Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore [3 ed.] 8858106504, 9788858106501

"E veramente nelle città di Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i g

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Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore [3 ed.]
 8858106504, 9788858106501

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i Robinson / Letture

Di Maurizio Viroli nelle nostre edizioni:

Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia L’intransigente La libertà dei servi Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia Repubblicanesimo Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli

(con N. Bobbio)

Dialogo intorno alla repubblica

Maurizio Viroli

Scegliere il principe I consigli di Machiavelli al cittadino elettore

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2013

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0650-1

a Massimo, fermo nei princìpi, incerto nel voto

Indice

Premessa.  Perché chiedere consiglio proprio a Niccolò Machiavelli? I.

Prendere il manco tristo per buono ovvero: I cittadini intelligenti hanno a cuore il bene pubblico e fanno sentire la propria voce

II.

Le corti sono piene [di adulatori], perché gli uomini si compiacciono tanto nelle cose lor proprie, e in modo vi s’ingannano, che con difficultà si difendono da questa peste ovvero: Di tutti i politici, i peggiori sono i servi

IV.

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Giudica alle mani, non agli occhi ovvero: I politici si giudicano guardando i fatti e non le apparenze

III.

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Una republica bene ordinata debbe aprire le vie a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private ovvero: Chi fa favori e promette la luna vuol dominare, anche se sembra buono

vii

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V.

Per la povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come e’ si andava a trovare la virtù in qualunque casa l’abitasse ovvero: Sostenere uomini ricchi e potenti è da sciocchi

VI.

Se mai i Romani non avessono prolungati i magistrati e gli imperii [...], sarebbono ancora più tardi venuti nella servitù ovvero: Chi è al potere da molti anni è un pericolo per la Repubblica

VII.

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‘Un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo’, un popolo ‘che può fare ciò che vuole, non è savio’ ovvero: La vera sicurezza è soltanto nella libertà e nelle leggi

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VIII. L’ambasciatore deve più di ogni altra cosa ‘acquistarsi reputazione’ mostrando con il proprio comportamento di essere ‘uomo da bene’, generoso, integro, ‘non avaro e doppio’ ovvero: I cittadini che hanno pubblici incarichi devono assolverli con disciplina e onore

IX.

Amare la pace e saper fare la guerra ovvero: Un popolo deve essere in grado di difendere la propria libertà

X.

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Andate ad morire con cotesti danari, poiché voi non havete voluto vivere sanza epsi ovvero: Non pagare le tasse è comportamento da folli (oltre che da disonesti)

viii

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XI.

È meglio fare e poi pentirsi che non fare e poi pentirsi ovvero: La saggezza del vivere consiste nella giusta armonia di gravità e leggerezza

XII.

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Studia, fa bene, impara: se tu ti aiuterai, ciascuno ti aiuterà ovvero: L’educazione nella famiglia è essenziale per la formazione del buon cittadino

58

XIII. Come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi

ovvero: Un popolo corrotto non può vivere libero 63

XIV. È necessario imparare a poter essere non buono ovvero: Il politico può allontanarsi dalle virtù soltanto in circostanze eccezionali

XV.

68

La cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi ovvero: Chi non capisce i tempi e gli uomini è destinato a perdere

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XVI. Era questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni ... ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo ovvero: Solo politici saggi e onesti possono toccare la Costituzione

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XVII. Amo la mia patria più dell’anima ovvero: Il buon politico pone il bene comune al di sopra di tutto ix

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XVIII. Non si deve adunque lasciar passare questa occasione, acciocché la Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore



ovvero: La vera priorità dell’Italia è la rinascita civile

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Per ulteriori consigli

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Scegliere il principe

Ringrazio Gabriella, mia moglie, per esserci sempre e per la preziosa ed insostituibile cura editoriale del manoscritto, e Giorgio Volpe, per i commenti acuti e pertinenti.

Premessa

Perché chiedere consiglio proprio a Niccolò Machiavelli?

Con tanti opinionisti, commentatori ed esperti può apparire idea bizzarra rivolgerci a Niccolò Machiavelli perché ci aiuti a scegliere bene il nostro principe, quando dobbiamo votare, e ci insegni ad essere cittadini saggi. Machiavelli è vissuto a Firenze fra il Quattrocento e il Cinquecento (1469-1527), non hai mai visto una repubblica democratica, ed è pure diventato famoso nel mondo per un’opera, Il Principe, nella quale non ha dato consigli ai cittadini, ma al principe. In realtà, Machiavelli è l’uomo giusto. Conosceva e capiva la politica come pochi altri, anche se alcuni suoi contemporanei, come il grande Francesco Guicciardini (1483-1540) ritenevano che talune sue idee fossero troppo audaci per i tempi e le circostanze. Quando era Segretario della Repubblica, un suo amico, Filippo Casavecchia, gli scrisse: «voi siete il più grande profeta che sia venuto dai tempi degli ebrei». Anche dopo che i Medici lo cacciarono da Palazzo Vecchio, nel 1512, gli amici ricorrevano a lui per capire le vicende politiche e per prevedere il comportamento dei politici del tempo. Francesco Vettori (1474-1539), ambasciatore di Firenze presso la corte pontificia a Roma, gli scriveva nel 1514 che anche se erano passati due anni da 3

quando stava in Palazzo Vecchio, «vi riconosco di tanto ingegno» che saprete aiutarmi. Naturalmente anche Machiavelli a volte sbagliava. Una donna di cui si era innamorato, Lucrezia detta la Riccia, gli disse una volta, fingendo di parlare alla serva: «questi savi, questi savi, prendono sempre le cose a rovescio». Ma si riferiva a consigli di affari, o d’amore. Di affari non capiva nulla; di amori se ne intendeva abbastanza. Ma sulla politica non aveva rivali. Era poi uomo d’impeccabile onestà, virtù essenziale per un buon consigliere su questioni tanto importanti come quelle politiche. Prova della sua onestà era la sua povertà. Dopo aver servito il governo popolare di Firenze guidato da Pier Soderini per quattordici anni, e aver maneggiato enormi somme di denaro, si ritrovò, quando perse il suo incarico, più povero di prima. Per sbarcare il lunario e mantenere la sua famiglia (la mia «brigata», come la chiamava affettuosamente) s’ingegnò addirittura di fare tagliare un bosco nelle sue proprietà a Sant’Andrea in Percussina e vendere legna. Era però così inetto agli affari, come ho già detto, che abbandonò presto l’impresa e si mise a scrivere le sue grandi opere politiche. Aveva poi la virtù, considerata dai più un vizio, di esprimere schiettamente i suoi giudizi politici, anche se le circostanze della vita gli imposero a volte di simulare e mentire. Mentre era dai frati minori di Carpi, nel 1521, ad esempio, scrisse a Francesco Guicciardini che aveva imparato l’arte di non dire mai la verità o, se la diceva, di nasconderla fra tante bugie che era impossibile ritrovarla. Quando trattava di politica esprimeva il suo pensiero apertamente, anche ai potenti. Della Chiesa affermò che se gli italiani erano diventati «sanza religione e cattivi» la colpa era dei papi e dei preti (frati compresi); dei Medici signori di Firenze scrisse che il 4

grande Cosimo I fondò il suo regime con una politica di favori indegna del vivere repubblicano e che il tanto celebrato Lorenzo il Magnifico fece guerra contro Volterra per ambizione. Sappiamo poi per certo che amava la patria con tutto se stesso, e che per tutta la vita dedicò le sue migliori energie a difendere la libertà della sua Firenze e dell’Italia. Aveva anche lui, com’era giusto che avesse, interessi personali e ambizioni, che però non erano in contrasto con il bene comune. Questa è la garanzia migliore che da lui avremo ottimi suggerimenti. E non dobbiamo dimenticare che pochi, nella nostra lunga storia, hanno capito l’Italia come Machiavelli. Riteneva che i suoi compatrioti avessero grandi energie intellettuali, artistiche e imprenditoriali; ma era anche consapevole che mancavano della tempra morale necessaria a vivere liberi. Da quando Cesare e gli altri imperatori avevano soffocato la vita repubblicana della Roma antica, fino ai suoi giorni, gli italiani avevano conosciuto soltanto una libertà fragile e avevano subito sia l’oppressione straniera sia varie forme di tirannide, più o meno velate. Eppure, anche nei momenti più difficili della vita, mantenne viva la speranza che l’Italia fosse in grado di rinascere e di diventare una patria libera e ammirata. Rispetto ai tempi di Machiavelli, nella sostanza, la politica non è cambiata di molto. I politici dei nostri giorni hanno le medesime passioni di quelli che vivevano nella sua epoca: alcuni sono dominati dall’ambizione, altri dal desiderio di guadagno, o dalla paura, o dall’invidia o da varie combinazioni di queste passioni. Ma ci sono anche uomini e donne che hanno sentimenti generosi, quali l’amore della libertà e della giustizia, l’amore della patria, il desiderio di vera gloria. 5

Machiavelli ci appare dunque un consigliere competente, certamente del tutto disinteressato e che ha a cuore il bene dell’Italia. Trovarne un altro con le stesse qualità è assai difficile. Del resto a lui è sempre piaciuto dare consigli, e per noi italiani ha un occhio di riguardo. Va da sé che per avere suoi suggerimenti dobbiamo rivolgergli le domande giuste e riflettere bene sulle sue parole. Dobbiamo insomma avere un po’ di pazienza, ma ne vale la pena. La saggezza che ci può regalare il buon Niccolò aiuta ad essere migliori cittadini, e a vivere meglio.

I

Prendere il manco tristo per buono ovvero I cittadini intelligenti hanno a cuore il bene pubblico e fanno sentire la propria voce

Machiavelli ha vissuto la fine della Repubblica fiorentina, la nascita e il consolidamento del regime dei Medici, il rafforzamento del dominio straniero sull’Italia. Da queste drammatiche esperienze ha ricavato preziosi insegnamenti di saggezza politica, primo fra tutti che quando i cittadini non sono più in grado di assolvere i loro doveri o perché sono pigri, o perché sono corrotti, o perché si ritengono troppo furbi, accade inevitabilmente che qualche uomo potente e scaltro si faccia signore e corrompa la libertà. Soltanto i cittadini comuni, non i potenti, hanno interesse a difendere la libertà repubblicana. Mentre i primi non vogliono essere oppressi, i secondi vogliono dominare. Machiavelli ci offre questo consiglio riflettendo sulla storia di Roma nel periodo repubblicano. «E venendo alle ragioni, dico, pigliando prima la parte de’ Romani, come e’ si debbe mettere in guardia coloro d’una cosa, che hanno meno appetito di usurparla. E sanza dubbio, se si considerrà il fine de’ nobili e degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare, ed in questi solo desiderio di non essere dominati; e, per conseguente, maggiore volontà di vi7

vere liberi, potendo meno sperare di usurparla che non possono i grandi: talché essendo i popolari preposti a guardia d’una libertà, è ragionevole ne abbiano più cura; e non la potendo occupare [conquistare] loro, non permettino che altri la occupi» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I. 5; d’ora in avanti Discorsi). Uno dei mezzi che abbiamo a disposizione per controllare i governanti, e per far capire ai potenti che abbiamo a cuore il bene comune, è il voto. Quando gli uomini potenti vedono che i cittadini non votano e non hanno a cuore il bene comune, si persuadono di poter facilmente imporre la loro volontà con la forza o con l’inganno, o con l’una e l’altro. Per evitare di perdere la libertà, ci insegna il nostro Consigliere, è necessario che i cittadini tengano le loro mani sulla Repubblica («ciascheduno vi averà sopra le mani») e sappiano quello che devono fare e di chi si devono fidare («ciascuno saperrà quello ch’egli abbi a fare, e in che gli abbi a confidare»; Discursus florentinarum rerum). Vuol dire che se vogliamo vivere liberi e sicuri, dobbiamo essere vigili e attenti, per impedire che le mani sullo Stato e sulla città le mettano coloro che vogliono farsene padroni per trarne denaro e privilegi. Oltre al voto, i cittadini possono e devono usare anche le pubbliche manifestazioni, soprattutto quando i governanti vogliono imporre leggi che offendono i fondamentali diritti di libertà. Unico, forse, fra gli scrittori politici antichi e del suo tempo, Machiavelli loda i conflitti sociali perché ritiene che rafforzino la libertà. Se il popolo ha la forza di scendere in piazza e alzare la voce, i potenti riescono con difficoltà a imporre la loro volontà e si arriva con tutta probabilità ad un ragionevole compromesso e ad una legge che tiene conto 8

degli interessi dei diversi gruppi sociali. Se nessuno può imporre la propria volontà la città rimane, grazie ai conflitti, libera. Machiavelli si riferisce, è bene precisare, ai conflitti sociali che restano entro i confini della vita civile. Nei confronti dei conflitti sociali violenti, nei quali il popolo vuole umiliare i grandi o i grandi vogliono umiliare il popolo, la sua condanna è senza appello. La mobilitazione sociale non può, in ogni caso, sostituire il voto. Le leggi si approvano nei parlamenti, non nelle piazze. Se nei parlamenti siedono politici corrotti o incapaci, avremo cattive leggi. Per quanti difetti e inconvenienti abbia, il modo più sicuro per non avere cattive leggi è affidare il potere di scegliere i rappresentanti a tutti i cittadini. Le alternative alla sovranità popolare, che si esprime in primo luogo con il voto, sono affidare il potere di sovrano a una minoranza oppure affidarlo ad un principe. In merito alla prima possibilità, il nostro Consigliere avverte che «i pochi sempre fanno a modo de’ pochi»; in merito alla seconda, che il popolo giudica meglio di un principe. «Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità – scrive – dico, come un popolo è più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe». A ragione la voce del popolo è spesso paragonata alla voce di Dio: «perché si vede una opinione universale [l’opinione del popolo] fare effetti maravigliosi» nelle sue previsioni; «talché pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte, quando egli ode duo concionanti [oratori] che tendino in diverse parti, quando ei sono di equale virtù, che non pigli la opinione migliore, e che non sia capace di quella verità che egli ode» (Discorsi, I. 58). Machiavelli qui è forse troppo benevolo nei confronti della saggezza del popolo. Di fronte al desolante spet9

tacolo di corruzione e d’incompetenza che offrono ogni giorno, da tanti anni, molti dei nostri rappresentanti, la tentazione di denigrare la repubblica democratica e i partiti in quanto tali è comprensibile, ma non è un modo di pensare da cittadini saggi. Non ci sono valide alternative alla sovranità popolare, e neppure ai partiti (mentre ci sarebbero alternative valide ai partiti esistenti, per esempio partiti con leader migliori). Teniamoci allora cara la repubblica democratica e non cadiamo nell’errore di disprezzarla, per poi rimpiangerla, se la perdiamo. Andare a votare è il modo più efficace per far capire che la consideriamo un bene prezioso. Non c’è nessun candidato che ci convince del tutto o almeno in buona misura? Machiavelli ci viene in soccorso osservando che nessuno può credere di poter compiere scelte che non presentino inconvenienti o rischi, ma «pensi d’avere a prenderli tutti dubbi; perché si trova questo nell’ordine delle cose, che mai si cerca fuggire [evitare] uno inconveniente, che non s’incorra in un altro: ma la prudenza consiste in saper cognoscere la qualità degli inconvenienti, e prendere il manco tristo [meno dannoso] per buono» (Il Principe, XXI). Votiamo per il partito, o per il candidato, meno cattivo per metterci al riparo da disastri peggiori, ma votiamo. E rammentiamo anche che, sempre a giudizio del nostro Consigliere, se dopo un cattivo principe ne viene un altro peggiore, o altrettanto cattivo, qualsiasi repubblica andrà in rovina.

II

Giudica alle mani, non agli occhi ovvero I politici si giudicano guardando i fatti e non le apparenze

Per scegliere bene i politici e giudicare il loro operato è necessario adottare dei buoni criteri. Supponiamo, per esempio, che un candidato ci prometta di farci pagare meno tasse, o ci assicuri che potremo falsare i bilanci della nostra azienda, o costruire abusivamente, o devastare l’ambiente, o corrompere ed essere corrotti senza temere la sanzione delle leggi, e anzi ci ripeta ogni giorno che i suoi e nostri mortali nemici sono i magistrati; se siamo buoni cittadini, non dovremo giudicarlo e votarlo pensando esclusivamente ai nostri interessi ma pensando innanzitutto alle conseguenze che queste promesse porterebbero. Dovremo quindi chiederci se ci piacerebbe vivere in città degradate e povere di beni pubblici; se potremmo accettare che asili nido, scuole e università chiudano i battenti e siano sostituite da costosissimi istituti privati e che cure mediche e ospedali non siano più un diritto per tutti ma un privilegio per chi se lo può permettere; se ci converrebbe incontrare enormi difficoltà a svolgere attività imprenditoriali per la corruzione di politici e amministratori che, impuniti, decidono del nostro futuro; se accetteremmo di buon grado che nei luoghi di lavoro i più deboli siano sottoposti ad ogni sorta di umiliazioni e le carriere siano 11

aperte solo ai raccomandati; se troveremmo piacevole essere derisi in tutto il mondo. In questo caso, facendo prevalere il nostro interesse personale, non saremmo certo invasi da eserciti stranieri come accadde alla Repubblica fiorentina di Machiavelli, ma la vita in Italia diventerebbe talmente penosa che le persone che hanno un minimo senso della propria dignità cercherebbero di andarsene. Chi non avesse la possibilità di farlo trascorrerebbe i suoi giorni rattristato o rattristata dalla rabbia, dal rancore e dalla malinconia. Se invece votiamo per candidati che a nostro giudizio dedicheranno le loro migliori energie al bene della Repubblica, avremo più probabilità (non la certezza, che nelle cose umane in generale, e in quelle politiche in particolare, non esiste) di godere dei beni del vero vivere libero e incorrotto che il nostro Consigliere ha elencato in una delle sue pagine giustamente più famose: «Perché tutte le terre e le provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra dissi, fanno profitti [progressi] grandissimi. Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere e’ connubi più liberi, più desiderabili dagli uomini: perché ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto; e ch’ei conosce [sa] non solamente che nascono liberi e non schiavi, ma ch’ei possono mediante la virtù loro diventare principi [raggiungere posizioni di rilievo]. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che vengono dalle arti. Perché ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono a’ 12

privati e publici commodi [beni]; e l’uno e l’altro viene maravigliosamente a crescere» (Discorsi, II. 2). Invece di riflettere su chi ci offre migliori garanzie di servire il bene comune e dunque di fare anche il nostro bene individuale, potremmo scegliere ascoltando i nostri sentimenti di affetto o di odio, di simpatia o di antipatia. Sappiamo che è quasi impossibile capire con ragionamenti e calcoli chi saprà governare bene. Tanto vale, potremmo concludere, affidarci ai sentimenti e alle passioni. Qui Machiavelli ci aiuta citando un esempio tratto dalla storia di Roma antica, quello del patrizio Manlio Capitolino: «Il popolo di Roma desiderosissimo dell’utile proprio [del proprio bene], ed amatore delle cose che venivano contro alla Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori, nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudicio del popolo, quel popolo, diventato di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo condannò a morte. Pertanto io non credo che sia esemplo in questa istoria, più atto a mostrare la bontà di tutti gli ordini di quella Republica, quanto è questo; veggendo che nessuno di quella città si mosse a difendere uno cittadino pieno d’ogni virtù, e che publicamente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili. Perché in tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro rispetto; e considerarono molto più a’ pericoli presenti che da lui dependevano che a’ meriti passati: tanto che con la morte sua e’ si liberarono» (Discorsi, III. 8). In questo caso la passione – l’amore della patria, vale a dire del bene comune – ha aiutato a scegliere bene. I 13

cittadini romani, per amore della patria, misero da parte la gratitudine e il rispetto per Manlio e lo condannarono per i suoi crimini. In tal modo difesero la loro libertà. Se avessero invece deciso seguendo il sentimento della gratitudine e la simpatia per la persona, l’avrebbero persa. In altri casi le passioni portano alla rovina. Machiavelli ci ammonisce, in particolare, a non lasciarci guidare dall’odio. Quando scegliamo di dare il nostro appoggio a un politico ispirati dall’odio contro altri politici o contro altri nostri concittadini o contro particolari gruppi sociali, le conseguenze sono nefaste: «E quando uno popolo si conduce a fare questo errore, di dare riputazione a uno, perché batta quelli che egli ha in odio [dar retta ad un politico che promette di sanzionare coloro che il popolo odia], e che quello uno sia savio, sempre interverrà [accadrà] ch’e’ diventerà tiranno di quella città. Perché egli attenderà [cercherà], insieme col favore del popolo, a spegnere [estinguere] la Nobilità; e non si volterà [dedicherà] mai alla oppressione del popolo, se non quando e’ l’arà spenta; nel quale tempo, conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato tirannide in le republiche» (Discorsi, I. 40). L’odio è pericolosissimo, perché ci fa desiderare la morte o la distruzione della persona o delle persone che odiamo. Per odio siamo di conseguenza portati a scegliere uomini spregevoli solo perché ci promettono di «bastonare» le persone che detestiamo, non importa se sono i ricchi, i politici in generale, i poveri, i meridionali, i comunisti, le donne, gli omosessuali o gli immigrati. L’odio ci fa accettare che l’uomo da noi prescelto abbia poteri straordinari per schiacciare i nostri nemici e ci induce ad 14

approvare tutte le sue azioni, anche quelle che violano apertamente i diritti umani e la Costituzione. In questo modo, ci mettiamo da soli il giogo sulle spalle. La persona che abbiamo scelto per odio verso altri, volgerà poi contro di noi il potere che gli abbiamo dato. I nostri nonni che appoggiarono Mussolini perché desse una bella lezione agli odiati socialisti e agli ancor più odiati comunisti si trovarono poi privi di ogni libertà civile; molti di loro furono mandati a morire in Africa, in Grecia o in Russia o videro le proprie case crollare sotto i bombardamenti alleati, mentre per gli ebrei si aprirono le porte dei vagoni blindati e dei campi di sterminio. I nostri poco savi compatrioti che hanno con entusiasmo sostenuto un uomo a mio giudizio spregevole quale Silvio Berlusconi perché li proteggesse dalle detestate sinistre, si sono volentieri sottoposti ad un potere enorme che ha portato alla diffusione dello spirito cortigiano, ha incoraggiato la più vergognosa corruzione e ha compromesso la credibilità internazionale dell’Italia, con le conseguenze che sappiamo. Quando scegliamo chi ci deve rappresentare e governare, non lasciamoci ingannare dalle apparenze e dalle parole, e cerchiamo di capire chi sono in realtà i candidati. Il problema è che spesso la grande maggioranza di noi si fida di quello che vede e ascolta: giudica agli occhi, e non alle mani, per usare l’efficace espressione del nostro Consigliere: «gli uomini in universale [generale] giudicano più agli occhi che alle mani, perché tocca a vedere a ciascuno, a sentire a’ pochi. Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei». Ma giudicare agli occhi, aggiunge Machiavelli, è proprio del volgo, non dei cittadini: «perché il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con l’evento della cosa [apparenze]; e nel mondo non è se non vulgo» (Il Principe, XVIII). 15

Se non vogliamo essere volgo, massa ignorante che i politici corrotti possono facilmente sedurre, ingannare e manipolare non dobbiamo giudicare agli occhi, ma alle mani. Facile a dirsi, più difficile a farsi. Per giudicare alle mani, vale a dire capire che persona è, cosa pensa, e cosa vuole fare il politico che chiede il nostro voto, dovremmo essere in grado di vederlo da vicino, poter scrutare il suo volto, conoscere la sua storia, ricordare quello che ha fatto sia nella vita pubblica, sia nella vita privata (per ragioni che spiegherò più innanzi). Ma i politici noi li vediamo quasi sempre da lontano, o in televisione, e di loro sappiamo poco. Essi sono poi maestri della simulazione e della dissimulazione. Sanno mostrare sentimenti che magari non provano (dolore per le vittime di una tragedia, simpatia e affetto per i poveri, sdegno per l’ingiustizia, amore per le istituzioni e così via), e nascondere abilmente i sentimenti che invece potrebbero provare (ambizione sfrenata, brama di denaro, disprezzo per i poveri e per i deboli, dispregio per la Costituzione e per le leggi). Non parliamo poi della loro abilità di usare le parole per mettere le loro azioni in luce favorevole, o per nascondere le più scellerate dietro fumi densi di espressioni ambigue o oscure. Il rimedio a tutto questo c’è, e sta proprio nelle parole di Machiavelli, se capiamo bene il loro significato. Quando parla di «giudicare alle mani», non intende soltanto consigliarci di cercare con le nostre mani, toccando, la verità. Ci suggerisce anche di giudicare guardando alle mani dei politici, vale a dire a quello che hanno fatto e fanno, non a quello che dicono o come si mostrano. Non ci vuole molto tempo per prendere informazioni sulla carriera politica, sulle scelte pubbliche e sulla vita di un politico. Se non vogliamo lasciarci ingannare (ma Machiavelli ci avverte che molte persone 16

sembrano provare piacere a essere ingannate), e se vogliamo scegliere un politico onesto e competente, non dobbiamo fare altro che sapere come si è comportato con i problemi più seri: ha sostenuto o ha combattuto presidenti del consiglio, ministri e collegi parlamentari corrotti? Ha votato contro o a favore delle leggi che rendono la vita più facile a chi si occupa prevalentemente del suo bene privato? Ha approvato o contrastato gli indulti e i condoni che hanno fatto uscire dalle carceri fior di gaglioffi e hanno legalizzato scempi di ogni genere? Ha sostenuto l’opera dei magistrati che vogliono sottoporre a giudizio i politici responsabili di reati, o ha difeso i politici suoi compari contro i magistrati? Ha portato in Parlamento persone colpevoli di concorso in associazione mafiosa, o li ha combattuti? Ha accettato tranquillamente di sedere a fianco di parlamentari condannati o ha espresso pubblicamente il suo sdegno, e ha tolto loro il saluto? Frequenta galantuomini o uomini ambigui o addirittura delinquenti? Uno dei criteri più sicuri per capire di che pasta è fatto un politico, ci insegna Machiavelli, è proprio guardare bene di che gente si circonda: «Non è di poca importanza a [per] un Principe la elezione de’ ministri, li quali sono buoni o no, secondo la prudenza del Principe. E la prima coniettura [idea] che si fa di un signore, e del cervel suo, è vedere gli uomini che lui ha d’intorno; e quando sono sufficienti [preparati] e fedeli, sempre si può riputarlo savio, perché ha saputo cognoscergli sufficienti e mantenerseli fedeli. Ma quando siano altrimenti, sempre si può fare non buono giudizio di lui; perché il primo errore che e’ [egli] fa, lo fa in questa elezione [...]. E perché sono di tre generazioni [tipi] cervelli; l’uno intende per sé 17

[autonomamente], l’altro intende quanto da altri gli è mostro [spiegato], il terzo non intende né sé stesso né per dimostrazione d’altri [in nessun caso]. Quel primo è eccellentissimo, il secondo eccellente, il terzo inutile» (Il Principe, XXII). Votare per uomini che hanno portato in Parlamento dei delinquenti, persone colluse con la mafia, corruttori di giudici, evasori fiscali, ignoranti orgogliosi della propria ignoranza è dunque pura follia. Occorre un po’ di tempo e un po’ di fatica per conoscere il «cervello» di un politico, ma il nostro Consigliere ci ha insegnato i modi giusti per farlo. Se scegliamo male, rimpiangeremo di non aver dedicato più tempo per poter giudicare «alle mani», come i cittadini saggi, e non «agli occhi» come il volgo.

III

Le corti sono piene [di adulatori], perché gli uomini si compiacciono tanto nelle cose lor proprie, e in modo vi s’ingannano, che con difficultà si difendono da questa peste ovvero Di tutti i politici, i peggiori sono i servi

I servi e i cortigiani che si sono messi al servizio di un uomo per ottenere ricchezze, onori e privilegi meritano il massimo disprezzo. Un parlamento pieno d’individui siffatti approverà cattive leggi che soddisfano i loro interessi e gli interessi del loro signore. I servi non possono dunque rappresentare cittadini liberi e neppure proteggere la libertà repubblicana. Riconoscerli non è difficile: parlano in modo da compiacere il loro padrone e non perdono occasione per esprimere il loro disprezzo per i cittadini che amano il bene comune e il governo della legge. Baldassar Castiglione (1478-1529), il grande maestro dei cortigiani italiani, ammoniva che studio principale della conversazione del cortigiano deve essere «farla grata» al suo signore. A tal fine, il cortigiano deve avere cura di non essere «apportator di nove fastidiose; non sarà inavvertito in dir talor parole che offendano in loco di voler compiacere; non sarà ostinato e contenzioso, come alcuni, che par che non godano d’altro che d’esser molesti e fastidiosi a guisa di mosche e fanno profession di contradire dispettosamente ad ognuno senza rispetto; non sarà cianciatore, vano o bugiardo, vantatore né adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando sempre, 19

e massimamente in publico, quella reverenzia e rispetto che si conviene al servitor verso il signor» (Il Libro del Cortegiano, I. 17; d’ora in avanti Cortegiano). Deformi nell’animo e nelle parole, i servi e i cortigiani – sono sempre parole di Baldassar Castiglione – odiano e disprezzano la virtù: «Però se agli principi de’ nostri tempi venisse inanti un severo filosofo, el quale così apertamente e senza arte alcuna volesse mostrargli quella orrida faccia della vera virtù [...] son certissimo che al primo aspetto lo aborriranno come un aspide, o vero se ne fariano beffe come di cosa vilissima» (Cortegiano, IV. 8). Quando ascoltiamo le tirate indignate di un politico o di un giornalista contro chi pregia e pratica le virtù civili, possiamo stare certi che siamo di fronte a un servo. Se abbiamo a cuore la nostra libertà e la nostra dignità, la sola cosa da fare è volgergli le spalle. Machiavelli era durissimo verso i servi e i cortigiani: «Non voglio lasciare indietro un capo importante, ed un errore, dal quale i Principi con difficultà si difendono, se non sono prudentissimi, o se non hanno buona elezione [se non scelgono bene]. E questo è quello degli adulatori, delli quali le corti sono piene, perché gli uomini si compiacciono tanto nelle cose lor proprie, e in modo vi s’ingannano, che con difficultà si difendono da questa peste» (Il Principe, XXIII). Ancora più delle parole vale il suo esempio. Machiavelli aveva un carattere spigoloso e ruvido, tranne quando scriveva commedie o raccontava storie grasse. Era celebre in Palazzo Vecchio per essere una «cheppia» (un pesce che risale la corrente, dunque: persona controcorrente) che non faceva mai alla Signoria di Firenze «una gentileza». Peggio ancora si comportava quando andava in missione diplomatica e si permetteva di dire in faccia al cardinale di Rouen, uno degli uomini più potenti alla cor20

te del re di Francia, che i francesi non s’intendevano di Stato; e al Valentino, potentissimo e temutissimo Cesare Borgia, che se il governo di Soderini andava bene ai fiorentini, doveva andare bene anche a lui; e a Guicciardini, che molto lo sovrastava e aveva il potere di aumentare o diminuire i suoi incarichi politici, che era stato un fesso a comprare una casa senza vederla. Quando cadde nel vizio dell’adulazione, al tempo in cui compose una lettera di dedica de Il Principe per Lorenzo de’ Medici, si pentì amaramente di averlo fatto. Nella sua dedica dei Discorsi, scrisse, infatti, ai dedicatari Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai: «E crediate che in questo io ho una sola satisfazione [soddisfazione], quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato [sia sbagliato] in molte sue circunstanzie, in questa sola so ch’io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi: sì perché [sia perché], faccendo questo, mi pare avere mostro qualche gratitudine de’ beneficii ricevuti: sì perché [sia perché] e’ mi pare essere uscito fuora dell’uso comune di coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare; e, accecati dall’ambizione e dall’avarizia, laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole parte doverrebbono [dovrebbero] biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo». Quanto agli elogi della virtù civile, c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Tutte le sue opere politiche nasco21

no dall’ammirazione per l’antica virtù romana e dalla condanna della corruzione dei moderni: «Considerando adunque quanto onore si attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d’una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo [sia stato comprato a carissimo prezzo], per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo; e veggiendo [vedendo], da l’altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi [legislatori], ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite [evitate], che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga» (Discorsi, I, Proemio). Una delle ragioni principali della grandezza romana – scrive – era l’intelligenza dei cittadini che andavano a «trovare la virtù in qualunque casa l’abitasse» (Discorsi, III. 25). I cittadini dei suoi tempi avevano invece la dissennata abitudine di elevare agli onori pubblici «non gli uomini virtuosi, ma quegli che per ricchezze o per parentado hanno più grazia». La conseguenza di questo modo di fare era, allora come oggi, che la repubblica si priva del consiglio dei migliori, subisce quello dei peggiori, e offende i migliori costringendoli a stare fuori dalla vita politica. Se mettiamo persone con l’animo servile nelle assemblee legislative avremo di necessità cattive leggi. Nessuno di loro sarà capace di portare 22

convinzioni sincere, princìpi meditati, conoscenze solide e dunque non potrà aver luogo quella discussione seria che è condizione essenziale delle buone deliberazioni politiche. Una vera assemblea legislativa deve essere libera, sia nel senso che non deve prendere ordini da nessuno sia nel senso che deve essere composta da persone moralmente libere. Molto meglio che sugli scranni del Senato o della Camera siedano persone con convinzioni sbagliate (a nostro giudizio) ma dall’animo libero, che dei servi e degli adulatori.

IV

Una republica bene ordinata debbe aprire le vie a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private ovvero Chi fa favori e promette la luna vuol dominare, anche se sembra buono

Un errore grave da evitare è votare, o sostenere, uomini molto ricchi e molto potenti. Questo tipo di persone tendono a cercare il proprio interesse, sono insaziabili, desiderano il privilegio, non sopportano l’eguaglianza civile, vogliono vivere come principi e per farlo incoraggiano la corruzione. Uno degli esempi che Machiavelli propone è quello di Luca Pitti, cittadino fiorentino ricchissimo e potentissimo, che per costruire il suo regale palazzo (Palazzo Pitti) diventò fautore di un devastante sistema di corruzione, che lo portò anche ad offrire rifugio a chi aveva problemi con la legge: «[Luca Pitti] venne in tanta confidenza che gli cominciò duoi [due] edifici, l’uno in Firenze l’altro a Ruciano, luogo propinquo [vicino] uno miglio alla città, tutti superbi e regii; ma quello della città al tutto maggiore [imponente] che alcuno altro che da privato cittadino infino a quel giorno fusse stato edificato. I quali per condurre a fine non perdonava [non si fermava di fronte] ad alcuno estraordinario modo; perché, non solo i cittadini e gli uomini particulari lo presentavano [si offrivano di aiutarlo] e delle cose necessarie allo edifizio lo suvvenivano, ma i comuni e popoli interi gli 24

sumministravano aiuti. Oltra di questo, tutti gli sbanditi [espulsi], e qualunque altro avesse commesso omicidio, o furto o altra cosa per che egli temesse publica penitenzia, purché e’ fusse persona a quella edificazione utile, dentro a quelli edifizi sicuro si rifuggiva» (Istorie fiorentine, VIII. 4; d’ora in avanti Istorie). I ricchi e i potenti sono in grado di distribuire favori, vale a dire concedere benefici a persone che non ne hanno diritto o non li meritano. Con i loro favori commettono in primo luogo delle gravissime ingiustizie in quanto premiano persone che non meritano e non premiano le persone che meritano. In secondo luogo fanno sì che le più alte cariche pubbliche e i posti di responsabilità siano occupati da persone che non hanno né le competenze né la rettitudine necessarie. Infine, grazie ai favori che hanno ‘generosamente’ profuso acquistano un potere personale pericolosissimo. Machiavelli lo ha spiegato con queste parole: «E però si debbe esaminare i modi con i quali e’ pigliano riputazione [diventano famosi]; che sono in effetto due: o publici o privati. I modi publici sono, quando uno, consigliando bene, operando meglio, in beneficio comune, acquista riputazione. A questo onore si debba aprire la via ai cittadini, e preporre premii [premiare] ed ai consigli ed alle opere, talché se ne abbiano ad onorare e sodisfare. E quando queste riputazioni, prese per queste vie, siano stiette e semplici, non saranno mai pericolose: ma quando le sono prese per vie private, che è l’altro modo preallegato, sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private sono, faccendo beneficio a questo ed a quello altro privato, col prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai magistrati, e fac25

cendogli simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani [disposti a tutto per sostenere un uomo], e danno animo, a chi è così favorito, di potere corrompere il publico e sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una republica bene ordinata aprire le vie come è detto, a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private» (Discorsi, III. 28). È difficilissimo contrastare e sconfiggere i cittadini che acquistano grande potere grazie ai favori che distribuiscono. Il volgo li considera dei benefattori. Un saggio cittadino della Firenze del Quattrocento che Machiavelli ricorda nelle Istorie (IV. 27) diceva a chi voleva contrastare il grande potere che Cosimo il Vecchio aveva ottenuto grazie ai favori: «E se tu dicessi che la giusta cagione [ragione] che ci muove accrescerebbe a noi credito e a loro lo torrebbe [toglierebbe], ti rispondo che questa giustizia conviene che sia intesa e creduta da altri come da noi; il che è tutto il contrario; perché la cagione che ci muove è tutta fondata in sul sospetto che non si faccia principe di questa città: se questo sospetto noi lo abbiamo, non lo hanno gli altri; anzi, che è peggio, accusono noi di quello che noi accusiamo lui. L’opere di Cosimo che ce lo fanno sospetto sono: perché gli serve de’ suoi danari ciascuno, e non solamente i privati ma il publico, e non solo i Fiorentini ma i condottieri [i capitani di truppe mercenarie]; perché favorisce quello e quell’altro cittadino che ha bisogno de’ magistrati; perché e’ tira, con la benivolenzia che gli ha nello universale [popolo], questo e quell’altro suo amico a maggiori gradi di onori. Adunque converrebbe addurre le cagioni del cacciarlo, perché gli è piatoso [caritatevole], oficioso [servizievole], liberale e amato da ciascu26

no. Dimmi un poco: quale legge è quella che proibisca o che biasimi e danni negli uomini la pietà, la liberalità, lo amore? E benché sieno modi tutti che tirino gli uomini volando al principato [ad accumulare un potere enorme], non di meno e’ non sono creduti così, né noi siamo sufficienti a darli ad intendere, perché i modi nostri ci hanno tolta la fede [fiducia], e la città, che naturalmente è partigiana e, per essere sempre vivuta in parte, corrotta, non può prestare gli orecchi a simili accuse». Un altro potere molto dannoso per le repubbliche è quello ottenuto con le grandi promesse. È molto facile – ammonisce Machiavelli – conquistare il consenso del popolo con promesse di vantaggi e speranze di gloria. Ma quelle promesse portano quasi sempre alla rovina dell’intera repubblica: «Pertanto, considerando quello che è facile o quello che è difficile persuadere a uno popolo, si può fare questa distinzione: o quel che tu hai a persuadere rappresenta in prima fonte guadagno, o perdita; o veramente ci pare partito [scelta] animoso [coraggioso], o vile. E quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo, si vede guadagno, ancora [nonostante] che vi sia nascosto sotto perdita; e quando e’ pare animoso, ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della republica, sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudine: e così fia sempre difficile persuadere quegli partiti dove apparisse o viltà o perdita, ancora che vi fusse nascosto sotto salute e guadagno. Questo che io ho detto, si conferma con infiniti esempli, romani e forestieri, moderni ed antichi» (Discorsi, I. 53). L’unica difesa, in questi casi, è che ci sia qualche persona autorevole che sappia liberare i cittadini dall’in27

ganno delle facili promesse e dalle mal fondate speranze. Se non siamo in grado di trovare un cittadino simile o se non lo sosteniamo con il nostro voto, la rovina della repubblica è inevitabile: «il popolo molte volte, ingannato da una falsa immagine [idea] di bene, disidera la rovina sua; e se non gli è fatto capace [gli viene spiegato], come quello sia male, e quale sia il bene, da alcuno in chi esso abbia fede [qualcuno di cui si fidi], si porta in le republiche infiniti pericoli e danni. E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede [fiducia] in alcuno, come qualche volta occorre [accade], sendo stato ingannato per lo addietro [essendo stato in precedenza ingannato] o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina, di necessità. E Dante dice a questo proposito, nel discorso suo che fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida Viva la sua morte! e Muoia la sua vita!» (Discorsi, I. 53).

V

Per la povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come e’ si andava a trovare la virtù in qualunque casa l’abitasse ovvero Sostenere uomini ricchi e potenti è da sciocchi

È da ingenui credere che dovremmo votare per uomini o donne ricchi e potenti perché sono meno inclini alla corruzione dato che non hanno bisogno di denaro e di potere, avendone già in abbondanza. Coloro che hanno molto vogliono sempre di più e non sono soddisfatti se non accumulando. Ma ammettiamo pure che non siano insaziabili. Il problema è che hanno i mezzi per affermare il loro interesse e corrompere. Questa sola considerazione ci deve insegnare a non sostenere queste persone perché con il nostro voto daremmo loro, oltre al denaro e alle amicizie, il potere di rappresentarci, di fare le leggi o addirittura di governarci. Perché correre rischi così gravi? Ci sono indubbiamente delle eccezioni, uomini e donne ricchi e potenti che sono stati cittadini irreprensibili e hanno governato assai bene. Machiavelli cita alcuni esempi: «Era messer Benedetto [Alberti] uomo ricchissimo, umano, severo, amatore della libertà della patria sua, e a cui dispiacevono assai i modi tirannici» (Istorie, II. 20). Se ci sono uomini e donne siffatti, sarebbe un grave errore non votarli, non solo perché negheremmo loro un onore che meritano e dunque saremmo ingiusti; ma anche perché priveremmo la Repubblica di competenze e di saggezza preziose. 29

Ma come possiamo distinguere i ricchi e i potenti che aiuterebbero la Repubblica da quelli che la distruggerebbero? Guardiamo soprattutto al loro modo di vivere. Se amano il lusso, lo sfoggio di ricchezza, di sfarzo, di magnificenza, se sono divorati dalla brama di apparire, di essere visti ed ammirati, se amano circondarsi di adulatori e cortigiani, allora non dobbiamo assolutamente votarli, anche a rischio di sbagliare. Queste persone portano la Repubblica alla rovina, proprio come fecero i principi italiani ai tempi di Machiavelli: «Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre [guerre contro eserciti stranieri], che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia [concedere onori come favore e non per merito], disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi [pretendere che le loro parole fossero ritenute sacre]; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava» (Dell’Arte della Guerra, VII. 7). Poiché temeva il potere corruttore dei ricchi, il nostro Consigliere elogiava la povertà dei cittadini romani nel periodo repubblicano: «Noi abbiamo ragionato altrove come la più utile cosa che si ordini in uno vivere libero è che si manten30

ghino i cittadini poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse quello che facesse questo effetto, avendo, massime, la legge agraria avuta tanta oppugnazione [opposizione]; nondimeno per esperienza si vide, che, dopo quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima povertà». Ma si trattava di una povertà che non escludeva l’accesso alle più alte cariche dello Stato: «né si può credere che altro ordine maggiore [...] facesse questo effetto, che vedere come per la povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come e’ si andava a trovare la virtù in qualunque casa l’abitasse» (Discorsi, III. 25).

VI

Se mai i Romani non avessono prolungati i magistrati e gli imperii [...], sarebbono ancora più tardi venuti nella servitù ovvero Chi è al potere da molti anni è un pericolo per la Repubblica

Machiavelli ci offre questo consiglio parlando della pratica di prolungare le cariche pubbliche e i comandi militari che prese piede nella Repubblica romana antica e fu una delle cause delle guerre civili prima e della fine della libertà romana poi. «La quale cosa, ancora che mossa [anche se promulgata] dal Senato per utilità publica, fu quella che con il tempo fece serva Roma. Perché, quanto più i Romani si discostarono con le armi, tanto più parve loro tale prorogazione necessaria, e più la usarono. La quale cosa fece due inconvenienti: l’uno, che meno numero di uomini si esercitarono negl’imperii, e si venne per questo a ristringere la riputazione in pochi: l’altro, che, stando uno cittadino assai tempo comandatore d’uno esercito, se lo guadagnava e facevaselo partigiano; perché quello esercito col tempo dimenticava il Senato e riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono trovare soldati che contro al bene publico gli seguitassono: per questo, Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani non avessono prolungati i magistrati e gli imperii, se non venivano sì tosto a tanta potenza, e se fussono stati più tardi gli 32

acquisti loro, sarebbono ancora più tardi venuti nella servitù» (Discorsi, III. 24). Queste parole di Machiavelli sono la profezia della crisi politica che stiamo vivendo ormai da decenni in Italia. I nostri politici, attaccati al loro potere, impediscono la formazione di una nuova classe dirigente che possa fornire leader competenti e motivati. Chi sta al potere a lungo, inoltre, tende non solo a considerare il suo rango un diritto acquisito e dunque non si impegna come dovrebbe per dimostrare di saper servire il bene pubblico, ma, ed è il pericolo più grave, costruisce quasi sempre un potere di carattere personale incompatibile con il buon ordine repubblicano. Fondamento di quest’ultimo, infatti, è l’alternanza di diversi uomini al potere e la brevità dei mandati. Chi ha dato prova di aver capito questo fondamentale principio della libertà repubblicana è stato Carlo Azeglio Ciampi. Alla fine del suo settennato, essendogli stato proposto da gran parte delle forze politiche e dalla pubblica opinione di presentare la sua candidatura per un secondo settennato, dichiarò che «il rinnovo di un mandato lungo [...] mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato» (Nota del Quirinale, 3 maggio 2006). Da questa massima di repubblicana saggezza non bisogna tuttavia trarre la conclusione dissennata che l’alternanza al governo di diverse forze e diverse coalizioni (ora il centro-destra, ora il centro-sinistra) è di per sé un bene. Se ad un governo di centro-sinistra, ancorché scalcagnato, succede un governo di centrodestra guidato da un delinquente e composto da corrotti e incapaci, l’alternanza è un grave danno per la Repubblica. Il medesimo ragionamento vale se ad un 33

governo di centro-destra composto da seri e onesti conservatori succede un governo di demagoghi radicali che non rispetta la Costituzione, parla soltanto di diritti e non capisce nulla di politica internazionale. Ancora una volta, seguendo il consiglio di Machiavelli, dobbiamo giudicare «alle mani», vale a dire considerare gli uomini reali e le loro azioni, e non i modelli astratti.

VII

‘Un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo’, un popolo ‘che può fare ciò che vuole, non è savio’

ovvero La vera sicurezza è soltanto nella libertà e nelle leggi

Uno dei temi più aspramente dibattuti, soprattutto in occasione delle elezioni politiche, è la sicurezza dei cittadini. A questo proposito Machiavelli ha scritto che soltanto la vera libertà repubblicana garantisce ai cittadini la sicurezza della persona e dei beni. «Oltre a di questo, quella comune utilità che del vivere libero si trae [...] è di potere godere liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non dubitare dell’onore delle donne, di quel de’ figliuoli, non temere di sé» (Discorsi, I. 16). Condizione essenziale perché si possa parlare di «vero vivere civile e libero» è il governo della legge, vale a dire che tutti siano sottoposti alle leggi. Ma se c’è anche un solo cittadino «temuto dai magistrati», la città non si può definire libera, e senza la libertà non c’è sicurezza. Perché Machiavelli la pensi così è facile intendere: se alcuni cittadini, pochi o molti che siano, sono al di sopra delle leggi, essi possono imporre la loro volontà, con l’ovvia conseguenza che gli altri saranno meno liberi e meno sicuri. Saremmo dunque poco saggi se votassimo per candidati che mentre si proclamano difensori acerrimi della sicurezza permettono, anzi favoriscono, l’immunità di alcuni cittadini dalle leggi. Dovremo piut35

tosto dare il nostro voto a chi ha dimostrato con i fatti di essere un difensore integerrimo della legalità. Machiavelli era talmente severo sulla difesa della legalità da ritenere che neppure i più grandi meriti potessero attenuare le colpe e mitigare le pene da comminare ai cittadini che violavano le leggi: «Erano stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua virtù vinti i Curiazii: era stato il fallo [errore] suo atroce, avendo morto la sorella: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio a’ Romani, che lo condussono a disputare della vita, non ostante che gli meriti suoi fossero tanto grandi e sì freschi [recenti]. La quale cosa, a chi superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo d’ingratitudine popolare: nondimeno, chi la esamina meglio e con migliore considerazione [attenzione] ricerca quali debbono essere gli ordini delle republiche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo assoluto [assolto] che per averlo voluto condannare. E la ragione è questa, che nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i demeriti con gli meriti de’ suoi cittadini; ma avendo ordinati i premii a una buona opera e le pene a una cattiva ed avendo premiato uno per avere bene operato, se quel medesimo opera dipoi male, lo gastiga, sanza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi ordini sono bene osservati, una città vive libera molto tempo: altrimenti sempre rovinerà tosto. Perché, se a un cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza di poter, senza temere pena, fare qualche opera non buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si risolverà [disfarrà] ogni civiltà» (Discorsi, I. 24). 36

Quando parla delle leggi come fondamento della libertà, Machiavelli intende sempre le buone leggi, quelle che mirano al bene comune. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per avere buone leggi è che il potere appartenga al popolo e che le decisioni siano affidate ad assemblee in cui i cittadini hanno il diritto di esprimere la propria opinione. Quale esempio, Machiavelli cita la Repubblica romana: «poteva uno tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre [proporre] al popolo una legge, sopra la quale ogni cittadino poteva parlare o in favore o incontro [contro], innanzi che la si deliberasse». È una cosa buona, commenta, che «ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l’opinione sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio». Fermo nel sostenere il principio della sovranità popolare, Machiavelli era altrettanto fermo nel denunciare come pura follia l’idea che il popolo dovesse avere un potere assoluto: se «un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo», un popolo «che può fare ciò che vuole, non è savio» (Discorsi, I. 58). Queste parole contengono l’ammonimento prezioso di diffidare tanto dei politici che esprimono ad ogni piè sospinto fastidio per i limiti che la Costituzione impone al loro potere, quanto di quelli che hanno sempre il popolo, o, peggio, la «ggente» in bocca e ritengono che il voto popolare o il consenso della «ggente» li ponga al di sopra delle leggi e della Costituzione. Altrettanto pericolosi del demagogo ricco sono i demagoghi plebei che cooperano con il primo a distruggere la Repubblica. Mentre il primo accarezza il popolo con la parola, e lo seduce con le promesse, i secondi si proclamano sostenitori delle lotte del popolo contro i ricchi. Il nostro Consigliere è stato il primo a sostenere 37

che i conflitti sociali possono rafforzare la libertà politica. Riferendosi a quelli fra la plebe romana e il senato, scriveva, infatti: «Io dico che coloro che dannono [condannano] i tumulti intra i nobili e la plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano [producevano]» (Discorsi, I. 4). Machiavelli si riferiva a conflitti che non travalicavano i limiti del vivere civile e si concludevano con buone leggi che soddisfacevano i diversi interessi sociali e dunque impedivano il dominio di un gruppo sull’altro. Ma condannava senza appello – come abbiamo già detto – i conflitti violenti che miravano a escludere i nobili dal governo della Repubblica, come quelli che dilaniarono la storia di Firenze: «il popolo di Roma godere i supremi onori insieme con i nobili desiderava; quello di Firenze per essere solo nel governo, sanza che i nobili ne participassero, combatteva. E perché il desiderio del popolo romano era più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili più sopportabili, tale che quella nobilità facilmente e sanza venire alle armi cedeva; di modo che, dopo alcuni dispareri [pareri contrari], a creare una legge dove si sodisfacesse al popolo e i nobili nelle loro dignità rimanessero convenivano. Da l’altro canto, il desiderio del popolo fiorentino era ingiurioso e ingiusto, tale che la nobilità con maggiori forze alle sue difese si preparava, e per ciò al sangue e allo esilio si veniva de’ cittadini; e quelle leggi che di poi si creavano, non a comune utilità, 38

ma tutte in favore del vincitore si ordinavano» (Istorie, III. 1). Era altrettanto severo nel criticare i demagoghi che si facevano promotori di conflitti radicali volti ad espropriare i ricchi, come fecero i Gracchi nell’antica Roma, dei quali scrive che «si debbe laudare più la intenzione che la prudenzia». I conflitti radicali non possono essere risolti con saggi compromessi, e portano o al potere della plebe licenziosa, come avvenne in Firenze dopo il tumulto dei Ciompi, o al principato, come avvenne nell’antica Roma: «e si accese, per questo, tanto odio intra la Plebe ed il Senato, che si venne nelle armi ed al sangue, fuori d’ogni modo e costume civile. Talché, non potendo i publici magistrati rimediarvi, né sperando più alcuna delle fazioni in quegli, si ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di farsi uno capo che la difendesse. Prevenne in questo scandolo e disordine la plebe, e volse la sua riputazione a Mario tanto che la lo fece quattro volte consule; ed in tanto continovò con pochi intervalli il suo consolato, che si potette per sé stesso far consulo tre altre volte. Contro alla quale peste non avendo la Nobilità alcuno rimedio, si volse a favorire Silla; e fatto, quello, capo della parte sua, vennero alle guerre civili; e, dopo molto sangue e variare di fortuna, rimase superiore la Nobilità. Risuscitarono poi questi omori [sentimenti] a tempo di Cesare e di Pompeio; perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla, venendo alle mani, rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in Roma; talché mai fu poi libera quella città» (Discorsi, I. 37). 39

La lezione da trarre è ancora una volta chiara: non lasciamoci impaurire da chi biasima i conflitti sociali come disordini dannosi, ma non seguiamo neppure i demagoghi plebei che esaltano le forme più estreme di conflitto sociale. La nostra bussola deve essere sempre il bene comune e il governo della legge, saggio temperamento degli interessi e delle passioni, non la vittoria totale di una parte, quale che essa sia.

VIII

L’ambasciatore deve più di ogni altra cosa ‘acquistarsi reputazione’ mostrando con il proprio comportamento di essere ‘uomo da bene’, generoso, integro, ‘non avaro e doppio’ ovvero I cittadini che hanno pubblici incarichi devono assolverli con disciplina e onore

Machiavelli fu per circa quindici anni (dal 1498 al 1512) un alto funzionario della Repubblica di Firenze. Ebbe poi anche altri incarichi diplomatici, soprattutto come consigliere di Francesco Guicciardini quando era al servizio del papa. Considerava il servizio pubblico un grande onore e dimostrò sempre, come ho già accennato, un’impeccabile rettitudine. Oltre all’esempio, ci ha lasciato in proposito anche preziosi consigli, in particolare nello scritto Memoriale a Raffaello Girolami quando ai 23 d’ottobre partì per la Spagna all’Imperatore. Il Memoriale inizia con un elogio del cittadino che va ambasciatore, tanto sincero quanto malinconico: «Le ambascierie sono in una città una di quelle cose che fanno onore a un cittadino, né si può chiamare atto allo Stato colui che non è atto a portare questo grado». Per svolgere bene il proprio compito, spiega Machiavelli, l’ambasciatore deve più di ogni altra cosa «acquistarsi reputazione» mostrando con il proprio comportamento di essere «uomo da bene», generoso, integro, «non avaro e doppio», e non essere considerato uno che «creda una cosa e dicane un’altra». Gli ambasciatori che si comportano con doppiezza perdono la fiducia dei principi presso i quali sono inviati, e non possono per questo negoziare in modo efficace. 41

L’ambasciatore, ovviamente, non può dire sempre la verità. Ci sono casi in cui «è necessario nascondere con le parole una cosa». Un buon ambasciatore deve essere capace di coprire la dissimulazione e, se viene scoperto, deve avere pronta e rapida una risposta. Ma la vera difficoltà del suo compito consiste nell’essere bene informato delle «cose che si son concluse o fatte» e nel capire bene le «cose che si trattano» e le «cose che si hanno a fare». Mentre è relativamente facile raccogliere notizie esatte sulle cose fatte, a meno che non si tratti di accordi segreti, è molto difficile capire gli sviluppi di trattative che sono in corso e intendere i piani dei principi, per l’ovvia ragione che i principi cercano sempre di dissimulare le loro vere intenzioni. Per svolgere bene questa parte del lavoro dell’ambasciatore, Machiavelli invita ad usare bene «il giudizio e la coniettura», ovvero a fare valutazioni precise e congetture che poi si rivelino conformi al vero, e a saper raccogliere informazioni dai tanti faccendieri che circolano nelle corti. Il modo migliore per ricevere informazioni è darne, perché «chi vuole che altri gli dica quello che egli intende, è necessario che lui dica ad altri quello che lui intende». È buon ambasciatore, dunque, chi è in grado da solo di capire bene le cose e poi di arricchire le proprie conoscenze scambiandole con quelle di altri. Infine, ammonisce Machiavelli, è importante che l’ambasciatore sappia presentare ai governanti i propri giudizi in modo che non appaiano come valutazioni personali, ma come analisi obiettive della situazione politica e militare. L’artificio da usare (e qui emerge tutta l’esperienza del vecchio diplomatico) è ricorrere a una formula di questo tipo: «Considerato adunque tutto quello che vi è scritto, gli uomini prudenti che si trovano qua, giudicano che ne abbia a seguire il tale effetto e il tale [l’uno effetto o l’altro]». 42

Queste idee di Machiavelli sui pubblici funzionari sono in perfetta armonia con quanto afferma la nostra Costituzione. L’articolo 54 prescrive infatti che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». A prima vista, onore e disciplina sono princìpi propri di società o di istituzioni autoritarie e gerarchiche che non hanno nulla a che vedere con una repubblica democratica e dunque non possono essere criteri dell’operare dei suoi pubblici funzionari. L’onore nel suo significato tradizionale è, infatti, il riconoscimento di una superiorità dovuta al rango sociale o alla ricchezza. In Italia, l’espressione «uomo d’onore» indica l’individuo che obbedisce ciecamente alle regole e ai capi dell’associazione mafiosa. Ma l’onore, come scrive Machiavelli, è anche il riconoscimento della particolare superiorità ed eccellenza che dobbiamo alle persone oneste e alle persone che assolvono bene i loro doveri pubblici; è la dignità personale, il valore morale, il merito di una persona, che ha diritto alla stima e al rispetto degli altri. Un ragionamento analogo vale anche per il concetto di disciplina. Nella concezione comune disciplina vuol dire costrizione del corpo e della mente per raggiungere un fine imposto da istituzioni autoritarie e gerarchiche (il collegio, la caserma, la fabbrica). In questa prospettiva, la disciplina è del tutto incompatibile con i princìpi di una repubblica democratica e non può essere prescritta quale regola per i pubblici funzionari. C’è tuttavia un significato più antico del concetto che è del tutto adeguato all’etica dei pubblici funzionari di una repubblica democratica, ed è la disciplina intesa quale capacità dell’individuo di sottoporsi a regola e sforzo ordinato per raggiungere un fine capito e voluto: 43

una disciplina sorretta da regole e sanzioni, ma che è soprattutto autodisciplina basata sul senso del dovere. Il dovere di adempiere il proprio compito con disciplina ed onore si può esigere dai pubblici funzionari perché la loro attività è rivolta ad un fine che ha una particolare eccellenza e valore, quale è appunto il bene pubblico o il servizio alla nazione. L’articolo 98 è a tale proposito esplicito: «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Se i pubblici funzionari sono al servizio di individui particolari o di una parte, vengono meno al loro dovere, perdono la loro dignità e offendono la Repubblica. Servire la nazione e il bene comune vuol dire invece elevarsi al rango di cittadino con particolare dignità. L’eccellenza del fine e del servizio richiede un senso della disciplina e dell’onore più forte di quello che è lecito esigere dagli altri cittadini. A questi, la Costituzione chiede fedeltà e obbedienza; da chi ha scelto di servire il bene comune pretende l’onore e la disciplina. Proprio come voleva Machiavelli quando lodava il comportamento dei magistrati tutto «in favore del publico» senza alcuna considerazione per «l’ambizione privata» (Discorsi, III. 22).

IX

Amare la pace e saper fare la guerra

ovvero Un popolo deve essere in grado di difendere la propria libertà

Niccolò Machiavelli riteneva che le guerre fossero inevitabili, perché gli Stati tendono ad espandersi e a sottomettere le nazioni più deboli. Oltre alle guerre di conquista ci sono le guerre che nascono dalle carestie, dalle invasioni che spingono interi popoli a cercare nuovi territori. Per evitare la conquista, i popoli devono essere in grado di difendersi con buoni eserciti composti da sudditi nel caso delle monarchie, o da cittadini nel caso delle repubbliche, che combattono nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi, non da mercenari che fanno della guerra il loro mestiere per trarne guadagno. Scrive Machiavelli: «Sopra a che dico come, essendo questa [l’arte militare] una arte mediante la quale gli uomini d’ogni tempo non possono vivere onestamente, non la può usare per arte se non una republica o uno regno; e l’una e l’altro di questi, quando sia bene ordinato, mai non consentì ad alcuno suo cittadino o suddito usarla per arte; né mai alcuno uomo buono l’esercitò per sua particulare arte. Perché buono non sarà mai giudicato colui che faccia uno esercizio che, a volere d’ogni tempo trarne utilità, gli convenga essere rapace, fraudolento, violento e ave45

re molte qualitadi le quali di necessità lo facciano non buono; né possono gli uomini che l’usano per arte, così i grandi come i minimi, essere fatti altrimenti, perché questa arte non gli nutrisce nella pace; donde che sono necessitati o pensare che non sia pace, o tanto prevalersi [approfittare] ne’ tempi della guerra, che possano nella pace nutrirsi [sostentarsi]. E qualunque l’uno di questi due pensieri non cape in uno uomo buono; perché dal volersi potere nutrire d’ogni tempo, nascono le ruberie, le violenze, gli assassinamenti che tali soldati fanno così agli amici come a’ nimici; e dal non volere la pace nascono gli inganni che i capitani fanno a quegli che gli conducono, perché la guerra duri; e se pure la pace viene, spesso occorre che i capi, sendo privi degli stipendi e del vivere, licenziosamente rizzano una bandiera di ventura e sanza alcuna piatà saccheggiano una provincia». Oltre ai consigli di arte militare, Dell’Arte della Guerra contiene importanti insegnamenti politici. Machiavelli spiega che nessun regno e nessuna repubblica bene ordinati hanno mai permesso ai loro sudditi o ai loro cittadini di usare la guerra come loro arte, ovvero diventare soldati di professione, che fine dell’arte della guerra non è la guerra bensì la difesa. Loda le virtù militari, in primo luogo il coraggio, la forza e la disciplina, ma non esalta mai la guerra come affermazione di potenza o come evento grandioso e terribile. Sa bene, per averlo visto, che la guerra è una immane e immonda crudeltà che si scatena soprattutto contro i non combattenti e gli inermi; sa che la peggior guerra è quella delle bande mercenarie che vivono di guerra senza leggi, senza disciplina, senza onore; e sa, soprattutto, che le guerre non si fermano con le preghiere, le suppliche o il denaro ma solo con le milizie bene ordinate. 46

Come nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, anche qui Machiavelli si lascia a volte abbagliare dallo splendore dell’antichità romana paragonata alla miseria dell’Italia del suo tempo. Non si accorge che l’introduzione delle artiglierie mobili stava cambiando il modo di fare le guerre, anche se quando egli scrive si era appena agli inizi. Credeva davvero che si potesse tornare alla grandezza antica, e in questa sua convinzione c’è tutta la forza e insieme la debolezza, di dettaglio più che di sostanza, del suo pensiero politico. Che cosa poi egli volesse resuscitare della politica antica lo dice in Dell’Arte della Guerra con più chiarezza che in qualsiasi altra opera: «onorare e premiare la virtù, non dispregiare la povertà, stimare i modi e gli ordini della disciplina militare, costringere i cittadini ad amare l’uno l’altro, a vivere sanza sétte, a stimare meno il privato che il publico, e altre simili cose che facilmente si potrebbono con questi tempi accompagnare». Riteneva che non fosse difficile persuadere gli uomini del suo tempo che tutto questo è migliore del modo presente di vivere, che chiunque possa capire che una repubblica ordinata secondo i princìpi antichi sarebbe come una grande pianta all’ombra della quale ogni individuo potrebbe vivere «più felice e più lieto che sotto questa». Con Dell’Arte della Guerra Machiavelli vuole lasciare in dono ai più giovani e alle generazioni che verranno le conoscenze che ha accumulato con gli studi e l’esperienza. Si sente ormai vecchio, e sa che non avrà più occasione di mettere in pratica quella sua saggezza che era nata tutta dalla vita e voleva essere tradotta in nuove forme di vita degli Stati e dei popoli. Vuole sottrarre quel suo tesoro alla morte. Per questo, più ancora che per vanità letteraria, che è poi un peccato veniale, lo ha messo in carta. Il suo è un lascito venato di risenti47

mento contro la natura, la quale o «non mi doveva fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire», e ispirato dal pensiero che in Italia potesse davvero rinascere la vera arte della guerra, perché «questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura». Poiché è un male, la guerra deve essere, fin quando è possibile, evitata, e se non può essere evitata deve essere regolata. A questo scopo sono state elaborate le teorie della guerra giusta e della guerra ingiusta. Queste teorie definiscono le condizioni che rendono legittima la guerra (quando è giusto entrare in guerra) e le condizioni che la rendono guerra legale (la guerra è combattuta nel rispetto delle leggi internazionali di guerra). La guerra è legittima se a dichiararla è uno Stato sovrano riconosciuto, se, dopo aver tentato ogni altra via, è necessaria per respingere un attacco o una violazione del diritto internazionale; se è una risposta proporzionata alla gravità della violazione. La guerra è legale quando la dichiarazione di guerra è presentata in modo corretto, quando i combattenti risparmiano i nemici che si arrendono, non compiono rappresaglie sui civili e non maltrattano o torturano i prigionieri. Ma l’invenzione e la diffusione delle armi atomiche hanno reso in larga misura inapplicabile la dottrina della guerra giusta. Un conflitto fra potenze avrebbe infatti come conseguenza inevitabile non solo lo sterminio di un gran numero di non combattenti e di civili innocenti, ma probabilmente la distruzione della vita sulla terra. Alla guerra si oppone la dottrina del pacifismo, che nella sua forma estrema rifiuta anche la guerra giusta in nome di princìpi morali o religiosi, primo fra tutti il divieto di uccidere. Pur nella comune avversione al48

la guerra, il pacifismo si distingue in diverse correnti: democratica, per cui la causa principale delle guerre sono i governi dispotici e monarchici; socialista, che vede nella ricerca capitalistica di nuovi mercati l’origine dei conflitti fra nazioni; etica, che punta il dito contro l’aggressività insita nella natura umana. Tali distinzioni si riflettono anche sui rimedi: la federazione dei popoli; l’abolizione dell’economia capitalistica; l’educazione morale delle persone agli ideali di solidarietà e di cooperazione. Nonostante il suo indiscutibile valore morale, il pacifismo cade davanti all’argomento che di fronte all’aggressore che vuole conquistare la tua patria, di fronte al fanatico religioso o ideologico che vuole soffocare con la forza delle armi le libertà civili e politiche per instaurare un regime totalitario, di fronte al terrorismo e alla criminalità organizzata, rinunciare all’uso legittimo della forza militare vuol dire né più né meno che cedere il passo ai sopraffattori. Molto più saggio il monito di Machiavelli – «amare la pace e saper fare la guerra» – di cui si avverte l’eco nell’articolo 52 della Costituzione repubblicana: «La difesa della patria è sacro dovere del cittadino».

X

Andate ad morire con cotesti danari, poiché voi non havete voluto vivere sanza epsi ovvero Non pagare le tasse è comportamento da folli (oltre che da disonesti)

Una delle armi più efficaci che i demagoghi usano è proclamare «basta con le tasse». Se i cittadini li ascoltano, la Repubblica s’impoverisce e vengono a mancare le risorse indispensabili per proteggere la libertà e la sicurezza dei cittadini e per sostenere la prosperità e il decoro della comunità. Machiavelli ha spiegato questi semplici concetti con esempi molto eloquenti. Il primo si riferisce alla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi (1453), quando i sudditi rifiutarono di dare all’imperatore i denari necessari per difendere la città: «E’ si debbe molti di voi ricordare quando Gonstantinopoli fu preso dal Turcho. Quello imperadore previde la sua ruina: chiamò e suoi cittadini; non potendo con le sue entrate ordinarie provedersi, expose loro e periculi, monstrò loro e rimedi; e’ se ne feciono beffe. La obsedione [assedio] venne. Quelli cittadini che havéno prima poco stimato e ricordi del loro signore, come sentirno sonare le artiglerie nelle lor mura, et fremere lo exercito de’ nimici, corsono piangiendo allo ’mperadore co’ grenbi pieni di danari; e quali lui cacciò via dicendo: Andate ad morire con cotesti danari, poiché voi non havete voluto vivere 50

sanza epsi [questi]» (Parole da dirle sopra la provisione del danaio, in Opere, I, pp. 14-15). Il secondo descrive il modo in cui i cittadini delle libere città tedesche del suo tempo pagavano i tributi straordinari: «Usono quelle republiche, quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere alcuna quantità di danari per conto publico, che quegli magistrati o consigli che ne hanno autorità, ponghino a tutti gli abitanti della città uno per cento, o due, di quello che ciascuno ha di valsente [imponibile]. E fatta tale diliberazione, secondo l’ordine della terra si rappresenta [presenta] ciascuno dinanzi agli riscotitori di tale imposta; e, preso prima il giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa a ciò diputata [preposta] quello che secondo la conscienza sua gli pare dovere pagare: del quale pagamento non è testimone alcuno, se non quello che paga. Donde si può conietturare [immaginare] quanta bontà e quanta religione sia ancora in quegli uomini. E debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma: perché, quando la non si pagasse, non gitterebbe quella imposizione quella quantità che loro disegnassero [prevedevano] secondo le antiche [quantità] che fossino usitate riscuotersi, e non gittando, si conoscerebbe la fraude [frode]: e conoscendo si arebbe preso altro modo che questo. La quale bontà è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto ella è più rada [rara]: anzi si vede essere rimasta solo in quella provincia» (Discorsi, I. 55). L’insegnamento da ricavare dai due esempi non potrebbe essere più chiaro: i sudditi dell’imperatore, che non vollero pagare le tasse, finirono sotto il giogo dei 51

turchi; i cittadini delle libere città tedesche, che pagavano le tasse, rimasero liberi a godersi la prosperità pubblica. Quelle medesime città in cui i cittadini pagano le tasse vantano infatti una prosperità invidiabile: «della potenza della Magna [Germania] veruno non può dubitare, perch’ella abbonda d’uomini, di ricchezze e d’armi» (Ritracto delle cose della Magna, in Opere, I, p. 79). Anche i principi che per apparire generosi agli occhi del popolo usano le risorse pubbliche portano alla rovina dello Stato. Machiavelli ce lo spiega parlando della liberalità del principe: «E però a volersi mantenere tra gli uomini il nome [la reputazione] del liberale, è necessario non lasciare indietro alcuna qualità di sontuosità; talmenteché [in modo che] sempre un Principe così fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà [ricchezze], e sarà necessitato alla fine, se egli si vorrà mantenere nome del liberale, gravare i popoli straordinariamente, ed esser fiscale, e fare tutte quelle cose che si possono fare per avere danari. Il che comincerà a farlo odioso con li sudditi, e poco stimare da ciascuno, diventando povero; in modo che, avendo con questa sua liberalità offeso molti, e premiato pochi, sente ogni primo disagio, e periclita [cade] in qualunque primo pericolo; il che cognoscendo lui, e volendosene ritrarre [volendo evitare tale pericolo], incorre subito nell’infamia del misero [avaro]» (Il Principe, XVI). I politici che amano apparire generosi con le pubbliche risorse, ci ammonisce il nostro Consigliere, non hanno affatto a cuore il bene del popolo, ma il proprio potere: 52

«Cesare con la liberalità pervenne all’Imperio; e molti altri, per essere stati ed esser tenuti liberali, sono venuti a gradi grandissimi [altissimi onori pubblici]; rispondo: o tu siei Principe fatto, o tu siei in via di acquistarlo. Nel primo caso questa liberalità è dannosa; nel secondo è ben necessario esser tenuto liberale, e Cesare era un di quelli che voleva pervenire al Principato di Roma; ma, se poiché vi fu venuto, fusse sopravvissuto, e non si fusse temperato da quelle spese, arebbe distrutto quell’Imperio» (Il Principe, XVI).

XI

È meglio fare e poi pentirsi che non fare e poi pentirsi

ovvero La saggezza del vivere consiste nella giusta armonia di gravità e leggerezza

Ormai conosciamo i consigli politici di Machiavelli: sono improntati a grande saggezza e severità. Egli sa bene che dalla politica dipendono la libertà, la dignità e il benessere dei popoli e, dunque, non è materia sulla quale si può scherzare. Altrettanto preziosi, però, sono i consigli sulla vita quotidiana, in particolare sull’amore. Machiavelli pensa che nella vita ci debba essere posto per cose gravi e anche per cose leggere e non si cura del giudizio dei moralisti e dei noiosi, sempre preoccupati solo delle prime. Lo dice egli stesso a Vettori, nella lettera del 31 gennaio 1515: «chi vedesse le nostre lettere, onorando compare, e vedesse le diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe ora che noi fussimo uomini gravi, tutti volti a cose grandi, e che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere [pensiero] che non avesse in sé onestà e grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, incostanti, lascivi, vòlti a cose vane. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare vituperoso [da condannare], a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; e chi imita quella non può essere ripreso». 54

Sebbene non pretenda di rivelare grandi verità sulla vita, in questa lettera Machiavelli ci insegna, con ironia raffinata, ad accettare e apprezzare l’idea che ciascuno segua la propria natura, senza essere schiavo dei giudizi degli altri. In questo mondo – egli spiega a Vettori – non ci sono «se non pazzi», e chi «vuol fare a modo d’altri non fa mai nulla, perché non si truova uomo che sia di un medesimo parere». Chi «conosce veramente il mondo» sa che quando un uomo è considerato una persona per bene e di valore, quello che fa «per allargare l’animo e vivere lieto» gli porta onore e non rimproveri. Apprezzare la varietà della vita vuol dire anche accettare che ci siano diversi modi di vivere. Niccolò lo dice alla sua maniera in una lettera in cui cerca di rassicurare Vettori, che si angustiava per i rimproveri di due amici comuni, Filippo Casavecchia e Giuliano Brancacci, suoi ospiti a Roma. Filippo tirava le orecchie a Vettori, perché si dilettava «un poco delle femmine e più per stare a cianciare con esse che ad altro effetto, perché sono oramai tanto oltre che poco altro posso fare che parlare». Giuliano gli faceva invece notare che non era decoroso ricevere un certo Ser Sano, noto omosessuale, la cui presenza rallegrava invece Filippo. Interpellato dall’amico perché gli dicesse chi fra Filippo e Giuliano aveva più ragione di rimproverarlo, Niccolò risponde che sbagliavano tutti e due e che sbaglierebbe ancor di più lui a chiudere la casa alle cortigiane o agli omosessuali. Per mettere tutto a posto, gli scrive Niccolò, bisognerebbe che «io fussi capitato costì, che tocco et attendo a femmine: subito avvedutomi della cosa, io arei detto: ‘Ambasciatore, voi vi ammalerete; è non mi pare che voi pigliate spasso alcuno; qui non ci è garzoni, qui non sono femmine; che casa di cazzo è questa?’». 55

Secondo Machiavelli, chi sa vivere sa come e quando ci si deve lasciar trasportare dalle passioni, in particolare da quella amorosa. Tale convinzione emerge chiaramente in uno scambio di lettere con Vettori, nel febbraio 1514. Quest’ultimo gli racconta di una giovane ed avvenente donna che lo ha sedotto, nonostante i suoi buoni propositi, e Machiavelli non lo biasima, anzi, gli scrive: «e se la cosa sta come voi me l’avete scritta, io ho più invidia a voi che al re d’Inghilterra. Priegovi seguitiate la vostra stella... perché io credo, credetti, e crederrò sempre che sia vero quello che dice il Boccaccio: che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi». In quest’ultimo passaggio c’è tutta la filosofia della vita di Niccolò: di fronte alla bellezza della donna, come nelle grandi cose della politica, non si fa trattenere dalla paura di soffrire, o di perdere; si lascia incatenare dalla passione e accetta le pene che l’amore porta con sé. Il pensiero di Machiavelli sull’amore è ulteriormente sviluppato in un’altra lettera indirizzata a Vettori, il 16 gennaio 1515. All’amico che si lamenta per la noia delle giornate romane, a cui trova rimedio solo pensando a cose piacevoli: «ne’ so cosa che diletti più a pensarvi e a farlo che il fottere», Niccolò oppone un sonetto in cui descrive quanto sia difficile per lui liberarsi delle catene dell’amore: «tanto mi paiono or dolci or leggere, or gravi» e fanno un groviglio di sentimenti che «io giudico non poter vivere contento senza quella qualità della vità». Da persona saggia qual era, Machiavelli sapeva che l’amore ben si confà ai giovani, mentre può far sorridere nei vecchi. A cinquantasei anni, infatti, si invaghì di una donna molto più giovane di lui, una certa Barbara, e da questa esperienza trasse la storia per una nuova commedia (Clizia), che ha per protagonista un «vecchio 56

tutto pieno d’amore» per una giovane fanciulla ed il cui nome, guarda caso, è Nicomaco. La commedia ruota intorno alla comicità che suscita un vecchio innamorato, e, fra il secondo e il terzo atto, è inserita una bella quanto crudele canzoncina, che probabilmente Niccolò ascoltò dalla stessa Barbara: «Quanto in cor giovinile è bello amore, / tanto si disconviene / in chi degli anni suoi passato ha il fiore / Amore ha sua virtute agli anni uguale, / e nelle fresche etati assai s’onora, /e nelle antiche poco o nulla vale: / sì che, o vecchi amorosi, el meglio fora / lasciar la impresa a’ giovinetti ardenti, / ch’a più fort’opra intenti, / far ponno al suo signor più largo onore». Quando il tempo sentenzia che le forze non corrispondono più alla passione, il saggio capisce che è il momento di ritirarsi e volgere pensieri e sentimenti ad altro. Ancora una volta, Machiavelli affida il suo insegnamento ad una poesia: «Né doler mi poss’io / di voi, ma di me stesso, / poi ch’i’ veggio e confesso / come tanta beltade / ama più verde etade».

XII

Studia, fa bene, impara: se tu ti aiuterai, ciascuno ti aiuterà

ovvero L’educazione nella famiglia è essenziale per la formazione del buon cittadino

Una delle più grandi sciocchezze che affliggono la mentalità degli italiani è che vita privata e vita politica siano due sfere nettamente separate, soprattutto per gli uomini politici. Che cosa importa, ci ripetono ogni giorno, se un politico è rispettoso o prepotente nei riguardi della moglie, affettuoso o brutale con i figli, leale o mentitore con gli amici; grato o ingrato con i genitori che lo hanno cresciuto ed educato, capace di una vita sentimentale profonda o frequentatore assiduo di prostitute; religioso o bigotto. Quel che conta è come sa governare, se è in grado di sostenere l’economia, proteggere il prestigio della nazione, difendere i fondamentali diritti civili e politici e via discorrendo. La prima ragione per cui un simile modo di ragionare è da dissennati è che in una repubblica democratica il potere sovrano appartiene ai cittadini che lo affidano – a determinate condizioni e per periodi di tempo ben delimitati – ai rappresentanti. Non dovrebbe essere necessaria una particolare perspicacia per capire che per affidare un potere così importante come quello di fare le leggi e di governare, oltre all’onore di rappresentare la nazione, dobbiamo poterci fidare. Orbene, per fidarci dovremmo pure conoscere la persona o le persone in 58

questione. Affideremmo più volentieri i nostri risparmi ad un banchiere che sappiamo essere mentitore, avido e arrogante o a uno sincero, frugale e modesto? Il medesimo ragionamento vale, a maggior ragione, per i politici. Proprio perché annetteva tanta importanza ai costumi privati, Machiavelli considerava l’educazione familiare essenziale per la formazione della persona e del cittadino: «E’ pare che non solamente l’una città dall’altra abbia certi modi ed instituti diversi, e procrei uomini o più duri o più effeminati, ma nella medesima città si vede tale differenza essere nelle famiglie, l’una dall’altra. Il che si riscontra essere vero in ogni città, e nella città di Roma se ne leggono assai esempli: perché e’ si vede i Manlii essere stati duri ed ostinati, i Publicoli uomini benigni ed amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nimici della Plebe: e così molte altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall’altre. Le quali cose non possono nascere solamente dal sangue, perché conviene che varii mediante la diversità de’ matrimonii; ma è necessario venga dalla diversa educazione che ha l’una famiglia dall’altra. Perché gl’importa assai che un giovanetto da’ teneri anni cominci a sentire dire bene o male d’una cosa; perché conviene di necessità ne faccia impressione [ne sia colpito], e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita» (Discorsi, III. 46). In uno dei momenti più tristi della sua vita, quando si rese conto di non avere alcuna speranza di rientrare nella vita politica, pensò di diventare maestro e di andare ad insegnare ai bambini. A dire il vero Machiavelli aveva idee particolari sul modo migliore di educare al 59

rispetto dei princìpi morali. Riteneva che gli esempi di malignità e cattiveria fossero efficaci ad indirizzare le persone verso il bene. Quando i fiorentini lo mandarono a Carpi a cercare un predicatore, voleva portarne uno che concentrasse in sé tutte le peggiori qualità. In una lettera a Guicciardini scrive: «Vero è che io so che io sono contrario, come in molte altre cose, all’oppinione di quelli cittadini: eglino vorrieno [vorrebbero] un predicatore che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnassi loro la via di andare a casa il diavolo; vorrebbono appresso che fosse huomo prudente, intero [integro], reale [sincero], et io ne vorrei trovare uno più pazzo che il Ponzo, più versuto [che cambia opinione facilmente] che fra’ Girolamo, più ippocrito che frate Alberto, perché mi parrebbe una bella cosa, et degna della bontà di questi tempi, che tutto quello che noi habbiamo sperimentato in molti frati, si esperimentasse in uno; perché io credo che questo sarebbe il vero modo ad andare in Paradiso: inparare la via dello Inferno per fuggirla». Quando però aveva a che fare con i suoi figli usava, per loro fortuna, altri metodi. Mentre si impegnava con tutte le sue forze e la sua intelligenza per salvare la sua patria, scrive al figlio Guido una lettera che ci rivela in che modo educava. La lettera ha una tenerezza e una intensità particolare dovuta alla paura per quella guerra che minaccia Firenze sempre più da vicino, ma non può essere un caso unico, perché la tenerezza non nasce in un giorno. Guido si è appena ripreso da una malattia e può finalmente dedicarsi agli studi che ama. Niccolò ha molte speranze per quel figlio; vuole fargli sentire la sua 60

presenza e il suo aiuto; vuole confortarlo ed esortarlo non con la voce solenne del padre, ma con la voce cara del compagno di brigata. Gli offre il suo aiuto e quello degli amici che ha, ma gli insegna soprattutto che il vero modo di distinguersi è imparare e fare bene. Se Dio ci darà vita, scrive, e non era una frase di rito, «con l’esercito dei Lanzichenecchi che si avvicinava a Firenze, io credo di farti uno uomo da bene, quando tu vuogli fare parte del debito tuo; [...] ma bisogna che tu impari e poiché tu non hai più scusa del male, dura fatica ad imparare le lettere e la musica, che vedi quanto onore fa a me un poco di virtù che io ho; sì che, figliuolo mio, se tu vuoi dare contento a me, e fare bene et onore a te, studia, fa bene, impara, ché se tu ti aiuterai, ciascuno ti aiuterà». Una lezione ancora più bella, Niccolò la offre a proposito di un muletto impazzito al quale il piccolo Guido era affezionato. Suo figlio temeva che l’animale venisse legato o peggio, e si era rivolto al padre perché intervenisse. Babbo Niccolò gli scrive: «el mulettino, poiché gli è impazato [impazzito], si vuole trattarlo al contrario degli altri pazi: perché gli altri pazi si legano, et io voglio che tu lo sciolga. Dara’lo ad Vangelo, e dirai che lo meni in Monte Pugliano, e dipoi gli cavi la briglia et il capestro, e lascilo andare dove e’ vuole a guadagnarsi il vivere et a cavarsi la pazia. Il paese è largo, la bestia è piccola, non può fare male veruno». Pronta e felice la risposta di Guido: «el mulettino non s’è ancora mandato in Monte Pugliano, per non essere l’erbe ancora rimesse; ma comunche il tempo si ferma, vi si maderà a ugni modo». Difficile immaginare 61

un modo migliore di insegnare a un bambino che la libertà aiuta a ritrovare la sanità della mente e che anche le creature più deboli e sfortunate hanno diritto a un po’ di pietà. Con l’esempio della sua vita, prima ancora che con le sue riflessioni, Machiavelli ci insegna che la persona è una, che è molto più probabile che diventi un grande politico una persona retta piuttosto che un delinquente, e che dall’educazione nascono i grandi esempi di virtù che fanno rinascere la patria dalla corruzione e dall’oppressione.

XIII

Come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi ovvero Un popolo corrotto non può vivere libero

La corruzione è stata ed è uno dei problemi più gravi della vita politica e sociale italiana. Machiavelli la detestava con tutto se stesso, e ci ha lasciato una descrizione della città corrotta che merita di essere letta per intero: «La comune corruzione di tutte le città di Italia, magnifici Signori, ha corrotta e tuttavia corrompe la vostra città; perché, da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze [si liberò dal dominio] dello Imperio, le città di quella, non avendo un freno potente che le correggessi, hanno, non come libere, ma come divise in sette, gli Stati e governi loro ordinati [hanno ordinato le loro istituzioni non come città libere ma in sette, dove ognuna pensa al proprio interesse e non al bene comune]. Da questo sono nati tutti gli altri mali, tutti gli altri disordini che in esse appariscono. [...] Perché i buoni, confidatisi nella innocenzia loro, non cercono, come i cattivi, di chi estraordinariamente gli difenda e onori, tanto che indefesi e inonorati rovinano. Da questo esemplo nasce lo amore delle parti e la potenza di quelle; perché i cattivi per avarizia e per ambizione, i buoni per necessità le seguano. E quello che è più pernizioso [pericoloso] è vedere come i motori e principi di esse la intenzione e fine loro con un piatoso vocabolo adonestano [coprono con 63

parole pietose], perché sempre, ancora che tutti sieno alla libertà nimici, quella, o sotto colore [apparenza] di stato di ottimati o di popolare defendendo, opprimano. Perché il premio il quale della vittoria desiderano è, non la gloria dello avere liberata la città, ma la sodisfazione di avere superati gli altri e il principato di quella usurpato; dove condotti, non è cosa sì ingiusta, sì crudele o avara, che fare non ardischino. Di qui gli ordini e le leggi, non per publica, ma per propria utilità si fanno; di qui le guerre, le paci, le amicizie, non per gloria comune, ma per sodisfazione di pochi si deliberano. E se le altre città sono di questi disordini ripiene, la nostra ne è più che alcuna altra macchiata; perché le leggi, gli statuti, gli ordini civili, non secondo il vivere libero, ma secondo la ambizione di quella parte che è rimasa superiore, si sono in quella sempre ordinati e ordinano» (Istorie, III. 5). Un popolo non corrotto, al contrario, è saggio e sa guardare lontano, sa porre il bene comune al di sopra del bene individuale e immediato e in questo modo difende l’uno e l’altro. Quale esempio Machiavelli cita il popolo romano quando ebbe l’intelligenza di rifiutare un favore che un cittadino potente gli offriva perché capì che ciò avrebbe potuto aprire la via alla tirannide: «Il quale Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare autorità istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il fargli molti beneficii, come era dividergli quegli campi che i Romani avevano tolto agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua ambizione, ed in tanto recata a sospetto, che, parlando egli al popolo, ed offerendo di darli quelli danari che si erano ritratti dei grani che il publico aveva fatti venire di Sicilia, al tutto gli recusò [lo rifiutò decisamente], parendo a 64

quello che Spurio volessi dare loro il prezzo della loro libertà. Ma se tale popolo fusse stato corrotto, non arebbe recusato [rifiutato] detto prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide quella via che gli chiuse» (Discorsi, III. 8). Sempre in tema di corruzione, Machiavelli trae un altro significativo esempio dalla storia dell’antica Roma. In questo caso si tratta della condanna a morte di un cittadino assalito dall’invidia e dalla brama di potere, tanto da istigare disordini contro le istituzioni. Nonostante in passato egli avesse dato prova della sua magnanimità, i tribuni della plebe si unirono ai nobili per estirpare il pericolo che egli rappresentava per la Repubblica: «Fa molto maggiore essemplo di questo, Manlio Capitolino: perché mediante costui si vede quanta virtù d’animo e di corpo, quante buone opere fatte in favore della patria, cancella dipoi una brutta cupidità di regnare: la quale, come si vede, nacque in costui per la invidia che lui aveva degli onori erano fatti a Cammillo; e venne in tanta cecità di mente, che, non pensando al modo del vivere della città [...], non atto a ricevere ancora trista forma [ad essere piegato a cattivi ordini politici], si misse [mise] a fare tumulti in Roma contro al Senato e contro alle leggi patrie. Dove si conosce la perfezione di quella città, e la bontà della materia sua: perché nel caso suo nessuno della Nobilità, come che fossero agrissimi [decisissimi] difensori l’uno dell’altro, si mosse a favorirlo; nessuno de’ parenti fece impresa in suo favore: e con gli altri accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti mesti per accattare misericordia in favore dello accusato, e con Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe, che solevano sempre favorire le cose che pareva venissono in beneficio del popolo; e quanto 65

erano più contro a’ nobili, tanto più le tiravano innanzi [sostenevano]; in questo caso si unirono co’ nobili, per opprimere una comune peste. Il popolo di Roma desiderosissimo dell’utile proprio, ed amatore delle cose che venivano contro alla Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori, nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudicio del popolo [portarono il suo caso in giudizio davanti al popolo], quel popolo, diventato di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo condannò a morte» (Discorsi, III. 8). Oltre a condannare la corruzione per ragioni morali, Machiavelli ci avvisa che un popolo corrotto non è in grado di vivere in libertà. In una città corrotta, scrive, «non si truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Perché, così come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi» (Discorsi, I. 18). Per tentare di vincere la corruzione è necessario che i cittadini, sostenuti dall’amore per la patria e il bene comune, spingano i governanti a riformare i cattivi ordini politici e le cattive leggi. Machiavelli cita a questo proposito l’appello che i cittadini fiorentini rivolsero ai governanti di Firenze: «E benché la corruzione di essa sia grande, spegnete per ora quel male che ci ammorba [avvelena], quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci uccide; e imputate i disordini antichi, non alla natura degli uomini, ma ad i tempi; i quali sendo variati, potete sperare alla vostra città, mediante i migliori ordini, migliore fortuna. La malignità [malvagità] della quale si può con la prudenza vincere, 66

ponendo freno alla ambizione di costoro, e annullando quelli ordini che sono delle sette nutritori, e prendendo quelli che al vero vivere libero e civile sono conformi. E siate contenti più tosto farlo ora con la benignità delle leggi, che, differendo [rinviando], con il favore delle armi gli uomini sieno a farlo necessitati» (Istorie, III. 5). Benché sia impresa molto difficile, gli ordini e le leggi di una repubblica possono essere riformati se ci sono dei leader prudenti, sostenuti dai cittadini, che amano sinceramente il bene comune: «E questa nostra republica massimamente si può, non ostante gli antichi esempli che ci sono in contrario, non solamente mantenere unita, ma di buoni costumi e civili modi riformare, pure che Vostre Signorie si disponghino a volerlo fare. A che noi, mossi dalla carità della patria, non da alcuna privata passione, vi confortiamo» (Istorie, III. 5). I grandi leader capaci di guarire la repubblica dalla corruzione sono persone rare ed eccezionali in grado di suscitare nei cittadini nuove energie morali e spingere all’impegno civile. Ma spesso avviene che leader con queste qualità non ce ne siano. In questo caso, possiamo e dobbiamo ugualmente impegnarci a lottare contro la corruzione nelle nostre comunità locali, e dai molti che si impegnano possono emergere nuovi leader capaci di operare sulla scena politica nazionale. Il passaggio da un impegno locale ed occasionale all’impegno politico più generale e permanente è tutt’altro che facile. Più si sale in alto e aumentano le responsabilità, più la lotta politica diventa impegnativa e pone spesso serie questioni morali. Ma anche su questi problemi Machiavelli ha qualche buon consiglio da darci. 67

XIV

È necessario imparare a poter essere non buono

ovvero Il politico può allontanarsi dalle virtù soltanto in circostanze eccezionali

Questa lezione, di certo la più controversa che Machiavelli ci ha lasciato, si trova nelle pagine scritte per insegnare a un principe nuovo come deve agire per conservare lo Stato ed essere lodato ed onorato. A suo giudizio le idee dei pensatori che avevano sostenuto che il principe, se vuole conservare il suo potere e ottenere gloria, deve seguire sempre la via della virtù – essere prudente, giusto, forte e moderato – e possedere quelle virtù che sono proprie dei principi, ovvero la clemenza, la generosità e la lealtà, erano giuste, ma non valevano sempre e in ogni caso. Se il principe vuole essere sempre clemente, generoso e leale – spiega Machiavelli – perderà il potere o fallirà nell’opera di fondazione di un nuovo ordine politico e sarà deriso e dimenticato. Quando mette in carta queste parole sa bene di andare contro una tradizione di pensiero antica di secoli e mantenuta in vita, ai suoi tempi, da scrittori illustri. Spero di non essere considerato «presuntuoso» – scrive nel capitolo XV del Principe – se mi allontano dalle teorie dei tanti che hanno scritto prima di me su questa materia. Ma il mio scopo, aggiunge, è di «scrivere cosa che sia utile a chi la intende» e quindi dare consigli basati sulla realtà, non sull’immaginazione. L’esperienza politica concreta ci insegna che un principe che voglia essere sempre buono in mezzo a tanti «che non sono buoni» 68

perde inevitabilmente lo Stato. Di conseguenza «è necessario [...] imparare a poter essere non buono» e a usare, o non usare, tale abilità «secondo la necessità». Enunciata la tesi generale, Machiavelli, con il coraggio e l’irriverenza che solo i grandi possiedono, demolisce pezzo dopo pezzo la dottrina convenzionale. Il buon principe, scrivevano i discepoli di Cicerone, non deve comportarsi come una bestia e non deve imitare né il leone, feroce e brutale, né la volpe, astuta e ingannatrice, ma deve governare con le virtù. Non deve inoltre cercare di farsi temere dai sudditi, ma di farsi amare. Nessun principe, concludevano, è più sicuro sul trono di quello che è protetto dall’amore dei sudditi. Ma un principe, soprattutto quando non ha ancora consolidato il suo potere, o deve emancipare un popolo oppresso, ribatte Machiavelli, deve «sapere bene usare la bestia e lo uomo» e della bestia pigliare ad esempio «la volpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la volpe non si defende da’ lupi». Deve dunque «essere volpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi» (Il Principe, XVIII). Con eguale spregiudicatezza mette da parte anche la dottrina secondo la quale il buon principe deve essere generoso, coprire gli amici di doni e benefici, e vivere sontuosamente. Un principe che voglia seguire questo consiglio e conquistare la reputazione di «liberale» finirà, per beneficare pochi, con il consumare tutte le sue sostanze. Per conservare la sua reputazione dovrà allora gravare il popolo di tasse, «essere fiscale». Queste misure lo renderanno odioso e poco stimato, con grande pericolo per il suo principato. È dunque più saggio «tenersi el nome del misero [parsimonioso]» che porta una infamia senza odio, che «per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome di rapace, che partorisce una infamia con odio» (Il Principe, XVI). 69

Un ragionamento analogo Machiavelli lo ripete a proposito della crudeltà. Il principe deve certo desiderare, come insegna la dottrina classica, di essere considerato pietoso e clemente, ma deve non di meno stare attento a «non usare male questa pietà». Per non voler essere giudicati crudeli – osserva per sostenere il suo discorso con un esempio – i fiorentini lasciarono che le fazioni distruggessero Pistoia; Cesare Borgia, al contrario, era giudicato crudele, ma con la sua crudeltà riordinò la Romagna e la resa unita e pacifica. Un principe, e in particolare un principe nuovo, non deve preoccuparsi di essere chiamato crudele, se ciò è necessario per farsi rispettare dai sudditi e tenerli uniti (Il Principe, XVII). Bisogna distinguere fra crudeltà «male usate» e crudeltà «bene usate». Bene usate – spiega Machiavelli – «si possono chiamare quelle – se del male è lecito dir bene – che si fanno ad uno tratto, per la necessità dello assicurarsi: e dipoi non vi si insiste dentro, ma si convertono in più utilità de’ subditi che si può. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo crescano che le si spenghino» (Il Principe, VIII). Cicerone e gli umanisti sostenevano che nulla è più efficace «a difendere e mantenere il potere che l’essere amato», nulla «più contrario che l’essere temuto». Risponde Machiavelli: «si vorre’ essere l’uno e l’altro [amato e temuto]»; ma poiché è difficile essere amato e temuto ad un tempo, «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell’uno delli duoi» (Il Principe, XVII). Un ragionamento analogo, infine, vale anche per la lealtà. Nessuno nega, scrive Machiavelli, che sarebbe lodevole per un principe mantenere la parola data «e vivere con integrità e non con astuzia». Non di meno l’esperienza dei nostri tempi dimostra che i principi che hanno tenuto poco conto della 70

fede e «hanno saputo con l’astuzia aggirare e cervelli delli uomini», hanno «fatto gran cose», e hanno vinto quei principi che sono stati leali (Il Principe, XVIII). Prendiamo il caso della frode, o dell’inganno. Machiavelli scrive a chiare lettere che «lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile». Fa eccezione la guerra contro un nemico che usa la frode e l’inganno: «nondimanco [non di meno] nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa; e, parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico, come quello che lo supera con le forze. E vedesi questo per il giudicio che ne fanno coloro che scrivono le vite degli uomini grandi; i quali lodono Annibale e gli altri che sono stati notabilissimi in simili modi di procedere. Di che per leggersi assai esempli, non ne replicherò alcuno. Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude essere gloriosa, che ti fa rompere la fede data ed i patti fatti; perché questa, ancora che la ti acquisti, qualche volta, Stato e regno, come di sopra si discorse, la non ti acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa con quel nimico che non si fida di te, e che consiste proprio nel maneggiare la guerra; come fu quella di Annibale quando in sul lago di Perugia simulò la fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito romano, e quando, per uscire di mano di Fabio Massimo, accese le corna dello armento suo [mise delle fiaccole sulle corna dei suoi buoi]» (Discorsi, III. 40). I principi che conquistano il potere e lo conservano con la crudeltà e l’inganno non meritano di essere considerati degni di vera gloria: «Non si può chiamare ancora virtù ammazzare li suoi cittadini, tradire gli amici, essere senza fede, senza pietà, senza religione; li quali modi possono far acquistare imperio [potere], ma non 71

gloria». Per Machiavelli ci sono dei limiti di fronte ai quali anche i principi si devono fermare: «Qualunque diventa principe o d’una città o d’uno Stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fussono deboli e non si volga o per via di regno o di republica alla vita civile, il megliore rimedio che egli abbia, a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa, in quello Stato, di nuovo: come è, nelle città, fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i ricchi poveri, i poveri ricchi [...]; edificare, oltra di questo, nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta in quella provincia e che non vi sia né grado, né ordine né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale, con questi modi, di piccol re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come e’ mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi, e nimici d’ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini» (Discorsi, I. 25). Per Machiavelli i comportamenti che noi definiamo privati sono importanti, eccome! Ai suoi occhi essi rivelano lo stato politico della repubblica e sono il segno più affidabile del buono o cattivo stato di una comunità. È dai costumi privati, prima ancora che dalle azioni dei principi che si vede la corruzione di una repubblica: «E veramente nelle città di Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena 72

di brutti costumi; a che le leggi buone, per essere da le cattive usanze guaste, non rimediano» (Istorie, III. 5). Non solo i costumi sessuali («vecchi lascivi») ma addirittura il modo di vestire, di comportarsi nelle feste, di spendere i denari, e di parlare e di scherzare e motteggiare sono per lui di grande rilievo per giudicare la condizione di una repubblica: «Di che ne nacquono alla città quelli mali che sogliono nella pace il più delle volte generarsi; perché i giovani, più sciolti che l’usitato [disinvolti del normale], in vestire, in conviti, in altre simili lascivie sopra modo spendevano, ed essendo oziosi, in giuochi e in femmine il tempo e le sustanze consumavano» e volevano soltanto «apparire con il vestire splendidi e con il parlare sagaci e astuti»; e chi sapeva meglio offendere con le parole «era più savio e da più stimato» (Istorie, VII. 28). Vuole addirittura cittadini che si vergognino delle cattive azioni, che siano frenati ad agire male dal rimprovero tutto interiore della coscienza: «Debbesi sopratutto riguardare a’ costumi, e che in lui sia onestà e vergogna, altrimenti si elegge uno instrumento di scandolo e uno principio di corruzione; perché non sia alcuno che creda che nella educazione disonesta e nello animo brutto possa entrare alcuna virtù che sia in alcuna parte lodevole» (Dell’Arte della Guerra, I. 17). Nulla è più privato del sentimento religioso, eppure Machiavelli si preoccupa, e molto, della religiosità dei cittadini. Loda una religione che dà coraggio ai popoli, «fa vergognare i rei», insegna ad amare la patria e a diventare forti nell’animo e nel corpo per poterla difendere, e biasima invece quella che predica che è male dire male del male, soprattutto del male che fanno i preti, che esorta ad accettare con pazienza le ingiustizie e l’oppressione in vista della ricompensa nella vita dopo la morte, che invita a distaccarsi dal mondo per racchiudersi 73

nella contemplazione della divina perfezione. Per lui la Chiesa cattolica era responsabile della divisione e della debolezza dell’Italia del suo tempo e – peccato ancor più grave – di aver diffuso un sentimento religioso fatto soltanto di pratiche esteriori di culto che aveva reso gli italiani «sanza religione e cattivi» e dunque facile preda degli uomini scellerati che vogliono dominare. Onde la sua più appassionata raccomandazione sarebbe certo, ancora oggi, di non dare mai il nostro sostegno, con il voto o in altro modo, agli uomini che si sono rivelati succubi del papa e delle gerarchie ecclesiastiche. Sia chiaro: non aveva alcuna simpatia per chi disprezza il culto e il sentimento religioso, e anzi considerava un simile atteggiamento pericoloso per il bene della repubblica, ma dal rispetto alla sottomissione passa una bella differenza. Anche quando parla di Lorenzo il Magnifico in un’opera che gli ha commissionato Giulio de’ Medici, papa con il nome di Clemente VII, riesce a dire con cautela che la vita privata macchiava quella pubblica: «Questo suo modo di vivere, questa sua prudenza e fortuna, fu dai principi, non solo di Italia, ma longinqui [lontani] da quella, con ammirazione cognosciuta e stimata [...]. La quale reputazione ciascuno giorno, per la prudenzia sua cresceva; perché era, nel discorrere le cose eloquente e arguto, nel risolverle savio, nello esequirle presto [rapido] e animoso. Né di quello si possono addurre vizi che maculassero tante sue virtù, ancora che fusse nelle cose veneree maravigliosamente involto, e che si dilettasse di uomini faceti e mordaci [fosse troppo dedito ai piaceri sessuali e amasse la compagnia di uomini taglienti e sarcastici], e di giuochi puerili, più che a tanto uomo non pareva si convenisse, in modo che molte volte fu visto, intra i suoi figliuoli e figliuole intra i loro trastulli [giochi] mescolarsi. Tanto che, a consi74

derare in quello e la vita leggieri, voluttuosa e la grave, si vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile coniunzione congiunte» (Istorie, VIII. 36). E la storia che «il fine giustifica i mezzi» che tutti dicono essere la sintesi dell’insegnamento politico di Machiavelli? Una sciocchezza simile Machiavelli non l’ha mai scritta. Il passo in cui ha sostenuto una tesi che può richiamarla è quello in cui tratta di Romolo, che, per riordinare lo Stato romano, uccise il fratello Remo e acconsentì alla morte di Tito Tazio Sabino che aveva condiviso con lui il regno. Ecco le parole di Machiavelli: «E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre [avviene] che alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi, riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione [fondazione]. Però, uno prudente ordinatore [fondatore] d’una republica, e che abbia questo animo, di volere giovare non a sé ma al bene comune, non alla sua propria successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l’autorità, solo; né mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione straordinaria, che, per ordinare un regno o constituire una republica, usasse. Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare [riassettare], si debbe riprendere» (Discorsi, I. 9). In primo luogo Machiavelli non dice «giustifica», ma «scusa». La differenza è notevole: giustificare vuol dire rendere giusta un’azione; scusare vuol dire riconoscere 75

che è sbagliata o illecita, ma che ci sono attenuanti. In secondo luogo, non tutti i fini giustificano quale si voglia mezzo, ma soltanto fini nobili e grandi quali il bene comune e la redenzione di un popolo, o la riforma degli ordini politici per liberare la repubblica dalla corruzione. In terzo luogo la scelta di un mezzo moralmente ripugnante, quale ad esempio la crudeltà, deve essere necessaria, vale a dire che il principe o il redentore non ha altro modo che la crudeltà o la frode per realizzare il grande fine. Sulla base di queste considerazioni, i politici che nelle circostanze ordinarie della vita politica mentono o ingannano o rubano non hanno, dal punto di vista di Machiavelli, alcuna giustificazione. Le loro azioni sono semplicemente «detestabili» e ripugnanti. Diverso è il caso delle scelte veramente tragiche quali quelle che chi rappresenta uno Stato deve compiere nel caso di guerre, crisi internazionali, pericoli di sovversione delle istituzioni repubblicane. In situazioni di questo genere Machiavelli insegna che dobbiamo amare la patria più dell’anima ed essere disposti a perdere questa per quella. Ma la perderebbe davvero l’anima un politico che si macchia di una crudeltà o di una frode per salvare la patria? In realtà Machiavelli pensava che chi salva la patria salva anche l’anima. Dio ama la giustizia, ed è amico di chi vuole compiere in terra opere di giustizia, come emancipare un popolo, combattere la corruzione, difendere la libertà. Dio capisce e scusa il politico che ha violato la legge morale perché costretto dalla necessità. L’eroe di Machiavelli, non dimentichiamolo, è Mosè, che per guidare il popolo ebreo in Terra Promessa si macchiò di efferate crudeltà e ciononostante ebbe sempre Dio come amico. Altrettanto infondata è la tesi, anch’essa assai popolare in Italia, che chi è onesto in politica è destinato a perdere, se deve competere – com’è spesso il caso – con 76

avversari disonesti. Barack Obama ha vinto per due volte (la seconda con una situazione interna e una congiuntura internazionale assai complesse) le elezioni presidenziali americane ed è un esempio di uomo politico integro e onesto. Per tornare in Italia, a donne e uomini onesti e stimati come Alcide De Gasperi, Tina Anselmi, Enrico Berlinguer, Ugo La Malfa, Nilde Jotti, non mancarono certo riconoscimenti in vita e, dopo la morte, sono ricordati con rispetto e affetto anche dagli avversari politici. Invece, Bettino Craxi, che ha finito la sua vita latitante ad Hammamet – chi è intellettualmente onesto dovrà pur ammetterlo! –, e molti altri politici corrotti, maestri di disonestà e d’inganni che hanno popolato la storia d’Italia, chi se li ricorda? Si dirà che la memoria vale poco. Rispondo che forse vale poco per chi vuole dominare, e per i servi e gli inetti, ma vale moltissimo per cittadini degni di questo nome e per donne e uomini che non sono chiusi nel loro particulare e che comprendono il senso della storia e i consigli che fin qui Machiavelli ci ha regalato. La memoria delle persone degne che hanno servito la patria ed il bene comune fa sì che chi ricorda (o almeno i migliori) provi ammirazione e cerchi la via per emulare. Inoltre è innegabile che per i politici corrotti la peggior punizione è l’allontanamento dal potere e la conseguente condizione di persona normale, non più al centro dell’attenzione, dimenticata e ignorata innanzitutto da coloro che prima erano servi fedeli. È vero, la storia è ricca di esempi di disonesti che hanno ottenuto grandi successi e di onesti che sono stati sconfitti. Ma non mancano certo esempi opposti, come ho spiegato. La vera causa delle vittorie e delle sconfitte in politica è un’altra, e precisamente la saggezza di adattare strategie e programmi ai tempi, come dirò nel prossimo capitolo, sempre seguendo i passi di Machiavelli. 77

XV

La cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi ovvero Chi non capisce i tempi e gli uomini è destinato a perdere

Perché spesso prevalgono politici disonesti, incapaci e ignoranti, mentre altre volte vincono uomini e donne onesti, competenti e colti? La risposta a questa domanda è il principio machiavelliano del ‘riscontro’, vale a dire saper adottare la consonanza della condotta politica ai tempi: «Io ho considerato più volte come la cagione della trista [cattiva] e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi: perché e’ si vede che gli uomini nelle opere loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con cauzione [cautela]. E perché nell’uno e nell’altro di questi modi si passano e’ termini convenienti [i giusti limiti], non si potendo osservare la vera via, nell’uno e nell’altro si erra. Ma quello viene ad errare meno, ed avere la fortuna prospera, che riscontra, come ho detto, con il suo modo il tempo, e sempre mai si procede, secondo ti sforza la natura» (Discorsi, III. 9). Ci sono dunque situazioni che esigono una politica intransigente e altre che richiedono disponibilità a cercare compromessi. Il problema è che una persona 78

incline per cultura e per temperamento all’intransigenza difficilmente padroneggia la difficile arte del compromesso e viceversa: «E che noi non ci possiamo mutare ne sono cagioni [cause] due cose: l’una, che noi non ci possiamo opporre a quello che ci inclina la natura [alla nostra indole naturale]; l’altra, che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non è possibile persuadergli che possa fare bene a procedere altrimenti: donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi, ed elli non varia i modi» (Discorsi, III. 9). Anche le città e le repubbliche vanno in rovina, seppure più lentamente degli individui, se non sanno adeguarsi al mutamento dei tempi. Sono dunque le circostanze storiche a dettare, anzi ad imporre, la scelta fra una politica intransigente e una politica accomodante: «Perché si vede li uomini, nelle cose che li ’nducano al fine, quale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente: l’uno con respetto, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno per pazienzia, l’altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire» (Il Principe, XXV). Si vede inoltre che di due individui prudenti uno ha successo e l’altro no, mentre due che usano strategie del tutto opposte ottengono entrambi il fine desiderato. Tutto questo, spiega Machiavelli, «non nasce da altro, se non dalla qualità de’ tempi, che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscano el medesimo effetto; e dua egualmente operando, l’uno si conduce al suo fine, e l’altro no» (Il Principe, XXV). 79

In base a questo principio, Machiavelli offre due consigli apparentemente contrastanti, in realtà del tutto coerenti. Da un lato osserva che «ai principe e republiche prudenti debbe bastare vincere; perché il più delle volte quando e’ [questo] non basta si perde». Fra gli esempi antichi e moderni cita la caduta del governo popolare di Firenze nel 1512: «Venne, nel 1512, uno esercito spagnuolo in sul dominio fiorentino per rimettere i Medici in Firenze, e taglieggiare la città, condotti da cittadini d’entro, i quali avevano dato loro speranza, che, subito fussono in sul dominio fiorentino, piglierebbero l’armi in loro favore; ed essendo entrati nel piano, e non si scoprendo alcuno [nessuno andò ad aiutarli], ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono l’accordo: di che insuperbito il popolo di Firenze, non lo accettò: donde ne nacque la perdita di Prato, e la rovina di quello Stato. Non possono, pertanto, i principi, che sono assaltati, fare il maggiore errore, quando lo assalto è fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che recusare [rifiutare] ogni accordo, massime [soprattutto] quando egli è offerto: perché non sarà mai offerto sì basso, che non vi sia dentro in qualche parte il bene essere di colui che lo accetta, e vi sarà parte della sua vittoria. [...] Doveva bastare ancora al popolo fiorentino, che gli era assai vittoria, se lo esercito spagnuolo cedeva a qualcuna delle voglie di quello e le sue non adempiva tutte: perché la intenzione di quello esercito era mutare lo stato in Firenze [cambiare il governo di Firenze], levarlo dalla divozione di Francia, e trarre da lui danari. Quando di tre cose e’ ne avesse avute due, che son l’ultime, ed al popolo ne fusse restata una, che era la conservazione dello stato suo, ci aveva dentro ciascuno qualche onore e qualche 80

satisfazione: né si doveva il popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; né doveva volere, quando bene egli avesse veduta maggiore vittoria, e quasi certa, mettere quella in alcuna parte a discrezione della fortuna [...] la quale qualunque prudente mai arrischierà se non necessitato» (Discorsi, II. 27). Dall’altro lato, in una situazione apparentemente identica, quando nel novembre del 1526 un esercito di Lanzichenecchi scende da Bolzano e minaccia Firenze, Machiavelli consiglia una politica di assoluta intransigenza volta soltanto a preparare la guerra. I governanti fiorentini erano invece dell’avviso che si dovesse cercare qualche accordo in base a un’attenta valutazione delle circostanze. Voleva dire, in pratica, offrire denaro in cambio della promessa di non essere attaccati. Machiavelli capisce subito che con quell’esercito non si può stringere alcun compromesso e bisogna invece prepararsi al peggio e combatterlo il «più gagliardamente che si può». I fatti gli diedero ragione. Il 16 marzo 1527 papa Clemente VII strinse un accordo con il viceré Charles de Lannoy in base al quale i soldati avrebbero dovuto ritirarsi a nord del Po dietro il versamento di 60.000 ducati. Firmato l’accordo il duca di Borbone, che aveva preso il comando, mosse verso Firenze e il 29 marzo chiese alla città 150.000 ducati per la tregua. Il 2 aprile Machiavelli scrive alla Signoria di Firenze di accantonare definitivamente ogni idea di accordo e pensare solo a combattere. Gli imperiali, spiega, hanno verso l’Italia «animo tristo» e non si fermeranno fin quando non avranno preso o Firenze o Roma, o l’una e l’altra: «quale accordo volete voi sperare da quelli nimici, che essendo fra voi e loro ancora l’Alpi [l’Appennino], e avendo le vostre genti in 81

piè vi domandano centomila fiorini fra tre dì, e centocinquantamila fra dieci?». Quando arriveranno vicino alla città chiederanno tutto il capitale della Repubblica perché quello che vogliono è predare. L’unico rimedio per far cambiare loro idea è schierare tutte le forze militari disponibili. Non affogate in una pozzanghera, esorta Machiavelli, e siate disposti a spendere denaro «per liberarvi securamente», non per farvi legare da accordi e restare inermi di fronte a un nemico spietato. La lezione che dobbiamo ricavare dalle pagine di Machiavelli è che quando combatti contro un nemico più forte di te devi accontentarti di un buon accordo, se ti viene offerto; ma quando combatti contro un nemico che vuole schiacciarti e toglierti la libertà, è da dissennati o da vili cercare accordi, transazioni, compromessi e accomodamenti perché siffatti stratagemmi non lo dissuaderanno dal suo proposito e non si fermerà fino a quando non avrà ottenuto quel che vuole. Confidare nella sua ragionevolezza e moderazione ti farà soltanto perdere tempo prezioso e il rispetto degli alleati. Proprio perché hanno dimenticato o non hanno capito, o non sono stati in grado di applicare questo aureo principio, i politici italiani non sono stati capaci di contrastare le due più gravi esperienze di distruzione e corruzione della libertà politica che abbiamo vissuto in Italia, vale a dire il fascismo e il sistema berlusconiano (benché questo non sia equivalente a quello). In entrambi i casi, la sconfitta della libertà è dipesa dall’incapacità di adottare una strategia politica adeguata ai tempi. Questa mancanza di saggezza deriva a mio parere dal fatto che nessuno, o pochissimi, conoscono la storia, in particolare la storia d’Italia. Ma proprio la coscienza del passato – ci insegna Machiavelli – ci aiuta, per analogia, a capire il presente: 82

«E’ si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori [medesime passioni], e come vi furono sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future, e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli usati, pensarne de’ nuovi, per la similitudine degli accidenti [circostanze]. Ma perché queste considerazioni sono neglette, o non intese da chi legge, o, se le sono intese, non sono conosciute da chi governa; ne seguita che sempre sono i medesimi scandoli [eventi tragici] in ogni tempo» (Discorsi, I. 39). Un uomo politico che conosce la storia è sicuramento più attrezzato a capire i tempi e le circostanze rispetto a quelli che non la conoscono, e dunque può meglio di loro evitare errori tragici per la patria.

XVI

Era questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni ... ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo ovvero Solo politici saggi e onesti possono toccare la Costituzione

Anche le costituzioni, come le strategie politiche, devono adeguarsi ai tempi. Sia i leader del centro-destra che quelli del centro-sinistra ritengono da anni che sia opportuno avviare la riforma della Costituzione repubblicana. Tale riforma obbedirebbe, secondo i suoi propugnatori, ad un sano realismo politico: quello appunto di adeguare le regole ai tempi, al fine di avere ordinamenti che meglio promuovano il buongoverno. Poiché abbiamo la fortuna di poter consultare uno dei maestri riconosciuti del realismo politico, chiediamogli se e quando è saggio cambiare la Costituzione di una repubblica e, in caso di risposta affermativa, quale deve essere il criterio da seguire per realizzare tale cambiamento. «Poteva uno tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l’opinione sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo; perché solo i potenti proponevono leggi, non 84

per la comune libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo veniva o ingannato o sforzato [costretto] a diliberare la sua rovina» (Discorsi, I. 16). Machiavelli esorta tuttavia a procedere con la massima cautela nel riformare le costituzioni. Riteneva infatti che la riforma della Costituzione fosse opera ardua e pericolosa: «mai si ordineranno sanza pericolo; perché gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città se non è mostro loro da una necessità che bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità sanza pericolo, è facil cosa che quella republica rovini, avanti che la si sia condotta a una perfezione d’ordine [completata la riforma degli ordinamenti]» (Discorsi, I. 2). Per avere successo l’opera di riforma deve apparire necessaria e, condizione ancora più importante, nei consigli che dovranno deliberarla devono sedere persone sagge che hanno a cuore il bene comune. Il nostro Consigliere lo spiega in un passo scritto pensando a Firenze, ma che si applica perfettamente all’Italia dei nostri tempi. Parla infatti delle repubbliche corrotte dove si alternano governi autoritari e tirannici a governi licenziosi (oggi diremmo populistici) che assecondano e incoraggiano le peggiori passioni della «gente», e dove comandano ora gli sciocchi ora i cattivi. E spiega che in repubbliche così mal ridotte soltanto un cittadino di straordinarie qualità può realizzare una riforma istituzionale: «Le città», soprattutto quelle «che non sono bene ordinate, le quali sotto nome [apparenza] di republica si amministrano, variano spesso i governi e stati loro, non 85

mediante la libertà e la servitù [dalla libertà alla tirannide], come molti credono, ma mediante la servitù e la licenza [dalla tirannide alla demagogia popolare]. Perché della libertà solamente il nome dai ministri [fautori] della licenza, che sono i popolari, e da quelli della servitù, che sono i nobili, è celebrato, desiderando qualunque di costoro non essere né alle leggi né agli uomini sottoposto. Vero è che quando pure avviene [che avviene rade volte] che, per buona fortuna della città, surga in quella un savio, buono e potente cittadino, da il quale si ordinino leggi per le quali questi umori de’ nobili e de’ popolani si quietino, o in modo si ristringhino [in grado di calmare e moderare le passioni dei popolani e dei nobili] che male operare non possino, allora è che quella città si può chiamare libera, e quello stato si può stabile e fermo giudicare; perché, sendo sopra buone leggi e buoni ordini fondato, non ha necessità della virtù d’uno uomo, come hanno gli altri, che lo mantenga. Di simili leggi e ordini molte republiche antiche, gli stati delle quali ebbono lunga vita, furono dotate; di simili ordini e leggi sono mancate e mancano tutte quelle che spesso i loro governi da lo stato tirannico a licenzioso, e da questo a quell’altro, hanno variato e variano. Perché in essi, per i potenti nimici che ha ciascuno di loro, non è né puote essere alcuna stabilità; perché l’uno non piace agli uomini buoni, l’altro dispiace a’ savi; l’uno può fare male facilmente, l’altro può fare bene con difficultà; nell’uno hanno troppa autorità gli uomini insolenti, nell’altro gli sciocchi; e l’uno e l’altro di essi conviene che sia da la virtù e fortuna d’uno uomo mantenuto, il quale, o per morte può venire meno, o per travagli diventare inutile» (Istorie, IV. 1). Posto che l’opinione pubblica sia concorde sulla necessità di riformare la Costituzione – e non è certo la 86

situazione italiana, poiché il referendum del 2006 ha decretato una sonora sconfitta dei riformatori –, e posto che ci sia un parlamento dove siedono persone oneste e competenti a maneggiare una questione tanto delicata – e neppure questo è il caso italiano –, resta da vedere come si procede in questo tipo di riforme. Le strade sono due: o lentamente, per via di una paziente opera di persuasione; o tutto d’un tratto, forzando anche con mezzi straordinari la situazione. L’una e l’altra strada – ci dice Machiavelli – presentano gravi inconvenienti: «Ma perché questi ordini, o e’ si hanno a rinnovare tutti a un tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschino per ciascuno; dico che l’una e l’altra di queste due cose è quasi impossibile. Perché, a volergli rinnovare a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che vegga questo inconveniente assai discosto, e quando e’ nasce. Di questi tali è facilissima cosa che in una città non ne surga [emerga] mai nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere mai a altrui quello che egli proprio intendesse; perché gli uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non veggendo [vedendo] il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per coniettura [ipotesi]. Quanto all’innovare questi ordini a un tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa inutilità, che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla; perché, a fare questo, non basta usare termini ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed all’armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza prin87

cipe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata» (Discorsi, I. 18). Se proprio la si vuol fare, la riforma deve essere riforma nel senso vero del termine, vale a dire un ritorno ai princìpi fondativi, non una goffa e pericolosa opera di creatività istituzionale, ci insegna Machiavelli: «Egli è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o, s’egli altera, è a salute, e non a danno suo. E perché io parlo de’ corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che quelle alterazioni [riforme] sono a salute, che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che, per qualche accidente fuori di detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano» (Discorsi, III. 1). Il monito che possiamo ricavare da Machiavelli è ancora una volta semplice: prima sostituiamo i politici che siedono in Parlamento con persone degne di rispetto, poi, forse, mettiamo mano alla riforma, cominciando con una lettura attenta dei dibattiti in Costituente per capire bene quali sono i princìpi fondativi ai quali tornare. 88

XVII

Amo la mia patria più dell’anima ovvero Il buon politico pone il bene comune al di sopra di tutto

Anche se Firenze fu nei suoi confronti ingrata, ingiusta e crudele, Niccolò non pensò mai di abbandonare la sua patria. L’amava troppo, e dedicò ad essa le sue migliori energie. Poteva con legittimo orgoglio proclamare che «sempre che io ho potuto onorare la patria mia, eziandio [anche] con mio carico [impegno] e pericolo, l’ho fatto volentieri; perché l’uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l’essere e, di poi, tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a esser maggiore in coloro che hanno sortito patria più nobile. E veramente colui il quale con l’animo e con le opere si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fosse suto offeso. Perché, se battere [percuotere] il padre e la madre, per qualunque cagione, è cosa nefanda [infame], di necessità ne seguita il lacerare la patria essere cosa nefandissima, perché da lei mai si patisce alcuna persecuzione per la quale possa meritare di essere da te ingiuriata, avendo a riconoscere da quella ogni tuo bene; talché, se ella si priva di parte de’ suoi cittadini, sei piuttosto obbligato ringraziarla di quelli che la si lascia, che infamarla di quelli che 89

la si toglie. E quando questo sia vero (che è verissimo) io non dubito mai di ingannarmi per difenderla e venire contro a quelli che troppo presuntuosamente cercano di privarla dell’onor suo» (Discorso e dialogo intorno alla nostra lingua, in Opere, II). Aveva ragione, e su queste parole dovremmo riflettere a lungo. Come è possibile che si prenda cura della patria e la serva, e se necessario si sacrifichi per essa, una persona che non l’ama, che è indifferente ad essa o addirittura la disprezza? L’esempio da seguire è per Machiavelli quello dei cittadini fiorentini che governarono con grande saggezza e senso del dovere la difficile guerra contro Gregorio XI. «Durò la guerra tre anni, né prima ebbe che con la morte del Pontefice termine; e fu con tanta virtù e tanta soddisfazione dello universale [popolo] amministrata, che agli Otto fu ogni anno prorogato il magistrato; ed erano chiamati Santi, ancora che eglino avessero stimate poco le censure, e le chiese de’ beni loro spogliate, e sforzato il clero a celebrare gli uffizi: tanto quelli cittadini stimavano allora più la patria che l’anima» (Istorie, III. 7). Quanto fosse sincero il suo amore per la patria lo possiamo intendere anche da un gustoso scambio epistolare che risale al 1521, quando Machiavelli, a corto come sempre di soldi, aveva accettato l’incarico dell’Arte della Lana di recarsi a Carpi per trovare tra i frati minori un predicatore. «Machiavello carissimo [scrive Guicciardini] buon giudizio certo è stato quello de’ nostri reverendi consoli 90

dell’Arte della Lana aver commesso [affidato] a voi la cura di eleggere un predicatore, non altrimenti che se a Pacchierotto, mentre viveva, fosse stato dato il carico [incarico] o a ser Sano di trovare una bella e galante moglie a uno amico. Credo gli servirete secondo la espettazione che si ha di voi, e secondo che ricerca lo onore vostro, quale si oscurerebbe se in questa età vi dessi all’anima, perché, avendo sempre vivuto con contraria professione [convinzione], sarebbe attribuito piuttosto al rimbambito che al buono». Secondo Guicciardini, che lo conosceva bene, Machiavelli ha vissuto sempre in modo «contrario», non diverso o difforme, dal modo di vivere di coloro che «si danno all’anima». Data la manifesta assurdità del pensiero, Machiavelli non risponde neppure all’insinuazione che egli possa diventare, in compagnia di tanti frati, devoto e praticante. Non lascia invece cadere l’allusione dell’amico sulla poco onorevole missione che gli era stata affidata, e ribatte che era pur sempre un modo di servire la Repubblica: «E perché io non mancai mai a quella Repubblica, dove io ho possuto giovarle, che io non l’abbi fatto, se non con le opere, con le parole, se non con le parole, con i cenni, io non intendo mancarle anco in questo». L’ingratitudine della patria ferisce e addolora, ma i suoi premi sono i più preziosi: «Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che volontariamente è loro dato dalla loro patria: credo che il maggiore bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leg91

gi e con istituti reformato le republiche e i regni: questi sono, dopo quegli che sono stati Iddii, i primi laudati. E perché e’ sono stati pochi che abbino avuto occasione di farlo, e pochissimi quelli che lo abbino saputo fare, sono piccolo numero quelli che lo abbino fatto; e è stata stimata tanto questa gloria dagli uomini che non hanno mai atteso ad altro che a gloria, che non avendo possuto [potuto] fare una republica in atto, l’hanno fatta in iscritto: come Aristotile, Platone e molti altri; e quali hanno voluto mostrare al mondo che se, come Solone e Licurgo, non hanno potuto fondare un vivere civile, non è mancato dalla ignoranza loro, ma dalla impotenza di metterlo in atto» (Discursus florentinarum rerum, in Opere, I, p. 744). Chi non ama la patria, ci avverte Niccolò, è una persona da poco e non può essere un grande politico.

XVIII

Non si deve adunque lasciar passare questa occasione, acciocché la Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore ovvero La vera priorità dell’Italia è la rinascita civile

Machiavelli ha cercato con i suoi scritti di formare dei politici capaci di realizzare grandi cose. Scrisse in un passo dei Discorsi: «acciocché [affinché] gli animi de’ giovani che questi mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché gli è offizio [dovere] di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo» (Discorsi, II, Proemio). Dell’Arte della Guerra si chiude con queste parole: «E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale [generoso], che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai debiti tempi, in favore de’ vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio 93

vi sbigottiate o diffidiate, perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura» (Dell’Arte della Guerra, VII). Uno dei modi in cui un politico ottiene giustamente fama di essere grande ed eccellente è di prendere posizioni nette quando ci sono conflitti, contrasti e guerre: «È ancora stimato un Principe quando egli è vero amico, o vero nimico, cioè quando senza alcun rispetto si scuopre [prende apertamente posizione] in favore di alcuno contro un altro; il qual partito fia [è] sempre più utile, che star neutrale; perché se duoi potenti tuoi vicini vengono alle mani, o essi sono di qualità che vincendo un di quelli tu abbi da temere del vincitore, o no. In qualunque di questi duoi casi ti sarà sempre più utile lo scuoprirti, e far buona guerra; perché nel primo caso se tu non ti scuopri sarai sempre preda di chi vince con piacere e satisfazione di colui che è stato vinto, e non arai ragione né cosa alcuna che ti difenda, né chi ti riceva. Perché chi vince non vuole amici sospetti, e che nelle avversità non l’aiutino; chi perde non ti riceve, per non aver tu voluto con l’armi in mano correre la fortuna sua» (Il Principe, XXI). Chi rimane alla finestra, chi si barcamena fra due contendenti, chi non dice mai parole nette, come è il caso della maggior parte dei politici italiani, non solo non avrà mai fama di politico eccellente, ma merita di essere ignorato e invitato ad occuparsi d’altro. Altro buon criterio di eccellenza è saper premiare la virtù. I politici mediocri, al contrario, non sopportano di aver vicino persone di forte tempra morale e di solide 94

competenze. Temono che le qualità di queste persone oscurino il loro prestigio o addirittura facciano risaltare ancora di più la loro pochezza. Per questa ragione, se veniamo a conoscenza di un politico che premia chi merita, quello o quella fa al caso nostro: «Deve ancora un Principe mostrarsi amatore delle virtù, e onorare gli eccellenti in ciascuna arte», insegna Machiavelli. E fra le qualità di un buon politico aggiunge l’attitudine ad incoraggiare le attività che danno prosperità ai cittadini e allo Stato: «Appresso deve animare i suoi cittadini di poter quietamente esercitare gli esercizi loro e nella mercanzia, e nell’agricultura, ed in ogni altro esercizio degli uomini, acciocché quello non si astenga di ornare le sue possessioni per timore che non gli sieno tolte, e quell’altro di aprire un traffico per paura delle taglie; ma deve preparare premi a chi vuol fare queste cose, ed a qualunque pensa in qualunque modo di ampliare la sua città o il suo Stato» (Il Principe, XXI). E non c’è nulla di male a fare sì che il popolo possa divertirsi e a partecipare a feste, a condizione però, ed è specificazione importante, che il politico non comprometta mai la dignità e la maestà che il suo ruolo esige. Uno dei proclami più sconsiderati che puntualmente riaffiorano nelle campagne elettorali è ‘largo ai giovani!’. Se fosse vivo, il nostro Consigliere raggelerebbe i propugnatori di questa bella pensata con uno dei suoi motti sferzanti fiorentini. Prima di tutto perché sapeva bene che in politica l’esperienza conta, e molto. Nella dedica a Il Principe sottolinea il valore della «cognizione [conoscenza] delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga sperienza delle cose moderne, ed 95

una continova lezione delle antiche, la quale avendo io con gran diligenza lungamente escogitata ed esaminata». Osserva poi che un giovane deve essere preferito a politici esperti se ha dimostrato qualità eccezionali: «perché nello eleggere uno giovane in un grado che abbi bisogno d’una prudenza di vecchio, conviene, avendovelo a eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire qualche sua notabilissima azione. E quando uno giovane è di tanta virtù, che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere; sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere allora, e che l’avesse a aspettare che fosse invecchiato con lui quel vigore dell’animo e quella prontezza, della quale in quella età la patria sua si poteva valere [servire]: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione e di Pompeio, e di molti altri, che trionfarono giovanissimi» (Discorsi, I. 60). Un vero politico deve essere persona di salde convinzioni. Machiavelli ce lo insegna quando menziona l’irrisolutezza, l’incostanza e la volubilità, quali vizi gravi in chi governa. L’imperatore Massimiliano d’Asburgo, nota Machiavelli, era di «facile e buona natura», ma ogni uomo della corte poteva facilmente ingannarlo e indurlo a mutare opinione, con la conseguenza che cambiava continuamente d’avviso: «Di qui nasce che quelle cose che fa un giorno, destrugge l’altro; e che non si intenda mai quello che si voglia o disegni fare; e che non si può sopra le sua deliberazioni fondarsi» (Il Principe, XXIII). Anche per le repubbliche l’essere «male risolute» e il non saper prendere ferme decisioni, è segno di grave debolezza. Il vero politico che Machiavelli ha tenacemente cercato di disegnare, di educare e di invocare in tutti i suoi 96

scritti è un redentore, uno di quegli uomini meravigliosi e rari che sanno redimere un popolo dalla schiavitù, o dal dominio straniero o dalla corruzione, e restituirlo alla libertà, all’indipendenza e al vero vivere civile. I redentori, spiega Machiavelli nell’ultimo capitolo del Principe, appaiono sulla scena della storia quando i popoli o le nazioni toccano l’estremo grado della decadenza: «Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un Principe nuovo, e se ci era materia che desse occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi nuova forma, che facesse onore a lui, e bene alla università degli uomini di quella, mi pare concorrino tante cose in beneficio d’un Principe nuovo, che non so qual mai tempo fusse più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il popolo d’Istrael fusse schiavo in Egitto, ed a conoscere la grandezza e l’animo di Ciro, che i Persi fussero oppressi da’ Medi, e ad illustrare l’eccellenza di Teseo, che gli Ateniesi fussero dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito Italiano, era necessario che l’Italia si conducesse ne’ termini presenti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi, senza capo, sanz’ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, ed avesse sopportato di ogni sorta rovine» (Il Principe, XXVI). Ai suoi occhi l’estrema decadenza generata dall’oppressione e dalla corruzione può essere anche l’occasione propizia affinché appaia un politico davvero grande: «Non si deve adunque lasciar passare questa occasione, acciocché la Italia vegga dopo tanto tempo apparire un 97

suo redentore». I redentori, ammonisce Machiavelli, sono uomini «rari e maravigliosi», nondimeno «furono uomini». Se ne apparisse uno all’orizzonte gli italiani saprebbero mettere da parte la tradizionale indolenza e indifferenza e lo aiuterebbero con passione e intelligenza. In queste pagine del Principe Machiavelli parla da profeta e lascia libera la sua potente capacità di immaginare una redenzione politica e morale quasi impossibile da realizzare. L’unità e l’indipendenza dell’Italia, nel Cinquecento, erano del tutto inconcepibili dal punto di vista politico, militare, morale. Eppure Machiavelli volle immaginarle e costruire il mito del redentore che potesse dare alla visione concretezza storica. Ma senza visione profetica non ci sarebbe stata né indipendenza né unità. I miti, quando sanno cogliere le aspirazioni profonde di un popolo, sono una forza reale, tanto reale quanto le armi, il denaro o le televisioni. Tre secoli dopo Il Principe l’Italia era unita ed indipendente, con tutti i vizi che conosciamo, ma non era più schiava, senza capo, senz’ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa. Ed è giusto che il mito non si realizzi mai in modo completo. Se così avvenisse finirebbe davvero la storia, e l’azione politica perderebbe ogni senso. Fra tanti esempi di miseria morale, la nostra storia ne presenta anche molti di uomini e donne che hanno saputo dare vita ad esperienze di emancipazione, come nel Risorgimento, nella lotta antifascista, nelle lotte per la conquista dei diritti civili e sociali. Il «rimanente», ci ammonisce Machiavelli con il suo sorriso enigmatico, dovete farlo voi, se volete avere un po’ di gloria.

Per ulteriori consigli

Oltre alla Costituzione della Repubblica italiana e alle opere di Machiavelli, consiglio la lettura dei seguenti testi, di cui cito le ultime edizioni. Nel selezionarli ho scelto di suddividerli in tre sezioni, offrendo alcuni esempi di grandi classici, di opere significative del Novecento italiano, sino ad arrivare al dibattito contemporaneo. Inutile dire che tale selezione non ha la presunzione di essere esaustiva, ma solo d’indicarvi alcuni dei testi che hanno ispirato questo lavoro e che vorrei condividere con voi. Castiglione B., Il libro del Cortegiano, Garzanti, Milano 2008. Cattaneo C., Federalismo, Mimesis, Milano 2011. de la Boétie E., Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, Milano 2011. Erasmo da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano, Edizioni di Pagina, Bari 2009. Guicciardini F., Ricordi, in Id., Opere, a cura di E.L. Scarano, UTET, Torino 1981. Leopardi G., Discorso sullo stato presente del costume degl’italiani, Bollati Boringhieri, Torino 2011. Mazzini G., I doveri dell’uomo, BUR, Milano 2010. Palmieri M., Vita civile, Sansoni, Firenze 1982. Bobbio N., Destra e sinistra, Donzelli, Roma 2009. Calogero G., L’ABC della democrazia, in Id., Le regole della 99

democrazia e le ragioni del socialismo, Diabasis, Reggio Emilia 2001. Croce B., Etica e politica, Adelphi, Milano 1994. Croce B., Storia d’Europa nel secolo decimonono, Adelphi, Milano 1999. Einaudi L., Il buon governo, Laterza, Roma-Bari 2004. Ambrosoli U., Qualunque cosa succeda, Sironi, Milano 2009. Augias C., Il disagio della libertà. Perché agli italiani piace avere un padrone, Rizzoli, Milano 2012. Bobbio N., Viroli M., Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 2003. Borgna P., Un Paese migliore. Vita di Alessandro Galante Garrone, Laterza, Roma-Bari 2006. Cassano F., L’umiltà del male, Laterza, Roma-Bari 2011. de Monticelli R., La questione civile, Raffaello Cortina, Milano 2011. Rampini F., Alla mia sinistra. Lettera aperta a tutti quelli che vogliono sognare insieme a me, Mondadori, Milano 2011. Rodotà S., Elogio del moralismo, Laterza, Roma-Bari 2011. Susanetti D., Catastrofi politiche, Carocci, Roma 2011. Sylos Labini P., Berlusconi e gli anticorpi, Laterza, Roma-Bari 2003. Walzer M., Guerre giuste e ingiuste.Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Laterza, Roma-Bari 2009. Zagrebelsky G., Il «crucifige!» e la democrazia, Einaudi, Torino 2007. Zoja L., La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009.