al riassunto fatto a schema cronologico e sincronistico. Questo concetto vuol essere qui più specialmente determinato, senza che io abbia per ciò l’idea di far quello che propriamente dicesi un programma, per la qual cosa non è questo il luogo opportuno. Quando io dico che i tre primi anni del ginnasio devono essere consacrati a continuare le preparazioni generiche delle classi elementarissime, non intendo di escludere, in modo assoluto, la possibilità dell’insegnamento ordinato della storia, che deve esser fatto in linea regressiva o progressiva. Tenuto conto però

delle molte cose che in quei tre primi anni devono essere insegnate, e della convenienza ancora di dar larga preparazione alla intelligenza dei fatti storici, che più tardi devono essere trattati con tutti i mezzi della esposizione piena e corretta, stimo preferibile l’insegnamento occasionale a quello ordinato, in sul cominciare dei corsi ginnasiali. Perciò si trarrà occasione, così dalla interpretazione dei libri di lettura, come anche dalla esposizione geografica, per ingenerar nell’animo dei discenti l’abito di percorrere facilmente le serie ascendenti e discendenti dei fatti storici, e per dare ad un tempo medesimo una qualche precisione a moltissime notizie di archeologia, di etnografia, di tecnica e d’arte, che vengano di volta in volta comunicate. Né cotesta preparazione generale dee servire ad una specie sola di fatti storici; ché anzi conviene inclinar l’animo alla facile apprensione di tutti gli avvenimenti che dovran poi più tardi essere esposti; cosicché la forma dell’insegnamento occasionale non è da abbandonare nemmeno negli anni degli studi superiori. Data che sia una qualche consistenza a cotesta preparazione generale, si comincerà poi ad esporre con ordine la storia greca e la storia romana. Ciò è naturale, così per la natura di coteste storie, come per l’intima relazione in che esse si trovano con gli studi filologici. Nel caso poi che l’insegnamento religioso pigli posto fra le materie dell’istruzione ginnasiale, sarà cosa utile ed opportuna di trar partito dalla narrazione biblica, per dischiarare la storia dell’antico Egitto e delle grandi monarchie di Babilonia, di Ninive, della Media e della Persia, per quanto ciò è fattibile con la spiegazione elementare dell’Antico Testamento. La storia greco-romana s’insegnerà poi in due anni. Il piano didattico sarà quello che si è già in genere indicato innanzi. Si andrà, cioè, dai tempi accertati della storia greca fino ad Alessandro, e parimenti da quelli accertati della storia romana fino a Costantino. Il punto di partenza verrà rischiarato con le nozioni etnografiche, che saran poi in seguito intercalate nel corso della narrazione, quando occorra di dar notizia dei popoli stranieri (p. es. conquista della Gallia, invasione dei Cimbri ecc.). Le guerre persiane rimandano in linea regressiva alla storia degli antichi imperi dell’Asia; le guerre puniche rimandano allo stesso modo a quella dei Cartaginesi e dei Fenici. L’interesse principale bisogna però che sia concentrato su i grandi avvenimenti nazionali; cosicché le linee accessorie saranno la più parte dei casi abbandonate, per esser poi di volta in volta ripigliate di sotto in sopra, come per chiarire gl’intrecci. Gli è così, che a proposito delle guerre romane in Grecia ed in Asia si può ripigliare con breve racconto la storia dei Diadochi. Il ricollegamento generale si farà poi, in fine dei due corsi, con la ripetizione e col dialogo. L’esposizione deve trovare il suo naturale appoggio nella lettura dei libri originali, e massime di Erodoto, di Senofonte e di Arriano per quel che riguarda la storia greca; di Livio, di Polibio

e di Plutarco per quel che riguarda la romana. L’esposizione delle vicende dell’impero fino a Costantino vuol essere breve e sommaria, e da un certo punto in poi deve andar congiunta al racconto della nascita e della propagazione del Cristianesimo. Ciò rimanda all’istruzione religiosa che trova completamento nella lettura del Nuovo Testamento. Lo studio di Tacito è da rimettere ai corsi superiori. Nei due anni consecutivi si deve attendere in modo speciale all’insegnamento della storia medioevale, ed a quello della storia moderna. La coltura, che in generale si dà e si può dare nel corso degli studi ginnasiali, non prepara egualmente bene alla piena e perfetta intelligenza di cotesti due periodi storici. Poiché, se alla facile interpretazione della storia moderna si viene tuttodì preparando, così con la lettura degli scrittori nazionali e di alcuni fra i libri più notevoli delle letterature straniere, come anche con la dichiarazione che occasionalmente si dà di tutti i fatti e di tutti i rapporti della vita sociale; per rispetto alla storia del Medio Evo l’insegnante ginnasiale si trova sfornito di tutti quei mezzi intuitivi e di tutti quegli eccitamenti diretti della curiosità, che più che abbondare, sovrabbondano nello studio della vita antica. La qual cosa, se non è del tutto esatta per rispetto alla condizione degli altri paesi, è di certo esattissima in riguardo alla condizione nostra; perché si sa che a un bel punto della nostra storia letteraria, noi perdemmo ogni sorta di contatto con la vita del Medio Evo, e per l’influenza delle forme classiche abbandonammo affatto le tradizioni dell’età di mezzo. Chi voglia, dunque, usare della storia di quell’epoca, come di mezzo efficace per l’istruzione educativa, bisogna che faccia dei grandissimi sforzi per renderne viva l’immagine; sia con le riproduzioni e con le rifazioni di alcuni fra i più notevoli autori originali, sia con l’uso dei libri figurati, che alla storia dell’arte e della tecnica si riferiscono, e soprattutto poi col dare idea viva della cavalleria, della feodalità, e delle Crociate, adoperando qualche traduzione dei romanzi e dei poeti del tempo. In tutti i modi la storia medioevale vuol essere insegnata nella maniera più raccorciata che si possa. In altri paesi si potrà fare altrimenti; perché per ispeciali condizioni della tradizione letteraria vi sono di più facile accesso i documenti medioevali (p. es. tedesco dei tempi di mezzo, antico francese ed antico provenzale ecc.). Da noi, che in quella vece gli storici ed i poeti passarono tanto repentinamente dalla forma convenzionale latina alla maniera classica, gli è molto difficile si trovi mezzo di ravvivare con la lettura il quadro delle epoche così dette oscure, che corrono dalla caduta dell’impero d’occidente al risorgimento della nostra vita nazionale. Fa eccezione, per dir vero, la Divina Commedia, ma in essa non si trova che il lato speculativo della coscienza medioevale, e quel che è peggio in una forma la quale, non che chiarire le altre

cose, ha bisogno essa stessa della più minuta dichiarazione, per essere intesa. L’indicazione schematica della storia del Medio Evo è stata data innanzi. Si ripete qui con qualche precisione maggiore. Alla narrazione della caduta dell’impero di Occidente si vorrà far precedere la descrizione etnografica dei popoli invasori. Del loro insediamento nelle varie provincie dell’impero basterà dare il quadro complessivo, con l’indicazione delle principali vicende. La storia bisantina sarà abbandonata da Eraclio in giù; per esser poi ripigliata, in forma regressiva, a proposito delle Crociate, e più tardi a proposito della Rinascenza. La storia del Maomettanismo sarà seguita sino al disfacimento del Califato; per essere ripigliata in isguardo retrospettivo a proposito delle Crociate stesse. Si seguirà in forma di sincronismo la storia degli stati d’origine germanica fino a Carlomagno, e poi si toccheranno le vicende dell’Impero fino a Barbarossa. A misura che la vita nazionale comincia a muoversi con qualche libertà per entro ai grandi sistemi del Papato e dell’Impero, la storia italiana deve pigliar carattere più preciso e più spiccato: massime per rispetto ai fatti generali della cavalleria e delle Crociate. Di fronte ai comuni stanno le monarchie, che fan tentativo di consolidarsi; ed in questo contrasto trova la ragione sua il moto crescente della libertà, e poi il Rinascimento. Si entra quindi nell’epoca delle grandi scoverte geografiche, della riforma religiosa, e della rivoluzione intellettuale che preparò la civiltà moderna. La storia diventa da questo punto in poi più chiara, cosicché acquista di nuovo la consistenza di un obbietto capace di muover lo spirito nei più svariati sensi. Per ciò della storia moderna non occorre di tener qui parola molto a lungo. Verrà trattata in due grandi periodi; cioè a dire dalla Rinascenza alla pace di Westfalia, e da questa alla Restaurazione. In cotesti due periodi la trattazione sincronistica cederà il posto a quella continuativa, quando si debba esporre i fatti d’importanza generale. La storia che corre dalla Restaurazione in poi non credo possa divenire obbietto di esposizione ordinata. Si corre di fatti rischio di far perdere all’insegnamento il carattere disinteressato che deve serbare, perché produca degli effetti educativi; oltre di che non è facile tenersi in una giusta orientazione per rispetto ad essa. Giova però la dichiarazione delle presenti condizioni del mondo, con qualche sguardo retrospettivo alle cause prossime, a quelle cioè della rivoluzione francese, della conquista napoleonica, e del moto delle idee liberali e nazionali. Nell’ultimo anno conviene dare opera al riassunto razionale. L’uso dei manuali cronologici e dei trattati di storia universale, vuol essere associato alla ripetizione fatta di viva voce, in maniera, cioè, di muovere la conversazione. Il movimento metodico dello spirito, per entro alle varie serie degli accadimenti,

deve pigliar forma di linee ordinate in vario modo, che s’incontrino, si prolunghino, si ripieghino. Perché poi cotesta maniera figurativa non divenga nuda raccolta di segni mnemonici, si dee combinarla con la facile riproduzione dei vivi colori dei fatti speciali. Nondimeno essa ha per sé medesima una grande importanza educativa; poiché, quando sia sorretta dall’abito del ragionamento logico, conferisce allo spirito la capacità di rappresentarsi la gran seguela degli umani avvenimenti come un sistema complesso di cause e di effetti, di mezzi e di fini, dalla qual cosa poi conseguita, che l’interesse religioso, o speculativo che si dica, pigli forma e sede stabile nell’animo. E qui basta di coteste applicazioni. Nella trattazione completa della didattica bisogna specializzare ancora di più; ma non è il caso di far così in questo luogo. Basterà notare, che a render precisi cotesti concetti, di maniera che si possa poi ridurli ad elemento di programma, bisogna tener conto di tutte le più piccole differenze in che riposa il carattere specifico di ciascuna scuola, ed aver eziandio considerazione alle varie materie, che in ciascuna classe contemporaneamente s’insegnano, per poter combinare le vedute generali con le difficoltà estrinseche degli orari. Oltre di che bisogna che la didattica si occupi anche delle scuole che son specialmente destinate alla istruzione delle giovanette; e di tutti quegli istituti in cui si dà preparazione di coltura professionale a coloro che dovran poi più tardi attendere all’ufficio dell’insegnamento. Da ultimo si vuol notare, che sebbene la didattica o pedagogica non comprenda gl’insegnamenti universitari, pure non l’è del tutto indifferente la considerazione dei modi che nell’insegnamento della storia e delle lettere si suole dalle università tenere; perché ne derivano molte delle buone e delle cattive influenze, che poi governano l’indirizzo delle scuole, che son destinate all’istruzione educativa.

[CONCLUSIONE] In luogo di porre qui, in fine di questo opuscolo, un indice od un sommario delle questioni da me trattate, darò come uno sguardo retrospettivo a tutto il lavoro; con l’intento di chiarire in qualche maniera quei legami fra le diverse parti, che per avventura fossero parsi oscuri. Dei dieci capitoli, in cui la trattazione dell’argomento è stata compartita, i tre primi riguardano i concetti preliminari; i cinque a quelli successivi considerano e risolvono la questione nella generalità sua, ossia, nella ragione dei fini e nella scelta dei mezzi; i due ultimi poi applicano all’ordinamento speciale delle principalissime forme di scuola i risultamenti cui s’è giunti innanzi. Cotesta maniera di procedimento è, per così dire, di rigore, avuto riguardo alla maniera che io ho d’intendere i problemi didattici; perché risponde alla divisione propria e naturale della pedagogica in generale ed in ispeciale, e alla suddivisione della prima negli aspetti preliminari dell’introduzione, nei centrali del fine, nei consecutivi dei mezzi interiori ed esteriori, che sono occorrenti all’attuazione del fine stesso. Di certo se io avessi potuto, nello scrivere questa monografia, giovarmi del rinvio a quei libri, nei quali si trova esposto il sistema di pedagogia in cui questa mia speciale trattazione ha il suo naturale fondamento, mi sarebbe riuscito di andar più spedito nel mio discorso, e di usare di maggiore larghezza e di maggiore libertà nel fare le applicazioni. Ma come la pedagogica, che io suppongo a guisa di preliminare scientifico per la risoluzione dei problemi didattici, è tutt’altro che una cosa generalmente nota, o facile a conoscersi da chi non abbia fatto lungo cammino nella ricerca psicologica, etica e metodologica, così in luogo di rimandare ai libri e ai trattati, il che sarebbe stato un vano lusso di citazione, ho preferito di dare alla considerazione dell’argomento quella maggiore pienezza di risguardi, che era conveniente per farla chiara sotto tutti i lati. D’altra parte, sebbene dovesse parermi cosa agevole il ricavare dalle generalità che son venuto esponendo delle conclusioni più pratiche e più minute, ho stimato fosse superfluo l’andare fino in fine nelle speciali applicazioni, perché non è proprio il caso di scrivere qui un programma di scuola, od un’istruzione per gl’insegnanti. Ed ora che ho detto, che nel trattare il mio argomento io mi sono sforzato di dare alla esposizione la maggiore compitezza possibile, mostrerò col fatto come dall’ordine con che questo lavoro è scritto si possa avere non soltanto idea della speciale questione didattica, che è indicata in fronte all’opuscolo, ma eziandio notizia abbastanza precisa dell’intero organismo della pedagogica; di quella cioè

a dire, che io seguo nella pubblicazione di queste monografie. Innanzi tutto il divario che corre fra la pedagogica generale e quella speciale, può vedersi espresso con qualche evidenza nella maniera diversa con che dapprima si è considerata la questione in sé, e poi dopo si è discorso dell’ordinamento scolastico, cui giova di dar regola coi concetti generali della didattica. Cotesto divario non è punto da intendere come opposizione; ché non ve ne può essere di fatti fra la scienza dell’educazione e gl’istituti che son destinati alla istruzione ordinata delle diverse classi sociali. Ma il divario è principalmente in questo, che mentre la pedagogica procede ordinatamente, dal concetto dell’educazione preso nella assolutezza sua alla ricerca dei mezzi esteriori ed interiori che occorrono per realizzarlo, la scuola, come fatto sociale, va soggetta ad un vario giudizio, le cui norme devono cercarsi più in su che nelle ragioni storiche del nascimento suo. Da ciò dipende, che quando la pedagogica speciale fa prova di accomodarsi praticamente alla varia indole degli ordinamenti scolastici, questi dal canto loro, nell’avvicinarsi all’idea generale dell’educazione, si spogliano dell’immediato empirismo delle origini, per pigliare la forma pregevole d’istituzioni condotte in modo razionale. E si vuol notare, a maggior chiarimento di cotesta distinzione, che accade presso a poco il medesimo in ogni altra scienza che sia pratica nel senso esatto della parola; come ad esempio la politica. Perché questa, di fatti, non è da considerare come l’applicazione pura e semplice del concetto etico dello stato alle molteplici forme storiche del vivere sociale; ma sì bene dee consistere nella felice combinazione della notizia storica e psicologica della origine e dello sviluppo naturale della società, con l’idea generale che di essa si vien formulando nell’etica. Da cotesta combinazione dipende il carattere precettistico delle scienze pratiche; sotto il qual nome è intesa anche la tecnica delle arti ed in ispecie la poetica. Ora è chiaro, che per dare alla pedagogica quella compitezza interiore, che occorre perché il concetto suo faccia da regolativo delle istituzioni scolastiche, bisogna primieramente presentarne il disegno astratto, nel discorso generale sui fini e su la possibilità dell’educazione. E come i fini non possono essere accidentali, gli è per ciò che la considerazione del problema educativo rimanda necessariamente all’etica, come alla scienza che determina le forme interiori in cui riposano i concetti della morale perfezione. D’altra parte, poi, come la possibilità dell’educazione suppone la conoscenza della natura umana nel suo normale svolgimento, procede da ciò che la psicologia debba indicare quali sieno nella materia subjecta8 le forme e i modi d’essere su cui l’azione educativa può spiegarsi con sicurezza. Determinato il fine e dichiarata la possibilità dell’educazione, il concetto di essa assume contorno preciso, e partizione

naturale. Il contorno e la partizione cadono entro certi limiti di età, che non si può cambiare a capriccio: e ciò riduce in giusti confini l’azione educativa, che in conseguenza piglia natura di compito, e non di attività che si continui indefinitamente. Delle parti, o meglio, delle funzioni di cotesto compito si è data poi un’idea sufficiente, per quello almeno che importava a dichiarare la nozione della didattica. La teoria dell’istruzione non ha importanza, se non quando viene considerata in rapporto ai fini educativi; e gli è per ciò, che tutto quello che si è detto intorno alle materie ed ai metodi della trattazione, si è cercato di dedurlo via via dal concetto generale di cotesti fini. Così solo, a mio avviso, la didattica può avere carattere di scienza, o per lo meno di disciplina esatta, fondata su i presupposti scientifici della psicologia. E per ricordare ora in ispecial modo l’argomento di questa prima monografia, dirò come paia a me d’averlo trattato sotto tutti gli aspetti, e di non aver omesso nulla, che possa dare conveniente idea, così delle ragioni generali dell’insegnamento storico, come delle particolari attinenze con le altre materie. Il discorso si è sempre mosso dentro i limiti della cosa, e in quell’ordine che più importava alla chiarezza dell’esposizione. Ho evitato il più delle volte di dare precetti troppo precisi, non perché non avessi in mente le formule cui possono essere ridotti, quando si voglia scendere alla pratica particolare; ma per una ragione intrinseca alla natura stessa delle questioni didattiche, che si dee, cioè, a un bel punto far sosta, per dar luogo all’esercizio giudizioso dell’arte, ed al tatto pratico dell’educatore. E a tal proposito aggiungo qui una osservazione. Allo stesso modo che non la politica ma i politici governano lo stato, non è la pedagogia ma sì il pedagogo che educa. Per ciò chiunque pigli a scrivere dell’una o dell’altra di queste due scienze, che son tanto affini per l’indole e per il metodo, deve guardarsi bene dall’attribuire al suo lavoro teoretico una importanza pratica maggiore del conveniente. Si sa bene che non v’ha pratica ordinata e razionale dove non v’ha cognizione piena ed esatta degli elementi generali, anzi direi ideali della pratica stessa. Ma l’arte del fare consiste in ben altro che nella meccanica riproduzione di una somma di precetti: e per ciò, se è vero che l’ingegno pedagogico si forma con lo studio generale della scienza, non è a dire che questa possa in alcuna maniera mai sostituirsi a quella virtù individuale dell’operazione ordinata, che giustamente chiamasi tatto. In una parola, chi spinge la precettistica di là da un certo segno, dà prova d’ignorare da quali riposte e specialissime qualità dell’animo si origini l’attitudine educativa, e rischia di offendere il senso vivo e scientifico della cosa stessa, di cui si vuol fare minuzioso espositore. Mi par bene di ricordare, che la scienza che io intendo di esporre in queste

monografie, intesa in un certo senso conta moltissimi cultori intesa in un certo altro ne conta poi pochissimi. Ciò vuol dire che di pedagogia scientifica se n’è fatta fino ad ora assai poca; e di cotesta, che è disciplina filosofica, io ho preso ad occuparmi. Del resto. persuaso come io sono della poca, anzi della nessuna importanza della polemica, massime quando non si tratti di scrivere per le riviste e pei giornali, mi sono astenuto ora e mi asterrò quasi sempre in seguito dal far citazioni e dall’indicare in quali punti io dissenta dai più noti scrittori di pedagogia che abbian preso a trattare dei medesimi argomenti.

LEZIONI DI PEDAGOGIA pubblicate da Emilio Taramasso su «L’Avvenire dei Maestri Elementari Italiani» [1888-89]

LEZIONE 1 Che cosa fa il maestro quando entra nella scuola? Dà l’istruzione e l’educazione ad un subbietto a seconda del bisogno sociale e politico. La pedagogia è una somma di cognizioni psicologiche e logiche alla portata di tutti. Il maestro deve fornire la coltura popolare, ma quale qualità di tale coltura? Deve fornire gli elementi, ma gli elementi di che? In che deve dunque consistere la coltura popolare? Nel leggere e nello scrivere, ma che cosa? Insegnare vuol dire proporre dei quesiti e indicare la via per risolverli. Che cosa fa dunque il maestro? Concorre a fare la coltura: che cosa è la coltura? Quale è il fine che si propone il maestro? Quali sono le capacità tecniche che si richiedono nel maestro? Quale è la serie delle operazioni che deve compiere per arrivare alla coltura? Produrre dell’attività. La pedagogia dunque è la scienza dell’arte dell’insegnare per fornire a tutti i fanciulli gli elementi della coltura, oppure per rendere il fanciullo colto o capace di produrre della coltura. Ma noi abbiamo da istruire i fanciulli, e il periodo dell’istruzione coincide appunto colla formazione dello spirito, ossia l’istruzione cade quando lo spirito è nella maggiore evoluzione, quindi la pedagogia deve considerarsi come arte riflessa. Il maestro dunque istruisce formando, e quindi la scuola non è che un aiuto e correttivo di questa formazione. Il fine del maestro è di creare l’attenzione e soddisfarla, metodo che genera i suoi effetti per produrre dell’azione. Il maestro dunque non è che un collaboratore della mente del fanciullo per condurlo alla coltura. Che cosa è dunque la coltura? Non la scienza e non la tecnica. Cercheremo di risolvere nelle successive lezioni questi quesiti.

LEZIONE 2 Oggi cominceremo a parlare del vero concetto dell’educazione. Il concetto che cerchiamo abbraccia elementi psicologici, sociali, didattici e scolastici. In ogni atto dell’uomo entra l’educazione perché essa comprende tutto l’uomo. La pedagogia si occupa dello svolgimento dello spirito dietro fattori intenzionali per parte dell’educatore, ma quando l’uomo diventa autonomo, allora non si può più parlare di educazione propriamente detta. Nel concetto dell’educazione deve entrare il periodo della vita quando ha luogo la prima formazione dello spirito, e dopo l’educazione vera cessa. La pedagogia è la scienza dell’arte dell’insegnare, e l’uomo è un organismo entro cui è una facoltà psichica. Noi non andremo a cercare se l’uomo sia composto di corpo e di anima; per noi l’importante è di constatare l’esistenza dell’attività psichica. L’insegnante ha bisogno di conoscere il processo di questa attività, e se il maestro non lo conosce, sbaglia tutto il suo insegnamento. Egli talvolta sbaglia perché non conosce il prima e il dopo della mente del fanciullo. Questi sono gli addentellati per far capire. Questa attività è tutta differente dalle altre; essa non è tecnica, ma filosofica. Questo fattore porta con sé la psicologia. Il periodo della formazione psichica è differente dalla esercitazione psichica di quando l’uomo è giunto al suo pieno sviluppo. Ciò che vien dopo è esercizio, è sviluppo del periodo di prima. Questa cognizione della psicologia è la cognizione della genesi dello spirito, e la lingua si considera come il perno dell’educazione perché essa aiuta lo sviluppo dello spirito. La lingua non è un mezzo di comunicazione, ma un mezzo d’incremento dello spirito, e, studiando le parole, si potrebbe fare tutto il periodo genetico dello spirito. I fanciulli devono parlare, perché la parola è il segnacolo della formazione dello spirito. Il vero possesso del saputo sta nell’arte del parlare. Ma oltre al fattore psicologico vi sono i fattori sociali, didattici e scolastici, i quali sono fattori concorrenti. Cosicché la coltura popolare è un tentativo di modificare le attività concorrenti ad uno stato sociale secondo un ideale prefisso. La didattica astratta è l’adattamento della materia e del libro all’attività psichica del fanciullo. La didattica suppone un tirocinio, perché per fare il maestro ci vuole la tecnicità didattica, e il maestro deve tenere molto a questa tecnica come i maestri tedeschi tengono alla loro pedanteria che dà loro un carattere speciale. Il maestro deve essere quindi preparato per fare imparare, in guisa che la didattica diventi tecnica. Egli deve far entrare la nozione in tutti i gradi dello spirito, e perciò studiare

questa tecnica, lasciando da parte le astruserie, ad imitazione del detto di Herbart: «Io come filosofo non mi occupo della pedagogia astratta»1. La scuola come semplice fattore scolastico è un fattore dell’educazione. Esso reagisce e, come abito di convivenza, porta dei danni alla didattica, e, oltre a vincere certe abitudini sociali, porta con sé difficoltà scolastiche.

LEZIONE 3 Il problema dell’educazione è un problema pratico e difficile, e conviene distinguerne gli elementi essenziali. La scuola riceve delle individualità già in qualche modo formate, dei subbietti formati, e ogni parola che il maestro dice, trova una rifrazione nella mente del fanciullo. Il maestro si deve preoccupare di tutto ciò che v’è d’erroneo nell’educazione, e fare che qualunque sua azione educativa sia miglioratrice, modificatrice; che sia sorrettrice delle tendenze naturali del fanciullo, non abolitrice. La questione della scuola popolare non è questione puramente amministrativa, ma sociale e morale. Col crescere degli anni cresce la reazione all’azione educatrice, e cresce coll’individualità. L’educazione non deve servire a deprimere l’individualità, ma deve convertirla in persona. E se si è combattuta l’educazione dei cenobi, ciò non fu per spirito anticlericale, ma perché la loro educazione deprimeva l’individualità. La personalità ha un valore infinito, e senza di essa non vi è né libertà, né morale. L’azione educativa che ha luogo nel periodo compreso tra la fanciullezza e la maturità si converte in personalità umana. La nostra disciplina rispetta l’individualità, perché l’istruire non è rifare da capo tutta la vita intellettuale, ma è dirigere le attitudini naturali dell’individuo. L’azione didattica trova aiuto in certe disposizioni naturali che si svolgono indipendentemente dall’azione educatrice. Il maestro non deve credersi il creatore del fanciullo, ma il modellatore di certe disposizioni naturali, e le attitudini della mente del fanciullo non sono un substrato che si deve lavorare. L’educatore non può lavorare cervelloticamente, ma egli, istruendo, deve divenire l’organo della civiltà. Egli non è organo dell’intellettualità, ma un organo dello spirito dei nostri tempi, e fa che la scuola sia un compendio della civiltà, adoperando lo stesso procedimento, abbreviato, che tennero i selvaggi per arrivare alla civiltà. La pedagogia non è un fatto naturale, ma è una tecnica colla quale il maestro deve fare ottimamente una cosa piccola. L’educatore non ha da trasformare le inclinazioni del fanciullo, ma una curiosità da trasformare in abitudine. Il fanciullo si esplica come curiosità, e la didattica è il modo di esercitare ordinatamente la curiosità istintiva.

LEZIONE 4 Il metodo è il processo del capire in colui che deve imparare; vuol dire generazione di cognizioni, successivi atti d’intellezione di colui che impara. Nell’insegnante il metodo è produrre il capire, quindi noi non dobbiamo considerarci come generatori di cognizioni. I fanciulli non devono conoscere le definizioni, ma ci devono arrivare. Che cosa vuol dire metodo in pedagogia? Bisogna studiare le basi psicologiche di questa domanda. Il fatto più generale con cui si manifesta la vita, è il parlare. Se osserviamo un oggetto, esso non è veramente nostro, finché non ne parliamo. La parola è attività dello spirito e il bisogno di approssimare le cose esterne al nostro uso pratico, di metterci in contatto coll’oggetto. L’uso dell’oggetto si deve convertire in esame dell’oggetto. La nozione delle cose si può ottenere colla teoria e colla pratica. La coltura popolare non è che le prime nozioni da cui si staccano le particolari scienze e le particolari discipline. Tutte le cognizioni del fanciullo hanno la loro unità nella mente del fanciullo, e si vanno allargando con la naturale osservazione. Nell’arte del maestro v’è una dissomiglianza fra quello che insegna e quello che deve sapere. Riguardo alle materie della scuola popolare non è questione del molto o del poco, del grande o del piccolo, ma è questione del prima e del dopo, è qualitativo degli elementi che non sono il tutto, ma che sono i principii generatori del tutto. Non bisogna confondere la scuola popolare colla popolarizzazione della scienza: la coltura popolare del gran mondo non è che superfettazione. Nella scuola popolare non si deve avere la popolarizzazione della scienza, ma l’avviamento al capire. La materia del saputo, deve generare le attitudini del sapere. La coltura popolare suppone del maestro la rigorosa conoscenza degli elementi. Come si fa a conoscere l’uomo colto dall’incolto? La coltura non è scienza, non tecnica, non morale, né religione. La coltura è universalità degli interessi intellettuali, e la partecipazione dello spirito agli interessi sociali; è una disposizione complessiva dello spirito. Uomo colto è quello che ha l’universalità e versalità dello spirito.

LEZIONE 5 Il carattere è per se stesso un’opera estetica, e l’uomo estetico è esteticamente formato. L’estetica è un segnacolo della coltura, sia del bambino che scrive, sia dell’artista che modella una statua. Il gusto è assentire alla forma estetica. Nella scuola vi sono due obblighi per formare la morale: l’obbedienza o disciplina esterna, l’autorità interna, che si ottiene per mezzo del gusto, il primo sentimento morale, che si forma esteticamente. Senza la pena e la coercizione, non intendo che si possa andare avanti nella scuola; il ragionamento del capire è diverso dal gusto. Abbiamo dunque un elemento della coltura nella capacità di appropriarsi i sentimenti altrui, di renderseli propri, e farne oggetto dell’opera nostra, cioè attitudine o sentimento simpatetico, partecipazione spirituale, cioè avere chiarezza empirica e attiduzione. Chi sa di essere parte di un tutto sociale, è uomo perfetto. L’uomo tanto più vale quanto è più parte integrale di un tutto.

LEZIONE 6 La coltura è un modo di essere dello spirito, e si ottiene per mezzo di cose, parole e segni. Dovunque noi ci rivolgiamo, tanto nel mondo umano, quanto in quello della natura, tutto è cose e segni. Ma non bisogna confondere il segno colla forma. Tutto il progresso della nostra coltura riposa su questo principio: che il pensiero è capace di condensamento, e che la civiltà si trasmette per abbreviazioni. Ma, per la formazione della scuola popolare, noi dobbiamo cercare quella parte della coltura acquistata dai secoli passati, che è estensibile alla generazione vivente. E la parola che cosa significa? Il parlare non è altro che l’estrinsecazione di noi stessi, e chi parla, dice le cose e i segni messi in rapporto colla nostra vita esteriore. Nella coltura tanto siamo, per quanto parliamo, e primo oggetto della coltura è di sostituire al dialetto la lingua nazionale, cioè l’organo storico nazionale che si riflette nella letteratura. Il parlare non è ornamento, ma è l’essenza dello spirito umano, e, per la lingua, noi intendiamo un’attività dello spirito. E i libri di lettura devono essere fatti da uomini eminenti per dottrina, che sappiano trasfondere nel libro lo spirito e il sentimento nazionale.

LEZIONE 7 Il saputo si deve mettere in relazione colle attitudini della mente. Ma occorre stabilire il limite della scuola popolare. Essa piglia le cognizioni presenti, le cognizioni che, appena comunicate, rimangono attuate. La scuola popolare è fondata sulla lingua nazionale, la quale non deve mai essere adoperata con senso storico e filologico. Raramente vi si può introdurre l’uso di una lingua straniera. Sarebbe facile stabilire le materie della scuola popolare, se le conoscenze umane si succedessero come gli anelli di una catena. Ma quale specie di formazione mentale dobbiamo ottenere? Dobbiamo prendere il quantitativo possibile a un giovinetto di quattordici anni. Il limite delle cognizioni è il piano della scuola popolare. Di dove devo attingere il criterio della storia che si deve insegnare nella scuola popolare? La storia può essere notizia dei fatti politici, non critica, e incomincia a interessarci del presente, non del passato. L’insegnamento della storia deve essere un lavoro di negazione, e deve insegnarsi la parte che è più intuibile, cioè la caratteristica di alcuni fatti. Questo insegnamento, il quale deve essere fatto dalla viva voce del maestro, deve comprendere la storia nazionale in quanto viva ed efficace ancora, la storia della recente formazione del proprio stato, in guisa che tutti possano apportarvi un libero e giusto criterio. Si deve raccontare il certo dei fatti notevoli; in questo sta la vera biografia, rappresentante una serie d’idee e di sentimenti. Il programma della scuola popolare sta nella coscienza del fine e del limite, e nella orientazione della vita presente. La storia può comprendere il passato, per quanto al presente si riferisce. Il prossimo, coi fatti notevoli e i personaggi esemplari, è oggetto della scuola popolare.

LEZIONE 8 Il limite della scuola popolare non può essere di subordinazione ad altro insegnamento, ma deve definire la totalità della coltura di questa scuola. La scuola popolare è il frutto della democrazia moderna, ed è costituita dal limite, dal metodo e dai mezzi. La scuola popolare vuol dire scuola per tutte le classi sociali, non vuol dire né critica, né scientifica. Il maestro deve conoscere il limite dell’insegnabile, ed avere la consapevolezza del metodo didattico, che consiste nel saper mettere in relazione la nozione della cosa colla mente che deve apprendere. La mente del maestro deve abbracciare tutto l’insegnabile. La coltura del maestro consta di cose, ma principalmente consiste nell’attitudine all’uso di queste cose. E la scuola popolare deve essere fatta dalla lettura di pochi libri che acquistino valore per mezzo dell’azione moltiplicatrice del maestro, e dal conversare. La geografia è la cognizione morfologica della superficie della terra. Fino a che punto può arrivare la scuola popolare nello studio della geografia? Un po’ più avanti del limite della storia, anche perché è più intuitibile.

LEZIONE 9 La costituzione della scuola popolare consiste nell’indipendenza della scuola; nella preparazione specifica del maestro, e nella formazione di libri ad hoc. Nella scuola popolare, che cosa si deve leggere, e fino a che punto si deve leggere? Il leggere può essere designato dalla intuizione, cioè dalla immediatezza, e nella scuola popolare si può leggere, ciò che può essere intuito o immediato. La lettura deve essere fatta sopra libri accessibili al comune sentimento. Ogni atto del maestro deve operare sulla interezza dello spirito di colui che apprende, e ciò che s’insegna, deve essere certo. L’effetto della scuola popolare deve essere prodotto dall’unità del metodo, e dall’unità del maestro, e si deve adoperare un libro unico, che contenga un complesso di materie da destare l’interesse spirituale di tutti.

LEZIONE 10 Nella scuola popolare l’essenziale è il maestro appositamente preparato, e la sua coltura è la sua valutazione pedagogica degli effetti dell’insegnamento. I suoi errori non sono intellettuali, ma morali: e rovinano la scuola. Le ispezioni sono l’organo principale della scuola popolare, e l’amministrazione scolastica deve essere un ufficio di vigilanza. È dalle ispezioni che l’Inghilterra ha ricavato il codice delle massime della scuola. Il limite e il contenuto sono l’essenziale della scuola popolare, e i libri devono essere qualificativi; non quantitativi. Essi non si fanno artificialmente, ma devono essere il risultato dell’esperienza. Io invidio i libri degli inglesi che fanno pensare. Determiniamo il limite delle conoscenze in ordine alla natura. Per la storia, non fatti antichi, non critica, non filologia. Per riguardo alle scienze naturali, si tratta della cognizione della cosa, non della scienza della cosa, e si deve sfuggire lo strano, il meraviglioso, l’astratto. La cognizione deve essere data in modo descrittivo; ma sensato e creare attitudine a penetrare gli oggetti più prossimi. Questo insegnamento deve essere, fatto con oggetti reali, e a viva voce, con speciale riguardo all’utilità della vita. Le scienze naturali costituiscono diversi gruppi fra cui la fisica e le scienze morfologiche. Quale coltura di queste scienze deve avere il maestro? L’osservazione diretta all’esperimento. Cosicché la coltura del maestro deve fondarsi sopra una cognizione accurata sopra l’attitudine a maneggiare gl’istrumenti in guisa da poter rifare, in piccolo, l’esperimento. Quindi il maestro deve essere fornito di apparati elementari, ridotti a poco prezzo, e appositamente preparati, e l’esperimento deve essere diretto a estirpare la superstizione, formando l’abitudine a credere che quello che accade, è semplicemente normale. Insomma, gli esperimenti devono formare nel fanciullo il sentimento della normalità dei fatti, e creare la convinzione che ciò che avviene non è effetto di una miracolosa potenza.

LEZIONE 11 Per l’insegnamento delle scienze naturali nella scuola popolare, è da mettersi in prima linea la fisica, e poi l’anatomia umana. E, prima di tutto, la fisica perché atta ad infondere il sentimento della verità delle leggi della natura, e unico mezzo per combattere la superstizione. Al maestro, poi, non si può comandare ciò che deve fare, perché egli deve portare nella scuola il convincimento razionale di ciò che fa, e l’ufficio della scuola popolare è di produrre lo spostamento delle classi sociali, nel senso che siano tolti i privilegi a certe classi, e siano concessi certi diritti ad altre. La scuola popolare non deve essere religiosa, perché farebbe l’interesse di una classe, non anticlericale, perché farebbe pure l’interesse di un’altra classe, ma deve essere razionale, cioè, messa in rapporto del sentimento della ragione umana. Non politica, perché il maestro non deve essere un agente del governo, giacché nessuno ha diritto ad impegnare le opinioni delle generazioni future. Il maestro, colla puntualità, colla disciplina, avvezza la tecnicità dello spirito. Ma nella scuola si deve imparare qualche cosa. Che cosa? O l’arte delle conoscenze, o tutto. E prima di tutto si deve imparare a scrivere, cioè a tradurre il pensiero in scrittura, e la scrittura in pensiero. Si deve imparare anche il disegno, ma non l’arte, bensì l’attitudine a rappresentare le forme. Per la parte strumentale, si deve imparare a maneggiare qualche cosa, ma la strumentalità deve essere specifica, cioè adottata secondo i luoghi. Tutti i frequentatori devono acquistare l’abitudine al lavoro e il sentimento di quest’abitudine, non la preparazione alle arti, ma a maneggiare gli strumenti più elementari.

LEZIONE 12 Bisogna ridurre gli effetti della scuola popolare a modeste proporzioni, giacché si illude chi crede ch’essa abbia da rinnovare la società. La Sassonia, dove l’analfabetismo non esiste, e dove la frequenza alla scuola è al massimo grado, è il paese dove avvengono più suicidi, e dove sono più figli illegittimi. Teniamo distinta la questione della scuola popolare dalla rinnovazione della società, perché la scuola popolare non è l’organo della civiltà, ma ne è l’effetto; non è il soggetto ma è la possibilità d’un miglioramento sociale. Indicheremo il valore didattico di questa scuola, prendendo ad esame l’arte del comporre. Il pretendere che ragazzi di otto o nove anni abbiano a comporre, e il più grande obbrobrio fatto alla pedagogia. Lo scrivere, prima di tutto è un fatto strumentale estraneo al gusto e all’arte, e la strumentalità dello scrivere accompagna per tutta la vita. Lasciamo questa parte strumentale. Quale specie di componimenti si può arrivar a fare nella scuola popolare? In quale modo ci si può arrivare? Risponderemo a queste domande. I Francesi sanno scrivere, cioè hanno trovato il modo di mettere i pensieri in un ordine da fare impressione su chi legge. Da noi si parte dal principio che l’arte del comporre è una tecnica, e si vuole insegnare a comporre troppo presto. Ma bisogna incominciare tardi, e scrivere poco. Del resto scrive bene di una cosa colui che ne sa parlare. Uno degli elementi dello scrivere è il possesso di parole, e nel comporre concorrono tutte le cognizioni; anzi la composizione è la riprova di tutte le nozioni. Uno sa tanto, quanto parla, e quando i ragazzi non sanno fare un racconto a voce, è inutile che glielo facciate scrivere. Lo scrivere deve essere fatto come una soddisfazione. Le anime giovanili devono spaziare nelle cognizioni, ma non ne devono sentire il peso. Quello che si può insegnare tecnicamente è la disposizione, cioè di mettere colui che scrive nella condizione di orientarsi, e di allineare i propri pensieri.

LEZIONE 13 La scuola popolare obbligatoria è una questione sociale, è un problema di politica pratica. In Inghilterra, nel 1870, la scuola obbligatoria fu una questione assai grossa. E il carattere dell’obbligatorietà in Italia è un bisogno desunto dalle statistiche dell’anno scorso, giacché si verificarono, sopra cento matrimoni, i seguenti sposi che non hanno firmato: a Forlì 72, a Siena 60 e a Cosenza 92. Bisogna studiare gli effetti della scuola popolare nei paesi dove esiste. In Germania si fa una critica forte contro di essa, perché genera la reazione spirituale. Ciò che lo stato impone, deve corrispondere ad un mandato e ad un bisogno sociale, e si deve cercare che la scuola popolare non offuschi le attitudini naturali. Quale è la parte del nostro spirito che bisogna lasciar libera dalla violenza scolastica? Quella parte per cui occorre che la scuola non appartenga a nessuna setta, né sociale, né religiosa. Il governo deve dare alla scuola il carattere di tutela morale. L’ordinamento della scuola popolare, per riguardo alla religione, deve essere neutro, e l’obbligatorietà deve essere una pura cautela. La scuola popolare non può esistere senza un’amministrazione che comprenda gli organi della responsabilità, con un organismo che abbia fondamento nella legge, e con regolamenti adattati ai luoghi.

LEZIONE 14 L’uomo colto non può essere indifferente alla questione della vita, e il fatto del sentimento religioso è così comune negli uomini che è difficile trovare un popolo che abbia questo sentimento allo stato di atrofia. Dovunque esiste una divinità religiosa si è stabilito l’insegnamento dell’abito intellettuale della credenza. Dato il disegno d’una scuola popolare obbligatoria, dato l’ufficio che deve avere, perché si deve escludere l’insegnamento religioso? Non si può fare una scuola in servizio di una classe, giacché imporre l’insegnamento religioso vuol dire imporre anche la pratica della religione. Inoltre vi è incoerenza fra l’obbligatorietà e la libertà di coscienza. Ma per insegnamento religioso si deve intendere l’insegnamento di cose religiose o l’impulso della pratica della religione? Il maestro, entrando nella questione della religiosità, cercherà di corroborarla o d’indebolirla? L’insegnamento religioso sfugge alla competenza di chi è obbligato a insegnare, e il maestro non può attaccare o difendere la religione. Dato il principio della tolleranza, nella scuola non può entrare nulla che sia credenza, ma il maestro può farci entrare, a titolo di notiziario, il complesso dei fatti religiosi. Questa notizia delle cose religiose entra nella coltura, e quale ne sarà l’effetto pedagogico? La scienza ha combattuto contro la religione, ma la scienza d’oggi non combatte più tanto è sicura di sé.

LEZIONE 15 La pedagogia è una scienza filosofica, derivata dall’etica e dalla psicologia, e ne riesce difficile l’applicazione. Spesso parlando del metodo, si confonde la maniera, la tecnica, il tatto o saper fare. La maniera è indifferente al metodo, sebbene lo comprenda. Ha buon metodo colui che promuove l’osservazione, che stimola la percezione; insomma il metodo e il processo del capire. Per arrivare all’intendere, bisogna seguire una via, e anche i genii devono seguire questo procedimento, ma solamente lo fanno con maggiore rapidità. Dato questo processo, le cose esteriori saranno più o meno conducenti al fine. Il dialogo non è che una finzione del processo del capire. Il metodo ha tre aspetti che dipendono dalle cose che si devono insegnare, e può essere dichiarativo, espositivo, genetico evolutivo. Nell’insegnare vi sono alcune cose che si dichiarano, si determinano, altre che si spongono e successivamente si rappresentano; altre infine che si dimostrano. L’ultima specie del metodo, cioè l’evolutivo, partecipa del primo e del secondo, giacché nella dimostrazione si deve spesso ricorrere alla dichiarazione e all’esposizione, e così resta meglio chiarito il valore di queste tre parti del metodo. La dichiarazione ha bisogno di un’infinità di accorgimenti i quali si rivelano per lo più nel parlare.

LEZIONE 16 Non si deve confondere il metodo col tatto, il quale è l’individuazione del metodo e non colla maniera che è il complesso di attitudini comuni a più maestri per fare una cosa; maniera che può dar luogo a ciò che si dice metodo dialogico, intuitivo, discorsivo. Il metodo venne, dunque, diviso secondo la dichiarazione, l’esposizione, lo sviluppo o genesi. Il punto di partenza del metodo è la parola. Un vecchio adagio dice: Tantum scimus, quantum memoriae tenemus, ma sarebbe meglio dire quantum verbis exprimere possumus2. Molti s’immaginano l’insegnamento come un’arte di travasamento. Il metodo poggia principalmente sulla cognizione psicologica del capire. Quando si tratta di esposizione, il lavoro del maestro è piuttosto personale. Nell’insegnamento dichiarativo vale l’insegnamento individuale o il simultaneo, mentre nell’espositivo è più difficile che l’alunno possa rifare per filo il discorso del maestro, il metodo nella parte espositiva su che poggia? Prima di tutto l’esposizione non bisogna isolarla assolutamente dalla dichiarazione, e curare che sia adattata all’intelligenza. L’esposizione deve essere fatta poco per volta, e dopo avere preparato le nozioni; deve essere fatta con spezzamento, e come una serie di fatti che si sono adagiati, preparati nello spirito. La dichiarazione ha per oggetto il definito ed è poggiata sulla parola; essa al principio è tutto, e in seguito va decrescendo. L’esposizione suppone un lavoro più subbiettivo e personale del maestro; abbisogna della preparazione delle parole, e di essere preceduta dalla dichiarazione.

LEZIONE 17 Come farà il maestro ad insegnare secondo il metodo? Il metodo è il processo che la mente umana segue per capire, per imparare, per intendere, e il maestro che avrà la consapevolezza di questo procedimento insegnerà con metodo. La nozione del metodo è in ragione diretta della consapevolezza che si ha della psicologia. Prendiamo ad esempio l’insegnamento della storia. La storia è unicamente un interesse di coltura e non ha mai insegnato nulla a nessuno malgrado il detto di Cicerone3. Lo sforzo che fa il fanciullo per imparare la storia è come quello dell’uomo; può variare nella quantità, ma non nella qualità, perché le forme della psicologia sono sempre uguali. Dato che la nozione del metodo sia difficile a farla passare nel campo dell’insegnamento, se il professore della scuola normale deve preparare il maestro della scuola popolare, dovrà avere la consapevolezza della psicologia per stabilire i canoni che deve seguire la mente per apprendere. La pedagogia ha due parti: la didattica particolare e la metodica che ha il suo naturale appoggio nell’immaginazione. La forma dichiarativa del metodo ha il suo appoggio nella geografia; l’espositiva nella storia e la evolutiva nella fisica e nella matematica. Il letterato si ferma alla dichiarazione e all’esposizione. Il metodo, secondo la forma di genesi o svolgimento, consiste nel sostituire alla dichiarazione e all’esposizione dei rapporti del pensiero, dell’annullare l’immaginazione per ridurre le cose a formule. La mente che arriva a questo punto, è già nella scienza. La perfezione del metodo consiste in questo: che il metodo produce metodo, cioè la metodica del capire.

LEZIONE 18 Il processo del metodo è determinato dalla qualità delle cose che si vogliono insegnare. Il metodo è il processo dell’insegnare coll’atto dell’intendere. Che cosa faremo per preparare i maestri della scuola popolare? Il perfetto metodo suppone la perfetta conoscenza delle leggi psicologiche; ma siccome ciò è impossibile, così occorre una serie di precetti i quali costituiscono la metodica. La consapevolezza dell’ufficio del maestro non può nascere che dalla preparazione ad hoc del maestro stesso. La scuola normale suppone una cernita di coloro che sono atti all’insegnamento. Dato questo istituto che è tutto metodica, dove, cioè, tutto è modo d’imparare per poter insegnare, il resto viene da sé. La scuola normale suppone una coltura avanzata in chi vi entra, e gl’insegnanti devono avere la coltura metodica che deve produrre l’effetto della metodica in modo che le materie nella mente dell’allievo si ordinano già su ciò che deve insegnare. Scelta delle nozioni, ordine di queste nozioni, ripetizione, esame giornaliero delle proprie conoscenze; ecco ciò che costituisce l’alunno che dovrà insegnare. Ogni nozione deve essere scelta per l’effetto che deve produrre. Quando il maestro ha fatto l’esame delle proprie conoscenze, egli è essenzialmente nella metodica perché l’ordine crei la coscienza dell’ordine.

LEZIONE 19 La disciplina non è elemento o mezzo di educazione, ma è aiuto o turbamento dell’azione didattica. La disciplina è un problema più psicologico della didattica, perché urta colla resistenza degl’impulsi istintivi, e in concorrenza colla didattica deve servire a formare alcune predisposizioni al carattere. Cerchiamo di formare gli elementi che coll’esercizio della vita formano il carattere. Dati questi termini filosofici, si vede qual’è il problema della disciplina, della quale occorre accennare i termini estremi. La disciplina consta di due elementi: disciplina interna ed esterna. La disciplina esterna consiste nel governare i fanciulli nella scuola, nella famiglia e nella convivenza fra loro. La disciplina interna è quella che dirige gli istinti per formare la predisposizione al carattere, e può consistere nell’esercizio della musica, della ginnastica ecc. Che cosa è la disciplina esterna? Quale ne è l’ufficio? Il fondamento psicologico è che non si deve dare sfogo agl’impulsi naturali. Essa è una preparazione alla disciplina interna; e un modo di abituare lo spirito al freno degli impulsi e di frenare l’inquietezza naturale che turba l’attenzione. Tutta l’inquietezza fantastica delle idee deve essere vinta, e si deve dominare la curiosità istintiva: ciò è la preparazione alla formazione del carattere. La disciplina esterna è psicologicamente connessa colla formazione del carattere. La disciplina è coercire una certa selezione di volizioni. La via di mezzo è l’occupazione, la quale frena talvolta l’irrequietezza dello spirito. Nell’educazione monastica, cenobitica e in quella dei collegi la disciplina è qualche cosa di già bello e fatto, perché essa è data dal complesso, e perché l’ordine è già la disciplina. Nella discussione che si fa del maestro laico, dell’ordinamento scolastico, dell’assessore addetto all’istruzione e di tutto ciò che riguarda la scuola, si è già scossa l’idea della disciplina. Quali mezzi repressivi date a questo maestro? Se non gli si danno i mezzi di disciplina, l’educazione popolare non si fa. Dove trovate l’unità disciplinare in questo individuo che deve preparare le future generazioni? L’unità disciplinare in chi deve restare? Se la disciplina scolastica non si fa superiore alle superstizioni della famiglia, la disciplina non si fa. Bisogna fare il codice disciplinare, perché come si hanno i precetti didattici, così si devono avere quelli disciplinari. L’ordine obbiettivo è la disciplina della scuola, la quale deve essere rigida e

pedantesca.

LEZIONE 20 È una verità che la morale non s’insegna per precetti; l’insegnamento della morale non è che un insegnamento nozionale, e ciò può servire per capire ciò che gli altri devono fare. La morale non è che una forma della vita interna, ma il carattere ha una forma più generale. Durante l’educazione elementare è possibile concorrere con dei mezzi alla formazione del carattere? Data la scuola popolare, si tratta di dare una certa parte all’indipendenza personale, e nello stesso tempo di agire colla coercizione e per questo il sistema della disciplina si rende più difficile. La scuola, indipendentemente dal maestro, come abito di convivenza prepara al carattere. Essa deve essere un lavoro ordinato, dilettevole, e deve preparare gli elementi del carattere, il quale si trova fino alla fine della pubertà, e fino a questo punto è permesso dirò così, l’allevamento artificiale dello spirito. L’uomo adulto può cambiare carattere, ma per accidentalità della vita, per disinganni ecc. Il carattere è un indirizzo della volontà e degli istinti, e ordinando la scuola in guisa che essa sia un compito, un dovere, un lavoro, si può formare quell’abitudine della vita da cui risulti probabilmente la formazione del carattere. Le stimolazioni esterne generano abiti interni, e quanto più cresce la coltura, tanto più cessa il bisogno della disciplina esterna. Se lo stato o i comuni mantengono scuole ammesso che il principio d’autorità non deve essere il fondamento della disciplina, ma la preparazione alla vita pubblica, queste scuole devono essere rigide e avere un codice disciplinare. Quando il maestro sarà diventato l’organo di questo codice, il quale deve portare nella scuola la limitazione del proprio arbitrio allora solo si potrà parlare di scuola popolare. La didattica poi oltre che dai precetti per insegnare, serve a disciplinare lo spirito all’ordine.

LEZIONE 21 Ci sono stati due secoli in cui la pedagogia europea era nelle mani dei gesuiti. La metodica vale più del contenuto dell’insegnamento. Tutti coloro che hanno ispezionato le scuole, hanno trovato le scuole femminili migliori delle maschili, e ciò deriva forse dall’avere la donna minori distrazioni. Il problema è questo: come si deve fare per creare la coltura? Bisogna trovare l’andamento metodico di ogni insegnamento, e il noto e l’ignoto sono fatti psicologici che bisogna guardare nella mente del fanciullo. Quando i fanciulli non imparano, la colpa è del maestro, il quale si deve domandare: so o non so insegnare? Quando si dice che in Germania le scuole vanno bene e in Italia male, che in Germania i maestri sono pagati bene e che in Italia non lo sono, si discorre di cose accessorie alla scuola. La verità è che manca il metodo tanto ai maestri che ai professori delle scuole secondarie. Le vecchie scuole si reggevano sopra una metodica tradizionale. Che cosa è questo passaggio dal noto all’ignoto? Occupiamoci dell’insegnamento della geografia: da quale ignoto si deve partire? Per questo ignoto non si deve intendere la tabula rasa, né si deve cominciare, come vorrebbe Froebel, dalla formazione dello spirito del fanciullo4. La geografia è una scienza che ha per iscopo lo studio delle forme della terra, e la forma non si apprende che formandola coll’immaginazione. Un altro punto nell’insegnamento della geografia è il segno, che non è un simbolo ed ha valore in quanto se ne conosce il significato. Geografia vuol dire collocare certe città e certi fatti storici in località che sono in relazione con altre circostanze ed altri luoghi. Ritrovare per ogni disciplina il metodo analogo alla materia, è metodica. Il disegno e la planimetria gioveranno molto all’insegnamento della geografia. Ma come si fa a costituire le forme delle cose assolutamente ignote? La conoscenza della plastica deve essere di aiuto all’insegnamento della geografia. La conoscenza della geografia consiste nel collocare il fatto storico nell’immigrazione geografica, nel tradurre le forme viste in figure e nel servirsi della plastica per formare le diverse sinuosità dei profili. Il difficile consiste nel trovare il processo didattico corrispondente al processo psicologico.

LEZIONE 22 Nell’insegnamento bisogna disporre tutta la materia secondo il piano didattico. L’insegnamento della geografia deve mirare a formare un gran numero d’immaginazioni che per mezzo di ripieghi (tellurio, carte geografiche, disegno ecc.) possano comporre l’immaginazione complessa del mondo. Il maestro deve prima di tutto sapere lo scopo di questo insegnamento. La ragione pratica è un equivalente ad un numero di nomi che corrono per la bocca di tutti, e di rendere l’immaginazione capace di riferirsi alla superficie della terra, assegnando il posto al fatto storico. La ragione teorica è di arricchire la mente di un gran numero di cognizioni geografiche, di colorirle colle particolarità proprie del luogo, perché rimanga distinto e caratterizzato nella mente e di rendere la mente capace di riprodurre colle parole le immagini ottenute. Dato che il punto d’incominciamento sia oggettivo e non soggettivo, il canone deve essere questo: nella scuola popolare piglierete tanto di geografia per quanto ne potete rendere intuibile nel significato di descrivibile e intelligibile mediante espedienti. La scelta delle nozioni di geografia deve farsi oggettivamente, cioè tenuto conto del criterio di discriminazione di chi impara. L’insegnamento della geografia deve essere di cose e non di parole, e si deve dare la nozione dei concetti elementari. Le cose assenti si possono insegnare per approssimazione, per proporzionalità e per differenze. Il punto di cominciamento è soggettivo. Si devono dare le nozioni relative all’orientamento e possedere i coefficienti. L’esposizione del libro e del maestro deve essere breve e concisa, le forme generiche acquisite, le carte geografiche semplici, e la descrizione non deve mai essere confusa colla definizione. Chi insegna la geografia deve sforzarsi di viaggiare e saper collocare un fatto nella determinata configurazione geografica. Per l’insegnamento della geografia si annoverano tre metodi: l’analitico, il sintetico e il costruttivo. Il parlare del maestro deve essere di sollecitazione. Nella pratica è impossibile fare tutto assolutamente conseguente. Quando dall’intuizione viene fuori il racconto, allora solo è segno che si è formata l’osservazione.

LEZIONE 23 Nella geografia il disegno non deve essere solo ostensivo, ma deve essere prodotto secondo la proporzione per arrivare alle differenze. La geografia non è ammaestramento, ma insegnamento nel senso etimologico della parola. Formare una carta geografica vuol dire avere attitudine a raffigurare una serie di segni coordinati in modo da formare una vera proporzione. Nella geografia non si tratta solo di nomenclatura, ma di nozioni elementari e di configurazione geografica. Quale è la difficoltà per la formazione di questi elementi? La difficoltà sta nel capire, perché non può essere un insegnamento surrogato da un altro. Quale è la difficoltà per la formazione dei concetti elementari geografici? Il mezzo migliore è di suscitare la fantasia, ed è lavoro di vivace descrizione. Vinta la difficoltà del segno e quella della forma, non resta che la descrizione vivace in rudimenti di atto. L’insegnamento della geografia è costruire l’immagine di dati i quali vengono costruiti dalla fantasia.

LEZIONE 24 La storia è insegnamento e ammaestramento. Essa dimostra la perfettibilità umana, il progresso, la civiltà. Il maestro la deve sapere, la deve leggere e la deve elaborare per adattarla agl’interessi sociali. Per ciò che riguarda la scuola, è vera la sentenza di Cicerone che la storia è maestra della vita5, perché è fondamento della moralità umana. Il maestro deve spiegare la storia e procedere per via negativa. Egli si deve domandare: le parole che uso, le capisco come cose? La storia non deve essere né liberalesca né pretesca, ma una rappresentazione di fatti umani ottenuta con ragionamenti. Il maestro deve sapere la storia non solo come fatti, ma come immagini, e deve spiegarla, studiarla e insegnarla come rappresentazione di progresso e civiltà. La storia deve operare sul pensiero, sul sentimento e sulla volontà. Sul pensiero, per far capire che i fatti umani sono legati fra loro per cause ed effetti, e per portare la razionalità nello studio delle cose umane. Sul sentimento, per dimostrare che è impossibile che esso operi le cose della storia e che il vero progresso è stato effetto della laboriosità e della virtù. Nell’insegnamento della storia si deve scegliere ciò che e più perfetto ed esemplare, e che ha un carattere educativo; insomma si deve insegnare la storia eletta. L’aneddoto e il particolare sono meno educativi del complessivo, e dacché è ricomparso il sentimento nazionale, la storia deve servire a mantenerlo vivo. La storia, per immaginarla, bisogna sentirla raccontare, e il racconto deve essere chiaro e preciso, e fatto con semplicità, che è di mettere in rilievo la parte principale del racconto, nel quale bisogna saper scegliere il nucleo essenziale. Il racconto poi deve essere fatto con calore, che consiste nella compenetrazione ideale del sentimento e nella persuasione della verità di ciò che ci espone. L’insegnamento della storia suppone la conoscenza della lingua. La storia è vera quando è rappresentata nello spirito del tempo, e perciò si devono mettere i fatti come erano nella convinzione e nello spirito dei tempi in cui si svolsero. La storia trova la sua riprova nel farla raccontare di nuovo, nel rispondere a domande e nel farla raccontare per iscritto, donde nasce l’ordine, perché vero metodo è quello che produce metodo. V’è un altro insegnamento storico che chiamano biografico il che fa supporre che la storia sia stata fatta da alcuni individui, ma il vero insegnamento è quello pragmatico. Nel ginnasio e nel liceo acquista molta importanza e molto valore la discussione portata

nell’insegnamento della storia. Alcuni consigliano il metodo di concentrazione, cioè di fare un insegnamento solo della storia e della geografia, considerando la storia come geografia in movimento, e per la coltura generale questo modo può essere tentato con vantaggio. Del resto il racconto vivo di fatti nell’occasione di certe ricorrenze le quali possono servire come di addentellato, è elemento di educazione sociale e politica.

LEZIONE 25 La presente lezione tratterà della metodica per la scuola secondaria, prendendo per tipo il ginnasio-liceo. La storia è il complesso degli insegnamenti morali. Quale è il limite didattico in questa scuola? Che lo scolaro, prendendo in mano un libro di storia, sappia leggerlo e capirlo, e capire significa aver percorso della storia i fatti morali, politici, estetici. L’esame per la licenza liceale dovrebbe consistere nel leggere una pagina e sapere rispondere in modo da dare saggio dell’intelligenza d’un fatto storico. La cognizione della vita etica e politica, si ricava dallo studio della storia. L’insegnamento della storia deve essere fatto in modo che lo scolaro abbia uno schema dell’epoche storiche da collocare al loro posto i fatti storici, e in guisa che il subbietto del fatto non sia indeterminato, cioè che siano specificati i personaggi che hanno agito. La fisonomia della storia deve essere sempre sociologica. La storia nel liceo ha per fine didattico l’attitudine a capire i fatti storici, e si deve insegnare della storia la parte che si può spiegare. Nel liceo bisogna cominciare dalla Grecia, perché la storia va connessa col resto della coltura, e perché da questo punto comincia la coscienza storica, e deve essere portata fino alla spiegazione geografico-politica della costituzione del mondo attuale. Negli otto anni del ginnasio-liceo si deve imparare a leggere i libri storici e intenderli da sé, e la storia deve essere intuitiva e distribuita in diversi periodi attraverso gli anni. Il metodo da usarsi deve essere concentrico e successivo. La storia si concentra sempre in certi personaggi e in certi fatti, che hanno una speciale caratteristica. Chi esce dalla scuola, non deve avere un bagaglio di notizie, ma deve sapere collocare al loro posto i fatti storici. Applicando la storia all’Italia, l’insegnamento riesce difficile perché manca il filo storico e la ordinata successione dei fatti. Dato che il fine sia l’intelligenza dei fatti storici, cioè di elementi storici, dato che si debba mettere insieme il metodo concentrico e il successivo, si devono ordinare i fatti per gruppi analogici. L’insegnamento della storia suppone la conoscenza della morfologia sociale. I libri elementari di fisica di geografia li scrive chiunque, ma quelli di storia non li scrive che l’uomo dotto, perché bisogna possedere l’attitudine delle ricerche storiche. La storia si compone di due elementi: del fatto appurato e del fatto inteso secondo lo spirito del tempo. Sa la storia chi conosce non solo i fatti, ma le idee e i fatti illustrati dallo spirito dei tempi. L’insegnamento della storia deve essere

appoggiato da antologie storiche contenenti documenti storici.

LEZIONE 26 La lezione si aggirerà intorno al limite didattico della scuola secondaria classica la quale ha il suo effetto nella qualità e quantità delle conoscenze che vi si acquistano, e completa il concetto della scuola popolare. Il limite didattico non deve essere determinato dalla scienza, ma d’un complesso di attitudini intellettuali. Questa scuola ha per iscopo il criterio storico repressivo della civiltà. Il ginnasio è essenzialmente coltura storica e filologica per la interpretazione del passato. La scuola classica non sarà mai popolare. Il criterio dell’interpretazione è differente da quello dell’osservazione, e chi non si è abituato all’interpretazione di qualche lingua morta, legge sempre passivamente; ecco dove sta la forza della filologia. Il pregio degli studi classici è lo sforzo che facciamo per interpretare il pensiero morto, il pensiero antico; ed il criterio didattico è di capire criticamente le lingue antiche e la storia del passato. Noi siamo più colti a misura che il nostro pensiero si allarga nel passato; e nel campo storico retrocediamo fino alla civiltà greca, perché ci troviamo ancora le forme tipiche della nostra civiltà, e non si tratta della civiltà in genere, ma della civiltà riflessa. Dato lo scopo della scuola secondaria perché manteniamo ancora lo studio delle lingue antiche? Non si potrebbe sostituire loro qualche lingua moderna, per esempio la tedesca? Si può accettare anche lo studio d’una lingua vivente, quando lo scopo non sia pratico, ma critico e filologico. La metodica della scuola classica si può riassumere in tre gruppi: elemento filologico-critico con interpretazione della storica, cognizioni scientifiche, qualche inizio di astrazione scientifica. La cognizione del metodo deve attingersi dall’esercizio del metodo, il quale è di due specie: d’induzione e di deduzione. Perciò che riguarda l’insegnamento della storia naturale, si sarà fatto abbastanza, quando all’origine soprannaturale del mondo, della natura, la quale non è più né un miracolo né un mistero, si sarà sostituito il modo causale, cioè come la natura progredisce. Le attitudini fondamentali da sviluppare sono due: la chiara rappresentazione di cognizioni storiche colla parola e il mettere in iscritto ciò che si conosce. Lo scrivere per la maggior parte degli uomini è pratica e non estetica, ma ciò che si vuole ottenere dalla scuola classica secondaria, è l’ordinata esposizione del pensato e del conosciuto.

LEZIONE 27 Vediamo quali sono gli effetti che deve produrre l’insegnamento classico secondario. L’effetto si deve svolgere in questi tre campi: nell’umanismo, nella filologia e nella linguistica. La filologia è il pensiero del tempo interpretato nel documento storico. Il punto di passaggio dalla scuola popolare alla classica, è dato dalla filologia in quanto che nella scuola popolare si dà il pensiero dell’attualità, senza curarsi del criterio storico. La coltura classica invece consiste nel criterio storico interpretativo. Se le lingue antiche trovano oppositori, si deve ciò al fatto che vi sono delle lingue moderne esemplari nelle quali è avvenuta la fusione dell’antico. L’umanismo è la riproduzione pratica linguistica. L’umanismo è la fase storica dal quattrocento al cinquecento ed è la preparazione alla coltura moderna. Ora gli umanisti sono frutti fuori di stagione, pesci fuor d’acqua. Nel quattrocento l’umanismo era fatto storico, ora è dilettantismo; allora era per ricorrere alla civiltà antica perché superiore a quella del medioevo. Il ritorno all’antico può essere della civiltà più eminente, perché è ritornare all’origine, allo sbocciare della civiltà. La lotta contro il classicismo è fatta ora con armi disuguali. L’umanismo è stato una funzione del cinquecento; la filologia è una funzione storica e scientifica moderna, è un sapere universale, non speciale, e non è umanismo. La coltura preparatoria all’università consta principalmente del criterio storico e interpretativo, e l’umanismo è bandito dal fatto che la coltura antica è già impregnata nella civiltà moderna. Deve il maestro insegnare tutto quello che sa? Deve sapere tutto quello che insegna o sapere di più? Egli deve soprattutto essere linguisticamente preparato, e possedere l’abito grammaticale. Il filologo deve possedere tutti gli elementi che concorrono all’interpretazione. Per poter mantenere nella scuola classica il carattere di coltura generale, bisogna che il tipo sia formato nella mente dell’insegnante. L’umanismo è una fase passata; la filologia invece ci sarà sempre per rispetto a qualunque letteratura, e quando cessasse, si diventerebbe tutti tecnici e specialisti.

LEZIONE 28 Alla parola filosofia siamo soliti attribuire un significato falso, considerandola come il serbatoio di tutto il sapere umano; e, col prevalere del positivismo, chiunque si accinge a studiare filosofia, crede di dover diventare un sapiente o uno scienziato. L’insegnamento della filosofia dovrebbe essere bandito dal liceo, perché non è possibile che i giovinetti di tale scuola intendano l’interesse speculativo specifico che è la filosofia. Siccome la scuola secondaria deve fare della gente colta, l’insegnamento della filosofia nel liceo non può produrre che il materialismo del dogma o il dogma del materialismo. Cicerone ha detto che la filosofia si contenta del giudizio dei pochi6. Ma quale sarà l’elemento della filosofia che può entrare nella coltura, come può entrare nella scuola secondaria? Si può insegnare l’enumerazione e dichiarazione delle forme logiche, e la corretta nomenclatura etica, logica e psicologica. L’insegnamento del liceo deve essere reale, ma per ciò che riguarda la filosofia non lo può essere, perché la filosofia non può essere reale. Ma il valore dell’insegnamento filosofico in che consiste? Nell’ottenere l’elevatezza, l’efficacia, la precisione e la correzione del linguaggio, e perciò si deve far leggere ai giovani qualche cosa di altamente filosofico. La filosofia deve penetrare tutto l’insegnamento tanto letterario che storico. La logica agevola a pensare, e diventa un metodo abbreviato. Gli enunciati sulla religione, sull’anima, sull’origine del mondo non possono avere luogo nel liceo. La filosofia è superiore alla religione nel senso che ha risolto la questione del mondo meglio della religione. Tutti gl’insegnanti della scuola secondaria devono conoscere la filosofia per portare nell’insegnamento la correttezza e la precisione del parlare.

LEZIONE 29 La metodica è un complesso di regole che servono ad armonizzare i vari insegnamenti fra loro. Possiamo avere una didattica generale, ma non una metodica. La coltura è una condizione dello spirito. In questa lezione tratteremo della metodica dell’insegnamento della storia naturale nella scuola popolare. Il maestro si distingue dagli altri uomini colti per l’attitudine metodica a servirsi delle cognizioni per farle passare nella testa degli alunni. L’importante è di far pensare e di arrivare a far capire che cosa è il mondo organico. La storia naturale serve ad aiutare lo sviluppo di quegli interessi che si chiamano coltura ed a vincere la superstizione. Lo studio della storia naturale apre la mente ad osservare serenamente i fenomeni della natura, e deve far convertire gli oggetti sensibili in oggetti di osservazioni, allontanando da tutto ciò che avviene in natura il soprannaturale. Prima di tutto bisogna vedere il fine della storia naturale nella scuola popolare. Il fine dell’insegnamento della storia naturale è di soddisfare l’interesse empirico e di abituare ad osservare e distinguere la molteplicità delle forme degli organi naturali. La natura ci si presenta come causa, mezzo e fine. Le forme della natura sono variopinte, intrecciate, e quindi suscitano il sentimento estetico. La natura è educatrice del senso estetico, perché non si può cambiare a volontà. Essa corrobora il sentimento religioso, perché l’uomo innanzi allo spettacolo della natura riconosce la propria impotenza in faccia ad una potenza superiore. L’insegnamento della storia naturale non deve essere ammaestrativo, ma semplice insegnamento; ma se non è direttamente ammaestrativo, lo è però implicitamente, perché la natura è un fatto che lascia sempre un sentimento di ammirazione. Il maestro della scuola popolare deve far capire che i fatti naturali si succedono per trasformazione, e interessare di più ad aguzzare l’osservazione, senza introdurre nulla che sia di astrazione, non trascurando l’ammirazione. Se si dimostrasse la causa di tutti i fenomeni della natura, ne avverrebbe l’annullamento della filosofia, della religione e dell’estetica. Un naturalista che perdesse questo sentimento di ammirazione, sarebbe incompleto.

LEZIONE 30 Riassumeremo in queste ultime lezioni tutto ciò che si è detto lungo l’anno. La pedagogia è una scienza essenzialmente filosofica e pratica, la quale assume certi concetti direttivi e si propone di applicarli. Essa ha per iscopo l’educazione, e piglia i criteri filosofici della psicologia e dall’etica così tanto si avvicina alla probabilità quanto queste due scienze; ossia, il suo grado di certezza e in ragione diretta della psicologia e dell’etica. Ma a quali criteri si può conformare perché riesca a qualche cosa? Bisogna avere un concetto chiaro dell’educazione e dell’educabilità. L’educazione è l’intenzione nostra rivolta a produrre uno sviluppo determinato sull’individuo in modo da piegarlo ad alcune attitudini. Il maestro è colui che non solo sa, ma sa come s’impara, a conoscere il processo naturale e più semplice per imparare. Questa è la parte più filosofica della pedagogia. La scuola normale, docile ai dettami della scienza è saper applicare i principi pedagogici perché essa deve risultare essenzialmente di pratica. La scuola popolare è nata dal bisogno di portare un certo grado di coltura nei vari ordini sociali; quindi la necessità nello stato d’imporre la scuola popolare in ragione di una pratica empirica, d’ispezionare le scuole e d’imporre regolamenti e programmi. Il punto centrale della pedagogia è nel metodo, e questo ha il processo della mente che impara. Il metodo intuitivo e oggettivo si dice che sia il trionfo della pedagogia moderna, e deve risultare non nel far vedere ma dal far osservare. La metodica naturale diventa il fondamento della pedagogia. Essendo la pedagogia una scienza filosofica da tradursi in pratica, il maestro sarà docile ai portati della scienza per saperli adattare all’insegnamento. Il limite didattico della scuola popolare è stabilito in ciò: in quale condizione di spirito si troverà colui che la percorre? Quali debbono essere gli studi di chi insegna, quali i programmi per produrre negli scolari l’effetto prestabilito? Gli effetti di tutto ciò si riducono alla coltura. La coltura popolare sta nella forma didattica che permette di comunicare ai fanciulli un certo numero di cognizioni, e viene stabilita dall’interesse empirico, razionale, simpatetico, morale, estetico, religioso. Essa è un fatto complesso dello spirito che può variare nella qualità, non nella quantità.

LEZIONE 31 Dati i principi pedagogici, occorre vedere quanta parte di questi possa entrare nella scuola popolare. La scuola popolare entra nella politica, perché è un bisogno della società per stabilirne gli effetti immediati e lontani. Essa è una scuola a sui generis, perché sta da sé, e perciò riesce difficile stabilirne i limiti, e per venire a ciò, bisogna rispondere a questa domanda: quale è la condizione di spirito che la scuola popolare deve riprodurre? L’idea che l’istituzione della scuola popolare non solo è possibile, ma doverosa, bisogna che si diffonda nella moltitudine. La coltura popolare è lo studio della civiltà d’un popolo. In Italia il problema della scuola popolare non esiste nella coscienza del popolo, e bisogna che entri nelle menti direttrici come guida alla elaborazione pedagogica. Il governo deve dare il modello, cioè l’esemplarità, e perciò le scuole normali dovrebbero avere una scuola popolare modello. La scuola popolare, durante gli otto anni che dovrebbe durare deve dare il modo di acquistare certi abiti intellettuali che abbiano a servire per la vita. La metodica è l’arte d’insegnare desunta dalla pedagogia, e il problema della scuola popolare sta anche nella preparazione del maestro nella scuola normale e nella selezione del maestro stesso. La scuola normale è istituto, perché vi si fa il tirocinio, mentre la scuola propriamente detta è quella dove si ascolta, come l’Università. I principii cardinali della scuola popolare sono: pedagogia, processo di adattamento che è oggetto della scuola normale, maestro scelto, cioè preparazione e tirocinio, amministrazione ad hoc e quindi consigli scolastici e ispettori perché la scuola sia vigilata e ispezionata da tecnici, e da ciò scaturisce anche la ragione dei programmi. La coltura sta nell’acquisto metodico delle nozioni, e la differenza nella graduazione delle nozioni stesse. La scuola, poi, deve essere metodica, rigida e pedantesca.

Sezione quarta

GLI SCRITTI DELLA TRANSIZIONE

La categoria di “transizione” di cui ci si è serviti per indicare i testi qui raccolti non ha la pretesa di definire un insieme chiuso ed omogeneo di testi, tanto meno di stabilire una rigida periodizzazione all’interno della riflessione labrioliana. Rispetto a quest’ultima, d’altro canto, se di transizione teorica verso una fase compiutamente marxista si può certo parlare, è evidente che essa dovrebbe essere indagata con sguardo trasversale rispetto alla ripartizione degli scritti qui adottata, e senza poter prescindere dagli interventi di carattere politico o dalle importanti testimonianze presenti nell’epistolario, non contemplati in questa sede. Nondimeno, è un dato presto acquisito dalla critica che la Prelezione del febbraio 1887 ricopra un ruolo determinante nel dare ragione del grande lavoro teorico che, interagendo con la pratica costante dell’analisi politica e l’impegno crescente nel movimento operaio (si vedano le lezioni di diritti e doveri agli operai romani a partire dal 1876; la lettera aperta al deputato Alfredo Baccarini nel 1887; le iniziative a sostegno dei disoccupati per la crisi edilizia e il discorso alle acciaierie di Terni nel 1888), conduce Labriola dal confronto con l’eredità herbartiana a quello con le fonti del socialismo scientifico, passando per l’approfondimento dei temi cruciali della storia moderna, ripetutamente affrontanti nei corsi di Filosofia della storia (il corso per il centenario della Rivoluzione francese susciterà entusiasmi così forti e di segno opposto, da dover essere sospeso nel febbraio del 1889). Non è un caso che proprio al testo della Prelezione, insieme a quello della conferenza Del socialismo del giugno 1889, l’autore si affidi per presentarsi a Friedrich Engels all’inizio del loro rapporto epistolare, nella primavera del 1890.

L’edizione de I problemi della filosofia della storia, testo della «prelezione letta nell’Università di Roma il 28 febbraio 1887», è stata approntata sulla base di quella – la sola apparsa in Italia vivente l’autore, seguita un anno più tardi dalla traduzione tedesca (la prima di un testo labrioliano), a cura di Richard Otto (Reissner, Lipsia 1888) – pubblicata dall’editore Loescher alla fine di marzo del 1887. Il testo risulta suddiviso in quattro parti principali, articolate a loro volta, secondo l’uso di Labriola che si è voluto qui rispettare, in paragrafi non numerati, graficamente distinti dall’inserzione di un rigo bianco di separazione. Al corpo della conferenza, coincidente secondo quanto recita il corsivo in apertura dell’opuscolo con ciò che fu letto in aula «sul manoscritto già pronto per la stampa», furono apportate, a detta dell’autore, solo «qualche leggera correzione» e la «giunta di alcune note», tra cui quella finale, che però, per

estensione e contenuto, costituisce una significativa integrazione al testo della Prelezione. Che tale aggiunta potesse prefigurare nella mente dell’autore l’intenzione di tornare sui temi affrontati in un lavoro più ampio è confermato, prima ancora che dalla lettera a Francesco Bonatelli del 31 marzo 1887, in cui si allude alla Prelezione come a «tutta la traccia di un libro da fare» (Carteggio, II, p. 382), dal corsivo d’apertura qui riprodotto, dove tali argomenti sono detti «più proprii di libro, che non di discorso». Il progetto, come è noto, non fu mai realizzato in quanto tale, ma ciò conferisce, se possibile, ulteriore valore a questo scritto, in funzione della successiva maturazione del pensiero labrioliano e della redazione dei Saggi. A dispetto dell’«oscurità» rivendicata dall’autore per un testo chiamato a misurarsi con l’«intrinseca difficoltà» della filosofia della storia, la Prelezione appare costruita su un solido impianto logico-argomentativo, reso esplicito dalla pubblicazione di un Sommario, cui si è voluto qui restituire la posizione e la visibilità (si notino i titoli in neretto corrispondenti alle tre parti principali dell’argomentazione) volute dall’autore. Ad una prima sezione introduttiva sulla difficoltà di fornire una definizione della filosofia della storia – da intendersi necessariamente come «tendenza» e «tentativo» piuttosto che come un «corpo di dottrine» da esporre nelle forme di una «tradizione bella e stabilita» –, segue una trattazione delle «questioni di metodo». Secondo la definizione che ne dà lo stesso autore, sulle orme delle grandi opere di metodologia storica del Gervinus e del Droysen, ma richiamando anche la nozione vichiana di filologia, rinnovata a Böckh nella sua definizione di “conoscenza del conosciuto”, Labriola delinea qui una «propedeutica della concezione storica» incentrata su tre aspetti: l’interesse (cosa ci spinge alla ricerca storica e cosa fa di tale ricerca una «parte integrante della nostra cultura»); il metodo (a quali condizioni si può attribuire a tale ricerca i caratteri di un «interesse scientifico»); l’oggettività (come «conciliare, in modo reale e positivo, i diversi elementi e le varie funzioni che concorrono alla formazione del fatto storico»: emerge così il tema del confronto con le scienze positive, l’economia e la «fisica sociale»). La terza sezione è dedicata ai principi su cui si fonda l’indagine e l’esposizione della storia, e contiene la formulazione della teoria epigenetica. Nell’infinita varietà dei casi e degli accadimenti, capita allo storico d’imbattersi in «formazioni stabili», «resistenti» al fluire contingente degli eventi: istituzioni, sistemi giuridici, letterature e ordinamenti del vivere sociale che, agendo da «centri di coordinazione» ed «attrazione» degli eventi, rendono riconoscibili «forme di rapporto e d’insieme» tali da delineare agli occhi dello storico trasformazioni conseguenti, talvolta neo-formazioni («fatto immediato del passar

della vita d’una in altra condizione»), e possibili analogie tra i diversi eventi e contesti. La teoria epigenetica che Labriola tratteggia si propone di dare risposta, per l’appunto, all’interrogativo sullo statuto teorico di questi «centri», e quindi sulla «definizione intrinseca del fatto storico». Senza cadere nelle arbitrarie distinzioni stabilite dalla storiografia tradizionale fra un livello pre-civile e naturale – comprensivo delle dinamiche operanti sul «piano sottostante delle moltitudini» –, ed uno propriamente storico – espressione dei soli effetti riscontrabili «nelle così dette classi dirigenti» e finalisticamente ordinato ad un determinato modello di civiltà –, ma evitando per contro anche la deriva naturalistica nel «cieco evoluzionismo», l’approccio epigenetico consente di «intendere l’operazione umana nei varii gradi della sua genesi interiore». Permette cioè d’individuare, su un terreno non dissimile da quello battuto ancora in via preparatoria e talvolta «frettolosa» dalla psicologia sociale (si colloca in questo contesto il richiamo alla recensione a Lindner di quindici anni prima, come anche alla propria familiarità con il dibattito inaugurato dalla Völkerpsychologie) un «tramutamento nell’azione propria dello spirito» in corrispondenza del costituirsi di quei sistemi, o «nessi di attività permanente», che, procedendo da «similarità di bisogni» e «comunità d’intenti», risultano irriducibili a semplici «concrezioni accidentali» e si rivelano portatori di una propria specificità, «valutabile come fatto psicologico». Analogamente a quanto avvenuto nelle scienze organiche con l’osservazione morfologica, il metodo comparativo, di cui la linguistica e l’analisi dei miti e dei costumi si sono fatte portatrici nelle discipline storiche, consente di guardare in modo nuovo al concetto di «legge» e di «origine storica», conferendo statuto scientifico allo studio delle «omologie» che accomunano tradizioni storiche diverse in unico «tipo», non meno che a quello delle «neo-formazioni», che segnano la comparsa di forme nuove e peculiari. L’ultima sezione della Prelezione affronta alcuni aspetti di «sistematica generale», ovvero gli effetti di quel «bisogno di ridurre ad unità» che, a differenza dell’approccio critico fatto proprio dall’autore, caratterizza da tempo lo studio della filosofia della storia nel suo presupposto di una «così detta storia universale». L’analisi labrioliana insiste in questo caso sul carattere «extrascientifico» dei fattori che hanno indotto una simile tendenza, soffermandosi in particolare sul «pregiudizio teologico», insito nella tradizione giudaico-cristiana, e su quello «fantastico-umanitario», che ne prosegue gli effetti nella moderna concezione del progresso e ha il suo culmine nel monismo hegeliano. A tali pregiudizi Labriola oppone la pluralità dei «centri primitivi di civiltà» e l’influsso irriducibile di quei «fattori preesistenti» che dipendono dalla specifica vicenda di ogni singola cultura, rendendo perciò estremamente delicato

il compito, che pure la teoria epigenetica ed il procedimento tipologico rendono «legittimo prodotto di attività scientifica», di delineare una «storia generale della civiltà» che «proceda per caratteristiche d’insieme», senza eccedere la «misura del comparabile». L’analisi dell’idea di progresso, e la sua scomposizione nelle tre più comuni accezioni di progresso tecnico, fantastico-intellettivo e civile, offrono così all’autore occasione di ribadire la necessità per la filosofia, herbartianamente intesa come «critica dei principii del conoscere», di reagire contro le affermazioni di chi, come i «facili e spensierati applicatori del darwinismo», vorrebbe dedurre ab extra rispetto alla «considerazione complessa dello spirito» i criteri di una pretesa evoluzione delle vicende storiche.

Del socialismo, testo della conferenza che Labriola tenne presso il “Circolo Operaio Romano di Studi Sociali” il 20 giugno 1889, riproduce fedelmente l’edizione apparsa quella stessa estate su iniziativa dello stesso Circolo, per l’editore Perino di Roma (cfr. Carteggio, II, pp. 495, 497). Pur trattandosi di un testo concepito per la lettura pubblica, esattamente come la prolusione di due anni prima, non sfugge al lettore come alla diversa destinazione degli scritti corrisponda una profonda differenza di stile. Libero dai vincoli e dai condizionamenti del contesto accademico, la conferenza del 1889 si distingue per uno stile agile, brillante ed appassionato, che consente all’autore, forte della sua esperienza di pubblicista e delle sue abilità oratorie, di catturare l’interesse del pubblico e mantenerne l’attenzione con alcuni accorgimenti (capacità di sintesi; ricorso al discorso diretto per esemplificare posizioni e possibili obiezioni; esclamazioni ecc.). Nella sua redazione editoriale, il testo della conferenza risulta suddiviso in cinque parti, al solito graficamente distinte da un rigo bianco di separazione, più una sesta, più breve, di congedo. L’esordio contribuisce da subito ad inquadrare il tipo di coinvolgimento che l’autore ricerca nel pubblico: non l’identificazione demagogica di un accademico con la realtà del mondo operaio, ma il riconoscimento di un ruolo per quei «lavoratori del pensiero» che, con la loro «ardita speculazione», contribuiscono a «ricercare e dichiarare» i mezzi per giungere al «trionfo della giustizia sociale». Altrettanto chiaro, quantomeno relativamente alla sua pars destruens, è l’oggetto dichiarato dell’intervento labrioliano: la denuncia dei limiti intrinseci alle istituzioni liberali e ad un modello di democrazia politica che, lungi dal dare concretezza all’eguaglianza affermata dal diritto naturale, si rivela attualmente «multiforme menzogna», «arma di sfruttamento raffinato per gli accaparratori di

voti». La seconda sezione ricerca nel passato le cause del presente, soffermandosi in particolare sulla «grande rivoluzione» e sul disincanto suscitato da una stagione, come quella che va dall’89 agli eventi della Commune (la cui commemorazione, dichiara Labriola, avrebbe dovuto essere l’oggetto inizialmente concordato del suo intervento), che vede l’«umanitarismo entusiastico del XVIII secolo» crollare sotto il peso, da un lato, del «capitalismo arrogante», dall’altro, delle istanze del «proletariato minaccioso». È in questa analisi che la fede socialista dell’autore rivela il proprio fondamento teorico nello studio dell’origine e dei «modi di vita» che contraddistinguono lo Stato moderno: studio i cui esiti radicali si riflettono nel fermo rifiuto di posizioni di compromesso, ispirate al «giacobinismo liberale», a soluzioni cesaristiche o al riformismo parlamentare, e per contro, nell’impegno a realizzare quella «nuovissima rivoluzione sociale» che il socialismo scientifico, studiando «l’uomo e i bisogni suoi», sta preparando. La «grave questione» relativa alle forme di questo rivolgimento («dilacerazione violenta» o «lenta azione» d’innesto «sul comune tronco delle istituzioni liberali») insieme all’altra, relativa all’uniformità o meno per «forme e andamento» dei moti sociali nei diversi paesi, introduce alla terza parte della conferenza. La scelta dell’autore, a questo riguardo, è di non entrare nel merito dei due interrogativi – emerge però la sua propensione per una prospettiva riformista –, per concentrarsi piuttosto sui maggiori ostacoli che tale movimento incontrerà nel presente, rispetto a quelli opposti a suo tempo dall’Assolutismo. Il capitalismo, derivante dalla «liquidazione frettolosa della vecchia proprietà immobile», insieme al militarismo nazionalista e alla demagogia insita nell’illusione democratica dell’estensione del suffragio costituiscono, come già la Rivoluzione del ’48 e l’esito della Commune hanno mostrato, le «tre nuove piaghe sociali» con cui una rigenerazione dell’intero corpo sociale deve necessariamente misurarsi. Merito indiscutibile del socialismo, in questo senso, è avere «scoverta e descritta la vera natura del nuovissimo nemico», il capitale, ma anche la capacità di fortificare lo «spirito di classe e di comunanza dei lavoratori»: impegno, osserva Labriola, che nonostante la repressione ed una politica autenticamente conservatrice come quella bismarckiana, consente alla Germania di vantare un partito socialista «già solidamente costituito». La conferenza si sofferma quindi sui principi di cui si sostanzia la «questione operaia»: diritto all’esistenza, alla cultura, al lavoro e al «completo compenso del lavoro prodotto». Alle considerazioni sulla necessità di una «provvidenza», che in una prospettiva cristiano-secolarizzata (ribadita con singolare insistenza proprio nelle ultime battute della conferenza: «siam noi i veri discepoli di Gesù di Nazareth»!) sottragga l’assistenza sociale al paternalismo e all’iniziativa

privata, si unisce il rinnovato auspicio di una «scuola popolare», che garantisca a tutti una formazione adeguata e la capacità di autodeterminarsi nel lavoro, ma anche la denuncia delle contraddizioni che il principio di «libertà del contratto» reca in sé, mercificando il lavoro e facendo degli operai inconsapevoli «mercenari». Venendo alla trattazione dei mezzi con cui giungere al «trionfo di cotesti principi», Labriola affronta i temi della propaganda, dello sciopero e della cooperazione, elogiando quest’ultima come «utile istradamento» purché «non degeneri in egoismo collettivo d’una frazione d’operai contro tutti gli altri». La parte conclusiva offre, accanto al congedo dell’autore, alcuni preziosi spunti per un’autobiografia intellettuale. Labriola vi ripercorre di fatto le principali tappe che l’hanno condotto a dirsi «socialista a modo suo»: è l’occasione per richiamare la critica dei «principi direttivi dell’ordinamento liberale» condotta in Della libertà morale, ribadendo così il profondo significato teorico di un avvicinamento al socialismo non dettato da logiche di «conventicola», ma guidato dalla ferma risoluzione di non «discostarsi d’una linea dalle convinzioni scientifiche».

Completa la sezione una raccolta di nove recensioni, sette delle quali risalenti al periodo 1881-1885, le restanti due al 1896, e dunque ad una stagione del pensiero labrioliano certamente successiva alla “transizione” idealmente completata con la rielaborazione del pensiero di Marx (nel marzo del 1896, due mesi prima della pubblicazione delle ultime due recensioni, va in stampa il secondo dei Saggi). In sei casi su nove (fanno eccezione le recensioni apparse nel primo volume de «La Cultura» e la recensione a Bärenbach edite in Op II, pp. 324-335) si tratta di testi ricompresi per la prima volta in volume: elemento che, oltre a confermare le difficoltà, già note alla critica, ad avere una cognizione certa dei tempi e dell’entità delle collaborazioni a giornali e riviste anche per gli anni della maturità, consente di farsi un’idea più precisa della vastità degli interessi e delle letture di Labriola, e finalmente di apprezzarne meglio i rimandi interni all’opera. Si è inteso anche in questo caso privilegiare le recensioni di argomento filosofico o comunque utili a far luce su aspetti teorici propri della riflessione del cassinate. Rispetto all’edizione Dal Pane, non comprendente le recensioni a Jhering, a Kauffmann e a Brunetière, identificate in anni successivi (cfr. per la prima, G. TURI, Alcuni inediti di Antonio Labriola, in «Movimento operaio e socialista», I, 3, 1978, pp. 252-254; per le altre, S. MICCOLIS, Su Antonio Labriola, Ruggero Bonghi e «La Cultura», in «Nuovi studi politici», XVIII, 4, 1988, pp. 66-67), e quelle a Zimmermann, a Rauber e a Hellwald, non firmate e

individuate solo grazie al minuzioso spolio dell’epistolario labrioliano (cfr. S. MICCOLIS, Antonio Labriola collaboratore della «Nuova Antologia», in «Rivista di storia della filosofia», 3, 2006, pp. 763-790), non sono state incluse altre tre recensioni, rispettivamente di argomento letterario, filologico e didattico, tutte apparse nel primo volume (1881-1882) de «La Critica» (cfr. Op II, pp. 328-330, 331-332). Si è ritenuto, infine, di non comprendere i numerosi testi (non firmati e siglati in modo non uniforme) apparsi ne «La Critica» fra il 1883 ed il 1890, che, oltre a restare oggetto di un’attribuzione incerta (cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Antonio Labriola e «La Cultura» di Ruggero Bonghi, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXVI (LXVIII), 1987, pp. 313-344, e per contro: S. MICCOLIS, Su Antonio Labriola, Ruggero Bonghi e «La Cultura» cit., pp. 43-70), non sembrano presentare particolare rilevanza sul piano teorico. Con l’eccezione della recensione a Bärenbach, apparsa nella prima annata della «Rivista critica delle scienze giuridiche e sociali» diretta dai giuristi Francesco Schupfer e Guido Fusinato, e di quella a Jhering, pubblicata nel volume XLV della seconda serie di «Nuova Antologia» – non firmata ma riconducibile a Labriola sulla base di una testimonianza inequivocabile contenuta nell’epistolario (cfr. Carteggio, III, p. 124) –, gli articoli labrioliani qui raccolti videro tutti la luce ne «La Critica: rivista di scienze, lettere ed arti», il periodico fondato nel 1881 dal deputato, già ministro dell’Istruzione Pubblica, Ruggero Bonghi. Le recensioni a Traina e a Lindner apparvero nella prima annata; quelle della primavera del 1885 a Zimmermann, Rauber e Hellwald, furono pubblicate nella seconda serie della rivista, dove trovarono spazio, undici anni più tardi, anche la recensione a Kauffmann e la breve «notizia» su Brunetière, apparsa insieme ad altre tre e come queste firmata con la sigla «A.L.». In assenza di elementi sufficienti a sostegno della paternità labrioliana di altre recensioni comprese fra il 1884 ed il 1896 (l’ipotesi è stata avanzata da N. SICILIANI DE CUMIS, Antonio Labriola e «La cultura» di Ruggero Bonghi, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXVI, 1987, pp. 313-344), si rende necessario interrogarsi sulle ragioni dell’interruzione dei rapporti con «La Critica», ripresi solo dodici anni più tardi, ad un anno dalla morte di Bonghi e sotto la sotto la nuova direzione del filologo e romanista Ettore De Ruggiero. È plausibile che esse siano da ricercare nel progressivo divaricarsi delle posizioni politiche labrioliane, sempre più critico verso le posizioni di entrambi gli schieramenti parlamentari, da quelle del moderato Bonghi, convinto sostenitore, fra l’altro, di una possibile conciliazione fra Stato e Chiesa fortemente avversata da Labriola (cfr. S. MICCOLIS, Su Antonio Labriola, Ruggero Bonghi e «La Cultura» cit.).

Venendo ad una breve rassegna dei contenuti, è interessante osservare come le recensioni attestino in primo luogo il permanere di temi e interessi cari alla riflessione di Labriola già negli anni precedenti: è il caso della ferma opposizione alle pretese totalizzanti del positivismo, incapace di «collocarsi al posto suo» e irrigidito ormai in una stucchevole celebrazione dell’opera di Spencer, che emerge dalla severa critica al libro di Tommaso Traina; ma anche, del rinnovato interesse per l’opera di Lindner, al cui manuale di logica formale Labriola dedica una breve nota, incentrata non tanto sulla ricostruzione dei rapporti dell’autore con la scuola herbartiana, quanto sul valore didattico dell’opera, capace di affrontare il proprio oggetto nei termini di una «dottrina delle forme del pensiero» senza sconfinare nell’ambito della psicologia o di una «metodica delle scienze speciali». Espressione per eccellenza della “transizione” in corso sono invece le recensioni a Bärenbach e a Jhering, apparse rispettivamente nel marzo del 1883 e nel giugno del 1884. L’opera del «socialista moderato» Bärenbach è per Labriola l’occasione di interrogarsi sul significato della «questione sociale» e sull’avanzamento delle teorie che tentano di darvi risposta. Gli evidenti progressi dell’economia politica e gli sforzi della scienza sociale – l’autore non manca di rinnovare nel secondo caso le proprie riserve sui meriti di Spencer – hanno consentito di ricondurre il problema «al terreno positivo», delineando, sebbene in forma ancora «propedeutica» e «preliminare», un campo di studi in cui però la «questione operaia» si impone già come «la più notevole». Nel dare atto dello sforzo diagnostico che la scuola storica tedesca ha messo in campo, a Labriola non sfuggono tuttavia i limiti intrinseci ad un’impostazione che si rivela elusiva rispetto al problema dell’«ordinamento politico dello Stato». È in questo contesto che la lucida analisi di Bärenbach suggerisce a Labriola di contrapporre alle diagnosi incompiute dei “socialisti della cattedra”, la posizione di quei «seguaci di Marx e Lassalle» che hanno saputo porsi invece come «un semplice partito, e quel che di più un partito sovversivo»: si tratta della prima menzione in una pubblicazione labrioliana del nome di Marx. Ad un anno di distanza, il positivismo giuridico e anti-idealistico di Jhering spinge Labriola a misurarsi con l’analisi delle «condizioni di fatto» che hanno originato e continuano a modificare gli istituti giuridici. Il «capovolgimento» messo in atto dal giurista tedesco, che fa del diritto un semplice «mezzo» rispetto ai fini dell’attività umana, pone al centro l’analisi dei bisogni e degli interessi che si celano dietro l’assunzione di una determinata forma storico-sociale, come la proprietà, mostrando che tale «teoria dell’egoismo come forza produttiva delle azioni umane» è in grado di trascendere l’ambito puramente individuale, per

divenire chiave di comprensione di tutti i rapporti che caratterizzano il livello della società civile e dell’organizzazione statuale, e in ultima istanza di «ogni atteggiamento del costume», a cominciare dalla lingua. Le tre recensioni pubblicate fra marzo ed aprile del 1885 non trattano di filosofia politica o filosofia del diritto, ma forniscono nondimeno indicazioni preziose, in un caso, per meglio collocare la riflessione labrioliana rispetto ai nuovi indirizzi di pensiero venutisi affermando nella cultura europea di quegli anni, negli altri due, per una considerazione più ampia dei presupposti e dell’orizzonte di problemi connessi allo studio della filosofia della storia. La lettura di Oswald Zimmermann vede Labriola confrontarsi con i grandi temi della filosofia pessimistica inaugurata dalla riflessione di Schopenhauer e Hartmann, ma più in generale con quella sensibilità così ben incarnata «dalla musica del Wagner» e dalla più recente letteratura tedesca, che, muovendo dall’indagine psicologica sulla volontà e sul dolore, sull’«amore» e sul «pensiero della morte», poneva i fondamenti teorici di un’estetica nuova e, con essa, le premesse di un rinnovamento più ampio della filosofia europea, di cui Labriola non mancherà, anni dopo, di segnalare contraddizioni e pericoli. Rispetto al severo giudizio che il Discorrendo riserverà dodici anni più tardi alle «filosofie di privato uso ed invenzione» di Hartmann e Nietzsche (Lettera VII), e a quello ancor più sprezzante – e ingeneroso, se si considera il debito contratto da Labriola fin dai suoi primi scritti – a carico di Schopenhauer, «piccolo borghese, meschino e dispettoso, anzi ringhioso» (Lettera VIII), la recensione a Zimmermann testimonia un’attenzione ancora sgombra da afflati polemici (stupisce, anzi, non trovare alcun cenno alle posizioni notoriamente reazionarie dell’autore), e a tratti una palese ammirazione, con un’unica ma emblematica eccezione: il riferimento finale al latente “germanocentrismo”, cui Labriola contrappone il contributo della tradizione umanistica (Petrarca) e della letteratura italiana recente (Leopardi). Le recensioni a Rauber e a Hellwald, di per sé prive di particolari riferimenti filosofici, sono però accomunate dall’attenzione per l’elemento antropologiconaturale e per le sue possibili implicazioni in una visione complessiva della storia umana. Del manuale di August Rauber, Labriola sottolinea in particolare la problematizzazione del rapporto storia/preistoria e la critica di quegli «schemi» o «periodi preconcetti» che indurrebbero ad assumere invariabilmente «una certa successione fissa nelle forme e nei mezzi di qualunque civiltà». L’assunzione di queste rappresentazioni a priori finisce inevitabilmente per trascurare il fatto che, se è vero che le «generali predisposizioni» della natura umana e le più comuni «condizioni della natura esteriore» consentono di riscontrare a «grandi

linee» nello studio delle società umane «un certo ordine e una certa successione», questi devono radicarsi necessariamente in una considerazione più ampia, comprensiva di quei fattori antropologici e naturali – le «disposizioni di razza» e le «condizioni di luogo», ma anche i complessi fattori che presiedono allo «sviluppo graduale della morale e della religione» – che i rispettivi e legittimi specialismi non devono ridurre ad un ambito separato rispetto alla storia dell’uomo, ma ricondurre a «quel solo tutto che è lo sviluppo umano». I grandi interrogativi relativi alla storia naturale dell’uomo – ed in primo luogo quello connesso alla nozione di razza, rispetto al quale il cassinate ribadisce la propria preferenza per un’interpretazione non «troppo letterale» o che si estenda «oltre misura» – tornano nella recensione del libro di Hellwald, di cui Labriola apprezza il taglio divulgativo con cui i diversi ambiti della linguistica, dell’etnografia e dell’antropologia fisica sono fatti interagire fra loro, ma rispetto al quale è portato anche a rivendicare la necessità di una consapevolezza teorica, da porre «in modo preciso e scientificamente persuasivo», della differenza fra storia naturale e storia della civiltà. L’interesse più direttamente filosofico che, come si è già avuto modo di osservare, non esclude l’attenzione verso ambiti di ricerca diversi da quelli che la riflessione labrioliana è venuta assumendo come propri fra gli anni Ottanta ed i primi anni Novanta dell’Ottocento, è nuovamente protagonista in alcune delle recensioni certamente attribuibili a Labriola, pubblicate nella nuova serie de «La Cultura». La duplice recensione del maggio 1896 al libro di Max Kauffmann e alla rivista da lui fondata, la «Zeitschrift für Immanente Philosophie», ha la forma di una semplice segnalazione bibliografica. A renderla interessante è il carattere «sintomatico» – significativamente l’aggettivo ricorre, ma in una luce diversa, anche nella notizia della conferenza di Brunetière – che Labriola attribuisce al diffondersi del nuovo «indirizzo» (il testo si riferisce volutamente ad una pluralità di autori). Alla prospettiva semplicistica degli empiristi, a lungo ritenuta valida dalle scienze naturali, la filosofia dell’immanenza oppone una ricerca che, pur muovendosi «nei soli limiti di ciò che l’esperienza offre al pensiero», non cade nell’equivoco di ignorare la necessità di una «revisione filosofica dei dati». La formula di «dottrina generale dell’esperienza» con cui Labriola riassume questo tentativo ripropone così un’idea di fondo del lavoro filosofico, che affonda le sue radici nella revisione del pensiero kantiano e nel confronto con Herbart di trent’anni prima. Altrettanto chiara alla luce del medesimo percorso, ma di segno opposto, è la lettura che Labriola dà, un mese più tardi, della conferenza di Brunetière. Anticipando motivi che torneranno nella celebre lettera a Croce del 7 settembre

1903 (cfr. Carteggio, V, p. 315) l’autore riconosce nella rinascita dell’idealismo, brandita come arma contro «i veristi, i realisti e i socialisti», il sintomo di una «reazione contro la scienza»: reazione che suscita l’interesse un pubblico «misto», animato da motivazioni diverse, ma accomunato da uno spirito di rivalsa sulla cui natura di semplice «sazietà» rispetto agli eccessi del positivismo, o più verosimilmente «indizio di qualcosa di nuovo», il recensore interroga se stesso e il lettore. Sette anni più tardi, dandosi una risposta inequivocabile, Labriola scriverà a Croce che il «cosiddetto Idealismo […] vuol dire l’antistorico, l’antidivenire», un «arresto dello spirito scientifico» ed un «regresso» (Ivi). Fermandosi all’estate del 1896, del resto, non è certo un caso che le avvisaglie della «reazione» siano avvertite nello stesso periodo in cui fanno la loro comparsa, nell’epistolario labrioliano, i riferimenti ad una stagione di «pausa» e di «crisi» nello sviluppo su scala mondiale del movimento socialista.

I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA Prelezione letta nella Università di Roma il 28 Febbraio 1887

Pubblico questa prelezione tal quale la dissi sul manoscritto già pronto per la stampa. Qualche leggera correzione portata qua e là, e la giunta di alcune note non cambiano infatti nulla, né alla sostanza, né alla forma. Gli argomenti che tocco sono più proprii di libro, che non di discorso; e serrati e premuti così negli angusti confini di una prelezione, parvero a molti che mi udirono scabrosi ed oscuri. Mi sia lecito di osservare, che lo scabroso e l’oscuro è nella natura stessa delle questioni, che mi premeva di designare come quelle che formano oggetto della filosofia della storia; ma che io non ci ho messo proprio nulla del mio ad accrescerne la intrinseca difficoltà.

Ecco il Sommario della Prelezione: La filosofia della storia è una tendenza, e non una dottrina costituita. [I] Questioni di metodo: — dell’interesse alla ricerca storica; — del procedimento e della certezza del risultato; — della obbiettività della esposizione. [II] Questioni di principii: — della natura del fatto storico; — la teoria della civiltà; — della psicologia sociale e della legge storica; — della neoformazione e del processo. [III] Questioni di sistema: — la storta universale; — l’ipotesi monistica; — le serie indipendenti e irriducibili; — la storia della civiltà, e a quali pericoli sia esposta; — imprecisione nel concetto del progresso; — risultato critico.

Se alcuno mai per caso si provasse ora a mettermi alle strette con questa domanda: fate di definire, e sia pure con la parafrasi di un discorso, il preciso concetto di filosofia della storia; io risponderei senz’altro: a dirittura non posso. Ma non per questa confessione, che faccio a voi qui dal bel principio, io mi sento punto imbarazzato a dire, se non altro per accenni, ma pur sempre con qualche approssimazione di esattezza, delle ragioni che c’inducono a filosofare su la storia, e dei problemi che sorgono naturali nel nostro spirito, quando, in tale disposizione della mente, sottoponiamo a novello esame i metodi, i principii obbiettivi, ed il sistema delle conoscenze storiche. Con questa doppia affermazione, del non poter, cioè, definire e del poter discorrere, io intendo di dire precisamente, che il nome di filosofia, in questa particolare applicazione, non designa già un corpo di dottrine, dichiarato in ogni parte e consacrato dalla tradizione, di cui poi si possano indicare con qualche facilità i limiti e le forme secondo un particolare intendimento di sistema o di scuola, ma sì invece una tendenza, più o meno esplicita, ma generale sempre nello spirito dei nostri tempi, e latente nei presupposti e nelle conclusioni di quelle discipline storiche, che abbiano raggiunto un più alto grado di esattezza scientifica. E dicendo tendenza, si vuol dire di cosa che non ci disobbliga dal primo primissimo lavoro di analisi e di combinazione, e non ci permette di adagiarci tranquilli sopra una tradizione bella e stabilita. In tutte le discipline, che come questa si trovino allo stato di tentativo, o di preparazione, le attrattive son certamente grandi, ma massimo è il pericolo dell’errore; e per questa ragione ho detto, che non è il caso di una semplice definizione formale, che si vada poi parafrasando in un discorso. Ed ecco, dunque, che io limito la mia prelezione a dire per sommi capi delle principali questioni d’indole generale, che nascono nel nostro spirito dalla considerazione scientifica dei fatti umani storici; e in luogo di definire ab intrinseco, come farei della logica, della psicologia o dell’etica, porto la mia attenzione su le cose stesse, da cui nascono le difficoltà, e da cui si originano i problemi, che sono per me i motivi del filosofare su la storia.

[I] La vasta materia ed il larghissimo campo di conoscenze, che di solito chiamiamo storia, non forma oggetto per noi, né d’intuizione diretta, né di vera e propria osservazione, se pure all’una ed all’altra parola vogliamo attribuire un significato preciso; per non dir poi dell’esperimento, che qui non c’entra per nulla. Perché si venga a capo di fare indagini sul passato, che riescano a darcene un’idea possibilmente piena, o per lo meno adeguata, bisogna innanzi tutto che certe determinate inclinazioni dell’animo ci dispongano a certi particolari interessi, e che poi usiamo con diligenza di specifici istrumenti di metodo, i quali affidino della precisione dei risultati. E quando i risultati, ottenuti per cotali avviamenti e mezzi, si voglia poi metterli assieme e coordinarli, perché ne venga fuori una determinata configurazione, che chiamiamo epoca, periodo, stadio di civiltà o altrimenti, c’è questa massima, che ha tutta l’aria di un postulato, anzi di un imperativo, che la rappresentazione, cioè, debba essere spassionata, non regolata da preconcetti, in una parola obbiettiva. Natura e qualità intrinseca dell’interesse, che ci muove alla ricerca, precisione del procedimento, che assicuri della certezza del risultato, obbiettività della esposizione: ecco tre concetti di propedeutica e di metodologia speciale, i quali, quando sian presi in esame, dan luogo a non poche considerazioni formali di critica, in ragione dei principii conoscitivi che includono, o a cui rimandano. Nel qual caso il filosofo non può a meno di metter bocca. Trattandosi di una conoscenza d’un genere particolare, preme, innanzi ad ogni altra cosa, di sapere con precisione per quali aspetti e per quali ragioni essa si distingua dalle altre maniere di conoscenza, e in quali interessi del nostro spirito abbia il suo centro e i suoi fondamenti. I progressi delle discipline particolari storiche non son di certo indipendenti da cotesta considerazione generale; perché la bontà della ricerca, ossia la esattezza del procedimento, non potendo in questo caso particolare dipendere dall’uso degli istrumenti esteriori e del calcolo, come nelle scienze naturali di pura osservazione, consiste principalmente in quelle disposizioni interiori dell’animo, che per difetto d’altra parola chiamiamo cultura; nelle quali disposizioni entra per non piccola parte il concetto generale della vita, il sentimento complessivo della società, della religione e dello stato, la fede od il dubbio su l’umano destino. L’interesse alla ricerca storica, come risultato di tutte le disposizioni intellettive ed etiche, estetiche o religiose, politiche o sociali dell’animo nostro, è esso stesso già per sé parte integrante della nostra cultura; e nei suoi modi e forme, e nelle sue attinenze e

conseguenze, dipende dalla complessiva costituzione dello spirito, in un determinato stadio dello sviluppo interiorea. Ai nostri tempi, dicono e con ragione, cotesto interesse è diventato più scientifico che non fosse in passato; e per questa mutazione appunto si è giunti a sottoporre ai principii esatti di una analisi rigorosa, e di una varia, complessa ed ingegnosa combinazione, molta parte di quella materia, che un tempo formava argomento di caotica erudizione, o rimaneva abbandonata al geniale discernimento di un fortunato ricercatore. Ora, precisamente per effetto di cotali progressi, che ci permettono ad esempio di discorrere di linguistica e di filologia come di discipline scientifiche, i motivi della ricerca, e le forme dei suoi procedimenti, costituiscono di necessità un capitolo interessante della teorica della conoscenza, nelle sue speciali applicazioni. L’analisi dell’interesse, e la ricerca dei canoni conoscitivi della retta intelligenza ed interpretazione storica, portano a questioni d’indole generale, che, guardate qui nella somma e rapidamente, si riducono a due brevi domande. Che cosa si deve intendere, in questo particolare rispetto, per certezza del risultato della ricerca; e che vuol dire obbiettività della esposizione? La esattezza del procedimento e la certezza del risultato, come tutti sanno alla prima, varia non poco dall’una all’altra delle discipline storiche, secondo che la materia in cui s’occupano consti di condizioni più o meno isolabili da altre condizioni concorrenti, e riposi sopra elementi, o fattori, più semplici, o più complessi. Il primitivo profilo p. es. di un antichissimo istituto giuridico riesce di gran lunga più facile a ritrarre, che non la configurazione complessa della convivenza umana, per rispetto alla distribuzione economica del lavoro e della proprietà; e le varie vicende delle forme politiche dello stato si spiegano e si chiariscono alla nostra mente con maggiore facilità, di quel che non accada dei motivi sociali ed etnici, di cui le forme dello stato sono, non che le conseguenze, i veri e proprii esponenti. Il divario è poi massimo fra il dato fissabile, e spesso imitabile di una lingua antica, e i prodotti della fantasia mitica, i quali, nella loro incertezza, e anzi fluttuazione, ci mettono in tanta perplessità di apprezzamento, che le nostre interpretazioni, pur sotto alle apparenze di una dicitura scientifica, risentono assai spesso dell’immaginoso, che è proprio della materia cui si riferiscono. Da queste considerazioni si può inferire, in primo luogo, che la certezza del risultato non si misura soltanto dalla precisione istrumentale dei metodi paleografici, filologici, linguistici, o come altro si chiamino, ma anche e principalmente dal grado di trasparenza e di riproducibilità teorica della materia presa in esame: e in secondo luogo, che gli elementi teorici coi quali s’interpreta il fatto storico, quando siano stati per se stessi convenientemente dichiarati, dan

luogo a discipline generali, che fanno come da capisaldi di ogni ulteriore ricerca particolare. L’esempio della linguistica, per questo rispetto, dimostra con la massima evidenza come sia possibile la conversione dei fatti storici, empirici e disgregati, in principii ordinati di vera dottrinab. E, venendo al punto della obbiettività, gli è chiaro senza ricorrere a particolari spiegazioni, che un simile concetto non presenti alcuna seria difficoltà, tutte le volte che venga inteso come il semplice contrapposto dei pregiudizii nazionali, o religiosi, politici, o sociali dello scrittore; perché può dirsi che si tratti oramai di causa vinta, se guardiamo soltanto ai propositi ed agli intenti dei cultori delle cose storiche, sotto gli aspetti più generali. Ma dal concorso di svariate discipline, che occupandosi in diverso modo e per varie vie nello studio delle cose umane, tutte mirano a ritrarne ed intenderne la vera ed intima natura, son nate delle difficoltà nuove, la cui gravità si fa subito palese, pur che siano indicate. Scrittori insignia di economia si son provati a subordinare tutti i movimenti più importanti della storia civile al criterio della lotta per l’esistenza, e della distribuzione della proprietà e del lavoro, con le conseguenze di subordinazione e di gerarchia che naturalmente ne derivano. Seguaci risoluti della così detta fisica sociale han preteso di considerare tutti i fenomeni di convivenza, come casi particolari di configurazione demografica. Pei moralisti e politici tradizionali il valore della persona umana è di gran peso; mentre i sociologi recenti inclinano a considerare la personalità individua, come un caso particolare rispetto alla conformità tipica della personalità collettiva. Le predisposizioni fisiche, che formano oggetto degli studii antropologici ed etnografici, furono talvolta intese con tanta esagerazione, da parer quasi che il lavorio secolare della civiltà si riduca alla semplice evoluzione naturale di dati fissi e insuperabili. E su questo andare non c’è da finirla! Ma in tanta contesa di discipline svariate, che si disputano la interpretazione dei fatti umani, la storiografia tradizionale, pure usando come meglio sa e può dei risultati di quelle, segue sempre le partizioni di mera convenienza per popoli ed epoche, e non riesce sempre a rappresentare con perfetta perspicuità la somma delle condizioni e delle relazioni su cui si fonda. Ed ecco come la esigenza della obbiettività, che non vuol più dire il semplice opposto della subiettività accidentale del ricercatore, si tramuta in consapevole tentativo di conciliare, in modo reale e positivo, i diversi elementi e le varie funzioni che concorrono alla formazione del fatto storico. E quando di cotesta conciliazione si voglian poi ricercare le ragioni per davvero più intime e più generali, ecco che la questione piglia forma di grave e difficile problema teorico su la natura delle condizioni proprie del vivere umano, così nei limiti della

psicologia individuale e sociale, come nei rapporti della psicologia stessa con le basi fisiche dell’esistenza, e nei modi di sviluppo che ne conseguitano. La soluzione di così fatto problema, che nel suo vasto assunto ha per oggetto di chiarire il valore specifico, correlativo e complessivo dei così detti fattori storici, non è chi possa dirla indipendente dal concetto generale della scienza; il che è come dire dalla filosofia, la quale è dottrina fondamentale dei principii della scienza. Questo primo gruppo di questioni, che ho qui toccato di volo, concerne la propedeutica della concezione storica, nei tre aspetti dell’interesse, che ci muove alla ricerca, del metodo che teniamo nel ricercare, e della esatta, ossia, della obbiettiva esposizione. Non temerei di dare a questo gruppo il nome di Historica; parola foggiata la prima volta dal Gervinus4 in analogia a pedagogica e grammatica, e usata poi dal Droysen a titolo di un pregevole libricino, sul quale del resto non intendo qui nemmeno di passaggio di pronunziar giudizio in particolare, né pro, né contraa.

[II] Più gravi sono per fermo le questioni che nascono dal considerare i principii reali, su cui poggia la indagine e la esposizione. Nella infinità degli accadimenti umani quali son quelli che chiamiamo storici? E li chiamiamo così per uso e per tradizione, o perché abbiamo una ragione intrinseca per distinguerli, e poi contrapporli ai fatti umani che non sono storici? La specificazione, insomma, è essa apparente, o reale; fondata su la convenzione, o su principii conoscitivi stabili? Nella varietà dei casi e degli accadimenti storici, già distinti e contrapposti come che siasi a quelli che non teniam per tali, si trovano come delle forme di rapporto e d’insieme; p. es., le istituzioni politiche, gli ordinamenti familiari, i sistemi di proprietà, le letterature tenute e trasmesse per secoli come esemplari, le credenze religiose, che rispecchiano tutta una fede nell’infallibile; le quali forme assorgono dal corso ordinario e naturale della specie come per rilievo, anzi pare rappresentino come dei nessi o plessi di attività, come degli organi di coordinazione, come dei centri di attrazione. E la gran corrente, che è quella che più comunemente e volgarmente chiamiamo contingenza storica, pare s’infranga innanzi a cotali formazioni resistenti, e non riesca a roderle e scomporle, se non a patto di fermarsi e di raccogliersi essa stessa, per produrre di bel nuovo altri sistemi equivalenti per ufficio ed energia. Ora quale è il fulcro, o il subietto, in cui risiedono coteste formazioni in mezzo al perpetuo mutare degli individui, e quale è la forza che le contiene, e in che consiste l’energia e il ritmo di cotesta forza? In alcune di coteste forme, quando sian messe a confronto, appariscono evidenti i caratteri del prima e del poi, dell’antecedente e del conseguente, della preparazione e del compimento: e perché l’evidenza di tali contrapposti è così grande, che la nostra attenzione ne riman colpita senz’altro, la ricerca storica s’è come inconsapevolmente abituata a trar partito dal sentimento della successione; e fa giudizio di fatti cronologicamente indipendenti, usando del semplice criterio dell’analogia; e su questo andare tiene per certi e per indiscussi i concetti di trasformazione e di neoformazione, per dati e aspetti empirici. Il sentimento scientifico, se non la scienza propriamente detta, s’è venuto po’ per volta impossessando di cotesti aspetti o peculiari condizioni di conoscenza; e le persone colte si abituano, come per acquiescenza, ad ammettere un che di speciale del vivere umano che si chiama storia, che pur svolgendosi sopra i comuni dati antropologici, ha l’apparenza di costituire un mondo a sé. E le formazioni stabili paiono per naturale conseguenza, senza che se ne discuta

altrimenti, come il centro principale dell’attività, per rispetto a cui tutto il resto assume la parte di semplice condizione, o di complemento. E le neoformazioni si accettano qual fatto immediato del passar della vita d’una in altra condizione; e quando accada di associare al concetto del semplice processo un qualche apprezzamento pratico, si parla poi di progresso e di regresso. Al filosofo, che ripensi a cotesti presupposti impliciti nella ricerca e nella cultura dei nostri tempi, parrà naturale di chiedersi, se c’è modo di giungere a una definizione intrinseca del fatto storico; se sia possibile di determinare i fulcri su cui riposano i sistemi di attività coordinata; e che significato e valore abbiano le neoformazioni; e in questi tre capi per l’appunto si assolve la dottrina dei principii reali. Gli storiografi puramente tradizionalisti, e i cultori delle discipline storiche, i quali si tengano per inclinazione o a disegno nei limiti del puro empirismo, risolvono la prima questione in modo semplice e spiccio: tirano come una linea fra il mondo della civiltà e quello dei così detti selvaggi o barbari, e interpongono come un piano fra le classi dirigenti e rappresentative delle società avanzate, e le moltitudini, lo studio delle quali rimane abbandonato, secondo i casi, all’etnografia, o alla demografia. Se non che, non pare a tutti ragionevole di appagarsi di cotesta artificiale spartizione, per effetto della quale i monti p. es. della Libia, per rispetto all’antichissimo Egitto, o il Danubio ed il Reno al tempo dell’impero romano, o la semplice enumerazione delle classi partecipanti alla vita pubblica in una determinata forma di convivenza politica, dei fatti, insomma, estrinseci e quasi accidentali, son chiamati a tener luogo di preciso criterio di una formazione interiore. E la scienza dei nostri tempi, per l’appunto, riandando le connessioni dei popoli che han nome di civili con gl’incivili, ed esaminando gli elementi primi della civiltà, per quello che essa ha di comune col vivere dei popoli che usa di chiamar naturali, ha come spostato gli oggetti proprii della ricerca, ed ha prolungato d’un buon tratto la serie delle condizioni che concorrono a formare la storia. Gli studii sociali in genere, e molti altri che a quelli si conformano nell’indirizzo e nel metodo, han messo in chiaro come nel piano sottostante delle moltitudini si trovi precisamente molta parte degl’incentivi, delle cause e degli impulsi di quelle attività, che siam soliti di studiare come per riflesso ed in compendio nelle così dette classi dirigenti e rappresentative. Per cotesto allargamento, così nel campo degli oggetti come nel complesso delle nostre vedute, i limiti fra la storia e la non storia si sono come spostati, anzi son divenuti a dirittura tanto incerti e labili, che tutti quelli i quali per disposizioni mentali, o vuoi idealistiche o vuoi realistiche, inclinano al monismo, cioè alla riduzione del sapere al principio dell’unità, non si peritano di

affermare qual fondamento esclusivo della scienza che concerne le cose umane storiche, il principio della semplice e nuda evoluzione. Una certa maniera di sentimento fatalistico c’indurrebbe così a ridurre in serie unica di modi e di forme successive i processi d’ogni genere, dagli embrionali dell’antropologia fino ai prodotti più complicati del pensiero e della civiltà; e su cotesto andare non c’è ragione per non accogliere con plauso il paradosso dello Schopenhauer: Alle Historie ist Zoologiea 8. Ma la fretta, o signori, che è mala consigliera in tutto, è per davvero una pessima consigliera nella scienza; la quale vuol essere principalmente critica, cioè sentimento preciso della distinzione. Gli storiografi tradizionalisti, infatti, mantengono vivo il principio della distinzione; e sono dalla lor parte i giuristi, e tutti quelli che coltivando le scienze morali sentono vivo il bisogno d’intendere l’operazione umana nei varii gradi della sua genesi interiore. Perché, si dice, dalla convivenza primitiva all’ordinamento volontario dello stato, dalla fantasia cosmologica del selvaggio alla speculazione scientifica che ci dà le leggi della natura, dall’impulso immediato sessuale all’ordinamento etico della famiglia, non c’è un semplice trapasso d’uno in altro punto della medesima serie, e non la semplice accumulazione secolare ed inconscia di prodotti che si alterino da sé, per impulso inerente alla lor propria natura; ma sì invece una certa maniera di tramutamento nell’azione propria dello spirito, una vera e propria epigenesi di natura peculiare. E le scienze storiche speciali, non meno che la storiografia generale, han bisogno di una teoria epigenetica della civiltà, se non vogliono, o smarrirsi nel cieco evoluzionismo, o rimanere campate in aria, fidando nel vago sentimento di differenze non riducibili a criterii fissi. Anzi dirò, per discorrere più in volgare, che secondo cotesto intendimento, che è pure il mio, dal cranio, e dalle altre disposizioni originarie della razza mediterranea, all’arte greca ci corre tanta distanza di specifiche differenze, da ridurre a peculiare spiegazione, quanta ne corre dalla forma dei miei capelli al valore di persuasiva logica che per avventura può avere questo mio discorsoa. Cotesta considerazione epigenetica della civiltà, che è una maniera di psicologia del genere, della schiatta, del popolo, e della storia secondo l’ovvia accettazione, a mio avviso ha un perfetto riscontro nel metodo genetico della psicologia individuale, nella quale tutto si è connesso per condizioni e condizionato, per presupposti ed inferenze, ma non già per semplice causa meccanica; perché non è chi possa immaginare, che la coerenza logica del pensiero non sia che un caso particolare dell’associazione psichica, o che la volontà etica non rappresenti che una modalità dell’impulso. Temperamento e carattere, ecco il riscontro più palpabile! Né è a dire che il processo genetico

escluda l’epigenesi; ché anzi l’include, come necessità di scienza che voglia rendersi esatto conto del valore dell’esperienza: il che è luminosamente dimostrato, in altro campo di studii, dai rapidi progressi dell’embriologia, poi che fu abbandonata l’ipotesi fantastica della teoria germinale della preformazione. Dato cotesto avviamento di teoria alla questione che concerne la differenza intrinseca fra vita umana in genere e attività storica in particolare, le altre due, che ho indicate più su, rimangono per lo meno chiarite e precisate. I sistemi, o plessi, o nessi di attività permanente, che procedono da similarità di bisogni, da comunità d’intenti, da accordo di inclinazioni, da rispondenze di fantasia, non sono semplici concrezioni accidentali, o incontri fortuiti di attitudini individuali, ma un che di specifico, che offre alla nostra considerazione scientifica la materia e il mezzo di formulare dei problemi ben determinati. E ad esempio, quel non so che, o meglio, quel non si sa che di comune in cui consiste il plesso, il nesso od il sistema, che chiamiamo di solito istituzione, tradizione religiosa, o altrimenti, riposa esso sopra una mera disposizione analoga di molti individui semplicemente conviventi, o è un qualcosa di specifico e di valutabile come fatto psicologico, che dia ragione alle parole di spirito pubblico, di coscienza sociale e simiglianti? Alcuni anni fa io feci oggetto d’una critica, direi quasi spietata, un manuale di psicologia sociale uscito dalla penna di uno dei minori scrittori della scuola herbartianaa, e tengo fermo anche oggi nei miei dubbii e nelle mie riserve per rispetto alle formule troppo recise di qualsivoglia psicologia sociale; appunto perché vedo quanto ci sia di frettoloso e di poco conclusivo nella più parte dei libri che pigliano a fondamento delle loro indagini il cosiddetto spirito collettivo, e con tal proposito innalzano un edificio di bella apparenza, ma tutto fatto di frasi analogiche: del quale appunto non è chi possa scolpare lo Schäffle, scrittore per altri rispetti notevolissimo10. Io credo, in somma, che in cotesto genere di studii siamo ancora allo stadio della preparazione, e che non abbiamo superato la critica elementare, che dee formare oggetto di una propedeutica speciale. Ma, come a spiegare plausibilmente i plessi e i nessi storici, ad intendere, insomma, quei sistemi di attività coordinata che chiamiamo diritto, religione o simili, gli è cosa indispensabile di sorpassare i veri e proprii confini dalla vita individuale, e quella cerchia ancora in che consiste la semplice convivenza per similarità d’individui, non si può a meno di attribuire alla coscienza sociale il valore preciso di una funzione determinata. In cotesta maniera di considerazioni io tengo all’indirizzo dello Steinthal e del Lazarus, senza che io voglia però qui discorrere più specialmente, né delle

particolari applicazioni, né delle singole illazioni loro; e non senza attribuire un gran peso alle obbiezioni sobrie e calzanti fatte non è guari dal Wundta, a proposito di quelle più radicali, anzi negative, del linguista Paulb. A cotesto presupposto dei sistemi, in cotale aspetto psicologico, si connette direttamente il concetto di legge. Non è infatti chi possa immaginare, o credere che il supposto di legge si debba ritrarlo dall’ordine ovvio della cronologia estrinseca degli avvenimenti, secondo che la storia è di solito narratac, e che vada poi applicato come mezzo probabile di previsione. Il significato di legge in questa particolare accettazione è analogo a quello della morfologia nelle scienze organiche; e consiste precisamente nel riconoscere le condizioni di corrispondenza; o d’azion reciproca, da cui nasce un dato tipo. La qual cosa apparisce massimamente chiarita, dai risultati maravigliosi del metodo comparativo in fatto di lingue, di miti, di costumi e simili; il pregio della qual maniera di studii non istà principalmente nel cumulo delle infinite notizie, ma nel fatto che le omologie di tipo ci mettono in grado di completare una tradizione od un istituto anche antichissimo, che di frammentario che ci fu trasmesso, per il riferimento comparativo piglia poi contorno più determinato e preciso. Per via di cotali ricostruzioni si giunge via via a tipi più generali, come son quelli che designiamo coi nomi di ariano, di semitico e simili; nelle quali caratteristiche non è nulla, d’intuibile e di esperimentabile alla prima, come quando si dica delle differenze di neri e di gialli. Data la interpretazione teorica dei fattori della civiltà, come criterio distintivo reale della storia dalla non-storia, dato il concetto del sistema per funzione di coscienza sociale, dal qual concetto risultano e la legge e il tipo, la storiografia tradizionale, che usa del criterio prospettico della successione nel tempo per dati di cronologia uniforme, si risolve da sé come in tanti processi di formazioni specifiche, aventi il proprio ritmo, e indipendenti dalle divisioni convenzionali di oriente e di occidente, di antico, di medioevale e di moderno, o come altro si dicano. E di fatti, lo studio specifico di alcuno degli ordini precisi di fatti omogenei e graduati, ci ha dato ai nostri tempi i primi serii tentativi di scienza storica; e se non in tutte le maniere di studii fu sino ad ora possibile di raggiungere l’esattezza della linguistica, e specie dell’ariana, non è improbabile, a giudicare dagli avviamenti, che il medesimo debba accadere di altre forme e di altri prodotti dell’attività umana. Con questi studii, come con vero e proprio oggetto di scienza, il filosofo della storia deve simpatizzare, se non vuole che le sue elucubrazioni e il suo insegnamento divengano pretto esercizio di retorica speculativa. E venendo ora al punto del mutar delle forme, ossia delle neoformazioni, tanto

per toccarne brevemente dirò come l’essenziale stia nel precisare il concetto di origine storica; il qual concetto, se fu altra volta e in altri tempi travisato da un certo sentimento di strana ammirazione, che confinava con la fede nel miracolo, al presente poi oscilla nella mente di molti fra la rappresentazione fantastica della semplice preformazione, e la immagine di una serie indefinita di mutazioni tutte ricondotte ad unità di principio formale. La scienza severa e consapevole dell’ufficio e dei limiti suoi, si terrà sempre all’analisi qualitativa e specifica di quei fatti storici, che, apparendoci ora in forma di maggiore complessità, serbino però come per indizio le tracce degli stadii più elementari, risalendo ai quali s’ha più preciso il sentimento della prima originazione. Bisogna per ciò fermare l’attenzione su quelli principalmente, i quali, essendo per sé caratteristici, ci tornino anche documentati in una serie abbastanza estesa di forme successive e graduate. L’apparire p. es. della coscienza subiettiva ellenica, prima nella lirica e poi negl’inizii di pensiero, che più tardi furon detti filosofia, come caso caratteristico di epigenesi qualitativamente specificata, vale assai più di qualsivoglia erudizione letteraria faticosamente raccolta in ogni parte della storia, che presenti i medesimi fenomeni con contorni meno precisi, e in documenti meno analizzabilia. E veramente in questa come in ogni disciplina affine, alla universalità dell’intento conviene di congiungere la particolarità della ricerca; e il filosofo della storia dee guardarsi bene dal perdersi in infiniti particolari, e dal lasciarsi poi vincere dall’illusione, che sia lecito di spiegare ogni cosa, come per astratti simboli di cognizione formale. Perché il limite entro del quale gli è lecito di muoversi, senza che ne rimanga turbato il paziente lavoro dei particolari ricercatori, consiste nello studio dei fattori intrinseci della civiltà, nell’analisi della coscienza sociale, e nella determinazione della legge, del tipo e della epigenesi; in una parola, in questioni e problemi d’indole generale, perché conoscitivi e psicologici. Ma al sentimento di cotesto limite, che giova come a dire a fissar bene i termini di buon vicinato coi commilitoni della scienza, il filosofo ne vorrà aggiungere un altro, che riflette più vivamente e più direttamente il carattere intimo e particolare della ricerca: cioè, che ei s’imponga la doverosa cautela di usare del criterio conoscitivo della neoformazione solo quando l’analisi qualitativa lo permetta o lo richieda, ma di non sorpassarlo mai. Questo concetto stesso, come quello di ogni mutazione, alterazione o accadimento, diventa argomento di dubitazione e di critica nella dottrina dei primi principii, ossia nella metafisicab: ma cotesta dottrina metafisica, che si fa una volta tantum per tutto il sapere umano inteso nella somma dei suoi concetti regolativi, non si può

cacciarla senza turbamento in ogni particolare di scienza, come se fosse un’arte magica della ragione. Guai p. es. al matematico, che per ogni particolare dimostrazione rifacesse ab imis tutta la questione dello spazio! A sorpassare, infatti, cotesto limite, e a perdere il senso critico nell’uso dei concetti regolativi della ricerca, si rischia nel caso nostro di cadere in uno di questi tre errori: – o di ricorrere all’idea di un Dio trascendente, che torni di quando in quando nelle cose del mondo a ravviar la macchina, con nuovo impulso, e per nuova destinazione; – o di ammettere la fantasticheria di una preordinazione germinale, data la quale, così per addurre un esempio, gli scrabocchi dell’Australiano diventano il primo saggio del futuro quadro di Raffaello, e il primo capitolo della psicologia del Lotze si troverebbe già adombrato nel cervello di uno Zulù; – o di darsi vinti alla cieca immagine del divenire universale, che ora chiamano con altro garbo di moda evoluzionismo, nella qual concezione non si spiega più nulla, perché l’oggetto da spiegare diventa criterio della spiegazionea.

[III] Oltre a cotesti due ordini di considerazioni, che concernono i principia cognoscendi e i principia essendi della vita umana storica, ve n’ha un terzo che si riferisce alla sistematica generale; cioè al bisogno di ridurre ad unità le nozioni positive, che siano state rettamente e sicuramente acquisite. Noi abbiamo già da un pezzo una così detta storia universale, che è una maniera di rappresentazione prospettica, in cui prevale l’ordine cronologico, a volte variamente combinato con le grandi partizioni geografiche. Ma non è oramai chi non sappia, come cotesto ripiego didattico, o tentativo di collezione enciclopedica, non esprima già un disegno preciso per dati scientifici; e come il solo desiderio di comporre una storia universale porti di necessità all’ibridismo della ricerca, e al convenzionale delle classifiche; per non dire della monotonia che è inseparabile da tal maniera di libri. Ma, o sia però che lavori dentro del nostro spirito un sentimento indistinto, o un vago concetto dell’unità ideale del genere umano, o che la paziente e rigorosa ricerca dei particolari, con lo scovrire e col ritrarre dal vero delle connessioni sempre più varie e multiformi, ci faccia argomentare se n’abbiano a trovar poi delle altre sempre più generali e più complesse, sta il fatto che in molti è viva sempre la fede nella unità effettiva della storia, che rifatta dentro del pensiero, possa esprimersi come per immagine in un quadro grandioso. Anzi la più parte dei libri, che alcuni anni fa recavano in fronte il titolo di filosofia della storia, e non a ragione per quel che affermiamo noi ora, furono ideati e scritti col presupposto di cotesta unità reale, che il pensiero avesse a penetrare a riprodurre, integralmente se mai. I nomi celebri degli Herder e degli Hegel, per tacer degli altri che, o al primo, o al secondo si ricollegano, valsero a dare non che diffusione perfino popolarità a cotesta concezione, massime se le vedute loro furono male intese, e peggio interpretate; ed oggi ancora nelle persone colte e negli studiosi è radicata l’opinione, che la nostra disciplina non possa onninamente intendersi in altro modo; e dal giudizio che molti fanno su l’insuccesso di quelli o di altrettali tentativi, si argomenta alla fallacia dell’intero assunto. M’è toccato più volte di sentire a ripetere la necrologia della filosofia della storia da molti, i quali, com’è naturale, non sono in grado di verificarne, né l’atto di nascita, né la fede di battesimo! Gl’intendimenti, invero, per effetto dei quali si giunse all’ardito disegno di una trattazione filosofica della storia universale, sono in buona parte di origine extrascientifica, e quando sian presi in accurato esame non resistono alla critica.

L’insussistenza e la fallacia dell’assunto, che ebbe pochi anni fa diffusione e popolarità, dipende precisamente dalla qualità dei preconcetti religiosi, sociali o di metafisica monistica da cui fu derivato. Nella tradizione della nostra cultura occidentale, l’unità storica universale apparisce per la prima volta come adombrata in forma teologico-fantastica nella letteratura apocalittica dell’ebraismo posteriore. Venendo più in qua, nel Cristianesimo dottrinale i concetti della praeparatio evangelica e della escatologia divennero come i capisaldi del moto generale degli avvenimenti14; e poi giù giù per secoli l’ordinamento provvidenziale di tutta la storia parve a molti cosa certissima per fede. Gli storiografi e i critici del secolo decimottavo cominciavano appunto a liberarsi dai termini artificiali delle quattro monarchie15, e da altrettanti pregiudizii, e tentavano appena per la prima volta di ricondurre a gruppi omogenei gli accadimenti, il che è il solo modo per risalir poi alla similarità delle cause e delle forme interiori, quando per lo scoppio delle idee liberali, e per effetto della rivoluzione sociale che ne seguì, l’ideale eticopolitico dell’umanità, come di astratto compendio di ogni aspirazione di libertà, spostò di nuovo e d’un gran tratto la considerazione delle cose storiche. Il pregiudizio teologico fu come soppiantato da un nuovo pregiudizio, la cui somma è in una rappresentazione fantastico-umanitaria, o meglio in una violenta persuasione del progresso, per effetto della quale ogni maniera di operosità è intesa come per immagine qual parte, o anzi momento, di un gran processo di preparazioni e di compimenti. La filosofia monistica, la quale culmina in Hegel come in suo fastigio e coronamento, per gl’influssi teologici di cui sentiva ancor vivissima l’azione, e per la natura stessa del suo assunto, che è quello di ridurre ad assoluta unità ogni materia conoscibile ed ogni metodo di conoscenze, mise come il suggello a cotesta concezione umanitaria di un processo unico di tutti gli accadimenti storici. E le scienze infatti, che in via positiva studiano i processi specifici della lingua, del diritto, dell’arte e simili, si sentirono per effetto di cotale tendenza a gran disagio, anzi come condannate a un letto di Procuste, e più volte sviarono dal loro intento per aver serbato soverchio ossequio ad una sistematica astratta, dalla quale si son poi venute faticosamente liberando, e devono in gran parte il loro presente assetto ai modi coi quali si son venute emancipando da cotesti e da altrettali pregiudiziia. Per effetto di cotal moto critico del pensiero, di cotesta storia filosofica universale a schema o disegno generale non se n’è fatta che poca negli ultimi anni; e quelli che ci si ostinarono di più furono i seguaci più o meno espliciti dell’Hegel, come l’Hermann, il Biedermann, e il Vera fra noi17, nei lavori e nelle monografie dei quali scrittori c’è sempre molto da imparare, per

chi guardi ai particolari soltanto, ma c’è da ritrarne soprattutto il salutare ammaestramento, che l’intero assunto è da ritenere per schiettamente assurdob. Le obbiezioni, che sorgono naturali dalla considerazione delle cose stesse, possono riassumersi nei seguenti capi. I centri primitivi di civiltà sono molteplici, e non riducibili per effetto di nessuno artifizio; il che vuol dire, che i varii inizii di vita umana civile non c’è modo di ricondurli, né ad unità reale di causa, e nemmeno a semplice unità prospettica. Le stesse civiltà, che risultino connesse da rapporti causali definiti e precisi, tengono nella serie di trasmissione, e nel lavoro di ricambio, un certo modo di procedere, dal quale noi siam costretti ad argomentare, che i fattori preesistenti all’influsso operino come modificatori, cioè dire che l’influsso si eserciti in termini sempre condizionati. E da ciò procede ancora, che due o più civiltà, per molti rispetti connesse, ci appariscano poi incomparabili in più punti di valore massimo. Dati ed ammessi, ad esempio, come del resto è cosa innegabile, gl’influssi egizii e semitici su la primitiva civiltà ellenica, a nessuno parrà naturale di scrivere dell’arte assira come del primo capitolo della storia dell’arte greca. In cotesto caso, anzi, la reazione su gl’influssi ricevuti dal di fuori è un che di specifico, in cui consiste appunto il problema interiore della vera e propria originazione, come di quella peculiare epigenesi ariana, che chiamiamo ellenismo. Dato ed ammesso, come è fuori d’ogni dubbio, che la filosofia ellenica abbia influito su la formazione del Cristianesimo dottrinale, cioè dire su la patristica, non è chi possa considerar questa come un caso particolare di quella; perché il generatore specifico delle idee cristiane vuol esser qui considerato nella sua indipendenza, e nella efficacia della sua qualità. In questa categoria di combinazioni per incidenza rientra, ad esempio, anche la feudalità degli stati romano-germanici; a intender la quale si son foggiato un problema immaginario tutti quelli che abbiano voluto vederci una formazione originaria. Ora la considerazione di tante serie proprie ed indipendenti, di tanti elementi specifici, di tanti fattori irriducibili, di tante incidenze non preordinate, quante ne presenta la storia studiata al lume di una critica spassionata e penetrativa, ci consiglia, e anzi c’impone di tenere per inverosimile e per illusorio il supposto di una reale unità, che sia come il punto di riferimento, il subietto costante, o la significazione massima d’ogni sorta d’impulsi e d’opere, dai primissimi tempi fino ai nostri; la quale unità il filosofo riuscirebbe poi a ritrarre per virtù di pensiero, e a tratteggiare per arte di esposizione. Ma si dirà: l’attitudine stessa del nostro spirito a farsi passare innanzi, come per riproduzione, tanta vicenda di casi, tanti diversi ordini di fatti, o similari o

indipendenti, e a classificarli poi, non dice proprio nulla in favore, o a scusa almeno, di quella tendenza, che avete or ora criticata, pigliandola così nelle estreme conseguenze di certi particolari sistemi? Perché, quando si voglia prescindere dal posto che gli Hegel, od altri filosofi i quali si accostino alla sua maniera, vollero attribuire al concetto dell’unità storica nella totalità della loro veduta intorno alla natura delle cose, rimane sempre vero che nell’animo nostro è assai vivo un presupposto latente in ogni ricerca, che cioè, se il pensiero rifà la storia, questa debba in qualche modo, o celare un pensiero, o essere così fatta che si presti alla riduzione in pensiero. E per ciò – potrebbe soggiungere l’interrogatore – sarà lecito di ritentare con intendimento realistico, e con maggior cautela di critica, quella medesima prova appunto, che sotto l’influenza d’altri modi di filosofare fallì per eccesso d’ideologia. In coteste domande e in cotesti dubbii c’è molta parte di vero e di ragionevole; anzi c’è l’espressione di una vera e propria tendenza, che fa già prova di sé in una certa maniera di produzioni, di cui la letteratura dei nostri tempi non scarseggia. Intendo dire di quei tentativi di caratteristiche complesse di epoche e di popoli, che nell’insieme piglian nome di storia della civiltà. L’animo col quale coteste combinazioni si vanno facendo, dice già molto in favore del tentativo; massime quando esso riveli il proposito di cercare, e di non presupporre l’unità, e di esporre geneticamente, ma non di dedurre le differenze. E data cotesta inclinazione, e cotesto modo di concepire l’assunto, non è chi possa muovere in massima alcuna seria obbiezione; se pure non voglia ammettersi, che abbiano a tenere il campo quei soli specialisti ombrosi, i quali considerano come perniciosa alla scienza qualunque combinazione larga di tutti i risultati comparabili della ricerca. Il rifacimento di alcune o di tutte le storie particolari, sotto il preciso aspetto del moto generale della civiltà, quando non si faccia violenza ai principii della genesi reale, non si proceda da preconcetti, e la esposizione non si limiti a quello che è puramente estrinseco o formale, ha tutti i caratteri di un legittimo prodotto di attività scientifica, e può per molti rispetti servire di verifica e di riprova ai risultati particolari. Cotesta storia generale della civiltà, che proceda per caratteristiche d’insieme, ossia complesse, può cadere però assai facilmente, com’è provato dall’esempio, in difetti di concezione, che la riducano ad un esercizio interessante se si vuole, ma poco istruttivo e punto verace di apprezzamenti subiettivi. I pregiudizii di razza, di religione o d’ideali politici possono p. es. disporre l’animo nostro a misurare il valore delle forme antiche o straniere della civiltà in modo così poco positivo e congruo, che le nostre simpatie assumano a volte il carattere di leggea: e qui più che in altro si vede chiaro in che consista il problema della obbiettività. Un desiderio eccessivo della comparazione può trarci a sottoporre ad una stregua

convenzionale fatti e prodotti dello spirito, i quali, quando sian ricondotti alle loro vere e proprie ragioni, ci appariscono in altra lucea. Chi compari il diritto romano e il diritto germanico antichissimi, sotto l’aspetto del comune costume da cui derivano dapprima per neoformazione, può trarre certamente partito dalla effettiva comparabilità, come da elemento di una caratteristica più precisa ed adeguata. Ma non sarebbe il medesimo, se altri si provasse a confrontare lo svolgimento del monoteismo in Grecia e presso gli Ebreib; perché non solo c’è differenza assai notevole nei motivi, ma quel che più importa la neoformazione si compie nei due casi sopra dati preesistenti d’indole diversa, e produce effetti per gran tratto di tempo del tutto indipendenti, che solo più tardi e per incidenza operano in comune nella costituzione del Cristianesimo dottrinale. Una storia della civiltà che ecceda la misura del comparabile, che non sia atta a dare perfetto rilievo alle differenze, e che nella esposizione non sia in grado di procedere geneticamente, e s’abbandoni perciò al gusto del caratterizzare per negazioni e per antitesi, rischia di rappresentarci le varie forme del vivere e del pensare come semplici specificazioni di un astratto subietto che dicesi umanità. Ma la difficoltà maggiore consiste nell’idea del progresso, in quanto si applichi alla totalità dei fatti e delle condizioni umane. Né dico a caso idea; perché in questa parola si compendia ed esprime tutto un insieme di vedute e di apprezzamenti, di pensieri e di aspettazioni, e non è chi possa dire che essa significhi un semplice fatto, o una elementare relazione. Quando noi, per rispetto ad una determinata inclinazione, attitudine o tendenza, individuale o collettiva, che cada nella nostra esperienza, parliamo di progresso, noi intendiamo semplicemente di dire, che gli sforzi e le operazioni successive costituiscono come delle approssimazioni per rispetto ad una mèta, a raggiunger la quale si va per gradi, come pei mezzi al fine. Ma quando cotesta idea si usa per rispetto alla totalità dei fatti e delle condizioni umane, nella storia della civiltà, chi non porti in cotale applicazione molto accorgimento e molta cautela, rischia di perdere assolutamente di vista il contenuto del concetto che adopera in tale generalità, o di lasciarsi vincere dalla illusione d’un cieco preordinamento provvidenziale, che spinga le generazioni degli uomini a lavorare pei loro posteri: il che è fare del concetto collettivo di umanità come un subietto vero e reale, operante per finalità latente. Ora lo studio delle cose umane ci porta di necessità a riconoscere, non solo il progresso, ma anche il regresso; e non pochi popoli son decaduti, e non pochi tentativi sono falliti, e non è piccola la parte di lavoro umano che è andata perduta! Quando l’idea del progresso, come di perfezione e di compimento delle attitudini e delle aspirazioni, da criterio di apprezzamento ci si tramuti erroneamente in regolativo

d’interpretazione, all’ultimo non si sa bene se lo studio della storia ci debba disporre all’ottimismo, e non piuttosto al pessimismo! Cotesto concetto però del progresso, come quello di ogni altro ideale dello spirito, non può sottrarsi all’analisi; il che vuol dire, che come dato teorico ha esso stesso bisogno di chiarimento, e non è un semplice principio reale di fatto, da cui si possa dedurre, o a cui, come a stregua infallibile, si possa ricondurre ogni moto causale di avvenimenti. Per cotesta analisi l’idea del progresso, in quanto si applichi alla totalità delle cose umane storiche, si risolve in tre aspetti o elementi almeno, cioè: lavoro tecnico diretto a vincere le difficoltà dell’ambiente, e a dominare la natura esteriore per la soddisfazione dei bisogni; organamento delle primitive inclinazioni fantastiche e intellettive, nell’arte, nella religione, e nella scienza; composizione stabile della convivenza primitiva, mediante il diritto e la gerarchia dello stato. Una storia della civiltà, che non tenga conto ragionevole di cotesti aspetti nelle loro molteplici specificazioni, e non ne cerchi per ogni caso l’equilibrio e la relazione obbiettiva, è fallace ab origine, ed è da tenere per un vano tentativo. E s’è visto difatti a comparire negli ultimi tempi una certa storia della civiltà, la quale, fermandosi a studiare principalmente i procedimenti tecnici diretti a vincere le resistenze dell’ambiente, inclina, o a trascurare del tutto il moto intellettuale, morale e politico, e le concezioni estetiche e religiose, o a considerare tutta la rimanente vita interiore come di puro riflesso e complemento per rispetto alle cause operanti per suggestione del bisognoa. A suo tempo levò gran rumore il paradosso del Buckle; ché tale è l’assunto suo di provare, che si dia progresso nelle cose prodotte dall’uomo come la tecnica, o nell’aguzzarsi della intelligenza nella ricerca della verità, ma non ce ne sia un altrettale nella costituzione interna della personalità, ossia nell’etica22: ma ci ammanniscono ora anche di peggio i facili e spensierati applicatori del Darwinismo a cose, e fatti, e relazioni e funzioni, per le quali non furono certo escogitate le teorie dell’insigne scienziato Darwin. La filosofia, che è critica dei principii del conoscere, ha il diritto e il dovere di reagire per quanto è in poter suo contro cotesto meccanismo che deduce ab extra; come reagì, quando ne facea di bisogno, contro le esagerazioni ideologiche che mettevan capo nel concetto di uno spirito operante per solo impulso di formazione interiore, come fantasima che si muova attraverso la natura, esente da ostacoli ed immune da influssi. Siamo davvero passati dalla negazione di ogni intreccio particolare di cause, alla pura incidentalità del fatto, da cui nasce altro e poi altro in infinito! Che se non mettiamo il dovuto equilibrio nel concepire le ragioni e i mezzi, le cause, gli effetti e i fini della

civiltà nella considerazione complessa dello spirito, non saremo mai in grado d’intendere, e dirò anche di compatire, i molti tentativi e le molte illusioni delle passate generazioni; né saremo in grado mai di valutare tutto quello che c’è di pensato, di voluto, di riflesso, d’intenzionale, e quindi di erroneo, di fallace e di compassionevole nelle opere umane. Questa stessa società nostra, de’ nostri tempi, che è quella dalla quale ci moviamo con maggiore consapevolezza allo studio del passato, diventa per cotal via inintelligibile affatto; perché essa mette capo, più o meno chiaramente secondo i popoli ed i paesi, nel bisogno di uno stato libero; d’uno stato, cioè, che, equilibrando le forze radicali e conservative, gradui intenzionalmente il progresso, e ne sia una consapevole e volontaria funzione. Queste, o signori, sono le disposizioni d’animo e di mente, con le quali assumo l’ufficio temporaneo, affidatomi dal Ministro col consenso dei miei colleghi, di dettar lezioni di filosofia della storia in luogo del mio collega ed amico prof. Barzellotti, passato ad altra Università. Queste disposizioni non sono veramente in me nuove, anzi risalgono a un tempo quando io, lontano assai dal pensare che insegnerei etica e pedagogia in questa Università, in età relativamente giovane chiesi alla facoltà di Napoli la libera docenza in questa disciplina, e nella prova pubblica, secondo l’uso d’allora in quell’Ateneo, sostenni la disputa con quell’ottimo interprete dell’Hegellismo che fu il prof. Vera, sul tema seguente, da lui propostomi: se l’idea sia il fondamento della storiaa. Alieno ora più che allora da ogni maniera di scolasticismo, porterò in questo insegnamento, come ho portato negli altri, quel sentimento critico, il quale non permette di confondere l’ufficio del docente con quello dell’apostolo della buona novella, e non consente al professore di montare in cattedra per farvi le parti del paladino. E anzi, perché ci corre gran divario dalla inaugurazione di un corso, nella quale l’animo per essere più concitato passa di volo sopra argomenti varii e gravissimi, al tenere effettivo insegnamento minuto e posato, mi preme di annunziare, che io mi propongo un assai modesto obbiettivo per le mie prossime lezioni. A quelli che vorranno spontaneamente onorarmi, per non essere questo insegnamento obbligatorio per nessuna maniera di scolari, leggerò criticamente alcune parti della tanto lodata e sempre poco intesa Scienza Nuova di Vico, per ritrovarvi i primi addentellati del filosofare su la storia. Ringrazio vivamente i colleghi e gli amici, che mi hanno onorato con la loro presenza. Mentre libero per la stampa questo scrittarello, ho per le mani il secondo

volume della Storia dell’Impero Romano dello Schiller (Geschichte der römischen Kaiserzeit, Gotha 1887), che finisce con queste parole: «In tutte le direzioni della vita la romanità (das römische Wesen) se ne va in rovina, ma quello che essa contiene di buono non si perde. Cotest’epoca, per quanto andata giù, ha pure un grande significato. Gli antichi germi vengono introdotti in nuovo terreno, dove aspettano di risorgere. A molti di essi occorre una serie di secoli, prima che si destino a nuova vita. Ma come accade dei granelli di frumento trovati nelle antiche tombe egizie, che dopo millennii fruttificano, così parecchi di codesti germi saranno richiamati in vita dalle favorevoli condizioni dei tempi, e la schietta umanità si va associando alle verità cristiane, per formare un tale ideale di civiltà, che a raggiungerlo pienamente lavoreranno poi per un pezzo le generazioni avvenire»24. Cotesto brano, di cui ho rese in modo approssimativo le immagini, per la incongruenza fraseologica e di stile che c’è fra italiano e tedesco, richiama la mente a un gran numero di considerazioni. – Lo storiografo può a meno di usare di tali simboli e diciture, se pur vuol riassumere tutto il suo pensiero? Certamente no: salvo che ei non voglia diventare un semplice cronista. – Ma la semplice coltura storica, secondo l’ovvia accettazione, gli dà alcuna sicurtà, che cotesti simboli, o immagini, non siano convenzionali ed arbitrarii, ma anzi espressioni esatte di cose pensate? Non pare. – E se questo dubbio piglia nell’animo nostro il di sopra, non sarà naturale che ci mettiamo poi a filosofare su la storia, che prima volevamo soltanto narrare? e su cotesto andare non saremo tratti a ridurre in forma di dottrina i concetti reali, che per avventura corrispondessero a coteste immagini, di epoca, di germi, di terreno, di aspettazione di nuova vita, di favorevoli condizioni e così via? Pare di fatti oramai che molti accettino cotesto modo di pensare, e di qui il nome di scienze storiche. – E quando cotesti concetti si riuscisse a determinarli in modo serio e positivo, la considerazione diretta delle cause reali, del loro valore e delle loro incidenze, non servirebbe poi come di un mezzo analitico, anzi di un risolvente dell’ovvia rappresentazione storica dei libri di pura esposizione? Cotesta illazione parrà giusta, pur che si ricordi il divario grande che corre fra le scienze teoriche della natura, e la descrizione degli oggetti naturali in quanto ci appariscono in una data configurazione empirica, di spazio o tempo assegnabili. – Ma cotesto confronto fra scienze storiche e scienze naturali si può per ciò portarlo fino alle estreme conseguenze, e credere p. es. che tutta la storia si risolva in teorie, su i fattori, le condizioni e le incidenze, in modo che la semplice esposizione finisca per poi sparire, come qualcosa di puramente estrinseco ed accidentale? No: perché, per quanto pur si vogliano approfondire le condizioni intrinseche e l’efficienza propria delle cause che concorrono in quegli

effetti che p. es. lo Schiller ci va esponendo, la configurazione particolare rimane sempre un unicum sui generis, da non confondere con l’individualità che ci rappresenta nella storia naturale l’esemplificazione della legge e del genere. Per questa ragione la storiografia serba e serberà sempre i caratteri di una disciplina a sé, che nessuna scienza potrà interamente risolvere in altri elementi. Tutte le tendenze e tutti gli studii scientifici, che hanno svecchiata già da un pezzo la storiografia tradizionale, la spingono sempre più verso una rappresentazione pensata delle cause operanti particolarmente ed in complesso in un determinato periodo. Ma per quanto essa si giovi della scienza come di sussidio o di presupposto, l’ufficio suo è pur sempre quello di narrare e di esporre. E per ciò appunto la filosofia della storia, non può né deve essere una storia universale narrata filosoficamente, ma anzi una semplice ricerca su i metodi, su i principii e sul sistema delle conoscenze storiche. a

L’analisi psicologica dell’interesse, per quel che importa alla didattica, formava già oggetto del mio studio pedagogico sull’Insegnamento della Storia (Roma, 1876). b Delle molte illazioni, cui si giunge naturalmente per questa via, giova qui ricordarne due. È affatto erroneo l’indirizzo didattico di coloro, che applicandosi agli studii storici, si danno gran pensiero d’impadronirsi soltanto degli ovvii mezzi istrumentali della critica, e sperano che la cognizione reale della materia debba poi venir da sé. Ma dove manchi la cultura teoretica, poniamo dell’economia o del diritto; o dove faccia difetto l’intelligenza della funzione psicologica p. es., della lingua o della religione, è inutile che altri si travagli nell’esercizio della critica diplomatica o filologica: l’uso anche corretto degl’istrumenti non affida di nulla. Scorrettissima è la caratteristica che i letterati sogliono dare degli storici, come se il divario non consistesse in altro, se non nelle qualità generiche dell’ingegno e nei mezzi dello stile. I motivi della storiografia sono invece il punto essenziale. Dalla storia romana di Rollin a quella di Mommsen non si va per soli gradi di erudizione o per differenze di attitudini d’ingegno, ma anzi per mutazione del pensiero nella interpretazione e penetrazione mentale delle cose umane1. a Ricordo principalmente il Marlo, le cui argomentazioni di tendenza socialistica furono alcune volte ripetute di seconda mano, con minore efficacia e per altri intenti2. a In un certo senso e in certi limiti a questo gruppo di questioni corrisponde la filologia, quando sia intesa alla maniera del Böckh, cioè come Erkenntniss des Erkannten3. È cosa notevole che il Vico si avvicinasse già all’idea del Böckh: il che non può non recar meraviglia a chi ricordi come la filologia, che non era più umanismo da un pezzo, fosse al tempo del Vico semplice erudizione, e lontana perciò molto dal concetto di scienza dell’antico, come dal Wolf in qua5. a

Nel leggere queste proposizioni mi parve quasi quasi di avere esagerato; ma ecco che mentre attendo alla stampa di questo discorso, il prof. Morselli mi manda gentilmente in dono un suo recente scritto intitolato: La Filosofia monistica in Italia, nel quale trovo a p. 29 una sentenza, che dà il suggello alle mie affermazioni. La riproduco testualmente: «Anche alla prima monera, che ha percepito a modo suo gli urti dei corpi circostanti, si è presentato in proporzioni infinitesimali certamente, ma diverso solo di grado e non di natura il problema metafisico del Non-io, del quale la speculazione filosofica ha fatto regalo esclusivo alla coscienza umana»6.

E pure la sentenza del Comte, riferita nello stesso scritto a pag. 20: «Dans ma profonde conviction je considère ces entreprises d’explication universelle de tous les phénomènes par une loi unique comme éminemment chimériques»7, potrebbe servire di opportuno monito ai positivisti, se volessero pur ripigliare le questioni nel punto critico, che è il solo degno del filosofo. Io, che non sono né fui mai positivista, non posso a meno di esclamare per tale sentenza del Comte: optime. a

Perché non si creda che ho menzionato i capelli per capriccio di retorica, ricordo che i capelli appunto

sono il criterio decisivo delle razze nella classificazione invalsa dopo l’Huxley9. a Cfr. la mia notizia letteraria sul libro del Lindner dal titolo Ideen zur Psychologie der Gesellschaft nella Nuova Antologia, fasc. del Dicembre 1872, pp. 971-989. a

Ueber Ziele und Wege der Völkerpsychologie nel vol. IV fasc. I dei Philosophische Studien, pp. 1-27. Nei Principien der Sprachgeschichte 2a ed.11 c Come ebbe la tentazione di fare il nostro Ferrari12. a Si dica il medesimo, ad esempio, del diritto romano o della costituzione inglese. È notevole il fatto che Vico, da filologo del diritto romano, sia a mano a mano salito al concetto della scienza storica. b Per quanto io abbia per molti rispetti cambiato nel mio modo di concepire e d’insegnare, da che b

professo etica e pedagogia in questa Università, tengo però sempre fermo nell’indirizzo herbartiano di considerare la metafisica, non come veduta del mondo per totalità, ma come critica e correzione dei concetti, che son necessarii per pensare l’esperienza13. a

I neofiti dell’evoluzionismo usano di parlare con orgoglioso disprezzo degli Schelling e degli Hegel: ma non s’accorgono che cotesta zuppa che essi ammanniscono è proprio tal quale come quel pan bollito; se non che è mal preparata e peggio condita? Che si chiamino poi positivisti, il Comte non la perdonerebbe a nessuno. Perché, se mai il concetto di una filosofia positiva è ammissibile, essa non può consistere se non in quello che volle appunto il Comte; cioè dire, nella diffidenza per ogni ricerca sui principii astratti e formali del conoscere, e nel semplice coordinamento obbiettivo del conosciuto; cioè nell’inverso del criticismo, e nella recisa negazione della metafisica. a Il grido di non più metafisica, che fu in Germania, d’origine antimonistica e antihegelliana, oramai fra noi si ripete per fino all’asilo d’infanzia, e c’è da sperare che di qui a poco entri nei vagiti dei neonati! E dire che molti han proprio l’aria di quel tal Renzo, che gli pareva d’aver salvato lui il Ferrer16! Il peggio gli è, che il monismo corrente, come quello che non si fonda su la critica della conoscenza, o su la fenomenologia dello spirito, rischia d’essere, come già pare a me, un Hegellismo peggiorato, perché acefalo. b Della Filosofia della Storia del prof. Vera portai giudizio forse soverchiamente aspro alcuni anni fa (nella Zeitschrift für exacte Philosophie, vol. X, fasc. 1, pp. 79 e seg., anno 1872); ed ora mi rincresce del tono troppo vivace, sebbene non abbia a cambiar nulla nella sostanza delle mie osservazioni18. a Abbiamo noi Italiani digerito mai per davvero il primato del Gioberti, e quello del Mazzini? Crederei di no. E poi che studio interessante non sarebbe quello della tedescomania, che si riflette perfino nei giudizii più astratti e nelle vedute scientifiche dei maggiori pensatori di Germania!19 a Ricordo qui per incidente la caratteristica del Semitismo fatta dal Renan, che fu vivamente discussa per l’autorità dello scrittore, ma che è notoriamente falsa20. b Tocco di questa questione nel mio scritto su La Dottrina di Socrate, Napoli 187121. a

Mi preme di notare che questa mia osservazione non concerne precisamente il libro del Lippert, di cui fu pubblicato fino ad ora il solo primo volume (Kulturgeschichte der Menschheit, vol. I, 1886); perché questo scrittore, pur fondandosi in modo prevalente sul principio della conservazione (Lebensfürsorge), usa

di molto discernimento nell’attribuire agli altri fattori un valore conveniente. a Nello scrivere estemporaneamente su cotesta tesi, e nella disputa che ne seguì, respinsi l’ipotesi inclusa nell’enunciazione, contrapponendo all’Hegel l’Humboldt, e lo Steinthal che ne deriva, e usando del Lotze, di cui avevo allora piena la mente. Ma l’ottimo Vera mi fu liberale del suo voto favorevole, specie per la lezione che tenni sul concetto della Scienza Nuova di Vico23.

DEL SOCIALISMO CONFERENZA [1889] Vuoi tu conoscere il mondo? Rompi il guscio dell’ovo. BUDDHA1

CIRCOLO OPERAIO ROMANO DI STUDII SOCIALI Cittadino, Siete invitato, unitamente alle donne di vostra famiglia, alla conferenza che si terrà dal nostro Circolo giovedì 20 corrente, alle ore 2 pom., nella Sede della Società dei Reduci Indipendenti, in via Cavour, N. 226, palazzo De Renzis. Tema della conferenza: COS’È IL SOCIALISMO? Oratore: Prof. Antonio Labriola. Roma, 17 giugno 1889

Con la riproduzione di questo invito rimane chiarito lo scopo e definita l’indole della Conferenza che pubblichiamo, per cortesia dell’oratore. Alla riunione indetta presero parte con le famiglie molti soci di varii circoli democratici ed operai, delle signore, parecchi studenti, e alcuni giornalisti. Il professore Labriola fu presentato dall’operaio tipografo Pietro Mandré, che in poche e acconce parole espose i criterii direttivi del Circolo di Studii Sociali2. L’EDITORE

Il povero e lo sfruttatore s’incontrano l’un l’altro: il Signore è quello che illumina gli occhi di amendue. SALOMONE, Proverbii, XXIX, 133 Signori! Sì, – vi chiamo signori! Né vogliate credere, che la sola abitudine mi muova a usare anch’oggi con voi una parola, che rivolgo tanto spesso ai miei soliti uditori. Sento davvero dentro di me una viva e onesta repugnanza a fare altrimenti. E come potrei io usare la parola fratelli, senza incorrere nella taccia di tenere un modo di demagogica ipocrisia? Non sapete voi forse che io son professore alla Università, e che ci corre tanto divario dal modo mio di vivere, a quello che è proprio della maggior parte di voi componenti il Circolo degli Studii Sociali, che mi avete cortesemente invitato a parlare? Che cosa ho fatto io mai per meritarmi sinceramente il titolo di operosa fratellanza? Vana illusione è quella, di dare per cosa fatta un lontano oggetto, cui si miri di pieno cuore con la speranza; pericolosa lusinga lo scambiare i desiderii con le opere! C’è sì un gran lavorio di cose nuove nel seno della società presente; e già si vede per molti indizii agitarsi vivissimi i primi sensi, i primi germi, della futura fratellanza. Ma la vita dell’oggi pur troppo è tutta di lotte fra le classi, di ingiustissime odiose disuguaglianze, di soprusi e di sfruttamenti, perché ad operai come voi non debba parere pronunziata ad oltraggio la parola di fratelli, se esce dalla bocca d’un come me, che quasi inoperoso ho speso finora la vita mia soltanto nell’acquisto delle conoscenze scientifiche, e nell’arte di comunicarle insegnando e scrivendo. Non ci disprezzate, però, noi lavoratori del pensiero, solo perché noi non si ha le mani incallite, e vivendo in un agio relativo non ci tocca di lottare per il pane cotidiano. Considerate pure, che non poca parte dei sentimenti, dei desiderii, delle aspirazioni che muovono a cose nuove gli animi degli operai in tutto il mondo civile, son frutto e conseguenza dell’ardita speculazione di forti pensatori, che per acume d’intelletto, o per umanità di sensi, scoverte le cause del presente disagio, han ricercato e dichiarato i mezzi, e aperte e quasi spianate le vie per giungere al trionfo della giustizia sociale. Permettetemi di ricordarlo: il socialismo, in quanto persuasione delle nostre menti, non è che la filosofia della miseria4. E poi considerate, che il giorno che i presenti desiderii diventeranno realtà, il giorno che al disordine morale ed economico verrà sostituito l’ordinamento sociale, che dà a ciascuno secondo il merito ed il lavoro suo, quello sì sarà un grande, un meraviglioso trionfo dell’umano pensiero, e parrà

cosa vera e incontrastabile l’augurio di Platone, che la filosofia sia la reggitrice delle repubbliche. Né vi carezzerò col lusinghiero titolo di cittadini. Tali siam tutti in diritto; ma, in fatti, i più portano cotesto nome come a dileggio. Cittadino in verità vuol dir sovrano; anzi le due parole non possono significare, se non una e medesima cosa. Per questo intento e con tal sentimento furon fatte le rivoluzioni politiche in tutto il mondo da un secolo in qua; perché gli uomini mai più nascessero servi della gleba nelle terre da feudo, sudditi di re assoluti negli stati di privilegio, vincolati ai preti nelle chiese di ortodossia, privi della libertà di lavoro, d’industria e di commercio per le prerogative d’infiniti corpi, maestranze e municipalità. Da cotesto moto rivoluzionario son venute fuori le istituzioni, che con nome di senso soverchiamente elastico chiamiamo liberali: uguaglianza innanzi alla legge, libertà di coscienza, di discussione e di riunione, elettorato politico, parlamenti, responsabilità dei governanti. Ma di tutti cotesti diritti e libertà pochi si giovano, pochi possono giovarsi, perché all’abolizione dei feudi e delle vecchie corporazioni s’è formato poi un nuovo governo di classi spadroneggianti e sfruttatrici, non meno grave dell’antico ai spadroneggiati e sfruttati, anzi più grave ed odioso, ora che le moltitudini non sono più di plebi ma son di popolo. Nella spietata lotta fra capitalismo e lavoro, la massa dei lavoratori, insigniti un quarto d’ora all’anno del pomposo titolo legale di popolo sovrano nei comizii per suffragio universale, ma schiavi di fatto e di tutte l’ore di quelli che son detentori dei mezzi di produzione, sente vivissima l’ironia della propria sorte, il contrasto vergognoso che la democrazia politica ha messo in essere, facendo degli stessi uomini e cittadini e servi a un tempo. La democrazia politica con le larghe promesse sue, non potute mantenere perché illusorie, ha fatto nascere e crescere gigante ai nostri giorni la questione sociale; problema di ragione per chi si restringa al pensiero, incentivo ed arma di agitazione e di rivolta per chi si sappia e si senta nel numero degli oppressi. I socialisti francamente domandano, che la democrazia cessi pure una volta dall’essere una multiforme menzogna, divenga una verità semplice; protestano in nome della ragione offesa, perché la sincerità sociale subentri vittoriosa alla ipocrisia liberale. Ed ecco che io sento d’avervi dato a giusto titolo, secondo verità, il nome di signori; se è lecito mai di esprimere augurii e promesse in nome delle idee che agitano le menti e riscaldano i cuori di noi che siamo socialisti per virtù di scienza. Se la democrazia non deve rimanere in perpetuo un vano nome, anzi un arma di sfruttamento raffinato per gli accaparratori di voti, se la sovranità popolare deve pure esprimere un che di schietto e di veritiero, gli uomini, signori

tutti per diritto di natura, alla presente gerarchia politica degli stati sostituiranno la cooperativa sociale del comune benessere morale e materiale. Questo l’argomento, questi i termini della mia conferenza. Un’altra me n’avevate chiesta voi: la commemorazione della Comune. Un po’ me ne schermii, un po’ si trattò; e poi si convenne di dare con questo titolo, del socialismo, come l’avviata ad una serie di conferenze istruttive, che il vostro circolo pare inclinato a promuovere, o in pubbliche, o in private riunioni. Oh! di commemorazioni ne abbiamo avute per fin di soverchio, e in questo paese nostro, che è come oppresso di memorie, ed è pieno di vanagloriosi pregiudizii, è tempo oramai di volgere gli sguardi all’avvenire. Il passato è difficile a conoscere, e quando se ne faccia uno studio diligente ed accurato, l’animo ne esce pieno di delusioni. Nel passato si trovano sì le cause del presente, e non pochi ammaestramenti utilissimi per isfuggire la ripetizione degli errori: ma di ciò lasciate pure il pensiero ai dotti! Ecco, io ho studiato assai di recente e con minutissima cura la storia della grande rivoluzione. Per mie ragioni – e se ne vedrà poi gli effetti nei lavori che preparo intorno al socialismo – mi premeva d’intendere a fondo e precisamente le cause vere, intime e decisive della presente vita civile d’Europa, che ha i suoi segnacoli, e come il suo emblema, nel liberismo economico e nel liberalismo politico. E com’è, che all’umanitarismo entusiastico del secolo XVIII, che tutto volea ricondurre a diritto di natura, è succeduto poi questo secolo di delusi e di pessimisti? questo secolo di capitalismo arrogante, e di proletariato minaccioso? Com’è, che dopo tanto contendere per l’uguaglianza e per la libertà, e dopo averne magnificato i trionfi, siam poi da ultimo entrati decisamente nella persuasione che la nostra vita è di padroni e servi di nuovo stampo, di sfruttatori e sfruttati di nuovo taglio, e che gli stati e i governi son sempre difensori delle minoranze contro le maggioranze? A veder chiaro nelle cause e nelle ragioni, mi misi, e continuerò a studiare le origini e i modi di vita di questo che chiamiamo lo stato moderno delle libertà politiche, raggiunte qua e là per lenta evoluzione, ma in Francia, e nei paesi che ne subirono l’influsso, per la violenta crisi che chiamiamo rivoluzione. Questo l’intento mio nello studiare la liquidazione della vecchia società feudale, e le origini della presente società che diciamo borghese. Da cotesto studio ho tratto nuovo conforto alle mie convinzioni da socialista, e un più vivo senso di avversione per ogni forma di giacobinismo liberale, sia che salga a gloriose parvenze di cesarismo, o che umile si arresti a quello che in lingua povera, ma degna del soggetto, chiamerei volentieri frode e inganno di parlamenti. Chi

corrobori la mente di tale studio della storia, e di una giudiziosa osservazione delle cose, non può a meno di riconoscere che il socialismo oramai, nei limiti del pensiero è una filosofia dell’avvenire, e negli animi dei travagliati e degli oppressi è nuova religione della civile uguaglianza. Ah! voi dunque ci fate il romanzo? Così gridano gli scettici, e sogghignano, e poi aggiungono con malizia: delusi dell’umanitarismo del secolo scorso, persuasi che il liberalismo è un miraggio, incapaci di far cosa savia ed utile al presente, ostinati nella convinzione della perfettibilità umana, voi vi buttate ai sogni dell’avvenire. Così gli scettici, che sono i mediocri vanitosi, i borghesi della logica. E si sbagliano, perché qui si tratta di germi di già sbocciati, che cresceranno in rigogliosa pianta, qui si lavora di legittimi desiderii che piglieran forma di diritti positivi, qui non è vaniloquio d’incerti lamenti né vaneggiamento di vago sogno, ma l’inizio di nuova vita, che piglia forma nelle menti e piglierà poi assetto nelle cose. Di qui il carattere di precursori e di apostoli, di qui la propaganda. Alle presenti opinioni e aspettazioni molto avran da correggere i posteri, e non è lecito a chi si sia di anticipare d’immaginazione il lavoro dell’avvenire: ma sta e starà saldo il principio, che non è diritto di natura la legge che mette il maggior numero in balìa delle minoranze, e non è umana consociazione quella in cui la schiavitù è inevitabile. Ed ecco i conservatori si mostrano e dicono: se fate così aspra critica delle istituzioni liberali, che sotto alle apparenze di favorire gl’interessi dei cittadini d’ogni maniera, quel governo che fu già di re assoluti, di feudatarii e di corpi privilegiati han messo ora in mano agli sfruttatori, ai demagoghi, e agli accaparratori di plauso e di voti, oh! ché non tornare alle vecchie forme dello stato, e fidarsene e rimettersene del tutto a principi filantropi e a ministri illuminati? V’ingannate. I socialisti non domandano concessioni, ma conquiste; e considerano le libertà politiche come molla ed impulso a nuovo lavoro e moto. Sono esse appunto le libertà politiche, che rendono sensibile il contrasto fra la condizione presuntiva, direi quasi ideale, del cittadino, e la condizione di fatto della vita dei lavoratori. Non si rigettano le libertà politiche, ma si vuol completarle. Non si farà un passo indietro, ma più passi innanzi su la democrazia politica. Qui si cerca alla sovranità popolare il sostrato economico, e si vuole elevare a morale l’economia; qui si cerca un nuovo diritto, che sia di giustizia veramente uguale per tutti. Qui è una lotta fra la verità e l’impostura! Dottrina di apostoli, di precursori, di scuotitori di dormienti, il socialismo mira a risolvere i problemi che gli scettici ignorano, i liberali rimandano in infinito, i demagoghi sfruttano. Nessun uomo schiavo dell’altro uomo, nessun uomo

istrumento della ricchezza altrui: ecco i canoni generalissimi, da cui derivano i particolari principii, che come arma di critica e come forza rivoluzionaria inaugurano un nuovo periodo ideale e reale della storia, iniziano il nuovo diritto e la nuova morale. Ma non son dunque immutabili ed assoluti il diritto e la morale? – esclamano i dottori, e dottorucoli delle vecchie cattedre, desiderosi di arrestare il nascente sole della civiltà sociale con iscongiuri di formule e con definizioni di ragione astratta. Oh! gli arruginiti ferri di quelle formule, consacratrici un tempo di abusi e di prepotenze di re assoluti, di papi, e di imperatori, attissime ora a rifare l’onesto servizio in pro dei nuovi re delle banche e delle intraprese, quando occorra di dar suggello di legalità parlamentare alla prepotenza dei forti! Ebbene, appunto gli assoluti principii del diritto e della morale si mira da noi socialisti di tradurre in pratica, e per ciò si fa violenta ed aspra critica di ogni formula di legge, che difenda gl’interessi di pochi contro gl’interessi di tutti, per ciò si combatte in nome del diritto sociale il diritto privato, per ciò si vuole, che giuristi, avvocati e giudici, siano interpreti, tutori e difensori del popolo, non egoistica emanazione di classe. E non vedono già i dottori delle vecchie cattedre, come la recentissima scienza del diritto e dell’economia, facendo piazza pulita di pregiudizii vecchi e nuovi, con sinceri intendimenti studii oramai innanzi tutto l’uomo ed i bisogni suoi, per trarre dai bisogni stessi le ragioni della socialità? Cotesta critica dei vecchi sistemi è per ora il maggior trionfo socialismo scientifico, che sicuro di sé come teoria, misura a secoli la trasformazione; mentre i travagliati, gli oppressi, i derelitti, che cittadini di nome fanno in realtà le parti dei servi, preparano negli animi e negli intenti loro la nuovissima rivoluzione sociale. Non voglio qui decidere d’una grave questione; se, cioè, il nuovo moto sociale debba dar luogo ad una crisi o dilacerazione violenta degli ordinamenti civili, che è quello che volgarmente si chiama rivoluzione, o se invece per lenta azione si possa innestare le nuove forme sul comune tronco delle istituzioni liberali. Per la mia parte inclino alla seconda opinione. Né voglio toccare d’un’altra questione: il nuovo moto avrà effetti uniformi in tutto il mondo civile, come fu nei disegni della Internazionale, di gloriosa memoria, o sarà vario di forme e d’andamento da luogo a luogo, come credono parecchi socialisti inglesi, e mi permetto di aggiungere, come penso anch’io? Sta in tutti i casi il fatto, che la nuovissima rivoluzione sociale incontra e incontrerà difficoltà di gran lunga superiori a quelle che convenne di affrontare e di vincere nella lotta per le comuni libertà politiche. Combattevasi allora un nemico visibile e franco, combattesi ora un nemico invisibile, insidioso nei modi

d’offesa, spesso carezzatore e lusingatore di quelli che offende. Mi spiego. La gran battaglia della rivoluzione politica fu combattuta contro i re assoltiti, che la persuasione del diritto metteva in maggiore evidenza di arbitrio; contro i signori delle terre, opprimenti dai loro castelli i miseri contadini, o schiavi della gleba, o irretiti da oneri e servitù d’ogni maniera; contro i feudatarii della chiesa, cotidiani oltraggiatori della religione di Cristo, che predicavano a parole in sontuosi palagi e in maestosi monasteri; contro i capi delle maestranze, che asservivano il lavoro negli artificiosi congegni delle corporazioni d’arte, già da un pezzo decadute; contro alla magistratura di privilegio, maneggiatrice di giustizia come di cosa privata, contro agli infiniti intralci messi all’industria ed al commercio da gabelle provinciali, e da municipalità di patrizii. Visibile il nemico, chiaro il termine della lotta. Si voleva giungere a quello che ora chiamiamo comun diritto civile. Questa ne è la somma: che a nessuno è negato di acquistare e di salire purché si faccia innanzi. N’è nata la concorrenza, che è aspra lotta dei deboli contro i forti, degli onesti contro gli astuti. Ma il nuovo privilegio dei fortunati è più odioso ed egoistico dell’antico. I nuovi privilegiati, perché usciti essi stessi vincitori dalla lotta, si tengon sempre su le difese, non s’acquetano nel privilegio, ch’è malsecuro, e trascendono roventi in egoismo da cannibali. L’89 fu allegro. I proletarii della campagna e dei sobborghi della città mossero lieti e fidenti alla riscossa, contro castelli, palagi e monasteri, contro gabelle, decime e magistrature, contro soldati regii mercenarii e contro le municipalità. Fu celebrata la gran festa delle comuni libertà; e poi si buttarono ad eleggere, e furono eletti i consigli e le assemblee d’ogni maniera, e giudici, e vescovi, e parroci e ufficiali della guardia nazionale. Gran parte della vecchia proprietà fu liquidata in furia e fretta; e la festa durò per anni; non turbata, anzi illustrata dalla ghigliottina, che parve arma della ragione trionfatrice. Ma ecco a nascere dal fermento delle nuove idee e dall’attrito spaventoso tre nuove piaghe sociali. Dalla liquidazione frettolosa della vecchia proprietà immobile sorge il capitalismo; – dallo slancio patriotico nasce il militarismo; – l’elettorato politico dà la stura alla ciarlataneria dei demagoghi. Il nostro secolo ne ha ereditate tre solenni bugie. La prima è: che padroni tutti di concorrere, il vincere la gara è merito. L’altra è: che l’onor militare sia la misura della virtù delle nazioni. La terza è: nell’elettorato consistere la salvezza dei popoli e il progresso degli stati. La prima serve a mascherare il capitale spadroneggiante; giova la seconda a mantenere il predominio della forza bruta sul lavoro pacifico; la terza spinge nelle prime linee della vita pubblica i professionisti, gl’intriganti, gl’intraprenditori di popolarità, lusingatori delle masse nei comizii, schiavi poi

del capitale e magnificatori del militarismo quando entrino nei parlamenti. Questa finora la principalissima nota di merito del socialismo; d’avere, cioè, scoverta e descritta la vera natura del nuovissimo nemico, il capitale, e d’aver messo alla gogna i ciarlatani, gl’ipocriti e i demagoghi del liberalismo. Ma se fu cosa relativamente facile a pochi filosofi e alle moltitudini piene di entusiasmo di scorgere e di colpire i visibili rappresentanti delle pubbliche tirannie; non è altrettanto facile di vincere ora le riposte arti del nuovo, recondito e impersonale nemico che è il capitale, né di schermirsi dalle insidie liberali. Ma la banca, atta ad irretire per molte vie il lavoro, non si porta al patibolo come Luigi XVI. Ma la legge ferrea del salario non si espugna come castello o palagio. Ma l’organizzazione sociale del lavoro non s’improvvisa come la guardia nazionale. Ma gli operai non si riducono in falangi serrate di cooperativa con l’entusiasmo che spinse al confine nel ’93 i proletarii, preparatori alla patria delle infide glorie militari di Napoleone, e ai proprii figliuoli della mala sorte dei salariati5. Ma qui non c’è retorica girondina o audacia giacobina che basti! Si tratta di un lavoro immane e multiforme, di lunga durata; si tratta del lavoro che si conviene per rigenerare tutto intero il corpo sociale. Il secolo XIX, coi parziali trionfi del liberalismo, e con le sue delusioni, non segna che l’inizio. Siamo all’aurora. Due cose occorrono per avanzare: che cresca il numero dei socialisti teorici, e che si formi e fortifichi lo spirito di classe e di comunanza nei lavoratori, perché non ondeggino fra la vana aspettazione di subitanei rivolgimenti, e la cieca fede nel cesarismo sempre rinascente. Oh! le frequenti delusioni del popolo di Parigi, trascinato alle rivolte dagl’inventori di nuove monarchie e di nuove repubbliche, tradito sempre dopo la vittoria: perché, chi pecora si fa il lupo se la mangia! Oh! la vergogna del Luglio dopo le glorie del Febbraio ’48! Oh! le giornate sanguinose del Maggio ’71, dopo la riscossa del Settembre ’70!6 Queste le cause della questione operaia; questa la ragione dei socialisti come partito vero e proprio; per ciò la diffidenza loro verso i borghesi; di qui le scissure nel campo della democrazia. La Germania è forse ora il solo paese che abbia già un partito socialista solidamente costituito, grazie alla cultura popolare molto diffusa, per virtù del genio di quelli che iniziarono il moto, per gli abiti di riflessione e di disciplina insiti alla razza. Quei socialisti li ritempra ora la decennale persecuzione di un governo, che rappresenta sì gl’interessi degli abbienti, ma che lotta di viva forza e francamente per la causa che difende; perché governo di conservatori e non di Rabagas7, di conservatori e non di persone che ostentino al popolo il berretto frigio, per deporlo quando arrivino al potere.

Dove faccia difetto il senso vivo della questione operaia, ove manchi la lega stabile dei lavoratori, il socialismo è vana parola. Perché non si tratta già di dar nel vuoto con inutili rivolte e vani lamenti, non si tratta già di rinnovare di sana pianta la natura umana, ma d’intendere al trionfo preciso e pratico di determinati principii. Eccoli – diritto all’esistenza; diritto alla coltura; diritto al lavoro; diritto al completo compenso del lavoro prodotto. Sarò brevissimo. Gli orfani infanti, i ciechi, gli storpii, gli ammalati, i vecchi inabili al lavoro, i colpiti da subitanee crisi, i cercanti nuove dimore per eccesso di popolazione; ecco quelli pei quali vale il diritto elementarissimo della pura esistenza. Li sussidia ora la privata carità, ma ciecamente e a sbalzi, o per egoismo di vanità, come nelle fiere di beneficenza: li sorregge, ma anche essa a caso, l’opera pia, sfruttatrice del patrimonio della superstizione, corrente ad asservir l’anima mentre sostenta meschinamente il corpo: li aiutano governi e comuni, ma se mossi dalla paura, in momenti di grave crisi, con umiliazione, e per politico interesse. Del resto messi a discrezione della fortuna i più degradano dal vivere umano, imbestialiscono, imputridiscono. Di qui i rivoltosi per istinto, i ribelli per vocazione; di qui molti ladri, briganti, e insidiatori della vita civile. L’assistenza sociale, legale, ordinata, assidua, oculata, giusta, non frodatrice del lavoro a vantaggio degli oziosi, deve subentrare ad ogni maniera di carità vanitosa ed interessata, sostituirsi agli sfruttamenti chiesastici e politici della beneficenza. Un mirabile esempio, degno però di molta correzione, ci viene dall’Inghilterra, coi tre secoli che ha speso ad ordinare il servizio pubblico della povertà, da che la gloriosa Elisabetta ne fece carico ai comuni per l’abolizione dei monasteri. I clericali chiamano furto l’incamero e la vendita dei beni ecclesiastici e monastici. Furto sì, ma non a vescovi, priori e abbati, ma ai poveri; ché dei poveri fu in origine il patrimonio della chiesa. Noi socialisti ritorniamo all’idea cristiana della società come istituto dei poveri: non provvidenza di là, ma provvidenza di qua. Noi socialisti abbiamo la santa audacia di affermarci più cristiani dei preti, anzi i soli cristiani del secolo. Il diritto alla coltura si concepisce ed esplica in termini brevi e precisi: fornire tutti delle più elementari conoscenze e delle più generali attitudini mediante la scuola schiettamente popolare. Due gl’intenti umani e sociali. Fare che tutti entrino nella vita consapevoli delle proprie forze, e capaci di scegliersi il lavoro: sopprimere il più gran numero che mai si possa di artificiali differenze, perché rimanga posto e campo a quelle sole che provvengano da dono d’intelligenza e da vocazione di attitudini. Questo l’ideale della scuola popolare dell’avvenire,

che metta tutti indistintamente in contatto dei primissimi elementi del sapere, e faccia lecito a ciascuno di salire tanto quanto porti la capacità sua. Il preciso contrario di quanto accade ora; che quelli i quali, per caso o fortuna, entrino in pochi nella palestra delle arti e degli studii superiori (mi scusino gli studenti che anche oggi m’ascoltano), credendosi privilegiati d’ingegno perché privilegiati di mezzi, guardano d’alto in basso la massa esclusa dalla cultura, e usurpando poi a privato esercizio la scienza, che è dono della umanità, come medici, ingegneri, avvocati, farmacisti, speculano su le naturali miserie, e su i bisogni e su le sofferenze sociali. Oh! molte di quelle professioni, dette liberali per derisione, spariranno; cioè si convertiranno in servizii pubblici e obbligatorii, perché dell’uomo non rimanga esposto alla gara se non quanto è di genio, di scienza d’arte, o d’ispirazione di virtù. Il diritto al lavoro esprime precisamente l’opposto della libertà di contratto, su cui si regge il presente ordine sociale; e non potrà avverarsi, se non mutate le condizioni elementari della vita economica. Da che i principii liberali finirono per trionfare delle vecchie classi e dei vecchi privilegi, l’esercizio delle arti, delle professioni e dei mestieri concernenti la produzione e il traffico non fu più legato a garenzie di corpi, a tirocinii, a patenti, a concessioni. Le menti degli operai e lavoratori in genere, scaltrite dalla concorrenza, raffinate dai rapidi progressi della tecnica, sono oramai diventate nei paesi più civili menti d’uomini liberi, che nella gara e nella lotta per l’esistenza portano i vivi sensi della personale dignità, e la onesta ambizione di non soggiacere a nuove padronanze. Ma ecco un singolare contrasto! Se è lecito a ciascuno d’offrire il proprio lavoro come operaio, non c’è, per effetto degli stessi principii di libertà, produttore, intraprenditore, capitalista o commerciante che abbia obbligo di darne. Il lavoro ha il suo mercato, e la concorrenza, che ne rinvilisce il pregio, lo riduce a merce: merce umana da cui deriva la novella schiavitù. La lega non numerosa dei grandi proprietarii e capitalisti, col prosuntuoso titolo di libertà, spadroneggia sicura e indisputata nel mondo politico e sociale; procedon di conserva con loro i minori capitalisti e proprietarii, portati dalla voglia del salire ad opprimere i lavoratori, sfruttandoli. Questi, liberi e cittadini in idea, per l’urgenza del bisogno si fanno mercenarii: esposti alle vicende d’un mercato di cui ignorano il meccanismo, soggiacciono alle crisi reali o artificiali; quasi mai si sollevano su la condizione di proletarii; sempre miseri, spesso disperati. Contro la libertà di contratto si leva l’ispirazione socialistica del diritto al lavoro, che vuole eliminata la concorrenza; soppressa la privata produzione; sostituita a questa un’altra di comune interesse, e per opera di un ente collettivo; elevati i lavoratori a membri di una grande famiglia, in cui la sorte di ciascuno trovi assetto e garanzia nell’interesse di tutti. Protestando contro il disordine

della libertà di contratto i socialisti si affermano riorganizzatori della vita civile. In cotesta organizzazione sociale soltanto sarà lecito di dare a ciascuno secondo il merito ed il lavoro suo. Presentemente la massa del prodotto economico va distribuita fra il proprietario del fondo a titolo di rendita, l’intraprenditore sotto il nome di premio, il detentore di capitali come interesse, i poteri pubblici per imposte e tasse, e i lavoratori infine come salario e mercede. Essi, produttori del tutto, ricevono non la quota del lavoro prodotto, ma il minimo d’esistenza, e non sempre quello nemmeno; perché stretti dal bisogno la spietata lotta del vivere li fa vittime inconsapevoli d’un cieco e fatale meccanismo. Nella futura organizzazione tutto il prodotto sarà diviso in due parti sole: prelevamento pubblico per le spese di comune e generale interesse, compenso a ciascuno secondo il lavoro prodotto. Negativa è la libertà che fa da emblema al nostro ordine sociale. Suona così: liberi tutti di cercar lavoro, vi contenterete del salario che vi capiterà di trovare. Positiva sarà la libertà sociale: obbligati tutti a lavorare, salvo gli estremi della pubblica assistenza, il compenso assorbirà la maggior parte di quello che ora va in rendita, premio e interesse. Complemento economico e coronamento morale delle libertà politiche! Ma quali le vie e quali i mezzi per giungere al trionfo di cotesti principii, perché entrati nelle menti e negli animi rinnovino la società civile? Mezzo primissimo, diretto, onesto e sicuro la propaganda. A fare che certe cose accadano, bisogna che parecchi le pensino, moltissimi le credano. Partire dai sentimenti; e rinnovati questi, nuovi saranno i voleri e l’opere. Bisogna risvegliare i dormienti, che da schiavi ignari della schiavitù propria accettano come per grazia e largizione salario e mercede. Risvegliati che siano conviene esercitarli in atti di particolare fratellanza, preparatrice di quella che sarà poi universale. Muovere e riscaldare in tutti l’orgoglioso senso del cittadino, onde ogni forma di patriottismo locale, regionale e nazionale favorisca gli abiti del sagrifizio, e disponga gli animi alla spontaneità della vita comune. Guadagnare alla causa sociale gli operosi e gl’intelligenti delle classi privilegiate. Uno studioso, un professore, un borghese, un capitalista, che entri convinto nelle vie del socialismo, vale oggi più che non cento e non mille proletarii, come vivo documento del decrescere dell’egoismo nei più interessati, come prova del trionfo ideale e anticipato di una causa, che nei derelitti e travagliati si rivela per gl’impeti passionati della rivolta. Mezzo vivo, pratico, efficace la pressione costante del lavoro sul capitale, onde gli scioperi divengano regolatori del rialzo dei salarii, e la dignità umana si

riaffermi nella limitazione delle ore di lavoro. Occorre per ciò un vivacissimo spirito di classe, scuola pratica di resistenza, e addestramento alle future vittorie. Cotesto spirito non può essere soltanto nazionale, ma deve essere internazionale. Sarà l’arma morale ed economica per combattere l’invadente militarismo, miraggio patriotico per alcuni, bandiera dinastica per altri, ma in fondo poi istrumento del capitale e della grossa industria: – vincitori o vinti che gli stati escano dalle guerre, la festa è sempre allo stesso modo la stessa, per aggiotatori e banchieri! Utile istradamento la cooperazione, purché non degeneri in egoismo collettivo d’una frazione di operai contro tutti gli altri. Assidua, costante, passionata, vuol essere la partecipazione degli operai alla vita politica; noti solo perché questa è opportuna palestra di socialità, ma anche per premere d’ogni parte su la pubblica finanza, e renderla atta a soddisfare i più generali bisogni dei meno abbienti. Cooperazione, comune e stato; ecco i tre termini di quella forma sociale, che non sarà più di sfruttati e di sfruttatori. Vi ringrazio d’avermi invitato a parlare. Se vi parrà questo modo utile d’incominciare, continuate pure. Non sarà nome vano quello di Circolo di Studii Sociali, se vorrete favorire e coltivare questa maniera di riunioni istruttive. Porterete nuova luce negli animi vostri, e dai vostri si diffonderà negli animi di tanti e tanti. Sarete i benemeriti di molti operai, che invano tentano di crescere in dignità d’uomini e in coscienza di cittadini, e per difetto di mezzi e di lumi, o si rimangono, o ricadono nella pigra vita delle vecchie plebi. Se volete continuare non fate capo a uno o a due, ma a molti che v’istruiscano e consiglino. Le grandi idee non le porta a spalla un solo uomo, né camminano sul filo d’un ragionamento o d’un discorso. C’è bisogno di pionieri, e di lenti lavoratori di tutti i giorni, di animi ardenti e di calmi discutitori, di entusiasti e di critici, di distruttori e di ricostruttori: e ciascuno faccia la parte sua. Son socialista a modo mio, e risoluto a non discostarmi d’una linea dalle convinzioni scientifiche, a vincere le mie passioni, a non secondare quelle degli altri. Non feci mai e non faccio la vita delle conventicole, delle associazioni e delle leghe. Non credo a nulla di artificiale, e mi ripugna tutto ciò che è violento. Son tre mesi appena che entrai nel Circolo Radicale, ed è la prima volta in vita mia che metto piede in un circolo. Non ho appreso il socialismo dalla bocca d’un gran maestro, e quel che ne so lo devo ai libri. Mi ci ha condotto il disgusto del presente ordine sociale, e lo studio diretto delle cose. Fin dal 1873 scrissi contro i principii direttivi dell’ordinamento liberale, e dal 1879 cominciai a muovermi in questa via di nuova fede intellettuale, nella quale mi son fermato e confermato

con gli studii e con la osservazione negli ultimi tre anni8. Ciascuno ha le sue vie e il suo temperamento di spirito! Chiudo con un augurio secondo l’animo mio. In questa terra classica di feroce tirannia spirituale, in questa terra di papi, di preti e di frati usurpatori del titolo di santità, in questa terra più che in ogni altra conviene risorga e si ravvivi il sentimento della schietta cristianità. Siam noi i veri discepoli di Gesù di Nazareth, dichiarato divino, tanto l’umanità sua fu superiore ad ogni forma d’egoismo; di Gesù annunziatore del regno di Dio, che è della pace e dell’amore, che verrà e sarà fatto per opera e virtù dei sentimenti nostri.

RECENSIONI [1881-96]

[7] TOMMASO TRAINA, La morale di Herbert Spencer, Loescher, Torino 18811. Per il caso nostro gioverà fermarsi su la prima delle due parti in cui il prof. Traina2 divide il suo lavoro. Gli è in essa (pp. 5-63), per l’appunto, che l’Autore esprime più chiaramente l’opinione sua propria su le dottrine morali dello Spencer; delle quali dà poi una esposizione sommaria nella seconda parte del libro (pp. 64-158), fondandosi precipuamente su l’opera dal titolo Le Basi della Morale, resa non è guari più accessibile ai lettori italiani dalla traduzione del prof. Sergi (Milano, Dumolard, vol. XXVI della Bibl. Internazionale)3. Né metterebbe in fatti conto di esaminare nei suoi particolari cotesta esposizione; della quale basterà dire, che seguendo essa l’andamento dell’opera cui si riferisce, ne riproduce i concetti fondamentali nell’ordine preciso in cui lo Spencer li è andati svolgendo. Ci pare invece più conveniente il riferire qui quello che di suo il Traina ha messo nel libro che esaminiamo; perché s’intenda per quali ragioni egli consideri la filosofia positiva come la sola capace di soddisfare lo spirito umano nelle presenti condizioni dello svolgimento suo. A detta dell’Autore si è oramai giunti in fatto di etica, e proprio per opera dello Spencer (p. 4) al possesso delle vere idee e non resta che continuare nell’opera iniziata. Una tal persuasione, espressa e ripetuta più volte sotto diverse forme nel breve giro di 58 facciate, fa nascere nel lettore una viva voglia di conoscere le ragioni cui sia stata attinta e gli argomenti coi quali possa essere al caso difesa contro di coloro che siano disposti a pensare altrimenti. Gli è questo del resto il meno che si possa mai chiedere a chi fa professione di positivista, cioè di persona che non crede se non a quello che è provato con l’aiuto della scienza; salvo che altri non voglia tenersi pago alla dichiarazione che lo Spencer è il genio dell’età moderna (p. 52). Ora, ci rincresce di dirlo, nel discorso del prof. Traina non abbiamo trovato argomenti sufficienti per credere alla solidità della sua persuasione; perché se afferma bene, ei non prova punto, e quando si richiama alla storia, ci rincresce, ma è proprio così, non pare ne azzecchi una. In fatti l’Autore il quale afferma che lo Spencer riassume in sé tutti gli sforzi dell’età moderna, risolve tutti i contrasti delle dottrine antecedenti, dà forma organica all’utilitarismo per via del concetto dell’evoluzione storica, e concilia definitivamente l’egoismo e l’altruismo, alla fin fine in tutte queste affermazioni, salvo qualche citazione incidentale dello Schopenhauer e dell’Hartmann non si richiama in via di riscontro che alle dottrine soltanto dell’Hobbes, dell’Elvezio, del Bentham, del Mill e del Comte, e non più di così. E gli altri filosofi dove sono iti? Pare che di

tutti gli altri l’Autore non dica se non che sono metafisici; e gli ha in dispregio perché professano la dipendenza della morale dalla religione, o dalle idee assolute. Cotesto è troppo per davvero! Il positivismo ha per fermo dei lati nuovi ed originali, ed è una manifestazione seria dello spirito moderno; ma al postutto non l’ha inventato esso proprio la scienza. Se vuol essere qualche cosa, innanzi tutto si collochi al posto suo. Del resto, ecco in breve come l’Autore racconta il pensiero suo. Come appena col nuovo metodo scientifico s’iniziò il rinnovamento delle dottrine etiche, i metafisici d’ogni colore diedero il segno dell’allarme. La colpa è anche un po’ dei neorazionalisti e degli spiritualisti alla Schopenhauer, che cercano di difendere le dottrine pro e contra alla libertà d’arbitrio. Ma tutto ciò non si fa nemmeno in buona fede, perché oramai la civiltà progredita non permette di tornare indietro (pp. 6 e 7). Il metodo che dette già tanti buoni risultati da costituire esso solo le scienze fisiche dell’astronomia fino alla botanica (p. 8) va applicato per conseguenza logica anche alla morale, perché non c’è ragione che una parte della realtà sia diversa dalle altre. Quindi anche qui evoluzione ed adattamento, e siamo già tanto avanti, che potremo conoscere quale sia stato e quale induttivamente potrà essere l’uomo nell’umanità, l’uomo umano però, l’uomo qual’è nella natura (p. 9). Il positivismo non ne vuol sapere di Dio, di vita eterna e simili, e sia pure; ma non vuole nemmeno più saperne di argomenti né dedotti, né fabbricati per relazione di una idea all’altra per soli rapporti logici (p. 12). La morale è un organismo naturale, e di fatti s’è formata grado a grado. Nella prima età patriarcale il sentimento morale non era conosciuto e poco per volta il cervello delle generazioni fu capace di discernere, di riflettere, di sentire il bene ed il male (pp. 12-13), e tutto ciò in ragione dello sviluppo biologico che perfezionò l’organismo fisico (Ivi). La morale non ebbe mai nulla di sostanzialmente comune con le idee religiose (p. 16) e le esperienze scientifiche hanno dimostrata la formazione degli ideali etici analoga a quella d’ogni altro bisogno umano, per via cioè della selezione e dell’adattamento (p. 17). La tendenza dell’uomo al piacere è un fatto organico (pp. 18-19) e di qui dunque la morale, perché le azioni o dannose o del tutto improduttive di bene non si sono mai tenute in conto di buono agir morale (p. 18). L’egoismo trova nella natura stessa i limiti, e quindi si armonizza con l’altruismo (p. 20). Per via di generalizzazione si formano poi poco per volta gl’ideali da cui derivano i criterii della condotta possibile (p. 22). Tutto ciò, e lo dica anche Spencer, è pochino per davvero! Nel campo di quelli che pensano altrimenti, l’Autore non vede che ontologi ostinati tutti a difendere la dipendenza della morale dalla fede, il che poi nella

più parte dei casi si dice e si afferma di mala fede (p. 25). L’Autore fa ricorso alla storia per ribadire la sua tesi. Platone ed Aristotele diedero alla Grecia le prime nozioni scientifiche della morale [p. 27]. Ma ebbero il torto d’essere ambedue idealisti, e di considerare la giustizia nella virtù e la virtù come un aspetto del buono [Ivi]. Le tracce di questi ideali produssero per lunghi anni una eredità funesta (pp. 27-28). Epicuro fu il solo fra gli antichi che la indovinasse, perché fondandosi sull’esperienza viva della natura umana (p. 28) riuscì a trovare nel piacere la legge universale dell’operazione (p. 29), il che poi lo menò a stabilire l’armonia dei fini ed il concetto dell’umanità (p. 31). Zenone gli sta a paro, perché anche lui fonda [sui] calcoli dell’esperienza (p. 31). Questa è la filosofia che passò ai Romani, e in fatti Seneca e Lucrezio rigenerarono il carattere dello Stoicismo greco in una filosofia tutta nazionale le di cui orme sono ricavate dall’Epicureismo (p. 32). Nel Medio Evo c’è buio pesto. Ed è naturale perché allora comincia a ricostituirsi un nuovo popolo ed una nuova religione (pp. 33-34), e tutto diventa misticismo, idealismo, ierocrazia ecc. Pare a dirittura che nel Medio Evo l’umanità sia tornata allo stato selvaggio, perché l’Autore non si perita di dire (p. 35) essendo il cervello di quelle prime generazioni sfornito di idee e di esperienze accumulate, il prodotto della sensazione, non trovando nell’intelletto elementi di comparazione, si traduce in idea meccanica più o meno esagerata, a misura che più efficace sia stata la sensazione ricevuta. L’età moderna comincia con Hobbes. È lui che ha trovato nel sentimento dell’utile la legge meccanica che attira a sé lo spirito, che ne dirige il potere né più né meno che il vuoto attira i corpi (p. 38). Bentham purgò la dottrina di Hobbes dall’individualismo, e vide nell’utile il benessere del maggior numero (p. 39). Il razionalismo fondato su l’apriori s’è sforzato di fare il contrario ed ha finito per edificare un contenuto che se convince la pura ragione, non interpreta né scopre sempre il reale e l’esterno (p. 41). Il Mill alla sua volta migliorò la teoria utilitaria, mostrando per l’appunto come il sentimento dell’utile ci abitui alla giustizia ed all’onestà (p. 44). Tocca al Bain il merito d’aver provato come l’idea intrinseca del dovere, risulti naturale dall’accomodamento ai doveri sociali (p. 45). Lo Spencer da ultimo ha coronato l’edificio. La biologia, l’esperienza storica, il Darwinismo fanno tutt’uno in lui che ha dato certezza scientifica e valore sistematico all’utilitarismo coordinando le idee di egoismo e di altruismo. Alla mente dell’Autore s’affaccia l’ideale di una umanità avvenire in cui l’altruismo non sarà più oneroso anzi diventerà una vera e propria soddisfazione personale (p. 61). Parecchie di coteste proposizioni possono essere, o almeno parer vere, quando altri s’ingegni di provarle, o di metterle in relazione con quelle che siano state

provate avanti. Ma l’Autore per parte sua nell’enunciarle non s’è dato pensiero di addurre alcuna prova. Egli parla in nome del presente grado di evoluzione, il che vuol dire che narra la convinzione sua, né si briga di porla per via di argomenti. È questo il positivismo? Ne dubitiamo; e se è cosi, non è né scienza né filosofia. Del resto sarebbe utile di sapere in quale delle opere del Darwin trovi la sua giustificazione l’enunciato seguente (pp. 6-7): Nel Darwinismo al principio della volontà sottentra la legge di gravitazione del sé in sé, che si ritrova appunto nei fenomeni che paiono i più opposti o contraddittori: disinteresse, benevolenza, compiacenza, moralità.

[8] GUSTAV ADOLPH LINDNER, Lehrbuch der formalen Logik: für den Gebrauch an höheren Lehranstalten und Selbstunterricht [Manuale di logica formale per le scuole superiori e per l’apprendimento individuale], Gerold, Wien 1881 (edizione quinta ricorretta)4. Se un editore, voglioso di far cosa utile a sé ed all’insegnamento filosofico nei licei, si desse la cura di un traduttore, capace di volgere convenientemente in italiano questo libro di testo, e pubblicasse poi la traduzione in piccolo volume di poca spesa, ne andrebbe certamente lodato; e mettiamo pegno, che avuto riguardo ai libri che presentemente s’adoperano, non avrebbe da temer concorrenza nell’impresa. L’operetta del Lindner, che ha toccato oramai la quinta edizione, fu accolta fin dal primo momento nelle scuole secondarie dell’Austria, come lavoro didattico di primo ordine. Via via s’è andato poi sempre migliorando, perché all’autore furon porti non pochi avvertimenti dalle persone che adoperando il testo nelle scuole ebbero occasione di provarne l’efficacia e di notare qua e là gli errori o i difetti. Non diremmo il medesimo degli altri lavori didattici dell’autore, cioè della Introduzione allo studio della filosofia, del Manuale di Psicologia, e di quello di Pedagogia5. Del rimanente la cosa è naturale; perché in fatto di logica, le dottrine certe ed assodate sono in più gran numero che in qualunque altro fra i rami della filosofia. È bene avvertire che qui si tratta della logica formale propriamente detta; cioè della sola dottrina filosofica che incontrastabilmente può far parte degli studi generali e propedeutici della scuola secondaria. E appunto per ciò il libro è schiettamente scolastico; cioè non discorsivo, ma didattico; rigorosamente spartito in paragrafi da mandare a mente, ricco di esempii e pieno di sussidii mnemonici e figurativi. L’A. che in filosofia segue l’indirizzo herbartiano, mantiene la sua logica nei rigorosi confini di dottrina delle forme del pensiero; evitando così l’errore in cui cadono spesso i trattatisti ordinarii, o di confondere la logica con la psicologia, o di allargarne il campo a tutta la metodica delle scienze speciali.

[9] FRIEDRICH VON BAERENBACH, DIE SOCIALWISSENSCHAFTEN: ZUR ORIENTIRUNG IN DEN SOCIALWISSENSCHAFTLICHEN SCHULEN UND SYSTEMEN DER GEGENWART [Le scienze sociali: per orientarsi fra le scuole di scienze sociali e i sistemi del tempo presente], Wigand, Leipzig 18826. Il titolo modesto esprime precisamente l’intenzione dell’A., e l’indole del libro. Qual’è il significato della questione sociale? e a che punto ci troviamo in fatto di scienze sociali, perché nella trattazione e risoluzione dei problemi pratici si possa procedere con qualche speranza di successo? Intorno a questi due argomenti il Baerenbach7 si assume di portare una certa chiarezza; e scrive per l’appunto per dar luce alle persone colte, cui prema di farsi una opinione esatta su i motivi della legislazione sociale iniziata, non è guari, dal Bismarck. Egli è socialista, ma temperato. Redarguisce vivamente i conservatori, che ostinandosi nell’idea di un mero governo di polizia non riescono se non a stuzzicare ed a giustificare le intemperanze dei democratici. Delle tendenze teoriche e pratiche di questi si ferma a svelare i difetti e i pericoli; insistendo nel concetto, che occorra riformare nella misura del conveniente, sempre per le vie dello Stato, e dando forma certa di diritto ai nuovi bisogni. Diffida come tutti i socialisti dell’opera e delle inclinazioni dei liberali; sebbene non si pronunzi per nulla sull’ordinamento politico dello Stato. Egli, per vero, dichiara d’essersi intenzionalmente astenuto dal toccare le quistioni di diritto pubblico; ma l’astensione stessa parrà a molti, come è parsa a noi, indizio manifesto di un difetto non piccolo della nuova tendenza sociale. Il libro non mira ad una storia completa delle questioni enunciate nel titolo. Si tratta invece di esporre le teorie più recenti, e soltanto nei limiti della letteratura tedesca, salvo il caso di qualche notevole influenza straniera. L’origine stessa del volume, che consta di varie monografie già prima pubblicate in una rivista e poi rimaneggiate, spiega perché ci sia molta chiarezza nelle singole parti e poca connessione nell’insieme; e perché l’A. cada tanto spesso in ripetizioni. Del resto la esposizione è tanto imparziale e critica, che il lettore può, con l’aiuto dei materiali che gli vengono offerti, riuscire da solo a conclusioni di gran lunga difformi da quelle dell’A. E ciò rende raccomandabile la lettura del libro. Non tornerebbe qui di dare il sunto delle esposizioni che contiene; ma gioverà di notare le vedute generali cui le esposizioni stesse vanno ridotte. All’A. è parso utile di provare ancora una volta, che la questione sociale è punto arbitraria od accidentale; anzi vien fuori naturale dalle presenti condizioni morali ed economiche della vita tedesca. Si ferma per ciò a riprodurre le vedute

dell’Held, dello Schmoller e dello Scheel8; scrittori che pei primi ne ridussero lo studio in giusti confini, subordinandola ai criteri dell’apprezzamento etico e sottraendola agl’influssi di teorie pregiudicate; sia che altri partisse dai preconcetti di una disuguaglianza od eguaglianza originaria, sia che altri mirasse ad una giustizia assoluta o ad uno stato perfetto. Al confronto di una così fatta tendenza schiettamente critica, i seguaci di Marx e di Lassalle9 sono apparsi un semplice partito; e quel che è più un partito sovversivo, le cui vedute, attinte a preconcetti dommatici, mirano alla distruzione dello Stato. E pur nondimeno la confusione continua; e i liberali d’ogni tinta non cessano dal fare d’ogni erba un fascio. Torna a poco merito del Bamberger e del Treitschke l’avere influito con l’autorità del nome loro a perpetuare e confermare gli equivoci e il malinteso10; il che ritarda le soluzioni, inasprisce la lotta, svia lo Stato dall’ufficio suo, discredita sempre più i liberali e i loro principi. Molto si poteva attendere dalla scienza, e non poco si è ottenuto. Fu merito grande dell’Hildebrand la critica dei concetti tradizionali dell’economia politica; ma maggiore quello del List, per avere iniziata l’analisi storica ed il giudizio etico sul fenomeno economico, che egli seppe ridurre pel primo ad effetto, a conseguenza, a condizione dipendente delle funzioni complesse della vita nazionale11. La via è fatta, il campo è determinato. Si tratta di studiare il fenomeno sociale, normale od anormale che siasi, senza preconcetti, coi criteri dell’osservazione. I risultati però non sono in genere, né così grandi né così sicuri, come molti si mostrano inclinati a credere. L’A. pur riconoscendo che lo Spencer abbia provata (?) la possibilità della scienza sociale, circoscrivendone l’obbietto, determinandone il metodo, rimovendo non pochi pregiudizi e dominando un vasto materiale, non sa persuadersi che per opera di lui si sia venuti oramai in possesso di una dottrina vera e propria, di un complesso, insomma, di leggi. Altrettanto riservato è il suo giudizio su lo Schäffle12. L’analisi a volte felice degli organismi sociali, il vedere largo, le cognizioni estese, l’intenzione etica sempre alta, questi pregi notevoli dello Schäffle sono controbilanciati e spesso vinti dall’abuso delle analogie, dal formalismo, dall’architettonica opprimente, e dalla insufficienza dei concetti giuridici. L’analisi dell’opera voluminosa del Lilienfeld su la scienza sociale, non franca addirittura la spesa13. Siamo dunque ancora ai preliminari, alla propedeutica. Rotti i vincoli del vecchio dommatismo, ricondotto il problema al terreno positivo, c’è bisogno di analisi minuta, di lunghi studi speciali per arrivare all’intendimento delle leggi, massime per regolare l’azione pratica dello Stato. E di tal sorta sono i lavori

dello Schmoller e del Brentano, diretti ad illustrare le condizioni dell’industria e del lavoro. Le analisi soprattutto del primo su le condizioni della piccola industria han rivelata una condizione di cose che non ammette palliativi. L’intervento diretto e sicuro dello Stato è qui richiesto dalla evidenza del male, dal fermento che ne risulta, dalla persuasione oramai generale che i principi dell’economia liberale sono fallaci. Le analogie inglesi studiate dal Brentano han resa più evidente la condizione delle cose in Germania, per via della differenza14. Diagnosi e sempre diagnosi ecco la tendenza della nuova scuola. La questione operaia, per la qualità stessa delle persone che vi partecipano, parve dapprima la più notevole, anzi la sola o vera questione sociale. E qui la diagnosi è progredita più che in ogni altro campo. Per ciò l’A. si ferma ad illustrare i meriti del Lange15, e a dire la sua su gli studi del Samter16, giustificati negli intenti, ma paradossali nelle conclusioni. Ma anche i concetti su la proprietà, ridotti già da un pezzo in rigida dommatica per le tradizioni della scuola, furono scossi dalla critica e ricondotti nei modesti confini di un fatto storico. L’A. si ferma a lungo nell’esame del noto libro del Laveleye17; e sebbene si mostri punto inclinato ad accettarne le conclusioni pratiche, vi trova un concetto capitale acquisito alla scienza: che cioè le forme della proprietà non costituiscono un dato fisso della vita sociale, anzi siano conseguenza sempre condizionata dell’azione complessa e mutevole della vita sociale medesima. Un celebre giurista, il Ihering, dà già forma scientifica a questa tendenza. La lotta è seria, i paradossi non mancano; ma il Wagner tiene in quest’ordine di questioni la giusta misura18. Dunque lo Stato ha innanzi a sé tutto un nuovo campo d’azione: contemperare, cioè, l’individualismo col socialismo, nella misura che occorre perché la proprietà non divenga privilegio, la libertà abuso, la partecipazione di tutti alla vita politica una mera derisione, la cultura un’apparenza, il diritto un impedimento, l’ordine pubblico una perpetua violenza. Qui sono le ragioni di un’etica sociale; materia nuova di studio, novello fine e limite novello dell’azione dello Stato. Il libro risponde bene all’intento d’illuminare, di chiarire, di eccitare. Parrà insufficiente solo a quelli i quali credono ci sia poco o nessun guadagno a conoscere i termini di un problema, quando la soluzione non si presenti sicura, istantanea ed infallibile.

[10] RUDOLPH VON IHERING, DER ZWECK IM RECHT [Il fine nel diritto], Breitkopf & Härtel, Leipzig 1883-188419. Di un’opera così vasta, di autore tanto insigne, non è cosa facile, non diremo già di portar giudizio, ma nemmeno di dare un cenno soddisfacente in breve spazio20. Il Ihering scrive una filosofia del diritto e della morale tutta nuova di sana pianta; onde l’analisi delle sue idee richiederebbe un intero saggio abbastanza esteso, e chi si volesse poi provare a criticarle, non potrebbe a meno di comporre proprio un libro, come fece già a proposito delle prime edizioni del I volume di cotest’opera il celebre storico e germanista Felice Dahn (Die Vernunft im Recht, Berlino 1879)21. Si può però indicare in breve l’intento dell’A. e l’indole della sua dottrina; perché così questa come quella hanno caratteri tanto spiccati da potersene dar ragguaglio con sufficiente esattezza. L’opera del resto non è compiuta; e per questa ragione non parrà inopportuno di differire il giudizio definitivo. Il titolo può indurre in errore: e molti, specie fra i giuristi, crederanno alla prima che un’opera la quale discorre del fine del diritto, non possa mirare se non ad esporre in maniera dimostrativa la ragione dei singoli istituti giuridici, guardandoli tutti come parti di un gran sistema. E qui invece si mira a spezzare l’unità tradizionale del sistema giuridico con l’intento di esaminare le condizioni di fatto che hanno occasionato e continuano ad occasionare con tanta varietà gli istituti giuridici; la cui ragione è appunto nel bisogno cui soddisfano e nell’interesse che difendono. Ecco dunque capovolto il problema della scienza giuridica; e il diritto vien considerato quale un semplice mezzo rispetto ai fini dell’attività umana. Avversario il Ihering di chiunque ammette una coscienza natia, universale, primitiva, immediata del diritto e della morale, egli considera l’uno e l’altra come conseguenze, immancabili sì, ma pur sempre secondarie, particolari, acquisite, mediate della vita; le cui leggi, che sono poi i fini dell’attività umana, formano il preciso oggetto della sua ricerca. Per cotesta guisa gl’istituti giuridici non son più, né il portato di una disposizione peculiare dello spirito, né gli estremi termini di una deduzione, anzi le posizioni in cui mette capo il lavoro sociale, in quanto è inteso a garentire i fini del benessere, della comodità, della civiltà e così via. Cotesto modo di concepire non è insolito, perché nelle scuole filosofiche corre da secoli parallelo alla maniera opposta degl’idealisti, ma nella persona del Ihering acquista efficacia ed importanza nuova per due ragioni assai notevoli:

perché egli, che è giurista di gran fama, mettendosi a filosofare di suo proprio impulso, dà maggior rilievo e consistenza ad opinioni e vedute che alla maggior parte dei giuristi ripugnano; e perché lavorando intorno al suo assunto con grande spirito di conseguenza, ed impiegandovi la sua geniale energia, finirà per produrre una profonda impressione anche in quelli, che sono molto ostili a codesta maniera di pensare. I due volumi per quanto estesi si leggono volentieri senza provare stanchezza; e paiono più opera letteraria di primo getto, anziché esposizione sistematica di faticose ricerche. Come nulla accade senza causa, così nulla si vuole senza causa: e chi dice causa per rispetto al volere dice fine. Cotesti enunciati formano l’oggetto della propedeutica, nella quale l’autore un po’ affermando un po’ analizzando fa la sua teoria dell’egoismo; come della forza produttiva delle umane azioni; come del principio sufficiente a spiegarle tutte. Cotesto egoismo non è l’opposto della morale, anzi è tutta la persona umana in atto di volere, in ogni attinenza della vita, per la soddisfazione di qualsivoglia bisogno. Appunto per ciò l’autore considera l’egoismo in ogni relazione della vita, non come semplice criterio astratto o formale, ma qual causa efficiente, varia, multiforme, complessa. Analizzatene le conseguenze prossime nella sfera puramente individuale, l’autore discorre di quelle che si manifestano nel sistema sociale del corrispettivo o compenso, donde deriva l’organizzazione del lavoro, del traffico e simiglianti; e da ultimo di quelle che si svolgono nel sistema della coazione, ossia nello Stato. Via via che si studiano le forme, gli effetti, e gl’intrecci dell’egoismo, s’illustrano vari istituti giuridici, p. es. della proprietà e simili, e visti in cotesta luce essi cessano dall’essere delle espressioni di concezioni mentali, e divengono come tante soluzioni dei problemi che impongono all’uomo i bisogni stessi della vita. Da una simile posizione, e da un così fatto metodo, derivano delle conseguenze necessarie; che danno, per così dire, il suggello alle teorie dell’autore. Noi siamo qui in pieno oggettivismo, ciò a dire nella considerazione del diritto come puro effetto condizionato. E siamo nel relativismo, perché non si può ammettere che alcun istituto sia buono e perfetto per sé, ma son buoni solo quelli che le circostanze vogliono, e che si mostrano e conservano utili. Egli è anche naturale in coteste vedute, che non si possa dare alcuna formazione, né spontanea, né consuetudinaria, del diritto; e che il solo diritto vero sia quello che viene dallo Stato, la cui forza di coazione, dall’utilità in fuori, non ha altro limite teoricamente assegnabile. Cotesta teoria, da ultimo, si fonda su l’ottimismo e mette capo al socialismo. Alle forme del diritto propriamente detto son parallele quelle del costume e di queste si fa nel II volume un’analisi minuta, a cominciare dall’uso della lingua,

che più comunemente le esprime, fino alle manifestazioni del conveniente, dell’etichetta e della moda. L’analisi ricca di particolari, viva, ingegnosa, mira a scovrire in ogni atteggiamento del costume l’interesse che gli abbia dato origine, e la ragione positiva che lo renda stabile e doveroso. L’autore, attirato dall’argomento, e vinto dal suo ingegno letterario, è andato qui un po’ per lunghe; in maniera da non poter poi discorrere delle forme dell’amore e del dovere, che entrano nel suo disegno; il quale finirà da ultimo con la trattazione del diritto positivo in quanto è derivabile da tali premesse. Un libro così fatto, che non solo porta fino alle estreme conseguenze quella maniera di filosofare che noi siamo soliti di chiamar positivistica ma, in opposizione manifesta ad ogni concezione a priori, si prova a ricondurre nella cerchia di quella filosofia tutto il diritto effettivo e storico, va certamente letto e meditato da tutti i cultori della filosofia e delle scienze giuridiche, e specie da quelli che pensano all’opposto di così. La forma n’è tanto chiara e calzante, che vi si legge dentro il più riposto pensiero dell’autore. Cosicché in chi pensi diversamente la reazione nasce spontanea e la critica si rifà naturale perché vi trova modo di fortificare la propria convinzione alla stregua di una dottrina estrema nei principi, ma poi semplice e precisa nel suo svolgimento.

[11] OSWALD ZIMMERMANN, Die Wonne des Leids [La voluttà del dolore], C. Reissner, Lipsia 188522. L’animale prova e fugge il dolore. L’uomo non si limita a provarlo e fuggirlo; ma lo fa anzi oggetto della sua riflessione, lo eleva a termine del suo pensiero, lo converte in elemento efficace di progresso, ne trae lo stimolo a creare la religione, l’arte, la filosofia. Questa la prima e principale tesi del libro. Chi scrive è seguace dello Schopenhauer e dell’Hartmann23, ed è ammiratore della musica del Wagner, che considera qual elemento vitale dei nostri tempi24. Cosicché svolge poi la sua tesi, che in certi limiti e in una certa misura è vera per ogni uomo che pensi, secondo gl’intendimenti esclusivi del pessimismo moderno, di cui accetta tutte le premesse e tutte le conseguenze. La forma del libro è viva, efficace, piena di colore; i pensieri vi si seguono con impeto, e investono quasi l’animo del lettore: e se la persuasione scientifica che se ne ritrae in ultimo non è proprio precisa e calzante, non può negarsi che la tesi v’è trattata con larghezza di aspetti, e con grande ricchezza di finissime osservazioni. L’A. parte dal supposto comune alla psicologica pessimistica, che il dolore è insito ad ogni sentimento, e che non ci sia opposizione e divario primitivo fra sentimenti dolorosi e piacevoli. Cotesto assunto non è abbastanza dichiarato criticamente, e ci pare che derivi dal solo preconcetto sistematico, e dalla tendenza propria della scuola a fondare l’analisi psicologica su la letteratura estetica, e su le manifestazioni geniali dell’arte. In queste si fa molto uso dei sentimenti misti e dei contrasti d’affetti, il che non prova ancora né punto né poco che non ci sia difatti una differenza originaria tra sentimenti piacevoli e dolorosi. Ammesso il dolore come insito ad ogni sentimento, e come funzione diremmo centrale dello spirito, l’A. ne studia le manifestazioni negli affetti umani più generali, nella concezione del bello naturale ed artistico, nell’amore e nel pensiero della morte. A queste considerazioni generali ne aggiunge poi delle storiche su i culti antichi, sul misticismo medioevale, sulla letteratura moderna, su tutte quelle forme dello spirito, insomma, in cui culmini questo altissimo sentimento della voluttà del dolore, che per l’A. rappresenta il più alto grado della vita umana. Lo scritto non procede per freddi ragionamenti, ma sì per brevi accenni aforistici aiutati da molte citazioni di scrittori e soprattutto di poeti. Sono qua e là delle belle osservazioni sul dramma in genere, e specie su la tragedia e su l’opera. L’opposizione sovente ripetuta tra arte, che si limiti alla pura rappresentazione serena, e quella che miri alla voluttà del dolore, getta qua

e là molta luce sopra certi punti interessanti della storia letteraria. La parte meglio riuscita del libro è l’ultima, ove l’A. discorre dei principali caratteri della letteratura tedesca moderna, in quanto rappresentazione della vita, che via via sempre più s’avvicini all’ideale pessimistico della voluttà del dolore. Avrebbe potuto ritrarre non pochi esempii anche da Leopardi, e persino da Petrarca!

[12] AUGUST RAUBER, Urgeschichte des Menschen [Storia primitiva dell’uomo], F. C. W. Vogel, Lipsia 188425. Il titolo reca la modesta giunta di: manuale ad uso degli studiosi, il che naturalmente richiama la mente del lettore innanzi tutto su l’attitudine critica dell’A. e sul metodo della esposizione26. Diciamolo alla prima: questo libro in fatto di critica va annoverato tra gli ottimi, e in quanto a esposizione, sebbene non esente da difetti, raggiunge lo scopo di istruire con precisione, e di avviare alla ricerca. Né questo ci par poco: perché pur troppo nella copiosissima letteratura degli ultimi anni, la preistoria fu sempre trattata, o in monografie specialissime non accessibili ai principianti, o in sunti troppo dommatici ed esclusivi, che tolgono il mezzo di apprezzare giustamente il valore preciso dei fatti, e la credibilità delle interpretazioni adottate. Questo libro del professore Rauber, anche a prescindere dai molti particolari e dai molti riavvicinamenti nuovi che presenta quasi in ogni capitolo, è di gran pregio come mezzo sicuro di orientazione su lo stato veramente scientifico e critico di tutte le questioni attinenti alla preistoria; sia che queste interessino i naturalisti, o sia che giovino agli studi degli storici propriamente detti. Né con ciò s’intende di dire che l’opera sia popolare; ché anzi è troppo severa, un vero trattato privo per fino delle attrattive compatibili con l’esposizione scientifica. Tra i due volumi corre non piccolo divario. Il I è tutto dedicato alla esposizione e dichiarazione dei materiali (l’A. dice Realien) preistorici che furono finora raccolti, illustrati e interpretati in infiniti libri e monografie: e ci pare che superi di molto in importanza il II volume, che in due distinte sezioni contiene un prospetto geografico delle condizioni preistoriche delle varie regioni del mondo, dall’Europa in fuori, e poi un saggio costruttivo su la formazione degli elementi primi e principali della civiltà. Difatti il I volume incontrerà l’approvazione di tutti i dotti di qualunque scuola, che vi troveranno raccolti con giudizio, ed ordinati con molta precisione tutti i primi dati della preistoria: mentre non pochi inclineranno a credere che il prospetto geografico del II volume sia incompleto; per non dire già che le vedute costruttive dell’A. son sempre discutibili nei loro principii, come accade di tutte quelle che concernono l’evoluzione storica dei fatti umani. Chi scrive questo annunzio dichiara del resto per conto suo, che egli accetta in buona parte le vedute costruttive del professore Rauber. L’A. nega giustamente che ci sia un taglio netto tra storia e preistoria, e anzi considera questa e quella come due parti ben connesse di quel solo tutto che è lo

sviluppo umano. E come nega questo taglio netto, rigetta con eguale fondamento gli schemi e i periodi preconcetti che farebbero considerare come inevitabile una certa successione fissa nelle forme e nei mezzi di qualunque civiltà. L’esperienza sta recisamente contro di questo presupposto teoretico, e anzi c’insegna che le varie disposizioni di razza, le varie condizioni di luogo e le azioni reciproche tra i vari popoli, hanno dove ritardata, dove affrettata e dove variata l’evoluzione. Il che non toglie che per effetto delle più generali predisposizioni della natura umana, e delle più comuni condizioni della natura esteriore, così la preistoria come la storia presentino nelle grandi linee un certo ordine e una certa successione; ma si vuol dire, che non si deve mai precorrere all’osservazione con presupposti a priori. Per ciò il nostro A., nel raccogliere nel I volume tutti i dati della preistoria, dai più semplici istrumenti di pietra sino agl’indizi della vita morale e religiosa, dall’uso primitivo del fuoco, sino agli avanzi degli animali domestici, procede con molta cautela nel riconoscerne i fatti, e nel cavarne degli apprezzamenti vari per ciascuna regione o parte della terra, e mira sempre a mettere in evidenza la lenta transizione della preistoria alla storia comunemente detta. Avversario delle opinioni troppo esclusive, egli per esempio non ammette una sola spiegazione dei fatti religiosi, e dà secondo i casi ragione così agli evemeristi, come agli idealisti della mitologia comparata27. Non abbiamo spazio da fermarci sul prospetto geografico del II volume. Noteremo solo che l’A. è in genere alieno dal moltiplicare i centri di civiltà, e che per esempio ne riconosce un solo per tutta l’America, per quel che s’attiene alla lavorazione del bronzo. Della parte costruttiva, che chiude l’opera, ecco un breve sunto. Con un breve cenno di morfologia geografica l’A. si apre la via a discutere delle condizioni per la nascita e per la diffusione degli esseri organici. Nega l’origine multipla dell’uomo, e gli assegna una prima ed unica sede, da cui sarebbe emigrato in varie direzioni. Discute le varie ipotesi su questa sede ed inclina, ma senza maggior precisione, per le regioni più favorevoli dell’Asia. Sul tempo della prima apparizione dell’uomo su la terra dice il pro e il contro, e reca tutti i dati approssimativi; ma gli ripugna di addurre una data troppo tassativa. La razza è una formazione posteriore, effetto di cause multiple. Su i loro caratteri distintivi ei si mostra molto dubbioso, e in genere le considera per meno recise di quel che non paia a molti. Inclina all’ipotesi – a nostro avviso assai discutibile – di una lingua primitiva, differenziatasi poi più tardi. Tratteggia brevemente lo sviluppo graduale della morale e della religione, in funzione con tutta la rimanente vita umana, e chiude da ultimo l’opera con un bellissimo capitolo su lo stato, che ei considera nella varietà dei suoi moventi e dei suoi fini, come la più alta opera

della civiltà, e la maggior garanzia del vivere umano. Come si vede, il libro del Rauber è di grande interesse per molte classi di lettori.

[13] FRIEDRICH VON HELLWALD, Naturgeschichte des Menschen (Storia naturale dell’uomo), con illustrazioni di F. KELLER-LEUZINGER, 2 voll., W. Spemann, Stuttgart [1882-1885]28. Il nome di F. von Hellwald non ha bisogno di raccomandazioni. Cultore insigne delle discipline geografiche ed etnografiche; espositore vivo, vario, simpatico; lavoratore indefesso, che nel giro di pochi anni ha dato fuori un gran numero di volumi stimati egualmente così dai dotti come dalla gente colta, l’Hellwald tiene oramai un posto notevolissimo fra gli scrittori di Germania, sia che si guardi ai libri suoi più popolari, sia che si pigli a studiarne la Storia della Civiltà (ed. 3a, 1884), opera poderosa, che per un pezzo aspetterà l’uguale. Anche alla gente colta, che fra noi non legge il tedesco, il nome del nostro autore è abbastanza noto per il libro, popolare sì ma utilissimo, di geografia descrittiva, intitolato: La Terra e l’Uomo, che la casa editrice Loescher farebbe bene di rinfrescare ora un po’ su la terza e più copiosa edizione dell’originale29. Dunque lasciamo l’autore, per venire al nuovo e interessante libro che annunziamo. Il titolo può trarre in errore. Storia naturale dell’uomo: dunque abbiamo qui un nuovo trattato sistematico di etnografia e di antropologia? O una storia naturale del movimento della civiltà? Né l’una cosa né l’altra. L’autore, e non senza fondamento, si mostra scettico per quel che si attiene alle classificazioni antropologiche ed etnografiche divulgate fino al presente; né crede che il lavoro di ricerca speciale sia tanto progredito, da potersi tentare ancora per questo rispetto qualcosa di nuovo, che resista alla prova. Il suo libro non è quindi un trattato, né scientifico, né popolare di etnografia, secondo l’ovvio senso della parola. Né egli ha inteso di rifare le leggi naturali della storia della civiltà, che aveva già altrove esposte; e anzi la sua trattazione s’arresta in questo libro, lì per l’appunto, dove gli pare che il moto della civiltà, nel senso più alto e proprio della parola, chiuda il periodo della storia naturale dell’uomo. Questo libro è adunque una serie di caratteristiche di tutti i popoli ora esistenti sulla terra, considerati nella naturalezza del viver loro, cosi per gli aspetti esteriori, come per quelli interiori; caratteristiche raggruppate per ordine geografico, con l’intento obbiettivo di una rappresentazione piena, imparziale, spregiudicata. L’etnografia, l’antropologia e la linguistica, che non vengono mai messe in ispeciale evidenza come discipline sistematiche, né vengono mai discusse nei loro principii, si trovan però qui come naturalmente rifuse nella caratteristica, che è data in forma facile, intuibile e semplice, come si conviene

ad un libro d’indole letteraria e popolare nel miglior senso della parola. L’indole stessa del lavoro non ammetteva la discussione critica delle fonti, ond’è che par sempre di leggere una narrazione piana e scorrevole. Ma l’autore, da scrupoloso ricercatore come gli è, lascia di tratto in tratto apparire l’aspetto critico delle questioni esposte, cosicché se il libro per la forma sua popolare potrà andar bene nelle mani della gente colta in generale, non è men vero però che i dotti vi troveranno molta materia ad utili riflessioni, e non pochi orizzonti nuovi. E, tanto per dirne una, coteste caratteristiche piene, complete e multilaterali della vita dei popoli, mettono in chiaro come, da stirpe a stirpe, da popolo a popolo, ci siano transizioni troppo insensibili, troppo varie, perché ci si appaghi delle ovvie classificazioni sistematiche dei trattati di etnografia. Dove c’è differenza massima per un rispetto, per esempio la lingua, c’è simiglianza grandissima per molti altri; cosicché torna di molto interesse sempre questa storia naturale dell’uomo trattata in forma descrittiva, perché altri non accetti in senso troppo letterale le differenze di razza, e non le estenda oltre misura alla interpretazione di tutti i fatti umani. Un libro di tal mole e di tale varietà può parere a molti facile come ogni altra compilazione; e sarebbe così in vero, se l’A. si fosse limitato a enumerare fatti vari e disgregati o a esporli secondo l’ordine esteriore di un indice qualunque. Ma qui invece c’è lo sforzo di ricondurre tutti i vari fatti già dichiarati dalla esplorazione, o vuoi etnografica, o vuoi linguistica, a un certo tipo, che rappresenti come l’intima natura e tutti gli esteriori aspetti dei popoli presi a considerare. La lettura anche rapida e sommaria lascia nell’animo un dubbio, che l’A., cioè, mal saprebbe dichiarare in modo preciso e scientificamente persuasivo dove proprio finisca la storia naturale dell’uomo, e dove cominci quella della civiltà. Egli per esempio caratterizza, e non poteva a meno, i Semiti, gli Egizi, i Giapponesi, i Cinesi, i Turchi, ecc. E non poteva fare altrettanto per gli Arii d’Europa, che invece ha a bello studio esclusi? Ci pare che la differenza ammessa rimanga un po’ convenzionale. Alla bellissima edizione, quale sa farne l’editore Spemann oramai venuto in meritata fama, accrescono molto pregio innumerevoli illustrazioni, tutte tratte dal vero, ed eseguite a perfezione30. Riproducono non solo figure tipiche di persone, ma arnesi, utensili, forme di abitazione e simili. Nulla di convenzionale in tutto ciò, e nulla di superfluo o di ricercato. Un libro così originale per l’intento, così vario e attraente per l’esposizione, scritto con penna da maestro, ed illustrato splendidamente, noi lo vedremmo

volentieri recato in italiano, e fosse anche in forma più compendiosa31. La gente colta da noi, e sopratutto la gioventù studiosa, quando legge gli aridi nomi e le aride notizie dei manuali geografici, non riesce mai a farsi un’idea adeguata dei popoli lontani, e a molti pare che le cognizioni di cotesto genere non possano trovarsi se non nei libri prettamente scientifici, i quali il più delle volte son difficili ad intendere.

[14] MAX KAUFFMANN, Immanente Philosophie, Erstes Buch: Analyse der Metaphysik, Engelmann, Leipzig 1895. – «Zeitschrift für Immanente Philosophie», I, 1, 189632. Questa non è una rivista speciale di filosofia, e per ciò non ci è lecito di addentrarci nell’esame di queste due pubblicazioni, le quali sono anzi lontane dal potere interessare un pubblico di lettori, che non sia esclusivamente di filosofi. Lo stesso titolo di filosofia immanente che sta in fronte al libro del dottore Kauffmann, e che serve di specifica indicazione alla rivista che il medesimo scrittore ha incominciato a pubblicare, esigerebbe un lungo esame per essere chiarito e spiegato, secondo l’intendimento degli autori che vi esprimono come in compendio l’indirizzo loro33. Ma lasciando da parte l’esame minuto di tale indirizzo, e senza sofisticare sul nome di filosofia immanente, il fatto è che l’apparizione di tali scritti è assai sintomatica. Gli autori si propongono di ritrattare le questioni filosofiche, escludendo perfino le ultime tracce della metafisica, e stando nei soli limiti di ciò che l’esperienza offre al pensiero. Ma non per questo sono empiristi. Anzi essi intendono di combattere il puro empirismo, nel quale le scienze naturali si erano per decennii esclusivamente fidate, dacché la decadenza della filosofia classica dell’idealismo ebbe indotto le menti dei ricercatori a rifuggire del tutto dal filosofare. Essi anzi combattono il puro empirismo, appunto perché l’esperienza deve essere completata dalla revisione filosofica dei dati. La loro filosofia potrebbe per ciò chiamarsi la dottrina generale dell’esperienza: – e ciò spiega in qualche modo il titolo di filosofia immanente: – cioè immanente è qui usato in opposizione a trascendente. L’indirizzo speciale dei singoli scrittori, che hanno già fornito alla rivista il loro contributo, e le opinioni che in particolare essi hanno espresse, possono essere discutibili, ossia essere oggetto di critica. Ma noi siamo lieti di salutare in tali pubblicazioni i prodromi della filosofia che è destinata a trionfare di ogni vecchia tradizione; della filosofia che in fondo si riduce ad un metodo del pensare su l’esperienza.

[15] FERDINAND BRUNETIÈRE, La Renaissance de l’Idéalisme, Didot, Paris 189634. Una brillante causerie del noto pubblicista, che proclamava di recente la bancarotta della scienza. Di fatti è una conferenza tenuta a Besansone, dinanzi a un pubblico misto35. La punta è diretta contro i veristi, i realisti e i socialisti. Di che idealismo l’autore intenda parlare è difficile ridurlo in forma precisa; tanto più che egli stesso non si è dato pensiero di proporsi una domanda così generale. Questa reazione contro la scienza, contro il verismo e contro il naturalismo, che si rivela nel Brunetière come in tanti altri, è un fatto sintomatico. Ma è difficile di dire se sia sintomo di semplice sazietà e stanchezza, o se davvero sia indizio di qualcosa di nuovo, che debba apparire sotto il nome generico di idealismo.

Sezione quinta

SAGGI INTORNO ALLA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA

Gli scritti raccolti in questa sezione costituiscono senza dubbio il nucleo più noto della riflessione labrioliana. Per l’ampiezza delle opere e la densità dei contenuti, peraltro già ampiamente discussi dalla critica, ci si limiterà in questa sede a fornire alcune informazioni generali sui testi, con particolare riguardo alla loro genesi e vicenda editoriale. Esito di un vasto lavoro di studio e rielaborazione personale, già parzialmente condensato nei corsi universitari, i Saggi intorno alla concezione materialistica della storia – questo il titolo generale anteposto alle singole pubblicazioni fin dal 1895, sebbene Labriola si riferisca talvolta alla sua opera anche con la forma più stringata di «saggi sul materialismo storico» – furono redatti fra il 1895 ed il 1897: un arco di tempo piuttosto ristretto, destinato però a protrarsi, quasi senza soluzione di continuità, in quell’intenso lavoro di confronto che, sul versante italiano come su quello europeo, vede Labriola impegnato a prendere posizione, quasi sempre in polemica, sui temi più caldi del dibattito intorno al materialismo storico e ai tentativi di revisione del marxismo. Di questo confronto sono testimonianza, accanto al fitto epistolario di questi anni e alla lettera aperta A proposito del libro di Bernstein riprodotta in un’altra sezione del presente volume, alcune delle appendici aggiunte nell’edizione dei Saggi del 1902, e più precisamente l’articolo sulla “crisi del marxismo”, il Postscriptum e la Prefazione all’edizione francese, che l’autore decise di allegare rispettivamente al secondo e al terzo saggio. Raccogliendo l’auspicio formulato a più riprese dalla critica recente, si è deciso di riprodurre fedelmente i testi secondo l’edizione Loescher del 1902, l’ultima curata in vita dall’autore, comprensiva di tutte le appendici previste (corredata, nel caso di traduzioni, dal testo originale a fronte). Così facendo, non si è inteso tanto stabilire una priorità dell’ultima sulle precedenti edizioni, quanto colmare una mancanza da troppo tempo presente nel panorama editoriale, in cui i Saggi sono stati a lungo riproposti senza le rispettive appendici o separati da esse, oppure con l’aggiunta di testi non previsti dall’autore, come il noto frammento del “quarto saggio” o altri materiali inediti.

La stesura di In memoria del Manifesto dei Comunisti risale alla primavera del 1895. In calce alla pagina conclusiva dello scritto è apposta la data del 7 aprile (quella riportata ne «Le Devenir social» è, per errore, di due giorni posteriore). L’Avvertenza anteposta alla prima edizione (qui riprodotta nelle note al testo) fornisce alcuni particolari significativi sul contesto in cui lo scritto vide la luce: vi si fa cenno infatti, da un lato, alla «richiesta di una nuova rivista di Parigi» – «Le Devenir social», inaugurato quello stesso anno da Goerges Sorel, su cui il

saggio apparve in traduzione francese nei numeri di giugno (vol. I, pp. 225-252) e luglio (Ibidem, pp. 321-344) –; dall’altro, si sottolinea il ruolo del «cortese amico» Benedetto Croce che, offrendosi di curare l’edizione dello scritto, spinse l’autore ad anticipare l’uscita di un lavoro per il quale, a volume ormai concluso, egli continuava a ritenersi «non del tutto maturo». Dell’importanza di quella lettura per la propria riflessione Croce scriverà nel 1938 in Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), in cui al lavoro di Labriola è riconosciuto un valore periodizzante per l’intera fortuna di Marx in Italia. Sebbene, come accade sovente nella produzione labrioliana, la redazione vera e propria del saggio si concentri in un arco di tempo abbastanza ristretto e di poco precedente l’uscita effettiva dell’opera, la genesi del progetto può essere fatta risalire a molto tempo prima. Nel novembre del 1891, dopo aver concluso nell’estate il corso annuale di Filosofia della storia in cui per la prima volta era esplicitamente trattata la teoria del materialismo storico, Labriola manifestava già ad Engels la propria intenzione di racchiudere in un «opuscolo» il «succo delle idee esposte nel corso» (Carteggio, III, p. 183). Ma è nel poscritto alla lunga lettera del 2 settembre 1892 che il progetto pare finalmente assumere la fisionomia che conosciamo. Scrive Labriola ad Engels: «Eccole in poche parole che lavoro preparo: la genesi del Manifesto comunista. Fine prossimo una traduzione decente. E come ci vorrebbe un gran commentario, così rifaccio tutto l’ambito ideale e reale da cui il Manifesto è sortito» (cfr. Carteggio, III, p. 245). Il passo è assai significativo non solo per la caratterizzazione specifica dell’oggetto che l’autore si propone di trattare, ma anche per il nesso, tutt’altro che secondario, che sembra legare il progetto ad una nuova traduzione del Manifesto – a quella data, la sola disponibile in italiano era quella, incompleta, uscita nel 1891 per l’editore Fantuzzi di Milano; la prima edizione integrale, a cura di Pompeo Bettini, era in corso di pubblicazione sul periodico «Lotta di classe» (settembre-dicembre 1892) –, in seguito considerata un elemento quasi accessorio rispetto al corpus dei Saggi e, di conseguenza, omessa dalla maggior parte delle edizioni novecentesche. La prima edizione italiana, anticipata da alcuni brevi estratti della prima parte del saggio pubblicati ne «Le Devenir social» e ritradotti in italiano dalla «Critica sociale» (1 luglio 1895, pp. 204-206), apparve nell’estate del 1895 per l’editore Loescher. Qui, per la prima volta, il titolo è preceduto da quello più generale di Saggi intorno alla concezione materialistica della storia I, seguito dal sottotitolo Preambolo. Nell’ottobre successivo gli Uffici della «Critica sociale» ne diedero alle stampe una seconda edizione, differente dalla prima – precisava l’autore nella breve Avvertenza – per «alcune poche correzioni di sola e pura forma»: una

di queste riguardava proprio il titolo riportato sul frontespizio, da cui scompariva – e sulle ragioni di questa scelta si tornerà, per avanzare un’ipotesi, introducendo il secondo saggio – la dicitura «preambolo». La terza e definitiva edizione – una «ristampa della seconda», precisa la nuova Avvertenza, «salvo alcune correzioni nelle parole e nel giro di qualche frase» – uscì, nuovamente per l’editore Loescher, nell’estate del 1902, a poche settimane dalla seconda edizione degli Essais sur la conception matérialiste de l’histoire, apparsi in Francia, nella traduzione di Alfred Bonnet, già nel 1897. In appendice Labriola vi pubblicava finalmente la propria traduzione del Manifesto, giustificando la scelta con la volontà di assecondare la richiesta di alcuni recensori ai quali, in mancanza di tale «sussidio», il testo doveva essere risultato «non del tutto intelligibile». È interessante osservare a questo proposito che il progetto di una traduzione commentata del Manifesto, esposto nell’estate nel 1892, non era di fatto tramontato dopo la prima edizione del saggio e nemmeno dopo la comparsa di nuove traduzioni italiane del testo di Marx ed Engels (per la traduzione di Bettini, Turati aveva chiesto ed ottenuto addirittura una prefazione dello stesso Engels). Labriola lo riprese in particolare all’inizio del 1896, prefigurando a Karl Kautsky dapprima una «edizione commentata del Manifesto dei Comunisti, con prefazione storico-critica» (cfr. Carteggio, IV, p. 7), successivamente un nuovo saggio nella forma di un «Commento al Manifesto dei Comunisti» (cfr. Ibidem, p. 24). D’altro canto, nella prefazione del marzo 1902 alla seconda edizione degli Essais (vedi infra p. 1765 nota 2), Labriola avvertirà l’esigenza di distinguere nettamente il primo saggio da un commento perpetuo del Manifesto, come quello pubblicato in Francia da Charles Andler (1901). Scritto «senza guardare né ai libri né ai […] voluminosi estratti di storia del socialismo» raccolti negli anni (cfr. Carteggio, III, p. 547), In memoria del Manifesto si presenta anzitutto come una «commemorazione». Non un «rifacimento del Manifesto» quindi, né l’«analisi» o un «commento» del medesimo, e neanche la riproduzione dei corsi universitari di quegli anni intorno alla «genesi del socialismo moderno», ma uno scritto «in memoria», che dichiara così, prima ancora di pronunciarsi sui contenuti teorici, la portata epocale della proposta avanzata da Marx ed Engels nel 1848, inizio di una «nuova era» e termine di paragone da «confrontare – si legge nella prefazione francese alla seconda edizione degli Essais – con lo stato attuale del socialismo». Questa vocazione “retorica” dello scritto trova immediata corrispondenza nella sua organizzazione interna, dove, analogamente al testo di una conferenza o di una prolusione, in assenza di una suddivisione in capitoli, l’argomentazione si sviluppa in una sequenza di trenta paragrafi non numerati e individuati, al

solito, dall’inserimento di un rigo bianco di separazione. A questo svolgimento unitario sul piano della forma, corrisponde, su quello dei contenuti, l’avvicendarsi e spesso il riproporsi dei temi principali: la celebrazione del Manifesto come atto di nascita del «comunismo critico», ovvero consapevole dei limiti delle precedenti formulazioni socialistiche (utopisticoborghesi o espressione di un “socialismo di Stato”) e «cosciente della necessità» di quei processi storici che dal susseguirsi delle lotte di classe condurranno alla dittatura del proletariato; l’irriducibilità di questa prospettiva a quella dell’«universale evoluzione» sbandierata dai positivisti; l’analisi storica delle cause e dei movimenti (le Rivoluzioni e il blanquismo in Francia, il cartismo inglese, le Leghe in Germania ecc.) che determinarono la «genesi» del Manifesto; cenni alle vicende personali di Marx ed Engels (vedi l’ampia citazione autobiografica dalla Prefazione a Per la critica dell’economia politica); le basi propriamente economiche dell’analisi «morfologica» marxiana (riferimenti alla teoria del plus-valore e a Il Capitale); il problema della «conquista della campagna» (s’inserisce qui un paragrafo sulla situazione italiana: «uno stato moderno in una società quasi esclusivamente agricola»).

La pagina finale di Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare reca la data del 10 marzo 1896, di poco precedente la stampa per i tipi dell’editore Loescher. Se si esclude la correzione di «alcune parole e qualche giro di frase», tra questa prima edizione e la definitiva, licenziata nel maggio del 1902, il testo non subì particolari trasformazioni. Conobbe invece, pochi mesi dopo la prima apparizione in Italia, la traduzione francese a cura di Bonnet, destinata al volume degli Essais (1897) e preceduta, nell’ottobre del 1896, dall’anticipazione del solo cap. VI su «Le Devenir social» (vol. II, pp. 818-827). Da uno scambio con Croce del 20 maggio 1895 (Carteggio, III, pp. 563) sappiamo dell’intenzione di Labriola di dar seguito al primo saggio con una nuova pubblicazione intitolata «da Vico a Morgan». In una lettera di pochi giorni successiva (Ibidem, p. 565), a quest’ultimo titolo se ne affianca un altro: «Ricerca del Terreno Storico». Entrambi rimandano a temi chiaramente presenti nei programmi dei corsi labrioliani di Filosofia della storia, perlomeno a partire da quello del 1890-1891. È evidente quindi che l’elaborazione del secondo saggio abbia conosciuto un’evoluzione nel senso di quella «Dilucidazione preliminare della Dottrina» che l’autore annuncerà finalmente a Croce nel gennaio del 1896 (cfr. Carteggio, IV, p. 3), e in cui è facile immaginare, d’altro canto, sia confluito buona parte di ciò che Labriola intendeva trattare, e tratta in effetti, in rapporto alla discontinuità fra storia e preistoria («rivoluzionata» dal

Morgan, si legge nel cap. IV) e allo studio della storia umana come ambito artificialmente precostituito (nello stesso capitolo si afferma che «la scienza storica ha per suo primo e principale oggetto la determinazione e la ricerca del terreno artificiale, e della sua origine e composizione, e del suo alterarsi e trasformarsi»). Fra le ragioni che spinsero Labriola in questa direzione è plausibile vi fosse la constatazione, espressa anche a Kautsky nel gennaio del 1896 (cfr. Carteggio, IV, p. 15) che in Italia, nonostante l’auspicio formulato con il primo saggio ma privo di «alcun effetto», della dottrina di Marx si continuasse a «parlare a fantasia». Ma non si può escludere che in quest’apparente insuccesso Labriola ravvisasse anche una qualche responsabilità personale. Rileggendo l’Avvertenza alla prima edizione di Del materialismo storico sembra di cogliere a questo proposito una nota di rammarico dove l’autore, pur osservando come il primo saggio gli paia offrire già un «sufficiente istradamento elementare», rivendica per questo secondo lavoro la capacità di «addentrarsi direttamente nelle cose stesse» ed un «modo di discussione, che è tutt’uno con la esposizione dottrinale»: la sola a garantire quella capacità di comprensione e persuasione cui una trattazione «preliminare» deve mirare. Ad una mutata strategia di comunicazione, che nulla toglie però alla certezza dei contenuti, potrebbe far pensare la scelta, operata già nella seconda edizione de In memoria del Manifesto dei Comunisti (ottobre 1895), di rimuovere dal frontespizio la dicitura «Preambolo», termine che nel 1902 non figura più neanche nell’Avvertenza, avendo forse già in mente di scrivere un nuovo testo, al contempo introduttivo ed esaustivo dei temi necessari ad una corretta comprensione del materialismo storico. Quale che sia la giusta interpretazione delle scelte che guidarono Labriola dalla redazione di uno scritto all’altra, l’organizzazione del testo ed alcuni particolari formali denotano una chiara discontinuità rispetto al primo saggio. Pur non rinunciando ad isolare paragrafi (in alcuni casi formati da un unico capoverso) con il consueto espediente grafico del rigo bianco, il testo è questa volta suddiviso in dodici capitoli numerati, cui corrisponde una più rigorosa organizzazione dei contenuti: alla denuncia dei rischi connessi con il «verbalismo» e la tendenza «fraseologica», che finiscono con il banalizzare la complessità dei problemi che il materialismo storico tenta di «obiettivizzare», riconducendoli a «vedute generali» o ad assimilazioni improprie con altre formulazioni materialistiche (capp. I e II), segue l’esposizione della teoria per cui ogni fatto storico può essere interpretato alla luce della «sottostante struttura economica» e da quest’ultima, parallelamente, un’autentica «psicologia sociale» è in grado di risalire all’«insieme configurativo di una determinata storia», ovvero alle forme della coscienza che ne sono espressione (cap. III). Superato

l’equivoco per cui ad una interpretazione che tende a «naturalizzare» la storia non corrisponde la tentazione positivistica di risolvere quest’ultima in storia naturale, dovendo necessariamente riconoscere il carattere «artificiale» del terreno su cui lo storico si muove (cap. IV), Labriola si dilunga, con esempi tratti dalla varietà delle realtà storico-economiche presenti nel mondo, sul carattere deterministico del metodo materialistico-storico (cap. V), introducendo la discussione della categoria di progresso che sarà ripresa nel capitolo conclusivo. Cuore dell’esposizione labrioliana sono i tre capitoli sulla «dottrina dei fattori storici» (capp. VI-VII), in cui alle asserzioni di carattere propriamente teorico si alternano le ricostruzioni storiografiche (particolarmente ampia quella sulla Grande Rivoluzione e la successiva storia francese che chiude il cap. VII), e l’analisi del concetto di Stato e di diritto che ne consegue (cap. VIII). Dopo alcune «formule riassuntive» (cap. IX), il saggio si concentra sull’interpretazione di morale, arte, religione e scienza come prodotti delle condizioni economiche (cap. X) e sulla possibilità per il materialismo storico di porre le condizioni di una «narrazione piena, trasparente ed integrale» della storia (cap. XI), per poi tornare all’interrogativo sul progresso e sul senso della storia cui l’autore dà di fatto una risposta ambivalente: da un lato evidenzia infatti la «complessità interna di ciascuna società», che fa del moto della storia una «linea spezzata, che cambia spesso di direzione», dall’altro, citando direttamente Marx ed Engels – nel complesso, Labriola sembra padroneggiare con maggiore sicurezza i riferimenti, anche indiretti, alla loro opere –, riafferma la propria convinzione nel compimento inevitabile che deriva alla storia dalla sua «immanente necessità». Deciso a non alterare il carattere di «delucidazione preliminare» dello scritto, nell’Avvertenza del 20 maggio 1902 Labriola giustifica così la propria decisione di non comprendere nel testo una rassegna delle «critiche» e delle «obiezioni» mosse al materialismo storico negli anni successivi alla pubblicazione del saggio. A questo scopo, l’edizione finale prevede l’inserimento in appendice dello scritto A proposito della crisi del marxismo, originariamente pubblicato sulla «Rivista italiana di sociologia» (fasc. 3 dell’annata 1899, pp. 317-331) e stampato anche in estratto dalla Tipografia degli Olmi di Scansano. Il testo, datato 18 giugno 1899, si presenta come un’ampia recensione – un «quasi-articolo» lo definisce Labriola – al libro I fondamenti filosofici e sociologici del Marxismo: studi sulla questione sociale (1899) del sociologo ceco Tomáš Garrigue Masaryk, noto per aver parlato, fin da alcuni articoli apparsi nel febbraio del 1898 sul periodico viennese «Die Zeit», di una “crisi del marxismo”. L’analisi del libro di Masaryk, da un lato, consente a Labriola di scagliarsi contro l’estremo tentativo positivistico di attaccare il marxismo sul terreno «dottrinario» e professorale di una Weltanschauung (“visione del

mondo”) del tutto slegata dalla concretezza della questione sociale che il socialismo scientifico ha saputo invece porre in tutta la sua drasticità; dall’altro, è l’occasione per denunciare la pochezza del dibattito italiano che della crisi descritta da Masaryk ha per lo più frainteso il senso e, al contempo, per mettere in guardia il movimento socialista dal rischio di «adattamento» e «acquiescenza» ai meccanismi del mondo borghese, che portando ad astrarre il dibattito teorico dalla realtà politica, avrebbe finito per sterilizzarne l’efficacia storica in una serie ininterrotta di «polemiche letterarie».

Rispetto a quella degli altri due saggi, l’edizione di Discorrendo di socialismo e di filosofia presenta certamente maggiori problemi, se non altro perché gli interventi operati dall’autore sul testo e sulle note fra la prima edizione italiana (Loescher, Roma 1898), la successiva versione francese (Socialisme et philosophie: lettres à G. Sorel, Giard & Brière, Parigi 1899) e la definitiva edizione italiana (Loescher, Roma 1902), sono tali per quantità e qualità da configurare di fatto, come la critica è ormai concorde nel ritenere, tre edizioni originali e distinte (cfr. M. CILIBERTO, Filosofia e politica nel Novecento italiano: da Labriola a «Società», De Donato, Bari 1982, pp. 70-76). Coerentemente con il criterio seguito per gli atri due saggi, in questa sede si è assunto come testo di riferimento quello della «seconda edizione ritoccata ed ampliata», l’ultima curata in vita dall’autore e licenziata alla fine di maggio del 1902 (la correzione delle bozze si protrasse però fino all’autunno), astenendosi da un lavoro di registrazione delle varianti, che esula dagli scopi del presente volume. È auspicio comune alle più recenti edizioni del testo (cfr. da ultimo quella condotta con cura filologica e riccamente annotata da Nicola D’Antuono, Millennium, Bologna 2006), e condiviso da chi scrive, che l’Edizione Nazionale delle Opere possa mettere presto a disposizione degli studiosi, nella forma filologicamente più adeguata, un quadro diacronico completo delle diverse redazioni del testo. Nell’aprile del 1896 Labriola s’impegnò con Sorel a scrivere per «Le Devenir social» un articolo dal titolo «società futura, ossia la prevedibilità della storia», che fosse «come la esplicazione delle ultime pagine del secondo saggio» (cfr. Carteggio, IV, pp. 44-45): da quest’iniziativa, già nel luglio di quell’anno, scaturiva l’idea di redigere un «terzo saggio sulla “società futura”», che fosse «una satira obbiettiva del socialismo in quanto fantasia di aspettazione» (cfr. Ibidem, p. 159). Da una lettera a Croce dell’aprile successivo parrebbe che il progetto del nuovo saggio, che ha assunto nel frattempo come titolo provvisorio «le conclusioni della scienza storica», e l’intenzione di inviare a Sorel «un paio

di lettere pubblicabili» a proposito delle questioni da lui sollevate nella Préface (dicembre 1896), vengano sdoppiandosi nella mente dell’autore in due iniziative distinte (cfr. Ibidem, p. 325). È a questo punto che, stando a quanto l’autore stesso afferma nell’ultima lettera del Discorrendo, il «benedettissimo amico» Croce, entusiasta delle lettere in replica alle osservazioni di Sorel, avrebbe spinto Labriola a proseguire, conferendo al terzo saggio la fisionomia che lo contraddistingue. Secondo quanto afferma una missiva allo stesso Croce dell’8 ottobre 1897, delle dieci lettere che compongono il testo, solo l’ultima – «la sola che mi piaccia», confiderà alcuni mesi dopo (cfr. Carteggio, IV, pp. 448-449) –, datata 15 settembre 1897, sarebbe il prodotto di una «finzione», atta a «giustificare come di lettere occasionali si faccia un libro». Le altre nove, redatte fra il 20 aprile ed il 2 luglio dello stesso anno, costituirebbero il rifacimento di materiale presente «ab-origine» in una serie di lettere scritte «con l’intenzione di mandarle via via a Sorel», messe da parte «per tedio», e infine date alle stampe – si legge nell’Avvertenza del 6 dicembre 1897 – nella convinzione che possano recare «un qualche complemento» ed «una certa chiarezza» ai due saggi precedenti. Nella stessa missiva, tuttavia, Labriola fornisce anche alcune osservazioni sulla forma epistolare del saggio, e sulla libertà che questa comporta in funzione della varietà dei contenuti, che per la consapevolezza d’intenti che denotano, suggeriscono di ridimensionare il ruolo giocato dall’insistenza di Croce nel far pubblicare il saggio nella forma che conosciamo, e lasciare a Labriola la piena regia nell’ideazione dell’opera. «Non voglio che lo scritto abbia il liscio, l’omogeneo, l’organico, il filato di un libro», scrive l’autore in quell’occasione: la «non omogeneità epistolare», intenzionalmente ricercata, permette di «discorrere dell’universo scibile» senza essere tacciato di «ciarlataneria»; consente di «mettere assieme socialismo, scienza, filosofia e bizzarria», e di farlo senza essere condizionato «dalle seccature del Marxismo settario» (cfr. Carteggio IV, p. 394). L’innovazione formale – la seconda dopo quella operata nel passaggio da In memoria a Del materialismo storico – è dunque funzionale alla varietà dei contenuti – di per sé non una novità nella prassi dei Saggi, ma qui assunta in modo quasi programmatico – come anche alle peculiarità di quel dibattito intorno al marxismo, tanto più animatosi in quegli anni quanto sempre meno congeniale a Labriola per la sua deriva astratta, in cui il terzo saggio con le sue appendici polemiche andrà ad inserirsi. Emblematica, in questo senso, è la chiusura della Prefazione all’edizione francese (31 dicembre 1898), che insieme al Postscriptum di pochi mesi prima segna l’apice della vis polemica del Discorrendo, dove l’autore, volendo «accomodare le partite» con Sorel dalle cui

posizioni si sente ormai irrimediabilmente lontano, cala la maschera sulla propria opera: «questo dialogo era un monologo; e alla buon’ora di Dio!». Della complessa vicenda editoriale cui si è accennato, è possibile fornire in questa sede solo una ricostruzione sommaria. Uno stralcio dell’ottava lettera, intitolato Il bene e il male di fronte al materialismo storico, apparve nel fascicolo del 16 dicembre 1897 di «Critica sociale» (pp. 377-379). In quella stessa sede si dava notizia dell’imminente pubblicazione del volume, apparso per Loescher nei primi mesi del 1898 con il titolo Discorrendo di socialismo e di filosofia ed il sottotitolo, destinato a cadere dal 1902, Lettere a G. Sorel. Questa prima edizione recava in Appendice il testo francese della Prefazione di G. Sorel agli Essais sur la conception matérialiste de l’histoire (Giard & Brière, Paris 1897) ed il brano La negazione della negazione, traduzione di parte del cap. XIII dell’Antidühring di Engels (Stuttgart 18943, pp. 137-146). È da notare che nelle fasi cruciali della stampa e della correzione delle bozze, vissute al solito con particolare apprensione dall’autore, Labriola poté contare ancora una volta sulla collaborazione di Benedetto Croce. Circa un anno più tardi, all’inizio del 1899, vedeva la luce in Francia Socialisme et philosophie. Lettres à G. Sorel: la traduzione, condotta non senza difficoltà da Alfred Bonnet, incontrò il severo giudizio di Sorel, già comprensibilmente contrariato per i contenuti del libro (si veda, in particolare, la Prefazione appositamente scritta da Labriola per l’occasione), ma suscitò più d’una riserva anche nell’autore, che se ne assunse la responsabilità imputando la colpa al proprio modo di scrivere, poco compatibile con lo stile della lingua francese (cfr. Carteggio, V, p. 49). L’importanza di questa traduzione ai fini della storia del testo è richiamata dallo stesso Labriola, che, scrivendo a Croce nell’ottobre del 1898, dichiara di avervi introdotto «più di 50 modificazioni […] parecchie note non brevi, e un lungo post-scriptum»: «in somma – conclude – è una seconda edizione» (cfr. Carteggio IV, p. 636). L’importante Postscriptum à l’édition française, in cui per la prima volta Labriola prendeva pubblicamente posizione in merito alla presunta “crisi del marxismo” (la recensione a Masaryk è di un anno più tardi), ma rispondeva anche alle critiche mosse da Croce su posizioni ispirate al marginalismo e a principi di economia “pura” in Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del Marxismo (novembre 1897), figura nel volume parigino come undicesima lettera, datata da Frascati, 10 settembre 1898. Anche l’Appendice differiva in parte da quella dell’edizione italiana del 1898: presentava infatti il brano di Engels (Négation de la négation), seguito dal testo delle tre missive di Engels a Joseph Bloch (21-22 settembre 1890), Conrad Schmidt (27 ottobre 1890) e Walther Borgius (25 gennaio 1894), già apparse in traduzione francese ne «Le Devenir social» del marzo 1897 e cui

si fa riferimento nella quarta lettera del Discorrendo. È l’Avvertenza del 30 maggio 1902 a sottolineare il debito della nuova versione italiana nei confronti di quella che, scrivendo a Croce, l’autore non aveva esitato a definire una vera e propria «seconda edizione» dell’opera: le «modificazioni nel testo e nelle note» che la distinguono dalla precedente, infatti, «son quasi tutte ripigliate dall’edizione francese venuta fuori nel 1899». E tuttavia il testo pubblicato nel 1902, e qui riprodotto, si differenzia in più casi pure da questa, eliminandone o correggendone alcune lezioni, oppure inserendone altre del tutto nuove. Rinnovata, integrando materiali diversamente collocati nelle precedenti edizioni, è anche l’Appendice, che presenta ora quattro testi: (I) il Postscriptum all’edizione francese; (II) la Prefazione all’edizione francese; (III) la Prefazione di G. Sorel agli Essai sur la conception matérialiste de l’histoire (1897); (IV) La negazione della negazione, dall’Antidühring di Engels. Un’ultima particolarità, già osservata da D’Antuono, riguarda la presenza di errori e refusi, più numerosi che nella precedente edizione italiana: a differenza di quattro anni prima, nella correzione delle bozze Labriola non poté servirsi della collaborazione di Croce, divenuto da editore degli scritti labrioliani interlocutore polemico degli stessi; s’avvalse invece dell’aiuto di un allievo, Ettore Gambigliani Zoccoli (1872-1958), cui confidò la preoccupazione che lo scritto uscisse «scorretto» (cfr. Carteggio, V, p. 267). Il «procedere interrotto, spezzato e a volte saltuario» del testo, adatto alla varietà dei suoi contenuti, non consente in questa sede che una sintesi di massima, trasversale rispetto alle singole lettere, dei temi trattati. Denominatore comune alle prime quattro è l’intento di replicare all’interrogativo posto da Sorel circa le ragioni della scarsa diffusione del materialismo storico. Labriola si sofferma sull’influenza dell’elemento soggettivo e delle ideologie tradizionali che possono aver ostacolato il radicamento del materialismo storico, ma anche su limiti oggettivi, legati alla penuria delle forze intellettuali nel campo socialista, alla difficoltà di far conoscere le opere di Marx ed Engels, e alla tendenza “dottrinaria” a interpretarle come «sistemi classici buoni per l’eternità», trascurando la specificità dei contesti storici e politici in funzione dei quali furono concepite. Alla limitatezza di queste prospettive l’autore oppone di considerare il materialismo storico «nel triplice aspetto, di tendenza filosofica nella veduta generale della vita e del mondo, di critica dell’economia, che ha modi di procedimento riducibili in leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica, e di interpretazione della politica, e soprattutto di quella che occorre e giova alla direzione del movimento operaio verso il socialismo». È su questi tre diversi piani, reciprocamente traducibili, che vengono organizzandosi i temi

affrontati a più riprese nel Discorrendo: l’interpretazione del materialismo storico come «tendenza formale e critica al monismo», esito più avanzato delle istanze critiche e sperimentali della filosofia moderna (in contrapposizione alla deriva neo-metafisica dei positivisti); la teoria della conoscenza e il suo «capovolgimento» nella «filosofia della praxis», che pone al centro l’uomo che «conosce operando», “producendosi” nel lavoro che lo eleva dall’immediatezza del vivere animale alla libertà; l’interpretazione della dialettica e la comprensione del processo storico alla base della teoria economica de Il Capitale; la critica delle categorie di ottimismo e pessimismo come proiezioni ideologiche cui il materialismo storico, autentica «filosofia della vita», può finalmente sottrarsi; la polemica con le tendenze «neo-utopistiche» che caratterizzano molte delle recenti teorizzazioni socialiste. A questi nuclei tematici principali vanno ad aggiungersi alcune sezioni autobiografiche (è il caso della rielaborazione della missiva ad Engels del 14 marzo 1894, inserita nella Lettera IV, e di alcune parti della replica a De Bella, confluita nella Lettera VII) o trattazioni più circoscritte, come quella, che occupa l’intera Lettera IX, sulle opposte tendenze interne alla storia del Cristianesimo (importante anche per le considerazioni finali sul carattere “definitivo” della religione cristiana come fenomeno storico e la presa di posizione a favore dell’esclusione dell’istanza ateistica dai programmi del movimento socialista). Della retrospettiva sull’intera opera e del resoconto labrioliano della mediazione di Croce nella decima lettera, si è già detto. Quest’ultimo capitolo, tuttavia, contiene anche importanti considerazioni sull’interpretazione della dialettica (si veda il rimando alle pagine dell’Antidühring di Engels in Appendice), sulle peculiarità del contesto sociale e politico italiano (da un lato, il carattere non ancora maturo del suo movimento operaio ancora al livello di «ribellione di forze elementari», dall’altro l’avanzata di istanze diverse: le ambizioni coloniali in politica estera ed una cultura «decadente» cui non è immune lo stesso movimento socialista). I paragrafi conclusivi sono dedicati alla difficoltà di una previsione dell’immediato futuro: tramontato «il tempo dei profeti», afferma non senza polemica Labriola, la «scienza pratica del socialismo» ha anzitutto il dovere di comprendere la complessità che la circonda, maturando una «chiara notizia» delle profonde trasformazioni in corso nell’economia mondiale.

I

IN MEMORIA DEL MANIFESTO DEI COMUNISTI Terza edizione aggiuntavi la traduzione del Manifesto [1902]

Serbo a quest’opuscolo, come il lettore può vedere in fine, la data del 7 Aprile 1895, quando appunto finii di scriverlo, per darlo a pubblicare per la prima volta in francese nel «Devenir Social». Da quella primitiva redazione non mi dilungai di molto nelle due edizioni italiane, che vennero fuori a breve distanza l’una dall’altra, quell’anno stesso, dal 10 di Giugno al 15 di Ottobre, e nella riproduzione francese apparsa ben due volte presso gli editori Giard et Brière1. Ora all’editore italiano occorrono esemplari, cosi di questo come degli altri miei Saggi sul materialismo storico: ed io, acconsento che essi siano via via ristampati, non potendo io né rivederli a fondo, né rimaneggiarli nell’intrinseco, per molte ragioni, ma soprattutto per questa, che a me pare sian lavori da lasciare proprio così come furon concepiti la prima volta. Questa terza edizione di questa commemorazione non è, dunque, salvo alcune correzioni nelle parole e nel giro di qualche frase, se non la ristampa della seconda. Il lettore rimanga di ciò inteso. Riportandosi alla data della prima pubblicazione potrà facilmente identificare certe allusioni storiche, e non vorrà prendere abbaglio nel sentir parlare insistentemente di questo secolo… che era poi il decimonono. Ho aggiunto a questa ristampa la traduzione del Manifesto, che fu chiesta da molti recensenti delle altre due edizioni del mio scritto, il quale parve non del tutto intelligibile, per la mancanza appunto di tale sussidio. Roma, 9 Maggio 1902 ANTONIO LABRIOLA

Di qui a tre anni noi socialisti potremo celebrare il nostro giubileo. La data memorabile della pubblicazione del Manifesto dei Comunisti (Febbraio 1848) ci ricorda il nostro primo e sicuro ingresso nella storia. A quella data si riferisce ogni nostro giudizio ed ogni nostro apprezzamento su i progressi, che il proletariato è andato facendo in questo cinquantennio. A quella data si misura il corso della nuova èra, la quale sboccia e sorge, anzi si sprigiona e sviluppa dall’èra presente, per formazione a questa stessa intima ed immanente, e perciò in modo necessario e ineluttabile; quali che sian per essere le vicende varie e le successive fasi sue, per ora di certo imprevedibili. A tutti quelli fra noi, cui prema e giovi di possedere la piena consapevolezza dell’opera propria, occorre di tornare più volte col pensiero su le cause e su i moventi, che determinarono la genesi del Manifesto, in quelle circostanze in cui esso per l’appunto apparve, e cioè alla vigilia della rivoluzione, che scoppiò da Parigi a Vienna, da Palermo a Berlino. Soltanto per cotesta via ci è dato di trarre dalla stessa forma sociale, nella quale ora noi viviamo, la spiegazione della tendenza al socialismo; e di giustificare in conseguenza, per la stessa presente ragion d’essere di tale tendenza, la necessità del suo effettivo trionfo, del quale facciamo tuttodì il presagio. Quale è, in fatti, se non questo, il nerbo del Manifesto; o la sua essenza, e il suo carattere decisivo?a Sarebbe cosa vana, invero, il voler ciò ricercare invece nelle misure pratiche, che ivi son suggerite e proposte in fine del Capo secondo, come adottabili nella eventualità di un successo rivoluzionario del proletariato, o nelle indicazioni di orientamento politico, rispetto agli altri partiti rivoluzionarii di allora, che trovansi al Capo quarto. Coteste indicazioni e cotesti suggerimenti, per quanto apprezzabili e notevoli nel tempo e nelle circostanze in cui furon formulati e dettati, e per quanto soprattutto importanti per giudicare in modo preciso dell’azione politica che i comunisti tedeschi spiegarono nel periodo rivoluzionario del 1848-50, non costituiscono oramai più per noi un insieme di vedute pratiche, per rispetto alle quali ci tocchi di deciderci, pro o contra, in ogni caso o ricorrenza. I partiti politici, che dal tempo della Internazionale in qua si vennero costituendo in varii paesi su la base del proletariato e in suo nome esplicito e chiaro, ebbero ed hanno, a misura che sorgono e poi si sviluppano, vivo bisogno di adattare e di conformare a varie e multiformi circostanze e contingenze le esigenze e l’opera loro. Ma nessuno di cotesti partiti ha tale coscienza di sapersi ora così prossimo alla dittatura del proletariato, da sentire in sé urgente il bisogno, o sia pure il desiderio o la tentazione, di rivedere e di valutare le proposte del Manifesto alla stregua di una verificazione, che paia

probabile, perché ritenuta prossima. Gli esperimenti storici non sono, in verità, se non quei soli, che la storia stessa fa imprevedutamente, non a disegno, né di proposito, né a comando. Così accadde ai tempi della Comune, che fu, ed è, e rimane fino ad ora per noi, il solo esperimento approssimativo, sebbene confuso perché subitaneo e di breve durata, dell’azione del proletariato, che sia messo alla nuova e dura prova d’impossessarsi del potere politico. Esperimento quello non voluto ad arte, né cercato a disegno, imposto anzi dalle circostanze, ma eroicamente sostenuto; e che ora si converte per noi in salutare ammaestramento. Là dove il movimento socialistico è appena allo stato dell’infanzia, può darsi che questi o quegli, in difetto di esperienza propria e diretta, si appelli, come accade spesso in Italia, all’autorità di un testo, come a precetto: – ma ciò effettivamente non conta proprio nulla. Né quel nerbo, od essenza, e carattere decisivo sono, a mio avviso, da cercare nella orientazione su le altre forme di socialismo, che il Manifesto reca sotto al nome di letteratura. Tutto ciò che ivi è detto, al Capo terzo, serve, senza dubbio, a definire mirabilmente, per via di antitesi, e nella forma di brevi, succose e calzanti caratteristiche, le differenze che effettivamente corrono tra il comunismo, che ora, con espressione da molti miseramente abusata, si è soliti di chiamare scientifico, ossia tra il comunismo, che ha per soggetto il proletariato, e per argomento la rivoluzione proletaria, e le altre forme reazionarie, borghesi, semi-borghesi, piccolo-borghesi, utopistiche e cosi via. Tutte coteste forme, meno unaa, ricorsero e si rinnovarono più volte, e ricorrono e si rinnovano anche ora nei paesi nei quali il movimento proletario moderno è appena in sul nascere. Per tali paesi, e in tali circostanze, il Manifesto ha esercitato ed esercita tuttora l’ufficio di critica attuale, e di frusta letteraria. Ma nei paesi nei quali, o quelle forme furon già teoricamente e praticamente superate, come è in gran parte il caso della Germania e dell’Austria, o sopravvivono solo allo stato settario e soggettivo, come accade già in Francia e in Inghilterra, per non dire delle altre nazioni via via enumerando, il Manifesto, per questo rispetto, ha compiuto oramai tutto l’ufficio suo. E non fa che registrare, come per memoria, ciò cui non occorre più di pensare, data l’azione politica del proletariato, che già si svolge nel suo normale e graduale processo. Or questa fu per l’appunto, e come per anticipazione, la disposizione d’animo e di mente di quelli che lo scrissero. Di ciò che avean superato per virtù di pensiero, il quale sopra pochi ma chiari dati di esperienza anticipi sicuro gli eventi, essi non esprimevano, oramai, se non la eliminazione e la condanna. Il comunismo critico – questo è il vero suo nome, e non ve n’è altro di più esatto per tale dottrina – non recitava più coi feudali il rimpianto della vecchia società,

per poi fare a rovescio la critica della società presente: – anzi non mirava che al futuro. Non si associava più ai piccoli-borghesi nel desiderio di salvare il non salvabile: – come ad esempio la piccola proprietà, o il quieto vivere della piccola gente, cui la vertiginosa azione dello stato moderno, che della società attuale è l’organo necessario e naturale, torna grave e pesante solo perché esso stato, rivoluzionando di continuo, reca in sé e con sé la necessità di altre nuove e più profonde rivoluzioni. Né traduceva in arzigogoli metafisici, o in riflessi di morboso sentimento, o di religiosa contemplazione, i contrasti reali dei materiali interessi della vita di tutti i giorni: – anzi questi contrasti rendeva ed esponeva in tutta la prosa loro. Non costruiva la società dell’avvenire su le linee di un disegno, in ogni sua parte armonicamente condotto a finimento. Non levava parole di lode e di esaltazione, o di evocazione e di rimpianto, alle due dee della mitologia filosofica, la Giustizia e la Eguaglianza: alle due dee, cioè, che fanno così trista figura nella misera pratica della vita cotidiana, quando si riesca ad intendere, come la storia da tanti secoli si procuri l’indecente passatempo di fare e di disfare quasi sempre a controsenso degl’infallibili dettami loro. Anzi quei comunisti, pur dichiarando, con esibizione di fatti che hanno forza di argomento e di prova, che i proletarii fossero oramai destinati a far la parte di sotterratori della borghesia, a questa rendevano omaggio, come ad autrice di una forma sociale, che è in estensione ed in intensità uno stadio notevole del progresso umano, e che sola può far da arena alle nuove lotte promettenti esito felice al proletariato. Necrologia di stile così monumentale non fu mai scritta. Quelle lodi rese alla borghesia assumono una certa originale forma di umorismo tragico, e son parse ad alcuno come scritte con intonazione da ditirambo. Nondimeno quelle definizioni negative ed antitetiche delle altre forme di socialismo allora correnti, e poi dopo, e fino ad ora, spesso ricorrenti, per quanto inappuntabili nella sostanza, nella forma e nello scopo cui mirano, né pretendono di essere, né sono, la effettiva storia del socialismo, e non recano, né la traccia, né lo schema di questa, se altri voglia scriverla. La storia, in vero, non poggia su la differenza di vero e di falso, o di giusto e d’ingiusto, e molto meno su la più astratta antitesi di possibile e di reale; come se le cose stessero da un canto, e avessero dall’altro canto le proprie ombre e fantasimi, nelle idee. Essa è sempre tutta d’un pezzo, e poggia tutta sul processo di formazione e di trasformazione della società: il che è da intendere in senso obiettivo, e indipendentemente da ogni nostro soggettivo gradimento o sgradimento. Essa è una dinamica di genere speciale; se così piace ai Positivisti, che di tali espressioni tanto si dilettano, e spesso non vanno più in là della parola nuova che mettono in giro. Ora le varie forme di concezione e di azione socialistica, che apparvero e sparirono nel corso dei secoli, con tante differenze nei motivi, nella fisonomia e negli effetti, vanno

tutte studiate e spiegate per le condizioni specifiche e complesse della vita sociale in cui si produssero. Ad esaminarle si vede, che non costituiscono un solo insieme di processo continuativo; perché la serie ne è più volte interrotta dal cambiare del complesso sociale, e dall’oscurarsi e spezzarsi della tradizione. Solo dal tempo della Grande Rivoluzione il socialismo assume una certa unità di processo, che si fa poi più evidente dal 1830 in giù, col definitivo avvento della borghesia al dominio politico in Francia e in Inghilterra, e diventa da ultimo intuitiva e direi palpabile dalla Internazionale in qua. Su questa via, su questo cammino, sta, come gran colonna miliare, il Manifesto, con doppia indicazione, direi così, dalle due parti. Di qua è l’incunabulo della nuova dottrina, che ha poi fatto il giro del mondo. Di là è l’orientazione su le forme che esso esclude, ma di cui non reca l’esposizione e il raccontoa. Il nerbo, l’essenza, il carattere decisivo di questo scritto consistono del tutto nella nuova concezione storica, che gli sta in fondo, e che esso stesso in parte dichiara e sviluppa, quando nel resto non vi accenni, e non vi rimandi, o non la supponga soltanto. Per questa concezione il comunismo, cessando dall’essere speranza, aspirazione, ricordo, congettura o ripiego, trovava per la prima volta la sua adeguata espressione nella coscienza della sua propria necessità; cioè nella coscienza di esser l’esito e la soluzione delle attuali lotte di classe. Né queste son quelle di ogni tempo e luogo, su le quali la storia del passato s’era esercitata e svolta; ma son quelle, invece, che tutte si assottigliano e si riducono predominantemente nella lotta tra borghesia capitalistica e lavoratori fatalmente proletarizzati. Di questa lotta il Manifesto trova la genesi, determina il ritmo di evoluzione, e presagisce il finale effetto. In tale concezione storica è tutta la dottrina del comunismo scientifico. Da questo punto in poi gli avversarii teorici del socialismo non son chiamati più a discutere della astratta possibilità della democratica socializzazione dei mezzi di produzionea; come se di ciò s’avesse a far giudizio per illazioni tratte dalle generali e comunissime attitudini della così detta natura umana. Qui si tratta invece di riconoscere, o di non riconoscere nel corso presente delle cose umane una necessità, la quale trascende ogni nostra simpatia ed ogni nostro subiettivo assentimento. Trovasi o no la società d’essere ora così fatta, nei paesi più progrediti, da dovere essa riuscire al comunismo per le leggi immanenti al suo proprio divenire, data la sua attuale struttura economica, e dati gli attriti che questa da sé in sé stessa necessariamente produce, fino a far crepaccio e dissolversi? Ecco il soggetto della disputa, dopo che tale dottrina è apparsa. Ed ecco insiememente la regola di condotta, che s’impone all’azione dei partiti socialistici; o che siano essi di soli proletarii, o che accolgano nelle loro file

uomini usciti da altre classi, i quali facciano la parte di volontarii nell’esercito del proletariato. Per ciò noi socialisti, che ci lasciamo ben volentieri chiamare scientifici, se altri non intende per cotal modo di confonderci coi Positivisti, ospiti spesso ma da noi non sempre bene accetti, che a lor grado monopolizzano il nome di scienza, noi non ci battiamo i fianchi per sostenere una tesi astratta e generica, come fossimo causidici o sofisti3: né ci affanniamo a dimostrare la razionalità degli intenti nostri. I nostri intenti non sono se non la espressione teorica e la pratica esplicazione dei dati che ci offre la interpretazione del processo che si compie attraverso noi e intorno a noi; e che è tutto nei rapporti obiettivi della vita sociale, di cui noi siamo soggetto ed oggetto, causa ed effetto, termine e parte. I nostri intenti son razionali, non perché fondati sopra argomenti tratti dalla ragion ragionante, ma perché desunti dalla obiettiva considerazione delle cose; il che è quanto dire dalla dilucidazione del processo loro, che non è, né può essere, un resultato del nostro arbitrio, anzi il nostro arbitrio vince ed aggioga. Il Manifesto dei Comunisti, al quale, quanto a specifica efficacia, non può fare da surrogato nessuno degli scritti anteriori o posteriori degli autori stessi, che per estensione e portata scientifica son di tanto maggior peso, ci dà nella sua classica semplicità l’espressione genuina di questa situazione: il proletariato moderno è, si pone, cresce e si svolge nella storia contemporanea come il soggetto concreto, come la forza positiva, dalla cui azione, inevitabilmente rivoluzionaria, il comunismo dovrà necessariamente resultare. E per ciò questo scritto, cioè per tale enunciazione di presagio teoreticamente fondato ed espresso in detti brevi, rapidi, concisi e memorabili, costituisce un’accolta, anzi un vivaio inesauribile di germogli di pensieri, che il lettore può indefinitivamente fecondare e moltiplicare; serbando esso la forza originale ed originaria della cosa nata appena appena, e non ancora divelta e distratta dal campo di sua propria produzione. Osservazione cotesta, che va principalmente rivolta a quelli, che, facendo professione di dotta ignoranza, quando non siano a dirittura fanfaroni, ciarlatani o allegri sportisti, regalano alla dottrina del comunismo critico precursori, patroni, alleati e maestri d’ogni genere, in oltraggio al senso comune e alla volgare cronologia. O sia che inquadrino la nostra dottrina materialistica della storia nella concezione il più delle volte fantastica e troppo generica della universale evoluzione, che già da molti fu ridotta in nuova metafora di novella metafisica; o sia che cerchino in tale dottrina un derivato del Darwinismo, che solo in un certo modo, ma in senso assai lato, ne è un caso analogico; o che ci favoriscano l’alleanza e la padronanza di quella filosofia positivistica, la quale corre dal Comte, degeneratore reazionario del geniale Saint-Simon, a questo Spencer, quintessenza di borghesismo anemicamente anarchico: il che vuol dire,

dare a noi per alleati e protettori i dichiarati e decisi avversarii nostri. Tale forza germinativa, tale classicità di efficacia, tale compendiosità di sintesi di molte serie e gruppi di pensieri in uno scritto di così poche paginea, son dovute al modo della sua origine. Due Tedeschi ne furono gli autori, ma non vi portaron dentro, né la sostanza, né la forma delle personali opinioni, che a quel tempo sapean di solito d’imprecazione, di piato e di rancore in bocca ai profughi politici, o a quelli, che, com’era il caso loro, volontarii abbandonassero la patria, per godere altrove aere più spirabile. Né v’introdussero direttamente l’immagine delle condizioni del loro paese, che erano politicamente misere, e socialmente, ossia economicamente, solo per alcuni primi inizii, e solo in certi punti del territorio, confrontabili a quelle che già in Francia e in Inghilterra erano ed apparivano moderne. Vi portarono invece il pensiero filosofico, per cui solo la patria loro s’era messa e mantenuta all’altezza della storia contemporanea; di quel pensiero filosofico, che, appunto nelle persone loro, assumeva a quel tempo la notevole trasformazione, per la quale il materialismo, già rinnovato da Feuerbach, combinandosi con la dialettica, diveniva capace di abbracciare e di comprendere il moto della storia nelle sue cause più intime, e fino allora inesplorate, perché latenti e non facili a districare. Comunisti e rivoluzionarii ambedue, ma non per istinto, né per puro impulso o per passione, essi aveano quasi elaborata tutta una nuova critica della scienza economica, e avean compreso il nesso e il significato storico del movimento proletario di qua e di là della Manica, ossia di Francia e d’Inghilterra, già prima che fossero chiamati a dettare nel Manifesto il programma e la dottrina della Lega dei Comunisti. Questa, risedendo a Londra con notevoli diramazioni sul continente, avea dietro di sé un buon tratto di vita e di sviluppo proprio, attraverso a diverse fasi. Dei due, l’Engels, autore già da qualche tempo di un saggio critico, che, passando sopra ad ogni correzione subiettiva ed unilaterale, per la prima volta ritrae obiettivamente la critica dell’economia politica dalle antitesi inerenti agli enunciati ed ai concetti dell’economia stessa, era poi venuto in fama per un libro su la condizione degli operai inglesi, che è il primo tentativo riuscito di rappresentare i moti della classe operaia come resultanti dal giuoco stesso delle forze e dei mezzi di produzionea. L’altro, Marx, avea dietro di sé, in breve corso d’anni, l’esperienza di pubblicista radicale in Germania, e quella del pari di pubblicista a Parigi e a Bruxelles, la escogitazione quasi matura dei primi rudimenti della concezione materialistica della storia, la critica teoreticamente vittoriosa dei presupposti e delle illazioni della dottrina di Proudhon, e la prima dilucidazione precisa della origine del sopravvalore dalla compra e dall’uso della forza-lavoro, cioè il primo

germe delle concezioni venute più tardi a maturità di dimostrazioni, di riconnessioni e di particolari nel Capitale. Ambedue congiunti per molte e varie vie di comunicazione ai rivoluzionarii dei varii paesi di Europa, e specie di Francia, del Belgio e dell’Inghilterra, non composero il Manifesto come saggio di personale opinione, ma anzi come la dottrina di un partito, che, nel suo non largo ambito, era già nell’animo, negl’intenti e nell’azione la prima Internazionale dei Lavoratori5. Di qui comincia il socialismo strettamente moderno. Qui è la linea di delimitazione da tutto il resto.

La Lega dei Comunisti era divenuta tale, dopo d’essere stata Lega dei Giusti; e questa alla sua volta s’era gradatamente specificata, per chiara coscienza d’intenti proletarii, dalla lega generica dei profughi, ossia degli sbanditi. Come tipo, che rechi in sé quasi in disegno embrionale la forma d’ogni ulteriore movimento socialistico e proletario, essa avea attraversato le varie fasi della cospirazione e del socialismo egalitario. Avea metafisicato con Grün, e utopizzato con Weitling6. Avendo sua sede principale a Londra, s’era affiatata, rifluendo in piccola parte sopra di esso, col movimento cartista; il quale esemplificava nel suo carattere saltuario, perché di primo esperimento, e punto premeditato, perché non più di cospirazione o di setta, la dura e faticosa formazione del partito vero e proprio della politica proletaria. La tendenza al socialismo non giunse a maturità nel Cartismo, se non quando il moto suo fu prossimo a fallire, e di fatti fallì (indimenticabili voi, Jones ed Harney!)7. La Lega fiutava da per tutto la rivoluzione, e perché la cosa era nell’aria, e perché il suo istinto e il suo metodo d’informazioni a ciò la portava: e, mentre la rivoluzione effettivamente scoppiava, essa si fornì nella nuova dottrina del Manifesto di un istrumento di orientazione, che era in pari tempo un’arma di combattimento. Già di fatti internazionale, parte per la qualità e origine varia dei membri suoi, ma assai più ancora per l’istinto e per la vocazione che erano in tutti loro, essa venne a prender posto nel movimento generale della vita politica, qual precorrimento chiaro e preciso di tutto ciò che ora può ragionevolmente dirsi socialismo moderno; se cotal parola di moderno non deve esprimere una semplice data di cronologia estrinseca, ma anzi un indice del processo interno, ossia morfologico della società. Una lunga intermissione dal 1852 al 1864, che fu il periodo della reazione politica, e quello in pari tempo della sparizione, della dispersione e del riassorbimento delle vecchie scuole socialistiche, separa la Internazionale appena iniziale dell’Arbeiterbildungsverein di Londra, dalla Internazionale propriamente detta, che dal 1864 al 1873 intese a parificare nelle condizioni di lotta l’azione del proletariato in Europa ed in America. Altre intermissioni ebbe l’azione del proletariato, meno che in Germania e specialmente in Francia, dalla dissoluzione della Internazionale di gloriosa memoria, fino a questa nuova, che ora vive di altri mezzi e si sviluppa con altri modi, consentanei quelli e questi alla situazione politica in cui ci troviamo, e ai suggerimenti di una più larga e maturata esperienza8. Ma, come i sopravvissuti, tra quelli che fra il Novembre e il Decembre del 1847 discussero ed accettarono la nuova dottrina, riapparvero poi su la scena pubblica nella grande Internazionale, e son riapparsi da ultimo in questa nuova, così il Manifesto è tornato via via alla luce della pubblicità,

facendo effettivamente quel giro del mondo in tutte le lingue dei paesi civili, che s’era ripromesso ma non poté compiere al suo primo apparire. Quello è il vero precorrimento: quelli furono i veri precursori nostri. Si mossero prima degli altri, di buon tempo, con passo affrettato ma sicuro, su quella via che noi appunto dobbiamo percorrere, e che difatti percorriamo. Mal s’attaglia il nome dei precursori a quelli i quali corsero vie, che poi sia convenuto di abbandonare: ossia a quelli i quali, per uscir di metafora, formularono dottrine e iniziarono movimenti, senza dubbio spiegabili per i tempi e per le circostanze in cui nacquero, ma che furon poi tutti superati dalla dottrina del comunismo critico, che è la teoria della rivoluzione proletaria. Non è già che quelle dottrine e quei tentativi fossero apparizioni accidentali, inutili e superflue. Nulla v’è di assolutamente irrazionale nel corso storico delle cose, perché nulla v’è in esso d’immotivato, e perciò di meramente superfluo. Né a noi è dato di giungere, nemmeno ora, alla coscienza del comunismo critico, senza ripassare mentalmente per quelle dottrine, ripercorrendo il processo della loro apparizione e sparizione. Il fatto è che quelle dottrine non sono soltanto passate nel tempo, o dalla memoria, ma furono intrinsecamente sorpassate, e per la mutata condizione della società, e per la progredita intelligenza delle leggi su le quali poggia la formazione ed il processo di essa. Il momento in cui si avvera cotesto passare, che è un sorpassare intrinsecamente, gli è quello appunto in cui il Manifesto apparisce. Come primo indice della genesi del socialismo moderno, questo scritto, che della nuova dottrina non reca se non i cenni più generali, ossia i più facilmente comunicabili, porta in sé le tracce del terreno storico in cui nacque, che fu quello della Francia, dell’Inghilterra e della Germania. Il terreno di propagazione e di diffusione è diventato poi via via più largo, ed è oramai tanto vasto quanto è il mondo civile. In tutti i paesi, nei quali la tendenza al comunismo si è venuta successivamente sviluppando attraverso agli antagonismi variamente atteggiati, ma pur ogni giorno sempre più chiari, fra borghesia e proletariato, in parte o in tutto s’è andato poi più volte ripetendo il processo della prima formazione. I partiti proletarii, che via via si son costituiti, han ripercorso gli stadii di formazione, che i precursori primi percorsero la prima volta: se non che tale processo s’è fatto da paese a paese e di anno in anno sempre più breve, e per la cresciuta evidenza, urgenza ed energia degli antagonismi, e perché assimilare una dottrina o un indirizzo è cosa naturalmente più facile, che non sia il produrre la prima volta e quella e questo. Quei collaboratori nostri di cinquanta anni fa, furono anche per questo rispetto internazionali; perché dettero al proletariato delle varie nazioni, col proprio esempio ed esperimento, la traccia anticipata e generale del lavoro da compiere.

Ma la coscienza teoretica del socialismo sta oggi, come prima, e come starà sempre, nella intelligenza della sua necessità storica, ossia nella consapevolezza del modo della sua genesi; e questa si rispecchia, come in breve campo di osservazione e come in compendioso esempio, nella formazione appunto del Manifesto. Esso stesso, per l’intento di battaglia che si propone, non reca in sé apparenti le tracce della sua origine; perché si esprime in midollo di enunciati e non in apparato di dimostrazioni. La dimostrazione è tutta nell’imperativo della necessità. Ma la formazione si può tutta rifarla; e rifarla vuol dire ora per noi intendere per davvero la dottrina del Manifesto. C’è sì un’analisi, che, separando astrattamente i fattori di un organismo, li distrugge in quanto elementi concorrenti nella unità del complesso: – ma ce n’è un’altra di analisi, ed essa sola ha valore per la intelligenza della storia, ed è quella che distingue e separa gli elementi soltanto per ravvisarvi la necessità obiettiva della concorrenza loro nel resultato. Oramai è opinione popolare, che il socialismo moderno sia un normale e perciò inevitabile portato della storia attuale. La sua azione politica, che ammette, sì, d’ora innanzi indugi e ritardi, ma non più riassorbimento totale e annichilimento, cominciò decisamente con la Internazionale. Più indietro però di questa sta il Manifesto. La sua dottrina è innanzi tutto la luce teorica portata sul movimento proletario; il quale, del resto, s’era generato e continua a generarsi indipendentemente dall’azione di ogni dottrina. E poi è più che questa luce. Il comunismo critico non sorge se non nel momento in cui il moto proletario, oltre ad essere un resultato delle condizioni sociali, ha già tanta forza in sé da intendere, che queste condizioni sono mutabili, e da intravvedere con quali mezzi e in che senso possano essere mutate. Non bastava che il socialismo fosse un resultato della storia; ma bisognava inoltre intendere come fosse intrinsecamente cotale resultato, e a che cosa menasse l’agitazione sua. L’enunciazione di tale consapevolezza, che cioè il proletariato, come resultato necessario della società moderna, ha in sé la missione di succedere alla borghesia, e di succederle come forza produttrice di un nuovo ordine di convivenza, in cui le antitesi di classe dovranno sparire, fa del Manifesto un momento caratteristico del corso generale della storia. Esso è una rivelazione, ma non già come apocalissi o promessa di millennio. È la rivelazione scientifica e meditata del cammino che percorre la nostra società civile (che l’ombra di Fourier mi sia benigna); la quale rivelazione, pei modi come è espressa, assume la parola decisiva e direi fulminea di chi enuncia nel fatto la necessità del fatto stesso9. A tale stregua il Manifesto ci ridà la storia interna della sua origine, che al tempo stesso ne giustifica la dottrina, e ne spiega il singolare effetto e la maravigliosa efficacia. Senza perderci in molti particolari, ecco le serie e i

gruppi di elementi, che, raccolti e trasformati in quella rapida e calzante sintesi, vi rappresentano come il nocciolo d’ogni ulteriore sviluppo del socialismo scientifico. La materia prossima, diretta ed intuitiva è data dalla Francia e dall’Inghilterra, che avean già messo sulla scena politica di dopo il 1830 un movimento operaio, il quale a volte si mescola e a volte si distingue dagli altri movimenti rivoluzionarii, corre per gli estremi dalla rivolta istintiva al disegno pratico del partito politico (p. es. la Carta, e la democrazia sociale)10, e genera diverse forme temporanee e caduche di comunismo, o di semicomunismo, come era quello che allora chiamavasi socialismo. Per riconoscere in tali moti, non più la fugace apparizione di turbamenti meteorici, ma il fatto nuovo della società, occorreva una teoria, che non fosse, né un semplice complemento della tradizione democratica, né la soggettiva correzione degl’inconvenienti oramai riconosciuti della economia della concorrenza: le quali due cose passavano allora, come è noto, per la testa e per le bocche di molti. La nuova teoria fu appunto l’opera personale di Marx e di Engels; i quali trasferirono il concetto del divenire storico per processo di antitesi, dalla forma astratta, che la dialettica di Hegel avea per sommi capi e negli aspetti generalissimi già descritta, alla spiegazione concreta delle lotte di classe; e quel movimento storico, che era parso passaggio di una in altra forma di idee, per la prima volta intesero come transizione da una in altra forma della sottostante anatomia sociale, ossia da una in altra forma della produzione economica. Cotesta concezione storica, elevando a teoria quel bisogno della nuova rivoluzione sociale, che era più o meno esplicito nella coscienza istintiva del proletariato, e nei suoi moti passionati e subitanei, nell’atto che riconosceva la intrinseca e immanente necessità della rivoluzione, di questa stessa cambiava il concetto. Ciò che era parso possibile alle sètte dei cospiratori, come cosa che possa volersi a disegno e predisporsi a volontà, diventava un processo da favorire, da sorreggere e da secondare. La rivoluzione diventava l’obietto di una politica, le cui condizioni son date dalla situazione complessa della società: cioè un resultato, al quale il proletariato deve giungere, attraverso lotte varie e mezzi varii di organizzazione, non ancora escogitati dalla vecchia tattica delle rivolte. E ciò perché il proletariato non è un accessorio, un amminicolo, una escrescenza, un male eliminabile di questa società in cui viviamo; ma è il suo sostrato, la sua condizione essenziale, il suo effetto inevitabile, e, alla sua volta, la causa che conserva e mantiene in essere la società stessa: onde non può emanciparsi, se non emancipando tutto e tutti, ossia rivoluzionando integralmente la forma della

produzione. Come la Lega dei Giusti era diventata Lega dei Comunisti, spogliandosi delle forme simboliche e cospiratorie, e volgendosi verso i mezzi della propaganda e dell’azione politica a grado a grado, e qualche tempo in qua da che l’insurrezione di Barbès e Blanqui fu fallita (1839)11, così la dottrina nuova, che la Lega stessa accettava e faceva sua, superò definitivamente le idee che guidavano l’azione cospiratoria, e convertì in termine e resultato obiettivo di un processo ciò che i cospiratori pensavano stesse alla punta di un loro disegno, o potesse essere l’emanazione e l’efflusso del loro eroismo. E in ciò è un’altra linea ascendente nell’ordine dei fatti, un’altra connessione di concetti e di dottrine. Il comunismo cospiratorio, il Blanquismo di allora, ci fa risalire attraverso a Buonarroti, e in parte attraverso a Bazard e alla Carboneria, fin su su alla cospirazione di Babeuf; il quale fu vero eroe di tragedia antica, che dà di cozzo nel fato, per la ignorata incongruenza del proprio disegno con la condizione economica del tempo, non atta ancora a mettere su la scena politica un proletariato fornito di esplicita coscienza di classe12. Da Babeuf, attraverso ad alcuni elementi men noti del periodo giacobino, e poi a Boissel e a Fauchet, si risale all’intuitivo Morelly e al versatile e geniale Mably, e, se si vuole, sino al caotico testamento del curato Meslier, ribellione istintiva e violenta del buon senso contro la selvaggia oppressione del povero contadino13. Furon tutti egalitarii cotesti precursori del socialismo violento, protestatario, cospiratorio; come egalitarii furono per la più parte i cospiratori stessi. Per un singolare, ma inevitabile abbaglio, essi tutti assunsero ad arma di combattimento, ma interpretandola e generalizzandola a rovescio, quella medesima dottrina della eguaglianza, che sviluppatasi come diritto di natura parallelamente alla formazione della teoria economica, era stata istrumento in mano della borghesia, che conquistava via via la sua attuale posizione, per convertire la società del privilegio in quella del liberalismo, del liberismo e del codice civilea. Per tale illazione immediata, che era in fondo una semplice illusione, e cioè, che, essendo tutti gli uomini eguali in natura, essi abbiano ad esser tutti eguali anche nei godimenti, si credeva che l’appello alla ragione racchiudesse in sé ogni elemento e forza di persuasione e di propaganda, e che la rapida, istantanea e violenta presa di possesso degli istrumenti esteriori del potere politico fosse il solo mezzo per rimettere a posto i renitenti. Ma donde nacquero, e come si reggono coteste disuguaglianze, che paion tanto irrazionali alla luce di un così semplice e semplicistico concetto della

giustizia? Il Manifesto apparve come la recisa negazione del principio della eguaglianza, così ingenuamente e così grossolanamente inteso. Nell’atto che annuncia come inevitabile l’abolizione delle classi nella futura forma di produzione collettiva, di queste classi stesse, come esse sono, come nacquero e come divennero, dà ragione come di un fatto, che non è l’eccezione o la deroga ad un principio astratto, ma anzi è lo stesso processo della storia. Come il proletariato moderno suppone la borghesia, così questa non vive senza di esso. E l’uno e l’altra sono il resultato di un processo di formazione, che tutto poggia sul nuovo modo di produrre i mezzi necessarii alla vita; cioè tutto poggia sul modo della produzione economica. La società borghese è sorta dalla società corporativa e feudale, e ne è sorta lottando, e rivoluzionando ciò che aveva dinanzi a sé, per impossessarsi degl’istrumenti e dei mezzi della produzione, i quali tutti poi culminano nella formazione, nell’allargamento, e nella riproduzione e moltiplicazione del capitale. Descrivere la origine ed il progresso della borghesia, nelle sue varie fasi, esporre i suoi successi nello sviluppo colossale della tecnica e nella conquista del mercato mondiale, indicare le conseguenti trasformazioni politiche, che di tali conquiste sono l’espressione, le difese e il resultato, vuol dire fare al tempo stesso la storia del proletariato. Questo, nella sua condizione attuale, è inerente all’epoca della società borghese; ed ebbe, ha ed avrà tante e tante fasi, quante ne ha questa società stessa, fino al suo dissolvimento. L’antitesi di ricchi e di poveri, di gaudenti e di sofferenti, di oppressori e di oppressi, non è un qualcosa di accidentale e di facilmente removibile, come era parso agli entusiastici amatori della giustizia. Anzi è un fatto di necessaria correlazione, dato il principio direttivo dell’attuale forma di produzione; il che apparisce nella necessità del salariato. Questa necessità è in sé duplice. Il capitale non può impossessarsi della produzione se non a patto di proletarizzare, e non può continuare ad esistere, ad esser fruttifero, ad accumularsi, a moltiplicarsi e a trasformarsi, se non a patto di salariare i proletarizzati. E questi, alla lor volta, non possono esistere e rinnovarsi se non a condizione di darsi a mercede, come forza di lavoro, il cui uso è abbandonato alla discrezione, cioè alle convenienze dei possessori del capitale. L’armonia fra capitale e lavoro sta tutta in ciò, che il lavoro è la forza viva con la quale i proletarii di continuo mettono in moto e riproducono, con nuova giunta, il lavoro accumulato nel capitale. Questo nesso, il quale è un resultato di uno sviluppo, che è tutta l’intima essenza della storia moderna, se dà la chiave per intendere la ragion propria della nuova lotta di classe, di cui la concezione comunistica è divenuta l’ausilio e l’espressione, è d’altra parte così fatto, che nessuna protesta del cuore e del sentimento, nessuna argomentazione di giustizia può risolverlo o disfarlo.

Per tali ragioni, rese qui da me, a quel che spero, con plausibile popolarità, il comunismo egalitario rimaneva battuto. La sua impotenza pratica era una e medesima cosa con la sua incapacità teorica a rendersi conto delle cause delle ingiustizie, ossia delle disuguaglianze, che voleva, o coraggiosamente, o spensieratamente atterrare od eliminare d’un tratto. Intendere la storia diventava da quel punto in poi la cura principale dei teorici del comunismo. E come si potrebbe mai più contrapporre alla dura realtà sua, intendo dire della storia, un vagheggiato e sia pure perfettissimo ideale? Né è chi possa affermare, che il comunismo sia lo stato naturale e necessario della vita umana, di ogni tempo e luogo, per rispetto al quale tutto il corso delle formazioni storiche ci debba apparire come una serie di deviazioni e di aberrazioni. Né ad esso si va, o si torna, per spartana abnegazione, o per cristiana rassegnazione. Esso può essere, anzi deve essere e sarà la conseguenza del dissolversi di questa nostra società capitalistica. Ma in questa la dissoluzione non può essere inoculata ad arte, né importata ab extra. Si dissolverà per il proprio peso, direbbe Machiavelli. Cadrà come forma di produzione, che genera da sé in sé stessa la costante e progressiva ribellione delle forze produttive contro i rapporti (giuridici e politici) della produzione; e intanto non continua a vivere, finché vive e vivrà, se non aumentando con la concorrenza, che genera le crisi, e con la vertiginosa estensione della sua sfera di azione, le condizioni intrinseche della sua morte inevitabile. La morte anche qui nella forma sociale, come è accaduto in altro ramo di scienza per la morte naturale, è diventata un caso fisiologico. Il Manifesto non dette, né dovea dare il disegno della società futura. Disse, invece, come la presente si dissolverà per la dinamica progressiva delle sue forze immanenti. A intender ciò occorreva principalmente la esposizione dello sviluppo della borghesia; e questa fu fatta in rapidi cenni, che sono un capitolo esemplare di filosofia della storia, capace sì di ritocchi e di complementi, e soprattutto di largo sviluppo, ma che non ammette correzione nel suo intrinsecoa. Saint-Simon e Fourier, tuttoché non riprodotti nel tenore delle loro idee, né imitati nell’andamento delle loro trattazioni, rimanevano, per tale elevazione teoretica, come giustificati ed inverati. Ideologi ambedue, essi aveano per anticipazione di singolare genialità superata dentro di sé l’epoca liberale, che nell’orizzonte loro culminava nella Grande Rivoluzione. Il primo capovolse la interpretazione della storia dal diritto all’economia, e dalla politica alla fisica sociale, e, in mezzo a molte incertezze d’intendimento idealistico e d’intendimento positivo, trovò quasi la genesi del terzo stato. L’altro, per ignoranza di particolari, o in genere non noti ancora, o da lui trascurati, e per esuberanza d’ingegno non disciplinato, fantasticò una gran sequela di epoche

storiche, vagamente distinte e contrassegnate per certi indici del principio direttivo delle forme di produzione e di distribuzione. E si argomentò poi di costruire una società in cui le presenti antitesi sparissero. Di queste antitesi scovrì, con acume di genialità, e studiò con amore una principalmente: il circolo vizioso della produzione; concorrendo in ciò, senza saperlo, col Sismondi, che nel medesimo tempo, con altro animo e per altre vie, per l’esempio delle crisi e pei denunciati inconvenienti della grande industria e della spietata concorrenza, timido dichiarava il fiasco della scienza economica, appena e da poco arrivata a compimento15. Dall’alto della serena meditazione del mondo futuro degli armoniosi, Fourier guardò con sereno disprezzo la miseria dei civilizzati, e scrisse tranquillo la satira della storia. Ignari così l’uno come l’altro, perché ideologi, dell’aspra lotta che il proletariato è chiamato a sostenere, prima di metter termine all’epoca dello sfruttamento e delle antitesi, divennero, per bisogno subiettivo di conchiudere, l’uno progettista e l’altro utopistaa. Ma per divinazione afferrarono alcuni lati notevoli dei principii direttivi della società senza antitesi. Il primo concepì nettamente il governo tecnico della società, senza dominio dell’uomo su l’uomo; e l’altro, cioè Fourier, indovinò, intravide e presagì, attraverso a tante e tante stravaganze della sua lussureggiante e irrefrenata fantasia, non pochi aspetti notevoli della psicologia e della pedagogica di quella convivenza futura, nella quale, secondo l’espressione del Manifesto: il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti17. Il Saintsimonismo s’era già dileguato quando il Manifesto apparve. Il Fourierismo invece fioriva in Francia, e, per l’indole sua, non come partito, ma come scuola. Quando la scuola tentò di giungere all’utopia mediante la legge, i proletarii parigini erano già stati battuti nelle giornate di Giugno da quella borghesia, che, battendoli, preparò a sé stessa il dominio di un sommo ed insigne avventuriero, durato poi venti anni18. Non come voce di una scuola, ma come promessa, minaccia e volontà di un partito, veniva alla luce la nuova dottrina dei comunisti critici. I suoi autori e seguaci non viveano di fantasia del futuro, ma con animo tutto intento alla esperienza e alle necessità del presente. Viveano della coscienza dei proletarii, cui l’istinto, non sorretto ancora dalla esperienza, spingeva a rovesciare a Parigi e in Inghilterra il dominio della borghesia, con rapidità di mosse non dirette da una tattica studiata. Quei comunisti diffusero in Germania le idee rivoluzionarie, furono i difensori delle vittime di Giugno, ed ebbero nella «Neue Rheinische Zeitung»19 un organo politico, che ora, alla distanza di tanti anni, per fino nei brani che qua e là ne vengon riprodotti, fa scuolaa. Cessate le contingenze

storiche, che nel 1848 spinsero i proletarii sul davanti della scena politica, la dottrina del Manifesto non trovò più, né base, né terreno di diffusione. Ha aspettato degli anni a diffondersi: perché sono occorsi degli anni avanti che il proletariato potesse riapparire, per altre vie e con altri modi, su la scena come forza politica, e fare di quella dottrina il suo organo intellettuale, e trovare in essa i mezzi di orientazione. Ma, dal giorno in cui apparve, essa fu la critica anticipata di quel socialismus vulgaris, che vegetò per l’Europa, e specialmente in Francia, dal Colpo di Stato all’apparizione della Internazionale, la quale, del resto, nel breve periodo di sua vita, non ebbe tempo di vincerlo, di esaurirlo, di eliminarlo del tutto. Si alimentava cotesto socialismo volgare, quando non d’altro e di più sconnesso, principalmente delle dottrine e assai più dei paradossi di Proudhon, il quale, superato già da lungo tempo teoricamente da Marxb, non fu praticamente battuto se non durante la Comune, quando i seguaci suoi, per la più salutare lezione delle cose, furon costretti a fare il contrario delle dottrine proprie e del maestro. Fin dal primo momento in cui apparve, questa nuova dottrina del comunismo fu la critica implicita di ogni forma di socialismo di stato, da Louis Blanc a Lassalle20. Il socialismo di stato, per quanto commisto allora a tendenze rivoluzionarie, si concentrava tutto nella favola, nell’Hokus Pokus21, del diritto al lavoro. Questo è termine insidioso, se implica domanda che si rivolga ad un governo, sia pure di borghesi rivoluzionarii. Questo è assurdo economico, se si ha in mente di sopprimere la variabile disoccupazione, che influisce sul variare dei salarii, ossia su le condizioni della concorrenza. Questo può essere artificio di politicanti, se è ripiego per sedare le turbolenze di una massa agitantesi di proletarii non organizzati. Questa è una superfluità teoretica, per chi concepisca nettamente il corso di una rivoluzione vittoriosa del proletariato; la quale non può non avviare alla socializzazione dei mezzi di produzione, mediante la presa di possesso di questi: ossia non può non avviare alla forma economica, in cui non c’è né merce né salariato, e nella quale il diritto al lavoro e il dovere di lavorare fanno uno nella necessità comune a tutti che tutti lavorino. La favola del diritto al lavoro finì nella tragedia delle giornate di Giugno. La discussione parlamentare che se ne fece in seguito fu parodia. Il piagnucoloso e retorico Lamartine, quel grande uomo di occasione, avea avuto la opportunità di pronunciare l’ultima o la penultima delle sue celebrate frasi: «l’esperienza dei popoli sono le catastrofi»; e ciò bastava per l’ironia della storia22. Ma quello scritto, che era il Manifesto, di così piccola mole com’è, e di stile così alieno dalla retorica insinuazione di una fede o di una credenza, se fu tante e

tante cose come sedimento di pensieri varii ridotti per la prima volta ad unità intuitiva di sistema, e come raccolta di germi capaci di largo sviluppo, non fu però, né pretese di essere, né il codice del socialismo, né il catechismo del comunismo critico, né il vade-mecum della rivoluzione proletaria. Le quintessenze possiamo ben lasciarle all’illustre Schäffle, a cui conto lasciamo anche ben volentieri la famosa questione sociale che è questione di ventre. Il ventre dello Schäffle fece per molti anni bella mostra di sé per il mondo, a delizia di tanti sportisti del socialismo, ed a sollievo di tanti poliziotti23. Il comunismo critico, in verità, cominciava appena col Manifesto; doveva svilupparsi, e difatti si è sviluppato. Il complesso di dottrine, che ora si è soliti di chiamare Marxismo, non è giunto invero a maturità, se non negli anni dal 60 al 70. Ci corre di certo molto dall’opuscolo Capitale e lavoro a mercedel, nel quale si tocca per la prima volta, in termini precisi, del come dalla compra e dall’uso della merce-lavoro si ottenga un prodotto superiore al costo, il che era il nocciolo della insoluta questione del plus-valore, fino agli amplii, complicati e multilaterali sviluppi del libro del Capitale. Questo libro esaurisce la genesi dell’epoca borghese, in tutta l’intima struttura sua economica; e quest’epoca stessa supera intellettualmente, perché la spiega ne’ suoi modi di procedere, nelle sue leggi particolari, e nelle antitesi che essa organicamente produce, e che organicamente la dissolvono. E corre eguale divario dal movimento proletario, che fallì nel 1848, a questo dei nostri giorni, che per entro a molte difficoltà, dopo esser riapparso alla superficie della vita politica, si è venuto sviluppando con tale e tanta costanza di processo, ma con lentezza di studiati movimenti. Fino a pochi anni fa, cotesta regolarità di movimento progressivo nel proletariato non si notava ed ammirava, se non nella Germania sola, dove la democrazia sociale, come albero da proprio terreno, dalla conferenza operaia di Norimberga del 1868 in poi, era venuta normalmente crescendo con costanza di processo25. Ma poi il fatto della Germania si è in varie forme ripetuto in altri paesi. Ora in questo sviluppo ampio del Marxismo, e in questo crescere del movimento del proletariato nei compassati modi dell’azione politica, non c’è stata forse, come molti dicono, una attenuazione del carattere bellicoso della originaria forma del comunismo critico? O che sia stato forse questo un passaggio dalla rivoluzione alla così detta evoluzione? o anzi un’acquiescenza dello spirito rivoluzionario alle esigenze del riformismo? Queste riflessioni ed obiezioni sorsero e sorgono di continuo, così nel seno del socialismo, per bocca dei più accesi d’animo e di fantasia fra i suoi seguaci, come da parte degli avversarii, cui giova di generalizzare i casi dei particolari

insuccessi, delle soste e degli indugi, per affermare, che il comunismo non ha del tutto avvenire. Chi misuri l’attuale movimento proletario, e il suo corso vario e complicato, alla impressione che di sé dee lasciare il Manifesto, quando la lettura di esso non sia accompagnata da altre conoscenze, può facilmente credere, che qualcosa di troppo giovanile e prematuro fosse nella sicura baldanza di quei comunisti di or fa cinquant’anni. Nelle parole loro c’è come un grido di battaglia, e l’eco della vibrata eloquenza di alcuni oratori del Cartismo, e l’annuncio quasi di un nuovo ’93, ma così fatto, da non dar luogo a un novello Termidoro. E il Termidoro, invece, è venuto, e s’è ripetuto più volte nel mondo, in forme varie, e più o meno esplicite o dissimulate; ne fossero autori, dal 1848 in qua, exradicali alla francese, o ex-patrioti all’italiana, o burocratici alla tedesca, adoratori in idea del dio stato e in pratica buoni servi del dio danaro, o parlamentari all’inglese, scaltriti negli artificii e ripieghi dell’arte di governo, o perfino poliziotti in maschera di anarchisti di Chicago, e simili. E di qui le molte proteste contro il socialismo, e di qua e di là le argomentazioni di pessimisti e di ottimisti contro la probabilità del suo successo. A molti pare che la costellazione del Termidoro non debba più sparire dal cielo della storia; ossia, per parlare in prosa, che il liberalismo, che è la società degli eguali in diritto presuntivo, segni l’estremo limite della evoluzione umana, e che di là da esso non possa darsi che regresso. A ciò s’accomodano volentieri tutti quelli, che nella sola successiva estensione della forma borghese a tutto il mondo ripongono la ragione ed il fine di ogni progresso. Ottimisti o pessimisti che siano, trovan tutti le colonne d’Ercole del genere umano. Non rare volte accade che tale sentimento, nella sua forma pessimistica, operi inconsapevolmente su molti di quelli che vanno ad ingrossare, con gli altri déclassés, le file dell’anarchismo. C’è poi di quelli che si spingono più oltre di così, e si metton quindi a teorizzare su la obiettiva inverosimiglianza degli assunti del comunismo critico. L’enunciato del Manifesto, che, cioè, la semplificazione di tutte le lotte di classe in una sola rechi in sé la necessità della rivoluzione proletaria, sarebbe intrinsecamente fallace per cotesti polemisti che teorizzano. Questa dottrina nostra sarebbe infondata, come quella che pretende di trarre una illazione scientifica ed una regola di condotta pratica dalla argomentata previsione di un presunto fatto, il quale invece, secondo cotesti buoni e pacifici oppositori, sarebbe un semplice punto teorico spostabile e differibile all’infinito. La pretesa inevitabile, e finale, e risolutiva collisione tra le forze produttive e la forma della produzione non verrebbe mai a capo, perché si disperde difatti, secondo loro, in infiniti particolari attriti, si moltiplica nelle parziali collisioni della concorrenza

economica, trova indugio e impedimento nei ripieghi e nelle violenze dell’arte di governo. In altri termini, la società presente, anziché far crepaccio e dissolversi, rinnoverebbe in perpetuo l’opera di sua riparazione e ritocco. Ogni moto proletario, che non venga represso con la violenza, come fu nel Giugno del 1848 e nel Maggio del 1871, cesserebbe per lenta esaustione, come accadde del cartismo, che finì nel Trades-Unionismo, cavallo di battaglia di cotesto modo di argomentare, onore e vanto dei volgari economisti e dei sociologi da strapazzo. Ogni moto proletario moderno sarebbe meteorico e non organico, sarebbe un turbamento e non un processo; e noi, la mercé di cotali critici, saremmo, malgrado nostro, tuttora utopisti. La previsione storica, che sta in fondo alla dottrina del Manifesto, e che il comunismo critico ha poi in seguito ampliata e specificata con la più larga e più minuta analisi del mondo presente, ebbe di certo, per le circostanze del tempo in cui apparve la prima volta, calore di battaglia, e colore vivissimo di espressione. Ma non implicava, come non implica tuttora, né una data cronologica, né la dipintura anticipata di una configurazione sociale, come fu ed è proprio delle antiche e nuove profezie e apocalissi. L’eroico Fra Dolcino non era sorto di nuovo a levar per le terre il grido di battaglia, per la profezia di Gioacchino di Fiore26. Né si celebrava nuovamente a Münster la risurrezione del regno di Gerusalemme27. Non più Taborriti o Millenarii28. Non più Fourier, che aspettasse chez soi, a ora fissa, per degli anni, il candidato della umanità. Non era più il caso che l’iniziatore di una nuova vita cominciasse da sé a mettere in essere, con mezzi escogitati, e in modo unilaterale ed artificiale, il primo nocciolo di una consociazione, che rifacesse, come albero da germoglio, la pianta uomo: – come accadde da Bellers, attraverso Owen e Cabet, fino alla impresa dei Fourieristi nel Texas, che fu la catastrofe, anzi la tomba, dell’utopismo, illustrata da un singolare epitaffio, la calda eloquenza di Considerant che ammutolì29. Qui non è più la setta, che in atto di religiosa astensione si ritragga pudica e timida dal mondo, per celebrare in chiusa cerchia la perfetta idea della comunanza; come dai Fraticelli giù giù alle colonie socialistiche di America30. Qui, invece, nella dottrina del comunismo critico, è la società tutta intera, che in un momento del suo processo generale scopre la causa del suo fatale andare, e, in un punto saliente della sua curva, fa luce a sé stessa per dichiarare la legge del suo movimento. La previsione, che il Manifesto per la prima volta accennava, era, non cronologica, di preannunzio o di promessa; ma era, per dirla in una parola, che a mio avviso esprime tutto in breve, morfologica.

Di sotto allo strepito e al luccichio delle passioni, su le quali di solito si esercita la cotidiana conversazione, più in qua dai moti visibili delle volontà operanti a disegno, che è quello che cronisti e storici vedono e raccontano, più in giù dall’apparato giuridico e politico della nostra convivenza civile, a molta distanza indietro dalle significazioni, che la religione e l’arte dànno allo spettacolo e all’esperienza della vita, sta, e consiste, e si altera e trasforma la struttura elementare della società, che tutto il resto sorregge. Lo studio anatomico di tale struttura sottostante è la Economia. E perché la convivenza umana ha più volte cambiato, o parzialmente o integralmente, nel suo apparato esteriore più visibile, e nelle sue manifestazioni ideologiche, religiose, artistiche e simili, occorre di trovare innanzi tutto i moventi e le ragioni di tali cangiamenti, che son quelli che gli storici di solito raccontano, nelle mutazioni più riposte, e alla prima meno visibili, dei processi economici della struttura sottostante. Cioè, bisogna rivolgersi allo studio delle differenze che corrono tra le varie forme della produzione, quando si tratti di epoche storiche nettamente distinte, e propriamente dette: – e dove si tratti di spiegarsi il succedersi di tali forme, ossia il subentrare dell’una all’altra, occorre di studiare le cause di erosione e di deperimento della forma che trapassa: – e da ultimo, quando si voglia intendere il fatto storico concreto e determinato, bisogna studiare e dichiarare gli attriti e i contrasti che nascono dai varii concorrenti (ossia le classi, le loro suddivisioni, e gl’intrecci di quelle e di queste), che formano una determinata configurazione. Quando il Manifesto dichiarava, che tutta la storia fosse finora consistita nelle lotte di classe, e che in queste fu la ragione di tutte le rivoluzioni, come anche il motivo dei regressi, esso faceva due cose ad un tempo. Dava al comunismo gli elementi di una nuova dottrina, e ai comunisti il filo conduttore per ravvisare nelle intricate vicende della vita politica, le condizioni del sottostante movimento economico. Nei cinquanta anni corsi da allora in qua, la previsione generica di una nuova èra storica è diventata pei socialisti l’arte minuta dell’intendere caso per caso quel che si convenga e sia dovere di fare; perché quell’èra nuova è per sé stessa in continua formazione. Il comunismo è diventato un’arte, perché i proletarii sono diventati, o sono avviati a diventare, un partito politico. Lo spirito rivoluzionario si plasma tuttodì nella organizzazione proletaria. L’auspicata congiunzione dei comunisti e dei proletariia è oramai un fatto. Questi cinquant’anni furono la prova sempre crescente della ribellione sempre cresciuta delle forze produttive contro le forme della produzione. Fuori di questa lezione intuitiva delle cose, noi non abbiamo da offrire altra

risposta, noi utopisti, a quelli che parlano ancora di turbamenti meteorici, che, secondo l’opinione loro, torneranno tutti alla calma di questa insuperata ed insuperabile epoca di civiltà. E tale lezione basta. A undici anni dalla pubblicazione del Manifesto, Marx racchiudeva in chiara e trasparente formula i principii direttivi della interpretazione materialistica della storia; e ciò nella prefazione ad un libro, che è il prodromo del Capitaleb. Ecco riprodotto il brano: «Il primo lavoro da me intrapreso, per risolvere i dubbii che mi assediavano, fu quello di una revisione critica della Filosofia del diritto di Hegel; del quale lavoro apparve la prefazione nei «Deutsch-Französische Jahrbücher» pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca mise capo in questo resultato: che i rapporti giuridici e le forme politiche dello stato non possono intendersi, né per sé stessi, né per mezzo del così detto sviluppo generale dello spirito umano; ma anzi hanno radice nei rapporti materiali della vita, il cui complesso Hegel raccoglieva sotto al nome di società civile, secondo l’uso dei Francesi ed Inglesi del secolo decimottavo; e che inoltre l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica. Le ricerche intorno a questa, dopo cominciatele a Parigi, io le continuai a Bruxelles, dove ero emigrato per l’ordine di sfratto avuto dal signor Guizot. Il resultato generale che n’ebbi, e che, una volta ottenuto, mi valse come di filo conduttore dei miei studi, può essere formulato come segue: «Nella produzione sociale della loro vita gli uomini entran fra loro in rapporti determinati, necessarii ed indipendenti dal loro arbitrio, cioè in rapporti di produzione, i quali corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle materiali forze di produzione. L’insieme di tali rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale, su la quale si eleva una soprastruzione politica e giuridica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. La maniera della produzione della vita materiale determina innanzi e soprattutto il processo sociale, politico e intellettuale della vita. Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma è all’incontro il suo essere sociale che determina la sua coscienza. A un determinato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società si trovano in contraddizione coi preesistenti rapporti della produzione (cioè coi rapporti della proprietà, il che è l’equivalente giuridico di tale espressione), dentro dei quali esse forze per l’innanzi s’eran mosse. Questi rapporti della produzione, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro impedimenti. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Col cangiare del fondamento economico si rivoluziona e precipita, più o meno rapidamente, la soprastante colossale soprastruzione. Nella considerazione di tali sommovimenti bisogna sempre distinguer bene tra la rivoluzione materiale, che può essere

naturalisticamente constatata per rispetto alle condizioni economiche della produzione, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia le forme ideologiche, nelle quali gli uomini acquistano coscienza del conflitto, e in cui nome lo compiono. Come non può farsi giudizio di quello che un individuo è da ciò che egli sembra a sé stesso, cosi del pari non può valutarsi una determinata epoca rivoluzionaria dalla sua coscienza; anzi questa coscienza stessa deve essere spiegata per mezzo delle contraddizioni della vita materiale, cioè per mezzo del conflitto che sussiste tra forze sociali produttive e rapporti sociali della produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa ha spazio sufficiente; e nuovi rapporti di produzione non subentrano, se prima le condizioni materiali di loro esistenza non siano state covate nel seno della società che è in essere. Per ciò l’umanità non si propone se non quei problemi che essa può risolvere; perché, a considerare le cose dappresso, si vede, che i problemi non sorgono, se non quando le condizioni materiali per la loro soluzione ci son già, o si trovano per lo meno in atto di sviluppo. A guardar la cosa a grandi tratti, le forme di produzione asiatica, antica, feudale, e moderno-borghese possono considerarsi come epoche progressive della formazione economica della società. I rapporti borghesi della produzione sono l’ultima forma antagonistica del processo sociale della produzione – antagonistica non nel senso dell’antagonismo individuale, anzi di un antagonismo che sorge dalle condizioni sociali della vita degli individui; – ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese mettono già in essere le condizioni materiali per la risoluzione di tale antagonismo. Con tale formazione di società cessa perciò la preistoria del genere umano»31. Quando Marx così scriveva, da parecchi anni già era egli uscito dall’arena politica, e non vi rientrò se non più tardi, ai tempi della Internazionale. La reazione avea battuto in Italia, in Austria, in Ungheria, in Germania la rivoluzione, o patriottica, o liberale, o democratica. La borghesia, dal canto suo, avea battuto in pari tempo i proletarii in Francia e in Inghilterra. Le condizioni indispensabili allo sviluppo del movimento democratico e proletario vennero d’un tratto a mancare. La schiera, non certo molto numerosa, dei comunisti del Manifesto, che s’era mescolata alla rivoluzione, e poi dopo partecipò a tutti gli atti di resistenza e di insurrezione popolare contro la reazione, vide da ultimo troncata la sua attività col memorabile processo di Colonia32. I sopravvissuti del movimento tentarono di ricominciare a Londra; ma a breve andare Marx ed Engels ed altri volsero le spalle ai rivoluzionarii di professione, e si ritrassero dall’azione prossima. La crisi era passata. Una lunga pausa sopraggiungeva. Ne era indizio la lenta sparizione del movimento cartista, ossia del movimento

proletario del paese che è la colonna vertebrale del sistema capitalistico. La storia avea per il momento dato torto alla illusione dei rivoluzionarii. Prima di dedicarsi quasi esclusivamente alla prolungata incubazione degli elementi già da lui trovati della critica dell’economia politica, Marx illustrò in vari scritti la storia del periodo rivoluzionario del 1848-50, e specie le lotte di classe in Francia, documentando così, che, se la rivoluzione, nelle forme che essa avea per il momento assunte, era fallita, non rimaneva per ciò solo smentita la teoria rivoluzionaria della storiaa. La traccia appena indicata nel Manifesto veniva già a metter capo nella esposizione piena. E più in qua lo scritto, che ha per titolo: Il diciotto Brumaio di Luigi Bonapartea, fu il primo tentativo di plasmare la nuova concezione storica nel racconto di un ordine di fatti, che sia chiuso in termini di tempo precisi. Non è, certo, piccola difficoltà quella di risalire dal moto apparente al moto reale della storia, per iscovrirne il nesso intimo. Cioè, ci è grande difficoltà a risalire dagl’indici passionati oratorii, parlamentari, elettorali e simili, all’intimo ingranaggio sociale, per iscovrire in questo, dichiarandoli, i varii interessi dei grandi e dei piccoli borghesi, dei contadini, degli artigiani e degli operai, dei preti e dei soldati, dei banchieri, degli usurai e della canaglia; i quali interessi operano, consapevolmente o inconsciamente che siasi, urtandosi, elidendosi, combinandosi, o fondendosi nella disarmonica vita dei civilizzati. La crisi era passata, ed era passata precisamente nei paesi, che costituivano il terreno storico dal quale il comunismo critico era sorto. Intendere la reazione nelle sue riposte cause economiche era tutto quello che i comunisti critici potessero fare; perché, per il momento, intendere la reazione era come continuare l’opera della rivoluzione. Così accadde, in altre condizioni e forme, venti anni dopo, quando Marx, in nome della Internazionale, scrisse nell’opuscolo su la Guerra civile in Francia una apologia della Comune, che fu al tempo stesso la critica obiettiva di quella34. L’eroica rassegnazione, con la quale Marx uscì di dopo il 1850 dall’arena politica, ha un riscontro nel suo ritiro dalla Internazionale, dopo il Congresso dell’Aja nel 187235. Ai biografi i due fatti possono interessare per ritrovarvi dentro il suo carattere personale; nel quale, in effetti, e le idee e il temperamento, e la politica e il pensiero facevano tutt’uno. Ma in questi fatti particolari c’è una significazione più lata, e di maggior peso per noi. Il comunismo critico non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse. È, sì, tutt’una cosa col movimento proletario; ma vede e sorregge questo movimento nella piena intelligenza della connessione che esso ha, o può e deve avere, con l’insieme di tutti i rapporti della vita sociale. Non è, in somma, un seminario in

cui si formi lo stato maggiore dei capitani della rivoluzione proletaria; ma è solo la coscienza di tale rivoluzione, e soprattutto, in certe contingenze, la coscienza delle sue difficoltà. Il movimento proletario è venuto crescendo in modo colossale in questi ultimi trent’anni. Attraverso a molte difficoltà, e con molte vicende di passi indietro e di passi in avanti, esso ha via via assunto forme politiche, con metodi a grado a grado escogitati e lentamente provati. I comunisti non hanno evocato tutto ciò con l’azione magica della dottrina, sparsa e comunicata con la virtù persuasiva della parola e dello scritto. Fin dal principio seppero di essere l’estrema ala sinistra di ogni movimento proletario; ma, a misura che questo si sviluppava e si specificava, era necessità e dovere ad un tempo per loro, di secondare, nei programmi e nell’azione pratica dei partiti, le varie contingenze dello sviluppo economico, e della conseguente situazione politica. In questi cinquant’anni dalla pubblicazione del Manifesto in qua, le specificazioni e le complicazioni del movimento proletario son divenute tali e tante, che non è oramai mente che tutte le abbracci, e penetri, e intenda, e spieghi nelle loro vere cause e relazioni. L’Internazionale unitaria durata nel periodo di tempo del 1864-73, assolto che ebbe l’ufficio suo, che fu quello di un pareggiamento preliminare nelle generali tendenze, e nelle idee comuni e indispensabili a tutto il proletariato, dovette sparire; né altri penserà, o potrà mai pensare, di rifar nulla che le rassomigli. Due cause, fra le altre, hanno fortemente contribuito a questa vasta specificazione e complicazione del movimento proletario. La borghesia ha sentito in molti paesi il bisogno di limitare, a propria difesa, molti degli abusi che seguirono alla prima e subitanea introduzione del sistema industriale; e di qui nacque la legislazione operaia, o, come altri pomposamente dice, sociale. La stessa borghesia, o a propria difesa, o sotto la pressione delle circostanze, ha dovuto in molti paesi allargare le generiche condizioni della libertà, e specie estendere il diritto di suffragio. Per queste due circostanze, che han tratto il proletariato entro la cerchia della vita politica di tutti i giorni, la sua capacità di movimento è grandemente cresciuta; e l’agilità e pieghevolezza maggiore, di cui esso ora è fornito, gli permettono di contendere con la borghesia nell’arena dei comizii e nelle aule parlamentari. E come dal processo delle cose viene il processo delle idee, così a questo multiforme sviluppo pratico del proletariato, che è tanto vario di forme e d’intrecci, che nessuno può più vederselo innanzi agli occhi e ripensarlo tutto, ha corrisposto un graduale sviluppo delle dottrine del comunismo critico nell’intendere la storia e nell’intendere la vita presente, fino alla minuta descrizione delle più piccole parti della economia: – esso, in

somma, è diventato una scienza, se tal nome vuol essere inteso con la debita discrezione. Ma non c’è forse in tutto ciò, dicono insistentemente alcuni, come uno sviarsi dalla dottrina semplice e imperativa del Manifesto? Quello che si è guadagnato in estensione o complessità, ripetono altri, non si è forse perduto in intensità e in precisione? Coteste domande nascono, a mio avviso, da un erroneo concetto del presente movimento proletario, e da una illusione ottica circa il grado di energia e circa il valore rivoluzionario delle manifestazioni di molti anni fa. Qualunque concessione la borghesia faccia nell’ordine economico, fino alla massima riduzione delle ore di lavoro, riman sempre vero il fatto, che la necessità dello sfruttamento, su cui poggia tutto l’ordine sociale presente, ha limiti insormontabili, oltre dei quali il capitale come privato istrumento di produzione non ha più la sua ragion d’essere. Se una determinata concessione può oggi sedare una immediata forma di inquietezza nel proletariato, la concessione stessa non può a meno di destare il desiderio di altre, e nuove, e sempre crescenti. Il bisogno della legislazione operaia, nato in Inghilterra in anticipazione del movimento cartista e sviluppatosi poi con esso, ottenne i suoi primi successi nel periodo di tempo immediatamente posteriore alla caduta del Cartismo stesso. I principii e le ragioni di tale movimento furono, nell’intrinseco delle cause e degli effetti, studiati criticamente da Marx nel Capitale, e poi passarono attraverso la Internazionale nei programmi dei partiti socialistici. Ed ecco che da ultimo tutto cotesto processo, concentratosi nella domanda delle otto ore, è diventato nella festa del 1° maggio una rassegna internazionale del proletariato, e un modo di raccoglier gl’indici dei progressi di esso. D’altra parte, la giostra politica cui il proletariato s’avvezza, ne democratizza le abitudini, anzi ne fa una vera democrazia; la quale a lungo andare non potrà più adagiarsi nella presente forma politica, che, come organo della società dello sfruttamento, è una gerarchia burocratica, una burocrazia giudicante, una associazione di mutuo soccorso fra i capitalisti, ed è il militarismo a difesa dei dazii protettori, della rendita perpetua del debito pubblico, della rendita della terra, e così via dell’interesse del capitale in ogni altra sua forma. I due fatti, adunque, che hanno apparenza, secondo l’opinione dei furenti e degl’ipercritici, di sviare in infinito le previsioni del comunismo, si convertono invece in nuovi mezzi e condizioni che quelle previsioni confermano. Gli apparenti deviatori della rivoluzione si convertono, in somma, in suoi moventi. Né bisogna inoltre esagerare la portata della aspettazione rivoluzionaria dei comunisti di cinquanta anni fa. Data la situazione politica dell’Europa d’allora,

se fu fiducia in loro, fu quella di esser precursori, e furon di fatti: – se aspettazione fu in loro, era quella che le condizioni politiche d’Italia, d’Austria, di Ungheria, di Germania e di Polonia s’avvicinassero alle forme moderne, e ciò è accaduto poi più tardi, almeno in parte, e per altre vie: – se speranza fu in essi, era questa, che il movimento proletario di Francia e d’Inghilterra continuasse e si sviluppasse. La sopraggiunta reazione spazzò via molte cose, e molti impliciti o avviati sviluppi deviò e dilazionò. Ma spazzò anche via dal campo del socialismo la vecchia tattica rivoluzionaria: – e questi ultimi anni ne hanno creata una nuova. Ecco tuttoa. Né il Manifesto volle esser altro e di meglio, se non il primo filo conduttore di una scienza e di una pratica, che la sola esperienza e gli anni poteano e doveano sviluppare. Ciò che esso reca intorno al generale andamento del moto proletario concerne, dirò così, il solo schema e il solo ritmo. In ciò si riflette, senza dubbio, l’impressione che produceva allora su i comunisti la esperienza dei due movimenti, che appunto cadevano sott’occhi; quello di Francia, cioè, e soprattutto il Cartismo, che a breve andare fu colto da paralisi per la non accaduta manifestazione insurrezionale del 10 Aprile 184837. Ma in tale schema non è nulla di idealizzato, che poi si converta in una tassativa tattica di guerra; come più volte era di fatti accaduto, che i rivoluzionari riducessero in anticipato catechismo ciò che non può essere se non un semplice portato dello sviluppo delle cose. Quello schema è diventato poi più vasto e più complesso, grazie all’allargarsi del sistema borghese, che tanta più parte di mondo ha investito e comprende. Il ritmo del movimento è diventato più vario e più lento, appunto perché la massa operaia è entrata su la scena come vero e proprio partito politico; il che, cambiando i modi e le scadenze dell’azione, ne cambia le movenze. Come, innanzi al perfezionamento delle armi e degli altri mezzi di difesa, la tattica delle sommosse è apparsa inopportuna; – come la complicazione dello stato moderno fa apparire insufficiente la improvvisata occupazione di un Hôtel de Ville, per imporre ad un intero popolo il volere e le idee di una minoranza, sia pur essa coraggiosa e progressiva: – così dal canto suo la massa proletaria non istà più alla parola d’ordine di pochi capi, né regola le sue mosse su le prescrizioni di capitani, che possano, se mai, su le rovine di un governo di classe o di consorteria, crearne un altro dello stesso genere. La massa proletaria, là dove essa si è svolta politicamente, ha fatto e fa la sua propria educazione democratica. Cioè, elegge e discute i suoi rappresentanti, e fa sue, esaminandole, le idee e le proposte, che quelli per anticipazione di studio o di scienza abbiano intuito e presagito; e sa già, o comincia almeno ad intendere, secondo i varii

paesi, che la conquista del potere politico non dee né può esser fatta da altri in nome suo, sia pure da gruppi di coraggiosi antesignani, e che soprattutto quella conquista non può riuscire con un colpo di mano. Essa, la massa proletaria, in somma, o sa, o s’avvia ad intendere, che la dittatura del proletariato, la quale dovrà preparare la socializzazione dei mezzi di produzione, non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni, ma deve essere e sarà il resultato dei proletarii stessi, che siano, già in sé, e per lungo esercizio, una organizzazione politica. Lo sviluppo e l’estensione del sistema borghese furon rapidi e colossali in questi cinquanta anni. Oramai esso corrode la vecchia e santa Russia, e crea, non che nell’America e nell’Australia, e nell’India, ma per fino nel Giappone, nuovi centri di produzione moderna, complicando le condizioni della concorrenza, e gl’intrecci del mercato mondiale. Gli effetti delle mutazioni politiche, o non mancarono, o non si faranno lungamente aspettare. Egualmente rapidi e colossali furono i progressi del proletariato. La sua educazione politica segna ogni giorno un nuovo passo verso la conquista del potere politico. La ribellione delle forze produttive contro la forma della produzione, ossia la lotta del lavoro vivo contro il lavoro accumulato, si fa ogni giorno più palese. Il sistema borghese è oramai su le difese, e rivela lo stato e la posizione sua in questa singolare contraddizione, che, cioè, il pacifico mondo della industria è diventato un immane accampamento, entro del quale vegeta il militarismo. L’epoca dell’industria pacifica è diventata, per l’ironia delle cose, l’epoca del continuo ritrovamento di nuovi e più potenti mezzi di guerra e di distruzione. Il socialismo s’è imposto. Per fino i semisocialisti, per fino i ciarlatani che ingombrano di sé la stampa e le assemblee dei nostri partiti, non sempre senza imbarazzo nostro, sono un omaggio che le vanità e le ambizioni di ogni maniera rendono a modo loro alla nuova potenza che sorge all’orizzonte. Malgrado il divieto anticipato del socialismo scientifico, che non è dato a tutti d’intendere, pullulano e si moltiplicano ogni istante i farmacisti della questione sociale, che han tutti qualcosa di particolare da suggerire o da proporre, per curare od eliminare questo o quel malanno sociale; - nazionalizzazione del suolo; monopolio dei grani da parte dello stato; statificazione delle ipoteche; municipalizzazione dei mezzi di trasporto; finanza democratica; sciopero generale; – e così via, da non finirla mai! Ma la democrazia sociale elimina tutte coteste fantasie, perché l’istinto della propria situazione induce i proletarii, appena si addestrino nell’arena politica, ad intendere il socialismo in modo integraler. A intendere, cioè, che ad una cosa sola essi devono soprattutto mirare: all’abolizione, cioè, del salariato; che una sola forma di società è quella che rende possibile, e anzi necessaria, la eliminazione delle classi: e cioè

l’associazione che non produce merci; e che tal forma di società non è più lo stato, anzi è il suo opposto, ossia il reggimento tecnico e pedagogico della convivenza umana, il selfgovernment del lavoro. Non più Giacobini, né quelli eroicamente giganti del 93, né quelli in caricatura del 1848! Democrazia sociale! – Ma non è questa, si ripete da molti, una evidente attenuazione della dottrina del comunismo, che fu espressa in termini così vibrati e risoluti nel Manifesto? Non occorre certo di ricordare, come il nome di democrazia sociale avesse in Francia significati di molto varii fra loro dal 1837 al 1848, che tutti poi si diluirono in un vago sentimento. Né giova di spiegarsi, come i tedeschi sian riusciti a esprimere in tale denominazione, il cui significato nel caso loro è da cercare solo nel contesto del fatto stesso, tutto il ricco ed ampio sviluppo del loro socialismo, dall’episodio di Lassalle, oramai superato ed esaurito, fino ai giorni nostri. Certo è che democrazia sociale può significare, ha significato e significa tante cose, che né furono, né sono, né saranno mai, né il comunismo, né il consapevole avviamento alla rivoluzione proletaria. Certo è del pari, che il socialismo contemporaneo, anche nei paesi dove lo sviluppo suo è più chiaro, preciso e progredito, ha sopra di sé di molta scoria dalla quale deve via via liberarsi lungo il suo cammino; e certo è, infine, che a tanti intrusi e ingrati ospiti fra noi fa da scudo e da coverchio la troppo lata denominazione di democrazia sociale. Ma qui preme di dire ben altro, e di fissare l’attenzione sopra un punto di capitale importanza. Conviene innanzi tutto di accentuare la prima parola del termine composto, non già a risolvere ogni questione, ma ad ovviare ad equivoci ed alterazioni. Democratica fu la costituzione della Lega dei Comunisti; democratico fu il suo modo di procedere, anche nell’accogliere, discutendola, la nuova dottrina: democratica fu la sua condotta nel mescolarsi alla rivoluzione del 1848, e nel partecipare alla resistenza insurrezionale contro l’invadente reazione; democratico fu, da ultimo, perfino il modo della sua dissoluzione. In quel primo incunabulo dei nostri attuali partiti, in quella, dirò così, prima cellula del nostro complesso, elastico e sviluppatissimo organismo, oltre alla coscienza della missione da compiere come precorrimento, era già la forma e il metodo di convivenza, che soli convengono ai preparatori della rivoluzione proletaria. La setta era superata di fatto. Il predominio immediato e fantastico dell’individuo era già eliminato. Predominava la disciplina attinta alla esperienza della necessità, e alla dottrina, che di quella necessità deve essere appunto la coscienza riflessa. Così fu parimenti della Internazionale, il cui procedere parve autoritario solo a quelli, che non riuscirono ad introdurvi e a farvi valere l’importuna o fatua

autorità propria. Così è e deve essere nei partiti proletarii, e dove ciò non è, o non può essere ancora, l’agitazione proletaria, elementare appena e confusa, genera soltanto illusioni, o dà pretesto all’intrigo. Ciò che così non è, sarà la conventicola, nella quale accanto all’illuso siede il pazzo e la spia. O sarà la setta dei Fratelli Internazionali, che come parassita si attaccò alla Internazionale, e la espose al discredito40. O la cooperativa, che degeneri in impresa, o si venda a un potente. O il partito operaio non politico, che studia fra le altre cose le contingenze del mercato, per introdurre la tattica degli scioperi nelle sinuosità della concorrenza. O da ultimo l’accozzaglia dei malcontenti, per la più parte spostati e piccoli borghesi, che speculano sul socialismo come su di una fra le tante altre frasi della moda politica. Tutti questi ed altrettali impedimenti la democrazia sociale s’è trovato fra i piedi sul suo cammino, e dovette più volte, come deve tuttora di quando in quando, sbarazzarsene. Né sempre valse l’arte della persuasione. Il più delle volte convenne e conviene rassegnarsi, e aspettare che gli illusi traessero o traggano dalla dura scuola del disinganno l’ammaestramento, che non sempre si riceve volentieri per via dei ragionamenti. Coteste intrinseche difficoltà del movimento proletario, che la scaltra borghesia può spesso fomentare, e difatti sfrutta, formano una non piccola parte della storia interna del socialismo di questi ultimi anni. Il socialismo non trovò impedimenti al suo sviluppo soltanto nelle condizioni generali della concorrenza economica, e nella resistenza dell’apparato politico; ma anche nelle condizioni stesse della massa proletaria, e nella meccanica non sempre chiara, per quanto inevitabile, dei suoi movimenti lenti, varii, complessi, spesso antagonistici e contraddittorii. E ciò oscura agli occhi di molti la cresciuta ed acuita semplificazione di tutte le lotte di classe, nell’unica lotta tra capitalisti e lavoratori proletarizzatia. Il Manifesto, come non avea scritto, secondo l’uso degli utopisti, l’etica e la psicologia della società futura così non dettò la meccanica di questo processo di formazione e di sviluppo, in cui noi ci troviamo. Era già molto che alcuni pionieri dischiudessero la via, su la quale conviene di mettersi per intenderla e provarla. Del resto, l’uomo è l’animale esperimentale per eccellenza, e perciò ha una storia, anzi perciò solo fa la sua propria storia. In questo cammino del socialismo contemporaneo, che è il suo sviluppo perché è la sua esperienza, ci siamo incontrati nella massa dei contadini. Il socialismo, che si era dapprima praticamente e teoricamente fissato e svolto nello studio e nella esperienza degli antagonismi tra capitalisti e proletarii nell’ambito della produzione industriale propriamente detta, s’è da ultimo appressato alla massa nella quale vegeta l’idiotismo della campagna.

Conquistare la campagna è la quistione del giorno: malgrado che il quintessenziale Schäffle avesse da gran tempo collocato in quella, a difesa dell’ordine, i cranii anticollettivistici dei contadini41. La eliminazione, o l’accaparramento della industria domestica per opera del capitale; l’allargamento della industria agraria nella forma capitalistica; la sparizione della piccola proprietà, o la sua erosione mediante le ipoteche; il dileguarsi dei demanii comunali; l’usura, le tasse e il militarismo; – tutte coteste cose insieme cominciano ad operar miracoli anche in quei cranii, presuntivi custodi della conservazione. A tale impresa si è messo innanzi tutti il socialismo tedesco, che era portato dal fatto stesso della sua colossale espansione dalla città ai piccoli centri, a toccare inevitabilmente i confini della campagna. Le prove saranno lunghe e non facili, anzi dure; il che spiega, e scusa, e scuserà per un pezzo gli errori che furono e saranno commessi ai primi passia. Finché i contadini non saranno conquistati, noi avremo sempre alle spalle quell’ idiotismo della campagna, che fa o rinnova inconsapevolmente, appunto perché idiotismo, il 18 Brumaio e il 2 Decembre. Con questa conquista della campagna andrà molto probabilmente di pari passo lo sviluppo della società moderna in Russia. Quando quel paese sarà entrato nell’èra liberale, con tutti i difetti e gl’inconvenienti che di questa son proprii, ossia con tutte le forme di sfruttamento e di proletarizzazione schiettamente moderne, ma coi vantaggi ed i compensi però dello sviluppo politico del proletariato, la democrazia sociale non avrà più da temere minaccia di improvvisi pericoli esterni; e quelli interni essa si troverà di aver vinto in pari tempo con la conquista dei contadini. Istruttivo, è senza dubbio, il caso dell’Italia. Questo paese, data che ebbe già in su la fine del Medio-Evo l’avviata all’epoca capitalistica, uscì per secoli dalla circolazione della storia. Caso tipico di decadenza documentata, e studiabile precisamente nelle sue fasi! Rientrò in parte nella storia ai tempi della dominazione napoleonica. Risorta ad unità e diventata stato moderno, dopo l’epoca della reazione e delle cospirazioni, e nei modi e per le vicende che tutti sanno, l’Italia si è trovata di avere di recente tutti gl’inconvenienti del parlamentarismo, e del militarismo, e della finanza di novello stile, non avendo però in pari tempo la forma piena della produzione moderna, e la conseguente capacità della concorrenza a condizioni eguali. Impedita di concorrere coi paesi d’industria avanzata, per la mancanza assoluta del carbon fossile, per la scarsezza del ferro e per la deficiente preparazione delle operosità e delle attitudini tecniche, aspetta ora, o si lusinga, che le applicazioni della elettricità le

dian modo di riguadagnare il tempo perduto, come si vede per gl’indizii dei varii tentativi da Biella a Schio43. Uno stato moderno in una società quasi esclusivamente agricola, e in gran parte di vecchia agricoltura: – ciò crea un sentimento di universale disagio, ciò dà la generale coscienza della incongruenza di tutto e d’ogni cosa! Di qui la incoerenza e la inconsistenza dei partiti, di qui le facili oscillazioni dalla demagogia alla dittatura, di qui la folla, la turba, l’infinita schiera dei parassiti della politica, e poi dei progettisti, dei fantastici e degl’inventori d’idee. Rischiara di luce vivissima questo singolare spettacolo di uno sviluppo sociale impedito, ritardato, intralciato e perciò incerto, l’acuto ingegno, che se non è sempre frutto ed espressione di molta e vera coltura moderna, reca però in sé, per vecchio abito di millenare civiltà, l’impronta di un raffinamento cerebrale quasi insuperabile. L’Italia non fu, per ragioni ovvie, terreno proprio di una autogenetica formazione di idee e di tendenze socialistiche. Filippo Buonarroti, Italiano, da amico già del minore dei Robespierre divenne il compagno di Babeuf, e fu poscia più tardi il rinnovatore del Babuvismo nella Francia di dopo il 1830!44 Il socialismo fece la sua prima apparizione in Italia ai tempi della Internazionale, nella confusa e incoerente forma del Bakuninismo; e non come movimento di massa proletaria, ma anzi come di piccoli borghesi, di déclassés e di rivoluzionarii per impulso e per istintoa. Di recente, in questi ultimi anni, il socialismo vi si è andato fissando e concretando in una forma che riproduce, con molta incertezza però, ossia con poca precisione, il tipo generale della democrazia socialeb. Ebbene, in Italia, il primo segno di vita, che il proletariato abbia dato di sé, è consistito nelle sollevazioni dei contadini di Sicilia, alle quali altre dello stesso tipo ne tenner dietro sul continente, ed altre assai probabilmente ne succederanno in seguito47. Non è ciò assai significativo? Dopo tale scorsa nel campo del socialismo contemporaneo, si torna volentieri col pensiero e con l’animo al ricordo di quei primi precursori nostri di cinquanta anni fa, i quali documentarono nel Manifesto la presa di possesso di un posto avanzato sulla via del progresso. Né ciò è da intendere segnatamente ed esclusivamente per rispetto ai soli teorici della schiera; cioè per Marx ed Engels. L’uno e l’altro avrebbero esercitato in ogni caso e sempre, o dalla cattedra, o dalla tribuna, o con gli scritti, una non piccola influenza su la politica e su la scienza, tale e tanta era in loro la potenza e la originalità dell’ingegno e la estensione delle conoscenze, quando anche non si fossero imbattuti mai sul cammino della vita nella Lega dei Comunisti. Ma intendo dire di quegli uomini, che nel gergo vano ed orgoglioso della letteratura borghese sarebber detti oscuri;

– di quel calzolaio Bauer, di quei sarti Lessner ed Eccarius, di quel miniaturista Pfänder, di quell’orologiaio Mollc, di quel Lochner, o come altro si chiamino quei che primi iniziarono consapevolmente il nostro movimento48. Sta come indice della loro apparizione il motto: Proletarii di tutto il mondo, unitevi. Sta come resultato dell’opera loro: il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza. La sopravvivenza dell’istinto loro e del loro primitivo impulso nell’opera nostra dell’oggi, è il titolo indimenticabile, che quei precursori si acquistarono alla gratitudine di tutti i socialisti. Come Italiano ritorno io tanto più volentieri su questo primo inizio del socialismo moderno, perché, per la mia parte almeno, non rimanga senza effetto un recente monito dell’Engels: «E così la scoverta, che, sempre e da per tutto, le condizioni e gli accadimenti politici trovino la loro spiegazione nelle rispettive condizioni economiche, non sarebbe stata punto fatta da Marx nell’anno 1845, ma anzi dal signor Loria nel 1886. Per lo meno egli è riuscito ad imporre tale credenza ai suoi concittadini, e da che il suo libro fu tradotto in Francia, anche ad alcuni Francesi, e può ora andare attorno per l’Italia tronfio e pettoruto, come scovritore di una teoria che fa epoca; finché i socialisti del suo paese non trovino il tempo di strappare all’illustre Loria le rubate penne di pavone»a. Vorrei finire; ma conviene m’indugi ancora. Da tutte le parti e da tutti i campi si levano proteste, sorgono lamenti, si affacciano obiezioni contro il materialismo storico. E al coro mescolano, di qua e al di là, la voce loro i socialisti immaturi, i socialisti filantropici, o i socialisti sentimentali e alquanto isterici. E poi ricomparisce, come monito, la question del ventre. E son tanti quelli che giuocano di scherma logica con le categorie astratte dell’egoismo e dell’altruismo; e per molti vien sempre in buon punto la ormai inevitabile lotta per l’esistenza! Morale! Ma non l’abbiamo noi udita da un pezzo già la lezione di cotesta morale dell’epoca borghese, dalla Favola delle Api di quel Mandeville, che fu coetaneo della prima formazione della Economia classica?50 E la politica di cotesta morale non fu spiegata, con caratteri di insuperata ed indimenticabile classicità, dal primo grande scrittore politico dell’epoca capitalistica, da Machiavelli: non inventore lui, ma anzi fedele ed accurato segretario ed estensore del Machiavellismo? E la giostra logica dell’egoismo e dell’altruismo non ci sta tutta sott’occhi, dal reverendo Malthus, a cotesto tenue, vacuo, prolisso e noioso ragionatore, che è l’oramai indispensabile Spencer?51 Lotta per l’esistenza! Ma volete osservarne, studiarne ed intenderne una, che sia più intuitiva per noi di questa che è sorta e giganteggia nell’agitazione proletaria? O

è forse che volete voi ridurre la spiegazione di cotesta lotta, – la quale si svolge e si esercita nel campo supernaturale della società, che l’uomo stesso si è creato attraverso la storia, col lavoro, con la tecnica e con le istituzioni, e che l’uomo stesso può cambiare con altre forme di lavoro, di tecnica e di istituzioni, – semplicemente a quella più generale della lotta, che piante ed animali, e gli uomini stessi in quanto sono puramente animali, combattono nell’ambito immediato della natura? Ma stiamo all’argomento nostro. Il comunismo critico non si è rifiutato mai, né si rifiuta, di accogliere in sé tutta la molteplice e ricca suggestione ideologica, etica, psicologica e pedagogica, che può venirgli dalla conoscenza e dallo studio di quante mai forme furono di comunismo e di socialismo, da Falea di Calcedonia a Cabeta. Anzi gli è precisamente con lo studio e per la conoscenza di tali forme, che si sviluppa e si fissa la coscienza del distacco del socialismo scientifico da tutto il resto. E chi in tale studio vorrà rifiutarsi di riconoscere, ad esempio, che Tommaso Moro fu un animo eroico e uno scrittore insigne del socialismo? E chi vorrà non rendere nel proprio animo un tributo di straordinaria ammirazione a Roberto Owen, il quale primo acquisì all’etica del comunismo questo principio indiscutibile: che il carattere e la morale degli uomini sono il necessario resultato delle condizioni in cui essi vivono, e delle circostanze in cui si trovano e si sviluppano? E inoltre i comunisti critici si credono in dovere, nel ripensare alla storia, di pigliar partito per tutti gli oppressi, quale che fosse la sorte loro; – e fu invero sempre quella di rimanere oppressi, o di aprir le vie, dopo breve ed efimero successo, a nuovo dominio di nuovi oppressori! Ma c’è un punto in cui i comunisti critici si distinguono nettamente da tutte le altre forme e maniere di comunismo e di socialismo antico, moderno, o contemporaneo: e questo punto è di capitale importanza. Essi non possono ammettere, che le passate ideologie rimanessero senza effetto, e che i passati tentativi del proletariato fossero sempre superati e vinti, per un puro accidente della storia, o per un capriccio, per così dire, delle circostanze. Tutte quelle ideologie, per quanto riflettessero, infatti, il sentimento implicito o diretto delle antitesi sociali, ossia delle reali lotte di classe, con alta coscienza della giustizia e con profonda devozione a un forte ideale, rivelan tutte però l’ignoranza delle cause vere e della natura effettiva delle antitesi, contro le quali si levavano con atto rapido di ribellione spesso eroica. Di qui il carattere di utopia! E così noi ci rendiamo parimenti conto del fatto, che le condizioni di oppressione di altri tempi, per quanto più barbare e crudeli, non dessero luogo a quella accumulazione di energia, a quella continuità di resistenza e di opera, che

si trovano, si avverano e si svolgono nel proletariato dei tempi nostri. È il cambiamento della società nella sua struttura economica, è la formazione del proletariato nuovo nell’ambito della grande industria e dello stato moderno, è l’apparire di questo proletariato su la scena politica: – sono le cose nuove, in somma, che hanno ingenerato il bisogno di idee nuove. E per ciò il comunismo critico non moralizza, non predice, non annunzia, né predica, né utopizza: – ha già la cosa in mano, e nella cosa stessa ha messo la sua morale e il suo idealismo. Per tale nuova orientazione, che ai sentimentali par dura, perché troppo vera, veristica ed effettuale, noi siamo in grado di rifarci regressivamente su la storia del proletariato, e degli altri oppressi da altri metodi di oppressione, che questo precedettero. E ne vediamo le varie fasi; e ci rendiamo conto dell’insuccesso del Cartismo; e poi più indietro di quello della Cospirazione degli Eguali; e risaliamo ancora più in là alle varie sommosse e resistenze e guerre, come fu quella famosa dei contadini di Germania, e poi più in su alla Jacquerie, e ai Ciompi, e a Fra Dolcino. E in tutti questi fatti e avvenimenti scorgiamo forme e fenomeni correlativi al divenire della borghesia, a misura che essa dilacera, sconvolge, vince e sfascia il sistema feudale. Lo stesso possiamo fare per le lotte di classe del mondo antico; ma solo in parte, e con minor chiarezza. Questa storia del proletariato e delle altre classi di oppressi, e delle vicende delle loro rivolte, ci è già guida sufficiente per intendere come e perché fossero premature, o immature, le ideologie del comunismo di altri tempi. La borghesia, se non è giunta ancora e da per tutto al termine della sua evoluzione, è giunta di certo in alcuni paesi quasi all’apice di questa. Subordina, nelle nazioni più progredite, le varie e multiformi maniere di produzione di altri tempi, sia per diretto o sia per indiretto, all’azione ed alla legge del capitale. E così, o semplifica, o tende a semplificare le varie lotte di classe, che per la loro molteplicità in altri tempi si elisero, in questa sola tra il capitale, che ogni prodotto del lavoro umano indispensabile alla vita converte in merce, e la massa proletarizzata, che offre a mercede la sua forza di lavoro, diventata anch’essa semplice merce. Il segreto della storia si è semplificato. Siamo alla prosa. E come questa presente, ossia la modernissima lotta di classe è la semplificazione di tutte le altre, così il comunismo del Manifesto semplificò in rigidi e generali enunciati teorici la multiforme suggestione ideologica, etica, psicologica e pedagogica delle altre forme di comunismo, non negandole, ma elevandole di grado. Siamo alla prosa; ed anche il comunismo diventa prosa: ossia è scienza. Per ciò il Manifesto non ha retorica di proteste, né reca piati. Non lamenta il pauperismo per eliminarlo. Non spande lagrime su niente. Le lagrime delle cose si sono già rizzate in piedi, da sé, come forza spontaneamente rivendicatrice.

L’etica e l’idealismo consistono oramai in ciò: mettere il pensiero scientifico in servizio del proletariato. Se questa etica non pare morale abbastanza ai sentimentali, che sono il più delle volte isterici e fatui, vadano a chiedere l’altruismo al gran pontefice Spencer. Ne darà loro la sciatta, e insipida, e inconcludente definizione: e di ciò si appaghino. Ma, dunque, si tratta di estendere alla spiegazione di tutta la storia il solo fattore economico? Fattori storici! Ma questa è espressione da empiristi della ricerca, o da astratti analizzatori, o da ideologi che ripetono Herder. La società è un complesso, ovvero un organismo, come dicon quelli che volentieri adoperano così ambigua immagine, e si perdon poi ad almanaccare sul valore e su l’uso analogico di tale espressione. Questo complesso si è formato ed ha cambiato più volte. Quale la spiegazione di tale mutamento? Già molto prima che Feuerbach desse il colpo di grazia alla spiegazione teologica della storia (l’uomo ha fatto la religione, e non la religione l’uomo!), il vecchio Balzac l’avea volta in satira, facendo degli uomini le marionette di Dio. E non avea già Vico ritrovato, che la Provvidenza non opera ab-extra nella storia, ma anzi opera come quella persuasione, che gli uomini hanno della esistenza sua? E lo stesso Vico, già un secolo avanti al Morgan, non avea ridotto la storia tutta ad un processo, che l’uomo compie da sé come per una successiva esperimentazione, che è ritrovamento della lingua, delle religioni, dei costumi e del diritto? Non era parso a Lessing, che la storia fosse una educazione del genere umano? Non avea Gian Giacomo già visto, che le idee nascono dai bisogni? Non toccò quasi da vicino Saint-Simon, quando non fantasticava di epoche organiche ed inorganiche, la genesi reale del terzo stato: e le sue idee, tradotte in prosa, non dettero in Agostino Thierry, un vero innovatore delle ricerche critiche sul passato? Nel primo cinquantennio di questo secolo, e specie nel periodo dal 1830-50, le lotte di classe, che gli storici antichi e quelli della Italia della Rinascenza avean così vivamente descritte, per quanto ne desse loro occasione di esperienza l’angusto ambito delle repubbliche di città, eran cresciute e s’erano ingrandite di qua e di là dalla Manica in proporzione e in evidenza sempre maggiori. Nate nell’ambito della grande industria, illustrate dal ricordo e dallo studio della Grande Rivoluzione, diventavano esse intuitivamente istruttive, perché, con maggiore o con minore chiarezza e consapevolezza, trovavano la loro attuale e suggestiva espressione nei programmi dei partiti politici: p. es. libero scambio, o dazii sul grano in Inghilterra, e così via. La concezione della storia si cambiava in Francia a vista d’occhi, così nell’ala destra come nell’ala sinistra dei partiti

letterarii, da Guizot a Louis Blanc, e fino al tenue e modesto Cabet. La sociologia era il bisogno del tempo, e, se cercò invano la sua espressione teoretica in Comte, scolastico ritardatario, trovò di certo l’artista in Balzac, che fu il vero rinvenitore della psicologia delle classi. Riporre nelle classi e nei loro attriti il subietto reale della storia, e il moto di questa nel moto di quelle, ecco ciò che si andava cercando e scovrendo: e di ciò bisognava fissare in termini la precisa teoria. L’uomo ha fatto la sua storia, non per metaforica evoluzione, né per correr su la linea di un presegnato progresso. L’ha fatta, creandone a sé stesso le condizioni; cioè, formando a sé stesso, mediante il lavoro, un ambiente artificiale, e sviluppando successivamente le attitudini tecniche, e accumulando e trasformando i prodotti della operosità sua, per entro a tale ambiente. Noi di storia ne abbiamo una sola: né quella reale, che è effettivamente accaduta, possiamo noi confrontare con un’altra meramente possibile. Dove trovare le leggi di tale formazione e sviluppo? Le antichissime formazioni non ci son chiare alla prima. Ma questa società borghese, come nata di recente, e non giunta ancora a pieno sviluppo nemmeno in ogni parte di Europa, serba in sé le tracce embriogenetiche della sua origine e del suo processo, e le mette in piena evidenza nei paesi in cui sorge appena sotto ai nostri occhi, per es. nel Giappone. Come società che trasforma tutti i prodotti del lavoro umano in merci, mediante il capitale, come società che suppone il proletariato, o lo crea, e che ha in sé l’inquietezza, la turbolenza, la instabilità delle continue innovazioni, essa è nata in tempi certi, con modi assegnabili e chiari, per quanto varii. Di fatti, nei diversi paesi ha modi differenti di sviluppo: dove, per es., comincia prima che altrove, come in Italia, e poi si arresta; e dove, come in Inghilterra, procede costantemente per tre secoli di economica espropriazione delle precedenti forme di produzione, o della vecchia proprietà, come dicesi nella lingua dei giuristi. In un paese essa si fa a grado a grado, combinandosi con le forze preesistenti, e di quelle subisce l’influsso per adattamento, come fu il caso della Germania; ed ecco che in altro paese rompe l’involucro e le resistenze in modo violento, come accadde in Francia, dove la Grande Rivoluzione rappresenta il caso più intensivo e vertiginoso di azione storica che si conosca, ed è perciò la più grande scuola di sociologia. In brevi e magistrali tratti, come ho già notato, cotesta formazione della società moderna, ossia borghese, fu tipicamente rifatta nel Manifesto; dove n’è dato il generale profilo anatomico, negli aspetti successivi di corporazione, commercio, manifattura e grande industria, aggiuntavi la indicazione degli organi ed apparati derivati e complessi, che sono il diritto, le costituzioni

politiche e così via. Ed ecco che gli elementi primi della teoria per ispiegare la storia col principio delle lotte di classe ci eran già implicitamente. Questa medesima società borghese, che rivoluzionò tutte le precedenti forme di produzione, avea fatto luce a sé stessa e al suo processo, creando la dottrina della sua struttura, ossia la Economia. Essa difatti non è nata e non si è svolta nella incoscienza che fu propria delle società primitive; ma anzi alla luce meridiana del mondo moderno, dalla Rinascenza in qua. La Economia, come tutti sanno, nacque frammentaria in origine nella prima epoca della borghesia, che fu quella del commercio e delle grandi scoverte geografiche; ossia nella prima fase del mercantilismo, e poi nella seconda di esso. E nacque, per rispondere dapprima a speciali questioni: per es. – è legittimo l’interesse?; conviene agli stati e alle nazioni di accumular danaro?; e così di seguito. Crebbe poi, estendendosi a più complessi aspetti del problema della ricchezza, e si sviluppò nella transizione dal mercantilismo alla manifattura, e da ultimo più rapidamente e più risolutamente nella transizione da questa alla creazione della grande industria. Fu l’anima intellettuale della borghesia che conquistava la società. Era già, come disciplina, quasi condotta a termine nei suoi principali lineamenti alla vigilia della Grande Rivoluzione; e fu segnacolo alla ribellione contro le vecchie forme del feudo, della corporazione, del privilegio, delle limitazioni al lavoro e così via: cioè fu segnacolo di libertà. Perché, di fatti, il diritto di natura, che si venne sviluppando dai precursori di Grozio fino a Rousseau, a Kant e alla costituzione del 93, non fu se non il duplicato e il complemento ideologico della Economia; tanto è che, spesso, e cosa e complemento si confondono in uno nella mente e nei postulati degli scrittori, come è il caso tipico dei Fisiocratici. Come dottrina sceverò, distinse, analizzò gli elementi e le forme del processo della produzione, circolazione e distribuzione, riducendo il tutto in categorie: danaro, danaro-capitale, interesse, profitto, rendita della terra, salario, e così di seguito. Corse sicura, con costante incremento di analisi, e più spiccatamente da Petty a Ricardo53. Padrona essa sola del campo, incontrò rare obiezionia. Lavorò su due presupposti, che poco o punto si dette pensiero di difendere, tanto parevano evidenti: e, cioè, che l’ordine sociale che illustrava fosse l’ordine naturale; e che la proprietà privata dei mezzi di produzione fosse una cosa sola con la libertà umana: il che faceva del salariato, e della inferiorità dei salariati, condizioni d’essere indispensabili. In altre parole, non vide la condizionalità storica delle forme che dichiarava e spiegava. Le stesse antitesi che incontrò per via, nei tentativi di una conseguente sistematica più volte provata e mai riuscita, cercò di eliminarle logicamente; come è il caso di Ricardo nel tentativo di combattere la non meritata rendita

della terra. In principio del secolo scoppiano violente le crisi, e quei primi movimenti operai, che hanno la loro origine immediata e diretta nell’acuta disoccupazione. L’illusione dell’ordine naturale è rovesciata! La ricchezza ha generato la miseria! La grande industria, alterando tutti i rapporti della vita, ha aumentato i vizii, le malattie, la soggezione: essa, in somma, è causa di degenerazione! Il progresso ha generato il regresso! Come fare, perché il progresso non generi altro che progresso; e cioè prosperità, salute, sicurezza, educazione e sviluppo intellettuale egualmente per tutti? In questa domanda è tutto Owen; che ebbe di comune con Fourier e con Saint-Simon questo carattere: del non richiamarsi oramai più all’abnegazione o alla religione, e del volere risolvere e superare le antitesi sociali, senza diminuzione della energia tecnica ed industriale dell’uomo, anzi con l’incremento di essa. Owen diventò comunista per cotesta via; ed è il primo che sia divenuto tale entro all’ambito e per l’esperienza della grande industria moderna. L’antitesi pare dapprima sia tutta riposta nella contraddizione tra il modo della distribuzione e il modo della produzione. Questa antitesi bisogna dunque vincerla in una società, che produca collettivamente. Owen diventò utopista. Questa società perfetta bisogna sperimentalmente avviarla; e lui ci si mise con eroica costanza, con abnegazione impareggiabile, con matematica precisione di particolari argomentati ed escogitati. Posta cotesta immediata antitesi tra produzione e distribuzione, si seguirono in Inghilterra, da Thompson a Bray55, molti scrittori di un socialismo che non può dirsi strettamente utopistico, ma deve dirsi unilaterale, perché mirante a correggere i rivelati e denunciati vizii della società con uno o più rimediia. Di fatti, la prima tappa che si faccia da chiunque si metta per la prima volta su la via del socialismo, gli è di mettere in contraddizione la produzione con la distribuzione. E poi nascono spontanee queste ingenue domande: perché non abolire il pauperismo; non eliminare la disoccupazione; non toglier di mezzo l’intermedio della moneta; non favorire lo scambio diretto dei prodotti in ragione del lavoro che contengono; non dare al lavoratore l’intero prodotto del suo lavoro?, e simili. Queste domande risolvono le cose dure, tenaci e resistenti della vita reale in tanti ragionamenti, e mirano a combattere il sistema capitalistico come fosse un meccanismo, cui si tolgano o si aggiungano, pezzi, ruote ed ingranaggi. Con tutte coteste tendenze la ruppero recisamente i comunisti critici. Essi furono i successori e continuatori della Economia classicaa. Questa è la dottrina della struttura della presente società. Ora non è dato a nessuno di combattere cotesta struttura praticamente, e rivoluzionariamente, senza rendersi innanzi tutto

conto esatto degli elementi, e forme e rapporti suoi, approfondendo appunto la dottrina che la illustra. Queste forme, e elementi, e rapporti si generarono, sì, in date condizioni storiche; ma ora sono, e sono resistenti, e connessi, e correlativi fra loro, e perciò costituiscono sistema e necessità. Come passar sopra a tale sistema con un atto di negazione logica, e come eliminarlo coi ragionamenti? Eliminare il pauperismo? Ma se è condizione necessaria del capitalismo! – Dare all’operaio l’intero frutto del suo lavoro? Ma dove se ne andrebbe il profitto del capitale? – E dove e come il danaro speso in merci potrebbe crescere di un tanto, se fra tutte le merci che incontra, e con le quali si scambia, non ce ne fosse appunto una, che produce a chi la compra più di quel che gli costi; e se questa merce non fosse appunto la forza-lavoro presa a salario? Il sistema economico non è una fila o una sequela di astratti ragionamenti; ma è anzi un connesso ed un complesso di fatti, in cui si genera una complicata tessitura di rapporti. Pretendere che questo sistema di fatti, che la classe dominatrice si è venuto costituendo a gran fatica, attraverso i secoli, con la violenza, con l’astuzia, con l’ingegno, con la scienza, ceda le armi, ripieghi, o si attenui, per far posto ai reclami dei poveri, o ai ragionamenti dei loro avvocati, gli è cosa folle. Come chiedere l’abolizione della miseria, senza rovesciare tutto il resto? Chiedere a questa società, che essa muti anzi rovesci il suo diritto, che è la sua difesa, gli è chiederle l’assurdo. Chiedere a questo stato, che esso cessi dall’essere lo scudo e anzi il baluardo di questa società e di questo diritto, è volere l’illogicob. Cotesto socialismo unilaterale, che, senza essere strettamente utopistico, parte dal preconcetto che la storia ammetta la errata-corrige senza rivoluzione, ossia senza fondamentale mutazione nella struttura elementare e generale della società stessa, o è una ingenuità, o è un imbarazzo. La sua incoerenza con le rigide leggi del processo delle cose si faceva chiara appunto in Proudhon; che, o riproduttore inconsapevole, o diretto ricopiatore di alcuni dei socialisti unilaterali inglesi, voleva intendere, fermare o mutare la storia su la punta di una definizione, o con l’arma di un sillogismo. I comunisti critici riconobbero il diritto della storia di fare il suo cammino. La fase borghese è superabile, sì, e sarà superata. Ma, finché dura, ha le sue leggi. La relatività di queste sta nel fatto, che esse si formarono e si svilupparono in determinate condizioni; ma relatività non vuol dire semplice opposto di necessità, ossia fugacità, mera apparenza, o anzi bolla di sapone. Possono sparire e spariranno, per il fatto stesso del mutarsi della società. Ma non cedono all’arbitrio soggettivo, che annunci una correzione, proclami una riforma, o formuli un progetto. Il comunismo sta dalla parte del proletariato, perché in questo solo consiste la forza rivoluzionaria, che rompe, infrange, sommuove e dissolve la presente forma sociale, e pone dentro di questa via via nuove

condizioni; anzi, per essere più esatti, col fatto stesso del suo moto dimostra, che le condizioni nuove vi si creano, e fissano, e svolgono fin da ora di già. La teoria della lotta di classe era trovata. Si conosceva da due capi: nelle origini della borghesia, il cui processo intrinseco era già reso chiaro dalla scienza dell’Economia; e in questa apparizione del nuovo proletariato, condizione ed effetto al tempo stesso della nuova forma di produzione. La relatività delle leggi economiche era scoverta; ma al tempo stesso era riconfermata la loro relativa necessità. E in ciò è tutto il metodo e la ragione della nuova concezione materialistica della storia. Errano quelli che, chiamandola interpretazione economica della storia, credono di intendere e di fare intender tutto. Quest’altra designazione qui si conviene meglio a certi tentativi analiticia, che, pigliando a parte, di qua i dati delle forme e categorie economiche, e di là p. es. il diritto, la legislazione, la politica, il costume, studiano poi i vicendevoli influssi dei varii lati della vita così astrattamente e così soggettivamente distinti. Tutt’altro è il fatto nostro. Qui siamo nella concezione organica della storia. Qui è la totalità e la unità della vita sociale che si ha innanzi alla mente. Qui è la economia stessa (intendo dire dell’ordinamento di fatto e non della scienza intorno ad esso) che vien risoluta nel flusso di un processo, per apparir poi in tanti stadii morfologici, in ciascun dei quali fa da relativa sostruzione del resto, che le è corrispettivo e congruo. Non si tratta, in somma, di estendere il cosiddetto fattore economico, astrattamente isolato, a tutto il resto, come favoleggiano gli obiettatori; ma si tratta invece e innanzi tutto di concepire storicamente la economia, e di spiegare il resto delle mutazioni storiche per le mutazioni sue. E in ciò è la risposta a tutte le critiche, che si levano da tutti i campi della dotta ignoranza, o della ignoranza male addottrinata, non escluso quello di quei socialisti, che siano immaturi, o sentimentali, o isterici. E in tale risposta è anche chiarito, perché Marx scrivesse, nel Capitale, non il primo libro del comunismo critico, ma l’ultimo grande libro intorno alla economia borghese. Il Manifesto fu scritto quando la orientazione storica non andava ancora più in là del mondo classico, delle antichità germaniche appena dichiarate, e della tradizione biblica da poco tempo cominciata a ridurre alle condizioni prosaiche di ogni altra storia profana. Altra è ora la orientazione nostra, perché si risale alla preistoria ariana, e alle antichissime formazioni dell’Egitto, e a quelle della Mesopotamia, che precedono ogni ricordo di tradizioni semitiche. E poi si risale più indietro, nella linea della così detta preistoria, ossia della storia non scritta. La geniale esplorazione e combinazione del Morgan ci ha dato l’intima conoscenza della società antica ossia prepolitica, e la chiave per intendere come da quella sian poi sorte le formazioni posteriori, che hanno i loro indici nella monogamia, nello sviluppo della famiglia paterna, nell’apparire della proprietà,

dapprima gentilizia, poscia familiare e infine individuale, e nel successivo fissarsi delle alleanze delle genti, nelle quali poi si origina lo stato59. E tutto ciò è illustrato, così dalla conoscenza del processo della tecnica nella scoverta e nell’uso dei mezzi ed istrumenti del lavoro, come dall’intendimento dell’azione che quel processo esercitò sul complesso sociale, spingendolo su certe vie, e facendogli percorrere certi stadii. Tali scoverte e combinazioni sono ancora capaci di molte correzioni, specie per la varia maniera specifica come può essersi avverato in diverse parti del mondo il passaggio dalla barbarie alla civiltà. Sta però ora indiscutibile il fatto: che noi abbiamo già chiare sott’occhi le generali tracce embriogenetiche dello sviluppo umano, dal comunismo primitivo a quelle complesse formazioni, che, come p. es. lo stato di Atene o di Roma con costituzione di cittadini per classi di censo, rappresentavano fino a poco fa nella tradizione scritta le colonne d’Ercole della ricerca. Le classi, che il Manifesto presupponeva, furono oramai risolute nel loro processo di formazione; e già in questo si riconosce lo schema generale di ragioni e cause economiche peculiari e proprie, ossia così fatte, che non ripetono le categorie della scienza economica di questa nostra epoca borghese. Il sogno di Fourier, d’inquadrare l’epoca dei civilizzati nella serie di un lungo e vasto processo, s’è avverato. Fu scientificamente risoluto il problema della origine della disuguaglianza fra gli uomini, che Gian Giacomo avea tentato con argomenti di geniale dialettica, e con pochi dati di fatto. In due punti, per noi estremi, ci è chiaro il processo umano. Nelle origini della borghesia, tanto recenti e tanto illustrate dalla scienza dell’Economia; e nella antica formazione della società a classi, nel passaggio dalla barbarie superiore alla civiltà (ossia all’epoca dello stato), secondo le denominazioni del Morgan. Ciò che sta di mezzo è quello che finora trattarono cronisti e storici propriamente detti, e poi giuristi, teologi e filosofi. Pervadere ed investire tutto cotesto campo di conoscenze con la nuova concezione storica, non è cosa facile. Né conviene darsi fretta, schematizzando. Innanzi tutto conviene di fissare per quanto è possibile la relativa economica di ciascuna epoca a, per ispiegarsi specificamente le classi che in quella si svilupparono; non astraendo da dati ipotetici od incerti, e non generalizzando le nostre condizioni per estenderle a quelle di ogni tempo. A ciò occorrono falangi di addottrinati. Così, ad esempio, è unilaterale ciò che nel Manifesto è detto su la primissima origine della borghesia, come nata dai servi del Medio-Evo, via via incorporati nelle città. Quel modo d’origine fu proprio della Germania, e di altri paesi che ne riproducono il processo. Non risponde al caso dell’Italia, della Francia meridionale e della Spagna, che furon poi i paesi nei quali cominciò appunto la prima storia della borghesia, ossia della

civiltà moderna. In questa prima fase sono le premesse di tutta la società capitalistica, come Marx avvertì in una nota al primo volume del Capitalea. Questa prima fase, che raggiunse la sua forma perfetta nei Comuni Italiani, è la preistoria di quella accumulazione capitalistica, che Marx studiò con tanta evidenza di particolari nella serie chiara e compiuta della evoluzione dell’Inghilterra. Ma di ciò basta. I proletarii non possono mirare che all’avvenire. Ai socialisti scientifici preme innanzi tutto il presente, come quello in cui spontaneamente si sviluppano e maturano le condizioni dell’avvenire. La conoscenza del passato giova ed interessa praticamente, solo in quanto essa può dar luce e orientazione critica a spiegarsi il presente. Per ora basta che i comunisti critici, già cinquant’anni fa, abbiano escogitato e ritrovato gli elementi primissimi della nuova e definitiva filosofia della storia. A breve andare tale intendimento s’imporrà per la provata impossibilità di pensare il contrario: e la scoverta parrà l’uovo di Colombo. E forse prima che una schiera di dotti usi ed applichi tale concezione estesamente, plasmandola, cioè, nel racconto continuativo di tutta la storia, i successi del proletariato saranno tali, che l’epoca borghese parrà a tutti superabile, perché prossima ad essere superata. Intendere è superare (Hegel). Quando il Manifesto, già cinquanta anni fa, elevava i proletarii, da compatiti miseri, a predestinati sotterratori della borghesia, alla immaginazione degli scrittori di esso, che mal dissimulavano l’idealismo della loro intellettuale passione nella gravità dello stile, assai angusto doveva apparire il perimetro del presagito cimitero. Il perimetro probabile, per figura di fantasia, non abbracciava allora se non la Francia e l’Inghilterra, e avrebbe appena lambito gli estremi confini di altri paesi, come ad esempio della Germania. Ora cotesto perimetro ci appare immenso, per l’estendersi rapido e colossale della forma della produzione borghese, che allarga, generalizza e moltiplica, per contraccolpo, il movimento del proletariato, e fa vastissima la scena su la quale spazia l’aspettativa del comunismo. Il cimitero s’ingrandisce a perdita di vista. Più forze di produzione il mago va evocando, e più forze di ribellione contro di sé esso suscita e prepara. A quanti furono comunisti ideologici, religiosi ed utopistici, o a dirittura profetici od apocalittici, parve sempre in passato, che il regno della giustizia, della eguaglianza e della felicità dovesse avere per teatro il mondo intero. Per ora la conquista del mondo la fa l’epoca dei civilizzati; cioè la società, che si regge su le antitesi delle classi, e su la dominazione di classe, nella forma della produzione borghese (il Giappone insegni!). La coesistenza delle due nazioni in uno e medesimo stato, che fu già precisata dal divino Platone, si perpetua. L’acquisizione della Terra al comunismo non è cosa del domani. Ma più larghi si

fanno i confini del mondo borghese, più popoli vi entrano, abbandonando e sorpassando le forme inferiori di produzione, ed ecco che più precise e sicure divengono le aspettazioni del comunismo: soprattutto perché decrescono, nel campo e nella gara della concorrenza, i deviatori della conquista e della colonizzazione. La Internazionale dei Proletarii, che era appena embrionale nella Lega dei Comunisti di cinquanta anni fa, diventata oramai interoceanica, dice ed afferma intuitivamente ogni primo di Maggio, che i proletarii di tutto il mondo sono realmente e operosamente uniti. I prossimi o futuri sotterratori della borghesia, e i loro nipoti e pronipoti, ricorderanno in perpetuo la data del Manifesto dei Comunisti. Roma, 7 Aprile 1895 a

Questo mio scritto non è un rifacimento del Manifesto, come se volessi adattarlo alle presenti condizioni; né io ne do qui l’analisi o il commento. Scrivo, come dice il titolo, soltanto in memoria2. a Intendo dire di quella che ironicamente è chiamata nel Manifesto: del socialismo vero, ossia tedesco. Quel paragrafo, che è inintelligibile a chi non sia pratico della filosofia tedesca di allora, specie in certe sue forme di acuta degenerazione, fu opportunamente omesso nella traduzione spagnola. a Da parecchi anni – e sono già otto – nei corsi universitarii che intitolo, o genesi del socialismo moderno, o storia generale del socialismo, o della interpretazione materialistica della storia, ho avuto agio e tempo d’impossessarmi di tale letteratura, e di ridurla ad una certa evidenza prospettica e sistematica. Cosa per sé stessa difficile, ma soprattutto in Italia, dove non è tradizione di scuole socialistiche, e dove la vita del partito è così nuova, da non dare per sé esempio istruttivo di formazione e di processo. Ma questo saggio non è la riproduzione di alcuna delle mie lezioni. Le lezioni non sono i libri che servono a farle; né, pubblicando delle lezioni, si fanno per davvero dei libri, nel senso esplicito e pieno della parola. a Bisogna insistere sulla espressione di democratica socializzazione dei mezzi di produzione, perché l’altra di proprietà collettiva, oltre a contenere un certo errore teoretico in quanto che scambia l’esponente giuridico col fatto reale economico, nella mente poi di molti si confonde con l’incremento dei monopolii, con la crescente statificazione dei servizii pubblici, e con tutte le altre fantasmagorie del sempre rinascente socialismo di stato, il cui segreto è di aumentare in mano alla classe degli oppressori i mezzi economici della oppressione. a Pagine 23 in 8° nella edizione originale, London, Febbraio 1848, che io devo alla impareggiabile cortesia dell’Engels. Dico qui di passaggio, che ho vinto la tentazione di aggiungere a questo scritto delle note bibliografiche, o di letteratura, o di rinvio, o di citazioni, perché, a mettermi su cotesta via, ne sarebbe uscito un saggio di erudizione, o a dirittura un libro, anziché un opuscolo. Ma il lettore vorrà credermi in parola, che non v’è allusione, accenno, o sottinteso in queste pagine, che non si riferisca a fonti e fatti, attinenti al soggetto, e anzi alla totalità delle fonti e dei fatti. a Gli Umrisse zu einer Kritik der Nationaloekonomie apparvero nei «Deutsch-Französische Jahrbücher», Paris, 1844, a pagina 86-114; e il libro col titolo: Die Lage der arbeitenden Klasse in England apparve in prima edizione a Lipsia nel 18454. a Fiorirono in questi ultimi anni molti giuristi, i quali cercarono nelle correzioni al Codice Civile i mezzi pratici per elevare la condizione del proletariato. Ma perché non chiedono al papa che si faccia capo della lega dei liberi pensatori? – Ameno più degli altri è il caso di quello scrittore italiano, che, occupatosi di

recente della lotta di classe, chiede che, accanto al codice che garentisce i diritti del capitale, ne sorga un altro a garenzia dei diritti del lavoro!14 a Tale sviluppo è il Capitale di MARX, che io non mi perito di chiamare per tale rispetto una filosofia della storia. a Non sono alieno dal riconoscere con Anton Menger, che Saint-Simon non fu veramente utopista, come furono in forma spiccata, tipica e classica, Fourier e Owen16. a Devo al Partei-Archiv di Berlino d’aver avuto per dei mesi a mia disposizione un esemplare completo dell’irreperibile giornale. b Misère de la philosophie par KARL MARX, Paris et Bruxelles, 1847. l

Dico opuscolo, riferendomi alla forma in cui fu ridotto lo scritto, a scopo di propaganda, nel 1884. In origine furono articoli della «Neue Rheinische Zeitung», Aprile del 1849, che riproducevano delle conferenze tenute al «Circolo operaio tedesco di Bruxelles» nel 184724. a Capitolo secondo del Manifesto. b

Zur Kritik der politischen Oekonomie, Berlin, 1859, pagg. IV-VI della prefazione. Quegli articoli apparsi nella «Neue Rheinische Zeitung, Politisch-ökonomische Revue», Hamburg

a

1850, furono di recente riprodotti dall’ENGELS (Berlin 1895) in opuscolo preceduto da una sua prefazione. Il titolo dell’opuscolo è precisamente: Le lotte di classe in Francia nel 1848-50. a

Questo scritto di MARX apparve a New-York nel 1852 in una rivista. Fu riprodotto poscia più volte in

Germania. Ora può leggersi anche in francese: Lille, 1891, ed. Delory33. a Engels tratta a fondo nella prefazione al citato opuscolo, e altrove, dello sviluppo obiettivo della nuova tattica rivoluzionaria36. r Malon38 dava a questa parola un altro significato: avvertenza al lettore! E poi, del resto: ne sutor ultra crepidam39. a La storia delle Trades-Unions insegni; tanto più in quanto oscura agli occhi di molti la necessaria evoluzione del socialismo. a Nello scrivere la prima volta queste parole intendevo di alludere ai socialisti francesi principalmente. Ma la recente discussione del programma agrario proposto alla democrazia sociale di Germania conferma le origini di fato delle difficoltà da me indicate. (Nota alla 2a edizione)42. a Diverso fu il caso della Germania. Ivi, di dopo il 1830, il socialismo venuto di fuori si diffuse come corrente letteraria, e subì le alterazioni filosofiche di cui Grün fu il rappresentante tipico. Ma già prima che apparisse la nuova dottrina, il socialismo proletario avea raggiunto nella persona, nella propaganda e negli scritti del Weitling una forma di notevole e caratteristica originalità. Come Marx diceva nel «Vorwärts» (Parigi) del 1844, era quello il gigante in culla45. b Ciò molti chiamano Marxismo. Il Marxismo è, e rimane dottrina. Né da una dottrina piglian sostanza e nome i partiti. «Moi je ne suis pas Marxiste» diceva – indovinate – proprio Marx in persona!46 c Questi stabilì pel primo i rapporti tra la Lega e Marx, e trattò per la redazione del Manifesto. Morì poi nella insurrezione del 1849 allo scontro del Murg. a Nella prefazione al terzo volume del Capitale di MARX, Hamburg, 1894, pp. XIX-XX. La data del 1845 si riferisce principalmente al libro: Die heilige Familie, Frankfurt, 1845, che scrissero in collaborazione MARX ed ENGELS. Quel libro occorre innanzi tutto di leggere, se si vuole intendere la originazione teorica del materialismo storico49. a Mi fermo a questo nome, perché Cabet fu contemporaneo appunto del Manifesto. O dovrei forse

scendere alle forme sportive di Bellamy e di Hertzka?52 a

Come è, per es., il caso di Mably rispetto a Mercier de la Rivière, compendiatore del Fisiocratismo; per

tacere di Godwin, Hall e di altri54. a Son quelli che parve anni fa ad Anton Menger li avesse scoverti lui, come autori del socialismo scientifico, e come autori poi plagiati!56 a Perciò i critici alla Wieser e simili propongono di abbandonare la teoria del valore di Ricardo, perché quella mena al socialismo!57 b Nasceva allora, specie in Prussia, la illusione di un monarcato sociale, che passando sopra all’epoca liberale, armonicamente risolvesse la così detta questione sociale. Questa fisima si riprodusse poi in seguito in infinite varietà di socialismo cattedratico, e di stato. Alle varie forme di utopismo ideologico e religioso se n’è aggiunta così una nuova: l’utopia burocratica e fiscale; ossia l’utopia dei cretini. a P. es. Rogers58. a

Chi avrebbe pensato pochi anni fa alla scoverta ed all’autentica interpretazione di un antico diritto

babilonese?60 a Nota 189 a pag. 682 della quarta ed. tedesca. Corrisponde a pag. 315 della trad. francese61

APPENDICE a In memoria del Manifesto dei Comunisti

MANIFEST DER KOMMUNISTISCHEN PARTEI Ein Gespenst geht um in Europa – das Gespenst des Kommunismus. Alle Mächte des alten Europa haben sich zu einer heiligen Hetzjagd gegen dies Gespenst verbündet, der Papst und der Zar, Metternich und Guizot, französische Radikale und deutsche Polizisten. Wo ist die Oppositionspartei, die nicht von ihren regierenden Gegnern als kommunistisch verschrien worden wäre, wo die Oppositionspartei, die den fortgeschritteneren Oppositionsleuten sowohl wie ihren reaktionären Gegnern den brandmarkenden Vorwurf des Kommunismus nicht zurückgeschleudert hätte? Zweierlei geht aus dieser Tatsache hervor. Der Kommunismus wird bereits von allen europäischen Mächten als eine Macht anerkannt. Es ist hohe Zeit, daß die Kommunisten ihre Anschauungsweise, ihre Zwecke, ihre Tendenzen vor der ganzen Welt offen darlegen und dem Märchen vom Gespenst des Kommunismus ein Manifest der Partei selbst entgegenstellen. Zu diesem Zweck haben sich Kommunisten der verschiedensten Nationalität in London versammelt und das folgende Manifest entworfen, das in englischer, französischer, deutscher, italienischer, flämischer und dänischer Sprache veröffentlicht wird.

I BOURGEOIS UND PROLETARIER

Die Geschichte aller bisherigen Gesellschaft ist die Geschichte von Klassenkämpfen. Freier und Sklave, Patrizier und Plebejer, Baron und Leibeigener, Zunftbürger und Gesell, kurz, Unterdrücker und Unterdrückte standen in stetem Gegensatz zueinander, führten einen ununterbrochenen, bald versteckten, bald offenen Kampf, einen Kampf, der jedesmal mit einer revolutionären Umgestaltung der ganzen Gesellschaft endete oder mit dem gemeinsamen Untergang der kämpfenden Klassen. In den früheren Epochen der Geschichte finden wir fast überall eine vollständige Gliederung der Gesellschaft in verschiedene Stände, eine mannigfaltige Abstufung der gesellschaftlichen Stellungen. Im alten Rom haben wir Patrizier, Ritter, Plebejer, Sklaven; im Mittelalter Feudalherren, Vasallen, Zunftbürger, Gesellen, Leibeigene, und noch dazu in fast jeder dieser Klassen besondere Abstufungen. Die aus dem Untergang der feudalen Gesellschaft hervorgegangene moderne bürgerliche Gesellschaft hat die Klassengegensätze nicht aufgehoben. Sie hat nur neue Klassen, neue Bedingungen der Unterdrückung, neue Gestaltungen des Kampfes an die Stelle der alten gesetzt. Unsere Epoche, die Epoche der Bourgeoisie, zeichnet sich jedoch dadurch aus, daß sie die Klassengegensätze vereinfacht hat. Die ganze Gesellschaft spaltet sich mehr und mehr in zwei große feindliche Lager, in zwei große, einander direkt gegenüberstehende Klassen: Bourgeoisie und Proletariat. Aus den Leibeigenen des Mittelalters gingen die Pfahlbürger der ersten Städte hervor; aus dieser Pfahlbürgerschaft entwickelten sich die ersten Elemente der Bourgeoisie. Die Entdeckung Amerikas, die Umschiffung Afrikas schufen der aufkommenden Bourgeoisie ein neues Terrain. Der ostindische und chinesische Markt, die Kolonisierung von Amerika, der Austausch mit den Kolonien, die Vermehrung der Tauschmittel und der Waren überhaupt gaben dem Handel, der Schiffahrt, der Industrie einen nie gekannten Aufschwung und damit dem revolutionären Element in der zerfallenden feudalen Gesellschaft eine rasche Entwicklung. Die bisherige feudale oder zünftige Betriebsweise der Industrie reichte nicht mehr aus für den mit neuen Märkten anwachsenden Bedarf. Die Manufaktur trat an ihre Stelle. Die Zunftmeister wurden verdrängt durch den industriellen

Mittelstand; die Teilung der Arbeit zwischen den verschiedenen Korporationen verschwand vor der Teilung der Arbeit in der einzelnen Werkstatt selbst. Aber immer wuchsen die Märkte, immer stieg der Bedarf. Auch die Manufaktur reichte nicht mehr aus. Da revolutionierte der Dampf und die Maschinerie die industrielle Produktion. An die Stelle der Manufaktur trat die moderne große Industrie, an die Stelle des industriellen Mittelstandes traten die industriellen Millionäre, die Chefs ganzer industrieller Armeen, die modernen Bourgeois. Die große Industrie hat den Weltmarkt hergestellt, den die Entdeckung Amerikas vorbereitete. Der Weltmarkt hat dem Handel, der Schiffahrt, den Landkommunikationen eine unermeßliche Entwicklung gegeben. Diese hat wieder auf die Ausdehnung der Industrie zurückgewirkt, und in demselben Maße, worin Industrie, Handel, Schiffahrt, Eisenbahnen sich ausdehnten, in demselben Maße entwickelte sich die Bourgeoisie, vermehrte sie ihre Kapitalien, drängte sie alle vom Mittelalter her überlieferten Klassen in den Hintergrund. Wir sehen also, wie die moderne Bourgeoisie selbst das Produkt eines langen Entwicklungsganges, einer Reihe von Umwälzungen in der Produktions-und Verkehrsweise ist. Jede dieser Entwicklungsstufen der Bourgeoisie war begleitet von einem entsprechenden politischen Fortschritt. Unterdrückter Stand unter der Herrschaft der Feudalherren, bewaffnete und sich selbst verwaltende Assoziation in der Kommune, hier unabhängige städtische Republik, dort dritter steuerpflichtiger Stand der Monarchie, dann zur Zeit der Manufaktur Gegengewicht gegen den Adel in der ständischen oder in der absoluten Monarchie, Hauptgrundlage der großen Monarchien überhaupt, erkämpfte sie sich endlich seit der Herstellung der großen Industrie und des Weltmarktes im modernen Repräsentativstaat die ausschließliche politische Herrschaft. Die moderne Staatsgewalt ist nur ein Ausschuß, der die gemeinschaftlichen Geschäfte der ganzen Bourgeoisklasse verwaltet. Die Bourgeoisie hat in der Geschichte eine höchst revolutionäre Rolle gespielt. Die Bourgeoisie, wo sie zur Herrschaft gekommen, hat alle feudalen, patriarchalischen, idyllischen Verhältnisse zerstört. Sie hat die buntscheckigen Feudalbande, die den Menschen an seinen natürlichen Vorgesetzten knüpften, unbarmherzig zerrissen und kein anderes Band zwischen Mensch und Mensch übriggelassen als das nackte Interesse, als die gefühllose «bare Zahlung». Sie hat die heiligen Schauer der frommen Schwärmerei, der ritterlichen Begeisterung, der spießbürgerlichen Wehmut in dem eiskalten Wasser egoistischer Berechnung ertränkt. Sie hat die persönliche Würde in den Tauschwert aufgelöst und an die

Stelle der zahllosen verbrieften und wohlerworbenen Freiheiten die eine gewissenlose Handelsfreiheit gesetzt. Sie hat, mit einem Wort, an die Stelle der mit religiösen und politischen Illusionen verhüllten Ausbeutung die offene, unverschämte, direkte, dürre Ausbeutung gesetzt. Die Bourgeoisie hat alle bisher ehrwürdigen und mit frommer Scheu betrachteten Tätigkeiten ihres Heiligenscheins entkleidet. Sie hat den Arzt, den Juristen, den Pfaffen, den Poeten, den Mann der Wissenschaft in ihre bezahlten Lohnarbeiter verwandelt. Die Bourgeoisie hat dem Familienverhältnis seinen rührend-sentimentalen Schleier abgerissen und es auf ein reines Geldverhältnis zurückgeführt. Die Bourgeoisie hat enthüllt, wie die brutale Kraftäußerung, die die Reaktion so sehr am Mittelalter bewundert, in der trägsten BärenTätigkeit der Menschen zustande bringen kann. Sie hat ganz andere Wunderwerke vollbracht als ägyptis häuterei ihre passende Ergänzung fand. Erst sie hat bewiesen, was die che Pyramiden, römische Wasserleitungen und gotische Kathedralen, sie hat ganz andere Züge ausgeführt als Völkerwanderungen und Kreuzzüge. Die Bourgeoisie kann nicht existieren, ohne die Produktionsinstrumente, also die Produktionsverhältnisse, also sämtliche gesellschaftlichen Verhältnisse fortwährend zu revolutionieren. Unveränderte Beibehaltung der alten Produktionsweise war dagegen die erste Existenzbedingung aller früheren industriellen Klassen. Die fortwährende Umwälzung der Produktion, die ununterbrochene Erschütterung aller gesellschaftlichen Zustände, die ewige Unsicherheit und Bewegung zeichnet die Bourgeoisepoche vor allen anderen aus. Alle festen eingerosteten Verhältnisse mit ihrem Gefolge von altehrwürdigen Vorstellungen und Anschauungen werden aufgelöst, alle neugebildeten veralten, ehe sie verknöchern können. Alles Ständische und Stehende verdampft, alles Heilige wird entweiht, und die Menschen sind endlich gezwungen, ihre Lebensstellung, ihre gegenseitigen Beziehungen mit nüchternen Augen anzusehen. Das Bedürfnis nach einem stets ausgedehnteren Absatz für ihre Produkte jagt die Bourgeoisie über die ganze Erdkugel. Überall muß sie sich einnisten, überall anbauen, überall Verbindungen herstellen. Die Bourgeoisie hat durch ihre Exploitation des Weltmarkts die Produktion und Konsumption aller Länder kosmopolitisch gestaltet. Sie hat zum großen Bedauern der Reaktionäre den nationalen Boden der Industrie unter den Füßen weggezogen. Die uralten nationalen Industrien sind vernichtet worden und werden noch täglich vernichtet. Sie werden verdrängt durch neue Industrien, deren Einführung eine Lebensfrage für alle zivilisierten Nationen wird, durch Industrien, die nicht mehr einheimische Rohstoffe, sondern den entlegensten

Zonen angehörige Rohstoffe verarbeiten und deren Fabrikate nicht nur im Lande selbst, sondern in allen Weltteilen zugleich verbraucht werden. An die Stelle der alten, durch Landeserzeugnisse befriedigten Bedürfnisse treten neue, welche die Produkte der entferntesten Länder und Klimate zu ihrer Befriedigung erheischen. An die Stelle der alten lokalen und nationalen Selbstgenügsamkeit und Abgeschlossenheit tritt ein allseitiger Verkehr, eine allseitige Abhängigkeit der Nationen voneinander. Und wie in der materiellen, so auch in der geistigen Produktion. Die geistigen Erzeugnisse der einzelnen Nationen werden Gemeingut. Die nationale Einseitigkeit und Beschränktheit wird mehr und mehr unmöglich, und aus den vielen nationalen und lokalen Literaturen bildet sich eine Weltliteratur. Die Bourgeoisie reißt durch die rasche Verbesserung aller Produktionsinstrumente, durch die unendlich erleichterte Kommunikation alle, auch die barbarischsten Nationen in die Zivilisation. Die wohlfeilen Preise ihrer Waren sind die schwere Artillerie, mit der sie alle chinesischen Mauern in den Grund schießt, mit der sie den hartnäckigsten Fremdenhaß der Barbaren zur Kapitulation zwingt. Sie zwingt alle Nationen, die Produktionsweise der Bourgeoisie sich anzueignen, wenn sie nicht zugrunde gehen wollen; sie zwingt sie, die sogenannte Zivilisation bei sich selbst einzuführen, d.h. Bourgeois zu werden. Mit einem Wort, sie schafft sich eine Welt nach ihrem eigenen Bilde. Die Bourgeoisie hat das Land der Herrschaft der Stadt unterworfen. Sie hat enorme Städte geschaffen, sie hat die Zahl der städtischen Bevölkerung gegenüber der ländlichen in hohem Grade vermehrt und so einen bedeutenden Teil der Bevölkerung dem Idiotismus des Landlebens entrissen. Wie sie das Land von der Stadt, hat sie die barbarischen und halbbarbarischen Länder von den zivilisierten, die Bauernvölker von den Bourgeoisvölkern, den Orient vom Okzident abhängig gemacht. Die Bourgeoisie hebt mehr und mehr die Zersplitterung der Produktionsmittel, des Besitzes und der Bevölkerung auf. Sie hat die Bevölkerung agglomeriert, die Produktionsmittel zentralisiert und das Eigentum in wenigen Händen konzentriert. Die notwendige Folge hiervon war die politische Zentralisation. Unabhängige, fast nur verbündete Provinzen mit verschiedenen Interessen, Gesetzen, Regierungen und Zöllen wurden zusammengedrängt in eine Nation, eine Regierung, ein Gesetz, ein nationales Klasseninteresse, eine Douanenlinie. Die Bourgeoisie hat in ihrer kaum hundertjährigen Klassenherrschaft massenhaftere und kolossalere Produktionskräfte geschaffen als alle vergangenen Generationen zusammen. Unterjochung der Naturkräfte, Maschinerie, Anwendung der Chemie auf Industrie und Ackerbau, Dampfschiffahrt, Eisenbahnen, elektrische Telegraphen, Urbarmachung ganzer

Weltteile, Schiffbarmachung der Flüsse, ganze aus dem Boden hervorgestampfte Bevölkerungen – welches frühere Jahrhundert ahnte, daß solche Produktionskräfte im Schoß der gesellschaftlichen Arbeit schlummerten. Wir haben also gesehen: Die Produktions-und Verkehrsmittel, auf deren Grundlage sich die Bourgeoisie heranbildete, wurden in der feudalen Gesellschaft erzeugt. Auf einer gewissen Stufe der Entwicklung dieser Produktions-und Verkehrsmittel entsprachen die Verhältnisse, worin die feudale Gesellschaft produzierte und austauschte, die feudale Organisation der Agrikultur und Manufaktur, mit einem Wort die feudalen Eigentumsverhältnisse den schon entwickelten Produktivkräften nicht mehr. Sie hemmten die Produktion, statt sie zu fördern. Sie verwandelten sich in ebensoviele Fesseln. Sie mußten gesprengt werden, sie wurden gesprengt. An ihre Stelle trat die freie Konkurrenz mit der ihr angemessenen gesellschaftlichen und politischen Konstitution, mit der ökonomischen und politischen Herrschaft der Bourgeoisklasse. Unter unsern Augen geht eine ähnliche Bewegung vor. Die bürgerlichen Produktions-und Verkehrsverhältnisse, die bürgerlichen Eigentumsverhältnisse, die moderne bürgerliche Gesellschaft, die so gewaltige Produktions-und Verkehrsmittel hervorgezaubert hat, gleicht dem Hexenmeister, der die unterirdischen Gewalten nicht mehr zu beherrschen vermag, die er heraufbeschwor. Seit Dezennien ist die Geschichte der Industrie und des Handels nur die Geschichte der Empörung der modernen Produktivkräfte gegen die modernen Produktionsverhältnisse, gegen die Eigentumsverhältnisse, welche die Lebensbedingungen der Bourgeoisie und ihrer Herrschaft sind. Es genügt, die Handelskrisen zu nennen, welche in ihrer periodischen Wiederkehr immer drohender die Existenz der ganzen bürgerlichen Gesellschaft in Frage stellen. In den Handelskrisen wird ein großer Teil nicht nur der erzeugten Produkte, sondern der bereits geschaffenen Produktivkräfte regelmäßig vernichtet. In den Krisen bricht eine gesellschaftliche Epidemie aus, welche allen früheren Epochen als ein Widersinn erschienen wäre – die Epidemie der Überproduktion. Die Gesellschaft findet sich plötzlich in einen Zustand momentaner Barbarei zurückversetzt; eine Hungersnot, ein allgemeiner Vernichtungskrieg scheinen ihr alle Lebensmittel abgeschnitten zu haben; die Industrie, der Handel scheinen vernichtet, und warum? Weil sie zuviel Zivilisation, zuviel Lebensmittel, zuviel Industrie, zuviel Handel besitzt. Die Produktivkräfte, die ihr zur Verfügung stehen, dienen nicht mehr zur Beförderung der bürgerlichen Eigentumsverhältnisse; im Gegenteil, sie sind zu gewaltig für diese Verhältnisse geworden, sie werden von ihnen gehemmt; und sobald sie dies Hemmnis überwinden, bringen sie die ganze bürgerliche Gesellschaft in Unordnung,

gefährden sie die Existenz des bürgerlichen Eigentums. Die bürgerlichen Verhältnisse sind zu eng geworden, um den von ihnen erzeugten Reichtum zu fassen. – Wodurch überwindet die Bourgeoisie die Krisen? Einerseits durch die erzwungene Vernichtung einer Masse von Produktivkräften; anderseits durch die Eroberung neuer Märkte und die gründlichere Ausbeutung alter Märkte. Wodurch also? Dadurch, daß sie allseitigere und gewaltigere Krisen vorbereitet und die Mittel, den Krisen vorzubeugen, vermindert. Die Waffen, womit die Bourgeoisie den Feudalismus zu Boden geschlagen hat, richten sich jetzt gegen die Bourgeoisie selbst. Aber die Bourgeoisie hat nicht nur die Waffen geschmiedet, die ihr den Tod bringen; sie hat auch die Männer gezeugt, die diese Waffen führen werden – die modernen Arbeiter, die Proletarier. In demselben Maße, worin sich die Bourgeoisie, d.h. das Kapital, entwickelt, in demselben Maße entwickelt sich das Proletariat, die Klasse der modernen Arbeiter, die nur so lange leben, als sie Arbeit finden, und die nur so lange Arbeit finden, als ihre Arbeit das Kapital vermehrt. Diese Arbeiter, die sich stückweis verkaufen müssen, sind eine Ware wie jeder andere Handelsartikel und daher gleichmäßig allen Wechselfällen der Konkurrenz, allen Schwankungen des Marktes ausgesetzt. Die Arbeit der Proletarier hat durch die Ausdehnung der Maschinerie und die Teilung der Arbeit allen selbständigen Charakter und damit allen Reiz für die Arbeiter verloren. Er wird ein bloßes Zubehör der Maschine, von dem nur der einfachste, eintönigste, am leichtesten erlernbare Handgriff verlangt wird. Die Kosten, die der Arbeiter verursacht, beschränken sich daher fast nur auf die Lebensmittel, die er zu seinem Unterhalt und zur Fortpflanzung seiner Race bedarf. Der Preis einer Ware, also auch der Arbeit, ist aber gleich ihren Produktionskosten. In demselben Maße, in dem die Widerwärtigkeit der Arbeit wächst, nimmt daher der Lohn ab. Noch mehr, in demselben Maße, wie Maschinerie und Teilung der Arbeit zunehmen, in demselben Maße nimmt auch die Masse der Arbeit zu, sei es durch Vermehrung der Arbeitsstunden, sei es durch Vermehrung der in einer gegebenen Zeit geforderten Arbeit, beschleunigten Lauf der Maschinen usw. Die moderne Industrie hat die kleine Werkstube des patriarchalischen Meisters in die große Fabrik des industriellen Kapitalisten verwandelt. Arbeitermassen, in der Fabrik zusammengedrängt, werden soldatisch organisiert. Sie werden als gemeine Industriesoldaten unter die Aufsicht einer vollständigen Hierarchie von Unteroffizieren und Offizieren gestellt. Sie sind nicht nur Knechte der Bourgeoisie, des Bourgeoisstaates, sie sind täglich und stündlich geknechtet von der Maschine, von dem Aufseher und vor allem von den einzelnen

fabrizierenden Bourgeois selbst. Diese Despotie ist um so kleinlicher, gehässiger, erbitterter, je offener sie den Erwerb als ihren Zweck proklamiert. Je weniger die Handarbeit Geschicklichkeit und Kraftäußerung erheischt, d.h. je mehr die moderne Industrie sich entwickelt, desto mehr wird die Arbeit der Männer durch die der Weiber verdrängt. Geschlechts-und Altersunterschiede haben keine gesellschaftliche Geltung mehr für die Arbeiterklasse. Es gibt nur noch Arbeitsinstrumente, die je nach Alter und Geschlecht verschiedene Kosten machen. Ist die Ausbeutung des Arbeiters durch den Fabrikanten so weit beendigt, daß er seinen Arbeitslohn bar ausgezahlt erhält, so fallen die anderen Teile der Bourgeoisie über ihn her, der Hausbesitzer, der Krämer, der Pfandleiher usw. Die bisherigen kleinen Mittelstände, die kleinen Industriellen, Kaufleute und Rentiers, die Handwerker und Bauern, alle diese Klassen fallen ins Proletariat hinab, teils dadurch, daß ihr kleines Kapital für den Betrieb der großen Industrie nicht ausreicht und der Konkurrenz mit den größeren Kapitalisten erliegt, teils dadurch, daß ihre Geschicklichkeit von neuen Produktionsweisen entwertet wird. So rekrutiert sich das Proletariat aus allen Klassen der Bevölkerung. Das Proletariat macht verschiedene Entwicklungsstufen durch. Sein Kampf gegen die Bourgeoisie beginnt mit seiner Existenz. Im Anfang kämpfen die einzelnen Arbeiter, dann die Arbeiter einer Fabrik, dann die Arbeiter eines Arbeitszweiges an einem Ort gegen den einzelnen Bourgeois, der sie direkt ausbeutet. Sie richten ihre Angriffe nicht nur gegen die bürgerlichen Produktionsverhältnisse, sie richten sie gegen die Produktionsinstrumente selbst; sie vernichten die fremden konkurrierenden Waren, sie zerschlagen die Maschinen, sie stecken die Fabriken in Brand, die suchen die untergegangene Stellung des mittelalterlichen Arbeiters wiederzuerringen. Auf dieser Stufe bilden die Arbeiter eine über das Land zerstreute und durch die Konkurrenz zersplitterte Masse. Massenhaftes Zusammenhalten der Arbeiter ist noch nicht die Folge ihrer eigenen Vereinigung, sondern die Folge der Vereinigung der Bourgeoisie, die zur Erreichung ihrer eigenen politischen Zwecke das ganze Proletariat in Bewegung setzen muß und es einstweilen noch kann. Auf dieser Stufe bekämpfen die Proletarier also noch nicht ihre Feinde, sondern die Feinde ihrer Feinde, die Reste der absoluten Monarchie, die Grundeigentümer, die nichtindustriellen Bourgeois, die Kleinbürger. Die ganze geschichtliche Bewegung ist so in den Händen der Bourgeoisie konzentriert; jeder Sieg, der so errungen wird, ist ein Sieg der Bourgeoisie. Aber mit der Entwicklung der Industrie vermehrt sich nicht nur das

Proletariat; es wird in größeren Massen zusammengedrängt, seine Kraft wächst, und es fühlt sie immer mehr. Die Interessen, die Lebenslagen innerhalb des Proletariats gleichen sich immer mehr aus, indem die Maschinerie mehr und mehr die Unterschiede der Arbeit verwischt und den Lohn fast überall auf ein gleich niedriges Niveau herabdrückt. Die wachsende Konkurrenz der Bourgeois unter sich und die daraus hervorgehenden Handelskrisen machen den Lohn der Arbeiter immer schwankender; die immer rascher sich entwickelnde, unaufhörliche Verbesserung der Maschinerie macht ihre ganze Lebensstellung immer unsicherer; immer mehr nehmen die Kollisionen zwischen dem einzelnen Arbeiter und dem einzelnen Bourgeois den Charakter von Kollisionen zweier Klassen an. Die Arbeiter beginnen damit, Koalitionen gegen die Bourgeois zu bilden; sie treten zusammen zur Behauptung ihres Arbeitslohns. Sie stiften selbst dauernde Assoziationen, um sich für die gelegentlichen Empörungen zu verproviantieren. Stellenweis bricht der Kampf in Emeuten aus. Von Zeit zu Zeit siegen die Arbeiter, aber nur vorübergehend. Das eigentliche Resultat ihrer Kämpfe ist nicht der unmittelbare Erfolg, sondern die immer weiter um sich greifende Vereinigung der Arbeiter. Sie wird befördert durch die wachsenden Kommunikationsmittel, die von der großen Industrie erzeugt werden und die Arbeiter der verschiedenen Lokalitäten miteinander in Verbindung setzen. Es bedarf aber bloß der Verbindung, um die vielen Lokalkämpfe von überall gleichem Charakter zu einem nationalen, zu einem Klassenkampf zu zentralisieren. Jeder Klassenkampf ist aber ein politischer Kampf. Und die Vereinigung, zu der die Bürger des Mittelalters mit ihren Vizinalwegen Jahrhunderte bedurften, bringen die modernen Proletarier mit den Eisenbahnen in wenigen Jahren zustande. Diese Organisation der Proletarier zur Klasse, und damit zur politischen Partei, wird jeden Augenblick wieder gesprengt durch die Konkurrenz unter den Arbeitern selbst. Aber sie ersteht immer wieder, stärker, fester, mächtiger. Sie erzwingt die Anerkennung einzelner Interesse der Arbeiter in Gesetzesform, indem sie die Spaltungen der Bourgeoisie unter sich benutzt. So die Zehnstundenbill in England. Die Kollisionen der alten Gesellschaft überhaupt fördern mannigfach den Entwicklungsgang des Proletariats. Die Bourgeoisie befindet sich in fortwährendem Kampfe: anfangs gegen die Aristokratie; später gegen die Teile der Bourgeoisie selbst, deren Interessen mit dem Fortschritt der Industrie in Widerspruch geraten; stets gegen die Bourgeoisie aller auswärtigen Länder. In allen diesen Kämpfen sieht sie sich genötigt, an das Proletariat zu appellieren, seine Hülfe in Anspruch zu nehmen und es so in die politische Bewegung hineinzureißen. Sie selbst führt also dem Proletariat ihre eigenen

Bildungselemente, d.h. Waffen gegen sich selbst, zu. Es werden ferner, wie wir sahen, durch den Fortschritt der Industrie ganze Bestandteile der herrschenden Klasse ins Proletariat hinabgeworfen oder wenigstens in ihren Lebensbedingungen bedroht. Auch sie führen dem Proletariat eine Masse Bildungselemente zu. In Zeiten endlich, wo der Klassenkampf sich der Entscheidung nähert, nimmt der Auflösungsprozeß innerhalb der herrschenden Klasse, innerhalb der ganzen alten Gesellschaft, einen so heftigen, so grellen Charakter an, daß ein kleiner Teil der herrschenden Klasse sich von ihr lossagt und sich der revolutionären Klasse anschließt, der Klasse, welche die Zukunft in ihren Händen trägt. Wie daher früher ein Teil des Adels zur Bourgeoisie überging, so geht jetzt ein Teil der Bourgeoisie zum Proletariat über, und namentlich ein Teil dieser Bourgeoisideologen, welche zum theoretischen Verständnis der ganzen geschichtlichen Bewegung sich hinaufgearbeitet haben. Von allen Klassen, welche heutzutage der Bourgeoisie gegenüberstehen, ist nur das Proletariat eine wirklich revolutionäre Klasse. Die übrigen Klassen verkommen und gehen unter mit der großen Industrie, das Proletariat ist ihr eigenstes Produkt. Die Mittelstände, der kleine Industrielle, der kleine Kaufmann, der Handwerker, der Bauer, sie alle bekämpfen die Bourgeoisie, um ihre Existenz als Mittelstände vor dem Untergang zu sichern. Sie sind also nicht revolutionär, sondern konservativ. Noch mehr, sie sind reaktionär, sie suchen das Rad der Geschichte zurückzudrehen. Sind sie revolutionär, so sind sie es im Hinblick auf den ihnen bevorstehenden Übergang ins Proletariat, so verteidigen sie nicht ihre gegenwärtigen, sondern ihre zukünftigen Interessen, so verlassen sie ihren eigenen Standpunkt, um sich auf den des Proletariats zu stellen. Das Lumpenproletariat, diese passive Verfaulung der untersten Schichten der alten Gesellschaft, wird durch eine proletarische Revolution stellenweise in die Bewegung hineingeschleudert, seiner ganzen Lebenslage nach wird es bereitwilliger sein, sich zu reaktionären Umtrieben erkaufen zu lassen. Die Lebensbedingungen der alten Gesellschaft sind schon vernichtet in den Lebensbedingungen des Proletariats. Der Proletarier ist eigentumslos; sein Verhältnis zu Weib und Kindern hat nichts mehr gemein mit dem bürgerlichen Familienverhältnis; die moderne industrielle Arbeit, die moderne Unterjochung unter das Kapital, dieselbe in England wie in Frankreich, in Amerika wie in Deutschland, hat ihm allen nationalen Charakter abgestreift. Die Gesetze, die Moral, die Religion sind für ihn ebenso viele bürgerliche Vorurteile, hinter denen sich ebenso viele bürgerliche Interessen verstecken. Alle früheren Klassen, die sich die Herrschaft eroberten, suchten ihre schon

erworbene Lebensstellung zu sichern, indem sie die ganze Gesellschaft den Bedingungen ihres Erwerbs unterwarfen. Die Proletarier können sich die gesellschaftlichen Produktivkräfte nur erobern, indem sie ihre eigene bisherige Aneignungsweise und damit die ganze bisherige Aneignungsweise abschaffen. Die Proletarier haben nichts von dem Ihrigen zu sichern, sie haben alle bisherigen Privatsicherheiten und Privatversicherungen zu zerstören. Alle bisherigen Bewegungen waren Bewegungen von Minoritäten oder im Interesse von Minoritäten. Die proletarische Bewegung ist die selbständige Bewegung der ungeheuren Mehrzahl im Interesse der ungeheuren Mehrzahl. Das Proletariat, die unterste Schicht der jetzigen Gesellschaft, kann sich nicht erheben, nicht aufrichten, ohne daß der ganze Überbau der Schichten, die die offizielle Gesellschaft bilden, in die Luft gesprengt wird. Obgleich nicht dem Inhalt, ist der Form nach der Kampf des Proletariats gegen die Bourgeoisie zunächst ein nationaler. Das Proletariat eines jeden Landes muß natürlich zuerst mit seiner eigenen Bourgeoisie fertig werden. Indem wir die allgemeinsten Phasen der Entwicklung des Proletariats zeichneten, verfolgten wir den mehr oder minder versteckten Bürgerkrieg innerhalb der bestehenden Gesellschaft bis zu dem Punkt, wo er in eine offene Revolution ausbricht und durch den gewaltsamen Sturz der Bourgeoisie das Proletariat seine Herrschaft begründet. Alle bisherige Gesellschaft beruhte, wie wir gesehen haben, auf dem Gegensatz unterdrückender und unterdrückter Klassen. Um aber eine Klasse unterdrücken zu können, müssen ihr Bedingungen gesichert sein, innerhalb derer sie wenigstens ihre knechtische Existenz fristen kann. Der Leibeigene hat sich zum Mitglied der Kommune in der Leibeigenschaft herangearbeitet wie der Kleinbürger zum Bourgeois unter dem Joch des feudalistischen Absolutismus. Der moderne Arbeiter dagegen, statt sich mit dem Fortschritt der Industrie zu heben, sinkt immer tiefer unter die Bedingungen seiner eigenen Klasse herab. Der Arbeiter wird zum Pauper, und der Pauperismus entwickelt sich noch schneller als Bevölkerung und Reichtum. Es tritt hiermit offen hervor, daß die Bourgeoisie unfähig ist, noch länger die herrschende Klasse der Gesellschaft zu bleiben und die Lebensbedingungen ihrer Klasse der Gesellschaft als regelndes Gesetz aufzuzwingen. Sie ist unfähig zu herrschen, weil sie unfähig ist, ihrem Sklaven die Existenz selbst innerhalb seiner Sklaverei zu sichern, weil sie gezwungen ist, ihn in eine Lage herabsinken zu lassen, wo sie ihn ernähren muß, statt von ihm ernährt zu werden. Die Gesellschaft kann nicht mehr unter ihr leben, d.h., ihr Leben ist nicht mehr verträglich mit der Gesellschaft. Die wesentliche Bedingung für die Existenz und für die Herrschaft der

Bourgeoisklasse ist die Anhäufung des Reichtums in den Händen von Privaten, die Bildung und Vermehrung des Kapitals; die Bedingung des Kapitals ist die Lohnarbeit. Die Lohnarbeit beruht ausschließlich auf der Konkurrenz der Arbeiter unter sich. Der Fortschritt der Industrie, dessen willenloser und widerstandsloser Träger die Bourgeoisie ist, setzt an die Stelle der Isolierung der Arbeiter durch die Konkurrenz ihre revolutionäre Vereinigung durch die Assoziation. Mit der Entwicklung der großen Industrie wird also unter den Füßen der Bourgeoisie die Grundlage selbst hinweggezogen, worauf sie produziert und die Produkte sich aneignet. Sie produziert vor allem ihren eigenen Totengräber. Ihr Untergang und der Sieg des Proletariats sind gleich unvermeidlich.

II PROLETARIER UND KOMMUNISTEN

In welchem Verhältnis stehen die Kommunisten zu den Proletariern überhaupt? Die Kommunisten sind keine besondere Partei gegenüber den andern Arbeiterparteien. Sie haben keine von den Interessen des ganzen Proletariats getrennten Interessen. Sie stellen keine besonderen Prinzipien auf, wonach sie die proletarische Bewegung modeln wollen. Die Kommunisten unterscheiden sich von den übrigen proletarischen Parteien nur dadurch, daß sie einerseits in den verschiedenen nationalen Kämpfen der Proletarier die gemeinsamen, von der Nationalität unabhängigen Interessen des gesamten Proletariats hervorheben und zur Geltung bringen, andrerseits dadurch, daß sie in den verschiedenen Entwicklungsstufen, welche der Kampf zwischen Proletariat und Bourgeoisie durchläuft, stets das Interesse der Gesamtbewegung vertreten. Die Kommunisten sind also praktisch der entschiedenste, immer weitertreibende Teil der Arbeiterparteien aller Länder; sie haben theoretisch vor der übrigen Masse des Proletariats die Einsicht in die Bedingungen, den Gang und die allgemeinen Resultate der proletarischen Bewegung voraus. Der nächste Zweck der Kommunisten ist derselbe wie der aller übrigen proletarischen Parteien: Bildung des Proletariats zur Klasse, Sturz der Bourgeoisherrschaft, Eroberung der politischen Macht durch das Proletariat. Die theoretischen Sätze der Kommunisten beruhen keineswegs auf Ideen, auf Prinzipien, die von diesem oder jenem Weltverbesserer erfunden oder entdeckt sind. Sie sind nur allgemeine Ausdrücke tatsächlicher Verhältnisse eines existierenden Klassenkampfes, einer unter unseren Augen vor sich gehenden geschichtlichen Bewegung. Die Abschaffung bisheriger Eigentumsverhältnisse ist nichts den Kommunismus eigentümlich Bezeichnendes. Alle Eigentumsverhältnisse waren einem beständigen geschichtlichen Wandel, einer beständigen geschichtlichen Veränderung unterworfen. Die Französische Revolution z.B. schaffte das Feudaleigentum zugunsten des bürgerlichen ab. Was den Kommunismus auszeichnet, ist nicht die Abschaffung des Eigentums überhaupt, sondern die Abschaffung des bürgerlichen Eigentums.

Aber das moderne bürgerliche Privateigentum ist der letzte und vollendetste Ausdruck der Erzeugung und Aneignung der Produkte, die auf Klassengegensätzen, auf der Ausbeutung der einen durch die andern beruht. In diesem Sinn können die Kommunisten ihre Theorie in dem einen Ausdruck: Aufhebung des Privateigentums, zusammenfassen. Man hat uns Kommunisten vorgeworfen, wir wollten das persönlich erworbene, selbsterarbeitete Eigentum abschaffen; das Eigentum, welches die Grundlage aller persönlichen Freiheit, Tätigkeit und Selbständigkeit bilde. Erarbeitetes, erworbenes, selbstverdientes Eigentum! Sprecht ihr von dem kleinbürgerlichen, kleinbäuerlichen Eigentum, welches dem bürgerlichen Eigentum vorherging? Wir brauchen es nicht abzuschaffen, die Entwicklung der Industrie hat es abgeschafft und schafft es täglich ab. Oder sprecht ihr vom modernen bürgerlichen Privateigentum? Schafft aber die Lohnarbeit, die Arbeit des Proletariers ihm Eigentum? Keineswegs. Sie schafft das Kapital, d.h. das Eigentum, welches die Lohnarbeit ausbeutet, welches sich nur unter der Bedingung vermehren kann, daß es neue Lohnarbeit erzeugt, um sie von neuem auszubeuten. Das Eigentum in seiner heutigen Gestalt bewegt sich in dem Gegensatz von Kapital und Lohnarbeit. Betrachten wir die beiden Seiten dieses Gegensatzes. Kapitalist sein, heißt nicht nur eine rein persönliche, sondern eine gesellschaftliche Stellung in der Produktion einzunehmen. Das Kapital ist ein gemeinschaftliches Produkt und kann nur durch eine gemeinsame Tätigkeit vieler Mitglieder, ja in letzter Instanz nur durch die gemeinsame Tätigkeit aller Mitglieder der Gesellschaft in Bewegung gesetzt werden. Das Kapital ist also keine persönliche, es ist eine gesellschaftliche Macht. Wenn also das Kapital in ein gemeinschaftliches, allen Mitgliedern der Gesellschaft angehöriges Eigentum verwandelt wird, so verwandelt sich nicht persönliches Eigentum in gesellschaftliches. Nur der gesellschaftliche Charakter des Eigentums verwandelt sich. Er verliert seinen Klassencharakter. Kommen wir zur Lohnarbeit: Der Durchschnittspreis der Lohnarbeit ist das Minimum des Arbeitslohnes, d.h. die Summe der Lebensmittel, die notwendig sind, um den Arbeiter als Arbeiter am Leben zu erhalten. Was also der Lohnarbeiter durch seine Tätigkeit sich aneignet, reicht bloß dazu hin, um sein nacktes Leben wieder zu erzeugen. Wir wollen diese persönliche Aneignung der Arbeitsprodukte zur Wiedererzeugung des unmittelbaren Lebens keineswegs abschaffen, eine Aneignung, die keinen Reinertrag übrigläßt, der Macht über fremde Arbeit geben könnte. Wir wollen nur den elenden Charakter dieser Aneignung aufheben, worin der Arbeiter nur lebt, um das Kapital zu vermehren, nur so weit

lebt, wie es das Interesse der herrschenden Klasse erheischt. In der bürgerlichen Gesellschaft ist die lebendige Arbeit nur ein Mittel, die aufgehäufte Arbeit zu vermehren. In der kommunistischen Gesellschaft ist die aufgehäufte Arbeit nur ein Mittel, um den Lebensprozeß der Arbeiter zu erweitern, zu bereichern, zu befördern. In der bürgerlichen Gesellschaft herrscht also die Vergangenheit über die Gegenwart, in der kommunistischen die Gegenwart über die Vergangenheit. In der bürgerlichen Gesellschaft ist das Kapital selbständig und persönlich, während das tätige Individuum unselbständig und unpersönlich ist. Und die Aufhebung dieses Verhältnisses nennt die Bourgeoisie Aufhebung der Persönlichkeit und Freiheit! Und mit Recht. Es handelt sich allerdings um die Aufhebung der Bourgeois-Persönlichkeit, -Selbständigkeit und -Freiheit. Unter Freiheit versteht man innerhalb der jetzigen bürgerlichen Produktionsverhältnisse den freien Handel, den freien Kauf und Verkauf. Fällt aber der Schacher, so fällt auch der freie Schacher. Die Redensarten vom freien Schacher, wie alle übrigen Freiheitsbravaden unserer Bourgeoisie, haben überhaupt nur einen Sinn gegenüber dem gebundenen Schacher, gegenüber dem geknechteten Bürger des Mittelalters, nicht aber gegenüber der kommunistischen Aufhebung des Schachers, der bürgerlichen Produktionsverhältnisse und der Bourgeoisie selbst. Ihr entsetzt euch darüber, daß wir das Privateigentum aufheben wollen. Aber in eurer bestehenden Gesellschaft ist das Privateigentum für neun Zehntel ihrer Mitglieder aufgehoben, es existiert gerade dadurch, daß es für neun Zehntel nicht existiert. Ihr werft uns also vor, daß wir ein Eigentum aufheben wollen, welches die Eigentumslosigkeit der ungeheuren Mehrzahl der Gesellschaft als notwendige Bedingung voraussetzt. Ihr werft uns mit einem Worte vor, daß wir euer Eigentum aufheben wollen. Allerdings, das wollen wir. Von dem Augenblick an, wo die Arbeit nicht mehr in Kapital, Geld, Grundrente, kurz, in eine monopolisierbare gesellschaftliche Macht verwandelt werden kann, d.h. von dem Augenblick, wo das persönliche Eigentum nicht mehr in bürgerliches umschlagen kann, von dem Augenblick an erklärt ihr, die Person sei aufgehoben. Ihr gesteht also, daß ihr unter der Person niemanden anders versteht als den Bourgeois, den bürgerlichen Eigentümer. Und diese Person soll allerdings aufgehoben werden. Der Kommunismus nimmt keinem die Macht, sich gesellschaftliche Produkte anzueignen, er nimmt nur die Macht, sich durch diese Aneignung fremde Arbeit zu unterjochen.

Man hat eingewendet, mit der Aufhebung des Privateigentums werde alle Tätigkeit aufhören, und eine allgemeine Faulheit einreißen. Hiernach müßte die bürgerliche Gesellschaft längst an der Trägheit zugrunde gegangen sein; denn die in ihr arbeiten, erwerben nicht, und die in ihr erwerben, arbeiten nicht. Das ganze Bedenken läuft auf die Tautologie hinaus, daß es keine Lohnarbeit mehr gibt, sobald es kein Kapital mehr gibt. Alle Einwürfe, die gegen die kommunistische Aneignungs-und Produktionsweise der materiellen Produkte gerichtet werden, sind ebenso auf die Aneignung und Produktion der geistigen Produkte ausgedehnt worden. Wie für den Bourgeois das Aufhören des Klasseneigentums das Aufhören der Produktion selbst ist, so ist für ihn das Aufhören der Klassenbildung identisch mit dem Aufhören der Bildung überhaupt. Die Bildung, deren Verlust er bedauert, ist für die enorme Mehrzahl die Heranbildung zur Maschine. Aber streitet nicht mit uns, indem ihr an euren bürgerlichen Vorstellungen von Freiheit, Bildung, Recht usw. die Abschaffung des bürgerlichen Eigentums meßt. Eure Ideen selbst sind Erzeugnisse der bürgerlichen Produktions-und Eigentumsverhältnisse, wie euer Recht nur der zum Gesetz erhobene Wille eurer Klasse ist, ein Wille, dessen Inhalt gegeben ist in den materiellen Lebensbedingungen eurer Klasse. Die interessierte Vorstellung, worin ihr eure Produktions-und Eigentumsverhältnisse aus geschichtlichen, in dem Lauf der Produktion vorübergehenden Verhältnissen in ewige Natur-und Vernunftgesetze verwandelt, teilt ihr mit allen untergegangenen herrschenden Klassen. Was ihr für das antike Eigentum begreift, was ihr für das feudale Eigentum begreift, dürft ihr nicht mehr begreifen für das bürgerliche Eigentum.Aufhebung der Familie! Selbst die Radikalsten ereifern sich über diese schändliche Absicht der Kommunisten. Worauf beruht die gegenwärtige, die bürgerliche Familie? Auf dem Kapital, auf dem Privaterwerb. Vollständig entwickelt existiert sie nur für die Bourgeoisie; aber sie findet ihre Ergänzung in der erzwungenen Familienlosigkeit der Proletarier und der öffentlichen Prostitution. Die Familie der Bourgeois fällt natürlich weg mit dem Wegfallen dieser ihrer Ergänzung, und beide verschwinden mit dem Verschwinden des Kapitals. Werft ihr uns vor, daß wir die Ausbeutung der Kinder durch ihre Eltern aufheben wollen? Wir gestehen dieses Verbrechen ein. Aber, sagt ihr, wir heben die trautesten Verhältnisse auf, indem wir an die Stelle der häuslichen Erziehung die gesellschaftliche setzen. Und ist nicht auch eure Erziehung durch die Gesellschaft bestimmt? Durch die

gesellschaftlichen Verhältnisse, innerhalb derer ihr erzieht, durch die direktere oder indirektere Einmischung der Gesellschaft, vermittelst der Schule usw.? Die Kommunisten erfinden nicht die Einwirkung der Gesellschaft auf die Erziehung; sie verändern nur ihren Charakter, sie entreißen die Erziehung dem Einfluß der herrschenden Klasse. Die bürgerlichen Redensarten über Familie und Erziehung, über das traute Verhältnis von Eltern und Kindern werden um so ekelhafter, je mehr infolge der großen Industrie alle Familienbande für die Proletarier zerrissen und die Kinder in einfache Handelsartikel und Arbeitsinstrumente verwandelt werden. Aber ihr Kommunisten wollt die Weibergemeinschaft einführen, schreit uns die ganze Bourgeoisie im Chor entgegen. Der Bourgeois sieht in seiner Frau ein bloßes Produktionsinstrument. Er hört, daß die Produktionsinstrumente gemeinschaftlich ausgebeutet werden sollen, und kann sich natürlich nichts anderes denken, als daß das Los der Gemeinschaftlichkeit die Weiber gleichfalls treffen wird. Er ahnt nicht, daß es sich eben darum handelt, die Stellung der Weiber als bloßer Produktionsinstrumente aufzuheben. Übrigens ist nichts lächerlicher als das hochmoralische Entsetzen unserer Bourgeois über die angebliche offizielle Weibergemeinschaft der Kommunisten. Die Kommunisten brauchen die Weibergemeinschaft nicht einzuführen, sie hat fast immer existiert. Unsre Bourgeois, nicht zufrieden damit, daß ihnen die Weiber und Töchter ihrer Proletarier zur Verfügung stehen, von der offiziellen Prostitution gar nicht zu sprechen, finden ein Hauptvergnügen darin, ihre Ehefrauen wechselseitig zu verführen. Die bürgerliche Ehe ist in Wirklichkeit die Gemeinschaft der Ehefrauen. Man könnte höchstens den Kommunisten vorwerfen, daß sie an Stelle einer heuchlerisch versteckten eine offizielle, offenherzige Weibergemeinschaft einführen wollten. Es versteht sich übrigens von selbst, daß mit Aufhebung der jetzigen Produktionsverhältnisse auch die aus ihnen hervorgehende Weibergemeinschaft, d.h. die offizielle und nichtoffizielle Prostitution, verschwindet. Den Kommunisten ist ferner vorgeworfen worden, sie wollten das Vaterland, die Nationalität abschaffen. Die Arbeiter haben kein Vaterland. Man kann ihnen nicht nehmen, was sie nicht haben. Indem das Proletariat zunächst sich die politische Herrschaft erobern, sich zur nationalen Klasse erheben, sich selbst als Nation konstituieren muß, ist es selbst noch national, wenn auch keineswegs im Sinne der Bourgeoisie. Die nationalen Absonderungen und Gegensätze der Völker verschwinden

mehr und mehr schon mit der Entwicklung der Bourgeoisie, mit der Handelsfreiheit, dem Weltmarkt, der Gleichförmigkeit der industriellen Produktion und der ihr entsprechenden Lebensverhältnisse. Die Herrschaft des Proletariats wird sie noch mehr verschwinden machen. Vereinigte Aktion, wenigstens der zivilisierten Länder, ist eine der ersten Bedingungen seiner Befreiung. In dem Maße, wie die Exploitation des einen Individuums durch das andere aufgehoben wird, wird die Exploitation einer Nation durch die andere aufgehoben. Mit dem Gegensatz der Klassen im Innern der Nation fällt die feindliche Stellung der Nationen gegeneinander. Die Anklagen gegen den Kommunismus, die von religiösen, philosophischen und ideologischen Gesichtspunkten überhaupt erhoben werden, verdienen keine ausführlichere Erörterung. Bedarf es tiefer Einsicht, um zu begreifen, daß mit den Lebensverhältnissen der Menschen, mit ihren gesellschaftlichen Beziehungen, mit ihrem gesellschaftlichen Dasein, auch ihre Vorstellungen, Anschauungen und Begriffe, mit einem Worte auch ihr Bewußtsein sich ändert? Was beweist die Geschichte der Ideen anders, als daß die geistige Produktion sich mit der materiellen umgestaltet? Die herrschenden Ideen einer Zeit waren stets nur die Ideen der herrschenden Klasse. Man spricht von Ideen, welche eine ganze Gesellschaft revolutionieren; man spricht damit nur die Tatsache aus, daß sich innerhalb der alten Gesellschaft die Elemente einer neuen gebildet haben, daß mit der Auflösung der alten Lebensverhältnisse die Auflösung der alten Ideen gleichen Schritt hält. Als die alte Welt im Untergehen begriffen war, wurden die alten Religionen von der christlichen Religion besiegt. Als die christlichen Ideen im 18. Jahrhundert den Aufklärungsideen unterlagen, rang die feudale Gesellschaft ihren Todeskampf mit der damals revolutionären Bourgeoisie. Die Ideen der Gewissens-und Religionsfreiheit sprachen nur die Herrschaft der freien Konkurrenz auf dem Gebiete des Wissens aus. «Aber», wird man sagen, «religiöse, moralische, philosophische, politische, rechtliche Ideen usw. modifizieren sich allerdings im Lauf der geschichtlichen Entwicklung. Die Religion, die Moral, die Philosophie, die Politik, das Recht erhielten sich stets in diesem Wechsel. Es gibt zudem ewige Wahrheiten, wie Freiheit, Gerechtigkeit usw., die allen gesellschaftlichen Zuständen gemeinsam sind. Der Kommunismus aber schafft die ewigen Wahrheiten ab, er schafft die Religion ab, die Moral, statt sie neu zu gestalten, er widerspricht also allen bisherigen geschichtlichen Entwicklungen.» Worauf reduziert sich diese Anklage? Die Geschichte der ganzen bisherigen

Gesellschaft bewegte sich in Klassengegensätzen, die in den verschiedensten Epochen verschieden gestaltet waren. Welche Form sie aber auch immer angenommen, die Ausbeutung des einen Teils der Gesellschaft durch den andern ist eine allen vergangenen Jahrhunderten gemeinsame Tatsache. Kein Wunder daher, daß das gesellschaftliche Bewußtsein aller Jahrhunderte, aller Mannigfaltigkeit und Verschiedenheit zum Trotz, in gewissen gemeinsamen Formen sich bewegt, in Bewußtseinsformen, die nur mit dem gänzlichen Verschwinden des Klassengegensatzes sich vollständig auflösen. Die kommunistische Revolution ist das radikalste Brechen mit den überlieferten Eigentumsverhältnissen; kein Wunder, daß in ihrem Entwicklungsgange am radikalsten mit den überlieferten Ideen gebrochen wird. Doch lassen wir die Einwürfe der Bourgeoisie gegen den Kommunismus. Wir sahen schon oben, daß der erste Schritt in der Arbeiterrevolution die Erhebung des Proletariats zur herrschenden Klasse, die Erkämpfung der Demokratie ist. Das Proletariat wird seine politische Herrschaft dazu benutzen, der Bourgeoisie nach und nach alles Kapital zu entreißen, alle Produktionsinstrumente in den Händen des Staats, d.h. des als herrschende Klasse organisierten Proletariats, zu zentralisieren und die Masse der Produktionskräfte möglichst rasch zu vermehren. Es kann dies natürlich zunächst nur geschehen vermittelst despotischer Eingriffe in das Eigentumsrecht und in die bürgerlichen Produktionsverhältnisse, durch Maßregeln also, die ökonomisch unzureichend und unhaltbar erscheinen, die aber im Lauf der Bewegung über sich selbst hinaustreiben und als Mittel zur Umwälzung der ganzen Produktionsweise unvermeidlich sind. Diese Maßregeln werden natürlich je nach den verschiedenen Ländern verschieden sein. Für die fortgeschrittensten Länder werden jedoch die folgenden ziemlich allgemein in Anwendung kommen können: 1. Expropriation des Grundeigentums und Verwendung der Grundrente zu Staatsausgaben. 2. Starke Progressivsteuer. 3. Abschaffung des Erbrechts. 4. Konfiskation des Eigentums aller Emigranten und Rebellen. 5. Zentralisation des Kredits in den Händen des Staats durch eine Nationalbank mit Staatskapital und ausschließlichem Monopol. 6. Zentralisation des Transportwesens in den Händen des Staats. 7. Vermehrung der Nationalfabriken, Produktionsinstrumente, Urbarmachung und Verbesserung aller Ländereien nach einem gemeinschaftlichen Plan.

8. Gleicher Arbeitszwang für alle, Errichtung industrieller Armeen, besonders für den Ackerbau. 9. Vereinigung des Betriebs von Ackerbau und Industrie, Hinwirken auf die allmähliche Beseitigung des Unterschieds von Stadt und Land. 10. Öffentliche und unentgeltliche Erziehung aller Kinder. Beseitigung der Fabrikarbeit der Kinder in ihrer heutigen Form. Vereinigung der Erziehung mit der materiellen Produktion usw. Sind im Laufe der Entwicklung die Klassenunterschiede verschwunden und ist alle Produktion in den Händen der assoziierten Individuen konzentriert, so verliert die öffentliche Gewalt den politischen Charakter. Die politische Gewalt im eigentlichen Sinne ist die organisierte Gewalt einer Klasse zur Unterdrückung einer andern. Wenn das Proletariat im Kampfe gegen die Bourgeoisie sich notwendig zur Klasse vereint, durch eine Revolution sich zur herrschenden Klasse macht und als herrschende Klasse gewaltsam die alten Produktionsverhältnisse aufhebt, so hebt es mit diesen Produktionsverhältnissen die Existenzbedingungen des Klassengegensatzes, die Klassen überhaupt, und damit seine eigene Herrschaft als Klasse auf. An die Stelle der alten bürgerlichen Gesellschaft mit ihren Klassen und Klassengegensätzen tritt eine Assoziation, worin die freie Entwicklung eines jeden die Bedingung für die freie Entwicklung aller ist.

III SOZIALISTISCHE UND KOMMUNISTISCHE LITERATUR

1. Der reaktionäre Sozialismus a) Der feudale Sozialismus Die französische und englische Aristokratie war ihrer geschichtlichen Stellung nach dazu berufen, Pamphlete gegen die moderne bürgerliche Gesellschaft zu schreiben. In der französischen Junirevolution von 1830, in der englischen Reformbewegung war sie noch einmal dem verhaßten Emporkömmling erlegen. Von einem ernsten politischen Kampfe konnte nicht mehr die Rede sein. Nur der literarische Kampf blieb ihr übrig. Aber auch auf dem Gebiete der Literatur waren die alten Redensarten der Restaurationszeit unmöglich geworden. Um Sympathie zu erregen, mußte die Aristokratie scheinbar ihre Interessen aus dem Auge verlieren und nur im Interesse der exploitierten Arbeiterklasse ihren Anklageakt gegen die Bourgeoisie formulieren. Sie bereitete so die Genugtuung vor, Schmählieder auf ihren neuen Herrscher zu singen und mehr oder minder unheilschwangere Prophezeiungen ihm ins Ohr raunen zu dürfen. Auf diese Art entstand der feudalistische Sozialismus, halb Klagelied, halb Pasquill, halb Rückhall der Vergangenheit, halb Dräuen der Zukunft, mitunter die Bourgeoisie ins Herz treffend durch bitteres, geistreich zerreißendes Urteil, stets komisch wirkend durch gänzliche Unfähigkeit, den Gang der modernen Geschichte zu begreifen. Den proletarischen Bettelsack schwenkten sie als Fahne in der Hand, um das Volk hinter sich her zu versammeln. Sooft es ihnen aber folgte, erblickte es auf ihrem Hintern die alten feudalen Wappen und verlief sich mit lautem und unehrerbietigem Gelächter. Ein Teil der französischen Legitimisten und das Junge England gaben dies Schauspiel zum besten. Wenn die Feudalen beweisen, daß ihre Weise der Ausbeutung anders gestaltet war als die bürgerliche Ausbeutung, so vergessen sie nur, daß sie unter gänzlich verschiedenen und jetzt überlebten Umständen und Bedingungen ausbeuteten. Wenn sie nachweisen, daß unter ihrer Herrschaft nicht das moderne Proletariat existiert hat, so vergessen sie nur, daß eben die moderne Bourgeoisie ein notwendiger Sprößling ihrer Gesellschaftsordnung war. Übrigens verheimlichen sie den reaktionären Charakter ihrer Kritik so wenig, daß ihre Hauptanklage gegen die Bourgeoisie eben darin besteht, unter ihrem

Regime entwickle sich eine Klasse, welche die ganze alte Gesellschaftsordnung in die Luft sprengen werde. Sie werfen der Bourgeoisie mehr noch vor, daß sie ein revolutionäres Proletariat, als daß sie überhaupt ein Proletariat erzeugt. In der politischen Praxis nehmen sie daher an allen Gewaltmaßregeln gegen die Arbeiterklasse teil, und im gewöhnlichen Leben bequemen sie sich, allen ihren aufgeblähten Redensarten zum Trotz die goldnen Äpfel aufzulesen und Treue, Liebe, Ehre mit dem Schacher in Schafswolle, Runkelrüben und Schnaps zu vertauschen. Wie der Pfaffe immer Hand in Hand ging mit dem Feudalen, so der pfäffische Sozialismus mit dem feudalistischen. Nichts leichter, als dem christlichen Asketismus einen sozialistischen Anstrich zu geben. Hat das Christentum nicht auch gegen das Privateigentum, gegen die Ehe, gegen die Staat geeifert? Hat es nicht die Wohltätigkeit und den Bettel, das Zölibat und die Fleischesertötung, das Zellenleben und die Kirche an ihrer Stelle gepredigt? Der christliche Sozialismus ist nur das Weihwasser, womit der Pfaffe den Ärger des Aristokraten einsegnet. b) Kleinbürgerlicher Sozialismus Die feudale Aristokratie ist nicht die einzige Klasse, welche durch die Bourgeoisie gestürzt wurde, deren Lebensbedingungen in der modernen bürgerlichen Gesellschaft verkümmerten und abstarben. Das mittelalterliche Pfahlbürgertum und der kleine Bauernstand waren die Vorläufer der modernen Bourgeoisie. In den weniger industriell und kommerziell entwickelten Ländern vegetiert diese Klasse noch fort neben der aufkommenden Bourgeoisie. In den Ländern, wo sich die moderne Zivilisation entwickelt hat, hat sich eine neue Kleinbürgerschaft gebildet, die zwischen dem Proletariat und der Bourgeoisie schwebt und als ergänzender Teil der bürgerlichen Gesellschaft stets von neuem sich bildet, deren Mitglieder aber beständig durch die Konkurrenz ins Proletariat hinabgeschleudert werden, ja selbst mit der Entwicklung der großen Industrie einen Zeitpunkt herannahen sehen, wo sie als selbständiger Teil der modernen Gesellschaft gänzlich verschwinden und im Handel, in der Manufaktur, in der Agrikultur durch Arbeitsaufseher und Domestiken ersetzt werden. In Ländern wie Frankreich, wo die Bauernklasse weit mehr als die Hälfte der Bevölkerung ausmacht, war es natürlich, daß Schriftsteller, die für das Proletariat gegen die Bourgeoisie auftraten, an ihre Kritik des Bourgeoisregimes den kleinbürgerlichen und kleinbäuerlichen Maßstab anlegten und die Partei der Arbeiter vom Standpunkt des Kleinbürgertums ergriffen. Es bildete sich so der

kleinbürgerliche Sozialismus. Sismondi ist das Haupt dieser Literatur nicht nur für Frankreich, sondern auch für England. Dieser Sozialismus zergliederte höchst scharfsinnig die Widersprüche in den modernen Produktionsverhältnissen. Er enthüllte die gleisnerischen Beschönigungen der Ökonomen. Er wies unwiderleglich die zerstörenden Wirkungen der Maschinerie und der Teilung der Arbeit nach, die Konzentration der Kapitalien und des Grundbesitzes, die Überproduktion, die Krisen, den notwendigen Untergang der kleinen Bürger und Bauern, das Elend des Proletariats, die Anarchie in der Produktion, die schreienden Mißverhältnisse in der Verteilung des Reichtums, den industriellen Vernichtungskrieg der Nationen untereinander, die Auflösung der alten Sitten, der alten Familienverhältnisse, der alten Nationalitäten. Seinem posititiven Gehalte nach will jedoch dieser Sozialismus entweder die alten Produktions-und Verkehrsmittel wiederherstellen und mit ihnen die alten Eigentumsverhältnisse und die alte Gesellschaft, oder er will die modernen Produktions-und Verkehrsmittel in den Rahmen der alten Eigentumsverhältnisse, die von ihnen gesprengt wurden, gesprengt werden mußten, gewaltsam wieder einsperren. In beiden Fällen ist er reaktionär und utopisch zugleich. Zunftwesen in der Manufaktur und patriarchalische Wirtschaft auf dem Lande, das sind seine letzten Worte. In ihrer weiteren Entwicklung hat sich diese Richtung in einen feigen Katzenjammer verlaufen. c) Der deutsche oder «wahre» Sozialismus Die sozialistische und kommunistische Literatur Frankreichs, die unter dem Druck einer herrschenden Bourgeoisie entstand und der literarische Ausdruck des Kampfes gegen diese Herrschaft ist, wurde nach Deutschland eingeführt zu einer Zeit, wo die Bourgeoisie soeben ihren Kampf gegen den feudalen Absolutismus begann. Deutsche Philosophen, Halbphilosophen und Schöngeister bemächtigten sich gierig dieser Literatur und vergaßen nur, daß bei der Einwanderung jener Schriften aus Frankreich die französischen Lebensverhältnisse nicht gleichzeitig nach Deutschland eingewandert waren. Den deutschen Verhältnissen gegenüber verlor die französische Literatur alle unmittelbar praktische Bedeutung und nahm ein rein literarisches Aussehen an. Als müßige Spekulation über die Verwirklichung des menschlichen Wesens mußte sie erscheinen. So hatten für die deutschen Philosophen des 18. Jahrhunderts die Forderungen der ersten französischen Revolution nur den Sinn, Forderungen der „praktischen Vernunft“im allgemeinen zu sein, und die Willensäußerungen der französischen

Bourgeoisie bedeuteten in ihren Augen die Gesetze des reinen Willens, des Willens, wie er sein muß, des wahrhaft menschlichen Willens. Die ausschließliche Arbeit der deutschen Literaten bestand darin, die neuen französischen Ideen mit ihrem alten philosophischen Gewissen in Einklang zu setzen oder vielmehr von ihrem philosophischen Standpunkte aus die französischen Ideen sich anzueignen. Diese Aneignung geschah in derselben Weise, wodurch man sich überhaupt eine fremde Sache aneignet, durch die Übersetzung. Es ist bekannt, wie die Mönche Manuskripte, worauf die klassischen Werke der alten Heidenzeit verzeichnet waren, mit abgeschmackten katholischen Heiligengeschichten überschrieben. Die deutschen Literaten gingen umgekehrt mit der profanen französischen Literatur um. Sie schrieben ihren philosophischen Unsinn hinter das französische Original. Z.B. hinter die französische Kritik der Geldverhältnisse schrieben sie «Entäußerung des menschlichen Wesens», hinter die französische Kritik des Bourgeoisstaates schrieben sie «Aufhebung der Herrschaft des abstrakten Allgemeinen» usw. Die Unterschiebung dieser philosophischen Redensarten unter die französischen Entwicklungen tauften sie «Philosophie der Tat», «wahrer Sozialismus», «deutsche Wissenschaft des Sozialismus», usw. Die französische sozialistisch-kommunistische Literatur wurde so förmlich entmannt. Und da sie in der Hand des Deutschen aufhörte, den Kampf einer Klasse gegen die andre auszudrücken, so war der Deutsche sich bewußt, die „französische Einseitigkeit“überwunden, statt wahrer Bedürfnisse das Bedürfnis der Wahrheit und statt der Interessen des Proletariers die Interessen des menschlichen Wesens, des Menschen überhaupt vertreten zu haben, des Menschen, der keiner Klasse, der überhaupt nicht der Wirklichkeit, der nur dem Dunsthimmel der philosophischen Phantasie angehört. Dieser deutsche Sozialismus, der seine unbeholfenen Schulübungen so ernst und feierlich nahm und so marktschreierisch ausposaunte, verlor indes nach und nach seine pedantische Unschuld. Der Kampf der deutschen, namentlich der preußischen Bourgeoisie gegen die Feudalen und das absolute Königtum, mit einem Wort, die liberale Bewegung wurde ernsthafter. Dem «wahren» Sozialismus war so erwünschte Gelegenheit geboten, der politischen Bewegung die sozialistische Forderung gegenüberzustellen, die überlieferten Anatheme gegen den Liberalismus, gegen den Repräsentativstaat, gegen die bürgerliche Konkurrenz, bürgerliche Preßfreiheit, bürgerliches Recht, bürgerliche Freiheit und Gleichheit zu schleudern und der Volksmasse vorzupredigen, wie sie bei dieser bürgerlichen Bewegung nichts zu gewinnen,

vielmehr alles zu verlieren habe. Der deutsche Sozialismus vergaß rechtzeitig, daß die französische Kritik, deren geistloses Echo er war, die moderne bürgerliche Gesellschaft mit den entsprechenden materiellen Lebensbedingungen und der angemessenen politischen Konstitution vorausgesetzt, lauter Voraussetzungen, um deren Erkämpfung es sich erst in Deutschland handelte. Er diente den deutschen absoluten Regierungen mit ihrem Gefolge von Pfaffen, Schulmeistern, Krautjunkern und Bürokraten als erwünschte Vogelscheuche gegen die drohend aufstrebende Bourgeoisie. Er bildete die süßliche Ergänzung zu den bitteren Peitschenhieben und Flintenkugeln, womit dieselben Regierungen die deutschen Arbeiteraufstände bearbeiteten. Ward der «wahre» Sozialismus dergestalt eine Waffe in der Hand der Regierungen gegen die deutsche Bourgeoisie, so vertrat er auch unmittelbar ein reaktionäres Interesse, das Interesse der deutschen Pfahlbürgerschaft. In Deutschland bildet das vom 16. Jahrhundert her überlieferte und seit der Zeit in verschiedener Form hier immer neu wieder auftauchende Kleinbürgertum die eigentliche Grundlage der bestehenden Zustände. Seine Erhaltung ist die Erhaltung der bestehenden deutschen Zustände. Von der industriellen und politischen Herrschaft der Bourgeoisie fürchtet es den sichern Untergang, einerseits infolge der Konzentration des Kapitals, andrerseits durch das Aufkommen eines revolutionären Proletariats. Der «wahre» Sozialismus schien ihm beide Fliegen mit einer Klappe zu schlagen. Er verbreitete sich wie eine Epidemie. Das Gewand, gewirkt aus spekulativem Spinnweb, überstickt mit schöngeistigen Redeblumen, durchtränkt von liebesschwülem Gemütstau, dies überschwengliche Gewand, worin die deutschen Sozialisten ihre paar knöchernen «ewigen Wahrheiten» einhüllten, vermehrte nur den Absatz ihrer Ware bei diesem Publikum. Seinerseits erkannte der deutsche Sozialismus immer mehr seinen Beruf, der hochtrabende Vertreter dieser Pfahlbürgerschaft zu sein. Er proklamierte die deutsche Nation als die normale Nation und den deutschen Spießbürger als den Normalmenschen. Er gab jeder Niederträchtigkeit desselben einen verborgenen, höheren, sozialistischen Sinn, worin sie ihr Gegenteil bedeutete. Er zog die letzte Konsequenz, indem er direkt gegen die «rohdestruktive» Richtung des Kommunismus auftrat und seine unparteiische Erhabenheit über alle Klassenkämpfe verkündete. Mit sehr wenigen Ausnahmen gehört alles, was in Deutschland von angeblich sozialistischen und kommunistischen Schriften zirkuliert, in den Bereich dieser schmutzigen,

entnervenden Literatur.

2. Der konservative oder Bourgeoissozialismus Ein Teil der Bourgeoisie wünscht den sozialen Mißständen abzuhelfen, um den Bestand der bürgerlichen Gesellschaft zu sichern. Es gehören hierher: Ökonomisten, Philantrophen, Humanitäre, Verbesserer der Lage der arbeitenden Klassen, Wohltätigkeitsorganisierer, Abschaffer der Tierquälerei, Mäßigkeitsvereinsstifter, Winkelreformer der buntscheckigsten Art. Und auch zu ganzen Systemen ist dieser Bourgeoissozialismus ausgearbeitet worden. Als Beispiel führen wir Proudhons «Philosophie de la misère» an. Die sozialistischen Bourgeois wollen die Lebensbedingungen der modernen Gesellschaft ohne die notwendig daraus hervor gehenden Kämpfe und Gefahren. Sie wollen die bestehende Gesellschaft mit Abzug der sie revolutionierenden und sie auflösenden Elemente. Sie wollen die Bourgeoisie ohne das Proletariat. Die Bourgeoisie stellt sich die Welt, worin sie herrscht, natürlich als die beste Welt vor. Der Bourgeoissozialismus arbeitet diese tröstliche Vorstellung zu einem halben oder ganzen System aus. Wenn er das Proletariat auffordert, seine Systeme zu verwirklichen und in das neue Jerusalem einzugehen, so verlangt er im Grunde nur, daß es in der jetzigen Gesellschaft stehenbleibe, aber seine gehässigen Vorstellungen von derselben abstreife. Eine zweite, weniger systematische, nur mehr praktische Form dieses Sozialismus suchte der Arbeiterklasse jede revolutionäre Bewegung zu verleiden, durch den Nachweis, wie nicht diese oder jene politische Veränderung, sondern nur eine Veränderung der materiellen Lebensverhältnisse, der ökonomischen Verhältnisse ihr von Nutzen sein könne. Unter Veränderung der materiellen Lebensverhältnisse versteht dieser Sozialismus aber keineswegs Abschaffung der bürgerlichen Produktionsverhältnisse, die nur auf revolutionärem Wege möglich ist, sondern administrative Verbesserungen, die auf dem Boden dieser Produktionsverhältnisse vor sich gehen, also an dem Verhältnis von Kapital und Lohnarbeit nichts ändern, sondern im besten Fall der Bourgeoisie die Kosten ihrer Herrschaft vermindern und ihren Staatshaushalt vereinfachen. Seinen entsprechenden Ausdruck erreicht der Bourgeoisiesozialismus erst da, wo er zur bloßen rednerischen Figur wird. Freier Handel! im Interesse der arbeitenden Klasse; Schutzzölle! im Interesse der arbeitenden Klasse; Zellengefängnisse! im Interesse der arbeitenden Klasse;

das ist das letzte, das einzige ernstgemeinte Wort des Bourgeoisiesozialismus. Der Sozialismus der Bourgeoisie besteht eben in der Behauptung, daß die Bourgeois Bourgeois sind – im Interesse der arbeitenden Klasse.

3. Der kritisch-utopistische Kommunismus

Sozialismus

oder

Wir reden hier nicht von der Literatur, die in allen großen modernen Revolutionen die Forderungen des Proletariats aussprach. (Schriften Babeufs etc.) Die ersten Versuche des Proletariats, in einer Zeit allgemeiner Aufregung, in der Periode des Umsturzes der feudalen Gesellschaft direkt sein eigenes Klasseninteresse durchzusetzen, scheiterten notwendig an der unentwickelten Gestalt des Proletariats selbst wie an dem Mangel der materiellen Bedingungen seiner Befreiung, die eben erst das Produkt der bürgerliche Epoche sind. Die revolutionäre Literatur, welche diese ersten Bewegungen des Proletariats begleitete, ist dem Inhalt nach notwendig reaktionär. Sie lehrt einen allgemeinen Asketismus und eine rohe Gleichmacherei. Die eigentlich sozialistischen und kommunistischen Systeme, die Systeme St.Simons, Fouriers, Owens usw., tauchen auf in der ersten, unentwickelten Periode des Kampfes zwischen Proletariat und Bourgeoisie, die wir oben dargestellt haben. (Siehe Bourgeoisie und Proletariat.) Die Erfinder dieser Systeme sehen zwar den Gegensatz der Klassen wie die Wirksamkeit der auflösenden Elemente in der herrschenden Gesellschaft selbst. Aber sie erblicken auf der Seite des Proletariats keine geschichtliche Selbsttätigkeit, keine ihm eigentümliche politische Bewegung. Da die Entwicklung des Klassengegensatzes gleichen Schritt hält mit der Entwicklung der Industrie, finden sie ebensowenig die materiellen Bedingungen zur Befreiung des Proletariats vor und suchen nach einer sozialen Wissenschaft, nach sozialen Gesetzen, um diese Bedingungen zu schaffen. An die Stelle der gesellschaftlichen Tätigkeit muß ihre persönlich erfinderische Tätigkeit treten, an die Stelle der geschichtlichen Bedingungen der Befreiung phantastische, an die Stelle der allmählich vor sich gehenden Organisation des Proletariats zur Klasse eine eigens ausgeheckte Organisation der Gesellschaft. Die kommende Weltgeschichte löst sich für sie auf in die Propaganda und die praktische Ausführung ihrer Gesellschaftspläne. Sie sind sich zwar bewußt, in ihren Plänen hauptsächlich das Interesse der arbeitenden Klasse als der leidendsten Klasse zu vertreten. Nur unter diesem Gesichtspunkt der leidendsten Klasse existiert das Proletariat für sie. Die unentwickelte Form des Klassenkampfes wie ihre eigene Lebenslage bringen es aber mit sich, daß sie weit über jenen Klassengegensatz erhaben zu

sein glauben. Sie wollen die Lebenslage aller Gesellschaftsglieder, auch der bestgestellten, verbessern. Sie appellieren daher fortwährend an die ganze Gesellschaft ohne Unterschied, ja vorzugsweise an die herrschende Klasse. Man braucht ihr System ja nur zu verstehen, um es als den bestmöglichen Plan der bestmöglichen Gesellschaft anzuerkennen. Sie verwerfen daher alle politische, namentlich alle revolutionäre Aktion, sie wollen ihr Ziel auf friedlichem Wege erreichen und versuchen, durch kleine, natürlich fehlschlagende Experimente, durch die Macht des Beispiels dem neuen gesellschaftlichen Evangelium Bahn zu brechen. Die phantastische Schilderung der zukünftigen Gesellschaft entspringt in einer Zeit, wo das Proletariat noch höchst unentwickelt ist, also selbst noch phantastisch seine eigene Stellung auffaßt, seinem ersten ahnungsvollen Drängen nach einer allgemeinen Umgestaltung der Gesellschaft. Die sozial[istisch}en und kommunistischen Schriften bestehen aber auch aus kritischen Elementen. Sie greifen alle Grundlagen der bestehenden Gesellschaft an. Sie haben daher höchst wertvolles Material zur Aufklärung der Arbeiter geliefert. Ihre positiven Sätze über die zukünftige Gesellschaft, z.B. Aufhebung des Gegensatzes zwischen Stadt und Land, der Familie, des Privaterwerbs, der Lohnarbeit, die Verkündigung der gesellschaftlichen Harmonie, die Verwandlung des Staates in eine bloße Verwaltung der Produktion – alle diese ihre Sätze drücken bloß das Wegfallen des Klassengegensatzes aus, der eben erst sich zu entwickeln beginnt, den sie nur noch in seiner ersten gestaltlosen Unbestimmtheit kennen. Diese Sätze selbst haben daher noch einen rein utopistischen Sinn. Die Bedeutung des kritisch-utopistischen Sozialismus oder Kommunismus steht im umgekehrten Verhältnis zur geschichtlichen Entwicklung. In demselben Maße, worin der Klassenkampf sich entwickelt und gestaltet, verliert diese phantastische Erhebung über denselben, diese phantastische Bekämpfung desselben allen praktischen Wert, alle theoretische Berechtigung. Waren daher die Urheber dieser Systeme auch in vieler Beziehung revolutionär, so bilden ihre Schüler jedesmal reaktionäre Sekten. Sie halten die alten Anschauungen der Meister fest gegenüber der geschichtlichen Fortentwicklung des Proletariats. Sie suchen daher konsequent den Klassenkampf wieder abzustumpfen und die Gegensätze zu vermitteln. Sie träumen noch immer die versuchsweise Verwirklichung ihrer gesellschaftlichen Utopien, Stiftung einzelner Phalanstere, Gründung von Home-Kolonien, Errichtung eines kleinen Ikariens – Duodezausgabe des neuen Jerusalems –, und zum Aufbau aller dieser spanischen Schlösser müssen sie an die Philanthropie der bürgerlichen Herzen und Geldsäcke appellieren. Allmählich fallen sie in die Kategorie der oben

geschilderten reaktionären oder konservativen Sozialisten und unterscheiden sich nur noch von ihnen durch mehr systematische Pedanterie, durch den fanatischen Aberglauben an die Wunderwirkungen ihrer sozialen Wissenschaft. Sie treten daher mit Erbitterung aller politischen Bewegung der Arbeiter entgegen, die nur aus blindem Unglauben an das neue Evangelium hervorgehen konnte. Die Owenisten in England, die Fourieristen in Frankreich reagieren dort gegen die Chartisten, hier gegen die Reformisten.

IV STELLUNG DER KOMMUNISTEN ZU DEN VERSCHIEDENEN OPPOSITIONELLEN PARTEIEN Nach Abschnitt II versteht sich das Verhältnis der Kommunisten zu den bereits konstituierten Arbeiterparteien von selbst, also ihr Verhältnis zu den Chartisten in England und den agrarischen Reformern in Nordamerika. Sie kämpfen für die Erreichung der unmittelbar vorliegenden Zwecke und Interessen der Arbeiterklasse, aber sie vertreten in der gegenwärtigen Bewegung zugleich die Zukunft der Bewegung. In Frankreich schließen sich die Kommunisten an die sozial-demokratische Partei an gegen die konservative und radikale Bourgeoisie, ohne darum das Recht aufzugeben, sich kritisch zu den aus der revolutionären Überlieferung herrührenden Phrasen und Illusionen zu verhalten. In der Schweiz unterstützen sie die Radikalen, ohne zu verkennen, daß diese Partei aus widersprechenden Elementen besteht, teils aus demokratischen Sozialisten im französischen Sinn, teils aus radikalen Bourgeois. Unter den Polen unterstützen die Kommunisten die Partei, welche eine agrarische Revolution zur Bedingung der nationalen Befreiung macht, dieselbe Partei, welche die Krakauer Insurrektion von 1846 ins Leben rief. In Deutschland kämpft die Kommunistische Partei, sobald die Bourgeoisie revolutionär auftritt, gemeinsam mit der Bourgeoisie gegen die absolute Monarchie, das feudale Grundeigentum und die Kleinbürgerei. Sie unterläßt aber keinen Augenblick, bei den Arbeitern ein möglichst klares Bewußtsein über den feindlichen Gegensatz zwischen Bourgeoisie und Proletariat herauszuarbeiten, damit die deutschen Arbeiter sogleich die gesellschaftlichen und politischen Bedingungen, welche die Bourgeoisie mit ihrer Herrschaft herbeiführen muß, als ebenso viele Waffen gegen die Bourgeoisie kehren können, damit, nach dem Sturz der reaktionären Klassen in Deutschland, sofort der Kampf gegen die Bourgeoisie selbst beginnt. Auf Deutschland richten die Kommunisten ihre Hauptaufmerksamkeit, weil Deutschland am Vorabend einer bürgerlichen Revolution steht und weil es diese Umwälzung unter fortgeschrittneren Bedingungen der europäischen Zivilisation überhaupt und mit einem viel weiter entwickelten Proletariat vollbringt als

England im 17. und Frankreich im 18. Jahrhundert, die deutsche bürgerliche Revolution also nur das unmittelbare Vorspiel einer proletarischen Revolution sein kann. Mit einem Wort, die Kommunisten unterstützen überall jede revolutionäre Bewegung gegen die bestehenden gesellschaftlichen und politischen Zustände. In allen diesen Bewegungen heben sie die Eigentumsfrage, welche mehr oder minder entwickelte Form sie auch angenommen haben möge, als die Grundfrage der Bewegung hervor. Die Kommunisten arbeiten endlich überall an der Verbindung und Verständigung der demokratischen Parteien aller Länder. Die Kommunisten verschmähen es, ihre Ansichten und Absichten zu verheimlichen. Sie erklären es offen, daß ihre Zwecke nur erreicht werden können durch den gewaltsamen Umsturz aller bisherigen Gesellschaftsordnung. Mögen die herrschenden Klassen vor einer kommunistischen Revolution zittern. Die Proletarier haben nichts in ihr zu verlieren als ihre Ketten. Sie haben eine Welt zu gewinnen. PROLETARIER ALLER LÄNDER, VEREINIGT EUCH!

MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA Uno spettro s’aggira per l’Europa: – è lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si alleano per dare santamente una spietata caccia a cotesto spettro: – e ossia il papa e lo czar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e i poliziotti tedeschi. Qual’è il partito di opposizione, che i suoi avversarii al potere non abbiano colpito con la nota ingiuriosa di comunistico?; e qual’ è il partito di opposizione, che alla sua volta non abbia ricambiata l’accusa, respingendo la infamante designazione del comunismo, o su gli elementi più avanzati della opposizione stessa, o su gli avversarii apertamente reazionari? Da questo l’atto si viene a due conclusioni. Il comunismo è oramai riconosciuto dalle potenze d’Europa quale un’altra potenza. È tempo oramai che i comunisti espongano senz’altro innanzi a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro intenti, le loro tendenze, e che allo spettro del comunismo contrappongano il manifesto del partito. A tal fine dei comunisti di diversa nazionalità si son riuniti a Londra, e han redatto il manifesto, che qui segue, e che verrà alla luce in inglese, in francese, in tedesco. in italiano, in fiammingo ed in danese.

I BORGHESI E PROLETARII

La storia di tutta la società, svoltasi fin qui, è storia delle lotte delle classi. Liberi e schiavi, patrizii e plebei, baroni e servi della gleba, maestri capi dello arti ed artigiani addetti alla compagnia, in una parola, oppressi ed oppressori, stettero continuamente in contrasto tra loro, e sostennero una lotta non mai interrotta, a volte palese a volte dissimulata; una lotta che è sempre finita, o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in contesa. Nei periodi della storia anteriori al nostro, noi incontriamo quasi da per tutto una completa spartizione della società in ordini e ceti, e una minuta e varia gradazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo i patrizii, i cavalieri, i plebei, gli schiavi; nel Medio-Evo i signori feudali, i vassalli, i maestri dei corpi, gli artigiani addetti alla compagnia, i servi della gleba, e per di più in ogni classe altri speciali gerarchie. Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha già distrutte le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche. Nondimeno quest’epoca nostra, quest’epoca della borghesia, presenta una notevole differenza rispetto alle altre, ed è che in essa le opposizioni di classe si son semplificate. L’intera società si va, e sempre di più in più, come scindendo in due campi nemici, in due classi direttamente opposte: la borghesia e il proletariato. Dai servi del Medio-Evo procedettero i borghigiani ospitati nelle prime città, e da quelli si svolsero i primi elementi della borghesia vera e propria. La scoverta dell’America, e la circumnavigazione dell’Africa, offersero alla borghesia, che veniva su, un nuovo terreno. Il mercato indiano e cinese, la colonizzazione dell’America, lo scambio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci, dettero impulso nuovo ed inaspettato al commercio, alla navigazione, all’industria, e insiememente favorirono il rapido sviluppo dell’elemento rivoluzionario in seno alla società feudale, che di già veniva sfasciandosi. Da quel momento in poi il modo della produzione industriale propria del feudo, o della corporazione, non bastava più ai bisogni, che venian crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura. Ai maestri delle corporazioni si venne sostituendo il medio ceto industriale: e la division del lavoro tra le diverse corporazioni cedette il posto alla division del lavoro per

entro alle singole officine. Ma i mercati crescevan di continuo; il bisogno si facea sempre maggiore. La manifattura non era sufficiente. Ed ecco che il vapore e le macchine rivoluzionano la produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna, il posto del ceto medio industriale fu occupato dai milionarii della industria, dai capi d’interi eserciti industriali, ossia dai moderni borghesi. La grande industria ha messo effettivamente in essere quel mercato mondiale, che la scoverta dell’America avea predisposto. Il mercato mondiale ha procurato uno sviluppo grande oltre ogni misura al commercio, alla navigazione e alle comunicazioni per terra. Cotesto sviluppo reagì alla sua volta su la estensione della industria, e in quella medesima misura nella quale l’industria, il commercio, la navigazione e le ferrovie sono andate estendendosi, la borghesia s’è venuta sviluppando, ha aumentato i suoi capitali, e ha respinto indietro, allontanandole sempre più dal davanti della scena, quelle classi che eran residuo del Medio-Evo. Noi vediamo, dunque, come la borghesia sia essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una lunga serie di rivoluzioni nei modi della produzione e del traffico. A ciascuna delle fasi di cotesto sviluppo corrispose un relativo progresso nell’ordine politico. Ceto oppresso sotto la signoria dei feudatarii, associazione armata e che si governa da sé nel comune, qui repubblica municipale, là terzostato che paga le imposte alla monarchia, e poi ai tempi della manifattura essa borghesia fa da contrappeso alla nobiltà nelle monarchie assolute, o in quelle limitate dalle diete, da per tutto pietra angolare delle grandi monarchie, da ultimo, col fermarsi e costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, s’è impadronita in modo esclusivo del potere politico nel moderno stato rappresentativo. L’attuale potere politico dello stato moderno non è se non una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese. La borghesia ha avuto nella storia una parte essenzialmente rivoluzionaria. Dovunque è giunta al dominio essa ha distrutto tutte quelle condizioni di vita, che eran feudali, patriarcali, idiliache. Essa ha distrutti senza pietà tutti quei legami multicolori, che nel regime feudale avvincevan gli uomini ai loro naturali superiori, e non ha lasciato fra uomo ed uomo altri vincoli da quelli in fuori del nudo interesse, e dello spietato pagamento in contanti. Essa ha spento i santi timori dell’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, e la sentimentalità del piccolo borghese dalle limitate abitudini, immergendo il tutto nell’acqua gelida del calcolo egoistico. Ha risolta la dignità personale in un semplice valore di scambio; ed alle molte e varie libertà bene acquisite e consacrate in documenti, essa ha sostituito la sola ed unica libertà del commercio, di dura e spietata

coscienza. Al posto, in una parola, dello sfruttamento velato di illusioni religiose e politiche, essa ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e brutale. La borghesia ha spogliato della loro aureola le professioni, che per l’innanzi eran tenute per onorande e degne di rispetto. Essa ha fatto del medico, del giurista, del prete, del poeta, dello scienziato i suoi salariati. La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione della forza, che i nostri reazionarii ammirano nel Medio-Evo, avesse il suo appropriato complemento nella più dozzinale poltroneria. Essa per la prima ha dimostrato cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre maraviglie, che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha condotto ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate. La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare di continuo gl’istrumenti della produzione, il che vuol dire i modi e rapporti della produzione, e ossia, in ultima analisi, tutto l’insieme dei rapporti sociali. La immutata conservazione dell’antica maniera del produrre era la prima condizione di esistenza delle antecedenti classi industriali. Cotesto continuato sovvertimento della produzione, cotesto ininterrotto scuotimento delle condizioni sociali, cotesto moto perpetuo, con la insicurezza che assidua l’accompagna, contraddistingue l’epoca borghese da tutte le altre che la precedettero. Tutti gli antichi e irrugginiti rapporti della vita, con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione, si dissolvono; e i nuovi rapporti che subentrano passano fra le anticaglie, prima che abbiano avuto tempo di fissarsi e di consolidarsi. Tutto ciò che avea carattere di stabile e di rispondente a gerarchia di ceto, si svapora, tutto ciò che era sacro si profanizza, e gli uomini si trovano da ultimo a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione. Spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia corre, per invaderlo, tutto l’orbe terraqueo. Da per tutto le conviene di annidarsi e di stabilirsi, da per tutto le occorre di estendere le linee del commercio. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolitica la produzione e la consumazione di tutti i paesi. A gran cordoglio di tutti i reazionarii, essa ha tolto all’industria la base nazionale. Le antiche ed antichissime industrie nazionali furono, o sono, di giorno in giorno distrutte. Vengon soppiantate da industrie nuove, la cui adozione diviene question di vita o di morte per tutte le nazioni civili; da industrie, che non impiegan più le materie prime indigene, ma anzi adoperano quelle venute dalle più remote zone, e i cui prodotti si consumano non solo nel paese stesso, ma in tutte le parti del mondo. Ai bisogni, a soddisfare i quali bastavano un tempo i prodotti nazionali, ne succedono ora dei nuovi, che esigono i prodotti dei più remoti climi e paesi.

All’isolamento locale e nazionale, per cui traffico multiforme e multilaterale, per cui ciascun paese s’accontentava di se stesso, succede un traffico multiforme e multilaterale, per cui le nazioni entrano in una condizione di interdipendenza. E come è dei prodotti materiali, così accade anche dei prodotti intellettuali. I prodotti intellettuali di ogni singola nazione divengono la proprietà comune di tutte. L’esclusivismo nazionale diviene sempre più impossibile, e dalle molte letterature nazionali e locali vien fuori una letteratura mondiale. Per via del rapido perfezionamento di tutti gli istrumenti della produzione, e per le comunicazioni divenute infinitamente più facili, essa trascina per forza nella corrente della civiltà anche le nazioni più barbare. I bassi prezzi delle sue merci son la pesante artiglieria, con la quale atterra tutte le muraglie cinesi, e con la quale ha fatto capitolare i barbari più induriti nell’odio dello straniero. Costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese, se pure non voglion perire, e le forza a ricevere ciò che dicesi civilizzazione, e ossia a farsi borghesi. A dirla in una sola espressione, crea un mondo a immagine e similitudine sua. La borghesia ha fatto della città la signora assoluta della campagna. Ha creato delle città enormi; a confronto della popolazione rurale ha grandemente accresciuta la popolazione urbana, e così ha sottratta buona parte della popolazione stessa all’idiotismo della vita contadinesca. Come ha assoggettata la campagna alla città, così ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbarici o semibarbarici, e i popoli prevalentemente contadineschi ha sottoposto a quelli a predominio borghese, e l’Oriente all’Occidente. La borghesia via via sempre più sopprime il frazionamento e lo sparpagliamento dei mezzi di produzione, del possesso e della popolazione. Essa ha agglomerata la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, ha raccolta in poche mani la proprietà. Ne resultò come necessaria conseguenza la centralizzazione politica. Delle provincie indipendenti, ricollegate appena fra loro da vincoli federali, delle provincie con interessi difformi e con leggi, governi e dogane proprie, furono raccolte e ridotte in nazione unica, con governo unico, con legge unitaria, con un solo e collettivo interesse di classe, e con una sola linea doganale. Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha messo in essere delle forze produttive, il cui numero e la cui portata colossale supera quanto avesser mai fatto le passate generazioni tutte insieme. Aggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, il telegrafo elettrico, la messa a cultura d’interi continenti, i fiumi resi navigabili, delle popolazioni intere sorte quasi miracolosamente dal suolo: – ma quale dei secoli

antecedenti avrebbe mai presentito che tali forze produttive giacessero latenti in seno al lavoro sociale? Ecco quel che abbiam visto: i mezzi di produzione e di scambio valsi di fondamento allo sviluppo della borghesia, furon prodotti per entro alla società feudale. A un certo punto dello sviluppo dei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, ossia l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, o, in una parola, i rapporti feudali della proprietà, non corrispondevano più alle forze produttive venute a pieno sviluppo. Quelle condizioni, in luogo di favorire, impedivano la produzione. Divennero come delle catene. Bisognava spezzarle, e furono spezzate. Subentrò la libera concorrenza, con la congrua costituzione sociale e politica, e con la signoria economica e politica della borghesia. Sotto i nostri occhi si va compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi della produzione e dello scambio, i rapporti della proprietà borghese, o, in una sola espressione, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocato. Già da qualche decennio la storia della industria e del commercio è ridotta ad essere la storia della ribellione delle forze moderne della produzione contro i rapporti moderni della produzione, e ossia contro i rapporti di proprietà, che son le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basta di ricordare le crisi commerciali, le quali, col fatto del ripetersi periodicamente, sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese. Ogni crisi distrugge regolarmente, non solo una gran fatta di prodotti, ma molte di quelle forze produttive, che erano state di già create. Una epidemia, che in ogni altra epoca storica sarebbe parsa un controsenso, una epidemia nuova si rivela nelle crisi, ed è quella della soprapproduzione. La società ricade inaspettatamente in uno stato transitorio di vera barbarie. Si direbbe che la carestia, o una guerra generale di sterminio, l’abbia privata dei mezzi d’esistenza: il commercio e l’industria paiono annientati, e perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone, non giovan più a favorire lo sviluppo dei rapporti della proprietà borghese; anzi son troppo potenti per tali rapporti, che divengono per ciò degl’impedimenti; e tutte le volte che esse forze superano l’impedimento mettono in disordine l’intera società, e minacciano l’esistenza della proprietà borghese. Le condizioni del mondo borghese son diventate oramai troppo anguste per contenere la ricchezza, che esse stesse producono. Per quali vie riesce la borghesia a vincere le crisi? Per un verso col

farsi imporre dalle circostanze la distruzione di una grande quantità di forze produttive; e per un altro verso con la conquista di nuovi mercati, e col più intenso sfruttamento dei già esistenti. Per che via, dunque? Per quella di preparare nuove, più estese e più formidabili crisi, e di diminuire i mezzi per ovviare alle crisi future. Quelle stesse armi, per mezzo delle quali la borghesia riuscì ad abbattere il feudalesimo, si rivolgono ora contro di essa. Ma la borghesia non ha soltanto ammannito le armi, che devono recarle la morte; perché essa ha anche prodotto gli uomini, che quelle armi han da portare, e sono gli operai moderni, i proletarii. Commisuratamente allo svolgersi della borghesia, ossia del capitale, di pari passo si svolge il proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali intanto vivono in quanto trovan lavoro, e intanto trovan lavoro in quanto il lavoro loro accresce il capitale. Questi operai, che son costretti a vendersi giorno per giorno, non sono se non una merce come tutte le altre, e perciò una merce soggetta a tutte le vicende della concorrenza, e a tutte le fluttuazioni del mercato. Con l’estendersi dell’uso delle macchine, e per effetto della division del lavoro, l’attività dell’operaio ha perduto ogni carattere d’indipendenza, e per ciò stesso ogni attrattiva. L’operaio diventa un semplice accessorio della macchina, né gli si chiede altro, dalla più semplice e dalla più monotona operazione in fuori, la quale del resto si apprende in assai breve tempo. Il costo dell’operaio si limita in conseguenza ai semplici mezzi di sussistenza, che gli occorrono per vivere, e per propagare la sua razza. Ora si sa che il prezzo d’ogni merce, compreso il lavoro, è eguale al costo di produzione; e per ciò, a misura che il lavoro si fa più repugnante, il salario discende. E non basta; ché, anzi, a misura che l’uso delle macchine e la division del lavoro vanno crescendo, cresce la quantità del lavoro, sia per il prolungarsi delle ore di lavoro, sia per l’aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, o sia per l’acceleramento delle macchine. L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del patriarcale maestro d’arte nella grande fabbrica del capitalista industriale. Delle masse di operai addensate nelle fabbriche ricevono una organizzazione militare. Come soldati semplici della industria vengono sottoposti ad una completa gerarchia di ufficiali e di sottufficiali. Non sono soltanto gli schiavi della classe borghese e dello stato borghese, perché son tutti i giorni e tutte l’ore gli schiavi della macchina, e del vigilatore, e soprattutto del singolo padrone della fabbrica. Cotesto dispotismo è tanto più misero, odioso, esasperante, in quanto che professa di non avere per obiettivo se non il semplice profitto. Per quanto meno di abilità e di forza vien richiesto al lavoro, e ossia per

quanto l’industria moderna sempre più si svolge, tanto più riesce cosa facile di sostituire al lavoro maschile quello delle donne. Le differenze di sesso e di età non hanno oramai importanza sociale per la classe operaia. Non c’è che istrumenti di lavoro, varii di prezzo secondo il sesso e l’età. Non appena l’operaio abbia finito di subire lo sfruttamento del fabbricante, ed abbia toccato il salario in contanti, eccolo a diventar subito preda degli altri membri della borghesia, – il padron di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno. Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato: parte perché il piccolo capitale di cui dispongono non è sufficiente all’esercizio della grande industria, e quindi nella concorrenza coi grandi capitalisti soccombe; e parte perché le loro attitudini e abitudini tecniche perdon di valore al confronto coi nuovi metodi di produzione. Ed ecco come il proletariato si va reclutando da tutte le classi della popolazione. Il proletariato percorre diverse fasi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia comincia dalla sua nascita. Dapprima lottano un per uno i singoli operai, poscia gli operai di una sola fabbrica, e in seguito tutti gli operai di una data arte, in un dato luogo, e contro quel singolo borghese che direttamente li sfrutta. Non si limitano a rivolgere i loro attacchi contro il modo della produzione borghese, ma li dirigono contro gli stessi istrumenti della produzione: – distruggono le merci straniere, che fan loro concorrenza, infrangono le macchine, incendiano le fabbriche, e si sforzano di riacquistare la perduta posizione dell’artigiano medioevale. In cotesto primo grado dello sviluppo gli operai formano come una massa incoerente dispersa per tutto il paese, e che le ragioni della concorrenza tengono sparpagliata. Se qualche volta gli operai si raccolgono in massa compatta, ciò non è dovuto alla lor propria e spontanea azione, ma all’azione della borghesia raccolta in fascio, la quale per raggiungere i suoi proprii fini politici deve mettere in moto l’intero proletariato, e si trova ancora in grado di riuscirvi. In cotesta prima fase i proletarii non combattono i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici, e cioè gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietarii fondiarii, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutta l’azione storica è nelle mani della borghesia, ed ogni vittoria è vittoria sua. Ma sviluppandosi l’industria, il proletariato non solo cresce di numero, ma si addensa in grandi masse, ond’è che la forza gli va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli interessi e i modi di vivere dei proletarii si vanno di giorno in giorno riavvicinando ad un tipo comune, perché la macchina cancella sempre di più le differenze del lavoro, e fa discendere quasi da per tutto il salario allo stesso livello. Per la concorrenza che cresce fra i borghesi, e per le crisi del

commercio che da ciò resultano, il salario degli operai diventa sempre più incerto; l’incessante miglioramento delle macchine, che diviene sempre più rapido, rende sempre più precaria tutta la condizione di vita dell’operaio; i conflitti fra operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo i caratteri di collisioni fra due classi. Ed è così che gli operai cominciano a fare delle coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere i loro salarii. Fondano perfino delle associazioni permanenti, per trovarsi provveduti dei mezzi di esistenza durante le lotte eventuali. Qualche volta la lotta diventa sommossa. Di tanto in tanto gli operai vincono: ma è vittoria passeggiera. Il vero e proprio resultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma è la sempre crescente solidarietà dei lavoratori. Cotesta solidarietà è agevolata dai mezzi di comunicazione, che la grande industria ha bisogno di far crescere, e che pur riavvicinano gli operai di località diverse. Basta cotesta congiunzione, perché le molte e varie lotte locali di carattere omogeneo si raccolgano e concentrino in una sola lotta nazionale e di classe. Ma ogni lotta di classe è una lotta politica: – e la unione per la quale occorrevano al borghese del medio evo, con le sue strade vicinali, dei secoli di lavoro, viene ora in pochi anni a maturità, dato l’uso delle vie ferrate. La organizzazione del proletariato in classe, e quindi in partito politico, è di continuo spezzata dalla concorrenza degli operai in fra loro stessi. Ma risorge sempre e di nuovo, più poderosa e più compatta. Essa forza al riconoscimento di certi interessi degli operai per via della legge, perché s’avvantaggia delle discordie intestine delle diverse frazioni della borghesia. Così è stato per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra. I conflitti in seno alla vecchia società favoriscono in genere in molti modi lo sviluppo progressivo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta, innanzi tutto e da principio con l’aristocrazia, poi più tardi con quelle parti della borghesia stessa, gl’interessi delle quali si trovano in confitto col progresso dell’industria; e poi sempre e di continuo con la borghesia dei paesi stranieri. In tutte coteste lotte si trova nella necessità di appellarsi al proletariato, e di giovarsi del suo concorso, trascinandolo entro al moto politico. È essa stessa, dunque, che offre al proletariato gli elementi della sua propria coltura, il che vuol dire poi che gli offre le armi contro di se stessa. Accade inoltre, come abbiamo già detto, che, per effetto dei progressi dell’industria, intere frazioni della classe dominante, o precipitano nella condizione del proletariato, o sono per lo meno minacciate nella loro esistenza. Queste frazioni stesse recano al proletariato dei molteplici elementi di coltura. Infine, quando la lotta di classe sta per venire al momento decisivo, il disgregamento della classe dominante per entro alla vecchia società assume un

carattere così violento ed aspro, che una piccola parte della classe dominante stessa, abbandonando i suoi si allea alla classe rivoluzionaria, ossia a quella classe che ha nelle mani l’avvenire. E come già un tempo una parte della nobiltà passò dal lato della borghesia, così ora una parte della borghesia si unisce al proletariato, e segnatamente una parte degl’ideologi borghesi, che son giunti ad intendere teoreticamente il tutto del movimento storico. Di tutte le classi che presentemente stan di contro alla borghesia, il proletariato solo costituisce una classe rivoluzionaria. Le altre classi si corrompono e periscono sotto l’azione della grande industria, mentre il proletariato è e rimane il più genuino prodotto di essa. I ceti medii, e ossia il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino piccolo possidente, tutti costoro combattono la borghesia sì, ma per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medii appunto. E sono per di più reazionarii, e si provano a far girare indietro la ruota della storia. E se sono rivoluzionarii diventan tali in vista della loro prossima caduta nella massa del proletariato; e cioè non difendono i loro interessi presenti, ma difendono i loro interessi futuri, e cioè dire che abbandonano il loro attuale punto di vista per mettersi in quello del proletariato. Quanto all’insieme degli straccioni e della canaglia, che è ciò che rappresenta la putrefazione passiva degli strati infimi della società esistente, può darsi che qua e là, e cioè in parte, possa esser trascinato dentro al movimento di una rivoluzione proletaria, ma il suo abituale genere di vita lo rende più disposto a farsi comprare, e a farsi mettere in servizio delle mene reazionarie. Le condizioni di esistenza della vecchia società son come distrutte nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza proprietà; i suoi rapporti con la moglie e coi figliuoli non hanno più nulla di comune coi rapporti borghesi della famiglia; il moderno lavoro industriale, la moderna soggezione al capitale, che è la stessa in Francia come in Inghilterra, in Austria come in Germania, lo ha spogliato d’ogni carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione diventan per esso tanti pregiudizii borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi. Tutte le classi, che fino ad ora s’impossessarono del potere, cercaron sempre di consolidare la posizione raggiunta, con l’assoggettare la società tutta intera alle condizioni del loro particolare modo di acquisizione. I proletarii, invece, solo per una via possono impossessarsi delle forze produttive sociali, ed è quello di abolire il modo col quale essi conseguiscono un provvento, il che importa che si abolisca tutto l’attuale sistema di appropriazione. I proletarii non han nulla di proprio da assicurare, essi han solo da abolire ogni sicurtà privata, ed ogni privata guarentigia.

Tutti i movimenti avvenuti fin qui furon di minoranze, o nell’interesse delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento spontaneo della gran maggioranza, nell’interesse della gran maggioranza. Il proletariato, infimo strato della società attuale, non può sollevarsi, non può levarsi ritto, senza che tutti i sovrapposti strati della società ufficiale vadano in frantumi. Non quanto all’intimo fondo, ma di certo quanto alla forma, la lotta del proletariato con la borghesia riveste alle prime un carattere nazionale. Gli è naturale che in prima il proletariato di ciascun paese la faccia finita con la sua propria borghesia. Toccando a grandi tratti delle fasi generali dello sviluppo del proletariato, noi abbiam seguita la storia della più o meno occulta guerra civile che travaglia la società attuale, fino al momento che la lotta stessa si trasmuti in aperta rivoluzione, e che il proletariato stabilisca il suo dominio con la violenta rovina della borghesia. La società, come abbiamo già visto, ha poggiato fino ad ora su la opposizione delle classi degli oppressi e degli oppressori. Ma, per potere opprimere una classe, bisogna pure assicurarle delle condizioni entro alle quali le sia dato di vivere almeno la misera vita degli schiavi. Il servo della gleba giungeva, in piena feudalità, a farsi faticosamente membro del comune, come il piccolo borghese protetto raggiungeva il grado di pieno borghese sotto il dominio dell’assolutismo feudale. L’operaio moderno, invece, anzi che salir di grado coi progressi dell’industria, discende sempre più in basso, e perfino al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa più rapidamente che non la popolazione o la ricchezza. Gli è dunque da tutto ciò manifesto, che la borghesia è incapace di rimanere più a lungo nella posizione di classe dominante nella società, e d’imporre alla società come suprema legge le sue condizioni di esistenza, in quanto essa è classe. Essa è incapace di regnare, perché essa non è atta ad assicurare ai suoi schiavi la elementare esistenza nemmeno nei limiti della stessa schiavitù, e perché essa è costretta a farli discendere a tal condizione, da doverli poi nudrire, anzi che esserne nudrita. La società non può più vivere sotto al suo dominio: il che viene a dire, che la sua esistenza è incompatibile con quella della società. È condizione essenziale alla esistenza e al dominio della classe borghese questa, che la ricchezza, cioè, si accumuli nelle mani dei privati, e che il capitale si formi e si aumenti: – ora è condizione del capitale il lavoro a salario. Questo riposa esclusivamente su la concorrenza in fra gli operai. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è come l’agente passivo, va intanto sostituendo all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria per via dell’associazione. Lo sviluppo della grande

industria va togliendo di sotto ai piedi della borghesia il terreno, sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa innanzi tutto produce i suoi proprii becchini. La rovina della borghesia e la vittoria del proletariato son del pari inevitabili.

II PROLETARII E COMUNISTI

Cosa sono i comunisti per rispetto ai proletarii in generale? I comunisti non costituiscono un partito a sé, di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi proprii, che sian distinti da quelli del proletariato, nel suo insieme. Non statuiscono dei principii a parte, su i quali vogliano poi modellare il movimento proletario. I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletarii solo in questo, e cioè: che essi, in prima, date le differenti lotte nazionali dei proletarii, mettono in rilievo e fanno valere quei comuni interessi del proletariato tutto intero, che sono appunto indipendenti dalla nazionalità; e che essi, d’altra parte, nelle diverse fasi di sviluppo che la lotta fra il proletariato e la borghesia va percorrendo, rappresentano costantemente l’interesse del movimento complessivo. I comunisti son dunque, in pratica, quella frazione di tutti i partiti operai di tutti i paesi, che è la più decisa, e che più spinge ad avanzare: ed essi poi s’avvantaggiano teoreticamente su la rimanente massa del proletariato per via dell’intendimento netto che hanno, così delle condizioni e dell’andamento, come dei resultati generali del movimento proletario. L’intento prossimo dei comunisti è quel medesimo, che è proprio a tutti gli altri partiti proletarii: formazione del proletariato in classe, rovina della signoria borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato. Gli enunciati teoretici dei comunisti non poggiano punto sopra idee o principii, che questo, o quello fra i rinnovatori del mondo abbia escogitati o scoverti. Quegli enunciati son soltanto la espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classi che realmente esiste, e ossia di un movimento storico, che si svolte sotto ai nostri occhi. L’abolizione dei rapporti di proprietà fino ad ora esistiti non è la nota veramente caratteristica del comunismo. Tutti i rapporti di proprietà andaron sempre soggetti a storiche vicende, e ad una continua trasformazione. La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale in favore della proprietà borghese. Ciò che caratterizza il comunismo non è l’abolizione della proprietà in genere, ma è l’abolizione della proprietà borghese. Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella forma di produzione e di appropriazione, che poggia su gli

antagonismi di classe, e su lo sfruttamento degli uni per opera degli altri. E in questo senso i comunisti possono compendiare la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata. È stato mosso rimprovero a noi comunisti, di voler abolire la proprietà personalmente acquisita per via di penoso lavoro: quella proprietà che dicesi costituisca il fondamento di ogni libertà, di ogni attività, e della indipendenza dell’individuo. Proprietà acquistata col penoso lavoro, e individualmente meritata! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese, o del piccolo possidente contadino, che fu anteriore alla proprietà borghese? Noi quella non abbiamo bisogno di abolirla; ché lo sviluppo dell’industria l’ha già tolta di mezzo, o è su la via di distruggerla. O parlate voi, invece della moderna proprietà privata borghese? O che il lavoro a salario, il lavoro del proletario, crea esso forse della proprietà per il proletario stesso? In nessun modo. Quel lavoro a salario non genera che capitale, ossia genera la proprietà che sfrutta il lavoro a salario, e che non può accrescersi se non a patto di generare nuovo lavoro a salario, da sfruttare di bel nuovo. La proprietà, quanto alla sua forma presente, si muove entro la opposizione fra capitale e lavoro a salario. Esaminiamo i due termini di tale antinomia. Esser capitalista non vuol dire soltanto che si occupi una semplice posizione privata, ma che anzi si tiene una posizione sociale nel sistema della produzione. Il capitale è un prodotto collettivo, e non può esser messo in movimento se non per l’attività concorrente di molti membri della società, e poi, in ultima istanza, solo per mezzo dell’attività combinata di tutti i membri della società stessa. Il capitale non è una potenza personale: esso è una potenza sociale. Se il capitale, dunque, vien trasformato in proprietà comune, che appartenga a tutti i membri della società, non avviene già perciò che una proprietà personale venga a trasformarsi in una proprietà sociale. Gli è solo il carattere sociale della proprietà che si cambia. Essa perde il carattere di proprietà di classe. Veniamo al lavoro a salario. Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di esistenza occorrenti per mantenere in vita l’operaio in quanto è operaio. Ciò, dunque, che l’operaio salariato, mediante l’attività sua, fa suo, basta solo a mantenere e a riprodurre la sua magra esistenza. Cotesta appropriazione personale dei prodotti del lavoro, che è indispensabile alla conservazione e riproduzione della vita, noi non vogliamo punto abolirla; essa non reca alcun profitto netto, che dia potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il tristo e misero modo di cotesta appropriazione, per cui

l’operaio vive solo per aumentare il capitale, e quel tanto vive che è richiesto dall’interesse della classe dominante. Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunistica il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il modo di esistenza dei lavoratori. Nella società borghese il passato domina in sul presente, nella società comunistica il presente sarà signore del passato. Nella società borghese il capitale è personale ed indipendente, mentre l’individuo operante è privo d’indipendenza e di personalità. Ora l’abolizione di tale stato di cose vien detta dalla borghesia abolizione della personalità e della libertà. Ed a ragione. Perché si tratta per fermo di abolire la personalità, la indipendenza e la libertà del borghese. Sotto il nome di libertà ora, per entro agli attuali rapporti borghesi della produzione, s’intende il libero commercio, e il libero comprare e vendere. Caduto il mercantare, cade anche la libertà del mercantare. Le frasi risonanti del libero trafficare e mercanteggiare, come tute le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno in genere un qualche senso solo per rispetto e in contrapposto all’intralciato traffico ed alla vincolata cittadinanza del Medio-Evo, ma non ne hanno alcuno rispetto all’abolizione comunistica del commercio, delle forme borghesi della produzione, e della borghesia stessa. Voi raccapricciate all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella società vostra attuale la proprietà fu già abolita per nove decimi dei membri suoi; e la proprietà esiste solo in quanto non esiste per quei nove su dieci. Voi dunque ci rimproverate che noi vogliamo abolire una forma di proprietà, la quale suppone come sua indispensabile condizione il tener privi di ogni proprietà il più gran numero dei membri della società. Voi ci rimproverate, in somma, di volere abolire la proprietà vostra. Senza dubbio, e per fermo, ciò noi vogliamo. Dal momento che il lavoro non si presti più a lasciarsi trasformare in capitale, in danaro, in rendita della terra, ossia, a farla breve, non si presti più a farsi trasformare in una forza sociale monopolizzabile; il che vuol dire dal momento che la proprietà personale non può esser più trasformata in proprietà borghese, da quel momento voi dichiarate che la persona rimane soppressa. Voi, dunque, confessate, che sotto al nome di persona non sia da intendere se non il borghese, ossia il proprietario borghese. E questa persona deve essere, non c’è dubbio, soppressa. Il comunismo non toglie ad alcuno la facoltà di appropriarsi i prodotti sociali, ma toglie solo la facoltà di giovarsi di tale appropriazione per recare in

soggezione il lavoro altrui. Fu mossa questa obiezione, che, abolita che fosse la proprietà privata, cesserebbe ogni impulso di attività, e una generale inerzia invaderebbe il mondo. Se tal ragionamento reggesse, da un pezzo già la società borghese avrebbe dovuto andare in rovina per effetto della indolenza; poiché quelli che in essa lavorano non raccolgono profitto, e quelli che in essa profittano non lavorano. Tutta la grave obiezione si riduce a questa tautologia: non c’è più lavoro a salario là dove non sia più il capitale. Tutte coteste obiezioni, come furon mosse alla forma comunistica del produrre e dell’appropriarsi i prodotti materiali, così furono anche rivolte contro la produzione ed appropriazione dei prodotti intellettuali. Quello stesso borghese il quale ritiene, che, cessando la proprietà di classe, cessi la produzione, afferma del pari che cessando la coltura di classe la coltura tutta perirebbe. La coltura, la cui perdita si rimpiange, non è per la maggior parte degli uomini se non l’avviamento a diventare delle macchine belle e buone. Ma astenetevi dal discutere con noi, giacché voi applicate all’abolizione della proprietà borghese i vostri criterii borghesi della libertà, della coltura, del diritto e così via. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi della proprietà e della produzione, come il vostro diritto non è se non il volere della vostra classe elevato a legge, un volere il cui contenuto è già dato dalle condizioni materiali d’esistenza della vostra stessa classe. Cotesta interessata concezione, che vi fa elevare al grado di leggi eterne della natura e della ragione quei vostri rapporti della proprietà e della produzione, che son nati in verità storicamente nel corso della produzione stessa, voi l’avete di comune con tutte le classi dominanti che già perirono. Ciò che voi intendete ed ammettete per la proprietà antica, ciò che voi riconoscete per la proprietà feudale, voi non siete più in grado d’intenderlo e di riconoscerlo quando si tratti della proprietà borghese! Ma volere abolire la famiglia! Perfino i più avanzati fra i radicali s’indignano per tale obbrobrioso proposito dei comunisti. Su che cosa riposa l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno personale. Non esiste nel suo pieno sviluppo se non per la sola borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza della vita di famiglia presso i proletarii, e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venire meno di tale complemento: e la famiglia borghese e suo complemento spariranno con lo sparire del capitale. Voi ci rimproverate di voler noi abolire lo sfruttamento dei fanciulli da parte dei genitori? Noi questo lo confessiamo volentieri.

Ma voi dite che noi infrangiamo i più sacri legami, perché alla educazione domestica noi sostituiamo quella sociale. Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla società; e cioè dalle condizioni sociali, in mezzo alle quali voi educate, e dall’intervento più o meno diretto od indiretto della società stessa, per mezzo della scuola? Non sono i comunisti che inventino l’azione della società su l’educazione: – essi ne mutano soltanto il carattere, e sottraggono l’educazione all’influsso della classe dominante. Le declamazioni borghesi su la famiglia, su la educazione, e su i dolci legami che uniscono i figliuoli ai genitori, divengono sempre più nauseanti quanto più, per effetto della grande industria, i legami di famiglia si van perdendo del tutto tra i proletarii, e i fanciulli si trasformano in articoli di commercio e in istrumenti di lavoro. Ma voi comunisti, così grida in coro la borghesia tutta intera, voi volete introdurre la comunanza delle donne. Il borghese non vede nella moglie se non un semplice istrumento di produzione. Ora nel sentire che gli istrumenti di produzione saranno sfruttati in comune, esso non può a meno di pensare, che la stessa sorte dell’uso in comune debba toccare anche alle donne. E non capisce punto, che si tratta precisamente di togliere alla donna il carattere di un istrumento di produzione. Del resto non si dà nulla di tanto grottesco, quanto l’orrore da moralisti raffinati, col quale i nostri borghesi riguardano la pretesa comunanza delle donne, che avrebbe presso i comunisti carattere ufficiale. I comunisti non han per davvero bisogno d’introdurre la comunione delle donne, perché questa c’è stata quasi sempre. I nostri borghesi, non paghi di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletarii, usano – per passar sopra qui alla prostituzione ufficiale – di tenere per loro principalissimo spasso quello della mutua seduzione delle consorti loro. Il matrimonio borghese è in verità la comunanza delle donne. Tutto al più si potrebbe muovere questo rimprovero ai comunisti, che, essi, cioè, vogliono sostituire ad una comunione delle donne dissimulata con ipocrisia, un’altra che sarebbe ufficiale e sincera. Ma si capisce poi del resto, che aboliti che fossero i presenti rapporti della produzione, sparirebbe del pari la presente comunanza delle donne, che da quei rapporti deriva, e ossia la prostituzione ufficiale e la non ufficiale. I comunisti vengono inoltre accusati di voler distruggere la patria, – la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma

come il proletariato d’ogni paese deve innanzi tutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, così esso è e rimane ancora nazionale, sebbene sia tale in un senso affatto diverso da quello della borghesia. Le delimitazioni e gli antagonismi dei popoli vanno via via sparendo, per lo stesso sviluppo della borghesia, per la libertà del commercio, per l’azione del mercato mondiale, per la uniformità della produzione industriale e per le condizioni di esistenza che da essa derivano. Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletarii dei paese civilizzati, è una delle condizioni prime della liberazione del proletariato. A misura che verrà abolito lo sfruttamento dell’individuo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione per mezzo di un’altra. Caduto che sia il contrasto delle classi nell’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse. Le accuse contro il comunismo, che muovono da considerazioni religiose, filosofiche, o altrimenti ideologiche, non meritano si faccia intorno ad esse un accurato esame. Occorre forse una grande profondità di mente per intendere, che mutandosi le condizioni di vita degli uomini, e i loro rapporti sociali e il modo d’essere della società, si mutano anche le vedute, le nozioni e le concezioni, il che vuol dire che si muta la coscienza degli uomini? Che cos’altro mai dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale s’è andata cambiando col rivoluzionarsi della produzione materiale? Le idee dominanti da un dato tempo non sono se non le idee della classe dominante. Si sente a parlare d’idee che mettono in rivoluzione una intera società. Ebbene con ciò si viene semplicemente a dire, che in seno alla società preesistente si son già sviluppati gli elementi di una società nuova, e che con la dissoluzione degli antichi rapporti di vita va di pari passo la dissoluzione delle antiche idee. Quando il mondo antico stava per declinare, le antiche religioni furon tutte vinte dalla religione cristiana. Nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alla corrente dei lumi, nel momento appunto che la società feudale sosteneva l’estrema lotta con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di libertà religiosa non valsero se non a proclamare il principio della libera concorrenza nel campo del sapere. «Ma – si dirà – non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche e giuridiche si vanno modificando nel corso degli svolgimenti storici.

Se non che, però, la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si mantennero sempre in vita in tutti questi mutamenti. «Vi ha inoltre delle verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc. che son comuni a tutte le forme sociali. Il comunismo abolisce invece le verità eterne: esso abolisce la religione e la morale, in luogo di rinnovellarle, e con ciò contraddice a tutto lo svolgimento storico verificatosi fin qui». A che si riduce cotesta accusa? Tutta la storia della società s’è mossa fin qui attraverso ai contrasti delle classi, i quali nelle diverse epoche assunsero forme diverse. Ma quale che fosse pure la forma assunta da tali contrasti, lo sfruttamento di una parte della società per mezzo di un’altra fu il fatto costante in tutti i secoli passati. Non è per ciò da maravigliare, se in tutti codesti secoli, malgrado le diversità e le variazioni che pur essa mostra, la coscienza sociale si movesse sempre in certe forme comuni, in certe forme che andranno in dissoluzione solo col completo sparire dell’antagonismo delle classi. La rivoluzione comunistica è la più radicale rottura con tutti i tradizionali rapporti della proprietà: e non è quindi da maravigliare se nel corso del suo sviluppo essa la rompe nel modo più radicale con le idee tradizionali. Ma lasciamo ora da parte le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Noi abbiamo visto più su, che la prima tappa della rivoluzione operaia consiste nel fatto, che il proletariato si elevi a classe dominante, e ossia consiste nel raggiungere vittoriosamente la democrazia. Il proletariato profitterà del suo dominio politico, per togliere via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello stato, e ossia del proletariato organizzato qual classe dominante, tutti gl’istrumenti della produzione, e per aumentare con la massima celerità possibile le forze produttive. Tutto ciò non può naturalmente accadere se non per via di dispotiche infrazioni al diritto di proprietà, e di violazioni ai rapporti borghesi della produzione, e ossia per mezzo di misure che appariranno quali economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpasseranno se stesse spingendo a nuove misure, e che per intanto son mezzi indispensabili per raggiungere la sovversione della intera forma di produzione. Codeste misure saranno, s’intende, da paese a paese diverse. Ma nei paesi più progrediti, quelle che qui appresso s’indicano potranno essere a un di presso generalmente applicate: 1. Espropriazione della proprietà fondiaria, e impiego della rendita della terra per le spese dello stato; 2. Tassa fortemente progressiva;

3. Abolizione del diritto d’eredità; 4. Confisca dei beni degli emigranti e dei ribelli; 5. Centralizzazione del credito in mano allo stato, mediante una banca nazionale con capitale di stato e con monopolio esclusivo; 6. Centralizzazione dei mezzi di trasporto in mano allo stato; 7. Aumento delle fabbriche nazionali e degl’istrumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano generale; 8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, organizzazione di eserciti industriali specialmente in vista dell’agricoltura; 9. Combinazione dell’esercizio dell’agricoltura e dell’industria, e misure atte a preparare la lenta sparizione della differenza fra città e campagna; 10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, nella sua forma attuale. Combinazione dell’educazione con la produzione materiale. Quando nel corso degli eventi le differenze di classe saranno sparite, e tutti i mezzi di produzione saran venuti nelle mani degli individui associati, il potere pubblico avrà naturalmente perduto ogni carattere politico. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, non è se non il potere organizzato di una classe per la oppressione di un’altra. Ora se il proletariato nella lotta contro la borghesia è forzato a raccogliersi in classe, e se fattosi poscia per mezzo della rivoluzione classe dominante distrugge violentemente gli antichi rapporti della produzione, esso per tal modo abolendo cotali rapporti abolisce le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, e cioè abolisce le classi in generale e il suo proprio dominio di classe. Alla società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentrerà una associazione, nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.

III LA LETTERATURA DEL COMUNISMO E DEL SOCIALISMO

1° Il Socialismo reazionario. a) Il Socialismo feudale. Per effetto della lor propria situazione storica, l’aristocrazia inglese e quella francese eran come chiamate a lanciare dei libelli contro la moderna società borghese. Così nella rivoluzione francese del Luglio 1830, come nel movimento della riforma elettorale inglese, l’aristocrazia era di nuovo soggiaciuta all’aborrita classe dei nuovi venuti. Non era più il caso di pensare ad una seria lotta politica, e rimaneva aperto il solo campo della lotta letteraria. Ma anche nell’ambito letterario la vecchia fraseologia del periodo della restaurazione era diventata cosa insostenibile. Per crearsi delle simpatie l’aristocrazia dovea ben darsi l’apparenza di perder di vista i suoi proprii interessi, formulando i suoi atti d’accusa contro la borghesia solo in difesa della sfruttata classe degli operai. Si procurava così il piacere d’intuonare dei canti ingiuriosi contro i suoi nuovi padroni, susurrando loro negli orecchi delle profezie di più che sinistro augurio. Per cotal via nacque il socialismo feudale, che è per metà geremiade e per metà pasquinata, parte è eco del passato e parte è paurosa minaccia del futuro, e poi al tempo stesso ferisce proprio al cuore la borghesia per via d’una critica mordace ed ingegnosa, ma riman sempre di effetto comico per la sua assoluta incapacità a comprendere l’andamento della storia moderna. Per raccogliere e trarsi dietro il popolo cotesti signori inalberarono a guisa di bandiera la bisaccia del proletario mendicante. Ma quelli che si provavano a seguirli li videro per di dietro adorni dei vecchi blasoni feudali, e si dispersero dando in uno scoppio di rumorose e irriverenti risate. Una parte dei legittimisti francesi e la giovane Inghilterra dettero questo allegro spettacolo. Quando cotesti campioni della feudalità, dimostrano che il modo di sfruttare dei feudatarii era diverso da quello dei borghesi, essi dimenticano che quel modo di sfruttare si esercitava in condizioni e circostanze affatto diverse, ed ora del tutto superate. Quando notano, che sotto al loro regime non esisteva il proletariato moderno, dimenticano di osservare che la borghesia è un necessario derivato appunto di quello che fu il loro ordinamento sociale. Del resto usano così poco di nascondere il carattere reazionario della loro critica, che il loro principale capo d’accusa contro la borghesia è appunto questo,

che sotto il suo dominio si va sviluppando una classe, che manderà in aria tutto l’ordine sociale esistente. Muovon rimprovero alla borghesia, non d’aver prodotto un proletariato in genere, ma d’aver prodotto un proletariato rivoluzionario. In pratica piglian parte attiva politica a tutte le misure violente contro la classe operaia, e nella vita di tutti i giorni, ad onta della lor gonfia fraseologia, s’accomodano a raccogliere gli aurei pomi, e a barattare mercantilmente tutta la cavalleria della fede, dell’amore e dell’onore con la lana di pecora, con la barbabietola e con l’acquavite. Come preti e signori feudali s’accompagnaron sempre in passato, così accade ora del socialismo clericale e di quello feudale. Non c’è cosa più facile del dare un po’ d’ intonaco socialistico all’ascetismo cristiano. Non s’è forse espresso il cristianesimo contro la proprietà privata, contro il matrimonio e contro lo stato? E non ha esso predicato i sostitutivi della carità, del mendicare, del celibato, della mortificazione della carne, della vita monastica, e della chiesa? Il socialismo cristiano non è se non l’acqua benedetta con la quale il prete consacra il rancore degli aristocratici. b) Il Socialismo piccolo-borghese. L’aristocrazia feudale non è la sola classe andata in rovina per opera della borghesia: e non è quella le cui condizioni di vita sole vengano a deperire, e spariscano, in seno alla moderna società borghese. Nei piccoli borghesi del Medio-Evo e nei contadini piccoli possidenti erano come i precursori della borghesia moderna. Nei paesi, nei quali il commercio e l’industria son poco sviluppati, cotesta classe continua a vegetare, a canto alla borghesia che sviluppasi in grandezza. Nei paesi, nei quali la civiltà moderna è fiorente, si è formata una nuova piccola borghesia, che di continuo oscilla fra il proletariato e la borghesia, e come parte complementare della società borghese si va sempre di nuovo rifacendo. Gl’individui che la compongono vengon di continuo ricacciati dalla concorrenza giù tra le fila del proletariato, e veggono appressarsi il momento nel quale per effetto dello sviluppo della grande industria dovranno del tutto sparire come parte indipendente della società moderna, e saran surrogati, così nel commercio e nella manifattura, come nell’agricoltura, dai fattori, agenti e garzoni. Nei paesi nei quali, come in Francia, la classe dei contadini costituisce più della metà della popolazione, era naturale che quegli scrittori i quali scendevano in campo in favore del proletariato e contro la borghesia, usassero nella loro critica del regime borghese la stregua del piccolo borghese e del piccolo

possidente contadino, e che pigliassero partito per gli operai da un punto di vista piccolo-borghese. Così si venne formando il socialismo piccolo-borghese. Sismondi è il capo di cotesta letteratura, così per l’Inghilterra, come per la Francia. Cotesto socialismo analizzò con grande acume le contraddizioni che sono inerenti ai rapporti moderni della produzione. Mise a nudo la ipocrisia, che è in fondo alle ottimistiche esposizioni degli Economisti. Dimostrò in modo irrefutabile gli effetti deleterii delle macchine e della division del lavoro, e poi la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la soprapproduzione, le crisi, la inevitabile sparizione dei piccoli borghesi e dei piccoli possidenti, la miseria del proletariato, l’anarchia nella produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale fra le nazioni portata fino all’esterminio, la dissoluzione degli antichi costumi, degli antichi rapporti familiari, delle nazionalità antiche. Ma quanto al contenuto positivo di ciò che vuole cotesto socialismo, o mira a ristabilire gli antichi mezzi di produzione e di scambio, e con essi gli antichi rapporti di proprietà e la società antica, o pensa di far rientrare per forza i mezzi moderni della produzione e dello scambio nel ristretto quadro degli antichi rapporti di proprietà, che quei mezzi appunto spezzarono, e doveano spezzare! In tutti due i casi esso è al tempo stesso reazionario ed utopistico. Per la manifattura la corporazione, per l’agricoltura le condizioni patriarcali: ecco la sua ultima parola. Da ultimo, e ossia alla fine del suo svolgimento, cotesta tendenza mette capo nella prostrazione mentale di chi abbia un triste incubo. c) Il Socialismo tedesco, ossia il Socialismo “vero”. La letteratura socialistica e comunistica della Francia, che nacque sotto ha pressione di una borghesia dominante, e quale espressione letteraria appunto di una effettiva lotta contro di quella signoria, principiò ad aver diffusione in Germania proprio nel momento nel quale la borghesia incominciava a lottare con l’assolutismo feudale. Dei filosofi tedeschi, dei semifilosofi e dei bellimbusto dell’amena coltura s’impadronirono avidamente di cotesta letteratura, dimenticando solo questo, che mentre immigravano di Francia in Germania cotesti scritti, non perciò immigravano dall’un paese all’altro le condizioni di vita propriamente francesi. Per rispetto alle condizioni tedesche quegli scritti francesi vennero a perdere ogni immediato carattere pratico, e assunsero l’aria di una pura e semplice manifestazione polemico-letteraria. Quegli scritti furono intesi come una oziosa speculazione su la realizzazione della vera natura umana. Così era un’altra volta

accaduto, quando nel secolo XVIII i filosofi tedeschi ridussero i postulati della rivoluzione francese a semplici esigenze della ragion pratica in universale, e interpretarono la volontà effettiva della borghesia francese come le leggi del volere puro, del volere quale esso dev’essere, del vero volere umano. Il vero e proprio lavoro di cotesti letterati tedeschi consistette soltanto in questo, che essi cioè procurarono di mettere in accordo le nuove idee francesi con la loro antecedente coscienza filosofica, e ossia, a dir meglio, s’ingegnarono di appropriarsi le nuove idee dal loro punto di vista filosofico. Cotesta appropriazione s’andò compiendo a quel medesimo modo nel quale in generale si giunge ad appropriarsi una lingua straniera… e ossia traducendo. Gli è noto in che modo i monaci del Medio-Evo usassero di raschiare i manoscritti contenenti le classiche scritture del mondo pagano antico, per poi scrivervi novellamente su le assurde leggende dei santi cattolici. I letterati tedeschi operarono in senso inverso nel maneggiare cotesti profani scritti francesi. Essi fecero scivolare la loro insensataggine su l’originale francese, e ve l’appiccicarono. Là, per es., la critica francese si aggira su i rapporti e su le funzioni della moneta, essi scrivono «alienazione della natura umana», e là dove la critica francese concerne lo stato borghese, essi scrivono «abolizione del dominio dell’universale astratto». Coteste viziate sostituzioni della fraseologia filosofica agli svolgimenti critici dei francesi, furono dagli autori stessi battezzate per «filosofia dell’azione», per «socialismo vero», per «scienza tedesca del socialismo», per «dimostrazione filosofica del socialismo». Per cotal via la letteratura francese socialistico-comunistica rimase evirata. E come essa cessava, in mano ai tedeschi, di esprimere la lotta di una classe contro di un’altra, così a ragione i tedeschi si vantano di aver superata «la unilateralità francese» e di rappresentare invece dei bisogni veri il bisogno della verità, e in cambio degli interessi del proletariato quelli della natura umana, dell’uomo in generale, dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, e anzi non appartiene punto alla realtà, ma solo al vaporoso cielo della fantasia filosofica. Cotesto socialismo tedesco, che pigliava così solennemente sul serio le sue goffe esercitazioni da scolaro, e ne menava vanto all’uso dei ciarlatani, andò poco per volta e via via perdendo la sua innocenza da pedanti. La lotta della borghesia contro la feudalità e contro la monarchia assoluta, e ossia, in una parola, il movimento liberale, s’andò facendo più serio in Germania, e specie in Prussia. Il socialismo «vero» ebbe così la fortunata occasione di contrapporre al movimento politico le rivendicazioni socialistiche, e di lanciare i già noti anatemi contro il liberalismo, contro la stato rappresentativo, contro la

concorrenza borghese, e così di seguito contro tutte le altre cose borghesi, libertà di stampa, diritto comune, libertà in genere, eguaglianza, e di andar predicando al popolo come esso per tal movimento borghese abbia tutto da perdere e nulla da guadagnare. Molto a proposito il socialismo tedesco seppe dimenticare, come quella critica francese, di cui esso era una misera eco, supponesse come esistente in fatto la società borghese moderna con le sue materiali condizioni di vita, e con la congrua costituzione politica; presupposti cotesti a raggiungere i quali occorreva in Germania di lottare ancora come per una conquista. I governi assoluti di Germania, con tutto il loro codazzo di preti, di maestri di scuola, di nobiluzzi rurali e di burocratici, si giovarono di tale socialismo come di spauracchio contro la borghesia, che si levava minacciosa. Quel socialismo fu come il dolce complemento alle amare sferzate e fucilate con le quali i governi tedeschi han trattato le sommosse degli operai. Cotesto socialismo «vero» mentre diventava un’arma dei governi contro la borghesia tedesca, rappresentava anche direttamente un interesse reazionario, e cioè quello dei piccoli borghesi, che così come furono tramandati dal secolo XVI, e così come da quel tempo in poi son sempre riapparsi in nuove forme, costituiscono il vero e proprio fondamento sociale delle presenti condizioni della Germania. Conservare la piccola borghesia gli è come conservare il presente assetto sociale tedesco. Cotesta piccola borghesia vede nel dominio della borghesia politica ed industriale la sua sicura rovina, e ciò per due ragioni: da una parte per la concentrazione del capitale, e da un’altra parte per il venir su di un proletariato rivoluzionario. Il socialismo «vero» le parve mezzo sicuro per ovviare d’un colpo ai due pericoli. E quello si diffuse come una epidemia. Quella veste intessuta di ragnatela speculativa, ricamata di fiori di pomposa retorica, satura di rugiada sentimentale, quella veste si direbbe quasi trascendentale, della quale i socialisti tedeschi ricoversero quel po’ di loro «verità eterne» ischeletrite, valse ad aumentare lo spaccio della merce in mezzo a cotal pubblico. E dal canto suo cotesto socialismo tedesco andò via via riconoscendo la sua propria missione, che è quella di rappresentare in istile pomposo gl’interessi della piccola borghesia. Elevò al grado di nazione normale la nazione tedesca, e fece del piccolo borghese tedesco l’uomo normale. A tutte le bassezze delle quali cotesto uomo normale è capace dette una significazione occulta, superiore, socialistica, in guisa che appariscono tutto il contrario di quel che sono. Venne alle sue ultime conseguenze col mettersi contro alle tendenze «brutalmente distruttive» del comunismo, e col proclamarsi imparzialmente superiore alle lotte di classe.

Tranne poche eccezioni, tutto ciò che circola in Germania di scritti socialistici e comunistici rientra in cotesta letteratura sudicia e snervante. 2° Il Socialismo conservativo, ossia dei borghesi. Una parte della borghesia cerca di portar rimedio ai mali sociali, per mettere in sicuro l’esistenza della società borghese. Entrano in cotesta categoria degli economisti, dei filantropi, degli umanitarii, dei miglioratori della sorte delle classi operaie, gli organizzatori della beneficenza, i protettori degli animali, i fondatori dei circoli di temperanza, e tutta la variopinta genia dei minuti riformatori. E cotesto socialismo borghese è stato per fino ridotto nella forma di sistema bello e compiuto. Citiamo ad esempio la Philosophie de la Misère di Proudhon. I socialisti borghesi vogliono le condizioni di vita della società moderna, senza i danni e le lotte che da essa inevitabilmente derivano. Vogliono la società attuale, sottrazione fattane degli elementi che la rivoluzionano e dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato. La borghesia, come è ben naturale, si rappresenta il mondo, nel quale essa domina, come l’ottimo dei mondi possibili. Il socialismo borghese elabora cotesta confortante immagine nella forma di un sistema, o di un quasi-sistema. Invitando il proletariato a realizzare i suoi sistemi, e ad entrare nella nuova Gerusalemme, esso non intende se non d’impegnare i proletarii a starsene in questa società attuale, ma rinunciando alle odiose opinioni che di essa si van facendo. Una seconda forma di questo socialismo, che è meno sistematica ma è di certo più pratica, cerca d’ispirare nella classe operaia il disgusto d’ogni movimento rivoluzionario, procurando di provare, come non questa o quella mutazione politica, ma solo la mutazione delle condizioni materiali, e ossia dei rapporti economici, possa tornarle di giovamento. Ma sotto al nome di mutazione dei rapporti materiali della vita cotesto socialismo non intende già, e in nessun modo, l’abolizione dei rapporti borghesi della produzione, il che non può aver luogo se non per le vie rivoluzionarie, ma intende solo delle riforme amministrative eseguite sul terreno stesso dei presenti rapporti della produzione, le quali per ciò nulla cambiano nei rapporti fra capitale e lavoro, e che nel caso più favorevole rendono meno costoso alla borghesia l’esercizio del potere, e semplificano l’assetto della sua finanza. Tale socialismo borghese non raggiunge la sua vera espressione se non quando diviene una mera figura retorica. Libero scambio! e nell’interesse della classe lavoratrice; dazii protettori! e nell’interesse dei lavoratori: carcere cellulare! e nell’interesse degli operai: –

ecco l’ultima parola del socialismo borghese, e la sola pensata e detta sul serio. Perché il socialismo della borghesia consiste appunto in questo enunciato: che i borghesi sono borghesi nell’interesse dei lavoratori. 3° Il Socialismo e il Comunismo critico-utopici. Non intendiamo qui di discorrere di quella letteratura, che in tutte le grandi rivoluzioni moderne si fece rappresentante delle esigenze del proletariato. (Gli scritti di Babeuf e simili). I primi tentativi fatti dal proletariato, per dar prevalenza ai suoi proprii interessi di classe, in tempi di generale effervescenza e mentre precipitava la società feudale, dovean di necessità fallire, e così per la condizione poco sviluppata del proletariato stesso, come, per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non sono se non un resultato dell’epoca borghese. La letteratura rivoluzionaria, che accompagnava questi primi movimenti del proletariato, è nel suo contenuto di necessità reazionaria. Essa preconizza un ascetismo generale e una rozza tendenza a tutto agguagliare. I veri e proprii sistemi socialistici e comunistici, i sistemi di Saint-Simon, Fourier, Owen, ecc., appariscono in quel primo e poco sviluppato periodo della lotta fra il proletariato e la borghesia, che abbiamo tratteggiato di sopra. I ritrovatori di tali sistemi riconoscono la opposizione delle classi, e anche l’azione dell’elemento dissolvente nella società dominante. Ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna azione storica, nessun movimento politico che gli sia proprio. E poiché lo sviluppo dell’antagonismo di classe va di pari passo con lo sviluppo della industria, gli autori di quei sistemi, non trovando già belle e date le condizioni materiali per la emancipazione del proletariato, si mettono in cerca di una scienza sociale, o di certe leggi sociali, come per creare quelle condizioni che non esistono ancora. La loro personale attività inventiva deve tenere il posto dell’attività sociale, delle condizioni fantastiche devono essere sostituite alle condizioni storiche della emancipazione, a quella organizzazione del proletariato in classe, che si forma poco per volta, vien surrogata una organizzazione della società tutta nuova di sana pianta. La storia del mondo di là da venire si risolve per essi nella propaganda e nella messa in azione dei loro piani sociali. Sanno sì di rappresentare nei loro disegni gl’interessi delle classi dei lavoratori, in quanto son le classi di quelli che soffrono; ma il proletariato non esiste per essi se non sotto questo punto di vista della classe dei sofferenti. Ma, come è naturale in uno stadio di poco sviluppo della lotta di classe, e data

la condizione sociale di cotesti autori, accade che essi si credano come superiori a tutti i contrasti di classe. Essi vogliono migliorare la situazione di tutti i membri della società, compresa quella delle persone che vivono nelle condizioni più vantaggiose. Per ciò si richiamano di continuo all’intera società senza far differenze, e anzi si appellano principalmente alla classe dominante. Poiché in fondo basta di aver capito il loro sistema per riconoscerlo come il miglior disegno fra tutti i possibili della miglior serietà fra tutte le possibili. Rigettano qualsiasi azione politica, e segnatamente ogni azione rivoluzionaria; mirano a raggiungere i loro intenti per le vie pacifiche; e cercano di aprir la via al nuovo evangelo sociale per mezzo di piccoli esperimenti, che secondo l’opinione loro dovrebbero avere forza e valore di esempio, ma che in fatti, coni è naturale, falliscono. La descrizione fantastica della società futura nasce quando il proletariato è ancor troppo poco sviluppato: cosicché esso si rappresenta appunto in modo fantastico la sua stessa situazione, secondo l’impulso primo verso una totale trasformazione della società, il quale impulso è accompagnato da vaghi presentimenti. Cotesti scritti socialistici e comunistici contengono anche molti elementi critici. Essi attaccano tutti i fondamenti della società esistente. Per ciò hanno offerto del materiale di gran valore per illuminare gli operai. I loro enunciati positivi su la società futura, e p. es. l’abolizione del contrasto fra città e campagna, l’abolizione della famiglia, del profitto privato, del salariato, e poi l’annunzio dell’armonia sociale, e la trasformazione dello stato in una semplice amministrazione della produzione – tutti cotesti enunciati non esprimono che lo sparire dell’antagonismo di classe, di quell’antagonismo che comincia appena a precisarsi nel suo sviluppo, e del quale gi autori di quei sistemi hanno notizia solo nelle sue prime forme indistinte e indeterminate. Per ciò quegli enunciati hanno ancora un senso puramente utopistico. L’importanza di cotesto socialismo e di cotesto comunismo utopistico è in ragione inversa al fatto dello sviluppo storico. A misura che la lotta di classe si svolge e si precisa, cotesto fantastico disdegno della lotta, cotesta fantastica opposizione alla lotta, perde ogni valore pratico ed ogni giustificazione teoretica. Gli è per ciò, che, mentre gli autori di questi sistemi erano per molti rispetti dei rivoluzionarii, i loro scolari formano sempre delle sette reazionarie. Questi scolari tengon fermo alle opinioni dei maestri anche in opposizione allo sviluppo storico del proletariato, e cercano in conseguenza di smussare il contrasto di classe, e di conciliare gli antagonismi. Sognano sempre la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, e cioè di stabilire falansterii, di creare colonie-domestiche, e di edificare una piccola Icaria – rifacimento minuscolo

della nuova Gerusalemme! – e per costruire cotesti castelli in aria devono fare appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi. Poco per volta discendono nella categoria dei socialisti conservatori e reazionarii da noi descritti più sopra, e da quelli si distinguono solo per una più sistematica pedanteria, e per la fede da fanatici e da superstiziosi che ripongono nell’azione miracolosa della loro scienza sociale. Si levano quindi accanitamente contro qualunque movimento politico dei lavoratori, stimando che in quel movimento si riveli una cieca incredulità rispetto al nuovo evangelo. Così ora si vede che gli Owenisti reagiscono in Inghilterra contro i Cartisti, e i Fourieristi reagiscono in Francia contro i Riformisti.

IV POSIZIONE DEI COMUNISTI DI FRONTE AI DIVERSI PARTITI DI OPPOSIZIONE

Per quel che abbiam detto al capo II, quale sia la posizione dei comunisti di fronte ai partiti operai di già costituiti s’intende da sé; e così è il caso per rispetto ai Cartisti in Inghilterra, e ai riformatori agrarii nel Nord-America. Quei partiti combattono per fini ed interessi prossimi ed immediati, ma nel moto attuale rappresentano già il moto dell’avvenire. In Francia i comunisti si ricongiungono al partito socialista-democratico, contro la borghesia conservativa e radicale; ma non rinunziano al diritto di serbare un contegno affatto critico di fronte alle frasi ed alle illusioni, che in quel partito derivano dalla tradizione rivoluzionaria. Nella Svizzera i comunisti sostengono i radicali, pur riconoscendo che quel partito consta di elementi contraddittorii, e cioè in parte di socialisti democratici alla francese, e in parte di radicali borghesi. Fra i Polacchi i comunisti appoggiano quel partito, che fa della rivoluzione agraria la condizione per venire alla emancipazione nazionale, e cioè quel medesimo partito che promosse la insurrezione di Cracovia del 1846. Tutte le volte che la borghesia proceda in Germania in modi rivoluzionarii, il partito comunistico le sarà compagno di lotta contro la monarchia assoluta, contro la proprietà feudale, e contro la piccola borghesia. Ma mai e in nessun momento il partito comunista, tralascia di risvegliare negli operai la coscienza chiara e precisa dell’antagonismo dominante, quale vera e propria ostilità, fra borghesia e proletariato: perché gli operai tedeschi sappiano subito convertire in armi dirette contro la borghesia le condizioni sociali e politiche messe in essere dal dominio borghese, onde, precipitate che siano le classi reazionarie dalla Germania, cominci senza indugio la lotta contro la borghesia. I comunisti rivolgono i loro occhi principalmente verso la Germania, che è alla vigilia di una rivoluzione borghese: e poiché essa compirà tale rivoluzione in condizioni generalmente più progredite della civiltà europea, e con un proletariato assai più sviluppato di quel che non fosse il caso dell’Inghilterra nel secolo XVII e della Germania nel XVIII, così cotesto moto borghese sarà l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria. In una parola i comunisti appoggiano da per tutto ogni movimento rivoluzionario, che sia diretto contro il presente stato di cose politico e sociale. In cotesti movimenti essi mettono principalmente in rilievo, come fondamento del tutto, la questione della proprietà, quale che sia la forma più o meno

sviluppata, che essa questione possa avere assunto. Infine i comunisti lavorano all’intesa ed all’unione dei partiti democratici d’ogni paese. I comunisti disdegnano di celare le loro vedute e i loro intendimenti. Essi confessano apertamente, che i loro intenti non possono esser raggiunti se non per via della violenta sovversione del tradizionale ordinamento sociale. Che le classi dominanti paventino lo scoppio di una rivoluzione comunistica. I proletarii non ci han da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo. PROLETARII DI TUTTO IL MONDO UNITEVI. Londra, Febbraio 1848

II

DEL MATERIALISMO STORICO DILUCIDAZIONE PRELIMINARE Seconda edizione con una appendice [1902]

La prima edizione di questo lavoro, venuta in luce con la data del 10 marzo 1896, recava la seguente Avvertenza: «Il lettore vedrà da sé, fin dalle prime linee di questo scritto, come io entri difilato in argomento, senza preamboli di sorta. Mi pare già, che l’altro, ossia il primo saggio che questo precede, offra da solo un sufficiente istradamento elementare a chi n’abbia bisogno. In verità, poi, non giova di molto mai all’intendimento schietto delle questioni scientifiche, quel fare da letterati, che usano alcuni, i quali, mettendosi quasi al di sopra delle cose, ne ragionano come dal di fuori. Addentrarsi direttamente nelle cose stesse, per quel modo di discussione, che è tutt’uno con la esposizione dottrinale; – ecco ciò che precipuamente importa in questo genere di trattazioni. Solo per cotesta via ci è dato d’indurre nelle menti persuasione e convinzione. Per cotesto procedimento soltanto le difficoltà rimangono positivamente vinte; e le opinioni, che altri possa addurre in contrario, trovansi da ultimo eliminate in fatto. Il titolo di dilucidazione preliminare, che adopero, non è espressione, né di cautela, né di modestia. Esso designa semplicemente l’indole di questo scritto, e ne segna i precisi confini.» In questa ristampa mi son ristretto a correggere alcune parole e qualche giro di frase. E, in vero, a voler rispondere partitamente a tutte le critiche e a tutte le obiezioni, che negli ultimi anni furon mosse alle dottrine qui rappresentate, occorrerebbe che questo così semplice e scorrevole volumetto diventasse una ponderosa enciclopedia. E dove se n’andrebbe poi da ultimo il carattere della dilucidazione preliminare? Per quei lettori che abbiano vaghezza di conoscere da vicino il tenore delle polemiche circa il materialismo storico, che son corse negli ultimi tempi, riproduco in fine, come in appendice, un mio articolo apparso nella «Rivista di Sociologia» del Giugno 18991. Roma, 20 Maggio 1902 ANTONIO LABRIOLA

I In questo genere di considerazioni, come in tanti altri, ma in questo più che in ogni altro, è di non piccolo impedimento, anzi torna di fastidioso impaccio, quel vizio delle menti addottrinate coi soli mezzi letterarii della coltura, che di solito dicesi verbalismo. Si insinua e si espande in ogni campo di conoscenze cotesto mal vezzo; ma nelle trattazioni che si riferiscono al così detto mondo morale, e ossia al complesso storico-sociale, accade assai di sovente, che il culto e l’impero delle parole riescano a corrodervi e a spegnervi il senso vivo e reale delle cose. Là dove la prolungata osservazione, il reiterato esperimento, il sicuro maneggio di raffinati istrumenti, l’applicazione totale o almeno parziale del calcolo, finiron per metter la mente in una metodica relazione con le cose e con le variazioni loro, come è il caso delle scienze naturali propriamente dette, ivi il mito ed il culto delle parole rimasero oramai superati e vinti, ed ivi le questioni terminologiche non hanno in fin delle fini se non il valore subordinato di una mera convenzione. Nello studio, invece, dei rapporti e delle vicende umane, le passioni, e gl’interessi, e i pregiudizii di scuola, di setta, di classe, di religione, e poi l’abuso letterario dei mezzi tradizionali della rappresentanza del pensiero, e poi la scolastica non mai vinta e anzi sempre rinascente, o fanno velo alle cose effettuali, o inavvertitamente le trasformano in termini, e parole, e modi di dire astratti e convenzionali. Di tali difficoltà bisogna che innanzi tutto si renda conto chi mette fuori in pubblico la espressione, o formula, di concezione materialistica della storia. A molti è parso, pare e parrà sia ovvio e comodo il ritrarne il senso dalla semplice analisi delle parole che la compongono, anziché dal contesto di una esposizione, o dallo studio genetico del come la dottrina si è prodottaa, o dalla polemica con la quale i sostenitori suoi ribattono le obiezioni degli avversarii. Il verbalismo tende sempre a rinchiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell’errore, che sia cosa facile il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l’intricato ed immane complesso della natura e della storia; e induce nella credenza, che sia cosa agevole il vedersi sott’occhi il multiforme e complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da teatrino; o, a dirla in modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi, perché non vede che denominazioni. Se si dà poi il caso, che il verbalismo trovi sostegno in tali o tali altre

supposizioni teoretiche, come sarebbe questa, che materia voglia dire un qualche cosa che sta di sotto o di contro ad un’altra cosa più alta o più nobile, che vien chiamata lo spirito; o se si dà il caso, che esso si confonda con l’abito letterario di contrapporre la parola materialismo, intesa in senso dispregiativo, a tutto ciò che compendiosamente chiamasi idealismo, cioè all’insieme d’ogni inclinazione e d’ogni atto antiegoistico: e allora sì che siamo spacciati. Ed ecco che si sente dire: qui in questa dottrina si tenta di spiegare tutto l’uomo col solo calcolo degl’interessi materiali, negando qualsiasi valore ad ogni interesse ideale. A far nascere di tali confusioni non è valso poco la inesperienza, la incapacità e la frettolosità di certi propugnatori e propagatori di questa dottrina; i quali, per la premura di spiegare agli altri ciò che essi medesimi non intendevano a pieno, mentre la dottrina stessa non è se non agli inizii suoi, ed ha bisogno ancora di molto sviluppo, si son data l’aria di applicarla, pur che sia, al primo caso o fatto storico che loro capitasse fra mani, e l’han quasi ridotta in briciole, esponendola alla facile critica ed al dileggio degli orecchianti di novità scientifiche, e di altrettali sfaccendati. Per quanto è lecito qui, in queste prime pagine, di respingere solo preliminarmente cotesti pregiudizii, e di redarguire le intenzioni e le tendenze che li sorreggono, occorre di ricordare; – che il senso di questa dottrina va innanzi tutto desunto dalla posizione, che essa assume ed occupa di fronte a quelle, contro le quali si è effettivamente levata, e segnatamente di fronte alle ideologie di ogni maniera; – che la riprova del suo valore consiste esclusivamente nella spiegazione più conveniente e congrua del succedersi delle vicende umane, che da essa stessa deriva; – che questa dottrina non implica una preferenza soggettiva ad una certa qualità e somma d’interessi umani, contrapposti ad altri interessi per elezione di arbitrio, ma enuncia soltanto la obiettiva coordinazione e subordinazione di tutti gli interessi nello sviluppo di ogni società, ed enuncia ciò per via di quel processo genetico, il quale consiste nell’andare dalle condizioni ai condizionati, dagli elementi della formazione alla cosa formata. Almanacchino pure i verbalisti, a posta loro, sul valore della parola materia, in quanto è segno o ricordo di metafisica escogitazione, o in quanto è espressione dell’ultimo sostrato ipotetico della esperienza naturalistica. Qui noi non siamo nel campo della fisica, della chimica o della biologia; ma cerchiamo soltanto le condizioni esplicite del vivere umano, in quanto esso non è più semplicemente animale. Non si tratta già di indurre o di dedurre nulla dai dati della biologia; ma, anzi, di riconoscere innanzi ad ogni altra cosa le peculiarità

del vivere umano, che si forma e sviluppa per il succedersi e perfezionarsi delle attività dell’uomo stesso, in date e variabili condizioni; e di trovare i rapporti di coordinazione e di subordinazione dei bisogni, che sono il sostrato del volere e dell’operare. Non è una intenzione che si cerchi di scovrire, non è una valutazione di pregio che si voglia enunciare; ma è la sola necessità di fatto che si vuol mettere in evidenza. E come gli uomini, non per elezione ma perché non potrebbero altrimenti, soddisfano prima certi bisogni elementari, e poi da questi ne sviluppano degli altri, raffinandosi; e, a soddisfare i bisogni quali che siano, trovano ed usano certi mezzi ed istrumenti, e si consociano in certi determinati modi, il materialismo della interpretazione storica non è se non il tentativo di rifare nella mente, con metodo, la genesi e la complicazione del vivere umano sviluppatosi attraverso i secoli. La novità di tale dottrina non è difforme da quella di tutte le altre dottrine, che, dopo molte peripezie entro i campi della fantasia, son giunte da ultimo assai faticosamente ad afferrare la prosa della realtà, ed a fermarsi in essa.

II Di una certa affinità, per lo meno nelle apparenze, con cotesto vizio formale del verbalismo è un altro difetto, che derivasi nelle menti per diverse vie. Guardandolo in certi suoi effetti più comuni e popolari, lo dirò fraseologico; sebbene questa parola qui non esprima a pieno la cosa, e non ne dichiari l’origine. Da molti secoli si va scrivendo, esponendo, illustrando la storia. I più svariati interessi, dagl’immediatamente pratici ai puramente estetici, spinsero i diversi scrittori ad ideare ed eseguire cotesto genere di composizioni; le quali, però, ebbero sempre nascimento nei diversi paesi un pezzo in qua dalle origini della civiltà, dallo sviluppo dello stato, e dal trapasso della primitiva società comunistica in questa, diremo in genere nostra, che si regge su le differenze e su le antitesi di classe. Gli storici, fossero pur essi ingenui quanto fu Erodoto, nacquero e si formaron sempre in una società punto ingenua, e anzi di molto complicata e complessa, e quando di tale complicazione e complessione le ragioni erano ignote, e le origini erano state obliate. Cotesta complessità, con tutti i contrasti che reca in sé, e che poi rivela e fa scoppiare nelle sue svariate vicende, si rizzava di fronte ai narratori come qualcosa di misterioso, che chieda spiegazione; e, per poco che lo storico volesse dare un qualche seguito ed un certo nesso alle cose narrate, dovea pur trovare dei complementi di vedute generali al semplice racconto. Dall’invidia degli dei del padre Erodoto all’ambiente del signor Taine2, un infinito numero di concetti, intesi come mezzi di spiegazione e di complemento delle cose narrate, si sono imposti ai narratori per le vie naturali del pensiero immediato. Tendenze di classe, preconcetti religiosi, pregiudizii popolari, influssi o imitazioni di una filosofia corrente, ripieghi di fantasia, e suggestioni di artistico completamento dei fatti frammentariamente appresi; – tutte coteste ed altrettali cause concorsero a formare il sostrato di quella teoria più o meno ingenua degli accadimenti, che, o sta implicitamente in fondo al racconto, o è usata se non altro a condirlo e ad adornarlo. O che si parli di caso o di fato, o che si rimandi alla direzione provvidenziale delle cose umane, o che si accentui il nome e il concetto della fortuna – la divinità che sola mezzo mezzo sopravviva ancora nella rigida e spesso crassa concezione di Machiavelli, – o che si parli, come si fa ora assai di frequente, della logica delle cose; tutte coteste escogitazioni furono e sono trovate e ripieghi di un pensiero ingenuo, di un pensiero immediato, di un pensiero che non può giustificare a sé stesso il suo procedimento e i suoi

prodotti, né per le vie della critica, né coi mezzi dell’esperimento. Colmare con dei soggetti convenzionali (p. es. la fortuna), o con una enunciazione di apparenza teoretica (p. es. il fatale andare delle cose, che alcune volte poi si confonde nelle menti con la nozione del progresso), le lacune della coscienza circa il modo come le cose siano effettivamente procedute di loro propria necessità, e fuori del nostro arbitrio e del nostro gradimento, ecco il motivo e la somma di cotesta filosofia popolare, latente od esplicita negli storici narratori, la quale per il suo carattere immediato si dilegua non appena sorge la critica della conoscenza. In tutti cotesti concetti, e in tutte coteste ideazioni, che alla luce della critica paiono dei semplici mezzi provvisorii e dei ripieghi di un pensiero immaturo, ma che alla gente colta sembrano spesso il non plus ultra dell’intelletto, si rivela pure e si riflette una non piccola parte del processo umano; e per ciò non sono da considerare come gratuite invenzioni, né come prodotti di momentanea illusione. Sono parte e momenti del divenire di ciò che chiamiamo spirito umano. Se si dà poi il caso, che tali concetti ed ideazioni si mescolino e confondano nella communis opinio delle persone colte, o di quelle che passano per tali, finiscono per costituire come una ingente massa di pregiudizii, e formano come l’impedimento che l’ignoranza contrappone alla visione chiara e piena delle cose effettuali. Cotesti pregiudizii ricorrono come derivati fraseologici per le bocche dei politicanti di mestiere, dei così detti pubblicisti e dei gazzettieri d’ogni sorta e maniera, ed offrono il fulcro della retorica alla così detta opinione pubblica. Contrapporre, e poi sostituire, a tale miraggio di ideazioni non critiche, a tali idoli della immaginazione, a tali ripieghi dell’artificio letterario, a tali convenzionalismi, i soggetti reali, ossia le forze positivamente operanti, ossia gli uomini nelle varie e circostanziate situazioni sociali proprie di loro: – ecco l’assunto rivoluzionario e la meta scientifica della nuova dottrina, la quale obiettivizza e direi quasi naturalizza la spiegazione dei processi storici. Questo tal popolo, ossia, non una qualunque massa d’individui, ma un plesso di uomini così o così organati, o per naturali rapporti di consanguineità, o per artificii e consuetudini di parentato e di affinità, o per ragioni di vicinato stabile; – questo tal popolo, su cotal territorio circoscritto e limitato, che è così o così ferace, ed è in tale o tale altra maniera produttivo, e fu in determinate forme acquisito al lavoro continuativo; – questo tal popolo così distribuito su tale territorio, e così in sé spartito ed articolato, per effetto di una determinata division del lavoro, la quale abbia, o iniziata appena, o già sviluppata e maturata

questa o tale altra divisione di classi, o delle classi ne abbia di già erose o trasformate parecchie; – questo popolo, che possiede i tali o tali altri istrumenti, dalla pietra focaia alla luce elettrica, e dall’arco e dalla freccia al fucile a ripetizione, e che produce in un certo modo, e conforme al modo del produrre conseguentemente spartisce i prodotti; – questo popolo, che per tutti cotesti rapporti è una società, nella quale, o per abiti di mutua accomodazione, o per esplicite convenzioni, o per violenze patite e subite, son nati già o stanno per nascere dei legami giuridico-politici, che poi metton capo nell’assetto dello stato; – questo popolo, nel quale, nato che sia l’organamento dello stato, che è il tentativo di fissare, di difendere e di perpetuare le disuguaglianze, e che, per via delle nuove antitesi che vi reca dentro, rende di continuo instabile l’ordinamento sociale, si determinano i movimenti e le rivoluzioni politiche, e quindi le ragioni del progresso e del regresso: – ecco la somma di ciò che sta a fondamento di ogni storia. Ed ecco la vittoria della prosa realistica sopra ogni combinazione fantastica e ideologica. Ci vuol certo della rassegnazione a veder le cose come esse sono, oltrepassando i fantasimi che per secoli ne impedirono la retta visione. Ma questa rivelazione di dottrina realistica non fu, né vuole essere, la ribellione dell’uomo materiale contro l’uomo ideale. È stata ed è invece il ritrovamento dei veri e proprii principii e moventi di ogni sviluppo umano, compreso quello di tutto ciò che chiamiamo ideale, in determinate condizioni positive di fatto, le quali recano in sé le ragioni, e la legge, e il ritmo del loro proprio divenire.

III Se non che sarebbe affatto erroneo il credere, che gli storici narratori, espositori o illustratori abbiano di capo loro e di loro invenzione messo in essere quella massa non piccola di preconcetti, di ideazioni e di spiegazioni immature, che con la forza del pregiudizio fecero velo per secoli alla verità effettuale. Può darsi, e si dà veramente il caso, che alcuni di cotesti preconcetti siano il frutto ed il portato di personali escogitazioni, o delle correnti letterarie le quali si formano per entro all’angusta cerchia professionale delle università e delle accademie: – e di ciò il popolo non sa nulla. Ma il fatto importante è, che la storia cotesti veli se li è messi da sé; e, cioè dire, che gli attori ed operatori stessi delle vicende storiche, o fossero le grandi masse di popolo, o i ceti e le classi dirigenti, o i maneggiatori dello stato, o le sette, o i partiti nel più ristretto senso della parola, fatta eccezione di qualche momento di lucido intervallo, fin quasi alla fine del secolo passato non ebbero coscienza dell’opera propria, se non per entro a qualche involucro ideologico, che impediva la visione delle cause reali. Già nei tempi oscuri, nei quali ebbe luogo il passaggio dalla barbarie alla civiltà; quando, cioè, coi primi trovati dell’agricoltura, col primo insediamento stabile di una popolazione sopra di un dato territorio, con la prima divisione del lavoro nella società, e con le prime alleanze di diverse genti, si stabilirono le condizioni in cui si svolge la proprietà e lo stato, o per lo meno la città; già nei tempi, in somma, delle primissime rivoluzioni sociali, gli uomini trasformarono l’opera loro in azioni miracolose d’immaginati iddii ed eroi. In guisa, che operando essi come potevano e come dovevano per dato, necessità e fatto del loro relativo sviluppo economico, idearono una spiegazione dell’opera propria, come se di loro stessi essa non fosse. Cotesto involucro ideologico delle opere umane ha più volte poi cambiato di forme, di apparenze, di combinazioni e di relazioni nel corso dei secoli, dalla produzione immediata degl’ingenui miti, fino ai complicati sistemi teologici e alla Città di Dio di S.to Agostino, dalla superstiziosa credulità nei miracoli, fino al mirabolante miracolo dei miracoli metafisici, ossia fino all’Idea, che presso i decadenti dell’Hegelismo genera da sé in sé stessa, per propria dirempsione, tutte le più disparate varietà del vivere umano nel corso della storia. Ora, precisamente perché l’angolo visuale della interpretazione ideologica non fu definitivamente superato se non assai di recente, e solo ai giorni nostri l’insieme dei rapporti reali e realmente operanti fu con chiarezza distinto dai riflessi ingenui del mito, e dai più artificiosi della religione e della metafisica, la

nostra dottrina include un nuovo problema, e reca in sé delle difficoltà non lievi, per chi voglia renderla atta a comprendere specificatamente la storia del passato. Il problema consiste in questo: che la nostra dottrina dia occasione ad una nuova critica delle fonti storiche. Né intendo di dire esclusivamente della critica dei documenti, nel senso proprio ed ovvio della parola; perché, quanto a questa, possiamo nella più parte contentarci ce la somministrino bella e fatta i critici, gli eruditi e i filologi di professione. Ma anzi intendo di dire di quella fonte immediata, che sta più in là dai documenti propriamente detti, e che prima di esprimersi e di fissarsi in questi, consiste nell’animo e nella forma di consapevolezza, nella quale gli operatori resero conto a sé dei motivi dell’opera loro propria. Cotesto animo, ossia cotesta consapevolezza, è spesso incongrua alle cause che noi ora siamo in grado di scovrire e di fissare; in guisa che gli operatori ci appaiono come involti in un circolo di illusioni. Spogliare i fatti storici di tali involucri, che i fatti stessi investono mentre essi si svolgono, gli è fare una nuova critica delle fonti, nel senso realistico della parola, e non in quello formale del documento: gli è, insomma, far reagire sulla notizia delle condizioni passate la consapevolezza di cui noi ora siamo capaci, per poi ricostruir quelle nuovamente dal fondo. Ma cotesta revisione delle fonti direttissime, mentre segna l’estremo limite di autocoscienza storica cui si possa mai giungere, può essere occasione a cadere in un grave errore. Perché, come noi ci collochiamo in un punto di vista, che sta di là dalle vedute ideologiche, per virtù delle quali gli attori della storia ebbero coscienza dell’opera loro, e nelle quali trovarono assai spesso e i moventi e la giustificazione all’operare, noi potremmo incorrere nella erronea opinione, che quelle vedute ideologiche fossero una pura parvenza, un semplice artifizio, una mera illusione, nel senso volgare di questa parola. Martino Lutero, per venire ad un esempio, come gli altri grandi riformatori suoi contemporanei, non seppe mai, come ora sappiamo noi, che il moto della Riforma fosse uno stadio del divenire del terzo stato, e una ribellione economica della nazionalità tedesca contro lo sfruttamento della corte papale. Egli fu quello che fu, come agitatore e come politico, perché fu tutt’uno con la credenza che gli facea apprendere il moto di classi, che dava impulso all’agitazione, quale ritorno al vero cristianesimo, e come una divina necessità nel corso volgare delle cose. Lo studio degli effetti a scadenza non breve, e cioè il corroborarsi della borghesia di città contro i signori feudali, e il crescere della signoria territoriale dei principi a spese del potere interterritoriale e sopraterritoriale dell’imperatore e del papa, la violenta repressione del movimento dei contadini e di quello più esplicitamente proletario

degli Anabattisti, ci permettono ora di rifare la storia genuina delle cause economiche della Riforma; specie in quanto riuscì, il che è la riprova massima. Ma ciò non vuol dire, che a noi sia dato di distrarre il fatto accaduto dal modo del suo accadimento, e di discioglierne la integralità circonstanziale per via di una analisi postuma, che riesca affatto soggettiva e semplicistica. Le cause intime, o, come si direbbe ora, i motivi profani e prosaici della Riforma ci appariscono più chiari in Francia ove essa per l’appunto non riuscì vittoriosa; e chiari ancora nei Paesi Bassi, ove, oltre alle differenze di nazionalità, vengono in piena evidenza nella lotta con la Spagna i contrasti degli interessi economici; e chiarissime infine in Inghilterra, dove la rinnovazione religiosa, verificatasi per le vie della violenza politica, mette in piena luce il trapasso in quelle condizioni, che sono per la borghesia moderna i prodromi del capitalismo. Post factum, e a lunga scadenza di non premeditati effetti, la storia dei moventi effettivi, che furono le cause intime della Riforma, in gran parte insapute agli attori stessi, apparisce chiara. Ma che il fatto accadesse come precisamente accadde, che assumesse quelle determinate forme, che si vestisse di quella veste, che si colorisse di quel colore, che movesse quelle passioni, che si esplicasse in quel fanatismo: in ciò consiste la specificata circostanzialità sua, che nessuna presunzione di analisi può fare non fosse quale fu. Solo l’amore del paradosso, inseparabile sempre dallo zelo degli appassionati divulgatori di una dottrina nuova, può avere indotto alcuni nella credenza, che tanto a scriver la storia bastasse di mettere in evidenza il solo momento economico (spesso non accertato ancora, e spesso non accertabile affatto), per poi buttar giù tutto il resto come inutile fardello, di cui gli uomini si fossero caricati a capriccio; come accessorio, in somma, o come semplice bagattella o a dirittura come un non-ente. Per tale avvertenza, che la storia, cioè, bisogna intenderla tutta integralmente, e che in essa nocciolo e scorza fanno uno, come Goethe diceva delle universe cose, tre illazioni ci si fanno palesi3. In primo luogo è chiaro, che nel campo del determinismo storico-sociale la mediazione dalle cause agli effetti, dalle condizioni ai condizionati, dai precedenti alle conseguenze, non è mai evidente alla prima, alla stessa guisa come tutti cotesti rapporti non son mai evidenti alla prima nel determinismo soggettivo della psicologia individuale. In questo secondo campo fu già da gran tempo cosa relativamente agevole per la filosofia astratta e formale di ritrovare, passando sopra a tutte le fole del fatalismo e del libero arbitrio, la evidenza del motivo in ogni volizione, perché, insomma, tanto è volere quanto è motivata determinazione. Ma più in giù dei motivi e del volere sta la genesi di quelli e di questo, e a rifare cotesta genesi ci occorre di uscire dal rinchiuso campo della

coscienza per arrivare all’analisi dei semplici bisogni, i quali per un verso derivano dalle condizioni sociali, e per un altro si perdono nell’oscuro fondo delle disposizioni organiche, fino alla discendenza e all’atavismo. Non altrimenti accade nel determinismo storico; dove allo stesso modo si comincia appunto dai motivi, poniamo religiosi, politici, estetici, passionali e così via, ma poi occorre di tali motivi ritrovar le cause nelle condizioni di fatto sottostanti. Ora lo studio di queste condizioni deve esser tanto specificato, che rimanga da ultimo chiarito, non solo che esse son le cause, ma per qual mediazione arrivino a quella forma, per la quale si rivelano alla coscienza come motivi, la cui origine è spesso obliterata. E per ciò torna evidente questa seconda illazione, che, cioè, nella nostra dottrina non si tratta già di ritradurre in categorie economiche tutte le complicate manifestazioni della storia, ma si tratta solo di spiegare in ultima istanza (Engels) ogni fatto storico per via della sottostante struttura economica (Marx)4: la qual cosa importa analisi e riduzione, e poi mediazione e composizione. Resulta da ciò, in terzo luogo, che per procedere dalla sottostante struttura all’insieme configurativo di una determinata storia, occorre il sussidio di quel complesso di nozioni e di conoscenze, che può dirsi, in mancanza d’altro termine, psicologia sociale. Né intendo con ciò di alludere alla fantasticata esistenza di una psiche sociale, né alla escogitazione di un preteso spirito collettivo, che per proprie leggi, indipendenti dalla coscienza degl’individui e dai loro materiali ed assegnabili rapporti, si esplichi e manifesti nella vita sociale. Cotesto è misticismo schietto. Né intendo di riferirmi a quei tentativi di generalizzazione combinatoria, pei quali furono scritti dei trattati di psicologia sociale, la cui idea è questa: trasferire ed applicare ad un escogitato soggetto, che si chiama la coscienza sociale, le categorie e le forme accertate della psicologia individuale. E non voglio nemmeno alludere a quel coacervo di denominazioni semiorganiche e semipsicologiche, per cui l’ente società, alla maniera dello Schäffle, acquista, e cervello, e midollo spinale, e sensibilità, e sentimento, e coscienza, e volontà e così via5. Ma intendo di parlar di cosa più modesta e prosaica; ossia di quelle concrete e precise forme di spirito, per cui ci appaiono così fatti com’erano i plebei di Roma di una determinata epoca, o gli artigiani di Firenze di quando scoppiò il moto dei Ciompi, o quei contadini di Francia, nei quali s’ingenerò, secondo l’espressione di Taine, l’anarchia spontanea dell’896, quei contadini, che divenuti poi liberi lavoratori e piccoli proprietarii, o aspiranti alla proprietà, da vincitori oltre i confini a breve andare si trasformarono in automatici istrumenti della reazione. Cotesta psicologia sociale, che nessuno può ridurre in astratti canoni, perché nella più parte dei casi è di sola descrittiva, è ciò

che gli storici narratori, e gli oratori e gli artisti, e i romanzieri e gli ideologi di ogni maniera fino ad ora videro e conobbero come esclusivo oggetto di loro studio e delle loro invenzioni. A cotesta psicologia, che è la specificata coscienza degli uomini in date condizioni sociali, si riferiscono e si appellano gli agitatori, gli oratori, i diffonditori di idee. Noi sappiamo che essa è il portato, il derivato, l’effetto di determinate condizioni sociali di fatto; – questa determinata classe, in questa determinata situazione per gli ufficii che adempie, per la soggezione in cui è tenuta, per la padronanza che esercita; – e poi classe, ed ufficii, e soggezione, e padronanza suppongono questa o quella determinata forma di produzione e di distribuzione dei mezzi immediati della vita, ossia una specifica struttura economica. Cotesta psicologia sociale, di sua natura sempre circostanziale, non è l’espressione del processo astratto e generico del così detto spirito umano. È sempre formazione specificata di specificate condizioni. Per noi sta, cioè, indiscusso il principio, che non le forme della coscienza determinano l’essere dell’uomo, ma il modo d’essere appunto determina la coscienza (Marx)7. Ma queste forme della coscienza, come son determinate dalle condizioni di vita, sono anch’esse la storia. Questa non è la sola anatomia economica, ma tutto quello insiememente, che cotesta anatomia riveste e ricovre, fino ai riflessi multicolori della fantasia. O, a dirla altrimenti, non c’è fatto della storia che non ripeta la sua origine dalle condizioni della sottostante struttura economica; ma non c’è fatto della storia che non sia preceduto, accompagnato e seguito da determinate forme di coscienza, sia questa superstiziosa o sperimentata, ingenua o riflessa, matura o incongrua, impulsiva o ammaestrata, fantastica o ragionante.

IV Dicevo, qui poco innanzi, che la nostra dottrina obiettivizza, in un certo senso naturalizza la storia, invertendone la spiegazione dai dati alla prima evidenti delle volontà operanti a disegno, e delle ideazioni ausiliari all’opera, alle cause e ai moventi del volere e dell’operare, per trovar poi la coordinazione di tali cause e moventi nei processi elementari della produzione dei mezzi immediati della vita. Ora in cotesto termine del naturalizzare si cela per molti una forte seduzione a confondere questo ordine di problemi con un altro ordine di problemi; e, cioè, ad estendere alla storia le leggi e i modi del pensiero, che parvero già appropriati e convenienti allo studio ed alla spiegazione del mondo naturale in genere e del mondo animale in ispecie. E perché il Darwinismo è riuscito ad espugnare, col principio del trasformismo della specie, l’ultima cittadella della fissità metafisica delle cose, onde poi gli organismi diventan per noi le fasi ed i momenti di una vera e propria storia naturale, è parso a molti fosse ovvia e semplice impresa quella di assumere a spiegazione del divenire e del vivere umano storico i concetti, e i principii, e i modi di vedere cui venne subordinata la vita animale, che per le condizioni immediate della lotta per l’esistenza si svolge negli ambiti topografici della terra non modificati da opera di lavoro. Il Darwinismo politico e sociale ha invaso, a guisa di epidemia, per non breve corso di anni, le menti di parecchi ricercatori, e assai più degli avvocati e dei declamatori della sociologia, ed è venuto a riflettersi, quale abito di moda e qual corrente fraseologica, perfino nel linguaggio cotidiano dei politicanti. Qualcosa di immediatamente evidente e di intuitivamente plausibile pare, a prima vista, ci sia in cotesto modo di ragionare; il quale, poi, si contraddistingue principalmente per l’abuso dell’analogia, e per la fretta del conchiudere. L’uomo è senza dubbio un animale, ed è legato da rapporti di discendenza e di affinità ad altri animali. Non ha privilegio di origine, né di struttura elementare, ed il suo organismo non è, se non un caso particolare della fisiologia generale. Il suo primo ed immediato terreno fu quello della semplice natura, non modificata da artificio di lavoro; e da ciò derivarono le condizioni imperiose ed inevitabili della lotta per l’esistenza, con le conseguenti forme di accomodazione. Di qui ebbero origine le razze, nel vero e genuino senso della parola, in quanto, cioè, sono determinazioni immediate di neri, di bianchi, di ulotrici, di lissotrici e così via, e non formazioni secondarie storico-sociali, ossia i popoli e le nazioni. Di

qui i primitivi istinti di socialità, e, per entro al modo di vivere in promiscuità, i primi rudimenti della selezione sessuale. Ma dell’uomo ferus primaevus, che possiamo ricostruirci in fantasia per combinazione di congetture, non è dato a noi di avere una empirica intuizione; come non ci è dato di determinare la genesi di quel hiatus, ossia di quella discontinuità, per la quale l’uman genere s’è trovato come distaccato dal vivere degli animali, e poi in seguito sempre superiore a questo. Tutti gli uomini, che ora vivono su la superficie della terra, e tutti quelli che vissutici in passato formarono oggetto di qualche apprezzabile osservazione, trovansi e trovavansi un buon tratto in qua dal momento in cui il vivere puramente naturale era cessato. Un qualche abito di convivenza, che sa di costume e d’istituzione, sia pur quello della forma più elementare a noi ora nota, ossia della tribù australiana, divisa in classi e col connubio di tutti gli uomini di una classe con tutte le donne di un’altra classe, distacca a grande intervallo il vivere umano dal vivere animale. A venire più in qua nella considerazione della gens materna, il cui tipo classico irocchese ha per opera del Morgan rivoluzionata la preistoria8, dandoci al tempo stesso la chiave delle origini della storia propriamente detta, noi ci troviamo in una forma di società già di molto avanzata per complessità di rapporti. Ora nel grado di convivenza, che nel giro delle nostre conoscenze ci apparisce come elementarissimo, ossia nell’australiano, non solo la lingua assai complicata differenzia gli uomini da tutti gli altri animali (e lingua vuol dire condizione ed istrumento, causa ed effetto di socialità), ma la specificazione del vivere umano, oltre che per la scoverta del fuoco, è fissata nell’uso di molti altri mezzi artificiali per provvedere alla vita. Un ambito di terreno acquisito al girovagare di una tribù – un modo di cacciare – l’uso perfetto di certi istrumenti da difendersi, e da ferire, e il possesso di certi utensili da conservare le cose acquistate – e poi l’ornamento del corpo, e così via: – cioè, in fondo, quella vita poggia sopra un terreno artificiale, per quanto elementarissimo, sul quale gli uomini si provano di fissarsi e di adagiarsi, sopra un terreno che è alla fin fine la condizione di ogni ulteriore sviluppo. Secondo che questo terreno artificiale è più o meno formato, gli uomini che l’han prodotto e ci vivon su, si dicon più o meno selvaggi o barbari: e in quella prima formazione consiste ciò che di solito chiamiamo preistoria. La storia, secondo l’uso letterario della parola, e cioè quella parte del processo umano che ha precisa consistenza di tradizione nella memoria, comincia quando il terreno artificiale è già un buon tratto formato. Ad esempio: la canalizzazione della Mesopotamia, ed eccoti l’antica Babilonide presemitica; – la derivazione del Nilo a scopo di coltura dei campi, ed eccoti l’antichissimo Egitto hamitico. Su cotesto terreno artificiale, che apparisce all’estremo orizzonte della storia

ricordata, non vissero come non vivono ora, masse informi d’individui, ma consociazioni organate, che ripeteano come ripetono ora l’organamento loro da distribuzione di ufficii, ossia di lavoro, e da conseguenti ragioni e modi di coordinazione e di subordinazione. Tali relazioni, e vincoli, e modi di vita non resultarono, come non resultano, da ripetizione e fissazione di abiti sotto l’azione immediata della lotta animale per l’esistenza. Anzi suppongono il ritrovamento di certi istrumenti, e p. es. l’addomesticazione di certi animali, e la lavorazione dei minerali fino al ferro, l’introduzione della schiavitù, e così via, istrumenti e modi di economia, che prima differenziarono le comunanze le une dalle altre, e poi differenziarono nelle comunanze i componenti loro. In altre parole, le opere degli uomini, in quanto congregati, reagirono su gli uomini stessi. I loro trovati ed invenzioni, creando modi di vivere supernaturali, produssero non solo abiti e costumanze (vestimento, mangiare cucinato e simili) ma rapporti e vincoli di coesistenza, proporzionati e congrui al modo di produrre e di riprodurre i mezzi della vita immediata. Quando la storia tramandata per memoria incomincia, l’economia è già nel suo funzionamento. Gli uomini lavorano per l’esistenza sopra di un campo, che fu in gran parte modificato dall’opera loro, e con istrumenti che sono del tutto opera loro. E da quel punto in poi hanno lottato per la posizione eminente degli uni su gli altri nell’uso di tali mezzi artificiali; e cioè, hanno lottato fra loro, in quanto servi e padroni, sudditi e signori, conquistati e conquistatori, sfruttati e sfruttatori; e dove han progredito, e dove han regredito, e dove si sono arrestati in una forma che non furon più capaci di superare, ma non son mai più ritornati al vivere animale, con la completa perdita del terreno artificiale. Dunque la scienza storica ha per suo primo e principale oggetto la determinazione e la ricerca del terreno artificiale, e della sua origine e composizione, e del suo alterarsi e trasformarsi. Dire che tutto ciò non è se non parte e prolungamento della natura, è dir cosa, che per esser troppo astratta e generica, in fin delle fini conchiude poco. Il genere umano vive soltanto nelle condizioni telluriche, e non è chi possa supporlo trapiantato altrove. In tali condizioni esso ha trovato, dalle primissime origini fino ai giorni nostri, i mezzi immediati allo sviluppo del lavoro, e cioè dire, così al progresso materiale, come alla sua formazione interiore. Tali condizioni naturali furono e son sempre indispensabili, così alla sporadica cultura dei nomadi, che coltivano qualche volta la terra per il solo pascolo degli animali, come ai raffinati prodotti della intensiva orticoltura moderna. Tali condizioni telluriche, come offersero le varie sorti di pietra atte alla lavorazione delle prime armi, così offrono ora nel carbon fossile l’alimento della grande

industria; come offersero alle prime genti i giunchi ed i vimini da intessere, così offrono ora tutti i mezzi da cui derivasi la complicata tecnica della elettricità. Non son però i mezzi naturali, essi stessi, che sian progrediti; anzi son gli uomini soltanto che progredirono, ritrovando via via nella natura le condizioni per produrre in nuove e sempre più complesse forme, per via del lavoro accumulato che è l’esperienza. Né questo progresso è quello solo che intendono i soggettivisti della psicologia, cioè una modificazione interiore, che sarebbe sviluppo proprio e diretto dell’intelletto, della ragione e del pensiero. Anzi è tale progresso interiore solo una linea secondaria e derivata, in quanto che c’è già progresso nel terreno artificiale, che è la somma dei rapporti sociali resultanti dalle forme e spartizioni del lavoro. Sarebbe per ciò vuota di senso l’affermazione, che tutto ciò non sia se non un semplice prolungamento della natura; se pure non si vuole usare cotesta parola nel senso tanto generico, da non indicare più nulla di preciso e di distinto, come è ciò che intendiamo per diverso dal fatto dell’uomo progressivamente operante. La storia è il fatto dell’uomo, in quanto che l’uomo può creare e perfezionare i suoi istrumenti di lavoro, e con tali istrumenti può crearsi un ambiente artificiale, il quale poi reagisce nei suoi complicati effetti sopra di lui, e così com’è, e come via via si modifica, è l’occasione e la condizione del suo sviluppo. Mancano per ciò tutte le ragioni per ricondurre questo fatto dell’uomo, che è la storia, alla pura lotta per l’esistenza; la quale, se raffina ed altera gli organi degli animali, e in date circostanze e in dati modi occasiona il generarsi e lo svolgersi di organi nuovi, non produce però quel moto continuativo, perfezionativo e tradizionale che è il processo umano. Non c’è luogo qui, nella nostra dottrina, né a confondersi col Darwinismo, né a rievocare la concezione di una qualunque forma, o mitica, o mistica, o metaforica di fatalismo. Perché, se è vero che la storia poggia innanzi tutto su lo svolgimento della tecnica; e, cioè dire, se è vero, che per effetto del successivo ritrovamento degli istrumenti si generarono le successive spartizioni del lavoro, e con queste poi le disuguaglianze, nel cui concorso più o meno stabile consiste il così detto organismo sociale, gli è altrettanto vero che il ritrovamento di tali istrumenti è causa ed effetto ad un tempo stesso di quelle condizioni e forme della vita interiore, che noi, isolandole nella astrazione psicologica, chiamiamo fantasia, intelletto, ragione, pensiero e così via. Producendo successivamente i varii ambienti sociali, ossia i successivi terreni artificiali, l’uomo ha prodotto in pari tempo le modificazioni di sé stesso; e in ciò consiste il nocciolo serio, la ragione concreta, il fondamento positivo di ciò che, per varie combinazioni fantastiche e con varia architettura logica, dà luogo presso gli ideologisti alla nozione del progresso dello spirito umano.

Nondimeno l’espressione del naturalizzare la storia, che intesa in senso troppo lato e generico può dare occasione agl’indicati equivoci, quando venga invece usata con la debita cautela e in modo approssimativo, compendia in breve la critica di tutte le vedute ideologiche, le quali nella interpretazione della storia partono dal presupposto, che opera o attività umana sia la stessa cosa che arbitrio, elezione e disegno. Ai teologi tornava facile e comodo di ricondurre il corso delle cose umane ad un piano o disegno, perché saltavano a piè pari dall’esperienza ad una mente presunta che regoli l’universo. I giuristi, che ebbero pei primi occasione a ritrovare nelle istituzioni che formano oggetto dei loro studii un certo filo conduttore di forme che si succedono con una qualche evidenza, trasferirono, come trasferiscono tuttora senza grande imbarazzo, la ragion ragionante, che è il loro mestiere, alla spiegazione di tutta la vasta materia sociale, che è tanto complicata. I politici, i quali piglian naturalmente le mosse loro dall’esperienza di ciò che i direttori dello stato, o per l’acquiescenza delle masse soggette, o profittando delle antitesi degl’interessi dei varii gruppi sociali, possono volere ed eseguire a disegno, di proposito e con intenzione, sono inclinati a vedere nel succedersi delle cose umane soltanto il variare di tali disegni, propositi ed intenzioni. Ora la nostra concezione, rivoluzionando nei fondamenti le presupposizioni dei teologi, dei giuristi e dei politici, mette capo all’assunto, che opera ed attività umana in genere, non è sempre una medesima cosa, nel corso della storia, con la volontà che operi a disegno, con piani preconcetti, e con la libera scelta dei mezzi; ossia non è una e medesima cosa con la ragion ragionante. Tutto ciò che è accaduto nella storia è opera dell’uomo; ma non fu né è, se non assai di rado, di elezione critica, e di arbitrio ragionante; ma anzi fu ed è di necessità, che, determinata dai bisogni e dalle occasioni esterne, genera esperienza e sviluppo di organi interni ed esterni. Tra questi organi sono anche l’intelletto e la ragione, resultati e conseguenze anch’essi di esperienza ripetuta ed accumulata. La formazione integrale dell’uomo, per entro allo sviluppo storico, non è oramai più un dato ipotetico, né una semplice congettura; ma è una verità intuitiva e palmare. Le condizioni del processo che genera progresso sono oramai riducibili in serie di spiegazioni; e noi, fino ad un certo punto, abbiamo come sott’occhi lo schema di tutti gli sviluppi storici morfologicamente intesi. Questa dottrina è la negazione recisa e definitiva di ogni ideologia, perché è la negazione esplicita d’ogni forma di razionalismo; intendendosi sotto cotal nome il preconcetto, che le cose nella loro esistenza ed esplicazione rispondano ad una norma, ad un ideale, ad una stregua, ad un fine in modo esplicito o implicito che siasi. Tutto il corso delle cose umane è una somma, anzi è tante serie di condizioni, che gli uomini si son fatte e poste da sé per la esperienza accumulata

nella variabile convivenza sociale; ma non presenta, né l’approssimazione ad una presegnata meta, né la deviazione da un primo principio di perfezione e di felicità. Il progresso stesso non implica se non la nozione di cosa empirica e circostanziata, che presentemente piglia chiarezza e precisione nelle nostre menti, perché, per lo sviluppo finora avveratosi, noi siamo in grado di valutare il passato, e di prevedere, ossia d’intravvedere in un certo senso e in una certa misura, l’avvenire.

V Per cotal modo un grave equivoco rimane chiarito, e il pericolo che ne deriva viene ad esser rimosso. Ragionevole e fondata è la tendenza di coloro i quali mirano a subordinare tutto l’insieme delle cose umane, considerate nel loro corso, alla rigorosa concezione del determinismo. Priva, all’incontro, d’ogni fondamento è la identificazione di tale determinismo derivato, riflesso e complesso, con quello della immediata lotta per l’esistenza, la quale si eserciti e si svolga sopra un campo non modificato da opera continuativa di lavoro. Legittima e fondata, in modo assoluto, è la spiegazione storica, la quale proceda invertendo dai presunti voleri a disegno, che avrebbero regolato di proposito le fasi varie della vita, ai moventi ed alle cause obiettive di ogni volere, che son da ritrovare nelle condizioni di ambiente, di terreno, di mezzi disponibili, di circostanzialità della esperienza. Ma è, invece, priva di qualsiasi fondamento quella opinione, la quale mira alla negazione di ogni volontà, per via di una veduta teoretica, che vorrebbe sostituito al volontarismo l’automatismo; anzi questa è al postutto una semplice e schietta fatuità. Dovunque i mezzi tecnici siano sviluppati fino ad un certo punto, dovunque il terreno artificiale abbia acquistata una certa consistenza e dovunque le differenziazioni sociali e le antitesi che ne conseguitano abbiano creato, e il bisogno, e la possibilità, e le condizioni di un organamento più o meno stabile od instabile, ivi sempre e necessariamente spuntan fuori i meditati disegni, i propositi politici, i piani di condotta, i sistemi di diritto, e poi le massime e i principii generali ed astratti. Nell’ambito di tali prodotti e di tali sviluppi derivati e complessi, e dirò di secondo grado, nascono anche le scienze, e le arti, e la filosofia, e la erudizione e la storia come genere letterario di produzione. Cotesto ambito è quello che razionalisti ed ideologi, ignorandone i fondamenti reali, chiamarono e chiamano tuttora, in modo esclusivo, la civiltà. Perché, di fatti, si è dato e si dà il caso, che alcuni uomini, e soprattutto gli addottrinati di mestiere, fossero essi laici o preti, trovassero e trovino modo di vivere intellettualmente nella chiusa cerchia dei prodotti riflessi e secondarii della civiltà, e potessero e possano poi sottoporre tutto il resto alla veduta soggettiva, che essi in tale situazione si formano: e in ciò è la origine e la spiegazione di ogni ideologia. La nostra dottrina ha superato in modo definitivo l’angolo visuale di qualsiasi ideologia. I meditati disegni, i propositi politici, le scienze, i sistemi di diritto e così via, anzi che essere il mezzo e l’istrumento della spiegazione della storia, sono appunto la cosa che occorre di spiegare; perché derivano da determinate

condizioni e situazioni. Ma ciò non vuol dire che siano mere apparenze, e bolle di sapone. L’esser quelle delle cose divenute e derivate da altre non implica che non sian cose effettuali: tanto è che son parse per secoli alla coscienza non scientifica, e alla coscienza scientifica ancora in via di formazione, le sole che veramente fossero. Ma con ciò non è detto tutto. Anche la nostra dottrina può dar luogo alla tentazione del fantasticare, e può offrire occasione ed argomento ad una nuova ideologia a rovescio. Essa è nata nel campo di battaglia del comunismo. Suppone l’apparizione del proletariato moderno su l’arena politica, e suppone quella orientazione, su le origini della società attuale, che ci ha permesso di rifare criticamente tutta la genesi della borghesia. È dottrina rivoluzionaria per due rispetti: perché ha trovato le ragioni e i modi di sviluppo della rivoluzione proletaria, che è in fieri; e perché, di ogni altra rivoluzione sociale avveratasi in passato, si argomenta di trovare le cause e le condizioni di svolgimento in quei contrasti di classe, i quali giunsero ad un certo punto critico per la contraddizione tra le forme della produzione e lo sviluppo delle forze produttive. E c’è poi dell’altro. Alla luce di questa dottrina l’essenziale della storia consiste per l’appunto in tali momenti critici, e ciò che sta di mezzo tra l’uno e l’altro di cotesti momenti si fa conto, almeno per ora, di abbandonarlo alle erudite cure dei narratori ed espositori di mestiere. Come dottrina rivoluzionaria è essa innanzi tutto la coscienza intellettuale del moto proletario presente, nel quale secondo l’assunto nostro, si prepara di lunga mano l’avvento del comunismo: tanto è, che i decisi avversarii del socialismo la respingono come opinione, che, sotto apparenze di scienza, non faccia che ripetere la ben nota utopia socialistica. Per tale condizione di cose può darsi bene il caso, e di fatti s’è pur già dato in parte, che la fantasia degl’inesperti d’ogni arte di ricerca storica, e lo zelo dei fanatici, trovi stimolo ed occasione perfino nel materialismo storico a foggiare una nuova ideologia, e a trarre da esso una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenza e a disegno. Né c’è cautela che basti. L’intelletto nostro raramente s’appaga della ricerca schiettamente critica, ed è sempre propenso a convertire in elemento di pedanteria ed in novella scolastica qualunque trovato del pensiero. A farla breve, anche la concezione materialistica può esser convertita in forma di argomentazione a tesi, e servire a rimettere in nuove fogge pregiudizii antichi; come era quello di una storia dimostrata, dimostrativa e dedotta. Perché ciò non accada, e specie perché non riapparisca per vie indirette e per modi dissimulati una qualunque forma di finalità, su due punti bisogna essere in

chiaro: e cioè dire, che le condizioni storiche a noi note son tutte circostanziate; e che il progresso fu fino ad ora circoscritto da molteplici impedimenti, e per ciò fu sempre parziale e limitato. Una parte sola, e fino ai tempi recentissimi una parte non grande del genere umano ha per intero percorso gli stadii tutti del processo, per effetto del quale le nazioni più progredite son giunte alla società civile moderna, con le forme di avanzata tecnica fondate su le scoverte della scienza, e con tutte le conseguenze politiche, intellettuali, morali e così via, che a tale sviluppo sono rispettive e consentanee. Accanto agl’Inglesi – tanto per accennare all’esempio più stridente – che, trasportando seco nella Nuova Olanda i mezzi europei, vi han creato un centro di produzione, che già tiene un posto notevole nella concorrenza del mercato mondiale, vivono tuttora come fossili della preistoria gl’indigeni Australiani, capaci solo di estinguersi, ma incapaci di adattarsi alla civiltà, che fu non sopra di essi ma accanto ad essi importata. Nell’America, e specie in quella del Nord, la serie dei procedimenti che vi han dato luogo allo sviluppo della società moderna, cominciò con la importazione dall’Europa delle piante, degli animali e degl’istrumenti dell’agricoltura, il cui uso ab antico avea ingenerato la secolare civiltà del Mediterraneo: ma tal moto rimase tutto rinchiuso nella cerchia dei discendenti dei conquistatori e dei coloni, mentre gl’indigeni, o si disperdono nella massa di nuova formazione, per le vie naturali della mistura di razza, o deperiscono e spariscono affatto. L’Asia anteriore e l’Egitto, che già in tempi antichissimi, come prima culla di tutta la nostra civiltà, dettero luogo alle grandi formazioni semipolitiche, le quali seguono le prime fasi della storia accertata e ricordata, ci appaiono da secoli come le cristallizzazioni di forme sociali incapaci di muoversi da sé per nuove fasi di sviluppo. Sta sopra di loro la secolare pressione del barbarico accampamento, che è la dominazione turca. In quella massa irrigidita, o s’incunea per dissimulate vie una amministrazione alquanto ammodernizzata, o in nome esplicito degl’interessi commerciali s’insinuano la ferrovia ed il telegrafo, avamposti coraggiosi della conquistatrice banca europea. Tutta quella massa irrigidita non ha speranza di ripigliar vita, calore e movimento, se non per la rovina della dominazione turca, cui si vada surrogando, nei diversi possibili modi di conquista diretta o indiretta, la signoria o il protettorato della borghesia europea. Che un processo di trasformazione dei popoli arretrati, o arrestatisi nel loro cammino, possa avverarsi ed affrettarsi per esterni influssi, sta lì l’India a provarlo, che già vivace ancora di sua propria vita, sotto l’azione poi dell’Inghilterra rientra ora con vigore nella circolazione della operosità internazionale, per fino nei suoi prodotti intellettuali. Né sono questi i soli contrasti nella fisionomia storica dei contemporanei. Ecco, mentre lì nel

Giappone, per un fenomeno acuto e spontaneo di imitazione, si sviluppa in men di trent’anni una certa relativa assimilazione della civiltà occidentale, che muove già normalmente le energie proprie del paese stesso, il diritto e l’imposizione della conquista russa trae nella cerchia della industria moderna, e anzi della grande industria, qualche punto notevole dei paesi oltre il Caspio. La mole gigantesca della Cina ci è apparsa fino a pochi anni fa quasi immobile nell’atavistico assetto delle sue istituzioni, tanto vi è lento ogni movimento: mentre, per ragioni etniche e geografiche, quasi tutta l’Africa rimaneva impermeabile, e, fino agli ultimi tentativi di conquista e di colonizzazione, pareva non dovesse offrire all’azione della civiltà, che il solo suo perimetro, come fossimo, non che ai tempi dei Portoghesi, a quelli dei Geci e dei Cartaginesi. Tali differenziazioni degli uomini, sul cammino della storia e della preistoria, ci paiono spiegabilissime, quando c’è modo di ricondurle alle condizioni naturali ed immediate, che impongano limiti allo sviluppo del lavoro. Questo è il caso dell’America, la quale, fino alla apparizione degli europei, non avea che una sola granaglia, il mais, e un solo animale addomesticabile ad uso di lavoro, il lama: e noi possiamo rallegrarci, che gli europei, importandovi con sé stessi e coi loro istrumenti il bue, e l’asino, e il cavallo, e il frumento, e il cotone e la canna da zucchero e il caffè, e da ultimo la vite e l’arancio, v’abbiano creato un nuovo mondo della gloriosa società che produce le merci, la quale, con inaudita rapidità di moto, vi ha già percorso le due fasi della più nera schiavitù e del più democratico salariato. Ma là dove c’è stato un vero arresto, e anzi un documentato regresso, come nell’Asia anteriore, nell’Egitto, nella penisola dei Balcani e nell’Africa settentrionale, e tale arresto non può attribuirsi al differenziarsi delle condizioni naturali, ivi noi ci troviamo dinanzi ad un problema, che aspetta la soluzione sua dallo studio diretto ed esplicito della struttura sociale, guardata così nei modi interni del suo divenire, come negl’intrecci e nelle complicazioni dei varii popoli, su quel terreno che più ordinariamente dicesi arena delle lotte storiche. Questa stessa Europa civile, che per continuità di tradizione presenta lo schema più completo di processo, tanto che su cotesto modello furono ideati e fino ad ora costruiti tutti i sistemi di filosofia storica; questa stessa Europa occidentale e mediana, che ha prodotto l’epoca dei borghesi, e tale forma di società ha cercato e cerca d’imporre a tutto il mondo, con varii modi di conquista diretta o indiretta, non è tutta uniforme in sé, nel grado di suo sviluppo, e le sue diverse conglomerazioni nazionali, regionali e politiche appaiono come distribuite sopra di una scala di molto graduata. Da tali differenze dipendono le condizioni di relativa superiorità od inferiorità di paese a paese, e le ragioni più o

meno vantaggiose o svantaggiose dello scambio economico; e di qui per la più parte dipesero, come tuttora dipendono, e gli attriti, e le lotte, e i trattati e le guerre, e quanto altro mai, con maggiore o con minor precisione, seppero narrarci gli storici politici dalla Rinascenza in qua, e certo con cresciuta evidenza da Luigi XIV e da Colbert in poi. Questa Europa stessa è assai variopinta. Ecco qui la fioritura massima della produzione industriale e capitalistica, cioè dire in Inghilterra; e in altri punti vive, o rigoglioso o rachitico, l’artigianato, come da Parigi a Napoli, tanto per cogliere il fatto nei suoi estremi. Qui la campagna è quasi per intero industrializzata, com’è di nuovo in Inghilterra; ed ecco che altrove vegeta, in molteplici forme tradizionali, l’idiotico contadiname, come in Italia ed in Austria, anzi in questo paese più che da noi. Mentre in un paese l’azienda politica dello stato – come si conviene alla prosaica coscienza di una borghesia, che sa il fatto suo, perché il posto che tiene se l’è veramente conquistato da sé – viene esercitata nei modi più sicuri e palesi di un esplicito dominio di classe (non è chi non intenda che parlo della Francia); altrove, e segnatamente in Germania, le vecchie abitudini feudali, l’ipocrisia protestante, e la viltà di una borghesia che sfrutta le favorevoli contingenze economiche senza portarci dentro, né spirito, né coraggio rivoluzionario, mantengono all’ente stato le mentite apparenze di una missione etica da compiere (– oh zucconi e parrucconi di professori tedeschi, in quante salse poco appetitose e digeribili avete voi cucinata cotesta etica dello stato, prussiano per giunta! –). Qua e là la produzione moderna capitalistica s’incunea nei paesi, che per altri rispetti non entrano nel nostro movimento, e specie in quello della politica, come è il caso della infelice Polonia; ovvero tal forma s’insinua solo per indiretto, come nella Slavia meridionale. Ma ecco qui il contrasto più acuto, che pare destinato a metterci come in compendio sott’occhi tutte le fasi anzi gli estremi della nostra storia. La Russia non ha potuto avviarsi, come ora di fatto si avvia, alla grande industria, se non pompando dall’Europa occidentale, e specie dal grazioso sciovinismo francese, quel danaro, che essa invano si sarebbe provata a trarre da sé stessa, ossia dalle condizioni della sua obesa massa territoriale, su la quale, con vecchie forme economiche, vegetano cinquanta milioni di contadini. Ora la Russia, per diventare una società economicamente moderna, il che probabilmente vi prepara le condizioni di una rispondente rivoluzione politica, fu tratta a distruggere gli ultimi avanzi del comunismo agrario, che in essa eransi fino a poco tempo fa conservati in forme tanto caratteristiche, e in tanta estensione: (né qui importa di decidere se quello fosse comunismo primitivo, o secondario, come alcuni ritengono)9. La Russia deve imborghesirsi e, per far ciò, deve innanzi tutto convertire la terra in merce, che sia capace di produrre merci, e al tempo stesso

trasformare in proletarii e pezzenti gli ex-comunisti della campagna. Ed ecco che, invece, nell’Europa occidentale e centrale ci troviamo al punto opposto della serie di sviluppo, che nella Russia comincia appena. Qui da noi, dove la borghesia con varia fortuna, e vincendo impedimenti tanto diversi, ha percorso già tanti stadii del suo sviluppo, non la memoria del comunismo primitivo, che a mala pena rivive per erudite combinazioni nelle teste dei dotti, ma la stessa forma della produzione borghese genera nei proletarii la tendenza al socialismo, che si presenta nei suoi generali contorni come indizio di una nuova fase della storia, e, cioè, non come la ripetizione di ciò che fatalmente finisce nella Slavia sotto agli occhi nostri. Chi è che non veda in cotesta esemplificazione, che io non ho cercata ad arte, e che anzi m’è venuta quasi a caso e disordinatamente fuori della penna, in cotesta esemplificazione, dico, che può essere indefinitamente prolungata in un libro di geografia economico-politica del mondo attuale, la prova evidente del come le condizioni storiche son tutte circostanziate nelle forme di loro sviluppi? Non solo le razze e i popoli, e le nazioni, e gli stati, ma le parti delle nazioni e le regioni varie degli stati, e poi i ceti e le classi si trovano come su tanti gradini di una assai lunga scala, o anzi su diversi punti di una curva a grande e complicato svolgimento. Il tempo storico non è corso uniforme per tutti gli uomini. Il semplice succedersi delle generazioni non fu mai l’indice della costanza e della intensità del processo. Il tempo come astratta misura di cronologia, e le generazioni succedentisi in termini approssimativi di anni, non dànno criterio né recano indicazione di legge o di processo. Gli sviluppi furono finora varii, perché varie furono le opere compiute in una e medesima unità di tempo. Fra tali forme varie di sviluppo c’è affinità, anzi c’è similarità di moventi, ossia c’è analogia di tipo, ossia c’è omologia: tanto che le forme avanzate possono, per semplice contatto, o con la violenza, accelerare lo svolgimento delle forme arretrate. Ma l’importante è d’intendere, che il progresso, la cui nozione è non solo empirica, ma sempre circostanziata e per ciò limitata, non istà sul corso delle cose umane come un destino od un fato, né qual comando di legge. E per ciò la nostra dottrina non può esser volta a rappresentare tutta la storia dell’uman genere in una veduta comunque prospettica o unitaria, la quale ripeta, mutatis mutandis, la filosofia storica a disegno come da S.to Agostino ad Hegel, o anzi, meglio, dal profeta Daniele al signor De Rougemont10. La nostra dottrina non pretende di essere la visione intellettuale di un gran piano o disegno, ma è soltanto un metodo di ricerca e di concezione. Non a caso Marx parlava della sua scoverta come di un filo conduttore11. E per tal ragione appunto è analoga al Darwinismo, che anch’esso è un metodo, e non è, né può

essere, una ammodernata ripetizione della costruita e costruttiva Naturphilosophie, a uso Schelling e compagni. A scorgere nella nozione del progresso la indicazione di qualcosa di circostanziato e di relativo fu primo il geniale Saint-Simon, che tal suo pensiero contrappose alla dottrina del secolo decimottavo, in buona parte culminante in Condorcet. A cotesta dottrina, che potrebbe dirsi unitaria, egalitaria, formale, perché è quella che considera l’uman genere come svolgentesi su di una linea processuale, Saint-Simon contrappose il concetto delle facoltà e delle attitudini, che si surrogano e si compensano; e per tal modo rimase ideologo. A penetrare le ragioni effettive della relatività del progresso occorreva ben altro. Bisognava innanzi tutto rinunziare a quei pregiudizii, i quali sono impliciti nella credenza, che gl’impedimenti alla uniformità del divenire umano riposino esclusivamente sopra cause naturali ed immediate. Cotesti impedimenti naturali, o sono assai problematici, come è il caso delle razze, nessuna delle quali ha in sé l’ingenito privilegio della storia, o sono, come nel caso delle differenze geografiche, insufficienti a spiegare lo svolgersi di condizioni storico-sociali affatto difformi sopra uno e medesimo terreno topografico. E come il moto storico nasce per l’appunto quando gl’impedimenti naturali furono già in buona parte, o superati, o notevolmente circoscritti per mezzo della creazione di un terreno artefatto, sul quale fosse dato agli uomini di venirsi ulteriormente sviluppando, gli è chiaro perciò, che i consecutivi impedimenti alla uniformità del progresso siano da cercare nelle condizioni proprie ed intrinseche della struttura sociale stessa. Questa struttura ha messo fino ad ora capo in forme di organamento politico, la cui somma è il tentativo di tenere in equilibrio le disuguaglianze economiche: il che fa, che cotesto organamento, come ho più volte detto, sia di continuo instabile. Da che ci è storia ricordata essa è storia della società che o tende a formare lo stato, o lo stato ha già portato a compimento. E lo stato è la lotta all’interno, o vivamente e in atto, o da poco vinta, o come che siasi per alcun tempo sopita e sedata. E lo stato è anche la lotta all’esterno, o per assoggettare altri popoli, o per colonizzare altri paesi, o per esportare i prodotti sopra altri mercati, o per scaricare la popolazione esuberante, e così via. E lo stato è tale lotta all’interno e all’esterno, perché è innanzi tutto l’organo e l’istrumento di una parte più o meno grande della società contro tutto il resto della società stessa, in quanto che questa essenzialmente poggia su la signoria economica degli uomini su gli uomini, in modi più o meno diretti ed espliciti, secondo che il vario grado di sviluppo della produzione e dei suoi mezzi naturali e dei suoi istrumenti artificiali esiga, o la schiavitù immediata, o la servitù della gleba, o il

libero salariato. Questa società delle antitesi, che si regge a stato, è sempre, per quanto in varie forme e modi, la opposizione della città e della campagna, dell’artigiano e del contadino, del proletario e del padrone, del capitalista e del lavoratore, e così via da non finirla; e mette sempre capo, con varie complicazioni e modalità, in una gerarchia, o che ciò accada per quadro fisso di privilegio come nel Medio-Evo, o che, nelle dissimulate forme del diritto presuntivamente eguale per tutti, ciò si avveri per l’azione automatica della concorrenza economica, come è ora. A cotesta gerarchia economica corrisponde in vario modo nei varii paesi, tempi e luoghi, starei per dire, una gerarchia degli animi, degl’intelletti, degli spiriti. Cioè dire la coltura, nella quale appunto gli idealisti ripongono la somma del progresso, fu ed è per necessità di fatto assai disugualmente distribuita. La maggior parte degli uomini, per la qualità delle cure e delle occupazioni cui attende si trova ad essere come di individui disintegrati, fatti in pezzi, resi incapaci di uno sviluppo completo e normale. Alla economica delle classi, ed alla gerarchia delle situazioni sociali, risponde la psicologia delle classi. La relatività del progresso è per noi, dunque, la conseguenza inevitabile delle antitesi di classe. In queste antitesi sono gl’impedimenti, pei quali rimane spiegata la possibilità del relativo regresso, fin giù giù alla degenerazione ed allo sfacelo di una intera società. Le macchine, che segnano il trionfo della scienza, divengono, per le condizioni antitetiche della compagine sociale, gli istrumenti da proletarizzare milioni e milioni di già liberi artigiani e contadini. I progressi della tecnica, che arricchiscono di comodi le città, rendono più misera ed abietta la condizione dei contadini, e nelle città stesse più umile la condizione degli umili. I progressi tutti del sapere servirono fino ad ora a differenziare il ceto degli addottrinati, e a mettere sempre a maggior distanza dalla coltura le masse, che, intese all’incessante lavoro di tutti i giorni, di questo alimentano la società tutta intera. Il progresso fu ed è fino ad ora parziale ed unilaterale. Le minoranze che vi partecipano dicono sia questo il progresso umano; e i burbanzosi evoluzionisti chiamano ciò natura umana che si svolge. Tutto cotesto progresso parziale, che si è fino ad ora svolto nella pressione degli uomini su gli uomini, ha suo fondamento nelle condizioni di opposizione, per cui le antitesi economiche han generato tutte le antitesi sociali, e dalla relativa libertà di alcuni è nata la servitù di moltissimi; e il diritto è stato l’auspice della ingiustizia. Il progresso visto così, ed appreso nella sua chiara nozione, ci appare come il compendio morale ed intellettuale di tutte le umane miserie, e di tutte le materiali disuguaglianze. A scovrirvi dentro la inevitabile relatività occorreva che il comunismo, sorto dapprima come moto istintivo nell’animo degli oppressi, diventasse scienza e

politica. E occorreva poi, che la nostra dottrina desse la misura del valore di tutta la storia passata, scovrendo in ogni forma di organamento sociale, che fosse di origine e di assetto antitetico, come tutte furono fino ad ora, la ingenita incapacità a produrre le condizioni di un progresso umano universale ed uniforme; scovrendovi, cioè, gl’impedimenti i quali fanno sì che il benefizio si converta in malefizio.

VI A una domanda noi non possiamo sottrarci, ed è questa: donde ebbe origine la credenza nei fattori storici? Cotesta espressione ricorre assai di frequente per le menti e per gli scritti di molti eruditi, scienziati e filosofi, e di quegli espositori, i quali, o ragionando o combinando, si dilungano alquanto dalla mera narrazione, e di tale opinione si giovano, come di presupposto per orientarsi su la ingente massa dei fatti umani, che, a prima vista e nella immediata considerazione, appaiono tanto confusi e irriducibili. Cotesta credenza, cotesta opinione corrente è diventata presso gli storiografi ragionatori, o a dirittura razionalisti, una semidottrina, che di recente fu più volte addotta, quale argomento decisivo, contro la teoria unitaria della concezione materialistica. Gli è, anzi, tanto radicata la credenza, ed è tanto diffusa la opinione, che la storia non si possa intenderla, se non come incontro ed incidenza di diversi fattori, che molti di quelli i quali parlano di materialismo sociale, sia in favore o sia contro, credono di cavarsi d’ogni impaccio quando affermano, che tutta questa dottrina qui consista poi in ultimo nell’attribuire la prevalenza o l’azione decisiva al fattore economico. Certo gli è che importa di rendersi conto del come cotesta credenza, o opinione, o semidottrina abbia avuto origine; perché la verace ed effettiva critica consiste principalmente nel riconoscere e nell’intendere i motivi di ciò che dichiariamo errore. Non basta di respingere una opinione, col designarla spicciativamente per erronea. L’errore dottrinale è nato sempre da qualche lato male inteso di una esperienza incompleta, o da qualche imperfezione soggettiva. Non basta respingere l’errore; bisogna vincerlo, e superarlo, spiegandolo. Ogni storico, che cominci a narrare, compie, per così dire, un atto di astrazione. Innanzi tutto eseguisce come un taglio in una serie continuativa di avvenimenti; e poi prescinde da molti e svariati presupposti e precedenti, e anzi spezza e scompone una intricata tela. Per cominciare bisogna pure che fissi un punto, una linea, un termine, di sua elezione, e dica p. es.: vogliamo raccontare come ebbe inizio la guerra tra Greci e Persiani; vediamo come Luigi XVI venne nella risoluzione di convocare gli Stati Generali. Il narratore si trova, insomma, dinanzi ad un complesso di fatti accaduti, e di fatti che stanno per accadere, i quali, nel tutt’insieme, appariscono come una configurazione. In tale suo atteggiamento ha origine il modo d’essere e lo stile di ogni racconto; perché, ad ordirlo, occorre pigliar le mosse da cose già divenute, per poi vedere come continuino nel divenire.

E pure in quel complesso bisogna introdurre un certo sentimento di analisi, risolvendolo in varii gruppi e in varii aspetti di fatti, od in elementi concorrenti, che appariscono poi ad un certo punto come delle categorie per sé stanti. Ecco: qui è lo stato in una certa forma e con certi poteri; e qui son le leggi, che determinano, per comando o per proibizione, certi rapporti; e qui son gli abiti e i costumi, che rivelano tendenze, bisogni, e modi di pensare, di credere, di fantasticare; e nell’insieme si vede una moltitudine d’uomini conviventi e collaboranti, con spartizione di ufficii e di occupazioni; e poi si notano i pensieri, le idee, le inclinazioni, le passioni, i desiderii, le aspirazioni, che da cotesto variopinto modo di coesistenza e dai suoi attriti in determinate maniere si sprigionano e sviluppano. Avviene una mutazione, e questa si rivela in uno dei lati od aspetti del complesso empirico, o in tutti essi in maggiore o in minore spazio di tempo: p. es. lo stato slarga i suoi confini esterni, o altera i suoi limiti interni verso la società, crescendo o diminuendo di poteri e di attribuzioni, o cambiando di forma nell’esercizio di quelli e di queste; ovvero il diritto muta le sue disposizioni, o s’esprime ed afferma in nuovi organi; ovvero, da ultimo, dietro al cambiamento delle abitudini esterne cotidiane, si rivela un cambiamento nei sentimenti, e nei pensieri, e nelle inclinazioni degli uomini variamente distribuiti nelle diverse classi sociali, le quali si rimescolano, si alterano, si spostano, si fondono o rinnovano. Ad intendere tutto ciò, in quanto e per il modo come apparisce alla prima e si disegna alla ordinaria attenzione, bastano le comuni doti della intelligenza normale, di quella, intendo dire, che non è sussidiata ancora, né corretta o completata dalla scienza propriamente detta. Chiudere in precisi confini un insieme di tali mutazioni, ecco l’oggetto vero e proprio della narrazione, la quale riesce tanto più perspicua, efficace e plasmata, quanto è più monografica: p. es. Tucidide nella Guerra del Peloponneso. La società già in un certo modo divenuta, la società già arrivata ad un certo grado di sviluppo, la società già tanto complicata da nascondere il sottostrato economico che il resto sorregge, non si è rivelata ai puri narratori, se non in quegli apici visibili, in quei resultati più appariscenti, in quei sintomi più significativi, che son le forme politiche, le disposizioni di legge e le passioni di parte. Il narratore, oltre che per la mancanza di una dottrina teoretica su le fonti vere del movimento storico, per l’atteggiamento stesso che egli assume di fronte alle cose che coglie nelle apparenze del loro divenire, non può ridurre questo ad unità, se non nell’aspetto della sola intuizione immediata; e, se è artista, cotesta intuizione gli si colorisce nell’animo, e vi si trasmuta in azione drammatica. Il suo ufficio è adempiuto, se egli riesce ad inquadrare un certo numero di fatti e di accadimenti entro termini e confini, su i quali lo sguardo possa muoversi come

su chiara prospettiva; alla stessa guisa, che il geografo puramente descrittivo ha fatta per intero la parte sua, se racchiude in vivo e perspicuo disegno la concorrenza delle cause fisiche che determinano l’intuitivo aspetto, poniamo del golfo di Napoli, senza punto risalire alla genesi di esso. In cotesto bisogno della configurazione narrativa è la occasione prima, intuitiva, palpabile, e direi quasi estetica ed artistica, di tutte quelle astrazioni e generalizzazioni, che da ultimo mettono capo nella semidottrina dei così detti fattori. Qui sono due uomini insigni, i Gracchi, che vollero arrestare il processo di appropriazione dell’ager publicus, o impedire l’agglomerazione del latifondo, per cui diminuisce o cessa del tutto di esistere la classe dei piccoli proprietarii, ossia degli uomini liberi, che son fondamento e condizione della vita democratica della città antica. Quali furono le cause del loro insuccesso? Il loro disegno è chiaro: l’animo loro, la loro origine, il loro carattere, il loro eroismo lo illustrano. E stanno contro a loro altri uomini, con altri interessi e con altro animo. La contesa non si disegna dapprima alla mente se non come lotta di propositi e di passioni, la quale si svolge e riesce a termine con quei mezzi che consentono le forme politiche dello stato, e l’uso o l’abuso dei poteri pubblici. Ecco lì l’ambiente: la città dominatrice in diversi modi, sopra altre città, o sopra territori sforniti d’ogni carattere di autonomia; e dentro di quella città una avanzata differenziazione di ricchi e di poveri; e di fronte alla schiera non numerosa dei sopraffacitori e dei prepotenti, immensa la massa dei proletarii, che stan per perdere o han già perduta la coscienza e la forza politica d’una plebe di cittadini, la massa che si lascia per ciò ingannare e corrompere, e a breve andare finirà per imputridire, qual servile accessorio degli sfruttatori di maggior grado. Questa la materia del narratore, al quale non è dato di rendersi conto del fatto, se non nelle condizioni immediate del fatto stesso. L’unità intuitiva è la scena su la quale i casi si svolgono, e perché il racconto abbia rilievo, intreccio e prospettiva, occorrono dei punti di orientazione e dei mezzi di riduzione. In ciò consiste la origine prima di quelle astrazioni, per cui i lati varii di un determinato complesso sociale vengono, poco per volta, distratti dalla loro qualità di semplici aspetti di un insieme, e via via generalizzati menano poi alla dottrina dei presunti fattori. Questi, in altri termini, intendo dire dei fattori, si originano nella mente, per via della astrazione e della generalizzazione degli aspetti immediati del movimento apparente, e stanno alla pari con tutti gli altri concetti empirici, i quali, sorti che siano in ogni altro campo del sapere, vi si mantengono, finché, o non vengano ridotti ed eliminati per via di nuova esperienza, o non si trovino

riassorbiti da una concezione più generale, che sia genetica, evolutiva, dialettica. Non era forse necessario, che nell’analisi empirica e nello studio immediato delle cause e degli effetti di certi determinati fenomeni, p. es. dei calorifici, la mente si fermasse dapprima nella presunzione e nella persuasione di poterli e di doverli attribuire ad un subietto, che, se non parve mai a nessun fisico un vero ente sostanziale, parve di certo una forza determinata e specifica, che sarebbe il calore. Ed ecco che ad un certo punto, per nuova combinazione di esperienza, cotesto escogitato calore si risolve, a date condizioni, in una certa quantità di moto. E anzi, ora, il pensiero è su la via di risolvere tanti degli escogitati fattori fisici nel flusso di una universale Energhetica, nella quale la ipotesi degli atomi, per quanto essa è necessaria e utilizzabile, perde ogni residuo di sopravvissuta metafisica. Non era forse inevitabile, come primo stadio della conoscenza rispetto al problema della vita, l’indugiarsi a lungo nello studio distinto degli organi, e il ridur questi in sistemi? Senza cotesta anatomia, che pare per fin troppo materiale e grossolana, nessun progresso di studii sarebbe stato possibile; e intanto, su la ignorata genesi e coordinazione di tale molteplicità analitica, s’aggiravano incerti e vaghi i concetti generici di vita, di anima e simili. In coteste creazioni mentali si cercò per ripiego di escogitazione, e per gran tempo, quella unità biologica, che ha da ultimo trovato il suo riscontro intuitivo nell’inizio certo della cellula, e nel suo processo di immanente moltiplicazione. Più difficile fu certamente il cammino, che il pensiero dovette percorrere per ridurre ad evidenza di genesi i dati tutti della vita psichica, dai semplicissimi delle elementari sensazioni fino ai prodotti di molto derivati e complessi. Non solo per ragioni di difficoltà teoretiche, ma per altri pregiudizii popolari, l’unità e continuità incessante dei fenomeni psichici apparve fino ad Herbart come spartita e spezzata in tanti fattori, ossia nelle così dette facoltà dell’anima. Per le medesime difficoltà è passata la interpretazione dei processi storicosociali; ed anche essa s’è dovuta dapprima arrestare nella veduta provvisoria dei fattori. E, perciò, riesce ora a noi cosa agevole il rintracciare la occasione prima di tale opinione nel bisogno che hanno gli storici narratori di trovare, nell’atto che raccontano con più o meno di capacità artistica, e con vario intendimento di ammaestrare, dei punti di orientazione immediata, quali può offrirli lo studio del moto apparente delle cose umane. Ma in quel movimento apparente son pure delle indicazioni, che rimandano ad altro. Quei fattori concorrenti, che l’astrazione escogita e poi si permette di isolare, non furon mai visti ad operare ciascuno per sé; perché, anzi, operano per un modo di efficacia, che dà luogo al concetto dell’azione reciproca. Inoltre, quei

fattori son pur essi nati una volta, e son poi giunti a quella fisonomia, che rivelano nella particolare narrazione. Di quel tale stato si sapeva pure che fosse nato una volta. Di ogni diritto, o si serbava memoria, o si congetturava, che fosse entrato in vigore in tali o tali altre circostanze. Di tanti costumi si serbava il ricordo, che fossero stati una volta introdotti; e il più semplice confronto dei fatti accertati, per rispetto a diversi tempi e luoghi, facea vedere, come la società nel suo insieme, in quanto somma di diverse classi, avesse assunto, ed assumesse di continuo forme diverse. Tanto l’azione reciproca dei diversi fattori, senza della quale nemmeno il più semplice racconto sarebbe mai possibile, quanto le notizie più o meno accertate circa le origini e le variazioni dei fattori stessi, sollecitavano alla ricerca ed al pensiero, assai più che non facesse la narrazione configurativa di quei grandi storici, che sono veri e proprii artisti. E di fatti, i problemi che resultano spontanei dai dati della storia, quando questi sian combinati con altri elementi teoretici, dettero luogo alle diverse discipline così dette pratiche, che, con varia rapidità di moto e con vario successo, si svilupparono dai tempi antichi a venire ai moderni, dall’Etica alla Filosofia del Diritto, dalla Politica alla Sociologia, dalla Giurisprudenza all’Economia. Ed ecco che col nascere e col formarsi di tante discipline, per la stessa inevitabile division del lavoro, si moltiplicarono fuor di misura i punti di vista. Certo è, che alla prima ed immediata analisi dei multiformi aspetti empirici del complesso sociale, occorreva un lungo lavoro di parziale astrazione; il che reca sempre con sé l’inevitabile conseguenza del vedere unilaterale. Ciò si è verificato in modo più acuto e più appariscente, che non in altro campo, in quello della Giurisprudenza, e nelle sue varie generalizzazioni fino alla Filosofia del Diritto. Per via di cotali astrazioni, che sono inevitabili nell’analisi parziale ed empirica, e per effetto della divisione del lavoro, i diversi lati e le diverse manifestazioni del complesso sociale furono, di quando in quando, fissati ed immobilizzati in concetti generali ed in categorie. Le opere, gli effetti, le emanazioni, gli efflussi dell’attività umana – diritto, forme economiche, principii di condotta e così via – furono come tradotti e convertiti in leggi, in imperativi e in principii che stessero al di sopra dell’uomo stesso. E di quando in quando s’è poi dovuto di nuovo scovrire questa verità semplice; che il solo fatto permanente e sicuro, ossia il solo dato, da cui muova o a cui si riferisca ogni particolare disciplina pratica, è questo: gli uomini congregati in una determinata forma sociale, per via di determinati vincoli. Le varie discipline analitiche, che illustrano i fatti che si svolgono nella storia, han finito per occasionare da ultimo il bisogno di una comune e generale scienza sociale, che renda possibile la unificazione dei processi storici. E di tale unificazione la dottrina materialistica

segna appunto l’ultimo termine, e anzi l’apice. Ma non fu, come non sarà mai tempo perso quello che sia speso nell’analisi preliminare e laterale dei fatti complessi. Dobbiamo alla metodica division del lavoro la erudizione precisa, ossia la massa delle conoscenze dichiarate, cribrate, sistemate, senza delle quali ogni storia sociale vagherebbe sempre nel puramente astratto, nel formale e nel terminologico. Lo studio a parte dei presunti fattori storico-sociali ha giovato, come giova ogni altro studio empirico che si attenga al moto apparente delle cose, a raffinare gl’istrumenti della osservazione, e a dar modo di ritrovare nei fatti stessi, che furono artificiosamente distratti dall’insieme, gli addentellati che al complesso sociale li legano. Le diverse discipline, che son tenute isolate ed indipendenti per via del presupposto dei fattori concorrenti nella formazione storica, per il grado di sviluppo che han raggiunto, per il materiale che han raccolto, e pei metodi che han prodotti, sono ora per noi tutte indispensabili, quando si voglia ricostruire qualunque parte dei tempi passati. Che ne sarebbe della nostra scienza storica senza la unilateralità della Filologia, che è il sussidio istrumentale d’ogni ricerca; e dove si sarebbe mai trovato il bandolo di una storia delle istituzioni giuridiche, che poi a tante altre cose e combinazioni da sé stessa rimanda, senza l’ostinata fede dei romanisti nella eccellenza universale del Diritto Romano, la quale ha generato, con la Giurisprudenza generalizzata e con la Filosofia del Diritto, tanti dei problemi in cui germoglia da ultimo la Sociologia? Così che, al postutto, i fattori storici, che ricorrono per le menti e per gli scritti di tanti, indicano qualcosa che è molto meno della verità, ma che è molto di più del semplice errore, nel senso grossolano di abbaglio, di illusione e di inganno. Sono il prodotto necessario di una conoscenza, che è in via di sviluppo e di formazione. Nascono dal bisogno di orientarsi sopra lo spettacolo confuso, che le cose umane presentano a chi voglia narrarle; e servono poi, dirò così, di titolo, di categoria, di indice a quella inevitabile division del lavoro, per entro alla quale fu finora teoreticamente elaborata la materia storico-sociale. In questo campo di conoscenza, del pari che in quello delle scienze naturali, la unità di principio reale, e la unità di trattazione formale, non s’incontran mai di primo acchito, anzi si trovano solo a capo di lungo ed intricato cammino; cosicché, anche per cotesto rispetto, ci pare calzante l’analogia stabilita da Engels tra il ritrovamento del materialismo storico e quello della conservazione dell’energia12. La provvisoria orientazione, secondo l’ovvio schema di ciò che dicono fattori, può, in date circostanze, occorrere anche a noi, che professiamo un principio

affatto unitario della interpretazione storica. Intendo dire, se vogliamo non semplicemente teorizzare, ma se vogliamo, con propria nostra ricerca, illustrare un determinato periodo di storia. Come in cotesto caso c’incombe l’obbligo della minuta e diretta ricerca, così ci è giuoco forza di attenerci dapprima ai gruppi difatti che paiono, o prominenti, o indipendenti, o staccati, negli aspetti della immediata esperienza. Perché non è veramente il caso di credere, che il principio unitario di massima evidenza e trasparenza, cui siam giunti nella concezione generale della storia, possa, a guisa di talismano, valer di continuo, e a prima vista, come di mezzo infallibile per risolvere in elementi semplici l’immane apparato e il complicato ingranaggio della società. La sottostante struttura economica, che determina tutto il resto, non è un semplice meccanismo, dal quale saltino fuori, a guisa d’immediati effetti automatici e macchinali, istituzioni, e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie. Da quel sottostrato a tutto il resto, il processo di derivazione e di mediazione è assai complicato, spesso sottile e tortuoso, non sempre decifrabile. L’organamento sociale è, come già sappiamo, di continuo instabile, sebbene ciò non appaia evidente a tutti, se non quando la instabilità entra in quel periodo acuto che chiamiamo rivoluzione. Cotesta instabilità, con le continue lotte nel seno della stessa società organata, esclude sì la possibilità che gli uomini entrino in una condizione di continuata acquiescenza od accomodazione, per cui potrebbe accadere che tornassero nel vivere animale. Nell’antitesi è la causa precipua del progresso (Marx). Ma è altrettanto vero, però, che in cotesto organamento instabile, nel quale è data la forma inevitabile del dominio e della soggezione, la intelligenza si è sempre sviluppata, non solo disugualmente, ma assai imperfettamente, incongruamente e parzialmente. Ci fu ed è ancora nella società come una gerarchia dell’intelletto, e poi dei sentimenti e delle ideazioni. Supporre che gli uomini, sempre e in tutti i casi, abbiano avuto una coscienza approssimativamente chiara della propria situazione, e di quello che convenisse loro più ragionevolmente di fare gli è supporre l’inverosimile, anzi l’insussistente. Forme di diritto, e azioni politiche e tentativi di ordinamento sociale, furono, come sono tuttora, a volte cose indovinate, a volte cose sbagliate, cioè sproporzionate e incongrue al caso. La storia è piena di errori; il che vuol dire, che se tutto vi fu necessario, data la intelligenza relativa di quelli che avessero a risolvere una difficoltà, o a trovare una soluzione a un dato problema e così via, se tutto v’ebbe la sua ragion sufficiente, non tutto vi fu ragionevole, secondo il senso che dànno a questa parola gli ottimisti che raziocinano. A lungo andare le cause determinanti alle mutazioni, e ossia le cambiate condizioni economiche, finirono e finiscono per far trovare, fosse pur per vie assai tortuose, le occorrenti

forme di diritto, gli ordini politici adattati, e le maniere più o meno convenienti della accomodazione sociale. Ma non è però da credere, che la istintiva sapienza dell’animale ragionevole si manifestasse, o si manifesti, sic et simpliciter, nella piena e chiara intelligenza di ogni situazione; e che a noi non tocchi ora se non di rifare semplicisticamente il cammino deduttivo dalla situazione economica a tutto il resto. L’ignoranza – la quale alla sua volta può anch’essa essere spiegata – è cagione non piccola del modo come la storia è proceduta; e all’ignoranza bisogna aggiungere la bestialità non mai interamente vinta, e tutte le passioni e le nequizie, e le svariate forme di corruzione, che furono e sono il portato necessario di una società così organata che il dominio dell’uomo su l’uomo vi è inevitabile, e da tale dominio la bugia, l’ipocrisia, la prepotenza e la viltà furono e sono inseparabili. Noi possiamo, senza essere utopisti, ma solo in quanto siamo comunisti critici, prevedere, come di fatti prevediamo, l’avvento di una società, che svolgendosi dalla presente, e anzi dai suoi contrasti, per le leggi immanenti del divenire storico, metta capo in una associazione senza antitesi di classe: il che porta seco, che la regolata produzione eliminerebbe l’aleatorio dalla vita, che nella storia si rivela finora come multiforme intreccio di accidenti e d’incidenze. Ma ciò è l’avvenire, e non è, né il presente, né il passato. Se noi invece ci proponiamo di penetrare nelle vicende storiche svoltesi fino ad ora, assumendo, come assumiamo, a filo conduttore il variare delle forme della sottostante struttura economica, fino al dato più semplice del variare degl’istrumenti, noi dobbiamo aver piena coscienza della difficoltà del problema che ci proponiamo; perché qui non si tratta già di aprir gli occhi e di vedere, ma di uno sforzo massimo del pensiero, che è diretto a vincere il multiforme spettacolo della esperienza immediata, per ridurne gli elementi in una serie genetica. E per ciò, dicevo, che nella ricerca particolare tocca anche a noi di pigliar le mosse da quei gruppi di fatti apparentemente isolati, e da quel variopinto intreccio, dallo studio empirico, insomma, dal quale è nata la credenza nei fattori, che poi si è svolta in una semidottrina. Né vale di contrapporre a queste difficoltà di fatto la presunzione alquanto metaforica, spesso equivoca, e al postutto di un valore puramente analogico, del così detto organismo sociale. Anche per cotesto supposito, diventato poi in così breve tempo una mera e volgare fraseologia, bisognava pure che il pensiero passasse. Perché esso adombra la comprensione del movimento storico, come nascente dalle leggi immanenti alla società stessa, ed esclude con ciò l’arbitrario, il trascendente e l’irrazionale. Ma più in là di così la metafora non regge; e la ricerca specificata, critica e circostanziata dei fatti storici è la sola fonte di quel sapere concreto e positivo, che occorre allo sviluppo completo del materialismo economico.

VII Le idee non cascano dal cielo; né noi riceviamo il ben di dio in sogno. La mutazione nei modi del pensiero, che da ultimo ha prodotta la dottrina storica, della quale si fa qui l’esame e la esposizione preliminare, s’è venuta svolgendo, prima con lentezza e poscia con cresciuta rapidità, appunto in questo periodo del divenire umano, in cui s’avverarono le grandi rivoluzioni politicoeconomiche; ossia in questa epoca, che guardata nelle forme politiche dicesi liberale, ma che guardata nel suo fondo, per effetto del dominio del capitale su la massa proletaria, è l’epoca della produzione anarchica. La mutazione nelle idee, fino alla creazione di nuovi metodi di concezione, è venuta passo passo riflettendo l’esperienza di una nuova vita. Come questa, nelle rivoluzioni degli ultimi due secoli, si è andata via via spogliando degl’involucri mitici, mistici e religiosi, a misura che è venuta acquistando la coscienza pratica e precisa delle sue condizioni immediate e dirette, così il pensiero, che questa vita riassume e teorizza, s’è alla sua volta spogliato dei presupposti teologici e metafisici, per racchiudersi, in fine, in questa prosaica esigenza: nella interpretazione della storia occorre restringersi alla coordinazione obiettiva delle condizioni determinanti e degli effetti determinati. La concezione materialistica segna il culmine di questo nuovo indirizzo nel ritrovamento delle leggi storico-sociali; in quanto non è un caso particolare di una generica sociologia, o di una generica filosofia dello stato, del diritto e della storia, ma è il risolvente di tutti i dubbii e di tutte le incertezze che accompagnano le altre forme di filosofare su le cose umane, ed è l’inizio della interpretazione integrale di queste. Gli è dunque cosa facile, specie per il modo come ci si son messi alcuni volgari criticastri, l’andar ritrovando i precursori di Marx e di Engels, che questa dottrina hanno pei primi precisata nei fondamenti. E quando mai era saltato per il capo ad alcuno dei seguaci loro, fossero pur quelli della più stretta osservanza, di far passare quei due pensatori per facitori di miracoli? Anzi, se piace di andar cercando le premesse della creazione dottrinale di Marx e di Engels, non basterà di fermarsi a quelli che diconsi precursori del socialismo fino a Saint-Simon e più in là, né ai filosofi e segnatamente ad Hegel, né agli economisti, che avean dichiarata la anatomia della società che produce le merci: bisogna risalire a dirittura a tutta la formazione della società moderna, e poi da ultimo trionfalmente dichiarare, che la teoria è un plagio delle cose che spiega. Perché, in verità, i precursori effettivi della nuova dottrina furono i fatti della storia moderna, che è diventata così perspicua e rivelatrice di sé stessa, da che si

operò in Inghilterra la grande rivoluzione industriale della fine del secolo scorso, e in Francia avvenne quella gran dilacerazione sociale che tutti sanno; le quali cose, mutatis mutandis, si son poi andate riproducendo, in varia combinazione e in forme più miti, in tutto il mondo civile. E che altro è, in fondo, il pensiero, se non il cosciente e sistematico completamento dell’esperienza; e che è questa, se non il riflesso e la elaborazione mentale delle cose e dei processi che nascono e si svolgono, o fuori della volontà nostra, o per opera della nostra attività; e che altro è il genio, se non la individuata e conseguente ed acuita forma di quel pensiero, che per suggestione della esperienza sorge in molti uomini della medesima epoca, ma nella più parte di loro rimane frammentario, incompleto, incerto, oscillante e parziale? Le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro prodotto dell’attività umana, si formano in date circostanze, in tale precisa maturità di tempi, per l’azione di determinati bisogni, e pei reiterati tentativi di dare a questi soddisfazione, e col ritrovamento di tali o tali altri mezzi di prova, che sono come gl’istrumenti della produzione ed elaborazione loro. Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro. Spostare quelle e questo, ossia le idee ed il pensiero, dalle condizioni e dall’ambito di lor proprio nascimento e sviluppo, gli è svisarne la natura e il significato. Mostrare come la concezione materialistica della storia fosse nata precisamente in date condizioni e cioè non come personale e discutibile opinione di due scrittori, ma come una nuova conquista del pensiero per la inevitabile suggestione di un nuovo mondo che si sta generando già, ossia la rivoluzione proletaria, questo fu l’assunto del mio primo saggio. Il che è quanto dire, che una nuova situazione storica si è completata del suo congruo istrumento mentale. Ora immaginare, che cotesta produzione intellettuale potesse avverarsi in ogni tempo e luogo, gli è come assumere a regola delle proprie ricerche l’assurdo. Trasferire le idee a capriccio, dal terreno e dalle condizioni storiche in cui son nate, in qualunque altro terreno, ciò è come prendere a base del ragionamento il semplice irrazionale. E perché non si dovrebbe immaginare del pari, che la città antica, nella quale nacquero l’arte e la scienza greca e il diritto romano, rimanendo pur città antica di democrazia con gli schiavi, acquistasse medesimamente e sviluppasse tutte le condizioni della tecnica moderna? Perché non credere, che la corporazione artigiana medioevale, rimanendo qual essa era nel suo quadro fisso, s’avviasse alla conquista del mercato mondiale, senza le condizioni della concorrenza sconfinata, che cominciarono appunto dall’eroderla e negarla? Perché non congetturare un feudo, che, pur rimanendo feudo, fosse

officina da produrre esclusivamente merci? Perché Michele di Lando non avrebbe dovuto scrivere lui il Manifesto dei Comunisti?13 Perché non si avrebbe a pensate, che i trovati della scienza moderna potessero venir fuori dal cervello degli uomini di ogni altro luogo e tempo; cioè, prima che determinate condizioni facessero nascere determinati bisogni, e alla soddisfazione di questi si dovesse provvedere con una reiterata ed accumulata esperienza? La nostra dottrina suppone lo sviluppo ampio, chiaro, cosciente ed incalzante della tecnica moderna; e con questa la società che produce le merci negli antagonismi della concorrenza, la società che suppone come sua condizione iniziale, e come mezzo indispensabile al suo perpetuarsi, l’accumulazione capitalistica nella forma della proprietà privata, la società che produce e riproduce di continuo i proletarii, e a reggersi ha bisogno di rivoluzionare incessantemente i suoi istrumenti, compreso lo stato e gl’ingranaggi giuridici di questo. Questa società, che, per le leggi stesse del suo movimento, ha messa a nudo la sua propria anatomia, produce di contraccolpo la concezione materialistica. Essa, come ha prodotto nel socialismo la sua negazione positiva, così ha generato nella nuova dottrina storica la sua negazione ideale. Se la storia è il prodotto, non arbitrario, ma necessario e normale, degli uomini in quanto si sviluppano, e si sviluppano in quanto socialmente esperimentano, ed esperimentano in quanto perfezionano e raffinano il lavoro, ed accumulano e serbano i prodotti e risultati di questo, la fase di sviluppo in cui noi ora viviamo non può esser l’ultima e definitiva, e i contrasti a questa intimi ed inerenti sono le forze produttive di nuove condizioni. Ed ecco come il periodo delle grandi rivoluzioni economiche e politiche di questi due ultimi secoli ha maturato nelle menti questi due concetti: l’immanenza e costanza del processo nei fatti storici, e la dottrina materialistica, che in fondo è la teoria obiettiva delle rivoluzioni sociali. Non v’ha dubbio, che il risalire attraverso i secoli e il rifarsi studiatamente col pensiero su lo sviluppo delle idee sociali, per quanto ce n’è documento negli scrittori, è cosa che riesce tuttora assai istruttiva, e giova soprattutto ad accrescere in noi la consapevolezza critica, così dei nostri concetti come dei nostri procedimenti. Tale ritorno della mente su le sue premesse storiche, quando non ci porti a smarrirci nell’empirismo di una sconfinata erudizione, e non c’induca nella tentazione di stabilire frettolosamente delle vane analogie, giova senza dubbio a dare pieghevolezza ed efficacia di persuasione alle forme della nostra attività scientifica. Nell’insieme delle nostre scienze si deriva ora, in via di fatto e per approssimativa continuità di tradizione, l’ottimo di quanto fu mai ritrovato, escogitato e provato, non che nei tempi moderni, fin da quelli

dell’antica Grecia, con la quale appunto comincia in modo definitivo per tutto l’uman genere, lo svolgimento ordinato del pensiero cosciente, riflesso e metodico. Non ci sarebbe dato di fare un solo passo nella ricerca scientifica senza l’uso dei mezzi da gran tempo trovati e pronti; come sarebbe a dire, tanto per addurre alcuni dei più generali, della logica e della matematica. Ad avere una opinione contraria occorrerebbe di voler dire, che ogni generazione debba ricominciar da capo, rimbamboleggiando. Ma né agli antichi autori, nell’angusto ambito delle loro repubbliche di città, né agli scrittori della Rinascenza, incerti sempre tra un immaginato ritorno all’antico e il bisogno di afferrare intellettualmente il mondo nuovo, che era in gestazione, fu dato di giungere all’analisi precisa degli elementi ultimi dai quali resulta la società, che il genio insuperato di Aristotele non vide e non comprese di là dai confini in cui si spiega la vita dell’uomo cittadino. La ricerca su la struttura sociale, considerata nei suoi modi di origine e di processo, si fece viva ed acuta ed assunse aspetti multiformi nei secoli decimosettimo e decimottavo, quando si formò la Economia, e insieme a questa, sotto ai varii nomi di Diritto di Natura, di saggi su lo Spirito delle Leggi e di Contratto Sociale, si fece strada il tentativo di risolvere in cause, in fattori, in dati logici e psicologici, il multiforme e non sempre chiaro spettacolo di una vita, in cui si preparava la più grande rivoluzione che si conosca. Coteste dottrine, quale che fosse l’intento subiettivo e l’animo degli autori – come è il caso antitetico del conservatore Hobbes e del proletario Rousseau – furon tutte rivoluzionarie nella sostanza e negli effetti. In fondo a tutte tu ritrovi sempre come stimolo e come motivo i bisogni materiali e morali dell’età nuova; che per le condizioni storiche erano quelli della borghesia: – e per ciò conveniva di combattere, in nome della libertà, la tradizione, la chiesa, il privilegio, le classi fisse, ossia gli ordini e i ceti, e per conseguenza lo stato che di questi era o pareva autore, e poi i privilegi del commercio, delle arti, del lavoro e della scienza. Onde si mirò all’uomo in astratto, ossia ai singoli individui emancipati e liberati, per virtù di astrazione logica, dai loro vincoli storici e di necessaria dipendenza sociale; e nella mente di molti il concetto della società si venne come a ridurre in atomi, e anzi parve, ai più, naturale il credere, che la società stessa non sia se non una somma d’individui. Le categorie astratte della psicologia individuale si trovarono come spinte sul davanti, o messe in cima, della spiegazione di tutti i fatti umani; ed ecco come in tutti cotesti sistemi ed escogitazioni non si parli che di paura, di amor proprio, di egoismo, di obbedienza volontaria, di tendenza alla felicità, di originaria bontà dell’uomo, di libertà di contrattare; e poi della coscienza morale, e dell’istinto o del senso morale, e di altrettali cose astratte e generiche, come quelle che fossero

sufficienti a spiegare la concreta storia esistente, e a crearne di sana pianta una nuova. Nell’atto che tutta la società entrava in una strepitosa crisi, l’orrore dell’antico, del vieto, del tradizionale, dell’organizzato da secoli, e il presentimento di una rinnovazione di tutta l’esistenza umana, ingenerarono da ultimo un oscuramento totale nelle idee di necessità storica e di necessità sociale; ossia in quelle idee, che, accennate appena dai filosofi antichi, e venute poi in tanto sviluppo nel secolo nostro, in quel periodo di razionalismo rivoluzionario non ebbero che rari rappresentanti, come Vico, Montesquieu, e in parte Quesnay. In questa situazione storica, che fa nascere una letteratura acuta, agile, sovvertitrice, penetrante e popolarissima, sta la ragione di ciò che Louis Blanc, con una certa enfasi, chiamò individualismo14; con la qual parola altri dopo di lui han poi creduto di dare espressione ad un fatto permanente della natura umana, che possa soprattutto servire come di argomento decisivo contro il socialismo. Singolare spettacolo; anzi singolare contrasto! Il capitale, formatosi come che si fosse, tendeva a vincere ogni altra precedente forma di produzione, rompendone i vincoli e gl’impedimenti, tendeva ad essere, cioè, il signore diretto od indiretto della società, come di fatti è divenuto nella più gran parte del mondo; dal che poi è proceduto, che, oltre a tutti i modi di moderna miseria e di nuova gerarchia in cui ora ci aggiriamo, si avverasse la più stridente antitesi di tutta la storia, ossia quella presente tra la anarchia della produzione nel complesso della società, e il ferreo dispotismo del modo del produrre nelle singole aziende, officine e fabbriche! Ebbene, i pensatori, e filosofi, ed economisti, e divulgatori d’idee del secolo decimottavo non vedeano che libertà ed eguaglianza! Tutti ragionavano allo stesso modo, tutti partivano dalle stesse premesse; o che arrivassero a conchiudere, doversi ottenere la libertà da un governo di pura amministrazione, o che fossero addirittura democratici, o per fino comunisti. Il regno prossimo della felicità stava innanzi agli occhi di tutti, come d’indubbio avvento; pur che fossero tolti i vincoli e gl’impedimenti, che all’uomo, di sua natura buono e perfettibile, aveano imposto la forzata ignoranza e il dispotismo della chiesa e dello stato. Cotesti impedimenti non pareano condizioni, e termini, nei quali gli uomini si fossero trovati per le leggi del loro sviluppo, e per gl’intrecci inevitabili del moto antagonistico, e per ciò incerto e flessuoso della storia, come paiono finalmente a noi per il prevalere dello storicismo obiettivo: ma, anzi, pareano dei semplici imbarazzi, dei quali l’uso retto della ragione dovesse liberarci. In cotesto idealismo, che raggiunse il suo apice in alcuni degli eroi della Grande Rivoluzione, germogliò una fede sconfinata nel sicuro progresso di tutto l’uman genere. Per la prima volta il concetto di umanità apparve in tutta la sua estensione, e senza mescolanza d’idee

o di presupposti religiosi. I più risoluti fra cotesti idealisti furono appunto i materialisti estremi; come quelli, che, negando ogni obietto alla fantasia religiosa, assegnavano al bisogno della felicità questa terra qual sicuro dominio, pur che la ragione schiudesse la via. Ma le idee furono così barbaramente maltrattate dalle prosaiche cose, come avvenne tra la fine del secolo passato e il principio di questo. Assai dura fu la lezione dei fatti, dalla quale procedettero le più tristi delusioni, e poi ne seguì un radicale rivolgimento negli spiriti. I fatti, in una parola, riuscirono contrarii ad ogni aspettazione; il che, se dapprima produsse stanchezza nei disillusi, non poté a meno di indurre desiderio e bisogno di nuova ricerca. È noto come SaintSimon e Fourier, nei quali proprio in principio del secolo si avvera, nelle forme unilaterali della genialità prematura, la reazione contro i resultati immediati della grande rivoluzione politico-economica, si levassero risolutamente, il primo contro i giuristi, ed il secondo contro gli economisti. Di fatti, rimossi gl’impedimenti alla libertà, che furon proprii di altri tempi, dei nuovi e spesso più gravi e più dolorosi eran subentrati; e, come la felicità eguale per tutti non s’era avverata, così la società rimaneva nella sua forma politica, tal quale come prima, una organizzazione delle disuguaglianze. La società deve esser, dunque, un qualcosa di per sé stante, un certo che di naturale, un semovente complesso di rapporti e di condizioni, che sfida i buoni propositi soggettivi dei singoli componenti suoi, e passa sopra alle illusioni ed ai disegni degli idealisti! Essa, dunque, segue un suo proprio andamento, dal quale sarà lecito di astrarre delle leggi di processo e di sviluppo, ma al quale non è dato d’imporne! Per cotale conversione delle menti, il secolo decimonono s’annunciò con la vocazione di dover essere il secolo della scienza storica e della sociologia. Il pensiero ha di fatti invaso e penetrato ogni campo dell’attività umana, col principio dello sviluppo. In questo secolo fu ritrovata la grammatica storica, e fu rinvenuta la chiave per esplorare la genesi dei miti. In questo secolo furono rinvenute le tracce embriogenetiche della preistoria e furon per la prima volta messe in serie di processo le forme politiche e giuridiche. Il secolo decimonono si annunziò come il secolo della sociologia, nella persona del Saint-Simon; nel quale, come accade degli autodidatti e dei precursori geniali, si trovano confusi insieme i germi di tante tendenze contradittorie. Per questo rispetto la concezione materialistica è un resultato; ma è quel resultato, che è il compimento di tutto un processo di formazione; e come resultato e come compimento essa è anche la semplificazione di tutta la scienza storica e di tutta la sociologia, perché ci riporta dai derivati e dalle condizioni complesse alle funzioni elementari. E ciò è avvenuto per la diretta suggestione di una nuova e

strepitosa esperienza. Le leggi della economia, quali esse per sé sono e per sé si esplicano, avean trionfato di tutte le illusioni, e s’eran mostrate direttrici della vita sociale. La grande rivoluzione industriale, operatasi per primo in Inghilterra alla luce del giorno, anzi nel secolo dei lumi, facea intendere come le classi sociali, se non sono in natura, non son nemmeno una conseguenza del caso o dell’arbitrio; anzi nascono storicamente e socialmente entro ed attorno ad una determinata forma di produzione. E chi, in verità, non avea visto a sorgere, sotto i suoi occhi, i nuovi proletarii dalla rovina economica di tante classi di piccoli proprietarii, di piccoli contadini e di artigiani; e chi non era in grado di scorgere il metodo di tale novella creazione di nuovo stato sociale, in cui tanti uomini venivano ad esser ridotti e a trovarsi per forza? Chi non era in grado di scorgere, come il danaro diventato capitale fosse riuscito in breve corso d’anni a grandeggiare, per l’attrazione che esso esercita sul lavoro degli uomini liberi, nei quali la necessità di darsi liberamente a mercede era stata di lunga mano preparata con tanti accurati metodi di diritto, e per le vie di una violenta o indiretta espropriazione? Chi non avea visto a sorgere le nuove città intorno alle fabbriche, e cingersi al loro perimetro di desolante miseria, che non era più un caso di singolare disavventura ma la condizione e la fonte della ricchezza? E in quella miseria di novello stile apparivano numerose le donne ed i fanciulli, uscenti per la prima volta da una ignorata esistenza, per figurare sul palcoscenico della storia qual sinistra illustrazione della società degli eguali. E chi non sentiva – ci fosse o non ci fosse la sedicente teoria del reverendo Malthus15 – che il numero di conviventi, che cotesto modo di organizzazione economica può contenere, se a volte è insufficiente a chi per l’alea favorevole della produzione ha bisogno di braccia, altre volte è esuberante, e per ciò non occupabile e pauroso? Diveniva, inoltre, cosa evidente, che la rapida e violenta trasformazione economica avveratasi strepitosamente in Inghilterra, era ivi riuscita perché quel paese erasi potuto creare, di fronte alla rimanente Europa, un monopolio fino allora non mai visto, ed a reggere cotesto monopolio era occorsa una politica senza scrupoli, la quale permetteva una buona volta a tutti di tradurre in prosa il mito ideologico dello stato, che avrebbe ad essere tutore e pedagogo del popolo. Nella visione immediata di tali conseguenze della nuova vita ebbe origine il pessimismo, più o meno romantico, del laudatores temporis acti, da De Maistre a Carlyle. La satira del liberalismo invade le menti e la letteratura in principio di questo secolo. Comincia quella critica della società, nella quale è l’inizio di tutta la sociologia. Bisognava innanzi tutto vincere la ideologia, che erasi accumulata ed espressa nelle tante dottrine del Diritto di Natura e del Contratto Sociale.

Bisognava rimettersi di fronte ai fatti, che le rapide vicende di un processo tanto intensivo imponevano all’attenzione in forme così nuove e paurose. Eccoti Owen, l’impareggiabile sotto tutti i rispetti; ma per questo specialmente, che egli fu tanto chiaroveggente su le cause della nuova miseria, quanto fu ingenuo nel ricercare i modi di vincerle. Bisognava giungere alla critica oggettiva della Economia, che apparve la prima volta, in forme unilaterali e reazionarie, in Sismondi. In quel periodo di tempo, in cui si mutavano le condizioni di una nuova scienza storica, nascono e attirano sopra di sé l’attenzione tante diverse forme di socialismo utopico, unilaterale, o a dirittura stravagante, che non arrivarono mai fino ai proletarii, o perché questi non avean coscienza politica affatto, o, avendola, si moveano a salti, come nelle cospirazioni e sommosse francesi dal 1830-48, o si aggiravano sul terreno pratico delle riforme immediate, come è il caso dei Cartisti. E pure tutto cotesto socialismo, per quanto utopico, fantastico ed ideologico, era una critica immediata e spesso geniale dell’Economia; una critica unilaterale, insomma, cui occorreva il complemento scientifico di una generale concezione storica. Tutte coteste forme di critica parziale, unilaterale ed incompleta misero effettivamente capo nel socialismo scientifico. Questo non è più la critica soggettiva applicata alle cose, ma è il ritrovamento dell’autocritica che è nelle cose stesse. La critica vera della società è la società stessa, che per le condizioni antitetiche dei contrasti su i quali poggia, genera da sé in sé stessa la contraddizione, e questa poi vince per trapasso in una nuova forma. Il risolvente delle presenti antitesi è il proletariato; che lo sappiano o non lo sappiano i proletarii stessi. Come in essi la miseria loro è diventata la condizione palese della società presente, così in essi e nella miseria loro è la ragion d’essere della nuova rivoluzione sociale. In questo trapasso dalla critica del pensiero soggettivo, che esamina dal di fuori le cose e immagina di poterle correggere per conto suo, alla intelligenza dell’autocritica che la società esercita sopra di sé stessa nella immanenza del suo proprio processo; soltanto in ciò consiste la dialettica della storia, che Marx ed Engels, solo in quanto erano materialisti, trassero dall’idealismo di Hegel. E in fin delle fini poco importa se di tali riposte e complicate forme del pensiero non si sappian render conto, né i letterati, che non conoscono altra significazione della parola dialettica se non quella dell’artificio sofistico, né i dotti e gli eruditi, che non sono mai atti a sorpassare la conoscenza empiricamente disgregata dei semplici particolari. Ma il grande rivolgimento economico, che ha offerto i materiali onde è composta la società moderna, nella quale è arrivato in fine al suo quasi completo sviluppo l’impero del capitalismo, non sarebbe riuscito di così rapido e

suggestivo insegnamento, se non fosse stato luminosamente illustrato dal moto vertiginoso e catastrofico della Rivoluzione Francese. Mise essa in piena evidenza, come in tragica rappresentazione, tutte le forze antagonistiche della società moderna, perché questa vi si fece strada tra le rovine, e segnò in breve tratto di tempo precipitosamente le fasi del suo nascimento e del suo assetto. Nacque la rivoluzione dagl’impedimenti che la borghesia dovette vincere con la violenza, poi che apparve evidente come la transizione dalla vecchia alla nuova forma della produzione – o della proprietà, come dicono per necessità di gergo professionale i giuristi – non potesse avverarsi per le vie più tranquille delle successive e graduali riforme. E fu essa per ciò sollevazione, attrito e rimescolamento di tutte le vecchie classi dell’Ancien Régime, e rapida e vertiginosa formazione ad un tempo di nuove classi, nel brevissimo ma singolarmente intensivo periodo di soli dieci anni, che al paragone della ordinaria storia di altri paesi e tempi paiono secoli. In cotesta compressione di vicende da secoli in così breve giro di anni, si esemplificarono i momenti e gli aspetti più caratteristici della società nuova, o moderna, con tanto maggiore evidenza, in quanto che la pugnace borghesia avea già creato a sé stessa tali mezzi ed organi intellettuali, da possedere nella teoria dell’opera propria la coscienza riflessa del suo movimento. La violenta espropriazione di una parte non piccola della vecchia proprietà, di quella, cioè, che era immobilizzata nel feudo, nei regi e principeschi demanii e nella manomorta, coi diritti reali e personali che ne derivavano per mille vie, mise a disposizione dello stato, divenuto per necessità di cose un terribile ed onnipotente governo di eccezione, una massa straordinaria di mezzi economici; e questi, per un verso dettero luogo alla singolare finanza degli assegnati, finiti poi nell’annullamento di sé stessi, e per un altro verso dettero luogo alla formazione dei nuovi proprietarii, che andarono debitori alle chances dell’aggiotaggio, e alle contingenze dell’intrigo e della speculazione, della fortuna loro. E chi avrebbe mai più osato dappoi di giurare sul capo del sacro ed atavico istituto della proprietà, dacché il titolo recente ed accertato di questa poggiava così palesemente su la notizia delle fortunate contingenze? Se mai era passato per il capo di tanti molesti filosofi, a cominciare dai Sofisti, che il diritto fosse una utile e comoda fattura dell’uomo; cotesta proposizione di malvisti eretici poteva sembrare oramai verità semplice ed intuitiva per fino agli ultimi straccioni dei sobborghi di Parigi. Non aveano essi, i proletarii, dato l’impulso, con tutto il resto del popolo minuto, alla rivoluzione in generale con le mosse anticipate dell’Aprile dell’89; e non si trovaron poi come scacciati di nuovo dalla scena della storia dopo l’insuccesso della rivolta del Preriale del ’95?16 Non aveano essi portato a spalle tutti i focosi oratori della libertà e della eguaglianza; non

aveano essi tenuto in mano la Comune Parigina, che fu per un pezzo l’organo impulsivo dell’Assemblea e di tutta la Francia; e non finivan poi da ultimo nell’amara delusione d’essersi creati con le proprie mani i novelli padroni? Nella coscienza fulminea di tal delusione è il movente psicologico, rapido ed immediato, della cospirazione di Babeuf; la quale, per ciò appunto, è un grande fatto della storia, ed ha in sé tutti gli elementi della tragedia oggettiva. La terra, che il feudo e la manomorta aveano come legata ad un corpo, ad una famiglia, ad un titolo, liberata dai suoi vincoli era diventata merce, perché fosse base ed istrumento da produrre merci; ed era diventata d’un tratto merce così pieghevole, docile ed adattabile, da prestarsi a circolare nei simboli di tanti pezzi di carta. E intorno a questi simboli, moltiplicati di tanto su le cose che doveano rappresentare, che da ultimo finiron nel nulla, sorse gigante l’affare, come sorse d’ogni parte, su le spalle della miseria dei più miseri, e fra tutti gli anfratti della precipitosa e sinuosa politica, e sfacciato soprattutto nel trar partito dalla guerra e dai suoi gloriosi successi. Per fino i rapidi progressi di una tecnica accelerata per le urgenti circostanze, dettero materia ed occasione al prosperar degli affari. Le leggi dell’economia borghese, che son quelle della produzione individuale nel campo antagonistico della concorrenza, insorsero furiose, con tutti i mezzi della violenza e dell’insidia, contro l’arbitrio idealistico di un governo rivoluzionario; il quale, forte della certezza di salvare la patria, e forte ancora più della illusione di fondare in eterno la libertà degli eguali, credette fosse cosa possibile il sopprimere l’aggiotaggio con la ghigliottina, l’eliminare l’affarismo con la chiusura della borsa, e l’assicurare al popolo minuto la esistenza, col fissare il maximum dei prezzi dei generi di prima necessità. Le merci, e i prezzi, e gli affari rivendicarono con la violenza la libertà propria, contro quelli che volean leggere o imporre loro la morale. Il Termidoro, quali che fossero le personali intenzioni dei Termidoriani, o vili, o paurosi o illusi, fu, così nelle cause ascose come nei suoi effetti non remoti, il trionfo degli affari su l’idealismo democratico. La costituzione del ’93, la quale segna l’estremo limite cui possa giungere il pensiero democratico, non era mai andata in esecuzione. La pressione grave delle circostanze, la minaccia dello straniero, le varie forme di ribellione all’interno, dalla girondina alla vandeana, avean reso necessario un governo di eccezione, che fu il Terrore nato dalla paura. A misura che i pericoli cessavano, cessò il bisogno del terrore; ma la democrazia s’infranse innanzi agli affari, nei quali nasceva la proprietà dei proprietarii nuovi. La costituzione dell’anno III consacrò il principio del moderantismo liberale, dal quale è proceduto tutto il costituzionalismo del continente europeo: ma innanzi tutto fu la via per giungere alla garanzia della proprietà nuova. Cambiare i proprietarii, salvando la proprietà, questo il motto,

questa la parola d’ordine, questa l’insegna, che sfidò per anni dal 10 agosto ‘92, così le sommosse violente, come gli arditi disegni di coloro che tentarono di fondare la società su la virtù, su l’eguaglianza, su la spartana abnegazione. Il Direttorio fu il tramite attraverso del quale la rivoluzione giunse a negare sé stessa come conato idealistico; e col Direttorio, che fu la corruzione confessata e professata, divenne realtà il motto: cambiati sì i proprietarii, ma la proprietà è salva! E da ultimo occorreva, a trarre da tante rovine uno stabile edifizio, la forza vera; e questa si trovò in un singolare avventuriere d’insuperata genialità, cui la fortuna avea romanamente arriso, ed era il solo che possedesse la virtù di mettere la chiusa della conveniente morale a quella favola gigantesca, perché in lui non era né ombra, né traccia di scrupoli morali. Tutto si vide in quella rapina di eventi. I cittadini armati alla difesa della patria, vittoriosi oltre i confini della circostante Europa, nella quale portano con la conquista la rivoluzione, divengono soldatesca da opprimere la libertà in patria. I contadini, che in un impeto d’imperiosa suggestione produssero per entro alle terre di feudo l’anarchia dell’89, diventati, o soldati, o piccoli proprietarii, o piccoli fittaiuoli, e dopo d’essere stati per un quarto d’ora le sentinelle avanzate della rivoluzione, ricaddero nella silenziosa e balorda quiete della vita loro tradizionale, che, muta di casi e di movimenti, fa da sottostrato sicuro al così detto ordine sociale. I piccoli borghesi di città, e i già membri delle corporazioni, a breve andare s’accomodarono a diventare, nel campo della gara economica, i prestatori liberi dell’opera della mano. La libertà del commercio esigeva, che ogni prodotto diventasse liberamente commerciabile, e superava, quindi, l’ultimo impedimento ottenendo, che il lavoro diventasse anch’esso libera merce. Tutto si mutò in quel tempo. Lo stato, che era parso per secoli a tanti milioni d’illusi una sacra istituzione, o un divino mandato, lasciando il capo del suo sovrano sotto la fredda azione di un istrumento tecnico, ne rimase sconsacrato e profanizzato. Diventava esso stesso, lo stato, un apparato tecnico, che alla gerarchia veniva sostituendo la burocrazia. E perché non v’era più presunzione di antichi titoli, che dessero ragione di privilegio da tenervi posto, questo novello stato poteva diventar la preda di chi se lo pigliasse; si trovava, insomma, messo agl’incanti, purché i fortunati tra gli ambiziosi fossero i solidi garanti della proprietà, e dei nuovi e vecchi proprietarii. Il novello stato, che ebbe bisogno del 18 Brumaio per diventare una ordinata burocrazia poggiata sul militarismo vittorioso, questo stato che completava la rivoluzione nell’atto che la negava, non potea fare a meno del suo testo, e l’ebbe nel Codice Civile, che è il libro d’oro della società che produca e venda merci. Non invano la giurisprudenza generalizzata avea serbato e commentato per secoli, nella forma di una disciplina

scientifica, quel Diritto Romano, che fu, è, e sarà la forma tipica e classica del diritto d’ogni società delle merci, finché il comunismo non tolga di mezzo la possibilità di venderne e di comprarne. La borghesia, che per l’incidenza di tante singolari circostanze fece la strepitosa rivoluzione col concorso di tante altre classi e semiclassi, sparite poi dopo breve tempo quasi tutte dalla scena politica, apparve nei momenti del più vivo attrito come spinta da motivi ed ispirata da una ideologia, che sarebbero affatto difformi dagli effetti che sopravvissero e positivamente si perpetuarono. Ciò fa, che nel calore delle lotte la vertiginosa mutazione del sottostrato economico apparisca come dissimulata dagli ideali, ed oscurata dall’intreccio di tanti propositi e disegni, da cui sorgono atti di malvagità e di eroismo inauditi, e correnti di illusioni e dure prove di disinganni. Mai si sprigionò dagli umani petti così potente la fede nell’ideale del progresso. Liberare l’uman genere dalla superstizione, o a dirittura dalla religione, fare d’ogni individuo un cittadino, e d’ogni privato un uomo pubblico; questo l’inizio: – e poi su la linea di cotesto programma compendiare, nell’azione breve di pochi anni, quella evoluzione, che ai più idealisti di ora appare quale opera di molti secoli ancora da venire: – questo l’idealismo d’allora. E perché dovea repugnare a costoro la pedagogica della ghigliottina? Tale poesia, grandiosa certo se non dilettosa, lasciò dietro di sé una prosa assai dura. E fu la prosa dei proprietarii, che dovean la proprietà alla fortuna, e fu quella dell’alta finanza e dei fornitori arricchiti, dei marescialli, dei prefetti, dei giornalisti e degli artisti e letterati mercenarii; fu la prosa della corte del singolare mortale, cui le qualità del genio militare innestate su l’indole brigantesca avean senza dubbio conferito il diritto di schernire come ideologo chiunque non ammirasse il fatto nudo e crudo, che nella vita può essere, come era per lui, la semplice brutalità del successo17. La Grande Rivoluzione affrettò il corso della storia in buona parte dell’Europa. Da essa partì tutto ciò che chiamiamo liberalismo e democrazia moderna, salvo i casi di errata imitazione dell’Inghilterra, e fino allo stabilimento della unità d’Italia, che fu, e rimarrà forse l’ultimo atto della borghesia rivoluzionaria. Fu quella rivoluzione l’esempio più vivo e più istruttivo del come una società si trasformi, e del come le nuove condizioni economiche si sviluppino, e sviluppandosi coordinino in gruppi e classi i membri della società. Fu la prova palpabile, del come si trovi il diritto, quando occorra ad espressione e difesa di determinati rapporti, e del come si crei lo stato, e se ne dispongano i mezzi, le forze e gli organi. E si vide come le idee germoglino dal terreno delle necessità sociali, e come i caratteri, le tendenze, i sentimenti, le volontà, ossia, a farla breve, le forze morali, si producano e svolgano in

circostanziate condizioni. In una parola, i dati della scienza sociale furono, per così dire, ammanniti dalla società stessa; e non è da meravigliare se la rivoluzione, che fu preceduta ideologicamente dalla forma più acuta di dottrinarismo razionalistico che si conosca, abbia finito poi per lasciare dietro di sé il bisogno intellettuale di una scienza storica e sociologica antidottrinaria; come in buona parte è riuscito di farne nel secolo nostro, che volge oramai al termine suo. E qui, per le cose da me dette e per quelle generalmente risapute, sarebbe inutile ricordare nuovamente, come ad Owen faccian riscontro Saint-Simon e Fourier, e di ripetere per quali vie siasi originato il socialismo scientifico. L’importante è in due punti soli, e cioè: che il materialismo storico non potea nascere se non dalla coscienza teorica del socialismo; e che esso può oramai spiegare la sua propria origine, coi suoi proprii principii, il che è la riprova massima della maturità sua. Non era perciò fuor di luogo la frase con cui comincia questo capitolo: le idee non cascano dal cielo.

VIII Per il cammino fatto fin qui deve oramai parer chiaro a chiunque, quale sia il valore preciso e relativo della così detta dottrina dei fattori; e per qual modo si riesca ad eliminare obiettivamente cotesti concetti provvisorii, che furono e sono semplice espressione di un pensiero non arrivato pienamente a maturità. Eppure su cotesta dottrina bisogna tornarci ancora una volta, per dichiarar meglio, e più partitamente, da quali ragioni sia dipeso e dipenda, che due dei così detti fattori, ossia lo stato e il diritto, fossero o siano tuttora assunti a principale od esclusivo soggetto della storia. La storiografia, di fatti, ha riposto per secoli in coteste forme della vita sociale l’essenziale dello sviluppo umano; e, anzi, non ha visto questo sviluppo se non nel modificarsi di tali forme. La storia è stata trattata per secoli come disciplina attinente al movimento giuridico-politico, e anzi al politico principalmente. La inversione dalla politica alla società è cosa recente; e assai più recente ancora è la risoluzione della società negli elementi del materialismo economico. In altre parole, la sociologia è di assai recente invenzione; e il lettore, spero, avrà inteso da sé, che io adopero cotesta parola, brevitatis causa, per indicare in genere la scienza delle funzioni e delle variazioni sociali, e non per riferirmi al caso specifico del modo come la trattano i Positivisti.

Gli è del resto cosa risaputa, come, fino al principio di questo secolo, le notizie attinenti alle usanze, ai costumi, alle credenze e così via, e anche quelle attinenti alle condizioni naturali, che fanno da sottosuolo e da circuito alle forme sociali, apparissero nelle storie politiche quali semplici curiosità, o quali accessorii e complementi della narrazione. Tutto ciò non può essere accidentale: e non è. Rendersi conto della tardiva apparizione della storia sociale gli è per ciò di doppio interesse: e perché la dottrina nostra giustifica ancora una volta, per cotal via, la sua ragion d’essere; e perché dei così detti fattori si fa la eliminazione in modo definitivo. Fatta eccezione di alcuni momenti critici, nei quali le classi sociali, per estrema incapacità a tenersi in una condizione di relativo equilibrio per adattamento, entrano in una più o meno prolungata crisi di anarchia; e fatta eccezione di quelle singolari catastrofi, nelle quali tutto un mondo precipita, come alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, o al dissolversi del Califato: dacché c’è memoria di storia scritta, lo stato apparisce, non solo come l’apice, e come il vertice della società, ma come il reggitore di essa. Il primo passo che il pensiero ingenuo abbia fatto in tale ordine di considerazioni consiste in questo enunciato: il reggitore è l’autore. Fatta, inoltre, eccezione di certi brevi periodi di democrazia esercitata con la viva coscienza della sovranità popolare, come fu di alcune città greche, e segnatamente di Atene, e di alcuni comuni italiani, e specie di Firenze (quelle erano, però, di uomini liberi padroni di schiavi, questi furono di cittadini privilegiati sfruttanti il forestiero e la campagna), la società retta a stato fu sempre di una maggioranza messa in balìa di una minoranza. Cosicché la maggioranza degli uomini è apparsa nella storia come una massa retta, governata, guidata, sfruttata e maltrattata; o, per lo meno, qual variopinta conglomerazione d’interessi, che alcuni pochi avessero da regolare, mantenendo in equilibrio le divergenze, per pressione o per compensazione. Di qui la necessità di un’arte di governo; e, come questa si fa prima di ogni altra cosa palese agli osservatori della vita collettiva, così era naturale, che la politica apparisse come l’autrice dell’ordine sociale, e come l’indice della continuità nel succedersi delle forme storiche. Chi dice politica, dice attività, che fino ad un certo punto si conduce a disegno; cioè fino a che i calcoli non dian di cozzo in ignorate o inaspettate resistenze. Assumendo, per quel che suggeriva la imperfetta esperienza, ad autore della società lo stato, e ad autrice dell’ordine sociale la politica, ne venia di conseguenza, che gli storici narratori o ragionatori fossero portati a riporre l’essenziale della storia nel succedersi delle forme, delle istituzioni e delle idee politiche.

Donde lo stato avesse avuto origine, e in che cosa trovasse fondamento al suo perpetuarsi, non importava, come non importa al comune ragionamento. I problemi di indole genetica spuntano, com’è risaputo, assai tardi. Lo stato c’è, e trova la sua ragione nella sua necessità attuale: – tanto è vero, che la fantasia non ha potuto adattarsi all’idea, che una volta non ci fosse, e ne ha prolungata la esistenza congetturale fino alle prime origini del genere umano. Iddii, o semidei ed eroi ne furono gli istitutori, nella mitologia per lo meno; come nella teologia medievale il Papa fa da fonte prima, e per ciò divina e perpetua, di ogni autorità. Ancora ai tempi nostri, viaggiatori inesperti e missionarii idioti trovano da per tutto lo stato, là dove non è, presso i selvaggi e i barbari, che la gens, o la tribù delle genti, o l’alleanza delle genti. Due cose sono occorse, perché tali pregiudizii del ragionamento rimanessero vinti. In primo luogo fu necessario si riconoscesse, che le funzioni dello stato nascono, crescono, diminuiscono, si alterano e si succedono col variare di certe condizioni sociali. In secondo luogo è convenuto si arrivasse ad intendere, che lo stato esiste e si regge in quanto è ordinato a difesa di certi determinati interessi, di una parte della società, contro tutto il testo della società stessa; la quale deve esser fatta di tal modo, nel suo insieme, che la resistenza dei soggetti, dei maltrattati, degli sfruttati, o si disperda nei molteplici attriti, o trovi compenso nei parziali, per quanto miseri, vantaggi degli oppressi stessi. La miracolosa ed ammirata arte politica si risolve per ciò in un enunciato assai semplice: applicare una forza, o un sistema di forze, ad un insieme di resistenze. Il primo e più difficile passo è fatto quando si giunge a risolvere lo stato nelle condizioni sociali, da cui esso trae origine. Ma queste condizioni sociali stesse sono state poi precisate con la teoria delle classi; la genesi delle quali è nella maniera delle varie occupazioni, data la distribuzione del lavoro, e, ossia, dati i rapporti che coordinano e vincolano gli uomini in una determinata forma di produzione. A questo punto il concetto dello stato ha cessato di rappresentare la causa diretta del movimento storico, in quanto presunto autore della società: perché s’è visto, che in ogni sua forma e variazione esso non è, se non l’ordinamento positivo e forzato di un determinato dominio di classe, o di una determinata accomodazione di diverse classi. E poscia, per ulteriore conseguenza di tali premesse, si e giunti da ultimo a riconoscere, che la politica, in quanto arte di operare a disegno, è una parte assai piccola del movimento generale della storia, ed è una parte non grande della formazione e dello sviluppo dello stato stesso; nel quale molte cose, ossia molte relazioni, nascono e si svolgono per necessaria accomodazione, per tacito consenso, per subita o tollerata violenza, per intuitivo ripiego. Il regno dell’inconsapevole, nel senso di ciò che non è voluto ad arbitrio,

a disegno o per elezione, ma che si determina e si fa per succedersi di abiti, di consuetudini, di accomodazioni e così via, è divenuto assai largo nel campo delle conoscenze che formano oggetto della scienza storica; e la politica, che era stata assunta a regola di spiegazione, è diventata essa stessa la cosa da spiegare. Per quali ragioni la storia si presentasse in esclusiva veste politica gli è, dunque, oramai palese. Ma non per questo lo stato è una semplice escrescenza, o un puro accessorio, o del corpo sociale, o della libera associazione; come è parso a tanti utopisti, e a tanti ultraliberali anarchizzanti. Se la società ha messo capo, in fino ad ora, nello stato, gli è perché di tale complemento di forza e di autorità essa ha avuto bisogno, in quanto è appunto di disuguali, per effetto delle differenziazioni economiche. Lo stato è ben qualcosa di assai reale, come sistema di forze, che mantengono l’equilibrio, o lo impongono con la violenza e con la repressione. E per esistere come tale sistema di forze è dovuto divenire ed essere una potenza economica; poggi questa nella razzia, nella preda, nella imposizione di guerra, o consista nella diretta proprietà di demanio, o si formi di volta in volta, come nel metodo moderno della pubblica finanza, che assume le simulate forme costituzionali di una pretesa autotassazione. In cotesta potenza economica, di tanto cresciuta, negli stati moderni, consiste il fondamento della sua capacità ad operare. Da essa deriva, che, per via di una nuova division del lavoro, intorno alle funzioni dello stato stesso si formino ordini e ceti speciali, ossia classi particolarissime, non esclusa quella dei parassiti. Lo stato, che è e deve essere potenza economica, perché a difesa delle classi dirigenti sia fornito di mezzi per reprimere, per governare, per amministrare, per guerreggiare, crea per diretto o per indiretto un insieme d’interessi nuovi e particolari, i quali reagiscono necessariamente su la società. Cosicché lo stato, nell’atto che è sorto e si mantiene come garante delle antitesi sociali, che sono conseguenza delle differenziazioni economiche, forma intorno a sé una cerchia d’interessati direttamente all’esistenza sua. Da ciò derivano due conseguenze. Come la società non è un tutto omogeneo, anzi è un corpo di particolareggiata articolazione, anzi un multiforme complesso d’interessi antitetici, così accade, che alcune volte i reggitori dello stato tendano ad isolarsi, e in tale isolamento si contrappongano a tutta intera la società. E poi in secondo luogo, accade, che organi e funzioni create la prima volta a benefizio di tutti, degenerino in abusi di consorterie, di conventicole e di camorre. Di qui le aristocrazie e le gerarchie nate dall’uso dei poteri politici, e di qui le dinastie; le quali formazioni, viste alla luce della semplice logica, paiono irrazionali del tutto.

Da che c’è storia accertata, lo stato è cresciuto o è diminuito di poteri, ma non è mai più sparito, perché mai più vennero meno, nella società dei disuguali per economica differenziazione, le ragioni per mantenere e per difendere con la forza e con la conquista, o la schiavitù, o i monopolii, o il predominio di una forma di produzione, mediante la signoria dell’uomo su gli uomini. Onde poi lo stato è diventato come l’arena di una incessante guerra civile, che vi si svolge di continuo, anche se non appaia nelle forme strepitose dei Mario e dei Silla, delle giornate di Giugno18 e della secessione americana. Dentro allo stato ha sempre fiorito la corruzione dell’uomo per mezzo dell’uomo; perché, se non v’è forma di dominio che non trovi resistenza, non v’è resistenza che per gli urgenti bisogni della vita non possa degenerare in rassegnata accomodazione. Per tali ragioni le vicende storiche, viste alla superficie della monotona narrazione ordinaria, paiono come la ripetizione assai poco variata del medesimo tipo, come una specie di ritornello, o di configurazione da caleidoscopio. Non è da maravigliare che il concettualista Herbart e il maligno pessimista Schopenhauer venissero nella conclusione, che di storia come vero processo non ce n’è: il che, in volgare, si direbbe così: la storia è una canzone noiosa! Ridotta la storia politica alla sua quintessenza, lo stato rimane chiarito in tutta la sua prosa, in cui non è più traccia, né di teologica transumanazione, né di quella metafisica transustanzazione, che ebbe tanta voga presso certi filosofi tedeschi: p. es. lo stato che è l’Idea, lo stato Idea che si esplica nella storia, lo stato che è l’attuazione piena della personalità, ed altrettali pappolate. Lo stato è un reale ordinamento di difese per garentire e perpetuare un metodo di convivenza, il cui fondamento è, o una forma di produzione economica, o un accordo ed una transazione fra diverse forme. A farla più breve, lo stato suppone, o un sistema di proprietà, o l’accordo tra più sistemi di proprietà. In ciò è il fondamento d’ogni sua arte, al cui esercizio occorre, che lo stato stesso divenga una potenza economica, e che abbia anche i mezzi e i modi per far passare la proprietà dalle mani degli uni nelle mani degli altri. Quando, per effetto di una rinnovazione acuta e violenta delle forme della produzione, occorre di provvedere ad un insolito e straordinario spostamento dei rapporti della proprietà (p. es. abolizione della manomorta e del feudo, abolizione dei monopolii commerciali), allora la vecchia forma politica è insufficiente, e la rivoluzione è necessaria per creare il nuovo organo che esegua la trasformazione economica. Ora, fatta astrazione da’ tempi antichissimi a noi ignoti, tutta la storia s’è svolta nei contatti e nei contrasti di varie tribù, e comunanze, e poi di varie nazioni e di varii stati: cioè, le ragioni delle antitesi interne nella cerchia di ciascuna società sonosi sempre andate complicando con gli attriti all’esterno.

Queste due ragioni di contrasto si condizionano a vicenda, ma in modi sempre variati. Spesso è il disagio interno che spinge una comunanza o uno stato ad entrare in esterne collisioni; altre volte sono queste collisioni che alterano i rapporti interni. Il movente precipuo dei varii rapporti tra le diverse comunanze fu dalle origini, com’è fino ad ora, il commercio nel lato senso della parola, ossia lo scambio: sia che si trattasse di cedere, come in una povera tribù, il solo esuberante, in cambio di altre cose, sia che si tratti, come oggi, della grande produzione in massa, che è fatta ad esclusivo scopo di vendere, per trarre dal danaro il danaro cresciuto d’un tanto. Cotesta enorme massa di accadimenti esterni ed interni, che si accumulano ed accavallano l’un su l’altro nella ordinaria cronistoria, turbano tanto gli storiografici espositori e compendiatori, che essi quasi si smarriscono in infiniti tentativi di artificiali raggruppamenti cronologici e prospettici. Chi invece segua lo sviluppo interno dei varii tipi sociali quanto alla loro struttura economica, e consideri le vicende politiche come particolari resultati delle forze operanti nella società, finisce da ultimo per vincere il confuso della molteplice ed incerta impressione empirica, e al posto della linea cronologica, del sincronismo e della prospettica, mette la serie concreta di un processo reale. Innanzi a questo genere di realistiche considerazioni, cadono tutte le ideologie fondate su la missione etica dello stato, o sopra qualunque altra frase simile. Lo stato è, per così dire, messo al suo posto, e rimane come inquadrato nei contorni del divenire sociale, in quanto forma che è effetto di altre condizioni, e che a sua volta, poi che esiste, reagisce naturalmente sul resto. E qui spunta un’altra questione. Cotesta forma sarà superata mai? – ossia, ci può essere una società senza stato? – ovvero, ci può essere una società senza classi? – e, se giova di spiegarsi meglio, ci sarà mai una forma di produzione comunistica, con tale spartizione di lavoro e di ufficii, che non possa dar luogo allo sviluppo delle disuguaglianze, da cui si genera il dominio dell’uomo su l’uomo? Nella risposta affermativa a coteste domande consiste la somma del socialismo scientifico; in quanto esso enuncia l’avvento della produzione comunistica, non come postulato di critica, né come meta di una volontaria elezione, ma come il resultato dell’immanente processo della storia. Come è risaputo, la premessa di tale previsione è nelle condizioni stesse della presente produzione capitalistica. Questa socializza di continuo il modo del produrre, avvince sempre di più il lavoro vivo e regolamentato alle condizioni obiettive della tecnica, concentra di giorno in giorno sempre più la proprietà dei

mezzi di produzione nelle mani di pochi, che come azionisti e negoziatori di azioni si trovano sempre più assenti dal lavoro immediato, la cui direzione passa all’intelligenza. Col crescere della coscienza di tale situazione nei proletarii, cui l’insegnamento della solidarietà viene dalle condizioni stesse della loro reggimentazione, e col decrescere della capacità nei detentori del capitale a conservare la privata direzione del lavoro produttivo, si verrà ad un punto in cui, di un modo o dell’altro, con la eliminazione di ogni forma di rendita, interesse e profitto privato, la produzione passerà all’associazione collettiva, ossia sarà comunistica. Così cesseranno tutte le disuguaglianze, che non siano quelle naturali del sesso, dell’età, del temperamento e della capacità; cesseranno, cioè, tutte le disuguaglianze, che hanno attinenza alle classi economiche, e anzi da queste son generate: e sparite le classi verrà meno la possibilità dello stato, come dominio dell’uomo su l’uomo. Il governo tecnico e pedagogico dell’intelligenza sarebbe l’unico ordine della società. Per cotal via il socialismo scientifico, per ora idealmente almeno, ha superato lo stato; e superandolo lo ha inteso a fondo, così nel suo modo di origine, come nelle ragioni di sua naturale sparizione. E lo ha inteso appunto perché non gli si leva contro in modo unilaterale e soggettivo, come fecero già più volte in altri tempi cinici, e stoici, ed epicurei d’ogni maniera, e poi settarii religiosi, e cenobiti visionarii, e utopisti da conventicola, e da ultimo anarchisti d’ogni tinta e colore. Anzi, più che levarglisi da sé contro, il socialismo scientifico ha mirato a mostrare, come lo stato si sollevi di continuo da sé contro sé stesso, creando nei mezzi di cui non può fare a meno, p. es. colossale finanza, militarismo, suffragio universale, estensione della coltura, e così via, le condizioni della sua propria rovina. La società che lo ha prodotto lo riassorbirà: ossia, come la società, in quanto forma di produzione, eliminerà le antitesi di capitale e lavoro, così con la sparizione dei proletarii, e cessando le condizioni che rendono possibile il proletariato, sparirà ogni dipendenza dell’uomo dall’uomo, in qualunque forma di gerarchia. I termini entro i quali s’aggira la genesi e lo sviluppo dello stato, dal suo punto iniziale di apparizione entro una determinata comunità, in cui cominciò la differenziazione economica, fino a questo momento, in cui la sua sparizione principia a disegnarsi alla mente, ce lo rendono oramai comprensibile. E per tale comprensibilità, che lo riduce a necessario complemento di determinate forme economiche, la presunzione di considerarlo qual fattore autonomo della storia rimane eliminata per sempre. Torna oramai cosa relativamente facile il rendersi conto del come il diritto sia stato elevato a fattore decisivo della società, e quindi della storia, per diretto o

per indiretto. Innanzi tutto è bene di ricordare per quali vie siasi formata quella concezione filosofica del diritto generalizzato, nella quale principalmente ha radice la considerazione della storia come dominata dal progresso legislativo per sé stante. Col precoce dissolversi della società feudale in alcuni punti dell’Italia centrale e settentrionale, e col sorgere dei comuni, che furono repubbliche di produttori corporativi, e di corporazioni di mercanti, tornò in onore il Diritto Romano. Questo rifiorì nelle Università; e come rinasceva in opposizione ai diritti barbarici e in buona parte in opposizione al Diritto Canonico, era evidentemente, in tale sua rifioritura, una forma del pensiero più rispondente ai bisogni della borghesia, che cominciava a svilupparsi. Di fatti, di fronte al particolarismo dei diritti, che erano, o consuetudini di popoli barbari, o privilegi di un corpo, o concessioni papali ed imperiali, quel diritto appariva come la universalità della ragione scritta. Non era esso arrivato a considerare la personalità umana nei suoi più astratti e generali rapporti; in quanto un qualunque Tizio è capace di obbligarsi e di obbligare, di vendere e di comprare, di cedere, donare e così via? Il Diritto Romano, per quanto elaborato nella sua ultima redazione, per autorità d’imperatori da giuristi servili, appariva, dunque, in sul declinare delle istituzioni medievali, come una forza rivoluzionaria, e come tale era un grande progresso. Cotesto diritto così universale, che dava i mezzi per isconvolgere e rovesciare i diritti barbarici, era certamente un diritto più rispondente alla natura umana guardata nei suoi rapporti generici; e nella sua opposizione ai diritti particolari e di privilegio appariva come un diritto di natura. È noto, del resto, come la ideologia del diritto di natura sia nata. È venuta nel suo massimo fiore nei secoli decimosettimo e decimottavo; ma fu di lunga mano preparata dalla giurisprudenza che pigliava a suo fondamento il Diritto Romano, o adottato, o rimaneggiato, o commentato. Nella formazione della ideologia del diritto naturale concorse un altro elemento, ossia la filosofia greca delle epoche posteriori. I Greci, che furono gli inventori di quelle determinate arti del pensiero che sono le scienze, non trassero mai, com’è risaputo, dalle molteplici leggi locali loro una disciplina che corrisponda a ciò che noi chiamiamo giurisprudenza. Invece, per il rapido progresso della scienza astratta nell’ambito delle democrazie essi giunsero ben per tempo alle più ardite discettazioni logiche, retoriche e pedagogiche su la natura del diritto, dello stato, della legge, della pena; onde poi nella loro filosofia si trovano le forze rudimentali di tutte le discussioni posteriori. Ma solo più

tardi, cioè ai tempi dell’Ellenismo, quando i confini della vita greca s’erano tanto slargati da confondersi con quelli del mondo civile, nell’ambito di quel cosmopolitismo, che portava con sé il bisogno di cercare in ogni uomo l’uomo, nacque il razionalismo del diritto, o il diritto di natura, nella forma che gli impresse la filosofia stoica. Cotesto razionalismo greco, che aveva offerto già qualche elemento formale alla codificazione logica del Diritto Romano, risorse nel secolo decimosettimo nella dottrina che fu appunto del diritto naturale. Da varie fonti, dunque, derivò la ideologia, che è servita da arma di critica e da istrumento per dare forma giuridica all’ordinamento economico della società moderna. Nel fatto, però, cotesta ideologia giuridica riflette, nella lotta per il diritto e contro il diritto, il periodo rivoluzionario dell’intelletto borghese. E per quanto pigli dapprima le mosse dottrinarie dal ritorno alla tradizione filosofica antica, e dalla generalizzazione della giurisprudenza romana, in tutto il resto e in tutto il suo genuino sviluppo è affatto nuova e moderna. Il Diritto Romano, per quanto generalizzato dalla scuola e dalla elaborazione moderna, rimane sempre in sé stesso una raccolta di casi non dedotti da preconcezione di sistema, né preordinati dalla mente sistematica di un legislatore. E d’altra parte il razionalismo degli Stoici, e dei loro contemporanei e seguaci fu di mera contemplazione, e non produsse intorno a sé un moto rivoluzionario. L’ideologia del diritto di natura, che da ultimo ebbe nome di filosofia del diritto, fu invece sistematica, partì sempre da enunciati generali, e fu inoltre battagliera e polemica, e anzi fu alle prese con l’ortodossia, con l’intolleranza, col privilegio, coi corpi; combatté, in somma, per le libertà, che ora costituiscono i fondamenti della società moderna. Nell’ambito di cotesta ideologia, che era un metodo di combattimento, germogliò per la prima volta, in forma tipica e decisiva, il pensiero, che c’è un diritto che è una cosa sola con la ragione. I diritti contro i quali si combatteva apparivano come una deviazione, come un regresso, come un errore. Da questa fede nel diritto razionale nasceva la credenza cieca nella forza del legislatore, che apparisce così ravvolta nelle forme del fanatismo nei momenti acuti della Rivoluzione Francese. Di qui la persuasione, che la società tutta debba essere come investita da un solo diritto, eguale per tutti, sistematico, logico, conseguente. Di qui la convinzione, che un diritto il quale garentisca a tutti l’eguaglianza giuridica, che è la facoltà del contrattare, garentisca anche a tutti la libertà. E giù tutto il resto! Col trionfo del vero diritto trionfa la ragione, e la società regolata dal diritto eguale per tutti è la società perfetta! Quali illusioni fossero in fondo a tali tendenze è inutile di dire. A che cosa

dovesse riuscire cotesta liberazione universale dell’uomo, lo sappiamo già. Ma ciò che qui più importa gli è che tali persuasioni partivano da un concetto del diritto, per cui questo rimaneva come scisso dalle cause sociali che lo producono. Cosicché la ragione, cui cotesti ideologi si appellavano, si riduceva a togliere al lavoro, all’associazione, al traffico, al commercio, alle forme politiche ed alla coscienza, tutti i limiti e tutti gl’impedimenti, che tornano d’impaccio alla libera concorrenza. Come di ciò s’avesse l’esperienza nella grande rivoluzione del secolo passato, ho detto già nell’altro capitolo. E se c’è ora chi si ostini a discorrere di un diritto razionale, che domini la storia, di un diritto, insomma, che sarebbe un fattore anziché un semplice fatto della evoluzione storica, vuol dire che costui vive fuori del nostro tempo, e non ha inteso come la codificazione liberale ed egalitaria abbia già segnata in via di fatto la fine e il termine di tutta cotesta scuola del diritto di natura. Per diverse vie si è giunti in questo secolo a ridurre il diritto, da cosa razionale in cosa di fatto; e perciò in cosa corrispettiva a determinate condizioni sociali. Prima di tutto l’interesse storico, allargandosi ed approfondendosi, ha portato le menti a riconoscere, che per intendere le origini del diritto non bastava, né incominciare dalla ragione, né fermarsi all’esame del Diritto Romano. I diritti barbarici, e le usanze e le consuetudini dei popoli e delle società tanto disprezzate dai razionalisti, son tornate in onore; dico, teoricamente. Questo era il solo modo per ottenere, dallo studio delle forme più antiche, la guida ad intendere come le più recenti si fossero poi prodotte. Il Diritto Romano codificato è una forma assai moderna; quella personalità che esso suppone, come soggetto universale, è una elaborazione di tempi avanzati, nei quali, sul cosmopolitismo dei rapporti sociali dominava una costituzione burocratico-militare. In quel mondo in cui era venuta a compimento la ragione scritta, non era più traccia di spontaneità di vita popolare, non era più democrazia. Quello stesso diritto, prima di arrivare a tale cristallizzazione, era nato e s’era svolto; e guardato nelle sue origini e nei suoi sviluppi, specie se a tale studio concorra la comparazione, apparisce in tanti punti affine alle istituzioni delle società e dei popoli creduti inferiori. Si facea dunque chiaro, che scienza vera del diritto non possa essere se non la storia genetica del diritto stesso. Ora, mentre il continente europeo avea creato nella codificazione del diritto civile il tipo ed il testo della ragion pratica borghese, non permaneva forse in Inghilterra un’altra forma autogenetica di diritto, nata e svoltasi in modo affatto pratico, dalle condizioni stesse della società che l’ha prodotto, senza sistema, e senza che l’azione del razionalismo metodico ci avesse avuto influenza?

Il diritto che veramente esiste, ed ha valore, è dunque cosa assai più semplice e modesta, di quello che non paresse agli entusiastici decantatori della ragione scritta, della ragione imperante; ai quali può mandarsi buona la loro illusione, in quanto furono precursori ideali di una grande rivoluzione. All’ideologia bisognava sostituire la storia delle istituzioni giuridiche. La filosofia del diritto finì in Hegel; e se c’è chi voglia obiettare in nome dei libri pubblicati dappoi, dirò, che la carta stampata dai professori non è proprio e sempre l’indice del progresso del pensiero. La filosofia del diritto si converte così nella trattazione filosofica della storia del diritto. E come la filosofia storica metta capo nel materialismo economico, e in che senso il comunismo critico sia l’inversione di Hegel, non occorre qui di ripetere ancora una volta. Cotesta rivoluzione, che pare di sole idee, non è se non il riflesso intellettuale delle rivoluzioni accadute nella vita pratica. Nel nostro secolo il legiferare è diventato una malattia; e la ragione imperante nella ideologia giuridica è stata detronizzata dai parlamenti. In questi le antitesi degl’interessi di classe hanno assunta la forma di partiti; e i partiti si schierano pro e contro a determinati diritti; onde tutto il diritto apparisce, o come un semplice fatto, o come cosa che sia utile o non utile di fare. Il proletariato s’è levato: e, dovunque la lotta operaia s’è precisata, i codici borghesi ne son rimasti sbugiardati. La ragione scritta si è mostrata impotente a salvare i salarii dalle oscillazioni del mercato, a garentire donne e fanciulli dagli orarii vessatorii delle fabbriche, o a trovare un solo dei suoi acuti ripieghi per risolvere il problema della disoccupazione. La sola limitazione parziale delle ore di lavoro ha dato materia ed occasione ad una lotta gigante. Piccoli e grossi borghesi, agrarii ed industriali, avvocati dei poveri e difensori della ricchezza accumulata, monarchici e democratici, socialisti e reazionarii si sono affannati a trarre in qua e in là l’azione dei poteri pubblici, e a sfruttare le contingenze della politica e l’intrigo parlamentare per trovare garenzie e difese a determinati interessi, o nella interpretazione di un diritto esistente, o nella creazione di un nuovo diritto. Buona parte di esso fu più volte rifatta; e si videro le più strane oscillazioni, dall’umanitarismo che difende anche i poveri, e per fino gli animali, alla proclamazione della legge stataria19. Al diritto fu levata la maschera; e n’è rimaso profanizzato. Ed ecco subentrato il sentimento dell’esperienza, e da questa è derivata una enunciazione tanto precisa per quanto modesta: ogni diritto fu ed è la difesa, o consuetudinaria, o autoritaria, o giudiziaria, di un determinato interesse; e di qui alla riduzione all’economia non c’è che un passo. Se la concezione materialistica è venuta da ultimo a suggellare coteste

tendenze in una veduta esplicita e sistematica, gli è perché la sua orientazione è stata determinata dall’angolo visuale del proletariato. Questo è il prodotto necessario, ed è ad un tempo la condizione indispensabile di una società, nella quale tutte le persone in astratto sono eguali in diritto, ma le condizioni materiali dello sviluppo e della libertà degli individui sono disuguali. I proletarii sono le forze, per l’esercizio delle quali i mezzi di produzione accumulati si riproducono, e si rifanno in nuova ricchezza: ma essi stessi non vivono, se non reggimentandosi intorno al capitale, e dall’oggi al dimani passano nella condizione di disoccupati, di poveri e di emigranti. Essi sono l’esercito del lavoro sociale, ma i loro capi sono i loro padroni. Essi sono la negazione del giusto, nel regno del diritto; ossia sono l’irrazionale, nel preteso dominio della ragione. Dunque la storia non fu il processo per giungere all’impero della ragione del diritto; ma non fu fino ad ora se non la serie delle mutazioni nelle forme della soggezione e della servitù. Dunque la storia consiste tutta nella lotta degl’interessi, e il diritto non è se non l’espressione autoritaria di quelli che han trionfato. Con tali enunciazioni non si giunge certo a spiegare ogni singolo diritto, che sia apparso nella storia, per via della immediata visione del rispettivo interesse. Le cose storiche sono assai complicate; ma queste enunciazioni generali bastano ad indicare lo stile e il metodo della ricerca, che si è oramai sostituita alla ideologia giuridica.

IX Qui vengono in buon punto alcune formule riassuntive. Date le condizioni di sviluppo del lavoro, e dei suoi appropriati e congrui istrumenti, la struttura economica della società, ossia la forma della produzione dei mezzi immediati della vita, determina sopra un terreno artificiale, in primo luogo e per diretto, tutta la rimanente attività pratica dei consociati, e il variare di tale attività nel processo che chiamiamo storia, e cioè: – la formazione, l’attrito, le lotte e la erosione delle classi; – lo svolgimento corrispettivo dei rapporti regolativi, così del diritto, come della morale; – e le ragioni e i modi di subordinazione e di soggezione, degli uomini verso gli uomini, col rispondente esercizio del dominio e dell’autorità, ciò, in somma, in cui da ultimo si origina e consiste lo stato: e determina in secondo luogo l’indirizzo, e in buona parte, e per indiretto, gli obietti della fantasia e del pensiero, nella produzione dell’arte, della religione e della scienza. I prodotti di primo e di secondo grado, per gl’interessi che creano, per gli abiti che ingenerano, per le persone che coordinano, specificandone l’animo e le inclinazioni, tendono a fissarsi e ad isolarsi come per sé stanti; e di qui nasce la veduta empirica, secondo la quale, diversi fattori indipendenti, con propria efficacia e con proprio ritmo di movimento, concorrerebbero a formare il processo storico, e le rispettive configurazioni sociali che successivamente ne resultano. Fattori – se mai cotesta parola deve usarsi – veri e proprii e positivi della storia, dalla sparizione del comunismo primitivo in qua, e fino ad ora, furono e sono le classi sociali, in quanto consistono in differenziazioni d’interessi, che si esplicano in determinati modi e forme di opposizione (da cui si genera l’attrito, il moto, il processo ed il progresso). Le variazioni della sottostante struttura (economica) della società, che a prima vista ci si manifestano intuitivamente nell’agitarsi delle passioni, si svolgono consapevolmente nelle lotte contro un diritto o per il diritto, e si avverano nello scuotimento e nella rovina di un determinato ordinamento politico, hanno, in realtà, la loro adeguata espressione solo nell’alternarsi delle relazioni esistenti fra le diverse classi sociali. E queste relazioni mutano per l’alterarsi dei rapporti, che precedentemente correano, tra la produttività del lavoro e le condizioni (giuridico-politiche) di coordinamento tra i cooperanti della produzione. E, in fin delle fini, tali rapporti tra la produttività del lavoro e la coordinazione dei cooperanti si alterano per il mutare degli istrumenti (nel lato senso della parola) occorrenti alla produzione. Il processo ed il progresso della tecnica,

come sono l’indice, così sono la condizione di ogni altro processo e progresso. La società è per noi un dato, che noi non possiamo risolvere, oltre a quella maniera di analisi, che si fa riducendo le forme complesse alle più semplici, le moderne alle più antiche: il che è rimanere, però, sempre nel fatto di una società che esiste. La storia non è se non la storia della società; – ossia è la storia del variare della cooperazione umana, dall’orda primitiva allo stato moderno, dalla lotta immediata contro la natura, con pochi ed elementarissimi istrumenti, fino alla struttura economica presente, che culmina nella polarità tra lavoro accumulato (capitale) e lavoro vivo (i proletarii). Risolvere il complesso sociale in semplici individui, e ricomporlo poi con escogitati atti di elezione e di volontà; – costruire, insomma, la società coi ragionamenti, significa sconoscere la natura obiettiva e l’immanenza del processo storico. Le rivoluzioni, nel senso più esteso della parola, e poi in quello specifico di rovina di un ordinamento politico, segnano le vere e proprie date delle epoche storiche. Guardate di lontano, nei loro elementi, nella loro preparazione e nei loro effetti a lunga scadenza, esse possono parere come i momenti di una evoluzione costante, a minimi di variazione: ma considerate per sé stesse sono definite e precise catastrofi; e solo come tali catastrofi hanno carattere di accadimento storico.

X Per fino, dunque, la morale, e l’arte, e la religione e la scienza sarebbero prodotti delle condizioni economiche? – anzi esponenti delle categorie di queste condizioni medesime? – ovverosia efflussi, ornamenti, irradiazioni e miraggi dei materiali interessi? Enunciati di cotesto genere, o a un dipresso, e così crudi e nudi, corrono già da un pezzo per le bocche di molti, e tornano di comodo ausilio agli avversarii del materialismo, cui giova di usarne come di opportuno spauracchio. I pigri, che son poi moltissimi anche fra i così detti intellettuali, si accomodano ben volentieri alla grossolana accettazione di tali pronunciati; come chi ripari con la mente in novello asilo dell’ignoranza. Che bella festa e che bella allegria dev’esser mai cotesta per tutti gl’indolenti; di avere, cioè, una buona volta compendiato in breve giro di pochissime proposizioni tutto lo scibile, per poi dischiudere tutti i segreti della vita con una sola ed unica chiave! Tutti i problemi dell’etica, dell’estetica, della filologia, della critica storica, e della filosofia ridotti ad un problema solo, senza tanti rompicapo! E su cotesto andare gli sciatti semplicioni potrebbero ridurre tutta la storia all’aritmetica commerciale; e da ultimo una nuova interpretazione autentica di Dante potrebbe darci la Divina Commedia illustrata coi conti delle pezze di panno, che gli astuti mercanti fiorentini vendeano con tanto profitto loro! La verità è questa, che, cioè, gli enunciati che implicano problemi, si convertono assai facilmente in volgari paradossi nelle teste di coloro, che non siano assuefatti a vincere le difficoltà del pensare con l’uso metodico dei mezzi congrui. Ora dei precisi termini di tali problemi toccherò qui in genere, ma in modo quasi aforistico: perché, veramente, io non intendo di descriver fondo all’universo, in questo breve saggio, che non ha poi da essere una enciclopedia. La morale innanzi tutto. Non dico dei sistemi e dei catechismi, o religiosi, o filosofici. Gli uni e gli altri stettero e stanno al di sopra del corso ordinario e profano delle cose umane, nella più parte dei casi, come le utopie stanno al di sopra delle cose. Né dico di quelle analisi formali dei rapporti etici, che son venute tanto raffinandosi dai Sofisti ad Herbart. Ciò è scienza, e non è vita. Ed è scienza formale, come la logica, la geometria e la grammatica. L’ultimo acuto ritrovatore e definitore di tali rapporti etici, che è appunto Herbart, sapea bene che le idee, ossia i punti di vista formali del giudizio morale, sono per sé impotenti. E per ciò egli ripose nelle

circostanzialità della vita, e nella formazione pedagogica del carattere, la realtà dell’etica. Parrebbe Owen, se non fosse stato un codino20. Dico, invece, di quella morale, che esiste prosaicamente, e in modo empirico ed ovvio, nelle inclinazioni, negli abiti, nelle consuetudini, nei consigli, nei giudizii e nelle valutazioni degli uomini di tutti i giorni. Dico di quella morale, che come suggestione, come spinta e come remora, si forma in vario grado di sviluppo, e con maggiore o con minore evidenza, ma a frammenti, in tutti e singoli gli uomini; per il fatto stesso che convivendo essi, ed occupando ciascuno una posizione determinata nell’ambito della convivenza, riflettono naturalmente e necessariamente su le opere proprie e su le opere altrui, e concepiscono aspettazioni ed apprezzamenti, e primissimi elementi di massime generali. Questo è il factum; e ciò che più importa è, che questo factum ci si presenta vario e molteplice nelle diverse condizioni della vita, e variabile attraverso alla storia. Questo factum è il dato della ricerca. I fatti non sono, né veri né falsi, come già sapeva Aristotele. I sistemi, invece, siano essi teologici o razionalistici, possono essere veri o falsi; come quelli che si argomentano di intendere, di spiegare e di completare il fatto, riconducendolo ad altro, o integrandolo con altro. Alcuni punti di teoria pregiudiziale sono oramai messi in sodo, per rispetto alla interpretazione di questo factum. Il volere non vuole sé stesso, da sé stesso; come era parso agl’inventori di quel libero arbitrio, che rivelava solo l’impotenza di una analisi psicologica, non giunta per anche a maturità. Le volizioni, in quanto fatto consapevole, sono espressione particolare del meccanismo psichico; sono resultato, alla prima, dei bisogni, e poi di tutto ciò che giù giù li precede, fino alla elementarissima motilità organica. La morale non pone né genera sé stessa. Non istà, cioè, a fondamento universale dei varii e variabili rapporti etici quell’ente spirituale, che fu detto la coscienza morale, una ed unica per tutti gli uomini. Questo ente astratto fu eliminato dalla critica, come tutti gli altri enti simili, ossia come tutte le così dette facoltà dell’anima. Che spiegazione dei fatti era mai quella, in vero, che supponea la generalizzazione del fatto stesso, come mezzo per ispiegarlo; quando, p. es. si ragionava così: le sensazioni, le percezioni, le intuizioni a un certo punto si trovano fantasticate, ossia alterate, dunque la fantasia le ha trasmutate? A tale genere di escogitazioni appartiene la così detta coscienza morale, che fu assunta a presupposto delle condizionate valutazioni etiche. La coscienza morale, che realmente esiste, è un fatto empirico; è un indice, ossia un riassunto, della relativa formazione etica di ciascun individuo. Se scienza qui ci

ha da essere, essa non può spiegare le relazioni etiche per via della coscienza, ma deve appunto intendere come tale coscienza si vada formando. Se i voleri derivano, e se la morale resulta dalle condizioni della vita, l’etica, nel suo insieme, non è che una formazione; ossia il suo problema si risolve in quello della pedagogica. C’è una pedagogica, direi individualistica e soggettiva, la quale, supposte le condizioni generiche della perfettibilità umana, costruisce delle regole astratte, per mezzo delle quali gli uomini, che sono in via di formazione, sarebbero condotti ad essere forti, coraggiosi, veritieri, giusti, benevoli, e così via per tutta la distesa delle virtù cardinali e secondarie. Ma può essa, la pedagogica soggettiva, costruire da sé il terreno sociale sul quale tutte coteste belle cose avrebbero a realizzarsi? Se lo costruisce, essa disegna semplicemente un’utopia. Perché davvero il genere umano, nel rigido corso del suo divenire, non ebbe mai tempo e modo di andare a scuola da Platone o da Owen, da Pestalozzi21 o da Herbart. Anzi ha fatto come gli è stato forza di fare. Gli uomini, che presi in astratto son tutti educabili e perfettibili, si son perfezionati ed educati sempre quel tanto, e nella misura che essi potevano, date le condizioni di vita in cui è stato loro necessità di svolgersi. Se mai, questo è appunto il caso in cui la parola ambiente non è metafora, e l’uso del termine accomodazione non è di traslato. La morale effettiva ci si presenta sempre come qualcosa di condizionato e di limitato, che la fantasia ha cercato poi di superare, o escogitando le utopie, o creando un soprannaturale pedagogo, o una miracolosa redenzione. Perché lo schiavo avrebbe dovuto avere lui gli intendimenti, e le passioni, e i sentimenti del suo temuto signore? Come farebbe il contadino a liberarsi dalle invincibili superstizioni, cui lo condannano la immediata dipendenza dalla natura, la mediata dipendenza dall’ignorato meccanismo sociale, e la fiducia cieca nel prete, che gli tien luogo di mago e di fattucchiero? Per quali vie mai il proletario moderno delle grandi città industriali, esposto com’è di continuo alle variabili vicende della miseria e della soggezione, potrebbe raggiungere l’ordinato e monotono tenore di vita, che fu proprio dei membri delle corporazioni artigiane, la cui esistenza pareva come inquadrata in un provvidenziale disegno? Da quali elementi intuitivi di esperienza quel mercante di maiali di Chicago, che regala all’Europa tanti prodotti a buon prezzo, dovrebbe ritrarre le condizioni di serenità e di elevazione spirituale, che conferivano all’Ateniese le doti dell’uomo bello-e-buono, e al civis romanus la dignità dell’eroismo? Quale potenza di docili persuasive cristiane strapperà dall’animo dei proletarii moderni le ragioni naturali dell’odio contro gl’indeterminati o determinati oppressori loro? Perché, a volere che giustizia ci sia e si faccia, occorre loro di appellarsi alla violenza; e perché l’amore del

prossimo, come legge universale, paia loro plausibile, devono essi immaginare una vita assai difforme dalla presente, che fa dell’odio una necessità, come di debito da scontare. In questa società delle differenziazioni, l’odio, l’orgoglio, la ipocrisia, la menzogna, la viltà, l’ingiustizia, e tutto il catechismo dei vizi cardinali e loro accessorii, fanno da triste riscontro, e anzi da satira, alla morale eguale per tutti. Dunque l’etica si risolve a un certo punto nello studio storico delle condizioni soggettive ed oggettive del come la morale si sviluppi, o trovi impedimento a svilupparsi. In ciò solo, ossia entro questi termini, ha valore l’enunciato, che la morale è corrispettiva alle situazioni sociali, e ossia, in ultima analisi, alle condizioni economiche. A qualche cretino soltanto può esser passato per il capo di dire, che la morale individua di ciascun uomo sia rigorosamente proporzionale alla sua individua situazione economica. Ciò è non solo empiricamente falso, ma è intrinsecamente irrazionale. Data la elasticità del meccanismo psichico, non è possibile mai di ridurre lo sviluppo dei singoli individui esclusivamente al tipo della classe o dello stato sociale. Qui si tratta dei fenomeni di massa; di quei fenomeni che formano, o dovrebbero formare, l’oggetto della statistica morale: disciplina cotesta che è rimasta fin ad ora incompleta, perché ha assunto ad oggetto delle sue combinazioni i gruppi che essa stessa crea, sommando i numeri dei casi (p. es. adulterii, furti, omicidii), e non quei gruppi che come classi, condizioni e situazioni realmente, ossia socialmente, esistono. Raccomandare agli uomini la morale, supponendone o ignorandone le condizioni, ecco quale fu fin ad ora la mira ed il genere di argomentazione di tutti i catechisti. Riconoscere che queste condizioni son date dal circostanziato ambiente sociale, ecco ciò che i comunisti contrappongono all’utopia ed alla ipocrisia dei predicatori di morale. E in quanto vedono nella morale, non un privilegio di predestinati, né un dono della natura, ma una resultante della esperienza e della educazione, essi riconoscono la perfettibilità umana per ragioni ed argomenti che, sono, dirò, più morali ed ideali di quelli che furono di solito e spensieratamente accampati dagli ideologisti. In altri termini, l’uomo sviluppa, ossia produce sé stesso, non come ente genericamente fornito di certi attributi, che si ripetano o si svolgano secondo un ritmo razionale; ma produce e sviluppa sé stesso, come causa ed effetto, come autore e conseguenza ad un tempo, di determinate condizioni, nelle quali si generano anche determinate correnti di idee, di opinioni, di credenze, di fantasia, di aspettazioni, di massime. Di qui nascono le ideologie di ogni maniera, come anche le generalizzazioni della morale in catechismi, in canoni e sistemi. Non è quindi da maravigliare se coteste ideologie, una volta che sian nate, vengano poi

coltivate a parte per forza di astrazione: tanto che da ultimo paiono come distaccate dal terreno di vita in cui son sorte, e quasi stessero al di sopra degli uomini, a guisa di imperativi e di modelli. Preti e addottrinati di ogni maniera provvidero per secoli a questo lavoro di astrazione, e a mantenere le illusioni che ne resultano. Ora che furon ritrovate le fonti positive di tutte le ideologie nel meccanismo della vita stessa, si tratta di spiegare realisticamente il loro modo di generarsi. E come ciò vale di tutte le ideologie, così vale in particolare di quelle che consistono nel proiettare fuori dei loro termini naturali e diretti le valutazioni etiche, per farne, o delle anticipazioni di divini comandi, o dei presupposti di universali suggestioni dclla coscienza. Ciò costituisce l’obietto di speciali problemi storici. Non sempre si trova il bandolo, che lega certe ideazioni etiche a determinate condizioni pratiche. La concreta psicologia sociale dei tempi passati ci riesce spesso impenetrabile. Spesso le cose più ovvie ci riescono inintelligibili; p. es., gli animali ritenuti per immondi, o la origine della repugnanza al matrimonio tra persone in lontani gradi di parentela. Un procedere cauto ci porta a conchiudere, che di molti particolari rimarranno sempre ascosì i motivi. Ignoranza, superstizione, singolari illusioni, simbolismi, ecco, con tante altre, le cause di quell’inconsapevole che si trova spesso nei costumi, che per noi costituisce ora l’insaputo e il non conoscibile. La causa precipua di tutte le difficoltà sta appunto nella tardiva apparizione di ciò che chiamiamo ragione; cosicché le tracce dei motivi prossimi delle ideazioni sono andate perdute, o rimasero involute nelle ideazioni stesse. Corre assai più spiccio il ragionamento su la scienza. Di questa fu scritta per gran tempo la storia in modo ingenuo. Dato ed ammesso che le singole scienze avessero il loro compendio nei manuali e nelle enciclopedie, pareva bastasse di ritrovare cronologicamente l’apparizione dei singoli enunciati, risolvendo l’insieme del riassunto sistematico negli elementi di cui esso s’è andato successivamente componendo. Il presupposto generale era altrettanto semplice: – in fondo a questa cronologia c’è la ragione che si svolge e progredisce. Cotesto metodo, se metodo può chiamarsi, recava in sé questo piccolo inconveniente: che, cioè, lasciava tutto al più intendere come da scienza che già esista derivi altra scienza a fil di ragione, ma non lasciava punto intravvedere, per quali condizioni di fatto gli uomini fossero spinti a trovare la prima volta la scienza; ossia a ridurre in una determinata e nuova forma la meditata esperienza. Si trattava, in somma, di ritrovare, perché storia effettiva della scienza ci sia, la origine del bisogno scientifico; il che poi lega in via genetica questo agli altri

bisogni, nella continuità del processo sociale. I grandi progressi della tecnica moderna, nella quale veramente consiste la sostanza intellettuale dell’epoca borghese, han fatto tra gli altri miracoli anche questo, di rivelarci per la prima volta la origine pratica del tentativo scientifico. (O tu indimenticabile Accademia fiorentina, che pigliasti nome dal cimento, quando l’Italia era al crepuscolo di sua passata grandezza, e la società moderna era all’aurora della nuova epoca della industria22.) E oramai noi siamo in grado di ritrovare il filo conduttore di ciò che per astrazione si chiama spirito scientifico: né alcuno si maraviglia più, che tutto nelle scoverte scientifiche sia proceduto come nei primissimi tempi, quando la rozzissima elementare geometria degli Egizii ebbe origine dal bisogno di misurare i campi esposti all’annua inondazione del Nilo, e la periodicità di tali inondazioni suggerì, ivi stesso nell’Egitto e nella Babilonide, di ritrovare i rudimenti dei giri astronomici. È certamente vero sì, che a scienza avviata, e in parte maturata, come già accadde nel periodo ellenistico, il lavoro di astrazione, di deduzione e di combinazione si continua nella cerchia degli addottrinati in modi, che apparentemente obliterano la coscienza delle cause sociali del primo prodursi della scienza stessa. Ma se noi guardiamo a grandi tratti le epoche dello sviluppo della scienza, e confrontiamo i periodi che gl’ideologi chiamerebbero di progresso e di regresso della intelligenza, ci si palesa la ragione sociale degl’impulsi, ora crescenti ed ora decrescenti, per rispetto all’attività scientifica. Che bisogno avea la società feudale dell’occidente di Europa, di quelle scienze antiche, che i Bizantini serbavano almeno materialmente, mentre gli Arabi nei loro varii dominii, o liberi agricoltori, o industriosi artigiani, o operosi commercianti, eran portati a crescere di tanto? E che è la Rinascenza, se non il ricongiungimento dell’iniziale moto della borghesia con la tradizione del sapere antico, ridiventato usabile, e quindi capace di dichiarazione? Che cosa è tutto l’accelerato moto del sapere scientifico, dal secolo decimosettimo in qua, se non la serie degli atti compiuti dall’intelletto scaltrito dall’esperienza, per assicurare al lavoro umano, nelle forme di una raffinata tecnica, il dominio su le condizioni e forze naturali? Di qui la guerra all’oscurantismo, alla superstizione, alla chiesa, alla religione; di qui il naturalismo, l’ateismo, il materialismo, di qui l’inaugurato dominio della ragione. L’epoca borghese è l’epoca delle menti dispiegate (Vico)23. È bene di ricordare, che quel governo del Direttorio, che fu il prototipo ed il compendio di tutta la corruzione liberalesca, fu il primo che introdusse nella Università e nell’Accademia formalmente e solennemente la scienza della libera ricerca: e c’entrò Lamarck!24 Questa scienza, che l’epoca borghese per le sue stesse condizioni ha così fomentato e fatto crescere gigante,

è il solo retaggio dei secoli passati, che il comunismo accetti e faccia suo senza riserve. Né metterebbe conto qui di fermarsi a dichiarare la pretesa antitesi fra scienza e filosofia. Fatta eccezione di quei modi di filosofare, che si confondono con la mistica o con la teologia, filosofia non vuol dire mai scienza o dottrina a parte di cose proprie e particolari, ma è semplicemente un grado, una forma, uno stadio del pensiero, per rispetto alle cose stesse che entrano nel campo della esperienza. La filosofia è, per ciò, o anticipazione generica di problemi, che la scienza deve ancora elaborare specificatamente, o è riassunto ed elaborazione concettuale dei resultati cui le scienze siano già giunte. Di quelli, che, tanto per non parere antiquati, parlano di filosofia scientifica, – se non si vuol tenere in un certo conto la punta umoristica di cotesta espressione, che respinge ogni forma di teologia e di mero tradizionalismo, – bisogna dire che sarebbero dei fatui, se credessero di rappresentare una scuola od una tendenza a parte. Dicevo qui poco innanzi, nell’enunciar delle formule, che la struttura economica determina in secondo luogo l’indirizzo, e in buona parte e per indiretto gli obietti della fantasia e del pensiero, nella produzione dell’arte, della religione e della scienza. A dire altrimenti di così, ed oltre di così, sarebbe come mettersi volontariamente su la via dell’assurdo. Innanzi tutto con tale enunciato si combatte il fantastico assunto ideologico, che arte, religione e scienza siano svolgimenti subiettivi e svolgimenti storici di un preteso spirito artistico, religioso, o scientifico, il quale s’andrebbe manifestando successivamente per un proprio ritmo di evoluzione, qua e là sussidiato o impedito dalle condizioni materiali. Con tale enunciato si vuole affermare, inoltre, la necessaria connessione, per la quale ogni fatto dell’arte e della religione è l’esponente sentimentale, fantastico, e ossia derivato, di determinate condizioni sociali. Se dico in secondo luogo, gli è per distinguere questi prodotti dai fatti di ordinamento giuridico-politico, che sono vera e propria obiettivazione dei rapporti economici. E se dico in buona parte e per indiretto degli obietti di tali attività, gli è per indicare due cose: e cioè, che nella produzione artistica e religiosa la mediazione dalle condizioni ai prodotti è assai complicata, e poi che gli uomini, pur vivendo in società, non cessano per ciò solo di vivere anche nella natura, e di ricevere da questa occasione e materia alla curiosità ed al fantasticare. Al postutto tutto ciò si riduce ad una enunciazione più generale: l’uomo non percorre più storie in uno e medesimo tempo; ma tutte le pretese varie storie (arte, religione, etc. etc.) ne fanno una sola. E ciò non può vedersi perspicuamente se non nei momenti caratteristici e significativi della produzione di cose nuove, ossia nei periodi che dirò rivoluzionarii. Più tardi, l’acquiescenza

nelle cose prodotte, e la ripetizione tradizionale di un determinato tipo, obliterano il senso delle origini. Si provi alcuno a distrarre l’ideologia delle favole, che stanno in fondo ai poemi omerici, da quel momento dell’evoluzione storica, in cui spunta l’aurora della civiltà ariana nel bacino del Mediterraneo; da quella fase, cioè, della barbarie superiore, nella quale nasce, così in Grecia come altrove, l’epos genuino. Faccia conto altri di immaginare, che il cristianesimo nascesse e si sviluppasse altrove che nella cerchia del cosmopolitismo romano, e altrimenti che non per opera di quei proletarii, di quegli schiavi, di quei derelitti, di quei disperati, ai quali occorreva la redenzione, l’apocalissi, e la promessa del regno di dio. Trovi chi voglia il modo di fingere, che nel bel mezzo della Rinascenza spuntasse fuori la romantica, che appena s’accenna nel decadente Torquato Tasso; o faccia di attribuire a Richardson o a Diderot il romanzo di Balzac, nel quale apparisce, come in contemporaneo della prima generazione del socialismo e della sociologia, la psicologia delle classi. Lassù, in dietro in dietro, alle prime origini delle ideazioni mitiche, ci è chiaro che Zeus non assunse i caratteri di padre degli uomini e degli dei, se non quando la patria potestà era già stabilita, e cominciava l’inizio di quella serie di processi, che mettono capo nello stato. Zeus cessò così di essere ciò che era stato prima, cioè il semplice divo (ossia lucente), o il tonante. Ed ecco quaggiù ad un punto opposto della evoluzione storica, gran numero di pensatori del secolo scorso riducono a un solo dio astratto, che è semplice reggitore del mondo, tutta la variopinta immagine dell’ignoto e del trascendente, che s’era esplicata in tanto lusso di creazioni mitologiche, cristiane o pagane. L’uomo si sentiva più a casa sua nella natura, per via dell’esperimento, e si sentiva più atto a penetrare l’ingranaggio della società, di cui possedeva in parte la scienza. Il miracoloso gli si assottigliava nella mente, tanto che il materialismo e il criticismo han potuto di poi eliminare cotesto povero residuo di trascendenza, senza metter mano alla guerra contro gli dei. C’è sì una storia delle idee ma questa non consiste nel circolo vizioso delle idee che spieghino sé stesse. Si tratta di risalire dalle cose all’ideato. Questo è un problema: anzi in ciò è una moltitudine di problemi, tante son varie, molteplici, multiformi ed intricate le proiezioni che gli uomini han fatto di sé e delle loro condizioni economico-sociali, e quindi delle loro speranze e dei loro timori, delle loro aspettazioni e dei loro disinganni, nelle ideazioni artistiche e religiose. La linea di metodo è trovata, ma la esecuzione particolare non è facile. Soprattutto bisogna guardarsi dalla tentazione scolastica di dedurre i prodotti dell’attività storica, che si esplica nell’arte e nella religione. È sperabile che i filosofi alla Krug, che deduceva dialetticamente la penna con la quale scriveva,

sian rimasti in perpetuo sepolti nelle note della Logica di Hegel, ove s’accenna a tale bizzarria25. Alcune difficoltà vogliono essere qui precisate. In ogni tentativo di riduzione dei prodotti secondarii (p. es. arte e religione) alle condizioni sociali, che in quelli vengono ad essere idealizzate, ci occorre di formarci un lungo abito circa la psicologia sociale specificata, nella quale la trasformazione si avvera. In ciò consiste la ragion d’essere di quell’insieme di relazioni, che con altre forme di dicitura vengono p. es. designate, come mondo egiziano, coscienza greca, spirito della Rinascenza, idee dominanti, psicologia dei popoli, della società o delle classi. Quando cotesti rapporti si sono costituiti, e gli uomini si sono assuefatti a certe ideazioni, e a certi modi di credenza o di fantasia, le ideologie trasmesse per tradizione tendono a cristallizzarsi. E per ciò appariscono come una forza che resista al nuovo; e come questa resistenza si manifesta nella parola, nello scritto, nella intolleranza, nella polemica, nella persecuzione, così la lotta fra le nuove e le vecchie condizioni sociali assume la forma di una contesa per le idee. In secondo luogo, attraverso ai secoli della storia propriamente detta, così per la eredità della selvatica preistoria, come per le condizioni di soggezione e quindi di inferiorità, nella quale la più parte degli uomini furono e sono tenuti, si è prodotta una acquiescenza nel tradizionale, per cui le vecchie tendenze si perpetuano come ostinate sopravvivenze. In terzo luogo, come già dissi, gli uomini, vivendo socialmente, non cessano di vivere anche nella natura. A questa non sono certo legati come gli animali, perché vivono sopra un terreno artificiale. Ognuno del resto capisce, che la casa non è la grotta, l’agricoltura non è il pascolo naturale, e la farmacia non è l’esorcismo. Ma la natura è sempre il sottosuolo immediato del terreno artificiale, ed è l’ambito che tutti ci recinge. La tecnica ha messo fra noi animali sociali e la natura i modificatori, i deviatori, gli allontanatori degl’influssi naturali; ma non ha perciò distrutta la efficacia di essi, e noi anzi di continuo la sentiamo. E come noi nasciamo naturalmente maschi e femmine, moriamo quasi sempre nostro malgrado, e siamo dominati dall’istinto della generazione, così noi portiamo anche nel temperamento condizioni specifiche, che l’educazione nel lato senso della parola, ossia l’accomodazione sociale, può modificare sì, entro certi limiti, ma non può mai distruggere. Queste condizioni di temperamento ripetute in più esemplari, e derivatesi in più esemplari attraverso i secoli, costituiscono ciò che si chiama carattere etnico. Per tutte coteste ragioni, la nostra dipendenza dalla natura, per quanto diminuita dai tempi della preistoria in qua, si continua nel nostro vivere sociale; come in questo si continua anche

l’alimento che dallo spettacolo della natura stessa viene alla curiosità ed alla fantasia. Ora cotesti effetti della natura, coi sentimenti immediati o mediati che ne resultano, per quanto avvertiti, da che c’è storia, solo attraverso l’angolo visuale che ci è offerto dalle condizioni della società, non mancano mai di riflettersi nei prodotti dell’arte e della religione; la qual cosa complica le difficoltà della interpretazione realistica e piena dell’una e dell’altra.

XI Usando di questa dottrina, come di nuovo principio di ricerca, come di preciso mezzo di orientazione, e come di determinato angolo visuale, si potrà poi, da ultimo, riuscire ad un rifacimento narrativo ed espositivo della storia? Alla domanda generica non si può a meno di dare, in genere, una risposta affermantiva. Perché, in effetti, se si dà il caso, che il comunista critico, ossia il sociologo del materialismo economico, o come ora volgarmente dicesi, il marxista, abbia la necessaria preparazione critica, e l’abito della trattazione storica, e poi le doti di esposizione che occorrono alla narrazione ordinata ed efficace, non c’è ragione per affermare, che egli non possa scrivere la storia, come fino ad ora la scrissero i seguaci di ogni altra scuola politica. Ecco lì l’esempio di Marx in persona, nel quale è un argomento di fatto, che non ammette replica. Lui, che fu il primo e principale ritrovatore dei concetti decisivi di questa dottrina, la ridusse ben presto in istrumento di orientazione politica, da pubblicista insuperato, durante il periodo rivoluzionario del 1848-50. E poi la plasmò con la massima precisione, in quel saggio che s’intitola del: Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, del quale ora può dirsi, a tanta distanza di anni, e dopo tante pubblicazioni, che fatta eccezione di qualche minuto particolare e di qualche errata previsione, non ci sarebbe modo di arrecarvi, né correzioni, né complementi notevoli26. Né starò qui a ripetere, a guisa di chi faccia una bibliografia, l’elenco dei varii scritti attinenti all’applicazione della dottrina, o del Marx stesso o dell’Engels – il quale ultimo, dalla Guerra dei Contadini (1850) fino allo scritto postumo su le Origini della presente unità di Germania, ne ha lasciato tanti saggi27, – o degli immediati continuatori loro, e dei volgarizzatori del socialismo scientifico. Per fino nella stampa socialistica si trovano, di tanto in tanto, dei preziosi saggi di spiegazione delle vicende politiche attuali, nei quali, appunto per effetto del materialismo storico, tu riconosci una chiaroveggenza e perspicuità, che invano cercheresti negli scrittori e nei polemisti, che non hanno ancora squarciati i veli fantastici e gl’involucri ideologici della storia. Non è il caso, in somma, di assumersi la difesa di una tesi astratta, come userebbe un causidico. Gli è, per fermo, evidente, che come tutte le storie, che furono fino ad ora scritte, c’è sempre in fondo, se non proprio nelle esplicite intenzioni degli scrittori, di certo nell’animo loro, una tendenza, un principio, una veduta generale della vita; così questa dottrina, che ha messo definitivamente ordine alla considerazione obiettiva della struttura sociale, debba

da ultimo dirigere con precisione la ricerca storica, e debba metter capo in una narrazione piena, trasparente ed integrale. I sussidii certamente non mancano. L’Economia, che, come oramai tutti vedono, nacque e si svolse come la scienza della produzione borghese, dopo essersi imbaldanzita nella illusione di rappresentare le leggi assolute di ogni forma di produzione, per la dura lezione delle cose entrò poi, a un certo punto, come tutti sanno, in un periodo di autocritica. Come da questa autocritica per un verso è nato il comunismo critico, così per un altro verso, per opera, cioè, dei più tiepidi, e savii e discreti della tradizione accademica, è nata la scuola storica dei fenomeni economici. Per fatto e merito di cotesta scuola, e per effetto della applicazione dei metodi descrittivi e comparativi, oramai siamo in possesso di un vastissimo materiale di cognizioni circa le varie forme storiche della economia, dai fatti più complessi e specificati per differenze essenziali di tipo, fino alla particolareggiata azienda di un monastero, o di una corporazione artigiana medievale. Lo stesso è accaduto della Statistica, la quale, mettendo in uso molti mezzi di combinazione delle fonti, riesce oramai a portar luce, con sufficiente approssimazione, sul movimento della popolazione nei secoli passati. Cotesti studii non si fanno, certo, nell’interesse della nostra dottrina, anzi il più delle volte con animo ostile al socialismo; del che non si avvedono quegli asineschi leggitori di carta stampata, i quali così spesso confondono la storia economica, l’economia storica, ed il materialismo storico. Ma cotesti studii, oltre che per il materiale difatti che raccolgono e dichiarano, son notevoli in quanto documentano il progresso, che va tuttodì facendo la storia interna, la quale, poco per volta, si sostituisce a quella storia esterna, che per secoli fu in modo esclusivo trattata da letterati e da artisti. Buona parte di cotesti materiali raccolti va di continuo soggetta a nuova correzione; come accade, del resto, in ogni campo di cognizioni empiriche, le quali di continuo oscillano tra il creduto certo, il semplice probabile, e ciò che deve essere più tardi, o integrato, o eliminato. Né le illazioni e le combinazioni degli storici della economia, o di quelli che narrano la storia in genere sul filo conduttore dei fenomeni economici, son sempre tanto plausibili e concludenti, che non si senta il bisogno di dire: qui conviene ricominciar da capo. Ma ciò che sta indubitabile è il fatto, che presentemente tutta la storiografia tende a diventare una scienza, o, meglio, una disciplina sociale; e quando questo moto, per ora incerto e multiforme, verrà a compimento, gli sforzi degli eruditi e dei ricercatori metteranno capo inevitabilmente nella accettazione del materialismo economico. Per tale incidenza di sforzi e di lavori scientifici, che partono da così

diversi punti, la concezione materialistica di tutta la storia finirà per penetrare le menti, come una definitiva conquista del pensiero; il che toglierà, in fine, ai fautori e agli avversarii la tentazione di parlarne, pro e contro, come usa delle tesi di partito. Oltre ai sussidii diretti, qui innanzi accennati, la nostra dottrina ne ha di molti altri indiretti; come ha anche degli istruttivi riscontri in molte delle discipline, nelle quali, per la maggiore semplicità dei rapporti, fu più agevole l’applicazione del metodo genetico. Il caso tipico è nella glottologia, e in modo specialissimo in quella che ha per oggetto le lingue ariane. Dalla evidenza e perspicuità di processo, di analisi e di ricostruzione che è propria di tali discipline, e specie della glottologia, gli è certo, fino ad ora, assai remota l’applicazione del materialismo storico. Sarebbe per ciò un vano tentativo quello di provarsi, fin da ora, a scrivere una sinossi della storia universale, che avesse a svolgere tutte le varie forme della produzione, per poi inferirne tutto il resto dell’attività umana, in modo particolare e circostanziale. Allo stato presente degli studii, chi tentasse cotesto compendio di nuova Kulturgeschichte non farebbe se non di ritradurre in fraseologia economica i punti di orientazione generale, che in altri libri, p. es. nell’Hellwald28, son di fraseologia darwiniana. Ci corre molto dalla accettazione di un principio, alla applicazione completa e particolareggiata di esso a tutta una vasta provincia difatti, o ad un grande intreccio di fenomeni. Per ciò l’applicazione della nostra dottrina deve tenersi, per ora, nella esposizione e trattazione di determinate parti della storia. Chiarissime sopra tutte le altre sono le formazioni moderne, alla intelligenza delle quali concorrono, con pari evidenza, così gli sviluppi economici della borghesia, come la dichiarata conoscenza dei varii impedimenti che essa ebbe a superare nei diversi paesi, e quindi lo svolgersi delle varie rivoluzioni, intesa cotesta parola nel più lato senso. Riesce di quasi eguale chiarezza, agli occhi nostri, la preistoria prossima della borghesia in sul declinare del Medio-Evo; dove non sarebbe difficile di trovare, p. es. nell’individuato sviluppo della città di Firenze, una serie documentata di svolgimenti nei quali il movimento economico e statistico trova completo riscontro nei rapporti politici, e sufficiente illustrazione nello sviluppo contemporaneo della intelligenza, già ridotta in prosa, e spoglia in buona parte di illusioni ideologiche. Né sarebbe fuori d’ogni probabilità il ridurre, fin da ora, sotto il determinato e preciso angolo visuale del materialismo tutta la storia romana antica. In questa, e specie nel periodo primitivo, fanno difetto le fonti dirette, le quali per converso son tanto abbondanti in Grecia, dalla tradizione

popolare e dall’epos, e dall’autentica iscrizione giuridica, fino alla trattazione prammatica delle connessioni storico-sociali. Ma in Roma, invece, le lotte pei diritti politici recano in sé quasi sempre le ragioni economiche su cui poggiano; dal che poi procede, che il deperire di determinate classi, e il formarsi di nuove classi, e il moto della conquista, e il cambiar delle leggi e delle forme dell’apparato politico, tornino tanto evidenti. Cotesta storia romana è dura e prosaica; né si veste mai di quei complementi ideologici che furon proprii della vita greca. La prosa rigida della conquista, della studiata colonizzazione, delle istituzioni e delle forme di diritto, escogitate e trovate per risolvere determinati attriti e contrasti, fa della storia romana una catena di accadimenti, che si seguono con singolare e cruda evidenza. Perché il problema vero è questo: che, cioè, non si tratta già di sostituire la sociologia alla storia, come se questa fosse stata una apparenza, che celi dietro di sé una realtà riposta; ma anzi si tratta di intendere integralmente la storia, in tutte le sue intuitive manifestazioni, e d’intenderla per mezzo della sociologia economica. Non si tratta già di separare l’accidente dalla sostanza, la parvenza dalla realtà, il fenomeno dal nocciolo intrinseco, o come altro si direbbe dai seguaci di qualunque altro scolasticismo; ma, anzi, di spiegare l’intreccio ed il complesso, per l’appunto in quanto è intreccio e complesso. Non si tratta di scovrire e di determinare il terreno sociale solamente, per poi farvi apparir su gli uomini, come tante marionette, i cui fili siano tenuti e mossi, dalla provvidenza non più, ma anzi dalle categorie economiche. Queste categorie sono esse stesse divenute e divengono, come tutto il resto; – perché gli uomini mutano quanto alla capacità e all’arte di vincere, aggiogare, trasformare ed usare le condizioni naturali; – perché gli uomini cambiano animo ed attitudini per la reazione degli istrumenti loro sopra di loro stessi; – perché gli uomini mutano nei loro rispettivi rapporti di conviventi, e perciò di dipendenti in vario modo gli uni dagli altri. Si tratta, insomma, della storia, e non dello scheletro suo. Si tratta del racconto e non dell’astrazione; si tratta di esporre e di tratteggiare l’insieme, e non già di risolverlo e di analizzarlo soltanto; si tratta, a dirla in una parola, ora come prima e come sempre, di un’arte. Può darsi il caso, che il sociologo, il quale segua i principii del materialismo economico, si proponga di circoscriversi alla sola analisi, poniamo ad esempio, di quello che eran le classi al momento che la Rivoluzione Francese scoppiò, per giungere poi alle classi, che dalla rivoluzione resultano e ad essa sopravvivono. In questo caso i titoli, e le indicazioni e le classificazioni della materia da analizzare sono precisi, p. es. la città e la campagna, l’artigiano e l’operaio, i nobili e i servi, la terra che si libera dagli oneri feudali e i piccoli proprietarii che

si formano, il commercio che si emancipa da tante restrizioni, il danaro che si accumula, l’industria che prospera, e così via. Né c’è nulla da obiettare su la scelta di un tale metodo; il quale, come quello che segue la traccia embriogenetica, è indispensabile alla preparazione della ricerca storica secondo l’indirizzo della nuova dottrinaa. Ma noi sappiamo che la embriogenia non basta a darci notizia della vita animale, la quale non è di schemi, ma è di esseri vivi e viventi, che lottano, e per lottare esercitano forze, istinti e passioni. E così è, mutatis mutandis, anche degli uomini, in quanto vivono storicamente. Quei determinati uomini, mossi da certi interessi, spinti da certe passioni, premuti da certe circostanze, con tali disegni, con tali propositi, che operano con tale aspettazione, per tale illusione propria o per tale inganno altrui, che martiri di sé o degli altri vengono in aspra collisione, e si elidono a vicenda: – ecco la storia effettuale della Rivoluzione Francese. Perché, se è vero che ogni storia non è se non l’esplicazione di determinate condizioni economiche, gli è altrettanto vero, che essa non si svolge se non in determinate forme di attività umana; – che questa sia passionata o riflessa, fortunata o senza successo, ciecamente istintiva o deliberatamente eroica. Comprendere l’intreccio ed il complesso nella sua intima connessione e nelle sue manifestazioni esteriori; discendere dalla superficie al fondo, e poi rifare la superficie dal fondo; risolvere le passioni e i disegni nei moventi loro, dai più prossimi ai più remoti, e poi ricondurre i dati delle passioni, dei disegni e dei moventi loro ai più remoti elementi di una determinata situazione economica: ecco l’arte difficile, che deve esemplificare la concezione materialistica. E perché non giova di imitare lo scolastico, che in riva al mare insegnava a nuotare con la definizione del nuoto30, prego il lettore di aspettare, che io esemplifichi in altri saggi il mio pensiero, col recare una qualche effettiva narrazione storica; rifacendo, cioè, per iscritto una parte di ciò che già da un pezzo vo facendo, a voce, insegnando. Per cotal via rimangono chiarite alcune questioni secondarie e derivate. Qual è p. es. il significato della biografia dei così detti uomini grandi? Si è visto a dare negli ultimi tempi a tale proposito delle risposte, che, in un senso o nell’altro, son di carattere estremo. Da una parte sono i sociologi ad oltranza, dall’altra gl’individualisti, che, alla maniera di Carlyle, mettono a capo della storia gli eroi31. Secondo gli uni basta provare quali fossero le ragioni p. es. del Cesarismo, e di Cesare non importa punto. Secondo gli altri non c’è ragioni obiettive di classi e di interessi sociali che bastino a spiegar nulla: sono i grandi

spiriti che danno impulso a tutto il moto storico; e la storia ha, per così dire, i suoi signori e monarchi. Gli empiristi del racconto si cavano d’impaccio in modo semplice, col mettere, cioè, assieme come vien viene, uomini e cose, le necessità di fatto e gl’influssi subiettivi. Il materialismo storico supera le vedute antitetiche dei sociologisti e degli individualisti, e al tempo stesso elimina l’ecletticismo dei narratori empirici. Innanzi tutto il factum. Che quel determinato Cesare, che fu Napoleone, nascesse l’anno tale, facesse la tal carriera, e si trovasse fortunatamente in buon punto il 18 Brumaio; – tutto ciò è affatto accidentale rispetto al corso generale delle cose, che spingeva la nuova classe, padrona del campo, a salvare dalla rivoluzione ciò che a lei pareva necessario di salvare, al qual bisogno occorreva la creazione di un governo burocratico-militare. L’uomo, o gli uomini adatti bisognava pur trovarli. Ma, che quello che avvenne effettivamente avvenisse nei modi che sappiamo, ciò dipese dal fatto che fu Napoleone appunto a dar opera all’impresa, e non un povero Monk, o un ridicolo Boulanger32. E da questo punto in poi l’accidente cessa di essere accidente; appunto perché è quella determinata persona che dà l’impronta e la fisonomia agli avvenimenti, nel modo, e per il modo come si svolsero. Ora il fatto stesso che la storia tutta poggia su le antitesi, su i contrasti, su le lotte, su le guerre, spiega l’influenza decisiva di determinati uomini in determinate occasioni. Cotesti uomini non sono, né un accidente trascurabile del meccanismo sociale, né dei miracolosi creatori di ciò che la società, senza di loro, non avrebbe fatto in nessun modo. Gli è l’intreccio stesso delle condizioni antitetiche, il quale fa che determinati individui, o geniali, o eroici, o fortunati, o malvagi, sian chiamati in momenti critici a dire la parola decisiva. Mentre gl’interessi particolari dei singoli gruppi sociali sono in uno stato tale di tensione, che tutte le parti contendenti a vicenda si paralizzano, a muovere l’ingranaggio politico occorre l’individuale coscienza di una determinata persona. Le antitesi sociali, le quali fanno di ogni convivenza umana un organamento instabile, dànno alla storia, specie quando sia vista ed esaminata rapidamente e a grandi tratti, il carattere del dramma. Questo dramma si ripete nei rapporti da comunità a comunità, da nazione a nazione, da stato a stato, perché le interne disuguaglianze, concorrendo con le differenziazioni esterne, han prodotto e producono tutto il moto delle guerre, delle conquiste, dei trattati, delle colonizzazioni e così via. In questo dramma apparvero sempre come condottieri della società gli uomini che si chiamano eminenti, o grandi, e dalla presenza loro l’empirismo ha argomentato, che essi fossero i principali autori della storia stessa. Ricondurre la spiegazione del loro apparire alle cause generali e alle

condizioni comuni della struttura sociale, è cosa che perfettamente armonizza coi dati della nostra dottrina; ma provarsi ad eliminarli, come volentieri farebbero certi affettati oggettivisti del sociologismo, gli è una vera fatuità. E in conclusione, il seguace del materialismo storico, che si metta ad esporre e a raccontare, non dee far ciò schematizzando. La storia è sempre determinata, configurata, infinitamente accidentata e variopinta. Essa ha combinatoria e prospettiva. Non basta di avere eliminato preventivamente il presupposto dei fattori; perché chi narra si trova di continuo a fronte di cose, che paiono disparate, indipendenti, e per sé stanti. Cogliere l’insieme come insieme, e scorgervi i rapporti continuativi di serrati accadimenti, ecco la difficoltà. La somma degli accadimenti strettamente consecutivi e serrati, è tutta la storia; il che è quanto dire tutto quello che noi sappiamo dell’esser nostro in quanto siamo esseri sociali, e non più semplicemente animali.

XII Nel successivo insieme, e nella continuativa necessità di tutti gli accadimenti storici, non è, dunque, domandano alcuni, nessun senso, né alcuna significazione? Cotesta interrogazione, o che parta essa dal campo degli idealisti, o ci arrivi dalle bocche dei più cauti critici, certamente, e in tutti i casi, come s’impone all’attenzione nostra, così esige una adeguata risposta. In fatti, se si pon mente alle premesse, o intuitive, o intellettuali, dalle quali deriva la concezione del progresso, come di quella idea che contenga ed abbracci la totalità del processo umano, si vede che cotali presupposti poggian tutti sul bisogno mentale, che è in noi, di attribuire alla serie, o alle serie degli accadimenti, un certo senso ed una certa significazione. Il concetto di progresso, per chi lo esamini bene addentro nella sua natura specifica, implica sempre dei giudizii di valutazione; e, per ciò, non è chi possa confonderlo con la nozione nuda e cruda del semplice sviluppo, il quale non include punto quell’incremento di pregio, per cui noi di una cosa diciamo che essa progredisca. Dissi già qui innanzi, e, mi pare, con sufficiente estensione, come il progresso non istia a guisa di imperativo o di comando sul succedersi naturale ed immediato delle umane generazioni. Ciò è tanto intuitivo, per quanto è intuitiva la coesistenza attuale di popoli, nazioni e stati, che trovansi, in uno e medesimo tempo, in diverso stadio di sviluppo; per quanto è innegabile la presente condizione di relativa e di rispettiva superiorità ed inferiorità di popolo a popolo; e per quanto è, da ultimo, accertato il regresso parziale e relativo avveratosi più volte nella storia, come ne stette per secoli a documento l’Italia. Anzi, se c’è mai prova stringente, del come il progresso non sia da intendere nel senso di una legge immediata, e, dirò, così per rincalzare, di una legge fisica o fatale, gli è appunto questa, che lo sviluppo sociale, per le stesse ragioni di processo che gli sono immanenti, mise spesso capo nel regresso. Gli è d’altra parte chiaro ed accertato, che così la facoltà del progredire, come la possibilità di far regresso, non costituiscono, alla prima, né immediato privilegio, né ingenito difetto di razza; né sono dirette emanazioni delle condizioni geografiche. Perché non solo i primitivi centri di civiltà furon molteplici, e non solo cotali centri si spostarono nel corso dei secoli, ma sta anche il fatto, che i mezzi, i trovati, i resultati e gl’impulsi di una determinata civiltà, che siasi già svolta, sono, entro certi limiti, comunicabili a tutti gli uomini in indefinito. Ossia, a farla breve, progresso e regresso sono inerenti alle condizioni ed al ritmo dello sviluppo sociale in

genere. Ora, dunque, la fede nella universalità del progresso, che apparve con tanto impeto nel secolo decimottavo, ha in questo primo addentellato positivo; che, cioè, gli uomini, quando non trovino impedimenti nelle condizioni esterne, e non ne trovino in quelle che derivano dalla loro propria opera nell’ambito sociale, sono tutti capaci di progredire. E poi in fondo alla supposta, o immaginata, o creduta unità della storia, per la quale il processo delle varie società formerebbe come una sola serie di progresso, sta un altro fatto, che ha offerto motivo ed occasione a tante fantasticherie ideologiche. Se non tutti i popoli son progrediti egualmente, e anzi alcuni, o si arrestarono, o corsero la via del regresso, se il processo di sviluppo sociale non ebbe sempre, in ogni luogo ed in ogni tempo, il medesimo ritmo e la medesima intensità, gli è pur nondimeno sicuro il fatto, che, nel passaggio dell’azione decisiva da popolo a popolo nel corso della storia, i prodotti utili, già acquisiti da quelli che decadevano, passarono a quelli che divenivano e salivano. La qual cosa non vale tanto dei prodotti, dirò così, del sentimento e della fantasia, che pur si serbano e perpetuano nella tradizione letteraria, quanto vale dei resultati del pensiero, e soprattutto della scoverta e della produzione dei mezzi tecnici, che, ove siano acquisiti, per diretto si comunicano e trasmettono. Occorre forse di rammentare, che la scrittura non fu mai più perduta, per quanto i popoli che ne furono i rinvenitori sparissero dalla storica continuità? Occorre forse di ricordare, che noi rechiamo tuttodì nelle nostre tasche, su i nostri orologi, il quadrante babilonese, e che noi usiamo l’algebra, che fu introdotta da quegli Arabi, la cui attività storica si è poi dispersa come la sabbia del deserto? Non vale di moltiplicare incidentalmente e indefinitamente gli esempii, perché basta di aver sott’occhi la tecnologia, e la storia delle scoverte nel lato senso della parola, nella quale è evidente la trasmissione quasi continuativa dei mezzi istrumentali del lavoro e della produzione. E, al postutto, le sinossi provvisorie che diconsi storie universali, per quanto rivelino sempre, così nell’intento come nella esecuzione, qualcosa di forzato e di artificiale, non sarebbero state mai nemmen tentate, se le vicende umane non offrissero all’empirismo dei narratori un qualche filo, sia pur sottile, di continuità. Ecco lì l’Italia del secolo decimosesto, che evidentemente decade; ma, mentre decade, trasmette alla rimanente Europa le sue armi intellettuali. Né esse sole rimangono in retaggio alla civiltà che continua; ma anche il mercato mondiale si stabilisce su i fondamenti di quelle scoverte geografiche, e di quei trovati nautici, che furono opera dei mercanti, e dei viaggiatori e marinari d’Italia. Né solo i

modi del far la guerra, e i raffinamenti dell’astuzia politica passaron fuori dell’Italia (della qual cosa soltanto si occupano di solito i letterati); ma anche l’arte del far danaro in tutta la evidenza di una elaborata disciplina commerciale; e, via via, i rudimenti della scienza, su i quali è fondata la tecnica moderna, e innanzi tutto la metodica irrigazione dei campi, e le leggi generali dell’idraulica. Tutto ciò è tanto precisamente vero, che ad un amatore di tesi congetturali potrebbe saltar in capo di proporsi questo quesito: cosa sarebbe stato dell’Italia, in questa moderna epoca borghese, se, avverandosi il progetto del Senato Veneto (1504)33 di far qualcosa che avrebbe rassomigliato negli effetti al taglio dell’istmo di Suez, la marina italiana si fosse trovata a contendere direttamente coi portoghesi nell’Oceano Indiano, in quel momento appunto, in cui il trasferimento dell’azione storica dal Mediterraneo all’Oceano preparava la decadenza nostra? Ma basta di tale fantasia! Una certa continuità storica, nel senso empirico e circostanziato della trasmissione e del successivo incremento dei mezzi della civiltà, è un fatto, dunque, incontrastabile. E sebbene questo fatto escluda ogni idea di preconcetto disegno, di finalità intenzionale o latente, di prestabilita armonia, e tutte quelle altre fantasticherie su le quali si è tanto speculato, non per ciò solo esclude l’idea del progresso, che noi possiamo usare come di valutazione del corso del divenire umano. Gli è indubbio sì, che il progresso non abbraccia materialmente il succedersi delle generazioni, e che la sua nozione non implica nulla di categorico, tanto che le società han fatto anche regresso, ma ciò non toglie che cotesta idea possa servirci come di filo conduttore e di stregua, per dare significazione al processo storico. Di tali cautele critiche, così nell’uso dei concetti specifici, come nei modo di loro applicazione, non intendono nulla quei poveri evoluzionisti ad oltranza, che sono scienziati senza la grammatica e senza il galateo della scienza, ossia senza la logica. Come ho detto più volte, le idee non cascano dal cielo, e anche quelle che in dati momenti vengon fuori da determinate situazioni, con impeto di fede e con veste metafisica, recano sempre in sé l’indizio di corrispondere a un ordine di fatti, di cui si tenti o si cerchi la spiegazione. L’idea del progresso, come di unificatore della storia, apparve con violenza e si fece gigante nel secolo decimottavo, ossia nel periodo eroico della vita politica ed intellettuale della borghesia rivoluzionaria. Come questa ha generato, nell’ordine delle opere, il periodo più intensivo di storia che mai si conosca, così ha prodotto in pari tempo la sua propria ideologia, nella nozione del progresso. Questa ideologia nella sua sostanza, e per il momento, vuol dire, che il capitalismo è la sola forma di produzione che sia capace di estendersi a tutta la terra, e di ridurre tutto il genere

umano in condizioni che da per tutto si rassomiglino. Se la tecnica moderna può portarsi da per ogni dove, se tutto l’uman genere apparisce come un solo campo di concorrenza, e tutta la terra come un solo mercato, che maraviglia c’è se la ideologia, che coteste condizioni di fatto intellettualmente riflette, è venuta nell’affermazione, che la presente unità storica, sia stata preparata da tutto ciò che la precede? Traducete questo concetto di pretesa preparazione in quello affatto naturale di verificabili successive condizioni ed eccovi aperta la via per la quale si giunge dalla ideologia del progresso al materialismo storico: e si giunge anche all’affermazione di Marx, che questa forma della produzione borghese è l’ultima forma antagonistica del processo della società34. I miracoli dell’epoca borghese, nella unificazione del processo sociale, non hanno riscontro nel passato. Ecco lì tutto il Nuovo Mondo, e poi l’Australia, e l’Africa meridionale e la Nuova Zelanda! e son tutti come noi! E poi il contraccolpo nell’Estremo Oriente per la imitazione, e nell’Africa per la conquista! Innanzi a tale universalità e a tale cosmopolitismo, l’acquisizione dei Celti e degl’Iberi alla civiltà romana, e quella dei Germani e degli Slavi al ciclo della civiltà romano-bizantino-cristiana, rimpiccioliscono. Cotesta unificazione sempre crescente si riflette ogni giorno più nel meccanismo politico dell’Europa; il quale meccanismo, perché fondato su la conquista economica delle altre parti del mondo, oscilla oramai per gl’influssi e riflussi, che vengono dalle più remote regioni. In questo complicatissimo intreccio di azioni e di reazioni, la guerra fra Giappone e Cina, che fu guerreggiata coi mezzi, o imitati, o a dirittura presi in prestito dalla tecnica europea, lascia le sue tracce, né leggiere né di breve durata, nei rapporti diplomatici dell’Europa, e ne lascia dei più vivi nella borsa, che è la fedele interprete della coscienza dei nostri tempi. Questa Europa, maestra a tutto il resto del mondo, ha visto di recente oscillare i rapporti della politica degli stati di cui consta, per una rivolta nel Transvaal, e per un insuccesso delle armi italiane in Abissinia, proprio di questi ultimi giornia. I secoli che han preparato e portato alla forma sua attuale il dominio economico della produzione borghese, hanno anche sviluppata la tendenza ad unificare la storia sotto una veduta generale; e per cotal modo rimane spiegata e giustificata la ideologia del progresso, che informa tanti libri di filosofia della storia e di Kulturgeschichte. La unità di forma sociale, ossia la unità di forma capitalistica nella produzione, cui la borghesia tende da secoli, s’è venuta a riflettere nel concetto della unità della storia, in forme tanto suggestive quante non ne potea mai dare al pensiero l’angusto cosmopolitismo dell’impero romano, né quello unilaterale della chiesa cattolica. Ma cotesta unificazione della vita sociale, per opera della forma capitalistica

borghese, si sviluppò la prima volta, e continua ora a svolgersi, non secondo regole, e piani, e preconcetti disegni; ma, anzi, per via di attriti e di lotte, che nell’insieme formano un colossale intrigo di antitesi. Guerra al di fuori, e guerra al di dentro. Lotta incessante fra le nazioni, e lotta incessante fra i componenti le singole nazioni. Ed è tanto complicato l’intreccio delle opere e delle azioni di tanti emuli, concorrenti e contendenti, che la coordinazione degli eventi sfugge assai spesso all’attenzione, per esser cosa poco facile il coglierne l’intimo nesso. La gara che ora è tra gli uomini, le lotte che ora, con varii metodi, si svolgono tra le nazioni e nelle nazioni, son valse a farci intender meglio, per entro a quali difficoltà si è mossa la storia del passato. E se l’ideologia borghese, riflettendo la tendenza all’unificazione capitalistica, ha proclamato il progresso dell’uman genere, il materialismo storico, invertendo, e senza proclamazioni, ha scoverto, che nelle antitesi fu fino ad ora la causa e il movente d’ogni accadimento storico. E perciò il moto della storia, preso in generale, ci si rivela come oscillante; – o meglio, per usare una immagine più propria, ci pare si svolga sopra di una linea spezzata, che cambia spesso di direzione, e di nuovo si spezza, e in alcuni momenti gli è come rientrante, e alcune volte si distende, dilungandosi di molto dal punto iniziale: – un vero zig-zag. Data la complicazione interna di ciascuna società, e dato l’incontro di più società sul campo della concorrenza (dalle ingenue forme della razzia, della rapina e della pirateria, fino ai raffinati metodi dell’elegante giuoco di borsa!), gli è naturale, che ogni resultato storico, quando sia misurato alla sola stregua dell’aspettazione individuale, apparisca assai spesso come un caso, e considerato poi teoricamente torni alla mente più inestricabile delle contingenze meteoriche. Per ciò non è una semplice frase il detto della ironia che siede sovrana su la storia; perché, di fatti, se nessun dio di Epicuro ride di lassù sopra le cose umane, quaggiù le cose umane intessono da sé stesse una divina commedia. Cesserà mai cotesta ironia delle umane sorti? Sarà, ossia, mai possibile una tal forma di convivenza, che dia luogo allo sviluppo cooperativo ed integrale di tutte le attitudini, in guisa che il processo ulteriore della storia divenga vera ed effettiva evoluzione? Sarà possibile, se così piace agli amatori delle arrotondate frasi, la umanizzazione di tutti gli uomini? Eliminate, nel comunismo della produzione, le antitesi, che sono ora causa ed effetto delle differenziazioni economiche, tutte le energie umane non acquisterebbero un grado altissimo di efficacia e di intensità negli effetti cooperativi, e al tempo stesso non si svolgerebbero esse con la massima libertà d’individuazione, in ogni singola persona? Nelle risposte affermative a tali domande è la somma di ciò, che il comunismo

critico dice, ossia, predice dell’avvenire. E non dice e predice, come per discutere di una astratta possibilità, o come chi di capo suo voglia mettere in essere uno stato di cose, che speri o vagheggi. Ma dice e predice come chi enuncia ciò che è inevitabile accada, per la immanente necessità della storia, vista e studiata oramai nel fondo della sua sostruzione economica. «Ce n’est que dans un ordre de choses, où il n’y aura plus de classes et d’antagonisme de classes, que les évolutions sociales cesseront d’étre des révolutions politiques»a. «Alla vecchia società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentra una associazione, nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti»b . «I rapporti borghesi della produzione sono l’ultima forma antagonistica del processo sociale della produzione – antagonistica non nel senso dell’antagonismo individuale, anzi di un antagonismo che sorge dalle condizioni sociali della vita degl’individui; – ma le forze produttive, che si sviluppano nel seno della società borghese, mettono già in essere le condizioni materiali per la risoluzione di tale antagonismo. Con tale formazione di società cessa, per ciò, la preistoria del genere umano»c. «Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, rimane esclusa la produzione delle merci, e con essa rimane esclusa la signoria del prodotto sul produttore. All’anarchia dominante nella produzione sociale subentrerà la cosciente organizzazione a disegno. La lotta per l’esistenza individuale cesserà. Solo per cotal modo l’uomo si distaccherà, in un certo senso, dal mondo animale, in modo definitivo, e passerà dalle condizioni di esistenza animale in quelle di esistenza umana. Tutto l’ambito delle condizioni della vita, che fino ad ora ha dominato gli uomini, passerà sotto il comando e sotto la revisione degli uomini stessi; che diverranno, così, per la prima volta effettivi signori della natura, perché saranno signori della propria consociazione. Le leggi della lor propria attività sociale, che stavano loro di contro come leggi estranee che li dominassero, saranno applicate e padroneggiate dagli uomini stessi, con piena cognizione di causa. La stessa consociazione, che stava di fronte agli uomini, come imposta dalla natura e dalla storia, diverrà la libera e propria opera loro. Le forze estranee ed obiettive, che finora dominavano la storia, passano sotto la vigilanza degli uomini. Solo da tal punto in poi gli uomini faranno con piena coscienza la loro propria storia; solo da tal punto in poi le cause sociali, che essi metteranno in moto, potranno raggiungere, in gran parte, e in ragione sempre crescente, i voluti effetti. Questo è il salto del genere umano dal regno della necessità in quello della libertà. Compiere cotesta azione

liberatrice del mondo, ecco la missione storica del proletariato moderno»a. Se Marx ed Engels fossero stati mai facitori di frasi, se la mente loro non fosse stata resa cauta, fino allo scrupolo, dall’uso e dall’applicazione cotidiana e minuta dei mezzi scientifici, se il contatto assiduo con tanti cospiratori e visionarii non li avesse resi aborrenti da ogni utopia, fino alla pedanteria dell’opposto, tali enunciati potrebbero esser tenuti in conto di geniali paradossi, che sfuggano all’esame della critica. Ma quegli enunciati sono come la chiusa, anzi sono l’effettiva conclusione, della dottrina del materialismo storico. Resultano a filo diritto dalla critica dell’economia e dalla dialettica storica. In tali enunciati, del resto sviluppabili, come avrò occasione di mostrare in altro luogo, si riassume tutta la previsione dell’avvenire, che non sia, né voglia essere, romanzo, o utopia. E in questi enunciati stessi è una adeguata e conclusiva risposta alla domanda con la quale comincia questo capitolo: se, cioè, nelle serie degli accadimenti storici ci sia da ultimo ed effettivamente senso e significazione. E qui faccio punto; parendomi, che, per una dilucidazione preliminare, ce ne sia oramai a bastanza. Roma, 10 Marzo 1896 a

Codesto studio genetico fu l’argomento e l’oggetto principale del mio primo saggio: In memoria del Manifesto dei Comunisti, il quale è appunto il preambolo indispensabile per la intelligenza di tutto il resto. a Alludo qui al pregevole scritto di K. KAUTSKY: Die Klassengegensätze von 178929. a

È bene che io ricordi che la prima edizione di questo libro reca la data del 10 marzo 189635. a MARX, Misère de la Philosophie, Paris, 1847, p. 17836. b Manifest der Kommunistichen Partei, London 1848, p. 1637. c MARX, Zur Kritik der politischen Oekonomie, Berlin, 1859, p. VI della prefazione38. a ENGELS, E. Dühring’s Umwälzung der Wissenschaft, ed. 3a, Stuttgart, 1894, pp. 305-30639.

APPENDICE a Del materialismo storico

A PROPOSITO DELLA CRISI DEL MARXISMO [1899] Mi riferisco qui ad un libro, né breve, né di comoda lettura, di Th. G. Masaryk, professore della Università czeca di Praga, venuto in luce proprio di questi ultimi giorni1. Quanto sia voluminoso può vedersi a piè di paginaa, dove n’è dato per esteso il titolo. Non mi propongo però di scriverne la recensione pura e semplice. E se mai paresse, che l’esprimere la propria opinione a proposito d’un libro importi che di quello si faccia la recensione, dirò che questa qui assumerà necessariamente le proporzioni e l’andatura di un quasi-articolob. Il nome mio e il titolo a capo della pagina potrebbero indurre nel sospetto, che io intenda di mettermi come in una polemica di partito. Il lettore stia d’animo tranquillo. Non confonderò le pagine della «Rivista italiana di sociologia» con le colonne del giornale politico cotidiano3. Dirò solo, en passant, come il caso assai curioso del grande affanno, che la stampa politica italiana, sia essa giornaliera o altrimenti periodica, s’è dato per mesi e mesi nel proclamare la morte del socialismo, usando la etichetta della crisi del Marxismo, è parso a me un nuovo documento di quel vizio organicamente nazionale, che può oramai definirsi qual diritto all’ignoranza. A nessuno di cotesti egregi becchini del socialismo, che, tanto per far folla intorno alla crisi, andavano mettendo assieme a casaccio i nomi incompatibili fra loro di così varii scrittori, è venuto in mente di proporsi queste semplici e oneste domande: – la critica sorta in altri paesi intorno al Marxismo può essa mai riguardare direttamente l’Italia? – ebbe mai, o ha, cotesta dottrina alcuna solida base e sicura diffusione nel nostro paese? – e, al postutto, il partito socialistico italiano ha tanta forza già, e tale estensione su le masse e tra le masse, ed ha in sé stesso tale sviluppo e tale complessità di condizioni e di attinenze politiche, da rivelare quei caratteri precisi e spiccati di stabile e duratura organizzazione proletaria, data la quale il discutere a fondo della dottrina gli è discuter di cose e non di parole? – e, per andare più al fondo, c’è chi possa dire, che in questo paese nostro sia stata già percorsa tutta la via crucis delle trasformazioni economiche, a capo delle quali s’è avverato altrove ciò che dicesi sistema capitalistico, del quale il Marxismo, alla sua volta, è poi il contraccolpo critico? Chi si fosse proposte coteste domande, e altre simili, sarebbe venuto nella onesta conclusione, che non ci può essere la crisi di ciò… che non esiste ancora. Può darsi, anzi si dà di certo, che tutti cotesti necrologisti del socialismo

ignorassero come la frase di crisi del Marxismo fosse stata coniata e messa in circolazione per l’appunto dal professore Masaryk, al quale (lui ignaro tuttora, come accade spesso agli stranieri, delle cose d’Italia) è capitata l’insigne sorte di portare nel nostro paese un nuovo ed inatteso contributo alla fortuna delle parole. Ma gli è proprio così. La espressione di crisi del Marxismo fu inventata da Masaryk nei numeri 177-179 della «Zeit» di Vienna, del Febbraio del 1898, e quegli articoli suoi furon poi raccolti in opuscoloa, con la data del 10 Marzo: – e, si badi bene, non perché l’autore di tale scoperta letteraria avesse in animo di dichiarare la morte del socialismo, ma solo perché gli parve di constatare (mi si passi la parola di gergo giornalistico) la crisi per entro al Marxismo; – ed egli difatti conchiudeva così: «Io vorrei ammonire i nemici del socialismo, di non farsi delle vane speranze in pro dei loro partiti per questa crisi del Marxismo, la quale potrà dare anzi gran forza al socialismo, quando i suoi capi vorranno criticarne liberamente i fondamenti e superarne i difetti. Come tutti gli altri partiti di riforma sociale, il socialismo ha la sua fonte viva nelle manifeste imperfezioni del presente ordinamento sociale, e nella sua ingiustizia ed immoralità, e soprattutto nella miseria materiale, morale ed intellettuale della gran massa presso tutti i popoli»b. In quelle 24 pagine, che erano invero troppo poco per la gravità dell’assunto, i dati della crisi – per quanto s’attiene alla Sozialdemokratie tedesca e con qualche piccolo riferimento alla letteratura francese ed inglese – venian riassunti, enumerati, caratterizzati, così un po’ in furia e fretta, nei seguenti capi… Ma che giova di tenersi più all’opuscolo del 10 Marzo 1898, se nel libro alla data del 27 Marzo 1899 le 24 pagine d’allora son diventate 600, dico 600, il che è viceversa troppo assai – direbbe un napoletano – e per la entità di ciò che vi si va esponendo, e per la pazienza media dei lettori? Il prof. Masaryk è un positivista; parola qui in Italia d’uso soverchiamente estensivo ed elastico, ma che per lui professante filosofia vuol dire, e sia pure con parecchie modificazioni, trovarsi su la linea che va da Comte a Spencer… o a Masaryk stesso. Non sarei in grado di tributargli tutta l’ammirazione della quale sarà, forse, degno; perché lui ha l’abitudine per me incomoda di scrivere in lingua czeca. Non ne conoscevo fino ad ora se non la Logica concreta nella traduzione tedesca. Né vorrei soverchiamente sottilizzare sul tenore tassativo delle sue espressioni, perché questo libro è stato tradotto dal signor Kalandra in un tedesco alquanto cancelleresco6. L’opera nel tutt’insieme, come dice l’autore stesso nella prefazione, non è da considerare sotto l’aspetto della composizione e dello stile. È un parto onninamente ultraccademico, con la ovvia partitura in introduzione e sezioni, e queste, che son cinque e son seguite dal riassunto,

recano la suddivisione in capitoli, con la sottofigura dell’A, B, C e così via, fin giù giù alla risuddivisione del tutto in 162 paragrafi, con varia bibliografia in ordine sparso e in ordine concentrato, con un indice-sommario veramente mirabile, che fa pensare a tante cose cui il libro poi non risponde, e con l’inevitabile registro. Sono, insomma, appunti di lezioni illustrative e dichiarative, di tono posato e anzi tenue, redatte a schema da enciclopedia, e non tutte identificabili alla stessa data. Infatti, mentre il libro, composto originariamente in lingua czeca7, e preannunziato nell’opuscoletto dell’altro anno, che può tenerne le veci per chi non voglia leggere le 600 pagine, s’andava stampando nella traduzione tedesca, nel frattempo è apparso l’oramai famoso libro del Bernstein (cfr. nota 1 a p. 590)8, e con questo l’autore ha sentito il bisogno di accomodare le sue partite in altro postoa. L’atteggiamento del Masaryk è veramente sui generis. Lui non è socialista, lui conosce estesamente la letteratura del socialismo, lui non è avversario professionale del socialismo, lui lo giudica dall’alto, in nome della scienza. Fu deputato al Reichsrath della Cisleitania, ma sebbene nazionalista e progressista, che io sappia, non si confuse mai coi giovani czechi. Ora mi pare si tenga in disparte dalla politica11. Pubblica una rivista, che è un quissimile della nostra Nuova Antologia12; ed è dotto di mestiere, cioè gran leggitore e riferitore accurato di ciò che legge, fino al minimo della più minuta minutaglia. E questo è il primo e principale difetto del libro suo; nel quale si discorre di molte ed infinite cose, ma alla realtà, al fatto, al vivo non si arriva mai. L’autore ha come intercettata la vista dalla carta stampata, e dalle ombre degli scrittori tra i quali s’aggira con pari ossequio per tutti, come chi abbia l’occhio privo di virtù prospettica. Non è forse il principale dovere di chi si metta per la via di discutere dei fondamenti del Marxismo di essere in grado di rispondere, ma dal vivo, a questa domanda: credete voi o non credete alla possibilità di una trasformazione della società dei paesi più civili, per la quale cesserebbero le cause e gli effetti delle presenti lotte di classe? Di fronte a tale problema generale gli è davvero d’importanza secondaria il modo della transizione a quello stato futuro, desiderato o previsto; perché quel modo sfugge al nostro arbitrio, e certo non dipende dalle nostre definizioni. Per rispetto a cotesta tesi generale gli è cosa, non dirò indifferente, ma certo di valore assai subordinato, il sapere, qual parte del pensiero e delle opinioni, (molti confondono maledettamente quello e queste!) di Marx e dei suoi prossimi seguaci ed interpreti collimi o non collimi con le presenti e con le future condizioni del movimento proletario; perché non

occorre di essere seguaci sfegatati del materialismo storico per intendere, come le dottrine valgono in quanto dottrine, cioè in quanto sono una luce intellettuale portata sopra un ordine di fatti, ma che in quanto sono dottrine non son causa di nulla. Ma il signor Masaryk è, invece, un dottrinario, cioè un credente nella virtù delle idee, cioè un accademico, per il quale tutto consiste nella lotta per la concezione generale del mondo (Weltanschauung); e non c’è da maravigliarsi che egli respinga con sovrano disprezzo (passim) l’espressione istinto delle masse. Questa critica, che poggia tutta su la presunzione di un giudizio sovranamente imparziale delle lotte pratiche della vita in nome della scienza, e che ignora la rassegnazione del pensiero al corso naturale della storia, è e rimane intrinsecamente caduca, perché s’aggira intorno al Marxismo, senza afferrarne mai il nerbo, che è la concezione generale dello sviluppo storico sotto l’angolo visuale della rivoluzione proletaria. Indugiandomi a definire l’atteggiamento in genere del Masaryk, mi pare di ripagarlo di cortesia italiana dell’ignoranza nella quale egli trovasi per rispetto ai miei scritti in argomento. Se mai li leggesse, s’avvedrebbe, forse, come, senza scendere alle minuzie della polemica a tu per tu con la stampa corrente del partito, senza proclamarsi scovritori od autori della crisi del Marxismo, si possa esser seguaci anche all’ora presente del materialismo storico, dopo fatta la debita parte alla nuova esperienza storico-sociale, e con la conveniente revisione dei concetti, che abbiano subìto o subiscano correzione dal corso naturale del pensiero. Le dottrine, che sono in atto di svolgersi e di progredire, non ammettono la trattazione erudita e filologica, come usa per le sorpassate forme del pensiero, e per ciò che ci fu trasmesso dalla tradizione, ed ha nome di antico. Ma i temperamenti intellettuali degli uomini sono assai difformi tra loro! Alcuni – e son pochi – presentano al pubblico il resultato del proprio lavoro, e non credono di dovervi aggiungere la storia intima delle loro letture, fino alla fotografia della penna della quale si servono. Sono altri – e questo è il maggior numero, – i quali sentono vivo il bisogno di dare alle stampe tutto il frutto delle loro letture. Son meticolosi custodi dei loro quaderni, perché nessuna parte di loro fatiche vada perduta, né pei presenti, né pei futuri. Il professore Masaryk – che stempera in 600 pagine una tesi di occasione, ed è questa: che giudizio possa farsi ora del Marxismo, atteso il fatto che se ne discute anche per entro al partito; – il professore Masaryk, che ha tanto letto, non può a meno di considerare il Marxismo stesso secondo le sacramentali rubriche della filosofia, della religione, dell’etica, della politica, e così via all’infinito: e, caso curioso, proprio lui, che ha tanto ossequio per la burocrazia universitaria e per il casellario dei feticci della scienza, finisce poi da ultimo per dichiarare, essere il Marxismo un sistema sincretico! (passim in tutto il libro, ed esplicitamente a p. 587). Era parso a me,

che quella dottrina fosse proprio precisamente il contrario, e un che, anzi, di tanto intimamente unitario, da mirare, non solo a vincere la opposizione dottrinale tra scienza e filosofia, ma anche quella più ovvia tra pratica e teoria. Ma il signor Masaryk è fatto così com’è, e seguiamolo pure nelle sue rubriche. Lascia ben volentieri ad altri di occuparsi del socialismo in quanto è tendenza (a uso A. Menger)13 alle riforme giuridiche; dichiara di non immischiarsi direttamente nelle questioni della Economia (nella qual disciplina invero pare a me che zoppichi da ambo le gambe), e ci tiene a mettere soprattutto in evidenza la filosofia di Marx, la quale esiste, tuttoché non sia espressa in opere di tassativa composizione ad hoc; e studia in tutte le 600 pagine la crisi in quanto essa è strettamente «scientifica e filosofica» (p. 5). Non chiedete, dunque, all’autore, né un esame concreto delle condizioni attuali del mondo economico fatto dal vivo, né un consiglio pratico e largo di politica sociale. Se il movimento della proletarizzazione continui o no, se la teoria del valore sia o no esatta, queste e le altre questioni affini, per quanto della massima importanza, non interessano lui filosofo (p. 4). Il resultato pratico è solo questo, di consigliare ai socialisti (p. 591) di tenersi al programma dell’Engels del 1895, cioè dire alla tattica parlamentare14; il che veramente essi vanno facendo da per tutto nel mondo, e, secondo il debole avviso mio, per la semplice ragione, che non potrebbero fare altrimenti senza addimostrarsi, o pazzi, o stolidi. Se non che il Masaryk rincalza il consiglio con questo monito, che si debba anche abbandonare l’ideologia marxista! A buon conto, non è il corso naturale delle vicende politiche dell’Europa civile che abbia indotto i socialisti a cambiare di tattica (né l’autore saprebbe dirci quanto tempo questa nuova durerà, o potrà durare), ma son le idee che cambiano e devono cambiare. Tutto si compendia nella lotta per la Weltanschauung (cfr. segnatamente pp. 586-592), il che è naturale in uno scrittore, che ci tien tanto al sacramentale concetto della classificazione delle scienze (p. 4), e al posto sovraeminente della filosofia. Il Philister, nella subspecie professorale, ci si rivela qui tutto intero nella sua propria natura15. Conoscere estesamente la letteratura del socialismo, e di questo ignorare l’intimo, il senso, l’animo! Dato questo animo – s’intende da sé – l’orientazione scientifica cambia del tutto, anzi cambia il posto della scienza nella economia dei nostri interessi. Ma a ciò il Masaryk non giunge mai, perché dovrebbe, per arrivarci, valicare i confini delle definizioni. Il suo libro, perciò, per quanto ricco di coscienziose informazioni, ed alieno dal disprezzo professionale del socialismo, si riduce, nell’intento e negli effetti, ad un enorme piato del positivismo contro il Marxismo! Due osservazioni mi occorrono qui. La mia affermazione suonerà strana a molti in Italia, dove è in uso di significare con

la parola positivismo tutto ed ogni cosa. Inoltre, come ho più volte scritto, che quella intuizione della vita e del mondo, la quale si compendia nel nome di materialismo storico, non è giunta a perfezione negli scritti di Marx e di Engels, e dei loro prossimi seguaci, così ora qui più recisamente affermo, che la continuazione di quella dottrina procede ancor lenta, e forse procederà allo stesso modo per un buon pezzo. Ma i libri come questo del Masaryk non giovano a nulla. Ecco qua un coacervo di obiezioni in nome del positivismo sì, ma non in nome della revisione diretta ed autentica dei problemi della scienza storica, e non in nome delle questioni politiche attuali. La così detta crisi non diventa, né il subietto di un esame da pubblicista, né l’obietto di uno studio da sociologo, ma è come uno spazio vuoto o una pausa, in cui l’autore vada a deporre, o a recitare, le sue filosofiche proteste. Uno studio, né vano né privo d’interesse, è dedicato alla formazione prima del pensiero di Marx (pp. 17-89). Ma il facit è da ultimo assai meschino. «Nella costante mutazione dell’ordinamento sociale venne Marx da ultimo a trovare la ragione storica del comunismo, come quello che s’imponga da sé. – Secondo Marx la filosofia è la copia naturalistica del processo del mondo. – Il comunismo è dato dalla storia stessa. – Il materialismo di Marx è un materialismo storico»16. – Proposizioni come queste, le quali riproducono a un di presso il pensiero fondamentale dello scrittore che si ha per mani, dovrebbero indurre, pare a me, il critico a rifarsi su i fondamenti di tali concezioni, per rovesciarli, se mai, con una critica ab imis. Ebbene, che fa il signor Masaryk? Pochi righi dopo scrive: «La sua filosofia e quella di Engels hanno il carattere dell’eccleticismo»17. – E poi ci regala, alla lettera D del capo II, una insalata russa delle opinioni in contraddittorio di Bax, K. Schmidt, Stern, Bernstein, Plekanoff, Mehring, in quanto han discusso se tale filosofia, diciamo così marxistica, sia conciliabile o no col ritorno a Kant, a Spinoza, o a che altro siasi18; e non gli sovviene del poeta, che assistette alla fondazione della Università di Praga, per esclamare con lui: Povera e nuda vai filosofia19. Alquanto sconnessa è la trattazione che l’autore dedica al materialismo storico (pp. 92-168), indugiandosi in prima sul divario delle definizioni, per venire infine ad una critica tutta fondata su la vecchia nenia della dottrina dei fattori, più o meno dissimulata in una fraseologia sociologica e psicologica alquanto dubbia ed incerta. In conclusione all’autore repugna il pensiero di una concezione obiettivamente unitaria della storia; e gli capita spesso di confondere la spiegazione del complesso storico mediante il variare innanzi tutto della

struttura economica, con la spiegazione illico et immediate del fatto storico determinato per via delle rispettive ed individuate condizioni economiche. Non deve quindi recar meraviglia di vedere come Marx venga considerato quale una specie di Comte alterato in peggio, che diventa poi un inconsapevole seguace di Schopenhauer nell’accettare il primato della volontà, dottrina che contraddice però alla sacramentale tricotomia psicologica d’intelletto, sentimento e volere. Può darsi che quel povero Marx ignorasse, come l’uomo sia fornito, oltre che dell’intelletto, anche d’un fegato (sic!), il che è tanto più sorprendente, in quanto che lui era assai fegatoso (sic!), per le quali buone ragioni può essere accaduto non s’avvedesse, che il sopravvalore è un concetto principalmente etico (sic!). Al prof. di Università, che tratta la sua materia come il suo mestiere, può venir facilmente la tentazione di far passate un determinato autore sotto lo scrutinio di tutte quelle altre dottrine che lui critico abbia l’abitudine di studiare e di maneggiare. E allora, per una strana illusione da erudito, accade che i termini di confronto, che sono nell’abito subiettivo del critico, divengano surrettiziamente come dei termini di effettiva derivazione. Così stava accadendo al Masaryk; quando ecco che lui, nel bel mezzo delle sue tentate comparazioni, si contraddice, e sentenzia (p. 166): «Nel fatto Marx viene a formulare ciò che, come suol dirsi, si trovava nell’aria, e perciò io non ho dato gran peso ai singoli influssi su la sua formazione intellettuale»20. Ergo – direi io – ricominciate da capo, e anzi invertite. Nell’autore, che trattate, s’è avverata appunto questa inversione, che dalla critica dell’economia e dal dato delle lotte di classe egli risalì ad una nuova concezione storica (e non per modificare, s’intenda bene, ciò che tecnicamente dicesi disciplina della ricerca storica), e per quella via poi ad una nuova orientazione su i problemi generali della conoscenza. Ma voi forzate le cose, ma voi le alterate del tutto, mettendovi per una via che non è quella percorsa dall’obietto del vostro esame. Ma si capisce, voi filosofo professionale scendete dall’alto delle definizioni al particolare del materialismo storico; e, con tutto il dovuto ossequio alla metodologia, giungete alla teoria delle lotte di classe (pp. 168-234) come si arriva a un corollario. Anche qui la fedeltà della esposizione materiale rende più sensibile la incapacità alla comprensione intima e viva. Qua e là alcune utili osservazioni su la imprecisione dei termini borghesia, proletariato e simili, e poi delle altre di maggior valore su la irriducibilità di tutta la società presente alle due famose classi, data la sua più varia e complessa articolazione. A riscontro di tutto ciò, ecco una singolare inettitudine ad afferrare un concetto così semplice; che, cioè, dato l’intreccio della vita sociale, gl’intenti individuali possono esser tutti errati: la qual cosa induce l’A. a dire, che nel Marxismo la coscienza individuale si risolve in puro illusionismo (!). Gli repugna di credere, che le leggi economiche

seguano un processo naturale; – ebbene, si provi a cambiarne la successione storica per atti di arbitrio. Rivendicata la spontaneità (ma quale?) delle forze che dànno impulso alla storia, e l’aristocrazia dello spirito filosofico, e detto come il determinismo marxistico sia una e sola cosa col fatalismo, l’A. si confessa così: «Io spiego il mondo e la storia teisticamente» (p. 234)21. Deo gratias! Al pezzo forte ci siamo finalmente, cioè alla esposizione del mondo capitalistico (pp. 235-313), e alla critica del comunismo e del processo della civiltà (pp. 313-386). Questo è dei socialisti il punto essenziale, e su tale terreno soltanto è dato di combatterli. Ma l’A. era disceso dalle alture, e così sia. Non saprei negargli – tanto per cominciare dalle conclusioni – una discreta parte di ragione, là dove parla di soverchio primitivismo e semplicismo, specie per rispetto al tentativo dell’Engels nel rifare in breve i punti principali della storia della civiltà22. Il divenire dello stato, ossia della società ordinata a classi, con le ragioni del dominio e dell’autorità, supposta la proprietà privata e supposta la famiglia monogamica, ebbe modi varii di sviluppo nella storia specializzata e concreta, e non c’è facilismo che tenga, nel provarsi a rendere plausibili gli schemi troppo semplici. Può darsi che dei socialisti correnti al comodo argomentare vedan troppo semplificato l’intreccio della storia, riducendo questa in breve volume; il che li induce a semplificar del pari con soverchio arbitrio l’intreccio della società presente. Né certo giova di richiamarsi di continuo alla negazione della negazione, che non è istrumento di ricerca, ma è solo formula riassuntiva, valida, se mai, post factum. Certo che il comunismo, ossia il più o meno lontano approdo della società presente verso una nuova forma della produzione, non sarà un parto mentale della dialettica subiettiva. E perciò credo – son cortese di armi agli avversarii – non esserci che un solo modo di combattere seriamente il socialismo, ed è quello di provarsi a dimostrare come il sistema capitalistico abbia in sé – per ora almeno – tale indefinita forza di adattabilità, che tutti i movimenti proletarii si riducano in fondo a meteoriche agitazioni, senza mai formare un processo ascensivo, che importi da ultimo, con la eliminazione del salariato, anche quella di ogni dominio di classe. In cotesto intento critico-dimostrativo si riassume, per es., la forza della scuola del Brentano e suoi seguaci23. Ma questo non pare sia pane pei denti del signor Masaryk, il quale rivela tutta la sua inettitudine ad afferrare il nesso economico della materia che ha per le mani, proprio nel capitolo che dedica alla critica del sopravvalore (pp. 250-313). Attraverso ad una rassegna bibliografica intorno alla vexata quaestio del divario fondamentale che correrebbe tra il I e il III volume del Capitale, l’A. viene a rigettare come inesatta la dottrina del valore-lavoro, e poi giù giù ad

affermare, come Marx non potesse partire dal concetto della utilità, perché il suo obiettivismo estremo lo rendeva alieno dalla considerazione psicologica (!). Dichiara poi la sua opinione sul posto che l’economia dovrebbe occupare nel sistema delle scienze, data la dipendenza sua dai presupposti di una sociologia generale. Rigettato il concetto della economia in quanto scienza storica, riaccampa la pretesa di una scienza della economia, che, senza confondersi con l’etica, abbracci tutto l’uomo, e non soltanto l’uomo lavorante. Sofistica su la impossibilità di trovare una misura del lavoro, in quanto questo, alla sua volta, debba misurare il valore; e considera il sopravvalore come una escogitazione tratta dalla ipotesi costruttiva delle due classi in lotta fra loro. Per via di molti ripieghi scrive l’apologia del capitalista, in quanto è intraprenditore, cioè lavoratore e direttore; e, mentre si scaglia contro la classe parassitaria e contro il commercio ingannatore, postula un’etica la quale insegni a ciascuno la parte del suo dovere. Si compiace, da ultimo, che Marx abbia scoverta l’importanza sociale dei lavoratori minuti; sebbene sia caduto in quel discreto numero di spropositi, che il nostro autore va notando; come a dire, p. es., la riduzione del lavoro complicato al lavoro semplice, e soprattutto la strana opinione di credere alle lotte di classe, mentre non c’è che lotta tra gli individui. Ma se è cosa così facile il ridurre in polvere il materialismo storico, ma se le lotte di classe in quanto principio di dinamica storica non sono che la erronea generalizzazione di fatti male intesi, ma se l’aspettazione del comunismo è affatto utopistica, ma se le dottrine del Capitale sono di così patente erroneità, ma se tutti i fondamenti sono oramai distrutti, perché l’A. s’affanna poi a scrivere altre duecento pagine sul diritto, su l’etica, su la religione e così via, ossia su quei sistemi che chiama ideologici? A me sarebbe bastato, p. es., ciò che è detto a pp. 509-519, in una specie di pausa interposta alla rete fitta dei paragrafi, come per venire ad una certa maniera di giudizio finale, al quale poi, per difetto di stile, manca pur troppo la concentrazione del pensiero nella concisione degli enunciati. In questo tentato riassunto è come raccolta la caratteristica del marxismo, la qual cosa dà maggior risalto alla tesi dell’autore. – Marx (questo è il succo della caratteristica), segna l’estremo limite della reazione contro il subiettivismo, in quanto che per lui la natura è il prius e la coscienza non è che resultato, dunque obiettivismo positivo assoluto; per lui la storia è l’antecedente e l’individuo è il conseguente, dunque negazione assoluta dell’individualismo. La questione della conoscenza è puramente pratica. Tra natura dell’uomo e storia umana c’è perfetta equazione. Non c’è altra fonte di conoscenza dell’uomo, da quella in fuori che ci offre la storia. L’uomo è tutto in ciò che l’uomo fa. Di qui il fondamento economico di tutto il resto. Di qui il

lavoro come filo conduttore della storia. Di qui la persuasione, che le varie forme sociali non siano, se non le forme varie della organizzazione del lavoro. Di qui la veduta del socialismo non più come di semplice aspirazione o aspettazione. Di qui il concetto del comunismo, non come di semplice sistema di rapporti economici, ma come di una innovazione di tutta la coscienza, oltre i limiti di tutte le presenti illusioni, e nell’assetto dell’umanesimo positivo. – Ma cotesto estremo obiettivismo s’infrange ora nel ritorno a Kant, ossia nel criticismo. Marx fu incompleto. Non seppe superare Hegel, non trovò l’espressione adeguata delle sue tendenze, ricadde nella romantica di Rousseau, invano si provò a districarsi da Ricardo e da Smith, dei quali tentò la critica, e rimase autore di un sistema incompleto. C’è in lui come una tragica filosofica. Fece servire a nuovi ideali le idee già vecchie, non seppe trovare altre molle al rivoluzionarismo, se non negl’impulsi all’edonismo, e per ciò rimase aristocratico ed assolutista nella sua passione rivoluzionaria. – Cotesti tratti, che sarebbero pennellate per chi disponesse della facoltà dello stile, questi tratti, i quali possono farci avvertiti del come corra attraverso tutta la storia una continua gran tragedia del lavoroa, lasciano impassibile il nostro autore nella sua accademica pedanteria. Lui non contrappone concezione a concezione nel rapido sguardo di una nuova interpretazione dei destini umani, ma obietta solo in nome «della missione del nostro tempo a ritrovare una nuova sintesi delle scienze» (p. 513)25. – E qui di nuovo Hume e Kant, e la domanda: che è la verità? E poi si discorre della nuova noetica26, che deve discendere scientificamente alla critica della società. La nuova filosofia deve risolvere il problema della religione, che Marx credette d’aver superato, facendo di quella una forma illusionale. Il pessimismo è la nota dominante del nostro tempo. Schopenhauer s’avvicinò in parte al vero, nel fare della volontà la radice del mondo. Gli fece da pendant Marx con la dottrina unilaterale del lavoro. Il Marxismo ebbe il torto di rimanere negativo. «Il Capitale non è se non la trascrizione economica del Mefistofele del Faust» (sic! a p. 516 – e chi non mi crede vada a riscontrare!)27. Da ultimo sappiamo – se io ho ben capito – che nel ritorno a Kant, e nel declinare dello spirito rivoluzionario verso il parlamentarismo, consiste l’essenziale della crisi; ossia, l’inizio dell’epoca Masaryk nella storia del mondo. Dunque Kant e il parlamento! Ma quale Kant? Quello della privatissima vita privata del signor Philister di Königsberg?28 – o quell’altro autore rivoluzionario di scritti sovversivi, che parve ad Heine un altro degli eroi della grande rivoluzione?29 E quale parlamento di ordinaria e consuetudinaria fattura è chiamato a trasformare la storia? Diremo allora Kant e la Convenzione: – ma

questa succedette alla rivoluzione, cioè allo sgretolamento di tutto un sistema sociale, alla rovina di tutto un ordinamento politico, allo scatenamento di tutte le passioni di classe… e basta. Il signor Masaryk, come professionista di sociologia accademica, ha il diritto di ignorare quella storia viva, agitata, impulsiva, passionata che piace a quegli altri mortali, i quali hanno il senso simpatetico della realtà umana; e può perciò comodamente adagiarsi nella persuasione che il periodo delle rivoluzioni è oramai sorpassato per sempre, e che siamo definitivamente entrati in quello delle lente evoluzioni, anzi nell’idillio della quieta e rassegnata ragione. E torniamo pure al suo casellario. La scorsa su la dottrina dello stato e del diritto (pp. 387-426) è rivolta principalmente a combattere la veduta secondo la quale quello e questo sono come delle formazioni secondarie e derivate per rispetto alla società in genere. Lo stato esiste dalle origini della evoluzione, ed esisterà sempre per ragioni che l’intelletto e la morale approvano (p. 405); e poi l’uomo «per naturale disposizione sua non solo comanda volentieri, ma si lascia anche comandare, e volentieri obbedisce»30. Le disuguaglianze naturali legittimano la gerarchia (pagina 406). E sta bene! Ma dato ciò, perché affannarsi poi a dimostrare, che il diritto non è derivabile dalle condizioni economiche; a che pro spendere del tempo a combattere le dottrine egalitarie dell’Engels, e perché appellarsi alla solenne autorità del Bernstein (pagina 409), che avrebbe rimesso in onore lo stato (figurarsi, proprio in un articolo della «Neue Zeit»!)31, come quella tal cosa che i socialisti non voglion più abolire, ma soltanto e semplicemente riformare? Ma gli è tanto facile di trovarsi d’accordo col volgare senso comune, il quale non si rifiuta di ammettere, precisamente come fa il nostro signor Masaryk, che vi sono disuguaglianze giuste e di quelle ingiuste (sic!). Magari ci desse lui la misura giusta! Passo sopra al capitolo intitolato nazionalità ed internazionalità (pp. 426-454) – dove l’A., oltre a mostrarsi indignato per la slavofobia di Marx, fa delle utili osservazioni su quegl’impedimenti all’internazionalismo, i quali nascono spontanei dallo spirito nazionale – per fermarmi un poco su gl’insigni paradossi che pronuncia a proposito della religione (pp. 455-481). Qui ci si rivela qual vero decadente. Cattolicesimo e protestantesimo sono ancora fatti arcivivi, e decisivi inoltre sulle sorti del mondo! Anzi noi tutti siamo, o l’una cosa, o l’altra. Anzi tutta la filosofia moderna è protestante, e non c’è filosofia cattolica se non per nefas (e il vostro Comte?). In Marx c’è un elemento cattolico, non solo per aver egli adottato il socialismo francese, il quale è cattolico e repugna alla coscienza protestante, ma perché fu autoritario, nemico della individualità,

internazionalista e seguace dell’obiettivismo assoluto (p. 476). Come la Rivoluzione Francese fu in gran parte un movimento religioso, così un che di religioso è implicito a tutto il socialismo contemporaneo. Qua e là s’accenna all’idea, che protestantesimo e cattolicesimo in un certo modo reciprocamente si completino; – e può darsi che l’A. pensi che si prepari ora nel socialismo la religione dell’avvenire, attesoché «la fede sia il più alto obiettivismo dell’uomo normale, e perciò ipso facto sociale; – ma l’obiettivismo di Marx è troppo bilioso» (p. 480)32. Se la religione è perenne, se lo stato è immortale, se il diritto è naturale, figurarsi poi se l’etica (pp. 482-500) non debba essere supereterna. L’A. rivendica alla coscienza morale il carattere del dato indiscutibile ed immediato. Non mi soffermo a dichiarare come qualmente non occorra di essere né materialisti della storia, né materialisti semplici, per relegare tra le fiabe cotesta opinione infantile; e faccio perciò grazia all’A. delle citazioni degli articoli di riviste, nei quali i Bernstein, gli Schmidt e simili socialisti avrebbero rivendicate le ragioni dell’etica contro l’amoralismo di Marx (p. 497)33. Taccio del socialismo per rispetto all’arte (pp. 500-508). Per tutte coteste ragioni, leggendo ciò che l’A. scrive nella quinta sezione (pp. 520-585) intorno alla politica pratica del socialismo, trattandone in due capi, intitolati l’uno rivoluzione e riforma, e l’altro Marxismo e parlamentarismo, ci si trova in presenza di un artefatto dottrinale della più bella specie verbalistica. Che il socialismo siasi venuto sviluppando, in questi ultimi cinquanta anni, dalla setta al partito, è cosa abbastanza nota. Che il comunismo imperativo e categorico di una volta, sia divenuto la democrazia sociale, gli è altrettanto risaputo. Che i partiti socialistici spieghino presentemente un’azione pratica varia e circostanziata, come gli è un fatto storico, gli è anche da parte loro come un fare la storia. Che in tutte coteste cose si commettano degli errori, e ci siano delle pratiche incertezze, gli è un fatto umanamente inevitabile: ma gli è anche vero, che, per intenderle coteste cose, bisogna pur viverci dentro, e con occhio e con senso da storico osservatore. E che fa il sig. Masaryk? Ma lui non vede che categoremi; – ed ecco come il passaggio è tutto dal rivoluzionarismo sistematico alla negazione della possibilità di qualsiasi rivoluzione, dal romanticismo all’esperienza, dall’aristocrazia rivoluzionaria all’etica democratica, dall’imperativo categorico all’empirismo, dall’obiettivismo puro all’autocriticità, dal Titanismo al non so che cosa, ma si sa solo che «Faust-Marx diventa elettore» (p. 562)34. Fortunati voi elettori socialistici che completate Goethe! – E poi ecco qui uno specioso metodo: assumere la persona di Marx (del quale non so perché l’A. dica d’ignorare la biografia! p. 517) come indefinitamente

prolungata attraverso tutti gli atti e tutte le manifestazioni dei partiti e della stampa socialistica, e metter poi a carico del Marxismo del sig. Carlo Marx, come fossero i ravvedimenti e pentimenti suoi proprii, le parole e gli atti di tutti gli altri. Ma pare che la Nemesi sia giunta – perché quel benedetto Marx volle essere troppo diverse cose ad un tempo stesso, e cioè filosofo tedesco e rivoluzionario latino, protestante e cattolico, – e la vendetta del protestantesimo è poi venuta (p. 566), cosicché gli è qui il definitivo motto della crisi, gli è qui il senso schietto del nuovo 9 Termidoro di Massimiliano Carlo Robespierre Marx. Non varrebbe la pena di seguire l’A. là dove va racimolando in tutta la stampa socialistica, e negli atti dei partiti, le prove della dissoluzione del Marxismo per opera dei marxisti, che sarebbero come un Marx prolungato. La tesi è che il socialismo diventa costituzionale. Per la tesi tutto è buono, anche l’invocare la testimonianza di E. Ferri35, il quale avrebbe detto, non so veramente dove, che la repubblica è un privato interesse dei partiti borghesi. Dunque niente repubblica! E la speranza dell’A. è questa, «che, perdendo il socialismo i caratteri acuti dell’ateismo, del materialismo e del rivoluzionarismo, si venga in fin delle fini ad un verace democratismo, il quale acquisti le proporzioni di una universale concezione della vita e del mondo. La politica di così fatto democratismo sarebbe la vera politica della vita e del mondo, una politica sub specie aeternitatis» (p. 585)36. Ed io, per parte mia, confesso di non capirci nulla. Ho seguito, con insolita premura e pazienza, – stante che il genere delle mie occupazioni mi tolga il modo di leggere un solo libro tutto d’un fiato – le 600 pagine del sig. Masaryk. Ne ebbi una viva curiosità al primo annunzio. S’era tanto parlato e sparlato di crisi del Marxismo da così gran numero di persone di media ed infima, e, quasi sempre, incongrua coltura, che mi parve ci dovesse esser molto da apprendere dall’opus magnum dell’autore della nuova parola d’ordine della scienza sociale. La delusione che n’ho provata resulta da ciò che son venuto fin qui notando. Certo che il sig. Masaryk non ha niente che vedere con le varie specie di professionale ignoranza e di audace gherminelleria, le quali han fatto fiorire, in poco d’ora, tanti critici definitivi del socialismo in questo nostro felice paese, ove vegetano tante sorti di anarchismo morale ed intellettuale. Non c’è di comune tra l’autore di cui mi occupo e cotesta così detta crisi del marxismo in Italia, niente altro dall’etichetta in fuori, e cotesta etichetta è giunta da noi certamente per via della stampa francese. L’onesto e modesto intento del Masaryk fu soltanto quello di recitare l’elogio funebre del Marxismo, proprio in nome di un’altra filosofia. La materia da criticare l’ha raccolta in note di paziente e minuta elaborazione; e in nome di che

e a quale intento la critica sia stata poi da lui condotta, apparisce chiaro da tutto il contesto, e perfino dal tono dimesso ed equanime. La questione sociale è un dato – il socialismo è anch’esso un dato – socialismo e Marxismo oramai fanno uno (l’autore ripete ciò più volte, e mi pare che sbagli di grosso), ma la questione sociale deve avere soluzioni diverse da quelle aspettate dal socialismomarxismo; dunque ritocchiamo, rifacciamo, sconvolgiamo la Weltanschauung, che sta a base del Marxismo, e giacché gli stessi marxisti, o quasi, ne ridiscutono, entriamo da arbitri nella crisi. Ciò che il Masaryk, proprio lui, veramente voglia in pratica, lo sapremo forse meglio un’altra volta; ed io confesso, che, per parte mia, non mi struggo dal desiderio di saperlo. Ma questa lettura mi ha fatto ripensare a tutto un secolo di storia delle idee. Il Positivismo, dalle sue origini è stato sempre alle calcagna del socialismo. Ideologicamente le due cose nacquero, quasi a un tempo, nella mente indistintamente geniale di Saint-Simon. Furono come il complemento, per antitesi, dei principii della Rivoluzione. La opposizione fra i due termini si venne svolgendo nella variopinta discendenza Saint-Simoniana; e a un certo punto il Comte divenne il rappresentante della reazione (aristocratica, direbbe il Masaryk), che dispensa agli uomini, nel quadro fisso del sistema, il posto e la destinazione, in nome della scienza classificativa ed onnisciente. A misura che il socialismo è diventato la coscienza della lotta di classe per entro all’orbita della produzione capitalistica, e a misura che la sociologia, più volte mal tentata, s’è venuta consolidando nel materialismo storico, il Positivismo, da erede infedele dello spirito rivoluzionario s’è chiuso nell’orgoglio della sovraeminente classificazione delle scienze, che disprezza il concetto materialistico della scienza stessa, come di cosa mutabilmente consona al variare delle condizioni pratiche, ossia del lavoro. Masaryk è un uomo troppo modesto per rimettere in iscena il papato scientifico del Comte, ma è abbastanza professore per credere ancora alla Weltanschauung, come a un qualcosa di sovrastante alla questione sociale degli umili lavoratori. Giratela e voltatela quanto e come volete, c’è nel professore un che sempre del prete, che crea l’iddio che poi adora, sia esso il feticcio, o l’ostia consacrata. E ora possiamo dire d’aver capito. Avrei la tentazione di citare qui alcuni luoghi dei miei scritti, dai quali resulterebbe chiaro in che stia il divario tra la critica e la crisi. Ma al punto dove son giunto mi pare che basti. Come la politica non può essere se non la interpretazione pratica e fattiva di un dato momento storico, oggi appunto il socialismo ha innanzi a sé – parlo così

per le generali, e senza tener conto delle differenze che corrono fra i diversi paesi – questo problema veramente intricato e difficile: che esso, cioè, mentre deve rifuggire dal perdersi nei vani tentativi di una romantica riproduzione del rivoluzionarismo tradizionale (ossia, direbbe, Masaryk, deve rifuggire dalla ideologia!), deve anche guardarsi nello stesso tempo da quei modi di adattamento e di acquiescenza, che, per le vie delle transazioni, lo farebbero come sparire nell’elastico meccanismo del mondo borghese. Gli è il desiderio, la aspettazione, la speranza di tale acquiescenza da parte del socialismo, che hanno indotto di recente tanti e tanti portavoce dell’ordine sociale presente a dare una straordinaria importanza alle ovvie polemiche letterarie del partito, e così gran peso al modesto libro del Bernstein, che fu elevato di botto agli onori di un sintomo storicoa. In questo fatto è la caratteristica e la condanna, ad un tempo, così di quel libro, come di tante altre manifestazioni affini: ma il sig. Masaryk in tutto ciò non c’entra per nulla. Il Masaryk, da professore in esercizio, ha fatto della filologia attraverso alla carta stampata. Roma, 18 Giugno 1899 a

Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus – Studien zur socialen Frage, von TH. G. MASARYK, Professor an der böhmischen Universität Prag, Wien, C. Konegen, pp. XV e 600, in8° gr.2. b Questa polemica apparve nel fasc. III dell’anno III (1899). a

Die wissenschaftliche und philosophische Krise innerhalb des gegenwärtigen Marxismus, Wien, 1898,

p. 244. b Ivi, a p. 24. – La medesima dichiarazione è ora ampiamente ripetuta nella chiusa del libro, e specie alle pp. 591-92. Un’altra piccola nota alla fortuna delle parole! La crisi per entro è diventata la crise du Marxisme nella traduzione francese di quell’opuscolo, fatta da Bugiel, Paris 1898 (estratto dalla «Revue internationale de sociologie», fasc. del Luglio)5. a Ossia nei numeri 239 e 240 del 29 Aprile e 6 Maggio 1899 della «Zeit» di Vienna9. E così avea anche fatto nell’Ottobre dell’anno scorso, a proposito del messaggio del Bernstein al Congresso di Stuttgart10. a

Mi permetto qui di rimandare al mio Discorrendo, etc., lettera nona24. a A proposito del libro del Bernstein conf. il mio articolo nel Mouvement Socialiste, fasc. del Maggio 189937.

III

DISCORRENDO DI SOCIALISMO E DI FILOSOFIA SECONDA EDIZIONE RITOCCATA ED AMPLIATA [1902]

«Ich bin des trocknen Tons nun satt, Muss wieder recht den Teufel spielen»1. «Mi parrebbe di far cosa poco men che assurda, se premettessi alla stampa di queste lettere delle parole di introduzione. Perché vengano alla luce, nella forma di un volumetto, è spiegato nell’ultima. Noto qui soltanto, che queste pagine recano un qualche complemento, e aggiungono una certa chiarezza ai miei due saggi intitolati: In memoria del Manifesto dei Comunisti; e Del Materialismo Storico – Dilucidazione Preliminare. A quei due saggi io portai qualche lieve correzione, e feci qualche piccola aggiunta, ma solo in pochi punti, nella edizione francese apparsa quest’anno. Eccone il titolo: Essais sur la Conception Matérialiste de l’Histoire, par Antonio Labriola; avec Préface de G. Sorel, Paris 1897, chez V. Giard et E. Brière». Con così breve Avvertenza apparve – e precisamente il 6 Dicembre 1897 – la prima edizione italiana di questa raccolta di lettere, che ora io ristampo con alcune modificazioni nel testo e nelle note, che son quasi tutte ripigliate dall’edizione francese venuta fuori nel 1899. Se non che, tra quelle due edizioni, e ossia tra il 1897 e il 1899, accadde che il signor Sorel, al quale queste lettere furono indirizzate, e il mio amico Croce che m’incoraggiò a pubblicarle2, portassero di tali critiche alle dottrine del materialismo storico, che io mi credetti in obbligo di risponder loro con le aggiunte che introdussi, così in fine come in principio, dell’edizione francese appunto. Quelle aggiunte ora io riporto qui in Appendice (I e II). Roma, 30 maggio 1902 ANTONIO LABRIOLA

I Roma, 20 Aprile ’97 Caro signor Sorel, Da un pezzo vo pensando d’intrattenermi con voi in una specie di conversazione per iscritto. Sarà questo il modo migliore, e il più acconcio, onde io v’attesti la mia gratitudine per la Prefazione, della quale mi avete onorato. Va da sé, che, così dicendo, io non mi fermo con la mente a ricordare soltanto le parole cortesi, delle quali mi siete stato prodigo con tanta profusione. A quelle parole io non potevo non risponder subito, e sdebitarmene nella forma della lettera privata. Né ora sarebbe più il caso, che io mi andassi diffondendo con voi in complimenti; proprio in lettere, le quali, o a voi, o a me, potrà parere più in là opportuno di pubblicare. Che varrebbe, del resto, che io venissi ora a far proteste di modestia, schermendomi dalle vostre lodi? Voi mi avete oramai costretto a rinunciare a tali sforzi. Che i miei due saggi, appena rudimentali, di materialismo storico corrano in Francia nella forma di un quasi libro, ciò è tutto merito vostro; per averli voi messi e presentati al pubblico in tale assisa. Non fu mai nelle inclinazioni mie di faire le livre, secondo il senso che voi Francesi, ammiratori e seguaci sempre della classicità letteraria, date a cotesta espressione. Sono io, anzi, di quelli i quali vedono in cotesto continuarsi del culto per la forma classica una specie d’impaccio – come sarebbe di un abito che mal s’attagli alla persona – alla espressione propria, adeguata e conveniente dei resultati del pensiero rigorosamente scientifico. Passando, dunque, sopra a tutti i complimenti, intendo di rifarmi su le cose che voi dite in quella Prefazione; e di tornarci su per discuterne liberamente, senza star proprio ad aver lì innanzi alla mente il disegno o il prospetto di una meditata monografia. Scelgo la forma delle lettere, perché solo in queste un procedere interrotto, spezzato e a volte saltuario, che ritragga quasi quasi la conversazione, non par cosa impropria ed incongrua. Non me la sentirei, in verità, di scrivere tante dissertazioni, memorie od articoli, quanti ne occorrerebbe per rispondere alle molte domande che voi movete, alle molte questioni che voi ponete a voi stesso, in così breve giro di pagine, come chi dubitando e dubbiosamente pensia. Scrivendo, direi quasi, come vien viene, non intendo però di sottrarmi alle responsabilità di ciò che mi verrà di dire, e andrò dicendo; ma voglio come

prosciogliermi dai doveri di prosa serrata e legata, che son proprii del discorrere e del dissertare a tesi. Oramai non c’è dottorucolo al mondo, il quale, per minuscolo che ei si sia, non creda di monumentarsi innanzi ai presenti e innanzi ai posteri, ove riesca a consacrare in pesante opuscolo, o in dotta ed involuta disquisizione, uno di quei tanti pensieri o di quelle tante osservazioni, che nella viva conversazione, o nell’insegnamento che sia retto da indubbia virtuosità didattica, tornan sempre di più intuitiva efficacia, per la naturale dialettica, che è propria di chi sia in atto di cercare da sé, o d’insinuare per la prima volta negli altri, la verità. Ma già, si sa: – in questa fin di secolo, tutta business, tutta faccende, tutta affari e tutta merci, il pensiero non si presta a circolar per il mondo, se non fissato e fermato anch’esso nella riverita forma di merce, cui faccia compagnia la fattura del libraio, e giri attorno, da agile messaggiera di sincerissime lodi, la onesta réclame editoriale. Forse nella società dell’avvenire, in quella nella quale noi c’infuturiamo con le nostre speranze, e assai più con certe illusioni, che non sempre son frutto di una ben plasmata fantasia, cresceranno a dismisura, da parer legione, gli uomini atti a discorrere con la divina gioia della ricerca e con l’eroico coraggio della verità, che ora ammiriamo in Platone, in Bruno, in Galilei, e si moltiplicheranno in infiniti esemplari i Diderot capaci di scrivere le profonde capestrerie di Jacques le Fataliste3, che per ora abbiamo la debolezza di credere insuperate. Nella società dell’avvenire, nella quale l’ozio, ragionevolmente cresciuto per tutti, darà a tutti, con le condizioni della libertà, i mezzi per civilizzarsi, le droit à la paresse – la felicissima trovata del nostro Lafargue4 – farà spuntare ad ogni angolo di strada dei perditempo di genio, che, come il nostro maestro Socrate, saranno operosissimi di operosità non messa a mercede. Ma ora… in questo mondo, nel quale solo i matti da manicomio hanno le traveggole del prossimo millennio, molti sfaccendati sfruttano, come per proprio diritto e professione, la pubblica stima coi loro ozii letterarii… e lo stesso socialismo non può a meno di accogliere nel suo seno una discreta frotta, non che di sfaccendati, di faccendoni e di faccendieri. E così, quasi celiando, mi avvicino all’argomento. Voi lamentate la poca diffusione che ha avuto fino ad ora in Francia la dottrina del materialismo storico. Anzi lamentate, che a tale diffusione mettano ostacolo e oppongano resistenza i pregiudizii derivanti dalla boria nazionale, le pretese letterarie di alcuni, l’albagia filosofica di altri, la maledetta voglia del parere senza essere, e da ultimo, poi, lo scarso avviamento intellettuale, e i molti difetti che si riscontrano anche in certi socialisti. Ma tutte coteste cose non sono da considerare come dei meri accidenti! Vanità, orgoglio, desiderio di parere

senz’essere, iomania, megalomania, voglia e smania di prevalere, tutte queste ed altre passioni e virtù dell’uomo civile non son certo le bagattelle della vita, anzi assai più spesso possono parere come la sostanza e il nerbo di questa. Si sa che la chiesa non è riuscita, il più delle volte, a suggestionare gli animi cristiani ad umiltà, se non facendo di questa nuovo titolo a novello e rincalzato orgoglio. E via… cotesto materialismo storico esige, da chi voglia consapevolmente e schiettamente professarlo, una certa curiosa maniera di umiltà: che, cioè dire, nell’atto che ci sentiamo legati al corso delle cose umane, e di questo studiamo le complicate linee e le tortuose pieghe, ci tocchi pur di essere insiememente e medesimamente, non già rassegnati ed acquiescenti, ma anzi operosi di conscia e ragionevole opera. Ma… venire al punto da confessare a noi stessi, che il nostro proprio io individuo, al quale ci sentiamo così strettamente legati da un ovvia e casalinga consuetudine, senza esser proprio una mera evanescenza, un nonnulla, come parve agl’invasati teosofi, per grande che esso si sia, o ci paia, è assai piccola cosa nel complicato ingranaggio dei meccanismi sociali: – ma doversi adattare alla persuasione, che i propositi o i conati subiettivi di ciascun di noi dànno quasi sempre di cozzo nelle resistenze dell’intricato intreccio della vita, cosicché, o non lascian traccia di sé, o ne lasciano una affatto difforme dal primitivo intento, perché alterata e trasformata dalle condizioni concomitanti: – ma dover convenire di questo enunciato, che noi siamo come vissuti dalla storia, e che il nostro contributo personale a questa, per quanto indispensabile, è sempre un dato minuscolo nell’incrocio delle forze, che si combinano, completano ed elidono a vicenda: – ma tutte queste vedute sono una vera e propria seccatura, per tutti quelli che han bisogno di confinare l’universo intero nei termini della loro individua visuale! Dunque si serbi alla storia il privilegio degli eroi, perché ai nani non sia tolta la fiducia di potersi mettere a cavallo delle proprie spalle per farsi vedere; anche quando essi, secondo il detto di Jean Paul5, non sian degni di arrivare all’altezza delle proprie ginocchia! E, di fatti, non si va a scuola da secoli, per sentirsi a dire, che Giulio Cesare fondò l’impero, e Carlo Magno lo rifece; che Socrate quasi quasi inventò la logica; e Dante, così a un di presso, creò la letteratura italiana? Gli è da assai poco tempo, che alla immaginazione mitologica degli autori della storia s’è andata sostituendo, e fino ad ora in modi non sempre precisi, la nozione prosaica del processo storico-sociale. La Rivoluzione Francese non l’han voluta e fatta, secondo le varie versioni della inventiva letteraria, i varii santi della leggenda liberalesca; e santi di destra, e santi di sinistra, santi girondini e santi giacobini? Tanto è, che il signor Taine – del quale non ho mai capito come, con la poca rassegnazione che mostra alla cruda necessità dei fatti, si dica che ei fosse un positivista – ha potuto spendere una parte non piccola del suo poderoso ingegno

a dimostrare, come chi scrivesse l’errata-corrige della storia, che tutta quella bagarre potea anche non accadere6. Per buona fortuna loro, la più parte di cotesti vostri santi paesani si onorarono e si coronarono a vicenda, e a tempo debito, del dovuto martirio; ond’è che le regole della classicità tragica rimasero per essi gloriosamente intatte: – se no, chi sa quanti imitatori di Saint-Just (uomo sommo per davvero) non sarebbero finiti fra i manutengoli del turpe Fouché, e quanti complici di Danton (un grande uomo di stato mancato) non avrebbero contesa al Cambacérès la cancelleresca livrea, quando altri molti non si fossero contentati di disputare all’avventuroso Drouet, e a quel bieco commediante del Tallien, i modesti galloni del sottoprefetto7. Insomma, affannarsi ad occupare i primi posti è cosa di rito e di prammatica per tutti quelli, che, avendo imparato la storia di vecchio stile, s’accordano ancora con quel retore di Cicerone nel proclamarla maestra della vita8. E a ciò fare bisogna moraliser le socialisme. La morale non ha forse insegnato per secoli, che bisogna rendere a ciascuno secondo il merito suo? Un tantino di paradiso non volete serbarcelo? – mi pare di sentire a dire; – e se anche s’ha da rinunciare al paradiso dei credenti e dei teologi, non ci si ha da serbare un po’ di pagana apoteosi in questo mondo? Non barattiamo, dunque, tutta la morale degli onesti compensi: – almeno una buona poltrona, od un palco di prima fila, nel teatro delle vanità! Ed ecco perché le rivoluzioni, per tante altre ragioni necessarie ed inevitabili, anche per questo rispetto sono utili e desiderabili: perché, a guisa di grossa scopa, spazzano dal terreno i primi occupanti, o per lo meno rendono l’aere più respirabile, come accade dei temporali per cresciuto ozono. Non dite voi forse, e assai giustamente, che tutta la questione pratica del socialismo (e per pratica intendete, senza alcun dubbio, quella che piglia lume dai dati intellettuali di una coscienza rischiarata dal sapere teoretico) si riduce e compendia in questi tre punti: a) il proletariato ha esso di già raggiunta la coscienza chiara della sua esistenza come classe indivisibile? b) ha esso tanta forza da poter entrare in lotta con le altre classi? c) è esso in grado di rovesciare, insieme con la organizzazione capitalistica, tutto il sistema della ideologia tradizionale?9 E sta benissimo! Ora il proletariato che arrivi a conoscere perspicuamente ciò che esso può, ossia che s’avvii a saper volere ciò che può: – quel proletariato, insomma, che si metta in carreggiata per riuscire a risolvere (qui uso il gergo un po’ sciatto dei pubblicisti) la così detta questione sociale, quel proletariato dovrà proporsi di eliminare, fra le altre forme di sfruttamento del prossimo, eziandio questa della

vanagloria e della presunzione, e della singolare concorrenza che c’è tra coloro, che s’inscrivono da sé sul libro d’oro dei benemeriti della umanità. Anche quel libro va messo in falò, con tanti altri che han titolo di libri del debito pubblico. Ma per ora sarebbe opera vana il provarsi a fare intendere, a tanti e tanti di costoro, questo principio schietto di etica comunistica: che, cioè, la gratitudine e l’ammirazione conviene aspettarsele come doni spontanei dal prossimo nostro; – né molti di costoro si tratterrebbero dal mettere le mani avanti, per sentirsi a ripetere, in nome di Baruch Spinoza, che la virtù è premio a sé stessa. En attendant, dunque, che in una società migliore della nostra non rimangano altri oggetti all’ammirazione degli uomini, se non quelli degnissimi – che so dire? –, p. es. le linee del Partenone, i quadri di Raffaello, i versi di Dante e di Goethe, e quanto di utile, di certo, di definitivamente acquisito presenti la scienza, non ci è dato per ora d’impedire a quanti abbiano fiato da spendere, e carta stampata da mettere in circolazione, di pavoneggiarsi in nome di tante e tante belle cose – umanità, giustizia sociale e simili – e anche in nome del socialismo, come accade specie a quelli che s’inscrivono da concorrenti a l’ordre pour le mérite e alla legion d’onore10, della futura, ma non molto prossima, rivoluzione proletaria. Figurarsi se costoro non dovessero subodorare nel materialismo storico la satira di tutte le loro vuote arroganze e futili ambizioni, e non avessero da avere in uggia questa nuova specie di panteismo, dal quale, con licenza parlando, è sparito – appunto perché esso è ultraprosaico – perfino il riverito nome di dio. Una grave circostanza è qui da aggiungere. In tutte le parti dell’Europa civile gl’ingegni – veri o falsi che si siano – han molti e molti modi di occuparsi nei servizii dello stato, e in tutto ciò che di proficuo e di onorifico può loro offrire la borghesia; la quale, per dir vero, non è tanto prossima a tirar le cuoia, come si danno ad intendere alcuni allegri facitori di strampalate profezie. Non è dunque da meravigliare che Engels (p. IV della prefazione al III vol. del Capitale – notate bene – in data del 4 ottobre 1894) scrivesse così: «Come nel secolo XVI, così nel nostro tempo tanto agitato, non vi ha nel campo degl’interessi pubblici dei puri teorici se non dal lato della reazione»11. Queste parole, per quanto chiare altrettanto gravi, basterebbero da sole a turar la bocca a quelli che vanno sbraitando, esser già tutta l’intelligenza passata dalla parte nostra, e che la borghesia abbassi oramai le armi. Il vero è precisamente il contrario: nelle nostre file c’è da per tutto scarsezza di forze intellettuali, per quanto gli operai genuini, per ispiegabile sospetto, spesso strepitino qua e là contro i parleurs e lettrés del partito. Non c’è dunque da inarcar le ciglia, se il materialismo storico sia così poco progredito dalle prime e generali enunciazioni. E volendo pur passar sopra

a quelli che ne han fatto argomento di semplici ripetizioni o di travestimenti, che qualche volta rasentano il burlesco, ci tocca di confessare, che nella somma di tutto ciò che se n’è scritto di serio, di congruo e di corretto, non c’è ancora l’insieme di una dottrina uscita già dallo stadio della prima formazione. Non è chi oserebbe fra noi di far confronti col Darwinismo, che in poco men di quarant’anni ha avuto tale e tanto sviluppo intensivo ed estensivo, che oramai, per la copia dei materiali, per la molteplicità dei riattacchi ad altri studii, per le varie correzioni metodiche e per la interminabile critica sortavi dentro e dattorno, quella dottrina ha già una storia gigantesca. Tutti quelli che son fuori del socialismo ebbero ed hanno interesse a combattere, a svisare, o per lo meno ad ignorare questa nuova dottrina; e ai socialisti, e per le ragioni dette e per altre molte, non è stato dato di spenderci attorno il tempo, le cure e gli studii che occorrono, perché un indirizzo mentale acquisti ampiezza di sviluppi e maturità di scuola, come accade delle discipline, che protette, o per lo meno non combattute dal mondo ufficiale, crescono e prosperano per la cooperazione assidua di molti collaboratori. La diagnosi del male non è una mezza consolazione? Non usano forse così ora con gli ammalati i medici, dacché divennero, come sono di fatti al presente, più ispirati nella pratica terapeutica al sentimento scientifico dei problemi della vita? Al postutto, dei varii effetti che il materialismo storico può produrre, alcuni soltanto si prestano a raggiungere un grado notevole di popolarità. Di certo, con l’aiuto di tale nuova orientazione dottrinale, si riuscirà a scrivere dei libri di storia meno inconcludenti di quelli che di solito scrivono i letterati addestrati a cotesta arte coi soli mezzi della filologia e della erudizione. E, passando sopra alla consapevolezza che i socialisti d’azione possono ritrarre dall’analisi accurata del terreno su cui lavorano, non c’è dubbio che il materialismo storico, o per diretto o per indiretto, ha già esercitato su molte menti un grande influsso, e ne eserciterà col tempo uno ancor maggiore, per quanto si attiene agli studii veri e proprii di storia economica, e a quelli di interpretazione prammatica dei moventi e delle ragioni intime, e per ciò più remote, di una determinata politica. Ma tutta la dottrina nel suo intimo, o nel suo insieme, tutta la dottrina, intendo dire, insomma, come filosofia – e adopero questa parola con molta apprensione di poter esser frainteso, ma non ne saprei trovare di altra, e, se scrivessi in tedesco, direi più volentieri Lebens-und Weltanschauung, ossia concezione generale della vita e del mondo – non mi pare che possa entrare tra gli articoli della coltura popolare. Oltre che ad apprendere cotesta filosofia occorre un discreto sforzo di menti già addestrate alle difficoltà e alla combinatoria del pensiero; il maneggiarla, poi, può esporre gl’ingegni troppo facili e troppo correnti alle

comode conclusioni a spropositare di santa ragione; e noi non vorremmo renderci, né promotori, né complici di tal nuova ciarlataneria letteraria.

II Roma, 24 Aprile ’97 Ed ora permettetemi di passare alla considerazione di certe cose prosaicamente piccole, ma che, come assai spesso accade delle cose piccole nelle faccende grosse del mondo, hanno assai peso nel fatto nostro. Gli scritti di Marx e di Engels – tanto per tornare a loro, che sono principalmente in causa – furon essi mai letti per intero da nessuno, il quale si trovasse fuori della schiera dei prossimi amici ed adepti, e quindi, dei seguaci e degl’interpreti diretti degli autori stessi? Furono mai quegli scritti fatti tutti oggetto di commento e di illustrazione, da gente che si trovasse fuori del campo, che s’è formato intorno alla tradizione della deutsche Socialdemokratie; nella quale impresa di lavoro applicativo ed esplicativo ha per anni primeggiato soprattutto la «Neue Zeit»12, magazzino indispensabile delle dottrine del partito? Intorno a quegli scritti, in brevi parole, non si è formato, fuori che in Germania, ed anche ivi assai parzialmente, e qualche volta con modi non pienamente critici, ciò che i neologisti chiamano ambiente letterario. E poi la rarità di molti di quegli scritti, e anzi la irreperibilità di alcuni di essi! C’è molta gente al mondo, che abbia la pazienza di mettersi per degli anni, come toccò a me, alla ricerca di un esemplare della Misère de la Philosophie, che fu solo assai di recente ristampata a Parigi, o di quel singolare libro che è la Heilige Familie; e che sia disposta a durar più fatica per avere a disposizione un esemplare della «Neue Rheinische Zeitung», di quella non tocchi, in condizioni ordinarie, a qualunque filologo o storico presentemente per leggere e studiare tutti i documenti dell’antico Egitto?13 A me, che pure ho una certa pratica alquanto notevole dei libri e del modo di ricercarli, non è toccata mai briga più fastidiosa di cotesta. Il leggere tutti gli scritti dei fondatori del socialismo scientifico è parso fino ad ora come un privilegio da iniziati!a. Che maraviglia, dunque, se fuori della Germania, e quindi anche in Francia, e anzi in Francia segnatamente, molti e molti scrittori, e specie fra i pubblicisti, abbiano avuto la tentazione di ritrarre, o da critiche di avversarii, o da citazioni incidentali, o da frettolose illazioni ricavate da brani speciali, o da vaghi ricordi, gli elementi per foggiarsi un Marxismo di loro invenzione e maniera? Tanto più, poi, che, col sorgere in Francia ed in Italia di partiti socialistici, che dal più al meno sono in voce di rappresentare una esplicazione del Marxismo, il che pare a me invero designazione inesatta, ai letterati d’ogni maniera si offerse la comoda

opportunità di credere o di far credere, che in ogni discorso di propagandista o di deputato, in ogni enunciato di programma, in ogni articolo di giornale, in ogni atto di partito, ci fosse come l’autentica e ortodossa rivelazione della nuova dottrina, esplicantesi nella nuova chiesa. Alla Camera Francese non si fu due anni fa quasi quasi sul punto di discutere della dottrina del valore di Marx… come se fossimo a Bisanzio15? E che dirvi di tanti professori italiani, che han citato e discusso per anni libri ed opuscoli, che notoriamente non eran mai giunti in questi nostri paraggi; e specie dappoi che il signor Giorgio Adlera scrisse quei suoi due libri alquanto superficiali e alquanto inconcludenti, nei quali però egli offerse ai ricercatori di comoda erudizione e ai facitori di plagio i facili tesori della bibliografia e delle copiose citazioni: perché, a dir vero, quel signor Adler ha molto letto come ha molto peccato. Il materialismo storico, che poi in un certo senso è tutto il Marxismo, prima che entrasse nell’ambiente critico letterario degli atti a svolgerlo e continuarlo, è passato qui, fra noi popoli di lingue neolatine, attraverso ad una infinità di equivoci, di malintesi, di alterazioni grottesche, di strani travestimenti e di gratuite invenzioni: tutte cose coteste, che nessuno vorrà mettere a carico della storia del socialismo, ma che, in tutti i modi, non poteano non tornare d’impaccio ai volenterosi di farsi una coltura socialistica, specie se son persone che escano dalle file degli studiosi di professione. Voi sapete la fantastica storiella del biondo Marx inauguratore della Internazionale a Napoli nel 1867, che fu raccontata dal Croce nel «Devenir Social»17. Io di quelle storielle potrei narrarvene parecchie. Che dirvi dello studente corso anni fa a casa mia a vedere, una volta almeno de visu, la famigerata Misère de la Philosophie! Rimase sbalordito: «dunque – diceva – è un libro serio di economia politica?» – «E oltre che serio – soggiunsi io – di dicitura difficile, e in molti punti oscuro». Non si poteva capacitare. «Vi aspettavate – gli dissi – un poema su gli eroi della soffitta, o un romanzo come quello del giovane povero?18» Per fino quel bisbetico titolo di Heilige Familie (Sacra Famiglia) ha dato ad alcuni occasione di stranamente almanaccare. Singolare ventura di quella coterie di posthegeliani – tra i quali, del resto, era un uomo notevole e di valore, Bruno Bauer19 – che le sia toccato di passare ai posteri nel curioso persiflage che ne fecero i due giovani scrittori!20 E dire che quel libro – che alla più parte dei lettori francesi apparirebbe duro, intricato ed incondito – non è veramente notevole, se non perché ci mostra come Marx ed Engels, liberi già dallo scolasticismo hegeliano, si andassero districando dall’umanitarismo del Feuerbach, e, mentre s’avviavano a quella che fu poi la dottrina loro, fossero ancora in certo tal quale modo intinti di quel socialismo

vero, che più tardi essi stessi volsero in satira nel Manifesto. Ma a canto a queste storielle, tutte da ridere, qui in Italia se n’è svolta una, che veramente non fa ridere: e intendo dire del caso Loria. Proprio in questi ultimi anni, nei quali, tra difficoltà grandissime, s’è andato formando da noi un partito socialistico, che nei programmi e negl’intenti, e, per quanto la condizione del paese lo consente, alla men trista anche nelle opere, risponde alle tendenze del socialismo internazionale, proprio in questi ultimi anni venne in capo a parecchi, o studenti, o quasi ex-studenti, di fare del signor Loria, ora l’autentico autore delle dottrine del socialismo scientifico, ora l’inventore della interpretazione economica della storia, ora tante e tante altre cose diverse, contrarie e contraddittorie; di modo che il Loria, a sua insaputa e senza merito o colpa sua, è passato a un tempo stesso ora per Marx, ora per anti-Marx, ora per vice-, per sopra-, o per sotto-Marx. Anche cotesto equivoco è oramai trapassato: e sia pace alla memoria sua. Da che i Problemi Sociali del signor Loria furono tradotti in francese21, parrà strano a molti dei vostri compaesani, che quello scrittore sia potuto passare, non che per socialista in genere, la quale opinione può parere in fin delle fini atto o segno d’ingenuità, ma anzi per un continuatore e correttore di Marx; il che è veramente sproposito da far rizzare i capelli. Dunque, per tali aneddoti d’intuitiva esemplarità, consolatevi per ciò che riguarda la Francia; perché, non solo è vero, che intra Iliacos muros peccatur et extra22, ma perché, in fin delle fini, nessuno che non appartenga alla categoria di quei folli, che sono i genii incompresi, può non convenire di questo principio: che non si arriva mai tardi al mondo per fare il dover suo. E anzi qui, in questo caso, si arriva tanto poco tardi, che, come Engels mi scriveva poche settimane prima di morire: noi siamo al primo cominciamento ancora! E tanto, perché in questo primo cominciamento sia dato agli studiosi di occuparsi della dottrina in questione con piena cognizion di causa, col minimo d’incomodo e col preciso possesso delle prime fonti, pare a me, che sarebbe dovere del partito tedesco di procurare una edizione completa e critica di tutti gli scritti di Marx e di Engels; una edizione, voglio dire, che sia corredata, caso per caso, di prefazioni dichiarative, di indici di riferimento, di note e di rimandi. Sarebbe già un’opera meritoria il togliere agli antiquarii di libri il modo di esercitare una indecente speculazione – ne so io qualcosa – su le rarissime copie degli scritti più antichi. Agli scritti già apparsi in forma di libri o di opuscoli converrebbe aggiungere gli articoli di giornali, i manifesti, le circolari, i programmi, e tutte quelle lettere, che, per essere di pubblico e di generale interesse, per quanto dirette a privati, hanno importanza politica o scientificaa. A tale impresa non possono mettersi se non i socialisti di lingua tedesca. Non

già che Marx ed Engels appartengano alla Germania soltanto, nel senso patriottico e sciovinistico, che ha per molti la parola di nazionalità. La forma dei loro cervelli, l’andamento delle loro produzioni, l’assetto logico dei loro modi di vedere, il loro senso scientifico e la loro filosofia, furono il portato ed il resultato della coltura tedesca: ma la sostanza di ciò che essi han pensato ed esposto è tutta nelle condizioni sociali, che s’eran svolte fino agli anni più che maturi di loro vita per la massima parte fuori della Germania e segnatamente in quelle della grande rivoluzione economico-politica, che dalla seconda metà del secolo XVIII ebbe base e svolgimento soprattutto in Inghilterra ed in Francia. Essi furono, per ogni rispetto, spiriti internazionali. Ma, nulladimeno, solo fra i socialisti di lingua tedesca si trova, a cominciare dalla Lega dei Comunisti fino al programma di Erfurt24 e fino agli ultimi articoli del cauto, e ponderato Kautsky, quella continuità e persistenza di tradizione, e quel sussidio di costante esperienza, che occorrono, perché l’edizione critica trovi nelle cose stesse e nella memoria degli uomini i dati occorrenti a farla piena e viva. Né si tratta di scegliere. Tutta la operosità scientifica e politica, tutta la produzione letteraria, sia pur essa occasionale, dei due fondatori del socialismo critico, deve esser messa alla portata dei lettori. Non si tratta già di compilare un Corpus juris, né di redigere un Testamentum juxta canonem receptum25; ma di mettere insieme una elaborata raccolta di scritti, perché essi parlino direttamente a chiunque abbia voglia di leggerli. Solo così gli studiosi di altri paesi potranno avere a loro disposizione tutte le fonti; che altrimenti apprese, per via di incerte riproduzioni o di vaghi ricordi, han dato luogo a questo strano fenomeno, che non c’era fino a poco tempo fa quasi scritto alcuno di lingua non tedesca sul Marxismo, che procedesse da una critica documentata; specie se tali scritti uscivano dalla penna degli scrittori di altri partiti rivoluzionarii, o di altre scuole socialistiche. Il caso tipico è quello degli scrittori anarchisti, pei quali, specie in Francia ed in Italia, l’autore del Marxismo pare il più delle volte non sia esistito se non per essere lo staffilatore di Proudhon e l’avversario di Bakunin, quando non divenga il semplice caposcuola di quella che agli occhi loro è la massima delle reità, ossia il rappresentante tipico del socialismo politico, e quindi – o infamia! – anche parlamentare. Tutti cotesti scritti hanno un fondo comune; e questo è il materialismo storico, inteso nel triplice aspetto, di tendenza filosofica nella veduta generale della vita e del mondo, di critica dell’economia, che ha modi di procedimento riducibili in leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica, e di interpretazione della politica, e soprattutto di quella che occorre e giova alla direzione del movimento operaio verso il socialismo. Questi tre aspetti, che qui enumero

astrattamente, come accade sempre per comodo di analisi, faceano uno nella mente degli autori stessi. Perciò quegli scritti, che, tranne il caso dell’Antidühring di Engels e del primo volume del Capitale, non parranno mai ai letterati di tradizione classica come condotti secondo i canoni dell’arte di faire le livre, sono in verità delle monografie, e nella più parte dei casi dei lavori d’occasione. Ossia, sono i frammenti di una scienza e di una politica, che è in continuo divenire; e che altri – e non dico che ciò sia l’affare del primo venuto – deve e può continuare. Per intenderli, dunque, a pieno, bisogna ricollegarli biograficamente; e in tale biografia è come la traccia e l’orma, e a volte l’indice e il riflesso della genesi del socialismo moderno. Chi cotesta genesi non è in grado di seguire, cercherà in quei frammenti ciò che non c’è, e non ci ha da essere: p. es. delle risposte a tutti i quesiti che la scienza storica e la scienza sociale possano mai offrire nella loro vastità e varietà empirica, o una soluzione sommaria dei problemi pratici d’ogni tempo e d’ogni luogo. A proposito ora, p. es. della questione d’Oriente26, nel discutere la quale alcuni socialisti offrono lo spettacolo singolare di una lotta fra l’idiotismo e l’avventataggine, si sente d’ogni parte fare appello al Marxismo!a. Di fatti i dottrinarii e i prosuntuosi d’ogni genere, che han bisogno degl’idoli della mente, i facitori di sistemi classici buoni per l’eternità, i compilatori di manuali e di enciclopedie, cercheranno per torto e per rovescio nel Marxismo ciò che esso non ha mai inteso di offrire a nessuno. Costoro intendono il pensato ed il saputo come cose che esistano materiatamente; ma non intendono il pensare ed il sapere come operosità che siano in fieri. Costoro son metafisici, secondo il senso che Engels attribuisce a cotesta parola, e che, veramente, non è il solo che quella parola abbia o possa avere; secondo il senso, in somma, che Engels le attribuisce per via d’una insistente amplificazione della caratteristica che Hegel applicava agli ontologisti come Wolf e simiglianti. Ma che forse Marx, nello scrivere da pubblicista insuperato, nel periodo di tempo dal 1848-60, i suoi saggi di storia contemporanea e i suoi memorabili articoli di giornale, ebbe mai la pretesa di atteggiarsi a compiuto istoriografo; la qual cosa non gli sarebbe forse riuscito d’esser mai, non essendo questa la vocazione e l’attitudine sua? O che forse Engels, nello scrivere l’Antidühring, che fino all’ora presente è il più compiuto libro di socialismo critico, il quale reca a un di presso tutta quella filosofia che occorre alla intelligenza del socialismo stesso, s’è mai sognato di descriver fondo, nel giro di così breve e squisitissimo lavoro, all’universo scibile, e di segnare in perpetuo i termini della metafisica, della psicologia, dell’etica, della logica e come altro si chiamino, o per ragioni intrinseche di obiettiva partizione, o per ripiego e comodo e vanità

dei professanti l’insegnamento, le sezioni dell’enciclopedia? O che è forse il Capitale una di quelle tante enciclopedie di tutto lo scibile economico, delle quali ora precisamente i professori, specie se tedeschi, van riempiendo il mercato? Quell’opera, per quanto vasta di tre volumi in quattro non piccoli tomi, può parere, a confronto di tali enciclopediche compilazioni, come rassomigliante ad una colossale monografia. Il suo soggetto principalissimo è la origine ed il processo del sopravvalore (nell’orbita, s’intende, della produzione capitalistica), e poi, dopo combinata la produzione con la circolazione del capitale, la spartizione del sopravvalore stesso. Sta come presupposto del tutto la teoria del valore, portata a compimento su la elaborazione che ne avea fatta la scienza economica per un secolo e mezzo: teoria che non rappresenta mai un factum empirico tratto dalla volgare induzione, né esprime una semplice posizione logica, come qualcuno ha almanaccato, ma è la premessa tipica, senza della quale tutto il resto non è pensabile. Le premesse di fatto, ossia il capitale preindustriale e la genesi sociale del salariato, sono i capisaldi della spiegazione storica dell’iniziarsi del capitalismo attuale: – il meccanismo della circolazione, con le sue leggi secondarie e laterali, e da ultimo i fenomeni della distribuzione, guardati nei loro aspetti antitetici e di relativa indipendenza, formano il tramite e le illazioni, attraverso il quale e per le quali, si arriva ai fatti di configurazione concreta, come ce li porge il movimento apparente della vita di tutti i giorni. Il modo di rappresentazione dei fatti e dei processi è generalmente tipico, perché si suppongon sempre come già tutte esistenti in atto le condizioni della produzione capitalistica: ond’è, che le altre forme di produzione vengono illustrate, o solo in quanto furono superate di già, e per il modo come furono superate, o in quanto, come residuo, tornan di limite e d’impedimento alla forma capitalistica. Di qui il frequente passare attraverso alle illustrazioni di mera storia descrittiva, per poi tornare, dalla dichiarazione delle premesse di fatto, alla esplicazione genetica del modo come quelle premesse, data la loro concorrenza e concomitanza, debbano funzionare tipicamente, formando esse la struttura morfologica della società capitalistica. Da ciò dipende, che quel libro, che non è mai dommatico, appunto perché critico, ed è critico, non nel senso subiettivo della parola, ma perché ritrae la critica dal moto antitetico e quindi contraddittorio delle cose stesse, anche nei punti nei quali arriva alla descrittiva storica non si perde nello storicismo volgare, il cui segreto è questo: rinunziare alla ricerca delle leggi del variare, e alle varietà semplicemente enumerate e descritte appiccicare l’etichetta di processo storico, di sviluppo o di evoluzione. Il filo conduttore di quella genesi è il procedimento dialettico; ed è questo il punto scabroso, che mette in tristissima condizione tutti i lettori del Capitale, che nel leggerlo vi portino dentro gli abiti

intellettuali degli empiristi, dei metafisici, e dei padri definitori di entità concepite in aeternum. La fastidiosa questione che si è fatta da molti sulle contraddizioni, che, secondo loro a, correrebbero fra il III e il I volume del Capitale (qui intendo di parlare dello spirito della disputa e non delle particolari osservazioni perché, di fatti, il III volume è tutt’altro che un lavoro compiuto, e può offrire materia di critica anche a chi professi in genere gli stessi principii), si vede come alla più parte di questi critici manchi la nozione esatta del procedimento dialettico. Le contraddizioni che essi notano non sono le contraddizioni del libro col libro stesso, non sono le infedeltà dell’autore alle sue premesse e promesse: ma sono le stesse condizioni antitetiche della produzione capitalistica, che, enunciate in formule, si presentano allo spirito pensante come contraddizioni. Rata media di profitto in ragione della quantità assoluta del capitale impiegato, e, cioè, indipendentemente dalla varia composizione sua, ossia dalla proporzione fra capitale costante e capitale variabile; – prezzi che si costituiscono sul mercato per via di medie, che oscillano con assai difforme oscillazione intorno al valore, e da questo si dilungano; – interesse puro e semplice del danaro posseduto come tale, e abbandonato a prestito all’industria degli altri; – rendita della terra, cioè di ciò che non fu mai prodotto di alcun lavoro; – queste ed altre smentite alla così detta legge del valore (– gli è proprio quel termine di legge che imbroglia i cervelli di molti! –) son le antitesi stesse del sistema capitalistico. Queste antitesi, ossia l’irrazionale, che, malgrado che paia irrazionale, esiste – a cominciare dal primissimo irrazionale, che cioè il lavoro del lavoratore salariato renda a chi lo piglia a mercede un prodotto superiore al costo (salario) – questo vasto sistema delle contraddizioni economiche (per tale espressione sia reso onore a Proudhon!) è ciò che ai socialisti sentimentali, ai socialisti semplicemente ragionatori, e poi via via ai declamatori radicali, apparisce come l’insieme delle ingiustizie sociali: – di quelle ingiustizie, che la onesta gente fra i riformatori vorrebbe eliminare con degli onesti ragionamenti di legge! Chi confronti ora, alla distanza di cinquanta anni, la trattazione di coteste antinomie concrete nel III volume del Capitale con la Misère de la Philosophie, è bene in grado di riconoscere in che consista il filo dialettico della trattazione. Le antinomie, che Proudhon volea astrattamente risolvere (e per tale errore egli ha un posto nella storia) come ciò che la ragion ragionante condanna in nome della giustizia, sono in fatti le condizioni della struttura stessa, in guisa che la contraddizione è nella stessa ragion d’essere del processo. L’irrazionale considerato come un momento del processo stesso, mentre ci libera dal semplicismo della ragione astratta, ci mostra, al tempo medesimo, la presenza della negatività rivoluzionaria nello stesso grembo della forma storica relativamente necessaria.

Comunque sia di cotesta assai grave ed intricatissima questione di concezione processuale, che io non oserei di trattare a fondo come l’incidente di una lettera, sta il fatto, che non è dato ad alcuno di distrarre le premesse, gli andamenti metodici, le illazioni e le conclusioni di quell’opera, dalla materia in cui si svolge e dalle condizioni di fatto cui si riferisce, per ridurne la dottrina in una specie di volgata o di precettistica per la interpretazione della storia di qualunque tempo e luogo. Né si può dar frase più scipita e ridicola di quella che proclama il Capitale la Bibbia del socialismo29. Già, la Bibbia, che è un insieme di libri religiosi e di trattazioni teologiche, l’hanno fatta i secoli! E ci fosse pure la Bibbia, col solo socialismo i socialisti non diverrebbero onniscienti! Il Marxismo – giacché questo nome è oramai adottabile come simbolo e compendio di un molteplice indirizzo e di una complessa dottrina – non è e non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels. Ci vorrà, anzi, molto, prima che esso divenga la dottrina piena e completa di tutte le fasi storiche già ridotte alle rispettive forme della produzione economica, e regola al tempo istesso della politica. A ciò fare occorre, o studio accuratamente nuovo di fonti, per chi voglia ingegnarsi a studiare il passato secondo l’angolo visuale della nuova veduta storico-genetica, o speciali attitudini di orientazione politica in chi voglia praticamente operare al presente. Come quella dottrina è in sé la critica, così non può essere continuata, applicata e corretta, se non criticamente. Come si tratta di appurare e di approfondire determinati processi, così non c’è catechismi che tenga, non c’è generalizzazioni schematiche che valgano. Ne ho fatto la prova io quest’anno. Mi proposi di trattare all’Università della condizione economica dell’Italia superiore e media in su la fine del XIII, e in sul cominciamento del XIV secolo, col principale intento di spiegare l’origine del proletariato di campagna e di città, per trovar poscia una qualche prammatica spiegazione al sorgere di certe agitazioni comunistiche, e per dichiarare da ultimo le vicende assai oscure della eroica vita di Fra Dolcino30. Fu certo intento mio d’essere e rimanere Marxista; ma non posso non prendere sotto la mia responsabilità personale le cose che dissi a mio rischio e pericolo, perché le fonti su le quali mi toccava di lavorare son quelle che maneggiano tutti gli altri storici, d’ogni altra scuola o indirizzo, e a Marx non aveva niente da chiedere, poiché lui non aveva niente da offrirmi nella fattispecie. Mi par quasi di aver risposto sufficientemente – sebbene per altri rispetti mi tocchi di continuare – alla domanda principale che ricorre non solo nella vostra Prefazione, alla quale io specialmente mi riferisco, ma in parecchi dei vostri scritti inseriti nel «Devenir Social». La vostra domanda s’aggira sempre su questo punto: per quali ragioni il materialismo storico ebbe fino ad ora così poca

diffusione e così scarso sviluppo? Con riserva delle cose che dirò in seguito – guardate che bella minaccia di ulteriore seccatura io vi faccio – voi non dovreste trovar fatica a rispondere ad un’altra domanda, che vi siete fatta, specie nello scrivere ceste recensioni, e che suona a un di presso così – almeno in tali termini la tradurrei io –: come va che in tale imperfetta cognizione ed elaborazione del Marxismo, tanti si sono affannati a completarlo, ora con Spencer, ora col Positivismo in genere, ora con Darwin, ora con ogni altro ben di dio, dando segno di volere, chi sa mai, o italianizzare, o infranciosare, o russificare il materialismo storico; mostrando, vale a dire, di dimenticare due cose, che questa dottrina reca in sé stessa le condizioni e i modi della sua propria filosofia, ed è, così nella origine come nella sostanza, intimamente internazionale? Ma anche per questo riguardo mi tocca di continuare.

III Roma, 10 Maggio ’97 Se i due autori del socialismo scientifico (– adopero cotesta espressione non senza tema, che il mal uso che se ne va facendo possa averla resa in certo qual modo presso che risibile, specie quando è usata a significare un certo che di scienza universale –) fossero stati, non dirò santi di vecchia leggenda, ma per lo meno facitori di progetti e di sistemi, che per la forma classica dai precisi contorni si prestassero alla facile ammirazione! Nossignore: essi furono critici e polemisti, non solo nello scrivere, ma perfino nell’atto d’operare, e non esibirono mai le proprie persone loro e le proprie idee ad esemplare od a modello: dichiararon sì le cose stesse, ossia i procedimenti storico-sociali, in senso rivoluzionario, ma con animo di chi non misuri i grandi rivolgimenti storici alla stregua della personale e fantastica impulsività. Inde le irae di molti!31 Fossero stati per lo meno di quei professori umanissimi, che scendono di tanto in tanto dal piedistallo, per onorare di loro consigli il misero e meschino popolo, atteggiati, or d’un modo or d’un altro, a protettori e mecenati della question sociale! Tutt’all’incontrario: – identificando sé stessi con la causa del proletariato, essi furono tutt’una cosa sola con la coscienza e con la scienza della rivoluzione proletaria. Rivoluzionarii per ogni rispetto compiuti (ma non passionati e passionali), pur nondimeno non suggerirono mai, né piani combinatorii, né artificii politici, mentre del resto spiegavano teoreticamente e aiutavano praticamente la nuova politica, che il nuovo movimento operaio indica e precisa come una necessità attuale della storia. In altre parole, e può sembrare quasi incredibile, furon qualcosa di diverso e di più che dei semplici socialisti: e di fatti, molti non più che semplici socialisti, o rivoluzionarii ancor più semplici, li ebbero spesso, non dirò in sospetto, ma di certo in uggia e in avversione. Non ci sarebbe da finirla a volerle enumerar tutte le cagioni, che per lunghi anni ritardarono la discussione obiettiva del Marxismo. Voi sapete bene che in Francia il materialismo storico è tutt’ora trattato da parecchi scrittori, che pur sono nell’ala sinistra dei partiti rivoluzionarii, non come usa di un portato dello spirito scientifico, sul quale la critica che attinga alla scienza abbia, come ha di fatto, l’indubitabile diritto di esercitarsi, ma come tesi personale di due scrittori, che, per notevoli o grandi che si fossero, rimangon sempre due fra gli altri capiscuola del socialismo, p. es., due fra i tanti X…a dell’universo! Per spiegarmi meglio, dirò, che contro di questa dottrina non si levarono soltanto

tutte quelle buone o cattive ragioni, le quali di solito tornan di ostacolo e d’indugio alle innovazioni del pensiero, proprio fra i dotti di mestiere; perché assai spesso, anzi, le obiezioni nacquero da uno speciosissimo motivo, che cioè le teorie di Marx e di Engels fossero considerate come opinioni di compagni, e misurate quindi al sentimento di simpatia o di antipatia pratica che quei compagni destavano. Ecco le bizzarre conseguenze della democrazia prematura, che non ci sia dato di sottrarre proprio nulla al controllo degl’incompetenti, nemmeno la logica! Ma c’è dell’altro. All’apparizione del primo volume del Capitale nel 1867, i professori e gli accademici, specie quei di Germania, n’ebbero come un grave colpo sul capo. Era quello un tempo di languore per la scienza economica. La scuola storica non avea ancora prodotto in Germania i ponderosi e spesso utili lavori venuti in luce più tardi. In Francia, in Italia, nella Germania stessa, menavano vita rachitica i derivati volgarissimi di quella economia vulgaris, che fra il ’40 e il ’60 avea già obliterata la coscienza critica dei grandi economisti classici. L’Inghilterra s’era acquetata in Stuart Mill32; il quale, sebbene fosse un loico di professione, come accade d’un noto tipo della nostra commedia, fra il sì e il no rimase sempre, nei punti decisivi, del parer contrario. Nessuno avrebbe pensato a quel tempo a questa neo-economica degli edonisti, sorta ora assai di recente33. In Germania, dove, per ragioni evidenti, prima che altrove Marx dovea esser letto, e dove Rodbertus rimaneva quasi ignorato34, spadroneggiavano i genii della mediocrità, e sopra tutti gli altri quel famoso emarginatore di note erudite e minute, via via apposte a paragrafi pieni zeppi di definizioni nominali e spesso insensate, che fu il signor Roscher35. Il primo volume del Capitale parea proprio fatto a posta per preparare ai cervelli dei professori e degli accademici una triste delusione: essi, i dotti en titre, proprio nel privilegiato paese dei pensatori, dovean tornare a scuola! O smarriti nei minuti particolari della erudizione, o vogliosi di convertire l’economia in una scuola di apologetica, o imbarazzati a trovare le plausibili applicazioni di una scienza venuta d’oltre mare alla vita assai difforme del proprio paese, tutti cotesti professori della terra dei dotti per eccellenza aveano dimenticata l’arte dell’analisi e della critica. Il Capitale li costringeva a studiar daccapo; cioè a rifarsi su gli elementi primi. Perché quel libro, quantunque uscito dalla penna di un comunista estremo e risoluto, non recava tracce in sé di proteste o di progetti subiettivi, ma era l’analisi spietatamente rigorosa e crudelmente obiettiva del processo della produzione capitalistica. Nel giornalista rivoluzionario del 1848, nell’espatriato del 1849 c’era, dunque, qualcosa di assai più terribile che non la continuazione o il complemento di quel socialismo, che la letteratura borghese di tutto il mondo

avea definito sogno da trapassati, e vicenda politica esaurita del tutto, dopo la caduta del Cartismo, e dacché trionfava in Francia il sinistro uomo del Colpo di stato36. Bisognava, dunque, ristudiare l’economia: cioè, questa rientrava in un periodo critico. A onor del vero, i professori di Germania, più tardi, e cioè dal ’70 in poi, e con crescendo dall’80 in qua, alla revisione critica dell’economia ci hanno atteso con la diligenza, con la persistenza, con la buona volontà, con la laboriosità, che i dotti di quel paese rivelan sempre in ogni ramo di studii. Sebbene quello che scrivono non possa esser quasi mai accettato senz’altro da noi, gli è nondimeno indubitato, che per opera loro fu rimosso nuovamente il terreno dell’economia, fra quelli che la coltivano da professori e da accademici, e che questa disciplina non può esser più ora mandata a mente come una ovvia pigrorum doctrina37. Da ultimo, il nome di Marx è diventato tanto fashionable, da risuonare nelle aule accademiche qual tema prediletto di critica, di polemica e di rimando, e non più di semplice rimpianto e di volgare invettiva. Del ricordo di Marx è tutta inficiata al presente la letteratura sociale della Germania. Ma ciò non potea accadere nel 1867. Il Capitale venne alla luce proprio in quel tempo, nel quale la Internazionale cominciava a far parlar di sé, e a breve andare apparve terribile, non solo per quello che intrinsecamente essa fu, e per ciò che sarebbe di fatti diventata, senza il grave colpo che le venne dalla guerra franco-prussiana e dal tragico incidente della Comune, ma anche per le focose amplificazioni di alcuni dei suoi componenti, e per le mene stupidamente rivoluzionarie di parecchi che v’entrarono da intrusi. Non era forse notorio che l’Indirizzo inaugurale dell’Associazione dei Lavoratori (del quale Indirizzo non è socialista che non abbia tuttora qualcosa da imparare) era uscito dalla penna di Marx38; e non s’avea forse ragione di attribuire a lui gli atti e le deliberazioni più praticamente e politicamente risolute della Internazionale stessa? Ora, mentre un rivoluzionario di indubitata lealtà e di singolare acume, quale fu Mazzini, potea permettersi di confondere la Internazionale, cui Marx rivolgeva l’opera sua, con l’Alleanza Bakuniniana, che maraviglia c’è, se i professori tedeschi s’indugiassero tanto ad entrare nelle vie di una critica dottrinale con l’autore del Capitale? Com’era possibile di venire così presto a patti di discussione, a tu per tu, con un uomo, che, mentre era, per così dire, impiccato in effigie in tutte le leggi d’eccezione a uso Favre39 e consorti, ed era tenuto qual complice morale di tutti gli atti dei rivoluzionarii, compresi gli errori e le stravaganze di costoro, proprio nel medesimo tempo dava alla luce un libro magistrale, qual novello Ricardo, che studii impassibile i procedimenti economici, more geometrico? Di qui un curioso metodo di polemica, cioè una specie di processo alle intenzioni dell’autore; cioè il tentativo di dare a credere, che quella scienza fosse stata,

come a dire, escogitata per colorire delle tendenze: insomma, per molti anni, la polemica tendenziosa sostituita all’analisi obiettivaa. Ma il peggio gli è, che gli effetti di cotesta critica grossolanamente errata si fecero sentire proprio nelle menti dei socialisti, e specie in quelle della gioventù intellettuale, che fra il ’70 e l’80 si volse alla causa del proletariato. Molti dei focosi rinnovatori del mondo di quel tempo lì, – e in Germania la cosa è più chiara, perché ha lasciato tracce di sé nelle polemiche del partito, e nella minuta letteratura – si misero su la via di proclamarsi seguaci delle teorie marxiste, pigliando proprio per moneta contante il Marxismo più o meno inventato dagli avversarii. Il caso più paradossale di tutta la equivocazione sta in questo: che i correnti alle facili illazioni, come capita anche ora ai novellini, mescolando allora cose vecchie a cose nuove, credessero, che la teoria del valore e del sopravvalore, come si presenta di solito semplicizzata in facili esposizioni, contenga hic et nunc il canone pratico, la forza impulsiva, anzi la morale e la giuridica legittimità di tutte le rivendicazioni proletarie. Non è forse una grande ingiustizia, che milioni e milioni di uomini sian privati del frutto del loro lavoro? L’enunciato è tanto semplice e tanto pietoso, che tutte le nuove bastiglie dovranno cadere d’un tratto innanzi alle nuove trombe di Gerico41, scientificamente intonate! Concorrevano in cotesta così spiccia semplificazione molti degli errori teorici di Lassalle42; così quelli che gli furon proprii per relativa inscienza (– la legge ferrea del salario! ossia una mezza verità relativa che diventa un totale errore, per manco di circostanziata specificazione –), come quelli che possono dirsi, nel caso suo, espedienti da agitatore (– le famose cooperative sussidiate dallo stato –). Del resto, per chi si metta su la via di confinare tutta la profession di fede del socialismo nella semplicissima illazione, dallo sfruttamento riconosciuto, alla rivendicazione, sicura solo perché legittima, degli sfruttati, non ha che a fare un passo sul terreno assai liscio della logichetta, per ridurre tutta la storia del genere umano ad un caso di coscienza, e lo svolgersi successivo di tante forme di vita sociale come a tante variazioni di un continuato errore di contabilità. Fra il ’70 e l’80, e poco dopo, insomma, si andò formando intorno al vago concetto di un certo che, ossia del socialismo scientifico, una specie di neoutopismo, che, come i frutti fuor di stagione, fu veramente insipido. E che altro è l’utopismo, cui manchi il genio di Fourier e l’eloquenza di Considérant, se non cosa da ridere?43 Di questo neoutopismo, che rifiorisce di tanto in tanto anche al presente, se ne sa non poco in Francia: se non altro per le lotte sostenute con altre sette e scuole da quei valorosi dei nostri amici, che nel programma del partito operaio rivoluzionario intesero e seppero pei primi condurre il

socialismo su la linea della cosciente lotta di classe, e della progressiva conquista del potere politico da parte del proletariato. Solo nell’esperienza di tale giostra pratica, solo nello studio cotidiano della lotta di classe, solo nella prova e riprova delle forze proletarie raccolte già in fascio e concentrate, ci è dato di verificare, les chances del socialismo: se no, si è e si rimane utopisti, anche nel riverito nome di Marx. Contro di cotesti neoutopisti, non altrimenti che contro i sopravvissuti delle vecchie scuole, e contro le varie deviazioni del socialismo contemporaneo, i due nostri autori aguzzaron sempre e di continuo gli strali della critica. Come nella loro lunga carriera fecero della loro scienza la guida della loro pratica, e dalla loro pratica trassero materia e indicazione ad una più approfondita scienza, come non trattaron mai la storia qual cavallo da inforcare e da mettere al trotto, né si dettero alla ricerca di formule atte a destare le momentanee illusioni; così furono, per la necessità delle cose, portati a misurarsi in critica aspra, violenta, risoluta, con tutti quelli, che agli occhi loro apparivano capaci di nuocere al movimento proletario. Chi non ricorda? – i Proudhonisti p. es., di qua, con la pretesa di distruggere lo stato astraendone ad arte, come chi chiuda gli occhi e finga di non vedere; – di là, quei Blanquisti d’un tempo, che lo stato voleano togliersi in mano per forza, per poi fare la rivoluzione; – e Bakunin che si caccia surrettiziamente nell’Internazionale, e costringe gli altri a scacciarnelo; – e poi di qua e di là la pretesa delle tante scuole del socialismo, e la concorrenza di tanti capitani! Da che Marx stritolò in una verbale polemica l’ingenuo Weitlinga. fino alla sua terribile critica del programma di Gotha (1875), apparsa poi invero assai tardivamente (1890)45, la sua vita fu una continuata lotta, non solamente con la borghesia e con la politica che questa rappresenta, ma ancora con le varie correnti, o rivoluzionarie, o reazionarie, che a torto o per rovescio sono andate pigliando il nome di socialismo. Queste lotte si acuirono nella Internazionale, e dico di quella di gloriosa memoria, che lascia fino ad oggi traccia così grande di sé in tutta l’azione odierna del proletariato, e non della caricatura che se ne fece dappoi. Lo strascico maggiore di polemiche contro il Marxismo, ridotto, nella fantasia di certi critici, ad una semplice varietà di scuola politica, è dovuto alla tradizione di quei rivoluzionarii, che, specie nei paesi latini, riconobbero in Bakunin il loro duce e maestro. Gli anarchisti di oggi, che altro ripetono se non le querimonie e gli errori di quei tempi andati? Forse venti anni addietro, fatta eccezione di quei dotti, che rimasticano a casa le cose lette nei libri, dei due fondatori del socialismo scientifico la generalità del pubblico italiano non risapea, se non quel tanto che s’era serbato, per memoria,

delle invettive di Mazzini e delle malignazioni di Bakunin. Ed ecco come il comunismo critico, che così tardi è stato ammesso agli onori della discussione nella cerchia della scienza ufficiale, ha avuto contro di sé, nel campo del socialismo stesso, la più grave delle avversità: la inimicizia degli amici. Tutte coteste difficoltà, o furono già superate, o sono in buona parte prossime a sparire. Non per la virtù intrinseca delle idee, che non ebbero mai né piedi per andare, né mani per afferrare, ma per il solo fatto, che, da per tutto dove son nati dei partiti socialistici, i programmi di questi partiti sono andati assumendo un comune indirizzo, è da ultimo accaduto, che i socialisti di tutti i paesi sian venuti a collocarsi, per la imperiosa suggestione delle cose, nell’angolo visuale del Manifesto dei Comunisti. Non vi pare che io sia giunto in tempo opportuno a scrivere la commemorazione di questo? Le classi degli sfruttatori van facendo alla massa degli sfruttati in ogni parte del mondo condizioni quasi da per ogni dove identiche: ond’è, che da per tutto i rappresentanti attivi di questi sfruttati entrano nelle medesime vie di agitazione, e seguono gli stessi criterii di propaganda e di organizzazione. Ciò molti chiamano Marxismo pratico – e sia! Che giova di litigar su le parole? Quando anche il Marxismo per molti si riduca alla semplice parola, anzi alla riverenza per il ritratto di Marx, per il suo busto in gesso, o per la sua effigie sul ciondolo, (– su cotesti innocenti simboli la polizia italiana esercita così spesso il suo buon umore –), il fatto è che cotesta unità simbolica sta a significare, che l’unità reale è per lo meno avviata, e che il proletariato di tutto il mondo è in atto di avvicinarsi, poco per volta, ad una certa similarità di tendenze; ossia che in esso la internazionalità si elabora di lunga mano per ragioni obiettive. Coloro che usano il linguaggio dei decadenti della borghesia, scambiando, com’è loro uso, la cosa col simbolo, vanno ora dicendo, che questo è il trionfo del sig. Marx; tal quale come se altri dicesse, che il cristianesimo è il trionfo (e perché non dire a dirittura il successo?) del signor Gesù di Nazareth; di un signor Gesù, che, deposto e destituito dalla qualità di figlio di dio fattosi uomo, divenga, come nello stile tra il molle e lo sdilinquito del vostro Renan, un uomo così fanciullescamente divino da parere un iddio46. Innanzi a questo esperimento intuitivo della politica del socialismo, il che è quanto dire della politica del proletariato, son cadute le vecchie divergenze delle scuole, alcune delle quali erano in fatto divarii e screziature di vanità letteraria, per cedere il posto alle utili divergenze, che nascono spontanee dal vario modo di trattare i problemi pratici. Nel fatto, in concreto, ossia nello svolgimento

positivo e prosaico del socialismo, poco importa se tutti i suoi capi, condottieri, oratori e rappresentanti si conformino o non si conformino ad una dottrina, e ne facciano o non ne facciano professione palese. Il socialismo non è una chiesa, né una setta, cui occorra il dogma o la formula fissa. Se oggi da molti si parla del trionfo del Marxismo, cotesta enfatica espressione, quando sia ridotta ad una forma crudamente prosaica, viene a dire che nessuno può essere d’ora innanzi socialista, se non a patto di domandarsi ogni istante: in questa data situazione, che cosa conviene di pensare, di dire o di fare nell’interesse del proletariato? Non saran più possibili i dialettici, che siano in verità dei sofisti, come fu Proudhon, né gl’inventori di sistemi sociali subiettivi, né i facitori di rivoluzioni privatea. La indicazione pratica del fattibile è data dalla condizione del proletariato, e questa è apprezzabile e misurabile appunto perché c’è la stregua del Marxismo (intendo qui la cosa effettuale e non il simbolo) come dottrina progressiva. Le due cose, ossia il misurabile e la misura, fanno uno dal punto di vista generale del processo storico, specie quando siano considerate a conveniente distanza. E vedete di fatti, che, mentre i contorni del socialismo come azione pratica si vanno precisando, tutte le antiche poesie e ideologie si disperdono, lasciando dietro di sé la semplice traccia fraseologica. Al tempo stesso è cresciuto nel campo della scienza accademica, per tutti i versi e in tutti i sensi, il criticismo della dottrina economica. L’esule Marx è tornato, dopo morto, nell’ambito della scienza ufficiale; per lo meno come avversario col quale non sia lecito di scherzare. E come per tante vie i socialisti sono arrivati alla coscienza prosaica di una rivoluzione, che non può esser macchinata, ma che si fa perché diventa, così s’è andato lentamente preparando il pubblico, per il quale il materialismo storico risponde a un vero e proprio bisogno intellettuale. Negli ultimissimi anni, come vedete, furon molti quelli che in questa dottrina han messo bocca; sia pur male, od a sproposito. Dunque, se guardate bene, non si arriva in ritardo. Da giovane io sentii più volte ripetere questa storiella, che, cioè, Hegel dicesse: un solo dei miei scolari mi ha capito48. La storiella non si presta a verifiche, perché quel tale scolaro verissimo non fu fino ad ora identificato. Questa storiella può ripetersi all’infinito, da sistema a sistema, e da scuola a scuola. Come in fatto di attività intellettuale non c’è luogo alla suggestione, e come il pensiero non si trasfonde meccanicamente da cervello a cervello, così i grandi sistemi non si diffondono, se non per la similarità delle condizioni sociali, che vi dispongano e v’inclinino molte menti in uno e medesimo tempo. Il materialismo storico si allargherà, si diffonderà, si specificherà, avrà esso stesso una storia. Forse da paese a paese avrà modalità e colorito diverso. E ciò non sarà gran male; purché

rimanga in fondo il nocciolo, che n’è, come a dire, tutta la filosofia. P. es., dei postulati come questi: – nel processo della praxis è la natura, ossia l’evoluzione storica dell’uomo: – e dicendo praxis, sotto questo aspetto di totalità, s’intende di eliminare la volgare opposizione tra pratica e teoria: – perché, in altri termini, la storia è la storia del lavoro, e come, da una parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo rispettivamente proporzionato e proporzionale delle attitudini mentali e delle attitudini operative, così, da un’altra parte, nel concetto della storia del lavoro è implicita la forma sempre sociale del lavoro stesso, e il variare di tale forma: – l’uomo storico è sempre l’uomo sociale, e il presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della fantasia: – e così via. E… qui faccio punto, principalmente per non ripetermi, e per non ripetere a voi buona parte delle cose che ho messo nei due saggi: – del che voi non sentite, mi pare, il bisogno, e io, veramente, nemmeno.

IV Roma, 14 Maggio ’97 Mi pare – tanto per tornare al primitivo argomento – che a voi stia in cima dei pensieri questa domanda: per quali vie, e in quali modi, sarebbe dato di avviare in Francia una scuola del materialismo storico? Non so se sia lecito a me di rispondere al quesito, senza aver l’aria di gareggiare con quei giornalisti di vecchio stampo, i quali davano, tanto sicuri di sé, consigli all’Europa, col grave rischio di rimanere, e di fatti rimanevano, quasi sempre inascoltati. Mi ci proverò modestamente. Innanzi tutto mi sembra non debba esser cosa difficile si trovino in Francia editori e librai, i quali stampino e diffondano delle accurate traduzioni degli scritti di Marx, di Engels, e di quanti altri occorra. Sarebbe, per cominciare, il cominciamento migliore. Capisco che nell’arte del tradurre si va incontro a delle curiose difficoltà. Sono oramai trentasette anni dacché leggo in tedesco, e m’è parso sempre di osservare, che a noi popoli di lingue latine capiti addosso uno strano smarrimento delle attitudini linguistiche e letterarie, quante volte traduciamo da quell’idioma. Ciò che in tedesco è vivo, trasparente, efficace, diventa assai spesso, p. es., in italiano, frigido, senza rilievo, e qualche volta a dirittura come di gergo. In coteste traduzioni, parlo s’intende delle comuni e correnti, va perduto, con gli effetti della insinuazione, l’afflato della persuasiva. In un vasto lavoro di popolarizzazione, com’è quello cui accenno, occorrerebbe, salva sempre la integrità testuale degli scritti da tradurre, che le prefazioni, le note, i commenti offrissero i surrogati a quel facile processo di assimilazione, che è implicito e pronto già nelle scritture, le quali sian native del paese stesso. Le lingue non sono, in verità, le accidentali varianti dell’universale volapük49; e, anzi, sono assai più che dei semplici mezzi estrinseci di comunicazione e di significazione del pensiero e dell’animo. Son condizioni e limiti dell’attività nostra interiore, la quale ha per ciò, come per tante altre ragioni, modi e forme nazionali non di mero accidente. Se ci sono internazionalisti che ciò ignorino, costoro han da chiamarsi a dirittura confusionisti ed amorfisti; come quelli che ritraggono i loro insegnamenti, non dai vecchi apocalittici, ma da quello speciosissimo Bakunin, che invocava per fino la egalizzazione dei sessi. Dunque, nella assimilazione delle idee, dei pensieri, delle tendenze, dei propositi, che sian venuti a maturità di espressione letteraria in terreno di lingue

straniere, c’è come un caso alquanto scabroso di pedagogica sociale. E, giacché cotesta espressione m’è uscita dalla penna, permettetemi io vi confessi, che quando io esamino dappresso la storia precedente e le presenti condizioni della Socialdemokratie tedesca, non è l’incremento continuo dei successi elettorali che mi riempia proprio principalmente l’animo di ammirazione e di viva speranza. Più che almanaccare su quei voti come arra dell’avvenire, secondo i calcoli qualche volta fallaci della illazione e della combinatoria statistica, mi sento ripieno di viva ammirazione per questo caso veramente nuovo ed imponente di pedagogica sociale: e, cioè, che in così stragrande numero di uomini, e segnatamente di operai e di piccoli borghesi, si formi una coscienza nuova, nella quale concorrono, in egual misura, il sentimento diretto della situazione economica, che induce alla lotta, e la propaganda del socialismo, inteso come meta o punto d’approdo. Questa divagazione mi fa nascere un ricordo. Io fui qui in Italia, o il primo, o certo fra i primi, a richiamare, con lo scritto e con la parola, più volte e insistentemente, l’attenzione di quella parte degli operai nostri, che erano e son capaci di muoversi su la linea della moderna lotta proletaria, verso l’esempio della Germania. Ma… non mi passò mai per il capo di credere, che l’imitazione dispensi alcuno dalla spontaneità: non mi son mai sognato si dovesse seguire l’esempio di quei frati e preti, che furon per secoli i quasi esclusivi educatori dell’Italia già decaduta, e allegramente fabbricavano i poeti, dando ad imparare a mente l’Arte poetica di Orazio. Sarebbe curioso, che tu, benemerito, operosissimo e sagacissimo Bebel50, apparissi qui fra noi in veste di novello Orazio! – ne strabilierebbe perfino il mio amico Lombroso, che odia il latino più della pellagra51. C’è delle altre difficoltà più intime, in breve, e di maggior portata e di maggior peso. Dato pure il caso che editori e librai, abili e solerti, si dessero la briga di diffondere, non che nella sola Francia, negli altri paesi civili ancora, le traduzioni di tutti gli scritti del materialismo storico, ciò varrebbe solo a stimolare, ma non già a formare e fermare nelle rispettive nazioni le energie fattive, che producono e tengono in rigoglio un indirizzo del pensiero. Pensare è produrre. Imparare è produrre riproducendo. Noi non sappiamo bene e davvero, se non ciò che noi stessi siam capaci di produrre, pensando, lavorando, provando e riprovando; e sempre per virtù delle forze che ci son proprie, nel campo sociale e dall’angolo visuale in cui ci troviamo. E poi la Francia, con la sua grande storia, con la sua letteratura, che fu così dominante per secoli, con la sua ambizione patriottica, e con quella sua così propria differenziazione etnico-psicologica, che si riflette per fino nei prodotti

più astratti del pensiero! Non starò proprio, io italiano, ad assumermi le parti di difensore di quei vostri sciovinisti, ai quali voi infliggete così meritato biasimo. Ma ricordiamo pure ciò che accadde nel secolo passato. Il pensiero rivoluzionario derivò da più parti del mondo civile, dall’Italia, dall’Inghilterra, dalla Germania, ma non fu europeo, se non a patto di plasmarsi in ispirito francese; e la rivoluzione europea fu la rivoluzione francese. Questa gloria imperitura della vostra nazione pesa, come tutte le glorie, su la nazione stessa, quale incubo di radicato pregiudizio. Ma i pregiudizii non sono anch’essi delle forze, se non altro in quanto sono degl’impedimenti? Parigi non sarà più il cervello del mondo; anche perché il mondo non ha cervello, se non nella fantasia di certi speciosi sociologistia Né Parigi è tuttora, né sarà più in avvenire, la santa Gerusalemme dei rivoluzionarii d’ogni parte del mondo – come parve un tempo che fosse. Già la futura rivoluzione proletaria non avrà niente che la riavvicini ad apocalittico millennio: e poi, oggi, i privilegi son finiti non meno per le nazioni che per gl’individui. Così giustamente osservava l’Engels; e del resto varrebbe la pena che i Francesi leggessero ciò che egli scriveva nel 1874 a proposito dei Blanquisti, aizzanti all’immediata riscossa proprio a poco andare dalla catastrofe della Comuneb. Ma tutto sommato… e fatto calcolo delle condizioni proprie dell’agricoltura e dell’industria francese, le quali han ritardato per tanto tempo la concentrazione del movimento operaio, e data pure la sua buona parte di torto ai varii capisetta e capiscuola, che tennero per così gran tempo scisso e spartito il socialismo francese, sta sempre il fatto, che il materialismo storico non potrà farsi strada fra voi, finché avrà l’aria d’essere il semplice elaborato mentale dei due Tedeschi di grande ingegno54. Con questa espressione Mazzini appunto acuiva i risentimenti nazionali contro i due autori: i quali, da comunisti e materialisti com’erano, parean fatti a posta per iscombussolare l’idealistica formula di patria e dio. Fu per questo rispetto quasi tragica la sorte dei due fondatori del socialismo scientifico. Passarono più volte pei due Tedeschi agli occhi di tanti, che furon sciovinisti per fino fra i rivoluzionarii, anzi passarono per organi del pangermanismo nelle invettive di quel Bakunin, che ebbe l’animo così disposto ad inventare… per non dir altro: essi, i due Tedeschi, che nella patria, dalla quale usciron da esuli fin dagli anni della prima gioventù, incontrarono lo studiato silenzio di quei professori, ai quali è atto di patriottismo l’esercizio del servilismo! Quei professori, in fondo, si vendicavano. Di fatti nel Capitale, nel quale tutta la trattazione s’inradica nelle tradizioni della economia classica, non esclusi gli scrittori ingegnosi e spesso geniali che ebbe l’Italia nel secolo XVIII, non si parla se non con sovrano disprezzo dei signori Roscher e compagni.

Engels, che con tanta cura e con tanta abilità di ampliamenti espositivi si sforzò di rendere popolari i resultati delle ricerche dell’americano Morgan55, chiuso com’era nella persuasione, che ciò che egli giustamente chiamava filosofia classica fosse giunta alla sua dissoluzione in Feuerbach, scrivendo l’Antidühring mostrò noncuranza, dirò francamente, eccessiva per la filosofia contemporanea, (noncuranza spiegabile in lui, ma non scusabile, anzi ridicola, negli altri socialisti, che per imitazione l’affettano), ossia per la neocritica dei suoi connazionali. Cotesta sorte tragica fu come insita alla missione loro. Essi furon con l’animo e con la mente rivolti del tutto alla causa del proletariato d’ogni nazione: e perciò i prodotti della scienza loro hanno in ogni nazione quel pubblico soltanto, che vi si vada reclutando tra quelli che sian capaci di una consona rivoluzione intellettuale. In Germania, ove per condizioni storiche speciali, e soprattutto perché la borghesia non v’è mai riuscita a spezzare per intero la compagine dell’Ancien Régime (vedete che quell’imperatore può tenervi impunemente il linguaggio d’un vice-nume, e non è poi in verità che un Federico Barbarossa fattosi commesso viaggiatore dell’in German made56), la democrazia sociale s’è ridotta e fermata in serrata falange, era ben naturale che le idee del socialismo scientifico trovassero favorevole il terreno alla normale e progressiva diffusione loro. Ma nessuno dei socialisti tedeschi – spero almeno – si sognerà mai di considerare le idee di Marx e di Engels al semplice ragguaglio dei diritti e dei doveri, dei meriti e dei demeriti, dei Camarades de Parti. Ecco p. es. che cosa Engels scriveva, e non è gran tempoa: «Si noterà come in tutti questi articoli io mi chiami, non democratico-sociale, ma comunista. E ciò perché a quel tempo si davano il nome di democratici sociali, in molti paesi, di quelli che non aveano scritto su la loro bandiera l’appropriazione di tutti i mezzi di produzione da parte della società. Per democratico-sociale s’intendeva in Francia un repubblicano democratico, che avesse delle simpatie più o meno genuine, ma che rimanevano pur sempre indeterminate, per la classe operaia; gente, insomma, come Ledru-Rollin del 1848, e come i radicali socialisti del 1874, che erano intinti di proudhonismo. In Germania chiamavansi democraticisociali i Lassalliani: ma, sebbene la gran massa di essi andasse a grado a grado riconoscendo la necessità della socializzazione dei mezzi di produzione pur nondimeno le cooperative di produzione, sussidiate dallo stato rimanevano il punto essenziale del programma del partito nella sua azione pubblica. Era dunque per me e per Marx assolutamente impossibile di scegliere un termine di tale elasticità a designazione del nostro specifico punto di vista. Oggi è tutt’altro, e la parola può passare; sebbene sia pur sempre disadatta a significare un partito il cui programma è, non genericamente socialistico, ma direttamente

comunistico, e la cui finale meta politica è di superare ogni forma di stato, e quindi anche la democrazia». I patrioti – e non uso punto a dileggio cotesta parola – hanno, mi pare, di che consolarsi e confortarsi. Non è detto in conclusione che il materialismo storico sia il patrimonio intellettuale di una sola nazione, o che debba rimanere in privilegio d’una clique, d’una consorteria o d’una setta. Esso, innanzi tutto, appartiene nella sua origine obiettiva alla Francia, all’Inghilterra e alla Germania, in eguale misura. Non starò qui a ripetere ciò che dissi in altra lettera, della forma di pensiero che derivossi nella mente dei nostri due autori per lo stadio a cui era giunta, nella loro giovinezza, la coltura intellettuale dei Tedeschi, e la filosofia in ispecie, mentre l’Hegelismo appunto, o si perdeva nei rigagnoli di una nuova scolastica, o dava luogo ad un nuovo e più poderoso criticismo. Ma era pur lì la grande industria inglese con tutte le miserie che l’accompagnavano, e col contraccolpo ideologico di Owen58, e con quello pratico dell’agitazione cartista. Ma eran pur lì le scuole del socialismo francese, e la tradizione rivoluzionaria dell’Occidente, che si derivava già nelle forme del comunismo d’indole modernamente proletaria. Che cos’è il Capitale, se non la critica di quella economia, che, come rivoluzione pratica e come rappresentazione teorica di questa stessa rivoluzione, era venuta a piena maturità nella sola Inghilterra, fin verso il ’60, e in Germania cominciava appena? Che cosa è il Manifesto dei Comunisti, se non la chiusa e la esplicazione del socialismo, o latente, o palese nei movimenti operai di Francia e d’Inghilterra? Ma tutte queste cose furono continuate e portate a compimento di critica, la filosofia di Hegel non esclusa, con quella critica immanente, che è la dialettica con le sue inversioni; ossia, per via di quel negare, che non è contenziosa e avvocatesca contrapposizione di concetto a concetto, di opinione ad opinione, ma che invece invera ciò che nega, perché in ciò che nega e supera, trova o la condizione (di fatto), o la premessa (concettuale) del procedere stesso a. Francia e Inghilterra possono ripigliare, senza parere che compiano un atto di mera imitazione, la loro parte nella elaborazione del materialismo storico. Perché i Francesi non avrebbero oramai da scrivere dei libri veramente critici su Fourier e Saint-Simon, in quanto furono, e nella misura in cui furono, veri precursori del socialismo contemporaneo? Non c’è occasione a lavorare letterariamente sui moti rivoluzionarii dal 1830 al 1848, in modo si veda, che la dottrina del Manifesto non fu la negazione di quelli, ma il loro aboutissant e risolvente? A riscontro di quel 18 Brumaio di Marx, che, pur essendo uno scritto genialissimo, e nell’intento suo insuperabile, riman sempre un opuscolo di occasione e di tinta pubblicistica, non sarebbe il caso di comporre una meditata storia del Colpo di

stato? Ma la Comune non aspetta ancora la sua definitiva trattazione critica? Ma la Grande Rivoluzione, intorno alla quale esiste una letteratura colossale, quanto all’insieme, e singolarmente minutissima quanto ai particolari, fu mai fino ad ora trattata a fondo in tutto l’intrinseco del sommovimento delle classi che vi presero parte, e come caso esemplare di sociologia economica? A farla breve, tutta la storia moderna di Francia e d’Inghilterra non offre essa forse agli studiosi un più largo e sicuro capitolo d’illustrazioni al materialismo storico, di quello non potessero fino a poco tempo fa offrirlo le condizioni della Germania? Queste furono, nel fatto, dalla guerra dei trent’anni in poi, grandemente intricate pei sopraggiunti impedimenti allo sviluppo, e nelle teste di quelli, che sopra luogo le osservarono, rimasero quasi sempre come involute in varie specie di nebulosità ideologica – nebulosità che muoverebbe a riso i cronisti fiorentini del secolo XIV. Mi son fermato su questi particolari, non per darmi l’aria di consigliere della Francia, ma per aver modo di osservare da ultimo, che, data la forma dei cervelli di lingue latine, non è cosa agevole il fare entrare in essi le nuove idee, se altri s’indugi a rappresentarle esclusivamente come forme astratte del pensiero; mentre riescono a penetrarvi, con pronto e suggestivo effetto, quando vengano plasmate in racconti e in esposizioni, che in qualche modo rassomiglino ai prodotti dell’arte. Torno per un momento su la questione del tradurre. L’Antidühring è il libro che prima di ogni altro conviene che entri nella circolazione internazionale. Pochi libri io conosco, che possano stargli a paro, per densità di pensiero, per molteplicità di punti di vista, per duttilità di penetrazione suggestiva. Può essere una medicina mentis per la gioventù intellettuale, che di solito si volge, incerta di sé e con criterii assai vaghi, a ciò che genericamente ha nome di socialismo: e così fu nel tempo in cui apparve, come ne andò scrivendo un tre anni fa il Bernstein, in una specie di commemorazione pubblicata nella «Neue Zeit»59. Nella letteratura socialistica rimane quello il libro insuperato. Ma quel libro non è tetico, anzi è antitetico. Salvo i brani isolabili, come son quelli i quali presero corpo di opuscolo per sé stante, che fa da un pezzo il giro del mondo (Del passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza)60, quel libro ha a suo filo conduttore la critica del signor Dühring, in quanto ei fu inventore di una filosofia e d’un socialismo a modo suo. Or qual persona, che non viva nella cerchia dei professanti scienza, e quanti non Tedeschi hanno proprio il dovere d’interessarsi del signor Dühring? Ogni nazione ha, pur troppo, i suoi Dühring. Un Engels di altra nazione, chi sa quali altri anti-chi sa che cosa avrebbe scritto o scriverebbe. L’effetto vero di quel libro mi pare debba esser questo su i socialisti di altri paesi e lingue, che li abiliti a fornirsi di quelle attitudini critiche,

che giovano per iscrivere tutti gli altri anti-x occorrenti a combattere ogni altra qualche cosa, che imbarazzi od inficii il socialismo, in nome di tante sociologie pullulanti d’ogni parte. Le armi e i modi della critica devono, da paese a paese, subire la legge della variabilità e dell’adattamento. Curare il malato e non la malattia; – in ciò consiste la modernità della medicina. A fare altrimenti di così, si rischia d’incorrere nella sorte toccata agli hegeliani, che vennero su in Italia dal 1840 al 1880, e specie nel Mezzogiorno, anzi a Napoli. Furono in parte dei semplici epigoni, ma alcuni furon pensatori di polso. Nel tutt’insieme rappresentavano una corrente rivoluzionaria di gran conto, a petto del tradizionale scolasticismo, dello spiritualismo alla francese e della filosofia del così detto buon senso. Di tal movimento pur qualcosa s’è risaputo in Francia; perché fu uno di questi hegeliani, e non il più profondo e forte di tutti, il Veraa, che dette alla Francia appunto le più leggibili traduzioni, con copiosissimi commenti, di alcune delle opere fondamentali di Hegel. Di tutto quel movimento s’è perduta ora da noi la traccia e la memoria, nel giro di così pochi anni. Gli scritti di quei pensatori non si trovano che dai rivenditori di anticaglie e di bagattelle librarie. Cotesta dispersione nel nulla di tutta una attività scientifica, non certo irrilevante, non è solo dovuta alle vicende non sempre belle e laudabili della vita universitaria, né al solo dilagare epidemico del Positivismo, che manda qua e là frutti che paiono scienza da demi-monde, ma a ragioni più intrinseche. Quegli hegeliani scrissero, e insegnarono, e disputarono come se stessero, non a Napoli, ma a Berlino, o non so dove. Conversavano mentalmente coi loro Camarades d’Allemagnea. Rispondevano dalla cattedra o negli scritti alle obiezioni di critici noti a loro soltanto; facendo così un dialogo, che a lettori e uditori parea monologo. Non riuscirono a plasmare le loro trattazioni e la loro dialettica in libri, che apparissero qual nuovo acquisto intellettuale della nazione. Cotesto non piacevole e non lusinghiero ricordo mi stava innanzi alla mente, quando, quasi repugnante, mi misi a scrivere il primo dei due miei saggi di materialismo storico, ai quali ora non c’è ragione io non ne faccia succedere degli altri. Mi domandava più volte: ma da che parte devo rifarmi, per dir cose, che ai lettori italiani non tornino ostiche, straniere e strane? Mi dite che io son riuscito: e così sia. Non sarebbe un caso singolare di scortesia, che io volessi ribattere, ragionando, da arbitro, di me e delle lodi che voi mi fate? «Nel leggere – così scrivevo a un di presso cinque anni fa ad Engels – la Heilige Familie, mi son ricordato degli hegeliani di Napoli, in mezzo ai quali io vissi da giovanissimo, e mi pare di avere inteso e assaporato quel libro, più che non possa riuscire a molti, cui mancano al presente i dati proprii e intuitivi di quel curioso umorismo. Mi parea di averla vista io stesso da vicino quella

curiosa coterie di Charlottenburg, da Marx e da voi così singolarmente persiflée. Mi si ripresentava allo spirito, più che tutti gli altri, un professore di estetica, originalissimo e genialissimo uomo, che deduceva i romanzi di Balzac, costruiva la cupola di S. Pietro e disponeva in serie genetica gl’istrumenti musicali; e pian piano, di negazione in negazione, e con la negazione della negazione, giunse da ultimo alla metafisica dell’inconoscibile, che, ignaro come ei fu sempre dello Spencer, e anzi a guisa di uno Spencer non glorificato, chiamò l’innominabile. Anch’io da giovane vissi in quella specie di palestra, e non me ne rincresce; vissi per anni con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza: di quello difesi, con giovanile ingenuità, la dialettica contro lo Zeller che iniziava il neokantismo; di questo sapevo a memoria gli scritti, e ne esposi, con intendimento di innamorato, la teoria degli affetti e delle passioni. Ora tutte coteste cose mi tornano nella memoria come lontanissima preistoria. Avrò subita anch’io la mia negazione della negazione? Voi mi spronate a scrivere di comunismo: ma io temo sempre di far di cosa di nessun valore quanto alle forze mie, e di poco effetto quanto all’Italia»63. E lui a rispondermi…; ma qui faccio punto. Mi pare sia cosa presso che incivile il riprodurre senza urgente ragione di pubblico interesse, le lettere private, specie a breve tempo dalla morte di chi le scrisse. In tutti i casi, anche stralciando da tali lettere private ciò che può esservi di puramente occasionale, e serbandone solo ciò che è di dottrina e di scienza, esse fan sempre poca fede e son di poco peso, a fronte degli scritti meditatamente destinati alla pubblicità. Col crescere dell’interesse per il materialismo storico, e nel difetto di una letteratura, che estesamente e partitamente lo illustri, s’è dato il caso che Engels, negli ultimi anni di sua vita, qual professore che non sieda in cattedra, fosse interrogato, e anzi tormentato di continuo con infinite domande da parte di molti, che si iscrivevano spontanei da studenti liberi nella vagante ed eslege Università del socialismo. Di qui le lettere che furon pubblicate, e quelle altre molte, che son rimaste inedite. In quelle tre lettere, che il «Devenir Social» riprodusse recentemente da una rivista di Berlino e da un giornale di Lipsia, apparisce chiaro come fosse in lui una certa temenza, che il Marxismo diventasse troppo presto una dottrina a buon mercato64. A molti dei professanti la scienza, non nella vagante Università del popolo di là da venire, ma in questa che realmente esiste nella presente società ufficiale, capita d’esser messi fra l’uscio e il muro dagli studenti e dagli studiosi, perché, uno pede stantes65, rispondano ad ogni quesito, come chi avesse stampata nel cervello la ragione universale delle cose. I più vanitosi fra i professori, per non ismentire la ieratica sacramentalità della scienza, e come se questa consistesse

del tutto nella materialità del conosciuto, e non principalmente nella virtuosità e correttezza formale dell’atto del sapere, rispondono difilato, riuscendo a fare assai di sovente la satira di sé stessi, da imitatori del saporitissimo Mefistofele in maschera di maestro in tutte e quattro le facoltà66. Pochi hanno la socratica rassegnazione di rispondere: non so, ma so di non sapere, e so che si potrà sapere, ed io stesso potrò sapere, se avrò compiuti gli atti di sforzo, ossia di lavoro, che occorre per sapere; – e se mi date degli anni indefiniti, con l’indefinita attitudine dell’applicazione metodica del lavoro, io potrò indefinitamente saper quasi tutto. Ed ecco in che cosa consiste quel capovolgimento pratico della teorica della conoscenza, che è insito al materialismo storico. Ogni atto di pensiero è uno sforzo; cioè un lavoro nuovo. A compierlo occorrono innanzi tutto i materiali dell’esperienza depurata, e gl’istrumenti metodici, resi familiari e maneggevoli dal lungo uso. Non c’è dubbio, che il lavoro compiuto, ossia il pensiero prodotto, agevoli i nuovi sforzi diretti alla produzione di novello pensiero; in prima, perché i prodotti precedenti rimangono obiettivati nei mezzi intuitivi dello scritto e delle altre arti rappresentative, e, in secondo luogo, perché l’energia in noi internamente accumulata penetra e investe il nuovo lavoro, qual ritmo del procedimento, nella qual cosa (ossia nel ritmo) consiste appunto il metodo della memoria, del ragionamento, dell’espressione, della comunicativa, e così via. Ma macchine pensanti non si diventa mai! Tutte le volte che ci mettiamo nuovamente a pensare, oltre che ci necessitano sempre i mezzi e gl’incentivi esterni ed obiettivi della materia empirica, ci occorre ancora uno sforzo adeguato per passare dagli stati più elementari della vita psichica a quello stadio superiore derivato e complesso, che è il pensiero, nel quale non possiamo mantenerci, se non per atto di attenzione volontaria, che ha intensità e durata di speciale e non sorpassabile misura. Cotesto lavoro, che a noi si rivela, nella nostra diretta ed immediata coscienza, qual fatto, che ci concerna solo in quanto siamo persone singole e circoscritte dalla nostra naturale individuazione, non si avvera in ciascun di noi, se non in quanto noi siamo appunto, nell’ambiente della convivenza, esseri socialmente e quindi anche storicamente condizionati. I mezzi della convivenza sociale, che sono, da un lato le condizioni e gl’istrumenti, e dall’altro i prodotti della collaborazione variamente specificata, costituiscono, al di là di ciò che offre a noi la natura propriamente detta, la materia e gl’incentivi della nostra formazione interiore. Di qui nascono gli abiti secondarii, derivati e complessi, pei quali, di là dai termini della nostra corporea configurazione, sentiamo il nostro proprio io come la parte di un noi, il che vuol dire, in concreto, di un modo di vivere, di un costume, di una istituzione, di uno stato, di una chiesa, di una patria, di una

tradizione storica, e così via. In coteste correlazioni di consociazione pratica, che corrono da individuo a individuo, han la loro radice e hanno il loro fondamento obiettivo e prosaico tutte quelle varie rappresentazioni ideologiche di spirito pubblico, di psiche sociale, di coscienza etnica, e così via, intorno alle quali, come gente che pigli per enti e sostanze i rapporti e le relazioni, speculano, da metafisici di pessima scuola, i sociologisti e psicologisti, che io chiamerei simbolisti e simboleggianti. In questi medesimi rapporti pratici nascono le comuni correnti, per le quali il pensiero individuo, e la scienza che ne deriva, son vere e proprie funzioni sociali. E così siamo daccapo nella filosofia della praxis67, che è il midollo del materialismo storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. Dai bisogni, e quindi dai varii stati interni di benessere e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o insoddisfazione dei bisogni, alla creazione mitico-poetica delle ascoste forze della natura: e non viceversa. In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per molti un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciataa la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica d’un pensiero per sé stante (– la generatio aequivoca delle idee! –) rimane sostituita la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto. In fine, il materialismo storico, ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d’idealismo, che consideri le cose empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione, imitazione, esempio, conseguenza o come altro dicasi, d’un pensiero, come che siasi, presupposto, così è la fine anche del materialismo naturalistico, nel senso fino a pochi anni fa tradizionale della parola. La rivoluzione intellettuale, che ha condotto a considerare come assolutamente obiettivi i processi della storia umana, è coeva e rispondente a quell’altra rivoluzione intellettuale, che è riuscita a storicizzare la natura fisica. Questa non è più, per alcun uomo pensante, un fatto, che non fu mai in fieri, un avvenuto che non è mai divenuto, un eterno stante che non proceda, e molto meno il creato d’una volta sola, che non sia la creazione di continuo in atto.

V Roma, 24 Maggio ’97 Ripigliando al punto dov’ero rimasto l’altra volta, mi pare voi abbiate pienamente ragione di rimettere in campo il problema della filosofia in generale. Mi riferisco, così dicendo, non solo alla vostra Prefazione, che io vado quasi moltiplicando di effetto in questo mio prolungato conversar per iscritto, ma anche ad alcuni vostri articoli nel «Devenir Social»68, e, inoltre, a parecchie delle lettere private, che avete avuto la cortesia d’indirizzarmi. Vi dà pensiero, in fondo, che il materialismo storico possa apparire come campato in aria, fino a che abbia di contro a sé delle altre filosofie, con le quali non armonizzi, e fino a quando non si trovi modo di sviluppare la filosofia, che gli è propria, come quella che è insita ed immanente ai suoi assunti e alle sue premesse. Ho capito bene? Voi accennate esplicitamente alla psicologia, all’etica, e alla metafisica. Con quest’ultimo termine intendete di significare ciò che io, per effetto di altri abiti dello spirito e di altre maniere di trattazione didattica, chiamerei p. es.: Dottrina generale, o della Conoscenza, o delle Forme fondamentali del Pensiero, e così via, a un di presso, o per eccesso di cautela, o per tema di non incorrere in equivocazione, ed anche per non urtare in certi pregiudizii. Passo, però, sopra a cotesti accessorii terminologici; tanto perché noi, in fatto di scienza, non siam tenuti a starcene al significato che i termini hanno nella comune esperienza e nella comune intuizione (quando, come nella vita ordinaria, non c’è dato di chiamare altrimenti che pane il pane); ma quei significati fissiamo noi stessi, ponendo e sviluppando i concetti, che vogliamo compendiariamente formulare con una parola di convenzione. Si starebbe freschi a voler dedurre il significato ed il contenuto p. es. della chimica dall’etimo di tal parola: ci troveremmo di faccia all’Egitto antichissimo, anzi al nome che significa la terra gialliccia dai due lati delle sponde del Nilo e fino ai monti! Vi lascio in pace in compagnia della parola metafisica, se in questa v’accomoda d’acquietarvi. Frivolezze! Se un estensore di catalogo cacciasse domani nella rubrica dei metá physiká i Primi Principii dell’oramai indispensabile Spencer, non farebbe nulla di più e nulla di meno di quel che fece il bibliotecario di Pergamo nell’appiccicare cotale etichetta a quei vani trattati di prima filosofia (Aristotele non usa altro termine a denotarli)69, che nessuna cura di vecchi commentatori, né di critici moderni, è riuscita a ridurre mai alla

trasparenza e conseguenza di libro giunto a perfezione. Chi sa quanti sarebbero lieti ora di scovrire, che in fin delle fini il vecchio Stagirita, che ha ingombrato di sé le menti degli uomini per tanti secoli, ed è stato insegna a tante battaglie dello spirito, non fu se non un altro Spencer d’altri tempi, che, magari per sola colpa dei tempi, scrisse in greco, e anche maluccio. La tradizione non dee pesare sopra di noi come un incubo, come un impedimento, come un impaccio, come oggetto di culto e di stupida reverenza70; e siamo bene intesi di ciò: – ma, d’altra parte, la tradizione è ciò che ci tiene nella storia, il che è quanto dire, che è ciò che ci ricollega alle condizioni faticosamente acquisite, le quali agevolano il lavoro nuovo e rendono possibile il progresso. A fare altrimenti si è bestie; perché il solo lavorio secolare della storia differenzia noi dagli animali. E poi, inoltre, nessun che si metta a studiare, sia pur nel modo più concreto, empirico, particolare, minuto e circostanziato, un qualunque lato della realtà, può rifiutarsi mai di ammettere, che a un certo punto si è come assaliti dal bisogno di ripensare alle forme generali (ossia alle categorie), che son ricorrenti negli atti particolari del pensiero (unità, pluralità, totalità, condizione, fine, ragion d’essere, causa, effetto, progressione, finito, infinito e così via). Ora, per poco che in questa nuova curiosità ci soffermiamo, i problemi universali della conoscenza ci s’impongono; ossia, ci appariscono come necessariamente dati: – e in questa inevitabile suggestione ha origine e sede anche ciò che voi chiamate metafisica, e che può chiamarsi altrimenti. Tutto sta a sapere come cotesti dati vengano poi da noi maneggiati. La nota caratteristica, parlando, s’intende, molto genericamente, del pensiero classico (dico dei Greci), è una certa ingenuità nell’uso e nella trattazione di tali concetti. La nota caratteristica della filosofia moderna, e qui di nuovo molto per le generali, è il dubbio metodico, e quindi il criticismo, che accompagna, a guisa di sospettosa cautela, l’uso di tali forme, così nell’intrinseco, come nella portata estensiva. Ciò che decide di tale passaggio dalla ingenuità alla critica è la osservazione metodica (scarsa per estensione e per sussidii negli antichi), e, più che l’osservazione, l’esperimento volontariamente e tecnicamente condotto (che mancò quasi del tutto agli antichi). Sperimentando, noi diventiamo collaboratori della natura; – noi produciamo ad arte ciò che la natura da per sé produce. Esperimentando ad arte, le cose cessan dall’esser per noi dei meri obietti rigidi della visione perché si vanno, anzi, generando sotto la nostra guida; e il pensiero cessa dall’essere un presupposto, o un’anticipazione paradigmatica delle cose, anzi diventa concreto, perché cresce con le cose, a intelligenza delle quali viene progressivamente concrescendo. L’esperimento ad arte e metodico finisce da ultimo per indurci nella persuasione di questa verità semplicissima: che anche prima che nascesse la scienza, e in tutti gli uomini che alla scienza non arrivano,

le attività interiori, compreso l’uso della ovvia riflessione, sono come un venir crescendo, per la sollecitazione dei bisogni, di noi in noi stessi, e cioè un generarsi di nuove condizioni, successivamente elaboratea. Anche per questo rispetto il materialismo storico è la chiusa di un lungo sviluppo. Esso giustifica per fino il processo storico del sapere scientifico, facendo questo sapere qualitativamente consono e quantitativamente proporzionale alla capacità del lavoro; cioè facendolo rispettivo ai bisogni. Torno a voi, e vi do ragione per la staffilata che aggiustate all’agnosticismo. Esso è il pendant inglese del neokantismo tedesco: con un notevole divario però. Questo, il neokantismo, non rappresenta, in conclusione, se non una corrente accademica, che ci ha dato, con una più chiara conoscenza di Kant, una utile letteratura da eruditi; mentre quello, l’agnosticismo, per la sua diffusione popolare, è un fatto sintomatico della presente condizione di certe classi sociali. I socialisti avrebbero tutte le ragioni di credere, che quel fatto sintomatico sia uno degli indizii della decadenza della borghesia. Fa, certo, un malinconico contrasto con la eroica securtà del vero, che assiste il pensiero nei prodromi della storia moderna (Bruno e Spinoza!), con l’asseveranza da Convenzionali72, che fu propria dei pensatori del secolo passato fino a venir poi giù giù alla filosofia classica di Germania, ed anche con la precisione dei metodi esplorativi, i quali hanno ai tempi nostri allargato di tanto il dominio del pensiero su la natura. Ha l’aria della paurosa rassegnazione. Manca del carattere essenziale ad ogni filosofia, secondo Hegel, ossia del coraggio della verità73. Un qualcuno di quei Marxisti, che inducono così, senz’altro, a bruciapelo, dalle condizioni economiche ai riflessi ideologici, come chi issofatto traducesse i segni stenografici, potrebbe quasi dire, che cotesto Inconoscibile, tanto celebrato da una vasta setta di quietisti della ragione, è segno già che lo spirito dell’epoca borghese non è più atto a guardare perspicuamente nell’ordinamento del mondo, perché il capitalismo, dal quale esso toglie l’orientazione, è già in sé fradicio; e, per ciò, molti, nell’istintiva coscienza della prossima rovina, si danno ad una specie di religione dell’imbecillità. Simile asserto potrebbe sembrare per fino ingegnosamente bello, pur rimanendo non dimostrabile: sebbene poi rassomigli a molte delle sciocchezze, che furon dette da tanti in nome dell’interpretazione economica della storiaa. E, invece, io dico, che cotesto agnosticismo ci rende un grande servigio. Fermandosi gli agnosticisti a dire e a ripetere, che non è dato di conoscere la cosa in sé, l’intimissimo della natura, la causa ultima e il fondo dei fenomeni, essi per un’altra via, ossia a modo loro, come gente, cioè, che rimpianga

l’impossibile, vengono a quello stesso resultato al quale arriviamo noi, non con rimpianto ma da realisti che non cercano l’aiuto della immaginazione, e cioè: che non si può pensare se non su quello che noi possiamo sperimentare, in lato senso, noi stessi. Guardiamo a ciò che è accaduto nel campo della psicologia; fu fugata, da un canto, la illusione ideologica, che i fatti psichici si spieghino assumendone a sostanziale subietto un ente iperfisico; – fu bandita, dall’altro canto, la volgarità, più materiale che materialistica, essere il pensiero una secrezione del cervello; – fu fissata l’inerenza dei fatti psichici nello specificato organismo, in quanto l’organismo stesso è un processo di formazione, e in quanto i fatti psichici sono la interiorità dell’attività dei nervi, ossia questa attività in quanto è coscienza; – fu respinta la grossolana ipotesi del materialismo semplicistico, che cotesta interiorità, la quale si conserva e si complica, per il solo fatto che noi ne scovriamo giorno per giorno le rispettive condizioni nei centri nervosi, in quanto è interiorità, ossia funzione di coscienza, possa essere estensivamente osservata; – ed eccoci arrivati alla scienza psichica, che è impreciso, per non dire erroneo, di chiamare psicologia senza l’anima, ma bisogna denominare scienza dei prodotti psichici senza il mito della sostanza spirituale. Quando Engels nell’Antidühring usava della parola metafisica in senso peggiorativo, intendeva appunto di riferirsi a quelle maniere di pensare, ossia di concepire, di inferire, di esporre, che son l’opposto della considerazione genetica, e quindi (subordinatamente) dialettica delle cose75. Tali maniere son contrassegnate da questi due caratteri: in prima dal fissare, come per sé stanti, e del tutto indipendenti l’uno dall’altro, quei termini del pensiero, i quali in verità son termini solo in quanto rappresentano i punti di correlazione e di transizione di un processo; e, in secondo luogo, nel considerare quei termini stessi del pensiero come un presupposto, un’anticipazione, o anzi un tipo od un prototipo della povera e parvente realtà empirica. Nel primo rispetto, p. es. causa ed effetto, mezzo e fine, ragion d’essere e realtà, e così via, si presentano allo spirito soltanto come termini distinti, e quindi diversi, e alcune volte opposti; quasiché si desser cose, che siano per sé esclusivamente cause ed altre che siano per sé esclusivamente effetti, e così di seguito. Nel secondo caso pare come se il mondo dell’esperienza ci si andasse disintegrando e scindendo innanzi agli occhi in sostanza ed accidenti, in cosa in sé e fenomeno, in possibilità e in ovvia esistenza. Tutta cotesta critica si risolve nell’esigenza realistica di considerare i termini del pensiero, non come cose ed entità fisse, ma come funzioni; perché quei termini hanno valore, solo in quanto noi abbiamo qualcosa da pensare attivamente, e siamo in effettivo atto di pensare, procedendo.

Cotesta critica dell’Engels, che per molti rispetti è specificabile e precisabile ancora, e soprattutto per ciò che riguarda la origine di cotesto pensare metafisicamente, ripete a modo suo la opposizione hegeliana fra l’intendimento, che fissa gli opposti come tali, e la ragione, che gli opposti rimette in serie di processo ascendente – (la divina arte di conciliare gli opposti, direbbe Bruno – omnis determinatio est negatio, diceva Spinoza)76. Cotesta metafisica, sensu deteriori, ha alla lontana una qualche analogia con la origine dei miti. S’inradica nella teologia, in quanto questa è diretta a rendere plausibili al ragionamento formale i dati (subiettivi sì, ma che l’autoillusione fa parere obiettivi) del credere. Quanti miracoli non ha fatto il quasi-mito dell’eterno logos? Tale metafisica, in senso diremo oramai dispregiativo, come stadio e come intoppo di un pensiero ancora in formazione, ricorre in ogni ramo del sapere. Quanto sforzo non è costato alla riflessione dottrinale, nel campo della linguistica, l’andar sostituendo alla illusione paradigmatica delle forme grammaticali la genesi di queste: genesi che va psicologicamente cercata ed accertata nel vario atteggiarsi del parlare, che è un fare ed un produrre, e non un semplice factum? Così fatta metafisica, in senso d’ironia, esiste ed esisterà forse sempre nei derivati verbali e fraseologici dell’espressione del pensiero; perché la lingua, senza della quale noi non potremmo, né addivenire alla precisione di quello, né formularne la manifestazione, al tempo stesso che dice, altera ciò che esprime, ed ha perciò sempre in sé il germe del mito. Sprofondiamoci pur quanto si voglia nella teoria più generale delle vibrazioni, noi diremo sempre: la luce produce questo effetto: il calore opera così. Si ha sempre la tentazione, o per lo meno si corre il pericolo, di sostantivare un processo, o i termini di esso. Le relazioni, per via di una illusionale proiezione, divengono cose, e queste cose escogitate divengono, alla volta loro, soggetti operanti. Se facciamo attenzione, a questa così frequente ricaduta del nostro spirito nell’esercizio prescientifico dei mezzi verbali, noi ritroviamo in noi stessi i dati psicologici del modo come si originarono, in altre circostanze e tempi, le obiettivazioni delle forme del pensiero stesso in enti e in entità, come è il caso tipico delle idee platoniche: e lo dico tipico perché è il più plastico fra tutti. Di tale metafisica, in quanto essa è la immaturità di una mente non ancora scaltrita dall’autocritica, e non rafforzata dall’esperimento, è piena tutta la storia; che appunto per ciò, come per tanti altri motivi, è anche superstizione, mitologia, religione, poesia, fanatismo delle parole, e culto delle vuote forme. Lascia, cotale metafisica, le sue tracce anche in ciò che ai tempi nostri chiamiamo orgogliosamente scienza. Non aduggia essa forse il campo della economia politica? Quel danaro, che, da semplice mezzo di scambio qual è in prima, si fa capitale, solo in quanto è in funzione col lavoro produttivo, non diventa forse, nella fantasia degli economisti,

capitale ab origine, che per un diritto innato getti interesse? Ecco il gran significato di quel capitolo di Marx, dove si parla del capitale come di feticcioa. Di questi feticci è piena la scienza economica. La qualità di merce, che è propria del prodotto del lavoro umano, solo in un certo rispetto storico, – e, ossia, in quanto gli uomini vivono in un certo dato sistema di correlazione sociale, – diventa una qualità intrinseca ab aeterno al prodotto stesso. Il salario, che non è concepibile, se a determinati uomini non è imposta la necessità di darsi a mercede ad altri uomini, diventa una categoria assoluta, cioè un elemento d’ogni guadagno; e perfino l’intraprenditore capitalista si adorna del titolo di un che ritragga da sé stesso un più alto salario! E poi la rendita della terra: – della terra, dico! Non ci sarebbe da venirne mai alla fine, se si volesse enumerarle tutte coteste trasformazioni metaforiche dei rapporti relativi in eterni attributi degli uomini o delle cose. Ma che non è diventata la lotta per l’esistenza nel volgare Darwinismo? – un imperativo, un comando, un fato, un tiranno; e addio le empiriche circostanze del topo e della gatta, della nottola e dell’insetto, della erbaccia e del trifoglio. L’evoluzione, ossia l’espressione compendiaria d’infiniti processi, che dan luogo a tanti problemi circostanziati e non ad un singolo teorema, non si trasforma spesso, fantasticamente, nella Evoluzione? Per fino nelle volgarizzazioni della sociologia marxista, le condizioni, i rapporti, le correlatività di coesistenza economica acquistano – forse il più delle volte per insufficienza stilistica degli espositori – un certo che di fantasticamente soprastante a noi; come se nel problema ci fossero altri dati da questi in fuori: persone e persone, cioè inquilini e padroni di casa, proprietarii e fittaioli, capitalisti e salariati, signori e servitori, sfruttati e sfruttatori, cioè, in una parola, uomini ed uomini, che, in precise condizioni di tempo e di luogo, trovansi in varia dipendenza fra loro, per l’uso così e così distribuito e collegato dei mezzi necessari all’esistenza. La indubbia ricorrenza del vizio metafisico, che alcune volte a dirittura confina con la mitologia, ci dee rendere indulgenti verso le cause e condizioni, o direttamente psichiche o più generalmente sociali, che per tanto tempo ritardarono in passato l’apparizione del pensiero critico, coscientemente sperimentale e cautamente antiverbalistico. Né vale di ricorrere alle tre epoche del Comte78. È questione, sì, di quantitativo predominio della forma teologica o metafisica nelle diverse epoche della storia, ma non di esclusività qualitativa, a fronte della così detta epoca scientifica. Gli uomini non furon mai esclusivamente teologisti o metafisici, come non saranno mai esclusivamente scientifici. Il più umile selvaggio che paventa i feticci, sa che il fiume in discesa gli costa minor fatica, che non il fiume su cui nuoti contro corrente, e nel suo

elementarissimo esercizio del lavoro ha in sé un embrione di esperienza e di scienza. Ai giorni nostri ci sono, viceversa, degli scienziati con la mente ingombra di mitologia. La metafisica, nel senso di ciò che sarebbe il contrario della correttezza scientifica, non è già un fatto precisamente così preistorico, da stare alla pari col tatuaggio e con l’antropofagia! Non è, spero, chi voglia mettere esclusivamente sul conto attivo del materialismo storico la vittoria definitiva su la metafisica, nella significazione usata qui innanzi, secondo Engels. Esso è, anzi, un caso particolare, per rispetto allo sviluppo del pensiero antimetafisico. Non sarebbe stato veramente possibile, se l’intelletto critico non si fosse formato già per l’innanzi. Qui c’è da fare i conti con tutta la storia della scienza moderna. Quando il Don Ferrante dei Promessi Sposi (siamo, s’intende bene, al secolo XVII) che fu, se Leone XIII non vorrà per invidia di mestiere aversene a male, l’ultimo scolastico veramente convinto, moriva di peste, negando la peste, attesoché quella non rientrasse nelle dieci categorie di Aristotele79, lo scolasticismo avea ricevuto già i primi, e fieri, e decisivi colpi. E da allora in qua è tutta una storia di conquiste positive del pensiero, che hanno, o assorbita, o eliminata, o altrimenti ridotta e combinata quella materia del conoscere, che innanzi formava la filosofia per sé stante, e quindi soprastante alla scienza. In cotesto cammino del pensiero scientifico, noi c’incontriamo, p. es., nella psicologia empirica, nella linguistica, nel Darwinismo, nella storia delle istituzioni e nel criticismo propriamente detto. Direi anche nel Positivismo, se non temessi d’ingenerare equivoco. Di fatti il Positivismo, guardato così in genere e per sommi capi, è una delle tante forme in cui lo spirito s’è andato avvicinando al concetto di una filosofia, che non anticipi su le cose, ma sia a queste immanente. Non è quindi da maravigliare, se, per la generica similarità che riavvicina il materialismo storico a tanti altri prodotti dello spirito e del sapere contemporaneo, molti di quelli che trattano la scienza alla maniera dei letterati e dei leggitori di riviste, ingannati dalle impressioni, e seguendo gl’impulsi della erudita curiosità, han creduto di poter completare Marx, o con questa, o con quell’altra cosa. Di coteste storpiature ne avremo per un pezzo. Induce soprattutto in cotesto errore l’abito, comune a quasi tutta la scienza del nostro tempo, della considerazione evolutiva o genetica: cosicché agli inesperti e superficiali pare che da chiunque si parli di evoluzione si dica lo stesso. Voi molto giustamente portate la vostra attenzione su i caratteri differenziali e differenziati del materialismo storico – i quali, aggiungo io, son proprii di una scienza da comunisti dialetticamente rivoluzionarii – e non vi proponete il quesito se il signor Marx possa andare a braccetto del tale o tale altro filosofo, ma vi chiedete, invece, quale filosofia sia a questa dottrina necessariamente e obiettivamente implicita.

Gli è per questa ragione che io vi ho lasciato e vi lascio anche l’uso della parola metafisica, nel senso non dispregiativo. In fondo al Marxismo ci son dei problemi generali; e questi si aggirano, per un verso su i limiti e su le forme del conoscere, e, per un’altra parte, su le attinenze del mondo umano col resto del conoscibile e del conosciuto. Non è ciò che intendete voi di dire? Tanto è, che io appunto alle questioni più generali rivolsi l’attenzione mia nel secondo dei miei saggi; ma con un modo di trattazione che dissimula l’intento.

Chi consideri il materialismo storico nel suo insieme, può trovarvi argomento a tre ordini di studii. Il primo risponde al bisogno pratico, proprio ai partiti socialistici, di andare acquistando una adeguata conoscenza della specificata condizione del proletariato in ogni paese, e di commisurare, congruamente alle cause, alle promesse ed ai pericoli della complicazione politica, l’azione del socialismo. Il secondo può menare, e menerà di certo, a rinnovare gl’indirizzi della storiografia, in quanto abiliti a ricondurne l’arte sul terreno delle lotte di classe e della combinatoria sociale, che da quelle risulta, data la relativa struttura economica, che ogni storico deve d’ora innanzi conoscere ed intendere. Il terzo consiste nella trattazione dei principii direttivi, a comprendere e svolgere i quali occorre di necessità la generale orientazione da voi invocata. Ora, pare a me – e ho dato di ciò la prova, scrivendo – che quando non si cada nell’antiquato errore di credere, che le idee stiano come degli esemplari al di sopra delle cose, ammessa la inevitabile division del lavoro, il darsi alla considerazione dei principii generali, presi per sé, non implichi per forza lo scolasticismo formale, ossia la ignoranza delle cose dalle quali quei principii vengono astratti. Certo che quei tre ordini di studii e di considerazioni faceano uno nella mente di Marx, e, oltre che nella mente, fecero uno nell’opera sua. La sua politica fu come la pratica del suo materialismo storico, e la sua filosofia fu come inerente a quella sua critica dell’economia, la quale fu il suo modo di trattare la storia. Ma, lasciando stare che cotesta universalità di comprensione è la nota specifica del genio che inizii un nuovo indirizzo mentale, il fatto è che Marx stesso in un solo caso portò a compimento la integrazione della sua dottrina, ed è nel Capitale. La perfetta immedesimazione della filosofia, ossia del pensiero criticamente consapevole, con la materia del saputo, ossia la completa eliminazione del divario tradizionale tra scienza e filosofia, è una tendenza del nostro tempo: tendenza, che il più delle volte rimane però un semplice desideratum. Cotesta tendenza vorrebbero alcuni significare, appunto quando dicono superata la metafisica (in ogni senso); mentre altri, che son più esatti, suppongono che la scienza giunta a perfezione sia già la filosofia riassorbita. La medesima tendenza giustifica quella dicitura di filosofia scientifica, che altrimenti sarebbe d’un risibile barocchismo. Se cotesta espressione può mai avere un riscontro pratico di evidenza probativa, gli è proprio nel materialismo storico, come fu nella mente e negli scritti di Marx. Ivi la filosofia è tanto nella cosa stessa, e in essa e con essa rifusa, che il lettore di quegli scritti ne prova l’effetto, come se il filosofare non sia se non la funzione stessa del procedere scientificamente. Devo io qui stare a fare delle confessioni; o mi tocca solo di limitarmi a discorrer con voi obiettivamente, su quei punti che possono riavvicinarci negli intenti? Se io dovessi fermarmi alle espressioni aforistiche, che son proprie della

confessione, io direi così: – a) l’ideale del sapere deve esser questo, che in esso cessi la opposizione fra scienza e filosofia; – b) ma, come la scienza (empirica) è in continuo divenire, e si moltiplica così nella materia come nei gradi, differenziando in pari tempo gl’ingegni che i singoli rami ne coltivano, e d’altra parte s’è accumulata e s’accumula di continuo sotto al nome di filosofia la somma delle cognizioni metodiche e formali; – c) così la opposizione tra scienza e filosofia si mantiene e si manterrà, come termine e momento sempre provvisorio, per indicare appunto, che la scienza è di continuo in sul divenire, e che in cotesto divenire entra per non poca parte l’autocritica. Basta guardare a Darwin per intendere quanto occorra di proceder cauti nell’affermare, che la scienza dell’ora presente sia per sé stessa la fine della filosofia. Darwin ha di certo rivoluzionato il campo delle scienze dell’organismo, e con esse l’intera concezione della natura. Ma in Darwin stesso non fu la coscienza completa della portata delle sue scoverte: egli non fu il filosofo della sua scienza. Il Darwinismo, come nuova visione della vita, e quindi della natura, è di qua dalla persona e dagl’intenti dello stesso Darwin. Viceversa alcuni volgarizzatori del Marxismo hanno spogliato questa dottrina della filosofia che le è immanente, per ridurla ad un semplice aperçu del variare delle condizioni storiche per il variare delle condizioni economiche. Osservazioni così semplici bastano per persuaderci, che se noi possiamo affermare, che la scienza arrivata a perfezione è già la filosofia, ossia che questa non significhi se non l’ultimo grado della elaborazione dei concetti (Herbart), noi non dobbiamo, con l’enunciazione di tale postulato, autorizzar nessuno a parlare con dispregio di ciò che in senso differenziato chiamasi la filosofia, come non dobbiamo dare a credere a tutti gli scienziati, che, a qualunque grado dello sviluppo mentale si arrestino, essi sian di già i trionfatori o gli eredi di quella bagattella che fu la filosofia. E voi, perciò, non avete posta una questione che possa dirsi oziosa, mentre chiedete, a un di presso: – con quale animo il cultore del materialismo storico guarderà la rimanente filosofia?

VI Roma, 28 Maggio ’97 Nella biografia scientifica dei due nostri grandi autori c’è una lacuna. Nel 1847 una loro opera viaggiava per la stamperia; ma rimase poi inedita per ragioni accidentalia. In quel libro, che è rimasto un semplice manoscritto, e che, per quanto io sappia, non fu visto dappoi da nessun altro dagli autori in fuorib, essi, come se facessero un esame di coscienza, fissarono la loro veduta nel campo filosofico, a raffronto delle altre correnti contemporanee. Che cotesto esame fosse fatto in relazione principalmente ai derivati dell’Hegelismo, e al contraccolpo materialistico di esso nella dottrina di Feuerbach, non v’è dubbio alcuno. Oltre alle ragioni generali del movimento filosofico del tempo, stanno in favore di questa opinione i brani di articoli di giornali e di riviste, che, come reliquie del Marx polemista d’allora, furon di recente pubblicati dallo Struve nella «Nene Zeit»82. Ma quale era la complessiva posizione mentale dei due scrittori? quale era il loro orizzonte bibliografico? quale atteggiamento assumevano verso gli altri fermenti della scienza, che son poi fioriti in tante rivoluzioni, così nel campo della filosofia naturale, come in quello della filosofia storica, e quale notizia vi aveano essi? A tutte coteste domande non è dato di rispondere adeguatamente. Si capisce, del resto, che, se a nessuno può rincrescere d’aver pubblicato da giovane degli scritti, che da vecchio non scriverebbe a quel modo, il non averli pubblicati a suo tempo è grave impedimento agli autori stessi per tornarci su; cosicché Engels diceva, che quell’opera avesse in fondo prodotto tutto l’effetto suo: fissare cioè, l’orientazione di quelli che la scrissero. E poi dopo di quel tempo, presa che ebbero la loro via, i due autori non scrissero più di filosofia nel senso differenziato della parolaa. Non solo le loro occupazioni di agitatori pratici, di pubblicisti, e d’intesi a seguire il movimento proletario, influendo sopra di esso, ma la stessa vocazione mentale loro li distoglieva dal mestiere di filosofi en titre. Sarebbe per ciò cosa vana l’andar passo passo ricercando che opinione si facessero essi, nei loro studii e letture, dei nuovi portati della scienza, in quanto questi venivano o non venivano a recar sussidio al nuovo indirizzo di filosofia storica da loro escogitato. Certo che nella psicologia, come s’è da ultimo svolta, nell’acuito criticismo nel campo della filosofia professionale, nella scuola dell’economia storica, nel Darwinismo, così nel senso specifico come nel senso lato, nella cresciuta tendenza alla storicità nel

considerare i fenomeni naturali, nelle scoverte della preistoria delle istituzioni, e nella inclinazione sempre più forte verso la filosofia della scienza, ci è dato di riconoscere come dei sussidii e come dei casi analogici al prodursi del materialismo storico. Ma sarebbe cosa ridicola il voler misurare alla stregua di ciò che è debito d’un redattore d’una «Rivista critica», che è la bibliografia all’opera, o del professore che sciorina agli scolari le impressioni successive delle sue letture, il lavoro di assimilazione della scienza contemporanea, che potean fare, o effettivamente fecero, quei due pensatori, i quali disponevano d’un così specifico e specificato angolo visuale, e aveano nel materialismo storico un individuato istrumento di ricerca e di riduzione. E in ciò consiste, del resto, ciò che chiamiamo la originalità; e fuori di tali confini questa parola significherebbe l’assurdo. Non scrivendo più di filosofia, nel senso professionalmente differenziato e differenziale, finiron per essere i più perfetti esemplari di quella filosofia scientifica, che per molti è un semplice pio desiderio, per altri è un mezzo di spiattellare in nuova dicitura fraseologica le ovvie cognizioni della scienza empirica, alcune volte è una forma generica di razionalismo, e al postutto non è possibile, se non a chi entri nei particolari della realtà con la penetrazione che è propria di un metodo genetico inerente alle cose. Engels da ultimo scriveva: «Dal momento che per ogni scienza diventa una necessità il venire in chiaro su la sua propria posizione nell’insieme delle cose e della conoscenza delle cose, la scienza speciale dell’insieme diventa superflua. Ciò che della filosofia, svoltasi fino ad ora, rimane tuttora come per sé stante, gli è la dottrina del pensiero e delle sue leggi – la logica formale e la dialettica. Tutto il resto si risolve nella scienza positiva della natura e della storia»a. Agli eruditi, ai ricercatori di temi per dissertazione, ai dottori novellini, tutto è possibile. Come han messo assieme l’etica di Erodoto, la psicologia di Pindaro, la geologia di Dante, l’entomologia di Shakespeare e la pedagogica di Schopenhauer, così a fortiori, e a più giusto titolo, potrebbero scrivere della logica del Capitale, anzi costruire un insieme della filosofia di Marx, tutta specificata e spartita secondo le sacramentali rubriche della scienza professionale. Question di gusti! – io che, per esempio, preferisco l’ingenuità di Erodoto e la poderosità di Pindaro alla erudizione che ne stemperi gli unitarii prodotti in amminicoli di postuma analisi, lascio volentieri al Capitale la integralità sua, a produrre la quale concorrono organicamente tutte le nozioni e conoscenze, che allo stato differenziato han nome di logica, di psicologia, di sociologia, di diritto e di storia nel senso ovvio; – e ci concorre anche quella singolare flessibilità e flessuosità del pensiero, che è la estetica della dialettica. Rimane per ciò quel libro, e rimarrà sempre, analizzabile sì nei particolari, ma inafferrabile nell’insieme, per gli empiristi puri, per gli scolasticisti dalle

definizioni nette e non convertibili nel flusso del pensiero, per gli utopisti d’ogni maniera, e soprattutto per gli utopisti del liberismo e pei libertarii, che sono, dal più al meno, anarchisti senza saperlo. Immergersi nel concreto delle correlatività sociali e storiche gli è cosa per molti intelletti di una difficoltà quasi insuperabile. Invece di pigliare l’insieme sociale, come un dato in cui geneticamente si svolgono delle leggi, le quali sono relazioni di movimento, molti han bisogno di rappresentarsi delle cose fisse, p. es. l’egoismo di qua, l’altruismo di là, e così via. Il caso caratteristico è quello dei moderni edonisti85. Non si arrestano alla compagine sociale, come al dato specifico della dottrina economica, ma risalgono ai giudizii di valutazione, come alla premessa (logicopsicologica) della Economica. In questi giudizii trovano una scala, e studiano (per la più parte in forma tipica ed ipotetica) i gradi di essa; come chi studiasse nell’estetica formale i soli gradi del compiacimento. Di fronte a tali valutazioni (o gradi dell’apprezzamento del bisogno) stanno le cose, che sono i beni; e queste cose vengono esaminate nella loro relazione con gli apprezzamenti, tenuto conto della loro quantità disponibile ed acquisibile, il che determina per esse la qualità di valori, il limite dei valori ed il valore-limite. Costituita così la posizione astratta e generica della economicità, indifferentemente, così per le cose di cui la natura ci è prodiga, come per quelle che costano agli uomini il sudore della fronte (e l’ingrato lavoro della storia), la povera economia ovvia e comune, ossia la economia della convivenza che ci è familiare, e su la quale si sono travagliati i teoretici di scuola classica, e i critici del socialismo, diventa come un caso particolare di un’algebra universalissima. Il lavoro, che per noi è il nerbo stesso del vivere umano, ossia l’uomo stesso che si svolge, diventa in cotesta veduta, o lo sforzo per evitare una pena, o la minor pena. In cotesta astratta atomistica delle conazioni, degli apprezzamenti e delle quantità di beni, non si sa più che cosa sia la storia, e il progresso si risolve in una mera parvenza. Se mai occorresse di formulare, non sarebbe fuori di luogo il dire, che la filosofia implicita al materialismo storico è la tendenza al monismo; – e uso la parola tendenza, accentuandola. Dico tendenza, e aggiungo tendenza criticoformale. Non si tratta già, insomma, di tornare alla intuizione teosofica o metafisica della totalità del mondo, come se noi, per atto di cognizione trascendente, giungessimo issofatto alla visione della sostanza a tutti i fenomeni e processi sottostante. La parola tendenza esprime precisamente l’adagiarsi della mente nella persuasione, che tutto è pensabile come genesi, che il pensabile, anzi, non è che genesi, e che la genesi ha i caratteri approssimativi della continuità. Ciò che differenzia cotesto senso della genesi dalle vaghe intuizioni trascendentali (p. es., Schelling) è il discernimento critico, e quindi il bisogno di

specificare la ricerca: ossia il riavvicinamento all’empirismo per ciò che concerne il contenuto del processo, e la rinuncia alla pretesa di recarsi in mano lo schema universale di tutte le cose. I volgari evoluzionisti fanno così: afferrata la nozione astratta del divenire (evoluzione), ci caccian dentro ogni cosa, dal concretarsi della nebulosa alla fatuità loro. Così facevano i ripetitori di Hegel, col ritmo soprastante e perpetuo, della tesi, antitesi e sintesi. Ragione precipua dell’accorgimento critico, col quale il materialismo storico corregge il monismo, è questa: che esso parte dalla praxis, cioè dallo sviluppo della operosità, e come è la teoria dell’uomo che lavora, così considera la scienza stessa come un lavoro. Porta infine a compimento il senso implicito alle scienze empiriche; che noi, cioè, con l’esperimento ci riavviciniamo al fare delle cose, e raggiungiamo la persuasione, che le cose stesse sono un fare, ossia un prodursi. Il brano dell’Engels citato più innanzi potrebbe, però, dar luogo a delle curiose illazioni; come chi si pigliasse tutta la mano, quando altri gli ha offerto il dito. Dato ed ammesso, che la logica e la dialettica continuino a sussistere come per sé stanti, non può esser questa, si direbbe, occasione propizia a rimettere a novo tutta la enciclopedia filosofica? Rifacendo, a parte a parte, e per ogni singolo ramo di scienza, il lavoro di astrazione degli elementi formali che vi sono impliciti, si riesce a scrivere dei vasti e comprensivi sistemi di logica, come son quelli esemplari del Sigwart e del Wundt86; le quali, in verità, son delle vere enciclopedie della dottrina dei principii del sapere. Ora se è questo il desiderio dei filosofi professionali, stiano pur tranquilli, che le loro cattedre non saranno abolite. La division del lavoro nel campo intellettuale si presta praticamente a molte combinazioni. Se c’è chi voglia compendiare in forma schematica i principii, coi quali noi ci rendiamo conto di un determinato gruppo di fatti, p. es., di un determinato ordinamento giuridico, nulla osta che egli cotesta disciplinaa chiami scienza generale del diritto o anche, se gli piace, filosofia del diritto, purché si rammenti che riduce a sistema (empirico) un ordine di fatti storici; ossia che coglie una categoria storica come il divenuto del divenire. Tendenza (formale e critica) al monismo, da una parte, virtuosità a tenersi equilibratamente in un campo di specializzata ricerca, dall’altra parte: – ecco il resultato. Per poco che s’esca da questa linea, o si ricade nel semplice empirismo (la non-filosofia), o si trascende alla iperfilosofia, ossia alla pretesa di rappresentarsi in atto l’Universo, come chi ne possedesse la intuizione intellettuale. Leggete, di grazia, se non l’avete già letta, la conferenza di Haeckel sul monismo, che fu volgarizzata in Francia da un appassionato darwinista della sociologiaa. In quell’insigne scienziato si confondono tre attitudini diverse: una

maravigliosa capacità alla ricerca e dichiarazione dei particolari, una profonda elaborazione sistematica dei particolari appurati, e una poetica intuizione dell’Universo, che pur essendo della immaginazione, alcune volte pare della filosofia. Ma mettere voi, illustre Haeckel, tutto l’Universo, dalle vibrazioni dell’etere alla formazione del cervello; ma che dico del cervello, anzi giù giù, dopo questo, dalle origini dei popoli e degli stati e dell’etica fino ai tempi nostri, compresi i principotti protettori della vostra Università di Iena, ai quali fate le riverenze, in sole 47 pagine in-8°, è cosa superiore per fino all’eccellenza dell’ingegno vostro! Non vi sovviene forse di quei tanti buchi, che l’Universo presenta anche alla provetta scienza nostra: o avete a casa un grande armadio pieno di quei berretti da notte, che Heine dicea usassero gli hegeliani a covrire quei buchi?88 O non vi ricordate di cosa che dovrebbe più direttamente scottarvi: quel tale batibio, che prese nome da voi in una scoverta dell’Huxley, che era poi, viceversa, un solenne qui-pro-quo?89 Dunque, tendenza al monismo, ma al tempo stesso coscienza precisa della specialità della ricerca. Tendenza a fondere scienza e filosofia, ma, medesimamente, continuata riflessione su la portata e sul valore di quelle forme del pensiero, che usiamo in concreto, e che pur possiamo distaccar dal concreto, come accade nella logica stricto jure, e nella teoria generale della conoscenza (che voi chiamate metafisica). Pensare in concreto, e pur poter riflettere in astratto su i dati e su le condizioni della pensabilità. La filosofia c’è e non c’èb. Per chi non c’è ancora arrivato, essa è come il di là dalla scienza. E per chi c’è arrivato, essa è la scienza condotta a perfezione. Oggi, come in passato, noi possiamo scrivere, su i dati astratti da una determinata esperienza, dei trattati p. es., di etica o di politica, e possiamo dare alla trattazione tutta la perspicuità del sistema: purché ci ricordiamo di questo, che le premesse cioè si ricollegano geneticamente ad altro; purché non cadiamo nella illusione (metafisica) di considerare i principii come degli schemi ab aeterno, ossia come le sopraccose delle cose dell’esperienza. A questo punto nulla c’impedisce di enunciare una formula come la seguente: tutto il conoscibile può essere conosciuto; e tutto il conoscibile sarà, all’infinito, realmente conosciuto; e di là dal conoscibile, a noi, nel campo della conoscenza, non importa nulla di null’altro. Questo generico enunciato, nel suo aspetto pratico, si riduce a dire: che la conoscenza tanto importa per quanto ci è dato di realmente conoscere, e che è una mera fantasticheria l’ammettere, che la mente riconosca, come esistente in atto un’assoluta differenza fra il limitato conoscibile e ciò che è per sé inconoscibile: – un inconoscibile, che io dichiaro di conoscere come inconoscibile! Come fate voi, von Hartmann, a bazzicare da tanti anni con

l’Inconsapevole, che voi così consaputamente vedete operare; e voi, signor Spencer, a manovrare di continuo col riconoscimento dell’Inconoscibile, che in fondo voi in qualche modo sapete, se ne fate il limite del conoscibile?91 In fondo a cotesta fraseologia dello Spencer si cela il dio del catechismo; – c’è, insomma, il residuo di una iperfilosofia, che rassomiglia, come la religione, al culto di quell’ignoto, che, in uno e medesimo tempo, si dichiara ignoto, e pur si afferma di conoscere in certa guisa facendone oggetto di riverenza. In tale stato d’animo la filosofia è ridotta allo studio dei fenomeni (parvenze), e il concetto di evoluzione non implica punto che la realtà stessa divenga. Per il materialismo storico il divenire, ossia l’evoluzione, è invece reale, anzi è la realtà stessa; come è reale il lavoro, che è il prodursi dell’uomo, che ascende dalla immediatezza del vivere (animale) alla libertà perfetta (che è il comunismo). In questa inversione pratica del problema della conoscibilità, noi ci rechiamo interamente in mano la scienza, in quanto essa è il fatto nostro. Una nuova vittoria sul feticcio! Il sapere è per noi un bisogno, che empiricamente si produce, si raffina, si perfeziona, si corrobora di mezzi e di tecnica, come ogni altro bisogno. Noi via via conosciamo ciò che ci occorre di conoscere. L’esperimentare è un crescere; e ciò che chiamiamo il progresso dello spirito, non è se non un accumularsi di energie di lavoro. In cotesto prosaico assunto si risolve quell’assolutezza della conoscenza, che era per gli idealisti un postulato di ragione, o una argomentazione ontologicaa. Quella tal cosa (così detta in sé), che non si conosce, né oggi, né domani, che non si conoscerà mai, e che pur si sa di non poter conoscere, non può appartenere al campo della conoscenza, perché non si dà conoscenza dell’inconoscibile. Se un simile assunto entra nella cerchia della filosofia, gli è perché la coscienza del filosofo non è tutta fatta di scienza, ma consta ancora di tanti altri elementi sentimentali ed affettivi, da cui, sotto l’impulso della paura, e per tramite della fantasia e del mito, si generano combinazioni psichiche, le quali, come in passato impedirono lo sviluppo della cognizione razionale, così ora adombrano il campo del sapere meditato e prosaico. Pensiamo alla morte. Essa è teoreticamente insita alla vita. La morte, che pare così tragica negli individui complessi, che alla comune intuizione appariscono come i veri e proprii organismi, è immanente agli elementi primissimi della sostanza organica, per la estrema labilità e per la circoscritta plasticità del protoplasma. Ma tutt’altro è la paura della morte – ossia l’egoismo del vivere! E così è di tutte le altre affettività e tendenze passionali, che, nelle loro derivazioni mitiche, poetiche e religiose, gettarono, gettano e getteranno in varia proporzione le ombre loro sul campo della coscienza. La filosofia dell’uomo puramente teoretico, che tutte le cose contempli sotto l’aspetto del

proprio esser loro, gli è come il tentativo di far passare il pensiero astratto su tutto il campo della coscienza, senza che v’incontri, né deviazioni, né attriti. Ecco Baruch Spinoza, il vero eroe del pensiero, che sé stesso contempla in quanto gli affetti e le passioni, a guisa di forze della interiore meccanica, gli si trasmutano in obietti di considerazione geometrica! En attendant che in una futura umanità di uomini quasi trasumanati, l’eroismo di Baruch Spinoza divenga la virtù minuscola di tutti i giorni, e che i miti, la poesia, la metafisica e la religione non ingombrino più il campo della coscienza, contentiamoci che fino ad ora, e per ora, la filosofia, così nel senso differenziato, come nell’altro, sia servita quale istrumento critico e serva, per rispetto alla scienza, a mantenere la chiaroveggenza dei metodi formali e dei procedimenti logici, e per rispetto alla vita a diminuire gl’impedimenti che all’esercizio del libero pensiero frappongono le fantastiche proiezioni degli affetti, delle passioni, dei timori e delle speranze; ossia giovi e serva, come direbbe precisamente Spinoza, a vincere l’imaginatio e l’ignorantia.

VII Roma, 16 Giugno ’97 Mi capita un bel caso. Mentre pareami di non esser venuto al termine ancora di queste mie epistole, m’è toccato di dover discorrere delle stesse precise cose, delle quali mi vado intrattenendo con voi, in altro luogo, in altra forma, e d’animo men lieto. In uno degli ultimi numeri della «Critica Sociale» apparve una specie di messaggio, che il signor Antonino De Bella sociologo calabrese dirigeva contro quei socialisti esclusivi, che per ogni cosa ed in ogni questione, a quel che dice lui, se ne stanno al verbo di Marx93. Il De Bella ha mancato di farci sapere, se il Marx, cui quelli che tartassa s’appellano, sia il genuino, o un altro così per dire alterato, o a dirittura inventato, un Marx biondo, o che so io altro. Il fatto è che m’ha concesso l’onore di metterci anche me nel branco di cotesti ostinati, cui rivolge i suoi moniti e i suoi consigli, perché si completino d’altra più vasta coltura sociologica e naturalistica. Cita invero il solo mio nome, senza dire a quale mio scritto, detto o fatto intenda di richiamarsi: e poi giù un pochino del solito catechismo della sociologia intinta di Darwinismo, con la inevitabile filastrocca di tanti nomi di autori94. Credetti opportuno di rispondere; un po’ per dire sommariamente, come il socialismo scientifico non si trovi poi tanto a mal partito, da aver proprio bisogno di certi consigli; per mostrare, che i complementi suggeriti dal De Bella, o sono i sottintesi, o sono il contrario del Marxismo; e soprattutto perché, trovandomi da un pezzo in qua in vena di conversare con voi di socialismo e di filosofia, m’è parso opportuno di fissare con note ad hominem parecchie delle considerazioni critiche, che vado svolgendo tête-à-tête con voi, con una certa tal quale bizzarria di forma. Vi mando la mia risposta, come è apparsa nella «Critica Sociale» di ieri95. E anche questa è una lettera; e, sebbene non sia diretta a voi, potete metterla nella collezione, come se facesse seguito. Completa e riassume le altre, con qualche leggera e scusabile ripetizione. Questa lettera extra, che indirizzavo al direttore della «Critica Sociale», non è dolce di sale. Non la scrissi proprio con l’intenzione di far cosa grata al signor De Bella. C’è del cattivo umore. Forse questo umor di critica rivelante amarezza m’è venuto dal fatto, che, standomene io con la mente rivolta allo studio di questo grave problema dei rapporti del materialismo sociale col rimanente della

intuizione scientifica contemporanea, m’è parso che i consigli del signor De Bella, – che del resto non stava a spiare quel che io vado scrivendo a voi, – fossero, per lo meno quanto a me, inopportuni; se non altro perché non avrei la fantasia di chiedergliene96. Roma, 5 Giugno 1897 Caro Turati, Non mi è ben chiaro se il De Bella, nominandomi, parli proprio di me. Sarei anzi inclinato a credere, che egli rivolga la sua tirata a un mannequin di sua fattura, al quale abbia, commoditatis causa, appiccicato il nome mio. Comunque sia, dal momento che mescola il mio nome alle sue meditazioni, io non posso a meno di aggiungere alla vostra una nuova postilla. Com’è risaputo, io entrai esplicitamente e pubblicamente nelle vie del socialismo solo dieci anni faa. Dieci anni sono un tratto di tempo non veramente lungo nella mia esistenza fisica, giacché ne conto ormai quattro oltre il mezzo secolo; ma sono un tratto a dirittura breve nella mia vita intellettuale. Prima, insomma, di diventar socialista, io avevo avuto inclinazione, agio e tempo, opportunità ed obbligo d’aggiustar le mie partite ed i miei conti col Darwinismo, col Positivismo, col Neokantismo, e con quanto altro di scientifico si è svolto intorno a me, e ha dato a me occasione di svolgermi tra i miei contemporanei, poiché tengo cattedra di filosofia all’Università dal 1871, e per l’innanzi ero stato studioso di ciò che occorre per filosofare. Volgendomi al socialismo, non ho chiesto a Marx l’abicì del sapere. Al Marxismo non ho chiesto, se non ciò ch’esso effettivamente contiene: ossia quella determinata critica dell’economia che esso è, quei lineamenti del materialismo storico che reca in sé, quella politica del proletariato che enuncia o preannuncia. Non chiesi al Marxismo nemmeno la conoscenza di quella filosofia, che esso suppone, e, in un certo senso, continua, superandola per inversione dialettica; ed è l’Hegelismo, che rifioriva appunto in Italia nella mia gioventù, e nel quale io m’ero come allevato. Manco a farlo a posta, la mia prima composizione filosofica, in data del Maggio 1862, è una: Difesa della dialettica di Hegel contro il ritorno a Kant iniziato da Ed. Zeller!98 Per intendere il socialismo scientifico non mi occorreva, dunque, di avviarmi per la prima volta alla concezione dialettica, evolutiva o genetica, che dir si voglia, essendo io vissuto sempre in cotesto giro di idee, da che pensatamente penso. Aggiungo anzi, che, mentre il Marxismo non mi tornava punto difficile nei suoi lineamenti intrinseci e formali, in quanto metodo di concezione, mi tornava invece di faticosa acquisizione nel suo proprio contenuto economico. E mentre io andavo facendo, nel miglior modo che mi fu possibile, cotesta acquisizione, non era né dato né permesso a me di confondere la linea di sviluppo che è propria del materialismo storico, ossia il senso che ha qui in

questo caso concreto l’evoluzione, con quella, direi quasi, malattia cerebrale, che da anni già ha invaso i cervelli di quei molti Italiani, che parlano ora di una Madonna Evoluzione, e l’adorano. Che mi chiede, dunque, il De Bella? Che io, a guisa di giovane seminarista, pur mo svestito, ritorni a scuola! O vuole ch’io mi faccia ribattezzare da Darwin, riconfermare da Spencer, reciti poi la confessione generale innanzi ai compagni, e mi prepari a ricevere da lui l’estrema unzione? Per quieto vivere lascerei correre tutto il resto; ma contro all’appello alla coscienza dei compagni protesto recisamente. I compagni rigidi e perfino tirannici per ciò che si attiene alla condotta politica del partito in una certa misura e in date condizioni, li ammetto. Ma i compagni che abbiano autorità di pronunziare da arbitri in fatto di scienza… solo perché compagni… via, la scienza non sarà messa ai voti mai, nemmeno nella cosiddetta società futura! O vuole una più modesta cosa, che io, cioè, affermi e giuri che il Marxismo non è la scienza universale, e che gli oggetti che contempla non sono l’Universo? Concedo subito. E sfido che io possa non concedere. Mi basta di ricordarmi dell’orario della Università, e dei moltissimi corsi che enumera. Anzi concedo ancora di più. Ecco qua: «Questa dottrina non è se non agl’inizii suoi, ed ha bisogno ancora di molto sviluppo»99 (Del materialismo storico, cap. primo)a. Difatti, ciò che tormenta il De Bella e tanti altri, gli è appunto la caccia alla universale filosofia, nella quale il socialismo possa poi essere bene allogato, come la parte nella visione del tutto. S’accomodino! La carta è paziente101: così dicono gli editori tedeschi agli autori novellini. Ma non posso risparmiarmi due avvertenze. La prima è, che nessun sofo di questo mondo riuscirebbe mai a darci l’idea dell’universa filosofia in due colonne della «Critica Sociale». La seconda è affatto personale. Sono venti anni oramai che io ho in uggia la filosofia sistematica, e come cotesta disposizione d’animo mi ha reso più accessibile al Marxismo, che è uno dei modi nei quali lo spirito scientifico si è liberato dalla filosofia come per sé stante, così è causa della mia inveterata diffidenza per lo Spencer filosofo, che nei Primi Principii ci ha ridata una schematica del cosmo. E qui occorre che citi me stesso: «Io non ero venuto in questa Università, ventitré anni fa, qual rappresentante di una ortodossia filosofica, né da escogitatore di novello sistema. Per le fortunate contingenze della mia vita, io avevo fatta la mia educazione sotto l’influsso diretto e genuino dei due grandi sistemi, nei quali era venuta al termine suo la filosofia, che oramai possiamo chiamare classica; e ossia dei sistemi di Herbart e di Hegel, nei quali era arrivata all’estremo delle conseguenze l’antitesi tra realismo e idealismo, tra pluralismo e

monismo, tra psicologia scientifica e fenomenologia dello spirito, tra specificazione dei metodi ed anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica. Già la filosofia di Hegel avea messo capo nel materialismo storico di Carlo Marx, e quella di Herbart nella psicologia empirica, che, a date condizioni, e dentro certi limiti, è anche sperimentale, comparata, storica e sociale. Eran quelli gli anni, nei quali, per la intensiva ed estensiva applicazione del principio dell’energia, della teoria atomica e del Darwinismo, e col ritrovamento delle accertate forme e condizioni della fisiologia generale, si rivoluzionava a vista d’occhi tutta la concezione della natura. E in pari tempo, l’analisi comparativa delle istituzioni, in concorrenza con la linguistica e con la mitologia comparata, e poi la preistoria tutta, e, da ultimo, la economia storica, rovesciavano la più parte delle posizioni di fatto e delle ipotesi formali, su le quali, e per le quali, si era per l’innanzi filosofato sul diritto, su la morale e su la società. I fermenti del pensiero, quei fermenti che sono impliciti nelle nuove o nelle rinnovate scienze, non accennavano, come non accennano ancora, allo sviluppo di una novella sistematica filosofica, che tutto il campo della esperienza contenga e domini. Passo sopra alle filosofie di privato uso ed invenzione, com’è il caso dei Nietzsche102 e dei von Hartmann, e mi risparmio ogni critica di questi pretesi ritorni ai filosofi di altri tempia, che dànno per resultato una filologia in cambio della filosofia, com’è accaduto dei Neokantiani105. Mi soffermo a notare il quasi inverosimile equivoco verbale, per il quale molti ingenuamente, e specie in Italia, confondono senz’altro quella specificata filosofia, che è il Positivismo, col positivo, ossia col positivamente acquisito nella interminabile nuova esperienza naturale e sociale. A costoro capita, p. es., di non saper distinguere nello Spencer, ciò che è merito incontrastabile in lui, d’aver cioè concorso a formare la fisiologia generale, da ciò che è impotenza in lui a spiegare un solo fatto storico concreto per mezzo della sua sociologia del tutto schematica. A costoro accade di non distinguere, nello stesso Spencer, ciò che è dello scienziato da ciò che è del filosofo; il quale, giuocando di scherma con le categorie dell’omogeneo, dell’eterogeneo, dell’indistinto, e del differenziato, del conosciuto e dell’inconoscibile, è anche lui un trapassato: è, cioè, a volte un kantiano inconsapevole e a volte un Hegel in caricatura. L’ordinamento della Università deve anch’esso spiccatamente riflettere lo stato attuale della filosofia, che ormai consiste nella immanenza del pensiero nel realmente saputo; e, cioè, consiste nell’opposto di ogni anticipazione del pensiero sul saputo, per via della teologica o metafisica escogitazione» (L’Università e la libertà della scienza, Roma, 1897, pp. 15, 16 e 17)a. Al postutto poi cotesta filosofia, dirò così, vagheggiata dal De Bella, non

sarebbe, in fondo, se non una riedizione della triunità Darwin-Spencer-Marx, messa in giro con tanta suggestione di eloquenza, ma con tanto poca fortunab, or son tre anni già, da Enrico Ferri. Ebbene, caro Turati, io voglio fare onestamente la parte dell’avvocato del diavolo, e riconosco, che in coteste incerte aspirazioni alla filosofia del socialismo, (e poco manca, alcuni non credano che debba essere una specie di filosofia a privato uso dei soli socialisti) e per fino nei molti spropositi che qua e là si vanno dicendo, c’è un nocciolo di sentimento giusto, che risponde ad un reale bisogno. Molti di quelli che in Italia si dànno al socialismo, e non da semplici agitatori, conferenzieri e candidati, sentono che è impossibile di farsene una persuasione scientifica, se non riallacciandolo per qualche via o tramite alla rimanente concezione genetica delle cose, che sta più o meno in fondo a tutte le altre scienze. Di qui la mania che è in molti, di cacciar dentro al socialismo tutta quella rimanente scienza di cui più o meno essi dispongono. Di qui i molti spropositi e le molte ingenuità, in fondo sempre spiegabili. Ma di qui anche un grave pericolo; che, cioè, molti di cotesti intellettuali dimentichino che il socialismo ha il suo fondamento reale soltanto nella presente condizione della società capitalistica, e in ciò che il proletario e il rimanente popolo minuto possono volere e fare; – che per opera degli intellettuali Marx divenga un mito; – e che, mentre essi discorrono, dall’alto al basso e dal basso all’alto, tutta la scala dell’evoluzione, da ultimo in un non lontano congresso di compagni si metta ai voti questo filosofema: il primo fondamento del socialismo è nelle vibrazioni dell’eterea. Per ciò mi spiego le ingenuità del De Bella. Se Marx fosse ancora vissuto!109 Già si capisce: essendo nato il 5 maggio 1818, ed essendo morto il 14 marzo 1883, poteva umanamente vivere ancora; e, vivendo – direi io – avrebbe portato a compimento il III volume del Capitale, che c’è rimasto così sgangherato e così oscuro110. Nossignore, dice De Bella; sarebbe diventato materialista. Ma santi numi; se era tale dal 1845, e per ciò venne in uggia agli ideologi radicali di sua conoscenza! E oltre che materialista sarebbe diventato anche positivista. Il Positivismo! Nella volgare cronologia111 cotesto nome designa la filosofia di Comte e suoi seguaci. Ora questa avea idealmente tirate le cuoia, già prima che Marx fisicamente morisse. Che bel vedere: il materialismo – il Positivismo – e la dialettica in santissima trinità! E poi, che altro bel vedere: il papato scientifico del Comte riconciliato con la indefinita progressività del materialismo storico, che risolve il problema della conoscenza in opposizione ad ogni altra filosofia, ed enuncia: – non esserci limitazione fissa, né a priori né a posteriori, alla conoscibilità, perché nell’indefinito processo del lavoro, che è esperienza, e dell’esperienza, che è lavoro, gli uomini conoscono tutto ciò che fa bisogno ed è

utile di conoscerea. Quel Comte, che proclamava chiuso per sempre il ciclo della fisica e dell’astronomia, proprio nel momento in cui si ritrovava l’equivalente meccanico del calore, e pochi anni innanzi alla strepitosa scoverta dell’analisi spettrale; quel Comte, che nel 1845 dichiarava assurda la ricerca circa l’origine della specie! Ma il materialismo storico, continua De Bella, ha da completarsi con la preistoria!112 E qui il diavolo ci mette proprio la coda. L’Ancient Society del Morgan, pubblicata in America e giunta in Europa in pochi esemplari con la ditta Macmillan di Londra (1877), fu messa come sotto sequestro dalla spietata lega del silenzio fattavi attorno dagli etnografi inglesi, o invidi, o paurosi. I resultati delle ricerche del Morgan circolarono però per il mondo precisamente per mezzo del libro dell’Engels, che s’intitola: Della origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (1a edizione 1884, 4a edizione 1891), che è al tempo stesso recensione, esposizione e complemento del testo, e reca in sé la tentata ricongiunzione di Morgan e di Marx. E che dice Engels di Morgan? – «aver questi novellamente scoverto il materialismo storico, nella assoluta ignoranza di quanto Marx ne avesse scritto»; e quale fu l’occasione del libro? – il desiderio di mettere a profitto le note e le glosse lasciate da Marx!113 Via, la volgare cronologia è qualcosa di assai importante… anche pei socialisti. E torniamo pure all’inevitabile Spencer. Chi è mai, che, fuori d’Italia, si sia permesso di aggiudicarlo al socialismo? È forse lo Spencer un filosofo dell’altro mondo? Di lui e sopra di lui si può leggere ora in tutte le lingue, non esclusa quella dell’ammodernato Giappone. Né pecca di oscurità: anzi agli occhi miei, che amo la succosa brevità, pecca di prolissa e di minuziosa popolarità. Il primo scritto di lui che si conosca reca la data del 1843. Eravamo, si noti bene, nel più forte dell’agitazione cartista. Quello scritto s’intitola: Della sfera propria dello stato. Spencer fu alle viste di tutto il mondo come ammirato collaboratore dell’«Economist», della «Westminster» e della «Edinburg Review»; e notiamo nuovamente le date, precisamente negli anni significativi dal 1848 al ’59. Chi mai si è fatto illusioni in Inghilterra sul senso e sul valore delle sue vedute sociali e politiche? La Statica Sociale apparve nel ’51, la Psicologia (1a ediz.) nel ’55, il Trattato sulla Educazione nel ’61, la 1a edizione dei Primi Principii nel ’62, la Classificazione delle Scienze nel ’64, la Biologia dal ’64 al ’67, per non dire dei minori Saggi, e tra questi notevolissimi l’Ipotesi dello sviluppo (1852), la Genesi della Scienza (1854), e il Progresso e la sua Legge (1857)114. E qui chiudo la filastrocca per arrestarmi alle pubblicazioni che precedono il 1° volume del Capitale (25 luglio 1867). Non occorreva invero il genio di Marx per

scorgere in tali scritti ciò che ero in grado di scorgervi io, da semplice studioso della filosofia, già 30 anni fa: che, cioè, la dottrina dell’evoluzione che vi si enuncia è schematica e non empirica, che quella evoluzione lì è fenomenale e non reale, e che essa ha di dietro lo spettro della cosa in sé di Kant, dapprima onorata in tutte lettere col nome di Dio o della Divinità (Statica, ediz. del 1851), più tardi circonlocuita nel riverito nome dell’Inconoscibile. Metterei pegno, che, se mai Marx fra il ’60 e il ’70 avesse recensito le opere dello Spencer, avrebbe usato del seguente stile: «ecco l’ultimo avanzo ombratile del deismo inglese del secolo XVII; – ecco l’ultimo sforzo della ipocrisia inglese nel combattere la filosofia di Hobbes e di Spinoza: – ecco l’ultima proiezione del trascendente sul campo della scienza positiva; – ecco l’ultima transizione fra il cretinismo egoistico del signor Bentham e il cretinismo altruistico del Rabbi di Nazareth; – ecco l’ultimo tentativo dell’intelletto borghese per salvare, con la libera ricerca e la libera concorrenza nell’al di qua, un enigmatico brandello di fede per l’al di là; – solo il trionfo del proletariato può assicurare allo spirito scientifico le condizioni piene e perfette di sua propria esistenza, perché solo nella trasparenza dell’opera può essere congruamente trasparente l’intelletto». Così Marx scrivea – cioè, volevo dire, così avrebbe potuto scrivere: – ma lui avea da pensare allora all’Internazionale, e di questa lo Spencer non ebbe tempo di avvedersi. Il 17 marzo del 1883 Federico Engels, parlando al cimitero di Highate in memoria dell’amico Marx, morto tre giorni innanzi, cominciava proprio così: «Come Darwin scovrì la legge dello sviluppo della natura organica, così Marx scovrì la legge dello sviluppo della storia umana»a. Non c’è da rimanerne proprio mortificati? Né basta. Nell’Antidühring (1a ed. del 1878 – la terza è del ’94) il medesimo Engels avea già acquisito tutte le nozioni fondamentali del Darwinismo, che occorrono alla generale orientazione del socialismo scientifico. A ciò fare erasi preparato con dieci anni di novella educazione nelle scienze naturali, e candidamente confessava: esser lui in queste più addentro di Marx, che alla sua volta era forte in matematica. E nemmeno ciò basta. Nella prima edizione del Capitale si trova una nota caratteristica e originalissima sul nuovo mondo scoperto da Darwin116. S’intende già che quei due modesti mortali, che non fecero mai le parti di sopracciò dell’Universo, intesero sempre di riferirsi a quel prosaico Darwinismo della Origine delle specie (1859), che è un gruppo di teorie tratte da un gruppo di osservazioni e di esperienze sopra un campo circoscritto della realtà, che rimane più in qua dalle origini della vita e precede d’un buon tratto la storia umana. In quelle teorie non poteano non iscorgere un caso

analogico con la concezione epigenetica della storia, che essi aveano in parte definita, in parte adombrata appenab. Non seppero però mai di quel Darwinismo, il quale ha scoperto le leggi della intera umanità (De Bella)117; di quel Darwinismo, insomma, buono per tutto, che è una gratuita invenzione dei pubblicisti a corto di scienza, e dei decadenti della filosofia. L’amico loro Heine non avea forse detto: l’Universo è pieno di buchi, e il professore tedesco hegeliano covre quei buchi col suo berretto da notte?118 E lasciando stare l’Universo e i suoi buchi, procuriamo, caro Turati, di fare ciascuno il dover nostro. Mi ricorre sempre per la mente questa grave invettiva che 30 anni fa pronunziava l’hegeliano B. Spaventa: «Qui da noi si studia la storia della filosofia nella geografia dell’Ariosto, e si citano alla pari, Platone e l’abate Fornari, Torquato Tasso e Totonno Tasso»a. Credetemi sempre, etc.

VIII Roma, 20 Giugno ’97 Mi occorre come un post-scriptum, che rechi delle postille alla penultima lettera, tanto grave di non facile filosofia120. Metto – com’è naturale – fra i prodotti delle affettività nostre, dei quali dissi che adombrano l’intelletto volgente alla scienza, anche quei complessi di inclinazioni, di tendenze, di valutazioni e di pregiudizii, che di solito designiamo con le denominazioni antitetiche di ottimismo e di pessimismo. In tali modi di apprezzamento, che oscillano dal passionale al poetico, e rivelan sempre la nota incerta di ciò che non può ridursi in formula precisa, non è chi sappia scorgere, né l’indirizzo, né la promessa di una razionale interpretazione delle cose. Sono, nel tutt’insieme, la estrinsecazione riassuntiva di infiniti particolari sentimenti, i quali possono aver sede, come la cosa è più patente nel caso del pessimismo, così nello specifico temperamento di un singolo individuo (p. es. Leopardi), come in una situazione comune ad una intera moltitudine (alle origini p. es. del Buddhismo). Ottimismo e pessimismo nella somma, consistono nel generalizzare le attività resultanti da una determinata esperienza o situazione sociale, e nel prolungarle tanto fuori dell’ambito della nostra vita immediata da farne come l’asse, il fulcro, o la finalità dell’Universo. In guisa che poi, in fine, le categorie del bene e del male, che han realmente un senso così modestamente relativo alle nostre contingenze pratiche, divengono come il criterio per giudicare di tutto il mondo, ridotto in così piccola immagine, da parer fatto qual semplice supposto e qual semplice condizione della felicità o della infelicità nostra. Così dall’uno come dall’altro dei due angoli visuali, par che il mondo non possa intendersi se non come fatto, o a fin di bene, o a fin di male, e costituito per la prevalenza o per il trionfo, o dell’uno o dell’altro. Nel fondo di cotesti modi di concepire c’è sempre la originaria poesia, che non si scompagna mai dal mito; – e tali modi di concepire forman sempre, dal crasso ottimismo maomettano al raffinato pessimismo buddhistico, il midollo pratico e la forza suggestiva dei sistemi religiosi. E ciò è naturalissimo. La religione, che appunto per ciò e, per ciò solo, è un bisogno, consta di tante trasfigurazioni dei timori, delle speranze, dei dolori, delle amarezze della vita cotidiana, in creduti e paventati preordinamenti; in guisa che le lotte del così detto quaggiù vengon tramutate in contrasti dell’Universo: – dio e satana – la caduta e la redenzione – la creazione e la palingenesi – la scala delle espiazioni

ed il Nirvana. Quell’ottimismo e quel pessimismo, che si presentano nella veste, o meglio nelle apparenze di cosa pensata, nell’ambito di certe filosofie, non son che residui più o meno consaputi della religione come che sia trasformata, o di quella antireligione, che nell’impeto passionato del non credere rassomiglia alla fede. L’ottimismo di Leibnitz p. es. non è certo la funzione filosofica della sua ricerca del calcolo superiore, né della sua critica dell’azione a distanza, e nemmeno del suo monadismo metafisico, né della sua scoverta del determinismo interno. Il suo ottimismo è la sua religione – ossia quella religione che parve a lui come la perpetua e perenne – quel cristianesimo, in cui tutte le chiese cristiane si conciliano – quella provvidenza giustificata nella rappresentazione di un mondo, che è l’ottimo che potesse mai essere e sussistere. Quella poesia teologica ha il suo pendant, dialettico perché umoristico, nel Candide di Voltaire! E così il pessimismo di Schopenhauer non è la resultante necessaria della sua critica della critica kantiana, né la funzione diretta delle sue squisitissime ricerche logiche; ma è la estrinsecazione della sua anima di piccolo borghese, meschino e dispettoso, anzi ringhioso, che si completa con la contemplazione (metafisica) delle cieche forze dell’Inconsapevole (ossia del cieco conato all’esistere)121; si completa, cioè, di una forma religiosa poco avvertita in generale, la religione dell’ateismoa. Se, dalle configurazioni e dalle complicazioni secondarie e derivate della religione o della filosofia teologizzante, noi risaliamo all’origine prima ed immediata di quelle creazioni ideologiche, che son l’ottimismo e il pessimismo, noi ci troviamo in presenza di un fatto, tanto ovvio, per quanto semplice: che ogni uomo, cioè, per la sua struttura fisica, e per la sua posizione sociale, è portato ad una specie di calcolo edonistico, ossia, a misurare i suoi bisogni, e quindi i mezzi per soddisfarli; e, in fine, per necessaria conseguenza, viene ad apprezzare, in un modo, o in un altro, le condizioni della vita e il pregio della vita stessa nel suo complesso. Ora, quando la intelligenza è tanto progredita, da aver vinto gl’incantesimi della imaginatio e della ignorantia, i quali legano le sorti così poveramente prosaiche dell’ovvia vita cotidiana alle (fantasticate) forze trascendenti, non è più alla suggestione generica dell’ottimismo o del pessimismo che si tenga dietro. L’animo si volge al (prosaico) studio dei mezzi occorrenti a raggiungere, non quell’ente favoloso che dicesi la felicità, ma lo sviluppo normale delle attitudini; le quali, date le favorevoli condizioni sociali e naturali, fanno sì che la vita trovi in sé stessa la ragione dell’esser suo e della esplicazione sua. E qui il cominciamento di quella saggezza, che sola può giustificare la etichetta dell’homo sapiens. Il materialismo storico, come è la filosofia della vita, e non delle parvenze

ideologiche di questa, sorpassa l’antitesi dell’ottimismo e del pessimismo; perché ne supera i termini, comprendendoli. La storia è sì una serie dolorosamente interminabile di miserie; – il lavoro, che è la nota distintiva del vivere umano, è diventato il tormento e la maledizione della maggioranza degli uomini; – il lavoro, che è la premessa di ogni umana esistenza, è diventato il titolo alla soggezione del più gran numero degli uomini; – il lavoro, che è la condizione di ogni progresso, ha messo le sofferenze, le privazioni, i travagli e i patimenti del maggior numero degli uomini in servizio della comodità di pochi. Dunque la storia è un inferno; – anzi potrebb’esser rappresentata, in un lugubre dramma, come la tragedia del lavoro!124 Ma questa stessa storia lugubre ha tratto da cotesta stessa condizione di cose, quasi sempre all’insaputa degli uomini stessi, e non certo per la provvidenziale preordinazione di alcuno, i mezzi occorrenti al relativo perfezionamento, prima di pochissimi, poi di pochi, poi di più che pochi; – e ora pare ne prepari per tutti. La gran tragedia non era evitabile. Non deriva da una colpa o da un peccato, non da una aberrazione o degenerazione, non dal capriccioso e peccaminoso abbandono della retta via; ma da una necessità intrinseca al meccanismo stesso del vivere sociale, e al ritmo processuale di questo. Questo meccanismo poggia su i mezzi di sussistenza, che sono il prodotto del lavoro stesso degli uomini, combinato con le più o meno favorevoli condizioni naturali. Ora che si apre innanzi ai nostri occhi questa prospettiva che la società, cioè, possa essere organizzata in modo, da dare a tutti i mezzi di perfezionarsi, noi vediamo chiaro, che tale aspettativa diventa plausibile, precisamente perché, col crescere della produttività del lavoro, si stabiliscono le condizioni materiali occorrenti a comunicare a tutti gli uomini la civiltà. In ciò sta la ragion d’essere del comunismo scientifico, che non confida nel trionfo di una bontà, la quale, chi sa in quali pieghe latenti di tutti i cuori di tutti i trapassati gl’ideologi del socialismo sono andati a scovare, per proclamarla l’eterna giustizia. Ma confida nel crescere di quei mezzi materiali, che permetteranno crescan per tutti gli uomini le condizioni dell’ozio indispensabili alla libertà: – la qual cosa vuol dire, che le ragioni dell’ingiusto saranno eliminate, ossia la signoria, la padronanza, il dominio dell’uomo su l’uomo; le quali ingiustizie (ad usare il linguaggio degli ideologi) suppongono come conditio sine qua non proprio quella miserabile cosa materiale, che è lo sfruttamento economico! Solo in una società comunistica, il lavoro, oltre che non sfruttabile, può essere razionalmente misurato. Solo nella società comunistica, il calcolo edonistico, non intralciato dallo sfruttamento privato delle forze sociali, può aver carattere di cosa precisabile. Rimossi gl’impedimenti al libero sviluppo di ciascuno, quegli impedimenti, cioè, che differenziano ora le classi e gl’individui fino al non

riconoscibile, ciascuno potrà trovare, nella misura di ciò che occorre alla società, il criterio di ciò che per lui è il fattibile e il necessario a fare. Adattarsi al fattibile, e non per esterna costrizione, in ciò sta la norma della libertà, che è una cosa sola con la saviezza; perché non ci può esser morale vera là dove non è la coscienza del determinismo. In una società comunistica cadono da per sé le antitetiche parvenze dell’ottimo e del pessimo, perché la necessità del lavorare in servizio della collettività e l’esercizio della piena autonomia personale non formano più antitesi, anzi appariscono come una e medesima cosa; – l’etica di cotesta società annulla la opposizione fra diritti e doveri, che non è, in sostanza, se non l’amplificazione dottrinale della condizione di questa antitetica società presente, nella quale alcuni han facoltà d’imporre ed altri hanno obbligo di prestare; – in cotesta società, in cui la benevolenza non è carità, non parrebbe utopistico il chiedere, che ciascuno presti secondo le sue forze, e ciascuno riceva secondo i suoi bisogni; – in simile società la pedagogica preventiva eliminerebbe, in buona parte, la materia della penalità, e la pedagogica obiettiva della convivenza e della collaborazione razionale ridurrebbe al minimo il bisogno della repressione; – ossia, in una parola, la pena apparirebbe come la semplice garanzia di un determinato ordinamento, e spoglia perciò del tutto d’ogni parvenza metaforica di superna giustizia da vendicare o da ristabilire. In cotesta società non allignerebbe più il bisogno di cercare alla sorte pratica dell’uomo una spiegazione trascendente. Per questo criticismo delle cause della storia, delle ragioni della società presente, e dell’aspettativa razionalmente misurata e misurabile di una società futura, si vede perché l’ottimismo e il pessimismo, come tante altre ideologie, dovessero e debbano servire di sfogo e di estrinsecazione alle affettività delle coscienze travagliate dalle lotte della esistenza sociale. Se è questo che intendono di dire gli ideologisti, cui voi alludete125; e, se parlando di eterna giustizia, essi pensano di farsi raccoglitori postumi dei sospiri e delle lagrime dell’umanità attraverso i secoli, tal sia di loro; – le licenze poetiche non son vietate nemmeno ai socialisti. Soltanto non si provino poi a metter su le gambe al mito dell’eterna giustizia, per ispedirlo in marcia contro il regno delle tenebre. Quella gran benefica signora non ismuoverà una sola delle pietre dell’edificio capitalistico. Ciò che gl’ideologi del socialismo chiamano il male, contro di cui il bene combatte, non è una astratta negazione, ma è un duro e forte sistema di cose effettuali: è la miseria organizzata per produrre la ricchezza. Ora i materialisti della storia son così poco teneri di cuore, da affermare, che essi in questo male trovano precisamente le molle dell’avvenire; ossia, nella ribellione degli oppressi, e non nella bontà degli oppressori.

Del facile ricadere nella metafisica, in senso non laudabile, fanno fede assai spesso anche quegli studii, che, a detta degli autori loro, rappresentano la quintessenza del procedere scientificamente positivo. Questo è il caso, p. es., di molti dei divulgatori della disputata e disputabile antropologia criminale126. Come intento e come tendenza essa rappresenta una parte notevole di quella salutare critica del diritto punitivo, che pian piano è riuscita a scuotere dai fondamenti tutta la costruzione filosofica, e soprattutto etica, di un fatto così semplice e così empirico, qual è quello della inevitabilità del punire, data la esistenza di una società. Nel metodo, però, di rado essa esce dai confini della combinatoria statistica, e da quell’a un di presso di verosimile, che è proprio del variopinto complesso di studii, che chiamasi in genere antropologia. Quasi mai si avvicina, p. es., alla precisione di indagine, per la quale la psichiatria, che parrebbe secondo alcuni affine, grazie ai progressi maravigliosi dell’anatomia dei centri nervosi, e di tutte le parti della medicina, ha contribuito allo sviluppo della psicologia, nel giro di pochi anni, assai più non facessero in venti secoli le discussioni sul testo di Aristotele, e le ipotesi dello spiritualismo e del materialismo puramente razionalisti. Ma non è ciò che mi prema di notare. In quella dottrina campeggia la tendenza a fissare, come predisposizioni (innatistiche), le ricorrenze del delinquere in quegli individui i quali presentino certi caratteri indiziali; caratteri, che nell’aspetto obiettivo, del resto, non son sempre, né ben raccolti, né ben fissati. E qui nulla di male. La teoria, che sta in fondo al diritto penale dei paesi su i quali la rivoluzione borghese abbia esteso l’azione sua, ha di comune con tutto ciò che chiamiamo liberalismo i pregi e i difetti di quel principio egalitario, il quale, date le differenze naturali e sociali degli uomini, non può non essere puramente formale ed astratto. Questa teoria è stata di certo un progresso su la giustizia di corpo, e su i privilegi del clero e dell’aristocrazia; e per questo rispetto è una vittoria storica l’enunciato: la legge è eguale per tutti. Inoltre, cotesta teoria, riducendo il punire alla sola garenzia giuridica dell’ordine legalmente costituito, si contenta di colpire ciò che è un danno o una lesione all’ordine stesso, e non s’addentra più nella coscienza. Spoglia com’è di ogni carattere religioso, non colpisce il pensiero e l’animo. Non è più l’istrumento di una chiesa, di una credenza, di una superstizione. È prosaico cotesto diritto penale, come è prosaica tutta la società capitalistica. E questo è un altro trionfo – salvo alcune lievi inconseguenze – del libero pensiero. In una parola, si punisce l’atto, non l’uomo; si punisce il turbatore di quell’ordine che si vuol difendere, non la coscienza, sia irreligiosa, miscredente, atea e così via. Per giungere a cotesto resultato, cotesta teoria ha dovuto costruire, su la base media della volontarietà, ed esclusi gli estremi della

mancanza di consapevolezza e di direzione nell’operare, una tipica responsabilità eguale per tutti gli uominia. Ed è qui, che, come per ironia alla vantata e celebrata giustizia, il principio della legge eguale per tutti si tramuta dialetticamente nella massima ingiustizia: perché gli uomini sono in realtà socialmente e naturalmente disuguali innanzi alla legge. Su questa dialettica si sono esercitati da un pezzo sociologisti, e socialisti, e critici d’ogni maniera. C’è come una lunga scala di opinioni, in contrapposto al diritto esistente: dal paradosso intinto di misticismo, che la società punisca i delitti che essa cova, alla esigenza umanitaria, che la educazione eguale per tutti giustifichi, col porne le condizioni di attuabilità, il principio della legge eguale per tutti. La punta acuta di tutta la critica è quella dei socialisti conseguenti: i quali, partendo dal concetto delle differenze di classe, come essenziali al presente vivere sociale, non cercano nel diritto del punire, come non cercano in nessun’altra parte del diritto esistente, la giustizia eguale per tutti; perché ciò sarebbe come cercare l’inverosimile, data questa forma di società, in cui le differenziazioni sono le cause e il contenuto della compagine stessa. Questo diritto di mezzana giustizia, che contraddice il più delle volte a sé stesso, è insito ad una società, in cui il postulato della eguaglianza deve smentire di continuo sé stesso. La menzogna è assai più palese in quella bella trovata degli apologisti della forma capitalistica, quando dicono, che alla fin fine i salariati son dei liberi cittadini, che liberamente si danno a mercede pattuendo alla pari con quei loro eguali, che sono i capitalisti! – Ma noi socialisti cotesto principio in sé contraddittorio non vogliamo abbandonarlo, per andar poi a braccetto dei reazionarii, che per altre ragioni lo combattono, e per altre vie vorrebbero eliminarlo: anzi noi l’accettiamo come la negatività immanente alla società borghese, ossia, come il suo storico corrosivo. L’antropologia criminale è venuta in buon punto a sussidiare dei suoi studii speciali la tesi critica, che mette in evidenza l’inverosimile della legge eguale per tutti. In questo senso essa è una dottrina progressiva. Alle differenze sociali, che rendono assurdo il postulato della responsabilità eguale per tutti, secondo la tipica forma della volontarietà della mente sana, ha aggiunto lo studio delle differenze presociali, che sono i limiti che la bestialità contrappone, come forze invincibili, a qualunque azione di adattamento educativo. Non occorre qui di vedere, se essa abbia esagerata la estensione di cotesta bestialità, interpretando male i casi che intendeva di studiare, e amplificando alcune volte fantasticamente i resultati di parziali e poco precise osservazioni. Ciò che importa qui è di dire, che essa, per un certo rispetto metodico, ricade, inconsapevolmente, nella detestata metafisica. Nella foga legittima di combattere l’ente giustizia e l’ente responsabilità, fissa poi dei fatti naturali, delle

disposizioni, cioè, a delinquere, la cui denominazione e definizione va togliendo da quelle categorie della tutela sociale, che rispondono soltanto alle condizioni di vita alle quali gli uomini, in verità solo dopo che son nati, si vanno assuefacendo. In natura, per ispiegarmi, ci sarà la eccessiva e sfrenata libidine, ma non certo l’adulterio (questa è una categoria arcirelativamente sociale!); la rapacità, ma non il furto in tutte le sue economiche specificazioni fino alla firma falsa su la cambiale; il temperamento sanguinano, ma non il regicidio, e così via. Né si dica che queste sian questioni meramente verbali. Ciò tocca all’essenza della cosa. Ciò riguarda la coscienza dei limiti metodici. Ciò importa a ricordare, che la metafisica è un male atavistico, al quale non isfuggono nemmeno quelli che di continuo gridano: abbasso la metafisica! In altro campo di studii, cioè nella psicologia in genere e nella psichiatria in ispecie, è accaduto per molto tempo lo stesso. Molti che volean localizzare nel cervello i fenomeni psichici, invece di tenersi ai fatti elementarissimi, che, in verità, solo da poco tempo furono distintamente sceverati, localizzavano (come accadde perfino all’insigne fisiologista Ludwig128) le facoltà dell’anima ed altre simili escogitazioni del razionalismo filosofico; ossia davano un posto materiale al non esistente. L’antropologia criminale deve ancora sceverar bene e fissare criticamente le sue categorie, cansando l’equivoco di accettare come naturali ed innate quelle categorie, che il diritto punitivo, avuto riguardo alle condizioni di mera esperienza sociale, ha, per ragioni di pratica, fissate ed accettate.

IX Roma, 2 Luglio ’97. Voi accennate a quei critici, di varia indole e natura, i quali, per varie ragioni di molto difformi fra loro, ritengono, che il cristianesimo sfugga all’intendimento materialistico della storia, e stimano che in tale obiezione sia come una difficoltà insormontabile129. Devo io addentrarmi in cotesta selva, non dirò aspra e selvaggia, ma di certo molto oscura per me? Voi sapete come io respinga gli schematismi d’ogni sorta. Non mi pare – e pensare il contrario sarebbe mera fatuità, – ci sia mai alcuna teoria storica tanto buona ed eccellentissima per sé, che ne abiliti alla sommaria cognizione di ogni storia particolare, quando anche alla ricerca specializzata di questa non ci siamo per l’innanzi addestrati con proprii e diretti studii nostri. Ora io su la storia della chiesa cristiana non ho fatto fino ad ora studii ex-professo, che mi conferiscano il facile maneggio della cosa stessa; su la quale gli obiettatori di solito discettano e discorrono come chi giudichi per generiche impressioni. Da giovane, come accadeva allora di tutti quelli che si aggirassero nella cerchia della filosofia classica di Germania, lessi lo Strauss e i principali scritti della scuola di Tubinga; ed ora, con tanti altri, potrei, con piccola variante, ripetere la esclamazione di Faust: ich habe, leider, auch Theologie studirt!130 Ma poi dopo… io di coteste materie non mi son più occupato. Ho serbata però in me viva la persuasione, che, come con la scuola tubingese cominciò, in definitivo e per davvero, quella considerazione del cristianesimo, che sola può dirsi storica, così gli ulteriori progressi consistano principalmente nelle correzioni e nei complementi, che furon già portati, o si vanno portando, ai resultati di quella stessa scuola. La principale delle correzioni è, e deve, a mio avviso, esser tuttora questa: che, mentre i Tubingesi mirarono, in modo prevalente sì, ma non esclusivo, a studiare la genesi ed il processo delle credenze e dei dogmi, sia poi occorso, e occorra al presente, di mettersi allo studio obiettivo della formazione e dello sviluppo dell’associazione cristiana. Per cotesto riavvicinarsi a quel modo di considerazione, che, brevitatis causa, chiamerò sociologico, si fa un passo innanzi nella obiettività della ricerca: in guisa, che l’intendimento del come e del perché l’associazione è nata e si è svolta, ci dà il modo di vedere per quali ragioni e per quali vie gli animi, le fantasie, le menti, i desiderii, i timori, le speranze, le aspirazioni degli associati dovessero completarsi di certe credenze, ricercare certi simboli, giungere alla

escogitazione di certi dogmi; – o come gli associati potessero mettere, in somma, assieme tutto un mondo dottrinale ed ideologico. Fatta una tale inversione, si è già su la via, che mena diritto al materialismo storico; ossia siam prossimi al postulato generale, che si debba considerare le idee come il prodotto e non come la causa di una determinata struttura sociale. Se non erro, – perché, come dicevo, di tali argomenti me ne intendo relativamente poco – in questo indirizzo realistico concorrono soprattutto gli studii recenti delle antichità cristiane; nei quali, mi pare, primeggiano gli scrittori del genere di Harnack e simiglianti131. Cito incidentalmente, giacché questo libro qui io l’ho studiato, quelle notevolissime letture dell’inglese Hatch; nelle quali, con la massima lucidezza di analisi documentaria, si va dimostrando, come l’associazione cristiana, da un punto in qua dalle sue primissime origini, si sviluppasse e si consolidasse per via dell’adattamento alle varie forme di quel diritto corporativo, che fioriva nelle varie regioni dell’impero, o nelle condizioni peculiarmente proprie al giure pubblico romano, o in quelle altre degli altri usi locali e nazionali, e segnatamente delle istituzioni greche ed ellenistiche132. I nostri vescovi non se ne abbiano a male. Lo spirito santo ci sarà entrato per qualche cosa nel metterli al di sopra del rimanente dei fedeli, da quando nella associazione originariamente democratica si creò la differenziazione gerarchica di clero e di laici (ossia popolani); ma il loro nome stesso ricorda, che la organizzazione fu fatta sul preciso modello di quei corpi di navicellai, pescivendoli, fornai e simili, che aveano i loro episcopi (sopravveglianti) et reliqua. A questo punto bisogna fare ancora un passo innanzi. Bisogna, cioè, abbandonare il concetto astratto e generico di una storia unica ed unitaria di tutto il cristianesimo, e venire alla storia particolare, per tempi e luoghi, dell’associazione cristiana: – la quale associazione ora è una parte soltanto di quella più larga società civile, semicivile, o a dirittura barbara, in cui essa s’andò svolgendo nei primi tre secoli; – ora par che covra ed assorba tutti i rapporti della complessiva società semicivile o semibarbara, come fu nell’occidente latino del così detto Medio Evo; – e da ultimo, dopo quella dilacerazione dell’unità cattolica, che è il protestantesimo, e riconosciuta la libertà di coscienza, e assai più spiccatamente in seguito alla Grande Rivoluzione, torna ad essere una parte del tutto nella convivenza politico-sociale, una parte, o prevalente, o piccola, o minima, e così via dicendo. Su cotesta traccia stessa va trattato il problema dei rapporti fra chiesa e stato; che è questione di relatività storica, e non di teoretica elocubrazione formalistica. Per questo modo d’intendere si è in fine in grado di ricercare e di dichiarare

quelle condizioni materiali, le quali, come è accaduto di ogni altra convivenza umana, produssero dapprima l’associazione cristiana, e poi la mantennero, la perpetuarono, o la portarono alla parziale o locale dissoluzione, con tutte le varie vicende, che nelle cause e ragioni loro divengon poi senza difficoltà patenti. E si capisce che credenze, e dogmi, e simboli, e leggende, e liturgie, e altre simili cose debbano venire in seconda linea, come è proprio di ogni altra soprastruzione ideologica. Continuare a scrivere la storia dell’ente Cristianesimo (ne faccio qui un solo sostantivo con la lettera maiuscola), gli è come moltiplicare l’errore di concezione metodica, nel quale incorrono i letterati e gli eruditi, quando compongono, in senso affatto unitario, come se si trattasse di cose per sé stanti, le storie della letteratura o della filosofia. In coteste manipolazioni della dotta fabbrica, pare come se i poeti, gli oratori, i filosofi di diversi tempi, isolati quasi dal resto del mondo in cui realmente vissero, si porgano la mano attraverso o al di sopra dei secoli, per comporre una illustre catena; – o come se, non avendo essi tolta la materia e l’occasione al poetare o al filosofare dalle condizioni della società in cui si svolsero, e dal grado evolutivo di questa, si sforzassero di entrare nella serie indipendente, che è lo studiato indice della dotta compilazione. Si capisce quanto sia cosa comoda l’avere a mano, nel manuale, la somma delle notizie su ciò che chiamiamo letteratura francese, p. es. dalla Chanson de Roland ai romanzi del signor Zola: ma dall’una cosa all’altra non corre soltanto il cronologico millennio, né da una cosa all’altra intercede soltanto il semplice variare della facoltà poetica; perché, anzi, c’è di mezzo tutto il tramutarsi di tutti i rapporti della convivenza in tutti i suoi principali aspetti, e in rispetto a cotesti sociali tramutamenti le manifestazioni letterarie non son che relativi indici, sedimenti specifici, e casi particolari. Sarà comodo, specie per l’allevamento artificiale al sapere, che è tanta parte delle nostre Università, il ridurre in compendio la somma di ciò che nella storia chiamiamo genericamente filosofia; ma chi è che riesca a capir poi per davvero, per cotesta via, come i singoli filosofi siano arrivati a pensare in modi così difformi, e spesso contraddittorii? Come si fa a mettere in una sola linea di processo continuativo, indipendente ed unitario, la filosofia dell’antichità, che fu fino a Platone quasi tutta la scienza, – e poi quel minimo di scienza che fu la Scolastica sopraffatta dalla teologia, – e più in qua quella filosofia del secolo XVII, che è una forma di esplorazione concettuale parallela alla nuova scienza contemporanea della osservazione e dell’esperimento – in fine questa neocritica, che tende ora a far della filosofia una semplice revisione formale del saputo nelle singole scienze, già di tanto differenziate fra loro? A potiori è assurdo l’andar scrivendo – salvo che per ragioni di comodità

accademica – delle storie universali del cristianesimo. Non parlo di quelli che pensano con animo da credenti; e, ossia, opinano che il filo conduttore di tali storie unitarie consista nella missione provvidenziale della chiesa stessa attraverso i secoli. A coloro, che così pensano, e in vario modo intendono cotesta storia ideale eterna, che sarebbe come una immanente o processuale rivelazione, noi non abbiamo nulla da dire o da suggerire. Son fuori del campo nostro. Ma quei critici, i quali scrivono le storie unitarie di tutto il cristianesimo, pur sapendo e confessando di aver per le mani una materia che fa parte delle variabili e più o meno necessarie condizioni successive della vita umana, come non vedono, che la loro rappresentazione continuativa si tien sopra di un assai debole filo di tradizione, e riflette uno schema assai vago di cose appena appena riavvicinabili? Il nascere, l’ampliarsi, il diffondersi, l’organizzarsi e lo sparire (in alcune parti, dico, del mondo, p. es. l’Asia anteriore e l’Africa settentrionale) dell’associazione cristiana, e il vario atteggiarsi di essa verso il rimanente dell’attività pratica, e i multiformi legami che ebbe con le altre aggregazioni e potestà politico-sociali: – tutte coteste cose, che son la storia vera e effettuale, non s’intendono, se non si parte dalle condizioni complessive di ciascun singolo paese, nel quale, o pochi, o molti, o tutti gl’incoli, abitanti e cittadini, o da membri di modesta setta, o nelle forme d’imperiosa cattolicità, o perseguitati, o tollerati, o intolleranti e perseguitanti, si professarono e professano cristiani. E di cui solo si comincia a metter piede sul terreno solido, di ciò che è degno obietto dell’intendimento storico; e di qui alla interpretazione materialistica non occorre sforzo maggiore di quello che occorra in ogni altro ramo delle nostre conoscenze della vita del passato. In una parola, la storia effettiva è quella della chiesa, anzi delle chiese; ossia di una società, che ha la sua oikonomia, così nel senso generico di ordinamento, come in quello specificato del modo di acquisizione, di produzione, di distribuzione e di consumo dei beni (ahimè, terreni!). Se altri intende per cristianesimo, in un senso esclusivo, il solo complesso delle credenze e delle aspettazioni circa il destino umano – credenze, che in verità varian tanto, quanto è il divario, per dirne una sola, tra il libero arbitrio del cattolicesimo postridentino e il determinismo assoluto di Calvino! – bisogna si rassegni a capire e ad ammettere, che cotesto complesso di vedute e di tendenze è nato e si è svolto sempre per entro la cerchia di una associazione, che ha variato di continuo in vario senso, ed è stata sempre, dal più al meno, contenuta da un più vasto e complicato ambiente storico-sociale, tanto per dirla con la prediletta espressione dei neologisti. Conviene aggiungere un’altra considerazione. In questo quarto d’ora di prosa

scientifica, in cui noi ci troviamo al presente, non si dà a credere più a nessuno, che la massa dei raccolti nell’associazione cristiana sapessero e capissero mai nulla di preciso del variare dei dogmi, e delle sottili discussioni dei sapienti e dei dottori. Delle plebi di Antiochia, di Alessandria, di Costantinopoli, e così via, agitantisi intorno alle bandiere di Ario e di Atanasio, noi non conosciamo precisamente le passioni, gl’interessi, il modo cotidiano del vivere, e l’ingenito e abituale idiotismo; – non possiamo descriverle proprio come faremmo ora di Napoli o di Londra: – ma non saremo mai così ingenui da credere, che capissero un iota della lotta circa la sostanza, o semplicemente simile, o affatto identica, del figlio per rispetto al padre133. Né misureremo la differenza reale degli artigiani di Ginevra da quei d’Italia nel secolo XVI, dal divario dottrinale fra Calvino e Bellarmino. Per ciò appunto la storia del cristianesimo riesce in gran parte oscura, perché essa ci fu quasi sempre tramandata attraverso agl’involucri e alle diciture ideologiche di quelli che furono il riflesso dogmatico-letterario dello svolgersi dell’associazione; in guisa che della vita pratica si sa relativamente poco, e questo poco si assottiglia fino al minimo quanto più si risale ai primi secoli. Inoltre, la massa dei consociati ha sempre serbato in cuor suo, e ha trasferito nelle minute credenze e nelle leggende, molte delle superstizioni e moltissimi dei miti che recava in sé prima di convertirsi, e tutte quelle altre superstizioni e tutti quei miti, che le fu necessità di creare, per rendersi in qualche modo plausibile le dottrine astratte e metafisiche del cristianesimo dogmatico. Accadde ciò assai visibilmente fin dalla seconda metà del secondo secolo, quando l’associazione avea cessato da un pezzo dall’essere una democratica setta di aspettanti il regno di dio, compenetrati tutti dello spirito santo, e volgeva alla formazione di una organizzata cattolicità, così nel senso della ortodossia, come in quello di una semipolitica coordinazione gerarchica di moltissimi non più santi, ma semplicemente uomini. Cresce cotesto trasferimento di tutte le superstizioni locali, regionali ed etniche nel seno del cristianesimo, dacché, diventando la chiesa in definitivo ortodossamente ufficiale e territoriale, era tolto il modo a qual si fosse più zelante di andar sceverando, con scrupolosa epurazione, i capaci di una persuasione, frutto di pedagogico addestramento, dagli obbligati a credere, e a stare ai riti e alle forme come che si fosse. Rovinando poi l’Impero di Occidente, per le sommarie o forzate conversioni dei barbari della Germania e della Slavia, s’accrebbe il capitale delle credenze popolari da formare il pascolo cotidiano delle masse, che eran tenute in obbligo di professare simboli e credenze tanto superiori o estranee all’ambito di loro menti, come quelle che rappresentavano un precipitato di molte semifilosofie. Tutte coteste popolazioni cristiane vissero e continuarono a vivere delle loro variopinte credenze; per la

qual ragione, poi, esse effettivamente trasformarono i dati comunissimi del cristianesimo in moventi ed in occasioni a nuove e speciose mitologie. A riscontro di tal vita barbaramente ingenua, le definizioni dei dottori e le decisioni dei concilii rimasero come librate in aria, quale ideologia inattingibile alle moltitudini, e a guisa di dottrinale utopia. Da quali ragioni e cause, da quali moventi e mezzi i membri della consociazione furon tenuti, dunque, assieme nei tempi dei quali si dice che la religione fosse l’anima e il fulcro di tutta la vita? Prescindo dalle prepotenze e dalle violenze, per non entrare in un capitolo assai spinoso, che è quello cui s’appellano di solito i passionati avversarii del cristianesimo; capitolo che mette sotto agli occhi la storia delle più odiose tirannie, delle più feroci ed inumane persecuzioni, e della più raffinata ipocrisia. Tantum religio potuit suadere malorum!134 Ciò che mi preme gli è di notare, che la forza principale della coesione fosse appunto in quei disprezzati mezzi materiali, l’uso, il maneggio e il governo dei quali ha fatto crescere l’associazione in una potente organizzazione economica, coi suoi ufficii, con la sua gerarchia, col suo diritto, e coi suoi servi, e schiavi, e dipendenti, e coloni, e ministri, e protetti e beneficati. La proprietà ecclesiastica rappresenta tutta una serie di variazioni, dall’obolo del semicomunismo alla legale corporazione, e da questa alla raccolta dei legati, alla costituzione dei complessi terrieri del latifondo, e poi del feudo coi corollarii delle decime e della finanza delle anime, e fino ai tentativi più moderni della industria coloniale (i Gesuiti), e così via ad altre ed altre cose. Ciò che mantenne la coesione degli umili furon principalmente, come sono in parte tuttora, i beneficii dell’elemosina, dell’assistenza dei malati, dei derelitti, degli orfani, delle vedove e così via, della ordinata e metodica gestione dei campi, del dissodamento delle terre di nuovo acquisto alla coltura. Questi i mezzi, che, come è accaduto di ogni altro ente mortale collettivo, fecero dell’associazione cristiana una cosa vitale, e nel Medio-Evo soprattutto permisero ad un piccolissimo ceto di addottrinati di far servire una vasta compagine economica a fini relativamente più elevati, più nobili, più altruistici e più progressivi, di quel che non accadesse nell’ambito dei possedimenti strettamente feudali, e per opera di sovrani taglieggiatori, razziatori e pirati. La borghesia, nelle sue diverse fasi, con modi più o meno rapidi, e in forme più o meno rivoluzionarie, ha fatto dappoi man bassa di cotesta economia della proprietà del popolo cristiano, e l’ha in diversi modi incorporata alla proprietà di pieno diritto privato, e l’ha resa fluida nel sistema capitalistico. Dove cotesta proprietà di ecclesiastica economia ha resistito parzialmente, e dove parzialmente resiste ancora ai colpi dell’evo progressivo, gli è perché essa adempie tuttavia alcuni ufficii, che le altre organizzazioni pubbliche, e lo stato che le rappresenta, o non assumono sopra di

sé, o tollerano sussistano tuttora nella chiesa, come in forma di concorrenza. La storia di cotesta economia è il midollo di quella interpretazione del variare del cristianesimo, che la critica ulteriore dovrà elaborare. Quel Gregorio Magno, che par già così persuaso, che il vescovo di Roma fosse destinato a tener le parti del tramontato Impero dell’Occidente, quel Gregorio, noto al comune delle persone colte per le sue visioni, per il suo amore della musica e per l’apostolato nell’Anglia, da economo dettò le leggi della condotta del latifondo ecclesiastico135. A parecchi secoli di distanza, per tutte le traversie dei semi-stati e delle varie comunità semi-politiche, che si andaron sviluppando entro l’ambito dal sempre mal fermo e mal restaurato Impero d’Occidente, la estesissima proprietà ecclesiastica, da per tutto diffusa e da per ogni dove incuneata, dette luogo a tentare quella politica, che, da Gregorio VII a Bonifacio VIII, mirò a fare del successore di Pietro l’erede di Augusto. Questa politica non fu tale qual fu, perché i frati clunacensi ne avessero escogitata la dottrina, o perché com’è di fatti, Gregorio VII ed Innocenzo III fossero uomini sommi, ma perché solo in quel vasto sistema economico c’erano i dati per tentare un gran disegno di organizzazione; al quale, come è noto, si ribellarono in diversi modi, non solo gli altri semi-potentati politici d’allora, ma in alcuni punti di più progredita operosità industriale e commerciale (Fiandra, Provenza, Italia del nord) con diversi intendimenti, o di cenobitica ascesi o di civile libertà cristiana, anche una parte delle plebi e delle recenti borghesie. E di fatti l’umiliazione inflitta a Bonifacio VIII in Anagni, non è se non il punto acuto di quella politica di Filippo il Bello, che, da precursore molto alla lontana del principato rivoluzionario del secolo XVI, mette per il primo arditamente la mano su la sostanza del popolo cristiano136. E qui vorrei far punto a questa digressione; perché cotesta storia economica non è stata ancora per davvero scritta, e non sarò io ad avviarla con queste incidentali osservazioni. Mi pare, però, che i soliti obiettatori dicano: ma fatta questa storia economica, tutto il resto sarà chiaro chiarissimo? E qui saremmo al solito caso di quelli che si fanno dei castelli di carta, per aver poi il gusto di distruggerli con un bel soffio. Spiegare un processo consiste, in generale, nel risolverlo nelle condizioni sue più elementari, fino al punto che ci sia dato di scorgere e seguire (dal minimo del discernibile in su) le fasi successive, come chi vada da premesse a conseguenze. Nessuno si sognerà di affermare p. es., che quando si conosca a fondo la struttura economica della città di Atene tra la fine del V e il principio del IV secolo a. C., si possa poi difilato passare ad intendere, così senz’altro, cioè senza

il sussidio critico degli elementi intellettuali raccolti nella tradizione, tutto il contenuto ideologico di tutti e singoli i dialoghi di Platone. Ciò che occorre in verità di spiegare innanzi tutto è l’uomo Platone; ossia le sue disposizioni estetiche e mentali, il suo pessimismo, la sua fuga dal mondo, il suo idealismo e il suo utopismo. Tutto ciò è il prodotto di quelle condizioni, che come si svolsero ideologicamente nell’individuo Platone, si svolsero del pari in tanti e tanti altri contemporanei suoi, che altrimenti non l’avrebbero inteso, ammirato e seguito al punto da creare intorno a lui una setta, vissuta poi per secoli con tante modificazioni. Se altri si provi a distrarre quella formazione ideologica dall’ambiente, in cui per l’appunto nacque come primo prodromo del cristianesimo, essa diventa l’incomprensibile, ossia presso a poco l’assurdo. A potiori ciò vale di quelle disposizioni e inclinazioni, o fantastiche, o mentali, che in una così grande convivenza, qual è stata l’associazione cristiana coi suoi molteplici ufficii e con le sue svariate attinenze, ingenerarono il bisogno di tante credenze, di tanti simboli, di tanti dogmi, di tante leggende. Ci torna di certo più facile di intendere i rapporti, che in genere legano tutte coteste ideazioni a certe determinate condizioni materiali della convivenza, che non di spiegare poi partitamente tutte e singole quelle ideazioni nel loro particolare contenuto. Cotesta difficoltà di adeguata spiegazione è cresciuta dal fatto, che si tratta di tempi di terribili catastrofi, di inauditi rimescolamenti, di decadenza delle attitudini alla scienza corretta; di tempi, in breve, nei quali manca quasi sempre la testimonianza spregiudicata, la critica, l’opinione pubblica, e le menti più forti, sequestrate dalla vita, inclinano all’astruso, al sottile e al verbalistico. Gli è difatti il difficile intendimento, del come le ideologie nascano dal terreno materiale della vita, che dà forza all’argomentare di coloro i quali negano la possibilità di una piena spiegazione genetica del cristianesimo. In generale gli è vero, che la fenomenologia o psicologia religiosa che dir si voglia, presenta delle grandi difficoltà, e reca in sé dei punti assai oscuri. Come i dati empirici della natura e del vivere sociale si tramutino, in certi determinati tempi e in certe determinate disposizioni etniche, passando per il crogiuolo di una specificata fantasia, in persone, in iddii, in angeli, in demoni, e poi in attributi, emanazioni, e ornamenti di queste stesse personificazioni, e da ultimo in entità astratte e metafisiche come il logos, l’infinita bontà, la somma giustizia e così via – non è cosa sempre facile d’intendere a pieno. In cotesto campo di derivata e complicata produzione psichica, siam molto lontani da quelle condizioni elementarissime, nelle quali, con la osservazione e con l’esperimento, c’è p. es., lecito di seguire il sorgere e lo svolgersi delle prime sensazioni da un estremo all’altro, ossia dagli apparati periferici fino ai centri cerebrali, nei quali

l’eccitazione e le vibrazioni si tramutano in noto alla coscienza, cioè dire in coscienza. Ma è forse cotesta difficoltà psicologica un privilegio delle credenze cristiane? Non è essa propria del generarsi di tutte le credenze, e ideazioni mitiche e religiose? Ci son forse più chiare le creazioni tanto originali del primissimo Buddhismo, e quelle più di seconda mano, e quasi sincretiche del Maomettanismo? E risalendo poi in là da questi sistemi delle grandi religioni, ci sono forse chiari e trasparenti a prima vista i procedimenti della fantasia nella creazione dei miti elementarissimi dei nostri protopadri ariani? Ci è proprio facile di renderci conto per filo e per segno di tutte le transizioni occorse alla fantasia di tante generazioni, attraverso tanti secoli, perché il pramantha, ossia il bastone da suscitare il fuoco fregandolo ed agitandolo in altro legno, si svolgesse poco per volta nell’eroe Prometeo? E pure questo è il mito più noto della mitologia indo-europea; quello per il quale esistono più dati per seguirne le successive fasi embriogenetiche, dagli antichissimi inni vedici in onore del dio Agni (il fuoco), fino alla creazione etico-religiosa della tragedia eschilea137. Gli è che coteste produzioni psichiche degli uomini dei secoli trapassati presentano all’intendimento nostro delle difficoltà tutte speciali. Noi non possiamo facilmente riprodurre in noi le condizioni che occorrono, per approssimarci allo stato interiore d’animo, che fu rispettivo a quei prodotti. Occorre una lunga assuefazione perché si acquisti quella attitudine interpretativa, la quale è propria del glottologo, del filologo, del critico, del preistorista; ossia di chi, col lungo esercizio e coi reiterati tentativi, si fa come una coscienza artificiale, congrua e consona all’obietto da spiegare. Se non che il cristianesimo (e qui intendo dire della credenza, della dottrina, del mito, del simbolo, della leggenda, e non della semplice associazione nella sua oikonomika), ci riesce relativamente più facile, in quanto è a noi più prossimo. Ci viviamo in mezzo, e ne abbiamo di continuo a considerare le conseguenze e le derivazioni nelle letterature e nelle varie filosofie a noi familiari. Noi possiamo tuttodì osservare come le moltitudini combinino, all’ingrosso, tanto le atavistiche come le recenti superstizioni con una mezzana o appena approssimativa accettazione del principio più generale, che unifica tutte le confessioni: – il principio cioè della caduta e della redenzione. Noi l’associazione cristiana la vediamo all’opera, così per ciò che essa fa, come per le lotte che sostiene; e siamo in grado di rifarci sul passato per combinazioni analogiche, che di rado ci riesce di adoperare nella interpretazione delle credenze da noi remote. Assistiamo ancora alla creazione di nuovi dogmi, di nuovi santi, di nuovi miracoli, di nuovi pellegrinaggi; e, ripensando al passato, possiamo in

buona parte dire: tout comme chez nous!138 Disponiamo, voglio dire, di un capitale di osservazione e di esperienza psicologica, che ci permette di rivivere nel passato, con isforzo assai minore di quello ci tocchi di fare, quando siam costretti a starcene alla sola analisi documentaria delle condizioni più antiche. Da quando si è cominciato a capir qualcosa di netto della origine della lingua, se non dal momento che fu inteso, non aver noi altro terreno di esperienza in proposito, se non nel modo come i fanciulli imparano tuttodì a parlare? Per molti il problema della origine del cristianesimo rimane poi oscurato da un altro pregiudizio; che qui, cioè, si tratti di una formazione primissima, e quasi di una creazione ex nihilo. Costoro non pensano, che quelli che divennero cristiani giunsero a quel punto partendo da altre religioni; e che il problema della origine si riduce prosaicamente innanzi tutto a rintracciare, come gli elementi preesistenti siansi derivati in nuova forma, per entro all’ambito dell’associazione, e in che stia il vero e proprio nocciolo nuovo della neoformazione. Siamo in tempi storici. Di quelle religioni precedenti ci è nota principalmente la forma del giudaesimo posteriore, che era in una parte della massa popolare di messianismo esaltato, e nella classe degli addottrinati di affilata casistica. Ci sono a un di presso noti i culti, le superstizioni, le credenze dei varii paganesimi dell’impero e ci è nota la disposizione religiosa di una buona parte dei filosofanti di quel tempo, che eran quasi tutti decadenti, come ci son note le inclinazioni delle moltitudini di allora, più che mai propense ad accettare nuove fedi, nuove promesse, e la buona novella.

Dunque si tratta non di creazione, ma di trasformazione e siamo allora sul terreno di ogni altra storia. P. es. (perché parlo sommariamente e come per incidente): come Gesù è diventato il Messia degli Ebrei (forma primitiva ebionitica139), come il Messia degli Ebrei è diventato il redentore di tutti gli uomini dal peccato (Paolo), e da ultimo come s’è combinato col logo del neoplatonismo di Filone (quarto evangelo)?140 Questo lo schema del processo ideologico. E poi dall’altra parte: come la primitiva associazione comunistica (del comunismo, s’intende, del consumo), degli aspettanti la prossima fine del reo mondo e l’universale catastrofe (l’Apocalissi), è diventata una consociazione (chiesa), che, rimandata in indefinito l’aspettativa del millennio (seconda epistola di Pietro), cresce in una organizzazione, che svolge una economia, e progressivamente si complica di attribuzioni e di ufficii? In questo processo dalla setta alla chiesa, dalla ingenua aspettazione alla complicata formula dottrinale, sta tutto il problema delle origini. Con l’allargarsi dell’associazione veniva in buon punto l’adattamento di essa alle varie forme di diritti vigenti, e col bisogno della dottrina collimava la diffusione del Platonismo decadente. Certamente tutte coteste produzioni non possiamo riavvicinarcele agli occhi e all’osservazione nostra, in una intuitiva cronistoria. Non assisteremo al conversare di Filippo, di Matteo, di Pietro, di Giacomo, e loro prossimi successori, e così via, come se stessimo ad ascoltare Camillo Desmoulins, a ore 3 p. m. la domenica del 12 luglio 1789, in un caffè del Palais Royal141. Non seguiremo l’originarsi e il fissarsi dei dogmi, come se si trattasse della messa insieme degli articoli della Enciclopedia. Siamo in tempi d’impressioni confuse, e di non mai più viste fermentazioni. Delle grandi epidemie morali invadono gli spiriti. I rapporti più elementari della vita entrano in un periodo di acuta crisi. Al di sotto di quella civiltà della cerchia mediterranea che unificava il potere politico-amministrativo dell’impero e ciò che v’era di più utile e raffinato nell’Ellenismo, vegetavano mille forme di barbarie locali e di decadenze putride e verminose. Pensare che il cristianesimo si fermò, di fatto e di nome, come cosa per sé stante, proprio nella molle Antiochia, sentina di tutti i vizii; e pensare che Paolo dirigeva ai Galati, ossia a Giudei dispersi in un paese di veri e proprii barbari, le sue sottili meditazioni, che ce lo rivelano non molto difforme da quegli Ebrei, che più tardi misero assieme il Talmud!142 Il cristianesimo si è diffuso fra gli umili, fra i reietti, fra le plebi, fra gli schiavi, fra i disperati di quelle grandi città, la cui tenebrosa vita c’è appena appena in qualche piccola parte dichiarata dalla satira di Petronio e di Giovenale, dai volterriani racconti di Luciano e da quei macabrici di Apuleio. Che cosa sappiamo noi di preciso su la condizione di quegli Ebrei della città di Roma, in mezzo ai quali si diffuse dapprima

nell’Occidente la nuova trista superstizione, come ebbe a dir Tacito143; quella superstizione, che nel volger dei secoli crebbe nel più potente organismo sociale che conosca la storia? Quelle prime origini non ci è lecito di ridurle in intuitivo racconto, e noi siam costretti a rifarle per congettura e per combinatoria. Questa è la ragion principale della interminabile letteratura in proposito; specie per opera dei dotti di Germania, che, anche quando non sian per nulla credenti, usano di chiamar teologia cotesta letteratura critica ed erudita. La relativa oscurità delle prime origini fa nascere nelle menti di molti la curiosa credenza in un cristianesimo vero, che sarebbe stato assolutamente difforme da quanto altro ha preso poi nome di cristiano in seguito. Quel cristianesimo vero, anzi originario, che poi viceversa è tanto oscuro, che ognuno può intenderlo a modo suo, fa soventi le spese della polemica di quei razionalisti, i quali, dopo d’aver coverto d’invettive cotesta empirica chiesa, a noi nota per la storia o per l’esperienza nostra, per rinforzo di argomentazione retorica si appellano alla chiesa ideale, che sarebbe stata la primitiva comunione dei santi. Questo è un mito storico, come la Sparta dei retori ateniesi, come la Roma antica dei Ghibellini decadenti del XIV secolo, come tutte le creazioni fantasmagoriche di un passato paradisiaco, o d’un futuro non raggiungibile ancora. Questo mito storico ha assunto forme diverse. I settarii che si ribellarono alla cattolicità, o appena avviata o già trionfante da un pezzo, quei settarii, dico, che con ispirito di vera eguaglianza democratica, in determinate circostanze storiche, dai Montanisti agli Anabatisti144, si sollevarono contro la chiesa profanamente terrena, e ortodossamente gerarchica, ebbero bisogno di rifarsi nella fantasia il cristianesimo vero, ossia la semplice vita protoevangelica, mentre proclamavano decadenza, aberrazione, opera di satana, tutto l’accaduto dappoi. A questo cristianesimo vero verissimo si appellarono assai spesso i comunisti ingenui, cui giovava, in difetto di ogni altra adeguata idea sul modo d’essere di questo ingiusto mondo delle misere disuguaglianze, di farsi delle proprie aspirazioni come un quadro, e questo potea trovare, come in tanti altri ricordi veri o fantastici, i motivi e il colorito nella poesia evangelica. Così accade fino a Weitling, che anche lui compose un: Evangelo del povero peccatore145. E perché dovrei non ricordare quei Saint-Simoniani, che favoleggiando di un cristianesimo più vero, di là da venire, in quello proiettarono tutte le aspirazioni della loro riscaldata fantasia? Per tutte queste, e per tante altre cause, sta come campata in aria, nella mente di molti, l’immagine fantasiosa di un cristianesimo ultraperfettissimo, che sarebbe difforme, – anzi per alcuni è assolutamente difforme – da tutto ciò che la volgare storia conosce e dà per cristiano; da che Stefano fu lapidato, fino alla

Santa Inquisizione, che spedì all’altro mondo tante caterve d’infedeli; da che lo scalzo pescatore Pietro nei suoi paurosi dinieghi fece la parte dell’accorto Sancio Panza, fino a che Papa Pio s’è compensato, con la infallibilità, del potere terreno che andava perdendo; dall’agape ebionitica dei poveri visitati dal Paracleto, ai Gesuiti che armano delle flotte e fanno imprese commerciali, da precursori arditi della politica coloniale dell’evo borghese; dal Rabbi di Nazareth, che dice non esser di questo mondo il regno suo, ai vescovi ed altri prelati occupanti in nome suo per secoli, come proprietarii e come sovrani, dal quinto al terzo delle terre secondo i paesi, compresovi in alcuni luoghi il jus primae noctis. Chi per una ragione o per l’altra, e sia pure per semplice ipocrisia letteraria, crede a quel cristianesimo verissimo, è naturale sia imbrogliato a spiegare donde sia poscia nato questo men vero, o assolutamente aberrato, che noi tutti conosciamo. E si capisce, inoltre, come quel vero verissimo diventi un miracolo, se non proprio della rivelazione, della ideologia umana per lo meno; – e noi dal canto nostro non siamo obbligati a dare la spiegazione di tale miracolo, né in nome del materialismo né in nome di qualunque altra dottrina, per la stessa ragione, per la quale la meccanica razionale non ha il dovere di spiegare, né il volo di Icaro, né quello dell’ippogrifo dell’Ariosto. Conviene, nondimeno, non dimenticare, che quel cristianesimo vero, così idealmente contrapposto da tanti a questo assai positivo e realisticamente umano, che s’è svolto in condizioni accessibili al nostro ordinario intendimento, ha esercitato anch’esso la sua funzione storica, e giova ora a noi come di chiave per entrare più addentro nello stato d’animo e nei rapporti di vita dei cristiani primitivi. Fu quel cristianesimo vero come il simbolo delle varie ribellioni dei proletarii, delle plebi, della umile gente, dei manomessi, dei servi, degli sfruttati, fino al secolo XVI. Ebbi occasione, come dissi già in altra lettera, di occuparmi quest’anno in modo circostanziato, nel mio corso accademico, precisamente di Fra Dolcino, nel quale culmina, e nel cui insuccesso declina il movimento della setta degli Apostolici. Poi che ebbi dichiarate le condizioni generali dello sviluppo economico e politico dell’Italia settentrionale e media, e quelle più particolari dell’ambito (ossia delle classi sociali) nel quale gli Apostolici sorsero e si diffusero, a un certo punto mi convenne di spiegare la dottrina, per la quale e con la quale Dolcino tenne ferma la compagine dei suoi seguaci, tenacissimi ed impavidi nel combattere fino all’ultimo da eroi, da martiri e da precursori di un nuovo ordine di cose nella vita dell’umanità146. Quella dottrina è anch’essa uno dei tanti ritorni apocalittici al cristianesimo puramente evangelico; – è, ossia, la negazione di tutto ciò che la gerarchia abbia stabilito e fatto da papa Silvestro (da quello almeno della leggenda), in poi, negazione rinforzata dall’ardore

apostolico, che il sentimento della lotta trasmuta in dovere di combattimento. Gli è naturale, che la spiegazione prima di quelle idee, come direbbero i letterati, vada cercata nei movimenti affini delle ribellioni antigerarchiche più prossime. Per un verso si risale agli Albigesi, e per un altro verso a quei confusi e variopinti moti di plebe, che hanno il comune nome di pataria; e poi per un altro lato bisogna rifarsi su tutta quella agitazione mistica ed ascetica, che più volte accenna a dilacerare l’imperio papale, dal comunismo ideologico di Gioacchino di Fiore alle resistenze attive dei Fraticelli147. Facendo un passo più addentro in cotesta ricerca, non è difficile di ritrovare, di dietro ai mistici veli dell’ascetismo, e all’esaltata passione per il cristianesimo vero, le materiali condizioni e i materiali moventi, per cui convengono intorno ad alcuni simboli di rivolta gl’infimi del cenobitismo, i contadini di quei paesi dove la feudalità è ancor viva, i contadini di quelle altre terre, che, francate dal feudo, per la rapida formazione dei liberi comuni furon violentemente proletarizzati, e poi la minutissima gente dei comuni stessi così spietatamente corporativi, e da ultimo, come sempre, gl’idealisti, che trasmutano in causa propria la causa dei derelitti: – gli elementi tutti di una rivoluzione sociale. Da questa spiegazione prossima si risale ad una spiegazione più generale, e direi tipica. Il moto dolciniano è uno dei momenti della gran catena delle sollevazioni delle plebi cristiane, che, con varia fortuna e con varia complicazione, si ribellarono alla gerarchia, e nei momenti più acuti furon portate alla inevitabile conseguenza dell’aspettazione del comunismo. Il caso classico, la forma strepitosa, per le circostanze di tempo e per la estensione e per la durata del moto, è di certo la sollevazione degli Anabatisti. Ma non fu cosa di poco conto la rivolta dolciniana; specie per le condizioni di precoce modernità economica in cui trovavasi la valle del Po, in principio del secolo XIV. Ora, l’istinto dell’affinità portava le menti dei rappresentanti e dei condottieri delle plebi in rivolta a tornare verso l’immagine, o verso il confuso ricordo, o verso l’approssimativa riproduzione fantastica di quel cristianesimo primitivo, che fu tutto di minuto popolo, di gente afflitta e sofferente, aspettante la redenzione dalle miserie di questo reo mondo. Il cristianesimo vero, verso del quale, per simpatia procedente da similarità di condizioni, quei ribelli esaltati tornavano con tanto ardore di fede e di fantasia, fu una realtà: non nel senso dell’ideale e del tipico, da cui l’umana debolezza abbia deviato per aberrazione o per malizia, ma nel senso del fatto poveramente empirico. Il cristianesimo primitivo, mutatis mutandis, fu nel tipo, nell’insieme, nella fisonomia e nei moventi, più affine a ciò che Montano, o Dolcino, o Tommaso Münzer148 vollero, in tempi a ciò non adatti, ristabilire, che non a tutti i dogmi, liturgie,

gradi gerarchici, dominii e demanii, lotte politiche, supremazie, inquisizioni ed altre simili miserie, in cui s’aggira la storia umanamente terrena della chiesa. Nei tentativi di cotesti ribelli, si rivede, come se essi avessero voluto dare in ispettacolo un esperimento del passato, quale debba essere stata, a un di presso, la figura originaria del cristianesimo come setta di perfetti santi, ossia di assolutamente eguali, senza differenze di clero e di laici, tutti parimenti capaci dello spirito divino, sanculotti e devoti al tempo stesso, tutti ad un modo. Il problema più grave e più scabroso in tutta la storia del cristianesimo è appunto questo: d’intendere, cioè, come dalla setta degli assolutamente eguali sia nata, nel termine di men che due secoli, una associazione di differenziati per gerarchia, in guisa, che da una parte sta il popolo dei credenti e dall’altra stanno gl’investiti di potestà sacra. Questa differenziazione gerarchica si completa col dogma, il che vuol dire con un dettame, che sopprime la immediatezza del credere nei singoli fedeli qual fatto di personale vocazione. La gerarchia vuol dire sacerdozio, amministrazione di cose, e governo delle persone. Di qui nasce la possibilità di una politica; e su la ricerca di questa politica s’aggira la storia della chiesa del III secolo. L’incontro della chiesa e dell’impero nel IV secolo non è se non il resultato del compenetrarsi di due politiche, per cui poi la religione e il maneggio degli affari da ultimo si confondono. In questo passaggio dalla libera associazione all’organamento semistatale, il quale fa che la chiesa abbia sempre da allora in poi esercitata un’azione politica, o d’accordo con lo stato, o contro lo stato, o diventando essa stessa lo stato, si avvera il caso comune ad ogni associazione, la quale, dal momento che ha cose da amministrare ed ufficii da adempiere, diventa di necessità un governo. La chiesa ha riprodotto dentro di sé stessa i contrasti proprii ad ogni stato, cioè le opposizioni di ricchi e di poveri, di protettori e di protetti, di patroni e di clienti, di proprietarii e di sfruttati, di principi e di soggetti, di sovrano e di sudditi. Quindi essa ha avuto nel suo proprio seno particolari lotte di classe – p. es. di patriziato gerarchico e di plebe cenobitica, di alto e basso clero, di cattolicità e setta. Le sette furono in gran parte ispirate, fino al secolo XVI, dal pensiero del ritorno al cristianesimo primitivo, e per ciò spesso colorirono i disegni attinti alle condizioni del presente di una ispirazione ideologica che rasenta l’utopia. La chiesa che è riuscita, è invece solo quella la quale, seguendo i modi di procedere che son proprii dello stato laico, anziché una società di eguali nello spirito santo, è divenuta una gerarchica consociazione di disuguali, con esercizio di formali diritti, con mezzi d’imposizione e di violenza, con perfetto imperio, o con parte d’imperio ceduto da altri imperanti, e col governo delle anime, che, come ogni altro governo spirituale, si svolge innanzi tutto col dominio su le cose senza delle quali le

anime non han modo di esistere. Questi attributi umani, i quali, data la condizione di disuguaglianza economica degli uomini, riavvicinano la consociazione religiosa ad ogni altra maniera di governo delle cose di questo mondo, mostrano per un verso come l’associazione dei santi non potesse avere in alcun tempo una forma di esistenza che non fosse utopia, e per un altro verso ci spiegano la costante tendenza alla intolleranza ed alla cattolicità nelle varie sue forme, in quanto essa associazione, smentendo l’ingenuo martire di Nazareth, lasciato malinconicamente in croce su gli altari, ha fatto di questa terra il regno suo. Per rimaner nell’esempio, che mi è più familiare pei miei recenti studii, il papato superimperiale precipitò sì nella persona di Bonifacio VIII, secondo la profezia di Dolcino, che di tre anni gli sopravvisse; ma non precipitò per dar luogo all’Apocalisse. Fu inflitta al papato sì l’umiliazione dell’esilio avignonese, ma non per dar luogo a un nuovo impero di Cesari, secondo l’utopia dell’Alighieri. C’erano allora già i prodromi dell’evo moderno, cioè i preannunzii del regno della borghesia. Filippo il Bello, che di lontano arieggia al principato civile, nel quale due secoli dopo la borghesia percorse la prima tappa del suo dominio politico su la società, mandava all’estremo supplizio i Templari, come per dire che l’epopea delle crociate finisse per opera dei cristiani stessi149. E perché il motto della situazione ci fosse perfino nell’aneddoto, che sempre denuncia e smaschera gli stridenti passaggi dell’ironia della storia, il commissario del sire di Francia a preparare l’umiliazione di Anagni non fu un capitano di banda feudale, ma un legista, che negoziò il danaro occorrente alla bisogna in una cambiale rilasciata a un banchiere di Firenze150. Furono questi legisti, e principi usurpatori di diritti storici, e banchieri accumulatori del danaro, che poi divenne più tardi il capitale, quelli i quali iniziarono la moderna società così trasparente nella prosaica struttura degli intenti e dei mezzi suoi. Come su le altre rovine della società corporativa e feudale, così anche su le rovine del patrimonio ecclesiastico s’è assisa questa crudele borghesia, che, sfidatrice delle potenze misteriose, ha inaugurata l’èra del pensiero e della libera ricerca. E aspetta che altri la tolga di seggio: ma non sarà di certo, né il cristianesimo vero, né quello verissimo. Se poi quegli uomini dell’avvenire, dei quali noi socialisti ci diamo assai spesso soverchio pensiero, produrranno o non produrranno ancora della religione, io, né so, né non so: e lascio ad essi soli la briga della vita loro, che sarà, spero, non lieve, perché non divengano degl’imbecilli nella paradisiaca beatitudine. Ciò che io vedo chiaro è solo questo: che il cristianesimo, che nel suo complesso è la religione dei popoli fino ad ora più civili, non lascerà luogo

dopo di sé ad alcun’altra religione nuova. Chi d’ora innanzi non sarà cristiano, sarà irreligioso. E poi, in secondo luogo, noto, che i socialisti han fatto assai bene a scrivere nei loro programmi, che la religione è cosa privata. Spero che nessuno vorrà intendere coteste parole nel senso di una veduta teoretica, su la quale si possa poi ricamare una filosofia della religione. Quel comma del tutto pratico vuol semplicemente dire, che al presente i socialisti han troppe cose da fare di più utili e serie, da non doversi confondere con quegli Hebertisti, Blanquisti, e Bakuninisti, e simili, che decretavano l’abolizione del divino, e Dio decapitavano in effigie. I materialisti della storia pensano però, dal canto loro, e fuori d’ogni apprezzamento subiettivo, che gli uomini dell’avvenire rinunzieranno molto probabilmente ad ogni spiegazione trascendente dei problemi pratici della vita di tutti i giorni, perché: Primus in orbe deos fecit timor!151 Antica la sentenza: di valore perpetuo l’enunciato!

X Resina (Napoli), 15 Settembre ’97. Caro Sorel, Nel rileggere, nel rivedere, nel ritoccare – giacché ho fatto disegno di darle alle stampe – le lettere, che io v’andai scrivendo dall’Aprile al Luglio ultimi, m’è parso formino come una certa tal quale serie, e nel tutt’insieme dicano qualcosa. Di certo i pensieri di semplice accenno, gli enunciati appena appena sviluppati, le osservazioni il più delle volte incidentali, e le bizzarre critiche disseminate qua e là, – tutte le cose, insomma, che mi venne di dire, nel modo che è proprio di chi scriva currenti calamo, assumerebbero ben altra forma, entrerebbero in tutt’altra disposizione, passerebbero per una nuova e meditata elaborazione, se io avessi in animo di comporre un libro degno d’un titolo altisonante come, p. es.: Il Socialismo e la Scienza; o Il Materialismo storico e l’Intuizione del mondo, e così via. Ma, come io, nel conversar con voi a distanza, ho usato in larga misura delle libertà che son proprie della facoltà discorsiva, così, ora che mi son risoluto a raccogliere quelle fugaci lettere nella forma d’un libercolo, imporrò a questo un modesto ed appropriato titolo di: Discorrendo di Socialismo e di Filosofia, Lettere a G. Sorel. Devo agl’insistenti consigli del mio amico Benedetto Croce, di commettere cotesto nuovo peccato di letteratura minuscola. Questo mio benedettissimo amico è diventato il mio tormento e la mia croce. Dacché lesse quelle lettere, non m’ha dato più pace; e ha voluto gli promettessi di renderle pubbliche, nella forma di un opuscolo. Se io stessi a sentir lui, ai miei anni non verdi, diverrei un continuo e perpetuo produttore di carta stampata: mentre a me è piaciuto sempre, in passato, di lasciar dormire nei cassetti i non pochi catafasci di carta scritta, che m’è toccato di accumulare, per anni ed anni, nella qualità di insegnante e di appassionato estensor di lettere. In questo caso speciale il Croce poi mi andava dicendo, esser dover mio, ora che il socialismo s’allarga in Italia, di concorrere alla vita del partito, che cresce e si fortifica, coi mezzi e nei modi che son più rispondenti alle attitudini mie. E sia pur così; – ma poi tutto sta a vedere, se i socialisti di tale aiuto e di tale sussidio sentano proprio il bisogno e il desiderio152. A dir le cose come sono, io non ebbi mai una troppo grande inclinazione allo scrivere per il pubblico, e all’arte della prosa non ci attesi mai; tanto è, che ho

scritto di solito come vien viene. Fui sempre e sono, invece, appassionatissimo dell’arte dell’insegnamento orale, in tutte le sue forme; e l’attendere a cotesta opera, con molta intensità, mi ha distolto per lunghi anni, in passato, dal ridire per iscritto (e chi potrebbe veramente ridirlo dal vivo?) ciò che, insegnando, vien detto spontaneo di forma, duttile, pronto, adattato al caso, ricco di attinenze e pieno di riferimenti. Abbracciando poi, più in qua, il socialismo, in cotale rinascenza dello spirito io divenni più desideroso di comunicar col pubblico, per mezzo di opuscoli, di lettere d’occasione, d’indirizzi e di conferenze, che mi si moltiplicarono per anni quasi a mia insaputa. Non son forse questi i doveri e gli oneri del mestiere? Ed è qui che due anni fa venne precisamente in buon punto il mio benedetto signor Croce, col consiglio che mi dette, che io pubblicassi dei saggi di socialismo scientifico, come per porre alla mia attività di socialista un obiettivo più solido. E, come da cosa vien cosa, anche queste lettere d’occasione possono passare per un saggio sussidiario e complementare di materialismo storico. Come è chiaro, caro Sorel, questo discorso non riguarda punto voi, ma me soltanto; perché cerco quasi quasi delle scuse alla pubblicazione di un nuovo libercolo, e in quanto io da Italiano vivo in Italia. Probabilmente se queste mie lettere, oltre che da voi, saranno lette da altri in Francia, costoro diranno, che io non li ho persuasi lo stesso del materialismo storico, e forse ripeteranno ragionevolmente le osservazioni di alcuni critici dei miei saggi, che, con le traduzioni, cioè, da una lingua straniera, non si riesce a cambiare gli umori intellettuali di una nazionea. Pur così scrivendo, come per metter la chiusa a questa faccenda epistolare, temo ancora non mi venga la voglia di continuare. Non son forse le lettere moltiplicabili all’indefinito, come le favole e i racconti? Per fortuna, però, io m’ero proposto fin dal principio di rispondere, così all’ingrosso, ai quesiti che voi, sfiorando dei temi della massima difficoltà, ponete nella vostra Prefazione; cosicché una ragione di finire m’è pur data dai termini stessi del vostro scritto, al quale mi sono andato via via riferendo. Se m’abbandonassi poi all’estro della conversazione, chi sa dove andrei a finire! – le lettere diverrebbero una letteratura. Di ciò voi non mi sapreste grado154; per quanto potesse allietarsene il signor Croce, il quale vorrebbe mettere in tutti il suo istinto di prolificazione letteraria. Lui fa un curioso contrasto con le dolci abitudini di questa dolce Napoli, nella quale gli uomini – come i Lotofagi che ogni altro cibo aveano in dispregio155 – vivono immersi nel solo presente, e par che, proprio in cospetto della statua di G. B. Vico, allegramente faccian le fiche alla filosofia della storia156.

Ma, pur volendo una buona volta finire, mi conviene di mettere in carta alcune altre brevi note ancora. Mi pare, innanzi tutto, che voi, non per curiosità vostra, ma quasi mettendovi ad arte nei panni del comune dei lettori, domandiate: c’è mai modo di fare intendere, per via facile e piana, in che consista quella dialettica, che così spesso s’invoca a dilucidazione dell’intrinseco del materialismo storico? E potreste, credo, aggiungere, che il concetto della dialettica riesce ostico, ai puri empiristi, ai metafisici sopravvissuti, e a quei popolari evoluzionisti, i quali così volentieri s’abbandonano alla generica impressione di ciò che è e trapassa, apparisce e sparisce, nasce e muore, e nella parola evoluzione non esprimono, da ultimo, l’atto del comprendere, ma l’incomprensibile: mentre, all’incontro, nella concezione dialettica s’intende di formulare un ritmo del pensiero, che riproduca il ritmo più generale della realtà che diviene. Ma io – se l’ora stanca di queste lettere non me ne facesse divieto – ove mai volessi ricominciare, prima di rispondere a così grave quesito, ricorrerei con la mente al ricordo del poeta greco, che, alla domanda del tiranno di Siracusa: che cosa fossero gli dei? – chiese prima uno, poi un altro, e poi un altro giorno di tempo, e così senza fine157. E dire, in verità, che, ai poeti, che li creano, li inventano, li lodano e li celebrano, gli dei devono essere assai più familiari, che non possa esser la dialettica a me, se altri mi mettesse fra l’uscio e il muro, con l’obbligo di rispondere a un imperioso quesito! E piglierei tempo – il che non è alieno dal pensare dialetticamente – dicendo (il che è una implicita risposta): – noi non possiamo renderci conto adeguatamente del pensiero, se non pensando in atto; – alle maniere di procedimento del pensiero bisogna adusarcisi con successivi sforzi; – ed è sempre assai pericoloso il saltare a piè pari, dall’uso concreto di una maniera di concezione alla generica definizione formale di essa. Messo ancora alle strette, per non gravare l’interrogatore di studii troppo lunghi, ardui e complicati, lo rimanderei all’Antidühring, e segnatamente al capitolo intitolato: negazione della negazionea. Ivi, e in tutto quel libro, si vede come Engels fosse, non solo inteso con l’animo a spiegare ciò che espone, ma preoccupato ancor più del maluso che può farsi dei procedimenti mentali, quando, chi vi rivolge l’attenzione, più che essere portato a pensare qualcosa di concreto in cui la forma del pensiero si riveli viva e vivente, sia disposto a cadere negli schematismi a priori, ossia nello scolasticismo, che non fu – sia detto con buona pace degl’ignoranti – la nota esclusiva dei dottori del Medio-Evo, come se fosse soltanto roba da preti. Dello scolasticismo se ne può fare sopra ogni dottrina. Il primo scolastico fu Aristotele in persona; che fu, inoltre, tante altre cose in più, e fu soprattutto un genio della

scienza. Dello scolasticismo se ne fa già in nome di Marx. Di fatti la maggior difficoltà d’intendere e di continuare il materialismo storico non istà nella intelligenza degli aspetti formali del Marxismo, ma nel possesso delle cose in cui quelle forme sono immanenti; delle cose, che Marx per conto suo seppe ed elaborò, e di quelle altre moltissime, che tocchi a noi di conoscere e di elaborare direttamente. Nei molti anni che ho speso nell’insegnare, io fui sempre persuaso del gran danno che si fa alle menti giovanili, quando, invece d’immergerle, con opportuna e pieghevole arte, in una determinata provincia della realtà, perché osservando, comparando e sperimentando, poco per volta arrivino alle formule, agli schemi, alle definizioni, si comincia dall’usar subito di queste ultime, come se fossero i prototipi delle cose esistenti. Insomma, la definizione da cui s’incomincia è vuota, mentre è solo piena quella cui si arrivi, geneticamente. Nell’insegnare si vede quanto il definire sia cosa pericolosa; secondo il senso plebeo che molti danno ad una sentenza del diritto romano, la quale dice, in verità, tutt’altro. La didattica non è quella attività, che produca un nudo effetto di cosa fissa (come nudo prodotto); ma è quella attività, che generi altra attività. Insegnando noi riconosciamo, come il nocciolo primo di ogni filosofare è sempre il Socratismo; ossia la virtuosità generativa dei concettia. Rimandando all’Antidühring, e a quel capitolo segnatamente, non intenderei, per ciò, di rinviare ad un catechismo, ma solo ad un esempio di abilità didattica. Le armi e gl’istrumenti son tali solo all’opera; e non quando sian visti in armadio da museo. Inoltre, se non dovessi pur finire una buona volta, vorrei fermarmi ad illustrare le parole dove dite, che l’Italia meriti, come culla comune della civiltà, l’omaggio di tutti160. Può parere che queste parole siano una stonatura, mentre discorrete proprio del socialismo, che all’Italia veramente non deve molto. Ma, se è vero che il socialismo è il frutto della civiltà adulta, i maturi e provetti degli altri paesi non faran male a rivolgere, di tanto in tanto, gli occhi loro a questa culla. Ripensando all’Italia, che ha fatto per secoli la più gran parte della storia universale, tutti avranno sempre qualcosa da impararci; e poi dopo s’avvedono, che l’avean già a casa loro quest’Italia, come il presupposto di ciò che essi presentemente sono. Ad altri Francesi è parso in passato, che questo paese fosse, da culla, diventato tomba della civiltà; e per tal tomba devon tenerla la più parte dei forestieri, che la visitano qual museo, ignari sempre del nostro presente. E in ciò hanno torto; e, per dotti che siano, cotesti visitatori di musei rimangon sempre ignoranti – dico ignari della vita attuale di questo paese, che par la vita del morto risorto, il che è almeno un caso degno di nota.

In che veramente consiste questo rinascimento d’Italia, e che aspettativa può dar di sé, a quelli che guardino la generalità del progresso umano, senza pregiudizii e senza preconcetti?ar Per tacere delle grandi difficoltà che c’è a trattare, con intenti obiettivi, e con criterii non desunti dai soli impulsi della personale opinione, la storia attuale di qualunque paese; nel caso speciale d’Italia bisognerebbe risalire fino al secolo XVI, quando l’iniziale sviluppo dell’epoca capitalistica – che qui avea sede principale – fu spostato dal Mediterraneo. Bisognerebbe arrivare, attraverso alla storia della successiva decadenza, alle premesse positive e negative, interne ed esterne, delle presenti condizioni d’Italia. Non occorre io dica che le mie forze sarebbero impari all’impresa; perché non avrei la più lontana tentazione di misurarmici, a proposito e nella occasione di un discorso familiare, come è questo. Chi un simile studio sapesse concretare in un libro, potrebbe dire d’aver concorso ad esprimere, in forma riflessa, la presente situazione, e l’attuale coscienza degl’Italianib. Qui da noi si è spesso assai ciecamente ottimisti o ciecamente pessimisti, nel senso che si dà dai non-filosofi a coteste parole; specie perché in Italia c’è una grande ignoranza del vero stato degli altri paesi, cosicché molti le condizioni indigene valutano, non alla stregua comparativa e pratica dell’ora presente, ma ad una tutta ideale, ipotetica, e spesso utopistica. Ed è singolare il caso, che qui da noi, in tanto risorgere delle scienze della osservazione nel campo della natura – le quali scienze vengono veramente coltivate con intenti particolaristici e dirò antifilosofici – sia così scarso l’intelletto positivo delle cose sociali attuali, mentre è così stragrande in questo paese stesso il numero dei sociologisti, che somministrano definizioni ai sitibondi di verità. Ma si sa, i sociologisti hanno in tutto il mondo una certa curiosa antipatia per gli studii della storia; che poi sarebbe, secondo il senso dei profani, quella tal cosa nella quale la società s’è svolta. Pochi, in conclusione, vedon chiaro in questa circostanza di fatto; che, cioè, la borghesia italiana, la quale è già oggetto, come in ogni altro paese, alle ire, e agli odii degli umili, dei manomessi, degli sfruttati, e per un altro verso è stretta e premuta dal popolo minuto, è essa stessa in sé stessa instabile, inquieta, incerta, perché l’è impedito di mettersi alla pari con quella degli altri paesi, nel campo della concorrenza. Per questa ragione, come per l’altra, che dall’altro lato essa ha il papaa, con quel suo non indifferente bagaglio di cose, che solo i teorici dell’utopismo liberalesco proclamano trapassate per sempre, questa borghesia, che deve ancora ascendere, è intimamente rivoluzionaria, come direbbe il Manifesto. E come non ha potuto esser giacobina, quanto sarebbe stato il naturale istinto suo, s’è acquetata nella formula del re per la grazia di dio e della

nazione ad un tempo165. Non potendo questa borghesia fare assegnamento sul rapido sviluppo di una grande industria, che tarda di fatti a venire, e nella conseguente rapida conquista di un grande mercato esterno, dato il progresso lento ed incerto della economia nazionale, per la massima parte agraria, fa la politica mezzana degli espedienti, e consuma nell’abilità l’ingegno. Ecco la parte che fa la flotta italiana da più mesi in Oriente166: par la volpe, che, secondo la favola, dichiari immatura l’uva che non può afferrare; ma questa volpe qui, con divario da quella della favola, si trova tra altre volpi, che l’uva afferrata custodiscono, o dell’uva stanno per afferrare! Ed ecco che la volpe si fa idealista, per manco di positivo. Questa borghesia italiana, di fronte all’astensionismo, o reazionario o demagogico dei clericali, e per il lentissimo sviluppo dell’opposizione proletaria, si è sentita e si sente come se fosse tutta la nazione, e nel difetto di partiti che dividano la società, dà il nome di partiti alle fazioni che si raccolgono intorno a capitani e proconsoli, o ad intraprenditori ed avventurieri di varie sorti. Al primo apparire del socialismo essa rimase attonita. D’altra parte, s’ingannano quelli i quali credono, che l’agitarsi delle moltitudini sia sempre indizio o prodromo da noi, com’è di fatto alcune volte e in alcuni punti d’Italia, di quel moto proletario che, come lotta economica su base concreta, o come aspirazione politica, volge più o meno esplicitamente al socialismo in altri paesi. Qui il più delle volte questo agitarsi è come la ribellione delle forze elementari contro di uno stato di cose in cui esse forze non trovano la necessaria coercizione, quella coercizione, dico, che è propria di un sistema borghese atto ad irreggimentare i proletarii. Si guardi, p. es., all’acuita forma di emigrazione, che è, salvo poche eccezioni, di uomini atti ad offrire le braccia, l’incomparabile sedulità, e lo stomaco capace d’ogni privazione, allo sfruttamento del capitale straniero in terra straniera: – sono, in una parola, lavoratori uscenti dai campi, dove son di soverchio, o dall’artigianato in decadenza, che la ferula educativa del capitale ridurrebbe in isquadre di addetti alle fabbriche, se la grande industria si affrettasse a svolgersi, o che il patrio capitale menerebbe nelle patrie colonie, se ce ne fosse, e se non fosse venuta la pazzia di crearne là dove pare presso che impossibile il farnea. L’Italia è diventata – ed è ben naturale, – negli ultimi anni, la terra promessa dei decadenti, dei megalomani, dei critici a vuoto, degli scettici per fastidio e per posa. Alla parte sana e verace del movimento socialistico (al quale non è dato per ora dalle circostanze altro ufficio da quello in fuori di preparare la educazione democratica del popolo minuto) si mescolano, di conseguenza, parecchi, i quali, se volessero mettersi la mano su la coscienza, avrebbero da confessare, che essi son decadenti, e che li sospinge a dimenarsi, non la fattiva

volontà del vivere, ma l’indistinto fastidio del presente: – essi, leopardiani annoiati! Devo finalmente finire; ma mi pare mi arrivi all’orecchio come una leggiera voce di protesta da parte di quei compagni, che son così pronti ad obiettare; e che quella voce dica: coteste son sofisticherie da dottrinarii, e noi abbiam bisogno di pratica. Sicuro, d’accordo, avete ragione. Il socialismo è stato per così lungo tempo utopistico, progettistico, estemporaneo e visionario, che è bene ora di dire e di ripetere ogni momento, che ci occorre la pratica; perché gli animi di quelli che lo professano sian rivolti di continuo a misurare le resistenze del mondo effettuale, e a studiar di continuo il terreno, sul quale ci è imposto di aprirci la non facile né morbida via. Badi però il mio ipotetico critico di non far proprio lui la parte del dottrinario; la qual parola, per chi se ne intenda, designa una certa disposizione delle menti, viziate dall’astrazione, a ritenere, che le idee proclamate per sé eccellenti, e i frutti delle esperienze raccolte in determinati tempi e luoghi, sian cose da applicare difilato al concreto, e inoltre buone per ogni tempo e luogo. La pratica dei partiti socialistici, a confronto d’ogni altra politica fino ad ora esercitata, è ciò che più risponde, non dirò alla scienza, ma ad un procedimento razionale. È la dura prova di una costante osservazione, e di un adattamento da tentar di continuo; – è la dura prova d’indirizzare sopra una linea di moto unitario le tendenze, spesso difformi e spesso antagonistiche, del proletariato; – è lo sforzo di condurre ad esecuzione dei disegni pratici col sussidio della chiara visione di tutti i rapporti che legano, con complicatissimo intreccio, le varie parti del mondo in cui viviamo. E se così non fosse, per che ragione e a che titolo si parlerebbe del vantato Marxismo? Se il materialismo storico non regge, vuol dire che l’aspettativa del socialismo è caduca, e che il nostro pensiero della società futura è creazione da utopisti! Pur troppo gli è vero, in fatto, che in tutto il socialismo contemporaneo c’è sempre latente un certo che di neoutopismoa; come è il caso di coloro, che, ripetendo di continuo il dogma della necessaria evoluzione, questa poi confondon quasi con un certo diritto ad uno stato migliore, e la futura società del collettivismo della produzione economica, con tutte le conseguenze tecniche e pedagogiche che dal collettivismo risulterebbero, dicono che sarà perché deve essere, – e quasi dimenticano, che cotesto futuro devono pur produrlo gli uomini stessi, e per la sollecitazione dello stato in cui sono, e per lo sviluppo delle attitudini loro. Beati costoro, che il futuro della storia e il diritto al progresso misurano quasi alla stregua di un certificato di assicurazione su la vita! Cotesti dogmatici delle idee a buon mercato dimenticano diverse cose. In prima, che il futuro, appunto perché è il futuro, che sarà il presente quando noi

saremo il passato, non può costituire il criterio pratico di ciò che noi dobbiam fare al presente. Sarà ciò cui si arriverà, – ma non è la via per arrivarci. In secondo luogo, l’esperienza di questi ultimi cinquant’anni deve indurre gli atti al pensiero ed alla pratica in questa persuasione: che, cioè, a misura che cresce nei proletarii e nel minuto popolo la capacità ad organizzarsi in partiti di classe, la prova stessa di questo complicato movimento ci porta a intendere lo sviluppo dell’èra nuova secondo una misura di tempo, che è assai lenta a confronto del rapido ritmo che concepivano una volta i socialisti intinti di giacobinismo rivissuto. Or sopra a una distesa così grande di tempo la nostra previsione non può non correre incerta; tenuto conto della enorme complicazione del mondo attuale, e in tanto allargarsi del capitalismo, ossia della forma borghesea. Chi non vede, che oramai il Pacifico soppianta l’Atlantico, come questo a suo tempo fece passare in seconda linea il Mediterraneo? Cosicché, in terzo luogo, la scienza pratica del socialismo consiste nella chiara notizia di tutti cotesti complicati processi dell’orbe economico, e, parallelamente, nello studio delle condizioni del proletariato, in quanto esso via via diventa atto a concentrarsi in partito di classe, e porta in questa successiva concentrazione l’animo che gli è proprio, data la lotta economica in cui s’inradica quella politica, che gli è mestieri di fare. Su cotesti dati più prossimi la nostra previsione può correre con sufficiente chiarezza di calcoli, e può raggiungere il punto nel quale il proletariato divenga prevalente, e poscia predominante politicamente nello stato. E da quel punto, che deve coincidere con la impotenza del capitalismo a reggersi, da quel punto, dico, che nessuno può immaginarsi come un rumoroso patatrac, sarebbe il cominciamento di ciò che molti, non si sa perché, come se tutta la storia non fosse la serie delle rivoluzioni della società, chiamano enfaticamente la rivoluzione sociale par excellence. Spingersi oltre di quel punto, coi ragionamenti, gli è come voler confonder questi con gli artifizii della immaginazione. Il tempo dei profeti è trapassato. Beato te, Fra Dolcino, che nelle tue tre lettereb potesti trasfigurare gli accidenti politici del momento (Papa Celestino e Papa Bonifacio VIII, Angioini ed Aragonesi, Guelfi e Ghibellini, misere plebi e patriziati dei comuni, e così via) in tipi già simboleggiati dai profeti e dall’Apocalisse, misurando ad anni, a mesi ed a giorni, con successive correzioni, i tempi della provvidenza. Ma fosti un eroe; la qual cosa dimostra, che quelle fantasie non furon la causa del tuo operare, ma l’involucro ideale, nel quale tu rendevi conto a te stesso, come fecer tanti altri, per tutto un secolo innanzi a te, e Francesco d’Assisi compreso, del disperato moto delle plebi contro la gerarchia papale, contro la borghesia già forte nei comuni e contro il

nascente monarcato. Ora tutti quegli involucri furon lacerati, compresa la religione delle idee, come dicon quelli che usano un gergo da ipocriti, per mostrare una certa superstiziosa reverenza per la religione degli altri. Ora, presentemente, non è lecito di essere utopisti, se non ai soli imbecilli. L’utopia degli imbelli, o è cosa ridicola, o è dilettanza da letterati che vadano visitando quel falansterio di ninnoli di cui è architettore il Bellamy172. Quell’umile Marx, tutto prosa di scienza, andò raccogliendo modestamente nella società presente i primi indizii delle transizioni a quella che diverrà, come p. es. il sorgere delle cooperative (vere!) in Inghilterra e cose simili, e fu rassegnato (specie nell’opera spesa nella Internazionale) alla parte di ostetrico, che non è proprio quella di un artefice del futuro. Lui ed Engels dissero della società dell’avvenire – data la ipotesi della dittatura politica del proletariato – non sotto l’aspetto intuitivo, del come essa parrebbe a chi la vedesse, ma sotto l’aspetto del principio direttivo della forma, ossia della struttura economica, e segnatamente in antitesi a questa società presentea. Del resto, se c’è chi abbia il bisogno di vivere fin da ora nel futuro, come da sentirlo e da provarlo su la propria pelle; e, papeggiando in nome delle idee, voglia investire dei loro diritti e doveri i componenti la società dell’avvenire – s’accomodi pure. Permetta quindi a me, che pure ho un qualche diritto d’inviare la mia carta di visita ai posteri, di esprimere la speranza, che quei del futuro, non trasumanati tanto da non esser più comparabili a noi del presente, serbino tanto della gaia dialettica del ridere, da farsi beffe umoristicamente dei profeti dell’oggi. Finisco per davvero; e toccherebbe ora a voi, se mai vi piace, di ricominciare. a

Per la intelligenza di queste mie lettere ho stimato opportuno di riferire in ultimo in appendice (III) la Prefazione che il SOREL ha preposto ai miei due saggi a pp. 1-20 dell’edizione francese: Paris, 1897, Girard et Brière. a È assai di recente che Franz Mehring ha intrapresa la riproduzione di tutti gli scritti men noti di Marx e di Engels del periodo fra il ’40 e il ’50, e fra questi è riapparsa anche la Heilige Familie (Nota a questa ristampa)14. a Alludo qui ai due libri intitolati: Geschichte der ersten socialpolitischen Arbeiterbewegung in Deutschland; e: Die Grundlagen der Karl Marx’ schen Kritik, ecc., che furono saccheggiati anche in Italia dai critici a buon mercato16. a La ristampa del libro di MARX: Zur Kritik der politischen Oekonomie, curata dal KAUTSKY (ed. Dietz, Stuttgart), è apparsa in Agosto, ossia tre mesi in qua dalla data di questa lettera23. a Mentre rimetto in ordine queste lettere per la stampa – e siamo in fin di Settembre – mi giunge il volume The Eastern Question by KARL MARX (London, ed. Sonnenschein), di pagine XVI-656 in-8° gr., con indice copiosissimo e due carte geografiche. È la riproduzione diligentemente curata ora di recente

dalla figlia ELEONORA e da ED. AVELING degli articoli che CARLO MARX scrisse nel 1853-56 su la Questione d’Oriente, principalmente nella «New-York Tribune»27. O miracolo di laboriosità! Noto qui di passaggio, che quando Marx scriveva di politica, non si perdeva dottrinariamente in enucleazione di principii, ma procurava d’intendere e di spiegare! a Alludo più specialmente agli scritti polemici di Böhm-Bawerk e di Komorzynski28. Quanto allo scritto del primo (Zum Abschluss des Marxschen Systems), che ha levato tanto rumore, non posso a meno di manifestare la mia maraviglia per la maniera indulgente come ne ha fatto giudizio Conrad SCHMIDT nella Beilage al «Vorwärts» del 16 Aprile 1897, n. 85. a

Fra questi X… apro un concorso. «Marx muove dal principio… che il valore delle merci è determinato esclusivamente dalla quantità di

a

lavoro in esse contenuto. Ora, se nel valor delle merci non v’ha che lavoro, se la merce null’altro è che lavoro conglutinato, evidentemente essa deve spettare nella sua totalità al lavoratore, e nessuna sua parte deve venire appropriata dal capitalista. Se dunque l’operaio non percepisce nel fatto che una parte del valore da lui prodotto, ciò non può essere che il risultato di una usurpazione». Così LORIA a p. 462 della «Nuova Antologia», febbraio 1895, nel noto articolo: L’opera postuma di Carlo Marx40. Cito queste parole, che non sono le sole che il Loria abbia scritto di egual calibro e misura, unicamente per dare un esempio del come si possa fare una libera versione di Marx in stile alla Proudhon. E su tali libere versioni si formarono i cacasenno dal ’70 all’80, cui accenno in seguito. a

Già molto prima che i simbolismi e le analogie organiche venissero di moda nella sociologia, io mi trovavo di aver criticata cotesta curiosa tendenza in un articolo-recensione della Psicologia sociale del LINDNER («Nuova Antologia», Decembre 1872, pp. 971-989)52. b Nell’articolo intitolato: Programm der blanquistichen Kommüne-Flüchtlinge, apparso nel «Volksstaat», num. 73, e poi riprodotto a pp. 40-46 dell’opuscolo: Internationales aus dem Volksstaat, Berlin, 189453. a Per ciò Hegel e gli Hegeliani, che così spesso usarono dei simbolismi verbali, adoperavano la parola aufheben, che può significare, tanto toglier via e rimuovere, come alzare, e quindi elevar di grado. a

Il VERA scriveva ancora nel 1870 una Filosofia della Storia da hegeliano letterale della stretta osservanza. E quanto io lo tartassai nella recensione che ne scrissi nella «Zeitschrift für exacte Philosophie», vol. X, pp. 79 sgg. 1872!61 a Di fatti ROSENKRANZ, uno dei corifei dell’epigonismo hegeliano, scriveva un apposito libro intitolato: Hegel’s Naturphilosophie und die Bearbeitung derselben durch den italienischen Philosophen A. Vera, Berlin 1868. Stralcio da quel libro alcuni brani, che fanno al caso mio. «È uno spettacolo interessante l’osservare come il tedesco di Hegel rinasca nella lingua italiana. I signori… (e qui una infilzata di nomi)… e tanti altri rendono i pensieri di Hegel con tale precisione e facilità, che dieci anni addietro sarebbe parsa in Germania cosa impossibile» (p. 3). «Vera è il più rigoroso sistematico che Hegel abbia mai avuto, che lo segue passo passo con piena devozione» (p. 5). «A chi d’ora innanzi adducesse le difficoltà d’intendere Hegel in tedesco, si potrà dar consiglio di leggerne la traduzione di Vera. Questa dovrà pur comprenderla, purché abbia, s’intende, l’intendimento indispensabile alla cognizione filosofica» (p. 9)62. a Il verbo usato da Marx, umstülpen, si dice comunemente del rimboccare i calzoni, o del ripiegar le maniche. a «I giuochi dell’infanzia, non paia detto per celia, sono il primo principio ed il primo fondamento di tutta la serietà della vita; come quelli, che, servendo d’immediata scarica e di sfogo naturale alle movenze interiori, danno via via luogo ad atti di accorgimento, e ad un lento trapasso da una in altra forma della consapevolezza. Al colmo di questa nasce poi l’illusione che il dominio acquisito (di noi sopra di noi stessi)

sia originaria potenza e causa costante di quei visibili effetti, di cui s’ha e noi e gli altri l’evidenza obiettiva nelle operazioni» – così a pp. 13-14 del mio scritto: Del Concetto della Libertà, Studio psicologico, Roma, 1878, che fu composto nel momento acuto della crisi della psicologia71. a Parecchie di coteste sciocchezze furono abilmente illustrate da B. CROCE; cfr.: Le teorie storiche del prof. Loria, Napoli, 1897, e: Intorno al Comunismo di Tommaso Campanella, Napoli, 189574. a

Ora gli edonisti, operando cum ratione temporis, spiegano l’interesse ut sic (danaro che produce danaro) per mezzo del valore differenziale tra il bene attuale e il bene futuro; ossia, traducono in concettualismo psicologico la ragion del risico, ed altre analoghe considerazioni della ovvia pratica commerciale. E poi operano su tale andare col sussidio di una matematica il più delle volte fattizia e fittizia77. a Cfr. MARX, Zur Kritik der politischen Oekonomie, Berlin, p. 6, – ed. ENGELS, Ludwig Feuerbach, 2° ed., 1888, pp. III-IV80. b Chiesi una volta all’Engels se volesse dar visione di quel manoscritto, non a me, ma all’anarchista Mackay, che tanto s’interessa dello Stirner, e mi rispose trovarsi pur troppo quelle carte già mezzo rose dai topi81. a Fatta eccezione, s’intende, dei primi capitoli dell’Antidühring, che son, del resto, di carattere polemico, e dello scritto di ENGELS su Feuerbach, che nella sostanza non è se non una estesa recensione di un libro, con alcune osservazioni retrospettive e personali83. a Antidühring, 3a ed., 1894, p. 1184. a

La qual parola (discipulina) indica precisamente il prevalere delle ragioni didattiche in certi

aggruppamenti di conoscenze. a Le Monisme: lien entre la Religion et la Science, traduction de G. VACHER DE LAPOUGE, Paris, 189787 b Ho qui sott’occhi un curioso libro (di pp. XXIII e 539, in-8° grande!) del professore R. WAHLE della Università di Czernowitz – destinato a dimostrare (non ne riproduco il titolo, che è assai diffuso e quasi ragionativo, edit. Braumüller, Vienna, 1896)90, che la filosofia è giunta alla sua fine. Peccato che il libro sia tutto di filosofia da un capo all’altro. Vuol dire che essa, la filosofia, per negar sé stessa, deve affermarsi! a Il postulato dell’assolutezza era perfino implicito nelle prove dell’esistenza di dio, e specie nell’argomento ontologico. In me ente finito, ed imperfetto, con la conoscenza limitata, esiste la capacità di pensare l’essere infinito e perfettissimo, che tutto conosce. Dunque io stesso sono… perfetto! Ed ecco che capita a CARTESIO di fare (in un luogo quasi inavvertito dai critici) questo singolare trapasso dialettico, che per lui rimane però un semplice dubbio: «Mais peut-être aussi que je suis quelque chose de plus que je ne m’imagine, et que toutes les perfections que j’attribue à la nature d’un Dieu sont en quelque façon en moi en puissance, quoiqu’elles ne se produisent pas encore et ne se fassent point paroître par leurs actions. En effet, j’experimente déjà que ma connaissance s’augmente et se perfectionne peu à peu; et je ne vois rien qui puisse empêcher qu’elle ne s’augmente ainsi de plus en plus jusques à l’infini, ni aussi pourquoi, étant ainsi accrue et perfectionnée, je ne pourrois pas acquérir par son moyen toutes les autres perfections de la nature divine, ni enfin pourquoi la puissance que j’ai pour l’acquisition de ces perfections, s’il est vrai qu’elle soit maintenant en moi, ne seroit pas suffisante pour en produire les idées» (Œuvres de Descartes, ediz. di V. Cousin, I, pp. 282-83)92. a «Fin dal 1873 scrissi contro i principii direttivi del sistema liberale, e dal 1879 cominciai a muovermi su questa via di nuova fede intellettuale, nella quale mi son fermato e confermato con gli studii e con l’osservazione negli ultimi tre anni». Così a p. 23 della mia conferenza: Del Socialismo, Roma, 1889. Quella conferenza, che era come una profession di fede in istile popolare, fu da me completata con

l’opuscoletto: Proletariato e radicali, Roma, 189097. a

«Non faccio voto di chiudermi in un sistema come in una sorta di prigione»100. Così scrivevo

ventiquattro anni fa (Della Libertà Morale, Napoli, 1873, nella prefazione), e così posso ripetere ora. Quel libro contiene la trattazione per disteso della dottrina del determinismo, e trovava allora il suo complemento in un altro mio lavoro, dal titolo: Morale e Religione, Napoli, 1873. a

Anche per il capo di alcuni socialisti passa ora il pio desiderio del ritorno a quelle altre filosofie. Ecco,

uno si rivolge a Spinoza; cioè alla filosofia nella quale non cape il divenire storico. Un altro si contenterebbe del materialismo del secolo XVIII ut sic; cioè della negazione di ogni storia. C’è chi ripensa a Kant; – dunque, cioè, anche all’insolubile antinomia di ragion pratica e di ragion teoretica? anche alla fissità delle categorie e delle facoltà dell’anima, delle quali parea che Herbart avesse fatto man bassa? anche all’imperativo categorico, nel quale parea che Schopenhauer avesse scoverto il precetto cristiano in mascheratura metafisica? anche al diritto di natura, del quale non vuol saperne oramai più nemmeno il Papa? Ma perché non lasciare ai morti di seppellire i loro morti?103 Di fatti delle due una. O voi quelle altre filosofie le accettate integralmente come furono, quando furono, e allora addio materialismo storico. O voi ci pescate dentro ciò che vi garba, e ci ricercate degli argomenti, e allora vi gravate di un lavoro inutile, perché la storia del pensiero è così fatta, in realtà, che in essa nulla è andato perduto di ciò che in passato fu condizione e preparazione alle attuali concezioni nostre. C’è poi la terza ipotesi, che cadiate cioè nel sincretismo e nel confusionismo. Un bel caso del genere è quello di L. WOLTMANN (System des moralischen Bewusstseins, Düsseldorf, 1898) il quale concilia l’eternità delle leggi morali col Darwinismo, e Marx col Cristianesimo104. a Raccomanderei al lettore la mia relazione del 1887 sulla laurea in filosofia, ivi riprodotta in fine. L’amico Lombroso la definì allora scherzosamente: decapitazione della metafisica106. b

La poca fortuna è documentata dai molti articoli che gli furon scritti contro, a cominciare da quello

abbastanza salato e pepato del KAUTSKY nella «Neue Zeit», XIII, vol. I, pp. 709-716, a venire a quello del DAVID nel «Devenir Social», decembre 1896, pp. 1059-65, per tacere di tanti altri. A proposito, il FERRI, in una nota dell’appendice all’edizione francese del suo libro Darwin, Spencer, Marx, Paris, 1897, dice: «Le professeur Labriola a tout récemment répété, sans la démontrer, cette affirmation, que le socialisme n’est pas conciliable avec le Darwinisme (sur le Manifeste de Marx et Engels, dans le «Devenir Social», juin 1895)». Ora io (In memoria del Manifesto) me la piglio veramente con quelli i quali «cercano in tale dottrina (ossia nel materialismo storico) un derivato del Darwinismo, che solo in un certo modo, ma in un senso assai lato, ne è un caso analogico»107. Mi pare che negare la derivazione ed ammettere l’analogia non significhi negare la conciliabilità. Pregherei di confrontare il mio saggio: Del Materialismo storico, cap. IV. a Il filosofema è in parte presegnato in queste parole del FERRI, che chiudono l’anzidetta nota: «le transformisme biologique est évidemment fondé sur le transformisme universel, en même temps qu’il est la base du transformisme économique et social»108. Dunque, Spencer è al tempo stesso un genio e un cretino; perché, essendo il principe dell’evoluzionismo, non ha mai capito il socialismo! a Mi aspetto una diade Socrate-Marx; perché Socrate per il primo scovrì: essere il conoscere un fare, e che l’uomo conosce bene solo ciò che sa fare. Un mio libro su la: Dottrina di Socrate reca la data del 1871, Napoli. a Cfr. «Züricher Sozialdemokrat» del 22 marzo 1883, p. 1115. Noto qui di passaggio che Darwin, morto l’anno innanzi, era nato il 1809. Engels nacque come Spencer nel 1820. Qui si tratta di veri contemporanei e coetanei, ossia di convissuti nel medesimo ambiente.

b

Dissi a un dipresso cosa sia la concezione epigenetica nello scritto che s’intitola: I Problemi della Filosofia della Storia, Roma, 1887. Questo scritto in parte suppone un altro mio più antico: Dell’Insegnamento della Storia, Roma, 1876. a Questi era un improvvisatore da caffè, e fu, nel capovolto sentimento di sé medesimo, un minuscolo precursore di Oscar Wilde119. a Faccio eccezione per il filosofo Teichmüller, che solo avvertì e notò la forma dell’ateismo attivo, che è religione e credenza. Invece la non-religione, che è implicita alle scienze del puro esperimento, risponde alla indifferenza dello spirito per ogni fede o credenza122. Nell’ateismo che è una fede attiva ha origine quella tregenda parigina, la quale ebbe per principali autori l’ingenuo Chaumette e l’equivoco Hébert123. a «… A ciò i giuristi non badano ordinariamente. Responsabilità nel senso psicologico vuol dire attribuzione dell’atto alla persona (al volere), in quanto essa è conscia dell’esecuzione, mentre vuole. Ma, perché la responsabilità nel senso psicologico adegui la responsabilità nel senso morale, bisogna paragonare il volere che è principio dell’azione, con la somma delle idee che formano la coscienza morale dell’agente; ed in tale confronto non si può non riuscire a questo resultato: che, cioè, la responsabilità morale di ciascuno si perde in una infinitesimale differenziazione da individuo a individuo»; – così a p. 124 del mio libro: Della Libertà Morale, Napoli, 1873127. Da riscontrarlo, inoltre, passim. a

In questo volumetto io intesi di rispondere esclusivamente ai quesiti, che avean fatto sorgere in me per diverse vie le domande e le obiezioni del Sorel. Il lettore non potrà per ciò trovare qui alcuna risposta, né diretta né indiretta, alle varie critiche delle quali sono stati oggetto i miei Essais. Da parecchie di quelle critiche io ho avuto molto da imparare. Passando sopra alle recensioni di meno ragguaglio, e omettendo di soffermarmi su le polemiche incidentali, e su le gratuite impertinenze di qualche sgarbato scrittore, io ringrazio, e vivamente, i signori Andler, Durkheim, Gide, Seignobos, Xenopol, Bourdeau, Bernheim, Pareto, Petrone, Croce, Gentile, e i redattori dell’«Année Sociologique» e del «Novoie Slovo», delle estese critiche di cui mi furono cortesi153. Non posso a meno di notare come io sia stato oggetto di osservazioni del tutto opposte fra loro, p. es.: voi siete troppo marxista: – voi non siete più marxista. Le due affermazioni son del pari infondate. Il vero è solo questo: che avendo io accettata la dottrina del materialismo storico, l’ho poi trattata allo stato naturale della scienza…, e secondo il mio temperamento intellettuale. a Riproduco una parte di quel capitolo, qui appresso, nell’Appendice (IV)158. a

Vorrei qui rimandare al mio scritto su la: Dottrina di Socrate, Napoli, 1871, e segnatamente a pp. 5672, dove si discorre del metodo159. Mi giova nondimeno di riferirne di alcuni brani, che aprono la via ad intendere il momento socratico d’ogni forma del sapere. «Lo stato primitivo della coscienza umana, sebbene corrisponda all’epoca della prima formazione della società, si continua e perpetua anche nei periodi posteriori della storia, perché acquista un certo carattere sostanziale nei costumi, e ferma la sua espressione nei miti e nella poesia primitiva. Il sorgere successivo ed il lento sviluppo della riflessione… non riescono ad escludere tutto ad un tratto le diverse manifestazioni della coscienza primitiva ed irriflessa, e la trasformazione degli antichi elementi, in concetti coscientemente appresi e pensati, non avviene se non per via di un lungo processo, e di una lotta assidua, incessante e secolare. Questo processo di trasformazione non ha luogo soltanto per l’azione di quei motivi intrinseci di critica e di esame, che possono dirsi teoretici: ma emerge necessariamente dalle collisioni pratiche fra la volontà dell’individuo e l’opinione tradizionale espressa nel costume, e più tardi assume il carattere di una lotta sociale fra classe e classe, e individuo e individuo. Nella storia di questa lotta, quello fra gli elementi della vita primitiva che offra più materia di contrasto… è la lingua… che conserva nelle epoche posteriori l’apparenza di una norma, alla quale tutti gli individui debbano necessariamente e inevitabilmente adattarsi. Ma quando gli uomini han cessato di trovarsi istintivamente d’accordo in quello che deve chiamarsi giusto, virtuoso, onesto, ecc… ed han perduto la fede in quei tipi astratti del mito e della leggenda, nei quali la

fantasia primitiva avea espresso ed ipostatato i comuni criterii… sorge… nell’individuo il bisogno di rifarsi quella certezza, che prima s’avea nell’acquiescenza in un criterio comune e naturale, e si dice: tì esti (che è)? E in questa domanda è riposto l’interesse logico di Socrate» (p. 59). – «L’unità intrinseca della parola, che nel costante valore fonetico serba una certa apparenza di uniformità, non vale che ad accrescere la confusione e l’incertezza; perché, mentre dapprima siam vinti dall’illusione, che le stesse parole esprimano le medesime rappresentazioni, a lungo andare la convinzione che acquistiamo del profondo divario che passa fra i nostri e gli altrui concetti, diviene più evidente di quella illusione, e finisce per bandirla del tutto» (p. 62). – «La domanda tì esti (che è) circoscrive tutta la ricerca sul valore di un concetto, alla evidente determinabilità di quello che in esso si pensa. Il contenuto, che a prima vista sembra espresso nella semplice denominazione, bisogna che sia davvero posto, nella sua inerenza ed identità; e questo processo non può compiersi da sopra in sotto, o, come diremmo noi, deduttivamente, perché manca ancora la coscienza di un valore logico incondizionato ed assoluto» (p. 65). – «Il punto di partenza, ossia il nome, che nella sua semplice unità fonetica era dapprima il centro della ricerca, diviene in ultimo l’estremo termine del pensiero; quello in cui si va a metter capo, col farne consapevolmente l’espressione di un contenuto evidentemente pensato; e le immagini concrete, che dapprima si aggruppavano incertamente intorno alla vaga denominazione, non reggendo più alla nuova sintesi, devono scomporsi e prendere un nuovo posto: e solo il nuovo elemento, ottenuto mediante la ricerca, ossia il contenuto costante della rappresentazione, raccolto via via mediante l’induzione, può determinare la coordinazione e la subordinazione nella quale le immagini devono coesistere» (pp. 66-67). ar Nello scrivere questi fugaci appunti su la presente condizione d’Italia, io mi estesi di molto. Ma poi, nel dare alle stampe queste lettere, ho pensato di restringermi; perché in tempo non lontano io pubblicherò un altro Saggio, nel quale avrò occasione di parlare con sufficiente larghezza delle cause remote e delle ragioni prossime della presente situazione del nostro paese161. b Cotesto esame io feci per lo meno in modo sommario in principio del mio corso accademico del 189798, che era dedicato alla caduta dell’«Ancien Régime»162. A spiegare lo sviluppo catastrofico della società capitalistica in Francia, mi occorre di premettere un insieme di caratteristiche di ciò che chiamiamo società moderna. Ma come lo sviluppo, o impedito, o ritardato, della vita d’Italia toglie a molti italiani la chiara visione del mondo capitalistico, così mi convenne di precisare le cause, le ragioni, e i modi dell’ora presente nel nostro paese. Molti socialisti italiani non vedeano fino a poco tempo fa, come gl’impedimenti allo sviluppo capitalistico fossero altrettanti impedimenti al formarsi di una società proletaria capace di azione politica, ond’erano e rimanevano, bon gré mal gré degli utopisti. Allora, nel Decembre 1897, io non potevo prevedere l’uragano che scoppiò in Italia nel successivo maggio 1898163: – ma quell’uragano mi trovò preparato… ad intenderlo. E che altro possiamo noi fare in certi casi, oltre che d’intendere? a

Più volte, dal 1887 in qua, ebbi occasione di combattere, parlando e scrivendo, i tentativi di

conciliazione fra l’Italia e il Vaticano164. Ma non mi appellai mai, in tale polemica, né al materialismo, né all’ateismo, ecc., come soglion fare gli ideologi. Mi appellai sempre all’interesse pratico della nostra borghesia, la quale, per dirla in due parole, non può fare a meno di due simboli a un tempo: – dell’Inno di Garibaldi e della Marcia Reale. La impossibilità pratica di un vero e proprio partito conservatore è una delle note caratteristiche del nostro paese; – perché qui conservare vorrebbe dir distruggere. Del resto i nostri preti, italianamente prosaici anche loro, miran sempre al regno di Dio in terra, maneggiano gli affari da umanisti in ritardo, e importano, quali articoli di lusso, dalla Germania e dall’Austria, la teologia, l’erudizione sacra, la democrazia cristiana e le casse confessionali. a «L’Italia ha bisogno di progredire materialmente, moralmente, intellettualmente. Io spero che voi vedrete un’Italia, nella quale l’atavistico assetto della coltura dei campi sarà soppiantato dalla introduzione delle macchine e dalle larghe applicazioni della chimica; e che vediate strappata ai corsi superiori dei fiumi, e forse alle onde del mare ed ai venti, la forza generatrice della elettricità, che sola può compensarci del

carbon fossile che ci manca. Io mi auguro che voi vedrete spariti dall’Italia gli analfabeti, e con essi gli uomini che non son cittadini, e le plebi che non son popolo. Voi sarete forse testimoni e parte di una politica, la cui orientazione sarà determinata dalla coscienza della cresciuta coltura, e dalla moltiplicata potenza economica, e non più dalle pitoccate alleanze, e dalle imprese fantasticamente avventurose, che terminano poi in atti di prudenza che paiono viltà». Così dicevo l’anno passato, nel discorso inaugurale della Università di Roma, il dì 14 Novembre, volgendomi ai giovani: e son queste le parole appunto che levarono tanto rumore (Cfr. L’Università e la Libertà della Scienza, Roma, 1897, p. 50)167. a

Il BERNSTEIN trattò di recente, e con molta abilità, in alcuni ingegnosi articoli della «Neue Zeit», dell’utopismo latente anche fra i Marxisti: – e molti, cui veniva la botta, avran detto: tocca a noi?168 (Nello scrivere così nel 1897 non mi sarei sognato, che, a breve andare, quel Bernstein di cui lodavo la critica solo in quanto è critica, sarebbe stato portato in giro per il mondo, quale esemplare massimo di riformismo, dai colporteurs della crisi del Marxismo. – Nota alla ristampa)169. a

Per questo moltiplicarsi dei centri di produzione, e per gl’incroci e le interferenze che ne conseguitano, anche le crisi hanno subito uno spostamento. Invece della periodicità (che per Marx era decennale, dato l’esempio tipico dell’Inghilterra) ci si presenta ora lo stato diffuso e cronico della crisi170. Ciò è divenuto un grave argomento per quelli che combattono le previsioni catastrofiche. In somma si vuol rendere responsabile il Marxismo, in quanto è dottrina, degli errori di previsione e di calcolo nei quali è potuto cadere Marx, in quanto visse in determinati limiti di tempo, di spazio e di circostanze.1 b Di una, come è noto, non abbiamo che dei frammenti per indiretto172. a

Rimando ai brani che cito in fine del: Materialismo storico173.

APPENDICI a Discorrendo di Socialismo e di Filosofia

I POSTSCRIPTUM ALL’EDIZIONE FRANCESE

[1898] Frascati (Roma), 10 Settembre ’98 Sebbene fino ad ora il Sorel non abbia dato segno di ricominciare, può sempre darsi ci si provi in seguito. Ho però ragione di temere, che, ricominciando, s’incamminerebbe per una via per me inaspettata, dal momento che mette in iscena: La crisi del socialismo scientifico (cfr. suo articolo nella «Critica sociale», del 1° Maggio 1898, pp. 134-138), proprio a proposito di quelle stesse pubblicazioni del Merlino, che egli avea l’anno innanzi così aspramente criticato nel «Devenir Social» (Ottobre 1897, pp. 854-888)1. Ma che egli ricominci, o che non ricominci ad occuparsi di questi problemi generali avendo riguardo a ciò che io ho scritto in queste lettere a lui indirizzate, mi preme di dire qui, a scanso di fraintesi, e perché i lettori non cadano in equivoco, che io non lo seguirei nelle sue immature e premature elucubrazioni su la teoria del valore («Journal des Economistes», Paris, 15 Maggio 1897; «Socialistische Monatshefte», Berlin, Agosto 1897; «Giornale degli economisti», Roma, Luglio 1898)2. Senza entrare nel merito di tali elucubrazioni, la qual cosa non si può fare per incidente o per passatempo, io non vorrei, per la compagnia non ben definita del Sorel, vedermi poi citato fra gli esempii della crisi del Marxismo (cfr. Th. Masaryk: Die Krise des Marxismus, Vienna 1898; trad. franc. nella «Revue de sociologie», Luglio 1898; dove è citato il sig. Sorel in appoggio di tale preziosa scoverta letteraria)3. A mio credere in cotesta pretesa crisi entrarono molte dramatis personae, che, o non hanno ancora bene appresa la parte, o hanno paura di apprenderla, o la recitano maledettamente male. Coteste medesime riserve io devo estendere, ma con una certa insistenza, anche al Croce, per quanto riguarda la sua memoria: Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del Marxismo, Napoli 1897 (riprodotta nel «Devenir Social», anno IV, fascicoli del Febbraio e Marzo 1898)4. Sebbene quello scritto paia concepito (e così appunto dice l’autore stesso a p. 3) qual libera recensione del mio Discorrendo5; il fatto è che esso, oltre a parecchie utili osservazioni di metodologia storica, e ad alcune sagaci note di tattica politica, contiene enunciati teoretici, che nulla han da vedere con le pubblicazioni e con le opinioni mie, anzi a queste son diametralmente opposte. Dovrei io forse mettermi per le vie di una esplicita polemica ex-professo contro

tutto l’insieme di quella dissertazione, che per tanti altri rispetti è degna d’esser letta? Ma perché mai; e a che pro? Lascio volentieri al libero recensente la libertà delle opinioni sue; purché queste non passino agli occhi dei lettori per un complemento delle mie, e per un complemento da me accettato. Non posso, però, fermarmi alla generica riserva, che basta per il Sorel; e, anzi, devo indugiarmi in alcuni appunti sommarii di critica. Passerei senz’altro sopra alle sottili distinzioni scolastiche, in cui il Croce s’impiglia insistendovi, tra la scienza pura e la scienza applicata, tra l’uomo oeconomicus e l’uomo morale, tra l’egoismo e il tornaconto, tra l’essere e il doveressere, e così via, perché tanto appartiene al mio mestiere di professore la tolleranza dello scolasticismo tradizionale, che può in certi casi servire al primo addestramento degli ingegni giovanili, ma non è mai la scienza piena e concreta. Come potrebbe mai l’astronomo impedire che la gente parli del sole, che sorge, e tramonta? Caso mai potrei rimandare, in via analogica e in linea approssimativa, ai cap. VI e VIII del mio Materialismo Storico; ove pian piano si dimostra come i fattori, indispensabili alla cognizione empirica ed immediata, a un certo punto si trasformino, o in aspetti o in momenti (secondo i casi) di un complesso conoscitivo unitario6. Ma, domando io per la più spiccia, come mai colui che abbia il cervello ancor chiuso in tali strettoie della logica dell’immediato intendimento empirico, fa poi ad abbordare proprio il problema del Marxismo, che è, o almeno (per usar cortesia agli avversarii) pretende di essere al di sopra di tali volgari distinzioni? Non è questo un combattere ad armi troppo disuguali? Inviterei quasi quasi il Croce a rifar la prova della sua arte critica in altro campo di studii, a leggere sbrigativamente un trattato di Energhetica – quello p. es. recente dell’Helm – di mandare al diavolo tutti gli Helmoltz e i R. Mayer di questo mondo7, per rimettere in onore, secondo il senso comune, la luce che è sempre luminosa, ed il calore che è sempre caldo. Ma donde il Croce – e proprio nell’atto che s’occupa di Marx! – trae la persuasione, che oltre alle varie economie succedutesi nella storia, rispetto alle quali l’economia capitalistico-industriale è, per così dire, un caso particolare (ma è quel caso, si noti, che solo fino ad ora ha la sua teoria, e questa esiste in molte varianti di scuole e sottoscuole), ci sia poi una economia pura, che da sola dà luce e indirizzo generale d’interpretazione a tutti questi casi, o, diciamo meglio, a tutte queste forme di prosaica esperienza? Un animale in sé, oltre a tutti gli animali visibili ed ostensibili? E che cosa dovrebbe mai contenere codesta economia dell’uomo superistorico e supersociale, che finisce per essere più noioso dei superuomini della letteratura e della filosofia? Forse la nuda dottrina dei bisogni e degli appetiti, data la sola natura ambiente, ma senza

esperienza di lavoro, senza istrumenti, e senza correlazioni precise, o di comunanza, o di società? Tanto per la psicologia congetturale della preistoria la tesi potrebbe andare. Ma no: – questa economia dell’uomo in sé è perpetua ed attuale; – e qui proprio mi ci perdo. Ecco qua: « (p. 19). Io tengo fermo alla costruzione economica dell’indirizzo edonistico, all’utilità-ofelimità, al grado terminale di utilità, e finalmente alla spiegazione (economica) del profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri! Ma ciò non appaga il desiderio di una spiegazione sociologica del profitto del capitale; e questa spiegazione, con le altre della medesima natura, non si può trovarla se non su la via per la quale la cercò il Marx»8. Il mio amico Croce è un uomo a dirittura incontentabile; e la sua incontentabilità potrebbe farlo apparire, a chi altrimenti non lo conosca, quale uomo alquanto capriccioso. Accetta d’emblée tutto un sistema d’economia, un sistema che pretende di abbracciare tutto il conoscibile economico. È questo un sistema, inoltre, assai noto in Italia, dove ha rappresentanti notevoli, e anzi continuatori e perfezionatori, come dicono sia il caso del Barone per la dottrina della distribuzione9. A conferma della sua profession di fede, che non può non essere di gran letizia essendo edonistica10, mette un tanto di punto ammirativo ove dice che accetta la spiegazione economica (o che avrebbe a essere non-economica?) del «profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri!»11. E che gli mancherebbe dunque per dare dell’imbecille e del perditempo a Marx, che per vie del tutto diverse s’è affannato a ricercare l’origine, il processo e la spartizione del sopravvalore; alla qual cosa, alla fin fine, si riduce nell’essenziale l’attività sua specifica di critico e d’innovatore dell’economia? La benedetta formola del DD’, ossia del danaro che si ritrova in danaro con tanto di più, fu come il chiodo fisso nella testa di Marx ricercatore, come il pernio della sua ricerca12. Ora il Croce, fatta la sua profession di fede di edonista convinto, quasi come chi avendo già bevuto e mangiato a sazietà, voglia ribere e rimangiare, si volge a Marx a chiedergli una teoria sociologica, che sia complementare a quella economica, nella quale lui Croce è tanto fermo e deciso; – e che altro può dirgli Marx se non questo: mandate al diavolo quella vostra filastrocca edonistica, se no è inutile interroghiate me su tali quisquilie, ché io non posso offrirvi che l’assolutamente opposto. Di fatti il Croce è costretto a farsi un Marx diverso – non dirò se molto o poco – dal vero, perché sia quello i cui principii possano apparire conciliabili con gl’indiscutibili dati dell’edonismo. Discorrendo del come Marx «poté giungere a scovrire e definire l’origine sociale del profitto, ossia del sopravvalore», esce in questa sentenza (p. 12): «Sopravvalore, in pura economia, è una parola priva di senso, come è mostrato

dalla denominazione stessa, giacché un sopravvalore è un extravalore, ed esce fuori dal campo della pura economia. Ma ha bene un senso e non è un assurdo, come concetto di differenza, nel paragone che si fa tra una società economica con un’altra, un fatto con un altro, o due ipotesi tra di loro»13. E poi aggiunge in nota: «Faccio ammenda di un errore nel quale incorsi in una mia precedente memoria, nella quale, pur dicendo rettamente che il sopravvalore non è un concetto puramente economico, lo definivo inesattamente un concetto morale; e dovevo dire, come dico ora, un concetto di differenza di sociologia economica e di economia applicata, e non di economia pura. La morale qui non ha parte, come non ha nessuna parte in tutta l’indagine del Marx»14. Auguro al Croce, che giungendo alla sua terza memoria15 in argomento confessi poi, che del primo errore egli poté fare ammenda, perché quello almeno era la generalizzazione di una opinione ovvia nel socialismo volgare, che il sopravvalore sia cioè il compendio delle proteste degli sfruttati; ma che del secondo errore non può scusarsi, perché lui stesso non è più in grado di deciferare plausibilmente il pensiero suo. Né solo per la continua equivocazione di profitto, interesse e sopravvalore; ma perché in più luoghi assume il concetto di una società lavoratrice come di una forma a sé (ma, dico io, in contrapposto a quale altra, forse a quella dei santi in paradiso?) e dice: «Marx faceva il paragone della società capitalistica con una parte di sé stessa isolata ed elevata ad esistenza indipendente; ossia il paragone tra la società capitalistica con la società economica in sé stessa (ma solo in quanto società lavoratrice)» e poi: «Dunque l’economia marxista è quella che studia l’astratta società lavoratrice» (pp. 12 e 13)16. Se c’è chi senta il bisogno di liberarsi dal malefico bacillo metafisico, che induce a tali ragionamenti, io gli consiglierei come rimedio la lettura, non già delle polemiche degli economisti, e di quelle segnatamente che in Germania ebbero occasione dalle pubblicazioni del Dietzel17, che possono parer sospette, ma della Logica del Wundt (vol. II, parte II, pp. 499-533)18, nella qual Logica, a dirlo per incidente, più in là delle pagine testé citate si adduce come esempio tipico di legge sociale (pare incredibile! e il Wundt non è dolce di sale, né coi sociologisti, né con le così dette leggi sociali) proprio il sopravvalore secondo Marx (Ibidem, pp. 620-622). Al postutto cotesta economia pura – come è in uso di chiamarla in Italia, che è sempre il paese dell’enfasi e della esagerazione – ossia cotesto indirizzo di ricerca e di sistema, che su gl’inizii, o insufficienti, o ignorati, o dimenticati del Gossen, del Walrass e del Jevons, s’è venuto sviluppando in ciò che ora ha (vulgo) il nome di scuola austriaca19, non è, così nelle premesse come negli

andamenti, se non una variante teoretica nella interpretazione di quegli stessi dati empirici della vita economica moderna, che han sempre formato l’obietto degli studii delle altre scuole. Si distingue dalla scuola classica (che non fu tanto antistorica, come è parso a molti, e come ha dimostrato R. Schüller: Die klassische Nationalökonomie, Berlin, 1895)20, per la tendenza a un più alto grado di astrazione e di generalizzazione. Si prova a mettere in maggiore evidenza gli stati psichici, che precedono ed accompagnano gli atti ed i rapporti economici. Usa ed abusa degli espedienti matematici. Non è la superistoria, sebbene metta assai spesso in iscena le robinsonate21, che dissimula però sotto la veste di una sottile psicologia individualistica: anzi è tanto poco la superistoria, che da questa storia attuale assume due dati, facendone dei presupposti estremi, ossia la libertà del lavoro e la libertà di concorrenza spinte per ipotesi al massimo. Per ciò essa è, in ciò che reca, afferrabile, comprensibile e discutibile; perché è confrontabile con l’esperienza della quale è spesso una forzata ed unilaterale interpretazione. (Alla generalità del pubblico francese ora è dato di leggere in forma chiara e piana la esposizione sommaria della teoria del valore di cotesta scuola nel libro di E. Petit: Étude critique des différentes Théories de la Valeur, Paris, 1897)22. Tornando al Croce non saprei nascondere la mia maraviglia, che egli (note 1 e 2 a p. 14) trovi a ridire contro l’Engels, perché questi una volta chiami storica la scienza dell’economia, e un’altra volta poi parli di economia teoretica23. Per chi si fermasse alle parole sole basterebbe di dire, come storico in quel caso lì è l’opposto del naturale nel senso del fisso e dell’immutabile (le famose leggi naturali della economia volgare), e il teoretico è detto in opposizione al conoscere grossolanamente descrittivo ed empirico. Ma c’è dell’altro. Ogni teoria non è se non la rappresentazione, per quanto più si può perfetta, dei rapporti di reciproca condizionalità di quei fatti, che in un determinato campo dell’esperienza appariscano omogenei, riavvicinabili e connessi. Ma tutti questi varii gruppi di fatti sono momenti di un divenire. Or se un fisiologista, dopo d’avervi esposta la teoria fisico-meccanica della respirazione polmonare, esca a dirvi che la respirazione non è legata all’esistenza del polmone, e che il polmone stesso è un fatto particolare di genesi nella storia generale degli organismi, vorreste voi forse cotesto fisiologista tradurlo, nella qualità d’imputato, innanzi al foro di un’altra economia pura, cioè volevo dire, innanzi a quello di una fisiologia purissima, che studii l’ente vita, anziché i viventi? Di fatti il Croce muove querela (passim) a Marx, per non aver questi stabiliti i rapporti fra la sua indagine e i concetti di economia pura, per mostrare (p. 3) «con metodica esposizione come i fatti apparentemente più diversi del mondo

economico siano retti in ultimo da una medesima legge, o, ch’è lo stesso, come questa legge si rifranga variamente passando attraverso organizzazioni varie, senza mutar sé stessa, che altrimenti mancherebbe il modo ed il criterio stesso della spiegazione»24. Qui Marx, se avesse pur voglia di rispondere, non saprebbe che cosa rispondere. Qui Marx non c’entra più. E non si tratta nemmen più delle generalizzazioni, per dir vero troppo astratte della scuola edonistica, che pur sempre rientrano nei processi leciti di astrazione e d’isolazione proprii ad ogni scienza, che partendo dalla base empirica tenti la via dei principii. Qui ci troviamo in presenza di una legge economica, che a guisa di un quasi-ente attraversa misteriosamente le varie fasi della storia, perché non s’abbiano a scucire. Questo è il puro possibile, che è poi, in realtà, l’impossibile. Il sig. Dühring – che qua e là è in un certo modo direttamente difeso – è oltrepassato. Qui si tratta di riaffacciare delle difficoltà nella concezione preliminare di ogni problema scientifico, per le quali rimangon fuori della comprensibilità, non solo Marx, ma tre quarte parti del pensiero contemporaneo. La logichetta formale, di felice memoria, diventa l’arbitra del sapere. Teniamoci pure al testo, che in passato ebbe tanta diffusione in Francia, il Port-Royal. Si parta da un concetto della massima estensione e del minimo contenuto, e per incremento di meccanica notazione si arrivi ad un concetto di minima estensione e di massimo contenuto. E se ci capita poi fra mani un processo reale, il passaggio p. es. dall’invertebrato al vertebrato, o dal comunismo primitivo alla proprietà privata del suolo, o dalla indifferenza delle radici alla differenziazione tematica di verbo e nome nel gruppo ario-semitico, invece di fermarsi in tali fatti, come in casi di epigenesi faticosamente e realiter accaduta, scriveremo in un concetto già bello e preconcepito, per via di un facile metodo di notazione, prima un A, poi un a, poi un a1, poi un a2, poi un a3, e così via: – e tutto sarà bello e fatto. E mi pare che basti di ciò. Eccoci, per conseguenza, ad alcuni enunciati alquanto curiosi (p. 2): «È una società (s’intende quella studiata da Marx nel Capitale) ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi, che potrebbero anche non essersi presentate mai nel corso della storia»25. Qui Marx diventa l’illustratore teorico di una quasi-utopia. E poi (p. 4): «Marx assunse, fuori del campo della pura teorica economica, una proposizione, che è la famigerata eguaglianza di valore e lavoro»26. E di dove dunque l’ha presa? forse (secondo alcuni) c’è arrivato «spingendo alle estreme conseguenze un concetto poco felice di Ricardo»27. Il quale Ricardo bisognerebbe espellerlo a dirittura dalla storia della scienza, perché qualcos’altro di più felice non l’ha veramente fatto. In un certo punto il Croce (p. 20, in nota) se la piglia col Pantaleoni, perché questi «combatte il Böhm-Bawerk,

domandandosi donde il mutuatario del capitale riesca a prendere di che pagare l’interesse»28. Di fatti il Pantaleoni (Principii di economia politica, p. 301) dice: «la causa generativa dell’interesse sta nella produttività del capitale come bene complementare in un processo tecnico vantaggioso, richiedente un certo tempo, e non nella virtù del tempo, che lascerebbe le cose come le ha trovate»29. Qui, e per tutto un capitolo, il Pantaleoni, con l’andamento del ragionare che è proprio al suo indirizzo, ripiglia a modo suo quella spiegazione dell’interesse per via della produttività del (danaro-) capitale, che, uscita vittoriosa già nel secolo XVII dalle polemiche coi moralisti e coi canonisti, apparisce nella sua formola elementarmente economica per la prima volta in Barbon e Massey. Quella spiegazione è la sola che l’economista possa enunciare, fino a che la produttività del capitale, che prima facie pare evidente, non è fatta essa stessa oggetto di una critica; la qual cosa ha menato poi Marx alla formola più generale e al principio genetico del sopravvalore. In quello stesso capitolo Pantaleoni abilmente polemizza contro il Böhm30, che, come direbbe il Croce «dà la spiegazione (economica) del profitto del capitale, come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri»a33. Ma volete forse per vostro passatempo mettere in iscena una farsetta ideologica concepita così: – si assume da una parte la legittima aspettazione del creditore, e dall’altra parte la onesta promessa del debitore; – questi due attributi psicologici, che tanto fanno onore alla eccellenza dell’animo loro, vengon messi nella dovuta evidenza; poi si suppone, che debitore o creditore siano homines oeconomici tanto perfetti, quanto è necessario di tener per fermo che siano, dal momento che nacquero coi diagrammi del Gossen34 stampati nel cervellob; – poi si aggiunge la nozione del tempo astratto; – e, costituita la santa trinità di aspettazione, promessa e tempo, si attribuisce a questa trinità la virtù di trasmutarsi in quel più di valore, che deve essere poniamo, p. es. nelle scarpe prodotte col denaro mutuato, perché il mutuante, in ultimo, e guadagnando pur lui qualcosa, se nel frattempo non vuol morir di fame, solvat debitum cum usura36. Ma questa è proprio la scienza messa alla gogna. In verità il tempo non è nella economia, come non è nella natura, se non la misura di un processo: ed è nell’economia la misura del processo della produzione e della circolazione (ossia, in ultima analisi, e data la debita analisi, del lavoro). E solo in quanto esso entra nell’economia per questo rispetto, il tempo è anche misura dell’interesse. Un tempo che in quanto tempo operi come causa reale è un mitologhema. (Su gli avanzi mitici nella rappresentazione del tempo leggere: Zeit und Weile nelle Ideale Fragen di M. Lazarus, Berlin, 1878, pp. 161-232)37. Se fino alla mitologia dobbiamo risalire, rimettiamo a dirittura lassù nel cielo,

più in su dell’Olimpo, quell’antichissimo Kronos, che il volgo greco confondeva con chronos (tempo): e se speranze, aspettazioni e promesse son per sé cause reali di fatti economici, diamoci a dirittura alla magia. Parrebbe quasi che perfino in questa, o per inavvertenza, o per una certa tal quale bizzarria di forma letteraria, il Croce rischi di dare una capata, quando scrive (p. 16): «E se nell’ipotesi del Marx, le merci appaiono come gelatine di lavoro, o lavoro cristallizzato, perché in altra ipotesi non potrebbero apparire come gelatine di bisogni, o quantità di bisogni cristallizzate?»38. Santi numi! Marx non fu veramente un modello di ciò che chiamasi dizione classica, specie nella plasticità, nella trasparenza e nella continuità delle immagini. Marx fu un seicentista. Ma le sue immagini, spesso bizzarre, ma che non son mai né ghiribizzi né facezie, dicon sempre qualcosa di profondamente realistico. Se quella immagine della gelatina, che del resto non ha niente di sacramentale né di obbligatorio per nessuno, l’andate a ripetere al primo calzolaio che vi capiti innanzi, egli, accennando forse alle mani incallite, alla schiena ricurva, e al sudore della fronte, vi dirà che a un dipresso ha capito, perché nelle scarpe che produce ci mette via via una parte di sé stesso, le sue energie meccaniche, dirette dalla volontà, ossia dirette dall’attenzione volontaria, secondo la forma preconcetta, nella quale si assomma, come in intento ed in proposito, la sua attività cerebrale in quanto egli è in atto di lavorare. Ma finora fu dato solo ai fattucchieri di credere o di dare a credere, che coi soli desiderii si riesca a conglutinare una parte di noi stessi con alcun bene in genere, prodotto o non prodotto che esso si sia. Con la psicologia non è lecito di scherzare. Non saprei dire in poche parole quanta parte di essa debba entrare nei presupposti della economia. So di certo però, che la più parte dei concetti psicologici, che edonisti e non-edonisti vanno cacciando dentro all’economia39, ha un certo che di messoci a posta ad usum delphini, un certo che di escogitato e non di trovato, un certo che di accidentalmente tratto dalla volgare terminologia e non di criticamente vagliato; onde è il caso di ripetere tractent fabrilia fabri40. E so anche questo, che dal bisogno al lavoro ci corre tutta la formazione psicologica dell’uomo; ci corre quanto ci corre dal sentimento privativo della sete, che è il bisogno del bere, che il bambino non associa ancora, non dirò ai movimenti che gli occorrono, per procurarsi da bere, ma nemmeno alla rappresentazione dell’acqua, sino all’atto del lavoratore provetto, il quale per matura volontà d’intelletto, per volontà nella quale esperienza ed immaginazione, imitazione ed inventiva fanno uno, scava un pozzo, o apre una fontana. Ridurre e scheletrizzare cotesta viva formazione in un’arida nomenclatura, questo fu il difetto della psicologia vulgaris, e questa il

più delle volte gli economisti, anche ai giorni nostri, prendono a premessa delle loro speciali elucubrazioni. La psicologia del lavoro, che sarebbe il coronamento della dottrina del determinismo, è ancora da scrivere. A quoi bon questo post-scriptum? dirà forse il lettore. Ecco qua: io non sono il paladino di Marx, ammetto tutte le critiche, sono io stesso in tutto ciò che dico un critico, non smentisco la sentenza: comprendere è superare; – ma mi conviene pur d’aggiungere, che superare è aver compreso.

II PREFAZIONE ALL’EDIZIONE FRANCESE

[1898] Roma, 31 Decembre 1898 Questo mio piccolo libriccino – come è chiaro anche dal post-scriptum illustrativo – dovea venir fuori a Parigi nel Settembre ultimo. La stampa ne è stata ritardata per cause accidentali. Nel frattempo il Sorel s’è dato anima e corpo alla Crisi del Marxismo e la tratta, la espone, la commenta, con amore, un po’ da per tutto, per es. nella «Revue parlementaire» del 10 Decembre, pp. 597-612 (dove anzi la crisi diventa a dirittura quella del socialismo) e nella «Rivista critica del socialismo», Roma, fasc. I, pp. 9-21; e per di più la fissa e la canonizza nella Préface da lui messa al libro del Merlino: Formes et essence du socialisme41. Ci si minaccia per fino un congresso di secessionisti ben pensanti. Siamo decisamente alla guerra della Fronda! Che dovrei io fare? Ricominciare da capo? Scrivere l’anti-Sorel dopo d’avere scritto l’avec-Sorel. Non cado punto in tale tentazione. Gli è vero che questa mia composizione d’insolita fattura s’intitola: Discorrendo; – ma si discorre quando ci piace, e non a comando. Desidero solo che il lettore guardi alle date di queste lettere, ossia di queste piccole monografie di stile sciolto, intitolate al signor Sorel: – e le date corrono dal 20 Aprile al 15 Settembre 1897. Io mi rivolgevo a quel Sorel – non a quest’altro; – a quello insomma che avevo conosciuto su le pagine del «Devenir Social», che avea presentato me ai lettori francesi nell’assisa di marxista, che mi scriveva lettere piene di fine osservazioni, e di considerazioni critiche apprezzabili. Era dubitoso, sì, e mi parve qualche volta intinto d’esprit frondeur42, ma nello scrivere rivolgendomi a lui, io non pensavo nel 1897, ch’ei diverrebbe in così breve tempo l’araldo di una guerra di secessione. O come di questo saranno lieti i déclassés dell’intelligenza, e coloro che hanno bisogno dell’alibi della vigliaccheria43. Se non che il Sorel ci lascia qualche barlume di speranza quando scrive: «Io e qualche amico ci sforzeremo di utilizzare i tesori di riflessioni e d’ipotesi che Marx ha raccolto nei suoi libri. Questo è il miglior modo di trarre partito da un’opera geniale rimasta incompiuta» («Revue parlementaire», ibid., p. 612)44. Dunque tanti augurii per l’anno nuovo – comincia domani – in tale opera benigna e pietosa di salvataggio… della quale del resto io e molti altri come me non sentivamo il bisogno.

Senza rancore: – ma non certo senza mortificazione per me. Nel licenziare al pubblico francese queste pagine di composizione alquanto insolita io temo che dei lettori di spirito – la Francia ne abbonda più di ogni altro paese – abbiano a dire di me: ecco lì un tollerabile conversatore, ma che pedagogista pessimo; apre da erudito un dialogo didattico con un amico ed ecco che questi passa difilato dall’altra parte! Non è vero, signor Sorel? Ebbene, accomodiamo le partite: – questo dialogo era un monologo; e alla buon’ora di dio!45

III PREFAZIONE DI G. SOREL

[1896] agli Essais sur la conception matérialiste de l’histoire di A. LABRIOLA, trad. franc., Paris, Giard et Brière, 189746 Il socialismo contemporaneo presenta un carattere di originalità, che ha colpito tutti gli economisti; deve questo carattere al fatto d’ispirarsi alle idee espresse da Karl Marx sul materialismo storico. Laddove queste idee sono penetrate profondamente nella coscienza popolare, il partito socialista è forte e vivo, altrove è debole e diviso in sette. Le tesi marxiste, in generale, non sono state affatto comprese pienamente in Francia dagli scrittori che si occupano di questioni sociali. Bourguin, professore all’Università di Lille, scriveva nel 1892a: «I pensatori, fra i nostri socialisti, non accettano senza tentennamenti la dottrina disseccante del maestro, da cui l’idea di Diritto e Giustizia è così rigorosamente bandita; è un abito straniero che essi indossano con imbarazzo e che un giorno ritoccheranno senza dubbio per adattarlo alla loro misura». L’autore si riferiva a una memoria dal titolo Le matérialisme économique de Marx et le socialisme français, pubblicata nel 1887 dal Rouanet nella «Revue socialiste». Quasi tutti coloro che parlano di materialismo storico conoscono questa dottrina unicamente attraverso la memoria del Rouanet. Quest’ultimo occupa, da molto tempo, un posto importante nei partiti progressisti della Francia; avvisava i suoi lettori di aver fatto uno studio approfondito di Marx e di essersi impegnato a ricerche estenuanti per comprendere Hegel. Bisognava ritenerlo ben informatob. Prima di accostarsi alla presentazione del materialismo storico fatta da Labriola, in termini eccellenti ma molto concisi, il lettore francese deve mettersi in guardia contro i diffusi pregiudizi; ritengo perciò necessario mostrare qui come sono false e futili le grandi obiezioni alla dottrina marxista: è necessario dunque soffermarsi sulle idee espresse, nel 1887, dal Rouanet. I pregiudizi che circolano da noi hanno, in gran parte, un’origine sentimentale; il Rouanet s’è dato molto da fare per mostrare che le dottrine marxiste sono contrarie al genio francese; sentiamo ripetere questo rimprovero ogni giorno. In che consiste tale opposizione? Il problema della modernità – considerata dal punto di vista materialistico – si

fonda su tre questioni: 1° il proletariato ha acquisito una chiara coscienza della sua esistenza come classe indivisibile?; 2° ha abbastanza forza per entrare in lotta contro le altre classi?; 3° è in grado di rovesciare, insieme con l’organizzazione capitalistica, tutto il sistema dell’ideologia tradizionale? La risposta spetta alla sociologia. Quando ci si ispira ai principi di Marx, si può dire che non vi è più questione sociale; si può dire altresì che il socialismo (nel senso comune e storico del termine) è superato; in effetti, le ricerche non riguardano più ciò che la società deve essere, ma ciò che il proletariato può nella lotta attuale delle classi. Questo modo di considerare le cose non piace al genio francese – o almeno a quelli che hanno la pretesa di rappresentarlo. Da noi i partiti progressisti racchiudono un numero notevole di uomini di genio, dei quali la società attuale misconosce il talento e che possiedono nel loro cuore un oracolo infallibile della Giustizia, i quali hanno consacrato le loro notti a elaborare dei piani meravigliosi destinati ad assicurare la felicità dell’umanità. Questi signori non vogliono scendere dal loro fatidico piedistallo per mescolarsi alla folla; essi sono fatti per dirigere e non per diventare i cooperatori di un’opera proletaria; intendono difendere i diritti dell’intelligenza contro gli audaci, i quali mancano di rispetto per l’Olimpo liberale e non tengono abbastanza conto della mentalità. Aggiungete a ciò che questi rari spiriti hanno una fede ingenua nella supremazia francese, nel ruolo iniziatore della Franciaa, hanno la superstizione della fraseologia rivoluzionaria e praticano con devozione il culto dei grandi uomini. Non possono perdonare a Marx, a Engels, e soprattutto a Lafargue, di aver mancato di rispetto a ciò che essi venerano. Io non sono fra coloro che hanno molta ammirazione per il genio francese così inteso; ho motivo di credere, d’altronde, che questo spirito francese non sia quello dei miei compatrioti che si dedicano a ricerche scientifiche e non provano il bisogno di ergersi a direttori spirituali del popolo. Il grande rimprovero che si rivolge – dal punto di vista scientifico – alla dottrina di Marx è di condurre al fatalismo. Per il Rouanet questa sarebbe molto vicina all’idealismo hegeliano, una volta sgomberato del suo «trascendentalismo nebuloso»a. Vi si trova la «stessa successione fatale degli avvenimenti, le fasi necessarie di un processo che la volontà umana non saprebbe contenere, lo stesso culto della Forza, oscuro dio di bronzo, strumento cieco delle leggi del grande fato destinate comunque a realizzarsi. Vi sarebbero molte riserve da avanzare sull’idea che l’autore francese si fa della filosofia di Hegel; ma una lettura anche superficiale del Capitale è sufficiente per mostrare che Marx non aveva mai pensato a quest’apocalisse evoluzionista, che gli si attribuisce così

generosamente. Il determinismo suppone che i cambiamenti siano collegati tra loro in modo automatico, che i fenomeni simultanei formino un blocco avente una struttura obbligata e che vi siano leggi ferree che assicurino tra tutte le cose una necessità d’ordine. Non si trova nulla di simile nella dottrina di Marx: gli avvenimenti sono considerati da un punto di vista empirico; è dalla loro mescolanza che scaturisce la legge storica che definisce il loro modo temporaneo di generarsi. Non si chiede affatto di riconoscere nel mondo sociale un sistema analogo a quello astronomico; solamente di riconoscere che l’incrocio delle cause produce periodi abbastanza regolari e caratteristici per poter essere oggetto di una conoscenza ragionata dei fatti. Marx fa ben risaltare la molteplicità delle cause che hanno prodotto il capitalismo moderno; nulla prova, infatti, che queste debbano apparire insieme in una determinata data. La loro coesistenza fortuita genera la trasformazione dell’industria e cambia tutti i rapporti sociali. Ma si insiste e si dice che, secondo Marx, tutti i fenomeni politici, morali, estetici sono determinati (nel senso preciso della parola) da quelli economici. Che cosa potrebbe significare una simile formula? Dire che una cosa è determinata da un’altra, senza dare, al tempo stesso, un’idea precisa del collegamento, è una delle sciocchezze che hanno reso così ridicoli i divulgatori del materialismo volgare. Marx non è affatto responsabile di questa caricatura del suo materialismo storico. Che tutte le manifestazioni sociologiche abbiano bisogno, per il loro chiarimento, di essere collocate sui loro sostegni economici non implica che la conoscenza della base sostituisca la conoscenza della cosa supportata. Le mediazioni tra la struttura economica e i prodotti superiori sono molto variabili e non possono tradursi con nessuna formula generale. Non si può dunque parlare di determinismo, poiché non vi è nulla di determinabile. Il Rouanet si fa della dottrina un’idea del tutto singolare: egli suppone, infatti, che i mezzi di produzione, l’organizzazione economica e i rapporti sociali siano esseri che si susseguono come le specie paleontologiche, che vengono dalla via misteriosa dell’evoluzione, e che dalla loro conoscenza si deduca – attraverso leggi che egli non conosce più di quanto le conosca io e che Marx non ha mai dato – tutta la storia dell’umanità. In tal modo il materialismo storico avrebbe una base idealista: la successione fatale delle forme della produzione! Questa sarebbe, certamente, una concezione assai singolare. Un distinto professore, il Petronea, è d’accordo con Rouanet nel sostenere che il materialismo storico è in errore quando lo si vuole applicare alla rivoluzione cristiana. Io credo, al contrario, che le teorie di Marx gettino una certa luce su

tale questione, mostrandoci le ragioni che impediscono allo storico di comprendere bene ciò che è avvenuto. Noi non possiamo discutere scientificamente il problema, perché non abbiamo gli elementi necessari per il chiarimento. L’autore italiano si pone dal punto di vista cattolico; il Rouanet inventa una storia fantasiosa. Il ruolo dello scienziato è di tacere e di attendere che la documentazione ci abbia rivelato le condizioni economiche della Chiesa primitiva. Il Bourguinb chiede se non sia necessario annoverare tra le forze attive «la coscienza più o meno sviluppata tra i lavoratori del preteso sfruttamento che subiscono». Ma lo sviluppo della coscienza di classe non è forse il nodo della questione sociale agli occhi di Marx? È sufficiente una conoscenza mediocre delle opere del grande filosofo socialista per saperlo. Si può accusare Marx di aver dato così poca attenzione alla mentalità umana, lui che ha mostrato l’importanza delle minime creazioni del genio inventivo? In nessun luogo l’intelligenza appare con più rilievo che nella tecnologia, il cui ruolo storico è messo in evidenza, in modo così sorprendente, nel Capitale. Io so bene che i rappresentanti dello spirito francese hanno una scarsca stima per i costruttori di macchine, incapaci di declamare dalla tribuna delle formidabili cantate sui diritti dell’uomo; ma i semplici mortali pensano, con J. Bourdeaua, che la macchina a vapore «ha esercitato più influenza sull’organizzazione sociale che tutti i sistemi di filosofia». Vuol dire forse che i prodotti intellettuali e morali sono senza efficacia storica, come si pretende che risulti dal materialismo storico? Nient’affatto: questi hanno la proprietà di potersi distaccare dalla loro matrice naturale per presentarsi sotto una forma feticistica, «sotto l’aspetto di esseri indipendenti, in comunicazione con gli uomini e tra di loro»b. Diventati liberi, essi sono suscettibili di entrare nelle combinazioni più varie dell’immaginazione. Nessuna grande rivoluzione ha potuto realizzarsi senza pressanti e numerose illusioni: è ancora Marx ad insegnarcelo. Ma questa dottrina indigna i nostri progressisti, i quali non intendono affatto che si attribuisca alla fantasia ciò che essi riconducono alla ragione: agire così significa mancare di rispetto a tutti i Titani presenti e passati. Nella Premessa alla sua traduzione delle opere scelte di Vico, Michelet scriveva: «Il motto della Scienza Nuova è: l’umanità è opera di se stessa… La scienza sociale risale al giorno in cui questa grande idea è stata espressa per la prima volta. Fino ad allora l’umanità credeva di dover i suoi progressi ai capricci del genio individuale… La storia era uno spettacolo sterile, tutt’al più una fantasmagoria». Come si forma la storia? Engels lo rivela nel passo seguentek: «L’incastro di

innumerevoli volontà e azioni individuali crea uno stato di cose che è, di tutto punto, analogo a quello che regna nella natura incosciente. I fini delle azioni sono voluti, in effetti, ma le conseguenze non lo sono affatto; oppure, pur sembrando a prima vista corrispondere al fine, pervengono in ultima istanza a risultati diversi da quelli desiderati». Questa tesi è ammessa, dagli scienziati, senza difficoltà; ma è sconfortante per i grandi uomini il cui genio è debordante; i loro piani non potranno, dunque, essere realizzati come li hanno concepiti! E tuttavia questi sono così ben ragionati che non possono essere toccati senza far loro perdere efficacia e senza mettersi in rivolta contro la Giustizia, della quale questi signori sono i delegati autorizzati. Ma lasciamo da parte tutte queste obiezioni volgari, per affrontare ciò che costituisce, ai miei occhi, la parte vulnerabile della dottrina – quella che i critici frantesi non hanno esaminato. Molti dotti sono disposti ad ammettere il valore del materialismo storico come disciplina dello spirito, a riconoscere che le tesi di Marx forniscono utili indicazioni per lo storico delle istituzionia. Ma resta da domandarsi quale sia la base metafisica di tale dottrina. Non servirebbe a nulla dire che si può fare a meno di questa ricerca, che si seguirà il metodo che è riuscito così bene in psicologia, dopo che le discussioni sull’anima sono state scartate. Ma qual è lo psicologo che resta veramente indifferente davanti al problema metafisico? Ognuno ha la sua ipotesi; e sono queste – spesso dissimulate con destrezza – che differenziano le scuole. Si sono commessi molti errori applicando frettolosamente il materialismo storico; questi errori provengono, quasi tutti, dall’agnosticismo, che gli autori hanno preteso professare e che nascondeva teorie esplicative male elaborate. D’altra parte, quando si esaminano le applicazioni fatte da Marx, si vede che egli ha messo in opera una gran quantità di principi psicologici, il cui enunciato non è stato dato, di solito, sotto una forma scientifica. Man mano e nella misura in cui si andrà avanti, sarà riconosciuta la necessità di uscire da questo stato provvisorio, di elevarsi al di sopra delle analisi particolari e di disporre di una solida armatura per sostenere le relazioni storiche. Ecco dunque due grandi lacune: gli allievi di Marx devono sforzarsi di completare l’opera del loro maestro. Il maggior timore sembra essere stato quello di lasciare un sistema filosofico troppo rigido e chiuso. Egli comprendeva che una dottrina è al suo tramonto quando è condotta a termine, e che la condizione di ogni metafisica scientifica è di lasciare largamente aperta la porta agli sviluppi. La prudenza di Marx era estrema; egli non ha cercato di completare alcuna teoria. Recenti discussioni hanno mostrato che non aveva detto l’ultima parola sul valore e sul plusvalore. Come sono ciechi, dunque, i

critici che accusano i discepoli di Marx di voler chiudere il pensiero umano in un recinto delimitato dal maestro! In questo lavoro di perfezionamento bisogna seguire l’esempio dato da Marx stesso e mostrarsi prudenti. Quando ancora non si siano fatti che pochi studi sulle basi del materialismo storico, non si può tentare di restituirne la metafisica né di definirne la psicologia. Le persone di gran cuore dicono che lo spirito non può restare in questa aspettativa quando si tratta della morale e del diritto. I critici superficiali non mancano di declamare contro l’assenza d’ideale, senza domandarsi se una teoria etica ragionevole possa essere indipendente da una metafisica, e se questa significhi qualcosa fino a quando non possiede una larga base scientifica. Si può riconoscere il valore storico e sociale dell’insegnamento moralea senza aver la pretesa di imporgli per principio regole, leggi, postulati, ottenuti attraverso il lavoro dell’immaginazione. Sembra anche che dando per base all’etica metafore, teorie psicologiche insufficienti o declamazioni sulla Natura, si comprometta in modo singolare la portata di questa pedagogia. Far scendere la morale sulla terra, sgombrarla di ogni fantasia non significa negarla, ma al contrario, trattarla con il rispetto dovuto alle opere della ragione. È forse negare la scienza lasciare da parte le fantasticherie sull’essenza delle cose per applicarsi alle cose reali? Gli apprezzamenti morali abbondano nel Capitale. È dunque abbastanza paradossale rimproverare a Marx d’aver scartato con cura ogni considerazione sulla Giustizia; ma ognuno intende questa parola a modo suo. Il Bourguin, nel passo citato precedentemente, si mette dal punto di vista dell’antica teoria del senso morale, ma questa non è più accettata. Il Rouanet ci parlaa «di una giustizia naturale, conforme alla legge dello sviluppo sociale, che è la libera solidarietà sempre più stretta delle diverse parti componenti l’umanità-una; è proprio ciò che Marx chiamava uno di queglib «errori dell’ideologismo giuridico cari ai democratici e ai socialisti francesi». Allorché questi due autori si accordano per imputare un carattere morale alla dottrina di Marx, bisogna comprendere solamente che essi non trovano, nel Capitale, l’espressione delle loro teorie morali personali, che non hanno, d’altronde, alcun valore. È in nome della metafisica dei costumi che Jaurès è intervenuto nel dibattito, proponendo di conciliare i punti di vista degli idealisti e dei materialisti: niente gli sembra più facile. Egli afferma, innanzitutto, che gli allievi di Marx riconoscono l’esistenza di una «direzione al movimento economico e al movimento umano». Chiede che gli si conceda come un postulato indiscutibile che c’è nella storia non soltanto «una evoluzione necessaria, ma una direzione intellegibile e un senso ideale». Ammettere queste premesse equivale a spiegare

la storia attraverso l’idealismo e unicamente attraverso l’idealismo; – significa rigettare tutto, assolutamente tutto, della dottrina di Marx. Ma allora, in che cosa consiste questa conciliazione? Nulla di più semplice: se si condannano tutte le idee di Marx, si proclama l’autore un grand’uomo come lo possono desiderare i suoi allievic. Quando avremo accordato tutto ciò che chiede il celebre oratore, saremo convinti che «la parola giustizia ha un senso anche nella concezione materialistica della storia!» Questa conclusione è vera; ma il senso non è quello scoperto da Jaurès. «L’umanità si cerca, egli dice, e si afferma, quale che sia la diversità dei contesti… È uno stesso soffio di lamento e di speranza che esce dalla bocca dello schiavo, del servo o del proletario: è il soffio immortale d’umanità che è l’anima di ciò che si chiama diritto». Certamente Marx non aveva mai dubitato di ciò! Ho detto abbastanza per far comprendere che il materialismo storico era pressoché sconosciuto in Francia. Il libro di Labriola mette i lettori francesi in presenza di regioni nuove, nelle quali il sapiente professore italiano ci dirige con una grande abilità. La pubblicazione di questo libro segna una data nella storia del socialismo. È, in effetti, la prima volta che un autore di lingua latina studia, in una maniera originale e approfondita, una delle basi filosofiche sulle quali poggia il socialismo contemporaneo. L’opera di Labriola ha un posto di spicco nelle biblioteche, accanto ai libri classici di Marx e di Engels: costituisce un chiarimento e uno sviluppo metodici di una teoria che i maestri del nuovo pensiero socialista non hanno mai trattato in forma didattica. È dunque un libro indispensabile per chi voglia comprendere qualcosa intorno alle idee proletarie. Più che i lavori di Marx e di Engels, questo libro si rivolge al pubblico estraneo alle preoccupazioni sociali. Lo storico troverà in queste pagine sostanziali e preziose indicazioni per lo studio della genesi e della trasformazione delle istituzioni. Parigi, Dicembre 1896 G. SOREL

IV LA NEGAZIONE DELLA NEGAZIONE

(dall’Antidühring di Engels, a pp. 137-146, della 3a ed., Stuttgart 1894) Ma che cosa è, dunque, cotesta terribile negazione della negazione, per la quale il signor Dühring si fa così cattivo sangue; tanto che per lui gli è come la colpa imperdonabile, tal quale come nel cristianesimo il peccato contro lo spirito santo? La negazione della negazione è un procedimento assai semplice, e di ovvia applicazione nella vita di tutti i giorni; e non c’è fanciullo al mondo, che quel procedimento non possa intendere, non appena si riesca a spogliarlo delle apparenze misteriose, nelle quali piacque alla vecchia filosofia idealistica di andarlo involgendo, e nelle quali è utile agli sciancati metafisici, della fatta del signor Dühring, di tenerlo tuttora avvolto. Pigliamo pure un granello di orzo. Bilioni e bilioni di cotali granelli vengono tuttodì macinati, bolliti, messi a fermentare per farne la birra, e, da ultimo, consumati. Ma se uno di cotesti granelli incontra le favorevoli condizioni normali, se cade, cioè, su un terreno acconcio, si avvera in esso, per l’azione del calore e della umidità, una speciale alterazione, ovvero sia, esso germoglia: – il granello come tale trapassa, cioè è negato, e in suo luogo sorge la pianta, che ne ha origine, come negazione del granello. Ma quale è il normale processo vitale di cotesta pianta? Essa cresce, fiorisce, vien fecondata, e da ultimo produce nuovamente granelli d’orzo; e come appena questi giungano a maturità, lo stelo muore, ossia è negato. Abbiamo, in fine, qual resultato della negazione della negazione, l’iniziale granello di orzo, ma moltiplicato per dieci, per venti, per trenta. Le granaglie variano assai lentamente, cosicché quelle di ora rassomigliano quasi a un di presso alle sorti di cento anni fa. Se noi invece pigliamo certe piante da ornamento, come le dalie e le orchidee, e se curiamo i semi e le pianticelle, che da questi vengan crescendo, secondo i principii dell’arte del giardinaggio, noi otteniamo, come resultato di cotesta negazione della negazione, non solo semi in maggior numero, ma semi anche di migliorata qualità, i quali producono fiori più belli, e, ad ogni rinnovarsi del processo e ad ogni negazione della negazione, il perfezionamento avanza d’un grado. Lo stesso processo riscontriamo negl’insetti, e, p. es., nelle farfalle. Queste nascono dall’uovo mediante la negazione dell’uovo stesso, percorrono le loro metamorfosi fino a raggiungere l’attitudine generativa, si congiungono, e

vengono di nuovo negate; poiché muoiono, compiuto l’atto della generazione, e non appena la femina abbia deposte le numerose sue uova. Che in altre piante ed in altri animali il processo non si avveri in modo così semplice; in guisa, che non una ma più volte, prima di morire, producono, o semi, o uova, o piccini, gli è cosa che in questo punto non ci riguarda. Noi abbiamo voluto soltanto mostrare, che la negazione della negazione realmente ha luogo nei due regni del mondo organico. Inoltre, tutta la geologia gli è come una serie di negazioni negate; una serie, cioè, di rovine che si succedono, e di nuovi strati di formazioni minerali. Dapprima la crosta terrestre, originatasi dal raffreddamento della massa gassosa, viene ad essere come infranta dall’azione oceanica, meteorologica e chimico-meteorica, e le masse così spezzate si stratificano nel fondo dei mari. Le elevazioni locali del fondo del mare espongono alcune parti di cotesti giacimenti primitivi all’azione della pioggia, delle variazioni del calore per il mutar delle stagioni, e dell’ossigeno e del carbonio dell’atmosfera. Agli stessi influssi sono esposte le masse rocciose, che si sollevarono dalla crosta terrestre rompendone gli strati; le masse, cioè, che eran dapprima in istato di fusione e poi si raffreddarono. Attraverso a milioni di secoli si andaron sempre formando dei nuovi strati; e questi furono nella più gran parte nuovamente distrutti, per essere impiegati, di poi, come i materiali di nuove formazioni. Ma il resultato è seriamente positivo; viene a costituirsi, cioè, un terreno commisto dei più svariati elementi chimici, allo stato di friabilità meccanica, che è atto a dar luogo alla numerosa e multiforme vegetazione. Dicasi lo stesso della matematica. Pigliamo una grandezza, ed esprimiamola algebricamente con a. Neghiamola, ed avremo - (meno) a. Se noi neghiamo questa negazione, in quanto noi moltiplichiamo -a per -a, noi avremo +a2; ossia la primitiva grandezza positiva, ma elevata di un grado, cioè alla seconda potenza. Anche qui poco importa che noi possiamo ottenere la espressione a2 moltiplicando il positivo a per il positivo a. La negazione negata è tanto inerente all’espressione a2, che questa, in tutti i casi, ha sempre due radici quadrate, ossia a e meno a. L’impossibilità in cui noi ci troviamo di eliminare dal quadrato la radice negativa, ossia la negazione negata, acquista una importanza significativa nelle equazioni quadratiche. In modo assai più spiccato e calzante ci si rivela la negazione della negazione nella analisi superiore; vale a dire a «in quella sommazione di sempre infinitamente più piccole grandezze» come dice il signor Dühring per significare la più alta operazione della matematica, ossia per designar lui, in somma, con altre parole, ciò che di solito chiamasi calcolo integrale e differenziale. Come si svolgono coteste operazioni di calcolo? Ecco,

io ho, p. es., in un dato problema due grandezze variabili x ed y, nessuna delle quali due può variare, senza che l’altra cambii corrispettivamente, secondo quei rapporti che son del caso. Io differenzio x ed y, ossia io suppongo che x ed y siano tanto infinitamente piccoli, da sparire al confronto di ogni grandezza, la quale, pure essendo posta come minimamente piccola, è sempre pensata come realmente esistente; cosicché di x e di y non rimane se non la loro reciproca relazione, ma starei per dire senza alcun fondamento materiale, – un rapporto quantitativo senza la quantità. La espressione

– ossia il rapporto dei

differenziali di x e di y – è dunque = , ma è un posto come espressione di Noto qui di passaggio, che il rapporto di due grandezze giunte all’esaustione, ossia il fissare il momento della loro sparizione, implica una contraddizione; ma ciò non guasta, come non ha impedito alla matematica di procedere da due secoli in qua. Ma che cosa ho fatto io, se non di negare x ed y? – e non ho negato come usa la metafisica, la quale omette, cioè mette da parte, ciò che nega, ma ho negato come e quanto importa al caso. Ora io al posto di x e di y ho la loro negazione, ossia dx e dy nelle loro formule, o meglio equazioni. Ora io continuo ad operare con coteste formule, tratto dx e dy come grandezze reali, che son però soggette a certe leggi non ordinarie, e a un certo punto io nego la negazione, ovvero sia, io integro la formula differenziale, e ottengo in luogo delle formule dx e dy nuovamente le grandezze reali x ed y, ma non mi trovo di bel nuovo allo stesso punto donde ero partito, perché ho sciolto un problema, a risolvere il quale la geometria e l’algebra ordinarie ci si sarebbero invano provate. Non altrimenti procede la storia. Tutti i popoli, ora civili, cominciarono dalla proprietà comune della terra. Per tutti i popoli, i quali in certa misura superarono quello stato originario, con lo sviluppo dell’agricoltura cotesta proprietà comune della terra divenne un impedimento alla produzione. Essa fu abolita, ossia negata, e attraverso a fasi intermedie, più o meno lunghe, essa fu trasformata in proprietà privata. Ma in una fase ulteriore dello sviluppo dell’agricoltura, la quale fase è essa stessa un portato della proprietà privata del suolo, questa medesima proprietà privata diventa un impaccio per la produzione; – come è il caso oggi, così per il grande, come per il piccolo possesso. Ora si presenta, con la urgenza della necessità, il bisogno di negarla. Ma cotesta nuova esigenza non vuol dire ristabilimento della originaria proprietà comunistica: anzi vuol dire costituzione di una più alta e più sviluppata forma di possesso in comune, il quale, in luogo d’essere un impedimento alla produzione, questa invece sprigioni, e la metta in grado di trarre pieno vantaggio dalle scoverte della

chimica moderna e dalle invenzioni della meccanica. Diciamone un’altra. La filosofia antica fu materialismo spontaneo ed immediato. Come tale, quella filosofia era inadatta a venire in chiaro su i rapporti del pensiero con la materia. Il bisogno di venire in chiaro su tali rapporti fece nascere la dottrina di un’anima separata dal corpo, e poi quella della immortalità dell’anima stessa, e da ultimo il monoteismo. Il materialismo antico fu, dunque, negato dall’idealismo. Ma, con lo sviluppo ulteriore della filosofia, anche l’idealismo divenne insostenibile, e fu negato col materialismo moderno. Questo materialismo – che è negazione della negazione – non è la semplice rinnovazione del materialismo antico, ma aggiunge agli stabili fondamenti di quello tutto ciò che è contenuto di quel pensiero, il quale è il portato dello sviluppo della filosofia e della scienza della natura attraverso duemila anni, come anche della storia stessa di questi due millenii. Esso non è più una filosofia ut sic, ma una semplice intuizione del mondo, la quale deve fermarsi ed attuarsi, non in una scienza delle scienze, come cosa per sé stante, ma nelle partite scienze positive. La filosofia è così, dunque, «aufgehoben» a – ossia al tempo stesso superata e conservata: – superata quanto alla forma, e conservata quanto al contenuto effettivo. Dove, dunque, il signor Dühring non vede che giuoco di parole, guardandoci dappresso, noi troviamo un contenuto effettuale. Infine, la stessa dottrina egalitaria di Rousseau, per rispetto alla quale quella del signor Dühring non è che una pallida contraffazione, non sarebbe venuta in porto, se la benedetta negazione della negazione a uso Hegel – e, sia detto il vero, ciò accadde un venti anni prima che Hegel venisse al mondo – non le avesse porto aiuto, come fa la levatrice coi nascituri. E quella dottrina, anziché vergognarsi di ciò, reca nelle sue prime esposizioni pomposamente in fronte l’impronta della sua origine dialettica. Nello stato di natura, ossia nello stato selvaggio, gli uomini erano tutti eguali: – e, come Rousseau considera la lingua già come una falsificazione dello stato di natura, così egli ha piena ragione di estendere la perfetta eguaglianza, propria agli animali di una determinata specie, anche a quella specie ipotetica di uomini semplicemente animali, che Häckel chiama di fatti alali, ossia non parlanti. Ma cotesti uomini animali, del tutto eguali fra loro, aveano su tutti gli altri animali il vantaggio di un attributo speciale: ossia la perfettibilità, ossia la facoltà di svolgersi ulteriormente: – e in ciò fu la causa della disuguaglianza. Cosicché Rousseau vide come un progresso nell’originarsi della disuguaglianza. Ma cotesto progresso era in sé antagonistico; era, dunque, al tempo stesso un regresso. «Tutti i progressi successivi (intende dire dallo stato primitivo in qua) furon come tanti passi, che apparentemente segnavano il perfezionarsi degli individui, ma che in realtà erano la decadenza della specie. La lavorazione dei metalli e l’agricoltura furono

le due grandi arti che produssero cotesta grande rivoluzione» (cioè dire la trasformazione delle foreste vergini in campi coltivati, ma al tempo stesso la introduzione della miseria e della servitù dell’uomo verso l’uomo, mediante la proprietà). «A detta dei poeti furon l’oro e l’argento, a mente dei filosofi furono il ferro e il frumento che civilizzarono gli uomini, e rovinarono il genere umano». – Ad ogni nuovo progresso della civiltà corrisponde un nuovo progresso della disuguaglianza. Tutte le istituzioni, delle quali si va arricchendo la società nata dalla civiltà, si trasmutano nel preciso opposto dell’intento primitivo. «Gli è cosa incontrastabile, ed è legge fondamentale del diritto pubblico, che i popoli si son fatti dei principi per tutelare la propria libertà, e non per distruggerla». E pur nondimeno cotesti principi diventano necessariamente gli oppressori dei popoli, e spingono cotesta oppressione fino al punto, che la disuguaglianza, portata agli estremi, si tramuta nel suo opposto, e diventa causa dell’eguaglianza: – innanzi al despota son tutti eguali, ossia eguali a nulla. «Qui è il grado estremo della disuguaglianza, il punto terminativo in cui si chiude il circolo, toccando l’altro punto dal quale siamo partiti: qui tutte le persone private sono eguali, precisamente perché non son nulla, e pei sudditi non è altra legge, che la volontà del loro signore». «Ma il despota è padrone solo fin quando egli ha forza, e perciò, se è scacciato egli non può reclamare contro la forza… La forza lo sostiene, la forza lo rovescia, e tutto procede secondo il suo giusto e naturale andare». E così la ineguaglianza si converte di nuovo nella eguaglianza, ma non in quella originariamente naturale dell’uomo senza favella, ma in quella superiore del contratto sociale. Gli oppressori subiscono la oppressione. E questa è negazione della negazione. Eccoci dunque innanzi a un ordine di pensieri, presso Rousseau, che non solo risponde a capello a quello seguito da Marx nel Capitale, ma che perfino nei particolari usa di un gran numero di quei giri dialettici, che Marx va adoperando; – ecco i processi, che di loro natura sono antagonistici, e rinchiudono in sé una contraddizione, ecco il ripiegare di un estremo nel suo opposto, e da ultimo, come nocciolo del tutto, la negazione della negazione. E se Rousseau nel 1754 non era in grado di parlare ancora il gergo di Hegel, pur nondimeno egli era, 23 anni prima che Hegel nascesse, fortemente infetto dal contagio hegelianoa. […]47 Che cosa è dunque la negazione della negazione? Una legge assai generale, assai importante, e della massima estensione in tutto lo sviluppo della natura, della storia e del pensiero: – una legge, che, come s’è visto, noi possiamo riscontrare nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella matematica, nella storia e nella filosofia […] S’intende da sé che io non dico nulla di positivo su

quello specificato processo di sviluppo, che il granello di orzo percorre dal venir germogliando fino al morir della pianta che ha recato novello frutto, finché mi fermo a dire: negazione della negazione. Poiché, come il calcolo integrale è anch’esso negazione della negazione, tanto farebbe, a rimaner su le generali, che io pronunziassi questa assurda proposizione: essere il processo biogenetico di uno stelo di orzo un calcolo integrale, o a dirittura il socialismo, tanto per farla più grossa. Questo è il modo surrettizio come i metafisici alterano la dialettica. Quando io dico di tutti cotesti processi, che essi son negazione della negazione, io li abbraccio tutti insieme sotto una sola legge evolutiva, e per ciò appunto faccio astrazione dalle peculiarità di ciascun processo particolare. La dialettica non è altro se non la scienza delle leggi del movimento e dello sviluppo della natura, della società e del pensiero. Ma altri può obiettare: questa non è esattamente la vera e propria negazione; – io nego anche un granello di orzo, se io lo pesto, ed io nego anche un insetto, se io lo calpesto, ed io nego la grandezza positiva a se io la casso, e così via. Ovvero io nego la proposizione: la rosa è una rosa, in quanto io dico: la rosa non è rosa; e che cosa ne verrebbe mai fuori, se io, negando di nuovo cotesta negazione, dicessi pur ancora una volta: questa rosa è nondimeno una rosa? – Coteste obiezioni sono, in verità, i principali argomenti dei metafisici contro la dialettica, e son ben degni di una così angusta maniera di pensare. Negare non vuol dire, nella dialettica, né pronunciare semplicemente un no, né dichiarare che una cosa non esiste, o come che sia distruggerla. Già Spinoza dice: omnis determinatio est negatio, ossia ogni delimitazione o determinazione è al tempo stesso negazione. Inoltre, questa specie di negazione è determinata così dall’indole generale come dall’indole speciale del processo stesso. Io devo non solo negare, ma nuovamente levare (aufheben) la negazione. Io devo condurre la prima negazione in modo, che la seconda rimanga, o divenga, possibile. E come mai? Secondo la specifica natura del singolo caso. Se io macino il granello o calpesto l’insetto, io compio la prima, ma rendo impossibile la seconda negazione. Ciascun genere di cose ha il suo modo particolare di comportare la negazione perché ne conseguiti uno sviluppo: – e lo stesso accade di ciascun genere di rappresentazioni e di pensieri. Nel calcolo integrale si nega in altro modo da quello che occorra per costituire delle potenze positive da radici negative. Ciò occorre di imparare, come s’impara tutto il resto. Se io conosco soltanto questo, che così i granelli di orzo come il calcolo integrale subiscono la negazione della negazione, io non per questo sarò atto a produrre orzo o ad integrare; come non sono suonatore di violino quando semplicemente conosco le leggi generali per le quali le dimensioni delle corde determinano l’altezza e il colorito dei suoni. – Gli è cosa chiara, che da quel negare la negazione, il quale

si limiti al fanciullesco passatempo di porre a, e poi di cassare a, di dire successivamente che una rosa è e non è rosa, non ne vien fuori, se non la imbecillità di colui, che vada esercitandosi in tali noiosi procedimenti […] Dunque è solo il signor Dühring, che vada mistificando, quando afferma, che la negazione della negazione sia una baggianata analogica messa in essere da Hegel ad imitazione della religione, e anzi della storia della prima caduta e della redenzione. Gli uomini han pensato dialetticamente un buon pezzo avanti che essi mai sapessero ciò che è la dialettica; come parlavano in prosa, prima di conoscere cotesto termine. La legge della negazione della negazione, la quale si esplica insaputamente nella natura e nella storia, e anche nelle nostre teste finché non giungiamo a riconoscerla, fu da Hegel soltanto formulata, e per la prima volta col massimo della precisione. E se il signor Dühring vuol così di soppiatto continuare ad usarla, e soltanto gli dà noia il nome, s’accomodi a trovarne un altro. Ma se vuol espellere la cosa stessa dal pensiero, procuri di espellerla innanzi tutto dalla natura e dalla storia, e inventi una matematica, nella quale -a moltiplicato per -a non dia +a2, e nella quale, comminate le debite pene, sia fatto divieto a chiunque di differenziare e d’integrare.

III PREFAZIONE DI G. SOREL [1896]

agli Essais sur la conception matérialiste de l’histoire di A. LABRIOLA, trad. franc., Paris, Giard et Brière, 1897 Le socialisme contemporain présente un caractère d’originalité, qui a frappé tous les économistes; il doit ce caractère à ce qu’il s’inspire des idées émises par K. Marx sur le matérialisme historique. Là où ces idées ont profondément pénétré la conscience populaire, le parti socialiste est fort et vivant; ailleurs, il est chétif et divisé en sectes. Les thèses marxistes n’ont point été, généralement, bien comprises en France par les écrivains qui s’occupent des questions sociales. M. Bourguin, professeur à l’Université de Lille, écrivait en 1892a: «Les penseurs parmi nos socialistes n’acceptent pas sans tiraillements la doctrine desséchante du maître, d’où l’idée de Droit et de Justice est si rigoureusement bannie; c’est un vêtement étranger qu’ils portent avec gène et qu’ils retoucheront sans doute un jour, pour l’adapter à leur taille». L’auteur se référait à un mémoire publié en 1887 par M. Rouanet, dans la «Revue socialiste», sous le titre: Le matérialisme économique de Marx et le socialisme français. Presque toutes les personnes qui parlent de matérialisme historique connaissent cette doctrine uniquement par le mémoire de M. Rouanet. Celui-ci occupe, depuis longtemps, une place importante dans les partis avancés de France; il prévenait ses lecteurs qu’il avait fait une étude approfondie de Marx et qu’il s’était livré à des recherches épuisantes pour comprendre Hegel. On devait le croire bien informéb. Avant d’aborder l’exposé que M. Labriola fait, en termes excellents, mais si concis, du matérialisme historique, le lecteur français doit se mettre en garde contre les préjugés répandus: c’est pourquoi je crois nécessaire de montrer, ici, combien sont fausses et futiles les grandes objections que l’on oppose à la doctrine marxiste: il faut donc s’arrêter sur les idées émises, en 1887, par M. Rouanet. Les préjugés, qui existent chez nous, ont, en grande partie, une origine sentimentale; M. Rouanet s’est donné beaucoup de mal pour montrer que les doctrines marxistes sont contraires au génie français; nous entendons répéter ce reproche tous les jours. En quoi consiste cette opposition? Le problème du devenir moderne – considéré au point de vue matérialiste –

repose sur trois questions: 1° le prolétariat a-t-il acquis une conscience claire de son existence comme classe indivisible? 2° a-t-il assez de force pour entrer en lutte contre les autres classes? 3° est-il en état de renverser, avec l’organisation capitaliste, tout le système de l’idéologie traditionnelle? C’est à la sociologie de répondre. Quand on s’inspire des principes de Marx, on peut dire qu’il n’y a plus de question sociale; on peut même dire que le socialisme (au sens ordinaire et historique du terme) est dépassé; en effet, les recherches ne portent plus sur ce que la société doit être, mais sur ce que peut le prolétariat, dans la lutte actuelle des classes. Cette manière de considérer les choses ne va pas au génie français, – ou du moins à ceux qui ont la prétention de le représenter. Chez nous, les partis progressistes renferment un nombre effrayant d’hommes de génie, dont la société actuelle méconnaît le talent, qui possèdent dans leur cœur un oracle infaillible de la Justice, qui ont consacré leurs veilles à élaborer des plans merveilleux destinés à assurer le bonheur de l’humanité. Ces messieurs ne veulent pas descendre de leur trépied fatidique pour se mêler à la foule; ils sont faits pour diriger et non point pour devenir les coopérateurs d’une œuvre prolétarienne; ils entendent défendre les droits de l’intelligence contre les audacieux qui manquent de respect pour l’Olympe libéral et qui ne tiennent pas un compte suffisant de la mentalité. Ajoutez à cela que ces rares esprits ont une foi naïve dans la suprématie française, dans le rôle initiateur de la Francea, qu’ils ont la superstition de la phraséologie révolutionnaire et qu’ils pratiquent avec dévotion le culte des grands hommes. Ils ne peuvent pardonner à Marx, à Engels et surtout à M. Lafargue d’avoir manqué de respect pour ce qu’ils vénèrent. Je ne suis pas du nombre de ceux qui ont beaucoup d’admiration pour le génie français, ainsi entendu; j’ai lieu de croire, d’ailleurs, que cet esprit français n’est pas celui de mes compatriotes qui se livrent à des recherches scientifiques et qui n’éprouvent pas le besoin de se poser en directeurs spirituels du peuple. Le grand reproche que l’on adresse, – au point de vue scientifique, – à la doctrine de Marx est de mener au fatalisme. D’après M. Rouanet, elle serait très voisine de l’idéalisme hégélien, débarrassé de son «transcendentalisme nuageux»a. On y trouve «même succession fatale des événements, phases nécessaires d’un procès que la volonté humaine ne saurait enrayer, même culte de la Force, sombre dieu d’airain, instrument aveugle des lois du grand fatum destinées à s’accomplir quand même». Il y aurait bien des réserves à faire sur l’idée que l’auteur français se fait de la philosophie de Hegel; mais une lecture

superficielle du Capital suffit pour montrer que Marx n’avait jamais pensé à cette apocalypse évolutionniste, qu’on lui attribue si généreusement. Le déterminisme suppose que les changements sont reliés entre eux d’une manière automatique, que les phénomènes simultanés forment un bloc ayant une structure obligée, qu’il y a des lois d’airain assurant entre toutes choses une nécessité d’ordre. On ne trouve rien de semblable dans la doctrine de Marx: les événements sont considérés d’un point de vue empirique; c’est de leur mélange que jaillit la loi historique qui définit leur mode temporaire de génération. On ne demande point de reconnaître dans le monde social un système analogue au système astronomique; on demande seulement de reconnaître que l’entrecroisement des causes produit des périodes assez régulières et assez caractérisées pour pouvoir faire l’objet d’une connaissance raisonnée de faits. Marx fait bien ressortir la multiplicité des causes qui ont produit le capitalisme moderne: rien ne prouve que ces causes dussent apparaître ensemble à une date déterminée; leur coexistence fortuite engendre la transformation de l’industrie et change tous les rapports sociaux. Mais on insiste et on dit que, d’après Marx, tous les phénomènes politiques, moraux, esthétiques, sont déterminés (au sens précis du mot) par les phénomènes économiques. Que pourrait bien signifier une pareille formule? Dire qu’une chose est déterminée par une autre, sans donner, en même temps, une idée précise du mode de jonction, c’est dire une de ces bêtises qui ont rendu si ridicules les vulgarisateurs du matérialisme vulgaire. Marx n’est point responsable de cette caricature de son matérialisme historique. De ce que toutes les manifestations sociologiques ont besoin, pour leur éclaircissement, d’être placées sur leurs supports économiques, il n’en résulte pas que la connaissance du support remplace la connaissance de la chose supportée. Les médiations qui existent entre l’infrastructure économique et les produits supérieurs sont très variables et ne peuvent se traduire par aucune formule générale. On ne saurait donc parler de déterminisme, puisqu’il n’y a rien de déterminable. M. Rouanet se fait de la doctrine une idée tout à fait singulière: il suppose que les moyens de production, l’organisation économique et les rapports sociaux, sont des êtres qui se succèdent comme les espèces paléontologiques, qui viennent par la voie mystérieuse de l’évolution, et que de leur connaissance on déduit, – par des lois qu’il ne connaît pas plus que moi et que Marx n’a jamais données, – toute l’histoire de l’humanité. Ainsi, le matérialisme historique aurait une base idéaliste: la succession fatale des formes de la production! Ce serait, certainement, une conception bien singulière. Un professeur distingué, M. Petronea, se rencontre avec M. Rouanet, pour

soutenir que le matérialisme historique se trouve en défaut quand on veut l’appliquer à la révolution chrétienne. Je crois, au contraire, que les théories de Marx jettent une certaine lumière sur cette question, en nous montrant les raisons qui empêchent l’historien de bien comprendre ce qui s’est passé. Nous ne pouvons discuter scientifiquement le problème parce que nous n’avons pas les éléments nécessaires pour l’éclaircissement. L’auteur italien se place au point de vue catholique; M. Rouanet invente une histoire fantaisiste; – le rôle du savant est de se taire et d’attendre que les monuments nous aient révélé les conditions économiques de la primitive Église. M. Bourguinb demande s’il ne faut pas compter parmi les forces actives «la conscience plus ou moins développée parmi les travailleurs de la prétendue exploitation qu’ils ont à subir». Mais le développement de la conscience-declasse n’est-il pas le nœud de la question sociale, aux yeux de Marx? Il suffit d’avoir une connaissance médiocre des œuvres du grand philosophe socialiste pour le savoir. Peut-on accuser Marx d’avoir fait si peu attention à la mentalité humaine, lui qui a montré l’importance des moindres créations du génie inventif? Nulle part l’intelligence n’apparaît avec plus de relief que dans la technologie, dont le rôle historique est mis en évidence, d’une manière si frappante, dans le Capital. Je sais bien que les représentants de l’esprit français ont une médiocre estime pour les constructeurs de machines, incapables de déclamer à la tribune de formidables cantates sur les droits de l’homme; mais les simples mortels pensent, avec M. J. Bourdeaua, que la machine à vapeur «a exercé plus d’influence sur l’organisation sociale que tous les systèmes de philosophie». Est-ce à dire que les produits intellectuels et moraux soient sans efficacité historique, comme on prétend que cela résulterait du matérialisme historique? Pas du tout: ces produits possèdent la propriété de pouvoir se détacher de leur souche naturelle, pour se présenter sous une forme fétichiste, «sous l’aspect d’êtres indépendants, en communication avec les hommes et entre eux»b. Devenus libres, ils sont susceptibles d’entrer dans les combinaisons les plus variées de l’imagination. Aucune grande révolution n’a pu se produire sans des illusions pressantes et nombreuses: c’est encore Marx qui nous l’apprend. Mais cette doctrine révolte nos hommes de progrès; ils n’entendent point qu’on rapporte à la fantaisie ce qu’ils rapportent à la raison: agir ainsi, c’est manquer de respect à tous les Titans présents et passés. Dans l’avant-propos de sa traduction des œuvres choisies de Vico, Michelet écrivait: «Le mot de la Scienza nuova est: l’humanité est son œuvre à ellemême… La science sociale date du jour où cette grande idée a été exprimée pour

la première fois. Jusque-là l’humanité croyait devoir ses progrès aux hasards du génie individuel… L’histoire était un spectacle infécond, tout au plus une fantasmagorie». Comment se forme l’histoire? Engels nous l’apprend dans le passage suivant c: «L’enchevêtrement d’innombrables volontés et actions individuelles crée un état de choses qui est, de tout point, analogue à celui qui règne dans la nature inconsciente. Les buts des actions sont, en effet, voulus; mais les conséquences ne le sont point; ou bien, tout en paraissant, de prime vue, correspondre an but visé, aboutissent finalement à des résultats tout autres que ceux voulus.» Cette thèse est admise, par les savants, sans difficulté; mais elle est désespérante pour les grands hommes dont le génie déborde: leurs plans ne pourront donc être réalisés tels qu’ils les ont conçus! et cependant, ces plans sont si bien raisonnés, qu’on ne peut y toucher sans leur faire perdre leur efficacité et sans se mettre en révolte contre la Justice, dont ces messieurs sont les délégués autorisés. Mais laissons de côté toutes ces objections vulgaires, pour aborder ce qui constitue, à mes yeux, la partie vulnérable de la doctrine, – celle que les critiques français n’ont pas examinée. Bien des savants sont disposés à admettre la valeur du matérialisme historique comme discipline de l’esprit, à reconnaître que les thèses de Marx fournissent d’utiles indications pour l’historien des institutionsa Mais il reste à se demander quelle est la base métaphysique de cette doctrine. Il ne servirait à rien de dire qu’on peut se passer de cette recherche, qu’on suivra la méthode qui a si bien réussi en psychologie depuis que les discussions sur l’âme ont été écartées. Mais quel est le psychologiste qui reste vraiment indifférent devant le problème métaphysique? Chacun a son hypothèse; et ce sont ces hypothèses, – souvent dissimulées avec adresse, – qui différencient les écoles. On a commis bien des fautes en appliquant hâtivement le matérialisme historique; ces erreurs proviennent, presque toutes, de l’agnosticisme, que les auteurs ont prétendu professer et qui cachait des théories explicatives mal élaborées. D’autre part, quand on examine les applications faites par Marx, on voit qu’il a mis en œuvre une grande quantité de principes psychologiques, dont l’énoncé n’a pas été donné, d’ordinaire, sous une forme scientifique. Au fur et à mesure que l’on avancera, on reconnaîtra la nécessité de sortir de cet état provisoire, de s’élever au-dessus des analyses particulières et de disposer d’une charpente solide pour appuyer les relations historiques. Voici donc deux grandes lacunes: les élèves de Marx doivent s’efforcer de compléter l’œuvre de leur maître. Celui-ci semble n’avoir rien tant craint que de laisser un système philosophique trop rigide et trop fermé; il comprenait qu’une

doctrine est à son dernier jour quand elle est achevée et que la condition de toute métaphysique scientifique est de laisser largement ouverte la porte aux développements. La prudence de Marx était extrême; il n’a essayé de terminer aucune théorie: des discussions récentes ont montré qu’il n’avait pas dit son dernier mot sur la valeur et la plus-value. Combien sont donc aveugles les critiques qui accusent les disciples de Marx de vouloir enfermer la pensée humaine dans une enceinte délimitée par le maître! Dans ce travail de perfectionnement, il faut suivre l’exemple donné par Marx lui-même et se montrer prudent. Ce n’est pas quand on n’a encore fait que des études si peu nombreuses sur la base du matérialisme historique, qu’il faut essayer d’en donner la métaphysique et d’en définir la psychologie. Les gens de grand cœur disent que l’esprit ne peut rester dans cette expectative quand il s’agit de la morale et du droit. Les critiques superficiels ne manquent pas de déclamer contre l’absence d’idéal, sans se demander si une théorie éthique raisonnable peut être indépendante d’une métaphysique et si celle-ci signifie quelque chose tant qu’elle ne possède pas une large base scientifique. On peut reconnaître la valeur historique et sociale de l’enseignement morala sans avoir la prétention de lui imposer pour principe des règles, des lois, des postulats, obtenus par le travail de l’imagination. Il semble même qu’en donnant pour base à l’éthique des métaphores, des théories psychologiques insuffisantes ou des déclamations sur la Nature, on compromet singulièrement la portée de cette pédagogie. Faire descendre la morale sur la terre, la débarrasser de toute fantaisie, ce n’est pas la nier; c’est, au contraire, la traiter avec le respect dû aux œuvres de la raison. Est-ce nier la science que de laisser de côté les rêveries sur l’essence des choses pour s’attacher aux réalités? Les appréciations morales abondent dans le Capital. Il est donc assez paradoxal de reprocher à Marx d’avoir soigneusement écarté toute considération sur la Justice; mais chacun entend ce mot à sa façon. M. Bourguin, dans le passage cité plus haut, se place au point de vue de l’ancienne théorie du sens moral; mais cette théorie n’est plus reçue. M. Rouanet nous parlea «d’une justice naturelle, conforme à la loi du développement social, qui est la libre solidarité, de plus en plus étroite des diverses parties composant l’humanité-une»; c’est bien là ce que Marx appelait une de cesb «bourdes d’idéologisme juridique chères aux démocrates et aux socialistes français». Quand ces deux auteurs s’accordent pour imputer un caractère amoral à la doctrine de Marx, il faut comprendre seulement qu’ils ne trouvent pas, dans le Capital, l’expression de leurs théories morales personnelles, théories qui n’ont, d’ailleurs, aucune valeur. C’est au nom de la métaphysique des mœurs que M. Jaurès est intervenu dans

ce débat, en proposant de concilier les points de vue des idéalistes et des matérialistes; rien ne lui semble plus facile. Il affirme, tout d’abord, que les élèves de Marx reconnaissent l’existence d’une «direction au mouvement économique et au mouvement humain». Il demande qu’on lui accorde, comme un postulat indiscutable, qu’il y a dans l’histoire, non seulement «une évolution nécessaire, mais une direction intelligible et un sens idéal». Admettre ces prémisses, c’est expliquer l’histoire par l’idéalisme et uniquement par l’idéalisme; – c’est rejeter tout, absolument tout, de la doctrine de Marx. Mais, alors, en quoi consiste cette conciliation? Rien de plus simple: si l’on condamne toutes les idées de Marx, on proclame l’auteur un grand homme, aussi grand homme que peuvent désirer ses élèvesc. Quand on aura accordé tout ce que demande le célèbre orateur, on sera convaincu que «le mot de justice a un sens même dans la conception matérialiste de l’histoire!» Cette conclusion est vraie; mais ce sens n’est pas celui que découvre M. Jaurès. «L’humanité se cherche, dit-il, et s’affirme elle-même, quelle que soit la diversité des milieux… C’est un même souffle de plainte et d’espérance qui sort de la bouche de l’esclave, du serf ou du prolétaire: c’est le souffle immortel d’humanité qui est l’âme de ce qu’on appelle le droit». Marx, certainement, ne s’était jamais douté de cela! J’en ai dit assez pour faire comprendre que le matérialisme historique était à peu près inconnu en France. Le livre de M. Labriola met les lecteurs français en présence de régions nouvelles, au milieu desquelles le savant professeur italien nous dirige avec une grande habileté. La publication de ce livre marque une date dans l’histoire du socialisme. C’est, en effet, la première fois qu’un auteur, de langue latine, étudie, d’une manière originale et approfondie, une des bases philosophiques sur lesquelles repose le socialisme contemporain. L’œuvre de M. Labriola a sa place marquée dans les bibliothèques, à côté des livres classiques de Marx et d’Engels: elle constitue un éclaircissement et un développement méthodiques d’une théorie que les maîtres de la nouvelle pensée socialiste n’ont jamais traitée sous une forme didactique. C’est donc un livre indispensable pour qui veut comprendre quelque chose aux idées prolétariennes. Plus que les travaux de Marx et d’Engels, celui-ci s’adresse au public étranger aux préoccupations sociales. L’historien trouvera, dans ces pages, de substantielles et précieuses indications pour l’étude de la genèse et de la transformation des institutions. Paris, Décembre 1896 G. SOREL



[I.XIII] DIALEKTIK NEGATION DER NEGATION […] Aber was ist denn diese schreckliche Negation der Negation, die Herrn Dühring das Leben so sauer macht, die bei ihm dieselbe Rolle des unverzeihlichen Verbrechens spielt, wie im Christentum die Sünde wider den heiligen Geist? – Eine sehr einfache, überall und täglich sich vollziehende Prozedur, die jedes Kind verstehn kann, sobald man den Geheimnißkram abstreift, unter dem die alte idealistische Philosophie sie verhüllte, und unter dem sie ferner zu verhüllen das Interesse hülfloser Metaphysiker vom Schlage des Herrn Dühring ist. Nehmen wir ein Gerstenkorn. Billionen solcher Gerstenkörner werden vermahlen, verkocht und verbraut, und dann verzehrt. Aber findet solch ein Gerstenkorn die für es normalen Bedingungen vor, fällt es auf günstigen Boden, so geht unter dem Einfluß der Wärme und der Feuchtigkeit eine eigne Veränderung mit ihm vor, es keimt; das Korn vergeht als solches, wird negirt, an seine Stelle tritt die aus ihm entstandne Pflanze, die Negation des Korns. Aber was ist der normale Lebenslauf dieser Pflanze? Sie wächst, blüht, wird befruchtet und produzirt schließlich wieder Gerstenkörner, und sobald diese gereift, stirbt der Halm ab, wird seinerseits negirt. Als Resultat dieser Negation der Negation haben wir wieder das anfängliche Gerstenkorn, aber nicht einfach, sondern in zehn-, zwanzig-, dreißigfacher Anzahl. Getreidearten verändern sich äußerst langsam, und so bleibt sich die Gerste von heute ziemlich gleich mit der von vor hundert Jahren. Nehmen wir aber eine bildsame Zierpflanze, z.B. eine Dahlia oder Orchidee; behandeln wir den Samen und die aus ihm entstehende Pflanze nach der Kunst des Gärtners, so erhalten wir als Ergebniß dieser Negation der Negation nicht nur mehr Samen, sondern auch qualitativ verbesserten Samen, der schönere Blumen erzeugt, und jede Wiederholung dieses Prozesses, jede neue Negation der Negation steigert diese Vervollkommnung. – Ähnlich wie beim Gerstenkorn vollzieht sich dieser Prozeß bei den meisten Insekten, z.B. Schmetterlingen. Sie entstehn aus dem Ei durch Negation des Ei’s, machen ihre Verwandlungen durch bis zur Geschlechtsreife, begatten sich und werden wieder negirt, indem sie sterben, sobald der Gattungsprozeß vollendet und das Weibchen seine zahlreichen Eier gelegt hat. Daß bei andern Pflanzen und Thieren der Vorgang nicht in dieser Einfachheit sich erledigt, daß sie nicht nur einmal, sondern mehrmal Samen, Eier oder Junge produziren, ehe sie absterben, geht uns hier noch nichts an; wir haben hier nur nachzuweisen, daß die Negation der Negation in den beiden Reichen der

organischen Welt wirklich vorkommt. Ferner ist die ganze Geologie eine Reihe von negirten Negationen, eine Reihe von aufeinanderfolgenden Zertrümmerungen alter und Ablagerungen neuer Gesteinsformationen. Zuerst wird die ursprüngliche, aus der Abkühlung der flüssigen Masse entstandne Erdkruste durch ozeanische, meteorologische und atmosphärisch-chemische Einwirkung zerkleinert und diese zerkleinerten Massen auf dem Meeresboden geschichtet. Lokale Hebungen des Meeresbodens über den Meeresspiegel setzen Theile dieser ersten Schichtung von neuem den Einwirkungen des Regens, der wechselnden Warme der Jahreszeiten, des Sauerstoffs und der Kohlensäure der Atmosphäre aus; denselben Einwirkungen unterliegen die aus dem Erdinnern hervor-und die Schichten durchbrechenden geschmolzenen und nachher abgekühlten Steinmassen. Millionen von Jahrhunderten hindurch werden so immer neue Schichten gebildet, immer wieder größtentheils zerstört und immer wieder als Bildungsstoff für neue Schichten verwendet. Aber das Ergebniß ist ein sehr positives: die Herstellung eines aus den verschiedensten chemischen Elementen gemischten Bodens in einem Zustand mechanischer Zerkleinerung, der die massenhafteste und verschiedenartigste Vegetation zuläßt. Ebenso in der Mathematik. Nehmen wir eine beliebige algebraische Größe, also a. Negiren wir sie, so haben wir -a (minus a). Negiren wir diese Negation, indem wir -a mit -a multipliziren, so haben wir +a2, d.h. die ursprüngliche positive Große, aber auf einer höhern Stufe, nämlich auf der zweiten Potenz. Auch hier macht es nichts aus, daß wir dasselbe a2 dadurch erlangen können, daß wir das positive a mit sich selbst multipliziren und dadurch auch a2 erhalten. Denn die negirte Negation sitzt so fest in dem a2, daß es unter allen Umständen zwei Quadratwurzeln hat, nämlich a und -a. Und diese Unmöglichkeit, die negirte Negation, die im Quadrat enthaltne negative Wurzel loszuwerden, bekommt eine sehr handgreifliche Bedeutung schon bei den quadratischen Gleichungen. – Noch schlagender tritt die Negation der Negation hervor bei der höhern Analyse, bei jenen “Summationen unbeschränkt kleiner Größen”, die Herr Dühring selbst für die höchsten Operationen der Mathematik erklärt und die man in gewöhnlicher Sprache Differential-und Integralrechnung nennt. Wie vollziehn sich diese Rechnungsarten? Ich habe z.B. in einer bestimmten Aufgabe zwei veränderliche Größen x und y, von denen sich die eine nicht verändern kann, ohne daß die andre sich in einem durch die Sachlage bestimmten Verhältniß mitverändert. Ich differenziere x und y, d.h. ich nehme x und y so unendlich klein an, daß sie gegen jede noch so kleine wirkliche Größe verschwinden, daß von x und y nichts bleibt als ihr gegenseitiges Verhältniß, aber ohne alle sozusagen materielle Grundlage, ein quantitatives Verhältniß ohne

alle Quantität.

, das Verhältniß der beiden Differentiale von x und y ist also = aber gesetzt als der Ausdruck von . Daß dies Verhältniß zwischen zwei verschwundnen Größen, der fixirte Moment ihres Verschwindens, ein Widerspruch ist, erwähne ich nur nebenbei; es kann uns aber ebensowenig stören, wie es die Mathematik überhaupt seit fast zweihundert Jahren gestört hat. Was anders also habe ich getan, als daß ich x und y negirt habe, aber negirt nicht so, daß ich mich nicht mehr um sie kümmere, wie die Metaphysik negirt, sondern in der der Sachlage entsprechenden Weise? Statt x und y habe ich also ihre Negation, dx und dy in den mir vorliegenden Formeln oder Gleichungen. Ich rechne nun mit diesen Formeln weiter, behandle dx und dy als wirkliche, wenn auch gewissen Ausnahmsgesetzen unterworfne Größen, und an einem gewissen Punkt – negiere ich die Negation, d.h. ich integriere die Differentialformel, bekomme statt dx und dy wieder die wirklichen Größen x und y und bin dann nicht etwa wieder so weit wie am Anfang, sondern ich habe damit die Aufgabe gelöst, an der die gewöhnliche Geometrie und Algebra sich vielleicht umsonst die Zähne ausgebissen hätten. Nicht anders in der Geschichte. Alle Kulturvölker fangen an mit dem Gemeineigenthum am Boden. Bei allen Völkern, die über eine gewisse ursprüngliche Stufe hinausgehn, wird dies Gemeineigenthum im Lauf der Entwicklung des Ackerbaus eine Fessel für die Produktion. Es wird aufgehoben, negirt, nach kürzern oder längern Zwischenstufen in Privateigenthum verwandelt. Aber auf höherer, durch das Privateigenthum am Boden selbst herbeigeführter Entwicklungsstufe des Ackerbaus wird umgekehrt das Privateigenthum eine Fessel für die Produktion – wie dies heute der Fall ist sowohl mit dem kleinen wie mit dem großen Grundbesitz. Die Forderung, es ebenfalls zu negiren, es wieder in Gemeingut zu verwandeln, tritt mit Nothwendigkeit hervor. Aber diese Forderung bedeutet nicht die Wiederherstellung des altursprünglichen Gemeineigenthums, sondern die Herstellung einer weit höhern, entwickeltern Form von Gemeinbesitz, die, weit entfernt der Produktion eine Schranke zu werden, sie vielmehr erst entfesseln und ihr die volle Ausnutzung der modernen chemischen Entdeckungen und mechanischen Erfindungen gestatten wird. Oder aber: Die antike Philosophie war ursprünglicher, naturwüchsiger Materialismus. Als solcher war sie unfähig, mit dem Verhältniß des Denkens zur

Materie ins reine zu kommen. Die Nothwendigkeit aber, hierüber klarzuwerden, führte zur Lehre von einer vom Körper trennbaren Seele, dann zu der Behauptung der Unsterblichkeit dieser Seele, endlich zum Monotheismus. Der alte Materialismus wurde also negirt durch den Idealismus. Aber in der weitern Entwicklung der Philosophie wurde auch der Idealismus unhaltbar und negirt durch den modernen Materialismus. Dieser, die Negation der Negation, ist nicht die bloße Wiedereinsetzung des alten, sondern fügt zu den bleibenden Grundlagen desselben noch den ganzen Gedankeninhalt einer zweitausendjährigen Entwicklung der Philosophie und Naturwissenschaft, sowie dieser zweitausendjährigen Geschichte selbst. Es ist überhaupt keine Philosophie mehr, sondern eine einfache Weltanschauung, die sich nicht in einer aparten Wissenschaftswissenschaft, sondern in den wirklichen Wissenschaften zu bewähren und zu betätigen hat. Die Philosophie ist hier also “aufgehoben”, das heißt “sowohl überwunden als aufbewahrt”; überwunden, ihrer Form, aufbewahrt, ihrem wirklichen Inhalt nach. Wo Herr Dühring nur “Wortspielerei” sieht, findet sich also, bei genauerem Zusehn, ein wirklicher Inhalt. Endlich: sogar die Rousseau’sche Gleichheitslehre, von der die Dühring’sche nur ein matter, verfälschter Abklatsch ist, kommt nicht zustande, ohne daß die Hegel’sche Negation der Negation – und noch dazu fast zwanzig Jahre vor Hegels Geburt – Hebammendienste leisten muß. Und weit entfernt, sich dessen zu schämen, trägt sie in ihrer ersten Darstellung den Stempel ihrer dialektischen Abstammung fast prunkend zur Schau. Im Zustand der Natur und der Wildheit waren die Menschen gleich; und da Rousseau schon die Sprache als eine Fälschung des Naturzustandes ansieht, so hat er vollkommen Recht, die Gleichheit der Thiere Einer Art, soweit diese reicht, auch auf diese, neuerdings von Häckel als Alali, Sprachlose, hypothetisch klassifizirten Thiermenschen anzuwenden. Aber diese gleichen Thiermenschen hatten vor den übrigen Thieren eine Eigenschaft voraus: die Perfektibilität, die Fähigkeit, sich weiter zu entwickeln; und diese wurde die Ursache der Ungleichheit. Rousseau sieht also in der Entstehung der Ungleichheit einen Fortschritt. Aber dieser Fortschritt war antagonistisch, er war zugleich ein Rückschritt. “Alle weitern Fortschritte” (über den Urzustand hinaus) “waren ebensoviel Schritte scheinbar zur Vervollkommnung des Einzelmenschen, in der That aber zum Verfall der Gattung. Die Metallbearbeitung und der Ackerbau waren die beiden Künste, deren Erfindung diese große Revolution hervorrief” (die Umwandlung des Urwaldes in kultivirtes Land, aber auch die Einführung des Elends und der Knechtschaft vermittelst des Eigenthums). “Für den Dichter haben Gold und Silber, für den Philosophen haben Eisen und Korn die Menschen civilisirt und das Menschengeschlecht ruinirt.” Jeder neue Fortschritt der Civilisation ist

zugleich ein neuer Fortschritt der Ungleichheit. Alle Einrichtungen, die sich die mit der Civilisation entstandne Gesellschaft gibt, schlagen in das Gegentheil ihres ursprünglichen Zwecks um. “Es ist unbestreitbar und Grundgesetz des ganzen Staatsrechts, daß die Völker sich Fürsten gegeben haben, um ihre Freiheit zu schützen, nicht aber sie zu vernichten.” Und dennoch werden diese Fürsten mit Nothwendigkeit die Unterdrücker der Völker und steigern diese Unterdrückung bis auf den Punkt, wo die Ungleichheit, auf die äußerste Spitze getrieben, wieder in ihr Gegentheil umschlägt, Ursache der Gleichheit wird: vor dem Despoten sind alle gleich, nämlich gleich Null. “Hier ist der äußerste Grad der Ungleichheit, der Endpunkt, der den Kreis schließt und den Punkt berührt, von dem wir ausgegangen sind: hier werden alle Privatleute gleich, weil sie eben nichts sind, und die Untertanen kein andres Gesetz mehr haben als den Willen des Herrn.” Aber der Despot ist nur Herr, solange er die Gewalt hat, und deswegen kann er, sobald man “ihn vertreibt, sich nicht gegen die Gewalt beklagen… Die Gewalt erhielt ihn, die Gewalt wirft ihn um, alles geht seinen richtigen naturgemäßen Gang.” Und so schlägt die Ungleichheit wieder um in Gleichheit, aber nicht in die alte naturwüchsige Gleichheit der sprachlosen Urmenschen, sondern in die höhere des Gesellschaftsvertrags. Die Unterdrücker werden unterdrückt. Es ist Negation der Negation. Wir haben hier also schon bei Rousseau nicht nur einen Gedankengang, der dem in Marx’ “Kapital” verfolgten auf ein Haar gleicht, sondern auch im einzelnen eine ganze Reihe derselben dialektischen Wendungen, deren Marx sich bedient: Prozesse, die ihrer Natur nach antagonistisch sind, einen Widerspruch in sich enthalten, Umschlagen eines Extrems in sein Gegentheil, endlich als Kern des Ganzen die Negation der Negation. Wenn Rousseau also 1754 den Hegeljargon noch nicht sprechen konnte, so ist er doch, 23 Jahre vor Hegels Geburt, tief von der Hegel-Seuche, Widerspruchsdialektik, Logoslehre, Theologik u.s.w. angefressen. […] Was ist also die Negation der Negation? Ein äußerst allgemeines und eben deswegen äußerst weitwirkendes und wichtiges Entwicklungsgesetz der Natur, der Geschichte und des Denkens; ein Gesetz, das, wie wir gesehn, in der Thierund Pflanzenwelt, in der Geologie, in der Mathematik, m der Geschichte, in der Philosophie zur Geltung kommt und dem selbst Herr Dühring trotz allen Sperrens und Zerrens, ohne es zu wissen, in seiner Weise nachkommen muß. Es versteht sich von selbst, daß ich über den besondern Entwicklungsprozeß, den z.B. das Gerstenkorn von der Keimung bis zum Absterben der fruchttragenden Pflanze durchmacht, gar nichts sage, wenn ich sage, es ist Negation der Negation. Denn da die Integralrechnung ebenfalls Negation der Negation ist, würde ich mit der entgegengesetzten Behauptung nur den Unsinn behaupten, der

Lebensprozeß eines Gerstenhalms sei Integralrechnung oder meinetwegen auch Sozialismus. Das ist es aber, was die Metaphysiker der Dialektik fortwährend in die Schuhe schieben. Wenn ich von all diesen Prozessen sage, sie sind Negation der Negation, so fasse ich sie allesamt unter dies eine Bewegungsgesetz zusammen, und lasse ebendeswegen die Besonderheiten jedes einzelnen Spezialprozesses unbeachtet. Die Dialektik ist aber weiter nichts als die Wissenschaft von den allgemeinen Bewegungs-und Entwicklungsgesetzen der Natur, der Menschengesellschaft und des Denkens. Nun kann man aber einwenden: Die hier vollzogne Negation ist gar keine richtige Negation: ich negiere ein Gerstenkorn auch, wenn ich’s vermahle, ein Insekt, wenn ich’s zertrete, die positive Größe a, wenn ich sie ausstreiche usw. Oder ich negiere den Satz: die Rose ist eine Rose, wenn ich sage: die Rose ist keine Rose; und was kommt dabei heraus, wenn ich diese Negation wieder negiere und sage: die Rose ist aber doch eine Rose? – Diese Einwendungen sind in der That die Hauptargumente der Metaphysiker gegen die Dialektik und ganz dieser Bornirtheit des Denkens würdig. Negiren in der Dialektik heißt nicht einfach nein sagen, oder ein Ding für nicht bestehend erklären, oder es in beliebiger Weise zerstören. Schon Spinoza sagt: Omnis determinatio est negatio, jede Begrenzung oder Bestimmung ist zugleich eine Negation. Und ferner ist die Art der Negation hier bestimmt erstens durch die allgemeine und zweitens die besondre Natur des Prozesses. Ich soll nicht nur negiren, sondern auch die Negation wieder aufheben. Ich muß also die erste Negation so einrichten, daß die zweite möglich bleibt oder wird. Wie? Je nach der besondern Natur jedes einzelnen Falls. Vermahle ich ein Gerstenkorn, zertrete ich ein Insekt, so habe ich zwar den ersten Akt vollzogen, aber den zweiten unmöglich gemacht. Jede Art von Dingen hat also ihre eigentümliche Art, so negirt zu werden, daß eine Entwicklung dabei herauskommt, und ebenso jede Art von Vorstellungen und Begriffen. In der Infinitesimalrechnung wird anders negirt als in der Herstellung positiver Potenzen aus negativen Wurzeln. Das will gelernt sein, wie alles andre. Mit der bloßen Kenntniß, daß Gerstenhalm und Infinitesimalrechnung unter die Negation der Negation fallen, kann ich weder erfolgreich Gerste bauen, noch differenziren und integriren, ebensowenig wie ich mit den bloßen Gesetzen der Tonbestimmung durch die Dimensionen der Saiten ohne weiteres Violine spielen kann. – Es ist aber klar, daß bei einer Negationsnegierung, die in der kindischen Beschäftigung besteht, a abwechselnd zu setzen und wieder auszustreichen, oder von einer Rose abwechselnd zu behaupten, sie sei eine Rose und sie sei keine Rose, nichts herauskommt als die Albernheit dessen, der solche langweilige Prozeduren vornimmt. […] Es ist also wiederum niemand anders als Herr Dühring, der uns mystificirt,

wenn er behauptet, die Negation der Negation sei eine von Hegel erfundne, dem Gebiet der Religion entlehnte, auf die Geschichte vom Sündenfall und der Erlösung gebaute Analogieschnurre. Die Menschen haben dialektisch gedacht, lange ehe sie wußten, was Dialektik war, ebenso wie sie schon Prosa sprachen, lange bevor der Ausdruck Prosa bestand. Das Gesetz der Negation der Negation, das sich in der Natur und Geschichte, und bis es einmal erkannt ist, auch in unsern Köpfen unbewußt vollzieht, ist von Hegel nur zuerst scharf formulirt worden. Und wenn Herr Dühring die Sache im stillen selbst betreiben will und nur den Namen nicht vertragen kann, so möge er einen bessern Namen finden. Will er aber die Sache aus dem Denken vertreiben, so vertreibe er sie gütigst zuerst aus der Natur und der Geschichte, und erfinde eine Mathematik, worin -a × -a nicht +a2 ist und worin das Differenziren und Integriren bei Strafe verboten ist. a

Nel rivedere le bozze di stampa mi accorgo che il lettore potrebbe cadere in errore circa il carattere di questo scrittore. Il Pantaleoni, che io qui difendo, è anche lui un rappresentante di quell’edonismo, che il Croce, usando la nota immagine dei due fuochi dell’ellissi, vorrebbe conciliare col Marxismo; anzi di quella scuola egli è un rappresentante estremo. Il Pantaleoni è tanto estremo nel suo indirizzo, che inaugurando il suo corso a Ginevra in questo semestre (cfr. la Prolusione riprodotta nel fascicolo di Novembre del «Giornale degli Economisti» a pp. 407-431) espelle a dirittura dalla storia della scienza – che non può registrare gli errori! – il nome di Marx (ivi p. 427)31. Anzi lui dei socialisti, e degl’italiani in ispecie, ha una assai cattiva opinione, e li tiene per folli, violenti e peggio (cfr. la sua lettera del 12 Agosto ultimo a pp. 101-110 dell’opuscolo del prof. PARETO: La liberté économique et les Événements d’Italie, Lausanne 1898, e segnatamente le pp. 103 e seguenti)32. b Su quei diagrammi mi giova di richiamare la forte critica dell’acutissimo LEXIS (articolo Grenznutzen nel I Supplementband all’Handwörtebuch del CONRAD)35. a

Des rapports entre Proudhon et K. Marx, p. 25. Noto di passaggio che il Rouanet non conosceva di Marx che il Manifesto del partito comunista e Il

b

Capitale, né aveva, inoltre, che un’idea molto imperfetta delle teorie economiche contenuto in quest’ultimo libro. a Un solo paese mi sembra che abbia il diritto di rivendicare un posto eccezionale nella nostra civiltà moderna: è l’Italia, la patria comune degli spiriti liberi e colti. a «Revue socialiste», maggio 1887, p. 400. a

Il PERRONE è libero docente all’Università di Roma. Sul libro di Labriola ha scritto una recensione

critica molto interessante nella «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», a. IV, vol. XI, pp. 551-560. b Des Rapports entre Proudhon et K. Marx, p. 25. a

«Journal des Débats», 1° maggio 1896. Il Capitale, trad. franc., p. 28. Ciò è detto da Marx a proposito della merce. k Ludwig Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca, tradotto nell’«Ère nouvelle», maggio 1894, b

p. 14.

a

Petrone è d’accordo con ciò senza la minima difficoltà. J. Bourdeau scrive, da parte sua, che le tesi di Marx illuminano la storia da un’altra prospettiva («Débats», 13 ottobre 1896). a Sull’estrema importanza della morale nelle filosofie socialiste sono da leggere le belle osservazioni di B. CROCE, Sulla concezione materialistica della storia («Atti dell’Accademia Pontaniana», vol. XXVI, 1896). a «Revue socialiste», giugno 1887, p. 591. b

Lettera sul programma di Gotha («Revue d’économie politique», 1894, p. 758). Il testo tedesco è

apparso nella «Neue Zeit», a. IX, vol. I, fasc. 18, pp. 560-575. c Questo paradosso è stato pubblicato nella «Jeunesse socialiste» del gennaio 1895 sotto il titolo Idéalisme de l’histoire. Cfr. nel numero di febbraio, l’accesa replica di Lafargue. a Questo è il participio passivo di quel verbo aufheben, del cui senso anfibologico detti conto nella nota a p. ???. a Qui ometto alcuni periodi, che non è dato d’intendere senza il contesto di tutto l’Antidühring. a

Des Rapports entre Proudhon et K. Marx, p. 29. Je note, en passant, que M. Rouanet ne connaissait de K. Marx que le Manifeste du parti communiste et le Capital: et encore n’avait-il qu’une idée bien imparfaite des théories économiques renfermées dans ce b

dernier livre. a Un seul pays me semble avoir le droit de revendiquer une place exceptionnelle dans notre civilisation moderne: c’est l’Italie, la patrie commune des esprits libres et cultivés. a «Revue socialiste», Mai 1887, p. 400. a

M. PETRONE est libero docente à l’Université de Rome. Il a écrit sur le livre de M. Labriola un compte-rendu critique for intéressant dans la «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie» (Quatrième année, vol. XI, pp. 551-560). b Des rapports entre Proudhon et K. Marx, p. 25. a

«Journal des Débats», 1er Mai 1896. Capital, trad. franç. p. 28. Ceci est dit par Marx à propos de la marchandise. c Ludwig Feuerbach et la fin de la philosophie classique allemande, traduit dans l’«Ère nouvelle», Mai b

1894, p. 14. a M. Petrone accorde cela sans la moindre difficulté. M. J. Bourdeau dit, de son côte, que les thèses de Marx éclairent l’histoire d’un nouveau jour («Débats», 13 Octobre 1896). a Sur l’éxtrème importance de la morale dans les philosophies socialistes lire les belles observations de M. B. CROCE: Sulla concezione materialistica della Storia («Atti dell’Accademia Pontaniana», vol. XXVI 1896). a «Revue socialiste», Juin 1887, p. 591. b

Lettre sur le programme de Gotha («Revue d’économie politique», 1894, p. 758). Le texte allemand a

paru dans la «Neue Zeit», neuvième année, vol. I, fascicule 18, pp. 560-575). c Ce paradoxe a été publié dans la «Jeunesse socialiste» de Janvier 1895 sous le titre: Idéalisme de l’histoire. Lire, dans le numéro de Février, la vive réplique de M. Lafargue.

Sezione sesta

SULLA LIBERTÀ DEL SAPERE

Pur non distanziandosi molto fra loro sul piano cronologico, i testi qui raccolti riflettono momenti diversi della produzione labrioliana, sia sotto il profilo biografico e intellettuale che sotto quello politico. Ciò che ha spinto ad affiancarli in una sezione del volume che vuole testimoniare una riflessione non accessoria rispetto a quella dei Saggi e dei successivi corsi di Filosofia della storia, ma strettamente connessa nei presupposti e nel comune sforzo di analisi della condizione italiana, è il profondo senso della libertà del sapere che li accomuna: valore che trova il suo riferimento principale nella funzione civile dell’Università e nella responsabilità, che ne consegue, di rendere accessibile a tutti un sapere libero e pubblico, adeguato alla costituzione finalmente moderna dello Stato unitario. Primo in ordine cronologico, il messaggio del 1888 al Comitato pisano per la commemorazione di Bruno risale ad una stagione di grande entusiasmo in Italia intorno alla celebrazione del Nolano e ai suoi risvolti anticlericali. Labriola, che tenta negli stessi anni di affermarsi politicamente all’interno del movimento democratico-radicale, è chiamato a prendervi parte proprio mentre infuria la polemica sul monumento da erigere in Campo de’ Fiori (la concessione del sito, negata dal Comune di Roma ancora all’inizio del 1888, sarà accordata solo in dicembre dalla nuova Amministrazione). Consapevole del «momento politico», egli non si sottrae, accettando di farsi «oratore bruniano e antivaticano» (cfr. Carteggio, II, p. 506). Ciononostante si rivela attento a non ridurre l’esigenza di uno studio scientifico della figura e del pensiero di Bruno all’opportunità politica di quelle celebrazioni, importanti, se non altro, per ribadire l’impossibilità di qualsiasi conciliazione con la Chiesa (si ricordi la conferenza del giugno 1887 alla Sapienza). È molto probabile che il primo contatto con l’opera di Bruno risalga agli anni delle lezioni spaventiane. Un passo, probabilmente espunto dalla versione definitiva del saggio su Spinoza (vedi infra, nota 15, p. 1728), testimonia un ruolo non secondario di alcuni concetti bruniani nella comprensione del rapporto fra natura naturata e natura naturante, e costituisce la prima attestazione di quel legame Bruno-Spinoza che Labriola riproporrà più volte, sebbene svincolato dalla lettura “prefigurativa” e lineare di Spaventa. Tuttavia, se si escludono alcuni cenni d’interesse per l’edizione nazionale delle opere latine promossa da De Sanctis e realizzata sotto la guida di Fiorentino (cfr. Carteggio, I, p. 638; II, pp. 193, 202), l’approccio labrioliano a Bruno alla metà degli anni Ottanta risulta ancora piuttosto tiepido, forse a causa del «colore troppo radicale» – descrive così a Jhering, nel dicembre 1884, il comitato romano per la creazione del monumento nella Capitale (Carteggio, II, p. 201) – dei gruppi più impegnati nella celebrazione del Nolano.

La situazione cambia nettamente dopo l’avvicinamento ai radicali, che prelude al risveglio, nel biennio 1887-1888, dell’attenzione per l’opera e per la vicenda biografica di Bruno: attenzione certamente in linea con le nuove posizioni politiche, ma da subito espressione di un interesse specifico e storicizzante, cauto nei confronti dei vari “precorrimenti” ancora individuati da molti contemporanei, e decisamente critico di quella tendenza al «pontificale materialistico» propria della retorica positivistica (la citazione si riferisce al giudizio espresso su una conferenza del 1888 di Enrico Morselli, direttore della «Rivista di filosofia scientifica», cfr. Carteggio, II, p. 430). Ma è una stagione intensa quanto breve. Le conferenze sul «Destino storico di Bruno», tenute nell’ambito del corso di Filosofia della storia per l’anno accademico 1899-1900, interrompono infatti un silenzio durato oltre un decennio, corrispondente agli anni della rottura con i radicali e dell’adesione al socialismo scientifico. Il terzo centenario del rogo del Nolano è celebrato, del resto, in un contesto profondamente mutato rispetto a quello di fine anni Ottanta: di minor clamore intorno alla figura di Bruno ma anche di generale “reflusso” rispetto al primato della scienza e all’urgenza di quel processo di modernizzazione della società italiana per cui Labriola, da posizioni autonome e spesso polemiche, si era speso al pari di altri negli anni precedenti. È un clima che la produzione e la corrispondenza dell’ultimo Labriola riflettono bene, ma cui già allude il discorso alla Sapienza del novembre 1896: qui un forte motivo di speranza è dato dalla capacità dell’Università di generare spontaneamente la propria libertà a muovere dalla scienza e dalla costituzione stessa della società moderna. Ad esso si unisce la consapevolezza del contributo che la vita universitaria già offre al futuro della nazione, consentendo ad una nuova generazione d’italiani, per quanto privilegiati, di vivere una prima reale esperienza di democrazia.

Al comitato per la commemorazione di G. Bruno in Pisa riproduce il testo della lettera aperta del 27 aprile 1888 pubblicata in opuscolo dalla Tipografia Aldina di Roma e apparsa sul primo numero del «Corriere artistico-teatraleletterario» (23 maggio 1888), diretto da Ernesto Achille Rimola (cfr. Carteggio, II, p. 442). Invitato pubblicamente dagli studenti del Comitato per le Onoranze a Giordano Bruno di Pisa a prendere parte alle celebrazioni in programma per la primavera del 1888 (cfr. Gli studenti di Pisa e il professore Labriola, in «La Tribuna», 4 marzo 1888), Labriola rispose con un telegramma ed una lettera in cui, pur dichiarando di non essere un «cultore speciale della filosofia del

cinquecento», accettava l’incarico «per sentimento di dovere», consapevole – secondo la definizione usata dagli stessi studenti – del proprio ruolo di «insegnante la libera scienza del pensiero nella città ove Bruno fu arso» (cfr. Carteggio, II, pp. 430-431). Come suggeriscono l’incipit, con la volontà di non turbare con «personali considerazioni» la cerimonia indetta «dopo tanti contrasti e dopo tanto indugio» per il 29 aprile, e i successivi riferimenti nel testo («Alla libertà del pensiero e della parola io ci tengo…»), la scelta di non prendere parte all’evento fu infine dettata dall’emergere di alcuni contrasti in seno alla compagine studentesca e al venir meno e del «consiglio» dei colleghi, probabilmente condizionati dall’esplicito proposito labrioliano di tenere un «discorso politico». È per l’appunto intorno al significato civile delle celebrazioni bruniane, e del ruolo che al suo interno è chiamata a svolgere l’Università, che fa riferimento la prima parte del testo, teso anzitutto a distinguere la propria portata “politica”, perché interessata alle «idee direttive dello spirito nazionale», da quell’«arte di fare e disfare i ministri» che pare preoccupare così tanto il «corto ingegno» di molti italiani. Si tratta piuttosto di comunicare il senso dell’«alta e nobile missione» di quanti – Labriola allude evidentemente al proprio ruolo – incarnano l’idea dello Stato moderno «entro Roma», cioè nella «sede della cattolicità», facendosi «combattenti per la libertà della coscienza e del pensiero». Lo scenario descritto dall’autore, in questo senso, è quello di un conflitto ancora vivissimo. Il «gran moto» intorno alla figura di Bruno documenta, per un verso, quanto sia «potente» nella coscienza dei giovani il «pensiero antichiesastico», ma per l’altro, non consente di ignorare i «nuovi pericoli» costituiti dal permanere delle masse nell’ignoranza, dal nuovo affiatamento della parte clericale e soprattutto dalla tentazione diffusa in alcuni ambienti di «rallentare l’impulso del progresso», accettando accordi e compromess» con la Chiesa. L’avanzamento dello Stato unitario sulla sulle «vie del progresso» e la reale emancipazione dei suoi cittadini dal «tradizionale servaggio» non potranno dirsi al sicuro finché l’autorità della Chiesa non sia ridotta al punto tale di non avere «né forza, né potestà» per contendere allo Stato «alcuno degli uffici di pubblico educatore». Il monumento di Campo de’ Fiori – a quella data ancora oggetto di forti tensioni: la statua di Ettore Ferrari, poco apprezzata da Labriola, sarà inaugurata l’8 giugno 1889 – dovrà pertanto servire da espiazione per l’«ignavia» di ieri ma soprattutto da «simbolo alle moltitudini» d’oggi: monito per il Vaticano e per i «fautori della conciliazione» che «i tempi di Bruno non debbono tornare». La seconda parte dello scritto (dopo il consueto rigo bianco d’interruzione), segna una netta discontinuità nei contenuti. Condensando gli spunti critici

raccolti forse in vista di una partecipazione diretta alla commemorazione di Pisa, e menzionando i più aggiornati fra gli studi europei su Bruno, Labriola si sofferma sulle lacune che ancora gravano sulla ricostruzione del profilo del Nolano, a cominciare dall’impossibilità di entrare in possesso delle fonti relative al processo negate dalle autorità ecclesiastiche. In questo senso, se i «tentativi poetici» condotti da alcuni tratteggiano «l’eroe d’una novella o d’un romanzo», la ricostruzione dei pochi «casi esteriori» accertati fornisce un’immagine ancora parziale, da cui si ricavano solo alcuni punti fermi: il primato della verità filosofica che spinse Bruno a farsi «araldo di nuove idee» contro tutte le ortodossie religiose, spezzando le catene della scolastica e rompendo con ogni tradizione; il suo «entusiasmo» nel tracciare «una poetica rappresentazione dell’ordine universale delle cose» che si contrappone alla «vecchia fisica» e al «cielo di Dante», offrendo «già il sentimento della nuova esperienza» copernicana; la continuità con la tradizione umanistica, «nel senso più italiano nella parola», nell’affermare la superiorità dell’etica naturale razionale sulla rivelazione; l’impossibilità di conciliare i «sentimenti e pensieri suoi» con gli ordinamenti politici del tempo, che ne fa un personaggio tragico, «imperterrito e fatale», come l’Amleto di Shakespeare. Quanto al tentativo di «distrarlo dai tempi suoi», attribuendo al Nolano un’anticipazione di tutto il pensiero moderno che vada oltre il riconoscimento del «plagio» e della «fantastica ammirazione» con cui in Germania idealismo e monismo hanno guardato alla sua filosofia – il tributo a Spaventa, «conoscitore esatto e coscenzioso espositore», maschera con eleganza le ragioni di un sostanziale dissenso –, l’autore non esita a definirlo un «gran torto alla memoria veramente storica di Bruno».

Giordano Bruno nella ricorrenza del 3° centenario dell’arsione in Campo de’ Fiori riproduce, nella trascrizione fornitane da Stefano Miccolis e Alessandro Savorelli (A. LABRIOLA, Giordano Bruno. Scritti editi e inediti (1888-1900), Bibliopolis, Napoli 2008, pp. 121-127) e con la sola integrazione della citazione dal De Monade già inclusa a suo tempo da Croce e qui giustificata nelle note al testo, il manoscritto conservato nel “Fondo Dal Pane” (ms. 18.1) recante la redazione stenografica ad opera di un ascoltatore della lezione pubblica tenuta da Labriola nel cortile della Sapienza il 16 febbraio 1900. Annotato da Croce, che vi appose anche il titolo, esso fu pubblicato con alcune modifiche e con l’integrazione di alcuni stralci degli appunti labrioliani relativi alla successiva lezione del 2 marzo – fra febbraio e marzo 1900, nell’ambito del corso annuale di Filosofia della storia, Labriola realizzò una serie di “lezioni straordinarie” sul

«Destino storico di Giordano Bruno» ovvero sull’«urto fatale e tragico della nuova concezione del mondo e della vita con la tradizione» (cfr. mss. 11.4, 5, 7 del “Fondo Dal Pane”) – nel volume di Scritti varii (pp. 406-422). Della lezione del 16 febbraio è noto anche il manoscritto autografo degli appunti preparatori (ms. 11.4), edito da Miccolis e Savorelli, che, confrontato con la redazione stenografica, offre un’interessante testimonianza sulla preparazione e l’effettivo svolgimento delle lezioni labrioliane. Dopo essersi spinto, nel febbraio 1888, ad impegnarsi con Croce per una «critica delle fonti della vita» (Carteggio, II, p. 426), mai realizzata, l’interesse di Labriola per Bruno, così vivo all’inizio della seconda metà degli anni Ottanta, pare spegnersi dopo il 1889, in corrispondenza della svolta politica che lo allontana definitivamente dall’area democratico-radicale, ma anche del progressivo affievolirsi dello scontro ideologico dopo l’inaugurazione del monumento nella Capitale il 9 giugno 1889. L’ultima testimonianza, in questo senso, è l’articolo anonimo apparso il 23 giugno dello stesso anno sul periodico anticlericale «Satana», sotto il titolo redazionale Echi delle feste bruniane. La nota radicale dell’ultimo banchetto e contenente il resoconto – che Miccolis e Savorelli attribuiscono con validi argomenti alla mano dello stesso Labriola, cfr. A. LABRIOLA, Giordano Bruno. Scritti editi e inediti (1888-1900) cit., pp. 45-48 – dell’intervento tenuto dal filosofo in occasione di uno dei banchetti celebrativi che seguirono l’inaugurazione del monumento. Fra le poche occorrenze nella produzione degli anni Novanta, il nome del Nolano ricorre tre volte nel Discorrendo: nel primo caso è associato genericamente al nome di Platone e Galileo, negli altri due a quello di Spinoza – in polemica con Sorel sull’agnosticismo e a proposito della conciliazione dialettica degli opposti –, a confermare il legame con l’autore dell’Etica già sostenuto in gioventù, ma anche il venir meno di un interesse specifico come quello mostrato invece fra il 1887 ed il 1888. Nel frattempo, però, proprio il terzo saggio attesta la novità più importante nelle premesse della lettura labrioliana di Bruno: la chiara presa di coscienza della dinamica ideologica con cui la borghesia italiana, nell’impossibilità di rinunciare ai più contraddittori fra i suoi «simboli», da un lato si professa atea e materialista servendosi in questo senso di una certa immagine di Bruno, dall’altro cerca a più riprese compromessi con la Chiesa (vedi supra, pp. 1500-1501). Di questa lucida analisi del conflitto interno alla società italiana un’eco significativa è già nel discorso sull’Università del novembre 1896, dove l’autore pare quasi ribaltare la prospettiva consueta, richiamando l’attenzione sul «monumento dei vinti» – l’apertura della Chiesa alla scienza simboleggiata dall’osservatorio della “Specola” – piuttosto che su quello eretto dai «vincitori»

in Campo de’ Fiori. Ma una testimonianza ancor più significativa in relazione all’uso strumentale che di Bruno fa la borghesia è già nell’importante lettera ad Engels del 3 aprile 1890, in cui dei «liberali e radicali […] che sognano tanto volentieri di Giordano Bruno nelle logge massoniche» si afferma che «solo la proprietà è per loro sacra, soltanto i ministri borghesi, la banca e il militarismo sono per loro inviolabili!» (Carteggio, III, p. 28). Alla luce di queste premesse, è bene guardare alla lezione pubblica del 16 febbraio 1900 senza farsi condizionare unicamente dagli elementi riconducibili al carattere d’occasione – negli appunti relativi alle successive lezioni Labriola allude ad una particolare atmosfera o «Stimmung del centenario» – della conferenza, che, per ammissione stessa dell’autore, rischia di perdere il «carattere della lezione» (cfr. Giordano Bruno. Scritti editi e inediti cit., pp. 63 e 88). L’attenzione dell’autore risulta ancora una volta concentrata sulla ricostruzione storica, frutto di un lavoro teso a far interagire fra loro le fonti, che deriva da uno studio aggiornato, anche se non sempre dichiarato, della critica bruniana più recente. A differenza dello scritto del 1888, Labriola si sofferma maggiormente sulla biografia: la lettura della sentenza e la drammatica giornata del 16 febbraio, ma anche le fasi iniziali del processo, con l’arresto di Bruno a Venezia e la sua iniziale disponibilità ad una soluzione di compromesso. La rievocazione biografica fa tutt’uno, però, con la realtà storica di un conflitto che il processo e la morte di Bruno rinnovano nella modernità, attraverso il tentativo negazionista di documentare un rogo “in effigie” del Nolano o quello del «polemista» Leone XIII di giustificare quella morte, sconfessando così l’altra versione dei fatti, fatta circolare dal Desdouits. Agli episodi della vita di Bruno si intrecciano pertanto le allusioni polemiche alla corruzione della Chiesa e alle sue contraddizioni, culminanti con l’accusa di aver rinviato l’esecuzione di Bruno fino alla celebrazione dell’Anno Santo, così da farne un macabro spettacolo di forza per le folle accorse a Roma in occasione del giubileo. Il processo risulta d’altro canto avvolto nel «mistero»: un’operazione costruita ad arte, calata dell’alto della Curia romana che arroga a sé il procedimento e in cui si distingue l’astuzia perversa dello «scaltrissimo Bellarmino», pronto ad inventare nuovi capi d’accusa pur di giungere alla condanna. Torna con insistenza, a questo proposito, l’appello a rendere disponibili i documenti del processo, ma a differenza del testo del 1888, in cui l’importanza di questa fonte era direttamente connessa all’esigenza critica di colmare le numerose lacune sulla vicenda del Nolano, l’invito all’autorità ecclesiastica ha qui soprattutto il carattere di una sfida provocatoria ad assumersi la responsabilità storica

dell’accaduto. La responsabilità sull’occultamento della verità, tuttavia, non è esclusiva della Chiesa: quello che preme notare – insiste Labriola – è il «silenzio profondo» che si fece allora intorno alla persona di Bruno. Emerge in questo modo il senso autentico dell’operazione labrioliana, per la quale l’accertamento dei fatti non ha solo come scopo il ristabilimento della verità sulla «tragedia esterna del processo», ma l’acquisizione e la diffusione di una consapevolezza storica più profonda – gli appunti delle successive lezioni parlano di «fissazione di un momento storico» (cfr. Giordano Bruno. Scritti editi e inediti cit., p. 64) –, in cui Bruno, anche attraverso il proprio destino tragico, assume il ruolo di simbolo della condizione moderna. Egli è «il precursore filosofico della scienza moderna», colui che, pur nella relativa penuria di strumenti scientifici, oppone all’autorità della Chiesa Romana e di ogni religione che si professi sola detentrice della verità sul mondo, «tutto lo spirito e tutto il bisogno della scienza moderna». A questo livello della ricostruzione, le stesse riserve sulla possibilità di porre il pensiero di Bruno in collegamento con la filosofia successiva sembrano quasi passare in secondo piano: al consueto legame con Spinoza, si aggiunge così quello con l’idealismo tedesco e con Hegel, «ultimo suo scolaro» (gli appunti manoscritti estendono questo legame a Leibniz, Darwin e Marx, cfr. Giordano Bruno. Scritti editi e inediti cit., p. 62). Un ultimo aspetto, solo accennato nel redazione stenografica della prima conferenza ma richiamato più esplicitamente negli appunti manoscritti della stessa lezione e di quelle successive, emerge dalle battute finali del testo, dove Labriola parla del rispetto per il proprio «convincimento» come unico criterio nell’esercizio del «professore di filosofia». Si tratta del profondo legame che l’autore intuisce fra la modernità e la costituzione dell’Università pubblica come luogo di una ricerca libera e laica, in cui la scienza moderna possa vedere finalmente riconosciuto il proprio primato: «Bruno non cercava che l’Università dove insegnare», quella stessa – concludeva Labriola – dove «io modesto insegnante di filosofia posso fare senza sforzo quello che un titano del pensiero non poté fare» (cfr. Giordano Bruno. Scritti editi e inediti cit., pp. 58 e 87).

Il testo de L’Università e la libertà della scienza riproduce quello dell’unica edizione apparsa essendo in vita l’autore per la tipografia Veraldi di Napoli, alla fine di dicembre del 1897. La scelta di un semplice tipografo piuttosto che un editore più rinomato si spiega con la singolare vicenda di cui l’opuscolo fu protagonista a seguito delle reazioni suscitate dal testo che Labriola pronunciò alla Sapienza il 14 novembre 1896. Incaricato nell’aprile del 1896 di tenere il consueto discorso per la ripresa

delle attività accademiche nell’autunno successivo, Labriola ebbe da subito il sentore di possibili «rumori» per la «supposizione» di suoi eventuali affondi politici e decise pertanto di riprendere nel proprio intervento la «vecchia tesi della “Laurea in filosofia”», adattandola ad una trattazione della «Filosofia nella Università moderna» (cfr. Carteggio, IV, p. 44). La tesi relativa alla possibilità di scorporare la laurea in Filosofia da un corso di studi esclusivamente letterario, consentendo di conseguire il titolo anche a studenti di altre discipline che avessero ottemperato a determinati studi, era stata oggetto della relazione tenuta da Labriola al primo Congresso nazionale dei professori universitari, nel settembre del 1887, preceduta in luglio da una lettera apparsa sul quotidiano «La Tribuna» (il testo della relazione, comprendente al suo interno la lettera aperta, figura, con alcune piccole varianti rispetto alle versioni apparse sulla stampa nel 1887, come Appendice I al discorso). La stesura non ebbe inizio prima del 27 ottobre e si concluse solo l’8 novembre, a pochi giorni dalla data stabilita per la lettura pubblica (Carteggio, IV, pp. 214, 216). Le reazioni al discorso furono da subito molto accese, costringendo l’autore a prendere l’iniziativa. Scrivendo il 26 novembre al Rettore, Gaetano Semeraro, Labriola incolpò la stampa del «gran putiferio» e rigettò come «malignazioni» le accuse rivoltegli di vilipendio alle istituzioni e al ministro, di propaganda socialista e anticlericale, e di incitamento degli studenti (Ibidem, pp. 222-223). Insistendo perché gli fosse riconosciuto il diritto della «difesa testuale», ma intuendo il rifiuto che il Consiglio accademico avrebbe opposto alla pubblicazione del discorso negli «Atti» (era giunta nel frattempo all’autore anche l’ammonizione ufficiale del ministro Gianturco), chiese in via del tutto eccezionale la possibilità di pubblicarlo privatamente, «disimpegnando» in questo modo l’Università e confidando a Croce di essere pronto, nell’eventualità peggiore, alle dimissioni (Ibidem, p. 224). Il testo, corredato di numerosi segni di censura, fu restituito all’autore con l’invito a «correggere» o a disporre privatamente del testo assumendosi «ogni responsabilità». La scelta di Labriola fu naturalmente di non concedere nulla sul piano dei contenuti e di far pubblicare a Croce il testo «come semplice documento letterario» (Ibidem, p. 233), con poche note essenziali, preceduto da una prefazione in forma di «letterina secca secca» e con l’aggiunta, insieme alla relazione del 1887, di alcuni estratti dalla stampa tedesca (Ibidem, pp. 234, 238): una sua lettera ai giovani socialisti tedeschi apparsa due anni prima su «Der sozialistische Akademiker» (gennaio 1895) ed il resoconto di una conferenza sulla libertà d’insegnamento (gennaio 1896) pubblicata su un Supplemento (Beilage) dell’«Allgemeine Zeitung» (vedi Appendice II). L’edizione italiana non riscosse particolare successo (cfr. Carteggio, IV, p.

354). Nel frattempo, però, il discorso era apparso in traduzione francese su «Le Devenir social» (gennaio 1897, pp. 40-64) ed alcuni brani erano stati pubblicati in tedesco sull’«Academische Revue» (marzo 1897, pp. 321-332) e su «Die Zukunft» (27 marzo 1897, pp. 582-595). Il testo risulta al solito suddiviso in paragrafi non numerati e separati dall’inserzione un rigo bianco, ma nella veste editoriale voluta da Croce si dota di brevi titoli riportati nel margine laterale della pagina (qui riportati in corsivo in capo ai rispettivi paragrafi) in corrispondenza dell’inizio di ciascun paragrafo. Dopo un preambolo volto a giustificare il carattere non specialistico del discorso con l’intenzione di affrontare temi utili all’intera Università, l’autore si sofferma sulla «profonda crisi» che contraddistingue gli studi filosofici. Oggetto di due «gravissimi pregiudizii», che fanno dei cultori della filosofia semplici «continuatori dell’Umanismo» e presunti restauratori di un «sommo ed imperiale magistero su l’universo scibile», la Facoltà filosofica ha invece conosciuto in anni recenti una trasformazione analoga a quella di altre discipline, che l’ha resa «prossima a diventare una scuola», se non addirittura insieme di «tante scuole di specialisti e ricercatori». La parentesi autobiografica che segue offre alcuni spunti preziosi: accanto ai due grandi filoni del materialismo storico e della psicologia empirica in cui, parallelamente all’analisi comparata delle istituzioni, dei miti e dei linguaggi, è definitivamente acquisita la necessità del “positivo” (troppo spesso confuso con il positivismo), ossia dell’«immanenza del pensiero nel realmente saputo», Labriola non manca di segnalare anche «filosofie di privato uso ed invenzione» come quella di Nietzsche (è la sola menzione diretta riscontrabile negli scritti a stampa, ripresa poi nel Discorrendo) e di Hartmann. S’inserisce a questo proposito la ripresa della proposta sulla laurea in filosofia avanzata dieci anni prima, che sola consentirebbe agli studi filosofici di uscire dal loro isolamento «extrascientifico», superando il legame esclusivo con la filologia e divenendo «facoltativo complemento di coltura» per gli studiosi di qualunque disciplina. I paragrafi successivi s’inoltrano sul terreno specifico della realtà universitaria, facendo leva sulla «coscienza dell’interesse collettivo» che dovrebbe animare il corpo docente, nella consapevolezza del valore dell’Università come «servizio» nell’interesse di tutti, indipendentemente dagli interessi di classe che trovano invece espressione nel governo della società. All’apprezzamento di alcuni aspetti positivi propri dell’ordinamento universitario italiano – l’accessibilità agli studi per le donne e il carattere pubblico e democratico dell’insegnamento, frutto della soppressione delle facoltà teologiche rivelatasi positiva per la Chiesa stessa (si cita a questo riguardo il prestigio della Specola Vaticana, definita per «ironia della storia» il

«più vero monumento all’araldo e martire Giordano Bruno») – segue la segnalazione della «grave magagna» legata alla necessità di separare l’attività didattica e scientifica dal conferimento di titoli pubblici, abilitanti alle professioni, fonte di incomprensioni e scontri fra l’istituzione e gli studenti, di cui Labriola tende ripetutamente a ridimensionare la portata ad espressione di un «indeterminato sentimento di disagio». Entrato gradualmente «nel bel mezzo delle cose», il discorso affronta ora il nodo cruciale della libertà scientifica. Dopo aver sottolineato l’irreversibilità dell’apertura alla scienza moderna («i lumi furono accesi da per tutto; e il mondo non torna più indietro») – il cambiamento rispetto alla lettera al Comitato bruniano di Pisa del 1888, in cui si scongiurava il ritorno dei «tempi di Bruno», è evidente –, e quindi il carattere anacronistico di un’eventuale «crociata contro l’oscurantismo», la «libertà incondizionata della ricerca» è posta come dato spontaneo, esito naturale dell’incontro tra i «caratteri intrinseci della scienza moderna» e le «necessità di ordine sociale» che inducono a conferire un ordinamento legale agli studi e all’insegnamento (funzione che l’autore dimostra in più occasioni di concepire anzitutto come capacità di autoregolazione e controllo dell’Università stessa). A ben vedere, tuttavia, l’approccio labrioliano è tanto conciliante nei toni quanto irremovibile nell’affermare il carattere intrinseco della libertà del sapere alla vita sociale moderna di cui l’Università stessa è «un riflesso ed un risultato». In tempi così «ordinarii e tiepidi» da far risultare risibili le paure di un «terrore rosso» o «bianco», e tanto più i timori che la fonte dei disordini possa venire dall’Università e dai suoi studenti – «i professori non dispongono di alcuna leva per muovere a posta loro la società» e nondimeno non possono essere sottoposti nel loro esercizio scientifico ad un’autorità esterna, alla stregua di qualsiasi «impiegato» –, qualunque ordinamento o disposizione di Governo – pur non nominandolo, Labriola allude chiaramente ai provvedimenti eccezionali del 1894 varati dal Governo Crispi – dovrà comunque arrestarsi di fronte all’«incontrastabile principio» che «non c’è modo di stabilire limiti preconcetti e presegnati allo sviluppo dell’attività scientifica». In questo senso, il fatto che un professore possa avere idee proprie ed esprimere posizioni di parte (il riferimento evidentemente personale alle idee socialiste e ai «principii del materialismo storico» è assunto come caso particolare di un principio generale), a meno di abusi evidenti su cui l’autore ironizza («li affiderei senz’altro alle oneste cure del Direttore del Manicomio»), è «cosa intrinseca all’insegnamento stesso», capace di incidere direttamente sull’«orientazione scientifica». La conclusione rivolta agli studenti è un invito allo studio e alla «discussione» nei limiti imposti dall’apprendimento («la scienza è lavoro e il lavoro non è

improvvisazione»), premessa indispensabile per consentire all’Italia di «progredire materialmente, moralmente, intellettualmente»; ma è soprattutto l’occasione per ribadire il valore dell’educazione universitaria alla «ricerca disinteressata e libera della verità»: gli anni dell’Università trascorsi nella «liberale convivenza» con giovani «d’ogni parte d’Italia, e di qualunque condizione sociale – assicura Labriola agli studenti – saranno ricordati un giorno da loro come «i soli […] vissuti in democrazia».

AL COMITATO PER LA COMMEMORAZIONE DI G. BRUNO IN PISA LETTERA DEL PROF. ANTONIO LABRIOLA [1888]

Crederei di recare offesa all’animo ed all’ingegno vostro, se per poco turbassi con personali considerazioni l’onesta e doverosa cerimonia, che pur finalmente, dopo tanti contrasti e dopo tanto indugio, vi riuscirà di solennizzare domenica prossima. Mi permetterete però di rendervi nuovamente grazie dell’immeritato onore che mi faceste, invitandomi, non una ma più volte, a parlare di Giordano Bruno in mezzo a voi, e di darvi, con questa lettera, pubblica testimonianza del rincrescimento che sento in me vivissimo, per non aver potuto secondare il desiderio vostro. Delle ragioni che m’indussero a ritirare la promessa, voi vi siete mostrati paghi per bontà vostra; e ciò mi basta, perché io mi tenga in buona parte per iscusato1. Alla libertà del pensiero e della parola io ci tengo, come alla condizione prima ed essenziale dell’ufficio che occupo e delle discipline che insegno, e non consentirò mai me ne sia tolta parte alcuna, né da prescrizioni, né da raccomandazioni altrui. Dovetti però rinunciare al proposito di darne saggio e di farne prova proprio a Pisa in questa occasione, perché, venutomi meno l’aiuto ed il consiglio dei colleghi, e per le voci, forse inesatte e certamente esagerate, che eran corse di dissensi sorti fra gli studenti, io mi trovavo a fare questa ingrata parte, che ricercato dapprima con tanta premura, avessi poi l’aria di ricercatore di assenso e di plauso. O che io abbia avuto torto a dire, e a fare intendere, che avrei tenuto un discorso politico? E che sia poi davvero molta in Italia la gente di così corto ingegno, che in questa parola non legge altro se non l’arte di fare e disfare i ministri, e non vi trova invece il compendio di tutte le idee direttive dello spirito nazionale, non esclusa la scienza, in molta parte dei suoi elementi più vivi? Le cagioni invero assai piccole, che dividono ora gli animi e l’inducono a seguire un vario indirizzo nell’angusto agone parlamentare, son cosa di assai piccolo momento a fronte dell’alta e nobile missione, che c’è imposta dal trovarci con le idee dello stato moderno entro Roma, sede della cattolicità, dove non possiamo rimanere, se non come combattenti per la libertà della coscienza e del pensiero, in tutto il largo campo dei pubblici ordinamenti, e della nuova coltura che dobbiamo portare nelle moltitudini. I nomi di monarchici e di radicali, di moderati e di progressisti, quando non si voglia proprio intendere di nemici della patria, o di stolidi ripetitori di concetti privi di ogni senso pratico, non devono né possono mai entrare in campo, quante volte si tratti dell’idea generale per cui la nazione è risorta in nuova forma di Stato. Perché, a tenerla in vita, e a spingerla sicura per le vie del progresso, occorre che gli animi dei cittadini siano emancipati per davvero dal tradizionale servaggio in cui gli ha messi la Chiesa, e che questa sia ridotta in termini tali da non avere né forza, né potestà da contendere allo Stato alcuno degli uffici di pubblico educatore.

Eleveremo per ciò il monumento a Giordano Bruno in Campo di Fiori, in atto di espiazione delle colpe dei nostri avi, la cui morale ignavia fu cagione del nostro ritardato progresso politico, perché serva come da simbolo alle moltitudini della libertà di coscienza, che avranno col tempo viva e potente, quando cresceranno di coltura, e perché sia monito salutare a tutti gli abili e a tutti i tiepidi, che parlano di conciliazione senza arrossire2. La nobile generazione che ci ha ridata la patria, e con la patria gli ordini di libertà promettitori di progresso, non intese mai che l’acquisto di Roma potesse soltanto significare aggiunzione di nuovo territorio alla signoria di un principe, e che il principato, rifatto tutto di novella vita per autorità di plebisciti, potesse mai tornare su le vie del passato. Nell’idea della nazione risorta, l’indefinito progresso delle istituzioni, la pieghevolezza degli ordinamenti pubblici ad ogni nuovo bisogno di radicali riforme, e la libertà di coscienza, fanno tutt’uno; e non è chi possa attentare senza pericolo alla fede su cui questa idea si regge. Il gran moto che è nato in Italia intorno al nome di Giordano Bruno, e le solenni commemorazioni che ne furono fatte con tanta concordia di sentimenti, sono segno sicuro di quanto sia potente nell’animo dei giovani il pensiero antichiesastico, ma anche di quanta apprensione siano ingombre le loro menti, per certi malaugurati segni di nuovi pericoli. Mentre le moltitudini, per l’ignoranza che le opprime, di poco si son mosse dagli abiti della tradizionale superstizione, e la parte clericale si mostra già notevolmente agguerrita, è sorto in non pochi il pensiero, che lo Stato provvederebbe meglio alla sua sorte e alla sua conservazione, a rallentare l’impulso del progresso, entrando in accordi e compromessi con le forze e con l’idee contro le quali la rivoluzione s’era levata. Per ciò appunto queste commemorazioni, che in tempi più lieti sarebbero parse atti di menti tranquille, che facciano la rassegna del passato, perché sicure del presente, han preso forma e carattere di acuta protesta, e la punta contro del Vaticano v’è apparsa più evidente. In Vaticano se ne pigliano, come di antigiubileo, di antisillabo e di anticoncilio, ma se mai anche di più i fautori della conciliazione, perché, con questa così viva e larga manifestazione nazionale per il monumento a Bruno3, si vuol dire, che i tempi di Bruno non debbono tornare: quei tempi in cui gli abili oppressero i forti e gli animosi, e gli accorti e i furbi, per sentimento di comodo di viltà, dopo la rinascenza e dopo la riforma si ridussero in cieco servaggio della chiesa e della reazione. La tragedia di Bruno s’è rifatta viva nelle nostre menti, perché molte delle cause che la determinarono appariscono forti e paurose sotto gli occhi nostri, e molti dei vizi e delle corruttele che la produssero, sono pur troppo i vizi e le corruttele del nostro paese, che fanno gli animi inclinati a cedere ad ogni vento che spiri.

Se è vero che non di solo pane vive l’uomo, nella crescente prosperità materiale del nostro paese, facciamo pure di non dimenticare le idee, per le quali siamo risorti, e senza delle quali non possiamo continuare l’opera civile di uno stato libero e progressivo. Non avevo in animo di raccontarvi con nuovi colori e tinte la vita di Bruno, che fu ultimamente narrata da tanti. Di lui non abbiamo lettere, né se ne serba che gli siano state scritte. Rimangono inaccessibili a me, come rimasero a tanti altri, gli archivi del Sant’Uffizio, ove la lettura del processo ci aiuterebbe forse a intenderne meglio l’indole, e sotto certi aspetti anche le dottrine4. Nulla avrei potuto perciò aggiungere a quello che ne dissero il Bartholmèss, il Berti, il Brunnhofer e il Sigwart, per tacere dei minuti opuscoli d’occasione5. Nei tentativi poetici del Falcson, dello Scheffer e del Plumptree non ho molta fiducia, perché di un uomo, la cui vita è tutta nel pensiero, e il cui carattere è tutto nell’entusiasmo della verità, non c’è modo di farne, senza molta inverosimiglianza, l’eroe d’una novella o d’un romanzo6. I casi esteriori che furono oramai accertati, per quanto varii e singolari, non ce ne mostrano la figura in molti aspetti ed attinenze della vita intima. Errò per l’Europa quale araldo di nuove idee, e fu dappertutto alle prese colle varie ortodossie, nelle quali, o per moto di popoli, o per innovazione di pensiero, o per ambizione di principi s’era infranta la grande unità del mondo latino medioevale. Tenne la verità filosofica per superiore ad ogni religione, e questa volle ridotta alla educazione delle moltitudini negli abiti morali; ma ai sentimenti e pensieri suoi non rispondeva nessuno degli ordinamenti politici del tempo, e tutti lo respinsero, come quelli che erano incapaci di reggere al concetto della tolleranza. Alla sua alta mente di filosofo speculativo, corrente allo entusiasmo di una poetica rappresentazione dell’ordine universale delle cose, sfuggiron sempre le ragioni politiche delle difficoltà in cui dette di cozzo; cosicché l’animo suo è tutto un’alta tragedia d’uomo imperterrito e fatale. Shakespeare solo v’avrebbe letto ben dentro fra i contemporanei, come pare che qualche sua proposizione o detto abbia messo in bocca al principe di Danimarca7. I pensieri di Bruno, stati gran tempo oggetto di plagio e di fantastica ammirazione, tornarono in molto onore in Germania, specie nelle scuole dell’idealismo e del monismo. Oramai sono dichiarati in ogni parte. Per compenetrazione congeniale nessuno degli espositori agguaglia il Carriere, e diligentissima è la esposizione del Brunnhofer. Con la rinata libertà degli studi nel nostro paese, il pensiero dei nostri filosofi ritornò sul Bruno, e delle sue dottrine fu conoscitore esatto e coscenzioso espositore lo Spaventa8.

Ora molti fanno gran torto alla memoria veramente storica del Bruno, col distrarlo dai tempi suoi, e col ridurlo in figura di uomo che presagisca e precorra tutto il pensiero moderno9. Per genialità speculativa fu certo superiore a tutti i pensatori del secolo suo, e nell’eroico pathos della verità è uomo insuperato. Spezzò del tutto le catene della scolastica, la ruppe con ogni maniera di tradizione, e lui primo e solo trasse a conseguenze speculative la nuova intuizione copernicana. Scrivendo sotto l’impulso dell’animo travagliato dall’entusiasmo di una verità, non sempre a lui stesso chiara nei contorni e nelle attinenze, e coi ricordi di una vasta lettura, e nelle forme più varie, ci ha lasciato pensieri e divinazioni, che gl’inesperti della storia possono trarre a strane significazioni, ma che tornano maravigliosi anche al critico più acuto. Oppugnatore ardito della vecchia fisica, e diroccatore del cielo di Dante, ha vivo già il sentimento della nuova esperienza, a cui la natura avesse ad assoggettarsi, per rivelarci le sue proprie leggi. Umanista, nel senso più italiano della parola, contrappone l’etica naturale della ragione delle cose, a qualunque maniera tradizionale di religione, e tutt’uno in sé stesso come persona e come filosofo, è missionario della sua propria fede, ed abbraccia il martirio come parte del suo dovere. A farlo rivivere glorioso martire nella nostra riverente memoria, non c’è bisogno d’introdurre alcun artifizio d’interpretazione nel complesso delle sue dottrine, o di alterarne la figura, maravigliosa nella semplicità dei motivi, con retoriche esagerazioni. Gradite i miei affettuosi saluti. Roma, 27 aprile 1888

Devotissimo A. Labriola

GIORDANO BRUNO NELLA RICORRENZA DEL 3° CENTENARIO DELL’ARSIONE IN CAMPO DE’ FIORI [1900]

Domani fa trecento anni1: era di giovedì, al mattino per tempo, in ora non precisata che Giordano, o meglio Filippo, Bruno da Nola, ex-frate domenicano e filosofo panteista, fu abbruciato vivo in campo di Flora, all’angolo di Via Balestrieri, secondo una verisimile interpretazione del Narducci2. Suona triste al nostro orecchio il verbale che si conserva nell’archivio di S. Giovanni decollato, ove era la sede della congregazione dei deputati alle capitali esecuzioni. Questo documento, venuto in luce nel 1891, basta da solo a sbugiardare le vane voci che si fecero correre, che Bruno fosse stato abbruciato soltanto in effigie, basta da solo a distruggere gli arzigogoli del Desdouits che osava sostenere tale tesi3. Ma, prima che tale documento fosse apparso, Papa Leone XIII, che non avendo più come i papi del Medio Evo sovrani da estollere o da abbattere e popoli da sgovernare, si diverte a far nelle encicliche il polemista, il 30 giugno 1899, rispondendo alle feste dell’8 di giugno, confermava pienamente l’uccisione4. Oltre a questo documento, noi non abbiamo di attestazione diretta che i due numeri degli avvisi di Roma, specie di giornali del tempo, nel secondo dei quali del 19 Febbraio 1600, si legge «giovedì mattina in campo di fiore fu abbrugiato vivo quello scelerato frate domenichino da Nola di che si scrisse con le passate, heretico hostinatissimo; et avendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro nostra fede, et in particolare contro la S.S. Vergine et Santi, volse hostinatamente morire in quelli, lo scelerato, et diceva che moriva martire et volentieri et che se ne sarebbe la sua anima assisa con quel premio in paradiso, ma hora egli se ne avvede se dice la verità»5. Testimonio dell’abbruciamento fu quel retore e grammatico tedesco, noto sotto il nome dello Scioppio, che, dice il Fiorentino, era appunto la persona che ci voleva per far da testimonio a tal fatto: egli invero si trovò a Venezia quando fu pugnalato il Sarpi, a Roma quando fu bruciato il Bruno, a Napoli quando fu imprigionato il Campanella. Lo Scioppio compose la morale stoica e l’oscena priapea e al Rittershausen, rettore dell’Università di Altdorf, scrisse una lettera dopo il rogo la sera stessa del 17, in cui insulta Bruno e loda la bontà del Vaticano, dove s’era recato a sollecitare la diaria6. Infine, fatta eccezione di una nota che si trova nella depositeria pontificia e dove si dice che il vescovo di Sidonia è regalato di 27 scudi per aver degradato e scomunicato il Bruno qualche giorno prima del supplizio7, nessun altro documento è giunto fino a noi. La chiesa dice di aborrire dal sangue e consegna l’eretico al braccio secolare, il quale crede col rogo di evitare appunto lo spargimento di sangue: ma a Roma la cosa era diversa, perché il governo civile era pur sempre quello del papa. Per noi abituati alle minuzie della cronaca moderna torna doloroso che questa

tragedia sia stata accolta dall’universale silenzio. Certo, possiamo immaginare che al Bruno sia stata legata la lingua, perché il Farinaccio, questa autorità cara ai giuristi, dice che tale è il procedimento da usarsi contro gli eretici8. E dice lo Scioppio che Bruno tra le fiamme non gemette né sospirò ed essendogli stato mostrato un crocefisso, solo ritorse il viso. Le ceneri poi furono disperse al vento. Esporremo un’altra volta, perché i filosofi tedeschi solo tardi siano tornati a lui, quello che ci preme notare è il silenzio che si fece intorno alla sua persona. Silenzio così profondo, che ne tace il Vanini, bruciato poi a Tolosa come eretico nel 1619, e il Campanella, riacquistata dopo venti anni di prigionia la sua libertà, stampando a Parigi la sua metafisica, parla del quidam nolanus, e Galileo, nel Nunzio Sidereo, dopo soli 10 anni dalla morte del Bruno, ne tace affatto, cosa di cui più tardi gli mosse rimprovero Keplero, amico e ammiratore del Bruno9. La sentenza era stata pronunciata l’8 Febbraio, nove giorni prima dell’esecuzione, e in questi nove giorni, Bruno fu, per la finzione vigente a Roma del papa spirituale e del papa re, nel carcere dello stato. Che al momento della condanna Bruno abbia pronunciate le famose parole risulta dalle testimonianze dello Scioppio e del Conte di Ventimiglia, fedele discepolo del nolano10. Negli ultimi nove giorni di prigionia a che pensò Bruno? Si sarà certo ricordato di queste sue parole scritte a Londra: Tu ne cede malis se contra audentior ito11. E se in quel carcere avesse potuto pensare che 289 anni dopo sarebbe sorto un monumento in suo onore, se avesse potuto prevedere l’epigrafe di Bovio12, avrebbe detto: La mia iscrizione l’ho già fatta nel De Monade così: [Pugnavi, multum est; me vincere posse putavi, (Quando animo virtus fuit illa, negata lacertis) Et studium et nixus, sors et natura repressit. Est aliquid prodisse tenus; quia vincere fati In manibus video esse situm, fuit hoc tamen in me Quod potuit, quod et esse meum non ulla negabunt

Secla futura, suum potuit quod victor habere, Non timuisse mori, simili cessisse nec ulli Constanti forma, praelatam mortem animosam Imbelli vitae. Virtus fuit aemula laudis Possibilis. Volui siquidem concurrere gallus Cum gallo, haud ausus corvus contendere cygnis, Rana bovi, perdix aquilae, cuculus philomelae, Cantu praepetibus pennis, mole, atque colore]13.

Quest’uomo se avesse dovuto in quell’ora estrema confessare sé medesimo, avrebbe detto: il mio secolo non è questo, perché io ho diggià superata ogni forma di religione. E col suo spirito napoletano, una volta in Londra celiando aveva detto: «Bruno nolano, bada che non ti capiti di esser preceduto dalle faci in pieno giorno se mai ti capiti di rimettere il piede nei domini della Chiesa»14. E come domenicano nulla gli poteva essere ignoto dell’arsenale del S. Uffizio creato contro gli albigesi di cui il primo ideatore era stato quel Guidone da Cremona, che fu testimone della persecuzione dolciniana15. Clemente VIII, fatto papa nel 1592 e morto nel 1605 aveva ridotto a conversione Enrico IV di Francia, aveva asservita alla sua potestà Ferrara e aveva rafforzato quel potere temporale che durò saldo fino al 185916. Si dice che fosse piissimo e al suo tempo, per quel che poteva apparire, sembrava che se nuovi demoni non fossero sorti, il mondo cattolico fosse presso che ristabilito. Siamo all’anno santo del 1600 durante il quale, secondo le esagerazioni dei cronisti, ben tre milioni di pellegrini passarono per le vie di Roma e celebre perché ben 41239 messe si dissero in San Pietro e ben 318.000 volte fu somministrata nella stessa chiesa la comunione. Vinto il re ugonotto, la Francia rientrava nel grembo della chiesa cattolica e il calvinismo rimaneva una setta. In Febbraio, dopo pochi giorni dal martirio di Bruno, fu istituita la cerimonia delle quarantore17. L’avevano serbato per l’anno santo, perché Bruno fin dal 1592 era in prigione18. A che sì lungo indugio?

E io chiedo a tutti gli scrittori cattolici contemporanei su quale fondamento continuino a diffamare Bruno. Fuori il processo, dico, esso appartiene alla storia. Tanto oramai il sistema Copernicano non si discute più ed è stato accettato dallo stesso Vaticano il giorno che ha fatto la specola. Fuori il processo e non venite a dirci che Bruno nel suo Candelaio ha offeso il pudore: il Candelaio nulla ha da invidiare alla commedia del Bibbiena recitata in Vaticano, presente Leone X!19 Se Bruno fu frate scostumato, noi, uomini moderni, lo regaliamo per questa parte alla Chiesa che lo aveva nutrito e allevato! Perché quest’uomo nel suo temperamento si era sbagliato l’età nel nascere: egli era un postumo della rinascenza. E del resto lo stesso sistema copernicano aveva avuto un precursore nel cardinal De Cusa. Bruno era nato nel 1548, quattro anni dopo la convocazione del Concilio di Trento, e aveva 52 anni quando fu bruciato. Egli appartiene al periodo tenebroso della reazione cattolica. Ridateci il processo, gridiamo, perché tra l’altro in esso ci dovrebbero essere allegati alcuni degli scritti del Bruno che noi ignoriamo e che completano le sue teorie. Perché nasconderci questo processo? Forse che noi ignoriamo la vita del cardinale Borghese, che divenne poi papa col nome di Paolo V, uno dei giudici del Bruno? Forse che noi ignoriamo chi fosse il cardinale di Santa Severina, il quale chiamava celebre e bella la notte di S. Bartolomeo20. Forse che noi ignoriamo per quali astuzie lo scaltrissimo Bellarmino procurò la condanna del Bruno, creando un nuovo tipo di eresia, la irreligione?21 Basta difatti guardare alle seguenti date, per persuadersi di quanto mistero sia avvolto questo processo. L’arresto di Bruno avviene nel 1592 e il processo s’inizia nel 1599 e finisce il 4 Febbraio dello stesso anno; poi il papa ordina la cosidetta obbedienza, che concede al Bruno 40 giorni affinché si ravveda, ma dopo le cose son poste in tacere e fino al 21 dicembre del 1599 il processo non vien ripigliato. Invitato a ravvedersi Bruno rispose: «io non devo, né voglio ravvedermi, non ho materia per ciò e non so perché debba ravvedermi.» In tutti gli anni della prigionia, per quello che se ne sa da certe carte consegnate da un patriota italiano rimasto anonimo al Berti, la questione cadde su questo: sapere se Giordano Bruno dovesse esser condannato come eretico, secondo il comune concetto, o se nell’ambito delle eresie dovesse entrare la teoria dell’infinità dello spazio e della pluralità dei mondi. E ciò si dovette al

Bellarmino, secondo ci attesta anche lo Scioppio che scrive: «condannevolissima è la sua dottrina dei mondi innumerevoli». Ora ci domandiamo: poteva cedere Giordano Bruno ai suoi oppressori? Si, prima; no, dopo. Nel primo processo di Venezia, preso prigioniero dal suo scolare Mocenigo, nella casa ospitale, quando già stava Bruno per fuggire in Germania a Francoforte dove il suo editore lo aspettava, egli ha cercato di sottrarsi al processo22. Bruno venne a Roma non da eroe, e lo divenne nel carcere, e in cospetto della storia a Campo dei Fiori. Tornato in Italia dal 1591 alla morte egli è sottratto per sempre all’attività scientifica e siccome dalla fuga dal convento di Napoli nel 1576 al ’91 passano solo quindici anni: è in tale breve periodo ch’egli spiega tutta la sua meravigliosa attività scientifica. È in quindici anni ch’egli scrive quelle opere latine, riunite e stampate in 7 grossi volumi per cura del Ministero della Pubblica istruzione e quei 2 volumi di opere italiane, secondo la migliore edizione fatta in Germania23. In questi quindici anni ha vagato per tutta l’Europa, incontrando a Ginevra la scomunica dei calvinisti, a Parigi l’intolleranza degli aristotelici, in Germania quella dei luterani e di nuovo dei calvinisti. Espatriato d’ogni patria, egli è più atopico di Socrate! Ora, fuori e più in là della tragedia esterna del processo, sono i suoi attriti che dovrò raccontare. È la crisi della scienza che si pone di fronte alla Chiesa, ma che non si può affermare, perché gli mancano gli strumenti. Bruciar Bruno per offese alla Vergine è una puerilità e il Bellarmino capì la difficoltà di far rientrare questo uomo nei canoni della praxis ereticale. Bruno è il precursore filosofico della scienza moderna: non dobbiamo a lui specifiche scoperte, ma abbiamo in lui tutto lo spirito e tutto il bisogno della scienza moderna. Egli reca in sé tutta una rivoluzione e conscio delle sue qualità si chiama il fastidioso24: egli non è duce di partiti, come tanti altri, né consigliere di setta, come Calvino. Egli ha guardato al futuro, mentre la civiltà, dopo le grandi scoperte geografiche, da mediterranea diventava oceanica e mentre la nuova concezione copernicana scompaginava la gerarchia dell’universo. Non esistono più gli astri e i pianeti contenuti nelle immobili sfere: e allora la gente s’è domandata con spavento, dunque è esistito un altro Adamo e un altro

redentore per ciascun mondo. Onde a ragione il Bellarmino scrive: «il sistema copernicano è il più conforme alla ragione, ma il più alieno agli interessi della Santa Sede.» Il mondo diventa, secondo la frase del Bruno, gl’infiniti mondi, dell’azione di Dio rimane l’unitutto, all’infinitamente grande fa riscontro l’infinitamente piccolo. Bruno fu bruciato perché diceva che tutte le religioni sono nulle, che tutto si rimuta per interna virtù. Nelle università dove Bruno ha insegnato si è persa traccia di lui, dove nulla, dove tenui ricordi, dove una semplice firma e Bruno ha trovato poi il suo compimento nel deus sive natura di Spinoza. L’ultimo suo scolaro è Giorgio Hegel, ecco perché il nome di Bruno tornò in onore in Germania al principio di questo secolo25. Né io ho aspettato il 1889 per onorare il filosofo nolano, perché vengo, quantunque non ne segua le idee, da quella scuola in cui brillava Bertrando Spaventa, il quale pensava che lo studio della filosofia tedesca sarebbe stato da riprovarsi se non avesse continuata la tradizione bruniana26. Giordano Bruno dall’Inghilterra, sotto il governo della vergine Elisabetta come prevede la fortuna politica dell’Inghilterra così prevede lo sviluppo dell’intelletto tedesco e lui, che non fu mai eretico perché non fu mai credente, rende omaggio a Martin Lutero, che, novello Alcide ha reciso il mostro della tiara27. Questo sarà il programma delle mie future conferenze che non potranno esser solenni certo come questa di oggi, ma nelle quali, perché in me nulla ha mai potuto Ignazio di Loiola, manterrò un’intonazione alta, quale il mio dovere lo esige, perché professore di filosofia, non rispetto che il mio convincimento!28

L’UNIVERSITÀ E LA LIBERTÀ DELLA SCIENZA [1897]

Caro Croce, Eccoti il discorso che io tenni all’Università la mattina del 14 dell’altro mese. Giacché vuoi fartene editore, ti do piena licenza di pubblicarlo. Te lo mando tal quale lo avevo scritto, tre soli giorni avanti di andarlo a dire; e nol dissi per intero, per non annoiare soverchiamente l’uditorio. Non avrei oramai né modo né ragione, e dico anzi non avrei nemmen diritto di aggiungervi o di toglierne cosa alcuna; specie, poi, dopo il chiasso che c’è nato attorno, il quale ha prodotto questo fra gli altri effetti, di farmelo venire quasi quasi in uggia1. Metto a tua disposizione i fascicoli di due riviste tedesche, nelle quali vedrai come io avevo altre volte toccato gli argomenti stessi di questo discorso; e potrai farne uso, se mai intendi di aggiungere al testo, che t’invio così com’è di prima mano, note, o chiarimenti. Credimi tuo sempre gratissimo ANTONIO LABRIOLA Roma, 5 Decembre 1896

I due fascicoli cui accenna il mio amico prof. Labriola, sono: «Der sozialistische Akademiker» (n. 1, 1 gennaio 1895), contenente una lettera da lui diretta a un gruppo di studenti dell’Università di Berlino, che lo avevano invitato a collaborare alla loro rivista2; e una Beilage dell’«Allgemeine Zeitung» di Monaco (6 febbraio 1896), in cui si legge un articolo del d.r R. Schoener a proposito di una conferenza del Labriola «sulle ragioni e i limiti della libertà d’insegnamento»3. Non riproduco integralmente né la lettera né l’articolo dello Schoener, perché ciò sarebbe, nella massima parte, una pura ripetizione delle cose dette nel testo; ma ne ho estratti alcuni brani che possono servire di opportuna illustrazione o parafrasi, e li riferisco tradotti nell’Appendice II. E non mi resta da dir nulla per mio conto, se non che io sono orgoglioso di presentare al pubblico questo discorso, per sentimenti e per pensiero uno dei più elevati che si sieno mai sentiti nelle aule delle Università italiane. BENEDETTO CROCE

Preambolo4 Permettete, SIGNORE E SIGNORI, che io dia, innanzi tutto, ragione del tema di questo discorso. I professori tutti che, d’anno in anno, furon chiamati a discorrere da questo medesimo posto, in questa medesima occasione, stimarono opportuno di tenersi sempre a quegli argomenti soli, i quali avessero stretta attinenza con le materie dei rispettivi insegnamenti loro. Il tema invece che ho scelto io, ha quasi quasi, così a prima vista almeno, una certa aria di cosa insolita; e può, per cotesta apparenza, aver destato, o l’apprensione, o l’aspettazione in molti, che io stia qui per recitare uno squarcio di prosa politica di occasione, o per leggervi un articolo da rivista. Mi affretto a dire, che io non ho avuto e non ho in animo di fare, né l’una cosa, né l’altra. Age rem tuam5. In questo detto si compendia, SIGNORI COLLEGHI DI TUTTE LE FACOLTÀ, il nostro diritto e la nostra forza, per entro alla cerchia della Università; – quel diritto, che è una cosa sola col dover nostro; – quella forza, che, per esser forte, non ha bisogno di artificii di oratoria, né di esteriori mezzi di autorità, perché reca in sé stessa la sua propria ragion d’essere, e la misura dell’esercizio suo. Già molti mesi fa, secondo che è in uso fra noi, mi toccò l’onore di essere scelto ad oratore di questa cerimonia inaugurale, dalla Facoltà di Filosofia e Lettere, alla quale, per ragion di turno, spettava quest’anno cotesta designazione. M’indugiai di più che due mesi ad accettarea; e, dopo d’aver detto di sì, rimasi per gran tempo incerto di me medesimo, parendomi d’essermi tolto su le spalle un carico, che non del tutto collima con le abitudini disquisitive e critiche della mia attività accademica. Per fino la forma del discorso scritto e poi ridetto mi è alquanto uggiosa: e come non riesce mai di giusta misura, mi conviene ora di saltarne buona parte, che darò poi nella stampaa. Devo a voi, SIGNORI COLLEGHI, che siete a me veramente prossimi, i miei più cordiali ringraziamenti per l’onore che mi avete fatto: ma io non posso a meno di aggiungere alle grazie, che vi rendo vivissime, alcune parole di commento, le quali, se voi non vorrete darmi proprio dello sgarbato, suoneranno così: non mi avete fatto un bel regalo a mettermi qui, a questo posto. Non è, di certo, questa la tredicesima fatica d’Ercole, di dover parlare per una volta di più nell’anno, una volta sola nella vita. Né addurrei a scusa del mio ritegno a discorrere in questa circostanza la persuasione che fosse in me, di non

saper dire, come non dirò certamente, cose peregrine e memorabili, o il timore che io provassi di suscitare nei colleghi, o la voglia, o il bisogno del dissenso. Ad altri atti, che non a questi fuggevoli della cerimonia inaugurale, si misura l’importanza della Università; e, cioè, alla sua opera assidua e cotidiana. E quanto ai possibili dissensi, gli è cosa ammessa, gli è cosa convenuta oramai, che noi non siamo qui per dommatizzare, o per edificarci a vicenda; ma ci siamo per discutere, per criticare, per ricercare. Il mio ritegno avea dunque un altro motivo. I colleghi che mi onorarono del loro voto mi hanno, senza volerlo, costretto a cercare l’argomento fuori delle mie ordinarie occupazioni. Nelle materie dei miei proprii insegnamenti, che sono tre capitoli di ciò che per antica tradizione chiamiamo filosofia, io non trovavo una occasione prossima e plausibile per parlare oggi ad un gran pubblico. L’embriologista che riferisca delle recenti scoverte di un solo quinquennio, il fisico che parli della inaspettata apparizione dei raggi Röntgen7, il medico che riassuma i risultati della batteriologia; questi ed altrettali scienziati, che sono di continuo come alle poste su le grandi vie della esperienza e della esperimentazione, possono sempre discorrere in modo, che torni quel che dicono nuovo ed impressionante ad un pubblico anche coltissimo, e non occorre s’allontanino di una linea dalle loro ordinarie occupazioni. Le discipline che io insegno non hanno in verità, né cronaca delle scoverte, né bullettino delle novità. Non avrebbero oggi da fare, per bocca mia almeno, se non una sola confessione in pubblico, ed è questa: che esse si trovano da un pezzo in qua, con tutte le parti della rimanente filosofia, in un periodo di profonda crisi, della quale non è chi sappia vedere e prevedere la risoluzione senza un esame specificato di tutti i fondamentali problemi delle singole scienze.

Perché non parlo di filosofia E poi c’è dell’altro. Su la nostra Facoltà di Filosofia e Lettere pesano due gravissimi pregiudizii, i quali son tanto più difficili a vincere, in quanto che rimangono come consacrati nella opinione di molti dai ricordi di gloriose tradizioni. Il primo è, che in mezzo a noi siano ancora i continuatori dell’Umanismo, e poi, via via, i maestri del ben parlare, e i preparatori dell’oratoria e della poetica. E l’altro pregiudizio è, che la filosofia sia tuttora quel sommo ed imperiale magistero su l’universo scibile, che essa fu, o parve, in passato, e che consista pur sempre nelle semplici anticipazioni del pensiero su quella esperienza naturale, storica e sociale, su la quale ora, come sopra sicuro fondamento, poggiano le scienze propriamente dette. A molti di quelli, che prestano ossequio a tali pregiudizii, tocca di rimanere come sbalorditi, quando, appressandosi alle aule dei nostri insegnamenti, trovano, che la grammatica, che insegna le regole del ben parlare, fu soppiantata dalla glottologia, la quale studia le leggi del naturale procedimento delle lingue; che all’ammirazione incondizionata dei classici e alla caotica erudizione è subentrata la metodica filologia, ossia la conoscenza del conosciuto, secondo la sentenza di Augusto Böckh8; che la storia non è più un capitolo dell’eloquenza, ma è trattata come materia di analisi metodologica; e che, da ultimo, ad intendere le letterature occorre ora di considerarle come riflessi ideologici di determinate condizioni e situazioni sociali. A cotesti sopravvissuti del passato deve esser parso cosa singolare, che, p. es. le mie lezioni di etica, di pedagogica e di filosofia della storia s’aggirassero sempre in particolari ricerche entro l’ambito di determinate questioni, e non spaziassero più in quella filosofia, che avrebbe da abbracciare, come in bella prospettiva, e per via di definizioni e di categorie, la totalità del reale e tutte le forme del sapere. Al postutto, anche la nostra Facoltà è diventata, o è prossima a diventare una scuola; anzi è tante scuole di specialisti e di ricercatori, e direi quasi di tecnici, se tale espressione non dovesse parere troppo stridente. Quanto a me in particolare, io non mi son trovato mai nella necessità di fare degli sforzi per vincere i pregiudizii cui ho or ora accennato; perché vissi sempre fuori dell’influsso loro. Quando ventitré anni fa, in questa stessa Aula Magna, io sostenni la prova pubblica del concorso (secondo il metodo d’allora, preferibile sempre, a mio avviso, al presente, per il quale si creano i professori in absentia su la sola lettura dei titoli a stampa), io non c’ero venuto qual rappresentante di una ortodossia filosofica, né da escogitatore di novello sistema9. Per le fortunate contingenze della mia vita, io avevo fatta la mia educazione sotto l’influsso

diretto e genuino dei due grandi sistemi, nei quali era venuta al termine suo tutta la filosofia, che oramai possiamo chiamare classica; e ossia, dei sistemi di Herbart e di Hegel, nei quali era arrivata all’estremo delle conseguenze l’antitesi tra realismo e idealismo, tra pluralismo e monismo, tra psicologia scientifica e fenomenologia dello spirito, tra specificazione dei metodi ed anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica. Già la filosofia di Hegel avea messo capo nel materialismo storico di Carlo Marx, e quella di Herbart nella psicologia empirica, che, a date condizioni, e dentro certi limiti, è anche sperimentale, comparata, storica e sociale. Eran quelli gli anni, nei quali, per la intensiva ed estensiva applicazione del principio dell’energia, della teoria atomica e del darvinismo, e col ritrovamento delle accertate forme e condizioni della fisiologia generale, si rivoluzionava a vista d’occhi tutta la concezione della natura. E, in pari tempo, l’analisi comparativa delle istituzioni, in concorrenza con la linguistica e con la mitologia comparata, e poi la preistoria tutta, e, da ultimo, la economia storica, rovesciavano la più parte delle posizioni di fatto e delle ipotesi formali, su le quali, e per le quali, si era per l’innanzi filosofato sul diritto, su la morale e su la società. I fermenti del pensiero, quei fermenti che sono impliciti nelle nuove o nelle rinnovate scienze, non accennavano, come non accennano ancora, allo sviluppo di una novella sistematica filosofica, che tutto il campo della esperienza contenga e domini. Passo sopra alle filosofie di privato uso ed invenzione, come è il caso dei Nietzsche e dei von Hartmann; e mi risparmio ogni critica di quei pretesi ritorni ai filosofi di altri tempi, che danno per risultato una filologia in cambio della filosofia, come è accaduto dei Neo-kantiani10. Mi soffermo solo a notare il quasi inverosimile equivoco verbale, per il quale molti ingenuamente, e specie in Italia, confondono senz’altro quella specificata filosofia, che è il Positivismo, col positivo, ossia col positivamente acquisito nella interminabile nuova esperienza sociale e naturale. A costoro capita di non saper distinguere p. es. nello Spencer ciò che è merito incontrastabile in lui, d’aver cioè concorso a formare la fisiologia generale, da ciò che è impotenza in lui a spiegare un solo fatto storico concreto per mezzo della sua sociologia del tutto schematica. A costoro accade di non distinguere, nello stesso Spencer, ciò che è dello scienziato, da ciò che è del filosofo, il quale, giuocando di scherma con le categorie dell’omogeneo, dell’eterogeneo, dell’indistinto e del differenziato, del conosciuto e dell’inconoscibile, è anche lui un trapassato: è, cioè, a volte un Kantiano inconsapevole, e a volte un Hegel in caricatura. Se io mi fossi dovuto restringere, a farla breve, quest’oggi nell’angolo visuale delle discipline che insegno, e mi fossi confinato nel solo campo della mia particolare esperienza accademica, tutto il mio discorso si sarebbe ridotto a rivolgere ai colleghi una modesta preghiera.

Eccola: – Ricordatevi, di grazia, della relazione da me presentata al Congresso Universitario di Milano, del 1887. La tesi da me sostenuta circa la laurea in filosofia fu largamente discussa per le stampe, e incontrò il voto favorevole della maggioranza di quel congresso, che, come fu il primo, fu anche l’ultimo del genere: la qual cosa non torna gran fatto a lode nostra. La tesi, che io qui nuovamente vi raccomando, nel suo essenziale costava di tre punti: – che la filosofia debba cessare di essere nell’ordine degli studii un che di extrascientifico, e un quasi rimasuglio di tradizione scolastica: – che la filosofia debba essere liberata dalla forzata ed inverosimile congiunzione con la filologia: – che la filosofia debba esser messa alla portata di tutti quelli che studiano ogni altra disciplina, perché vi trovi un facoltativo complemento di coltura qualunque studioso si senta in grado di superare nella trattazione delle varie scienze la specialità della ricerca. E ciò, da ultimo, si riduce a dire: che l’ordinamento della Università deve anch’esso spiccatamente riflettere lo stato attuale della filosofia, che oramai consiste nella immanenza del pensiero nel realmente saputo; e, cioè, consiste nell’opposto di ogni anticipazione del pensiero sul saputo, per via della teologica o della metafisica escogitazionea.

La questione universitaria Ma come avrei io potuto rinchiudermi in questo ricordo, e nel commento, sia pure dottrinale, della preghiera or ora formulata, dal momento che aveva preso l’impegno di parlare quest’oggi? – E, pure, di che parlare? La Università si riapre; la Università esibisce, questa volta sola nell’anno, tutta sé stessa al gran pubblico: parliamo, dunque, dell’Università. La critica su l’opera nostra s’è fatta negli ultimi tempi, senza dubbio, assai viva nel pubblico. C’è toccato di leggerne e di sentirne d’ogni genere e d’ogni colore negli ultimi anni. Nei giornali cotidiani e nei discorsi parlamentari c’è accaduto più volte di sentirci oggetto di una critica, che spesso fu poco benevole, e quasi mai parve rivolta all’intento di fornire a noi nuovi lumi e cognizioni nuove. Noi, colpevoli dei frequenti tumulti studenteschi; – noi, cagione di danno alla società, perché produciamo troppi professionisti, che nella lotta della vita forman poi un forte contingente nell’esercito degli spostati; – noi, pericolosi, come quelli che abusiamo, chi sa mai come, della libertà dell’insegnare: e così via, da non finirla! Non dirò che sia giunto il tempo di mettersi in su le difese, come se fossimo minacciati da grave ed imminente pericolo; ma dirò francamente, che i professori hanno il grave torto di abbandonare la discussione su le cose universitarie all’arbitrio degl’incompetenti, e di non reagire contro gli erronei giudizii con la forza e con l’autorità della propria esperienza collettiva. Cotesta incuria ha di certo la sua giustificazione nel fatto, che ai professori italiani è premuto soprattutto, in quest’ultimo trentennio, di rimettersi al passo con gli scienziati degli altri paesi. Lo sforzo ha in buona parte ottenuto il desiderato effetto. I prodotti della scienza italiana son rientrati già nella circolazione internazionale. Le partite passive del lungo periodo della decadenza furono in buona parte scontate; di quella decadenza, dico, che, insieme all’impotenza politica e al regresso economico, c’impose l’isolamento dal moto generale del pensiero. Ora non è più il tempo, che i migliori intelletti abbiano da percorrere la propedeutica dell’esilio e la metodologia del carcere. L’iniziativa scientifica è di nuovo possibile, e le condizioni che occorrono allo sviluppo di tale attività non mancano oramai più. L’Università è nuovamente vitale. Ma non basta, EGREGI COLLEGHI, a tener viva la Università, che sia forte in noi la cura personale dei nostri individuali insegnamenti. Bisogna, inoltre, che in ciascun di noi sia potente la coscienza dell’interesse collettivo di questo nostro ordinamento di studii. Confessiamolo pure: per rispetto a cotesto interesse collettivo la nostra incuria

è assai grande. Non c’è, p. es., sproposito che non ci sia occorso di sentire a ripetere per rispetto alla libertà dell’insegnamento, che forma l’argomento di questo mio discorso. In una parte non piccola del pubblico s’è formata l’opinione, che essa voglia dire facoltà d’insegnare, o di non insegnare ad libitum. Ebbene io, che credo oramai di trovarmi, in fatto d’idee politiche, all’estrema ala sinistra fra tutti gl’insegnanti, io non mi rifiuterei di accordare al Ministro dell’Istruzione maggiori poteri d’inchiesta e di vigilanza, perché si venga una buona volta a capo di sapere, dove e quanti sono i professori inadempienti. Alla prova dei fatti si vedrebbe, che furono e sono pochissimi. Né in tale facoltà d’inchiesta deferita al Ministro, che è l’amministratore delle cose scolastiche e nessuno può temere si assuma mai la parte di direttore della scienza e di pedagogo della nazione, io vedrei alcun pericolo a quella libertà scientifica, della quale non intendo di fare qui l’apologia, ma di addurre la dichiarazione. Occorre forse un grande esercizio di logica per intendere, che la libertà del dire non può consistere nella facoltà del non dire?

I pregi dell’Università nostra Cotesta incuria nel darsi conto di ciò che concerne l’Università nel suo complesso è cagione che pochi sappiano, come l’ordinamento nostro si trovi per alcuni rispetti di molti passi innanzi a quello degli altri paesi. Insisto sulla parola ordinamento, perché non son venuto qui a far confronti di attività scientifica. Da un quarto di secolo già si discute, proprio nella dotta Germania, esemplare a tutto il mondo per la sua attività scientifica, dell’ammettere e del non ammettere agli studii superiori le donne, che non vi furono per anche ammesse. Burbanza di corporativisti, boria di dotti, preoccupazione esagerata della così detta dignità scientifica, frettolose illazioni dei risultati, del resto assai discutibili, dell’antropologia dei sessi: – ecco gli elementi di cotesta fastidiosa e querimoniosa discussione. Vi penetra di ogni parte lo spirito gretto dei piccoli borghesi, ai quali par di essere cultori dell’idealismo, se celebrano in versi l’eterno muliebre, e in fatto condannano le donne tutte all’ufficio impreteribile di cuciniere e di bambinaie. Il governo austriaco decretava di recente: non doversi le donne ammettere agli studii superiori, nella qualità di perfetti studenti, e non riconoscersi i titoli che esse ottengano all’estero. Cotesta cocciutaggine, che vuol parere etica ed alta coscienza scientifica, non si è lasciata vincere, né dagli accertati favorevoli esemplii dell’Inghilterra e dell’America, che son pure, a quel che pare, paesi civili e moderni, né dai ricordi gloriosi di quella Rinascenza, che i Tedeschi conoscono oramai, nei loro libri almeno, meglio degli Italiani, che ne furono gli autori. Ma che dico la Rinascenza? – le donne laureate c’erano già alla scuola medica di Salerno!11 Ed ecco che da noi, invece, le donne furono ammesse di pieno diritto all’Università già ventidue anni fa, con un semplice regolamento, che non fu mai contestato, nemmeno dai conservatori estremi. Ne fu autore il ministro Bonghi, che nessuno chiamerà mai un radicale; e, anzi, fu tutta sua vita il dottrinario per eccellenza della parte moderata. Che si sappia, la statua della Scienza non ha dovuto velarsi per tale profanazione. Le donne venute alle nostre scuole nella qualità di veri e proprii studenti, poche di numero, ma non certo per impedimento nostro, non han finora spostato l’asse del così detto mondo etico12. Data l’indole delle istituzioni nostre, la misura non poteva non essere di carattere giuridico-formale. In fondo si è detto che gli uomini di sesso femminile hanno i medesimi diritti e doveri degli uomini di sesso maschile; ovviando così all’inconveniente delle ammissioni a condizioni diverse, ossia inferiori. Le Università svizzere, che cotesto metodo di favore vollero anni fa provare, si videro piovere d’ogni parte le profughe della persecuzione maschile, con

maggior vantaggio degli osti e degli albergatori, che non degli studii e della scienza. Per un altro rispetto l’Università italiana sfida il paragone di tutte le altre; e intendo dire della incondizionata pubblicità dell’insegnamento. A canto agli studenti con pieni effetti riguardo agli studii di facoltà, a canto agli uditori legalmente iscritti a corsi singoli, può sedere chiunque ne abbia tempo e voglia. Non occorrono, come in altri paesi, tasse speciali, tessere di ricognizione, e mezzi di presentazione, e nemmeno ciò che in Germania dicono ospitare, che consiste, in fondo, in un atto di cortesia del professore. Noi non abbiamo diritto di chiedere alcuna legittimazione agli uditori nostri. L’abito della critica temperata e conveniente trova rinforzo in questa illimitata pubblicità; la quale torna anche di garenzia e di onesto limite alla libertà dell’insegnare, come accade di ogni funzione, che sia esercitata in pubblico, e non in chiusa cerchia di privilegiati. La voce nostra non giunge di certo ai contadini, agli artigiani, al popolo minuto e ai proletarii in genere; e l’Università non avrà mai l’ufficio di farsi organo ed istrumento della cultura popolare. A questa manca tuttora la condizione primissima della scuola elementare; e sarebbe tempo che a ciò provveda chi ha dovere di applicare le leggi esistenti, o d’introdurne delle nuove, perché l’Italia non rimanga a dirittura al di sotto della Finlandia. Ma che l’Università nostra sia così accessibile, tanto comunicativa, ed in principio tanto democratica, è cosa della quale non possiamo che lodarci. Da noi è una condizione organica quella estensione universitaria, con la quale gli Inglesi si son di recente provati a volgere a fini più moderni di coltura le alquanto irrigidite corporazioni loro13. Da noi è un fatto implicito quella adattabilità degli studii superiori ai bisogni di una cultura più generale, che Antonio Menger invocava l’anno scorso nella inaugurazione della Università di Vienna14. Quel desiderio ebbe già a Vienna, nei due ultimi semestri accademici, un principio notevole di applicazione, con ottimi risultati. Qui da noi, così perché i corsi ordinarii sono accessibili a tutti, come perché ogni professore ha diritto d’insegnare, a suo rischio e pericolo, tutte le materie della propria facoltà e le affini, e di dare quante conferenze crede, la scienza ha acquistato il carattere comunicativo di cosa profana e civile, smettendo ogni apparenza di mistero e di privilegio da iniziati. Completa cotale carattere di civile esercizio la sistematica eliminazione della teologia. Le facoltà teologiche furono abolite già 25 anni fa15. Data la tensione profonda nei rapporti tra chiesa e stato, che fu ed è tanto proficua al progresso di noi tutti, la misura radicale dell’abolizione era politicamente inevitabile.

Consonava poi del tutto con lo spirito e con l’indole degli studii nostri. Valeva assai poco a fare il contrario l’argomento da molti addotto, del gran fiore in che son venute in Germania, sotto al titolo di facoltà teologiche, la critica biblica e la storia della chiesa. A ciò fare, ove se ne senta il bisogno, si arriva per più diretto tramite attraverso la filologia e la storiografia, che sono moltiplicabili e specificabili indefinitivamente, anche in un istituto che si professi profanamente estraneo alle cose celesti. Per effetto della eliminazione della teologia, l’Università italiana si è ridotta a questo: che essa fa esplicita professione di non riconoscere se non quelle materie sole, le quali siano oggetto di osservazione, di esperienza e di esperimento, e che si prestino ad essere apprese e trattate nei certi e precisi confini della sicura intuizione, della logica combinazione e della razionale deduzione. I preti son tornati alle nostre scuole, per apprendervi quello che noi possiamo offrire. I preti stessi sono oramai diventati più istruiti, più colti e più discutitori. Si difendono anch’essi con la libertà, che si son lasciata imporre. L’ironia della storia, alla quale non si sottrae, né magistero di chiesa, né ambizione di uomini politici, l’ironia della storia, che s’è tanto raffinata ed acuita in questa fin di secolo, ci permette di riconoscere nella Specola Vaticana, coi suoi grandiosi istrumenti e con le sue apprezzabili osservazioni, un più vero monumento alla memoria dell’araldo e martire Giordano Bruno, che non sia la statua erettagli a memoria in pubblico. Il monumento dei vinti ha più valore del monumento dei vincitori. Sarebbe opera da Don Chisciotte il mettersi ora a bandire dalla cattedra dell’Ateneo la crociata contro l’oscurantismo. I lumi furono accesi da per tutto; e il mondo non torna più indietro16. Agli enumerati caratteri di istituzione modernissima, non poteva non corrispondere la eliminazione d’ogni privilegio di giustizia corporativa, e di posizione gerarchica. Di fatti le attribuzioni disciplinari dei professori su gli studenti son ridotte da noi a quel tanto solo che è indispensabile, perché l’insegnamento proceda. Non si fa intacco di sorta al diritto comune. Gli studenti non rispondono a noi di nulla, che non sia connesso all’insegnamento e alla disciplina universitaria. In altri paesi non è così. Le associazioni degli studenti, quali che esse si siano, han bisogno p. es. in Germania, della tassativa approvazione del senato accademico; e l’innocente carcere accademico di tre giorni sta a ricordare in quello stesso paese, che il diritto comune vi ammette ancora deroghe ed eccezioni di privilegio. In Germania queste attribuzioni di diritto di corpo sono esercitate in fatto con la massima bonarietà e mitezza. Con le nostre abitudini sarebbero per ogni rispetto incompatibili. Assieme ai caratteri giurisdizionali dei vecchi corpi son sparite da noi tutte le

insegne esteriori della gerarchia. Noi siamo, per dirla con espressione intuitiva, gente in giacca e soprabito come tutti gli altri mortali.

Una gran magagna della nostra Università I pregi del nostro ordinamento, che ha caratteri di così spiccata modernità, son però, non dico vinti, ma di certo oscurati, da una grave magagna. Per anticipare la conclusione, dirò, che i nostri ordini dello studio devono essere completati da quella forma di esami, che, senza litigare sulla parola inesatta, chiamerò anche io di statoa. In noi professori si confondono, in poco ragionevole promiscuità, le funzioni degl’insegnanti con quelle degli esaminatori; e di esaminatori che non rilasciano delle semplici attestazioni di capacità scientifica, ma che abilitano agli esercizii professionali direttamente; come è il caso spiccato della laurea in medicina, che crea ipso facto il medico. Per effetto di cotesta promiscuità è parso naturale d’imporre, senz’altro, tutto il piano degli studii di una determinata facoltà a tutti e singoli gli studenti che vi s’iscrivano; ed è parso inevitabile, che i diplomi di laurea dovessero abbracciare tutte le materie, che in quel piano di studii figurano. In cotesti diplomi, così vasti e così apparentemente complessivi, non è chi sappia leggere una qualche approssimativa dichiarazione di specificata capacità. Accenno di volo al titolo generico del doctor juris; e noto che nella facoltà fisico-matematica si è in parte ovviato a tale inconveniente. La promiscuità dell’insegnare e dell’esaminare, e il carattere quasi esclusivamente professionale degli esami, producono questi immediati effetti: che il professore si abitua a vedere principalmente nel suo uditore dal Novembre al Giugno l’inevitabile candidato di esami del Luglio e dell’Ottobre; e che gli studenti, atteggiandosi dal bel principio ad esaminandi, raccolgono dai varii insegnamenti di cui son gravati ciò che è più compendiabile, e sbrigativamente riferibile. A queste conseguenze immediate tengono dietro delle altre di maggior peso. Il professore, che, nell’interesse della scienza, farebbe il corso monografico, è obbligato, per ragione degli esami, a farlo enciclopedico. Lo studente, che avrebbe da completare i corsi speciali con lo studio dei trattati, si restringe al minimo dei manualetti o dei sunti. A nessuno, che sia desideroso di scienza di sua propria iniziativa, è dato di farsi un piano di studii a suo talento. Trasportati in altra sede, gli esami professionali potrebbero essere più rigorosi, più intensivi, più probativi e più pratici: e perché sien tali bisogna specificarli. La generica laurea di medicina, che sarà indispensabile al medico condotto, non dice nulla per l’ottoiatra o il psichiatra, o così via. I corsi universitarii, non messi più ad immediato presupposto di prossimi esami, acquisterebbero in ampiezza,

in precisione, in specificazione, e, in molti casi, anche in serietà. Rimanendo all’Università il solo conferimento dei titoli scientifici, che occorrono a riprodurre la classe dei dotti, cadrebbero di per sé queste antiquate muraglie cinesi delle tradizionali Facoltà. Chi mi sa dire perché il futuro filosofo abbia da studiare per obbligo la geografia, come è ora, anziché la fisica o la chimica? Chi mi dice che lo storico si possa formare senza lo studio del diritto e della economia; e chi può impedire all’economista di formarsi con la biologia, con la filologia, o con la storia, secondo i casi? Le Facoltà non sono, per rispetto alla scienza, nulla di organico; fatta eccezione, s’intende, di quella di matematiche pure. Questa è per ora la sola riforma urgente a completare il nostro ordinamento. Essa ne trarrà dietro delle altre naturalmente; come p. es. la riforma del sistema delle tasse, che a molti pare di grande importanza, e a me invece secondaria affatto. E passo sopra all’eventuale sparizione di parecchie Università, che pur può essere una conseguenza del cambiato sistema. Professori e studenti si troverebbero a migliore agio gli uni verso degli altri. I tumulti universitarii, che si rinnovano con fastidiosa periodicità, finirebbero per sempre. Non ebbero mai cause direttamente politiche, come sognano alcuni. Germogliano quasi sempre da un indeterminato sentimento di disagio, che la fantasia moltiplica, e l’inesperienza giovanile fa trascendere in atti inconsiderati. I nostri piani di studii paiono difficili ai modesti ingegni, e superflui a quelli che agognano di raggiunger presto una tollerabile posizione. I più fiduciosi di sé stessi si sentono rintuzzati nella loro ambizione d’iniziativa, per via di tanti obblighi tassativi. In un ordinamento, dirò così, più elastico, oltre alla cresciuta iniziativa scientifica, ci sarebbe il terreno per una più accurata e precisa specificazione e selezione delle attitudini; il che è parte principalissima dell’ufficio nostro. Solo in tale ordinamento ha senso e importanza vera la libera docenza, come specificazione di dottrine e d’indirizzo, e come prova di capacità in quelli che saranno professori in seguito. E finiamola pure d’invocare il principio immaginario della concorrenza. Dato il presente sistema delle tasse, la concorrenza si riduce a questo: che il libero docente è obbligato ad aprirsi una partita attiva su la cassa dello stato. Peggio poi quando per questa concorrenza s’invoca l’esempio della Germania, dove gl’insegnanti, di qualunque titolo e grado essi si siano, si fan tutti concorrenza, e perché non v’è organico degli stipendii, e perché gli studenti pagano tasse specificatamente dovute ai professori pei singoli corsi. I docenti poi vi sono astretti alla disciplina dei corpi, che spesso reclamano la loro giurisdizione su i docenti stessi, quando il governo vi s’intrometta.

La libertà scientifica Sono entrato, come vedete, nel bel mezzo delle cose, per facile transizione, e senza preamboli dimostrativi. Questa è l’indole del discorso: ma dovessi pur io scrivere una dissertazione su questo medesimo argomento, non vorrei accampar mai delle astratte definizioni, per poi venir giù giù deducendo. Qui si tratta di dichiarare un fatto, che è il naturale portato di queste nostre precise e patenti condizioni storiche e sociali: e i fatti che sian dichiarati nelle loro proprie connessioni, son di per sé probativi, senza che si faccia ricorso ad altro sussidio di scolastiche dimostrazioni. Il fatto nostro è questo: che, data la riunione degli insegnamenti nelle Università di moderno stile, e dati i fini sociali cui questa è rivolta, la libertà incondizionata della ricerca e della esposizione scientifica si sviluppa, si mantiene e prospera in tale pubblico istituto, per vie naturali e con modi affatto spontanei, lo dicano o non lo dicano le leggi: ed è anzi bene non lo dicano. Non verrebbe in mente, né a me, né ad altri, di considerare la libertà di cui discorro come semplice conseguenza di quei diritti, che, nella società presente, chiamiamo privati. Per considerare la libertà scientifica come una emanazione del diritto privato, basterebbe starsene a casa, conversare, far propaganda e scrivere dei libri. I diritti che spettano a noi in questo organamento son tanto un esplicito attributo delle funzioni stesse, che essi vengono conferiti, non ai singoli individui, ma al posto. Nessuna restrizione può esservi introdotta per privata convenzione, e non son essi materia mai di contrattazione alcuna. Nemmeno gli stipendii formano oggetto, sia pure alla lontana, di alcun contratto; mentre, nella più parte delle Università di Germania p. es., essi serbano, per diretto o per indiretto, il carattere poco lodevole di cosa contrattabile. Con maggior riguardo al decoro di tutti e singoli i professori, gli stipendii son da noi assegnati al titolo ed agli anni della carriera. L’essere i nostri diritti gli attributi della funzione stessa, non implica punto la conseguenza, che essi siano dei diritti concessi ad un corpo, perché li eserciti e li distribuisca in modo collegiale. Di fatti l’organico di un pubblico servizio, che venga esercitato nell’interesse della società, non ha nulla di comune coi titoli e coi gradi gerarchici di una corporazione. I corpi, che in altri tempi esercitarono le funzioni dell’insegnare, ottenuto il privilegio, tiranneggiarono poi assai spesso i singoli membri loro. La scienza moderna, per giungere alla presente maturità di libera ricerca, ha dovuto, oltre che dagli altri impedimenti, emanciparsi anche dallo spirito corporativo.

L’attuale libertà didattica – tanto per formulare – poggia su l’incontro tra i caratteri intrinseci della scienza moderna, che è tutta una progressiva ricerca, e quelle necessità di ordine sociale, che han portato all’ordinamento legale delle funzioni dell’insegnare. Le due cose hanno una comune radice nello sviluppo della società moderna. Come la scienza sia venuta al punto da rifiutare ogni ossequio a qualsiasi autorità di testi, di tradizione o di ortodossia, gli è cosa risaputa. Come è ora, essa non deve nulla allo spirito dei corpi; anzi a quello si è ribellata sempre. Non si ripetono più in mezzo a noi le lotte religiose, per le quali in altri tempi le chiese e le sette si disputarono la prerogativa didattica. Noi siamo egualmente lontani dalla tirannia regia o papale, come dalla prepotenza comunale. Ci è tanto straniero Calvino quanto Torquemada17. Ci sono egualmente lontani il catechismo tridentino, la confessione augustana, e i trentanove articoli anglicani. Non è nemmeno nata questa scienza per protezione di mecenati, anzi contro a quelle condizioni politiche, che le erano di impedimento, si levò sempre come forza rivoluzionaria. Occorre forse di ricordare il secolo decimottavo? Questa scienza che fa e rinnova di continuo sé stessa, è essa stessa effetto ed esponente del gran moto della società moderna. Non è chi non veda ora, come gli strepitosi progressi delle scienze fisiche sian consentanei alle rivoluzioni dell’industria e della tecnica; e come i nuovi indirizzi della medicina – tanto per dirne di volo un’altra – abbiano in buona parte a regolatori i bisogni dell’igiene. Perché all’Università la scienza libera ci arrivi, bisogna che la società sia di tale assetto da produrne gl’incentivi e le condizioni di esistenza. Coteste condizioni sono ora tali da permettere alla scienza di svolgersi fuori della cerchia dell’insegnamento in innumerevoli funzioni sociali. L’Università, in somma, come è ora, è essa stessa un riflesso ed un risultato della vita sociale. Per ciò appunto i professori han cessato di essere una casta. L’opera nostra è tutta al giorno d’oggi nel lavoro, che non è un semplice attributo dei singoli cervelli nostri, ma è quello che si fa, si produce e si sviluppa per entro alla cooperazione di tanti discutitori, e critici, ed emuli, e concorrenti. Anche questo lavoro è, come tutti gli altri, fondato su la secolare accumulazione delle energie, e su l’esercizio della cooperazione sociale. Anche noi professori, con tutto quello che noi facciamo, noi siam vissuti dalla storia; che è la sola e reale signora di noi uomini tutti. Nella coscienza di tale situazione è la ragione del fatto, che, mentre l’opera nostra didattica è tutta dovuta all’Università, le nostre persone non sono in servigio di nessuno. I professori non patiscono, per ragion dell’ufficio, alcuna restrizione ai diritti generali del cittadino; e come non è più il caso ai giorni nostri di ricorrere a formule di speciali giuramenti, di ceto, di classe o di corpo,

così non si ripete nelle persone nostre quel differenziato tenor di vita, che fu proprio delle corporazioni religiose, le quali per secoli tennero in appalto il latino e la teologia. Gli è fuor di proposito l’andar cercando, col solo sussidio delle formali definizioni, il posto che il professore occupi nella classificazione degl’impiegati. L’impiegato è quello che nell’ordine burocratico riceve comando e prescrizione nell’essenziale delle funzioni sue. Ma c’è chi creda, o pensi, che l’organico delle Università stabilisca un nesso gerarchico nell’intrinseco delle discipline; o che il piano didattico degli studii a scopo di esami fissi i termini dell’enciclopedia, o risolva il problema obbiettivo della classificazione delle scienze? Molteplici e complicate furon le cause che condussero alla statificazione dell’insegnamento nella forma delle moderne Università, che concentrano in unico istituto le funzioni per l’innanzi distribuite su corpi eterogenei, p. es. gli ospedali e cose simili. Cotesta statificazione non è uniforme da per tutto. In Inghilterra può quasi dirsi non sia cominciata ancora; e si limita alla facoltà di conferire il diritto d’incorporazione. In Germania ha fatto delle concessioni, più apparenti che reali, alle tradizioni e ai pregiudizii di corpo. Nel Belgio si mostra compatibile con la esistenza parallela della libera associazione. È massima in Francia, e da noi. Per via di cotesto processo siam giunti al punto, che le Università, come destinazione di opera, come distribuzione di lavoro, come coordinazione di servizii, son rette dalla legge, e che questa legge sia eguale per tutti. Statificando l’insegnamento, lo stato si é messo proprio in seno quella scienza che è per sé stessa la libera ricerca. Il caso del Dottor Fausto è questo, che, tiratosi il diavolo addosso, quello rimase pur sempre il diavolo. Questa fu la sorte del Direttorio, il quale, statificando con la precisione rivoluzionaria della borghesia francese, per il primo l’insegnamento, ci trasse dentro Lamark18: il che è quanto dire l’evoluzione, il trasformismo e tutto il secolo decimonono in nuce. O, a dirla in tutta prosa, per tale congiunzione della libera ricerca con l’ordinamento egalitario degli studii, che ha per suo principale oggetto la garenzia tecnica dell’esercizio di certe professioni, non può mai accadere che la scienza, cambiando natura, divenga un ente politico, un attributo burocratico, un ornamento gerarchico, o una funzione diretta del governo; che, per averla sottomano, deve andarla a cercare in quel campo della concorrenza, dove essa ha via e modo di prestare tanti altri servigi, spesso a gloria e vantaggio delle persone che la coltivano. Non è veramente il solo caso questo, che le funzioni dello stato non s’identifichino con le vere e proprie attribuzioni di governo. Per quanto lo stato sia l’organo diretto di determinati interessi di classe, non può esistere se non a condizione di creare certi servizii, che per diretto o per indiretto riescano a vantaggio di tutti.

Questo è il nodo, queste sono le impreteribili condizioni del problema; e chi non vuole arrestarsi innanzi a questo factum, che è la necessità stessa delle cose, si provi pure ad escogitare dei decreti che in via autoritaria compongano la lite tra Darwin e Weismann, o tra i darviniani e i neo-lamarkiani, o che mettano termine d’ufficio alla ricerca del differenziale tra albumina viva ed albumina morta, nella qual cosa, per questo quarto d’ora almeno, si riduce, nei suoi dati empirici, il problema della biogenesi19. Alla condizione attuale dello sviluppo umano, teorie, e sistemi, e vedute, e tendenze scientifiche ammettono quei soli predicati intellettuali, che si esprimono nelle parole di completo e d’incompleto, di acquisito e di dubitabile, di semiprovato o di provato del tutto; ma si rifiutano di accoglierne alcuno, che in nome di qualsiasi presunzione di potere politico o chiesiastico, designi i prodotti del pensiero come proibiti o leciti, come riconosciuti o tollerati, come facoltativi o vidimati.

I possibili inconvenienti e la disciplina Ma in cotesta situazione non ci son dunque più dei pericoli, e non c’è da temere inconvenienti di sorta alcuna? – così mi pare di sentirmi chiedere a bassa voce. – C’è pericoli e ci può essere inconvenienti, di certo, come ce n’è in tutte le cose umane, che risultano dagli inevitabili contrasti della vita, i quali generano contraddizioni, rendono necessarii i compromessi, e danno luogo assai spesso all’abuso ed agli arbitrii. Siamo nel terreno mondo e non nell’empireo. Può darsi anche ora il caso, che la scienza abbia da lottare coi temporanei abusi d’una politica reazionaria; ma questo caso mi par difficile s’avveri in Italia: e poi, del resto, la gran tragedia dei secoli XVI e XVII è trapassata per sempre. Ricordiamo tutti la generale ilarità con la quale alcuni anni fa venne accolta una lettera ministeriale contenente un monito a un professore, di liceo del resto, colpevole di insegnare una filosofia, che sarebbe stata difforme dalla coscienza della maggioranza dei contribuenti!20 Rendo ancora oggi al collega Baccelli la meritata lode, perché, diventato ministro poco dopo, quel professore ammonito promosse all’Università, documentando, con tale atto estemporaneo di salutare iniziativa, come il governo italiano non voglia farsi arbitro dei principii della scienza e della filosofia, e come non sia ufficio del Ministro dell’Istruzione d’imporre ai figli e ai nipoti la tradizionale ignoranza dei padri, degli avi e dei proavi. In fin delle fini i professori non possono ammettere, che tra le persone loro e la coscienza loro ci sia interferenza, e non han dovere di recarsi in mano la coscienza per offrirla in negozio. Per avere una chiara e precisa idea di quei mancamenti dei professori, che meritino, al caso, ammonizione e pena, bisogna mettersi sopra un terreno ben solido, e non crearsi, per gusto di fantasticare, delle ipotesi paradossali. Mi è toccato di leggere stramberie di questo genere: – ma se un professore insegnasse il sistema tolemaico? – Abbandono ben volentieri, per parte mia, un caso simile all’insegnante di psichiatria. E un altro a dire: – e se la libertà della critica fosse volta a scopo di diffamazione? – Eh! via: c’è anche per noi il diritto comune! Il fatto importante, la considerazione schietta e genuina è solo questa: che l’Università, cessando d’essere un corpo, non è perciò meno una convivenza, nella quale la natura dei diritti e dei doveri è determinata dallo scopo e dalla qualità dell’ufficio. L’attività nostra non è rimessa al nostro personale arbitrio. Siam qui per renderci utili a quelli che apprendono. La disciplina e l’ordine sono indispensabili condizioni di tale esercizio. E con la disciplina e l’ordine van connessi speciali riguardi di convenienza e di decoro. I professori non sono

infallibili, ed è bene che siano stabilite le pene disciplinari cui possono andar soggetti i turbatori dell’ordine, gl’inadempienti, e quelli che mancano all’onore. Nulla di preventivo e d’inquisitorio può essere in tali regole disciplinari; la cui applicazione suppone avverato con indubbia evidenza il mancamento. Il sistema presente del giudizio di tali mancamenti devoluto a un solo corpo centrale, che del resto è per metà eletto da noi stessi, mi pare in tutti i casi preferibile al moltiplicarsi dei poteri disciplinari in tutte e singole le Università. Comunque cotesta giurisdizione sia costituita, essa non può concernere se non gli atti del professore, che abbiano diretta attinenza con la sua posizione nell’ambito della disciplina della Università. Chi si provasse ad estenderla ad altri atti, che l’ordine e la disciplina dell’Università e dell’insegnamento non concernono per diretto, o aprirebbe la via ad abusi di potere, o creerebbe agli insegnanti stessi una posizione privilegiata. Per qualunque metodo e con qualunque procedimento cotesta giurisdizione si esplichi, essa non può né dee mai trascendere alla definizione del lecito o dell’illecito in fatto di dottrine. Così dicendo, non enuncio una mia personale opinione, non esprimo un desiderio, non difendo una mia tendenza; ma espongo un dato di fatto, che è nella necessità delle cose stesse. A che pro’ dichiarare illecito dalla porta in qua dell’Ateneo, ciò che non si può dichiarare illecito dalla porta in là? Lo stato, che definisce la scienza, è già una chiesa. Per definire occorre ci sia il domma e il catechismo. E, fatta la definizione, ci vuol poi dell’altro; e, ossia, sopprimere la libera stampa, l’associazione, il parlamento; e occorre rifare la lista dei libri proibiti. Non par verosimile che lo stato della rivoluzione borghese voglia sopprimere le condizioni della sua propria esistenza; il che è quanto dire suicidarsi. Il caso, più che comico, sarebbe grottesco. La congiunzione della libera scienza con l’ordinamento legale ed uniforme degli studii reca in sé i germi di molti e svariati contrasti. Ciò è verissimo. Ma ciò è naturale; ma ciò è la vita stessa, che è in istato continuo di labilità e di trasformazione. In questo punto principalmente consiste l’indiscutibile superiorità del nostro pensiero su quello dei secoli passati; che noi, cioè, non ci spieghiamo più la vita coi concetti di fato, di caso, di arbitrio e di provvidenza, ma siam tutti raccolti nella intellettuale persuasione, che le nostre opere e i nostri pensieri son soggetto ed oggetto, termine e parte, tramite e fine di un necessario e continuativo sviluppo.

La libertà scientifica sospettata In questi ultimi tre anni c’è accaduto di osservare, come la libertà scientifica dell’insegnamento sia di nuovo diventata argomento, non di critica soltanto, ma di sfiducia e di sospetto. Il luogo e l’occasione di questo discorso non mi permettono di usare di quelle forme di polemica, che son proprie e convenienti a chi illustri nella stampa i fatti, le vicende e le oscillazioni della politica di tutti i giorni. Ma il luogo, e l’occasione, e il tema stesso da me scelto, m’impongono di non lasciare senza risposta le accuse, nelle quali cotesta diffidenza trova l’espressione sua definitiva. Così p. es. noi abbiamo più volte sentito come alla Camera dei Deputati la menzione dei tumulti studenteschi fosse occasione a discutere la Università tutta quanta, come quella che rappresenti quasi quasi un pericolo per la società. Lo estremo di cotesta frettolosa argomentazione s’ebbe tre anni fa; quando, proprio alla vigilia della discussione delle leggi eccezionali di sicurezza pubblica, dalla bocca di un deputato uscì questa singolare accusa: essere l’Università causa di anarchismo21. Mi risparmio la briga di mettere in rilievo il poco sentimento della realtà storica, che si rivela in cotesta estemporanea accusa. Non franca la spesa di redarguire una così ingenua opinione, la quale confonde le baruffe studentesche, deplorevolissime per sé stesse, ma di effetto solo in questa angusta cerchia universitaria, con le grandi lotte sociali dei giorni nostri. Ma mi soffermo ad una considerazione che parrà plausibile a tutti. La Camera dei Deputati non è certo succeduta al Club dei Giacobini, che, sospettando, accusando e denunciando, salvò la Francia dalla invasione straniera e dalla ribellione all’interno. Nessun parlamento è chiamato ora a ripetere i fasti di quella gloriosa Convenzione, che rinnovò dal fondo gli ordini della società; e nessun deputato sarà chiamato a decidersi tra la Dea Ragione e l’Ente Supremo. I tempi corrono così ordinarii e tiepidi, che non c’è luogo a temere si sia alla vigilia né del terrore rosso né del terrore bianco22. Il parlamento, che è un organo legale dello stato, ne ha dei poteri: discutere le leggi, fare i bilanci, mantenere o rovesciare i ministeri; e mi par che basti. Nell’ultimo negozio si occupa più che in ogni altra faccenda. All’esercizio ordinato e proficuo di questi poteri occorre innanzi tutto la esatta cognizione di quei bisogni sociali, che lo stato, nei limiti delle sue attribuzioni, o soddisfa direttamente, o per indiretto aiuta; ci occorre, se mi permettete, la scienza e soprattutto l’intelligente rispetto delle ragioni tecniche dei pubblici servizii. Venga una buona volta la Camera a discutere utilmente delle urgenti riforme

universitarie. Abolisca, se ciò è ragionevole, parecchie Università, cambii l’ordine degli studii, muti i rapporti degli esami con le professioni, rinnovi pure dal fondo i metodi della nomina e della carriera dei professori; e quando avrà fatto tutto quello che umanamente l’è dato di fare, dovrà sempre da ultimo arrestarsi innanzi a questo incontrastabile principio: – non c’è modo di stabilire limiti preconcetti e presegnati allo sviluppo dell’attività scientifica. Nessun regolamento segnerà limiti mai all’esperimentazione naturalistica, alla combinazione filologica, alla escogitazione filosofica, alla illazione giuridica, alla costruzione storica, alla critica, o etica o politica o economica, dei fatti e delle condizioni sociali. E sarebbe poi, d’altra parte, superfluo ed offensivo, che un qualunque codice venisse ad insegnarci le ragioni d’ordine, di convenienza e di decoro, che sono implicite all’ufficio nostro. Giova forse di ricordare ai professori, che essi non devono confondere l’attività loro con quella dell’apostolo, del propagandista e dell’agitatore; e che il tenore e lo stile delle trattazioni didattiche non han niente di comune con ciò, che si addice al pubblicista, all’avvocato, all’oratore? C’è bisogno di una sentenza d’un qualche tribunale, perché si sappia, che la scuola non è né chiesa né assemblea? Aspetteremo forse una dichiarazione dei superiori, per sapere che l’insegnamento consiste nella spiegazione delle cose, delle parole, dei segni, mira ai principii, ai teoremi, alle leggi, e tenta di esporre le costruzioni e i sistemi; e che, per essere un’ordinata tecnica, ha bisogno dei libri, degl’istrumenti e degl’istituti sperimentali? Nessuna prescrizione deve ricordare ai professori, che la scienza reca in sé stessa i limiti naturali della libertà dell’insegnare; perché né può esser materia di deliberazione per chi l’apprende, né lascia a chi l’insegna campo all’arbitrio. Chi dice scienza, dice tendenza metodica ad eliminare il dominio delle pure opinioni. Nella voce d’allarme contro l’Università si rivela, o la paura del clericalismo, che oramai va pigliando da noi consistenza e forma di partito politico, o, dall’altra parte, l’apprensione del socialismo; e questa è per certi rispetti – e credo di essere in ciò un giudice competente – alquanto prematura. In cotesta apprensione, che di tanto in tanto assume le forme del sospetto, concorrono uno sbaglio di apprezzamento, un grave errore di fatto, e la fallacia d’un giudizio incompetente. Molti si danno l’aria di credere che l’Università abbia un grande potere sociale; e non si arrendono alla persuasione, che i professori non dispongono di alcuna leva per muovere a posta loro la società. L’opera nostra individuale si disperde in infiniti frammenti nei cervelli dei singoli scolari; e l’opera nostra collettiva, per quanto consista in un nobilissimo esercizio, è troppo piccola cosa di fronte all’enorme meccanismo delle forze sociali.

L’errore di fatto è, di aver preso per moneta contante la favola delle molte dozzine di professori socialisti, che avrebbero invaso già le Università italiane. In un paese così corrente al fantasticare, come è il nostro, cotesta favola non potea non incontrare una facile accoglienza, Qualunque lamento su la mala sorte dei poveri o dei meno abbienti, qualunque richiesta di riforme nell’interesse del maggior numero, qualunque augurata correzione del diritto, ogni stramberia sociologica, e la più volgare protesta contro il liberalismo, ricevono oramai da noi l’etichetta del socialismo. L’ironia spontanea delle cose ha voluto che, a documento di tutti codesti spropositi, stesse il fatto, di veder spesso citate, per fino nella stampa socialistica, le opinioni dell’on. Villari, e quelle del presente ministro dell’istruzione on. Gianturco, che, qua e là, nei suoi scritti di carattere prettamente giuridico, ha invocato delle riforme al Codice Civile23. La fallacia del ragionamento, che ha fondamento nella incompetenza del giudizio, consiste nella fantastica opinione che molti si fanno dell’azione politica del professore per entro all’Università. I nostri insegnamenti, per nove su dieci casi almeno, non hanno alcuna attinenza con la vita politica. C’è chi possa ignorare, che per la maggior parte i corsi universitarii sono di matematica e di scienze naturali, di medicina, di diritto positivo e di filologia? Nessun professore, che coteste discipline insegni, ha, né modo, né pretesto, né occasione, né necessità di pronunziare o di difendere quelle opinioni, o politiche o sociali, che egli, e come cittadino, e come scrittore, e come elettore, e come appartenente ad un partito, ha diritto e ragione da far valere altrove. In pochi casi il pigliar partito per un indirizzo politico o sociale è cosa intrinseca all’insegnamento stesso, ed entra nel vivo della orientazione scientifica. S’intende che alludo alla storia, all’economia, alla filosofia del diritto e ad altre simili discipline. Ora l’economista, che abbia p. es. fatte sue le dottrine di Marx, non può aver libertà minore di quella che tocchi a chi le medesime dottrine faccia oggetto di critica; e nessuno vorrebbe negare al sociologo di discutere le origini dello stato, della famiglia, della proprietà, del diritto e della morale, secondo i principii del materialismo storico, proprio in questo tempo, in cui la critica ha invaso per fino il campo di quella geometria, che era sempre parsa la indiscussa ed indiscutibile scienza del certo. Le dottrine sociali, in quanto sono dottrine, non formano se non un caso particolare della libertà scientifica. Ma, se si desse il caso, – son cose che ho letto coi miei proprii occhi – che il professore s’atteggiasse ad agitatore, a capo-setta, a tribuno, ad arringatore? Anzi, perché non fare il caso, che un clericale, anziché insegnare una determinata disciplina, sia pure secondo l’animo suo e secondo l’indirizzo del pensiero suo, pigliasse l’atteggiamento di chi predica o dica orazioni! Ma via, ce ne può essere un terzo di caso, che calza di più all’argomentazione dei

denunciatori di pericoli. E, cioè, che vi fosse un professore, diciamolo pure, socialista, il quale, scambiando gli strumenti dei nostri gabinetti, con le macchine delle officine, gli studenti con gli operai delle fabbriche, le lotte per gli esami con quelle dei proletarii per il diritto di sciopero e di coalizione e per la giornata delle otto ore, le vacanze universitarie con la festa del 1° Maggio, e scambiando a dirittura la convivenza temporanea degli studenti con la vita di una classe di oppressi e di sfruttati, si mettesse qui, proprio qui, nella Università, a rappresentare il primo atto di una rivoluzione sociale in melodramma. Io, per mia parte, cotesti professori inverosimili, che non ci furon mai al mondo, e che, per il decoro del senso comune, non ci saranno, spero, mai, io li affiderei senz’altro alle oneste cure del Direttore del Manicomio, perché sopra di loro nessun diritto disciplinare o penale avrebbe più presa. L’affannosa denuncia dei pericoli sociali non merita, fuori di questa satira, nessun’altra risposta!

Agli studenti SIGNORI STUDENTI, Noi siamo qui per rendere un servigio a voi: – voi non avete obbligo di renderne nessuno a noi direttamente. Nel rendere un servigio a voi, noi, per il tramite delle persone vostre, lo prestiamo alla società in generale. Voi, con l’applicazione pratica ed efficace delle conoscenze acquistate qui dentro, fate poi di rendere agli altri i frutti di ciò che l’opera nostra, spesa in pro’ vostro, costa, sotto tanti aspetti, alla società tutta intera. Noi non siamo qui per farvi da padroni, e non ci assumiamo, certo, le parti di direttori spirituali, o di vostri individuali consiglieri. Noi non abbiamo facoltà, né di scegliervi, né di respingervi. Voi ci venite di vostro impulso, e per le condizioni favorevoli delle famiglie vostre. Di fronte alla gran massa dei lavoratori, che rimangon privi dei benefizii della cultura, voi – permettetemi ve lo dica – voi siete dei privilegiati. Uscendo dalla Università, la più gran parte di voi – il che fa in fondo la regola – non ci tornerà più ad occuparvi ufficio alcuno. Volgerete le discipline apprese qui dentro ad altri usi ed intenti, che non sian quelli del diretto e proprio esercizio della scienza stessa. Entrando nella gara della vita, vi toccherà di tentare le contingenze della fortuna, e di subire le alee della concorrenza. Questa è la vita, per ora almeno: né noi abbiamo modo di farvi veleggiare con agile e sicura navicella verso i regni di Madonna Utopia. Errano, e di molto, quelli i quali attribuiscono a noi l’ufficio preciso di educatori, nel senso vero e proprio della pedagogica. Voi venite qui in tale età, che ai professori non può passare per il capo di tenervi in custodia, o di ridurvi nella condizione di alunni e di collegiali. L’educazione che si dà qui dentro, consta di soli stimoli indiretti, e poggia sopra mezzi, dirò, obbiettivi: – il piano degli studii, l’orario, la puntualità, lo zelo dell’insegnare, la voglia dell’apprendere, la tollerante convivenza di uomini tanto difformi fra loro per opinioni e per sentimenti, la ricerca disinteressata e libera della verità. Per il solo fatto che voi passate qui dentro alcuni di quegli anni intensivi della gioventù, che a confronto degli anni nostri sono decennii, e ci venite d’ogni parte d’Italia, e di qualunque condizione sociale voi siate, voi, o ricchi o poveri, vivete in perfetta eguaglianza; per questo solo fatto della liberale convivenza, la Università è una grande educazione. Ve ne avvedrete nell’età matura, quando vi sovverrà degli anni dell’Università, come dei soli da voi vissuti in democrazia. Non vi lasciate però trarre in errore da quelli, che pigliano argomento da cotesta spontanea democrazia, ad escogitare non so che utopica città accademica, nella quale gli studenti ridotti in corpo sovrano farebbero e disfarebbero tutto, per fino la scienza, messa ai voti nella elezione dei professori. Ma non è forse la Università, nella parte sua essenziale, una istituzione

continuativa, che deve sopravvivere a molte generazioni di studenti? E che città volete fare di un popolo fluttuante di immigranti e di emigranti? Eleggere i professori: ossia eleggere la scienza! Ma eleggere il giudice, il dittatore, il presidente di repubblica o il re, è cosa meno irrazionale – tanto che s’è fatto e si fa – che non di eleggere il macchinista che conduce la locomotiva, o il capitano che governa la nave. Ciò che è tecnico non si elegge, ma si sceglie; e, per poterlo scegliere, bisogna aspettare che si formi e si maturi. In cotesta ragione tecnica consiste la specialità della nostra carriera, e la garenzia che le compete; in cotesta stessa ragione tecnica, e non in altro, ha fondamento l’autorità nostra. Rifiutarsi a tale autorità gli è come mettersi per la via dell’assurdo. Non mi parrà mai che sia atto di prodezza il ribellarsi all’autorità del barcaiolo quando si è in barca. Appunto perché questa autorità nostra è, dirò così, tutta ideale, non le occorrono forme di dominio per farsi valere. Non chiede nemmeno quella maniera di riconoscimento, che è l’ossequio; e le basta che da parte vostra ci sia soltanto l’acquiescente e cortese docilità. Voi sapete bene, che questa autorità esce di rado dallo stato quiescente per infliggere delle pene, che sono, del resto, di carattere puramente disciplinare. I professori a ciò deputati compiono cotesto dovere di assai malavoglia; ma voi, SIGNORI STUDENTI, nella vostra coscienza dovete ammettere, che la libertà e l’ordine degli studii debbono essere tutelati anche dagli effetti della vostra giovanile inesperienza. Voi avete, senza dubbio, il diritto di discutere nei nostri insegnamenti la scienza che vi si rivela. Il discutere è condizione dell’apprendere; e la critica è la condizione d’ogni progresso. Ma per discutere, occorre d’aver già imparato. La scienza è lavoro, e il lavoro non è improvvisazione. Non vogliate aggiustar fede a quel mito psicologico della genialità, che serve spesso a nascondere tanta ciarlataneria; e non vogliate credere al privilegio di razza, in fatto d’ingegno. Son queste le illusioni nelle quali si cullano i decadenti e i decaduti. Noi fummo l’una cosa e l’altra per secoli, e ora pare che basti. Io mi auguro che voi, discutendo e criticando, supererete noi, ossia questo periodo nostro. L’Italia ha bisogno di progredire materialmente, moralmente, intellettualmente. Io spero che voi vedrete un’Italia, nella quale l’atavistico assetto della cultura dei campi sarà soppiantato dalla introduzione delle macchine e dalle larghe applicazioni della chimica; e che vediate strappata ai corsi superiori dei fiumi, e forse alle onde del mare ed ai venti, la forza generatrice della elettricità, che sola può compensarci del carbon fossile che ci manca. Io mi auguro che voi vedrete spariti dall’Italia gli analfabeti, e con essi gli uomini che non son cittadini, e le plebi che non son popolo. Voi sarete forse testimoni e parte di una politica, la cui orientazione sarà determinata dalla

coscienza della cresciuta cultura, e dalla moltiplicata potenza economica; e non più dalle pitoccate alleanze, e dalle imprese fantasticamente avventurose, che terminano poi in atti di prudenza che paiono viltà. Tutta cotesta gran vita sfugge all’azione nostra diretta. Noi non siamo qui ad usurpare le parti di direttori della civiltà, e di iniziatori della storia. Sarebbe per fino assurdo, che volessimo monopolizzare tutta intera la scienza; e una nazione viva e vivente non può accumulare tutta la sua cultura e tutto il suo pensiero in una ipertrofica Università. Qui dentro è il campo preciso di quel tanto della scienza e della cultura, che si lascia disciplinare ad esclusivo scopo di metodico insegnamento. Noi professori siamo, senza dubbio, orgogliosi della superiorità di condizione morale, in cui ci troviamo rispetto a quelli che ci precedettero nei secoli scorsi, pei quali le libertà furono privilegi; e per rispetto ancora a quei cultori della scienza, che dovettero in altri tempi, o devono in altri paesi, piegare innanzi ai capricci dei mecenati, o alle prepotenze dei protettori e dei grandi. Ma saremo, per fermo, più orgogliosi, se, associando voi all’opera nostra la vostra intelligente docilità, ci permetterete di chiamarvi cooperatori nostri in questo lavoro, che è il più gradito e nobile che capiti ad uomo di esercitare ordinatamente, anzi commilitoni sotto l’insegna di quella libera e spregiudicata ricerca, che per noi e per voi tutti è diritto e dovere ad un tempo. E con tale augurio, a rivederci. a

La Facoltà m’indicò fin dal 17 febbraio, e mi nominò il 23 marzo. Non accettai che il 13 giugno in

risposta ad una formale interrogazione per iscritto del sig. Rettore. a Della parte che saltai i due brani più lunghi sono quelli da p. 12 lin. 21 a p. 16, lin. 13; e da p. 42, lin. 18 a p. 46, lin. 266. a La relazione è riprodotta per intero in appendice I. a

Perché questa espressione fosse esatta, le Università dovrebbero funzionare da corpi autonomi. Dunque, bisogna dire invece: esami professionali.

APPENDICE I La seguente Relazione fu inviata al Presidente del Comitato ordinatore del Congresso Universitario del 188724.

Signore, Perché mi riesca di trattare con la maggiore brevità possibile il tema, del quale son chiamato a far da relatore nel prossimo Congresso Universitario di Milano, mi giova per primo di riprodurre la lettera, che, quasi a titolo di preliminare dichiarazione della tesi proposta, io mandai sin dal 12 luglio passato al giornale la Tribuna (pubblicata nel n.° del 14)25. Eccola tal quale:

Ill.mo signor Direttore, Nel prossimo settembre si terrà a Milano il primo Congresso Universitario. Buona l’idea per ravvicinare tanti professori, che non si vedon mai; ottima poi per mettere in chiaro, se gl’insegnanti superiori abbiano idee precise e decise su le questioni, che due diversi e opposti disegni di legge, votato l’uno dalla Camera e l’altro dal Senato, miravano ultimamente a risolvere. Il Comitato di Bologna26, che per la sua felice iniziativa merita le lodi ed i ringraziamenti di tutti i professori d’Italia, nel dar fuori il programma preliminare dell’adunanza ha già pubblicata una lista di temi, che a me paiono assai pratici nella sostanza e nella forma. Fra questi temi ve n’è uno proposto da me, ed accolto dal Comitato promotore. Mi permette di chiarirlo un po’? – perché, trattandosi di cosa che concerne l’economia generale delle facoltà universitarie, mi preme di richiamarvi su per tempo l’attenzione di tutti i colleghi, cui stia a cuore il vero e sicuro progresso della cultura nazionale. Nelle nostre Università si dà presentemente la laurea in filosofia a tutti gli studenti di lettere, che, dispensati dal corso di archeologia, frequentino per un anno i corsi di etica e di pedagogica. Secondo il concetto della nostra legge, insomma, non c’è che una sola via per diventar filosofi; quella, cioè, degli studii filologici, salvo il meno dell’archeologia e il più dell’eticaa. Ma, facendo così, speriamo noi con fondamento, che la filosofia cessi omai dall’essere una mera scolastica, od una opinione letteraria? e dov’è il positivismo, del quale tanti si dichiarano aderenti? e quando si arriverà all’indirizzo reale e razionale, che molti, con espressione a me poco gradita, ma vera nel fondo, chiamano filosofia scientifica? Io credo fermamente, che nel giro degli studii universitarii la filosofia abbia ad essere, non un complemento obbligatorio della storia e della filologia, ma un complemento, invece, facoltativo di qualunque cultura speciale: storica, giuridica, matematica, fisica, o che altro siasi. Alla filosofia ci si deve potere arrivare didatticamente per qualunque via, come per qualunque via ci arrivaron sempre i veri pensatori. Io per ciò propongo, che la laurea in filosofia possa essere conferita agli studenti di qualunque facoltà, compresa la letteraria, i quali, frequentato che abbiano entro il quadriennio di obbligo certi corsi filosofici da determinare, si espongano a sostenere una tesi scritta, di argomento generale quanto all’obbiettivo ed al metodo, ma fondata sempre sopra una determinata cultura speciale. Delle modalità discorrerò e discuterò poi a Milano.

Questa mia proposta per la sua novità tornerà un po’ ostica alla prima. Perciò io prego caldamente i miei colleghi di pensarci un po’ su: e la raccomando poi in modo speciale ai professori Sergi e Cremona. Il primo scrisse qualcosa in proposito ultimamente, e per altre ragioni venne nelle medesime conclusioni27. Al Cremona poi dico: non le pare che questa sia la via per giungere speditamente ad alcuni dei risultati da lei vagheggiati con la istituzione della grande facoltà filosofica?28 Mi creda ecc. Nel rileggere cotesta lettera, pubblicata già da un pezzo, mi pare che io v’abbia espresso con sufficiente chiarezza il concetto principale della mia proposta, e che v’abbia anche indicato, per lo meno approssimativamente, il modo più opportuno di risolvere la questione enunciata. Cosicché, se pure in ossequio alle usanze dei congressi mando alla S. V. un’apposita relazione, ad illustrare le proposte, che formulo qui appresso in sette distinti articoli, ben poco mi rimane da aggiungere. E difatti cotesta lettera così, per sé, senza che io v’aggiungessi altra spiegazione o commento, ha dato occasione non solo a diversi e lunghi articoli di giornale, nei quali le questioni da me toccate con molta brevità furono ampiamente svolte con efficace sussidio di ottimi argomenti e prove, ma anche a molte lettere private, con le quali non pochi colleghi mi hanno onorato dei loro suggerimenti e consigli. Da tali suggerimenti e consigli risultano per l’appunto le proposte formulate più innanzi: e queste oramai, non che mie, sono un po’ di tutti gli egregi colleghi, coi quali ho tenuta una viva corrispondenza per ben due mesi. Quanto agli articoli dei giornali, per tacere di quelli di puro ragguaglio, io non so rendere grazie che bastino al professore A. Majoranaa, al dott. Albertib di Palermo e al prof. G. Barzellottic, i quali, trattando con piena persuasione e con molta dottrina della questione da me proposta, mi danno oramai sicurezza, che io non difendo più un’opinione mia, ma anzi una opinione entrata per diverse vie nella mente di molti. Al Barzellotti soprattutto so grado assai dell’aver egli toccato dei più gravi problemi della cultura nazionale, a proposito d’una questione, che ai più può parere di solo interesse didattico, anzi scolastico. Ma perché io non potrei discutere a parte a parte tutte le opinioni contenute in cotesti articoli, e nelle molte lettere che mi furono inviate, non solo da colleghi e da amici, ma anche da insegnanti di liceo, da laureati e laureandi e da persone colte, mi restringerò qui ad alcuni brevi appunti, che giovano a chiarire la relazione che passa tra le proposte che formulo, e le osservazioni, che mi giunsero.

Ai professori Angiulli, De Dominicis, Ardigò, Tocco, Filomusi, Barbera, Corleo e Jaja, che per ragioni diverse si dichiararono favorevoli, rendo vive grazie dell’adesione in genere, e in particolare poi dei suggerimenti che alcuni fra loro ebbero la cortesia di comunicarmi32. Aspetto che l’Angiulli e il De Dominicis dicano più precisamente l’opinione loro, il primo nella «Rivista Critica», ed il secondo nella «Rivista di Filosofia Scientifica»; la qual cosa si sono offerti di fare fra non moltoa. Nel professore Ardigò io aveva già da un pezzo un ottimo alleato, per essersi egli dichiarato già da parecchi anni fautore della tesi che io qui sostengo (conf. il «Nuovo Educatore», anno II, fasc. del 23 dicembre)34. Debbo al Tocco molti utili richiami alla storia della filosofia moderna, dai quali apparisce chiaro come quel lavoro dello spirito, che dalla cultura e dalla scienza mena su su alla filosofia, si sia sempre compiuto per diverse vie35: e a me pare che gli esempii tratti dalla storia generale del pensiero siano per l’appunto argomento validissimo per affermare, che la Università nel suo ordinamento debba, per quanto è possibile, presentare gli equivalenti didattici della genesi naturale dell’attività scientifica. Al desiderio manifestatomi dal Tocco, che sia mantenuta la obbligatorietà di alcuni studii filologici pei laureandi in filosofia, quale che siasi la provenienza loro, mi permetto di contrapporre due osservazioni. Di coteste benedette obbligatorietà per filo e per segno, noi professori dovremmo essere una buona volta ristucchi, perché non possiamo ignorare come tornino vessatorie agli studenti, d’impaccio agl’insegnanti e al postutto illusorie nell’effetto. E nel caso speciale poi pare a me evidente, che se un giovane si muove da sé a completare coi filosofici gli studii speciali, poniamo del diritto o d’altro, la spontaneità stessa di cotesto impulso mentale gli debba essere scorta sufficiente a sceglier bene, ma di libera volontà, alcune delle materie storiche e filologiche, sia che gli tornino utili come sussidio, o sia che gli paiano congeniali alle sue naturali disposizioni. Al desiderio del Corleo, il quale mi chiedeva se ci fosse modo di rendere praticamente utilizzabili le varie lauree da me vagheggiate, mi pare che in buona parte risponda la proposta contenuta nell’art. VII. Del resto l’egregio professore ha inviata una lettera alla Rivista l’«Università», nella quale apparirà più chiaramente il pensiero suo. Al collega L. Ferri, che lodava un mese fa la mia iniziativa, ma si riserbava di pronunciarsi poi più particolarmente a discussione avviata, raccomando ora di vedere se le proposte già definite non gli paiano materia sufficiente da formulare un giudizioa. E dico il medesimo al prof. Cantoni Carlo, il quale mi scrisse di accettare il disegno in genere, ma al tempo stesso si mostrò desideroso d’intendersi poi con me a voce, circa i mezzi pratici di applicazione.

Mi è rincresciuto molto di non incontrare l’assenso dei colleghi Masci e Bonatelli. Non intendo per ciò di entrare in polemica, né con l’uno, ne con l’altro; perché il discutere non è proprio d’una relazione, e d’altra parte le lettere private, che sono, starei per dire, revocabili sempre, non offrono materia ben definita a una discussione per le stampeb. Toccherò, dunque, delle obbiezioni loro per quel tanto che importa al valore intrinseco ed al tenore delle mie proposte. Il Masci p. es. crede opportuno che si conservi in modo prevalente la connessione tradizionale fra la filosofia e la filologia; ma nondimeno ammette che si accordi ai già laureati nelle altre facoltà di laurearsi successivamente in filosofia, con dispensa dagli studii filologici. Ora pare a me che, quando s’ammettano ad iscriversi ai corsi di filosofia gli studenti di qualunque facoltà, compresa la letteraria (art. II), la così detta connessione tradizionale, se è fondata in qualcosa di ragionevole, si manterrà da sé; né la libertà di usarne o di non usarne le toglierà alcuna parte del valore che il Masci le attribuisce. Quanto a rendere onninamente successivi e non anche contemporanei gli studii filosofici con quelli di altra facoltà, mi pare che si rischi di non raggiungere lo scopo, che dev’esser quello di favorire appunto nei primi anni universitarii le tendenze più generali e più speculative, le quali poi più tardi vengono il più delle volte, o sviate, o depresse dagli studii tecnici e professionali. Il Bonatelli riconosce che la preparazione esclusivamente letteraria è insufficiente pei filosofi; sebbene inclini a credere che gli studii filologici, per la loro intrinseca natura, siano stimolo più diretto al filosofare, che non quelli di matematica, di fisica e così via. Ma teme che la mia proposta aumenti in luogo di diminuire le presenti difficoltà della mala preparazione; perché, col mettere alla pari giuristi, filologici, naturalisti ecc., crescerebbero di gran lunga le probabilità di una preparazione unilaterale ed incompleta. A suo avviso, in luogo di rendere accessibili gli studii filosofici ai soli letterati, come si fa al presente, o a tutti, come propongo io, converrebbe mettere a fondamento della laurea filosofica una cultura combinata di materie filologiche, matematiche e di scienze naturali. Ora io non nego che questo sia l’ideale del perfetto filosofo: ma gli ordinamenti scolastici, in quanto sono obbligatorii, possono essi mai prendere a modello il tipo più perfetto? Preferisco per ciò al concetto obbligatorio e tassativo implicito in cotesta proposta, una forma più libera, e semplicemente approssimativa, come è quella che enuncio nell’art. V. La tesi che io sostengo ha avuto l’onore di tanta discussione, ed ha incontrato l’assenso di tali ottimi professori, difformi fra loro per inclinazioni d’animo e per opinioni scientifiche, appunto perché non s’ispira ad alcun pregiudizio di scuola o di setta, anzi riflette con la massima imparzialità le più generali tendenze della

cultura e del pensiero dei nostri tempi. Essa mira a combattere due pregiudizii egualmente perniciosi alla cultura: il volgare tradizionalismo, e lo specialismo esageratoa. Né vale di addurre l’argomento ovvio oramai fra noi, quando si discorra di cose scolastiche: che, cioè, nel giro di pochi anni si è cambiato già molto e troppo spesso, ma con poco frutto. Di riforme larghe e radicali, come quella che qui si propone, non si può invero vedere tutto l’effetto se non in capo ad un ventennio. Ecco ora i quesiti da mettere in discussione. I. Tutti gl’insegnamenti filosofici, a qualunque facoltà si trovino presentemente assegnatia, formeranno, per quel che riguarda gli effetti degli esami e il conferimento del dottorato, come un gruppo a sé, rimanendo però impregiudicata per tutti gli altri rispetti la posizione dei singoli professori nelle rispettive facoltà cui ora appartengano, o a norma della legge, o in via di fattob. II. A questo gruppo d’insegnamenti potranno iscriversi, con effetto utile, tutti gli studenti di qualunque facoltà o scuola, universitarii, così entro il periodo degli anni rispettivamente obbligatorii, come anche nei due anni successivi al conseguimento della laurea. III. Lo studente regolarmente iscritto al gruppo filosofico, quando abbia frequentato nel giro di quattro anni otto almeno dei corsi annuali di filosofia (cioè due corsi per anno), potrà chiedere di essere ammesso a sostenere gli esami di laurea in tale disciplinac.b V’è una doppia combinazione: a) Nel caso che il richiedente sia già laureato, o in filologia, o in diritto, o in matematica e così via, oltre alla prova degli otto corsi filosofici di obbligo, la laurea già conseguita sarà titolo per l’ammissione. b) Nel caso poi che uno studente iscritto per le lettere, per il diritto, per la matematica e così via, tralasciando di laurearsi in tali discipline voglia invece laurearsi in filosofia, oltre a provare la frequenza degli otto corsi filosofici di cui sopra, dovrà anche esibire la prova di aver frequentato otto altri corsi della facoltà alla quale era iscritto, ma sempre delle materie più generali e scientifiche, e non di quelle strettamente tecniche e professionali. Coteste materie aventi effetto utile saranno determinate per regolamento. IV. L’esame di laurea sarà dato da una commissione composta di tutti i professori del gruppo filosofico, e di tre professori scelti nella facoltà alla quale il candidato si trovi iscritto. La tesi di laurea potrà avere per argomento una qualunque questione speciale, purché trattata filosoficamente. La commissione però nell’accettarla dovrà emettere un voto motivato. V. Chi voglia iscriversi al gruppo filosofico esclusivamente, senza appartenere

ad un’altra determinata facoltà, per chiedere la laurea avrà obbligo di dimostrare, non solo la frequenza di tutti i corsi filosofici esistenti nel gruppo, ma eziandio la frequenza di altri otto corsi liberamente scelti e liberamente combinati fra le materie più generali e scientifiche della Università (conf. art. III). VI. Nei diplomi di laurea sarà usata una formula, dalla quale apparisca se il dottorato è di filosofia pura (art. V), o di filosofia a base di cultura filologica, matematica, giuridica e così viaa. VII. Quanto agli effetti amministrativi di coteste varie lauree, nella scelta dei professori di filosofia nei licei, e di etica e diritto negl’istituti tecnici, sarà determinato per regolamento a quale combinazione degli studii filosofici, vuoi con la filologia, o vuoi con la matematica, o vuoi col diritto, si accordi la preferenza. In tutti i casi le lauree in filosofia saranno titoli apprezzabili nei concorsi a cattedre universitarie e di scuole secondarie, e nel conferimento della libera docenza. Cava de’ Tirreni, 3 settembre 1887 Il Relatore Antonio Labriolab a

Ho preso in considerazione le discipline e non il numero dei corsi annuali. Per chi guardi a questi, la differenza fra laureandi in filologia e laureandi in filosofia apparisce maggiore. Ma ciò non importa al mio ragionamento, che riflette l’indole e l’indirizzo degli studii nel punto sostanziale. a «Diritto» del 17 luglio (riprodotto nell’«Università», I, p. 468)29. b

«Giornale di Sicilia» del 20 luglio (Ivi, I, p. 472)30. c «Popolo Romano» del 19 agosto. Anche la «Nazione» del 30 agosto recava un articolo assai ben concepito e ottimamente scritto dal sig. Olinto Salvadori, giovane di soda coltura e assai promettente. Un altro articolo sul medesimo argomento fu scritto dal sig. Macry Correale nella «Firenze Letteraria», del 15 settembre31. a [L’Angiulli scrisse favorevolmente, ma l’articolo apparve assai tardi, cioè a congresso finito, nella «Rivista Critica», anno VII, fasc. 7. Il prof. De Dominicis espresse il suo giudizio favorevole in una lettera piena di calore, diretta all’on. Bovio, e pubblicata nel «Roma» di Napoli del 25 settembre. La «Rivista di Filosofia Scientifica» pubblicò un notevole articolo del Dott. Eugenio Tanzi nel fasc. del luglio, p. 439 e sgg.33] a [A congresso finito il prof. Luigi Ferri pubblicò un notevole articolo su La laurea in filosofia, nella «Rivista di Filosofia» da lui diretta, anno II, p. 329 e sgg.36] b Noto, del resto, che il Bonatelli mi aveva autorizzato a pubblicare le sue lettere. E così fecero anche il Tocco ed il Corleo. a [A relazione stampata e distribuita mi giunsero lettere di adesione dei colleghi P. Ercole, P. Ragnisco, A. Chiappelli, I. Vanni e B. Labanca37. Alcuni facevano delle particolari riserve.] a Alludo alla filosofia del diritto, che di regola fa parte della facoltà giuridica, ed a qualche altro insegnamento isolato, com’è il caso p. es. dell’antropologia, che in Roma è annessa alla facoltà di scienze.

b

Alludo alla filosofia del diritto, che di regola fa parte della facoltà giuridica, ed a qualche altro insegnamento isolato, com’è il caso p. es. dell’antropologia, che in Roma è annessa alla facoltà di scienze. c Uso della semplice dicitura d’iscrizione e frequenza per prescindere dalla vexata quaestio degli esami speciali. b Alludo alla filosofia del diritto, che di regola fa parte della facoltà giuridica, ed a qualche altro insegnamento isolato, com’è il caso p. es. dell’antropologia, che in Roma è annessa alla facoltà di scienze. a Non credo però opportuno, che le lauree siano specializzate con le designazioni di filosofia matematica, naturale, sociale ecc. come propone uno dei miei colleghi, ossia il Barbera. Se giova infatti di fermar bene il carattere positivo della cultura preparatoria e sussidiaria, è altrettanto conveniente di mantenere ben definito il carattere di universalità della ricerca filosofica. Su ciò sono d’accordo col collega Corleo. b [Questa relazione fu pubblicata la prima volta nella rivista l’«Università» fasc. del settembre 1887, p. 517 e sgg. e fu poi riprodotta nella «Rivista di Filosofia Scientifica», anno V, vol. VI, fasc. dell’ottobre 1887, in appendice ad un esteso articolo del prof. E. Morselli su: l’ordinamento delle facoltà filosofiche. L’articolo del Morselli, la mia relazione e i verbali delle relative discussioni del congresso apparvero anche in opuscolo a parte, Milano-Torino, ed. Dumolard, 188738. Dopo il congresso tornarono a discutere della laurea in filosofia C. De Meis e N. Fornelli nella rivista l’«Università», conf. fasc. del dicembre 1887 p. 597 e sgg. e del febbraio 1888 p. 72 e sgg.; e l’anonimo autore di un articolo nella «Riforma Universitaria», I, n. 16 del 1 giugno 189039. Negli Atti e documenti del primo Congresso Universitario, Roma 188940, si trova tutta la discussione su la mia proposta, che fu approvata. Ma per l’incuria del compilatore degli Atti fu omessa la mia relazione, così che il lettore ignora il soggetto del discorso!]

APPENDICE II [pp. 1600-1]41 – «Per giustificare la libertà d’insegnamento non è necessario di ricorrere alla lotta contro il clericalismo, o alle metaforiche affermazioni del Bovio, che vuole coordinare allo Stato e alla Chiesa – ciascuno nella sua sfera illimitato e indipendente, – l’Università42. I clericali son oggi un partito che reclama anche per sé la libertà. L’opera del Padre Secchi e la Specola Vaticana43 non permettono di considerare il clericalismo semplicemente come nemico della scienza» (dall’articolo del d.r SCHOENER, citato nell’Avvertenza, che contiene il riassunto della conferenza del prof. Labriola del 20 dicembre 189544). [pp. 1603-4] – «Il Labriola non è stato mosso dal desiderio di difendere una libertà che in Italia nessuno minaccia, ma dal fatto, che così i difensori come gli avversarii spesso sconoscono il concetto proprio, la natura, il fondamento della libertà d’insegnamento, perché non hanno idea chiara della sua derivazione storica e della sua connessione con lo stato presente della società. È chiaro anzitutto che nel diritto del libero insegnamento non si tratta di un diritto privato dei professori, né dei loro diritti civili: libertà di stampa, di riunione, di agitazione, diritto elettorale, di candidatura, di opposizione contro il governo, eccetera. Questi diritti il professore di università li possiede come cittadino; né essi entrano mai nello stato quiescente, come accade pei soldati sotto le armi; anzi trovano rinforzo nella sua cultura. Egli non è membro di una società o di un ordine, che restringa la sua libertà civile e quella di coscienza, o richieda da esso dei voti, come è il caso degli scolopii o dei gesuiti» (art. cit.) [pp. 1606-7] – «Le Università son diventate sempre più, e in alcuni paesi quasi completamente, istituzioni dello stato. Poiché gli stati non potevano far di meno di occuparsi, oltre che della formazione degli impiegati proprii, anche delle libere professioni, e dei progressi delle scienze pure, furon costretti a conceder ad esse la libertà d’insegnamento, perché altrimenti avrebbero avuto una terribile concorrenza da parte degli istituti non di stato e dalla scienza libera… Lo stato è un organo delle classi dominanti; ma, giacché le sue funzioni, oltre quelle propriamente di governo, ne comprendono altre molte d’indole sociale, deve creare anche istituzioni che riescono a giovamento così delle classi dominanti come delle dominate, degli oppressori e degli oppressi: tali i lavori pubblici, le strade e ferrovie, le scuole, le misure igieniche, ecc. Avendo assunto l’organizzazione dell’insegnamento scientifico ed abolite le corporazioni e gli ordini, è in esso penetrata una forza di discussione e di critica. Ma lo stato non può farne di meno: ha bisogno di architetti, medici, magistrati, impiegati. La classe ch’esso rappresenta, la borghesia ha bisogno del progresso continuo e di nuove

conquiste. E perciò non può porre alla libera ricerca nessun freno; ché altrimenti la distruggerebbe; e se anche alla scienza si togliesse la libertà dell’insegnamento, essa vivrebbe ai giorni nostri della stampa e dei servigi che può rendere alla tecnica e al capitale privato… Se lo stato accenna ad entrare nelle vie della reazione, la scienza gli volge le spalle e prende parte contro di essa, come provano la Francia del secolo passato e la Russia dei tempi nostri» (art. cit.). [p. 1608] – Il ricordo dalla frase famosa: «filosofia difforme dalla coscienza del contribuente», era sottolineata nella conferenza con questa osservazione: «Il contribuente, capite? sarebbe certamente assai pericoloso di aprire una discussione sull’animo dei pagatori delle imposte, i quali, secondo noi socialisti, sono i proletarii» (art. cit.). [pp. 1608-9] – «Ma non ci sono limiti per la libertà dell’insegnamento? Il socialista Labriola risponde qui di accordo col conservatore Bonghi45. Certamente – e son quelli del buon senso, del decoro e della dignità. Si presuppone che insegnante e uditori sieno persone bene educate. L’insegnante non si rivolgerà alla fantasia, alle passioni, agl’interessi personali dei suoi ascoltatori: suo scopo è il sapere. L’Università è il campo del conoscere, non dell’operare. Con lo stesso diritto col quale si subordinerebbe l’insegnante nel suo insegnare a una più alta istanza governativa, bisognerebbe mettere una nuova istanza di sopra della Corte di Cassazione, del generale comandante in capo, o dello stesso capo dello stato; e così via all’infinito» (art. cit.). [pp. 1612-13] – Alle osservazioni sull’indifferenza politica della massima parte degli insegnamenti e sulla favola della legione dei professori socialisti, seguiva nella conferenza questo esempio. «Il collega Panebianco dell’Università di Padova è stato additato come uno dei pericolosi professori socialisti. Ma come farà egli a ficcare il socialismo nelle sue lezioni di cristallografia?»46 (art. cit.). [p. 1613] – Nella lettera agli studenti di Berlino: «Io non ho mai partecipato di quella che è, secondo la mia ferma persuasione, una idea assai falsa e storta, e cioè che vi possa essere nel mondo uno specifico movimento socialistico universitario. Ci è un solo socialismo, quello proletario; e soltanto il socialismo scientifico è per noi il riflesso intellettuale e l’espressione critico-scientifica del movimento proletario. Mi ha fatto perciò molto piacere che voi, nella piena coscienza della vostra posizione e dei doveri che ne derivano, sin dal primo momento abbiate dichiarato di non voler promuovere alcuna formazione di setta, che ‘impacci il procedere del generale movimento degli operai’. Tutti i socialisti debbono aggregarsi al partito degli operai: – questa è la formola più chiara ed efficace, questo deve essere il motto del «Socialistische Akademiker». Da

qualunque classe o professione si pervenga al socialismo, da qualsiensi motivi ci si sia condotti, tutti debbono andare a scuola dagli operai, tutti debbono dagli operai apprendere per essere poi in grado d’insegnare agli operai». Ed ecco come si chiudeva la conferenza nel riassunto dello SCHOENER: «Io mi sentirei offeso nella mia coscienza d’insegnante e nel mio decoro personale se alcuno credesse che io intenda mai nelle aule della scienza portare altra cosa che non la conoscenza del socialismo. Qui non è il luogo per la propaganda. Voi, miei ascoltatori, non siete operai. Voi non siete gli sfruttati di nessuno, e molto meno dei professori. Voi appartenete a tutte le gradazioni della borghesia. Se vi sono tra voi dei figli di proletarii, qui son venuti per cessar di essere dei proletarii. La maggior parte di voi si volgerà a una serie di professioni, di cui parecchie riposano sullo sfruttamento del proletariato. Qui nell’Università voi non formate un ceto o una classe di lavoratori, sui quali la mia parola possa aver l’effetto di muoverli alla ribellione o alla disorganizzazione. Se io mi proponessi questi scopi, meriterei la universale derisione. Come non imploro da nessuno la graziosa concessione d’insegnare liberamente – ch’è il mio diritto; – così non permetto a nessuno di supporre in me tale mancanza di buon senso da confondere la diffusione delle conoscenze tra gli studenti con la propaganda tra i proletarii» (art. cit.)47.

Sezione settima

POLEMICHE E ULTIMI INEDITI

Gli scritti raccolti in quest’ultima sezione, diversi fra loro per natura e destinazione, coprono un arco cronologico abbastanza ristretto (1899-1903) ma assai ricco di eventi, sul piano intellettuale e produttivo – include la delicata fase del dibattito sulla “crisi del marxismo”, la nuova edizione dei Saggi ed il loro aggiornamento polemico –, non meno che su quello biografico. Sono questi, infatti, gli anni dell’aggravarsi della malattia, che costringe Labriola dapprima a rinunciare all’uso della voce, quindi a sospendere l’insegnamento (maggio 1903). Tratto comune a questi scritti è l’impegno da parte dell’autore a difendere e proseguire la propria autonoma riflessione sul materialismo storico: nelle forme dell’intervento pubblico, come nel caso del lettera aperta su Bernstein, in cui è evidente la volontà di prendere parte al dibattito senza però subirne le schematiche riduzioni (la corrispondenza coeva esprime a più riprese la convinzione che la polemica sulla “crisi del marxismo” nasconda in realtà una «connessione giornalistico-poliziesca», un «complotto internazionale» teso a condurre una «crociata contro il socialismo»); ma in modo ancor più genuino nel lavoro “domestico”, destinato alla preparazione delle ultime edizioni dei corsi universitari e alla loro rielaborazione in un quarto saggio che, come è noto, non sarà mai pubblicato. Due dei testi qui raccolti rimasero inediti fino all’edizione crociana del 1906: nel caso di Da un secolo all’altro, l’intenzione, perlomeno momentanea, di pubblicare il testo una volta compiuto è esplicitata dal manoscritto; per il successivo Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico, l’iniziativa editoriale e l’attribuzione del titolo spettano invece a Croce, che si fece interprete di un disegno effettivamente espresso dall’autore in alcune lettere (in riferimento, però, ad appunti precedenti a quelli raccolti poi nel volume di Scritti varii) ed in parte alternativo a quello del quarto saggio così come questo pare prendere forma nel frammento incompiuto di Da un secolo all’altro.

La lettera aperta A proposito del libro di Bernstein, datata 15 aprile 1899 e indirizzata a Hubert Lagardelle, direttore di «Le Mouvement socialiste», apparve in traduzione francese sul periodico da lui diretto il 1 maggio 1899, con il titolo redazionale di À propos du livre de Bernstein. Quello stesso giorno fu pubblicata in italiano sull’«Avanti!» sotto il titolo, più generico, di Polemiche sul socialismo. La richiesta di un articolo sulla “crisi del marxismo” per «Le Mouvement socialiste» risaliva al dicembre del 1898 (cfr. Carteggio, IV, p. 693). Nella primavera del 1899 Lagardelle sollecitò nuovamente Labriola, invitandolo a

recensire il libro di Bernstein Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie [I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia], appena pubblicato. Il testo labrioliano esaudisce solo in parte la richiesta, motivando l’impossibilità di recensire accuratamente il testo con un una lettura frettolosa e inadeguata a «farne oggetto di discussione», ed una conoscenza ancor più lacunosa della polemica da esso innescata. Di fatto però, l’operazione condotta da Labriola pare più meditata di quanto egli vorrebbe far credere. Il 5 aprile del 1899, scrivendo a Luise Kautsky, Labriola parla del «caso Bernstein» come di «una vera disgrazia» (nel ms. l’espressione è vergata in caratteri maiuscoli), che alimenta nella stampa l’interesse a «pubblicare “su la crisi”, “su l’agonia”, “su lo scisma del socialismo”»: la tesi del complotto internazionale – di cui l’«intrigante» Sorel, ispiratore dei «ragazzi» di «Le Mouvement socialiste», sarebbe uno dei «principali autori» – è già chiaramente formulata (Carteggio, V, p. 42). Pochi giorni dopo, il 20 maggio, è il momento della risposta personale a Bernstein, affidata ad una lettera scritta – confida nuovamente a Luise Kautsky – «con alquanto sale e pepe» (Ibidem, p. 70), i cui toni sono tuttavia molto lontani da quelli con cui il cassinate polemizza negli stessi giorni contro le speculazioni giornalistiche. Labriola scrive a Bernstein di non aver letto il libro con piacere, ma di credere alla sincerità del suo «mutamento» d’opinioni; di essersi avvalso del suo privilegio di «italiano» – dunque di persona non direttamente coinvolta come i «connazionali e compagni di partito» – e «professore», decidendosi a intervenire pubblicamente non «per criticare in modo censorio» la sua «critica». Esternando infine la propria indignazione per le insinuazioni dei giornali italiani, suggerisce all’amico d’inviare una lettera «schietta, oggettiva, chiarificatrice» all’«Avanti!» (cfr. la risposta di Bernstein: Ibidem, pp. 74-75), in cui dissociare il proprio nome dalle lotte intestine ai socialisti italiani ed in particolare dalle posizioni di Francesco Saverio Merlino, contro le quali – e soprattutto contro il patrocinio fornito loro da Sorel –, Labriola aveva polemizzato nel Postscriptum e nella Prefazione all’edizione francese del Discorrendo (settembre-dicembre 1898). Alla luce di questi elementi la strategia di Labriola risulta più chiara. Nel suo intervento per «Le Mouvement socialiste», egli opera su due piani distinti. Evita per lo più di scendere direttamente in polemica con Bernstein – laddove accenna ad entrare nel merito della sua «riforma», lascia intendere che ciò «non può essere materia da recensione semplice» –, dichiarandosi impreparato o «toppo in causa» per aver da poco pubblicato un’opera, il Discorrendo, di cui proprio a Bernstein aveva ammesso tempo prima la natura «critica» («Hai ragione i miei saggi sono critici – e specialmente il terzo»: Carteggio, IV, p. 663). Ricorda i

meriti del «coraggioso ed abile redattore del “Sozialdemokrat”» ed insiste – lo ripeterà nella lettera privata del 20 maggio, dove si rivela però assai più preoccupato delle strumentalizzazioni in atto in Italia –, sulla necessità di limitare la portata politica del dibattito alla sola Socialdemocrazia tedesca. Ben diversa, d’altro canto, la determinazione con cui Labriola denuncia i pericoli di una «revisione critica» permanente che induca a distaccarsi delle «condizioni positive» per assumere la «posizione fittizia dei cosiddetti imparziali», finendo per porre sempre in discussione, in una sorta di deriva «enciclopedica», i fondamenti di una teoria che presuppone invece «la necessità e l’attualità del combattere». La questione – «seria e sostanziale», conclude l’autore, superando definitivamente il livello personale e occasionale della riflessione innescata dalla pubblicazione di Bernstein – è determinata dagli effetti di un attrito crescente tra le «frettolose aspettazioni» del passato e le «più complicate resistenze» che la realtà economica e politica è venuta opponendo negli ultimi anni. È l’esito, cioè, di quello sfasamento venutosi a creare fra il «tempo psicologico» e il «tempo delle cose» che Labriola avverte già da alcuni anni. La polemica e la replica puntuale alle affermazioni di chi intrattiene il proprio pubblico speculando sulla crisi del marxismo sono differite di poche settimane: rinviate, per l’esattezza, alla recensione dell’opera di Masaryk che dal 1902 figurerà anche in appendice al secondo saggio. La lettera a Lagardelle, al contrario, non troverà spazio nell’edizione finale dei Saggi, dove tuttavia è possibile individuare almeno due luoghi che sembrano confermare l’interpretazione qui tentata. Il primo riguarda per l’appunto A proposito della crisi del marxismo (giugno 1899), in cui l’autore taglia corto sull’«oramai famoso libro del Bernstein», definendolo, in ultima istanza, modesto e sopravvalutato. L’altro, nel solco dello slittamento dalla “critica a Bernstein” alla “critica del dibattito su Bernstein”, consiste in un’aggiunta del 1902 ad una delle note finali del Discorrendo: alla menzione ammirata di alcuni scritti contro l’utopismo dell’amico e corrispondente (presente già nell’ed. del 1898), si unisce ora l’amara constatazione che «quel Bernstein», di cui si era lodata la critica «solo in quanto è critica», è «portato in giro per il mondo, quale esemplare massimo di riformismo» dai colporteurs – letteralmente: venditori ambulanti – che “svendono” al pubblico la crisi del marxismo.

Il frammento Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi viene qui riproposto nella trascrizione che del manoscritto – oggi fra le “Carte Labriola” custodite presso la Società Napoletana di Storia Patria (Fondo Dal

Pane, ms. 19.5) – ha recentemente fornito l’edizione critica condotta da Stefano Miccolis e Alessandro Savorelli (vol. XI dell’Edizione Nazionale delle Opere, Bibliopolis, Napoli 2012, pp. 99-127; alle pagine seguenti si trovano gli appunti delle lezioni del corso di Filosofia della storia per l’anno 1900-1901, da cui il frammento trae spunto). Quest’ultima ha consentito di ripristinare in più di un caso il testo originale, emendando quello pubblicato per la prima volta da Croce e assunto poi, senza sostanziali modifiche, dalle edizioni successive, compresa quella ricostruttiva realizzata due decenni più tardi da Luigi Dal Pane (Cappelli, Bologna 1925). Alla definizione di “quarto saggio” in riferimento alla produzione labrioliana si associa, come è noto, una complessa questione relativa alla genesi e all’evoluzione del progetto nella mente dell’autore, e al ruolo che in tale vicenda è da attribuirsi a Da un secolo all’altro: il solo dei testi a noi giunti a testimoniare con certezza un tentativo concreto di realizzare quel progetto. Di tale questione si tenterà in questa sede solo una ricostruzione sommaria, non prima di aver fornito alcuni ragguagli sul testo. Scrivendo a Croce da Castelgandolfo, il 21 settembre 1901 (cfr. Carteggio, V, p. 224-225), Labriola fa riferimento ad una «quarantina di pagine» stese dal precedente mese di agosto con l’intento di «mettere in libro il […] corso dell’ultimo anno (caratteristiche del secolo XIX)» ed abbandonate, confida l’autore, per «stanchezza intellettuale». Le dimensioni del manoscritto (il ms. 19.5 conta 55 carte, ma la numerazione autografa si ferma a pagina 46) e la riproposizione nel primo capitolo di estratti da un corso dedicato ad «alcune caratteristiche del secolo decimonono» identificano chiaramente il frammento con la rielaborazione delle lezioni di Filosofia della storia tenute fra novembre 1900 e maggio 1901 – i relativi appunti sono conservati fra le “Carte Labriola” (ms. 11.8) –, cui si fa riferimento nella lettera. Ad attestare l’intenzione dell’autore di pubblicare il lavoro intrapreso a Castelgandolfo come quarto della «serie di opuscoli» annunciata nel 1895 è la titolatura autografa apposta sulla terza pagina del manoscritto (c. 3r), quasi si trattasse del frontespizio già pronto per la stampa, «Saggi intorno alla concezione materialistica della storia IV», preceduta (c. 1r) dal titolo del saggio e dall’indicazione dell’editore, Loescher, per il quale di lì ad un anno vedrà la luce la ristampa dei primi tre volumi (cfr. Quaderni per l’edizione nazionale delle Opere di Antonio Labriola cit. p. 64). Venendo alla genesi del progetto e alle sue evoluzioni, su cui gravano tuttora alcuni interrogativi, gli spunti ricavabili dal Carteggio sembrano delineare tre fasi. La prima può essere fatta risalire alla fine del 1897 e più concretamente alla primavera-estate dell’anno successivo. In una lettera del 6 dicembre 1897, congedandosi da Croce, Labriola allude alle «prime tre lezioni» del corso di

quell’anno il cui oggetto «in forma di opuscolo vorrebbe dire: “Sociologia, filosofia della storia e ricerca storica”»: «ma non varrebbe la pena – prosegue – di fare un simile opuscolo. Sarà meglio che io metta insieme i pezzi di un futuro volume col titolo Questioni e Problemi di Scienza storica» (Carteggio, IV, p. 435-436). Pochi giorni dopo, il 31 dicembre, parla espressamente di un «futuro quarto saggio» (Ibidem, p. 459). Il 24 febbraio del nuovo anno, contravvenendo a quanto detto in dicembre, riferisce a Croce del corso di Filosofia della storia che sta tenendo ed immagina di farne «un altro saggio col titolo Sociologia, Filosofia della storia e Ricerca Storica» (Ibidem, p. 493). In agosto, poi, l’idea prende maggiore consistenza nella risoluzione di «ridurre in volumetto» – «salvo poi a trovare la forza, la voglia, l’umore e il tempo psichico», soggiunge l’autore – l’introduzione e l’epilogo del corso tenuto quell’anno (1897-1898), rispettivamente dedicati alla «caduta dell’Ancien Régime» (Carteggio, IV, pp. 618-619) e ad «una caratteristica comparativa dello Stato d’Italia nelle sue cause storiche» (Ibidem, p. 625): temi che di per sé non sembrerebbero distanti da quelli effettivamente trattati nel frammento a noi giunto. A scompaginare in parte le cose è quanto Labriola afferma nelle stesse missive dell’agosto 1898 (in particolare, in quella a Croce del primo del mese) dove, dopo aver ipotizzato di condensare la «parte materiale del corso» in un’«appendice» o «epilogo», pare doversi intendere che il nucleo principale del saggio sarà costituito dai temi delle lezioni introduttive al corso, «che possono assumere il titolo di “Sociologia Ricerca Storica e Filosofia della Storia”» – il titolo riproduce, con una semplice inversione di termini, quello indicato in febbraio – con i quali, prosegue Labriola: «io avrei finito di dire tutto quello che posso dire sul materialismo storico, salvo non volessi scrivere un altro saggio col titolo di Polemica» (Ibidem, pp. 618-619). Quest’ultimo passo, particolarmente prezioso, pone un problema e aiuta al contempo a chiarirne un altro. Il titolo proposto in febbraio, ripreso in agosto e ribadito in ottobre a Kautsky (Ibidem, p. 641), coincide nella sostanza, e non può essere un caso, con quello dato da Croce ai materiali preparatori del corso del 1902-1903, editi postumi nel 1906 e riprodotti anche nel presente volume. Un rapido esame dei loro contenuti pare confermare la scelta di Croce, che riconobbe in quelle pagine la volontà, a suo tempo manifestatagli da Labriola, di affrontare la questione relativa allo statuto della «scienza storica» e all’«arte della narrazione», addotta già alla fine del 1897 quale movente originario del quarto saggio. La corrispondenza dei titoli determinata a posteriori da Croce, che del resto non istituì mai alcuna alternativa fra gli appunti da lui editi con quel titolo ed il frammento di cui fu a sua volta primo editore, induce quantomeno a chiedersi se a quella data, nella mente dell’autore, il quarto saggio non avesse a che fare piuttosto con i contenuti

ricavabili dagli appunti per il corso del 1902-1903: materiale che, in ogni caso, risale a quattro anni dopo le dichiarazioni dell’estate 1898. A fornire un parziale chiarimento è invece l’accenno ad un’eventuale prosecuzione polemica (ripreso anche in una lettera al giovane Gentile, cfr. Ibidem, p. 671), che darebbe ragione, anche in questo caso però con un certo ritardo, del piano dell’opera pubblicizzato sul piatto inferiore dell’ultima edizione del Discorrendo, in cui, come quarta uscita, figura a sorpresa un volume di «Appunti polemici (In preparazione)». Tornando all’ultimo scorcio degli anni Novanta, nell’ottobre del 1898 Labriola dichiara a Kautsky di aver «grosso modo finito di scrivere» (Carteggio IV, p. 641). Tuttavia nel gennaio del 1899 (è stato dimostrato da Miccolis che la data «98» riportata sul ms. non può che essere un lapsus calami) allude alla stesura di un «soggetto col titolo storia narrata e materialismo storico» che ponga fine alla controversia, «oramai plebeamente noiosa», sull’applicabilità della teoria all’effettiva narrazione storica (Carteggio, V, p. 10) e in maggio, auspicando a breve una traduzione in tedesco dei Saggi, prevede finalmente per questi una «piccola aggiunta nella forma di un quarto breve scritto» (Ibidem, p. 76). Un’edizione tedesca del primo saggio uscirà solo nel 1909 – molto di più bisognerà attendere per gli altri (1974) – e con il tramonto di quell’idea pare declinare anche il progetto rielaborato del nuovo soggetto. Della pubblicazione di un quarto saggio non si hanno più notizie fino alla réclame sulla quarta di copertina del Discorrendo e all’ennesimo annuncio, nell’autunno del 1902, di un «quarto volumetto (nuovo)» – scrive al giornalista Giuseppe De Rossi – che «uscirà fra due mesi» (Carteggio, V, p. 270). Se, come non vi è affatto ragione di dubitare, il frammento Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi coincide con la «quarantina di pagine» redatte a Castelgandolfo nel settembre del 1901, all’altezza cronologica cui si è giunti, la sola redazione a noi giunta del saggio, interrotta per «stanchezza intellettuale», giace incompiuta da oltre un anno. Al netto delle reiterate dichiarazioni su un’imminente pubblicazione del lavoro, prive di riscontro allo stato delle nostre informazioni, si tratta di interrogarsi su ciò che intercorre fra questi tre momenti: il progetto delineato nell’agosto del 1898 e riformulato nel gennaio successivo (nuovo titolo); il frammento del settembre 1901; l’idea di un volume polemico, ipotizzata nell’agosto del 1898 e annunciata pubblicamente nell’autunno del 1902 (ma è evidente che le controversie evocate nel 1898 avrebbero potuto coincidere solo in parte con quelle attive nel 1902). Fra quest’ultimo passaggio e i precedenti progetti pare doversi collocare una cesura piuttosto netta, se non altro perché al momento della ristampa dei primi

tre Saggi un titolo ed una redazione parziale del quarto esistevano già, ma le priorità per Labriola erano evidentemente mutate nel frattempo. Quanto al programma descritto fra l’estate del 1898 e l’inverno successivo, è possibile che nella mente dell’autore si lavorasse ad una sintesi fra il problema teorico della narrazione storica ed una sua applicazione alla storia moderna e alla vicenda unitaria in specie. Il drammatico irrompere delle tensioni sociali in Italia, nella primavera del 1898, deve aver avuto sicuramente un ruolo nella scelta di posticipare le considerazioni teoriche per darne un saggio concreto nella comprensione genetica dell’attuale «configurazione del mondo civile», e di quel «particolare angolo visuale» che è la storia italiana: «la caratteristica comparativa dello Stato d’Italia nelle sue cause storiche – scrive a Croce il 15 agosto del 1898, riferendosi al corso di Filosofia della storia da poco concluso – pare una parodia dei fatti di maggio» (Carteggio IV, p. 625). È plausibile, d’altro canto, che il frammento del 1901 sia a sua volta il risultato di un’elaborazione ulteriore, in cui si sedimentano, accanto alle idee precedenti e agli spunti dettati dal dibattito intellettuale e politico sul socialismo, i contributi preparatori di altri corsi. Ad una veloce rassegna dei temi trattati nei corsi degli anni passati fa riferimento, per l’appunto, un passo del primo dei cinque capitoli (del sesto non furono scritte che poche righe) di Da un secolo all’altro. Si tratta di una sezione introduttiva – Labriola vi riprende ampi stralci della lezione inaugurale del corso –, in cui, accanto all’oggetto generale della trattazione («alcune caratteristiche del secolo decimonono» e «la configurazione del mondo civile in questo prossimo passaggio di secolo») l’autore si preoccupa di avvertire il lettore in merito alla varietà dei contenuti, tratti dal «più vasto campo della cultura», con cui cercherà di affrontare le «grandi linee» o «correnti» che configurano la scena attuale del mondo civile: una «istantanea della fin di secolo», condotta però con uno stile che non rifugge «dalla oratoria e dall’intonazione pronta e facile della conferenza», da cui ricavare l’«interiore assetto» di quel mondo che è il risultato in atto dell’era liberale inaugurata dalla Rivoluzione francese. Il secondo capitolo muove da una panoramica sull’espansione commerciale e le trasformazioni geopolitiche degli ultimi decenni, da cui l’autore ricava, da una parte, la nozione di popoli «attivi» e «passivi», dall’altra, l’immagine di un secolo segnato dalla complessità, dominato dall’«intrigo» di compromessi e impedimenti reciproci fra lo sviluppo tecnico ed economico, principi liberali, idea di nazione e sviluppo democratico delle società attive, ma caratterizzato anche dalla ferma «persuasione del dritto a proseguire». Questa consapevolezza, culminata nelle ideologie del progresso, e talvolta degenerata in pretese di onnipotenza, ha consentito da ultimo l’emergere di un «più profondo e più ampio

senso di comunanza umana» su cui si fonda «l’etica del socialismo». Il terzo capitolo, il più esteso del frammento, affronta un’ampia «divagazione» sulle periodizzazioni storiche e sulla nozione di «secolo», ricostruita nella sua etimologia e nelle diverse applicazioni alle cronologie del mondo antico e dell’era cristiana. Alla constatazione dei limiti intrinseci ad ogni periodizzazione schematica e della relatività dei diversi sistemi cronologici, segue l’invito ad individuare le «direttive» e i «principii» di quella che si configura come «l’ultima e più dispiegata fase dell’evo borghese»: un’epoca, torna a ribadire Labriola, in cui il progresso non s’è avverato «se non per le tortuose vie dei compromessi», che hanno visto la Rivoluzione, con tutto ciò che essa ha significato per la costituzione delle società moderne, ora «continuata e combattuta», ora invece «attenuata e sorpassata». Su questa linea, il quarto capitolo sancisce l’impraticabilità di uno studio scientifico che ancora pretenda di ridurre ad «accertati periodi» le multiformi manifestazioni storiche o formulare previsioni del futuro basate sulla generalizzazione di eventi passati o imperativi aprioristici. I criteri dell’«analisi sociologica» devono certamente costituire i «principii direttivi» di ogni ricerca storica, senza che questa però rinunci alle «impreteribili ragioni empiriche della rappresentazione del fatto». Il quinto capitolo assume come «angolo visuale» la storia italiana successiva al 1870, non prima di aver giustificato questa scelta rispetto alla possibilità di conciliare una «veduta universalistica» con la «misura effettuale di ciò che l’Italia è e può di fronte alle grandi correnti della storia attiva», come anche all’assunzione del 1870 come data d’inizio dell’«attività» propriamente moderna del Paese, da quel momento proiettato «alla presente espansione e gara veramente mondiale». Per quanto appena delineato, lo schema labrioliano presenta alcuni punti fermi: la collocazione della vicenda risorgimentale in un contesto ancora pre-moderno e la necessità di distinguere nettamente la caratterizzazione reale dell’Italia contemporanea da quell’«unità illusionale» creata ad arte dalla tradizione letteraria. Del successivo capitolo, dedicato ad una trattazione più articolata delle caratteristiche specifiche della modernità, non resta che l’incipit, con cui il frammento s’interrompe bruscamente.

Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico riproduce il testo edito da Croce nel volume Scritti varii editi e inediti di filosofia e politica (Laterza & figli, Bari 1906), ivi comprese le note da lui predisposte in quell’occasione (segnalate dalla sigla «Ed.» fra parentesi quadre). È questo l’unico caso nella presente antologia nel quale, pur disponendo di una recente edizione degli inediti relativi al corso di Filosofia della storia per l’anno

accademico 1902-1903 (cfr. A. LABRIOLA, Da un secolo all’altro 1897-1903 cit., pp. 243-266), l’ultimo tenuto da Labriola e di cui le pagine pubblicate da Croce sono una redazione sostanzialmente fedele, si sia ritenuto di riproporre il testo nella veste postuma conferitagli dal suo primo editore. È innegabile che dal punto di vista editoriale, e non solo per gli aspetti strettamente testuali, il “saggio” qui ristampato sia da considerarsi a tutti gli effetti un prodotto crociano. A differenza del frammento del 1901, del resto, non si ha alcun riscontro dell’intenzione di Labriola di pubblicare in qualche forma i materiali del suo ultimo corso, se si eccettuano, come pare doveroso vista la distanza cronologica, le ripetute allusioni, di cui si è già detto, all’eventualità di dare alle stampe con un titolo (il Carteggio ne attesta diverse formulazioni) che richiama quello effettivamente scelto da Croce, parte delle lezioni risalenti al 1897-1898. Rispetto ad altri criteri – ad esempio a quello filologico fatto proprio dall’edizione critica, che costituisce comunque un contributo imprescindibile alla corretta fruizione degli inediti labrioliani –, ha prevalso in questa sede una ragione di tipo teorico non meno che storiografico: l’operazione condotta da Croce ha posto in essere una fonte autonoma e di per sé significativa per la comprensione del pensiero dell’ultimo Labriola e ancor più per lo studio di oltre un secolo della sua fortuna (si pensi, per citare solo un caso fra i più noti, ad Antonio Gramsci). Con il titolo di Storia, filosofia della storia, sociologia e materialismo storico Croce pubblicò il testo inedito delle lezioni tenute da Labriola fra il 12 febbraio ed il 14 maggio 1903, nell’ambito del corso annuale di Filosofia della storia (omise di pubblicare il testo della lezione inaugurale e di quella conclusiva, rispettivamente del 7 febbraio e del 27 maggio 1903). A questo scopo egli si servì di un manoscritto (un quaderno di 76 pp.), tuttora custodito presso la “Biblioteca Benedetto Croce” (LXXXIV A 22.3) ma mutilo delle pagine finali, riconducibile alla trascrizione del corso effettuata da Angelo F. Formiggini. Il recente riordino del Fondo Dal Pane (cfr. Quaderni per l’Edizione nazionale cit.) ha consentito di rilevare alcune differenze rispetto alla redazione vergata su un altro manoscritto (un quaderno di 120 pagine, di altra mano ma con sporadici interventi autografi) custodito fra le “Carte Labriola” (Fondo Dal Pane, ms. 12.5): quello su cui Miccolis e Savorelli hanno da poco condotto l’edizione critica. Nel volume uscito nel 1906 per Laterza merita attenzione la collocazione del testo in coda a I problemi della filosofia della storia (1887), come Appendice di lezioni inedite sull’argomento. Convinzione di Croce era infatti che il testo potesse prestarsi «a chiarimento di alcuni punti della precedente prelezione», in quanto al suo interno – si legge nella prima delle note da lui aggiunte – «possono

dirsi raccolti i risultati delle sue [di Labriola, ndr] nuove meditazioni, nonché dello svolgimento che avevano avuto nell’intervallo le ricerche sulla gnoseologia storica» (Sv, p. 229 n.). Va detto che la scelta di Croce – alla pari di quella, alternativa, di collocare questi materiali in appendice all’edizione dei Saggi, come si riscontra di fatto in molte edizioni successive – trae un importante motivo di legittimazione da un passo della lezione conclusiva del corso (non compresa nella redazione pubblicata in Sv), dove Labriola osserva che «questi appunti trovano il loro complemento in diversi […] scritti, e specie: 1. nell’opuscolo Problemi della Filosofia della Storia, 2. nei tre saggi sul Materialismo storico» (cfr. A. LABRIOLA, Da un secolo all’altro: 1897-1903 cit., p. 265). Rispetto al corso labrioliano del 1902-1903 le note esplicative di Croce forniscono elementi ulteriori. Le precarie condizione dell’autore, di fatto impossibilitato a parlare a seguito dell’intervento di tracheotomia subito nel luglio del 1902, ne condizionarono non poco lo svolgimento: Labriola dovette servirsi della collaborazione di uno studente – probabilmente lo stesso Formiggini, come si evince da un passo del terzo capitolo – incaricato di leggere gli appunti precedentemente dettati. Riferisce ancora Croce, attingendo agli appunti della lezione introduttiva (cfr. A. LABRIOLA, Da un secolo all’altro: 1897-1903 cit., pp. 243-244), che Labriola si propose in quel corso di «fare come dei bozzetti scientifici, rispondendo in una o due o tre lezioni secondo i casi, e rispondendo polemicamente, a quesiti, che sono come la formula di opinioni e di dubbii correnti; per esempio: se la storia sia una scienza o un’arte? la sociologia si può sostituire alla filosofia della storia? in che senso il materialismo storico è monistico? ecc.». Alla luce delle precedenti osservazioni sul progetto di “quarto saggio” e sulla sua travagliata vicenda, non è necessario passare nuovamente in rassegna i luoghi del Carteggio in cui Labriola, fin dal dicembre del 1897, confidava proprio a Croce l’intento di dare forma di «saggio» ad alcune lezioni il cui contenuto potrebbe essere servito da base di partenza per il corso tenuto nel primo semestre del 1903. Non passa tuttavia inosservato come quell’avverbio, «polemicamente», che denota il taglio voluto da Labriola in quel frangente, richiami di fatto anche il «volumetto» di «Appunti polemici» più volte annunciato nell’autunno del 1902 e mai pubblicato. I tre capitoli in cui risulta suddivisa la redazione crociana rispecchiano in linea generale i temi anticipati nel titolo. La prima sezione è dedicata alla duplice accezione di storia, come «serie di accadimenti» e come narrazione, e all’analisi del suo statuto scientifico. Interloquendo a distanza con Pasquale Villari circa la possibilità di ricondurre la storia a «scienza od arte», Labriola distingue fra la

considerazione della storia a parte obiecti, dove è innegabile l’apporto oggettivo nel «rifacimento del passato» offerto dall’indagine scientifica, e quella a parte subiecti, comprensiva della storiografia intesa come arte del raccontare la storia, ma sottolinea anche come il cambiamento della «nozione fondamentale dell’uomo», reso possibile dall’indagine recente dei rapporti fra storia, preistoria e rappresentazioni religiose, ma soprattutto dalla considerazione delle «forze collettive» come «vero subbietto dell’azione storica nel formarsi e nel divenire delle società», costringa ad interrogarsi in modo più approfondito sullo statuto oggettivo della storia dal punto di vista di una filosofia della storia (necessità affermata anche dallo storico tedesco Bernheim, che Labriola cita in più occasioni). Questa indagine dei «principii direttivi» degli eventi storici in quanto tali principi sono «negli accadimenti stessi» che la ricerca ha già accertato (ad es. il principio del progresso, su cui si chiude il capitolo) «modifica – osserva Croce in una nota che dà ragione della collocazione del testo in appendice a I problemi della filosofia della storia (1887) – la veduta esposta nella prelezione, in cui la filosofia della storia abbracciava anche la ricerca dei metodi, ossia la storia a parte subiecti, la storiografia» (Sv, p. 235 n.). Il secondo capitolo affronta il rapporto fra storia e sociologia. Se l’oggetto della filosofia della storia consiste «nella differenza, nei confronti e nel succedersi delle forme sociali», una sociologia intesa come studio unitario di tutti fenomeni sociali, secondo le ambizioni dei positivisti (cui pure Labriola pare disposto a concedere il riconoscimento della sociologia come ambito indipendente rispetto al «particolarismo» delle altre discipline) coinciderebbe di fatto con la filosofia della storia. Nella realtà però questa scienza è «ancora veramente da fare e di là da venire», perché le forme cui i sociologi sono finora pervenuti si riducono per lo più a «forzate classificazioni», a schematismi astratti, privi di quelle «particolarità e specificazioni» di cui lo storico, in quanto «lavora sempre sull’eterogeneo», non può invece fare a meno. Si ripropone così un motivo caratteristico della più matura riflessione labrioliana, portata a sottolineare la «complessità delle forme» e soprattutto delle forme sociali, in cui si esprime la storicità e in cui la filosofia della storia, superata la tentazione di dissolvere il proprio oggetto in una «inutile moltiplicazione dei particolari», ha il compito di cogliere delle direttrici principali. È a partire da questi «valori storici» che si rende possibile pensare la storia come progresso: come evoluzione attraverso «forme determinate» di un ente reale e collettivo, che è ben altra cosa da quella «quella sciagurata idea della evoluzione» da cui sono derivate delle «trionfanti bestialità attuali». La «sofisticheria verbalistica» con cui molti, in Italia, affrontano i temi del socialismo scientifico è il pretesto per tornare, nella terza ed ultima sezione dello

scritto, su quell’«indirizzo di pensiero, che ha nome il materialismo storico», ripartendo dalle radici filosofiche del termine: dalla critica di Marx ed Engels a quell’indirizzo materialistico, condiviso da Feuerbach e dalla sinistra hegeliana, che dopo aver “negato” il «dato ideologico» del sistema di Hegel, aveva posto «l’uomo individuo di fronte alla natura», risultando così incapace di spiegare la storia. Al contrario, spiega Labriola rifacendosi ai contenuti del corso di Filosofia teoretica inaugurato proprio quell’anno, come lo studio della psicologia individuale è destinato ad imbattersi in forme della coscienza (a cominciare da quelle legate allo sviluppo del linguaggio) che presuppongono l’esistenza della società e della storia, così anche le forme ideologiche (il diritto, la religione ecc.) che il soggetto esperisce individualmente non si spiegano se non attraverso le «condizioni materiali del mondo storico sociale». L’«assunto» su cui si basa il materialismo storico, in questo senso, può considerarsi «parallelo» a quello con cui il positivismo europeo, essendo «essenzialmente storicismo» (ma fra gli italiani questo può dirsi solo di Angiulli, non a caso di formazione hegeliana), è giunto ad isolare nelle diverse discipline ciò che è «fenomeno sociale», ossia ciò che «non s’avvera se non in quanto esistono rapporti di fatto e di convivenza e di cooperazione fra gli uomini», salvo poi ricadere nella metafisica riconducendo la coscienza sociale ad un ente astratto, nella forma di «organismo sociale» o di «spirito collettivo». Al contrario, come anche la lunga digressione (segnalata nel testo da un «N.B.»: “nota bene”) sull’«io» e sulla coscienza collettivistica del «noi» contribuisce a chiarire, la rappresentazione della società e degli eventi cui il materialismo storico fa riferimento non è frutto di un’astrazione, o di una «surrogazione della scienza alla storia», ma risultato di un’analisi morfologica che, dopo aver «ridotto alla più semplice espressione la somma delle condizioni costitutive» – l’esempio è ancora una volta il «passaggio» per eccellenza: la Rivoluzione francese, nelle sue cause generali – consente al materialismo storico di farsi narrazione: «storia materialisticamente raccontata», in grado di «rappresentare intuitivamente quell’unicum» – la Rivoluzione stessa – che è l’evento storico.

A PROPOSITO DEL LIBRO DI BERNSTEIN POLEMICHE SUL SOCIALISMO [1899]

Caro cittadino Lagardelle1, il libro del Bernstein, sul quale m’invitate a pronunziarmi, io appena appena ho finito di leggerlo; e n’ho fatta una lettura assai rapida, in vero, e più per uso mio, che per discorrerne agli altri2. Né ho avuto finora tempo di leggere, con la debita cura, i molti articoli polemici scritti in risposta, e metto in prima linea quelli di Kautsky, Adler, Parvus e Rosa Luxemburg3. A considerar la cosa dal punto di vista della Sozialdemokratie tedesca – il che, come già vi scrissi il 21 dicembre, prossimo passato, è ciò che soprattutto importa, – mi pare, che intorno alle idee e al nome di Bernstein non nascerà, né alcuna corrente, né alcun movimento nuovo; e che anzi quel partito, che ha vinte tante resistenze e ha superate tante difficoltà, uscirà da questa disputa cresciuto di energia e chiarito d’intenti. Sotto il rispetto pratico in genere, e politico in ispecie, ciò che pomposamente chiamano crisi del marxismo non potrebbe avere, a mio avviso, importanza, che nella sola Germania; perché in Germania soltanto ci fu tale congiunzione tra movimento operaio-socialistico e marxismo, da rassomigliare a un di presso a perfetta fusione. E perciò il dibattito intorno al libro del Bernstein è da lasciare quasi esclusivamente ai tedeschi. In Francia, invece, dove le organizzazioni socialistiche son cinque, e rappresentano diverse couches del movimento proletario, e diverse fasi della tradizione rivoluzionaria, mi par difficile d’intendere – e soprattutto, se chi avrebbe voglia di capire, sia uno straniero come me – qual ripercussione possa mai avere codesta disputa su i principi del socialismo. Fatta eccezione di quella che s’intitola marxista, pare a me che le altre quattro si sentiranno per lo meno poco tocche da una questione, che pei tedeschi entra nel vivo delle cose loro. E se l’unione, già così bene avviata, di coteste vostre frazioni, si maturerà, certo che ciò non accadrà in nome e per virtù delle definizioni dottrinali, ma solo per le tendenze intrinseche al movimento stesso, e per la generale situazione politica della Francia. L’affaire fu già abbastanza istruttivo, anche per la politica del socialismo4. Come volete che io venga, dunque, a dire ai francesi l’opinione mia su questa questione, che ha risvegliato in Germania tanto ardore di polemica; quando io non ho un’idea esatta e ben precisa degli umori di cotesti diversi partiti? Non posso quindi accettare l’offerta che mi fate, che io scriva per il «Mouvement socialiste» un articolo di 15 pagine. Per la vostra rivista scriverò certamente, quando mi si presenterà la occasione dell’articolo da 15 pagine, e sia pure a proposito di un libro. Ma la pubblicazione del Bernstein, che vuol essere una riforma del socialismo… è forse essa materia da recensione semplice?

Qui si tratta di discutere, di analizzare, di polemizzare, di combattere. E tutte queste cose suppongono che si discuta e combatta nell’interesse di un partito, sopra di un terreno conosciuto, e data una tradizione di esperienza e di azione. Se guardate agli articoli di polemica apparsi in Germania – ho proprio sott’occhi quelli assai vivi e penetranti della Luxemburg nella «Leipziger»5 – vi parranno come la reazione diretta ed immediata del corpo che vive e si afferma. E si capisce allora, come la riaffermazione dei principi, anzi che ostinatezza dottrinale, sia come la vita del corpo stesso, che avendo fatto di quei principi succo e sangue, difende in essi i suoi criteri, i suoi regolativi, la sua condotta, il suo proprio essere, per dirla in una parola. Mettersi al disopra di tali condizioni positive, assumere la posizione fittizia dei cosiddetti imparziali, dei neutrali, degli amatori disinteressati della verità, sarà un bel mestiere ed una bella occupazione pei letterati alla ricerca dell’articolo, ma non è il fatto della causa nostra. Insomma, per dirla in breve, le idee dei combattenti suppongono la necessità e l’attualità del combattere. C’è di quelli, sì, che ad ogni piè sospinto ridiscutono la teoria del valore, la dialettica, il materialismo storico, la lotta di classe, l’ipotesi catastrofica, l’avvenire del mondo e la società futura. Ma possiamo proprio noi tutti, e tutti i giorni, lasciarci imporre l’obbligo della revisione critica, d’ora in ora di tutta la Enciclopedia? Il libro del Bernstein, sotto questo rispetto formale, ha il grave torto di essere troppo enciclopedico. Se l’autore fosse andato diritto allo scopo di discutere l’azione pratica, e quindi politica del partito, date le condizioni proprie della Germania, sulle quali noi tutti, che non siamo tedeschi, possiamo anche essere male informati, avrebbe fatta opera più utilizzabile, o perlomeno più facilmente discutibile. Ma avendo scritta tutta una professione di fede, ab imis fundamentis6, mette chi voglia combatterlo nella necessità di scrivere tutto un nuovo libro, – il che non è impresa sbrigativa. Quanto a me in particolare, io son troppo in causa; e inoltre non amo ripetermi. Da pochi giorni appena ho presentato al pubblico francese quel secondo piccolo volume di materialismo storico, per quanto era in poter mio, criticamente riveduto7. Appartengo troppo ai giudicabili per mettermi tra i giudici. E, mentre aspetto il giudizio degli altri, compreso quello del «Mouvement socialiste», appunto perché non faccio la professione del pubblicista, non voglio imitare quei quaresimalisti, che, di città in città, e di villaggio in villaggio, ripetono la stessa predica. Quanto all’Italia potete tenere per fermo, che questo piccolo e modesto partito socialista (così m’è debito di chiamarlo, a confronto della colossale

Sozialdemokratie tedesca), potrà più facilmente incontrare la mala sorte di essere schiacciato da cause esterne, anzi che esso stesso corra il pericolo o cada mai nella tentazione di scindersi da sé in varie correnti. Così è il fatto – e non occorrono spiegazioni. Questo giudizio ha tanto maggior peso in bocca a me, in quanto che io, che ho eguale interesse per il movimento socialistico d’ogni paese, non vanto né titoli, né meriti speciali d’aver influito a fare questo partito qual esso è. Questo partito non subirà alcuna crisi, mentre appunto ora lotta per la sua elementare esistenza. Per questo rispetto gli è assai difficile, che le lotte teoriche e politiche della Germania abbiano qui forte eco e ripercussione durevole. Come vedete, se mi rifiuto di scrivere l’articolo non è per pigrizia. Anzi, perché non dovreste voi pubblicare questa mia lettera? Non è forse questa la maniera più genuina di manifestare un sentimento vero e vivo? Questa manifestazione schietta non viene alcune volte alterata dalla posa del comporre l’articolo? lo credo fermamente, che il socialismo dei paesi latini abbia ancora da fare una buona digestione di utopismo, e la discussione presente tornerà di giovamento. Io credo, del pari, che il socialismo è sempre, e dappertutto, inficiato di elementi genericamente radicali, incertamente riformisti, e grossolanamente rivoluzionari; e la nuova discussione contribuirà ad una nuova eliminazione. Caso veramente curioso! In uno degli ultimi numeri di quel «Sozialdemokrat», che fu il memorabile organo di battaglia del partito tedesco sotto il regime di eccezione – come sapete si stampò per anni a Zurigo e poi passò a Londra8 – si legge questo monito: «che se la Sozialdemokratie tedesca si fosse messa mai per le vie delle transazioni, il “Sozialdemokrat” sarebbe risorto a protestare». Ebbene, a distanza di nove anni non ancora compiuti, il «Sozialdemokrat», non più modesto fogliolino di carta sottilissima, ma divenuto tutta una legione di ponderosi giornali, è sorto a protestare proprio dalla Germania, contro di quel Bernstein, tuttora esule, che fu il coraggioso ed abile redattore del «Sozialdemokrat» battagliero del 1879-90! Chi di noi oserebbe mai di fare delle asseveranti previsioni su l’avvenire, quando i casi della vita ordinaria ci preparano e presentano di tali sorprese? In verità, di dietro a tutto questo rumore di dispute, c’è una questione seria e sostanziale. Le ardenti, e vive, e frettolose aspettazioni di alcuni anni fa – le aspettazioni troppo precise nei particolari e nel colore – danno oramai di cozzo

nelle più complicate resistenze dei rapporti economici, e nei più intricati ingranaggi del mondo politico. Ora quelli che non hanno il modo di mettere all’unisono il loro tempo psicologico (il che vuol dire, in prosa, la pazienza e lo spirito d’osservazione) col ritmo del tempo delle cose, si stancano a mezza via e si metton fuori delle linee. I soli proletari possono contare sul tempo indefinito, e solo essi sono e cresceranno indefiniti di numero. Si complichi pure, come e quanto si vuole, il sistema capitalistico, esso non può a meno di moltiplicarli e di educarli. La crisi del marxismo non è che il sintomo di un fatto assai semplice, e umanamente spiegabile; che, cioè, alcuni se ne vanno, ed altri s’accasciano per via. Auguriamo a quelli il buon viaggio, e a questi che si rinforzino di cordiali. Quanto a coloro, che usano di tale espressione, come di frase, di pretesto, o di insidia; – ebbene di essi possiamo semplicemente ridere. Roma, 15 aprile 1899

DA UN SECOLO ALL’ALTRO CONSIDERAZIONI RETROSPETTIVE E PRESAGI (FRAMMENTO) [1901]

I Nell’ultimo anno accademico, e precisamente dal novembre 1900 a questo giugno 1901, io tenni alla Università un corso di lezioni sopra un tema di tanta ampiezza e di tale varietà, che ciò che riuscii effettivamente a dire non poté a meno di lasciare nel numeroso uditorio come la impressione d’un piccolo frammento d’un gran tutto. Cominciai a un di presso così: «Ripiglio tutti gli anni sempre con viva emozione e con gran piacere questo corso straordinario di filosofia della storia. I miei uditori potranno vedere e riconoscere essi stessi, come in queste lezioni nelle quali non rifuggo dalla oratoria e dall’intonazione pronta e facile della conferenza, io usi di uno stile di molto diverso da quello che è proprio al mio corso ordinario di etica e di pedagogica. In questo io mi attengo rigorosamente alla serrata tecnica della lezione, come si conviene ad argomenti che van trattati per compiere esplicitamente la funzione precisa dell’ammaestrare e dell’insegnare. Qui siamo, invece, nel più vasto campo della cultura; – qui si ha per mano una materia, che nessuno si argomenterebbe mai di disciplinare a scopo di esami, riconducendola a mezzo di esercizii professionali. Son poche – e poche devono essere – coteste materie, che segnano come la estensione, e direi quasi la espansione dell’Università oltre ai termini di ciò che è direttamente utilizzabile a intenti pratici immediati. Ed ecco che io, in fatti, in cotesto corso mi lascio andare di buon grado ad una certa agile combinatoria di elementi, e di cose e di idee, che la stringata classificazione delle discipline suol sempre tenere quasi pedantescamente distinte e separate del tutto; uso in larga misura della libertà della ricerca e della opinione; e, rifacendomi d’anno in anno di nuove letture e di nuovi studii, miro in queste lezioni all’ampiezza ed alla pienezza dell’esposizione: il che è ben diverso dalla pretta esattezza didattica. E per questa volta il titolo stesso del corso dice chiaro, come la natura del soggetto giustifichi per sé stesso il modo della trattazione. Mi fermerò sopra alcune caratteristiche del secolo decimonono per venire a dichiarare la configurazione del mondo civile in questo prossimo passaggio da un secolo all’altroa. Non è, spero, chi s’aspetti da me, per tale annunzio, che io narri a perdita di vista una infinita moltitudine di fatti. Suppongo la conoscenza di ciò che volgarmente ha nome di serie dei fatti storici, e suppongo, inoltre, qualcosa di più, e cioè dire l’abito negli uditori a tenersi orientati in punti di vista come questi: – lotte per la nazionalità – diffusione del principio liberale – la

concorrenza economica e l’espansione coloniale – i paesi industriali e i paesi agricoli – il crescere dello spirito scientifico e la rinascenza cattolica; e così via. Né enumero, come se volessi fin d’ora rinchiudere in tanti canoni fissi la mia libera esposizione: – anzi ho scelto a caso alcune di quelle formule riassuntive, tanto per dire che, pur fermandomi di volta in volta sopra alcuni fatti caratteristici, e sopra certe date decisive, le quali segnano dei momenti di feconda transizione, io mirerò, in questa considerazione retrospettiva, alle grandi linee, alle grandi correnti, all’insieme, al senso delle cose. Farò, a un di presso, ciò che agl’ideologisti pare d’intender bene a modo loro, quando dicono di rappresentare lo spirito di un secolo. E noi realisti, di rimando, diciamo, che in cospetto di una determinata configurazione del mondo civile, com’è questa della fin del secolo, noi ci mettiamo in atto di chi voglia intendere una situazione, riandando obiettivamente le ragioni, i modi e le condizioni del come essa s’è fatta. Non uno dei miei passati corsi di filosofia della storia andrà per me ora perduto: ma non uno ne ripeterò quest’anno. Totalizzo, quasi, i resultati di quelli in questa, dirò cosi, istantanea della fin di secolo. Ho spaziato per anni su campi svariati. Una volta Vico ragguagliato alla scienza modernissima; un’altra volta un raffronto metodologico fra storia e filologia. Un anno mi fermai ad illustrare il variare dei rapporti fra chiesa e stato; un altro a ripigliare in esame la preistoria del Morgan1 al raffronto coi più recenti studii. Due volte trattai documentariamente la storia del socialismo moderno, da Babeuf2 alla Internazionale; e illustrai in un altro corso le origini della borghesia italiana, e la condizione d’Italia in sulla fine del secolo decimoterzo. Discorsi più volte della Rivoluzione Francese – il solo punto della storia, nel quale io mi senta in possesso, secondo la boriosa espressione degli eruditi, di una specifica competenza – come per dare, e in compendio, l’avviata alla retta cognizione di ciò che costituisce l’essenziale, in buona o in mala parte che ciò si prenda, della società moderna. Tutto questo vasto materiale, che non intendo punto di riandare in ispecie, mi sta ora innanzi alla mente, come per illuminare la scena attuale del mondo civile, che io voglio tratteggiare nei suoi contorni, nel suo interiore assetto, e nell’intreccio delle forze che la configurano e la sorreggono. Per ogni elemento vivo bisogna aver presente – ciò è ovvio – indefiniti precedenti. E chi oserebbe, dunque, di segnare un punto unico d’approdo a tante serie? Trovandoci nel mezzo di un gran processo, come ardiremmo noi di credere, che una data di calendario faccia da indice alle molteplici e complicate fasi effettuali delle cause obbiettive? Questa revisione, dunque, dello stato del mondo dal punto di vista convenzionale del secolo che muore, ha un valore appena appena

approssimativo, che solo un’approfondita analisi sociologica può riavvicinare a qualcosa di effettivo e di reale. Al postutto, quale è il mezzo pratico per misurare la nostra cultura storica? Eccolo, ed è semplicissimo: – la nostra capacità ad intendere il presente. Recatevi nelle mani i giornali dell’ultima quindicina. Abbiate sott’occhi un passabile atlante geografico. Fate di aver libero il maneggio delle ovvie cronache annuali riassuntive. Capite l’ultima notizia? Che cosa è questa guerra del Transwaal, questo ultimo atto di resistenze dei costumi e delle libertà endemiche contro l’universalismo inglese, questa ultima obiezione armata del villanoa contro il capitale invadente?3 E la Russia, che rifà a rovescio l’invasione mongolica?4 E di quanto bisogna retrocedere e di quanto bisogna addentrarsi per risolvere i fatti politici attuali nei momenti e nei moventi, di remota preparazione quelli, e di intima impulsione questi? Ma, per non anticipare di soverchio, non insisto negli esempii. Mentre discorro, come per prepararmi ad afferrare in un rapido sguardo lo stato attuale delle cose del mondo civile usando della occasione del secolo che muore, io vi ho già detto implicitamente, che datando per aspetti così estrinseci le cose e i nostri pensieri sovra di esse, noi rendiamo semplicemente omaggio ad una illusione convenzionale. Il secolo non è, né una contenenza, né un contenuto. Non è nemmeno una cornice: e non occorre di notare, che non risponde a nessuna rivoluzione naturale. Qual somma arbitraria degli anni civili, che alla lor volta sono una certa tal quale approssimazione di un periodo naturale, sta lì a ricordarci una molto oscillante tradizione romana ereditata forse da cosmologiche ideazioni e superstizioni etrusche. E poi cotesto periodo di anni fu riferito ad un’èra cristiana tardivamente fissata per argomentazione. Il nostro esame ci porterà a sostituire a cotesto, come ad ogni altro, convenzionale schematismo di periodi uniformi, se mai ciò è possibile, delle date interne, che siano indici dello sviluppo reale delle società. Il secolo del quale cerchiamo le caratteristiche, a spiegazione del presente, non comincia veramente in modo meccanico dalla prima pagina del calendario del 1801; ma chi sa mai dal 14 luglio 1789, o a un di presso, e come altro piaccia di datare il vertiginoso erompere dell’èra liberale».

E qui basta della citazione e del ricordo delle mie lezioni. Terminato che fu il periodo accademico, a parecchi dei miei cortesi uditori parve opportuno di consigliarmi, che io pubblicassi integralmente quelle lezioni. A considerare la cosa materialmente non c’era certo difficoltà di sorta. Dai miei appunti di preparazione, da quelli degli uditori, e dalla stenografia di alcune conferenze, c’era da tirar fuori tanti prolissi volumi quanti ne può dare la recitazione di un intero corso. Respinsi il gentile consiglio, parendomi alquanto bizzarra l’idea. A che pro, in vero, pubblicare delle lezioni? Ogni lezione comincia dall’inevitabile preambolo, e termina con la chiusa obbligata. Tante volte si ripete: «come dissi già»; o: «come dirò in seguito». Si vanno di continuo aprendo delle parentesi, o per ispiegare un termine, o per dare un qualche ragguaglio sopra un autore citato, o per colorire con qualche cenno biografico la figura di un personaggio storico del quale si sia fatta menzione. Tutto ciò contraddice allo stile del libro, turba l’attenzione del più paziente lettore, e rende esosa a chiunque la dotta compilazione. Ripensandoci, ho poi, durante le vacanze, messo assieme queste pagine, che rendono in semplici raggruppamenti di capitoli alcuni dei pensieri principali di quelle lezioni, senza che dell’apparato e dello stile della lezione stessa rimanesse più nulla. Le momentanee allusioni, le inframmezzate e non brevi narrazioni, le dichiarazioni accessorie spesso lunghe: – tutto via. E pure questi capitoli rimangono dei frammenti. Chi volesse muovermi di ciò biasimo si provi a dirmi che via terrebbe lui, il severo critico, per superare questo stato frammentario della nostra cognizione dell’ora presente, e per integrarla nella totalità di una visione perfetta. La più savia e la più calzante delle obiezioni, che siano state mai mosse contro ogni sistema di filosofia della storia, è quella del Wundt: noi non sappiamo dove la storia andrà a finire5. Il che vuol dire – se ben ho capito – che noi non l’abbiamo mai tutta sott’occhi come un qualcosa di compiuto, a quella guisa che esaminiamo l’individuato organismo animale o vegetale. En attendant che, chi sa mai, la totale retrospezione della vita del genere umano s’avveri nel cervello d’un fortunato e perfettissimo filosofo dell’avvenire, contentiamoci per ora di quella parziale visione che ci è dato di raggiungere presentemente. Quanto a me di questa mi tengo pago.

II L’èra liberale, dunque, è il nostro obietto; e proprio in quanto essa, tra un secolo e l’altro, ci si presenta in questo resultato di una civiltà, non più atavisticamente locale, non più nazionale e mediterranea, ma internazionale, anzi interoceanica o panoceanica. Non è chi non sappia, che alla fine del secolo decimottavo una sola nave, una sola volta all’anno, salpava da Alapuko per Manilla, a tenere i tenui rapporti commerciali fra i possidenti messicani e gli asiatici di quella Spagna, già fin da allora designata alla rovina qual potenza coloniale di vecchio stile6. Ed ora le flotte commerciali e le flotte di guerra attraversano in ogni senso il Pacifico, non più pauroso mare esterno ai varii ambiti di attività civile continentale. Se non fosse per la straordinaria dispersione delle infinite isole, ivi, su la immensa spianata liquida, sorgerebbero, quali appendici o diramazioni della vecchia Europa e della nuova America, tanti conglomerati umani di così poderosa vitalità, quanta ne hanno e ne covano per l’avvenire le giovanissime e modernissime colonie dell’Australia e della Nuova Zelanda, che fanno oramai invidia a noi orgogliosi di nostre lunghe memorie. Ed ecco che lì, sui margini asiatici del Pacifico, proprio in questo momento, i varii potentati d’Europa si travagliano nella crociata cinese7; crociata modernissima, che non cinge più di sacra aureola i dissimulati interessi mondani, e sollecita di continuo i nostri pubblicisti a ripetere la vecchia domanda del padre Erodoto: quali le cause del dissidio fra l’Oriente e l’Occidente?8 Non più, certo, l’invidia degli dei, ma sì le invidie fra gli uomini; perché la concorrenza è l’assioma della società liberale, la quale vi si eserciterà attorno più furiosamente nel nuovo secolo. L’èra liberale si annunziò dapprima con impeto di poesia, ed ebbe la sua orgogliosa ideologia, derivatasi spesso in multiformi utopie. Di qui la singolare attrattiva e il grande imbarazzo in chiunque legga e studii della Rivoluzione Francese: perché quella ideologia lì, finita allora, e in breve tempo, nella negazione di séstessa, ci fa come diffidenti a misurare l’importanza dei fatti storici, dalle vedute, dalle opinioni, dalle aspettazioni e dalle teorie di quelli che dei fatti stessi si pretesero gli autori. Comunicare a tutto il genere umano le stesse idee – mi sovviene di Condorcet9 – innalzare tutte le nazioni a libere personalità politiche – sostituire alla guerra fra esse la pacifica gara – distruggere nell’uomo fatto cittadino ogni traccia di sudditanza e di soggezione; – ma dove andrei a finire, se volessi per intero ripetere tutto il tradizionale catechismo della

democrazia? E dov’è che la democrazia è riuscita, sia pure approssimativamente, fuori che nella minuscola Svizzera, così appartata dal grande intrigo della storia? 10

Ecco che nella parola intrigo si compendia tutta la somma degli impedimenti, pei quali, durante il secolo decimonono, liberalismo, democrazia e principio nazionale hanno subito così varii, così frequenti e così potenti arresti. E, innanzi tutto, chi vorrà negare esser tuttora vivo e forte il divario fra popoli attivi e passivi? Dov’è che gli Europei, e loro derivati d’America, nel rapido ciclo della conquista tecnico-capitalistica del mondo, abbiano trovato emuli ed alleati, fuori che nel Giappone: ed anche su questo punto mi rimetterei volentieri al più maturo giudizio dei posteri. Chi crederà mai, fuori che il Vambéry11, uomo dottissimo sì, ma affetto, a mio credere, di artificiale chauvinisme turanico, che dall’accampamento ottomano si trarrà ancora una moderna nazione turca? E in che altro ha messo capo la kedhivale rinnovazione dell’Egitto12, se non, che, tout court, nell’ingerenza del capitale europeo, tradotta poi, senza complimenti, – checché dica in contrario la fraseologia diplomatica – nel dominio prevedibilmente perpetuo dell’Inghilterra da Alessandria fin verso le fonti del sacro Nilo? Non una sola delle genti, non un solo dei varii conglomerati di genti, non un solo dei quasi-popoli, su i quali l’Islam esercitò per più d’un millennio la sua forte influenza, s’è visto ad assorgere di recente a nuova vita per ispontanea e rigeneratrice appropriazione degli elementi che il mondo europeo è andato offrendo. E poi non è forse l’Europa stessa suddivisa alla sua volta in un suo proprio Oriente ed Occidente? La linea di demarcazione non è certo assegnabile come in un tracciato topografico; e nessuno vorrebbe dire, che, al di là di essa, vegeti ancora sonnolenta la preistoria scitica e sarmatica. Ma è sempre vero che la Russia, al confronto di questi stati, dell’Europa mediana ed occidentale, sorti e svoltisi da costanti rivoluzioni, che han rimescolato così spesso tutti gli elementi sociali dall’imo alla superficie, e dalla periferia al centro, e viceversa, rimane per noi come un qualcosa di straniero, che sa sempre di bizantino e di mongolico tuttora. La posizione attiva è sempre tenuta, alla fin delle fini e nel tutt’insieme, dai neo-germani e dai neo-latini: e ci troviamo per ciò rimandati alla lunga tradizione della civiltà mediterranea antica, continuatasi nella unità cattolica del medio-evo. Qual maraviglia, dunque, se la politica della conquista, della supremazia, della sopraffazione, dell’intervento da paese e paese, e della guerra, o fatta o soltanto minacciata, sia stata e rimanga l’inevitabile conseguenza, il potente ausilio e l’istrumento decisivo della espansione capitalistico-borghese? Il principio di nazionalità, vuoi per fomento di spirito democratico, vuoi per

fortunate circostanze, ha compiutamente trionfato nell’Italia, che nel suo recente assetto di stato unitario rimane di poco in qua da i suoi confini etnico-naturali. Per diverse vie, in diversi modi, con minori garenzie democratiche, ma con impeto immensamente superiore di fattività progressiva, e pur sempre nello stesso tempo, è venuta a maturità di grande stato una Germania nuova, povera di confini naturali, che male amalgama entro i suoi confini politici alcuni elementi stranieri, e lascia fuori del suo perimetro un numeroso popolo di Tedeschi. E qui s’arresta il successo della nazionalità. Greci, Bulgari, Serbi, Rumeni – si son redenti sì; ma son essi rispettivamente così pochi, che, non potendo esser leva da muover la storia, rimangono manubrii dei più potenti. E la infelice dilacerata Polonia; i Finlandesi manomessi proprio sotto gli occhi della civilissima Europa, e i mezzo dispersi Armeni, lasciati in balia della scimitarra micidiale?13 Il certo è, che la dinamica politica che ha menato al presente, e non invero semplicemente temporaneo assetto, le combinazioni etno-economico-politiche che formano gli stati, ha sfidato e sfida la rigorosa logica del principio nazionale: e l’Inghilterra non avrebbe tenuto per due secoli l’indiscusso dominio dei mari, e fino a pochi decennii fa il monopolio del commercio mondiale, se, da quando in su la fine del secolo diciassettesimo si venne isolando dal continente europeo, avesse essa mai tollerato le sorgesse accanto nella vicina Irlanda, che ha così metodicamente stremata e depauperata, una nazione autonoma. L’Austria – ecco la classica e solenne smentita – s’è fatta quale è ora, e cioè libera dalla vieta tradizione del Sacro Romano Impero, proprio in principio del secolo decimonono, è venuta ai suoi mezzani componimenti di stato moderno liberale proprio in fine di esso, ed entra nel nuovo secolo sfidante i preannunzii di prossima morte. Tutto cotesto assetto politico degli stati, che par fatto apposta per muovere, come muove, alle incessanti proteste i caldi amatori del diritto di natura, della logica e della giustizia, non sussisterebbe un sol giorno, se la compagine interiore delle società, che offrono la materia su la quale si esercita l’arte di stato non fosse per sé stessa piena di contrasti, e di continuo sommossa dal perdurare e dall’intrecciarsi di tali contrasti. Per quanto da cento e più anni in qua sia stato forte, e soprattutto precipitoso negli ultimi decennii, lo spostamento della popolazione dalla campagna alla città, pur permane ostinata la divisione fra rurali e cittadini, con le accentuate e spesso irriducibili differenze psicologiche che ne derivano. Per quanto i rapidi progressi della tecnica abbiano raccolto intorno alle fabbriche di piccola, di media e di grande portata, innumerevoli operai reggimentati, da per tutto, ed anche nei paesi della più fiorente industria moderna, sussistono infinite forme di artigianato, che dalla piccola bottega giù

giù si perdono fino nei lavori domestici, nei lavori promiscui, e nella ricerca girovaga ed avventizia della occupazione. Ed anche qui delle pronunziate differenze psicologiche. Ma che giova di prolungare l’analisi d’un fatto, che sta chiaro e dispiegato sotto gli occhi di tutti? Chi non vede, discerne e connota le caste, i ceti, le consorterie, le combriccole e le camorre, dei preti, dei frati, dei militari, dei proprietarii, dei capitalisti, dei finanzieri, dei borsisti, dei commercianti, dei professionisti, degl’impiegati, a venir giù giù ai parassiti, ai vagabondi, al servitorame, e a tutte le specie e forme del canagliume e della mala vita? Per tali differenziazioni nel seno di una società, che non è più giuridicamente gerarchica, ma che è di fatto multiformemente articolata, mal si forma, salvo che nei casi di violente e repentine scosse, quella unitaria opinione pubblica, senza della quale la democrazia non può sussistere. Si ripensi alle città antiche, che sono fino ad ora l’esempio classico ed insuperato della psiche democratica entro l’angusta cerchia di una vera cittadinanza. Per tali ragioni nel liberalissimo secolo decimonono l’azion politica dello stato s’è affermata – s’è retta ancora così spesso su la violenza, su la corruzione, e sul ripiego: sia che Napoleone III, nell’acquiescenza degli operai di città battuti dalla grande e media borghesia nelle giornate di Giugno, si faccia l’imperatore dei contadini e dei soldati, aspettando al varco i capitalisti e loro parassiti14; o che la scaltra oligarchia inglese disperda il moto cartista nelle dilazioni e nelle parziali concessioni15; o che Bismarck acclimati ai mezzi costituzionali l’impetuoso moto socialistico tedesco16. Queste non liete riflessioni su gl’intralci che ha messo al moto ascensivo della democrazia il complicato intrigo politico di tutto un secolo, trovano rincalzo in due altri fatti. Dov’è, fino al momento presente, ed anche nei paesi che pretendono di averne, la vera cultura popolare? E d’altra parte non è forse vero, che, mentre la scienza, quanto a materiale, è strepitosamente cresciuta, e, quanto ai metodi, si è maravigliosamente raffinata, e mentre la tecnica conquistatrice e combinatrice di forze estende a vista d’occhi il dominio dell’uomo su la natura, in molti punti dell’orbe civile risorge il misticismo, e su molti strati della società si fa di nuovo potente il cattolicismo? Potremmo noi passar sopra a tali considerazioni? Due problemi di carattere più generale stanno a capo di tutta questa trattazione, e penetrano per ogni parte il mio discorso. Il primo è questo: si può mai misurare il progresso, e alla misura quale stregua occorre? Il secondo può avere la seguente formulazione: è egli mai possibile di prevedere l’esito dei presenti contrasti? il che si riduce a riannodare la nozione

del progresso ad un prossimo punto d’approdo. S’intende da sé, ed è anzi implicito al concetto della critica immanente ai contrasti della presente civiltà, che il ragguaglio principalissimo è riposto nella aspettazione del socialismo. Il secolo, del quale vado facendo la commemorazione, ebbe un carattere tutto speciale, che lo differenzia singolarmente da tutti gli altri. Gli uomini che vissero per entro e durante cotesto periodo vennero come trasfigurando la nozione del tempo; e il numero (decimonono), ossia la data, divenne un’idea: come a dire la persuasione del diritto al progredire. Tale persuasione era come formata già fra il 1840 e il 1850. Singolare ricordo di quella onnipotente Convenzione, che avea decretata l’abolizione di ogni altra èra, e l’inizio di un nuovo periodo nella vita dell’uman genere!17 Di fatti per la prima volta gli uomini ora sentono che essi stessi fanno la storia per entro alla collettività organizzata. L’intelligenza umana fra i civili d’Europa che tengono il governo del mondo è venuta per la prima volta in contatto coi viventi in tutte le regioni dell’orbe terraqueo, e s’è resa conto dei modi d’esistenza di molte generazioni di nostri antenati. La consapevolezza dell’esser nostro s’è venuta come rinforzando, avvalorando, moltiplicando. Per la veduta così allargatasi su i molteplici precedenti del nostro vivere attuale, la certezza dell’aver progredito, l’aspettazione del progredire e la necessità del dover progredire han finito per raccogliersi in una persuasione che ha sicurtà di fede. In questa sicurtà s’impernia un nuovo, più profondo e più ampio senso di comunanza umana, che determina in molti ciò che può oramai dirsi l’etica del socialismo: cioè il postulato della solidarietà contrapposto all’assioma della concorrenza.

III Sorretti dalle ambiguità del linguaggio, noi riusciamo a contrapporre alla nozione meccanica del secolo (i cento anni) quella d’un periodo interno, nel quale la società segua delle determinate direttive, e presenti dei caratteri, che sono i suoi principii. Quelle ambiguità linguistiche ci son familiari, perché, dicendo p. es. secolo di Leone X, noi non pensiamo ad alcun numero d’anni precisi18. Dura e materiale quasi, al contrario, è la espressione tedesca (Jahrhundert) e quella inglese, che letteralmente ricorda i cento anni. E il caso vuole, che, pochi anni innanzi che s’aprisse il primo foglio del calendario del 1801, l’avvento dell’era liberale fosse catastroficamente inaugurato dalla rivoluzione industriale inglese, dal precipizio dell’Ancien Régime in Francia, e dalla consolidata indipendenza americana, che inaugura e fissa nella sua peculiarità ed autonomia la storia del Nuovo Mondo. La nuova Germania era già allora come avviata, la Russia s’avvicinava al Mediterraneo, riabilitato dalla spedizione d’Egitto, e divenuto indispensabile di nuovo alla economia del mondo occidentale dal rassodato potere dell’Inghilterra su l’Indostan. E chi ami di guardare nei più sottili riflessi delle rivoluzioni intellettuali o estetiche l’affannoso divenire delle cose umane sociali, non ha che a ripensare a questi nomi: Smith, Malthus, Ricardo – Lavoisier, Laplace, Lamarck, Volta, Avogadro – Kant, Bopp, Goethe, Shelley, Owen, Saint-Simon, Fourier, Hegel. Basterebbe, dunque, di aggiungere agli usuali anni, che corrono fra le cifre rotonde 1800 e 1900, un semplice trentennio, per ritrovare di sotto ad una indicazione di mera cronologia esteriore, l’indice di un periodo che, rivelando caratteri proprii nella maniera della convivenza, non mi periterei di chiamar sociologico. Ma tutte coteste cautele e riserve, che servono a un di presso ad adombrare il divario fra le tabelle dei cronologisti e le esigenze della concezione sociologica, non varranno mai a liberarci da varii pregiudizii e presupposti, che, in modo più o meno esplicito o latente, pesano su lo spirito non dei soli indotti. Molti sono p. es. tentati a credere, che il discorrere di un’epoca liberale sia come inquadrare una serie di fatti particolari in una già nota prospettiva unica di tutto il genere umano. Spariscono così le differenze di attivi e di passivi, di Oriente e di Occidente, di avanzati e di arretrati, di selvaggi, barbari e civili tuttora coesistenti, e si perde di vista il relativo regresso, ossia la decadenza, che è pur fenomeno d’indubbia realtà. E poi, fermandoci ai soli civili, la cui continuità storica pare come accertata dalla costanza della tradizione, alcuni trascorrono

facilmente alla immaginazione dei grandi periodi designati da categorie così generali, che rimangono inoppugnabili perché antiempiriche e inconcludenti. P. es. Hegel: un solo libero – pochi liberi – tutti liberi; o il suo pendant latino Comte: teologia – metafisica – scienza. Parlando, in somma, di un periodo liberale, in quanto ciò s’attaglia solo ai popoli direttivi nella civiltà attuale, io intendo innanzi tutto e soprattutto di attenermi ai caratteri empirici di queste nostre società, in quanto derivano da altre (corporative, feudali, endemiche, ossia locali, puramente etniche, teocratiche e così via) e si differenziano dalle altre parti del genere umano, che, o non percorsero tutti i nostri stadii, o ne han percorso degli altri in gran parte difformi. Queste stesse nostre società in nessun luogo sono così serrate di tipo ed omogenee di strutture da avere eliminato del tutto le tracce del passato. Ed ecco la prima ragione degli arresti ai quali accennai nell’altro paragrafo. In tutte queste società – per i contrasti che ad esse sono inerenti – si preparano condizioni future. Di qui la ragion d’essere del socialismo nel più lato senso della parola. Il socialismo è fin da ora realtà attiva in quanto indizio e segnacolo di lotta attuale; ma tutte le volte che esso assume un presagito futuro come stregua e criterio del presente, ridiventa utopia.

Entro per ciò in una specie di apparente divagazione, della quale non s’avrà il senso che alla fine di questo paragrafo. Seclum o seculum, saeclum o saeculum non vuol dire originariamente se non seminagione e quindi generazione. Sta in fondo la radice sa, che ci apparisce schietta in satus, sativus, sator, Saturnus: e poi se in serere, in sevi (Ennio), in semen ecc. I corrispettivi delle lingue ariane d’Europa (lituano sëti; antico slavo sejati; gotico saian; antico tedesco sâjan; tedesco moderno säen; inglese sow) documentano il derivarsi della parola seculum dalla radice sa (se) a significare il nascere per seme o per seminagione: dal che poi lo scindersi del significato in generato, e in generazione generante. Basterà una breve scorsa nel campo della semasiologia (o semantica che dica il Bréal)19. Il significato originario è tutto ancor vivo in Lucrezio: p. es. saecla pavonum e saecla ferarum; cupide generatim saecla propagant; ut propagando possint procudere saecla20. Da questo senso intuitivo si distaccano i varii traslati, che si derivano in varie metonimie. P. es. la durata di una generazione umana contata per 33 anni: ex hac parte saecula plura numerantur quam ex illa (Livio)21; o la durata d’un regno: digna saeculo tuo (Plinio)22; e quindi l’insieme dei conviventi: hujus saeculi insolentiam vituperabat (Cicerone)23; e di qui, per fina transizione, i costumi e lo spirito d’un periodo di tempo: grave ne rediret saeculum Pyrrhae (Orazio)24; Cato rudi saeculo litteras graecas didicit (Quintiliano)25; nec corrumpere aut corrumpi saeculum vocatur, nel qual luogo Tacito26, che parla dei Germani, con una certa punta di novità preludia al senso cristiano della parola, come quando Prudenzio gravemente dice: servientem corpori absolve vinclis saeculi27. Il distacco massimo da ogni immediata derivazione di cosa sensibile è quando la parola è assunta a significare un tempo indeterminato: aliquot saeculis post (Cicerone)28; al che fa contrasto la fissazione tecnica a significare una determinata estensione di tempo: saeclum spatium annorum centum vocarunt (Varrone)29. Comunque sia nata la immagine di cento anni destinati artificialmente a designare un doppio termine d’inizio e d’arrivo, sta il fatto che in questo modo di vedere si rivela un non trascurabile momento di psicologia sociale. Dato che non si viva più nella promiscuità o nell’orda primitiva, ma che la società sia già articolata in genti ad ordinamento patrimoniale e patriarcale – come era indubbiamente quella degli antichissimi Italici – dato che in cosifatta convivenza si trovino in domestico contatto avo, figliuoli e nipoti (come tuttora nella Slavia

meridionale), come di regola, la storia casalinga dà un che di frequentemente intuitivo al succedersi di tre generazioni di viventi negli stessi abiti e sensi. Non così le posteriori plebi antiche, non così i proletarii moderni viventi nel giorno per giorno, senza raccoglimento di gentilizia tradizione. Questa è ancor forte nelle sopravvissute aristocrazie o di veri proprietarii o di patriziati di città, e non iscarsa nella più consistente borghesia. Una memoria viva di ciò che s’è svolto a un di presso da cento anni in qua nella propria famiglia costituisce nella maggioranza delle persone di mediocre cultura il punto di riferimento delle cose del mondo. Se io non guardassi alle vicende del secolo con l’occhio di persona avvezza alle discipline storiche, saprei almeno di Napoleone, di Gioacchino Murat, dei Francesi a Napoli, dell’abolizione dei feudi e della introduzione del Codice Civile per averne sentito a parlare dal nonno e dalla nonna. La tradizione biblica è tutta contesta di tracce genealogiche, fino al posticcio preludio dell’Evangelo di Matteo30. La medesima concezione è ancora viva nell’indimenticabile Ecateo, nel quale, pare almeno, non comincia ancora quel senso più complessivo degli accadimenti che più tardi fu così vivo nei Greci in quanto si riferiva all’unità, o della città, o del popolo31. Dove l’intuitivo fatto delle generazioni è così dominante quale unità dei ricordi l’immagine dell’albero si presenta da sé, sia che Omero (Il., VI, 146) dica: οἵη περ φύλλων γενεὴ, τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν32

o che Jesus Sirach (14, 19), quasi parafrasasse Omero più ampiamente, enunci: «Come le verdi foglie sopra un bell’albero, che altre cadono ed altre crescono; così è degli uomini, che altri muoiono ed altri nascono»33. Non mi addentrerò in dotte disquisizioni estranee in tutti i modi al mio assunto, per mettere in chiaro come sotto l’influsso di credenze etrusche al gran numero delle feste cerimoniali, votive, espiatorie e trionfali, si venissero aggiungendo nell’antica Roma i ludi saeculares. Sono attestati la prima volta al 249 e la seconda al 146 a. C., il che farebbe il 505 e il 608 ab urbe condita (del calcolo varroniano), con poco divario dal cento sacramentale. Li celebra poi Augusto al 737 ab u. c. (ossia al 17 a. C.) in ritardo di parecchi anni. Tengo per cose note l’arbitrio col quale il bizzarro Claudio sconvolse di suo capriccio la data per letificarsi dello spettacolo, il fatto che Domiziano rimise a posto la serie, e che Settimio Severo, col quale cessa la diarchia e s’inaugura il periodo dell’impero militare-burocratico ne ripigliò la celebrazione a 110 anni di

distanza. Con gran pompa ebbero luogo gli ultimi giuochi celebrati (forse il 303 di nostra èra) dall’ultimo effettivo rappresentante del mondo antico, Diocleziano, e la cerimonia non più fatidica ha trovato nell’ultimo notevole storico pagano, cioè in Zosimo, il narratore romantico della tradizione sibillina34. I decadenti son sempre coloristi. Come e quando ai culti indigeni, gentilizii e locali, si venissero ad aggiungere nell’antica Roma nuovi motivi di superstizioni cerimoniali tratte da quelle vedute apocalittiche che si compendiano nei misteriosi libri sibillini, né sappiamo né sapremo mai. Che i ludi saeculares avessero originariamente per obietto i dei inferi, e che la data ne dovesse essere fissata dagli Haruspici, son cose risapute. Ma come e per quali vie si venne formando nelle menti romane quel singolare sincretismo di opinioni orientali, postplatoniche e semistoiche per cui le prosaiche vicende – che furono allora di ferocissime guerre civili – apparissero come un momento delle fasi dell’anno mondiale? Augusto già decretato imperatore da dieci anni, consenzienti i quindecemviri a interpretare i Sibillini quanto alla data, mentre tenta di reintegrare l’ordine morale con la legge de maritandis ordinibus celebra sotto il vecchio titolo dei giuochi secolari la felicità dell’orbe nell’Impero35. Già i dieci mesi dell’anno mondiale erano penetrati nei libri sibillini. Non erano circoscritti in numeri d’anni assegnabili ma rivelati da segni e portenti. Avean dei presidi. Diana cedeva già il posto ad Apolline, e si era così al decimo saeculum delle periodiche età dell’universo come avea seriamente annunziato l’auruspice Volcazio edotto dall’apparire della crinita cometa alla morte di Cesare. Non cantava Virgilio: Ultima Cumaei iam venit carminis aetas; Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo36

Superstizione, mitologia, teologia, stanchezza degli animi, bisogno di riposo, corruzione d’ogni forma di vita spontanea popolare, impulsivo l’artifizio politico37, e la stessa apprensione di quelle genti barbariche che cingevano l’ecumenico impero dei civili – tutto concorreva a consacrare come nell’accettata immagine di età cosmica il nuovo magistero imposto al gran caos etnografico del Mediterraneo. Rimando ai manuali quanto alle solenni feste augustee culminanti al terzo giorno in quella d’Apolline, come se il luminoso iddio avesse trionfato degl’inferi, e mi preme solo di ricordare che l’epicureo, il decadente, l’ex repubblicano Orazio, fu il primo poeta aulico del Sacro Romano

Impero, il primo cantore di una idea, che rimase definitivamente sconfitta solo per opera dei sanculotti38. Cotesta fantasia delle età del mondo non turbò mai la pratica del conto civile degli anni, né la trattazione annalistica del racconto storico. Bastava l’ab urbe condita o il post reges exactos, e la indicazione dei consoli, e così fu l’ultimo di questi (nel 542 dell’E. C. sotto Giustiniano) Flavio Basilio Juniore assunto da alcuni cronisti a data negativa perché scrissero tanti anni dopo Juniore39. A tale metodo s’adattarono gli scrittori cristiani – quando non usassero di altre ère civili dei paesi d’Oriente – e ci si adattarono per più di cinque secoli, che son quelli in cui il cristianesimo s’è formato e svolto e fissato e stabilito come sistema di vita e di cultura, e s’è imposto a quasi tutte le regioni dell’Impero. In quell’Impero era nato e s’era consolidato: e quell’Impero non era che l’ultimo periodo di quelle età del mondo che la profezia biblica permetteva di ammettere. Datare dalla nascita di Cristo un nuovo periodo storico sarebbe stato come profanare il piano provvidenziale del mondo, e come un anticipare il millennio. L’Impero romano, ossia l’ultima delle monarchie profetizzate, avea perciò esistenza indefinita. Non starò qui a riferire come Eusebio di Cesarea, usando del sincronismo di Giulio Africano, abbia costruito la cronaca del mondo spartendola nelle due serie da Mosè alla predicazione di Cristo per un verso, e da Nino a Tiberio da un altro con Abramo a capo che non ha corrispettivo di storia profana40. Lui s’arresta al 325, contando per decadi la cronaca mondiale prolungata da S. Girolamo fino al 378, al quale il profeta Daniele opportunamente interpretato dava modo di eternare l’Impero romano come la quarta monarchia che non ammette dopo di sé altro che la palingenesi41. Non occorre mi indugi nei quattordici subperiodi simmetricamente posti da S. Agostino fra Abramo e Cristo, e nelle sei età del mondo che gli parvero documentate dalle sei età della vita e nei sei giorni della creazione42. Tutto cotesto garbuglio di escogitazioni trascendenti, convalidato dall’autorità di Sulpicio e rifermato nella cronaca del mondo di Isidoro, ebbe la sua codificazione nel manuale di Orosio43. Che l’Impero d’Occidente cada, non monta, c’è quello d’Oriente, e poi viene la instauratio carolingia e poi quella degli Ottoni. Le preordinate età del mondo non soffrono alterazione, per il variare delle multiformi contingenze di tempi così ricchi di nuove forme di vita. Tutto è fermo e stabile da Adamo in poi, perché la creazione del mondo ha la sua data! Il contare per decadi è così comodo, e così il sommare le decadi in cento (C.). E quando la data della nascita di Cristo fu per congettura stabilita, spezzare il conto in due era del pari opportuno, e quindi avanti e dopo Cristo. I cento

sommati danno il mille: il pauroso mille, ossia il millennio dei millenarii44, ai quali non so dare, in buona coscienza, alcun torto. Concepita in modo così materiale la necessaria concatenazione degli avvenimenti, dalla storia profana bisognava pure uscire in un determinato momento per entrare sensibilmente nel regno di dio. Ma io non sarei tornato su cotesto immane guazzabuglio di cosiddette idee, se non mi premesse di fermarmi in alcune non inutili considerazioni. In quel gran tratto di tempo che per convenzione di comodo noi chiamiamo il Medio-Evo, dunque, quei pochi e rari intellettuali che raccolsero e scrissero le memorie locali e generali, pur datando le loro cronache dal padre Adamo e pure spartendo la cronologia in avanti e dopo Cristo, non ebbero punto o assai raro sentore della peculiarità, novità, e originalità dei fatti che trattavano. Vissero idealmente in una romanità di loro fattura nella quale inquadrarono i nuovi fatti come gli accidenti di un Impero continuamente esistente, nel quale elementi latini, germanici e in parte slavi si confondono sotto il magistero del Caesar sempre vivo. Tardi si sgroppano da questa illusionale comune coscienza indistinta i neo germani e i neo latini nella specifica circoscrizione di nazioni e subnazioni. Tardi si svincolano dei veri e proprii reggimenti di stato dagli universali vincoli dell’Impero e del Papa, che era alla sua volta o l’Impero o il sopraimpero. La forma strepitosa di tale distacco, come quella che avvia alla Rinascenza e ossia alle prime fasi della storia moderna, e nella formazione dei comuni italiani, e nei fatti analoghi delle Fiandre, delle città del Reno, della lega anseatica e soprattutto della Provenza, dove il moto prematuramente trascorso alla ribellione dalla cattolicità fu spezzato dal regno di Francia aspirante al Mediterraneo. Così, e per la formazione dei grandi stati, e nel costituirsi delle nazioni con organi letterarii proprii tratti dal volgare, e nei tentativi di chiese nazionali e con la scissura protestante si venne formando quella nuova coscienza, duplicatasi di Rinascenza e di Riforma, che ha cambiato negli intellettuali del secolo XVI la prospettiva storica. Nei rinnovatori dell’antico questo diveniva davvero l’antico. Per gli scovritori del nuovo mondo, pei contemporanei di Copernico, pei rimaneggiatori dello scibile, per gli audaci precursori di una scienza nuova della natura, pei rappresentanti di tante nazioni oramai mature d’individualità propria cessava il senso di quella miscela che fu la romanità medievale. Affatto naturalistica è la spiegazione che dà Machiavelli della fine dell’Impero romano. A poco andare Jean Baudin comincia a fissare i primi canoni di una ricerca storica ristretta e legata alle condizioni obbiettive, e Giulio Scaligero introduce la tecnica cronologica come una vittoria della combinazione posta dalla mente sopra ogni simbolica di numeri e sopra ogni fantastico presupposto di

preordinate età del mondo45. La intuitiva riproduzione dell’antico da un canto, e il precisarsi del moderno dall’altro, sollecitarono i dotti di professione a rinchiudere in un così detto evo-medio la serie di fatti fra la caduta dell’Impero d’Occidente (476), della quale i contemporanei quasi non s’avvidero, e un’altra data, che varia secondo i gusti dalla presa di Costantinopoli (1453) alla scoverta d’America (1492) e all’apparizione di Lutero (1517). La scuola s’è impossessata di tal comodo ripiego di facile classificazione: la quale vale quel che può valere ogni sorta di ripiego. Noi siamo ora assai lontani da Baudin e da Scaligero, dalla Rinascenza in genere e dai suoi derivati. Le ricerche storiche son venute in tanta perfezione di metodo da avvicinarsi per molti rispetti alla rigorosa scienza. Questo è uno dei maggiori vanti del secolo XIX. A nessuno viene più in mente ora di considerare sul serio come signoreggiante su la storia un tempo che faccia da trascendente distributore di atti e fatti. Il cresciuto e sempre crescente raffinamento della ricerca economica, giuridica, etnografica, e antropologica, per non dire della geografia, della statistica, della linguistica e della mitologia e così di seguito, ci permettono < di vedere > in sempre nuove e sempre più prospettive, e con più particolari contorni i diversi popoli e i diversi stati, non più distanziati da noi dai semplici dati cronologici ma dai momenti di una evoluzione, che qui troviamo spezzata, lì più dispiegata, e che poco per volta spezziamo. E se – come ho fatto io in queste pagine – datiamo una serie di considerazioni da un fatto determinato, p. es., lo scoppio della Rivoluzione Francese, non ignoriamo più quanto di approssimativo c’è in cotesto taglio, e non dubitiamo di dover tener desti tutti gli organi della osservazione e pronti tutti gl’istrumenti della critica per dare all’anatomica operazione il suo giusto valore. Quel taglio non ci dispensa dal considerare lo scoppio dell’89 come il resultato di tutta la civiltà romanogermanica, continuatrice della antica civiltà mediterranea, e non ci autorizza a dimenticare che non ha valore per l’universo mondo terraqueo (India, Cina, Giappone, ecc.) e nemmeno per quella Europa, che è di là dalla linea dove finisce l’azione diretta dell’èra liberale. Senza dubbio oggi le direttive della ricerca storica si assommano nei criterii sociologici; e questi culminano – a mio credere – nel materialismo economico. Ma anche qui i pericoli dei facili schematismi non son sempre facili ad evitare. Per questa sicurezza di metodica scientifica con la quale cerchiamo d’investire il passato facendolo rivivere della vita del nostro pensiero, noi siamo diventati larghi d’indulgenza per le illusioni del passato stesso. Quella illusione medievale dell’impero indefinitamente prolungato, passando sopra ai pregiudizii teologici o esegetici che idealmente la sorreggevano, costituisce per noi una forte testimonianza sociologica. Ciò che veramente persisteva nei primi secoli eran le condizioni di civiltà romana nelle

quali il cristianesimo s’era svolto. I barbari invasori non furono nazioni di conquistatori, ma popolazioni cercanti sede. Bisanzio non ne acclimatò tante malgrado la violenta dispersione etnica portata dalle invasioni unniche sul medio o inferiore Danubio? La sede vacante dell’Impero d’Occidente non è un’illusione, perché il sistema di civiltà sopravvissuto, e per esso nell’interregno, acclimatava altri barbari da quest’altra parte. La prolungata illusione d’un Impero che si continui all’infinito, finché non venga l’instauratio magna della vera cristianità invadente tutti i rapporti della vita (p. es. Dolcino)46, è l’anima della concezione del mondo di quel Dante che, contemporaneo della borghesia già avviata e della monarchia come reggimento politico già tentato, vive idealmente sotto un Cesare invocato, e punisce più di ogni altro mortale il < traditore del > primo Cesare reale47. L’apparizione della borghesia – o che si costituisca in comuni o in leghe di comuni o che si lasci guidare o contenere da un monarcato tendente ad esercitare amministrazione o giurisdizione accentrate – è oramai per noi l’inizio di quella concatenazione di eventi cui siamo autorizzati a dare il nome di storia moderna, in contrapposto alla incubazione medioevale, in contrapposto agli ereditati o riprodotti elementi dell’antico. Parlando di un secolo decimonono – nel lato senso indicato di sopra – noi sappiamo dunque di occuparci dell’ultima e della più ampia e dispiegata fase dell’evo borghese. Mi occorre di dire dell’altro. Quei romantici del cristianesimo che ingombrarono di loro nomi e di loro scritti i primi decennii della reazione succeduta al gran moto francese hanno accreditata nella letteratura la fatua idea d’una civiltà cristiana posta e saputa dagli autori stessi come distinta dalla civiltà pagana. Era un modo di combattere a ritroso la invadente borghesia in nome d’un cristianesimo fattizio e di un medio evo transfigurantesi in poesia. Per ciò mi son fermato qui innanzi a ricordare come la storiografia cristiana dei primi secoli della vigorosa diffusione e del pratico trionfo della nuova fede, mentre seguiva qual mezzo di conto delle ère civili accettate e soprattutto di quella dominante dell’ab urbe condita (né gioverebbe qui di ricordare le altre, p es. Troia, Argo, i Seleucidi, Nabonassar, della quale ultima usò Tolomeo anche lui seguace dei sincronismi riannodati al succedersi delle grandi monarchie48), considerando il cristianesimo come l’oltrestoria, s’adattò a considerare come permanente la civiltà profana contenuta dall’Impero. In fatti gli è solo in principio del VI secolo che Dionigi, meritamente detto l’esiguo, nel rifare le tavole pasquali di Cirillo data il 1284 ab urbe condita (dell’èra di Catone) per il 531 dopo Cristo, trasferendo dal venerdì santo alla

natività la data che forse per il primo avea argomentata Vittorino di Aquitania undici anni innanzi (465) alla caduta dell’Impero d’Occidente. Quell’esiguo era un nordico, e fu detto lo Scita – tanto la confusione etnica massima fra le Alpi e il Danubio avea sconvolto – pur essendo in Roma abate di un monastero. Fu compilatore di diritto ecclesiastico, mettendo assieme i così detti canoni apostolici, le decisioni dei concilii e le decretali di Siriano e di Anastasio49. Per fermo se il Cristianesimo, che come fede avea sempre per obietto il di là da venire, in quanto esso era diventato chiesa, ossia associazione e politica, metteva piede nelle cose del profano mondo per essere nell’interregno dell’indistruttibile Impero, o il vice – o il vero – o il sopraimpero. E avea bisogno a ciò, più che della data, del dritto e del potere economico. Quella data – che a me qui non importa di vedere se sia inesatta di 2 o 3 secondo il Mabillon50, o di 8, e così via – indicata col 531 per dire che ne trascorrevano 532 dal 753 (conto catoniano) dell’ab urbe condita, fu diffusa dal venerabile Beda51 e, penetrata nei documenti carolingii, ebbe consacrazione ufficiale negli atti di Giovanni XIII (965-72) nel più confuso e disordinato tempo di nostra storia europea appressandosi il fosco millennio52. I tecnici si occuperanno di dire come si datassero in quei tempi assai variamente gli anni, cosicché Carlo Magno ci apparisce incoronato imperatore ora il 799 ora l’800, e a me preme solo di dire come cotesta èra cristiana non sia stata nulla di sacramentale per la universalità dei fedeli. La cattolicissima Spagna ha contato fin verso il secolo decimoquarto dall’èra di Augusto (38 a. C.); e Bisanzio, come per affermarsi nella sua differenza dall’Occidente già distaccatosi, si tenne alla data della creazione del mondo, sapientemente fissata dal concilio costantinopolitano del 681 a 5509 anni avanti Cristo. Così continuarono tutte le chiese d’origine bizantino-ortodossa – così la Russia fino a Pietro il Grande, che introdusse il calendario occidentale di fattura giuliana, passando sopra alla riforma gregoriana. Fortunati i nostri padri, che nella iscienza delle fasi effettive del genere umano, lontani dal presentimento di tutto quel sapere che noi ora compendiamo nei nomi di sociologia, di preistoria e simili, si argomentassero di sapere la data della creazione del mondo. Da giovanetto io – per la pigrizia tradizionale che manteneva nell’ambito scolastico d’un paese di decaduti il vieto e l’obsoleto – ebbi per mano dei vecchi libri nei quali la storia era contata dalla creazione del mondo, travagliandomi ad armonizzare Calvisio (3949 A. C.), Petavio (3938) ed Ussero (4004)53. Ignorava allora che nelle dotte dispute di varii interpetri delle sacre carte ci fosse stata anche una scuola (ebraica invero) che fissò la creazione precisamente al 5 ottobre del 3761 a. C54. Di quanto si sia prolungata la nozione dei fatti storici accertati per le scoverte

della egittologia e delle antichità babilonesi presemitiche, è cosa risaputa. Al certo per date di cronologia si risale a numerose epoche di preistoria, confinabili per altri interiori criterii di successione. Più in là le epoche geologiche, entro le quali incertamente collochiamo il primo apparir della vita, e più in là ancora la ipotesi su la formazione del sistema solare, e il tutto si dirama e contiene nell’universale concetto della evoluzione. Sorridenti noi guardiamo indietro ai nostri padri che cercavano in un giorno di un anno dell’ovvio tempo la materiata creazion del mondo, e in tanto abbagliante luce di rivelazione interpretabile, non seppero con precisione l’anno di nascita del salvatore, e quella congetturata fu materialmente accettata come una qualunque egira. La moderna idealizzazione del cristianesimo nei derivati filosofici del protestantesimo ha superato del tutto l’angusta nozione di una verità religiosa che è un fatto di materiata narrazione, pronunziando per bocca di Schleiermacher che è cristiano non il nato ma il rinato55. La chiesa, che come arbitra della cultura s’impossessava del calendario codificando l’èra e i secoli, s’acquetò lungamente a continuare il conto sommando gli anni della riforma giuliana (45 a. C.)56. Anche qui era e rimaneva sovrano il primo Caesar, e il tempo procedeva sotto la imperiale insegna. Mi guarderò bene di discorrere dei varii anni che la tecnica astronomica suole annoverare. Né occorre io spieghi per quali convenienze la cronologia civile si attenga all’anno equinoziale, che ci è in un certo modo sensibile. Non importa qui di ricordare le fasi della cronologia greco-romana – le antiche notazioni delle vicende agricole – gli anni lunari – e i tentati riavvicinamenti al periodo equinoziale. Quale confusione regnasse quando Giulio Cesare ordinò la riforma, più che da ogni altra erudita testimonianza risulta dal fatto che si dové ricominciare da un anno di 455 (sostituito all’antico che era di 355) e chiamando 24 marzo il giorno dell’equinozio, si costituì un anno in cifra rotonda di 366 con la nota differenza dall’effettivo periodo equinoziale che è in media di giorni 365, ore 48, minuti primi 48 e minuti secondi 46. Non fu riferito al 24 marzo l’inizio dell’anno, ma al 1° gennaio che per vecchia tradizione doveva corrispondere al plenilunio di dopo il solstizio d’inverno. In tale autoritativa riforma derivossi per Sosigene di Alessandria quanto potea dare la tecnica astronomica dei Greci non certo ignari della tradizionale sapienza egizia, che probabilmente fin dal 1600 a. C. avea trovato un canone di correzione siderale alle inesattezze dell’anno civile (il cosidetto periodo Sotis che riappare nel decreto di Canopo)57. Quello schema cesareo fu serbato per secoli nella cronologia tecnica e storica dell’Occidente, e la Russia se ne libera soltanto ora per la prima volta. Già al

tempo del concilio di Nicea (325 d. C.) l’equinozio di primavera era disceso dal 24 al 21 di Marzo, e il 1580 era all’11 di quel mese. Sorgeva d’ogni parte la domanda della riforma – la chiedesse quell’anticipato presentitore di cose nuove che fu Ruggiero Bacone o quel più prossimo a noi per senso di dubbiezze critiche che è il Cardinal di Cusa58. In questo fermento di novità di calendario si svolge il genio di Copernico, non presago delle sovvertitrici conseguenze cui dovesse giungere la foga geniale di Giordano Bruno e la più rassodata scienza di Galilei e di Keplero. La decantata riforma gregoriana non fu che un componimento gesuitico, al quale si adattò l’aulica scienza di Sirletti e Clavio59 sfidante la più radicale riforma del periodo teorico del geniale Scaligero. Furono aggiunti dieci giorni all’anno in corso (5-14) invece dei 13 che occorrevano a non offendere il Concilio di Nicea, e furon rimandati i tre giorni di differenza al 1700, 1800 e 1900, nei quali, come è noto, rimase soppresso il bisestile. Di qui a 3600 anni ci troveremmo in errore d’un giorno, se via via non si accetta la proposta del Mädler60 e di altri astronomi, di lasciare inalterata la tradizione giuliana del bisestile, salvo a sopprimerne uno ogni 128 anni, il che renderebbe approssimativamente coincidente l’anno civile con l’anno medio equinoziale. L’accomodazione gesuitica della riforma gregoriana lasciava intatta la concezione tolemaica – perché l’intuitivo equinozio riman lo stesso, o che la terra sia il centro dell’universo, o che sia un povero pianeta nell’indefinito spazio – di un cosmo considerato come una stabile e conterminata contenenza. Per altre vie s’era messo lo spirito della ricerca. L’audace, intemperante e sovrabbondante Giordano Bruno s’era fatto l’araldo per tutta l’Europa civile della veduta copernicana, dalla quale trasse, per virtù d’immaginazione costruttiva con precorrenza di genio che mal s’adatta alla paziente dimostrazione dei particolari, i dati più generali di quella intuizione cosmocentrica nella quale ora tutti ci adagiamo senza ambascia e senza travaglio. La volta del cielo dantesco rimaneva, non che sfondata, dispersa. L’irrelativo dell’universo senza contenenza sensibile rendeva relativa ogni umana misurazione per tempo e per spazio. Un anno dopo il martirio di Bruno, che ebbe luogo in quel Febbraio al quale la riforma gregoriana serbava il bisestile, Keplero (1601) determinando l’orbita di Marte sconvolse dal fondo la nozione della perfettissima forma del circolo dominante nella natura per volontà di Aristotele61. Galilei – continuatore del Benedetti62 – nell’assunto dell’inerzia, che preludia di lontanissimo al principio dell’energia ossia ad una data decisiva del secolo decimonono, portò a compimento una lunga disputa durata dal Cardinal di Cusa per più di 150 anni, con questo esito che la meccanica dovesse fondarsi su i dati della osservazione e del calcolo, rinunziando ad ogni ricerca su la origine trascendente del moto. Il

secolo decimosettimo è il periodo rivoluzionario della scienza della natura. Si elabora allora il concetto delle leggi naturali, sia pure che non tutti raggiungano gli ardimenti di Spinoza o di Hobbes, e che le leggi considerino come gli assiomi posti da dio. La relatività d’ogni misura, d’ogni maniera di mutazioni per mezzo del tempo è cosi affermata dal circospetto Newton: Tempus, absolutum, verum et mathematicum in se et natura sua absque relatione ad externum quodvis aequabiliter fluit, alioque nomine dicitur duratio. Relativum apparens et vulgare est sensibilis et externa quaevis durationis per motum mensura, qua vulgus vice veri temporis utitur: ut Hora, Dies, Mensis, Annus» (Phil. Nat., Def. VIII, Schol.)63.

Da Newton a Kant corre tutto un secolo, non di soli anni di conto, ma di intime transizioni e intensificazioni del pensiero. Quella ombratile eterna durata man mano si sfuma, e rimane la sola subiettività ossia relatività del tempo. Da Galilei, Keplero e Newton corre altrettanto un secolo per giungere alla ipotesi Kant-Laplace (forse precorsa dal Buffon) su la origine del sistema solare, che riduce gli assiomi posti da dio nei momenti di un obbiettivo e per ciò immanente processo64. Dove la finirei se volessi mettermi negli infiniti particolari di tali confronti? L’importante è che divenendo sempre più chiara la nozione che il tempo è la subiettiva misura dei varii processi, la cui natura peculiare deve essere attestata dalla considerazione empirico-obiettiva del loro contenuto, e del loro farsi e divenire – maturandosi cioè le premesse di quella veduta del mondo che il secolo decimonono ha condensato nel nome dell’evoluzione, nasceva il bisogno di trovare alla storia le sue proprie date sociologiche.

A ciò volle frettolosamente e audacemente provvedere con la sicurezza di chi crede d’esercitare su le complicate faccende del mondo il magistero della ragione, quella Convenzione, che decretò il novello calcolo dei tempi per l’èra della società rinnovellata. Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini avessero pei primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo su la ragione65. Non è che già mi prema gran fatto di scrivere invece del 1901, e per far dispetto allo Scita Dionigi66, il 109 anno della repubblica, aspettando il 110 che comincerebbe il 23 settembre prossimo. Né mi sento tanta vaghezza di democratico romanticismo da gioire all’idea, che se quel calendario fosse stato conservato a quella repubblica italiana che per ora non c’è, io oggi non metterei

la data del tal giorno di agosto ma bensì il tridì della prima decade del Fruttidoro sotto la insegna del marrobbio67. Né difendo l’arida architettura di quel calendario poco facile alla memoria. Ma i motivi del Decreto sono una singolare testimonianza della piena consapevolezza con la quale gli autori del gran moto, distaccavano sé da tutto il passato, e ponevano una prima data a tutta la gran rivoluzione che tuttora esagita il mondo occidentale. «L’èra volgare è abolita»68 – «L’èra volgare sorse in mezzo alle turbolenze precorritrici della prossima caduta dell’impero romano, e in un’epoca quando la virtù fece qualche sforzo per vincere le umane debolezze. Ma per diciotto secoli essa non è servita se non a fissare nella durata i progressi del fanatismo, l’avvilimento delle nazioni, lo scandaloso trionfo dell’orgoglio, del vizio, della stoltezza e le persecuzioni che macchiarono la virtù, il talento, la filosofia, sotto despoti crudeli» – «Perché mai la posterità dovrebbe vedere incisi su le medesime tavole, ora da mano avvilita e perfida, tal’altra volta da mano fedele e libera, così gli onorati delitti dei re come la esecrazione alla quale essi sono oggi dannati, così le furberie e l’impostura per gran tempo ossequiate come l’obbrobrio che infine raggiunge gl’infami ed astuti confidenti della corruzione e del brigantaggio delle corti [?]» – «La rivoluzione ha ritemprata l’anima dei Francesi, e di giorno in giorno essa educa alle virtù repubblicane. Il tempo apre un nuovo libro alla storia, e nel suo nuovo cammino maestoso e semplice come l’uguaglianza, deve incidere d’un nuovo e puro bulino gli annali della Francia rigenerata». «La rivoluzione francese, feconda, energica nei suoi mezzi, vasta, sublime nei suoi resultati, sarà nella considerazione dello storico e del filosofo una di quelle grandi epoche collocate a guisa di grandi fanali sul cammino eterno dei secoli» – «Il 21 settembre 1792 i rappresentanti del popolo ecc… han proclamata l’abolizione del potere regio… Questo stesso giorno dev’essere l’ultimo dell’èra volgare… Il 22 settembre fu il primo giorno della repubblica. Quel giorno stesso a 9 ore, 18 minuti primi e 30 s. del mattino il sole arrivò al vero equinozio di autunno, entrando nella costellazione della Bilancia» – «L’eguaglianza del giorno e della notte era segnata in cielo nello stesso istante in cui l’eguaglianza civile e morale era proclamata dai rappresentanti del popolo francese, come il sacro fondamento del suo nuovo governo – Così il sole ha rischiarato ad un tempo i due poli e successivamente il globo intero, e nel medesimo giorno ha brillato per la prima volta in tutto il suo splendore sul popolo francese la fiaccola della libertà che più tardi dovrà rischiarare tutto il genere umano» – «Le sacre tradizioni dell’Egitto faceano uscire, sotto la medesima costellazione, la terra dal caos, e in quel punto fissavano la origine delle cose e del tempo» – «Il concorso di tante circostanze imprime un carattere religioso e sacro a questa epoca – che dovrà essere una

delle più celebrate fra le feste delle generazioni future» – «Tocca al popolo francese tutto di mostrarsi degno di se stesso, col contare d’ora innanzi i suoi lavori, i suoi piaceri, le sue feste civiche sopra una divisione del tempo creata per la libertà e l’eguaglianza, creata dalla rivoluzione stessa che deve onorare la Francia per tutti i secoli»69. Quel calendario andò fuori uso col 1° gennaio 1806. La data dell’abolizione dice tutto. Durante il secolo decimonono la rivoluzione francese è stata continuata e combattuta, è stata attenuata e sorpassata. Per i contrasti che la borghesia dovea vincere dell’antico ancor potente, e di tutto quel nuovo che compendiamo sotto i nomi complessivi, o di quarto stato, o di moti operai o di socialismo, nel secolo decimonono il progresso non s’è avverato se non per le tortuose vie dei compromessi. Ed ora le apparenti divagazioni di questo capitolo hanno riacquistato il senso loro.

IV Il lettore che abbia pazientemente seguite fino in fine le pagine dell’altro capitolo, si sentirà ora come liberato da un incubo. E sì che io mi son sforzato al massimo della sobrietà, nel contenermi in modesti confini, mentre maneggiavo quel vario e multiforme apparato di erudizione, il quale, se fosse adoperato tutto e largamente, come si conviene a scopi didattici, porterebbe allo sviluppo di molti volumi. Cominciando quel corso – che qui rifaccio, non già nel letterario andamento ma nei soli motivi – io ero soprattutto preoccupato del desiderio e del bisogno di sgombrare dalla mente degli uditori i pregiudizii tradizionali, verbali, linguistici e simbolistici, i quali adombrano la schietta considerazione realistica della storia umana. Avevo innanzi agli occhi le più svariate commemorazioni del secolo, dal libro del venerando Büchner alla pastorale del reverendo cardinal Ferrari70. I volumi recanti la rassegna dei trionfi della tecnica all’esposizione di Parigi71 trovavano uno strano e triste commento, così nei lamenti dei democratici ricordanti le travagliate plebi e le nazionalità tuttora manomesse, come nel ragionare di quei socialisti che cercavano una qualche spiegazione al ritardato avvento del collettivismo, che pochi anni fa ancora era apparso così prossimo non che ai focosi agitatori di stampo giacobino, per fino, forse, ai pensatori di così eccessiva cautela ed autocritica come C. Marx. Qua dei calorosi ecclesiastici francesi che annoveravano le nuove glorie del papato cresciute proprio nel secolo che i profani chiamano dei lumi e della scienza; e là dei freddi e calcolati inglesi ed americani, che mettono soprattutto in rilievo il raggio d’azione economica dei loro rispettivi paesi, producenti quasi quasi la metà delle merci, che circolano nel mercato mondiale. Il giusto orgoglio di nazione dominante in Europa per tanti aspetti e rispetti, ed ora principalmente per un essort economico che muove stupore, s’è venuto a riflettere e ad esprimere in molti libri tedeschi fin di secolo, gravi spesso di troppa dottrina professorale, e riboccanti di estremo chauvinisme di razza, e di quello zelo statale-monarchico il quale mena a fare ancora dei sovrani e dei loro governi come gli autori e promotori della società. Rara dappertutto la ricerca strettamente critica sul come s’avessero da collocare le ricordate vicende non già nei tradizionali schemi della cronologia che annovera le somme degli anni, ma nella esatta visione di una accertata concatenazione sociologica. Ricordare – come ho fatto già – i contrasti perpetuatisi per tutto il secolo (popoli attivi e passivi – città e campagna – proletariato e borghesia – scienza e

fede – chiesa e stato ecc.) accentuandone debitamente e sinceramente la importanza, mi parve e mi pare il necessario punto di partenza alla considerazione del tutto. La relatività del progresso resulta da tali accenni descrittivi a modo di naturalissima conseguenza dei ricordati o deplorati arresti: ed essa stessa alla sua volta avvia a meglio intendere il valore specifico e tecnico di ciò che io chiamo la data sociologica. Alla quale non sarei potuto venire se non fossi passato attraverso alla critica di tutte le stravaganze profetiche e sibilline delle così dette età del mondo, e di tutti i preconcetti di un qualsivoglia provvidenziale governo delle cose umane, che a queste assegni le sorti in un preordinato succedersi. Per cotesta dichiarazione realistica rimane come costituita la nozione obbiettiva di un evo avente caratteri proprii, e tra questi spiccatissimo quello della nota dominante della consapevolezza del procedere. Dalla vita vissuta siam passati alla vita compresa, e in qualche modo anticipata dal pensiero, e quindi capace d’essere in qualche modo voluta. Dal processo solamente attraversato o percorso siam giunti al processo valutato, presentito, desiderato, agognato, e ossia alla persuasione del progresso. Chi vorrà ora tener per superflua la citazione che ho fatta del decreto convenzionale; o chi vorrà negare che la somma di queste idee qui costituisca la filosofia del socialismo? Certo i pregiudizii sopravvivono, e nella mania che è in molti di andar componendo degli accertati periodi delle multiformi manifestazioni storiche, e nell’utopismo dell’attendere il prossimo o futuro avvenire come raffigurato fin d’ora in tutta la sua fisonomia, e poi in fine nelle sempre ondeggianti e di continuo rifatte classificazioni della sociologia, le quali di straforo arrivano fino ad invadere il campo del giornalismo, e il più delle volte riescono più a svisare che a raddrizzare i giudizii dei pubblicisti. Quante volte non abbiamo letto: – verrà l’associazionismo, poi il cooperativismo, o che altro siasi, e da ultimo il collettivismo: e messi gl’ismi in fila il resto fila da sé. Non fu estesa a tutto il genere umano la escogitazione francese di questo sacramentale schema: economia a schiavi, economia a servaggio, economia a salariato? Chi si rechi quella formula in mano non capirà un solo fatto, poniamo, della vita inglese del secolo decimoquarto; – e dove vorrà collocare quella buona Norvegia che non ebbe mai né schiavi né servi? – e che conto si renderà della servitù della gleba che si fissa e sviluppa nella Germania d’oltre l’Elba proprio dopo la Riforma? – e che spiegazione darà al fatto singolare che la borghesia europea inauguri una nuova schiavitù in America di schiavi a bella posta importati proprio nel medesimo tempo in cui essa percorre in Europa i primi stadii dell’èra liberale? – e come si comporrà interpretativamente la economia della corporazione produttiva a privilegio? – per non dire da ultimo delle tante forme intermedie di

regio patronato, d’imperiale concessione, e di monopolii patentati, che la produzione venne assumendo dal momento in cui corporazione e feudo (e suo fattizio surrogato nel fedecommesso spagnolo) cominciarono a erodersi, fino al definitivo stabilirsi della indisputata concorrenza? I criterii – in poche parole – dell’analisi sociologica devono esser sì i principii direttivi d’ora innanzi d’ogni ricerca e narrazione storica: ma questa riman sempre legata alle impreteribili ragioni empiriche della rappresentazione del fatto, e deve rifiutarsi a qualunque pretesa d’imperativi aprioristici. Scrivo un breve volume, non un manuale enciclopedico. Per ciò appunto non occorre io torni su le bislacche idee del Ferrari, che cercava nei periodi dei 500 e 100 e 50 anni i mezzi per ricondurre ad una assegnabile periodicità il farsi e il disfarsi e il procedere e il progredire delle cose umane storiche72 – che del resto eran considerate su per le cime delle ovvie date di contestura mnemonica. E che dire dell’ingegnoso Rümelin, che pur lui ha tentato di ridare all’ovvia nozione del secolo per il fatto delle periodicità demografiche un certo che di valore obiettivo?73 Ranke, inesauribile così nella poderosità od estensione della ricerca come nella vastità della produzione, rivela nel fondo di quella qualunque filosofia, che ha latente nello spirito, un certo tal quale ossequio al piano dei periodi storici. Ranke sta con un piede nell’Ancien e con l’altro nel mondo borghese. Fu un protestante aulico-concistoriale, e insaputamente estese ai periodi della storia quel concetto del Beruf (un che di medio, vuol dire la parola, fra vocazione e missione), che sarebbe, per chi ci crede, la insegna etico-politica degli Hohenzollern74. Chi vuole pienamente esilararsi s’addentri nella lettura degli scritti di Ottokar Lorenz, nei quali apprenderà come il succedersi delle tre generazioni nelle famiglie direttive dei nobili, dei guerrieri ecc., combinato coi periodici e automatici incrementi della popolazione – combinando il tutto con la elastica dottrina della ereditarietà – bastino a dare la chiave del corso della storia75. Eliminate le tradizionali fantasmagorie, e data ragione dei neosim-bolismi, posso d’ora innanzi usare oltre che degli altri termini di età, evo, periodo, anche dell’ovvio secolo, perché il contesto reca in sé la ragione obiettiva di ciò che si va esponendo, e quest’ultima parola (il secolo, ossia la somma di cento approssimativi anni equinoziali di tanto diversi dall’anno siderale, contati da un convenzionale 1° gennaio, da un’èra in qua escogitato dallo Scita in accordo al periodo giuliano corretto da papa Gregorio) dice ora quel che può dire una misura convenzionale unica, di una moltitudine di cose qualitativamente diverse e dinamicamente difformi.

V Mi fermo qui a considerare l’Italia, in quanto essa, nella prospettiva generale del mondo cui ho accennato finora e alla quale mi attengo, rappresenta un determinato e particolare angolo visuale. Non è già che io voglia abbandonare la veduta universalistica, dalla quale fin dal principio ho preso le mosse, per valutare ora il mondo intero alla stregua di ciò che praticamente, e in modo esclusivo, o gioverebbe, o importerebbe all’Italia. Non intendo di comporre il vademecum del piccolo-borghese che valuti alle proporzioni delle finestre di casa gli spazii cosmici: – tanto più poi perché questo scritto di semplici considerazioni non deve contenere, né consigli, né suggerimenti di sorta. Dico semplicemente questo, che, cioè, per il complesso delle condizioni che le son proprie, l’Italia è orientata in un certo modo rispetto alla concatenazione economico-politica del mondo civile attuale. Cotesto angolo visuale – certo più angusto di quello delle altre nazioni che han nome di grandi – non è cosa accidentale o arbitraria. Innanzi tutto esso è proporzionale alle differenze che effettivamente corrono fra le condizioni italiane e quelle degli altri paesi; reca la misura effettuale di ciò che l’Italia è e può di fronte alle grandi correnti della storia attiva; e implica l’apprezzamento dell’esser nostro nazionale nell’insieme di ciò che è presentemente il mondo dei popoli direttivi. Occorre di fermarsi su tale angolo visuale – il quale nasce naturalmente e quasi insaputamente in chi guardi per ragioni affatto pratiche tutto il mondo solo per rispetto all’Italia – appunto perché il punto di vista universalistico in cui mi son collocato senz’altro mi ha portato ad oltrepassare senza ragionamenti preparativi e senza transizioni i confini e i limiti della coscienza nazionale. Esaminando ora poi criticamente la orientazione d’Italia rispetto al resto del mondo, noi verremo come ad apprezzare l’insieme del nostro paese alla stregua delle grandi correnti della storia attiva. Il risorgimento italiano s’è svolto tutto per entro al secolo decimonono; ma ci si è svolto più nel senso della storia passiva che in quello della storia attiva. L’effettivamente attivo comincia il 1870: e questa osservazione basta da sola per ismentire il più gran numero delle affermazioni ottimistiche o pessimistiche che si fanno sul nostro paese sopra di una esperienza così breve e di così recente data. Coi termini di attivo e di passivo io intendo di addurre degli estremi teorici di

valore comparativo, ai quali si giunge per approssimazione e attraverso a molte transizioni. Che l’Italia, dunque, fosse in un certo senso storicamente attiva anche nel tempo della sua preparazione all’unità nazionale, e specie nei momenti delle rivolte e delle guerre, nessuno vorrà negare: ma qui in questo discorso, dove cerchiamo di ricondurre tutto al ragguaglio della fin del secolo, noi dobbiamo considerare come relativamente passiva la condizione d’Italia in tutti gli anni anteriori al 1870, nei quali le altre nazioni direttive posero le premesse e dettero la prima potente avviata alla presente espansione e gara veramente mondiale. Dal 1870 in poi è corsa insistente la opinione, ripetuta anche da scrittori per altri rispetti degni di considerazione, che a risorgimento politico finito l’Italia sia riuscita inferiore all’aspettazione. Ma a quale – e di chi? All’aspettazione forse si rinnovassero l’Impero romano, i fasti dei Comuni medievali, o simili altre cose, le quali non hanno ora più ragion d’essere al mondo? La verità vera è che l’Italia, uscendo da secoli di effettiva decadenza, e passando poi per la tensione cospiratoria e per l’ardore delle rivolte, non ha portato nel nuovo assetto una proporzionata esperienza di politica moderna tant’è che fino ad ora la letteratura politica da noi presso che non esiste. La tradizione letteraria avea invece creato e mantenuto in essere l’idea, o meglio l’illusione di una storia sola e continuativa di quante mai vicende si fossero svolte a memoria d’uomini su la unità geografica della penisola; e come cotesta storia unica di un solo subietto (un popolo italiano un po’ creato dalla fantasia) fu tra i potenti motivi ideologici della riscossa, così a rivoluzione finita l’Italia è parsa troppo piccola al confronto della sua grande storia. A stato nuovo costituito con la capitale naturale, s’è finito per pigliar notizia più accertata e più tranquilla delle altre nazioni, e a riconoscere che per grande stato siam troppo piccoli. Ed ecco a che si riduce: il non aver corrisposto all’aspettazione. Al rimpianto di ragione immaginaria s’è venuto sostituendo questo problema pratico: quante garenzie di stato moderno offre ora l’Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace concorrente nella gara internazionale? Non si tratta già di riportare la nostra esperienza di questi ultimi trent’anni ad un qualunque ragguaglio di sognate glorie o di aspettati strepitosi successi, ma di rispondere al prosaico quesito formulabile così: la vecchia nazione italiana, componendosi a stato moderno, di quanto s’è trovata adattabile e di quanto s’è trovata difettiva di fronte alle condizioni della politica mondiale in genere? Come ogni azione politica si riduce in un certo senso ad interpretazione operosa di condizioni date, così il giudizio che si può fare effettivamente su l’Italia dal suo risorgimento in qua si riduce a vedere se la politica ha corrisposto ai dati, e fino a che punto ci

sia stata libertà di scelta nel maneggio e nel governo dei dati stessi. Di quanto bisogna tornare indietro per farsi un adeguato concetto delle presenti condizioni d’Italia? I letterati, che furono per secoli i soli attivi rappresentanti della intellettualità italiana del lungo periodo della decadenza, non afferrano il senso di tale domanda, e cioè non intendono tutte le difficoltà di sociologia storica che essa implica. Data ed ammessa l’unità illusionale di una storia d’Italia attraverso un gran numero di secoli, le cose veramente decisive nelle vicende della civiltà appariscono in una mal composta narrazione come le variazioni e gli accidenti di un tipo immaginario. Come si può per tal via discernere il fatto p. es. decisivo che l’Italia per secoli rimase come divisa in due mondi: di qua il ciclo germano-romanico, di là il mondo bizantino-islamitico. Si vuol forse passar sopra al periodo islamitico della Sicilia, come ad un fuori della storia, e parrà cosa indifferente che la dinastia ora regnante in Italia discenda dalla feudalità di uno stato di Borgogna? Le tracce vere e positive di quella unità di temperamento e d’inclinazioni che costituisce il popolo nel senso storico della parola, noi non possiamo trovarle più in là del secolo undecimo, nel quale la nazione neo-latina ci apparisce costituita. La nostra recente rivoluzione non consiste – come alcuni hanno con leggerezza affermato – nel giungere della borghesia al dominio su la società. Questa rivoluzione è stata fatta sì principalmente sotto la direzione dello spirito borghese ma la borghesia italiana esisteva da secoli, ed avea avuto non solo le sue glorie, ma la sua terribile caduta alla fine del secolo decimosesto, e la sua prolungata decadenza fino alla Rivoluzione francese.

VI

Giova ora mi provi a racchiudere in una certa caratteristica complessiva ciò che più volte ho chiamato società moderna, e che più volentieri dirò società attuale, e ossia che è in atto…76 a

Parlavo nel novembre 1900. Buri vuol dire villano.

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STORIA, FILOSOFIA DELLA STORIA, SOCIOLOGIA E MATERIALISMO STORICO [1902]

I La parola storia, per nostra confusione, è adoperata ad esprimere due ordini di nozioni diverse, e cioè l’insieme delle cose accadute, e quell’insieme di mezzi letterarii che sono adoperati per tentarne la esposizione1. Veramente la parola greca corrisponde al secondo ordine di nozioni, anzi esprime l’atteggiamento subbiettivo del ricercare; e così comincia col padre della storia il senso letterario della parola: «Questa è la esposizione della ricerca di Erodoto»2. Quando in sulla metà del secolo XIX cominciò a sorgere il bisogno di una disciplina organizzata della ricerca storica, il Gervinus escogitò il nome di Historicaa, in analogia a Grammatica e Logica. Invece la parola tedesca Geschichte, che viene dal verbo geschehen, accadere, rappresenta il primo ordine di nozioni, ossia rappresenta la serie degli accadimenti. Questa che pare una quistione indifferente, nel concetto della filosofia della storia diventa una questione capitale; e cito per esempio i molti spropositi che sono stati detti in Italia di recente nelle discussioni sul materialismo storico: nelle quali discussioni anche molti uomini di ingegno non hanno capito che codesta dottrina riguarda la nozione del fatto e dell’accadimento e non la filosofia della ricerca e l’arte della narrazione. Quindi la domanda che alcuni si fanno se la storia possa diventare una scienza, esige una doppia trattazione, secondo che noi pigliamo la parola nel primo o nel secondo significato. Per ciò che riguarda il secondo significato, bisogna innanzi tutto ricordare che prima del secolo XIX non esistevano procedimenti scientifici circa la ricerca storica, e che anche quando un singolare ingegno, nello scrivere letterariamente di un determinato periodo, adoperava della critica implicita, non accadeva mai che cotesta critica assumesse la forma direttiva di regole e di canonib. Da che questo bisogno è cominciato, e cioè di trattare criticamente la storia, si sono formate e consolidate delle particolari dottrine di esegesi e di interpretazioni, per cui si può dire che uno oggi si prepari filologicamente ad essere, poniamo, medioevalista italiano. Quindi non è la storia nel senso di narrazione che sia diventata una scienza, perché la narrazione rientra sempre nel campo dell’intuitivo, ma è che i nostri mezzi per arrivare al rifacimento del passato sono diventati corretti ossia scientifici, poniamo nella linguistica, nella epigrafia ecc., ecc. Se i letterati che di queste cose discorrono a caso, volessero porre bene la questione, dovrebbero porla così: Quanta parte di coltura scientifica occorre per adire quei documenti che occorre di vagliare a fondo per poter ristabilire la figura del comune

fiorentino in principio del secolo XIV? Invece, se poniamo il dilemma «scienza od arte», per rispetto non al nostro procedimento, ma all’insieme delle cose accadute, noi ci avvediamo subito che il dilemma non regge. Probabilmente nessuno vorrà domandare ad un fisiologo se la digestione sia un’arte od una scienza, sebbene della fisiologia si possa dire che è al tempo stesso un’arte, ossia una tecnica dell’esperimento ed una scienza nelle conclusioni. E quando diciamo che la storia, in quanto è somma di accadimenti, non si presta al dilemma arte o scienza, intendiamo di dire qualcosa che va molto a fondo e non è una semplice osservazione ovvia. Se noi, come abbiamo notato innanzi, abbiamo bisogno di molti mezzi e metodi scientifici per ristabilire la verità di quei fatti che vogliamo poi rendere per arte di racconto o di esposizione, gli è perché la storia nel senso obbiettivo oramai non ci apparisce più come un prodotto accidentale di una somma di atti arbitrarii, né come la emanazione di un disegno superiore, il che sarebbe la spiegazione teologica, ma come un che di automaticamente semovente, che rappresenta la somma delle umane attività nel divenire dell’uomo stesso dallo stato animale fino alla presente sua condizione. E perché abbiamo acquistata la nozione di questo multiforme processo che è la storia nel senso obbiettivo, è assurdo domandarsi se sia arte o scienza, perché anzi è il fondo di ogni arte e di ogni scienza. Le arti e le scienze sono momenti, aspetti, ecc. di questo stesso divenire dell’uomo. Quando noi p. es. fissiamo nell’estetica i canoni del poema epico, ovvero nelle discipline pratiche fissiamo i principii del dritto o della economia, noi non facciamo che estrarre dalla storia certe sue forme prominenti, certi suoi elementi decisivi e non in quanto siano al di sopra di essa come la sua regola o il suo modello, ma in quanto sono essa stessa in atto. E si capisce infine che, dato cotesto modo d’intendere la storia in quanto obbiettiva somma di accadimenti, da tale nuova concezione scientifica risulti una modificazione nell’indirizzo della ricerca per chi coltivi la storia come disciplina che deve metter capo nella esposizione e nella narrazione. Queste cose le ho espresse in formule alquanto difficili, appunto perché la difficoltà dell’espressione mi serve qui a ricordarvi che siamo in iscienza o filosofia, e non siamo in letteratura. Perché la più grande difficoltà, soprattutto per gl’ingegni italiani, naturalmente, come si dice, artistici, sta nel capire che la storia non è un genere di letteratura e che non va trattata come si trattava una volta nei libri di retorica fra i capitoli di eloquenza. Ed anche a rischio di parere che io faccia opera vana ripetendomi, voglio davvero ripetermi, formulando di nuovo. La parola storia esprime due ordini di concetti: a parte obiecti la somma degli accadimenti; a parte subiecti l’arte di raccontarli. Quest’arte è nata da principio a

caso per scopi secondari di educazione morale, di apologia politica, di gusto o di talento di raccontare. Solo nel secolo XIX sono nate delle discipline più o meno scientifiche circa la ricerca storica. Di qui ora la dipendenza del racconto storico dalla preparazione scientifica della ricerca5. Se volete avere un’idea chiara di questo processo, confrontate i primi libri di Tito Livio coi primi capitoli di Teodoro Mommsen6. – Romolo, Remo, Rea Silvia saranno spariti, ma al loro posto è subentrata la nozione esatta dello stato sociale degli antichi italici, e noi possiamo ora guardare con un certo sorriso il nostro padre Dante che davvero credeva che Enea fosse venuto in Italia per preparare il papato. Ma il concetto della storia a parte obiecti si è cambiato, perché si è cambiata in noi la nozione fondamentale dell’uomo, perché ci siamo aperta la via a ricongiungere la storia con la preistoria e la preistoria con la teologia, perché abbiamo sostituito al concetto della inventiva individuale la chiara nozione delle forze collettive, e in altri termini abbiamo ritrovato il vero subbietto dell’azione storica nel formarsi e nel divenire delle società. Ed è questo appunto il vero e proprio obbietto della filosofia della storia, in quanto essa mira ad intendere la direttiva degli accadimenti i quali siano stati già accertati dalla ricerca. La quale ricerca, quando non si tratti di problemi generali, mette capo a ciò che tradizionalmente si chiama la storia, cioè nel racconto e nella esposizione. Non starò qui a descrivere la enciclopedia delle varie discipline che occorrono a chi si prepari alla ricerca storica. Oramai cotesta introduzione metodica non si limita all’opuscoletto del Gervinus (quello che introdusse la parola historica), ma si estende per esempio al grosso volume del Bernheim, Manuale del metodo storico7. Si capisce che in cotesta preparazione entrano tutte le discipline della facoltà filologica, e ciò non basta. Si capisce che in cotesta preparazione la materia e i mezzi cambiano, secondo che si tratta di storia antica o di storia moderna. Oggi ci è una filologia della Rivoluzione Francese, come c’è quella del Nuovo Testamento; e non reca meraviglia che siano tanti gli specialisti, tante le pubblicazioni particolari, tante le riviste storiche e tante le accademie che proteggono cotesti studi. In questo campo di ricerche siamo di continuo minacciati da quella esorbitante empiria che, travagliandosi intorno ai particolari, finisce per fare degli eruditi che non sono dei sapienti. Né occorre qui nemmeno di notare come per rispetto alla massa dei particolari sempre cresciuti e sempre crescenti, vada diminuendo la capacità della esposizione artistica, perché appunto là dove cresce smisuratamente la massa dei particolari è più rara la capacità di coordinarli, di compendiarli e di metterli in rapporti di mutua dipendenza.

Onde non è mai superfluo di ricordare ciò che dice Mommsen, che per scrivere la storia occorre sopra tutto la fantasia; il che è il più grande schiaffo che si possa dare agli eruditi di mestiere8. Ed è qui il caso di mettere sotto nuova luce i rapporti fra i due significati della parola storia che abbiamo precedentemente dichiarati. Chiunque imprende a narrare, quale che sia la somma dei particolari che abbia raccolta e quale che sia la fatica spesa per avvicinarsi alla sentita e intuitiva riproduzione del passato, quando a tale riproduzione mette mano, finisce sempre per lasciarsi guidare da certi concetti e preconcetti circa la natura umana e circa l’umano destino e circa il senso o etico o teologico o filosofico degli accadimenti. La concezione circa la natura obbiettiva dell’accaduto reagisce sulla maniera di rappresentare gli accadimenti, e perciò non c’è storico che possa dirsi realmente imparziale, perché, per essere tale, bisognerebbe che fosse fuori di tutti i punti di vista, il che è contro la naturale posizione dell’intelletto come della naturale posizione dell’occhio. Così che voglio dire che le persone le quali si preparano agli studi storici, non si potrà dire che si siano veramente preparate con metodo scientifico se non quando, oltre all’impossessarsi dei metodi corretti per l’apprendimento dei fatti, siano anche giunte a farsi una adeguata idea dei principii direttivi degli accadimenti, in quanto quei principii sono negli accadimenti stessi. E voglio dire che lo storico scientificamente preparato deve anche aver raggiunto quel grado di maturità intellettuale, che consiste nel poter rispondere a quei quesiti che costituiscono la somma della filosofia della storia. Come volete che si chiami scientificamente preparato quello storico, il quale, dopo avere acquistato il possesso dei mezzi linguistici, paleografici, epigrafici e così via che occorrono per esempio per studiare la storia dell’antichissimo Egitto, si trovi poi di fronte ai fatti più o meno bene appurati, senza che abbia preso partito o per la teoria delle razze o per quella dell’ambiente naturale, senza per esempio che sappia se la religione è causa od effetto delle condizioni sociali, senza che abbia preso partito per la origine consuetudinaria o autoritativa del dritto, senza che possegga tanta psicologia quanta ne occorre per determinare il valore delle individualità, indifferente al caso o alla provvidenza, alla predestinazione o alla causalità meccanica? Con buona grazia sua, domanderei al Villari come abbia fatto, dopo di essersi ostinato in tante polemiche a sostenere che la storia non è una scienzaa, a tentare poi proprio lui in varii studi di spiegare la origine del comune fiorentino9. Si può vedere ora a che si riduca il dilemma arte o scienza. Tenuto fermo il doppio significato della parola storia, noi in prima abbiamo mostrato che la ricerca del fatto è andata divenendo e diviene sempre più scientifica. Il che non

toglie che fine ultimo della ricerca sia la narrazione. E, in secondo luogo, abbiamo visto che la comprensione del fatto appurato dipende da quella implicita o esplicita filosofia che lo storico mette a fondamento della sua interpretazione. Ora allo stato attuale delle scienze sociali, allo stato attuale della filosofia scientifica, sarebbe incongruo che la massa dei ricercatori storici volessero nella interpretazione abbandonarsi al loro genio, come tanti novelli Tucididi, Taciti o Machiavelli. E faran bene invece di acquistare dalla scienza degli altri quella tal complementare filosofia di cui possano aver bisogno. Queste cose sarebbero parse eresie venti o trent’anni fa nel periodo della decadenza filosofica di tutta Europa. Ora invece il Bernheim conclude il suo trattato del metodo storico col parlare di filosofia della storia, ossia di quella comprensiva interpretazione senza della quale i fatti non hanno senso10. Risulta chiaro per sé che la Filosofia della Storia riguarda esclusivamente la storia a parte obiecti, cioè l’accaduto, e non riguarda la storia a parte subiecti e cosi la ricerca dell’accadutoa. Tutte le volte che si parla di Filosofia della Storia s’intende di riferirsi a principii che noi supponiamo direttivi per rispetto al succedersi degli accadimenti, e che, quando ci sian noti, ci aiutino a capire gli accadimenti stessi. Poniamo che sia principio direttivo della storia il progresso, nel senso lato della parola; il quale concetto, è bene notarlo, fu ignoto agli antichi come fu ignoto in tutto il Medio Evo, ed è un’idea che si è intensificata e precisata solo nel secolo XVIII. Quel concetto, appreso che sia, diventa stregua del criterio per classificare i fatti storici non più in modo prospettico, ma in linea ascendente. Ed è così che noi parliamo di condizioni primitive o di condizioni avanzate, di relativo regresso e di arresto. Il concetto del progresso, più e più volte applicato alle varie condizioni del vivere umano, si converte come nella idea di una scala, di una ascensione, di un venirsi perfezionando dell’uomo nel cammino della civiltà. Quando questo abito di comparazione s’è formato, ci pare di poter misurare come ad una stregua tipica le differenze che corrono tra i Greci del mondo omerico e quelli della Atene periclea; tra i Romani del primo secolo dell’impero e i barbari Germani, che stavano loro di fronte. Per via di questa, direi, qualificazione dei fatti storici, essi acquistano il carattere di valori; e se questi valori non ci fossero, sarebbe inutile affannarsi nella ricostruzione del passato: perché, con buona licenza del mio collega prof. Ceci, il cui articolo Bibel-Babel non ho ancora lettoa, non sarebbe valsa la pena di lavorare per un secolo sulla critica dell’Antico Testamento11, e non valeva la pena che tutte le nazioni civili di questo mondo si affannassero per gli scavi di Ninive e di Babilonia, se in ultima analisi non arrivassimo a poter sapere che cosa vale

cotesta civiltà babilonese, e cioè che cosa vale per sé, cosa vale per rispetto all’Egitto, cosa vale per rispetto agli Indo-Europei civilizzatisi più tardi, cosa vale per gli elementi non semitici che da prima la composero e poi per gli elementi semitici che se la assimilarono, e soprattutto che cosa vale per rispetto al piccolo popolo dell’Antico Testamento, la cui importanza storico-mondiale, che parve stragrande finché la storia dell’Asia anteriore ci rimase ignota, s’è ridotta ai minimi termini, da che noi possiamo considerare quel popolo come un piccolo o secondario anello della gran catena degli accadimenti della storia asiatica in genere e semitica in particolare.

II E così pian piano siamo venuti a toccare un altro dei temi indicati in principio, quando dicemmo: Storia e Sociologia. Difatti, nell’indicare un poco innanzi l’obbietto della Filosofia della Storia, noi siamo riusciti per indiretto a dire che cotesto obbietto consiste nella differenza, nei confronti e nel succedersi delle forme sociali. Non starò qui a fare la genesi, lo svolgimento e la critica del concetto della sociologia da Comte in poi; né mi preme di sottoporre ad esame ciò che i positivisti hanno inteso specificamente di designare con un tal nome. Quando dico qui sociologia, intendo di riferirmi a tutto ciò che può essere obbietto del nostro pensiero in quanto c’è una società. In questo senso, la sociologia esisteva in frammenti prima del Comte e molto prima, da che c’è stata poniamo una giurisprudenza generalizzata ch’ebbe nome di Diritto di Natura, da che c’è stata una ricerca circa la produzione e la distribuzione della ricchezza, il che forma la materia della Economia: e queste due discipline sono proprie del mondo moderno dopo la Rinascenza. Ma, pur risalendo agli antichi, molti problemi della così detta sociologia entravano in ciò che per esempio Aristotele chiamava Politica; e gli stessi storici puramente narrativi, anche senza proporselo, eran costretti a mettere in varia evidenza ciò che noi ora chiamiamo condizioni o ambiente sociale. Con queste osservazioni non intendo di mettere in dubbio il carattere più spiccato di scienza indipendente che i positivisti hanno inteso di dare alla sociologia, in quanto dovrebbe studiare unitariamente tutti i fenomeni sociali, superando il particolarismo del diritto, della economia, della storia propriamente detta e così via. Dato cotesto assunto, s’intende da sé che la sociologia, ancora veramente da fare e di là da venire, occuperebbe tutto il campo della Filosofia della Storia. Questa è stata, per esempio, la opinione di Paul Barth, professore straordinario all’università di Lipsia, il quale anni fa scrisse il primo volume di un libro intitolato La Sociologia in quanto Filosofia della Storiaa. Il secondo volume non è mai venuto. Paolo Barth s’è occupato di molte altre cose; ed io mi auguro che lasci senza seguito il primo volume12. Dunque, stando al nostro assunto e senza punto affannarmi su queste questioni di terminologia e di competenza e confini delle varie discipline, io intendevo ed intendo di dire che, tutte le volte che noi ci proponiamo di studiare i principii direttivi del movimento storico, dobbiamo innanzi tutto superare l’esteriorità narrativa per raffigurarci l’indole e la costituzione di quella determinata società

che chiamiamo, per esempio, il popolo d’Israele prima della conquista assira, o i Romani come una delle società italiche. E allora cominciamo a domandarci: – si tratta di un conglomerato grande o piccolo, si tratta di un conglomerato consolidato o instabile, è un conglomerato con sede certa (e quindi agricoltura) o ancora tendente al nomadismo? E poi ci facciamo altre domande: – si tratta di un conglomerato di consanguinei, in guisa che razza e società coincidano, o si tratta di una coalizione di varii gruppi consanguinei? che grado raggiunge la differenziazione sociale; sono tutti liberi o ci sono liberi, meno liberi, schiavi, clienti e protetti? E poi pian piano si vanno determinando le classi e per la condizione economica e per gli uffici che adempiono; e per poco che ci addentriamo sempre di più in questa analisi sociale, noi cominciamo a vedere in che consista veramente la storia, e cioè nel come quella tale condizione di coesistenza si sia prodotta; e l’obbietto della ricerca sta nel modo di tale produzione. Non dirò che noi siamo a tal punto da poter collocare tutti i fatti storici dentro determinate forme sociologiche, in guisa che l’arte del racconto adegui la rappresentazione scientifica degli avvenimenti. Se ciò fosse accaduto, il problema, o meglio i problemi della filosofia della storia sarebbero già risoluti, e non vi sarebbe più divario fra Storia e Filosofia di essa. Anche quelle forme sociologiche, che sono più facilmente caratterizzabili, si presentano sempre in concreto e nei casi particolari con molte particolarità e specificazioni, perché realmente, se noi in astratto possiamo fare della fase agricola un che di precisamente distinto dalla fase industriale, in fatto poi non è esistito mai alcun popolo che fosse esclusivamente o l’una o l’altra cosa; cosicché dal diverso modo come quella relativa industria, che non è mai mancata anche nello stato più predominante di vita agricola, stava rispetto al resto, risulta quella figura particolareggiata che sarà il carattere di Roma in un certo periodo, rispetto alla condizione di un altro paese ariano, che a quello stato approssimativamente si avvicini. Lo stesso dicasi del commercio, il quale può diventare sì la nota spiccata e predominante di una intera popolazione, come fu il caso degli antichi Fenici; ma in una forma più o meno elementare non manca mai, se non altro come complemento di quella elementare vita economica che costituirà la nota anche dei paesi primitivi. Con queste brevi note ho voluto dire che lo storico deve essere in guardia contro quelle forzate classificazioni della sociologia schematica, le quali porterebbero a ritenere che si possa con tratti assai brevi connotare il modo di vivere di una determinata conglomerazione umana. E la ragione sta in ciò, che la storia comincia ad avere ad obbietto la società da quando essa è già complicata e

differenziata. L’orda preistorica può presentarci sì caratteri omogenei dei puramente consanguinei i quali, tenendosi separati localmente e per selezione da altre genti, rappresentano nel semplice costume la forma indistinta del diritto, della morale e della religione. Ma, quando noi troviamo che in una determinata consociazione è già nata per esempio la setta dei preti, e siano puramente maghi o fattucchieri, ovvero s’è formata la classe dei guerrieri e dal loro privilegio è sorta la differenza di dominio colle conseguenze della servitù ecc., il che poi dà luogo al bisogno del duce e quindi alla origine delle dinastie, noi siamo lontani dalla primitiva omogeneità e ci avviamo pian piano a quelle lotte interne ed esterne, che costituiscono la tessitura principale della storia. Se vi fermate a considerare attentamente questi pensieri che recano in sé la novità di ciò che è rigorosamente critico, voi non solo ci troverete un complemento a quelle prime lezioni nelle quali si pose il dilemma arte o scienza; ma ci troverete anche un’adeguata risposta a questo nuovo tema: Sociologia o Filosofia della Storia. E in che consista questa risposta vogliamo qui brevemente riassumere: a) Quando noi ci mettiamo a considerare storicamente una serie di accadimenti umani, p. es. le Guerre Puniche, o la Riforma in Germania, noi dobbiamo sempre ricorrere innanzi tutto alle caratteristiche sociali, non solo per conoscere il terreno sul quale i fatti si svolgono, ma per conoscere i motivi di quella tal lotta di classe, di quella tal guerra, di quella tale innovazione negli istituti giuridici o della condotta economica. Per questo rispetto i sociologi hanno ragione nel sostenere che, a misura che la ricerca storica si avvicina al modo del pensar scientifico, essa trova e il suo sussidio e la sua guida nell’indirizzo sociologico, quanto a considerare le conglomerazioni umane come costituenti delle morfologie. b) Ma sarebbe grave errore il seguire i professionisti della sociologia nel loro supposito, che la storia cioè sia destinata ad essere assorbita dalla sociologia. Questa procede per tipi, il che vuol dire che procede per relative astrazioni dal concreto della storia. Quando il sociologo parla del tipo feudale, astrae da tutti gli altri elementi che oltre al feudo costituisce la Francia del secolo XII, poniamo; i quali elementi, se non ci fossero stati parzialmente, non si sarebbero venuti sviluppando in ciò che più tardi si è chiamato o autorità del monarca, o potere del giudice, o ceto commerciante e perciò borghese ecc. ecc. Ed ecco perché non si può applicare alla sociologia il concetto di organismo, perché, prima di tutto, occorrerebbe supporre che p. es. la società-feudo tipo sia essa stessa automaticamente diventata borghesia, mentre la lotta di classe non può nascere che dove le classi già ci sono. c) Lo storico lavora sempre sull’eterogeneo, un popolo che ne ha conquistato

un altro, una classe che ne ha sopraffatta un’altra, dei preti che hanno sopraffatto i laici, dei laici che hanno messo a dovere i preti. Ora tutto ciò è sociologico, ma non è tipico come nella sociologia schematica, perché cotesto eterogeneo bisogna empiricamente apprenderlo e cotesto apprendimento costituisce il proprio ed il difficile della ricerca storica, perché nessuna astratta sociologia mi farà capire come mai, dato pure il generale processo della formazione della borghesia, solo in Francia sia accaduta tal cosa che si chiama la grande Rivoluzione. Ed io sono lieto che, essendo di professione filosofo e non storico e insegnando Filosofia della Storia, ho sempre difesa la peculiarità dei metodi di ricerca, non perché io mi faccia ammiratore dei semplici particolari, ma perché ritengo che l’interesse che ci induce a studiare la storia non riposa su quei soli schemi sociologici che pur servono di sussidio, ma riposa sulla fiducia che la interpretazione della storia in quanto è complessità e concatenazione di fatti, debba condurci ad una più profonda espressione; il che nel linguaggio degli ideologi si dice «intendere l’umano destino». d) Ed appunto su cotesto senso generale complesso poggia la Filosofia della Storia, in quanto guardiamo non alle forme generiche sociali (economia a schiavi o a salariati), ma alla complessità di queste forme in quanto hanno nome di vita ateniese o vita romana, romani della Repubblica o dell’Impero, neo-germani o neo-latini, la scoperta d’America e le colonie, il secolo XIX e il mercato mondiale ecc. ecc. E soltanto per rispetto a queste forme concrete e complesse si presenta il concetto di ciò che si chiama «i valori storici», i quali valori rimandano all’idea generale e complessa del progresso. e) Ridotta a tale significazione la parola progresso, nessuno vorrà confonderlo con quella sciagurata idea della evoluzione, che ha fatte le spese di tutte le più o meno trionfanti bestialità attuali. L’evoluzione è un termine troppo generico che abbraccia ogni forma di divenire. Ora chi si sarà esercitato, e anche profondamente, a capire la originazione delle forme neo-latine da quelle latine in quanto è glottologo, non per questo capirà la evoluzione dei funghi o la storia naturale del cancro. L’idea generica della evoluzione rimane lì come un postulato di quella che Aristotele chiamava la prima filosofia, e le singole scienze hanno da fare con evoluzioni singole. L’idea generica del progresso implica quel concetto di evoluzione per cui noi siamo autorizzati ad apprezzare le varie forme del vivere umano. Le note astratte del concetto di evoluzione acquistano, per rispetto alla storia, quel tanto di concreto, che dà appunto la concreta valutazione. Quando noi diciamo che siamo civilmente progrediti sugli uomini degli altri tempi, non intendiamo di dire che l’ente astratto umanità abbia messo chi sa quale nuova cute o quale nuova barba, ma intendiamo per esempio di dire che

non vi sono più schiavi, che tutti gli uomini sono eguali davanti alle leggi, che le mogli non si comprano, che i figli non si vendono, che i preti non hanno dritto di mandarvi in paradiso a loro arbitrio e così via, sino al fatto che la coscienza del progresso è diventata fede in esso, e da fede proposito. E, se si toglie via cotesta concezione, cessa la ragion d’essere dello studio della storia o esso si rinchiude nella inutile moltiplicazione dei particolari.

III L’analisi che abbiamo fatta del concetto di sociologia in rapporto alla storia, e il quesito che ci siamo proposto: se i problemi della Filosofia della Storia si possano risolvere nella semplice sociologia, ci portano naturalmente ad esaminare un indirizzo di pensiero, che ha nome il materialismo storico. Prima di tutto noto che in molti opuscoli e articoli di riviste comparsi in Italia, s’è vista discutere cotesta denominazione di materialismo storico con uno strano ardore di sofisticheria verbalistica. C’è perfino chi ha scritto questa peregrina cosa, ed honoris causa diremo che è il prof. Asturaroa, e che cioè la cosa sarebbe buona se il nome non la guastasse13. Qualche altro si sarebbe perfino innamorato della teoria se per disgrazia non ne fossero stati divulgatori massimi i due grandi comunisti Marx ed Engels, che, naturalmente, non avevano né l’ordine dell’Aquila Rossa, né la commenda di S. Maurizio e Lazzaro. A simili critici, che troverebbero buona una teoria sopprimendo il nome degli autori, nessuno ha l’obbligo di seriamente rispondere. Capisco che la cosa avrebbe lo stesso valore anche sotto un altro nome, e che veramente la discussione cade su questo: se si sia o no trovato questo famoso filo conduttore di quelle condizioni materiali della vita umana, cambiando le quali, cambierebbe tutto il resto. Ma non è indifferente la difesa anche della denominazione, perché essa compendia quasi la origine storico-psicologica della dottrina. È cosa risaputa che l’idealismo dialettico di Hegel ebbe come il suo risolvente negativo nel materialismo di Feuerbach. Ora il materialismo di Feuerbach, mentre negava il dato ideologico della dottrina hegeliana, mettendo l’uomo individuo di fronte alla natura, riduceva la religione alla semplice proiezione fantastica dei bisogni del singolo. Il materialismo di Feuerbach lasciava fuori del suo campo il mondo storico, come lo aveva lasciato fuori il materialismo del secolo XVIII, che rappresentava a capello le esigenze di quella grande Rivoluzione, la quale, in nome del diritto di natura, negava i diritti storici. Ora, quando Marx ed Engels cominciarono a criticare e Feuerbach e Stirner e la sinistra hegeliana, sotto la suggestione del movimento socialistico contemporaneo, trovarono che il materialismo tradizionale fino al Feuerbach non spiegava la storia, ed ecco come è nato il nome. Si può domandare se si è riusciti o no a fare del materialismo storico, ma non già pretendere che la dottrina sia vera ma il nome sbagliato. Chiarirò la cosa con un esempio. Quella psicologia generale schematica della quale, nell’altro mio corsoa, ho

fatto il disegno, poggia principalmente sulla presunzione che i fenomeni psichici comincino e finiscano con la vita dell’individuo. Ora, data la ipotesi materialistica, si capisce come i sensisti fossero disposti a ritenere che tutti i fenomeni complicati psichici si dovessero spiegare coi dati primitivi della sensazione. Ma la nostra coscienza individuale contiene tanti elementi che non si spiegano senza la esistenza della società e della storia. Voi parlate non perché siete individui ma perché siete subietti sociali. E così dicasi del Diritto, della Religione e delle Idee morali che esistono in noi solo a traverso il tramite della storia e della società. Ora il materialismo biologico non mi spiega come siano nati i dogmi del cristianesimo, né come siano nate le forme grammaticali del neo-latino, né come esistano in genere le compagini sociali. Trovare le condizioni materiali del mondo storico sociale, questo è stato l’assunto del materialismo storico. Assunto parallelo e non derivato da ciò che i meri positivisti hanno chiamato sociologia; e qui voglio notare per incidente che io quando pronunzio la parola positivismo lo faccio sempre con grande apprensione, perché il positivismo, come si è elaborato da Saint-Simon a Littré15, era essenzialmente storicismo, cioè tendenza a spiegare la storia, e invece in Italia tutti quelli che si chiamano positivisti, fatta eccezione di un solo, ossia dell’Angiulli, che in fondo veniva dalla scuola hegeliana16, sono ricaduti nel materialismo innanzi Feuerbach, partono sempre dall’individuo e ricadono sempre nell’individuo e non afferrano perciò la morfologia storica; i nostri positivisti sono in generale al di sotto di Comte, il quale era tanto storicista da negare la possibilità di una psicologia individuale. Ritenuto che il nome non è né accidentale né indifferente e che anzi rivela la origine della dottrina e la sua posizione di fronte a quelle o contemporanee o poco posteriori che si sforzarono di superare i limiti dell’idealismo e della ideologia, prima di passare a discutere dell’intrinseco della dottrina stessa in quanto ciò riflette i miei particolari assunti di filosofia storica, occorre fissare in genere il concetto di fenomeno sociale. È fenomeno sociale quello che non s’avvera se non in quanto esistono i rapporti di fatto e di convivenza e di cooperazione fra gli uomini. Qui poco importa di guardare all’estensione della forma di convivenza. Questa può essere di una semplice piccola tribù topograficamente isolata dal resto del genere umano. Ora ciò non s’avvera, e cioè dire che ci sia una piccola tribù, senza che s’avverino fenomeni di correlazione i quali non trovano una diretta spiegazione nelle condizioni bio-psichiche immediate di ciascuno degli individui e nascono solo dal fatto che gl’individui sono in interdipendenza fra di loro. Perché in tale

tribù s’avveri l’abituale convivenza occorre una particolare parlata, la quale deve esser nata dal successivo adattamento dei varii individui a determinate e stabili associazioni fra sensazioni, ricordi ecc., da una parte, e suoni e forme grammaticali, dall’altra. La origine, la fissazione, lo svolgimento del linguaggio sono e l’indizio e la rivelazione più prossima e più generale della psiche sociale. Difatti, ciò che ha dato origine alla concezione della psicologia sociale in uno dei derivati della scuola herbartiana, fu appunto il tentativo di dare alla scienza della lingua dei canoni di interpretazione solida. Quello che è proprio della lingua, si ripete nelle forme del costume, in quanto precedono il Diritto o tengono il suo luogo. E soprattutto poi ciò si ripete nelle elementari forme dell’acquisizione dei beni materiali, ossia in ciò che più tardi si differenzia nel nome di economia. Tutti quelli che si occupano di psicologia, rimanendo al puro schema della psicologia individuale, non possono a meno di rimanere nel puramente astratto; p. es. chi si mette a studiare le forme della volontà secondo l’assunto che io mi proponevo nel mio corso di Filosofia Teoretica, – e non so più quanta parte ne potrò svolgere, – deve prescindere quasi sempre dal vero e proprio contenuto delle forme volitive, perché questo contenuto è sempre sociale. Quella volontà che si forma non è la volontà che vuole se stessa, ma è la volontà per la quale uno impara a fare le scarpe o a suonare il pianoforte, a recitare versi come Pastonchi17 o a leggere male come Formigginia . Quelle poche generalità che ho qui innanzi addotte circa i caratteri del fatto sociale non pretendono di essere un quid simile d’introduzione alla sociologia, e molto meno un capitolo di logica concreta uso Wundt e compagnia. Parlando agli scolari e non ai membri di una accademia, ho voluto addurre le elementarissime condizioni differenziali del fatto sociale in quanto esso è poi il fondo reale ed il subbietto della storia, come dicemmo a suo tempo trattando il quesito «Sociologia o Filosofia della Storia?». E, nel dare la sommaria indicazione del dove cominci la vera difficoltà d’intendere il fatto sociale e nel dare tale indicazione proprio dopo di aver difesa la denominazione di materialismo storico, io non ho certamente inteso di attribuire agli autori di tale dottrina la scoperta del fenomeno sociale. Non appartengo alla illustre compagnia di quei darwinisti, che per poco non attribuiscono a Darwin di avere scoperta la natura. Giustificando il titolo di materialismo storico, mi misi dal punto di vista della crisi interna che ebbe a subire Marx in quanto usciva dall’idealismo hegeliano. Ma, indipendentemente da ciò, durante il secolo XIX la discriminazione del fenomeno sociale s’è fatta attraverso tutti gli studi del diritto, dell’economia, della mitologia, della linguistica e così via; cosicché da ultimo il nome di sociologia venne ad essere adoperato e si adopera piuttosto come il riassunto enciclopedico di tutta una

nuova veduta della vita umana che non come quello di una scienza speciale, con speciale metodo. Per rispetto a tutto questo gran movimento, il materialismo storico rappresenta un caso particolare; e ora che abbiamo preliminarmente difesa la denominazione, possiamo passare ad esporre l’intrinseco della cosa. Ho detto più volte che non esiste una surrogazione della scienza alla storia, come se tutte le narrazioni ed esposizioni storiche potessero venirsi a risolvere in schematismi del ragionamento. Ma a suo tempo notai che se la storia rimane quello che è, ossia la rappresentazione dell’accaduto, è altrettanto vero che l’atteggiamento del nostro spirito s’è cambiato nella considerazione dei fatti accaduti per effetto del gran progresso delle scienze sociali. Voi ricorderete che io negai la surrogazione della sociologia alla storia. E soprattutto mi opposi a considerare come equivalente della storia quella sociologia astratta che considera p. es. isolatamente e come per sé stante, poniamo una società feudale ecc., mentre la storia concreta, da che c’è la differenza di classe e il dominio dello stato, non conosce alcun periodo di pura omogeneità di tipo sociale. Per tutte queste considerazioni che risultano dalle cose innanzi dettate, quando io parlo di materialismo storico, non intendo di riferirmi ad una sociologia, la quale, isolando, poniamo, il tipo di società feudale dal concreto storico, si provi poi a dimostrare analiticamente che, poniamo, le istituzioni politiche e gli abiti morali siano corrispettivi a quel tipo economico. Io invece, quando parlo di materialismo storico, intendo dire di una storia materialisticamente raccontata, come ne ho dato saggio in dieci o dodici anni di pensate narrazioni sopra determinati punti storici. Il che ho fatto senza preoccuparmi di questi due quesiti, per me affatto indifferenti. E cioè se io, così facendo, fossi proprio l’erede legittimo di Karl Marx, e se io, così dicendo, giovassi o no ad una determinata causa politica. Per es. l’ultimo corso che feci quando avevo ancora a mia disposizione l’organo pedagogico e democratico della vocea, fu dedicato a rappresentate per sommi capi la vita del secolo XIX nel passaggio al nuovo secolob . E in tale rappresentazione fui tutt’altro che prodigo di augurii di prossima vittoria per la democrazia e per il socialismo. Perché, se occorreva appunto al ritrovamento dei definitivi principii del materialismo storico il genio del comunista Marx, che appunto perché comunista si trovava posto ad infinita distanza dalla difesa del presente ordine sociale (capire è superare, dice Hegel), ciò non vuol dire che le sorti ulteriori del materialismo storico come dottrina dipendano dalle séances pratiques del socialismo. Poniamo che l’ordine attuale della società civile d’Europa col predominio della classe borghese si perpetuasse ancora per secoli, ciò per nulla contradirebbe al materialismo storico, perché tale

perpetuarsi dimostrerebbe soltanto che la società della concorrenza può vivere ancora. È vero che Bebel, alcuni anni fa, prometteva una repubblica sociale in Germania per l’anno 1910; ma io, oltre che io non so se Bebel coglionasse il prossimo, è certo che al Bebel non ho mai offerto una cattedra di Filosofia della storia20. Dunque non sociologia astratta; non preoccupazione della tesi pratica: «a quando il socialismo»; ma la vera e propria Filosofia della Storia, come l’abbiamo definita innanzi, e cioè la storia esposta in modo che si capisca. Inserisco qui come una parentesi, la quale rientra anche nell’altro corso di Filosofia Teoretica. Più volte esponendo i temi vari fin qui trattati, e nel definire il complesso sociale come subbietto della storia, mi sarà capitato di adoperare anche la espressione di «coscienza sociale». Ma, come di questo termine usano ed abusano i sociologi d’ogni risma e colore in guisa da destare nella mente dei lettori una caotica impressione, ed a molti è capitato di adoperare cotesta espressione come a significare cose recondite, io credo utile a maggior chiarimento del già esposto di sottoporla ad un esame critico. La coscienza sociale trova spesso il suo esponente nella espressione «noi». Ora portate la vostra attenzione sulla materia variabile di questo noi. Una volta potrete dire noi tutti di questa famiglia, che portiamo il tal nome, che viviamo di una tale sostanza o di una tale occupazione, e che per queste condizioni di nostra esistenza ci sentiamo circoscritti per rispetto al rimanente mondo. Un’altra volta intenderemo di dire noi studenti, e professori, in quanto formiamo questa università, alla quale partecipiamo pur rimanendo come individui atti ad entrare e a rimanere, come rimaniamo, in tante altre sfere di altrettanti noi, che si esprimeranno col dire noi Romani, noi Italiani, noi Cattolici e così via. Quel noi non contiene dunque nulla di mistico o di misterioso, nulla di sorprendente o di miracoloso, e anzi, in tanto è l’enunciato e l’esponente di qualche cosa, in quanto che in tanti individui, ciascuno dei quali dice di se stesso io, si svolge e si fissa la cosciente apprensione di ciò che li lega ad una famiglia, ad una gente, ad un popolo, ad un partito, e, se volete, anche ad una mafia o ad una compagnia di briganti, il che per la psicologia è indifferente. Ad un grado elevato di sviluppo della civiltà e del pensiero questo noi può essere tanto comprensivo quanto può essere, per esempio, tutta la civiltà indo-europea. Se voi togliete al noi il suo fulcro naturale nei tanti io che si sentono accomunati, il noi diventa un puro e vano simbolismo. Il noi non esiste che nella coscienza di ciascuno di noi in quanto siamo individui. Ma non è la somma degli individui, perché ha la sua materia nei legami che corrono fra gli individui, i quali legami sono innanzi tutto materiali, ossia di consanguineità, di convivenza, di coabitazione, di

cooperazione economica. Nella enunciazione del fatto, come l’abbiamo data qui in poche parole, è già contenuta la indicazione, direi così, topica del come il fatto stesso va spiegato. Data la estensiva significazione che abbiamo data ai fatti di coscienza in quanto essa rappresenta un aspetto o di una situazione biologica o di una situazione sociale, dall’intendere l’io all’intendere il noi non corre divario. Quando la psicologia non era ancora una scienza, quando gli spiritualisti d’ogni maniera potevano sbizzarrirsi a fare dell’io l’attributo extratemporale di uno spirito soprastante ad ogni genesi, quando gli idealisti che ripetevano Fichte potevano far dell’io una trascendente autoposizione, o il problema del noi non si affacciava, o si presentava involuto nella immaginazione di un preteso spirito collettivo ed extraindividuale. Ma ora che noi facciamo dell’io l’esponente variabile della appercezione interna delle nostre variabili condizioni per cui oltre all’io empirico che si esprime così: ora sto dettando, non ammettiamo un io puramente possibile o trascendente, non c’è meraviglia che tale funzione di appercezione in uno e medesimo ambito di coscienza pigli il doppio esponente di io e di noi; il che non vuol dire che tutte le persone le quali adoperano questi termini non sbaglino, perché l’uso corretto di essi si può ottenere soltanto dalla elaborata scienza psicologica. Una piccola glossa renderà più chiari questi enunciati, che avrebbero invero bisogno di lungo sviluppo. Che nello stato avanzato della nostra civiltà gl’individui possano errare quando adoperano l’esponente io di fronte all’esponente noi, è cosa evidente, perché per esempio la maggioranza degli uomini ignora che ciò che si attribuisce alla individuale coscienza non è nella maggior parte dei casi che un semplice sedimento del costume e della tradizione. Ma questo stesso errore in cui possono cadere tutti quelli che non sono prettamente scienziati, è una prova del fatto che, col crescere della civiltà, cresce la tendenza negli individui all’estendere il campo del loro io, mentre più torniamo indietro e più troviamo prevalente il senso della collettività sul senso della individualità. È cosa oramai certa di certezza empirica, che l’uman genere è uscito dall’orda, la quale orda era una continuazione dell’orda animale. In quest’orda il noi era tutto, il noi che era l’esponente della necessità di vivere in coatte forme, senza delle quali non sarebbe stata possibile la lotta per l’esistenza. L’apparizione dell’individualità come coscienza vera e propria è un prodotto tardivo delle vicende ulteriori della storia. Quel subbiettivismo della coscienza etica o estetica, che a noi pare cosa così naturale perché la nostra educazione riflessa non va più in là della Grecia antica quando ci si presenta Solone che fa la legge, Erodoto che scrive la storia e Alceo che fa la sdegnosa poesia personale; a noi pare quasi inconcepibile che milioni e milioni di uomini di varie razze chi sa

quante migliaia di anni o di secoli siano vissuti con la individualità assorbita dal costume e con l’io involuto nel noi. Se per poco ci allontaniamo dalla prosaica trattazione delle pagine qui innanzi, noi ricadiamo in ciò che il nostro Maruccia ed altri simili arrabbiati positivisti, in mancanza di ogni altra più esatta nomenclatura, chiamano metafisica21. Il guaio è però che questa tale metafisica della sociologia l’hanno fatta precisamente i positivisti, i quali hanno ripieno il mondo, o cioè volevo dire la carta stampata, di una quantità infinita di simboli circa l’organismo sociale, lo spirito collettivo ecc. ecc. Le prosaiche nostre enunciazioni a volerle ripetere e compendiare si riducono a questo: la natura produce individui maschi e femmine di una certa razza. Ma questi individui, venendo al mondo, non si svolgono come isolati subbietti di fronte alla natura e nella natura soltanto. Si svolgono invece per entro ad una cerchia sociale che determina in ciascun di essi caratteri omogenei, che sono appunto il prodotto di tale correlatività sociale. Un certo modo di parlare, un certo ritmo del sentimento, certe comuni fantasie, e soprattutto la imitazione delle funzioni operative. Sorgendo l’apprensione interna del proprio essere cosciente (ciò che diciamo l’io), tale funzione naturalmente si sdoppia nell’io e nel noi, salvo che l’individuo può errare nel riferire una certa determinata materia dell’esperienza piuttosto al subbietto io che al subbietto noi. Tutti quei più o meno cretini scienziati di una volta, che deducevano la lingua, la legge, il dritto, lo stato dalla elezione, dall’inventiva, dall’arbitrio individuale, ignoravano appunto queste due cose capitali: che gli individui originariamente nacquero nell’orda, e che la coscienza individuale che s’impernia nell’io nasce poco per volta in seno al noi. Ed ora la finisco coi chiarimenti, perché, se non basta quello che ho detto fin qui, qualunque altra cosa non farebbe che oscurare. N.B. Come nelle passate lezioni si venne dichiarando il concetto del materialismo storico, e per incidente si fece qualche allusione al socialismo, credo utile di notare che molti credono di rendersi conto oggi delle aspirazioni socialistiche foggiandosi nella mente una rappresentazione collettivistica della società nella quale il noi riassorbirebbe novellamente l’io, ossia un ritorno bello e buono alle condizioni primitive. Non per quanto concerne la spiegazione del socialismo, ma per quanto importa alla tesi del mio corso, giova qui di ricordare che tutto porta a ritenere che quello che la individualità ha acquistato non andrà mai più perduto, e che anzi ulteriori progressi del mondo civile rinforzeranno sempre di più la persona. Quando noi ci rappresentiamo teoricamente una società comunistica nel senso economico della parola, noi intendiamo semplicemente di

dire che i mezzi e gli strumenti della produzione non sarebbero più proprietà privata, ma apparterrebbero alla collettività per l’esercizio del lavoro occorrente alla produzione dei beni materiali. Il che vuol dire che un gran numero d’individui, ora soggetti alla superiorità patronale, acquisterebbero maggiore libertà, perché, non potendo il lavoro degli uni (che sono i molti) produrre la ricchezza degli altri (che sono i pochi), sarebbe dato a ciascuno il massimo delle condizioni favorevoli per lo sviluppo intellettuale e morale. Voi tutti che siete qui presenti siete padroni di ritenere che tali cose siano della mera utopia; ma io, occupandomi qui di coscienza sociale e di coscienza individuale, ci tengo a farvi capire che cotesta così detta utopia non vuole essere il ritorno alle condizioni primitive della umanità, secondo la vieta imagine egizia del serpente che morde la sua coda, e di altrettali ferrivecchi della retorica dei decaduti, dei quali tanto si compiace22 l’illustre professore Loriaa . Gli Egiziani antichi non hanno alcun dritto a vedersi riconoscere le loro imagini o i loro simboli come significativi per la scienza moderna, perché quegli Egiziani antichi non hanno veramente creato né la scienza greca, né la città latina, né il dritto romano, né altre cose simili sulle quali fondasi la nostra civiltà. Dopo l’inciso sulla coscienza sociale ridotta al noi e alla spiegazione prosaica di esso, e tenendo presente tutte le cose dette innanzi per ridurre in termini convenienti il concetto della storia, ora possiamo ridurre in brevi considerazioni l’essenziale di quel materialismo storico, di cui cercavamo come la definizione. Che la società tutta poggi sulle condizioni materiali della sua esistenza, può parere quasi a prima vista ozioso a dirsi, perché ciò si riduce a tradurre in formula una osservazione del senso comune. Togliete di mezzo gli uomini che attendono alle cure liete della scienza e dell’arte, togliete di mezzo le categorie spesso superflue dei professori e dei preti, e cioè togliete di mezzo tutte le persone che vivono dei prodotti di terza e quarta mano del lavoro altrui; l’articolazione fondamentale della società poggia sui rapporti che intercedono tra coloro, i quali direttamente producono col lavoro e coi suoi istrumenti i beni materiali. Ecco ciò che Marx chiamava la forma della produzione. Che la struttura fondamentale della società, ossia l’articolazione economica di essa, abbia variato dalla preistoria ai tempi nostri, è fuori di ogni dubbio; e che queste variazioni debbano avere il loro ritmo e devano recare in sé come la indicazione di un processo, è più che verosimile, se noi ricordiamo tutto ciò che abbiamo detto innanzi circa l’approssimazione della storia alla scienza. La storia è innanzi tutto il variare delle articolazioni elementari. Ora, che cosa costituisce il carattere specifico del materialismo storico? Cotesto carattere specifico è rappresentato, in primo luogo, dalla enunciazione abbastanza semplice: che cioè gli uomini abbiano prodotto il dritto e abbiano tentato le varie

organizzazioni, che mettono da ultimo capo nella politica, sempre proporzionalmente al relativo stato della articolazione economica. Il secondo enunciato ha un carattere più ipotetico; ed è, che le concezioni mitologiche, e quindi anche religiose, degli uomini, e le loro disposizioni morali, siano state rispondenti ad una determinata condizione sociale; cosicché la storia della religione e dell’etica è psicologia nel lato senso della parola. Un altro elemento decisivo è implicito in questa concezione, ed è che l’articolazione sociale in tanto è articolazione in quanto la società ci si presenta come una gerarchia, e cioè come una disposizione dei collaboranti, spartiti in genti e famiglie e in classi con varia dipendenza e padronanza; il che fa che la società abbia sempre in sé la tendenza all’instabile, e quindi porti a contrasti e dissoluzioni, a progressi e regressi. La dottrina del materialismo storico, dati i due elementi della articolazione economica e degli attriti di classe, diventa la chiave per intendere le vere e proprie rivoluzioni; cioè quelle mutazioni dello stato complesso della società da cui sono derivate le innovazioni del dritto, i nuovi indirizzi politici e le nuove disposizioni morali. Voi ricorderete che nel paragrafo destinato al quesito se la storia sia scienza o arte, noi dicemmo che la narrazione non ammette surrogati. Quando il materialismo storico abbia ridotto alla più semplice espressione la somma delle condizioni costitutive del passaggio, poniamo, dall’epoca feudale all’epoca borghese, avrà fatto tutto quello che deve per ispiegare le cause generali della Rivoluzione Francese. Ma quando si tratti di rappresentare intuitivamente quell’unicum che è la Rivoluzione stessa, noi non possiamo a meno di procedere secondo i naturali canoni della esposizione e della narrazione; le quali riusciranno consone alla dottrina se il narratore o espositore porterà in ogni particolare il medesimo criterio, e se lumeggerà la concatenazione degli avvenimenti con la preoccupazione continua di fare che essi non disarmonizzino con la veduta generale. a

Cfr. sopra p. 202. La parola Istorica era già usata nella vecchia letteratura, come nel libro del Vossio,

che è del 1628 [Ed.]3. b Anche questa affermazione è da temperare, intendendola in senso approssimativo: cfr. G. GENTILE, Contribution à l’histoire de la méthode historique, nella «Revue de synthèse historique», V, 129-152 [Ed.]4. a Accenna al noto scritto del VILLARI, La storia è una scienza?, pubblicato nella «Nuova Antologia» del 1891, e più volte ristampato [Ed.]. a Ciò modifica la veduta esposta nella prelezione, in cui la filosofia della storia abbracciava anche la ricerca dei metodi, ossia la storia a parte subiecti, la storiografia. Nella nuova accezione, il L. vuole restringere il significato di filosofia della storia a quella parte di filosofia che più d’ordinario si adopera nella costruzione storica, ossia alle questioni filosofiche che più di ordinario si dibattono nel campo della storiografia [Ed.].

a

Il glottologo Luigi Ceci, professore di storia comparata delle lingue classiche nell’Università di Roma [Ed.]. a Die Philosophie der Geschichte als Sociologie; il 1° vol. (solo pubblicato) ha il sottotitolo: Einleitung und kritische Uebersicht Lipsia, 1897 [Ed.]. a

Il prof. Alfonso Asturaro, insegnante nell’Università di Genova [Ed.]. Nel corso ordinario di filosofia teoretica il Labriola trattò, nello stesso anno 1902-3, della Psicologia delle funzioni operative [Ed.]14. a Allusione scherzosa a Francesco Pastonchi, di cui sono note le letture di poesie fatte in varie città a

d’Italia, e ad uno degli uditori del Labriola, il d.r A. F. Formiggini, di Modena, al quale appunto dobbiamo la trascrizione delle lezioni che qui si pubblicano [Ed.]18. a Allude alla malattia del laringe che lo costrinse negli ultimi anni a rinunziare alle lezioni oratorie, e a limitarsi in ultimo alle dettature delle trame dei corsi [Ed.]. b Vedi, in questo volume, la sez. IX [Ed.]19. a

Altro suo scolaro [Ed.]. Il prof. Achille Loria, dell’Università di Padova ed ora di Torino, autore di parecchi volumi di palingenesi sociale, come La vendita della terra, l’Analisi della proprietà capitalistica, ecc. Il Labriola a

soleva dire, di quest’ultimo libro, che nel solo titolo contiene tre errori, perché: 1° non è un’analisi; 2° proprietà è categoria giuridica, e non già economica; e 3° grammaticalmente, si deve dire capitalistica, e non capitalista [Ed.].

NOTE AI TESTI

Abbreviazioni utilizzate nelle Note Carteggio, A. LABRIOLA, Carteggio, a cura di S. MICCOLIS, 5 voll., Bibliopolis, I-V Napoli 2000-2006. Ds ID., Democrazia e socialismo in Italia, a cura di L. CAFAGNA, Cooperativa del libro popolare, Milano 1954. Op, I-III ID., Opere complete, a cura di L. DAL PANE, 3 voll., Feltrinelli, Milano 1959-1962. Opere ID., Opere, a cura di F. SBARBERI, Fulvio Rossi, Napoli 1972. Sfp ID., Scritti filosofici e politici, 2 voll., a cura di F. SBARBERI, Einaudi, Torino 1973. Sp ID., Scritti politici: 1886-1904, a cura di V. GERRATANA, Laterza, Bari 1970. Spd ID., Scritti pedagogici, a cura di N. SICILIANI DE CUMIS, Utet, Torino 1981. Sv ID., Scritti varii editi e inediti di filosofia e politica, raccolti e pubblicati da B. CROCE, G. Laterza & figli, Bari 1906.

Una risposta alla prolusione di Zeller 1 E. ZELLER, Ueber Bedeutung und Aufgabe der Erkenntniss-Theorie. Ein akademischer Vortrag von Dr. Eduard Zeller, ord. Professor der Philosophie in Heidelberg, Heidelberg, Buchhandlung von Karl Groos, 1862, pp. 29. Si tratta del testo della prolusione al corso di Logica e Teoria della conoscenza letta all’Università di Heidelberg il 22 ottobre 1862. Una nuova edizione del testo, con aggiunte, apparve nel 1877: ID., Vorträge und Abhandlungen geschichtlichen Inhalts, 3 voll., Fues’s Verlag, Leipzig 1877, vol. II, pp. 479-496. Per una traduzione italiana, cfr. Significato e compito della teoria della conoscenza, traduzione e postilla a cura di A. MESCHIARI, in «Studi di filosofia, politica e diritto», 7, 1982, pp. 3-18. Si noti, nella riformulazione labrioliana del titolo, la preferenza di “problema” alla più consueta traduzione di Aufgabe: “compito”. Eduard Gottlob Zeller (1814-1908), teologo evangelico, filosofo e storico della filosofia, si formò presso le Università di Tubinga e di Berlino. Sensibile alla lezione di Ferdinand Christian Baur, di cui sposò la figlia Emilie Caroline, e David Friedrich Strauss, insegnò dapprima teologia a Tubinga (dove nel 1842 fondò i Theologische Jahrbücher), Berna e Marburgo, quindi, a partire dal 1862, fu docente di filosofia all’Università di Heidelberg. Nel 1872 fu chiamato ad occupare la cattedra di Friedrich Adolf Trendelenburg a Berlino, che lasciò nel 1895 per ritirarsi a Stoccarda. Noto soprattutto per i suoi studi sulla filosofia classica greca, culminati nella pubblicazione dell’opera Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt (1844-1852) – la seconda edizione, apparsa fra il 1855 ed il 1868, è utilizzata da Labriola per il Socrate –, Zeller è da considerarsi fra i teorici di quel “ritorno a Kant”, inteso come reazione all’impostazione hegeliana di cui pure egli aveva certamente risentito nella propria formazione, e che assume comunemente il nome di neokantismo o neocriticismo, e di cui la prolusione del 1862 è una delle prime e più significative attestazioni. A partire dal 1871, ma senza menzionare mai la recensione giovanile, Labriola scrisse più volte a Zeller (cfr. Carteggio, I, pp. 122, 177, 193, 255; II, pp. 659, 671), che ne ricambiò le attenzioni citando il Socrate nella terza edizione della sua opera, cfr. E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt, Zweiter Theil, Erste Abtheilung: Sokrates und die Sokratiker. Plato und die alte Akademie, Dritte Auflage, Fues, Leipzig 1875, p. 98 in nota. 2 «In luogo dei grandiosi sistemi unitari, che hanno dominato per mezzo secolo in rapida successione la filosofia tedesca, essa ci offre attualmente lo spettacolo di una evidente confusione [Zerfahrenheit] e paralisi [Stockung]»: E. ZELLER, Significato e compito della teoria della conoscenza, cit., p. 10-11. Sebbene l’espressione «ritorno a Kant», destinata a divenire un vero e proprio motto della produzione neokantiana negli anni seguenti, non figuri letteralmente nel testo, Zeller allude esplicitamente alla necessità di «tornare» [zurückgehen] al tipo di ricerca intrapresa da Kant e «indagare di nuovo le questioni che a Kant si presentarono nello spirito della sua critica», Ibidem, p. 11. 3

K. L. MICHELET, Persönliches (Zeller, als Kritiker und Empiriker), in «Der Gedanke», Band III, Heft 4, 1862, pp. 287-292. In questa sede, pur criticando il merito dell’operazione zelleriana, Michelet aveva dichiarato di «non aver nulla contro questo ritorno a Kant», riconducibile, a suo giudizio, più alla «moda» dell’empirismo teleologico berlinese di quegli anni e alle sue deformazioni psicologistiche che ad un effettivo superamento dell’hegelismo. 4 «Se rendo pubblica questa prolusione, lo faccio nella speranza che anche altri siano stimolati a rivolgere la loro attenzione alle questioni qui sollevate e a svilupparle nel dibattito scientifico», dall’Avvertenza alla prolusione, cfr. E. ZELLER, Significato e compito della teoria della conoscenza, cit., p. 3 in nota. 5 «Signori! Ciò che ho da dirvi quale orientamento preliminare sul contenuto ed il senso delle conferenze che oggi inizio, ho già parzialmente accennato nell’annunciarle. Indicando come loro oggetto la

logica e la teoria della conoscenza, non ho voluto solamente manifestare il fatto che tanto l’una quanto l’altra di queste scienze vi doveva essere trattata; ma ho inteso richiamare l’attenzione su una loro intrinseca correlazione, ed esprimere il convincimento che la logica, per acquisire uno statuto scientifico, debba fondarsi sulla teoria della conoscenza e che la teoria della conoscenza debba completarsi attraverso la logica. Lasciateci innanzitutto fissare più precisamente questo punto e collegarvi poi alcune ulteriori osservazioni sul significato ed il compito della teoria filosofica della conoscenza», Ibidem, p. 3. 6

«Con il nome di logica si suole indicare da duemila anni il complesso delle ricerche, che si riferiscono puramente all’attività del pensare in quanto tale, e fanno astrazione dal contenuto determinato del nostro pensiero; essa deve descrivere le forme e le leggi del pensiero, senza nulla affermare invece degli oggetti che dal pensiero stesso possono venire conosciuti», Ibidem, pp. 3-4. 7

«A questa logica antica se n’è tuttavia contrapposta un’altra, in epoca moderna, da Hegel e dai suoi seguaci. Questa non vuole offrire solamente una conoscenza delle forme dei pensiero, ma contemporaneamente anche una conoscenza del reale, che è oggetto del nostro pensiero; essa vuole essere non solo logica, ma contemporaneamente anche metafisica, ed essa stessa si definisce perciò speculativa, in contrapposizione alla logica usuale, puramente formale», Ibidem, p. 4. In questo caso, come nei successivi non richiamati in nota, Labriola si serve di una lineetta lunga, posta rispettivamente all’inizio e alla fine di una porzione di testo, per segnalare che questa costituisce nelle sue intenzioni una parafrasi del dettato zelleriano. 8 «Secondo la mia opinione, questa assimilazione della logica alla metafisica o alla parte ontologica della metafisica non è lecita. Si dice che la forma non si lascia separare dal contenuto: pure forme del pensiero, che possono essere impiegate altrettanto bene per qualsiasi contenuto, sarebbero senza verità: le forme del nostro pensiero possono poi rivendicare una validità oggettiva solo se in esse vengono riconosciute le determinazioni fondamentali dell’essere, le quali, come i concetti oggettivi [gegenständlichen], costituiscono l’essenza delle cose stesse. Contro questa argomentazione si può tuttavia avanzare qualche obiezione. In primo luogo, infatti, si parla sempre impropriamente, quando si dice che i pensieri sono l’essenza delle cose, poiché questa essenza è proprio l’oggetto del nostro pensiero, ma non immediatamente pensiero in se stessa: essa viene conosciuta dal nostro pensiero, ma non ha in esso la propria esistenza, né da quello viene prodotta», Ivi. 9

«Ma anche prescindendo da ciò, non segue tuttavia assolutamente che le forme del pensiero, per il fatto che nella realtà sono sempre riempite da un contenuto determinato, non possano diventare oggetto di ricerca anche senza questo contenuto. Anzi, proprio questo è il compito dell’indagine scientifica, separare le diverse parti costitutive delle nostre rappresentazioni, distinguere ciò che all’apparenza è connesso e confuso, e così metterci in condizione di chiarire il dato dai suoi elementi originari. In genere, quando la logica fa ciò in relazione alla nostra coscienza pensante, quando considera le forme universali [allgemeinen] del nostro pensiero per sé, prescindendo da ogni contenuto determinato, non si occupa di qualcosa di irreale e di non-vero: si dovrebbe allora rimproverare lo stesso anche alla matematica, poiché questa scienza indaga le proprietà universali del numero senza riguardo alla particolare natura dell’enumerato, i rapporti universali della figura spaziale, astraendo dalla natura fisica dei corpi. Ma, come nell’ultimo caso vengono rilevate per sé determinate parti e proprietà del reale e fatte oggetto di considerazione, così anche la logica formale ha a che fare con qualcosa di reale, con il pensiero quale realtà della vita spirituale dell’uomo; solo che essa lo prende in considerazione semplicemente dal lato della sua forma e non per il suo contenuto», Ibidem, pp. 4-5. 10 «Questo trattamento distinto delle forme del pensiero non è, però, soltanto conveniente, ma senz’altro indispensabile. Dato che i risultati di ogni ricerca sono essenzialmente determinati dal procedimento di cui ci si serve, allora non è possibile iniziare l’indagine del reale con certezza scientifica, se non vengono prima stabilite le condizioni e le forme del procedimento scientifico. Ma proprio questo è il compito della logica. Essa deve dunque precedere quale metodologia scientifica ogni indagine materiale del reale», Ibidem, p. 5. 11

«[…] e ciò vale non solo per quelle discipline che si occupano di regioni particolari del reale, della

natura e dello spirito umano, ma anche per la metafisica e per la sua parte più generale, l’ontologia […]. La

logica coincide dunque così poco con la metafisica, come con qualsiasi altra parte del sistema filosofico immediatamente indirizzata alla conoscenza dell’oggetto, ma la precede: questa ha da ricercare le determinazioni più generali di ogni reale, la logica le forme e le leggi dell’attività conoscitiva umana», Ivi. 12

«Ma anche nella logica hegeliana è evidente che questi due compiti sono distinti. La maggior parte delle sue categorie esprime solo determinazioni dell’oggettività, senza alcun rapporto più prossimo alle forme del pensiero; al contrario, quelle che contengono una descrizione delle forme del pensiero, si possono applicare solo forzatamente e in senso improprio all’oggettività», Ivi. 13

«Tuttavia, il rimprovero alla logica antica, che le manchi un fondamento reale, non è ingiustificato. Solo che essa non dovrà cercarlo nella metafisica, ma nella teoria della conoscenza», Ivi. 14 «La logica è appunto una scienza formale quanto la grammatica o la matematica pura, e deve esserlo, poiché ha proprio a che fare solo con le forme universali del conoscere, e non con un determinato contenuto. […] Ma la loro importanza sta nel servizio che ci rendono per la conoscenza del reale, e ciò si può giudicare solo dalla loro relazione con l’attività dello spirito, attraverso la quale noi perveniamo originariamente alla rappresentazione del reale. Ora, poiché questa costituisce l’oggetto proprio della teoria della conoscenza, è evidente che è alla teoria della conoscenza, che la logica deve ritornare, se le forme del pensare devono diventare per essa qualcosa di vivente e perdere l’apparenza di formule arbitrarie», Ibidem, p. 6. 15 «La scienza che precede ogni conoscenza oggettiva non potrà fondarsi in un particolare punto di vista sull’oggetto; ma dovrà fondarsi nel punto di vista degli elementi e delle condizioni universali della attività conoscitiva, di cui deve descrivere le forme specifiche, e con ciò fissare le regole per la sua applicazione», Ibidem, pp. 5-6. 16 «Ma non è solo nella sua connessione con la logica, che è da cercare il significato della teoria filosofica della conoscenza. Questa scienza costituisce anzi il fondamento formale di tutta la filosofia; è da essa che deve provenire l’ultima decisione sul corretto metodo in filosofia e nella scienza. Poiché, solo in base alle condizioni, alle quali è vincolata la formazione delle nostre rappresentazioni dalla natura del nostro spirito: noi potremo giudicare come dobbiamo procedere per ottenere rappresentazioni corrette; ma proprio la teoria della conoscenza deve ricercare queste condizioni, e determinare, poi, se e in base a quali presupposti lo spirito umano è in grado di conoscere la verità», Ibidem, p. 6. 17

«La necessità di simili ricerche si è perciò imposta alla filosofia, da quando, con Socrate, è divenuta chiara l’idea di un procedimento metodico guidato da una determinata convinzione sulla natura del sapere. Ma solo negli ultimi secoli è emersa tutta la loro importanza ed è stato definito più rigorosamente il loro compito. Già nei primi fondatori della filosofia moderna, in Bacone e Descartes, i due indirizzi scientifici dell’empirismo e del razionalismo si contrapponevano», Ivi. 18

Si riprende qui la soluzione con cui già Croce emenda una lacuna, evidentemente involontaria, del manoscritto. 19 «Spinosa», che nel testo ricorre più volte, è ovviamente una variante della più consueta forma «Spinoza». Di seguito si riportano le altre varianti nella trascrizione dei nomi propri presenti nel testo (in corsivo la grafia conforme al ms.): Wolfio: Wolff; Russeau: Rousseau; Macchiavelli: Machiavelli. Diverso è il caso della forma «Leibnitz», preferita a quella oggi più comune: «Leibniz», e ricorrente in tutto l’arco della produzione labrioliana. 20 «Se Bacone aveva presupposto che ogni sapere scaturisce dall’esperienza, Hobbes cercò di indicare più precisamente in che modo le nostre rappresentazioni e i nostri pensieri traggono origine dalla percezione sensibile; e Locke, negando categoricamente le idee innate, indicò nell’esperienza esterna ed interna le due fonti dalle quali proviene l’intero contenuto della nostra coscienza. Contro di lui Leibnitz difese l’ipotesi cartesiana delle idee innate e fu abbastanza conseguente da portare avanti questa ipotesi, conforme ai postulati del suo sistema complessivo, fino al punto in cui essa si era già evidentemente spinta nella scuola

cartesiana e in Spinoza, fino all’affermazione, cioè, che tutte le nostre rappresentazioni sono senza eccezione idee innate, che tutte traggono origine dal nostro spirito e che sono sì temporalmente simultanee ai fenomeni esterni, ma non sono immediatamente prodotte dalla loro azione», Ibidem, pp. 6-7. 21

«Al tempo stesso Leibnitz trovò nella distinzione tra il consapevole e l’inconsapevole, tra rappresentazioni chiare e confuse, nella dottrina dei diversi gradi di sviluppo della vita spirituale, il mezzo per comprendere in questo sviluppo anche l’esperienza e la percezione sensibile, e di spiegarle dal suo punto di vista», Ibidem, p. 7. 22

«L’empirismo lockiano fu perfezionato dai filosofi francesi del 18° secolo in sensualismo e poi in

materialismo; in Inghilterra ne derivò innanzitutto l’idealismo di Berkeley, e quindi la scepsi di David Hume, alla quale la scuola scozzese seppe opporre solo il richiamo ai presupposti e alle esigenze della coscienza non-filosofica», Ivi. 23

«Ma allo stesso punto era giunta anche la filosofia tedesca, dopo che lo spiritualismo leibnitziano s’era involuto, in Wolff, in un formalismo logico che solo nell’esperienza poteva trovare naturalmente il suo reale compimento», Ivi. 24

«[…] similmente per gli illuministi francesi e soprattutto per Rousseau l’ultima misura della verità stava in convincimenti pratici certi, che per loro erano indubitabili anticipatamente, prima di ogni ricerca scientifica, quale conseguenza necessaria», Ivi. 25

«Il merito immortale di Kant è di aver condotto la filosofia fuori da questo dogmatismo, di avere non

solo rimesso in circolazione il problema dell’origine e della verità delle nostre rappresentazioni, ma di averlo anche risolto più profondamente e compiutamente di ciascuno dei suoi predecessori. Questi ultimi avevano dedotto unilateralmente le nostre rappresentazioni o dall’esperienza o dal nostro proprio spirito. Kant riconosce che esse scaturiscono tanto dall’una quanto dall’altra di queste fonti; e ciò afferma non ecletticamente, come se una parte di queste fosse di origine empirica, ed un’altra apriori; la sua idea è invece che non si dà alcuna rappresentazione, nella quale non siano congiunti entrambi gli elementi. Tutte ricevono il loro contenuto, come Kant ammette, dalla sensibilità; ma a tutte, senza eccezione, vien data la loro forma da noi stessi, anche a quelle nelle quali noi ci comportiamo apparentemente solo in maniera ricettiva; è il nostro spirito che congiunge la materia che gli porge la sensibilità a idee e concetti, secondo le leggi a lui immanenti. E dunque Kant dà contemporaneamente ragione all’empirismo, il quale sostiene che tutte le rappresentazioni originano dall’esperienza, e al razionalismo, che le fa originare tutte dal nostro interno; ma non dà ragione a nessuno dei due, nel momento in cui tien ferma la sua affermazione con l’esclusione di quelle opposte; egli stesso, mentre distingue forma e materia delle nostre rappresentazioni, sa congiungere e perciò superare i due punti di vista, sa comprendere non una parte soltanto delle nostre rappresentazioni, ma tutte, contemporaneamente come azione dell’oggetto e prodotto della nostra autocoscienza», Ibidem, pp. 7-8. 26

«Ora, in verità, Kant ha tratto da queste premesse, conclusioni dalle quali la filosofia tedesca, in tutta la grandiosità del suo sviluppo, è stata condotta su di un sentiero unilaterale e pericoloso. Se tutte le rappresentazioni traggono origine dalla esperienza, noi non possiamo rappresentarci nulla, che oltrepassi l’ambito dell’esperienza possibile: e se in tutte è in gioco la nostra spontaneità, se a tutte è amalgamato un elemento soggettivo, apriori, esse non ci rendono mai le cose così come sono in sé, ma sempre solo così come ci appaiono secondo la peculiarità del nostro rappresentare. Noi vediamo tutto solo nella colorazione, che noi stessi gli conferiamo, e non possiamo assolutamente sapere come esso si presenterebbe, prescindendo da ciò. È anzitutto a quest’ultima conclusione che si attennero i successori di Kant», Ibidem, p. 8. 27 «Se io non posso sapere che cosa sono le cose in sé, dice Fichte, non posso neppure sapere se vi sono cose in sé; le cose mi sono date solo nella mia coscienza, e quando sorge irresistibile in noi la rappresentazione delle stesse, non segue affatto che questa rappresentazione di oggetti provenga da fuori di noi. È giusta piuttosto solo la conclusione che nella natura del nostro spirito c’è qualcosa, che ci costringe a produrre la rappresentazione di cose fuori di noi, e il compito della filosofia può essere solo quello di

comprendere questo presunto mondo esterno come fenomeno della coscienza, come opera dell’Io infinito, come un momento del suo sviluppo», Ivi. 28

«Posto anche che l’opposizione dell’Io e del Non-Io sia solo una derivazione, un prodotto dello stesso Io infinito, tuttavia essa è nella nostra coscienza ed è un fatto fondamentale della stessa, noi ci rendiamo coscienti solo in questa opposizione e non possiamo astrarne, senza con ciò astrarre anche dalla personalità in quanto cosciente e determinata. Io sono soggetto solo distinguendomi dall’oggetto; se io pensassi ciò che precede questa distinzione, non avrei pensato né un soggetto né un oggetto, ma solo l’unità dei due, solo il “soggetto-oggetto”. Ciò non poteva negare nemmeno Fichte, ed egli distinse perciò l’io empirico, il soggetto che sta in opposizione all’oggetto, dall’Io puro o assoluto, che precede questa opposizione e produce il soggetto e l’oggetto come sue manifestazioni. Ma con quale diritto, chiede Schelling non senza ragione, questa essenza infinita può ancora esser chiamata “Io”? Io è proprio la personalità autocosciente, il soggetto; quello che è tanto oggetto quanto soggetto, non è, con ciò stesso, né soggetto né oggetto, e non è dunque neppure Io, è solo l’Assoluto in quanto tale. Così il concetto fichtiano dell’Io assoluto si spezza nel mezzo: da una parte si pone l’Assoluto, che non è né soggetto né oggetto, né Io né Non-Io, ma solo la loro assoluta identità e indifferenza; dall’altra l’essere derivato nelle due forme fondamentali di oggetto e soggetto, di natura e spirito; compito della filosofia è di mediare nel pensiero questi due lati, di chiarire il derivato dell’originario, spirito e natura dall’Assoluto», Ibidem, pp. 8-9. 29

«Genialmente, ma con un metodo inadeguato e con un irrequieto alternarsi della forma scientifica e dell’espressione, Schelling tentò questa chiarificazione; Hegel intraprese a risolvere lo stesso compito attraverso un paziente lavoro del pensiero, con rigore sistematico e compiutezza», Ibidem, p. 9. 30

«Se l’ente [Wesen] assoluto si manifesta in natura e spirito, la necessità di questa manifestazione deve

risiedere in esso stesso, deve appartenere alla compiutezza della sua stessa essenza: natura e spirito devono essere dunque manifestazioni essenziali dell’assoluto, momenti necessari della sua vita infinita, e lo stesso spirito assoluto dev’essere l’ente automoventesi attraverso le opposizioni del finito, sviluppantesi dalla natura allo spirito. Questa sua manifestazione deve essere poi determinata conformemente a legge, da necessità interna; poiché una casualità del suo attuarsi e del suo esserci contrasterebbe col concetto di assoluto. Ma se è così, deve anche essere possibile conoscerla nella sua regolarità, comprendere il mondo nella sua emanazione dall’assoluto, se solo è trovata la formula, secondo la quale questo processo si compie. Questa formula, da parte sua, in che altro può trovarsi, se non nella legge di sviluppo per opposizioni [Gegensätze]? Come l’essenza assoluta deve innanzitutto penetrare nella forma dell’esserci naturale, della finitezza e dell’esteriorità, per cogliere se stessa come spirito, così ogni sviluppo segue la stessa legge: ciò che si evolve, deve anzitutto diventare altro, per ritornare a se stesso dall’essere-altro, per mediare sé con sé attraverso la sua autoalienazione. Nella riproduzione mentale di questo processo consiste il procedimento dialettico; e mediante l’applicazione ripetuta del procedimento dialettico si può riuscire a riprodurre scientificamente lo sviluppo dell’assoluto, la serie di gradi dell’ente nella sua emanazione dalla divinità. Questi sono i pensieri fondamentali che hanno guidato Hegel nel suo tentativo di una costruzione dialettica dell’universo», Ibidem, pp. 9-10. 31

«Si può anche tributare la più grande ammirazione alla grandiosità di questo tentativo, gli si può anche premurosamente accordare verità e legittimità, essere convinti della sua azione in vario modo feconda e ancora così viva: ma non si può misconoscere, in un esame libero da pregiudizi, che egli non ha raggiunto il suo scopo, e che non lo poteva raggiungere, poiché trascende le condizioni della conoscenza umana e vuol cogliere in un sol colpo dall’alto in basso l’ideale della conoscenza, al quale in realtà noi ci possiamo approssimare solo gradualmente, attraverso il più complesso lavoro dal basso. È però d’altronde altrettanto chiaro che il sistema hegeliano, in tutte le sue essenziali determinazioni, e specialmente il metodo dialetticocostruttivo di Hegel, è solo il naturale risultato del precedente sviluppo filosofico, solo il compimento di quell’idealismo, che ha tratto origine con assoluta coerenza dalla critica kantiana delle facoltà conoscitive. Se, dunque, questo sistema ha assunto per lungo tempo una posizione dominante nella filosofia tedesca, ciò si potrà comprendere da un punto di vista storico; e se pure non soddisferà più a lungo, il suo cerchio magico non si lascerà tuttavia realmente spezzare, finché non vengano di nuovo indagati, più a fondo di

quanto si sia fatto finora, i fondamenti che ha in comune con i sistemi precedenti», Ibidem, p. 10. 32

«Che le ricerche condotte fin qui per riformare [verbessern] il sistema hegeliano, o per sostituirlo con uno nuovo, porgano qualche pregevole indizio, qualche nuova e giusta osservazione, ma siano ancora ben lontane da una reale soluzione del compito, lo posso esprimere solo come mio convincimento, ma non fondare qui su un esame approfondito; e non posso qui neppure esporre le riflessioni decisive, che mi impediscono di aderire alla dottrina di Herbart, pur riconoscendo volentieri l’acume con cui questo filosofo, ancora contemporaneo a Hegel, ha sollevato obiezioni non solo contro di lui, ma contro l’intero indirizzo della moderna filosofia tedesca. Intanto non c’è quasi bisogno di questa critica, in se stessa certamente indispensabile, per fondare la convinzione provvisoria della necessità di una nuova indagine dei presupposti, dai quali muove la filosofia tedesca a partire da Kant», Ivi. 33

«Lo stato attuale di questa scienza in Germania dimostra in sé e per sé che essa è giunta ad una di quelle svolte le quali, nella migliore delle ipotesi, conducono ad una trasformazione su basi nuove, nella peggiore, a decadenza e dissoluzione. In luogo dei grandiosi sistemi unitari, che hanno dominato per mezzo secolo in rapida successione la filosofia tedesca, ci si offre attualmente lo spettacolo di una evidente confusione e paralisi, dalla quale vengono ostacolati anche gli sforzi più meritevoli e del tutto impedite nella loro opera le indagini più raffinate; lo stesso rapporto della filosofia con le scienze particolari, se prescindiamo da singole eccezioni, è uscito dal suo solco naturale: mentre quella è, in generale, più disposta che non alcuni decenni fa, ad apprendere da queste, nelle scienze particolari si è invece sempre più radicato il pregiudizio che la filosofia sia superflua per i loro scopi e che addirittura le disturbi nel loro lavoro. Non occorre dimostrazione del fatto che questa non è la situazione più salutare. Nel chiederci come la si possa sanare, ci sovviene la parola di quel geniale statista italiano, il quale esige che gli Stati vengano di quando in quando, ricondotti al loro principio. Ciò che è vero per gli Stati, vale per ogni tutto storico. Ovunque c’è uno sviluppo concatenato [zusammenhängend], sorge di tanto in tanto la necessità di far ritorno al momento dal quale esso ha tratto origine, per ricordarsi nuovamente dei compiti originari e per cercare di nuovo la loro soluzione nello spirito originario, quand’anche, probabilmente, con altri mezzi. Un simile momento sembra essere venuto proprio ora per la filosofia tedesca. Ma l’inizio della serie di sviluppo, in cui si trova la nostra odierna filosofia, è Kant, e l’opera scientifica, con la quale Kant aprì una nuova strada alla filosofia, è la sua teoria della conoscenza. Chi dunque voglia riformare i fondamenti della nostra filosofia dovrà innanzitutto tornare a questa ricerca e indagare di nuovo le questioni che a Kant si presentarono nello spirito della sua critica, per evitare, arricchito dalle esperienze scientifiche del nostro secolo, gli errori commessi da Kant», Ibidem, pp. 10-11. Il riferimento machiavelliano è a Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, III, 1. 34 «La prima questione riguarda le fonti dalle quali traggono origine le nostre rappresentazioni. Devo riconoscere come essenzialmente giusto ciò che Kant ha enunciato a questo proposito. Non posso concedere che nel contenuto delle nostre rappresentazioni del reale ci sia qualche cosa, che non derivi direttamente o indirettamente dall’esperienza interna o esterna; infatti, come potrebbe l’anima pervenire a questo contenuto, e come può collegarsi con quella supposizione il fatto che a tutte le nostre rappresentazioni, senza eccezione, se le esaminiamo più attentamente, sono impresse le tracce delle esperienze dalle quali derivano e che, al contrario, delle cose di cui non abbiamo esperienza, ci manca anche ogni concetto? Come dobbiamo infine convincerci della realtà di ciò, la cui rappresentazione, come si suppone, sarebbe formata unicamente da noi stessi e non suscitata da un’azione dell’oggetto su di noi?», Ibidem, pp. 11-12. 35

«D’altra parte, però, Kant è perfettamente nel suo diritto, quando nega che una qualunque rappresentazione si realizzi in altro modo, che per la mediazione della nostra spontaneità e nelle forme a noi prescritte dalla natura del nostro conoscere. Ciò che ci è dato immediatamente nell’esperienza sono sempre soltanto le singole impressioni, queste determinate sensazioni, quali accadimenti nella nostra coscienza. Già il modo in cui noi riceviamo l’azione delle cose, la qualità e la forza della sensazione, che essa produce in noi, sono condizionati dalla natura dei nostri organi di senso e dalle leggi della nostra sensibilità; più evidentemente ancora c’è di mezzo la nostra attività, quando colleghiamo le singole sensazioni in un’immagine complessa, quando noi poniamo, nell’idea dell’oggetto fuori di noi, ciò che è dato solamente nella nostra coscienza, quando noi astraiamo concetti generali dalle percezioni, quando dai fatti

dell’esperienza deduciamo le cause che ne stanno alla base», Ibidem, p.12. 36

«Essenziale rimane sempre il principio che tutte le nostre rappresentazioni, senza eccezione e a tutti i livelli del loro sviluppo, sono il prodotto connesso di due fonti, l’impressione oggettiva e l’attività rappresentativa del soggetto. In che modo questi due elementi concorrano alla loro produzione e quali siano le leggi apriori del nostro rappresentare, può essere chiarito solo nel corso ulteriore della nostra indagine», Ivi. 37 «Quanto più francamente noi dobbiamo riconoscere, che in tutte le nostre rappresentazioni c’è un elemento soggettivo, che in esse le cose ci si presentano solo in quanto le forme concettuali e di pensiero innate lo portano con sé, tanto più evidentemente ci si impone la questione della verità delle rappresentazioni, che acquisiamo su questa via. Se anche alla base delle nostre rappresentazioni ci sta qualcosa di oggettivo, come è possibile conoscere questo oggettivo nella sua pura forma, l’in-sé delle cose, se queste ci sono date sempre soltanto nelle forme soggettive della rappresentazione? Kant risponde che è impossibile e questa impossibilità gli appare così evidente, che non ritiene perciò necessaria alcuna dimostrazione ulteriore. Proprio qui sta invece l’errore fondamentale del criticismo kantiano, il passo fatale in quell’idealismo, che doveva subito svilupparsi con Fichte in così stridente unilateralità. Noi comprendiamo le cose solo nelle forme soggettive della rappresentazione, ma segue forse da ciò che noi non le comprendiamo così come esse sono in sé? Ma non è pensabile invece anche l’altro caso, e cioè che le nostre forme rappresentative sian di natura tale da renderci possibile una giusta idea delle cose? Non deve invece ciò apparirci in anticipo più probabile, se riflettiamo che è ad un’unica totalità naturale [Naturganzes], che appartengono le cose e noi stessi, che è da un unico ordine di natura [Naturordnung] che traggono origine gli accadimenti oggettivi e le nostre rappresentazioni di questi accadimenti?», Ibidem, pp. 12-13. 38 «Oppure, se vogliamo avvicinarci di più alla questione: ci sono certamente dati nell’esperienza solo manifestazioni, accadimenti nella nostra coscienza, nei quali le azioni delle impressioni esterne e quelle della nostra propria attività rappresentativa sono fuse insieme indivisibilmente. Distinguere i due elementi con sicurezza è impossibile, finché prendiamo per sé un qualunque fenomeno singolo, poiché esso ci è dato proprio solo come questa unità di entrambi, e in nessun caso l’azione dell’oggetto compare nella coscienza in altro modo, che nella forma soggettiva della rappresentazione, e questa in altro modo, che in quel contenuto determinato. Ma ciò che non si può ottenere dalla considerazione del singolo fenomeno in quanto tale, può essere ottenuto dalla comparazione di più fenomeni. Quando noi vediamo come gli oggetti più diversi vengano colti nelle stesse forme rappresentative, e come al contrario lo stesso oggetto si lasci rappresentare in modi diversi e da differenti angolazioni: quando troviamo che non solo i sensi, ma anche la percezione e il pensiero sullo stesso oggetto, in certi rapporti, affermano la stessa cosa, e che, d’altra parte, ad uno stesso senso si impone una moltitudine delle più diverse sensazioni, e quando facciamo attenzione alle condizioni, alle quali l’un caso e l’altro avvengono, noi siamo messi in grado di stabilire che cosa nelle nostre esperienze origina dagli oggetti e che cosa da noi stessi, e come questo si rapporta a quello: di accertare gli accadimenti oggettivi e le proprietà delle cose e ancora le cause dalle quali essi dipendono», Ibidem, p. 13. 39 «Ma poiché la semplice osservazione non basta o non offre la necessaria sicurezza, ci rimane aperta all’esame e al completamento del suo risultato ancora una seconda via, la stessa che ha preso la scienza della natura già da molto tempo con i più importanti successi. Come noi dai fenomeni, per deduzione [Schlussfolgerung] risaliamo alle cause che ne stanno alla base, così al contrario verifichiamo nei fenomeni l’esattezza delle nostre supposizioni sulle cause. Noi determiniamo per deduzione e, dov’è possibile, per calcolo, quali fenomeni possono darsi, presupponendo un’idea precisa della natura delle cose e delle cause agenti: se si dimostra che questi fenomeni avvengono anche nella realtà e non sporadicamente, ma con regolarità, allora è provata l’esattezza della nostra supposizione, se si dimostra il contrario, sarà invece provata la necessità della sua rettifica. Questo procedimento trova la sua più frequente e feconda applicazione là dove noi stessi produciamo i fenomeni in conformità con i nostri presupposti, dove noi, in altri termini, possiamo controllare le ipotesi con gli esperimenti [durch Versuche]», Ibidem, pp. 13-14. 40

«In breve, il nostro punto di vista non è quello del dogmatismo, né di quello empiristico né di quello

speculativo, ma quello del criticismo. Noi non possiamo aspettarci di guadagnare una conoscenza del reale altro che dall’esperienza; ma non dimenticheremo che nell’esperienza stessa sono già contenuti elementi apriori, mediante la cui eliminazione noi riceviamo puramente il dato oggettivo, e che le leggi universali e i fondamenti nascosti delle cose vengono generalmente conosciuti non attraverso l’esperienza in quanto tale, ma attraverso il pensiero. Se un’osservazione il più possibile precisa e completa è già il primo passo verso la scienza, se ne debbono qui aggiungere altri due, se vogliamo veramente pervenire ad un sapere certo. Il primo consiste nella differenziazione degli elementi della nostra esperienza e comprende tutte quelle operazioni, che hanno lo scopo di rendere evidente il fatto oggettivo in quanto tale, liberato da tutti gli ingredienti soggettivi. Se con ciò sono accertati gli accadimenti reali, col passo successivo ne vengono ricercate le cause, per poterli spiegare in base ai loro fondamenti, e così arrivare per via genetica al concetto della loro essenza. Ma i metodi dei quali ci dobbiamo servire, l’importanza che spetta da un lato all’induzione, dall’altro alla deduzione, le più particolareggiate modificazioni che entrambe subiscono nell’impiego, la necessità e il modo della loro relazione, deve indagarli la logica nella sua parte metodologica», Ibidem, p. 15.

Della relazione della Chiesa allo Stato 1

Sebbene, per ammissione del Miccolis che pubblicò per primo il testo (cfr. S. MICCOLIS, Un inedito giovanile di Labriola sui rapporti tra Stato e Chiesa, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXIV, gennaio-aprile 1985, pp. 97-104), nel ms. sembri leggersi «Angarana», forma che sarebbe confermata dalla segnalazione che del testo diede C. FIORILLI, Antonio Labriola: ricordi di giovinezza, in «Nuova Antologia», CXXII, f. 821, marzo 1906, pp. 59-63, e da L. DAL PANE, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Einaudi, Torino 1975 (che nell’indice dei nomi associa a questo cognome l’iniziale “F.”, senza però fornire ulteriori dettagli per l’identificazione), lo stesso Miccolis ha preferito identificare il destinatario in Giovanni Angarano: laureato in legge nel 1864 ed autore di alcuni appunti relativi al corso tenuto da Bertrando Spaventa nell’anno accademico 1864-1865, al cui completamento è forse da ricondurre questo lavoro di Labriola.

Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza 1 «Considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici o di corpi», Etica III, Prefazione, cfr. SPINOZA, Opere, Mondadori, Milano 2007, p. 896. 2 K. FISCHER, Geschichte der neuern Philosophie, Erster Band, Zweiter Theil: Descartes’ Schule. Geulinx. Malebranche. Baruch Spinoza, Bassermann, Heidelberg 1865. 3 C. SCHAARSCHMIDT, Descartes und Spinoza: urkundliche Darstellung der Philosophie beider, Marcus, Bonn 1850. 4 «Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita», Ibidem, p. 787. 5

La lettera cui l’autore si riferisce è indirizzata a Hudde e risale al giugno del 1666. È bene ricordare che la numerazione delle lettere spinoziane seguita da Labriola è quella che si ricava dagli Opera posthuma, e non deve pertanto essere confusa con quella, largamente adottata dalle traduzioni novecentesche dell’Epistolario, seguita alla risistemazione dei vari carteggi ad opera dell’edizione Gebhardt (1925). A scanso di equivoci, in nota si è ritenuto di far seguire sempre alla numerazione antica quella più recente, fra parentesi. In questo caso, ad esempio: Epistola XLI (XXXVI), cfr. Ibidem, pp. 1399sgg. 6

Epistola XXI (LXXIII), cfr. Ibidem, pp. 1301sgg. Epistola LXII (LVIII) ed Epistola XXIII (LXXV), cfr. Ibidem, pp. 1483sgg. e 1305sgg. 8 Epistola XLI (XXXVI), cfr. Ibidem, pp. 1399sgg. 9 Il riferimento a Eth. I, prop. XVIII, presente nel ms. e ripreso dalle successive edizioni è 7

evidentemente errato in quanto tale proposizione non è corredata da alcuno scolio. 10 «Dio (è eterno), ossia tutti gli attributi di Dio sono eterni» [Deus, sive omnia Dei attributa sunt aeterna], Ibidem, p. 810. 11

J. E. ERDMANN, Vermischte Aufsätze, Vogel, Leipzig 1846; ID., Grundriss der Geschichte der

Philosophie, 2 voll., Hertz, Berlin 1866. La notizia di quest’opera, per quanto non direttamente consultata dall’autore, esclude in ogni caso la possibilità di datare la redazione finale dello scritto labrioliano a date anteriori all’ultimo scorcio del 1866. 12 Epistola LXVI (LXIV), cfr. Ibidem, pp. 1492sgg. 13

F. H. JACOBI, Werke, Vierter Band, Erste Abtheilung: Ueber die Lehre des Spinoza in Briefen an Herrn Moses Mendelssohn, Fleischer, Leipzig 1819. Le Lettere a Mosè Mendelssohn sulla dottrina di Spinoza, pubblicate per la prima volta nel 1785, contribuirono molto, come noto, ad alimentare il dibattito sullo spinozismo che caratterizzò il pensiero tedesco fra la fine Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Cfr. ID., La dottrina di Spinoza: lettere al signor Moses Mendelssohn, Laterza, Bari 1969. 14 Epistola IV (IV), cfr. Ibidem, pp. 1244sgg. 15

Il manoscritto “Fondo Dal Pane” 20.12 (indicato come ms. 3 dall’edizione Dal Pane, α dalla presente) colloca a questo punto un ampio passo non presente nel ms. principale. Considerata la pregnanza del testo e l’importanza dei riferimenti filosofici in esso contenuti, se ne riproduce qui un ampio stralcio secondo la trascrizione di Dal Pane (Opere, I cit., p. 65 in nota), in alcuni punti minimamente rivista. «La genitura eterna dell’eterno generante, per dirla con Bruno, non fu mai generata, ma è la generazione immanente nel generante, e che ne contiene ed esaurisce immediatamente tutta la potenza generativa – Ordine delle cose – La sostanza infinita causa immanente delle cose, contenente in sé le condizioni primitive, ossia le potenze onde tutte le cose sono, in una parola Dio coi suoi attributi, questo è il concetto metafisico di Spinoza. Il mondo come effetto immediato, e nella attualità interamente adeguato alla causa, questo è il principio cosmologico di Spinoza. Il fondamento di questa intuizione è duplice, da un lato la

pruova cartesiana dell’esistenza di Dio portata a piena conseguenza, e dall’altra la vittoria completa del naturalismo sul dualismo Cartesiano. La evidenza, cioè il principio della ragion sufficiente, è tutto in Spinoza col principio di causalità [In nota: Schopenhauer rimprovera a Spi. di aver confuso il principio della ragion sufficiente con quello della causalità (ved. Über die… p. e Die Welt als Wille und Vorstellung…) non intendendo che l’apriorità intellettiva dell’uno come norma dell’attività logica non abbia che fare con l’altra che serve a determinare il multiplo empirico negli schemi mediante le intuizioni pure di tempo e spazio. Questa osservazione come tante altre di Kant, Hegel ed Herbart sono un prodotto postumo della riflessione che ci permette violare la storia, senza avvedersi che non sarebbe nel caso di obbiettare se essa stessa non fosse un risultato più o meno cosciente della storia]. La natura naturata nel suo insieme come abbiamo visto è un prodotto immediato di Dio. Ma non così le cose particolari. Appunto perché il nesso di tutte le cose particolari è l’espressione della potenza di Dio, ciascuna cosa non può essere che determinata e prodotta da un’altra cosa. Le cose come prodotto dell’attributo pensiero sono le idee, e come prodotto dell’attributo estensione sono i corpi. Quello che hanno di comune è la causalità infinita, in virtù della quale ogni idea è il prodotto di un’altra, ed in ogni corpo di un altro. La causalità così concepita esclude la finalità e l’arbitrio. […]» Il riferimento alla distinzione bruniana fra «generante» e «generato» rievoca le considerazioni sulla monade che chiudono il secondo dialogo della seconda parte degli Eroici furori, cfr. G. BRUNO, Gli eroici furori, BUR, Milano 1999, pp. 301-302. Non è certo casuale, però, che esso costituisca anche una citazione quasi letterale de La filosofia di Gioberti di Spaventa, dove, mettendo in parallelo la filosofia di Spinoza con quella giobertiana, l’autore definisce le caratteristiche della sostanza spinoziana come «causalità infinta [che] produce un effetto infinito», e volendo esplicitare la realtà di questo “infinito generato” aggiunge fra parentesi: «la natura; o come direbbe Bruno, vero precursore di Spinoza, l’infinita genitura, perfetta somiglianza e imagine, dell’infinito generante», cfr. B. SPAVENTA, La filosofia di Gioberti, Vitale, Napoli 1863, p. 383. Ma cfr. anche la celebre prolusione del 1860, Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo, in ID., Opere, 3 voll., Sansoni, Firenze 1972, vol. I, pp. 313, e ID., Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli (23 novembre – 23 dicembre 1861), Vitale, Napoli 1862, p. 75, in cui si richiama il già menzionato passo degli Eroici furori sulla «celeste Anfitrite». Quanto alle osservazioni schopenhaueriane sulla confusione in Spinoza di «ragione conoscitiva» e «conseguenza», ovvero di «possibilità» e «realtà», cfr. A. SCHOPENHAUER, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, Guerini, Milano 1990, pp. 30-32 e ID., Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989, pp. 952-954. 16 «La pulsione dalla quale ciascuna cosa è spinta a perseverare nel suo essere non implica un tempo infinito, ma indefinito», SPINOZA, Opere cit., p. 906. 17

La citazione si riferisce a Eth. III, prop. IV, dem.: «Questa proposizione è chiara di per sé. Infatti la definizione di qualunque cosa afferma, ma non nega, l’essenza della cosa stessa, ossia pone e non toglie l’essenza della cosa», Ibidem, p. 904. 18

«La cupidità si riferisce per lo più agli uomini in quanto sono consapevoli dei loro appetiti, e perciò può essere così definita: la cupidità è l’appetito con la coscienza di sé [appetitus cum ejusdem conscientia]», Eth. III, prop. IX, schol., Ibidem, p. 907. Cfr. anche Ibidem, p. 955. 19

«Oltre a questi tre [gioia, tristezza, cupidità, ndr] non riconosco nessun altro affetto primario»,

Ibidem, p. 908. 20 «L’amore non è altro che una gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna; l’odio nient’altro che una tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna», Ibidem, p. 911. Il riferimento ad Eth. II (stesso numero di prop.), piuttosto che ad Eth. III, accolta sia dall’edizione di Croce che da quella di Dal Pane, è evidentemente frutto di una svista dovuta allo stesso Labriola.

21

Il manoscritto “Fondo Dal Pane” 22.27 (indicato come ms. 4 dall’edizione Dal Pane, β dalla presente) riporta, a margine del passo corrispondente, una nota autografa che è parso utile non tralasciare:» «N.B. Il K. F. [Kuno Fischer, ndr] che pure ha il merito di aver tanto rilevata la grande importanza di questa teorica degli affetti, e che in generale la espone con somma penetrazione, non ha fatto notare come l’imitazione sia il punto di passaggio dalle forme elementari della laetitia e della tristitia, a quelle che hanno la loro consistenza nella relazione di uomo ad uomo. 22 Non si è seguita, in questo caso, la lezione di Dal Pane che, come già Croce prima di lui, legge nel manoscritto un diverso numero di proposizione: XLIX. La correzione qui apportata (LIX) è suggerita con evidenza dal contesto e confermata dal successivo rimando allo scolio della medesima proposizione. 23 Si consideri, a questo riguardo, quanto riporta in nota Dal Pane in merito alle varianti al titolo di questa sezione dello scritto: «Nel ms. 4 abbiamo due prove cancellate di questo titolo: [1] Lotta delle passioni, e modo come lo spirito si eleva alla libertà, [2] Le passioni come servitù e modo come lo spirito va alla libertà», A. LABRIOLA, Op I cit., p. 107 in nota. 24

«La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini sembrano trattare non di cose naturali che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Anzi sembrano concepire l’uomo nella natura come un impero in un impero [veluti imperium in imperio]», Eth. III, praef., SPINOZA, OPERE cit., p. 895. 25

«Chiuque ha un’idea vera non ignora che l’idea vera implica suprema certezza, giacché avere un’idea vera non significa altro che conoscere una cosa in modo perfetto, ossia nel modo migliore. Nessuno, in verità, può dubitare di questa cosa, a meno che non stimi che l’idea sia qualcosa di muto al pari di una pittura in un quadro, e non un modo di pensare, ossia lo stesso intendere», Eth. II, prop. XLII, schol., Ibidem, p. 879. 26 «Cupidità, ovvero il conato all’esistenza con la consapevolezza di sé»: la formula riecheggia Eth. III, prop. IX – «la mente (…) è spinta [conatur] a perseverare nel suo essere per una certa durata indefinita ed è consapevole di questa sua pulsione [conatus]», Ibidem, p. 907 – e la già ricordata definizione di cupiditas, contenuta nel relativo scolio: «la cupidità è l’appetito con la coscienza di sé», Ivi. 27

Ai nomi di Thomas Hobbes e David Hume, entrambi fautori – si vedano, ad esempio, il capitolo XXI del Leviathan (1651) e le prime sezioni del secondo libro di A Treatise of human nature (1739) – di un’obiezione di tipo compatibilista alla dottrina tradizionale del libero arbitrio, ovvero tesa a mostrare la necessità che il libero volere dell’uomo coincida (in positivo o in negativo) con le condizioni deterministicamente imposte dal contesto in cui opera l’agente che si ritiene “libero”, Labriola affianca qui quello di Joseph Priestley (1733-1804). Chimico e scienziato di fama, prima di emigrare negli Stati Uniti (1794), in una serie di scritti come le Disquisizioni sulla materia e sullo spirito (1771), La teoria della mente umana di Hartley sui principi dell’associazione delle idee (1775) e La dottrina delle necessità filosofica (1777), Priestley sviluppò le linee fondamentali della propria filosofia materialistica e necessitaristica, in cui il dualismo mente-corpo è risolto a totale favore del corpo e la sfera psicologica è ricondotta all’esclusivo funzionamento del sistema nervoso (associazionismo), senza per questo escludere del tutto, ma in una prospettiva puramente fideistica ed estranea ad ogni conoscenza umana, l’eventualità di un ambito sovrannaturale. 28 «La contesa è ancora aperta»: la celebre espressione è ripresa da un verso di Orazio («grammatici certant, et adhuc sub iudice lis est», Ars poetica, 78).

La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele 1 «Tutto era migliore allora, quando c’erano minori risorse»: l’affermazione, tratta dal XXXV libro della Naturalis historia, è riferita da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) all’antica pittura greca, così eccelsa nei risultati nonostante le sue opere fossero realizzate con pochi colori e mezzi assai più spartani di quelli disponibili nella Roma imperiale. 2 Come testimonia il colophon che segue il frontespizio, il testo per cui Labriola ottenne il diritto di stampa è «estratto dal vol. VI degli Atti della R. Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli». Angelo Brofferio (1802-1866) fu avvocato, commediografo, poeta e storico delle vicende italiane del Risorgimento. 3 «Socrate è colpevole di non credere agli dei riconosciuti dallo Stato e di introdurre (Senofonte si serve qui del verbo εἰσφέρειν, eisphérein, mentre in Diogene Laerzio si trova il verbo εἰσάγειν, eisághein, ma il significato è il medesimo) altre, nuove divinità»: SENOFONTE, Memorabili cit., p. 73 e DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, Laterza, Bari 1962, p. 75. 4

«Dice all’incirca così [ἔχει δέ πως ὧδε]: Socrate è colpevole, in quanto corrompe i giovani, e non crede negli dèi in cui crede la Città, ma in divinità diverse e nuove»: Apologia di Socrate, 24 B-C, in PLATONE, Tutti gli scritti, a cura di G. REALE, Bompiani, Milano 2005, p. 30. 5 «Questa fu la fine dell’amico nostro, o Echecrate: un uomo, lo possiamo ben dire, che fra quanti allora conoscevamo, fu il migliore e anche il più sapiente e più giusto»: Fedone, 118 A, in PLATONE, Tutti gli scritti cit., p. 122. 6 Nello scritto Apologia di Socrate davanti alla giuria, la cui attribuzione a Senofonte, in passato messa in dubbio dalla critica, è ora nuovamente accreditata, non si fa cenno all’offerta di trenta mine. Si riferisce al contrario la radicale opposizione di Socrate ad ogni richiesta di concordare una pena più lieve, fatto che avrebbe potuto significare un’implicita ammissione di colpevolezza, cfr. G. GIANNANTONI (a cura di), Socrate: tutte le testimonianze da Aristofane e Senofonte ai padri cristiani, Laterza, Bari 1986, pp. 252-257: 255. 7 «In particolare, quando si tratti delle cose giuste [καὶ περὶ τῶν δικαίων] e delle ingiuste, delle brutte e delle belle, delle buone e delle cattive, intorno alle quali dobbiamo ora decidere, forse dovremo dar retta all’opinione della gente e averne timore, o dovremo, invece, dar retta al parere di quell’unico, se mai ci sia, che se ne intende, del quale solo bisogna aver rispetto e timore, più che di tutti gli altri insieme? E se non lo seguiremo, guasteremo e corromperemo ciò che in noi con la giustizia diventa migliore e con l’ingiustizia si corrompe. Oppure questo non è niente? [ἢ οὐδέν ἐστι τοῦτο;]»: Critone 47 C - D, in PLATONE, Tutti gli scritti cit., p. 57. 8

Secondo la ripartizione cinquecentesca del testo, dovuta al tipografo lionese Henri II Estienne (1528-

1598) noto come Stephanus, e comunemente assunta nelle moderne edizioni di Platone, il numero 43 del Critone termina alla lettera D: «Se così piace agli dei, così avvenga», Ibidem, p. 54; Apologia 19 A: «In ogni caso vada come è caro al dio», Ibidem, p. 25; Apologia 21 E: «Mi pareva che fosse necessario tenere in grandissima considerazione l’oracolo del dio», Ibidem, p. 28. 9

Come confermato da successive citazioni testuali, Labriola fa riferimento alla seconda edizione delle Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie (1840-1844), cfr. G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, 3 voll. in 4 tomi, La Nuova Italia, Firenze 1930-1934, vol. II, pp. 84-109. 10 L’aneddoto è riferito con maggiori particolari da Cicerone e Valerio Massimo. Nel suo De oratore il

primo scrive: «[…] quando Lisia, oratore assai fecondo, gli portò [a Socrate, ndr] un discorso scritto da imparare a memoria, se credeva, per servirsene in giudizio, di buon grado lo lesse e lo giudicò ben scritto, ma aggiunse: “Come se tu mi avessi portato un paio di calzari di Sicione, non li userei, anche se fossero comodi e si adattassero perfettamente al mio piede, perché non sono da uomo”. Il discorso gli pareva brillante e degno di un oratore, ma non forte e virile», CICERONE, Dell’oratore, a cura di E. NARDUCCI, BUR, Milano 1997, p. 255. Simile, ma con alcune significative differenze, la versione di Valerio Massimo (VI, 4, 2): «Socrate […] poiché in Atene veniva celebrato il processo a suo carico e Lisia gli ebbe letto la comparsa di difesa che per lui aveva composta – una comparsa dimessa e supplichevole, abilmente preparata in vista dell’imminente tempesta –, “Mettila via”, disse, “ti prego: giacché, se potessi essere indotto a pronunciarla nell’estremo deserto della Scizia, allora ammetterei di dover essere condannato a morte”. Disprezzò la vita per non restare privo di gravità e preferì morire da Socrate che sopravvivere da Lisia», VALERIO MASSIMO, Detti e fatti memorabili, a cura di R. FARANDA, Utet, Torino 1971, p. 491. 11

«Invece, del fatto che egli non sia simile a nessuno degli uomini, né degli antichi né dei contemporanei, questa è la cosa degna di ogni meraviglia»: PLATONE, Tutti gli scritti cit., p. 526. 12 «Io non sono stato mai maestro di nessuno»: Tutti gli scritti cit., p. 38. 13 Cfr. TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, introduzione di M. I. FINLAY, trad. a cura di F. FERRARI e G. DAVERIO ROCCHI, 3 voll., BUR, Milano 1997, vol. I, pp. 325-327. 14 Qui, come in un’altra successiva occorrenza (cap. III, nota 21), «Volquardson» è l’erronea trascrizione del cognome del filologo tedesco Carsten Redlef Volquardsen (1824-1875). 15 «Di questo tipo è l’accusa che mi fanno. E queste cose le avete viste pure nella commedia di Aristofane»: Tutti gli scritti cit., p. 25. I πρῶτοι κατήγοροι (prōtoi katēgoroi) o “primi accusatori” cui allude l’Apologia sono quanti, come i commediografi Aristofane, Eupoli e Cratino, denigravano da tempo Socrate confondendolo con i Sofisti e convincendo di questo il popolo ed i giovani cresciuti al loro seguito (il verbo παραλαμβάνω, paralambáno, allude per la precisione a questa capacità di “tenere presso di sé” i giovani ateniesi, trasmettendo loro false idee intorno a Socrate). 16 Cfr. ARISTOFANE, Le nuvole, in Le Commedie, 3 voll., a cura di R. CANTARELLA, Nuovo Istituto Editoriale Italiano, Milano 1982, vol. II, pp. 58-59 (v. 101). 17 C. A. BRANDIS, Geschichte der Entwickelungen der griechischen Philosophie und ihrer Nachwirkungen im roemischen Reiche, 2 voll., Reimer, Berlin 1862-1864. 18 Il termine apragmosýnē, letteralmente: inoperosità, nel contesto della polis greca significa in particolare l’astensione dalle responsabilità e dagli uffici della vita pubblica e, come anche le fonti relative a Socrate dimostrano, può avere sia una connotazione positiva (nel senso di un disimpegno che consente di dedicarsi interamente all’attività filosofica) che una negativa (come accusa d’indifferenza e disprezzo della democrazia rivolta dai suoi detrattori). Nella prima di queste due accezioni, il termine designa uno dei tratti caratteristici della figura di Socrate delineata da Senofonte, cfr. ad esempio SENOFONTE, Memorabili, a cura di A. SANTONI, Rizzoli, Milano 1989, p. 291 (III, 11, 16). 19

DIOGENE LAERZIO, Le vite dei filosofi, II, 6, 56. L’autore si riferisce alla rubrica Jahresberichte: 21. Xenophon, apparsa in «Philologus», XVIII, 1864,

20

pp. 245-340 a firma di B. Büchsenschütz. 21 «Socrate si occupò delle virtù etiche, e per primo cercò di dare di esse definizioni universali… cercava l’essenza delle cose e a buona ragione… In effetti, due sono le scoperte che si possono a giusta ragione attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione universale» (1078b, 17-30): ARISTOTELE, Metafisica, Bompiani, Milano 2000, pp. 605-607. 22

M. SCHNEIDEWIN, Ueber die Keime erkenntnißtheoretischer und ethischer Philosopheme bei den vorsokratischen Denkern, in «Philosophische Monatschefte», II, 1868-1869, pp. 257-271, 345-368; 429-

457. 23

«Pensi che gli dei avrebbero infuso negli uomini la convinzione di essere loro in grado di fare del bene e del male…?»: SENOFONTE, Memorabili, Rizzoli, Milano 1989, p. 131. 24 «Si ritiene che essi [gli dei, ndr] sappiano alcune cose ed altre no. Invece Socrate era del parere che gli dei conoscano ogni cosa, parole e azioni e pensieri non espressi a parole, e che essi siano presenti in ogni luogo e diano indicazioni agli uomini su tutte le questioni umane», Ibidem, p. 83. 25

«Così nella stirpe gerca a causa delle sedizioni sorse ogni genere di disonestà, e la semplicità

d’animo, con la quale generalmente la nobiltà si accompagna, irrisa svanì, mentre lo schierarsi in campi opposti con sentimenti di diffidenza ovunque fu un’abitudine predominante…»: TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso cit., pp. 585sgg. 26

A Socrate un giorno chiesero di che paese era, e lui rispose: “del mondo”, perché si considerava abitande e cittadino del mondo intero» (V, 37, 108): CICERONE, Le Tuscolane, Mondadori, Milano 2007. 27 Cfr. G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia cit., vol. II, pp. 40-45, 52-84. 28 Cfr. G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia cit., vol. II, p. 109sgg. 29 L’epagōghē (έπαγωγή) o lógos epacticós (λόγος έπακτικός) indica a partire da Aristotele il ragionamento induttivo che Metafisica XIII, 4 (1078b, 27-29) attribuisce per l’appunto a Socrate, insieme alla capacità di “definire universalmente” (τὸ ὁρίζεσθαι καθόλου, tò horízesthai kathólu), quale suo scopritore, cfr. ARISTOTELE, Metafisica cit., p. 607. 30 «Poiché la filosofia di Socrate non è il ritrarsi dall’esistenza e dal presente nelle libere, pure regioni del pensiero, ma è tutt’uno con la sua vita, essa non procede a sistema»: G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia cit., vol. II, p. 52. 31 Cfr. G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia cit., vol. II, p. 40sgg. 32 Il riferimento è ai celebri Sokratische Denkwürdigkeiten (1759), trad. it.: Memorabili socratici, a cura di A. PUPI, Rusconi, Santarcangelo di Romagna 1999, con cui Johann Georg Hamann (1730-1788) contestava l’immagine di Socrate diffusa fra gli illuministi, contrapponendole un’interpretazione di tipo religioso che vede nell’ignoranza socratica e nella sua teoria del «demone» un’anticipazione del Cristianesimo. Cfr. J. G. HAMANN, Schriften, Zweiter Theil, Reimer, Berlin 1821, pp. 1-50. Il rimando di Labriola è alla terza ed ultima sezione dello scritto, cfr. Ibidem, pp. 42-50. 33

«Quando uno pronuncia il vocabolo “ferro” o “argento”, non pensiamo forse tutti quanti alla medesima cosa? […] Ma quando si pronuncia il vocabolo “giusto”, oppure “bene”? Non siamo forse portati uno da una parte e uno dall’altra, e non siamo in disaccordo gli uni con gli altri e con noi stessi?», PLATONE, Tutti gli scritti cit., p. 569. 34

«E quali sono, allora, le cose intorno alle quali, essendo in disaccordo e non potendo pervenire ad una soluzione, noi diventeremmo nemici e ci adireremmo l’uno contro l’altro? Forse non ti è facile rispondere. Allora te lo dico io. Prova a riflettere se tali cose non siano il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Non sono queste, forse, le cose intorno alle quali, quando siamo in disaccordo e non riusciamo a pervenire ad una decisione soddisfacente, può accadere che diventiamo nemici gli uni degli altri – quando lo diventiamo – e io e tu e tutti quanti gli altri uomini?», Ibidem, p. 9. 35

«Affermava anche che la discussione dialettica si chiama così per il fatto che ci si riunisce in comune per discutere distinguendo le cose per generi», SENOFONTE, Memorabili cit., p. 359. 36 «Ma Socrate non pose le definizioni e gli universali come separati dalle cose», ARISTOTELE, Metafisica cit., p. 607. Una banale svista, forse in sede tipografica, ha alterato il corretto riferimento al testo

aristotelico: Met. XIII, 4 (1078b 30-31). 37

«Gli uni infatti, conocendosi, conoscono ciò che è adatto a loro e distinguono le cose di cui sono e non sono capaci. E realizzando quello che sanno fare si guadagnano il necessario ed hanno successo», SENOFONTE, Memorabili cit., p. 323. 38

«Quando poi lui stesso dimostrava qualcosa secondo un ragionamento, procedeva attraverso i punti più generalmente riconosciuti, nella convinzione che ciò conferisse sicurezza all’argomentazione», SENOFONTE, Memorabili cit., p. 369. Il parallelo con Odisseo, cui Labriola allude, segue a breve distanza: «Affermava che Omero ha attribuito ad Odisseo la qualità di parlatore “infallibile”, proprio perché sapeva portare avanti il ragionamento attraverso le opinioni riconosciute dagli uomini», Ivi. Cfr. i vv. 169173 dell’Ottavo libro dell’Odissea: «Un uomo infatti è di aspetto meschino, ma un dio ne nghirlanda di beltà le parole, e gli altri con piacere lo fissano: egli parla in tono sicuro, con dolce riguardo, si distingue tra i convenuti, e quando avanza in città guardano a lui come a un dio», OMERO, Odissea, trad. di G. AURELIO PRIVITERA, Mondadori, Milano 2003, p. 221. 39 «Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità»: ARISTOTELE, Metafisica cit., pp. 34-35. «Questa nozione [«l’essenza e il definire la sostanza», ndr] si sviluppò poi al tempo di Socrate, ma la ricerca intorno alla natura s’interruppe [τὸ δὲ ζητεῖν τὰ περὶ φύσεως ἔληξε], e i filosofi si dedicarono alla virtù in relazione all’utile, e alla politica»: ID., Le parti degli animali, a cura di A. L. CARBONE, BUR, Milano 2002, p. 203. 40 Labriola confronta fra loro due passi dei Memorabili in cui Senfonte espone la teoria socratica dell’ignoranza avvicinandola, senza tuttavia mai identificarla, alla pazzia: «La follia [μανία], poi, diceva, è l’opposto della scienza [σοφία], tuttavia non pensava che l’ignoranza [ἀνεπιστημοσύνη] fosse follia. Ma elencava come fenomeni vicinissimi alla pazzia il non conoscere se stessi e l’avere opinioni su cose che non si conoscono e credere di conoscerle»: SENOFONTE, Memorabili cit., pp. 271-273; «Socrate […] indagava spesso in che cosa differisca l’ignoranza [ἀμαθία] dalla pazzia [μανία]», Ibidem, p. 107. 41

«Per questo in ciò che ciascuno conosce, in questo è anche sapiente», cfr. Ibidem, p. 365. «Presso gli Ombripodi è un lago dove Socrate, che non si lava, evoca gli spiriti [ψυχαγωγεῖ]»: ARISTOFANE, Gli uccelli, in Le Commedie cit., vol. III, pp. 214-215 (vv. 1353-1355). 43 «Per questo in ciò che ciascuno conosce, in questo è anche sapiente», cfr. SENOFONTE, Memorabili cit., p. 365. Vedi supra p. 611 e nota 41. 44 Strepsiade e Fidippide, rispettivamente padre e figlio, sono insieme a Socrate i protagonisti della commedia Le nuvole di Aristofane, rappresentata per la prima volta in occasione delle Grandi Dionisie del 42

423 a. C. Quello dell’«aerobato», ovvero di un marchingeno che consente al personaggio Socrate di restare sospeso in un corbello (κρεμάθρα, kremáthra) è il celebre espediente scenico con cui Le nuvole contribuisono a raffigurare il filosofo come un ciarlatano che “va per l’aria” (il verbo ἀεροβατέω, aerobatéō, è un neologismo), dedito a problemi inesistenti, cfr. ARISTOFANE, Le nuvole, in Le Commedie cit., pp. 72-73. 45 Il riferimento è alla nota pratica, diffusa presso l’antica nobiltà greca, di costituire gruppi ristretti o eterìe (dal greco ἑταῖρος, hetâiros: compagno), in cui uomini di età diverse, legati da un giuramento ed accomunati da idee politiche o da interessi filosofici e letterari, erano soliti condividere momenti di convivialità (simposi) e d’iniziazione (anche attraverso la pratica della pederastia) dei più giovani alla vita culturale e politica. 46 «Quel costume, esattamente come l’amore per il sesso opposto, racchiude in sé tutti gli elementi di

ciò che è più nobile e di ciò che è più vile, della virtù e del vizio, del meglio e del peggio»: la citazione, parzialmente modificata da Labriola, è tratta dal terzo (e non dal secondo, come indicato erroneamente nel testo) volume degli Scritti vari del filologo e numismatico tedesco Christian Wilhelm Friedrich Jacobs (1764-1847), cfr. F. JACOBS, Vermischte Schriften, Dritter Theil, Dyk, Leipzig 1829, p. 251. 47

Come ricordato nell’Avvertenza, in questo testo l’autore si serve dell’asterisco per segnalare notizie e riferimenti biliografici ricavati indirettamente da altre fonti. 48 M. SCHANZ, Beiträge zur vorsokratischen Philosophie aus Plato, vol. I: Die Sophisten, A. Rente, Göttingen 1867. 49 «Sosteneva poi che sia la giustizia, sia ogni altra virtù sono conoscenza», SENOFONTE, Memorabili cit., p. 271. 50 «Diceva che uno solo è il bene, la scienza, e uno solo il male, l’ignoranza», DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi cit., p. 71. 51

«Socrate riteneva che le virtù fossero forme di ragionamento (infatti riteneva che tutte le virtù fossero scienze), noi che siano unite a ragionamento» (1144b 28-30), ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 253. 52 «Perciò ricercava che cosa fosse la virtù, ma non il modo in cui essa fosse generata e da cosa derivasse» (1216b 9-10), ID., Etiche, Utet, Torino 1996, p. 74. 53

«Troverai, se indaghi, che di quante sono considerate virtù fra gli uomini, tutte è possibile accrescerle con l’apprendimento e l’esercizio», SENOFONTE, Memorabili cit., p. 205. 54 Labriola allude qui alla distinzione, che Senofonte riporta fra i detti di Socrate, fra l’“agire con successo” (εὐπραξία, eupraxía) e la “buona sorte” (εὐτυχία, eutuchía), ovvero tra «fare bene qualcosa dopo aver studiato ed essersi esercitati» ed «imbattersi in qualcosa di buono senza averlo cercato», cfr. SENOFONTE, Memorabili cit., p. 277. 55

«Anche l’esperienza dei casi singoli pare essere un certo tipo di coraggio: su questa base Socrate ritenne che il coraggio fosse una scienza» (1116b 3-5): ARISTOTELE, Etica Nicomachea cit., p. 109. 56 «Avendo saputo che egli non compiva sacrifici agli dei, né si serviva della divinazione, ma per di più derideva coloro che facevano tali cose…», SENOFONTE, Memorabili cit., p. 123. Per l’intero dialogo di Socrate con Aristodemo, cfr. Ibidem, pp. 123-133. 57 «[Socrate:] E ti pare che siano più da ammirare quelli che producono immagini prive di intelligenza e movimento o quelli che raffigurano esseri viventi che esprimono razionalità e movimento?» «[Aristodemo:] Per Zeus, invero quelli che raffigurano esseri viventi, almeno se sono fatti non per un caso, ma secondo un criterio razionale» (in corsivo la traduzione della citazione riportata nel testo, ndr), Ibidem, p. 125. 58

«[Socrate:] E tra le cose che non si sa a qual fine esistano e quelle che invece esistono chiaramente per uno scopo utile, quale giudichi opera del caso e quale dell’intelligenza?» «[Aristodemo:] Conviene che quelle che hanno uno scopo utile siano opera dell’intelligenza», Ivi. 59 «Colui che fin dal principio ha fatto», Ibidem, p. 125; «sembra proprio che tal cose siano il progetto di un demiurgo sapiente e amico degli esseri viventi», Ibidem, p. 127; «Bisogna pensare allora che l’intelletto che c’è nell’universo [Labriola modifica il testo greco in l’intelletto di dio] disponga ogni cosa secondo il suo piacere e non che il tuo sguardo possa spaziare per molti stadi e l’occhio di dio sia incapace di vedere tutte insieme tutte le cose (in corsivo le traduzioni delle parole riportate in greco nel testo, ndr)», Ibidem, p. 133; «colui che regola e conserva l’universo ordinato», Ibidem, p. 337.

60 61

«L’anima [umana], che più di ogni altra parte dell’uomo partecipa del divino», Ibidem, p. 339. Di seguito riportiamo la bibliografia dei volumi e degli articoli citati da Labriola: ALBERTI, E., Sokrates: ein Versuch über ihn nach den Quellen, Dieterich, Göttingen 1869. ALLIHN, F. H. TH., Die Grundlehren der allgemeinen Ethik: nebst einer Abhandlung uber das Verhaltniss der Religion zur Moral, L. Pernitzsch, Leipzig 1861. ARISTOPHANES, Die Wolken, erklärt von T. Kock, Weidmann, Berlin 1852 (2 ed.: 1862); ID., Die Ritter, erklaert von T. Kock, Weidmann, Berlin 1853 (2 ed.: 1867). AST, F., Lexicon Platonicum: sive vocum Platonicarum index, 3 voll., Lipsiae: in libraria Weidmanniana, 1835-1838. BÖHRINGER, A., Der philosophische Standpunkt des Sokrates, G. Braun, Karlsruhe 1860. BRANDIS, C. A., Geschichte der Entwickelungen der griechischen Philosophie und ihrer Nachwirkungen im roemischen Reiche, 2 voll., Reimer, Berlin 1862-1864. ID., Grundlinien der Lehre des Sokrates, «Rheinisches Museum für Philologie, Geschichte und griechische Philosophie», I, 1827, pp. 118-150. COBET, C. G., Novae lectiones quibus continentur observationes criticae in scriptores Graecos, Lugduni Batavorum: Brill, 1858. CURTIUS, E., Griechische Geschichte, 3 voll., Weidmann, Berlin 1957-1867, vol. III: Bis zum Ende der Selbstandigkeit Griechenlands, Weidmann, Berlin 1867. DENIS, J., Histoire des théories et des idées morales dans l’antiquité, 2 tomi, A. Durand, Paris 1856. DISSEN, L. G., De Philosophia morali in Xenophontis de Socrate commentariis tradita (1812), in ID., Kleine lateinische und deutsche Schriften, Dieterich, Gottingen 1839, pp. 57-88. DITGES, PH. J., Die epagogische oder inductorische Methode des Socrates und der Begriff, J. P. Bachem, Köln 1864. DITTRICH, F., De Socratis Sententia «Virtutem Esse Scientiam», Heyne, Braunsberg, 1868. FORCHHAMMER, P. W., Die Athener und Sokrates, die Gesetzlichen und der Revolutionär, Nicolaische Buchandlung, Berlin 1837. FrÉRET, N., Observations sur les causes et sur quelques circostances de la condamnation de Socrate (1736), in «Memoires de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», vol. xLVII, 1809, pp. 209-282. FRITZSCHE, F. V., Quaestiones Aristophaneae, Koehleri, Lipsiae 1835. GÖTTLING, K. W., Gesammelte Abhandlungen aus dem classischen Alterthume, 2 voll.: Buchhandlung des Waisenhauses, Halle 1851; Bruckmann, München 1863. GROTE, G., A History of Greece, 12 voll., J. Murray, London 1846-56: vol. VIII, London 1850. HaMANN, J. G., Sokratische Denkwürdigkeiten Schriften (1759), in ID., Schriften, Zweiter Theil, Reimer, Berlin 1821, pp. 1-50.

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Della libertà morale 1 Vedi supra, nota 19, p. 1720. «Leibnitz» è variante ricorrente nell’opera di Labriola, in luogo della forma oggi più consueta, per il nome del filosofo Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716). 2 Amico fra i più cari di Labriola fin dagli studi universitari a Napoli sul finire degli anni Sessanta, Arturo Graf (1848-1913) rimase in contatto epistolare con lui anche dopo il temporaneo rientro a Brăila, in Romania, dove si era recato per seguire l’attività commerciale di famiglia. Perdute le lettere spedite da Labriola, della corrispondenza inviata da Graf non restano che gli stralci delle minute, riportati, prima della dispersione del suo archivio, da A. DEFFERRARI, Arturo Graf. La vita e l’opera letteraria, Dante Alighieri, Roma 1929, ed ora confluiti nel Carteggio labrioliano. Da questi non è possibile ricavare il passo corrispondente al quesito cui allude l’autore: parte di una lettera del Graf datata da Brăila, 4 febbraio 1873 (compatibile, pertanto, con il termine di due mesi qui riferito) testimonia di un intenso dibattito sui principali orientamenti filosofici del tempo e del diverso atteggiamento, tenuto dai due, nei confronti del positivismo. I trattati herbartiani di psicologia e di etica cui fa riferimento l’autore sono, molto probabilmente, T. WAITZ, Lehrbuch der Psychologie als Naturwissenschaft, F. Vieweg & Sohn, Braunschweig 1849 e J. W. NAHLOWSKY, Das Gefühlsleben dargestellt aus praktischen Gesichtspunkten, nebst einer kritischen Einleitung, L. Pernitzsch, Leipzig 1862. 3 Il motivo volontaristico, caratteristico della riflessione teologica di Giovanni Duns Scoto (1266-1308), affiora in più occasioni nei suoi Commentaria alle Sententiae di Pietro Lombardo. 4

GUGLIELMO DI OCKHAM, Quaestiones et decisiones in quattuor libros Sententiarum, in sent. II, quaest. 19. 5 TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, Prima secundae, q. 19, a. 10, ad primum. 6

«[…] d’altro canto, siamo anche talmente certi della libertà e dell’indifferenza che è in noi, che non v’è nulla che conosciamo più chiaramente»: CARTESIO, Opere filosofiche, 3: I principi della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 42. Quanto alle osservazioni di Leibniz, gli stessi riferimenti ricorrono in Schopenhauer (cfr. A. SCHOPENHAUER, La libertà del volere umano cit., p. 56): è legittimo supporre, pertanto, che Labriola li abbia ripresi da qui, senza osservare che la citazione del § 50 della Prima parte dei Saggi di teodicea risulta di fatto poco pertinente (cfr. piuttosto i paragrafi 68 e 69, dove è riportato e discusso, per l’appunto, il passo cartesiano in questione, cfr. G. W. VON LEIBNIZ, Saggi di teodicea, BUR, Milano 1993, pp. 128-129). Per il § 292 della Terza parte, cfr. invece Ibidem, pp. 420-421. 7

«[…] quell’indifferenza che provo quando nessuna ragione mi spinge da una parte più che dall’altra è piuttosto il grado infimo della libertà, non attestando affatto una perfezione della libertà, ma solo un difetto (nel senso di una «negazione») nella conoscenza, ché, se vedessi sempre chiaramente che cosa è vero e che cosa è buono, non starei mai a deliberare […]»: DESCARTES, Meditazioni metafisiche, Laterza, RomaBari 1997, p. 94. 8 «Perché dimostrare ciò che è sufficiente constatare?», cfr. V. COUSIN, Cours d’histoire de la philosophie morale au dix-huitième siècle, Ladrange, Paris 1839, p. 52. 9 Cfr. J. F. HERBART, Sämmtliche Werke, Voss, Leipzig 1850-1863, I vol.: Schriften zur Einleitung in die Philosophie, § 128, pp. 200-205 (trad. italiana: Introduzione alla filosofia, a cura di G. VIDOSSICH, Laterza, Bari 1908, pp. 168-172). 10 Lambert Adolphe Jacques Quetelet (1796-1874), matematico ed astronomo di origine belga, fu tra i massimi studiosi di statistica e meteorologia del suo tempo. Nella sua opera più nota, che ebbe largo

impatto sugli studi criminologici del tempo e sulla nascente sociologia, Sur l’homme et le développement de ses facultés ou Essai de physique sociale (1835), sostenne la possibilità di ricavare dall’applicazione delle leggi statistiche allo studio dei fenomeni morali un modello generale (l’homme moyen), determinato dall’insieme dei valori medi di variabili misurabili che seguono una distribuzione normale. 11 Tra le fonti più note della cultura europea nell’età del positivismo, Ludwig Büchner (1824-1899) e Jakob Moleschott (1822-1893) unirono alla pratica scientifica in ambito medico e fisiologico un’elaborazione filosofica di matrice nettamente materialistica ed evoluzionistica. Fra i testi «oramai famosi» cui allude l’autore, sono sicuramente da annoverare, del Büchner, Kraft und Stoff (1855), e del Moleschott, Der Kreislauf des Lebens (1852), assai diffuso in Italia nella traduzione di Cesare Lombroso: La circolazione della vita (1869). 12

Il riferimento è alla celebre immagine della pietra utilizzata nella lettera a J. H. Schuller dell’ottobre 1674, cfr. B. SPINOZA, Opere, Mondadori, Milano 2007, pp. 1483-1484. 13 «L’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione delle cose», Eth. II, prop. VII, Ibidem, p. 840. 14 «Nessuno ha il potere di volere ciò che vuole», la citazione, che compare anche sul piatto di coperta e sul frontespizio dell’originale, è tratta dalla lettera a Magnus Wedderkopf del maggio 1671, pubblicata, con il titolo Leibniz de fato, da F. A. TRENDELENBURG, Historische Beiträge zur Philosophie, 3 voll., Bethge, Berlin 1846-1867: vol. II: Vermischte Abhandlungen, Bethge, Berlin 1855, pp. 188-191: 190. Cfr. G. W. LEIBNIZ, Sämmtliche Schriften und Briefe, II Reihe, I Band, Akademie Verlag, Berlin 2006, p. 187. Cfr. ID., Scritti di logica, Zanichelli, Bologna 1968, pp. 445-447: 447. 15

J. LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, Bompiani, Milano 2004, pp. 415sgg e 573sgg. Cfr. A. SCHOPENHAUER, La libertà del volere umano cit., pp. 46sgg. 17 Il neologismo suicoazione, coniato da Labriola e destinato a ricorrere sovente negli scritti morali di questo periodo, ricalca la nozione herbartiana di Selbstzwang: autocostrizione, cfr. J. F. HERBART, Allgemeine Pädagogik aus dem Zweck der Erziehung argeleitet (1806), in ID., Sämmtliche Werke, Zehnter 16

Band, Erster Theil, Voss, Leipzig 1851, pp. 1-185: 125, 136-137. 18 Cfr. J. F. HERBART, Introduzione alla filosofia cit., pp. 168-172. 19

Compos sui, letteralmente “padrone di sé”, indica fin dai più antichi autori latini colui che dispone della propria ragione o coscienza (si veda anche la forma ricorrente compos mentis). In ambito giuridico si riferisce a colui che è responsabile dei propri atti. 20 «So qual è la soluzione migliore, non ho dubbi in proposito, ma ugualmente scelgo il peggio»: la citazione è tratta dal VII libro delle Metamorfosi (vv. 20-21), cfr. P. OVIDIO NASONE, Le metamorfosi, BUR, Milano 2008, p. 385. 21 «Le occasioni non fanno l’uomo fragile, ma mostrano quale esso è». La citazione è tratta del celebre De imitatione Christi, l. I, cap. XVI: tradizionalmente attribuita al monaco agostiniano Tommaso da Kempis (1380ca-1471), quest’opera di età medievale, la cui origine è ancora oggetto di dibattito fra gli studiosi, è fra le fonti più importanti, sebbene talvolta trascurata, della mistica cristiana in Occidente. 22 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Ueber die Freiheit des menschlichen Willens, in ID., Die beiden Grundprobleme der Ethik, behandelt in zwei akademischen Preisschriften, J. C. Hermann, Frankfurt am Main 1838, p. 62. Cfr. ID., La libertà del volere umano cit., p. 106. 23

Cfr. G. F. HERBART, Pedagogia generale, dedotta dal fine dell’educazione, Zanichelli, Bologna

1931, p. 149.

24

Dictum simpliciter… dictum secundum quid: “detto in generale… detto in relazione a qualcosa di particolare”. 25 Per legge della motivazione Schopenhauer intende il principio di ragion sufficiente dell’agire, ovvero la forma propria del principio di causalità quando esso si applica all’«oggetto immediato del senso interno», cioè al soggetto del volere. La legge di motivazione stabilisce un rapporto di necessità fra azioni e motivi, in quanto, dato un determinato carattere, ad un certo motivo seguirà necessariamente un certo comportamento. In questo senso è possibile parlare di libertà dell’agire (la motivazione può porsi o meno, o possono porsi motivi di segno opposto), ma non di libertà del volere (dato il carattere, nessuno può volere diversamente da come vuole). Cfr. A. SCHOPENHAUER, La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, a cura di E. AMENDOLA KÜHN, Boringhieri, Torino 1959, pp. 220-233. 26 «Bisogna anche considerare che i motivi, a parlar propriamente, non agiscono sullo spirito come i pesi sulla bilancia, ma è piuttosto lo spirito che agisce in virtù dei motivi, i quali sono disposizioni ad agire. Così pretendere […] che lo spirito preferisca talvolta i motivi più deboli a quelli più forti, significa separare lo spirito dai motivi, come se questi fossero fuori di lui come il peso è distinto dalla bilancia; e come se nello spirito vi fossero altre disposizioni per agire oltre ai motivi, in virtù delle quali lo spirito respingesse o accettasse i motivi. Mentre in verità i motivi comprendono tutte le disposizioni che lo spirito può avere per agire volontariamente, poiché non comprendono soltanto le ragioni, ma anche le inclinazioni che nascono dalle passioni o da altre inclinazioni precedenti. Così, se lo spirito preferisse l’inclinazione debole a quella forte, agirebbe contro se stesso e diversamente da come è disposto ad agire»: G. W. LEIBNIZ, Scritti filosofici, 3 voll., Utet, Torino 1967-2000, vol. III, p. 527. 27 Ibidem, vol. II, pp. 151-152. 28

Cfr. A. SCHOPENHAUER, La libertà del volere umano, Laterza, Bari 1970, p. 56. Age rem tuam: «fa’ bene il tuo lavoro»; mala electio est in culpa: «la cattiva scelta è colpevole». 30 A parte post, ed a parte ante: «per ciò che ne consegue e per ciò che presuppone». 31 «der Charakter der Person könnte wohl zu einer andern Handlungsweise den Grund enthalten haben»: J. F. HERBART, Zur Lehre von der Freiheit des Menschlichen Willens. Briefe an Herrn Professor 29

Griepenkerl, Dieterich, Göttingen 1836, p. 50. 32 Il riferimento è evidentemente a Poetica 1451b: «Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimeno sarebbe sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari», ARISTOTELE, Poetica, a cura di D. Lanza, BUR, Milano 1997, p. 147. 33 Se il richiamo alla gnosi appare generico, quello a Schelling è da intendere molto probabilmente in riferimento alla sua riflessione più matura, di cui sono espressione le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809). Sicuramente influenzata, almeno nella sua fase centrale, dalla filosofia schellingiana è l’opera di Karl Daub (1765-1836), filosofo e teologo riformato, docente di teologia all’Università di Heidelberg. Fra i suoi scritti più rilevanti, si ricordano: Lehrbuch der Katechetik (1801); Theologumena (1806); Einleitung in das Studium der christlichen Dogmatik (1810); Judas Ischarioth oder Betrachtungen über das Gute im Verhältnis zum Bösen (1816-1818); Die dogmatische Theologiejetziger Zeit oder die Selbstsucht in der Wissenschaft des Glaubens (1833) e le postume Philosophische und theologische Vorlesungen (1838-1844). 34

Cfr. ad esempio quanto si legge nella Prefazione a Sul concetto della dottrina della scienza, G. FICHTE, Scritti sulla dottrina della scienza 1794-1804, Mondadori, Milano 2008, p. 83.

35

Note, e sovente ricordate dalla critica, le osservazioni mosse alla filosofia kantiana da Pasquale Galluppi (1770-1846), come anche quelle, condotte però da posizioni diverse, di Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e Vincenzo Gioberti (1801-1852), assai meno conosciuta è invece la figura di Carlo Sarchi (1803-1879): esule in Francia fin dalla giovinezza, noto per i suoi studi di economia politica, si cimentò con successo nella traduzione di opere di Spinoza (Trattato teologico-politico; Etica) e Vico (De antiquissima italorum sapientia; De universi juris principio et fine uno). Il testo qui citato, C. SARCHI, Esame della dottrina di Kant, Bortolotti, Milano 1873, uscito in Italia un anno dopo l’edizione francese, testimonia il tentativo, valutato severamente da Labriola, di misurarsi con la filosofia kantiana (le questioni relative alla filosofia pratica di Kant sono affrontate nell’ultimo capitolo). Dell’insegnamento di Ottavio Colecchi (1773-1847), impartito in forme quasi clandestine a Napoli sotto la Restaurazione, e della sua ampia conoscenza dell’opera di Kant, letta e compresa in lingua originale, rimase, come è noto, una profonda traccia nella formazione di alcuni giovani di idee liberali: fra questi, accanto a Francesco De Sanctis (18171883) e Luigi Settembrini (1813-1876), si ricordano anche Silvio (1822-1893) e Bertrando Spaventa (18171883). 36 Sulla ripresa labrioliana della nozione kantiana di philosophia pigrorum vedi infra nota 12, p. 1746. 37

«Nessun uomo deve dovere»: la citazione è tratta dal primo atto del dramma Nathan il Saggio (1779) di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1881), cfr. G. E. LESSING, Nathan der Weise, Voss, Berlin 1838, p. 19; trad. it: Nathan il Saggio, Garzanti, Milano 2003, pp. 32-33.

Morale e religione 1 «È impossibile pensare nel mondo, e, in genere, anche fuori di esso, una cosa che possa considerarsi come buona senza limitazioni, salvo, unicamente, la volontà buona»: I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1994, p. 55. 2 I due «pensatori di prima riga» cui allude il passo sono verosimilmente Herbart, la cui distinzione fra giudizi sull’essere e giudizi di valore è ripresa sia in queste pagine che in Del concetto della libertà, e Kant, di cui la teoria herbartiana riprenderebbe, rendendolo «più esplicito», il principio dell’autonomia della ragion pratica rispetto all’attività teoretica. 3

Sul termine suicoazione, autocostrizione, coniato da Labriola sull’analoga nozione herbartiana e impiegato più volte in questo scritto, vedi supra pp. 812, 820, 821, 827. Ma cfr. già Della libertà morale, supra, p. 714. 4 Il riferimento a Kant riprende, parafrasandolo, il passo della Fondazione della metafisica dei costumi citato in apertura.

Del concetto della libertà. Studio psicologico 1

Luigi Bodio (1840-1920), economista e importante studioso di statistica, fu, dal 1872, dirigente dei Servizi statistici del Regno, divenuti, dal 1878, Direzione Generale, sotto il diretto controllo del Ministero degli Interni. Nel 1885 fu tra i promotori dell’Istituto Italiano di Statistica, di cui fu il primo segretario generale. Membro del Consiglio di Stato dal 1898 al 1905, nel 1900 fu nominato senatore e, dal 1901 al 1904, ricoprì l’incarico di Commissario all’emigrazione. Collaboratore dai primi anni Settanta degli «Annuali di statistica», e dell’«Annuario statistico», dal 1876 entrò nel consiglio direttivo dell’«Archivio di statistica», con cui si propose di diffondere l’interesse per la statistica quale strumento per affrontare le principali questioni economiche e sociali del tempo. La richiesta a Labriola di un contributo per la rivista da lui diretta è pertanto da riferirsi verosimilmente al tentativo di promuovere il dibattito sull’utilità dello strumento statistico anche nell’analisi dei fenomeni morali. 2 La categoria di «atavismo», presente nell’opera di Darwin a partire The variation of animals and plants under domestication (1868) e divenuta presto assai comune nel dibattito sulla teoria darwiniana – si pensi, ad esempio, alla fortuna che questo concetto ha negli stessi anni in Cesare Lombroso (1835-1909) e nella nascente scuola di antropologia criminale –, indica il manifestarsi in individui attuali di caratteri tipici di antenati, tendenzialmente superati dal processo evolutivo. Meno consueto invece, in quello stesso dibattito, il ricorso a termini come «cernita» (selezione) e «abiti di accomodazione» (costumi di adattamento), con cui Labriola liquida qui sprezzantemente l’«andazzo» di ricondurre ogni fenomeno umano alle scienze biologiche, come già aveva fatto, poco sopra, sfoggiando en passant alcune nozioni di neurologia (il «gran simpatico», il sistema nervoso vegetativo, contrapposto qui sommariamente al resto del sistema nervoso).

Recensioni (1870-77) 1

Tratto da «Zeitschrift für exacte Philosophie im Sinne des neuern philosophischen Realismus», vol. IX, 1870, pp. 196-198. 2 Pedagogo, psicologo e sociologo di origini boeme, Gustav Adolf Lindner (1828-1887) venne in contatto con la scuola herbartiana durante gli studi all’Università di Praga, dove fu allievo del pedagogista Franz Serafin Exner (1802-1853). Per anni docente negli istituti secondari, iniziò ad occuparsi successivamente di formazione del personale docente. Chiamato all’Università di Praga nel 1878, dal 1882 all’anno della morte tenne la cattedra di “Pedagogia, Psicologia ed Etica”. Fondatore nel 1879 della rivista «Paedagogium», sotto la sua direzione l’editore boemo Pichler curò una collana di “Classici della Pedagogia” in diciotto volumi. Della sua vasta produzione, oltre a Das Problem des Glücks (1868), primo dei tre volumi recensiti da Labriola fra il 1870 ed il 1882, si ricordano: Lehrbuch der empirischen Psychologie als induktiver Wissenschaft (1858); Lehrbuch der formalen Logik nach genetischer Methode (1861), di cui Labriola recensì la quinta edizione (1881), vedi supra p. 1113; Einleitung in das Studium der Philosophie (1866); Ideen zur Psychologie der Gesellschaft als Grundlage der Sozialwissenschaft (1871), per la cui recensione ad opera di Labriola si veda supra pp. 887-907; Allgemeine Unterrichtslehre (1877); Allgemeine Erziehungslehre (1877). Il volume Grundriß der Pädagogik als Wissenschaft (1889) uscì postumo. 3 Tratto da «Zeitschrift für exacte Philosophie im Sinne des neuern philosophischen Realismus», vol. X, 1872, pp. 79-86. 4 Pánta rhēi: «tutto scorre», è la celebre formula che riassume la teoria eraclitea del “flusso” delle cose. L’espressione, quasi certamente riconducibile ad Eraclito, figura come tale, tuttavia, solo a partire dal commento alla Fisica (1313.11) di Simplicio (ca.490 - ca.560). 5

K. ROSENKRANZ, Hegel’s Naturphilosophie und die Bearbeitung derselben durch den italienischen Philosophen, Nicolaische Verlagsbuchhandlung, Berlin 1868. 6 Patriota e letterato, cugino di Giacomo Leopardi – che, ironizzando ne La Ginestra sulle «manigifiche sorti e progressive» del genere umano, ne citava la dedica anteposta all’edizione parigina degli Inni sacri (1832) – Terenzio Mamiani della Rovere (1799-1885) è da considerarsi figura emblematica della tradizione scolastica, impregnata di retorica ed eclettismo, che ancora caratterizzava l’insegnamento della filosofia nelle università italiane alla metà del XIX secolo. Tale indirizzo, anche nei suoi esiti vagamente idealistici, non può essere confuso, tiene a precisare Labriola, con la rinascita dell’idealismo intorno alla ricezione e rielaborazione di Hegel, che vede in Spaventa il suo massimo interprete. 7 Certo non paragonabili per spessore e fortuna critica a Spaventa, e nondimeno degni di nota, i tre autori qui menzionati risultano tutti legati, ma a diverso titolo, alla filosofia napoletana di metà Ottocento. Formatosi alla scuola del liberalismo antiborbonico degli anni Quaranta e sensibile alla lezione di De Sanctis, Floriano Del Zio (1831-1914) insegnò filosofia in vari licei d’Italia e da ultimo anche all’Università di Pisa, per poi dedicarsi all’attività politica. Legato tramite Francesco Fiorentino a De Sanctis, che gli procurò occasione di un soggiorno di studio in Germania, fu anche Pier Vincenzo De Luca (1835-1868), interprete di Hegel e attento alle questioni sociali, noto per alcune singificative traduzioni (tra cui quella della Scienza dell’idea logica dello stesso Rosenkranz), rimaste però inedite, e per la direzione del periodico di idee bakuniane «Libertà e giustizia». Allievo e fedele collaboratore di Vera, infine, Raffaele Mariano (1840-1912) fece proprio l’indirizzo hegeliano-ortodosso del maestro, aprendolo ad un’ancor maggiore considerazione del fenomeno religioso, che indagò anche sul terreno della ricerca storica. 8 Giurista per formazione, ma appassionato studioso di filosofia ed in particolare di estetica, di cui

ricoprì la prima cattedra istituita in Italia, Antonio Tari (1809-1884) studiò a Napoli negli stessi anni in cui vi si formavano De Sanctis e i fratelli Spaventa. Influenzato per un verso dall’hegelismo, per l’altro dalla scuola herbartiana, tra i suoi scritti figurano: Estetica ideale (1863), primo volume di una trilogia di cui ampi stralci apparvero postumi per opera di Croce; Ente, spirito e reale. Confessioni filosofiche (1872); Serietà e ludo: saggio critico (1879); Lezioni di estetica generale (1884) e vari saggi di critica musicale. 9

Quot verba, tot errores!: «quante le parole, tanti gli errori!». Rientrato in Italia nel 1860, dopo gli studi compiuti in Francia, dove fu allievo di Cousin, e l’attività

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d’insegnamento svolta in Francia e Svizzera, Augusto Vera (1813-1885) fu docente di Storia della filosofia all’Accademia di Scienze e di Lettere di Milano e, successivamente, all’Università di Napoli, dove proseguì il lavoro diffusione e commento dell’opera di Hegel. Fra gli scritti apparsi prima dell’Introduzione alla filosofia della storia (1869), si ricordano studi sulla logica e sulla filosofia della religione hegeliane, una Introduction à la philosophie de Hegel (1855), di cui una seconda edizione, rivista e ampliata, uscì nel 1864, ed il saggio An inquiry into speculative and experimental science, with special reference to Mr. Calderwood and Professor Ferrier’s recent publications, and to Hegel’s doctrine (1856), tradotto in italiano nel 1864 e pubblicato al termine di un soggiorno in Inghilterra che lo aveva visto impegnato nel completamento della traduzione francese dell’Encyklopädie der philosophischen Wissenschaften, apparsa fra il 1859 ed il 1869. 11 Cfr. la recensione anonima a R. MARIANO, Introduzione alla filosofia della storia, Le Monnier, Firenze 1869, in «Literarisches Centralblatt für Deutschalnd», 15, 2 Aprile 1870, pp. 394-395. 12 Nella dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (1770) Kant si serve dell’appellativo «filosofia dei pigri» per desginare l’innatismo, ovvero quella filosofia che «dichiara inutile ogni ulteriore indagine con l’appello alla causa prima»: I. KANT, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, trad. e note a cura di R. CIAFARDONE, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002, p. 45. Cfr. ID., Kleinere Vorlesungen und Erganzungen I, W. de Gruyter, Berlin 1980, p. 70. 13

La traduzione tedesca di Labriola, qui tradotta nuovamente in italiano, si distacca un po’ dall’originale di Vera, che recita testualmente: «Quanto poi all’altra determinazione, del rapporto cioè della filosofia della storia con la scienza in generale, si può dire che la filosofia della storia è la filosofia applicata alla storia. […] E in quella guisa che lo spirito filosofico, mirando all’essenze, ai principii delle cose, determina i principii che fanno intendere e che fanno le cose; similmente lo spirito filosofico storico, mirando a’ principii della storia, determina i principii che fanno intendere e che fanno la storia», anche A. VERA, Introduzione alla filosofia della storia cit., p. 14. 14

Per la precisione, nel testo di Vera si legge: «Fa appena bisogno dire che l’altro elemento fondamentale della storia è lo spirito», Ibidem, p. 95. 15 Come già osservava Dal Pane (Op III, p. 280 in nota), la frase qui riportata non costituisce una citazione letterale da Vera, quanto piuttosto una sintesi della seconda sezione della seconda parte del terzo capitolo (pp. 112-118), intitolata L’unità e i rapporti nella storia. Cfr. ad esempio, Ibidem, p. 115: «se havvi un’idea della storia, e se i vari momenti della storia sono manifestazioni di questa idea, questa idea, mentre è il principio, è quella che forma anche il nesso e i rapporti fra i vari momenti della storia». 16 «La storia tende ed aspira a realizzare la sua propria idea. Questa aspirazione genera il moto della storia. Muovendosi la storia in vista di un certo punto di perfezione assoluta, aggiunge sempre nuovi e replicati sforzi e va così senza posa sviluppando nuovi principii, nuovi interessi, nuovi bisogni, nuovi pensieri», Ibidem, p. 211. 17

«Osserviamo innanzi tutto che il pensiero non è una forma destituta di ogni contenuto, e che non è poi così vuoto come si crede. Al contrario, nulla havvi di più pieno e di più reale del pensiero, perché è desso che pensa i principii, e per ciò stesso la forma e la materia di ogni cosa; anzi gli pensa non solo, ma è questi

principii», Ibidem, p. 24. 18

«Lo storico non è imparziale in un senso razionale che essendo parziale, perché egli dev’essere parziale fino a un certo punto, se vuole essere uno storico», Ibidem, p. 8. 19 Tratto da «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», XXI, 12, dicembre 1872, pp. 971-989. 20 Su Gustav Adolf Lindner (1828-1887) vedi supra, nota 2. 21 G. A. LINDNER, Einleitung in das Studium der Philosophie, Gerold, Wien 1866; ID., Lehrbuch der formalen Logik, Gerold, Wien 18723 (prima ed.: 1861); ID., Lehrbuch der empirischen Psychologie als inductiver Wissenschaft, Gerold, Wien 18682 (prima ed.: 1858). 22 ID., Das Problem des Glücks, Gerold, Wien 1868. Per la recensione labrioliana, vedi supra pp. 23

Non si tratta di una citazione letterale, ma di una sintesi nel complesso fedele del pensiero dell’autore, cfr. G. A. LINDNER, Ideen zur Psychologie der Gesellschaft… cit., pp. 18-20. 24 Nata dall’incontro fra gli sviluppi della psicologia herbartiana ed il filone di studi linguistici e di mitologia comparata reso fecondo dalla lezione di Wilhelm von Humboldt (1767-1835), la Völkerpsychologie, “psicologia dei popoli”, conobbe, a partire dagli anni Sessanta del XIX secolo, una vasta fortuna, destinata ad avere esiti teorici fra loro diversi: non ultimo quello che vedrà nell’omonima opera di Wilhelm Wundt (1832-1920) l’atto di nascita della moderna psicologia sociale. Motivo originariamente ispiratore della Völkerpsychologie è l’intento di guardare alle diverse manifestazioni dello spirito oggettivo come all’espressione di un’anima collettiva, intesa come entità reale che si manifesta nelle diverse formulazioni culturali-nazionali. Tra i primi a dedicarsi attivamente alla disciplina, entrambi formatisi all’Università di Berlino e qui tornati come docenti rispettivamente dal 1863 e dal 1874, il filologo ed editore degli studi humboldtiani di lingustica, Sprachwissenschaftliche Werke (1884), Heymann Steinthal (1823-1899), e lo psicologo Moritz Lazarus (1824-1903) fondarono insieme, nel 1860, il periodico «Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft». Questa rassegna di studi faceva seguito al saggio pubblicato da Lazarus già nel 1850 Über den Begriff und die Möglichkeit einer Völkerpsychologie als Wissenschaft. Cfr. M. LAZARUS, Psicologia dei popoli come scienza e filosofia della cultura: scritti, a cura di A. MESCHIARI, Bibliopolis, Napoli 2008, 317 pp. 25 Tratto da «Nuova Antologia», XXVII, f. 9, settembre 1874, pp. 249-250. 26

Fedele seguace della filosofia di Herbart, che difese dalle critiche mosse da Friedrich Adolf

Trendelenburg (1802-1872), Hermann Kern (1823-1891) è noto soprattutto come divulgatore della pedagogia herbartiana. Dopo gli studi in matematica e filosofia, insegnò pedagogia ad Halle e Coburgo, dove, dal 1853 al 1856, diresse il periodico «Pädagogische Blätter». Il volume Grundriss der Pädagogik (1873) ebbe molta fortuna in Europa e fu uno dei canali con cui la pedagogia herbartiana si diffuse anche in Estremo Oriente: la quinta ed ultima edizione del testo uscì nel 1893. 27 Altro noto esponente della scuola pedagogica herbartiana, Tuiskon Ziller (1817-1882) fu dapprima studente e quindi docente di pedagogia all’Universtà di Lipsia. I suoi Grundlegung zur Lehre vom erziehenden Unterricht apparvero nel 1865 e, in una nuova edizione ampliata, nel 1884. 28

Tratto da «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», serie II, vol. III (XXXIII), f. 10, ottobre 1876,

pp. 410-414. 29 Di origini boeme, Wilhelm Fridolin Volkmann (1822-1877), noto anche con il titolo di Ritter von Volkmar, dopo gli studi in giurisprudenza si dedicò alla filosofia, appassionandosi, sotto la guida di Franz Serafin Exner (1802-1853), al pensiero herbartiano. Docente di estetica, successivamente di psicologia e filosofia, all’Università di Praga, dedicò la parte più rilevante della sua produzione scientifica alla psicologia e alla storia delle sue nozioni fondamentali. Il testo qui recensito, che conobbe più edizioni, costituisce in questo senso la sua opera più notevole.

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Labriola si riferisce verosimilmente a Grundriss der Psychologie nach genetischer Methode und vom Standpunkte des philosophischen Realismus, Fricke, Halle 1856, di cui l’opera qui recensita costituiva la seconda edizione, assai ampliata. Di Volkmann si ricorda però anche un precedente compendio di psicologia: ID., Die Lehre von den Elementen der Psychologie als Wissenschaft, Spurnn, Prag 1850. 31

Cfr. «The Westminster Review», 105, 1876, pp. 509sgg. Nell’opera Elemente der Psychophysik (1860), lo psicologo e studioso di statistica Gustav Theodor

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Fechner (1801-1887) elaborò un modello teorico secondo il quale il rapporto fra il livello psichico e quello fisico poteva essere ricondotto ad una precisa formula matematica, in grado di porre in relazione la portata fisica di un determinato stimolo con la percezione della sua intensità da parte del soggetto. La legge così formulata, che riprendeva analoghe osservazioni compiute dal fisiologo Ernst Heinrich Weber (1795-1878), è nota oggi come legge di Weber-Fechner. 33 Tratto da «Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche», a. III, vol. V, f. 1, febbraio 1877, pp. 150-154. 34 Il teologo e filosofo Jakob Frohschammer (1821-1893) fu tra le figure più significative della corrente liberale del cattolicesimo tedesco dell’Ottocento: studioso di storia del dogma, assertore della libertà di ricerca sia in ambito filosofico che scientifico a discapito dei limiti imposti dalla teologia dogmatica, la sua riflessione filosofica propone un rinnovamento della metafisica incentrato sul principio della come originaria forza creatrice, in contrapposizione sia con il meccanicismo materialista che con la tradizione scolastica. Fra i suoi scritti più significativi si ricordano, accanto all’opera qui recensita: Beiträge zur Kirchengeschichte (1850); Über den Ursprung der menschlichen Seelen (1854); Einleitung in die Philosophie (1858); Über die Aufgabe der Naturwissenschaft (1861); Das neue Wissen und der neue Glaube (1873); Monaden und Weltphantasie (1879); Über die Genesis der Menschheit und deren geistige Entwicklung in Religion, Sittlichkeit und Sprache (1883); Über die Organisation und Cultur der menschlichen Gesellschaft (1885). 35

Avversato per le sue teorie eterodosse già in seguito alla pubblicazione dei primi scritti, messi all’Indice dopo la fondazione a Monaco di Baviera della rivista «Athenæum», in cui aveva pubblicamente difeso l’autonomia della scienza dall’autorità ecclesiastica (recensendo favorevolmente, tra l’altro, l’opera di Darwin), Frohschammer andò incontro a più severe censure da parte della Chiesa di Roma. Ufficialmente condannato per alcune tesi «razionalistiche» da papa Pio IX nella lettera apostolica Gravissimas dell’11 dicembre 1862 – da cui scaturirono poi, come anche Labriola non manca di ricordare, le proposizioni IX, X e XI del Sillabo (1864) –, Frohschammer fu sospeso l’anno seguente dall’esercizio del ministero sacerdotale (a divinis), senza perdere, per questo, il sostegno e la solidarietà di molti allievi e della stessa monarchia bavarese. A seguito del suo pubblico rifiuto del dogma dell’infallibilità del Papa, sancito dal Concilio Vaticano Primo, nel 1871 gli fu infine comminata la scomunica. Se pesanti furono le ripercussioni che la condanna ecclesiastica ebbe sull’insegnamento teologico di Frohschammer, essa non lo distolse però dalla riflessione filosofica, che negli anni successivi risultò particolarmente intensa e feconda di pubblicazioni. 36 «Non omnes possumus omnia», letteralmente «non tutti possiamo tutto», è una citazione di Virgilio (Ecloga VIII, 63).

Dell’Insegnamento della Storia. Studio pedagogico 1 L’intenzione, che a questa data (1876) non trova riscontri nell’epistolario labrioliano, è confermata invece, due anni più tardi (luglio 1878), da uno scambio con l’editore Loescher, in cui si fa riferimento al progetto presentato dall’autore di un Manuale di Pedagogia, cfr. Carteggio, I, pp. 635-636. Nonostante l’interesse dichiarato dall’editore, l’idea non trovò realizzazione. Tre anni più tardi, il 28 settembre 1881, confidando a Francesco Fiorentino l’intenzione di metter mano a «qualche lavoro di lena» da proporre all’editore Morano, l’autore fa nuovamente riferimento all’eventualità di pubblicare «un manuale» (questa volta, si evince dalla lettera, su proposta dello stesso editore), ma dimostra di aver cambiato idea in proposito, dichiarandosi disponibile ad un lavoro così «noioso ed inglorioso», solo «a patto di fare un buon affare», cfr. Carteggio, II, pp. 13-14. Anche in questo secondo caso, il progetto era destinato a non avere seguito. 2 Derivata dal verbo greco ὁδηγέω, hodēghéō, “conduco, mostro la via”, in riferimento alla pedagogia, e in precedenza all’ambito della teologia morale, l’hodegetica indica quella parte della disciplina espressamente rivolta ad orientare nel concreto il comportamento degli educandi. In senso lato, hodegetica può alludere all’illustrazione di un metodo finalizzato a condurre in modo fruttuoso una determinata prassi, come ad esempio la consultazione di testi o lo studio di una disciplina complessa. 3 L’espressione materia subjecta, letteralmente “materia sottoposta”, in uso nella tradizione scolastica e giuridica, indica l’oggetto specifico di una trattazione o di una sentenza, ovvero ciò che s’intende discutere o disciplinare. 4 Dal latino exorabilis, “che si lascia vincere da preghiere”, l’aggettivo, ormai desueto (a differenza del suo derivato di significato contrario: inesorabile), è riferito a qualcosa di mutevole o flessibile, ad esempio la valutazione di un comportamento, quando questo sia soggetto all’azione della persuasione o all’influenza dei sentimenti. 5 Quinto sovrano della dinastia abbaside, Hārūn al-Rashīd (ca. 763-809) è il califfo ricordato ne Le mille e una notte per lo sfarzo, la fioritura artistica e culturale, che ne caratterizzarono la corte, come anche per la spietatezza usata ai danni della dinastia dei Barmecidi, a lungo fedeli funzionari (visir) del regno. 6 Pubblicato con il titolo di The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, il capolavoro di Daniel Defoe (1660-1731) apparve nel 1719, ottenendo da subito uno straordinario successo di pubblico. 7 Ex professo: dichiaratamente. 8

Vedi supra, nota 3.

Lezioni di Pedagogia 1 «Confesso subito di non aver alcun concetto di educazione senza istruzione; come pure, viceversa, almeno in questo scritto, io non riconosco alcuna istruzione che non educhi»: J. F. HERBART, Pedagogia generale dedotta dal fine dell’educazione, a cura di G. TAROZZI, Zanichelli, Bologna 1931, p. 14. Cfr. J. F. Herbarts sämtliche Werke, in kronologischer Reihenfolge, hrsg. von K. KEHRBACH und O. FLÜGEL. Neudruck der Ausgabe 1887, Aalen 1964, vol. II, p. 10. 2 Sappiamo quanto teniamo a memoria […] quanto siamo in grado di esprimere a parole. 3

La nota locuzione latina «historia magistra vitae» risale a Cicerone, che nel De oratore (II, 9, 36) definisce la storia «testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis»: «testimone dei tempi, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, rivelazione del passato», M. T. CICERONE, Dell’oratore, con un saggio introduttivo di E. NARDUCCI, BUR, Milano 1997, pp. 326-327. 4

Tra i massimi pedagogisti del XIX secolo, Friedrich Wilhelm August Fröbel (1782-1852) è noto per l’ideazione del Kindergarten, “giardino d’infanzia”: tra i primi tentativi di concepire una scuola d’infanzia basata sull’espressione dell’autonomia spirituale del bambino attraverso il gioco, l’interazione con gli adulti ed il contatto diretto con la natura. Nella sua opera più nota, Die Menschenerziehung (1826), rifacendosi alle riflessioni di Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827) sul valore della spontaneità e dell’intuizione, Fröbel teorizzò l’importanza di un’educazione che assecondi la spontanea attività umana ma anche la necessità di formare la mente del bambino attraverso una serie di oggetti, “doni”, che, inducendo la mente a combinare tra loro le forme geometriche fondamentali, ne sollecitino l’immaginazione e la creatività. 5 Vedi supra, nota 3. 6

«Est enim philosophia paucis contenta iudicibus, multitudinem consulto ipsa fugiens…»: «la filosofia è paga di pochi giudici, e di proposito evita la folla», Tusculanae Disputationes (II, 4), CICERONE, Opere morali, a cura di A. DI VIRGINIO e G. PACITTI, Mondadori, Milano 2007, pp. 164-165.

I problemi della filosofia della storia 1 L’edizione dell’Histoire romaine depuis la fondation de Rome jusqu’à la bataille d’Actium (1738-1748), fu intrapresa da Charles Rollin (1661-1741) in età ormai avanzata, una volta terminata la grandiosa impresa (tredici volumi) dell’Histoire ancienne (1730-1738): interrotta al quinto volume dalla morte dell’autore, l’opera fu condotta a termine da Jean-Baptiste-Louis Crevier (1693-1765). Altro grande classico della romanistica, la Römische Geschichte di Theodor Mommsen (1817-1903) apparve in tre volumi fra il 1854 ed il 1856. Grazie ad essa, nel 1902 il celebre storiografo e paleografo tedesco conseguì il premio Nobel per la letteratura alla sua seconda edizione. 2 Cfr. K. MARLO, Untersuchungen über die Organisation der Arbeit oder System der Weltökonomie, 4 voll., Appel, Kassel 1850-1857. Pseudonimo dell’economista Karl Georg Winckelblech (1810-1865), Marlo è menzionato da Labriola anche in una lettera ad Engels del 16 agosto 1894, che consente di individuare in Achille Loria, e in particolare nel suo scritto La teoria economica della costituzione politica (1886), il principale destinatario del riferimento polemico ad alcune riprese «di seconda mano» degli argomenti dell’economista tedesco: «Quando Loria pubblicò nel 1886 il suo libro su la teoria economica della costituzione politica ora rifatto in francese con altro titolo (Les Bases Économiques ecc.) non fu che un plagiario di Marlo, autore noto in tutta Italia forse a dieci persone soltanto se pure. E ciò gli fu detto da molti (Giornale degli Economisti ecc.)», Carteggio, III, pp. 436-437. 3

Per la definizione di filologia come Erkenntniss des Erkannten, «conoscenza del conosciuto», cfr. A. BOECKH, Encyklopädie und Methodologie der philologischen Wissenschaften, Teubner, Leipzig 1877, pp. 11, 18, 22, 52, trad. it.: La filologia come scienza storica: enciclopedia e metodologia delle scienze filologiche, a cura di A. GARZYA, Guida, Napoli 1987. Si noti che una seconda edizione dell’opera di Böckh, a cura di Ernst Bratuscheck e ancora per le edizioni Teubner, era uscita pochi mesi prima della Prelezione di Labiorla, nel 1886. Filologo classico, grecista e storico di grande fama, Philipp August Böckh (1785-1867) si dedicò alla filologia dopo l’incontro con Friedrich August Wolf (1759-1824), conosciuto nel 1803 all’Università di Halle-Wittenberg, dove si era recato per studiare teologia sotto la guida di Schleiermacher. Docente all’Università di Berlino e membro della Preußische Akademie der Wissenschaften, l’accademia delle scienze del re di Prussia, contribuì con la sua opera ad affermare una nuova idea di filologia, intesa non più come semplice “studio delle parole”, ma come conoscenza storica e testuale dell’antichità nel suo complesso. 4 Cfr. G. G. GERVINUS, Grundzüge der Historik, Engelmann, Leipzig 1837 (trad. it.: Lineamenti di istorica, a cura di M. MARTIRANO, Rubettino, Soveria Mannelli 1998); J. G. DROYSEN, Grundriss der Historik, Veit, Leipzig 1868 (trad. it.: Sommario di istorica, a cura di D. CANTIMORI, Sansoni, Firenze 1943). 5 Il riferimento alla nozione vichiana di filologia come «conoscenza del certo» rimanda alla Degnità X della Scienza Nuova, cfr. G. VICO, Opere, 2 voll., Mondadori, Milano 1990: vol. I, p. 498. L’idea wolfiana di «scienza dell’antichità» trova piena formulazione nel ciclo di lezioni pubblicate con il titolo Darstellung der Altertumswissenschaft nach Begriff, Umfang, Zweck und Werth, in «Museum der Alterthums-Wissenschaft», 1807, pp. 1sgg. Cfr. anche F. A. WOLF, Darstellung der Alterthumswissenschaft: nebst eine Auswahl seiner kleinen Schriften; und literarischen Zugaben zu dessen Vorlesungen über die Alterthumswissenschaft, Lehnhold, Leipzig 1833. 6 E. MORSELLI, La filosofia monistica in Italia, Dumolard, Milano-Torino 1887. Il saggio, letto da Labriola in estratto, apparve quello stesso anno sulla «Rivista di filosofia scientifica», s. II, VI, pp. 1sgg.

Scienziato e filosofo di origini modenesi, Enrico Morselli (1852-1929) fu tra le figura di punta della stagione positivistica in Italia. Docente di Psichiatria a Torino e Genova, direttore degli ospedali psichiatrici di Macerata e Torino, si fece promotore di importanti innovazioni nell’ambito della clinica delle patologie mentali. Fu autore di notevoli pubblicazioni scientifiche, come lo studio Il suicidio. Saggio di statistica morale comparata (1879) e il Manuale di semejotica delle malattie mentali (1885-1894). In ambito filosofico, il suo contributo maggiore è certamente legato alla direzione della «Rivista di filosofia scientifica», che, insieme alle altre pubblicazioni dei Fratelli Dumolard, costituì nel decennio 1881-1891 il principale riferimento editoriale del positivismo italiano. 7 La citazione, tratta dalla Prima Lezione del Corso di filosofia positiva, può essere tradotta così: «Per quanto mi riguarda, considero del tutto illusori questi tentativi di spiegazione universale della totalità dei fenomeni mediante un’unica legge», cfr. A. COMTE, Cours de philosophie positive, tome premier, Bachelier, Paris 1830, p. 53. 8 «Tutta la storia è zoologia!», l’espressione come tale non trova riscontro negli scritti di Schopenhauer, ma richiama immediatamente un passo del saggio Zur Metaphysik des Schönen und Aesthetik: «D’altro canto la storia potrebbe anche essere considerata come una continuazione della zoologia, in quanto, mentre per tutti gli animali basta prendere in considerazione la specie, per l’essere umano, invece, perché ha carattere individuale, dobbiamo studiare anche gli individui con gli avvenimenti individuali che li condizionano»: A. SCHOPENHAUER, Parerga e paralipomena, 2 voll., Adelphi, Milano 1998, vol. II, p. 591. 9 La possibilità d’individuare nelle caratteristiche dei capelli il criterio morfologico più idoneo per classificare quelle che allora erano ritenute le diverse razze umane fu sostenuta negli stessi anni da Ernst Haeckel (1834-1919), Natürliche Schöpfungsgeschichte (1868), e dal “mastino di Darwin”, Thomas Henry Huxley (1825-1895), che nel saggio On the geographical distribution of the chief modifications of Mankind (1870), corresse le osservazioni del collega tedesco, giungendo ad una classificazione che ebbe molta fortuna nell’ambito degli studi antropologici del tempo: cfr. ad esempio, G. CANESTRINI, Antropologia, Hoepli, Milano 1878. 10 Statista ed economista di fama, Albert Eberhard Friedrich Schäffle (1831-1903) si formò all’Università di Tubinga dove fu poi docente di Economia politica nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento. Nel 1871, divenne Ministro del Commercio dell’Impero austro-ungarico. Ben noto a Labriola (che lo richiama sovente, e sempre in tono polemico, nei primi due Saggi) per le sue critiche alla teoria di Marx e per la sua elaborazione di un socialismo in chiave cristiana e conservatrice, Schäffle è qui richiamato per la propria concezione organicistica, che mirava a spiegare il funzionamento della società in analogia con la fisiologia degli organismi viventi, finendo per legittimare una struttura gerarchica dei rapporti sociali ed economici in nome di un presunto Volksgeist, «spirito del popolo», che animerebbe e manterrebbe unito il corpo sociale. Cfr. a questo riguardo alcuni fra i principali scritti dell’economista tedesco, come E. F. SCHÄFFLE, Das gesellschaftliche System der menschlichen Wirthschaft: ein Lehr-und Handbuch der Nationalökonomie für höhere Unterrichtsanstalten und Gebildete jeden Standes, Laupp, Tübingen 1860 e ID., Bau und Leben des socialen Körpers: Encyclopädischer Entwurf einer realen Anatomie, Physiologie und Psychologie der menschlichen Gesellschaft mit besonderer Rücksicht auf die Volkswirthschaft als socialen Stoffwechsel, 4 voll., Laupp, Tübingen 1875-1878, entrambi tradotti in italiano e proposti rispettivamente come quinto e settimo volume della prestigiosa Raccolta delle più pregiate opere moderne italiane e straniere di economia politica diretta da G. Boccardo: ID., Il sistema sociale dell’economia umana, Unione Tipografico-editrice, Torino 1879; ID., Struttura del corpo sociale: saggio enciclopedico di una reale anatomia, fisiologia e psicologia della società umana con speciale riferimento all’economia sociale come scambio sociale di materia, 2 voll., Unione Tipografico-editrice, Torino 18811884.

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Contro la psicologia sociale di Gustav Lindner (1828-1887) e l’organicismo psicologistico di Schäffle, Labriola ribadisce qui la propria preferenza per l’opera di Heymann Steinthal (1823-1899) e Moritz Lazarus (1824-1903), opportunamente integrata, però, dalle osservazioni di Wilhelm Wundt (18321920) e dalla sua replica alle obiezioni più radicali mosse contro la Völkerpsychologie dal linguista Hermann Paul (1846-1921), cfr. H. PAUL, Principien der Sprachgeschichte, Niemeyer, Halle 1880 (la seconda edizione, utilizzata da Labriola, è del 1886) e W. WUNDT, Ueber Ziele und Wege der Völkerpsychologie, in «Philosophische Studien», IV, 1888, pp. 1-27. Per le differenze rilevate da Labriola fra la psicologia sociale e la «Psicologia de’ Popoli» di Steinthal e Lazarus, si rimanda alla recensione, qui ripubblicata, a G. A. LINDNER, Ideen zur Pscychologie der Gesellschaft cit., vedi supra, pp. 887-907. Sull’interesse labrioliano per la Völkerpsychologie e l’herbartismo, e sul dibattito Wundt-Paul, cfr. B. CENTI, Antonio Labriola: dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Dedalo, Bari 1984. 12

La necessità di rintracciare una legalità degli eventi umani a partire dal dato fattuale e positivo, nonostante il primato della «storia ideale», è un tratto caratteristico della filosofia della storia di Giuseppe Ferrari (1811-1876), filosofo e patriota, a lungo residente in Francia, dove venne a contatto con le teorizzazioni socialistiche di Proudhon e con il positivismo di Comte. Autore di un Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l’histoire (1843), in cui tenta di dare concreta attuazione al proprio ideale di descrizione, spiegazione e previsione degli eventi storici, dopo l’uscita dell’opera più nota La filosofia della Rivoluzione (1851), coincidente con la fine delle libertà repubblicane in Francia e il suo riavvicinamento all’Italia, Ferrari tornò ad occuparsi nuovamente di filosofia della storia in Teoria dei periodi politici (1874), nel tentativo di ricavare matematicamente dagli eventi storici una periodizzazione in grado di avere valore normativo e predittivo. È verosimile che Labriola si riferisca in particolare a quest’ultima fase della riflessione di Ferrari. 13 La nota offre un interessante spunto di autobiografia intellettuale: pur riconoscendo l’evoluzione della propria riflessione nei precedenti tredici anni trascorsi all’Università di Roma (la nomina a professore straordinario di Pedagogia e Filosofia morale risale al gennaio del 1874), l’autore rivendica la fedeltà all’idea herbartiana di metafisica come correzione (Berichtigung) e integrazione (Ergänzung) dei concetti, analisi e critica delle contraddizioni insite nell’esperienza piuttosto che, come avviene nell’idealismo, costruzione preventiva di sistemi onnicomprensivi ma non fondati nel reale. 14 Comunemente attribuito alla riflessione di Eusebio di Cesarea (265ca. - 340ca.), che intitolò così uno dei scritti apologetici più noti, il concetto di praeparatio evangelica, “preparazione al Vangelo”, esprime la convinzione che elementi del messaggio cristiano si trovino già parzialmente anticipati nella cultura pagana. 15 La celebre profezia dei “quattro regni”, adattata e riformulata più volte nei secoli come schema interpretativo per la storia universale (da ultimo, dallo stesso Hegel), risale al libro del profeta Daniele (2, 37-40), del II sec. a.C., in cui è legata all’idea dell’avvento dell’era messianica per il popolo ebraico. 16 Il riferimento è agli eventi narrati da Manzoni nel tredicesimo capitolo de I promessi sposi. 17

Del filosofo boemo Gustav Biedermann (1815-1890), accanto ad un primo studio su Alexander von Humboldt, Die spekulative Idee in Humboldts Kosmos (1849), si ricordano numerosi scritti volti a riformulare il sistema hegeliano ponendo al centro il tema della coscienza religiosa e della vita: Die Wissenschaftslehre (1856-1860); Philosophie als Begriffswissenschaft (1878-1880); Philosophie der Geschichte (1884) e Philosophie des Geistes (1886-1889). Al centro del pensiero di Conrad Hermann (1819-1897), professore di filosofia a Lipsia, è invece il tema linguaggio, nei suoi legami con la logica e la filosofia della storia: Philosophische Grammatik (1858); Das Problem der Sprache und seine Entwickelung in der Geschichte (1865); Die Sprachwissenschaft nach

ihrem Zusammenhange mit Logik, menschlicher Geistesbildung und Philosophie (1875). Dell’italiano Augusto Vera (1813-1885), fra i più attivi esegeti del pensiero hegeliano nell’ambito dell’idealismo meridionale, è plausibile, infine, che Labriola abbia qui in mente l’Introduzione alla filosofia della storia (1869), già duramente critica nella recensione del 1872. 18

Vedi supra, pp. 876-887. Il rischio che «storie generali della civiltà» facciano propri pregiudizi o prospettive parziali induce qui

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l’autore ad affiancare idee e teorizzazioni anche molto distanti fra loro, come l’idea di una missione specifica della nazione italiana nel pensiero Giuseppe Mazzini (1805-1872), la nota tesi di Vincenzo Gioberti (1801-1852) affidata a Del primato morale e civile degli italiani (1843) e la centralità che il destino del popolo tedesco, o del “mondo germanico”, assume nella filosofia classica tedesca. 20 Esperto di filologia e letterature del Medio Oriente, Ernest Renan (1823-1892) dedicò allo studio e all’interpretazione della cultura semitica, ebraica ed islamica, opere di assoluto rilievo, come Averroës et l’averroïsme (1852), l’Histoire générale et systèmes comparés des langues sémitiques (1855) e gli Études d’histoire religieuse (1857). Coeva alla Prolusione labrioliana è poi l’uscita del primo dei cinque volumi dell’Histoire du peuple d’Israël (1887-1893). L’interesse di Labriola per l’ambito di studi praticato da Renan, più che per i risultati da questi ottenuti (cfr. l’ironia sprezzante con cui vi si riferisce in A. LABRIOLA, La politica italiana nel 1871-1872: corrispondenze alle Basler Nachrichten, Bibliopolis, Napoli 1998, p. 169, come anche nel Discorrendo, supra, p. 1419), è confermata dallo spazio che la «storia delle due razze semitica ed ariana», la «caratteristica dei Semiti» e la storia del popolo ebraico trova nel programma per un corso di Filosofia della storia inviato al Rettore dell’Università di Napoli in occasione del conseguimento della libera docenza in Filosofia (agosto 1871), cfr. L. DAL PANE, Antonio Labriola: la vita e il pensiero, Edizioni Roma, Roma 1934, p. 507. 21 Vedi supra, pp. 563, 649-655. Ma cfr. anche I problemi della filosofia della storia, supra, p. 1082. 22

L’idea che il progresso umano sia da attribuirsi al progredire dell’attività intellettuale, piuttosto che allo sviluppo morale costantemente vanificato dalla costituzione passionale degli individui, è uno dei principi che ispirano l’ampia introduzione teorica che lo storico inglese Henry Thomas Buckle (1821-1862) antepose alla sua History of civilization in England (1857-1861), rimasta incompiuta, dopo l’uscita del secondo volume, per la prematura scomparsa dell’autore. 23 Un ampio stralcio della tesi presentata da Labriola, e ricavata da materiali inediti (verosimilmente appunti preparatori), fu pubblicato a suo tempo da L. DAL PANE, Antonio Labriola: la vita e il pensiero cit., pp. 113-123, che in appendice riproduce anche, con il titolo Appunti della lezione “Esposizione critica della dottrina di Vico” (1871), uno schema inedito della lezione su Vico: cfr. Ibidem, pp. 508-510, e pp. 125-128, dove è riportato un altro inedito di argomento vichiano. 24 «So geht auf allen Gebieten des Lebens das römische Wesen in Trümmer; aber das Gute, welches an demselben sich findet, wird nicht verloren. So versunken die Epoche ist, so hoch bedeutsam ist sie. Alte Keime werden in einen neuen Boden gesenkt und harren ihrer Auferstehung. Bei manchen bedarf es einer Reihe von Jahrhunderten, ehe sie zu neuem Leben erweckt werden. Aber wie die Weizenkörner aus den ägyptischen Gräbern noch nach Jahrtausenden Früchte bringen, so werden immer mehr von diesen Keimen durch günstige Zeitverhältnisse belebt, und wahre Humanität verbindet sich mit den Wahrheiten des Christentums zu einem Kulturideale, um dessen volle Erreichung sich noch künftige Zeiten zu bemühen haben»: Cfr. H. SCHILLER, Geschichte der römischen Kaiserzeit, Zweiter Band, Perthes, Gotha 1887, p. 475.

Del Socialismo 1

L’immagine del guscio d’uovo infranto, simbolo della “seconda nascita” dell’iniziato e della liberazione dalla ruota delle esistenze, è ricorrente nelle fonti buddiste. Cfr. ad esempio Suttavibhanga, Pârâjika I, 1, 4: «Quando una gallina ha deposto delle uova – disse il Budda –, otto o dieci o dodici, e questa gallina vi si è seduta sopra e le ha tenute al caldo e le ha covate a sufficienza; quando dunque uno dei pulcini, il primo, con la punta della sua zampa o con il becco spezza il guscio ed esce felicemente dall’uovo, come chiameremo questo pulcino, il più vecchio o il più giovane? – Lo si chiamerà il primogenito, venerabile Gotama, giacché è il più vecchio di tutti. Allo stesso modo, o bramino, tra gli esseri che vivono nell’ignoranza e sono come chiusi e imprigionati in un uovo, io l’uovo l’ho infranto, ho infranto il guscio dell’ignoranza e solo al mondo ho ottenuto la felice, l’universale dignità di Budda». Cfr. M. ELIADE, Immagini e simboli: saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca Book, Milano 1981, p. 72. 2

Poeta e tipografo romano, Pietro Mandré (1858-1938) fu molto attivo nel nascente movimento operaio

italiano. Dirigente sindacale dell’Associazione degli operai tipografi italiani e membro della Federazione operaia socialista dal 1888, nel 1889 contribuì a fondare il Circolo operaio di studi sociali. Fu tra gli organizzatori delle prime manifestazioni italiane in occasione del Primo maggio (1890-1891), osteggiate dal governo e teatro di violenti scontri con la polizia, e firmatario dell’Indirizzo di saluto alla socialdemocrazia tedesca (ottobre 1890) redatto da Labriola a nome del Partito operaio italiano. Del suo fecondo rapporto con Labriola sono testimonianza la lettera di quest’ultimo, pubblicata sul periodico «La Capitale» del 13-14 aprile 1890, e le prefazioni labrioliane a Poesie di un proletario (1892) e Poesie sociali (1900). Affetto da problemi di salute e provato dalle difficili condizioni economiche, Mandré trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita in un ricovero, da dove tuttavia, grazie all’interessamento di alcuni amici, poté pubblicare ancora la raccolta Rime di redenzione (1935). 3

Così recita il testo della Vulgata: «Pauper et oppressor obviaverunt sibi, utriusque oculorum

illuminator est Dominus» (Liber proverbiorum, 29, 13), «il povero e l’oppressore s’incontrano in questo: è il Signore che illumina gli occhi di tutti e due» (trad. it. CEI 2008). 4 Il riferimento è evidentemente al titolo dell’opera di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère (1846), contro cui Marx pubblicherà la sua Misère de la philosophie. Réponse a la philosophie de la misère de M. Proudhon (1847). È significativo che a questa data Labriola dimostri di conoscere il testo di Proudhon ma non faccia cenno alla replica di Marx, che, racconterà nella seconda lettera del Discorrendo, dovette cercare a lungo prima di entrare in possesso di una copia del libro, vedi supra, p 1401. 5

L’autore allude ad alcuni degli eventi cruciali della Rivoluzione francese: la costituzione della Garde Nationale al comando di Gilbert du Motier de La Fayette (1757-1834), il 15 luglio 1789; l’assalto al Palazzo delle Tuileries, il 10 agosto 1792, e la decapitazione di Luigi XVI, il 21 gennaio 1793; l’arruolamento in massa di forze contadine disposto dalla Convenzione Nazionale dopo la sconfitta di Verdun (settembre 1792) e confermato, con l’istituzione della coscrizione obbligatoria, dal Direttorio e dalla successiva riforma dell’esercito realizzata da Napoleone. 6 Il riferimento è al sanguinoso epilogo della Rivoluzione scoppiata a Parigi nel febbraio del 1848 – la feroce repressione della rivolta operaia alla fine di giugno del 1848, cui seguirono, con la nascita del governo Cavaignac, la chiusura dei club politici e forti limitazioni alla libertà di stampa – e a quello, ancor più tragico, dell’assedio e della capitolazione, nel maggio del 1871, della Commune parigina, nata dopo la proclamazione della Repubblica (4 settembre 1870).

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Protagonista dell’omonima commedia (1872), Rabagas è un mediocre avvocato che tenta l’avventura politica organizzando un’insurrezione nello Stato di Monaco. Nelle intenzioni del suo creatore, il drammaturgo francese Victorien Sardou (1831-1908), egli incarna la demagogia e l’incoerenza di quei rivoluzionari che, ottenuto l’appoggio delle masse con ogni genere di promessa, antepongono presto agli impegni assunti i propri interessi personali. 8 Per comprendere il riferimento alla critica dei limiti insiti nella concezione liberale, e la relativa datazione al 1873, è bene rileggere quanto l’autore scrive in Della libertà morale, vedi supra, pp. 667-670. Quanto al 1879 come data del presunto approdo di Labriola alle idee socialiste, è più difficile offrire riscontri diretti (ovvero che prescindano dalla ricostruzione del proprio itinerario intellettuale, su cui l’autore tornerà più volte negli anni successivi). Risale al 1879 il viaggio in Germania, compiuto con l’incarico ministeriale di studiare il sistema scolastico tedesco ma anche, non vi è motivo di dubitarne, occasione per un aggiornamento delle letture e per nuove acquisizioni bibliografiche. È noto, d’altro canto, che in quello stesso periodo Labriola ebbe modo di approfondire per i propri corsi universitari gli studi di diritto pubblico, diritto amministrativo ed economia politica, cui in diverse occasioni ricondurrà il proprio passaggio da un «socialismo non cosciente» (risalente al 1873) ad un consapevole «socialismo teorico». Cfr. ad esempio, la lettera ad Engels del 3 aprile 1890 e quella a Turati del 5 settembre dello stesso anno: Carteggio, III, pp. 25-29 e 58-62.

Recensioni (1881-96) 1

Tratto da «La Cultura: rivista di scienze, lettere ed arti», I, 1, 1 ottobre 1881, pp. 38-40. Sono scarse le notizie a disposizione intorno a Tommaso Traina, giurista di origini siciliane e

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appassionato cultore di evoluzionismo e filosofia positivistica, attivo fra gli anni Sessanta ed Ottanta del XIX secolo. Fu libero docente di diritto civile all’Università di Palermo e, fra il 1871 ed il 1874, all’Università di Bologna; successivamente si trasferì Torino, come libero docente di quell’Ateneo e professore di Diritto privato ed Etica civile al Regio Istituto Tecnico. Fra gli altri titoli a lui riconducibili figurano, accanto ad alcuni scritti di carattere tecnico-giuridico come La legislazione mineraria in Italia (1873) e Le servitù legali sulle acque (1873), saggi di argomento filosofico: Del sistema positivo nella classificazione e nei metodi delle scienze (1880); Saggio dei principali sistemi da Grozio a’ nostri giorni (1880); La dottrina della evoluzione (1881); Dati positivi nell’evoluzione del diritto (1882). 3

H. SPENCER, Le basi della morale, Dumolard, Milano 1881. Si tratta della traduzione italiana, apparsa nella Biblioteca Internazionale dei Fratelli Dumolard, dei Data of Ethics (1879) che, nel Sistema di filosofia sintetica ideato da Spencer, avrebbero dovuto costituire la prima parte dei Principles of Morality, successivamente denominati Principles of Ethics, le cui restanti cinque parti apparvero fra il 1891 ed il 1892. L’edizione italiana è preceduta da un saggio dello psicologo ed antropologo Giuseppe Sergi, che è anche il traduttore del testo. Originario di Messina, docente all’Università di Bologna, poi alla Sapienza di Roma, Giuseppe Sergi (1841-1936), fondò nella Capitale un laboratorio di psicologia sperimentale e la Società Romana di Antropologia. Fu tra le figure di scienziato e intellettuale più notevoli nella stagione del positivismo e del tardo-positivismo italiano. Di lui si ricordano, tra gli altri scritti, Principi di psicologia sulla base delle scienze sperimentali (1873); Teoria fisiologica della percezione: introduzione allo studio della psicologia (1881); Varietà umane: principi e metodo di classificazione (1892); L’uomo secondo le origini, l’antichità, le variazioni e la distribuzione geografica: sistema naturale di classificazione (1911). 4

Tratto da «La Cultura: rivista di scienze, lettere ed arti», I, 7, 1 febbraio 1882, pp. 296-297. La prima edizione dell’opera di Lindner risale al 1861. 5 G. A. LINDNER, Einleitung in das Studium der Philosophie, Gerold, Wien 1866; ID., Lehrbuch der empirischen Psychologie als inductiver Wissenschaft, Gerold, Wien 18682 (il titolo della prima ed. era diverso: Lehrbuch der empirischen Psychologie nach genetischer Methode, Wiesner, Graz 1858); ID., Allgemeine Erziehungslehre. Lehrtext zum Gebrauche an den Bildungs-Anstalten für Lehrer und Lehrerinnen, Pichler, Wien 1877. Al momento della stesura della recensione di Labriola, solo di quest’ultimo testo era disponibile una traduzione italiana (Loescher, Torino 1879); del secondo, uscì una traduzione quello stesso anno (Pasqualis e Caspani, Fano 1882). Sulla figura di Gustav Lindner, vedi supra, nota 2. p. 1744. 6 Tratto da «Rivista critica delle scienze giuridiche e sociali», I, 3, marzo 1883, pp. 86-90. 7

Friedrich von Bärenbach è lo pseudonimo adottato da Frigyes Medveczky (1856-1914), filosofo e pedagogo di origine ungherese, docente all’Università di Budapest dal 1882 e Presidente della Società Filosofica Ungherese dal 1912. Fra gli scritti in lingua tedesca, tutti pubblicati con il medesimo pseudonimo, figurano: Herder als Vorgänger Darwin’s und der modernen Naturphilosophie: Beiträge zur Geschichte der Entwickelungslehre im 18. Jahrhundert (1877); Das Problem einer Naturgeschichte des Weibes (1877); Prolegomena zu einer anthropologischen Philosophie (1879). A questi si aggiungono

volumi ed articoli in lingua ungherese, firmati dall’autore con il proprio nome: A nemzetközi jog elmélete Kant philosophiája szerint (1881); Társadalmi elméletek és eszmények: kritikai adalékok a társadalmi eszmék fejlődéstörténetéhez (1887); A római stoicismus társadalmi elméletei. Adatok a társadalmi és jogbölcseleti eszmék történetéhez (1913). 8

Esponenti della cosiddetta seconda generazione della “scuola storica tedesca”, Adolf Held (1844-

1880) e Gustav Friedrich von Schmoller (1838-1917), docenti rispettivamente all’Università di Bonn il primo, di Halle e di Strasburgo il secondo, infine entrambi all’Università di Berlino, sono sovente menzionati come esponenti della scuola dei Kathedersozialisten, “socialisti della cattedra”, fautori, sulla base di considerazioni teoriche ed osservazioni empiriche, di un programma di riforme volto a migliorare la condizione della classe lavoratrice e a limitare le conseguenze socialmente più negative dello sviluppo capitalistico. Economista, dedito in particolare allo sviluppo delle scienze statistiche, fu anche Friedrich Wilhelm Hans von Scheel (1839-1901), docente di Economia pubblica, Finanza e Statistica all’Università di Berna, successivamente funzionario del Kaiserliches Statistisches Amt, il Centro di studi statistici dell’amministrazione imperiale tedesca. 9 Il nome di Lassalle, sovente richiamato polemicamente da Labriola negli anni successivi (cfr. ad esempio Carteggio, III, p. 216), accompagna in questo caso la prima menzione nell’opera labrioliana del nome di Marx. Entrato in contatto con quest’ultimo e con Engels in occasione dei moti rivoluzionari del 1848, Ferdinand Lassalle (1825-1864) rimase in contatto con loro, nonostante alcuni motivi di divergenza teorica, fino al 1863. In quell’anno Lassalle fondò l’Associazione degli operai tedeschi (Allgemeiner Deutscher Arbeitverein) proponendosi di non ostacolare il processo di unificazione tedesca, ma di indirizzare la Germania, attraverso lo strumento del suffragio universale maschile, verso il primato della classe operaia ed una politica sociale attenta a tutelare gli interessi del proletariato. La scelta non fu condivisa da Marx, che anni dopo, nella lettera nota come Critica al programma di Gotha (1875), ribadì la ragioni del proprio rifiuto del progetto socialdemocratico cui il nome di Lassalle era ormai indissolubilmente legato. 10 Accomunati da una formazione liberale, dall’iniziale simpatia per Bismarck e per la sua politica antisocialista, Bamberger e Treitschke si differenziarono, dopo il 1878, per il giudizio relativo alla politica economica e al progetto coloniale del Cancelliere. A lungo in esilio a causa della sua partecipazione ai moti del 1849 nel Palatinato e nel Baden, Ludwig Bamberger (1823-1899) rientrò in Germania grazie all’amnistia del 1866, forte della fama guadagnata sul campo come esperto del mondo bancario e della finanza internazionale. Tra i fondatori, nel 1870, della Deutsche Bank, la sua convinta adesione ai principi del liberalismo e del libero mercato lo posero in rotta di collisione con la svolta protezionistica della politica economica del Cancelliere e ad abbandonare, poco dopo, le fila del partito nazional-liberale per aderire al gruppo dei “secessionisti”. Storico e studioso di scienze politiche, Heinrich von Treitschke (1834-1896) aderì progressivamente a idee nazionalistiche, spingendosi a sostenere una teoria sua basi razziali, ispirata al darwinismo sociale, dei destini della Germania. Fu un convinto sostenitore della necessità di mantenere separate la sfera della società civile, caratterizzata dall’intraprendenza borghese, e quella dello Stato, concepito ancora come appannaggio quasi esclusivo del ceto aristocratico. 11 Bruno Hildebrand (1812-1878), fra i padri della “scuola storica” dell’economia tedesca, si distinse per la critica dell’economia classica e in particolare delle teorie di David Ricardo. Nel 1848 pubblicò l’opera Die Nationalökonomie der Gegenwart und Zukunft e nel 1863 fondò i «Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik». Alla “scuola storica” fa capo anche Friedrich List (1789-1846): docente e giornalista dall’ingegno assai versatile, ricoprì la carica di Console statunitense in Germania. La sua critica in senso pragmatistico dell’economia classica, tale per cui la ricchezza nazionale non può essere valutata che mediante un’analisi complessiva delle forze personali, sociali e materiali che la determinano, è affidata, in particolare, allo

scritto Das nationale System der politischen Ökonomie (1841). 12

Su Albert Eberhard Friedrich Schäffle (1831-1903) si veda supra, nota 10, p. 1752. Nella sua opera Gedanken über die Socialwissenschaft der Zukunft (1873-1881),

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apparsa originariamente in russo nel 1872, lo statista e sociologo russo Paul von Lilienfeld (1829-1903), sviluppava la propria teoria organicista della società, in cui gli individui corrispondono alle cellule e la scienza sociale è ricondotta alla fisiologia, idea ribadita anche nello scritto Die sociale Physiologie (1879). 14

Rampollo di un’importante famiglia cattolica tedesca, l’economista Lujo Brentano (1844-1931), noto

anche come Ludwig Joseph Brentano, è solitamente ascritto alla “nuova scuola storica” degli economisti tedeschi e al cosiddetto “socialismo della cattedra”. Docente nelle Università di Varsavia, Strasburgo, Vienna e Lipsia, infine per molti anni a Monaco di Baviera, dopo la sconfitta del 1918 e la rivoluzione contro la monarchia bavarese, fu per breve tempo Ministro del Commercio nel governo presieduto da Kurt Eisner. È noto come uno dei primi teorici di un’economia sociale di mercato. 15 Originariamente influenzato dalla scuola herbartiana ma presto critico nei suoi riguardi, Friedrich Albert Lange (1828-1875) è l’autore della celebre Geschichte des Materialismus (1866) ispirata alle tesi neo-kantiane. È noto anche come economista, pedagogo e militante socialista. Insegnò filosofia a Colonia, Bonn e Duisburg; successivamente a Zurigo e Marburgo, dove fu maestro, fra gli altri, di Hermann Cohen. Vicino alle posizioni politiche di Ferdinand Lassalle, condivise con lui, fra il 1864 ed il 1866, la dirigenza dell’Associazione dei lavoratori tedeschi. Fra i suoi scritti di economia e di teoria sociale, il più rilevante è sicuramente Die Arbeiterfrage in ihrer Bedeutung für Gegenwart und Zukunft (1865). 16

Adolph Samter (1824-1883), banchiere, editore ed economista di idee socialiste, legato alla scuola “storica”, fu autore di studi di teoria sociale come Social-Lehre: Ueber die Befriedigung der Bedürfnisse in der menschlichen Gesellschaft (1875); Gesellschaftliches und Privat-Eigenthum als Grundlage der Socialpolitik (1877); Das Eigenthum in seiner sozialen Bedeutung (1879). 17 Nel saggio De la propriété et des ses formes primitives (1874), l’economista belga Émile Louis Victor de Laveleye (1822-1892), conosciuto anche per i suoi studi sul bimetallismo e per l’opera di divulgazione delle scienze economiche, formulò una propria teoria sulle origini comunitarie della proprietà che incontrò, fra gli altri, l’attenzione di Rosa Luxemburg. Docente di economia politica all’Università di Liegi, appassionato studioso di storia, nel 1873 fu tra i cofondatori dell’Istituto di diritto internazionale: fra i suoi scritti si ricordano anche Le Protestantisme et le catholicisme dans leurs rapports avec la liberté et la prospérité des peuples (1875) e Le socialisme contemporain (1881). 18

Economista e studioso di finanza pubblica, figlio del celebre fisiologo Rudolf, Adolph Wagner (18351917) fu tra le figure di punta del movimento dei “socialisti della cattedra” e teorico dello Staatssozialismus: un socialismo di Stato che prevedeva un consistente intervento statale nell’economia nazionale a salvaguardia della giustizia sociale. Professore di etnografia, geografia e statistica all’Università di Tartu, in Estonia, rientrato in Germania sulla scorta dell’entusiasmo per il processo di unificazione tedesca incarnato da Bismarck, insegnò a Friburgo e, dal 1870, a Berlino. Su Rudolf Ihering, vedi infra, nota 20. 19 Tratto da «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», serie II, XLV, 12, 15 giugno 1884, pp. 754757. Si noti che il fascicolo, probabilmente per un equivoco in sede di composizione tipografica, riporta in modo erroneo il nome dell’autore recensito, trascritto nel titolo della recensione e per due volte nel corpo dell’articolo come “Thering”. 20 Le due parti di Der Zweck im Recht apparvero rispettivamente nel 1877 e nel 1883: il testo recensito da Labriola comprende pertanto il secondo volume, fino ad allora inedito, e l’edizione riveduta del primo (1884). L’autore, Rudolf von Ihering (1818-1892) – la forma “Jhering” non è però infrequente –, dopo la laurea in giurisprudenza conseguita ad Heidelberg, insegnò a lungo Diritto romano in alcuni fra i maggiori atenei europei. Legato in un primo momento alla scuola della pandettistica tedesca, lo studio del diritto

romano lo condusse, a partire dall’opera Geist del römishen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung (1852-1865), ad elaborare una concezione del diritto in cui l’elemento naturale e sociologico acquista un peso sempre crescente rispetto alla dimensione puramente concettuale. Nel 1872, lasciando dopo quattro anni la cattedra di diritto romano a Vienna, e apprestandosi a ricoprire quella di Göttingen, lesse come lezione di commiato la dissertazione Der Kampf ums Recht, che conobbe un enorme successo in tutta Europa e numerose traduzioni (quella italiana fu curata da Raffaele Mariano nel 1875): in essa Ihering poneva la nozione di diritto in relazione al valore sociale della persona, riaffermando la centralità della legge e dello strumento coercitivo nella tutela del diritto individuale. Der Zweck im Recht, apparso pochi anni dopo, contribuì a definire ulteriormente l’impostazione sociologica della teoria iheringhiana del diritto, in relazione al problema del fine. Con Das Trinkgeld (1882), definitivamente superata l’idea di un fondamento idealistico del diritto, l’autore sposava infine la prospettiva naturalistica del darwinismo sociale. Fra gli scritti di Ihering figurano anche Des Schuldmoment im römischen Privat-recht (1867) e Scherz und Ernst in der Jurisprudenz (1885). 21

Cfr. F. DAHN, Die Vernunft im Recht: Grundlagen der Rechtsphilosophie, Janke, Berlin 1879. Tratto da «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», serie II, L, 6, 15 marzo 1885, pp. 374-375. Dal frontespizio del volume di Zimmermann – questo il titolo completo: Die wonne des leids: Beiträge zur Erkenntniss des menschlichen Empfindens in Kunst und Leben [La voluttà del dolore: contributi alla 22

conoscenza del sentire umano nell’arte e nella vita] – si ricava che quella apparsa a Lipsia nel 1885 è una «seconda edizione rimaneggiata». Non è stato possibile, tuttavia, individuare un’edizione precedente. 23 Per una valutazione labrioliana della filosofia di Hartmann si rimanda al secondo paragrafo de L’Università e la libertà della scienza (supra, p. 1594), in cui la riflessione del filosofo è inserita, accanto a quella di Nietzsche, fra le «filosofie di privato uso ed invenzione» (la formula è ripresa alla lettera nella lettera VII del Discorrendo, vedi supra, p. 1419) Più articolato il giudizio su Schopenhauer, i cui scritti sono ben presenti a Labriola fin dagli anni del saggio su Spinoza e di Della libertà morale e di cui, ciononostante, la lettera VIII del Discorrendo fornirà un ritratto impietoso: «piccolo borghese, meschino e dispettoso, anzi ringhioso», fautore di una contraddittoria «religione dell’ateismo» (supra, p. 1467). 24 Originario della Slesia, ma formatosi nelle Università di Breslavia e Lipsia, Oswald Zimmermann (1859-1910) fu redattore capo della «Deutsche Reform» di Dresda e, dal 1887, del «Deutsche Wacht», organo del movimento nazionalista in Sassonia, da lui fondato e diretto. Membro fondatore del Partito Riformatore Tedesco (Deutsche Reformpartei), da subito caratterizzato per le sue posizioni antisemite, fu eletto deputato al Reichstag dal 1890 al 1898, e nuovamente dal 1904 al 1910, fra le fila dell’estrema destra. Fra le sue pubblicazioni, accanto ad una riedizione delle Griechische Heroengeschichten (1875) di Barthold Georg Niebuhr (1776-1831), figurano scritti in difesa dell’antisemitismo, come Die nationalen und sozialen Aufgaben des Antisemitismus (1890), e svariati opuscoli politici. 25

Tratto da «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», serie II, L, 8, 15 aprile 1885, pp. 767-769. August Antinous Rauber (1841-1917) è noto per i suoi studi di anatomia ed embriologia, dove fu tra i

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primi ad applicare in modo sistematico il criterio filogenetico. Addottoratosi in Medicina a Monaco nel 1865, lavorò presso i gabinetti anatomici delle Università di Basilea e Lipsia prima di diventare, del 1886, docente di Anatomia umana all’Università di Dorpat, l’odierna Tartu, in Estonia. L’opera Urgeschichte des Menschen: ein Handbuch für Studirende, apparsa a Lipsia in due volumi, nel 1884, conobbe un’unica edizione. Fu seguita, l’anno successivo, da un nuovo volume sull’evoluzione dell’umanità primitiva: Homo sapiens ferus: oder Die Zustände der Verwildertrn und ihre Bedeutung für Wissenschaft, Politik und Schule (1885). A questi titoli si affiancano numerosi scritti di embriologia ed anatomia, fra cui un celebre Lehrbuch

der Anatomie des Menschen (1886), più volte ristampato. 27

Evemerismo, dal nome del filosofo greco Evemero (IV-III sec. a.C.), al cui Sacro Racconto (Hierà anagraphē) si è soliti ricondurre la prima formulazione di quest’idea, è il nome di quella teoria che interpreta le divinità come il frutto di una progressiva idealizzazione di figure umane, fornendo così una chiave di tipo storico-derivazionista per comprendere l’origine delle diverse tradizioni religiose. Diverso l’approccio adottato nel XIX secolo dalla mitologia comparata (cfr. ad esempio le ricerche del tedesco Friedrich Max Müller), che poneva piuttosto l’accento sul legame fra mitologia e linguaggio, individuando nel comune funzionamento della mente umana, e nella sua capacità idealizzare la realtà sotto forma di metafore, il terreno comune alle religioni dei popoli antichi. 28 Tratto da «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», serie II, L, 8, 15 aprile 1885, pp. 772-775. 29

Geografo ed etnografo, Friedrich von Hellwald (1842-1892) lasciò la nativa Padova a sedici anni, per arruolarsi nell’esercito asburgico. Reduce dalla guerra austro-prussiana del 1866, trovò impiego come redattore dapprima della «Österreichischen Militärischen Zeitschrift» di Vienna, quindi della rivista «Das Ausland» di Stoccarda, che dovette però abbandonare, nel 1881, per l’accusa di materialismo e per la sua adesione all’evoluzionismo. Abile divulgatore e autore di libri di viaggio che riscossero grande successo, la sua opera risulta caratterizzata dal paradigma razziale e da una lettura della storia della cultura fortemente ispirata al cosiddetto “darwinismo sociale”. Fra i suoi scritti più noti, la «Storia della Civiltà» – Kulturgeschichte in ihrer natürlichen Entwicklung bis zur Gegenwart (1875) – ricordata anche in Del materialismo storico per la sua «fraseologia darwiniana» (vedi supra, p. 1761), alla pubblicazione della presente recensione aveva da poco conosciuto la sua terza edizione ampliata (2 voll., Stoccarda, Spemann 1884), mentre Die Erde und ihre Völker. Ein geographisches Hausbuch (1877-1878; la terza ed., ampliata, apparve per l’editore Spemann nel 1883) restava la sola opera tradotta in italiano per mano di Gustavo Strafforello (1820-1903): La terra e l’uomo. Geografia universale, 2 voll., Loescher, Torino 1878-1880 (nuova ed. in 3 voll., Loescher, Torino 1885-1886). L’edizione della Storia della civiltà nel suo naturale svolgimento fino al presente, intrapresa dall’editore Donath di Genova nel 1887, si arresterà dopo l’uscita del primo fascicolo. 30 I due volumi (X-500 e VI-600 pp.), apparsi per i tipi dell’editore Spemann, recano illustrazioni del pittore, fotografo e scrittore tedesco Franz Keller-Leuzinger (1835-1890), appassionato di etnografia e noto per la sua esplorazione dell’Amazzonia. 31 Fra gli argomenti addotti da S. MICCOLIS, Antonio Labriola collaboratore della «Nuova Antologia» cit., p. 765, a sostegno della paternità labrioliana della recensione è una lettera del 30 maggio 1885, con cui, in riferimento alla «proposta» avanzata da Labriola, l’editore Loescher comunicava di non poter assumere «alcun impegno per la pubblicazione del libro dell’Hellwald» (Carteggio, II, p. 273). 32 Tratto da «La Cultura», XV, 1, 1 maggio 1896, p. 6. L’edizione recensita del libro di Kauffmann è la seconda: la prima apparve a Lipsia, per lo stesso editore, nel 1893. 33 Pur non conseguendo mai titoli accademici, Max Reinhard Kauffmann (1868-1896) dimostrò ancora giovanissimo la propria passione per gli studi di filosofia e psicologia. Allievo di Wilhelm Dilthey, Hermann Ebbinghaus e Paul Jakob Deussen a Berlino (1886), poi di Wilhelm Wundt e Oswald Külpe a Lipsia (1888), pubblicò poco più che ventenne il suo primo saggio: Fundamente der Erkenntnistheorie und Wissenschaftslehre (1890). Tre anni dopo diede alle stampe la prima parte dell’opera Immanente Philosophie: analyse der Metaphysik (1893), testo inaugurale di quell’indirizzo “immanentistico” che risolve la differenza fra soggetto ed oggetto in una relazione istituita all’interno della coscienza, relegando la realtà della “cosa in sé” ad una sfera puramente ipotetica. Nel 1896 fondò la rivista «Zeitschrift für Immanente Philosophie», che sopravvisse alla sua prematura scomparsa quello stesso anno, grazie all’opera di Wilhelm Schuppe (1836-1913), da quel momento esponente di riferimento della “filosofia dell’immanenza”. Un frammento del secondo libro inedito dell’opera di Kauffmann, Synthese des Realen,

fu pubblicato postumo sulla «Zeitschrift» (fasc. 4, 1896) da Franz Eulenburg (1867-1943). 34 Tratto da «La Cultura», La Cultura, XV, 4, 15 giugno 1896, p. 93. Questo, come gli altri tre annunci bibliografici pubblicati alle pp. 87, 88 e 96 dello stesso fascicolo, è siglato dalle iniziali «A.L.». Sulle ragioni di ordine stilistico e contenutistico a conferma dell’attribuzione a Labriola, cfr. S. MICCOLIS, Su Antonio Labriola, Ruggero Bonghi e «La Cultura», in «Nuovi studi politici», XVIII, 1988, pp. 43-70: 6165. 35 Ferdinand Brunetière (1849-1906), critico e storico della letteratura, insegnò Letteratura francese all’École Normale Supérieure, di cui era stato allievo. Fu collaboratore, segretario di redazione e infine direttore (1893) della «Revue des Deux Mondes». Tra le opere più note si segnalano il Manuel de l’histoire de la littérature française (1887) e l’Histoire de la littérature française (1895), in cui applicò la teoria evolutiva dei generi letterari già sperimentata nel saggio L’Évolution de la poésie lyrique en France au dixneuvième siècle (1894). A dispetto del debito contratto sul piano metodologico con il darwinismo e la cultura positivistica, il progressivo avvicinamento al Cattolicesimo contribuì ad accentuare in lui i motivi moralistici ed anti-scientisti. Di questa svolta è testimonianza la conferenza La renaissance de l’idéalisme, tenuta a Besançon il 2 febbraio 1896, pubblicata in opuscolo quello stesso anno e raccolta poi nella prima serie dei Discours de combat (1900). Un anno prima, il 1 gennaio del 1895, un celebre articolo apparso sulla «Revue des Deux Mondes», Après une visite au Vatican, incentrato sulla necessità di un ritorno alla religione tradizionale dopo il fallimento delle aspettative riposte nella scienza, aveva indirettamente contribuito a coniare un’espressione, «faillite de la science»: bancarotta della scienza, che ebbe in quegli anni notevole fortuna nel dibattito europeo ed incontrò vasta eco anche in Italia.

In memoria del manifesto dei Comunisti 1

Una traduzione francese del saggio uscì in effetti in due parti nei fascicoli del «Devenir social» del 3 giugno e del 4 luglio 1895. Negli stessi giorni, alcune parti in italiano apparvero, quale «primizia» del lavoro di imminente pubblicazione, nel fascicolo di «Critica sociale» datato 1 luglio 1895, sotto il titolo: Il giubileo del socialismo. In memoria del Manifesto. Le due edizioni francesi uscite per l’editore Giard & Brière sono rispettivamente del 1897 e del 1902. Quanto alle edizioni italiane, la prima uscì a Roma per l’editore Loescher, la seconda a Milano ad opera degli Uffici della Critica sociale: si noti che in entrambe le edizioni il titolo è preceduto dall’indicazione Saggi intorno alla concezione materialistica della storia I, ma nel caso dell’edizione Loescher a questa dicitura fa seguito anche il titolo di Preambolo. La funzione introduttiva del primo saggio è del resto confermata dalla Prefazione alla prima edizione italiana, datata da Roma, 10 giugno 1895, che si riporta di seguito per le preziose indicazioni che essa fornisce intorno alle circostanze in cui il testo vide la luce. «Le pagine seguenti trovansi a far da preambolo ad una serie di opuscoli, direi quasi per caso. Le scrissi fin dal 7 di Aprile (e tale data conviene che serbino, perché in questa stampa nulla vi aggiungo e nulla ne tolgo), a richiesta di una nuova rivista di Parigi, il «Devenir Social», che comincerà a pubblicarle in un dei suoi prossimi fascicoli. Ebbe voglia di leggerle, nell’originale italiano, il mio cortese amico Benedetto Croce di Napoli, il quale mi chiese gli permettessi di darle alle stampe, come primo di quei saggi intorno alla concezione materialistica della storia, che egli già da gran tempo, per la conoscenza che ha dei miei studii e delle mie opinioni su tale argomento, mi consigliava di pubblicare. Per tale offerta, che accettai con animo grato, io mi trovo ora nell’impegno di continuare, senza soverchio indugio, e a non lunghi intervalli, la pubblicazione di questi saggi. Così che anticiperò di un anno su quello che avrei avuto in animo di fare, se appunto la gentile offerta di un amico, fattosi per cotal modo mio spontaneo editore, non mi avesse indotto a passar sopra a certe difficoltà, che nascevano in me dal sentirmi non del tutto maturo all’impresa.» 2 A commento di questa nota, non riprodotta nell’edizione degli Essais, la Préface alla ristampa francese del 1902 (pp. I-IV) fornisce alcune interessanti precisazioni sulla natura e le finalità del primo saggio, sollecitate dal confronto istituito in Francia fra En mémoire du Manifeste du parti communiste ed il ricco commentario al Manifesto e agli articoli di Engels su «La Réforme» (ottobre 1847 – marzo 1848), da poco pubblicato da Charles Andler (1866-1933) insieme alla traduzione dei rispettivi testi, cfr. C. ANDLER, Le manifeste communiste, 2 voll., I: Traduction nouvelle… avec les articles de F. Engels dans la Réforme; II: Introduction historique et commentaire, Société nouvelle de librairie et d’édition, Paris 1901 (una prima edizione del commentario al solo Manifesto era già apparsa a Parigi per le edizioni Rieder & Cie, ma non ne è nota la data). Se ne cita qui (nell’originale francese seguito dalla traduzione italiana) solo la parte relativa alla nota in questione: «Page 10 de la première édition italienne du premier des Essais contenus dans ce volume je disais dans une note, qui n’est pas reproduite dans l’édition française, que je n’avais pas l’intention de refaire le Manifeste pour l’adapter aux besoins actuels de la propagande, ni d’analyser ce document dans un commentaire perpétuel. Je disais que je me proposais simplement d’écrire en mémoire, c’est-à-dire pour commémorer le Manifeste en le confrontant avec l’état actuel du socialisme. Aussi, ni dans son intention, ni dans son exécution, cet Essai ne pourrait-il être comparé avec l’étude récent de M. Andler. […]» [A p. 10 della prima edizione italiana del primo dei Saggi contenuto in questo volume, in una nota che non è riprodotta nell’edizione francese, affermavo di non aver intenzione di rifare il Manifesto per adattarlo

alle esigenze attuali della propaganda, né di analizzare questo documento in un commento perpetuo. Sostenevo che il mio proposito era semplicemente di scrivere in memoria, ossia per commemorare il Manifesto, confrontandolo con lo stato attuale del socialismo. Pertanto né nelle sue intenzioni né nella sua esecuzione questo saggio può essere paragonato al recente studio dell’Andler], A. LABRIOLA, Essais sur la conception matérialiste de l’histoire, deuxième édition, Giard & Brière, Paris 1902, Préface, p. III. 3

Causidico, dal latino causidicus, è letteralmente colui che “parla in causa”, ovvero colui che assume le

parti di chi è chiamato in giudizio. Nel corso dei secoli il termine, oggi desueto, è valso ad indicare figure e funzioni diverse (giudice, avvocato, procuratore ecc.). Labriola se ne serve qui in forma generica, per intendere colui che è chiamato a difendere una causa. 4 F. ENGELS, Umrisse zu einer Kritik der Nationaloekonomie, «Deutsch-Französischen Jahrbüchern», 1844, pp. 86-114, ora anche in K. MARX – F. ENGELS, Werke, Band 1, Dietz Verlag, Berlin 1976, pp. 499-524 (trad. it.: Lineamenti per una critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1977); F. ENGELS, Die Lage der arbeitenden Klasse in England: nach eigner Anschauung und authentischen Quellen, Wigand, Leipzig 1845 (trad. it.: La situazione della classe operaia in Inghilterra: in base a osservazioni dirette e fonti autentiche, a cura di R. PANZIERI, Editori Riuniti, Roma 1992). Di entrambi i testi furono pubblicate traduzioni italiane a breve distanza dall’uscita del saggio labrioliano: il primo fu tradotto già nel 1895 per gli “Uffici della critica sociale” di Milano; entrambi i testi furono quindi tradotti e pubblicati in unico volume nel 1899, dall’editore Mongini di Roma. 5 Nata nel giugno del 1847 dal Congresso londinese che sancì l’adesione formale di Marx, all’epoca vicepresidente dell’Association démocratique di Bruxelles, e della German Democratic Society presieduta da Karl Schapper (1812-1870), alla Lega dei Giusti (fondata a Parigi nel 1836 intorno ad un programma socialista a sfondo cristiano-utipistico ma trapiantata a Londra dopo l’insurrezione blanquista del 1839), la Lega dei Comunisti si proponeva di unificare in un unico soggetto movimenti e organizzazioni di diverse nazionalità, contribuendo così a superare divergenze teoriche e programmatiche. È nel secondo Congresso della Lega, tenutosi nuovamente a Londra nel novembre del 1847, che fu affidato a Marx ed Engels il compito di redigere quel programma politico che vedrà la luce all’inizio dell’anno seguente con il titolo di Manifesto del partito comunista. Le divergenze in seno alla Lega, mai del tutto superate, portarono nel 1850 ad una scissione fra la componente vicina a Marx, riunita da quel momento a Colonia e qui inquisita dalle autorità che ne condannarono alcuni suoi membri, e l’ala vicina ad August Willich (1810-1878) e allo stesso Schapper, favorevole ad una immediata ripresa dell’attività rivoluzionaria. Su proposta dello stesso Marx, la Lega fu formalmente sciolta il 17 novembre 1852, dodici anni prima della fondazione, ancora una volta a Londra, dell’Associazione Internazionale del Lavoratori, poi nota come Prima Internazionale. 6

Noto per la sua attività di pubblicista, sovente celata dietro lo pseudonimo di “Ernst von der Haide”, Karl Grün (1817-1887) si accostò ai circoli della sinistra hegeliana frequentati anche dal giovane Marx durante gli anni di studio trascorsi a Berlino. Sensibile alla lezione di Feuerbach, si avvicinò in seguito al movimento del cosiddetto Wahren Sozialismus, “vero socialismo”, e attraverso l’opera di Proudhon, esercitò una certa influenza sul pensiero socialista francese. Contro il carattere cripto-idealistico della battaglia dei “veri socialisti”, condotta esclusivamente sul piano della critica filosofica, Marx polemizza a partire da La sacra famiglia (1845) e in un capitolo, dato alle stampe separatamente nel 1847 e di nuovo nel 1895, dell’inedita Ideologia tedesca (1845-1846), diretto in particolare contro l’opera di Grün Il movimento sociale in Francia e in Belgio (1845). Sul carattere evanescente e falsante del “vero socialismo” insiste, infine, il terzo capitolo del Manifesto. Il sarto tedesco Wilhelm Weitling (1808-1871) fu tra i fondatori della Lega dei Giusti (1834). Marx lo conobbe personalmente a Londra nel 1845, quale rappresentate dell’Associazione degli operai tedeschi

(l’Arbeiterbildungsverein, che Labriola menziona più sotto). Autore delle Garanzie dell’armonia e della libertà. Idee per una riorganizzazione della società (1842), in cui esponeva il proprio progetto rivoluzionario ispirato ad un ideale di messianismo cristiano e utopia sociale, fu accusato da Marx di essere ancora intriso di retorica borghese e di ingannare il proletariato con proposte rivoluzionarie non fondate su reali presupposti scientifici. 7 Ernest Charles Jones (1819-1869) e Georges Julian Harney (1817-1897) furono due esponenti di primo piano del “cartismo”: il movimento sorto a sostegno della People’s Charter, che reclamava pieni diritti politici anche per la classe lavoratrice (suffragio universale maschile, segretezza del voto, indennità parlamentare per gli eletti ecc.) sottoposta al Parlamento britannico sulla scorta di due grandi petizioni popolari nel 1838 e nel 1842, ma rifiutata dal governo, che si oppose fermamente alle iniziative di protesta organizzate negli anni successivi dal movimento. La sconfitta subita da Jones e Harney, entrati nel frattempo in stretti rapporti con Marx ed Engels, decisi a far sollevare le classi popolari inglesi nel 1848, segnò il definitivo declino del movimento. 8 Risale al novembre del 1852 il già ricordato scioglimento della Lega dei Comunisti. La Prima Internazionale fu fondata nel 1864 e formalmente sciolta a Filadelfia nel 1876, in seguito alla drammatica esperienza della Comune, al contrasto con gli anarchici e alla grave crisi economica manifestatasi nel 1873 che aveva determinato, già tre anni prima dello scioglimento formale, il fallimento del sesto Congresso, in programma a Ginevra. La «nuova» Internazionale, cui Labriola si riferisce, è evidentemente la Seconda, nata a Parigi nel 1889 dai partiti socialisti e laburisti europei, sotto l’egida del partito socialdemocratico tedesco, e destinata a sopravvivere fino al primo conflitto mondiale (agosto 1914). 9 Il riferimento a Charles Fourier (1772-1837) – fra i padri del cosiddetto socialismo utopistico, sensibile alla lezione di Rousseau, pedagogista e progettista di comunità ideali, le phalanges, ispirate ai suoi principi di riforma sociale – si spiega con la contrapposizione fra l’intrinseca «necessità del fatto», richiamata dall’autore, ed il metodo di Fourier, la cui critica dello stato di barbarie a favore della civiltà muove invece da una periodizzazione a priori della storia e da una metafisica del progresso armonico. Per questa stessa ragione, Labriola afferma nelle pagine successive che quella condotta da Fourier non è altro che una «satira della storia». 10 Labriola si riferisce al movimento cartista inglese (vedi nota 5) e al programma di social-démocratie portato avanti in Francia, tra gli altri, da Louis Blanc (1811-1882) ed Alexandre Ledru-Rollin (1807-1874): redattori dal 1843 del quotidiano di idee repubblicane e democratiche «La Réforme», protagonisti della campagna dei banquets per il suffragio universale, quindi figure di spicco del governo provvisorio, i loro tentativi di riforma furono bruscamente interrotti dalle drammatiche giornate del giugno 1848 e dalla successiva svolta conservatrice e populista della Seconda Repubblica. 11 Il riferimento è all’insurrezione parigina del 12 maggio 1839, promossa dalla Société des Saisons, movimento democratico e repubblicano clandestino, strenuo avversario della monarchia di Luglio. Come responsabili della fallita sommossa furono inquisiti Armand Barbès (1809-1870), Louis Blanqui (18051881), e Martin Bernard (1808-1883): la condanna capitale comminata ai primi due, fu poi commutata nel carcere ai vita. Tutti e tre i condannati furono liberati dal carcere in seguito alla rivoluzione del febbraio 1848. 12 Accomunati più da considerazioni di metodo, come il ricorso a società segrete e la fervente attività pubblicistica, che dall’effettiva condivisione dei programmi politici, elaborati in contesti spesso differenti, i nomi qui menzionati rimandano ad una lunga tradizione di eversione nel segno del radicalismo politicosociale. Esemplare in questo senso è la figura del pisano Filippo Buonarroti (1761-1837), trasferitosi in Francia dopo l’adesione alle rivolte corse e vicino alle posizioni dei Giacobini. Commissario rivoluzionario di Oneglia, occupata dai francesi e rifugio di numerosi profughi politici italiani, dopo il 9 Termidoro fu arrestato e condotto a Parigi. Al periodo di detenzione risale l’incontro con François Noël Babeuf (1760-1797), ribattezzatosi Gracchus in omaggio ai celebri fratelli Gracchi, riformatori sociali nell’antica Roma, che mosso dalla

lettura di Rousseau sosteneva l’eguaglianza sociale, la promozione della donna e la collettivizzazione della terra. La Rivoluzione degli Eguali, cui entrambi si dedicarono fra il 1795 ed il 1796, fu però sventata dalle autorità, che fecero condannare a morte Babeuf e destinarono Buonarroti ad un lungo periodo di confino, trascorso nella sua parte finale a Ginevra e interamente dedicato alla promozione di società segrete, come quella dei Filadelfi poi ribatezzata Società dei Sublimi Maestri Perfetti. Alla fondazione e diffusione di società segrete (fra cui la già ricordata Lega dei Giusti) nei decenni successivi alla Restaurazione, è legata anche la vicenda di Louis Blanqui (1805-1881): di idee repubblicane e socialiste, fautore del suffragio universale, s’impegnò in diverse cospirazioni antimonarchiche, per le quali pagò ripetutamente con il carcere, e partecipò da ultimo alle vicende della Commune parigina. SaintAmand Bazard (1791-1832) è invece ricordato come uno dei fondatori della Charbonnerie francese, ideata sul modello della Carboneria italiana. Avvicinatosi al saint-simonismo attraverso il periodico «Le Producteur», assunse progressivamente ruoli di spicco nel movimento, sposandone infine l’evoluzione in senso religioso-ecclesiale e assumendo, nel 1829, la carica di “Padre Supremo”. 13 Direttamente collegati da Labriola all’esperienza degli “Eguali”, in virtù del legame, non meglio precisato, con il giacobinismo, alcuni degli autori qui richiamati sono stati sovente definiti anticipatori di teorie socialistiche o comunitaristiche. Se nel caso del vescovo girondino Claude Fauchet (1744-1793) è soprattutto l’afflato retorico ad associarne il nome agli eventi cruciali delle giornate rivoluzionarie che precedono la fase del Terrore, più chiaramente avvicinabili alle convinzioni di Babeuf, sul piano teorico, sono le tesi di François Boissel (1728-1807), dirigente del partito giacobino, che ne Le catéchisme du genre humain (1789) riproponeva il tema della proprietà come male assoluto della società civile, come anche quelle di Étienne-Gabriel Morelly (1717-1778), il cui Code de la nature (1755), in cui si delineava un nuovo ordine sociale fondato sulla cooperazione, l’organizzazione comunitaria del lavoro e il superamento della proprietà privata, è stato attribuito nel tempo sia alla mano di Denis Diderot (1713-1784) che a quella di François-Vincent Toussaint (1715-1772). Noto per le sue idee profetiche delle istanze rivoluzionarie è anche l’abate Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785), fratello del filosofo Condillac (1715-1780), che nei suoi scritti criticò la diseguaglianza sociale, il dispostismo esercitato in nome della legge e gli abusi della proprietà privata, caratteristici dello Stato moderno cui Mably contrapponeva la virtù politica e l’egualitarismo dell’antica Sparta. Il profilo intellettuale del canonico Jean Meslier (1664-1729), infine, ci è noto attraverso la pubblicazione del suo testamento spirituale, in cui si teorizzano un materialismo a sfondo ateo ed un avanzato programma di riforme sociali su basi antimonarchiche e anticlericali. 14 Se chiaro è il riferimento critico a quello che solo due anni prima Achille Loria aveva definito «socialismo giuridico» (cfr. A. LORIA, Socialismo giuridico, in «La scienza del diritto privato», I, 1893, pp. 419-527) – riprendendo l’appellativo di Juristen Sozialismus, coniato polemicamente da Marx ed Engels – ovvero a quella corrente di pensiero che, facendo proprio un approccio riformista e graduale, proponeva di trasformare l’impianto giuridico esistente perché potesse rappresentare anche i diritti del nuovo proletariato, assai più difficile, come già osservato dalla critica (cfr. V. GERRATANA, Antonio Labriola di fronte al socialismo giuridico, in Il socialismo giuridico: ipotesi e letture, 2 tomi, Giuffrè, Milano 1975, tomo I, pp. 55-72) è individuare con esattezza a quale dei numerosi contributi, formulati in tal senso anche da autori italiani, si riferisca qui Labriola. Fra i riferimenti possibili si possono menzionare: G. SALVIOLI, Il passato e l’avvenire della lotta di classe in Inghilterra, Critica sociale, Milano 1893; F. TURATI, La moderna lotta di classe, Critica sociale, Milano 1894; G. CIMBALI, Lotta di classe e civiltà, Verri, Milano 1895. Si noti che solo pochi mesi prima era stato pubblicato in traduzione italiana lo scritto di uno fra gli interpreti più significativi di questa corrente: A. MENGER, Das Bürgerliche Recht und die besitzlosen Volksklassen: Eine Kritik des Entwurfs eines bürgerlichen Gesetzbuches für das deutsche Reich (1890) [trad. it.: Il diritto civile e il proletariato: studio critico sul progetto di un codice civile per l’Impero

germanico, Bocca, Torino 1894]. 15 Sul ruolo perverso esercitato dal commercio privato e dal «cercle vicieux de l’industrie civilisée», Charles Fourier torna in più luoghi della sua opera, denunciandone il fondamento fraudolento e l’azione disarmonica nei confronti della società, cfr. ad esempio, Le nouveau monde industriel et sociétaire ou invention du procédé (1829) e La fausse industrie (1835-1836). Nei suoi studi di economia politica, l’economista e storico svizzero Jean de Sismondi (1773-1842), formatosi sui testi di Adam Smith e del liberalismo inglese, denunciò le drammatiche condizioni in cui il capitalismo aveva ridotto il proletariato inglese, individuando alcuni dei limiti intrinseci al modello capitalistico-industriale (come la disoccupazione provocata dall’introduzione di nuove tecnologie) e smentendo chi sosteneva che il sistema economico potesse raggiungere spontaneamente un proprio equilibrio e garantire sempre il pieno impiego. 16 Il riferimento, come segnalato da V. GERRATANA, Antonio Labriola di fronte al socialismo giuridico cit., è quasi certamente ad A. MENGER, Das Recht auf den vollen Arbeitsertrag in Geschichtlicher Darstellung, Cotta, Stuttgart 1886. Giurista e sociologo austriaco, fratello del più noto economista Carl, Anton Menger (1841-1906) insegnò all’Università di Vienna dal 1874 al 1899. È menzionato in più occasioni nei Saggi quale esponente del cosiddetto “socialismo giuridico”, ovvero di quella corrente che riteneva possibile, attraverso una serie di riforme, adeguare alle istanze sociali della classe lavoratrice l’impianto giuridico e statuale esistente. Lettore attento dell’opera di Marx, non risparmiò alcune critiche al Capitale, ed in particolare alla teoria del plusvalore, di cui mise in dubbio l’originalità. Di lui si ricordano Das Recht auf den vollen Arbeitsertrag in Geschichtlicher Darstellung (1886); Das Bürgerliche Recht und die besitzlosen Volksklassen: Eine Kritik des Entwurfs eines bürgerlichen Gesetzbuches für das deutsche Reich (1890) [trad. it.: Il diritto civile e il proletariato: studio critico sul progetto di un codice civile per l’Impero germanico, Bocca, Torino 1894]; Neue Staatslehre (1903) [trad. it.: Lo stato socialista, Bocca, Torino 1905]. 17

C. MARX - F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino 1962, p. 158. Il riferimento, qui come nella sezione successiva, è alle drammatiche giornate parigine del 23-26 giugno 1848, quando la rivolta operaia, provocata dalla chiusura degli Ateliers nationaux, fu soffocata nel 18

sangue dalla Guardia nazionale e dalle truppe del generale Cavaignac, su mandato dell’Assemblea nazionale. Il «sommo ed insigne avventuriero» è evidentemente Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, Napoleone III, al potere dal 1849 al 1870. 19 La «Neue Rheinische Zeitung: Organ der Demokratie» fu pubblicata a Colonia fra il giugno 1848 ed il maggio dell’anno successivo, quando, per ordine delle autorità governative, Marx, che ne era il caporedattore, fu costretto a lasciare il Paese. Della redazione facevano parte, oltre ad Engels, alcuni esponenti della Lega dei Comunisti. Il nome della testata richiama quello di una precedente rivista, edita fra il 1842 ed il 1843, espressione della sinistra hegeliana e di alcune frange più radicali della borghesia tedesca. 20 Louis Blanc fu tra gli ideatori dei quegli ateliers sociaux o laboratori sociali che, nella forma degli Ateliers Nationaux, costituirono il tentativo, drammaticamente fallito, di estendere in modo sistematico il «diritto al lavoro» messo in atto dal governo provvisorio uscito dalla rivoluzione parigina del febbraio 1848. Giovane protagonista dei rivolgimenti del ’48 fu anche, sul versante tedesco, Ferdinand Lassalle (18251864), attivista democratico poi militante socialista, a lungo corrispondente di Engels e Marx, da cui lo allontanò però il progetto di un adeguamento mediato dello Stato borghese alle istanze socialiste (socialismo di Stato). Nel 1863 fondò l’Allgemeinen Deutschen Arbeiterverein, l’Associazione generale degli operai tedeschi, con l’obiettivo di contrattare con il potere bismarckiano alcuni provvedimenti favorevoli ai lavoratori, a cominciare dal suffragio universale maschile, sostenendo d’altro canto il processo di unificazione nazionale condotto dal Cancelliere. 21 Riconducibile secondo alcuni alla formula liturgica «Hoc est corpus meus», l’espressione «Hokus

Pokus» o «Hocuspocus» è menzionata a partire dal XVII secolo, in polemica con la dottrina cattolica, come tipico esempio di formula magica. Labriola se ne serve qui in tono sarcastico, per ribadire l’illusorietà di ogni programma socialista che non comprendesse il superamento rivoluzionario delle istituzioni preesistenti. 22 «Il n’oubliait qu’une chose: c’est que les expériences des peuples sont des catastrophes», così A. DE LAMARTINE, Histoire des Girondins, 3 voll., Le Chevalier, Paris 1865-1868, vol. I, p. 182, commenta la scelta di Luigi XVI di scendere a patti con i rivoluzionari, accettando la Costituzione del 1791 e conservando la corona. Poeta, romanziere e drammaturgo di fama, oltreché una delle voci più appassionate dell’oratoria politica sotto la seconda repubblica, Alphonse de Lamartine (1790-1869) fu per alcuni mesi ministro degli affari esteri del governo provvisorio quale esponente dei liberali moderati. La sua Histoire des Girondins apparve nel 1847. All’«ironia della storia» che «capovolge ogni cosa» fa riferimento Engels nell’Introduzione del marzo 1895 alla prima ristampa de Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), opera nella quale Marx menziona più volte Lamartine, quasi a personificare il volto borghese della Rivoluzione del ’48, cfr. K. MARX, Le lotte di classe in Francia, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 81. 23

Albert E. Friedrich Schäffle (1831-1903) fu un economista e statista tedesco. Membro della Dieta di Württemberg fra il 1862 ed il 1864, nel 1868 fece parte del Zollparlament, l’assemblea dell’Unione doganale tedesca ricostituita l’anno prima, e nel 1871 fu nominato Ministro del Commercio dell’Impero austro-ungarico. Il suo Die Quintessenz des Sozialismus apparve a Gotha nel 1875 e fu tradotto in italiano nel 1891 per l’editore Donath di Genova. Sovente richiamata nei suoi scritti, l’immagine del ventre (Bauch) per intendere l’insieme delle aspirazioni materiali dei ceti popolari, diverrà un vero e proprio topos del dibattito successivo, richiamato in chiave polemica e antisocialista o rifiutato come volgare tentativo di screditare la lotta di classe. Si veda, da ultimo, lo scritto di Gramsci Il ventre (1916), in risposta al popolare Marconcini che aveva definito quello socialista come il «partito del ventre». Su Schäffle vedi anche nota 10, pp. 1752-1753. 24 Noto in traduzione italiana con il titolo di Lavoro salariato e capitale, Lohnarbeit und Kapital raccoglie una serie di editoriali pubblicati da Marx sulla «Neue Rheinische Zeitung» fra il 5 e l’11 aprile 1849, a loro volta rielaborazione di alcune conferenze tenute per l’Associazione dei lavoratori tedeschi di Bruxelles nel 1847. Dopo la ristampa del 1884, nel 1891 ne uscì una nuova edizione rivista da Engels, che vi antepose anche una sua Introduzione. 25

Nel settembre del 1868 si riunì a Norimberga il quinto Congresso dell’Associazione dei lavoratori tedeschi (Vereinstag Deutscher Arbeitervereine), sorta nel 1863 in risposta alla fondazione dell’Associazione generale dei lavoratori tedeschi (Allgemeine Deutsche Arbeiterverein) di Lassalle. Dal programma politico adottato dal Congresso non senza accese discussioni scaturì, nell’agosto dell’anno successivo, la base programmatica della nascente Sozialdemokratische Arbeiterpartei, primo nucleo del Partito Socialdemocratico tedesco. 26 Il nome di Fra Dolcino da Novara (ca.1250-1307) ricorre più volte negli scritti labrioliani quale esempio di rivolta spontanea ed antigerarchica prodotta da un’interpretazione puramente evangelica del messaggio cristiano. Aderente al movimento pauperistico e millenaristico degli Apostolici, condannato come eretico dalla Chiesa Romana fin dal 1286, dapprima esercitò con grandi successi la predicazione nel Nord Italia, quindi, contando sull’appoggio del casato Visconti, assunse il controllo militare della Valsesia per fondarvi una comunità corrispondente al suo messaggio religioso. Sconfitto dall’esercito radunato contro di lui dal vescovo di Vercelli, fu processato e condannato al rogo. Fra le fonti del suo pensiero è molto probabilmente il monaco calabrese Gioacchino da Fiore (ca.1130-1202), fine teologo e interprete della Scrittura, che con la sua ampia produzione esercitò una vasta eco sul pensiero dei secoli successivi: celebre è la sua teoria sulle tre età della storia terrena, applicazione alla filosofia della storia del modello trinitario.

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Fra il 1534 ed il 1535, la città di Münster, noto centro anabattisa, si autoproclamò regno indipendente sotto il comando di Jan van Leiden (ca.1509-1536), dando vita ad un regime di tipo teocratico, la “nuova Gerusalemme”, basato su un’applicazione radicale dei precetti biblici. Stanca della tirannide instaurata al suo interno e piegata dalla fame, la città si arrese dopo circa un anno alle truppe del vescovo Franz von Waldeck, che potè così finalmente eliminare i capi della rivolta anabattista. 28 Nato dalla frangia più radicale dei seguaci di Jan Huss (1371-1415), il riformatore boemo condannato dal Concilio di Costanza, il movimento dei Taboriti trae il proprio nome dal biblico monte Tabor. Ritenendo imminente l’avvento glorioso del Cristo, i suoi seguaci sostenevano l’urgenza di abbattere le diseguaglianze sociali e condividere i beni materiali. Fenomeno ben più vasto e articolato, di fatto comprensivo di teorie e movimenti diversi lungo il corso dei secoli, è invece il millenarismo o chiliasmo, che, sviluppando alcuni temi escatologici presenti nelle Scritture, preannuncia la nuova era di alleanza di Dio coincidente con il ritorno del Cristo, collocato rispettivamente all’inizio (premillenarismo) o allo scadere (postmillenarismo) del “millennio”, a seconda che in tale ritorno si identifichi l’avvento intermedio del Cristo, che segnerebbe l’inizio di un regno millenario di pace precedente la fine dei tempi, o il giudizio finale vero e proprio. 29 I nomi e gli eventi qui richiamati rimandano ancora una volta al cosiddetto “socialismo utopistico”. Nei suoi scritti, l’inglese John Bellers (1654-1725) si occupò di assistenza pubblica, teoria dell’educazione e miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari; prese pubblicamente posizione per l’abolizione della pena capitale. Tra di essi si ricordano: Proposals for Raising a College of Industry of All Useful Trades and Husbandry (1696), Essays about the Poor, Manufactures, Trade, Plantations and Immorality, and of the Excellency and Divinity of Inward Light (1699), About the Improvement of Physick (1714). Robert Owen (1771-1858) fu imprenditore, teorico e sperimentatore delle proprie teorie sociali. Nelle filande scozzesi di New Lanark, di cui era proprietario, volle dare concreta attuazione al suo modello di sviluppo, basato sull’innalzamento dei salari, il miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie operaie, la tutela dell’infanzia e la scolarizzazione. Di lui si ricordano: A New View Of Society (1813), Book of the New Moral World (1836-1844), Revolution in the Mind and Practice of the Human Race (1849). Nel suo Voyage en Icarie (1840) – da cui il termine “icarismo” con cui si è soliti definire la sua teoria – Étienne Cabet (1788-1856) teorizzò un modello molto avanzato di repubblica comunitaristica, di cui alcuni tentativi di attuazione ebbero luogo negli Stati Uniti. Sempre negli U.S.A., più precisamente nelle adiacenze di Dallas, in Texas, vide la luce nel 1855 “La Reunion”, comunità basata sul modello fourieriano delle falangi. Fautore di questo progetto fu Prosper Victor Considerant (1808-1893), economista e teorico socialista, direttamente influenzato dalla lezione di Fourier. Rientrato in Francia nel 1869, prese parte alla drammatica sorte della Commune. Dopo il 1871 rifiutò sistematicamente di tornare ad occuparsi di politica: in questo “silenzio” Labriola scorge il tramonto di un’intera epoca. 30 Con il termine “Fraticelli” si è soliti riferirsi a quelle frange radicali del movimento francescano che nel XIV secolo si sottrassero al controllo dell’autorità ecclesiastica e dell’Ordine, predicando l’assoluta povertà di Cristo e la condivisione dei beni materiali. A partire dal 1318 essi furono duramente perseguitati dalla Chiesa, che ne ribadì in più occasioni la condanna. 31 Cfr. K. MARX, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, pp. 10-12. 32

Nel novembre del 1852, alcuni degli aderenti all’ala marxista della Lega dei Comunisti, trasferitasi a Colonia due anni prima, furono condannati con pene comprese fra i sei ed i tre anni di carcere. Con il processo di Colonia, scrive Engels nella sua Storia della Lega dei Comunisti (cfr. K. MARX, Manifesto del partito comunista, ed. cit., p. 267), si chiuse il «primo periodo del movimento operaio comunista tedesco».

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Cfr. K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 2006. Lo scritto noto dal 1891 come Der Bürgerkrieg in Frankreich riproduce l’Indirizzo sulla guerra civile in Francia scritto da Marx per la Prima Internazionale nel 1871. Cfr. K. MARX, La guerra civile in 34

Francia, Editori Riuniti, Roma 1990. 35 Nel 1850 avvenne la scissione che portò allo scioglimento, nel 1852, della Lega dei Comunisti. Alla cessazione dell’attività politica diretta corrispose per Marx l’inizio di una fase cruciale per lo studio dell’economia politica: esito di questa stagione di approfondimento teorico furono scritti fondamentali come i Grundrisse (1857-1858), Per la critica dell’economia politica (1859) ed il primo libro de Il Capitale (1867). Il Congresso tenuto a L’Aja nel settembre 1872 decretò l’espulsione della componente anarchica, segnando di fatto la fine della Prima Internazionale, che fu sciolta formalmente nel luglio 1876. 36

Labriola si riferisce alla già ricordata Introduzione (1895) a Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848 bis 1850 (1850), cfr. K. MARX, Le lotte di classe in Francia cit., pp. 39-85. 37 Il 10 aprile 1848 un’imponente manifestazione organizzata dal movimento cartista si riunì a Londra, a Kennigton Common, per presentare al Parlamento una nuova petizione, sull’esempio di quella già rifiutata dalle autorità quattro anni prima. Nonostante i timori del governo, pronto a far ricorso alla forza, la manifestazione non degenerò in rivolta. 38 Di umili origini contadine, Benoît Malon (1841-1893) aderì al movimento socialista dalla metà degli anni Sessanta. Promotore di un grande sciopero degli operai tintori nel 1866, dal 1870, perduto il lavoro, si dedicò al giornalismo. Eletto nel marzo 1871 nel consiglio della Commune, dopo la capitolazione della città fu costretto all’esilio. In occasione del Congresso socialista di Saint-Etienne, nel 1882 si schierò con l’ala riformista, “possibilista”, del partito. Labriola allude qui ad uno dei suoi ultimi scritti: Le socialisme intégral (1891). 39

Secondo quanto riferito da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXV, 10, 36), l’invito a non «giudicare oltre il sandalo» (supra crepidam iudicare) sarebbe stato rivolto dal celebre pittore greco Apelle ad un ciabattino (sutor) che, dopo aver offerto alcuni consigli su come disegnare correttamente una calzatura, si era spinto a dare suggerimenti ulteriori: Labriola si serve del proverbio in chiave sarcastica, contro il presunto «socialismo integrale» di Malon. 40 Il riferimento è alla componente bakuniana degli anarchici riunita nell’Alleanza internazionale dei socialisti democratici che, dopo aver aderito nel 1868 alla Prima Internazionale, accusò di autoritarismo la conduzione dell’associazione ad opera della maggioranza vicina a Marx ed Engels, e ne fu espulsa in seguito al Congresso dell’Aja, nel settembre del 1872. 41 Cfr. A. SCHÄFFLE, Quintessenz des Sozialismus, Perthes, Gotha 1875. Si veda supra, nota 10, p. 1752. 42 In occasione del Congresso di Marsiglia del 1892, il Paritito operaio francese – movimento di ispirazione marxista sorto dalla scissione interna ai socialisti francesi fra «possibilisti», riformisti vicini alle tesi prodhoniane, e l’ala marxista-rivoluzionaria, riunita intorno a Jules Guesde (1845-1922) – approvò il programma agrario concepito da Jules Guesde e da Paul Lafargue (1842-1911), giornalista e militante comunista, nonché genero di Marx. Tale programma nasceva dalla necessità di rivedere le posizioni marxiane intorno alla riforma agraria, alla nazionalizzazione delle terre e alla costituzione di grandi unità produttive. Su di esso si vedano le riserve espresse da Labriola ad Engels già nell’aprile del 1893, cfr. Carteggio, III, p. 293. Un dibattito analogo aveva riguardato, a ridosso del Congresso di Breslavia dell’ottobre 1895, anche i socialdemocratici tedeschi. Come l’autore stesso si perita di precisare, questa nota non figura nella prima edizione del Saggio (Loescher, Roma 1895). 43

Tra i maggiori centri manifatturieri d’Italia nella seconda metà del XIX secolo, gli stabilimenti tessili

di Biella e Schio, come anche quelli di Prato, furono oggetto di importanti innovazioni in ambito tecnologico e nell’organizzazione del lavoro, a cominciare dai primi tentativi di elettrificazione realizzati in Italia. 44 Su Babeuf e Buonarroti si veda supra, nota 12, p. 1768. Fratello del più noto Maximilien, Augustin Robespierre (1763-1894) fu eletto alla Convenzione nel 1792 e l’anno successivo fu inviato in missione presso l’Armée d’Italie di stanza a Nizza. Vicino al fratello maggiore nella stagione del Terrore, pur non condividendo a pieno le scelte più cruente di quel periodo, non lo abbandonò neanche nel momento della caduta, accettando di farsi condannare a morte insieme con lui. 45 Su Karl Grün e Wilhelm Weitling vedi supra, nota 6, p. 1766. Nell’estate del 1844, reduce dall’esperienza dei Deutsch-Französische Jahrbücher, Marx ebbe per alcune settimane una collaborazione con il bisettimanale «Vorwärts!» pubblicato a Parigi fra il gennaio ed il dicembre di quello stesso anno, cfr. K. MARX, Scritti politici giovanili, Eianudi, Torino 1975, pp. 423-451; su Weitling e sulla «gigantesca scarpa infantile» del proletariato tedesco, paragonata a quella ormai «consunta» della politica borghese, cfr. in particolare l’articolo del 10 agosto 1844, pp. 440sgg. 46 «Tout ce que je sais, c’est que moi, je ne suis pas marxiste», «tutto ciò che so è che io non sono marxista»: la celebre frase è riportata nella lettera di Engels a Bernstein del 2-3 novembre 1882, cfr. K. MARX – F. ENGELS, Gesamtausgabe (MEGA), Marx-Engels-Stiftung. Akademie-Verlag, Berlin 2002, vol. I/31, p. 268. 47 L’autore si riferisce al movimento dei “Fasci siciliani”, sviluppatosi a partire dal 1891, culminato con una vasta ondata di scioperi nell’autunno del 1893 e duramente represso dal governo Crispi. 48 Di professione ciabattino, Heinrich Bauer (1813-?) fu tra gli esponenti più in vista della Lega dei Giusti e, successivamente, della Lega dei Comunisti. Emigrato in Australia nel 1851, non si hanno più notizie di lui dopo questa data. Anche Friedrich Lessner (1825-1910) aderì alla Lega dei Comunisti. Condannato nel processo di Colonia, nel 1856 emigrò in Inghilterra, divenendo infine membro del Consiglio generale dell’Internazionale. Fu tra i fondatori del Partito laburista indipendente inglese. Johann Georg Eccarius (1818-1889) fece parte della Lega dei Giusti, passò quindi alla Lega dei Comunisti e aderì all’Internazionale. Nel 1872, scontrandosi con Marx, sposò la linea trade-unionista, divenendo dirigente del sindacato londinese degli operai tessili. Carl Heinrich Pfänder (1819-1876), decoratore e miniaturista, emigrò a Londra nel 1845. Membro dell’Associazione per l’educazione degli operai, che riuniva gli operai tedeschi esuli in Inghilterra, aderì poi alla Lega dei Giusti e alla Lega dei Comunisti. Maximilien Joseph Moll (1813-1849) fece parte dell’associazione d’impronta mazziniana Giovane Germania. Durante l’esilio a Parigi conobbe la Lega dei Giusti: sensibile in un primo momento alle posizioni di Weitling, si avvicinò gradualmente a quelle di Marx, che seguì aderendo alla Lega dei Comunisti. Dirigente del movimento operaio di Colonia, rimase ucciso, come ricorda Labriola in nota, durante uno degli scontri legati alla Rivoluzione del’48 in Germania. Poche le notizie disponibili su Georg Lochner (ca. 1824-?): membro della Lega dei Comunisti, la conferenza di Londra del 1864 lo elesse, insieme a Pfänder e Lessner, nel consiglio centrale dell’Internazionale. 49 Cfr. K. MARX, Il capitale. Libro terzo, 2 voll., Editori Riuniti, Roma 1980, vol. I, p. 24. Die heilige Familie, scritto insieme ad Engels nel settembre del 1844, pochi mesi prima del trasferimento a Bruxelles, reca come sottotitolo Kritik der kritischen Kritik, Critica della critica critica, e rimanda ormai ad un consapevole distacco da quell’hegelismo di sinistra che riteneva di poter trasformare la società facendone, per l’appunto, una critica astratta.

Economista e docente universitario, Achille Loria (1857-1943) è sovente oggetto degli attacchi polemici di Labriola. Vicino alle teorie socialiste ma non ad una militanza politica attiva, sostenne un’interpretazione deterministica e meccanicistica del materialismo storico. Tra i suoi studi, noti in traduzione anche all’estero, si ricordano: Le basi economiche della costituzione sociale (1886); Analisi della proprietà capitalista (1889); Problemi sociali contemporanei (1896). 50

Bernard de Mandeville (1670-1733), medico e filosofo di origini olandesi, visse a lungo in Inghilterra, dove nel 1705 pubblicò un poemetto dal titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn’d Honest, ripubblicato nel 1723 con il titolo di Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits e progressivamente ampliato fino a farne un’opera in due tomi (l’edizione definitiva è del 1728). 51 Thomas Robert Malthus (1766-1834), pastore anglicano, è noto per i suoi studi di teoria economia e demografia. Nel suo An essay of the principle of the population as it affects the future improvement of society (1798), sostenne la necessità periodica di carestie e calamità naturali per riequilibrare il divario fra la crescita demografica, che segue una progressione geometrica, e la disponibilità di risorse alimentari, incrementabili solo in progressione aritmetica. Svolse anche importanti considerazioni sull’opportunità di esercitare un “controllo preventivo” sulle nascite e sugli effetti negativi di un sussidio per i ceti più poveri. Labriola lo associa qui alle tesi del positivista Herbert Spencer (1820-1903), che individua l’evoluzione morale della civiltà nel naturale superamento delle tendenze egoistiche a favore di quelle altruistiche. 52 Su Cabet si veda supra, nota 29, p. 1772. Lo scrittore statunitense Edward Bellamy (1850-1898) è noto anzitutto per il romanzo Looking Backward 2000-1887 (1888), retrospettiva di fantasia sulle trasformazioni della società fra l’ultimo decennio del XIX secolo e l’anno 2000, in cui il modello americano di sviluppo risulta perfettamente coniugato con l’utopia egualitaristica ed irenistica dell’autore. Il genere social-utopistico ispirò anche il giornalista Theodor Hertzka (1845-1924), noto anche come il “Bellamy austriaco”, autore di Freiland, ein soziales Zukunftsbild (1890). Quanto a Falea di Calcedonia (IV sec. a.C), di cui abbiamo notizia attraverso la Politica di Aristotele, sappiamo che teorizzò una polis in cui tutti i cittadini fossero eguali per ricchezza e livello d’istruzione. 53 Conoscente di Hobbes e di Cromwell, cofondatore della “Royal Society”, William Petty (1623-1687) fu tra i primi ad indagare in modo sistematico gli aspetti quantitativi ed aritmetici dei sistemi economici. Tra le sue opere si ricordano: Treatise of Taxes and Contributions (1662); Political Arithmetic (apparsa postuma nel 1690). L’economista inglese David Ricardo (1772-1823) è considerato fra i massimi esponenti della cosiddetta “scuola classica”. Nei suoi Principi dell’economia politica e delle imposte (1817) elaborò la propria teoria «conflittuale» della distribuzione di ricchezza, culminante nella previsione di uno stato stazionario dello sviluppo capitalistico, e delineò una teoria del valore che servì a Marx come punto di partenza per le propria riflessione. 54 Su Mably si veda supra, nota 13, p. 1768. Paul-Pierre Le Mercier de La Rivière (1719-1794) fu un economista della scuola fisiocratica. Nel 1767, anno di pubblicazione della sua opera più nota, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, fu invitato da Caterina II alla corte di Russia. William Godwin (1756-1836), teorico del decentramento amministrativo e giudiziario, sostenne la necessità di liberare progressivamente la società dalla tirannide dello Stato attraverso forme di democrazia diretta. La sua opera più nota è Enquiry concerning political justice and its influence on general virtue and happiness (1793). Charles Hall (1740-1825) fisico ed economista di idee socialiste, vicino alle posizioni di Ricardo, è autore di The Effects of Civilization on the People in European States (1805). 55

L’irlandese William Thompson (1775-1833) fu uomo politico e studioso delle trasformazioni sociali.

Le sue riserve sulle conseguenze sociali dello sviluppo capitalistico, affidate ad An Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth (1824), influenzarono il movimento cooperativo e le Trade Unions. John Francis Bray (1809-1897) fu un militante del movimento cartista ed un teorico socialista. La sua opera Labour’s wrongs and labour’s remedy (1839), come del resto il saggio di Thompson è nota a Marx, che cita entrambi testi sia ne La miseria della filosofia che nel Capitale. 56

Su Anton Menger vedi supra, nota 16, pp. 1769-1770. Sociologo ed economista, Friedrich Wieser (1851-1926) fu tra i fondatori della cosiddetta “scuola austriaca”. Tra i suoi scritti più noti, si ricordano Der natürliche Wert, apparso nel 1889, e Theorie der 57

gesellschaftlichen Wirtschaft, pubblicato nel 1914. 58 James Edwin Thorold Rogers (1823-1890) fu un economista e storico inglese. Durante gli anni spesi fra ricerca e insegnamento al King’s College di Londra e ad Oxford scrisse diverse opere, fra cui Six centuries of work and wages (1884) e la grande History of agriculture and prices in England, 1259-1793 (1866-1902). 59 Il riferimento è agli studi etnologici di Lewis Henry Morgan (1818-1881), che esercitarono un’importante influenza su Marx ed Engels: quest’ultimo, in particolare, attinse all’Ancient society (1877) di Morgan nella redazione del suo L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884). 60

Sebbene la scoperta ad opera di Gustave Jéquier della celebre stele recante il codice di Hammurabi, oggi al Louvre, risalga al 1901, quest’ultimo era già noto in parte attraverso altre fonti. Una discreta bibliografia scientifica sull’argomento era disponibile già dagli anni Settanta dell’Ottocento. 61 Cfr. K. MARX, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo: il processo di produzione del capitale, 2 voll., Einaudi, Torino 1975, vol. I, pp. 882-883, nota 189.

Del materialismo storico 1 L’articolo A proposito della crisi del marxismo, pubblicato in appendice al secondo Saggio nell’edizione del 1902, apparve originariamente sulla «Rivista italiana di sociologia», III, 3, giugno 1899, pp. 317-331 ed anche, in estratto, per l’editore Olmi di Scansano (GR). 2 Quello dell’invidia degli dei (phthónos tōn theō´n) è tema ricorrente nelle Storie di Erodoto. Centrale è altresì, in Hyppolite Taine (1828-1893), la considerazione dell’ambiente (milieu), ovvero del contesto geografico e climatico, quale fattore imprescindibile, insieme alla razza (race) e al momento (moment), per la comprensione dell’opera d’arte. Si vedano, a titolo d’esempio, gli Essais de critique et d’histoire (1858 e 1882) e la celebre Introduction all’Histoire de la littérature anglaise (1864). 3

«Natur hat weder Kern Noche Schale, Alles ist sie mit einem Male»: «La Natura non ha nucleo né scorza, essa è tutto in una volta sola». Questi versi di Wolfgang von Goethe (1749-1832) ricorrono in diversi suoi testi: nelle poesie Allerdings: Dem Physiker (1820) e Ultimatum (1821), nonché nella Unwilliger Ausruf contenuta nel primo volume dei Zur Naturwissenschaft, da dove li riprese Hegel, citandoli nel § 140 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche. Come lo stesso Hegel suggerisce, si tratta della replica goethiana ad Albrecht von Haller (1708-1777), che nel suo Die Falschheit der menschlichen Tugenden (1730) aveva asserito al contrario che «nell’interno della Natura non penetra nessuno spirito creato», dovendo accontentarsi al massimo della «scorza esterna» (vv. 289sgg.). Cfr. G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Bompiani, Milano 2000, pp. 300-301. 4 Per il riferimento ad Engels, si vedano le lettere a Joseph Bloch e ad Heinz Starkenburg (nelle intenzioni di Engels, vero destinatario era però Walther Borgius), rispettivamente del 21 settembre 1890 e del 25 gennaio 1894, in K. MARX – F. ENGELS, Sul materialismo storico, Rinascita, Roma 1949 pp. 75 e 88. Quanto a quello marxiano, cfr. K. MARX, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 10. 5 Il riferimento è all’opera di Albert E. F. Schäffle, Bau und Leben des sozialen Körpers (1875-1877). Su Schäffle, si veda supra, nota 10, p. 1752. 6

Cfr. H. TAINE, Le origini della Francia contemporanea, 2 voll. Adelphi, Milano 1986-1989, vol. II.1: La Rivoluzione: L’anarchia; la conquista giacobina, Adelphi, Milano 1989. 7 Cfr. K. MARX, Per la critica dell’economia politica cit., p. 10. 8

Tra i fondatori dell’antropologia culturale, Lewis Henry Morgan (1818-1881) è noto soprattutto per i suoi studi sugli Irochesi, un complesso di tribù indigene situate nel Nord-Est degli Stati Uniti e nel Canada meridionale, progressivamente costrette ad emigrare verso Nord a causa della colonizzazione europea. Nella sua Ancient society; or, Researches in the lines of human progress from savagery, through barbarism to civilization (1877), Morgan sostenne che alle origini della storia umana sia possibile distinguere tre stadi (stato selvaggio, barbarie, civiltà), a loro volta suddivisibili, cui corrisponderebbero diverse tappe nell’evoluzione della famiglia, che da consanguinea si evolve gradualmente verso la forma patriarcale e quindi verso quella monogamica. 9 Sulla permanenza nelle campagne russe di strutture cooperative e comunitaristiche quale retaggio del secolare regime feudale, Marx ed Engels intervengono più volte nei loro scritti: si vedano ad esempio, di Marx, gli Abbozzi della lettera di risposta a Vera Zasulich (1881). Quanto ad Engels, nel Poscritto (1894) al suo Le condizioni sociali in Russia (1874), scritto in polemica con Pyotr Tkachov (1844-1886) che vedeva in tali strutture elementi artificialmente trapiantati in Russia, egli ribadì la convinzione che tale «comunismo primitivo» fosse da ricondurre piuttosto al lascito di una «società precivile e gentilizia che cade bensì in frantumi, ma fornisce pur sempre la sottostruttura, la materia prima sulla quale e con la quale

la rivoluzione capitalistica (…) agisce e opera». Cfr. K. MARX – F. ENGELS, India, Cina, Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 282. 10 Geografo, storico e teologo, lo svizzero Frédéric de Rougemont (1808-1876) è qui richiamato per i suoi tentativi di riproporre, in prospettiva filosofico-storica, alcuni celebri motivi della tradizione biblica e patristica sulla storia dell’umanità. Fra i suoi scritti in proposito si segnala: Les deux cités: la philosophie de l’histoire aux différents âges de l’humanité (1874). 11

Cfr. K. MARX, Per la critica dell’economia politica cit., p. 10. Cfr. F. ENGELS, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Editori

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Riuniti, Roma 1972, pp. 60-62. Per l’importanza del principio di conservazione dell’energia nel pensiero di Engels, cfr. ID., Dialettica della natura, Editori Riuniti, Roma 1967. 13

Michele di Lando (1343-1401) fu uno dei protagonisti della rivolta dei Ciompi, il tumulto scoppiato a Firenze nell’estate del 1378 ad opera dei ceti popolari intenzionati a veder riconosciuti i loro diritti accanto a quelli del “popolo grasso”, l’alta borghesia delle professioni, e del “popolo minuto”, il ceto medio costituito da artigiani benestanti. Eletto Gonfaloniere di giustizia, riuscì a far istituire tre nuove Arti, rappresentative dei mestieri più umili praticati dagli addetti alla lavorazione della lana (scardassieri o “ciompi”, sarti e tintori). Travolto dalle stesse rivendicazioni popolari e osteggiato dalle altre fazioni, Michele di Lando fu infine costretto all’esilio. 14 Con la nozione di «individualisme», ricorrente sia negli scritti politici che nelle opere storiografiche, Louis Blanc (1811-1882) intende quella tendenza, introdotta a suo parere dalla Riforma e perfettamente incarnata nella cultura liberale inglese, a concepire il singolo come isolato rispetto al contesto sociale, in competizione con gli altri e titolare di diritti solo in quanto individuo, ovvero incapace di considerarsi parte del corpo sociale. Si vedano, ad esempio, Histoire de la Révolution française (1847-1862) e Lettres sur l’Angleterre (1866-1867). 15

Su Robert Malthus si veda supra, nota 51, pp. 1775-1776. Labriola si riferisce verosimilmente alla sommossa degli operai parigini, scoppiata alla fine di aprile

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1789, ai danni dell’industriale Jean-Baptiste Réveillon. La «rivolta di Preriale» è invece l’insurrezione del 1° Pratile (Prérial), ovvero del 20 maggio 1795, con cui i montagnardi, facendo leva sul malcontento della popolazione stremata dall’inflazione, tentarono di prendere il controllo della Convenzione e restaurare il potere giacobino. 17 L’allusione è all’uso dispregiativo del termine «idéologue», inteso come sinonimo di «dottrinario» e «dogmatico», con cui Napoleone Bonaparte usava riferirsi a quegli intellettuali che sapeva essere ostili al suo regime. 18 Le giornate comprese fra il 23 ed il 26 giugno 1848, note come “Giornate di giugno”, segnarono tragicamente l’esito della prima fase del governo repubblicano nato dalla rivoluzione parigina del febbraio 1848, determinando la sconfitta del partito operaio e la svolta in senso populista e conservatore della classe di governo borghese, uscita vincitrice dalle elezioni di aprile. 19 La legge stataria è la legge marziale che viene proclamata in caso di assedio. È plausibile che Labriola alluda qui alle vicende della Commune parigina, stretta d’assedio fra aprile e maggio del 1871. 20

Su Robert Owen si veda supra, nota 29, p. 1772. Lettore di Rousseau e degli altri pensatori illuministi, lo svizzero Johann Heinrich Pestalozzi (1746-

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1827) dedicò interamente la propria vita alla conduzione di istituti scolastici che rispecchiassero le proprie convinzioni pedagogiche e sociali. Ad una prima scuola rivolta ai bambini orfani nei pressi della tenuta agricola di sua proprietà, a Neuhof, fecero seguito negli anni altre esperienze, come quelle dell’orfanotrofio di Stans e del convitto di Yverdon. Le sue teorie pedagogiche, incentrate sull’idea di una crescita complessiva della persona (dalla fase della naturalità, a quella della socialità e dell’eticità), sulla

valorizzazione della componente intuitiva e materiale nella formazione elementare, e sul ruolo familiare e materno, sono contenute in una serie di scritti, fra i quali: Mie indagini sopra il corso della natura umana nello svolgimento del genere umano (1797); Leonardo e Gertrude (1781-1787), Libro delle madri (1803), Idee, esperienze e mezzi per promuovere un’educazione conforme alla natura umana (1806), Il canto del cigno (1825). 22

L’Accademia del Cimento fu fondata a Firenze nel 1657 da Evangelista Torricelli (1608-1647) e

Vincenzo Viviani (1622-1703), incontrando l’approvazione del Principe Leopoldo de’ Medici e del Granduca Ferdinando II. Il motto dell’Accademia, che riunì da subito alcuni fra i maggiori allievi di Galileo e scienziati italiani, era il celebre «Provando e riprovando», tratto dal terzo canto del Paradiso dantesco. 23

Di «menti spiegate» per intendere la razionalità dell’uomo giunto al compimento del corso civile Vico parla sia nella Scienza Nuova del 1725 che in quella del 1744, cfr. G. VICO, Opere, 2 voll., Mondadori, Milano 1990, vol. I, pp. 584 e 952; vol. II, p. 1050. 24 Nel giugno del 1793, su iniziativa di Joseph Lakanal (1762-1845), la Convenzione approvò il disegno di legge che trasformò il vecchio Jardin royal des plantes médicinales in Muséum national d’histoire naturelle. Il celebre naturalista Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829), già titolare di un insegnamento presso il Jardin royal, fu nominato professore di zoologia degli invertebrati. 25

In realtà, come già osservato da Croce, Labriola dimostra di ricordare male il passo dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (§ 250, in nota) in cui Hegel cita l’invito a dedurre la propria penna, lanciato provocatoriamente ai filosofi della natura nelle Briefe über den neuesten Idealismus (1801) del kantiano Wilhelm Traugott Krug (1770-1842). Cfr. G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche cit., pp. 426-427. 26 Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte risale al 1852; per la traduzione italiana, cfr. K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 2006. 27

Il riferimento è a Der deutsche Bauernkrieg (1850) e a Gewalt und Ökonomie bei der Herstellung

der neuen Deutschen Reichs, scritto alla fine del 1887 ma apparso postumo per iniziativa di Eduard Bernstein (1850-1932), su «Die Neue Zeit», XIV, 1895-1896. Cfr. F. ENGELS, La guerra dei contadini in Germania, Editori Riuniti, Roma 1976 e ID., Violenza ed economia nella formazione del nuovo impero tedesco, Rinascita, Roma 1951. 28 Su Friedrich Anton Heller von Hellwald (1842-1892) si veda supra, nota 29, p. 1772. L’opera qui menzionata, Kulturgeschichte in ihrer natürliche Entwicklung bis zur Gegenwart (1875), conobbe diverse edizioni, la più recente delle quali, al momento dell’uscita del saggio labrioliano era ancora in corso (Lipsia, Friesenhahn 1896-1898). 29 Dello scritto di Karl Kautsky Die Klassengegensätze von 1789: zum hundertjährigen Gedenktag der großen Revolution [Le lotte di classe del 1789: per il centenario della grande Rivoluzione] (1889) non esiste una traduzione italiana. Una traduzione francese apparve nel 1901 per la Bibliothèque d’études socialistes dell’editore Jacques. 30

L’esempio è tratto molto probabilmente dall’Enciclopedia hegeliana, che al §10, mostrando l’assurdità di un «esame preliminare della coscienza in sé», rievoca uno degli aneddoti di fantasia attribuiti al neoplatonico Ierocle di Alessandria (v sec. d.C.) secondo il quale il filosofo Scholasticus, preoccupato di annegare, avrebbe preteso di imparare a nuotare senza mettere neanche un piede in acqua. Cfr. G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche cit., p. 110-111. 31

Reagendo ad una visione della storia dominata dall’utilitarismo di matrice positivistica e dal mito

ottimistico del progresso, Thomas Carlyle (1795-1881) sosteneva che la storia fosse irriducibile ad una sequenza meccanicistica di eventi e che si dovesse piuttosto tenere conto di quelle personalità eroiche, capaci di imprimere individualmente un nuovo corso ai destini di un popolo e di una nazione. Si veda in particolare, a questo riguardo, lo scritto Gli eroi (1841). 32

Accomunati in verità solo dalla brillante carriera militare, e dalla tendenza a servirsene in modo disinvolto per i propri fini politici e interessi personali, i due personaggi evocati da Labriola si collocano in contesti storici ben diversi. Ufficiale inglese, fedele alla Corona, George Monk (1608-1670) non esitò a combattere al fianco di Oliver Cromwell in Scozia e nella guerra anglo-olandese per poi tornare a servire nuovamente il re, Carlo II, dopo la restaurazione della monarchia. Fu proprio per i servigi prestati al nuovo monarca che Monk ottenne il titolo di duca di Albermarle ed una cospicua pensione. Figura d’attualità al tempo di Labriola, il generale francese Georges Boulanger (1837-1891) seppe far leva sul desiderio di riscatto anti-germanico: divenuto ministro della guerra nel 1886, nel 1887 dovette lasciare il governo ma non cessò di occupare la ribalta politica, ponendosi alla testa di un movimento populista, noto appunto come “boulangismo”, capace di raccogliere, accanto a quelle dei militari, le simpatie di parte della destra e dei nostalgici bonapartisti. Ormai ad un passo dal colpo di Stato, nel gennaio del 1889 fu messo sotto accusa dal Parlamento e costretto alla fuga. Condannato in contumacia per alto tradimento, non fece più ritorno in Francia. 33 Come attestato da diverse relazioni di ambasciatori della Serenissima e da altri documenti d’archivio, nel maggio del 1504 il Senato veneziano discusse in effetti della possibilità di costruire un canale che consentisse l’attraversamento dell’istmo di Suez. La proposta fu però respinta. Cfr. R. FULIN, Il canale di Suez e la Repubblica di Venezia (MDIV), in «Archivio veneto», II, 1871, pp. 175-213. 34 «I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui»: K. MARX, Per la critica dell’economia politica cit., p. 11. 35

Labriola si riferisce rispettivamente al fallito tentativo di rivolta fomentato nella Repubblica indipendente del Transvaal, nell’attuale Sud Africa, ai danni del governo boero dalle forze coloniali britanniche, in occasione del capodanno 1896 (Jameson Raid); e alla dura sconfitta subita dalle truppe italiane ad Adua, in Abissinia, ad opera dell’esercito etiope, il 1° marzo 1896. 36 «È solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi né antagonismo di classi, che le evoluzioni sociali cesseranno d’essere rivoluzioni politiche»: K. MARX, Miseria della filosofia: risposta alla “Filosofia della miseria” del signor Proudhon, Rinascita, Roma 1949, p. 140. 37

Si tratta del celebre paragrafo di chiusura della seconda sezione del Manifesto. Cfr. K. MARX,

Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino 1970, p. 158. 38 Cfr. K. MARX, Per la critica dell’economia politica cit., pp. 11-12. 39

Cfr. F. ENGELS, Antidühring, Editori Riuniti, Roma 1950, pp. 308-310.

Appendice a «Del materialismo storico» 1

Di origini morave, Tomáš Garrigue Masaryk (1850-1937), fu sociologo, filosofo e uomo politico. Allievo di Franz Brentano all’Università di Vienna, successivamente di Wilhelm Wundt a Lipsia, dal 1882 insegnò all’Università di Praga. Nel 1883 fondò il periodico «Athenaeum», su cui intervenne a vario titolo, non da ultimo per combattere il dilagare dell’antisemitismo. Tra i fondatori del Partito ceco del popolo ed eletto in Parlamento con il sostegno dei socialdemocratici, allo scoppio della prima guerra mondiale scelse la via dell’esilio, soggiornando in Italia, Svizzera, Francia e Inghilterra. Nel 1917, in Russia, contribuì all’organizzazione della “Legione cecoslovacca”, nata in funzione del conflitto mondiale ma impiegata poi come primo nucleo dell’esercito controrivoluzionario. Rifugiatosi negli Stati Uniti, espose al presidente Wilson il suo progetto di uno Stato unitario ceco-slovacco. Il 14 novembre 1918 l’Assemblea nazionale provvisoria della Repubblica Cecoslovacca lo elesse Presidente. Confermato alla Presidenza altre tre volte, si dimise nel 1935 per ragioni di salute. Tra i suoi scritti, accanto a I fondamenti filosofici e sociologici del Marxismo: studi sulla questione sociale (1899) e La crisi scientifica e filosofica interna al marxismo contemporaneo (1898) qui richiamati da Labriola, si ricordano: Fondamenti di logica concreta (1885); Russia ed Europa (1913); La rivoluzione mondiale (1925). 2

I fondamenti filosofici e sociologici del Marxismo: studi sulla questione sociale (1899). Edita dalla casa editrice torinese Fratelli Bocca, la «Rivista italiana di sociologia» (1897-1923) era

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animata in quegli anni, fra gli altri, dall’economista Salvatore Cognetti de Martiis (1844-1901), dai giuristi Augusto Bosco (1859-1906) e Guido Cavaglieri (1871-1917) e dall’antropologo Giuseppe Sergi (18411936). 4 T. G. MASARYK, Die wissenschaftliche und philosophische Krise innerhalb des gegenwärtigen Marxismus, in «Die Zeit», 177-179, febbraio-marzo 1898, pp. 117-119, 133-134, 150-152. 5 ID., La Crise scientifique et philosophique du marxisme contemporain, in «Revue internationale de sociologie», VI, 1898, pp. 511-528. L’opuscolo apparve anche in estratto per Giard & Brière, Paris 1898. 6 T. G. MASARYK, Versuch einer concreten Logik: classification und organisation der Wissenschaften, Konegen, Wien 1887. L’edizione originale, in lingua ceca, era apparsa a Praga due anni prima: ID., Základové konkretné logiky: třiděni a soustava věd, Bursík & Kohout, V Praze 1885. 7

ID., Otázka sociální: základy marxismu sociologické a filosoficke, Nákladem Jana Laichtera, V Praze 1898. 8 Cfr. E. BERNSTEIN, Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie, Dietz, Suttgart 1899 (trad. it.: I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1968). Al libro di Bernstein, e alla polemica sul revisionismo che esso suscitò, Labriola aveva dedicato alcune settimane prima (aprile) uno scritto, pubblicato in forma di lettera aperta indirizzata al direttore Hubert Lagardelle, con il titolo À propos du Livre de Bernstein, nel «Mouvement socialiste» del 1 maggio 1899 ed apparso anche, per la stessa ricorrenza, sull’«Avanti!», in versione italiana e sotto il titolo redazionale di Polemiche sul socialismo, vedi supra, pp. 1647-1650. 9

Id., Die Krise innerhalb des Marxismus, in «Die Zeit», 239-240, 29 aprile - 6 maggio 1899, pp. 72-74, 86-87. 10 ID., Die Krise innerhalb des Marxismus. Zum Stuttgarter Parteitag, in «Die Zeit», 213, 29 ottobre 1898, pp. 65-66. Per il contributo inviato da Bernstein al Congresso socialdemocratico di Stoccarda, cfr. A.A.V.V., Protokoll über die Verhandlungen des Parteitages der Sozialdemokratischen Partei Deutschlands Abgehalten zu Stuttgart vom 3. bis 8. Oktober 1898, Expedition der Buchhandlung Vorwärts, Berlin 1898,

pp. 122-125. 11 Secondo la denominazione diffusa al tempo dell’Impero austro-ungarico, la Cisleitania designava i territori situati ad Ovest del fiume Leita, ovvero la porzione occidentale e austriaca dell’Impero. A quest’area geo-politica, rappresentata nel Consiglio Imperiale (Reichsrat), apparteneva anche il Regno di Boemia, per il quale Tomáš Masaryk fu eletto deputato dal 1891 al 1893. Pur essendo schierato fra le fila del Partito dei giovani cechi, le cui idee nazionalistiche si contrapponevano alla politica dei “vecchi cechi”, riuniti nel Partito nazionale, Masaryk non condivideva in quegli anni il progetto di una reale indipendenza dall’Impero, prospettiva divenuta praticabile solo a seguito del primo conflitto mondiale. Pochi mesi dopo lo scritto di Labriola, smentendone le osservazioni sulla lontananza dalla politica attiva, Masaryk contribuì alla nascita del “Partito ceco del popolo”, per il quale fu nuovamente eletto in Parlamento fra il 1907 ed il 1914. 12 Il riferimento è probabilmente al periodico «Naše doba» [Il nostro tempo], fondato da Masaryk nel 1894. È da notare, tuttavia, che già negli anni Ottanta dell’Ottocento Masaryk si era fatto promotore di un’altra importante rivista di letteratura e cultura boema, «Athenaeum», fondata nel 1883. 13 Su Anton Menger (1841-1906), vedi supra, nota 16, p. 1769-1770. 14

Il riferimento è con molta probabilità all’Introduzione (1895) scritta da Engels per la ristampa de Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (Verlag der Expedition des «Vorwärts», Berlin 1850). È emerso dalla pubblicazione del carteggio engelsiano che la pubblicazione di questo testo ebbe una vicenda assai travagliata. Accogliendo la richiesta formulata dai dirigenti socialdemocratici, ai primi di marzo del 1895 Engels si disse disponibile ad ometterne alcuni passi che avrebbero potuto indurre le autorità a promulgare norme più restrittive nei confronti dei socialisti tedeschi. Tuttavia, prima ancora che la versione così rivista vedesse la luce, una selezione di passi, ulteriormente purgata, fu pubblicata nel «Vorwärts!» del 30 marzo 1895, in un articolo di fondo intitolato Wie man heute Revolution macht. Su richiesta di Engels, il testo, comprensivo delle modifiche volute dall’autore, fu quindi pubblicato su «Neue Zeit», XIII, 2, nn. 27-28, 1894-1895. I passi soppressi furono infine inclusi negli Ausgewählte Schriften (1934) a cura dell’Istituto per il marxismo-leninismo di Mosca. Fu lo stesso Engels, commentando gli estratti della sua Introduzione apparsi sul «Vorwärts!», ad osservare come da essi non si potesse che ricavare l’immagine di un fautore della «tattica ad ogni costo pacifica e contraria alla violenza» (Lettera a Kautsky, 1 aprile 1895, cfr. K. MARX – F. ENGELS, Opere, vol. L: Lettere: gennaio 1893-luglio 1895, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 489). 15 Philister, filisteo, ricorre sovente negli scritti di Marx e di Engels per designare autori o figure legate alla cultura borghese. Labriola se ne serve in questo stesso Saggio per alludere al profilo borghese e privato di Kant, contrapposto al carattere rivoluzionario e radicale dei suoi scritti, vedi p. 16

«In der beständigen Veränderung der Gesellschaftsordnung sucht Marx den rein objectiven, durch die Geschichte selbst sich aufzwingenden Grund für den Communismus. Nach Marx ist die Philosophie eine naturalistische Copie des Weltprocesses – der Communismus ist einfach durch die Geschichte gegebe. Marx’ Materialismus ist historischer Materialismus»: T. G. MASARYK, Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus – Studien zur sozialen Frage, Konegen, Wien 1899, p. 89. 17 «Seine und Engels’ Philosophie trägt den Charakter des Eklekticismus», Ivi. 18

Su Eduard Bernstein (1850-1932) si veda infra, nota 2, p. 1836. Georgij Valentinovič Plechanov

(1856-1918) fu uno tra i primi e maggiori interpreti russi del marxismo. Fu corrispondente di Labriola, che nondimeno, scrivendo di lui a terzi, vi si riferisce quasi sempre in tono estremamente polemico e dispregiativo. Discendente da una famiglia della piccola nobiltà terriera, durante gli anni di studio a San Pietroburgo si avvicinò ad alcune organizzazioni populiste ed intraprese un’attività politica clandestina che lo vide fra gli organizzatori di alcune fra le prime grandi manifestazioni di protesta contro il regime zarista (1876). Nel

1880 emigrò in Svizzera e successivamente in Francia, da dove, grazie alla lettura delle opere di Marx ed Engels (divenne anche corrispondente di quest’ultimo), maturò un progressivo distacco dal populismo, di cui espresse le motivazioni nello scritto Le nostre divergenze (1884). Lo studio dell’economia politica lo condusse contestualmente ad elaborare una propria idea della trasformazione in senso socialista della società russa, incentrata sulla necessità di un certo grado di sviluppo del capitalismo agrario. Nel 1883 contribuì a fondare l’Associazione per l’emancipazione del lavoro (Gruppa Osvobozhdenie Truda), prima organizzazione dichiaratamente marxista in Russia. Rientrato una prima volta in patria in occasione della Rivoluzione del 1905, vi tornò definitivamente nel 1917, in piena guerra mondiale, schierandosi con la fazione menscevica. Morì nel 1918, a pochi mesi dalla presa del potere da parte di Lenin. La sua opera più nota è Studio sullo sviluppo della concezione monistica della storia (1895). Ernest Belfort Bax (1854-1926) si dedicò ad approfondire le implicazioni filosofiche della teoria marxiana, riconducendola al pensiero di autori quali Kant, Schopenhauer e Hartmann. Conrad Schmidt (1863-1932), economista e giornalista, collaboratore del «Vorwärts!», fu inizialmente critico di alcune teorie economiche di Marx, rivide poi le proprie posizioni divenendo amico di Engels. Il rabbino Jakob Stern (1843-1911) si distinse come studioso e traduttore di Spinoza, dopo essersi votato alla causa del libero pensiero, si avvicinò progressivamente alle tesi socialdemocratiche. Inizialmente su posizioni socialdemocratiche e lassalliane, lo storico tedesco Franz Mehring (18461919) aderì alla Lega Spartachista contribuendo poi alla fondazione del Partito comunista tedesco. Autore di un’importante biografia marxiana, Karl Marx. Storia della sua vita (1919), tra i suoi numerosi scritti figurano La leggenda di Lessing (1893) e Storia della socialdemocrazia tedesca (1897-1898). 19

La citazione è tratta dal sonetto VII della Prima Parte del Canzoniere petrarchesco: «La gola e ‘l

sonno et l’otïose piume». L’Università Carolina di Praga, la prima a sorgere nel Sacro Romano Impero Germanico, fu fondata nel 1348, lo stesso anno della scomparsa di Laura cantata dal Petrarca. 20 «Marx spricht ihn unter dem Einfluss der gennanten Zeitgenossen und Vorgänger ebenfalls aus; in der That formulirt Marx nur das, was, wie man zu sagen pflegt, in der Luft hängt. Deshalb habe ich in der Darstellung des wissenschaftlichen Entiwicklungsganges von Marx auf vereinzelte Einflüsse kein so grosses Gewicht gelegt»: T. G. MASARYK, Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus cit., p. 166. 21

«Ich selbst erkläre mir die Welt und die Geschichte theistisch: der theistische Determinismus ist mir dann nicht nur socialer, sondern auch metaphysischer Synergismus», Ibidem, p. 234. 22 Il riferimento è evidentemente a Der Ursprung der Familie, des Privateigenthums und des Staats (1884). Cfr. F. ENGELS, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma 1986. 23 La “giovane” o “nuova scuola storica tedesca” vede tra i suoi fondatori, accanto a Gustav von Schmoller (1838-1917), l’economista tedesco Lujo Brentano (1844-1931), su cui vedi supra, nota 14, p. 1760. 24 Della storia come di «inferno» e «tragedia del lavoro» Labriola parla in effetti in Discorrendo di socialismo e di filosofia: il riferimento corretto è però alla Lettera VIII, vedi supra, p. 1468. Vedi anche A proposito della crisi del Marxismo, supra, p. 1382. Interessante, a questo riguardo, quanto riferisce Croce circa un vero e proprio progetto letterario labrioliano sul tema: «nel 1896 il Labriola mi espose l’idea che egli vagheggiava di un Poema, anzi di una Tragedia del lavoro, svolgentesi per gradi successivi, attraverso i secoli; e ne improvvisò, anche, a tutto mio beneficio, qualche capitolo, che ritraeva i lavoratori egiziani delle Piramidi; ma il libro rimase, come tanti altri suoi, in idea», B. CROCE, Giovanni Bovio e la poesia della filosofia, parte II, in «La Critica», V, 1907, pp. 417-435: 419. 25 «Den Aufgaben der Zeit ist blos eine neue schöpferische Synthese gewachsen»: T. G. MASARYK,

Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus cit., p. 513. 26

Sull’esempio dei curatori dell’edizione A. LABRIOLA, Da un secolo all’altro 1897-1903, Bibliopolis, Napoli 2012 si è corretto qui il lemma «neoetica», attestato sia dall’edizione in opuscolo del 1899 che quella a stampa del 1902, con «noetica», lezione che trova riscontro nel manoscritto autografo del testo (Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, Fondo Dal Pane, ms. 19.1) e confermata da un passo del libro di Masaryk: «Die Noëtik muss sich auf Kritik des socialen und historischen Bewusstseins ausdehnen», T. G. MASARYK, Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus cit., 514-515. Cfr. A. LABRIOLA, Da un secolo all’altro 1897-1903 cit., p. 291. 27

«Das Marx’sche Kapital ist die ökonomische Transcription des Faustischen Mephisto», T. G. MASARYK, Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus cit., p. 516. 28 Vedi nota n. 29 Cfr. ad esempio, lo scritto Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland (1834) confluito nell’opera De l’Allemagne, H. HEINE, Sämtliche Werke, vol. V: Über Deutschland. Erster Theil, Hoffmann und Campe, Hamburg 1861. 30 «(…) ich behaupte, dass der Mensch von Natur aus nicht nur gerne herrscht, sondern auch ebenso gerne sich unterordnet und gehorcht»: T. G. MASARYK, Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus cit., p. 405. 31

Cfr. E. BERNSTEIN, Probleme des Socialismus, in «Die Neue Zeit», xv, 1896-1897, vol. I, pp. 164171, 204-213, 303-311, 772-783; vol. II, pp. 225-232, 388-395. 32 «Der Glaube ist der höchste, jedem normalen Menschen nothwendige Objectivismus und eo ispo social: Marx’ Objectivismus ist viel zu gallig»: T. G. MASARYK, Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus cit., p. 480. 33

Cfr. E. BERNSTEIN, Das realistische und ideologische Moment im Socialismus, in «Die Neue Zeit», XVI, 1897-1898, vol. II, pp. 225-232, 388-395; K. SCHMIDT, Socialistische Moral, in «Ethische Cultur», II, 20-21, 1894. 34 «Marx’ Faust verlässt schliesslich seinen titanischen Kampf und eilt zur Wahlurne», Ibidem, p. 562. 35

Avvocato, docente di Diritto penale e criminologo, Enrico Ferri (1856-1929) si formò alla scuola di antropologia criminale di Cesare Lombroso (1835-1909), correggendone però la tendenza marcatamente fisicalistica con una maggiore attenzione per la psicologia positiva e per l’analisi dei fattori socioeconomici. Fondò la rivista di criminologia «Scuola positiva». Eletto dapprima nelle fila del Partito radicale, nel 1893 aderì al Partito socialista come moderato, spostandosi gradualmente su posizioni più intransigenti. Dal 1903 al 1908 fu direttore dell’«Avanti!». Il sostegno all’intervento italiano in Libia, nel 1911, provocò una prima crisi nei rapporti con il partito, che culminò negli anni Venti con il progressivo avvicinamento di Ferri al Fascismo. Convinto assertore della possibilità di coniugare socialismo e teoria darwiniana, i suoi presupposti positivistici non trovarono mai d’accordo Labriola, che non perse occasione di dichiarare le sue riserve su Ferri (si vedano gli espliciti riferimenti a lui indirizzati nella polemica con De Bella, nella lettera VII del Discorrendo), riservando i giudizi più impietosi sull’opportunismo e la ciarlataneria del compagno di partito ad alcune lettere private (cfr. la lettera a Luise Kautsky del 10 marzo 1895, Carteggio, III, pp. 535-536). Fra gli scritti di Ferri si segnalano: Socialismo e criminalità (1883); Sociologia criminale (cinque edizioni fra il 1881 ed il 1929); Socialismo e scienza positiva: Darwin, Spencer, Marx (1894). 36

«Das bedeutet allerdings den Materialismus, speciell den ökonomischen Materialismus, aufgeben, vom Amoralismus ablassen und im ethischen Gefühle der Mitverantwortlichkeit und Solidarität für die lebenden und zukunftigen Generationen arbeiten. Das bedeutet alle Arbeit, nicht blos die politische, von

einem einheitlichen Gesichtspunkte leiten und höheren Zielen unterordnen – der Demokratismus muss zu einer allgemeinen Lebens-und Weltanschauung erweitert werden. Die Politik eines solchen Demokratismus wird eine wahrhafte Lebens-und Weltpolitik sein – eine Politik sub specie aeternitatis»: T. G. MASARYK, Die philosophischen und sociologischen Grundlagen des Marxismus cit., p. 585. 37

Si tratta della già ricordata lettera aperta a Lagardelle, pubblicata con il titolo À propos du Livre de Bernstein nel «Mouvement socialiste» del 1 maggio 1899, vedi nota 3.

Discorrendo di socialismo e di filosofia 1

«Del tono dottoral mi son seccato, / voglio tornare diavolo davvero»: W. GOETHE, Il primo Faust, Rizzoli, Milano 1949, pp. 72-73. 2 Sui rapporti con Croce, vedi infra, nota 152, p. 1811. 3

Il romanzo filosofico Jacques le fataliste et son maître [Jacques il fatalista e il suo padrone] (1773) è certamente tra gli scritti più riusciti e provocatori, sul terreno della morale ma anche della messa in dubbio dell’ordine sociale tradizionale, di Denis Diderot (1713-1784). 4 Il riferimento è allo scritto Le droit à la paresse: réfutation du droit au travail de 1848 [Il diritto all’ozio: refutazione del diritto al lavoro del 1848] (1883) di Paul Lafargue (1842-1911). Inizialmente su posizioni proudhoniane, questi si avvicinò poi ad Engels e Marx (di cui divenne genero), impegnandosi a diffonderne l’opera in Francia. Fu per un certo periodo corrispondente di Labriola, cfr. Carteggio, III, pp. 159, 241, 258, 268, 293, 361. 5 Jean Paul è lo pseudonimo di Johann Paul Friedrich Richter (1763-1825): scrittore e pedagogista tedesco, si occupò di teoria estetica opponendosi al classicismo schilleriano. Lo pseudonimo francese è dovuto alla profonda ammirazione per Rousseau, di cui cercò di diffondere in Germania alcune delle intuizioni pedagogiche più innovative. Tra i suoi scritti: Vita di Maria Wuz (1790); Matrimonio, morte e nozze dell’avvocato dei poveri F. St. Siebenkäs (1796); Titano (1800-1803); Anni acerbi (1805); Levana (1807). 6 Il riferimento è a Les origines de la France contemporaine (1876-1893) di Hippolyte Taine (18281893). 7 Il richiamo alla Rivoluzione francese prosegue con la menzione di alcuni dei protagonisti di quei fatti. Louis Antoine Léon Saint-Just (1767-1794), deputato alla Convenzione dal 1792, fece parte nel Comitato di salute pubblica. Vicino a Robespierre durante il Terrore, cadde insieme a lui sotto la ghigliottina il 28 luglio 1794. Jospeh Fouché (1759-1820), duca d’Otranto, fu deputato alla Convenzione: prese le distanze da Robespierre in occasione del 9 Termidoro, ebbe nuovamente incarichi di governo sotto il Direttorio. Georges Jacques Danton (1759-1794), figura di spicco della Convenzione, fondatore del club dei Cordieliers, Ministro di giustizia e membro del Comitato di salute pubblica fu tra le vittime più illustri del Terrore giacobino. Jean-Jacques de Combacérès (1753-1824) fu arcicancelliere imperiale sotto Napoleone e partecipò alla redazione del Code civil, promulgato nel 1804. Jean Bapiste Drouet (1765-1844), generale dell’esercito francese, si distinse durante le guerre napoleoniche. Il sottoprefetto Jean Lambert Tallien (1767-1820), già funzionario pubblico sotto il Terrore, fu tra i promotori del colpo di Stato di Termidoro. 8 Cfr. CICERONE, De oratore, II, 9, 36, in cui è contenuta la celebre definizione «historia magistra vitae». 9 Labriola ripropone qui gli interrogativi posti da Sorel nella Préface: «Le